La fine del buio 9788833311142

Come milioni di persone, Johann Hari ha iniziato giovanissimo ad assumere farmaci per curare la depressione; come milion

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Italian Pages 314 Year 2019

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La fine del buio
 9788833311142

Table of contents :
Indice......Page 314
Frontespizio......Page 3
L’autore......Page 2
Prologo: la mela......Page 6
Introduzione: un mistero......Page 10
PARTE PRIMA. La crepa nella vecchia storia......Page 20
1. La bacchetta......Page 21
2. Lo squilibrio......Page 30
3. L’eccezione del lutto......Page 41
4. La prima bandiera sulla Luna......Page 48
PARTE SECONDA. La disconnessione: nove cause della depressione e dell’ansia......Page 58
5. Raccogliere la bandiera (introduzione alla Parte Seconda)......Page 59
6. Prima causa: la disconnessione dal lavoro gratificante......Page 60
7. Seconda causa: la disconnessione dagli altri......Page 71
8. Terza causa: la disconnessione dai valori importanti......Page 89
9. Quarta causa: la disconnessione dai traumi infantili......Page 103
10. Quinta causa: la disconnessione dallo status e dal rispetto......Page 113
11. Sesta causa: la disconnessione dal mondo naturale......Page 120
12. Settima causa: la disconnessione da un futuro promettente o sereno......Page 129
13. Ottava e nona causa: il vero peso dei geni e dei cambiamenti cerebrali......Page 140
PARTE TERZA. La riconnessione, o un diverso tipo di antidepressivo......Page 153
14. La mucca......Page 154
15. Siamo stati noi a costruire questa città......Page 159
16. Prima riconnessione: agli altri......Page 174
17. Seconda riconnessione: il social prescribing......Page 184
18. Terza riconnessione: al lavoro gratificante......Page 195
19. Quarta riconnessione: ai valori importanti......Page 205
20. Quinta riconnessione: la gioia compartecipe e il superamento della dipendenza dall’io......Page 212
21. Sesta riconnessione: riconoscere e superare i traumi infantili......Page 234
22. Settima riconnessione: restituire il futuro......Page 238
Conclusione: si torna a casa......Page 248
Ringraziamenti......Page 256
Note......Page 260

Citation preview

L’autore

Johann Hari, giornalista d'inchiesta e opinionista, scrive per il New York Times, il Los Angeles Times, il Guardian, Le Monde, Slate, New Republic, il Melbourne Age e il Nation. È stato nominato due volte giornalista dell’anno da Amnesty International UK.

www.ponteallegrazie.it

facebook.com/PonteAlleGrazie

@ponteallegrazie

www.illibraio.it Titolo originale: Lost Connections. Uncovering the real causes of depression – And the unexpected solutions È possibile ascoltare le interviste raccolte in questo libro su www.thelostconnections.com Art Direction: Laura Dal Maso / TheWorldof DOT Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Copyright © Johann Hari, 2018 © 2019 Adriano Salani Editore s.u.r.l - Milano ISBN 978-88-3331-262-0 Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: aprile 2019 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

A Barbara Bateman, John Bateman e Dennis Hardman

Prologo: la mela

Una sera, nella primavera del 2014, percorrevo una viuzza laterale nel centro di Hanoi quando, su una bancarella lungo la strada, vidi una mela insolitamente grande, rossa e invitante. Sono una frana nel tirare sul prezzo, così la pagai ben tre dollari e la portai nella mia stanza al Very Charming Hanoi Hotel. Come ogni bravo straniero che abbia letto le avvertenze sanitarie, la lavai per bene con acqua minerale ma, quando la addentai, sentii un gusto chimico amaro che mi riempiva la bocca. Da bambino avevo immaginato che tutto il cibo avrebbe avuto quel sapore dopo una guerra nucleare. Sapevo che mi sarei dovuto fermare, ma ero troppo stanco per uscire a cercare qualcos’altro, così ne mangiai metà e poi la accantonai, disgustato. Due ore dopo cominciò il mal di stomaco. Rimasi a letto per due giorni, con la camera che mi girava intorno sempre più velocemente, ma non mi preoccupai: avevo già avuto delle intossicazioni alimentari in passato. Conoscevo il copione. Devi soltanto bere molta acqua e aspettare che passi. Il terzo giorno mi resi conto che la mia visita in Vietnam stava volando via nella nebbia della nausea. Ero lì per rintracciare alcuni sopravvissuti della guerra per un progetto editoriale a cui stavo lavorando, così chiamai il mio interprete Dang Hoang Linh e lo informai che ci saremmo dovuti avventurare nelle zone rurali del Sud come avevamo deciso fin dall’inizio. Mentre ci spostavamo – un villaggio devastato qui, una vittima dell’Agente arancio là – iniziai a sentirmi più stabile sulle gambe. Il mattino dopo, Dang mi portò nella capanna di una minuscola ottantasettenne. Con le labbra tinte di rosso vivo dall’erba che stava masticando, la donna si trascinò verso di me sul pavimento con una tavola di legno a cui qualcuno era riuscito in qualche modo a fissare delle ruote. Per nove anni, quanto era durata la guerra, spiegò, aveva vagato da una bomba all’altra, cercando di tenere in vita i suoi figli. Erano gli unici superstiti del villaggio. Mentre parlava, cominciai a provare strane sensazioni. La sua voce sembrava arrivare da molto lontano e la stanza pareva vorticarmi intorno a

velocità incontrollabile. Poi, all’improvviso, esplosi, spargendo vomito e feci per tutta la casupola. Quando, dopo un po’, capii nuovamente dov’ero, la vecchietta mi stava guardando con occhi tristi. «Questo ragazzo deve andare in ospedale» disse. «Sta molto male». No, no, insistetti. A East London avevo vissuto per anni di pollo fritto, perciò non era il mio primo scontro con l’E. coli. Chiesi a Dang di riaccompagnarmi a Hanoi in modo che potessi riposare ancora per qualche giorno nella mia camera, davanti alla CNN e al contenuto del mio stomaco. «No» disse la donna in tono fermo. «In ospedale». «Ascolta, Johann» replicò Dang, «questa signora è l’unica sopravvissuta del villaggio, con i suoi figli, a nove anni di bombe americane. Preferisco ascoltare i suoi consigli che i tuoi». Mi trascinò in auto mentre continuavo ad avere conati di vomito e coliche finché raggiungemmo un edificio isolato che, come scoprii in seguito, era stato costruito dai sovietici decenni prima. Ero il primo straniero mai curato lì dentro. Uscì di corsa un gruppo di infermiere che, per metà emozionate e per metà confuse, mi misero su un tavolo e cominciarono a urlare. Dang gridò a sua volta, e quelle presero a strillare in una lingua assolutamente incomprensibile. Quindi notai che mi avevano stretto qualcosa intorno al braccio. Mi accorsi anche che nell’angolo c’era una bambina con il naso incerottato, tutta sola. Mi guardò. La guardai. Eravamo gli unici pazienti nella stanza. Non appena mi ebbero misurato la pressione – pericolosamente bassa, secondo l’infermiera, tradusse Dang – iniziarono a infilarmi aghi nel braccio. In seguito, Dang mi confessò di aver mentito dicendo che ero un VIP occidentale e che, se fossi morto lì, sarebbe stata una vergogna per tutti i vietnamiti. Andò avanti così per dieci minuti, mentre il mio braccio si riempiva di tubi e di buchi. Poi, tramite Dang, le infermiere presero a tempestarmi di domande sui sintomi: una lista apparentemente interminabile per appurare la natura del mio dolore. Nel frattempo mi sentii stranamente scisso. Una parte di me era torturata dalla nausea – ogni cosa girava vorticosamente e continuavo a pensare: ‘Fermati, fermati, fermati’ – ma l’altra (sotto, dietro o sopra la prima) era impegnata in un piccolo monologo molto razionale. Oh. Stai per morire. Ucciso da una mela avvelenata. Sei come Eva, o Biancaneve, o Alan Turing. Poi la domanda: ‘Vuoi davvero che il tuo ultimo pensiero sia così presuntuoso?’ e subito dopo: ‘Se mezza mela ha avuto questo effetto su di te,

quale effetto hanno queste sostanze chimiche sui contadini che lavorano nei campi ogni giorno per anni? Questa sì che sarebbe una bella storia da raccontare, un giorno’. Infine conclusi: ‘Non dovresti ragionare così se sei in punto di morte. Dovresti soffermarti sui momenti significativi della tua vita. Dovresti abbandonarti ai ricordi. Quando sei stato veramente felice?’ Mi rividi bambino, steso sul letto nella nostra vecchia casa, rannicchiato accanto alla nonna a guardare Coronation Street. Mi rividi anni dopo, mentre accudivo il mio nipotino, e lui mi svegliava alle sette del mattino, si sdraiava sul letto vicino a me e mi faceva domande serie e prolisse sulla vita. Mi rividi in un altro letto, quando avevo diciassette anni, con la prima persona di cui mi fossi mai innamorato. Non era un ricordo di tipo sessuale; eravamo semplicemente sdraiati lì, abbracciati. ‘Aspetta’ pensai. ‘Sei stato felice solo a letto? Cosa dice questo di te?’ Poi il monologo interiore fu interrotto da un conato di vomito. Supplicai i medici di darmi qualcosa che alleviasse quella nausea terribile. Dang parlò concitatamente con loro. Quindi mi disse: «Secondo il dottore hai bisogno della nausea. È un messaggio e dobbiamo ascoltarlo. Ci dirà cos’hai che non va». Ricominciai a vomitare. Molte ore dopo, un medico sulla quarantina entrò nel mio campo visivo e annunciò: «Abbiamo scoperto che i tuoi reni hanno smesso di funzionare. Sei molto disidratato. Per colpa del vomito e della diarrea non assorbi acqua da moltissimo tempo, perciò sei come un uomo che vaga nel deserto da giorni». 1 Dang aggiunse: «Dice che se ti avessimo riportato a Hanoi, saresti morto lungo il tragitto». Il dottore mi suggerì di scrivere tutto ciò che avevo mangiato negli ultimi tre giorni. La lista era breve. Una mela. Mi guardò perplesso. «Era pulita?» Sì, risposi, l’ho lavata con l’acqua minerale. Scoppiarono tutti a ridere, come se avessi raccontato una barzelletta spassosissima. Si dà il caso che in Vietnam non ci si possa limitare a lavare le mele. Sono coperte di pesticidi affinché durino mesi senza marcire. Occorre sbucciarle, altrimenti queste sono le conseguenze. Pur senza sapere il perché, per tutto il periodo in cui sono stato impegnato a scrivere questo libro, ho pensato senza sosta a una cosa che il medico mi disse quel giorno, in quei momenti tutt’altro che esaltanti. Hai bisogno della nausea. È un messaggio. Ci dirà cos’hai che non va.

Ho capito il perché solo in un luogo molto diverso, a migliaia di chilometri di distanza, alla fine del mio viaggio tra le vere cause della depressione e dell’ansia, e dei modi per trovare la via del ritorno.

Introduzione: un mistero

Avevo diciotto anni quando presi il mio primo antidepressivo. Ero sotto il pallido sole di Londra, davanti a una farmacia in una zona commerciale. Quando inghiottii la piccola compressa bianca, fu come ricevere un bacio chimico. Quel mattino ero andato dal medico. Faticavo, gli avevo spiegato, a ricordare un solo giorno in cui non fossi stato scosso da una lunga crisi di pianto. Fin da piccolo – a scuola, al college, a casa, con gli amici – mi ero dovuto allontanare spesso, ritirandomi da qualche parte a piangere. Non si trattava di lacrimucce, bensì di singhiozzi belli e buoni. Anche quando le lacrime non arrivavano, avevo un monologo ansioso che mi ronzava quasi costantemente nella testa. Così mi rimproveravo: ‘È solo nella tua mente. Riprenditi. Piantala di frignare’. Mi vergognavo di dirlo allora; mi vergogno di scriverlo oggi. In ogni libro sulla depressione o sull’ansia grave scritto da qualcuno che parla per esperienza diretta, c’è un interminabile piagnisteo in cui l’autore descrive – in tono particolarmente accorato – la profondità dell’angoscia che ha provato. In passato, quando il resto del mondo non aveva idea del nostro stato d’animo, non potevamo farne a meno. Oggi, invece, grazie a coloro che infrangono questo tabù da decenni, non devo ripartire da zero. Qui, infatti, tratterò di tutt’altro. Ma credetemi: è dura. Un mese prima di andare dal medico, mi trovavo su una spiaggia a Barcellona, con le onde che mi lambivano i piedi, quando d’un tratto capii perché stessi così male e come rimettermi in carreggiata. Ero nel bel mezzo di un viaggio in Europa con un’amica, l’estate prima di diventare il primo membro della famiglia a frequentare un’università prestigiosa. Avevamo acquistato un abbonamento ferroviario per studenti, dunque avremmo potuto usare gratis qualunque treno per un mese, alloggiando negli ostelli della gioventù lungo il percorso. Avevo immaginato spiagge dorate e cultura raffinata: il Louvre, uno spinello, le italiane sexy. Poco prima di partire, però, avevo ricevuto un due di picche dalla prima persona di cui ero mai stato

innamorato, e sentivo la sofferenza esalare da me, ancora più del solito, come un cattivo odore. Il viaggio non andò come previsto. Scoppiai in lacrime su una gondola a Venezia. Piagnucolai sul Matterhorn. Iniziai a singhiozzare nella casa di Kafka a Praga. Per me, era inconsueto, ma non così inconsueto. In precedenza avevo avuto altri periodi come quello, durante i quali il dolore era parso ingestibile e mi era venuta voglia di tagliare i ponti con il mondo. A Barcellona, tuttavia, vedendo che non riuscivo a smettere di piangere, la mia amica disse: «Ti rendi conto che non è normale, vero?» In quel momento ebbi una delle pochissime folgorazioni della mia vita. Mi girai e risposi: «Sono depresso! Non è soltanto nella mia testa! Non è insoddisfazione, non è debolezza… è depressione!» Sembrerà strano, ma ciò che provai in quell’istante fu un sussulto di felicità, come quando si trova inaspettatamente un mucchio di soldi camminando lungo la strada. C’è un termine ben preciso per questa sensazione! È una malattia, come il diabete o il colon irritabile! Naturalmente udivo da anni questo messaggio rimbalzare un po’ ovunque, ma ora tutto quadrava. Si riferivano a me! E, ricordai all’improvviso, esiste una soluzione: gli antidepressivi. Ecco di cosa ho bisogno. Non appena arrivo a casa, prendo qualche pasticca e torno normale. Tutte le parti di me che non sono depresse si libereranno dalle catene. Avevo sempre avuto pulsioni che non c’entravano nulla con la depressione: conoscere persone, fare scoperte, capire il mondo. Si sbloccheranno, ragionai, e presto. L’indomani visitammo il Parc Güell, nel centro di Barcel-lona. Progettato dall’architetto Antoni Gaudí, questo parco è volutamente molto bizzarro: tutto è fuori prospettiva, come se si entrasse in uno specchio deformante. A un certo punto si percorre un tunnel in cui ogni cosa è inclinata, come se fosse stata investita da un’onda. Altrove, alcuni draghi si innalzano vicino a strutture di ferro lavorato che sembra quasi in movimento. Nulla appare come dovrebbe. Mentre mi trascinavo qua e là, pensai: ‘È così che è la mia testa: deforme, sbagliata. E presto la aggiusterò’. Come tutte le folgorazioni, parve arrivare in un lampo ma, in realtà, stava maturando da tempo. Sapevo cos’era la depressione. L’avevo vista in azione nelle soap opera e avevo letto qualche libro. Avevo sentito mia madre parlare di depressione e di ansia, e l’avevo guardata prendere delle pasticche per combatterle. E conoscevo la cura, perché era stata annunciata dai media

internazionali solo qualche anno prima. La mia adolescenza coincise con l’era del Prozac, con l’alba di nuovi farmaci che promettevano, per la prima volta, di guarire la depressione senza effetti collaterali invalidanti. Secondo uno dei best-seller di quel decennio, questi medicinali ti fanno stare «più che bene», 1 rendendoti più sano e più forte delle persone comuni. Avevo recepito ogni cosa, senza smettere davvero di pensarci. I discorsi di questo tipo erano molto frequenti alla fine degli anni Novanta; li sentivi ovunque. In quel momento capii che mi riguardavano da vicino. Anche il mio medico aveva recepito ogni cosa, come emerse il pomeriggio in cui andai nel suo studio. Nel suo piccolo ambulatorio, mi spiegò perché mi sentissi così. Ci sono persone che, per natura, hanno un livello ridotto di serotonina nel cervello, disse, e questa è la causa della depressione, quell’infelicità bizzarra, persistente e paralizzante che non se ne va mai. Per fortuna, appena in tempo per il mio ingresso nell’età adulta, c’era una nuova generazione di farmaci – gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) – che riportavano alla normalità il livello di questa sostanza chimica. La depressione è una malattia cerebrale, aggiunse, e questa è la cura. Tirò fuori un’illustrazione del cervello e mi parlò di questo organo. Stava dicendo che la depressione era davvero nella mia testa, ma in modo molto diverso da quello che credevo. Non è immaginaria. Al contrario, è molto reale, ed è un malfunzionamento del cervello. Non dovette insistere. Mi aveva già convinto. 2 Uscii di lì a dieci minuti con la ricetta per il Seroxat (o Paxil, com’è conosciuto negli Stati Uniti). Solo anni dopo – mentre scrivevo questo libro – qualcuno mi fece notare tutte le domande che il dottore non mi aveva fatto quel giorno. Per esempio: c’è una ragione per cui sei così angosciato? Cos’è successo nella tua vita? C’è qualcosa che ti fa soffrire e che andrebbe modificato? Anche se il medico mi avesse chiesto queste cose, credo che non sarei stato in grado di rispondere. Sospetto che l’avrei guardato con occhi vacui. La mia vita, avrei detto, andava a gonfie vele. Certo, avevo qualche problema, ma non avevo motivo per essere infelice. Sicuramente non così infelice. In ogni caso, non me lo chiese e io non mi domandai il perché. Nei tredici anni successivi, i dottori continuarono a prescrivermi questo farmaco, e nemmeno loro indagarono oltre. Se l’avessero fatto, temo che mi sarei indignato e che avrei ribattuto: «Se hai un cervello rotto che non riesce a produrre le giuste sostanze chimiche della felicità, a cosa serve fare simili domande? Non è crudele? Non si chiede a un malato di demenza perché non

ricordi dove abbia lasciato le chiavi. Che domanda stupida. Siete o no laureati in Medicina?» Il dottore mi aveva detto che ci sarebbero volute due settimane per avvertire i primi benefici, ma quella sera, dopo essere andato in farmacia, mi sentii attraversare da un’ondata calda, un leggero pulsare che, ne ero certo, proveniva dalle mie sinapsi, impegnate ad assumere la giusta configurazione tra gemiti e scricchiolii. Rimasi steso sul letto ascoltando una compilation su una cassetta consumata, e capii che non avrei più pianto per molto tempo. Qualche settimana dopo partii diretto all’università. Con la mia nuova armatura chimica, non avevo paura. Diventai un evangelista degli antidepressivi. Ogni volta che un amico era giù di morale, gli davo qualche pasticca da provare e gli consigliavo di farsele prescrivere dal medico. Mi convinsi che non solo non ero depresso, bensì in una condizione ancora migliore, che denominai ‘antidepressione’. Ero, dicevo a me stesso, più resiliente ed energico del solito. Sentivo gli effetti collaterali del farmaco, è vero – stavo mettendo su molti chili e mi ritrovavo tutto sudato da un momento all’altro – ma era un piccolo prezzo da pagare per smettere di riversare tristezza sulle persone che mi circondavano. E – guarda! – ora potevo fare qualunque cosa. Di lì a qualche mese notai che all’improvviso venivo assalito da momenti di tristezza inconsolabile. Giudicandoli inspiegabili e palesemente irrazionali, tornai dal medico e concludemmo che avevo bisogno di una dose maggiore. Dunque i miei venti milligrammi al giorno diventarono trenta, e le pasticche bianche diventarono azzurre. Continuò così per un bel po’, fino ai trent’anni. Predicavo i benefici di questi farmaci; dopo un po’ la tristezza tornava; così il dottore mi aumentava la dose; trenta milligrammi diventarono quaranta; quaranta diventarono cinquanta; finché arrivai a prendere due grosse pasticche azzurre al giorno, pari a sessanta milligrammi. Ogni volta ingrassavo ancora di più; ogni volta sudavo ancora di più; ogni volta mi convincevo che valesse la pena pagare quel prezzo. Spiegavo a chiunque me lo chiedesse che la depressione era una malattia del cervello e che gli SSRI erano la cura. Quando diventai giornalista, scrissi articoli per vari giornali spiegandolo pazientemente al pubblico. Descrissi il ritorno della tristezza come un fatto fisico: era chiaro che c’era un calo di sostanze chimiche nel mio cervello, al di fuori del mio controllo e della mia comprensione. Grazie a Dio questi farmaci sono straordinariamente efficaci,

dichiarai, e funzionano. Guardatemi. Io ne sono la prova vivente. Ogni tanto un dubbio si affacciava nella mia testa, ma lo mettevo subito a tacere inghiottendo una o due pasticche in più. Tutto si spiegava. Anzi, me ne rendo conto ora, la spiegazione era una storia in due parti. La prima riguardava le cause della depressione: è un malfunzionamento del cervello, provocato da una carenza di serotonina o da qualche altra anomalia nell’hardware mentale. La seconda concerneva la soluzione: i farmaci che riparano la chimica cerebrale. Mi piaceva taccontarmi questa storia. Aveva senso per me. Mi aiutava ad affrontare la vita. Venni a sapere di un’altra possibile spiegazione del mio stato d’animo. Non dal medico: la lessi nei libri e la vidi discutere in tv. Sosteneva che la depressione e l’ansia sono racchiuse nei geni. Sapevo che mia madre era stata depressa e molto ansiosa prima della mia nascita (e dopo) e che nella mia famiglia questi disturbi affondavano le loro radici ancora più lontano. Mi sembravano storie parallele. Dicevano entrambe: è qualcosa di innato, nella tua carne. Ho iniziato a scrivere questo libro tre anni fa perché mi stavo scervellando su alcuni misteri: stranezze che non riuscivo a spiegare con le storie di cui ero ambasciatore da tempo, e cui volevo dare delle risposte. Ecco il primo. Un giorno, anni dopo aver cominciato ad assumere questi farmaci, ero nello studio del mio psicoterapeuta e tessevo le lodi degli antidepressivi. «È strano» commentò il dottore. «Perché ho l’impressione che tu sia ancora molto depresso». Ero incredulo. A cosa poteva riferirsi? «Be’» riprese, «il più delle volte sei emotivamente angosciato. E non mi pare molto diverso dallo stato d’animo che riferisci di aver avuto prima della cura». 3 Gli spiegai pazientemente che non capivo: la depressione dipende da un livello basso di serotonina e io stavo aumentando il mio. Che razza di formazione ricevono questi terapisti?, mi domandai. Ogni tanto, nel corso degli anni, ritirò fuori garbatamente l’argomento. La convinzione che una maggiore dose di farmaci avrebbe risolto il problema, affermava, non sembrava trovare riscontro nei fatti, perché continuavo a essere quasi sempre abbattuto, depresso e ansioso. Fremevo di rabbia e di superiorità altezzosa. Ci vollero anni prima che finalmente udissi le sue parole. Poco dopo la trentina ebbi una sorta di folgorazione negativa, l’opposto di quella che avevo avuto sulla spiaggia a Barcellona tanto tempo prima. Per quanto aumentassi

la dose di antidepressivi, la tristezza la superava sempre. C’era una bolla di apparente sollievo chimico, e poi quel senso di infelicità formicolante mi assaliva di nuovo. Ricominciavo ad avere forti pensieri ricorrenti che dicevano: la vita è inutile; tutto ciò che fai è inutile; è soltanto una perdita di tempo, cazzo. Era un martellamento di ansia senza fine. Perciò il primo mistero che volevo risolvere era: come potevo essere ancora depresso nonostante gli antidepressivi? Facevo tutte le cose giuste, eppure c’era ancora qualcosa che non andava. Perché? Negli ultimi decenni è successa una cosa curiosa alla mia famiglia. Da quando ero bambino, ricordo flaconi di pasticche posati sul tavolo della cucina con le loro imperscrutabili etichette bianche. In passato ho scritto della farmacodipendenza nella mia famiglia e di come uno dei miei primi ricordi sia il tentativo vano di svegliare uno dei miei parenti. Quando ero piccolo, tuttavia, non erano i farmaci proibiti a dominare la nostra vita, bensì quelli prescritti dai medici: antidepressivi e tranquillanti vecchio stile come il Valium, i ritocchi e le alterazioni chimiche che ci permettevano di arrivare alla fine della giornata. Ma non è questa la cosa curiosa che ci era successa. La cosa curiosa è che quando ero ragazzo, la civiltà occidentale si mise alla pari con la mia famiglia. Quando ero bambino e andavo a casa di amici, notavo che i loro famigliari non prendevano pasticche a colazione, pranzo o cena. Nessuno era sedato, su di giri o antidepresso. La mia famiglia, chiaramente, era diversa. Poi, a poco a poco, con il passare degli anni, vidi comparire le pasticche – prescritte, approvate, raccomandate – nella vita di sempre più persone. Oggi sono ovunque. Negli Stati Uniti, circa un adulto su cinque prende almeno un farmaco contro un disturbo psichiatrico; 4 quasi una donna di mezza età su quattro a un certo punto assume antidepressivi; 5 nelle scuole superiori americane, circa un ragazzo su dieci riceve un potente stimolante per favorire la concentrazione; 6 e le dipendenze da farmaci legali e illegali sono ormai così diffuse che l’aspettativa di vita degli uomini bianchi sta diminuendo per la prima volta in tutta la storia del tempo di pace negli Stati Uniti. Questi effetti si sono irradiati all’intero mondo occidentale: per esempio, mentre leggete queste righe, un francese su tre prende un farmaco psicotropo legale a mo’ di antidepressivo, 7 e il Regno Unito registra quasi l’uso più elevato di tutta l’Europa. 8 Non si può sfuggire: quando gli scienziati analizzano la fornitura idrica dei paesi occidentali, trovano sempre una certa quantità di antidepressivi, perché ne usiamo e ne espelliamo così tanti che è impossibile

filtrarli dall’acqua che beviamo ogni giorno. 9 Siamo letteralmente inondati di queste sostanze. Ciò che un tempo sembrava sorprendente è diventato normale. Senza parlarne troppo, abbiamo accettato che molti dei nostri amici e famigliari siano così angosciati da sentire il bisogno di prendere un potente preparato chimico ogni giorno per tirare avanti. Perciò il secondo mistero che mi sconcertava era: perché c’erano così tante persone apparentemente affette da depressione e da grave ansia? Cos’era cambiato? Poi, a trentun anni, mi ritrovai chimicamente nudo per la prima volta nella mia vita adulta. 10 Da quasi dieci anni ignoravo le garbate osservazioni del mio psicoterapeuta, secondo cui ero ancora depresso nonostante i farmaci. Fu soltanto dopo una crisi esistenziale, durante la quale stetti indiscutibilmente male e non riuscii a scrollarmi la tristezza di dosso, che decisi di ascoltarlo. A quanto pareva, i rimedi cui avevo fatto ricorso per tutto quel tempo non funzionavano. Così, quando buttai nel water le ultime confezioni di Paxil, trovai questi misteri ad aspettarmi, come bambini su una banchina della stazione, in attesa che qualcuno vada a prenderli, ansiosi di attirare la mia attenzione. Perché ero ancora depresso? Perché c’erano così tante persone come me? Mi resi conto che su tutto questo incombeva un terzo mistero. Poteva essere stato qualcosa di diverso da un’anomalia chimica del cervello a procurare ansia e depressione a me e a così tanti dei miei conoscenti? Se sì, cosa poteva essere? Tuttavia rimandai la questione. Una volta che ti abitui a raccontarti una storia sul tuo dolore, sei estremamente riluttante a metterla in discussione. Era come un guinzaglio che avevo messo alla mia angoscia per tenerla in qualche modo sotto controllo. Temevo che se avessi incasinato la storia con cui convivevo da tutto quel tempo, il dolore sarebbe stato come una belva senza catena e mi avrebbe sbranato. Nell’arco di diversi anni sviluppai uno schema. Cominciavo a indagare questi misteri – leggendo articoli scientifici e parlando con gli studiosi che li avevano scritti – ma poi facevo sempre marcia indietro, perché le loro parole mi disorientavano e mi rendevano più ansioso di quanto fossi stato all’inizio. 11 Mi concentrai invece sul lavoro per un altro libro, Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs. Suona ridicolo dire che trovavo più facile intervistare i sicari dei cartelli messicani della droga

che esaminare le cause della depressione e dell’ansia, ma incasinare la storia delle mie emozioni – cosa provavo e perché lo provavo – mi sembrava più pericoloso. Poi, finalmente, decisi di non poterla più ignorare. Così, in un periodo di tre anni, ho fatto un viaggio di oltre sessantaquattromila chilometri. Ho effettuato più di duecento interviste in tutto il mondo, ad alcuni degli scienziati sociali più importanti del pianeta, a persone che erano precipitate nell’abisso della depressione e dell’ansia, e ad altre che erano guarite. Sono finito in posti che all’inizio non avrei mai immaginato: un villaggio amish nell’Indiana, un quartiere popolare di Berlino in rivolta, una città brasiliana che aveva proibito la pubblicità, un laboratorio di Baltimora che faceva rivivere alle persone i loro traumi in modo del tutto inatteso. Ciò che ho scoperto mi ha costretto a rivedere radicalmente la mia storia su me stesso e sull’inarrestabile diffusione dell’angoscia nella nostra cultura. Voglio evidenziare fin d’ora due cose che influenzano il linguaggio usato in questo libro. Mi hanno sorpreso entrambe. Il medico mi diagnosticò la depressione e un’ansia acuta. Avevo creduto che fossero disturbi separati ed è così che mi furono descritti nei tredici anni in cui mi sottoposi al trattamento farmacologico. Mentre facevo ricerche, tuttavia, ho notato qualcosa di strano. Tutto ciò che aumenta la depressione aumenta anche l’ansia, e viceversa. Salgono e scendono insieme. Sembrava curioso e ho cominciato a capirlo solo quando, in Canada, ho parlato con Robert Kohlenberg, un docente di psicologia. In passato, anche lui aveva creduto che depressione e ansia fossero cose diverse. Ma mentre le studiava – lo fa ormai da vent’anni – si rese conto, dice, di come «i dati indichino che non sono così distinte». In pratica, «le diagnosi, soprattutto quelle di depressione e ansia, si sovrappongono». Certe volte un aspetto è più marcato dell’altro – puoi soffrire d’attacchi di panico questo mese e piangere come fontana il prossimo – ma l’idea che siano separati come lo sono (per esempio) la polmonite e una gamba rotta non trova conferma nelle prove sperimentali. È una questione «ingarbugliata», ha dimostrato Kohlenberg. La sua tesi ha prevalso nel dibattito scientifico. Negli ultimi anni, i National Institutes of Health – il principale ente per il finanziamento delle ricerche mediche negli Stati Uniti – hanno smesso di sovvenzionare studi che presentano la depressione e l’ansia come diagnosi differenti. 12 «Vogliono qualcosa di più realistico, che corrisponda al modo in cui sono le persone nell’effettiva pratica clinica» spiega Kohlenberg.

Cominciai a vedere i due disturbi come cover della stessa canzone, eseguite da band diverse. La depressione è la versione di un pessimistico gruppo emo, e l’ansia quella di un urlante complesso heavy metal, ma lo spartito di base è lo stesso. Non sono identiche, ma sono molto simili. 13 La seconda cosa deriva da un’altra scoperta che ho fatto mentre studiavo le nove cause della depressione e dell’ansia che sto per illustrare. Ogni volta che avevo scritto dell’argomento in passato, avevo esordito facendo una precisazione: non parlerò dell’infelicità. Per una persona depressa, nulla è più esasperante di sentirsi dire che deve stare su di morale o di vedersi proporre soluzioni spicciole come se avesse semplicemente avuto una brutta settimana. È come consigliare a qualcuno di svagarsi andando a ballare dopo che si è rotto tutte e due le gambe. Mentre studiavo le prove sperimentali, tuttavia, ho notato qualcosa che non potevo ignorare. Le forze che rendono alcuni di noi depressi e gravemente ansiosi rendono, allo stesso tempo, infelici molte altre persone. Si dà il caso che ci sia un continuum tra infelicità e depressione. Sono molto diverse – come perdere un dito in un incidente è diverso da perdere un braccio, e cadere sulla strada è diverso da cadere da un dirupo – ma sono legate. La depressione e l’ansia, avrei scoperto, sono soltanto i bordi più affilati di una lancia che è stata conficcata in quasi tutti nella nostra cultura. Infatti anche coloro che non soffrono di questi disturbi si riconosceranno in molte delle mie descrizioni. Mentre leggete questo libro, per favore consultate gli studi scientifici cui faccio riferimento nelle note di chiusura, e cercate di guardarli con il mio stesso scetticismo. Date un calcio alle prove sperimentali. Vedete se si rompono. La posta in gioco è troppo alta per sbagliare. Perché ho maturato una convinzione che all’inizio mi avrebbe scioccato. Sulla vera natura della depressione e dell’ansia siamo stati sistematicamente fuorviati. In vita mia avevo creduto a due storie sulla depressione. Per i primi diciotto anni della mia esistenza avevo pensato che fosse ‘nella mia testa’, cioè che non fosse reale, bensì immaginaria, fasulla, un vizio, una fonte di imbarazzo, una debolezza. Poi, per i tredici anni successivi, avevo creduto che fosse ‘nella mia testa’ in modo molto diverso, che dipendesse da un cervello guasto. Avrei scoperto che nessuna delle due è vera. La causa primaria di tutto questo aumento della depressione e dell’ansia non è nella nostra testa. È, mi

sono reso conto, perlopiù nel mondo e nel modo in cui viviamo al suo interno. Ho capito che ci sono almeno nove cause dimostrate di questi due disturbi (anche se nessuno le aveva mai messe insieme prima di allora) e che molte stanno spuntando intorno a noi, facendoci sentire molto peggio. Non è stato un viaggio facile per me. Come vedrete, sono rimasto aggrappato alla vecchia storia secondo cui la depressione dipendeva da un malfunzionamento del cervello. Ho combattuto per difenderla. Mi sono rifiutato a lungo di vedere le prove sperimentali che mi venivano presentate. Non è stato un passaggio indolore a un approccio differente. È stata una lotta. 14 Ma se ci ostiniamo a ripetere gli errori che abbiamo commesso per così tanto tempo, resteremo intrappolati in questi stati ed essi continueranno a crescere. So che di primo acchito potrebbe sembrare sconfortante leggere un libro sulle cause della depressione e dell’ansia, perché questi fattori affondano le loro radici nella nostra cultura. L’idea ha sconfortato anche me ma, mentre proseguivo il viaggio, ho capito cosa avrei trovato alla fine: le soluzioni concrete. Quando finalmente ho compreso cosa stava succedendo – a me e a moltissime persone come me – ho imparato che ad aspettarci ci sono dei veri antidepressivi. Non assomigliano alle sostanze chimiche che si sono rivelate deludenti per molti di noi. Non si comprano né si inghiottono. Però potrebbero rappresentare il primo passo sulla reale strada della guarigione dal dolore.

PARTE PRIMA

La crepa nella vecchia storia

1. La bacchetta

Il dottor John Haygarth era perplesso. In tutta la città inglese di Bath – e in diverse sacche sparpagliate nel mondo occidentale – stava succedendo qualcosa di straordinario. Persone che erano state paralizzate dal dolore per anni scendevano dal letto e ricominciavano a camminare. Che fossi menomato dai reumatismi o dal duro lavoro fisico, girava voce che per te ci fosse una speranza. Potevi alzarti. Non si era mai vista una cosa simile. Haygarth sapeva che, diversi anni prima, la società fondata dall’americano Elisha Perkins, originario del Connecticut, aveva annunciato la scoperta del rimedio al dolore di tutti i tipi, e che c’era un solo modo per ottenerla: pagare l’uso di una spessa asta di metallo che l’azienda aveva brevettato e denominato ‘trattore’. Aveva particolari virtù che purtroppo la società non poteva rivelare, perché altrimenti la concorrenza avrebbe copiato l’invenzione e si sarebbe presa tutti i profitti. Se avevi bisogno di aiuto, però, un addetto sarebbe venuto a casa tua o in ospedale e ti avrebbe spiegato cupamente che, come un parafulmine attira i fulmini, il trattore attirava la malattia fuori dal corpo e la espelleva nell’aria. Quindi ti avrebbe passato il trattore sopra il corpo senza mai toccarti. Avresti provato una sensazione di calore, forse addirittura di bruciore. Il dolore viene estratto a poco a poco, affermava l’incaricato. Non lo senti? Una volta completata la procedura… funzionava. Molte persone tormentate dal dolore si alzavano davvero. La loro agonia si interrompeva davvero. Molti casi apparentemente disperati guarivano… in un primo momento. Quello che Haygarth non capiva era come. Tutto ciò che aveva studiato alla facoltà di Medicina indicava che la tesi secondo cui il dolore era un’energia incorporea da espellere nell’aria era un’assurdità. Ma ecco i pazienti, che sostenevano il contrario. Solo uno stupido, sembrava, avrebbe dubitato del potere del trattore. Così Haygarth decise di condurre un esperimento. Al Bath General Hospital, prese un semplice bastone di legno e lo nascose in un vecchio pezzo

di metallo. Aveva creato un ‘trattore’ finto, privo delle qualità segrete di cui era dotato quello ufficiale. Poi andò dai cinque pazienti dell’ospedale afflitti da dolori cronici invalidanti, tra cui i reumatismi, e spiegò che forse avrebbe potuto aiutarli con una delle famose bacchette Perkins. Così, il 7 gennaio 1799, con cinque illustri medici a mo’ di testimoni, passò il bastone sopra i pazienti. Su cinque, annotò poco dopo, «quattro hanno riferito un miglioramento immediato, e tre un sollievo notevole, grazie ai falsi trattori». Un uomo con un ginocchio molto malconcio, per esempio, iniziò a camminare normalmente e mostrò con gioia i suoi progressi ai dottori. Haygarth scrisse a un amico, uno stimato medico di Bristol, per chiedergli di fare lo stesso esperimento. L’altro rispose in breve tempo, spiegando in tono stupito che il falso trattore – un altro bastone rivestito di metallo – aveva avuto i medesimi effetti straordinari. Per esempio, il quarantatreenne Robert Thomas soffriva di dolori reumatici così lancinanti alla spalla che da anni non riusciva a sollevare la mano dal ginocchio. Era come se fosse inchiodata. Ma quattro minuti dopo il trattamento con la bacchetta l’aveva alzata di diversi centimetri. Avevano continuato la terapia nei giorni successivi e, di lì a poco, Thomas aveva toccato la mensola del caminetto. Dopo otto giorni aveva sfiorato una tavola di legno collocata una trentina di centimetri più su. Continuò ad accadere la stessa cosa, paziente dopo paziente. Così si domandarono: un bastone poteva avere proprietà speciali di cui non si erano accorti prima? Provarono a variare l’esperimento rivestendo di metallo un vecchio osso. Funzionò ugualmente. Ritentarono con una vecchia pipa. «Con il medesimo successo» scrisse Haygarth in tono asciutto. «La farsa più ridicola cui abbia mai assistito; avevamo quasi paura di guardarci in faccia» gli scrisse un collega che aveva ripetuto l’esperimento. Eppure i pazienti guardavano i medici e dicevano sinceramente: «Che Dio vi benedica, signore». Misteriosamente, tuttavia, si notò che in alcuni casi l’effetto non durava. Dopo il miracolo iniziale, i soggetti tornavano invalidi. Cosa mai stava succedendo? 1 All’inizio delle mie ricerche per questo libro ho dedicato molto tempo a studiare il dibattito scientifico sugli antidepressivi, in corso sulle riviste mediche da oltre vent’anni. Ho scoperto con stupore che nessuno – nemmeno gli scienziati che li difendono a spada tratta – sembra sapere bene quale azione questi farmaci svolgano su di noi, o perché. Tra gli esperti è in atto un’accesa polemica, ma non c’è alcun consenso. A quanto vedevo, però,

c’era un nome che compariva in questa discussione più di qualunque altro e, quando ho letto ciò che sostiene questo studioso nei suoi articoli scientifici e nel libro I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito, ho avuto due reazioni. Prima ho riso; le sue tesi suonavano assurde e contrarie da tutti i punti di vista alla mia esperienza diretta. Poi mi sono arrabbiato. Sembrava che questo scienziato volesse demolire i pilastri su cui avevo costruito la storia della mia depressione. Metteva in pericolo ciò che sapevo di me stesso. Si chiamava professor Irving Kirsch e, quando gli ho fatto visita nel Massachusetts, era ormai condirettore di un importante programma alla Harvard Medical School. Negli anni Novanta Irving Kirsch sedeva nel suo studio zeppo di libri e diceva ai pazienti che dovevano prendere gli antidepressivi. 2 È un uomo alto dai capelli grigi e dalla voce sommessa, e riesco a immaginare il sollievo che i suoi assistiti devono aver provato. I farmaci, osservava, a volte funzionavano e a volte no, ma lui non aveva dubbi sul motivo delle guarigioni: la depressione dipendeva da un livello insufficiente di serotonina e queste sostanze lo innalzavano. Così scrisse libri in cui definiva i nuovi antidepressivi un trattamento consigliabile ed efficace, da abbinare alla terapia per risolvere anche eventuali problemi psicologici. Credeva nell’enorme corpus di ricerche scientifiche che era stato pubblicato e ne constatava di persone gli effetti positivi con i suoi occhi quando i pazienti tornavano affermando di sentirsi meglio. Kirsch, tuttavia, era anche uno dei principali esperti mondiali in un campo che aveva visto la luce a Bath quando John Haygarth aveva agitato per la prima volta la sua bacchetta finta. All’epoca, il medico inglese si era accorto che quando somministri un trattamento a un paziente, in realtà fai due cose: gli dai un farmaco, che di solito avrà in qualche modo un effetto chimico sul suo corpo, e gli racconti una storia su come la terapia influirà su di lui. Per quanto possa sembrare sorprendente, aveva notato Haygarth, spesso la storia che racconti è importante quanto il farmaco. Come facciamo a saperlo? Perché se proponi al paziente solo una storia – per esempio, raccontandogli che questo vecchio osso coperto di metallo farà scomparire il dolore – funziona nella stragrande maggioranza dei casi. Questo fenomeno prese il nome di effetto placebo e, negli ultimi due secoli, le prove scientifiche a suo favore si sono moltiplicate all’infinito. Scienziati come Irving Kirsch hanno dimostrato che i placebo danno risultati incredibili. Oltre a cambiare il nostro stato d’animo, possono realmente avere effetti fisici sul corpo. Per esempio, un placebo può riportare alla normalità

una mascella infiammata. Può curare un’ulcera allo stomaco. 3 In certa misura può alleviare – almeno un pochino – quasi tutti i disturbi. Se ti aspetti che funzioni, il più delle volte funzionerà. Gli scienziati continuarono a imbattersi in questo effetto per anni e a restare confusi. Per esempio, quando le truppe alleate respinsero i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, i soldati riportarono così tante ferite che spesso i medici esaurivano gli antidolorifici a base di oppiacei. L’anestesista americano Henry Beecher, spedito in prima linea, temeva che gli uomini sarebbero morti di infarto se avesse cercato di operarli senza addormentarli. 4 Così, non sapendo cos’altro fare, tentò un esperimento. Li informò che avrebbe somministrato loro la morfina, quando invece non usava altro che una flebo d’acqua salata senza alcun antidolorifico. I pazienti reagivano come se avessero ricevuto l’anestetico. Non urlavano, non si lamentavano e non entravano in stato di shock. Funzionava. A metà degli anni Novanta Kirsch conosceva ormai questo fenomeno meglio di qualunque altro scienziato vivente e stava per diventare una figura di punta del relativo programma a Harvard. Sapeva però che i nuovi antidepressivi funzionavano meglio di un placebo, che avevano un reale effetto chimico. Ne era certo per una semplice ragione. Se vuoi vendere un farmaco al pubblico, devi seguire un iter rigoroso. Il prodotto deve essere testato su due gruppi: uno riceve il medicinale, e l’altro una pasticca di zucchero (o qualche altro placebo). Poi gli scienziati confrontano i gruppi. Sei autorizzato a mettere il farmaco in commercio soltanto se i suoi risultati sono significativamente migliori di quelli del placebo. Così quando uno dei suoi specializzandi – il giovane israeliano Guy Sapirstein – gli fece una proposta, Kirsch si incuriosì, ma non manifestò grande entusiasmo. Sapirstein spiegò che desiderava indagare un fenomeno. Quando prendi un farmaco, c’è sempre un certo effetto placebo che va ad aggiungersi all’azione delle sostanze chimiche. Ma fino a che punto? Nel caso di prodotti molto forti, si dà sempre per scontato che sia un elemento secondario. Secondo Sapirstein, i nuovi antidepressivi erano un punto di partenza interessante per provare a scoprirlo, per vedere quale modesta percentuale dell’effetto dipenda dalla nostra fiducia nei medicinali. Kirsch e Sapirstein sapevano entrambi che se avessero cominciato a studiare l’argomento avrebbero sicuramente appurato che gran parte del beneficio era chimico ma, sul piano intellettuale, sarebbe stato affascinante esaminare anche il più leggero effetto placebo.

Così iniziarono con un piano molto semplice. C’è un metodo facile per stabilire quanta parte dell’effetto di un farmaco dipenda dalle sostanze chimiche che contiene e quanta dalla tua fiducia nel prodotto. Gli esperti devono eseguire un particolare tipo di studio scientifico. Dividono i partecipanti in tre gruppi. Se sei nel primo, ti dicono che ti somministreranno un antidepressivo chimico, ma in realtà ti daranno soltanto un placebo: una pasticca di zucchero, efficace quanto la bacchetta di John Haygarth. Se sei nel secondo, ti dicono che ti somministreranno un antidepressivo chimico e lo riceverai veramente. Se sei nel terzo, non ti danno un bel niente – né il farmaco né lo zucchero – limitandosi a monitorarti nel tempo. Il terzo gruppo, sostiene Kirsch, è molto importante, anche se quasi tutti gli studi lo tralasciano. 5 «Immaginate» dice, «di testare un nuovo rimedio contro il raffreddore». Dai ai partecipanti un placebo o un farmaco. Nel tempo, tutti migliorano. La percentuale di successo pare sorprendente, ma poi ricordi che molte persone colpite da un raffreddore guariscono comunque nel giro di qualche giorno. Se non ne tieni conto, ti farai un’idea fuorviante sull’efficacia del rimedio. Avresti l’impressione che il medicinale guarisca soggetti che si stavano già riprendendo spontaneamente. Per calcolare la percentuale degli individui che migliorano da soli, senza alcun aiuto, ti serve il terzo gruppo. Così Kirsch e Sapirstein iniziarono a confrontare i risultati degli antidepressivi su questi tre gruppi, in tutti gli studi mai pubblicati. Per isolare gli effetti chimici del farmaco fai due cose. Primo, sottrai le persone che sarebbero guarite in ogni caso. Poi sottrai quelle che sono migliorate dopo la somministrazione della pasticca di zucchero. Ciò che rimane è il vero effetto del medicinale. Ma quando sommarono i dati di tutti gli studi scientifici disponibili pubblicamente sugli antidepressivi, l’esito li lasciò di stucco. Le cifre dimostravano che il 25 per cento degli effetti degli antidepressivi era dovuto alla guarigione spontanea, il 50 alla storia raccontata dai ricercatori, e solo il 25 alle sostanze chimiche. 6 «Stentavo a crederci» mi ha detto Kirsch nel soggiorno della sua casa a Cambridge, nel Massachusetts. I due studiosi pensarono di aver commesso un errore, di aver sbagliato i calcoli. Sapirstein era sicuro, mi ha riferito in seguito, che «qualcosa non andasse nei dati», perciò continuarono a esaminarli senza sosta per mesi. «Ero stanco di leggere cifre e fogli elettronici e di analizzarli in ogni modo possibile» dichiara, ma erano sicuri di aver preso un abbaglio da qualche

parte. Non trovarono alcun errore, dunque pubblicarono i dati per vedere come li avrebbero commentati altri scienziati. Così, un giorno, Kirsch ricevette un’e-mail che suggeriva come, in realtà, avesse appena aver scalfito la superficie di uno scandalo molto più scioccante. Quello fu, credo, il momento in cui il professore si trasformò nello Sherlock Holmes degli antidepressivi. Nell’e-mail, lo scienziato Thomas J. Moore spiegava di essere rimasto colpito dai risultati dello studio e di essere convinto che ci fosse un modo per ampliare l’indagine e andare a fondo della questione. Quasi tutti gli studi scientifici che Kirsch aveva consultato fino a quel giorno, proseguiva Moore, avevano un inghippo. Le ricerche scientifiche sull’efficacia dei medicinali sono finanziate in gran parte da colossi farmaceutici, che le conducono per uno scopo ben preciso: commercializzare quei prodotti per trarne un profitto. È per questo che le case farmaceutiche effettuano gli studi scientifici in segreto e poi pubblicano soltanto i risultati che fanno fare bella figura ai loro medicinali o brutta figura a quelli dei concorrenti. Si comportano così per lo stesso identico motivo per cui (per esempio) la KFC non divulgherebbe mai informazioni sulla nocività del pollo fritto. Questo fenomeno si chiama ‘bias di pubblicazione’. 7 Di tutti gli studi svolti dalle aziende farmaceutiche, il 40 per cento non viene mai reso noto al pubblico, e molti altri vengono pubblicati solo secondo criteri selettivi, lasciando cadere nel dimenticatoio gli eventuali risultati sfavorevoli. Perciò, spiegava Moore a Kirsch, finora ti sei soffermato solo sulle parti degli studi scientifici che le case farmaceutiche vogliono mostrarci. Secondo Moore, tuttavia, c’era una scappatoia. Esisteva, scrisse a Kirsch, un modo per accedere a tutti i dati che le case farmaceutiche non vogliono mostrarci: se vuoi introdurre un medicinale sul mercato statunitense, devi presentare domanda alla Food and Drug Administration (FDA), l’ente di controllo ufficiale dei farmaci. Insieme con la richiesta devi sottoporre tutti gli studi sperimentali che hai condotto, in versione completa, a prescindere che siano vantaggiosi oppure no per il tuo margine di profitto. È come quando fai un selfie e ti fotografi venti volte, per poi scartare i diciannove scatti in cui sembra che tu abbia il doppio mento o le occhiaie. Posti su Facebook o su Instagram solo quello in cui appari sexy (o, nel mio caso, meno orrendo). Le aziende farmaceutiche, invece, sono obbligate per legge a inviare all’FDA l’equivalente di tutti i loro selfie, anche quelli che le fanno sembrare grasse.

Se fai richiesta attraverso il Freedom of Informal Act, proseguiva l’email, avrai la possibilità di vedere ogni cosa. Allora potremo capire cosa stia succedendo davvero. Incuriosito, Kirsch chiese con Moore le informazioni fornite dalle case farmaceutiche per i sei antidepressivi più usati negli Stati Uniti all’epoca: Prozac, Paxil (il medicinale che prendevo io), Zoloft, Effexor, Duronin e Celexa. 8 Diversi mesi dopo, i dati arrivarono e Kirsch cominciò a esaminarli con l’equivalente scientifico della lente d’ingrandimento di Sherlock Holmes. Scoprì subito che le aziende avevano pubblicato per anni ricerche selettive, e in misura maggiore di quanto si aspettasse. Per esempio, in uno studio sperimentale sul Prozac, il medicinale era stato somministrato a 245 pazienti, ma la società aveva divulgato i risultati relativi soltanto a ventisette soggetti, quelli su cui il prodotto sembrava aver funzionato. 9 Kirsch e Sapirstein si resero conto – usando finalmente le cifre reali – di poter calcolare fino a che punto gli individui trattati con gli antidepressivi stessero meglio di quelli che prendevano le pasticche di zucchero. Gli scienziati misurano la gravità della depressione con la scala di Hamilton, inventata dallo scienziato Max Hamilton nel 1959. La scala va da 0 (dove saltelli allegramente) a 51 (dove ti butti sotto un treno). Tanto per avere un parametro, un miglioramento degli schemi del sonno vale 6. Come scoprì Kirsch, nei dati reali che non erano passati attraverso il filtro dei PR, gli antidepressivi determinavano davvero un miglioramento del punteggio: aiutavano i depressi a stare meglio, facendo registrare un miglioramento di 1,8 punti. Kirsch rimase di stucco. Meno di un terzo rispetto a una migliore qualità del sonno. Assolutamente incredibile. Se era vero, rivelava che i farmaci non avevano quasi alcun effetto significativo, almeno per l’individuo medio. Come i pazienti di John Haygarth a Bath, la storia aveva fatto sentire meglio i partecipanti per qualche tempo, ma poi erano tornati a peggiorare quando il vero disturbo si era ripresentato. I dati, in compenso, rivelarono qualcos’altro. Gli effetti collaterali dei farmaci erano molto reali. I medicinali facevano ingrassare, provocavano disfunzioni sessuali o sudorazione eccessiva. Si trattava di farmaci reali, con effetti reali. Ma quando si arrivava all’azione che dovrebbero avere sulla depressione e sull’ansia? Nella maggior parte dei casi era molto improbabile che risolvessero il problema. Kirsch avrebbe preferito che non fosse così, perché questi risultati

contraddicevano i dati che aveva pubblicato, ma mi ha detto: «Una cosa di cui vado fiero è l’analisi dei dati e la mia disponibilità a cambiare idea quando sono diversi da come pensavo». Aveva consigliato questi medicinali ai pazienti quando poteva basarsi soltanto sugli studi accuratamente selezionati delle case farmaceutiche. Ora aveva le prove nude e crude e iniziava a rendersi conto che non poteva continuare a fare ciò che aveva fatto in passato. Quando Kirsch pubblicò queste cifre su una rivista scientifica, si aspettava un violento contrattacco da parte degli scienziati che avevano prodotto tutti quei dati. In realtà, nei mesi seguenti, scoprì che semmai molti esprimevano una sensazione di imbarazzato sollievo. Il fatto che i reali effetti farmacologici sulla depressione fossero minuscoli, scrisse un gruppo di ricercatori, era un «piccolo sporco segreto» del settore da molto tempo. 10 Prima della pubblicazione, Kirsch aveva creduto di avere uno scoop, qualcosa che fino a quel momento non sapeva nessuno. Invece aveva soltanto portato alla luce ciò che molti addetti ai lavori sapevano fin dall’inizio. Un giorno, dopo che queste rivelazioni avevano ottenuto una grande copertura mediatica, Sapirstein – il dottor Watson – era a una festa di famiglia quando una parente si avvicinò. Prendeva gli antidepressivi da anni. Scoppiò in lacrime. A suo parere, disse, Sapirstein stava dicendo che tutte le sue esperienze con gli antidepressivi – le sue emozioni fondamentali – erano fasulle. «Niente affatto» replicò Sapirstein. «Il fatto che gran parte [dell’effetto] sia un placebo significa solo che il tuo cervello è la parte più incredibile di te, e che ce la sta mettendo tutta per farti stare meglio». Non è che le sensazioni non siano reali, aggiunse. È che hanno una causa diversa da quella che ti hanno fatto credere. La donna non ne era convinta. Non gli rivolse più la parola per anni. Poco dopo, Kirsch ricevette per vie traverse un altro studio. Quando l’ho letto, mi ha colpito particolarmente, perché parlava di una situazione in cui mi ero trovato di persona. Non molto prima che iniziassi ad assumere il Seroxat, la società produttrice, la GlaxoSmithKline, aveva condotto segretamente tre studi clinici per stabilire se fosse opportuno somministrarlo ai teenager come me. Uno studio aveva concluso che il placebo funzionava meglio; un altro non aveva rilevato differenze tra il farmaco e il placebo; e il terzo aveva dato risultati contraddittori. Nemmeno uno aveva dimostrato la reale efficacia del

medicinale. Tuttavia, in una pubblicazione parziale dei risultati, l’azienda aveva annunciato: «La Paroxetina [un altro nome del prodotto] è efficace contro la depressione grave negli adolescenti». In seguito era trapelata anche la discussione che in quel periodo si era svolta all’interno dell’azienda. Un dipendente aveva osservato: «Dal punto di vista commerciale sarebbe inaccettabile precisare che l’efficacia non è stata dimostrata, perché danneggerebbe l’immagine della Paroxetina». In altre parole, non possiamo dire che non funziona perché altrimenti guadagniamo meno soldi. Così avevano taciuto. Alla fine, dopo che il procuratore generale Eliot Spitzer l’aveva citata in giudizio, la GlaxoSmithKline fu condannata a pagare due milioni e mezzo di dollari solo nello Stato di New York. 11 Ma ormai il medico mi aveva prescritto il Seroxat quando ero adolescente, e lo assumevo da più di dieci anni. Più tardi una delle riviste mediche più autorevoli del mondo, il Lancet, condusse uno studio dettagliato sui quattordici principali antidepressivi somministrati ai teenager. Le prove – tratte da risultati reali, non filtrati – dimostravano che semplicemente non erano efficaci, con una sola eccezione in cui l’effetto era molto leggero. La rivista concludeva che non avrebbero più dovuto essere prescritti agli adolescenti. 12 Leggere quell’articolo ha segnato una svolta nella mia vita. Ecco il medicinale che avevo iniziato a usare da ragazzo, ed ecco l’azienda che lo produceva, pronta a confessare, con parole sue, che il prodotto non funzionava per le persone come me, ma intenzionata a promuoverlo ugualmente. 13 Leggendo, mi sono reso conto di non poter più ignorare ciò che Irving Kirsch stava dicendo in termini così semplici. Questa, tuttavia, è stata soltanto la prima delle sue rivelazioni. La più scioccante doveva ancora arrivare.

2. Lo squilibrio

L’anno dopo che avevo inghiottito il mio primo antidepressivo, Tipper Gore, moglie del vicepresidente Al Gore, spiegò al giornale USA Today perché di recente fosse caduta in depressione. 1 «Senza dubbio è stata una depressione clinica, per superare la quale avrei dovuto chiedere aiuto a qualcuno» dichiarò. «Ho scoperto che il cervello ha bisogno di una certa quantità di serotonina e, quando la esaurisci, è come restare senza carburante». Decine di milioni di persone, compreso il sottoscritto, si sentivano ripetere la stessa cosa. Quando Irving Kirsch capì che gli SSRI non avevano gli effetti tanto decantati, cominciò non senza stupore a farsi una domanda ancora più elementare. Quali sono le prove sperimentali che la depressione dipende principalmente da uno squilibrio della serotonina, o di qualunque altra sostanza chimica, nel cervello? 2 Da dove provengono? La storia della serotonina era iniziata per caso, apprese Kirsch, in un reparto per malati di tubercolosi a New York nell’afosa estate del 1952, quando alcuni pazienti avevano cominciato a ballare lungo un corridoio dell’ospedale. 3 Era uscito un nuovo farmaco, il Marsilid, che secondo i medici avrebbe potuto aiutare i soggetti tubercolotici. Era emerso che non era molto efficace contro la TBC, ma i dottori avevano notato che svolgeva un’azione totalmente diversa. Sarebbe stato impossibile non accorgersene. Il prodotto infondeva nei pazienti un’allegra euforia. Alcuni si scatenavano letteralmente nelle danze. Così non era passato molto tempo prima che qualcuno decidesse – e il ragionamento non fa una grinza – di somministrarlo agli individui depressi. Era sembrato che avesse un effetto simile anche su di loro, per un certo periodo. Di lì a poco erano comparsi altri principi attivi che parevano svolgere un’azione analoga (sempre nel breve termine): l’iproniazide e l’imipramina. 4 Così le persone avevano iniziato a chiedersi cosa potessero avere in comune queste nuove sostanze. E qualunque cosa fosse, poteva racchiudere il segreto per la cura della depressione?

Nessuno sapeva dove cercare le risposte, perciò il quesito era rimasto in sospeso per dieci anni, stuzzicando i ricercatori. Poi, nel 1965, il medico britannico Alec Coppen aveva formulato una teoria. E se, si era domandato, tutti questi farmaci avessero aumentato il livello di serotonina nel cervello? Se fosse stato vero, avrebbe dimostrato che la depressione era provocata dalla carenza di questo ormone. «È difficile anche solo immaginare quanto fosse pericoloso il terreno su cui questi scienziati si stavano avventurando» commenta il dottor Gary Greenberg, che ha scritto la storia di quel periodo. 5 «Non avevano la più pallida idea di come si comportasse la serotonina nel cervello». A onor del vero, aggiunge, gli scienziati che per primi proposero questa teoria lo fecero con una certa esitazione, a mo’ di ipotesi. Uno di loro ammise che era «tutt’al più una semplificazione riduzionista» 6 e che era impossibile dimostrarne la fondatezza «sulla base dei dati attualmente disponibili». Negli anni Settanta, tuttavia, si era potuto finalmente iniziare a testare queste teorie. Era emerso che si poteva somministrare alle persone un composto capace di abbassare il livello di serotonina. Dunque, se l’ipotesi era corretta – se un’insufficienza di questa sostanza causava la depressione – cosa sarebbe dovuto succedere? Dopo aver assunto l’intruglio, i soggetti sarebbero dovuti diventare depressi. Così gli sperimentatori avevano fatto un tentativo. Avevano dato ai pazienti un farmaco per ridurre la quantità di serotonina e aspettato di vedere cosa sarebbe accaduto. A meno che i partecipanti non assumessero già medicinali molto forti, non erano caduti in depressione. 7 Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, non si era osservato alcun effetto sull’umore. Ho fatto visita al professor David Healy, uno dei primi scienziati che hanno studiato i nuovi antidepressivi in Gran Bretagna, nel suo ambulatorio a Bangor, una cittadina nel Galles settentrionale. Healy ha scritto la storia degli antidepressivi più dettagliata di cui disponiamo. Riguardo all’idea che la depressione sia legata alla carenza di serotonina, ha commentato: «Non ci sono mai e poi mai state prove inconfutabili. Era soltanto una trovata pubblicitaria. Quando i farmaci sono stati lanciati, all’inizio degli anni Novanta, non saresti riuscito a convincere un esperto onesto a salire su un palco e a dire: ‘Ascoltate, nel cervello delle persone depresse c’è una carenza di serotonina…’ Non è mai stato dimostrato». 8 L’ipotesi non è mai stata screditata, ha aggiunto, perché, «in un certo senso, non è mai stata ‘accreditata’. Non c’è mai stato un momento in cui il 50 per cento del settore

ci abbia creduto davvero». Il più ampio studio sugli effetti della serotonina negli esseri umani non ha individuato alcun rapporto diretto con la depressione. 9 Il dottor Andrew Skull di Princeton ritiene che attribuire questo disturbo all’insufficienza di serotonina sia «molto fuorviante e poco scientifico». 10 Era stato utile da un unico punto di vista. Quando le case farmaceutiche volevano vendere antidepressivi a persone come me e Tipper Gore, questa idea si era rivelata una metafora fantastica. Facile da capire, dà l’impressione che gli antidepressivi ti riportino a uno stato naturale, al tipo di equilibrio di cui godono tutti gli altri. Kirsch scoprì che quando gli scienziati (ma sicuramente non i PR delle aziende farmaceutiche) avevano accantonato la serotonina come causa della depressione e dell’ansia, si era verificato un cambiamento nella ricerca scientifica. Okay, avevano detto gli studiosi: se a provocare questi disturbi non è la carenza di serotonina, allora deve essere quella di qualche altra sostanza chimica. 11 Avevano continuato a dare per scontato che l’ansia e la depressione dipendessero da uno squilibrio chimico nel cervello e che gli antidepressivi agissero correggendo questo scompenso. Se salta fuori che una certa sostanza chimica non è il killer psicologico, occorre cercarne un’altra. 12 Kirsch, tuttavia, cominciò a farsi una domanda imbarazzante. Se la depressione e l’ansia derivano da uno squilibrio chimico, e gli antidepressivi servono a porvi rimedio, bisogna trovare una spiegazione per un’incongruenza in cui il professore continuava a incappare. Negli studi clinici, gli antidepressivi che aumentano la serotonina nel cervello hanno lo stesso effetto modesto dei farmaci che la riducono. E di quelli che aumentano un’altra sostanza chimica, la norepinefrina. E di quelli che ne aumentano un’altra ancora, la dopamina. In altre parole, a prescindere dalla sostanza con cui armeggi, ottieni lo stesso risultato. Così Kirsch si domandò: cos’hanno davvero in comune le persone che assumono tutti questi farmaci? Solo una cosa, notò: la convinzione che i medicinali siano efficaci. Questa convinzione funziona, ritiene lo studioso, per la stessa ragione per cui funzionava la bacchetta di John Haygarth: perché credi che qualcuno si stia occupando di te e ti stia proponendo una soluzione. Dopo vent’anni di ricerche ai massimi livelli, Kirsch è arrivato alla conclusione che la tesi secondo cui la depressione è scatenata da uno squilibrio chimico è soltanto «un incidente della storia», determinato da scienziati che inizialmente hanno mal interpretato i dati e poi da case

farmaceutiche che hanno venduto al mondo questa percezione sbagliata per fare soldi. Così, afferma Kirsch, la principale spiegazione della depressione formulata nella nostra cultura comincia a sgretolarsi. L’idea che stai male per colpa di uno ‘squilibrio chimico’ si basa su una serie di errori e di fraintendimenti. In campo scientifico, mi ha detto, una teoria non può andare più vicina di così a essere smentita. È finita in mille pezzi sul pavimento, come un Unto Dunto neurochimico con un sorriso molto triste. Ero arrivato fin lì con Kirsch e lì mi sono fermato, allibito. Poteva essere vero? Ho studiato scienze sociali, cioè il tipo di prove sperimentali che esaminerò nel resto del libro. Non mi intendo invece del genere di scienza in cui è specializzato Kirsch. Mi sono domandato se avessi frainteso le sue parole, o se lui fosse un’anomalia scientifica. Così ho letto tutto ciò che ho potuto, e ho pregato molti altri scienziati di darmi tutte le spiegazioni possibili. «Nulla dimostra che ci sia uno squilibrio chimico» nel cervello degli individui depressi o ansiosi, mi ha detto schiettamente la professoressa Joanna Moncrieff, una delle massime esperte sull’argomento, nel suo studio allo University College di Londra. 13 In realtà, questo termine non ha alcun senso, ha proseguito: non sappiamo che aspetto abbia un cervello ‘chimicamente squilibrato’. Le persone si sentono dire che i farmaci come gli antidepressivi ripristinano l’equilibrio naturale, ha aggiunto, ma non è vero: creano uno stato artificiale. L’idea che il disagio mentale sia causato semplicemente da uno squilibrio chimico è «un mito» venduto dalle case farmaceutiche, ha concluso. La dottoressa Lucy Johnstone, una psicologa clinica, è stata ancora più esplicita. 14 «Quelle che ti hanno propinato sono quasi tutte cazzate» ha affermato mentre bevevamo un caffè. La teoria della serotonina «è una menzogna. Non penso che la renderemmo accettabile dicendo: ‘Oh, be’, forse ci sono prove sperimentali che la convalidano’. Perché non ce ne sono». Eppure mi sembrava assolutamente impensabile che qualcosa di così enorme – uno dei farmaci più popolari del mondo, usato da moltissimi miei conoscenti – potesse essere così sbagliato. In primo luogo, ci sono diverse precauzioni per evitare che questo succeda: immense quantità di test scientifici da condurre prima che un medicinale arrivi nell’armadietto del nostro bagno. Mi sentivo come se fossi appena atterrato con un volo da New York a Los Angeles, per poi venire a sapere che l’aereo era stato pilotato per

tutto il tempo da una scimmia. 15 Figuriamoci! Ci saranno delle procedure per impedire che accadano cose simili! Come potevano questi farmaci averle superate, se la loro efficacia era davvero limitata come suggerivano le ricerche più approfondite? Ne ho parlato con uno dei più illustri esperti del settore, il professor John Ioannidis, che l’Atlantic Monthly ha definito «forse uno dei più autorevoli scienziati viventi». 16 A suo parere, non c’è da meravigliarsi che le case farmaceutiche abbiano semplicemente ignorato le prove sperimentali e immesso comunque i medicinali sul mercato, perché in realtà succede di continuo. Mi ha spiegato come gli antidepressivi siano passati dalla fase di sviluppo alla mia bocca. Funziona così: «Spesso sono le aziende stesse a condurre i test sui loro prodotti». In altre parole, organizzano lo studio sperimentale e decidono chi potrà consultare gli eventuali risultati. Perciò «valutano da sole i loro prodotti. Coinvolgono tutti questi poveri ricercatori che non hanno altre fonti di finanziamento […] [e che] hanno poco controllo su […] come i [risultati] verranno redatti e presentati». Una volta raccolte le prove scientifiche, il più delle volte non sono nemmeno gli scienziati a metterle per iscritto. «Di solito sono gli addetti dell’azienda a redigere i resoconti [scientifici pubblicati]». 17 Queste prove sperimentali vanno poi agli enti di controllo, il cui compito è decidere se autorizzare l’immissione del farmaco sul mercato. Negli Stati Uniti, tuttavia, il 40 per cento delle retribuzioni di questi funzionari è pagato dalle case farmaceutiche (in Gran Bretagna la cifra sale al 100 per cento). Quando un’azienda cerca di capire quali farmaci siano abbastanza sicuri per essere commercializzati, devono esserci due team: la casa farmaceutica che ne perora la causa e un arbitro che lavora per noi consumatori per stabilire se il prodotto funzioni adeguatamente. Il professor Ioannidis mi stava dicendo che, in questa partita, l’arbitro è pagato dalla squadra dell’azienda farmaceutica e che questa squadra vince quasi sempre. Le regole scritte dalle aziende sono studiate per rendere estremamente semplice l’approvazione dei farmaci. Basta condurre due studi sperimentali – in qualunque momento e in qualunque luogo del mondo – che indichino un qualche effetto positivo del prodotto. Se ce ne sono due e c’è qualche effetto, è sufficiente. Così si può avere una situazione in cui ci sono mille studi scientifici, 998 dei quali dicono che il medicinale non funziona e 2 sostengono che ha un effetto irrisorio, e il farmaco arriverà sul bancone della vostra farmacia.

«Credo che questo settore sia gravemente malato» ha osservato il professor Ioannidis. «Malato, venduto e corrotto, non posso definirlo altrimenti». Gli ho chiesto come si sentisse dopo averlo scoperto. «È deprimente» ha risposto. È ironico, ho replicato. «Ma non così deprimente» ha concluso «da farmi assumere degli SSRI». Mi sono sforzato di ridere, ma la risata mi è morta in gola. E allora?, ha detto qualcuno a Kirsch: okay, diciamo che è un effetto placebo. Qualunque sia la ragione, le persone stanno meglio. Perché spezzare l’incantesimo? Le prove degli studi scientifici, ha spiegato lo studioso, indicano che i benefici degli antidepressivi sono perlopiù un placebo, ma gli effetti collaterali sono in gran parte dovuti alle sostanze chimiche e possono essere molto gravi. «Naturalmente» afferma Kirsch «c’è l’aumento ponderale». Io ero ingrassato come un maiale, per poi dimagrire non appena avevo interrotto l’assunzione. «Sappiamo che gli SSRI in particolare contribuiscono alle disfunzioni sessuali, provocandole nel 75 per cento circa dei casi» ha continuato. Benché sia imbarazzante parlarne, ho dovuto dargli ragione. Negli anni in cui avevo preso il Paxil, avevo riscontrato che i miei genitali erano molto meno sensibili e che mi occorreva moltissimo tempo per eiaculare. Ciò rendeva dolorosi i rapporti sessuali e riduceva il piacere che ne traevo. Era stato solo quando avevo smesso di prendere il farmaco e ricominciato ad avere orgasmi più intensi che mi ero ricordato di come i rapporti sessuali regolari siano uno dei migliori antidepressivi naturali del mondo. «Nei giovani [questi antidepressivi chimici] aumentano il rischio di suicidio. C’è un nuovo studio svedese secondo cui innalzano le probabilità di comportamenti criminali violenti» ha proseguito Kirsch. 18 «Negli individui più maturi aumentano il rischio di morte in generale e quello di ictus. In tutti, incrementano le probabilità di contrarre diabete del tipo 2. Nelle donne in gravidanza, aumentano il rischio di aborto [e] di avere figli affetti da autismo o da deformità fisiche. Tutte queste cose sono note». E se cominci a riscontrare questi effetti, può essere difficile smettere. Circa il 20 per cento degli individui soffre di gravi sintomi da astinenza. 19 Dunque, dice Kirsch, «se vuoi usare qualcosa per sfruttarne l’effetto placebo, almeno usa qualcosa di sicuro». Potremmo somministrare l’iperico, osserva, e avremmo tutti gli effetti placebo positivi e nessuno di questi inconvenienti. Anche se, naturalmente, l’iperico non è brevettato dalle case

farmaceutiche, perciò nessuno avrebbe molto da guadagnarci. A quel punto, mi ha confidato a bassa voce, cominciava a sentirsi «in colpa» per aver prescritto le pasticche per tutti quegli anni. Nel 1802 John Haygarth rivelò al pubblico la vera storia delle bacchette. Alcuni notano un’effettiva e temporanea attenuazione del dolore, spiegò, ma ciò non è ascrivibile al potere delle bacchette. Si deve piuttosto al potere della mente. Era un effetto placebo e probabilmente non sarebbe durato, perché non risolveva il problema alla base. Questo messaggio mandò quasi tutti fuori dai gangheri. 20 Alcuni si sentirono ingannati dalle persone che avevano venduto loro le costose bacchette, ma molti si infuriarono con lo stesso Haygarth e affermarono che chiaramente diceva fesserie. «La notizia ha suscitato grande agitazione, accompagnata da minacce e improperi» scrive. «Numerose persone assai rispettabili» – tra cui alcuni illustri scienziati dell’epoca – «hanno dovuto firmare una controdichiarazione» asserendo che la bacchetta funzionava e che i suoi poteri erano concreti e reali. Quando Kirsch ha pubblicato i primi risultati, e man mano che li ha confermati nel corso degli anni, la reazione è stata simile. Nessuno nega che i dati delle aziende farmaceutiche, presentati all’FDA, dimostrino che gli antidepressivi hanno soltanto un effetto appena superiore a quello del placebo. Nessuno nega che la GlaxoSmithKline abbia ammesso in privato che il Paxil non avrebbe funzionato per le persone come me, e che abbia dovuto pagare un risarcimento legale per questo raggiro. Ma certi scienziati – un numero considerevole – mettono in discussione molte delle argomentazioni più generali di Kirsch. Volevo studiare attentamente le loro osservazioni. Speravo che in qualche modo fosse ancora possibile salvare la vecchia storia. Mi sono rivolto a un uomo che, più di chiunque altro attualmente in vita, ha venduto gli antidepressivi al pubblico, e l’ha fatto perché ci credeva: infatti non ha mai ricevuto neppure un centesimo dalle case farmaceutiche. Negli anni Novanta il dottor Peter Kramer vide un paziente dopo l’altro entrare nel suo studio nel Rhode Island, letteralmente trasformato dopo aver iniziato la terapia con i nuovi antidepressivi. 21 Non solo i soggetti sembravano migliorare, riferisce, ma addirittura stavano «più che bene». Avevano più energia e più resilienza dell’individuo medio. Il suo libro sull’argomento, La pillola della felicità, diventò il best-seller assoluto sugli antidepressivi. Lo lessi poco dopo aver cominciato a prendere i farmaci. Ero

sicuro che il processo descritto da Kramer con parole così avvincenti mi riguardasse da vicino. Scrissi di questo tema e difesi a spada tratta lo studioso con articoli e interviste. Così quando Kirsch iniziò a presentare le sue prove sperimentali, Kramer – che nel frattempo era diventato docente alla Brown Medical School – inorridì. Diffusamente e in pubblico cominciò a demolire le critiche del collega agli antidepressivi, sia nei libri sia in una serie di accesi dibattiti. 22 Secondo la sua prima tesi, Kirsch non concedeva abbastanza tempo agli antidepressivi. Gli studi sperimentali che aveva analizzato – quasi tutti quelli sottoposti all’ente di controllo – duravano solitamente da quattro a otto settimane. Ma non bastava. Occorreva un periodo più lungo perché i medicinali facessero davvero effetto. Mi è parsa un’obiezione importante. Kirsch era d’accordo. Così verificò se ci fossero stati studi sperimentali con una durata superiore per esaminarne i risultati. Saltò fuori che ce n’erano due. Nel primo, il placebo aveva avuto lo stesso effetto del farmaco; nel secondo, era stato più efficace. 23 Poi Kramer sottolineò un altro errore che, a suo giudizio, Kirsch aveva commesso. Gli studi che aveva esaminato si raggruppavano in due categorie: depressione moderata e depressione grave. Forse questi prodotti non funzionano nel primo caso, concesse Kramer, ma nel secondo sì. L’aveva visto con i suoi occhi. Così quando Kirsch aveva calcolato una media generale, riunendo i depressi moderati e i depressi gravi, l’effetto delle sostanze era parso limitato, ma solo perché l’aveva diluito, come la CocaCola perderebbe il suo gusto se mescolata con litri e litri d’acqua. 24 Ancora una volta, Kirsch la giudicò un’osservazione potenzialmente importante e, ansioso di sviscerarla, riesaminò gli studi da cui aveva tratto i dati. Scoprì che, con una sola eccezione, aveva considerato solo ricerche effettuate su soggetti con gravissime forme depressive. 25 Ciò indusse Kramer a esporre la sua tesi più convincente, il pilastro della sua critica al collega e della sua difesa degli antidepressivi. Nel 2012 Kramer assistette ad alcuni studi clinici in un centro sanitario che assomigliava a un bellissimo cubo di vetro, affacciato su case costose. Quando un’azienda vuole effettuare ricerche sperimentali sugli antidepressivi, ha due grattacapi. Deve reclutare volontari disposti ad assumere pasticche potenzialmente pericolose per un lungo periodo, ma è costretta dalla legge a pagare soltanto cifre modeste: tra quaranta e settantacinque dollari. Allo stesso tempo, deve trovare persone che soffrano

di disturbi mentali molto specifici. Per esempio, nel caso di uno studio sperimentale sulla depressione, i partecipanti devono essere solo depressi e non presentare altri fattori aggravanti. Pertanto è piuttosto difficile trovare dei volontari, così l’azienda si rivolge spesso a individui disperati, allettandoli con vantaggi extra. Kramer vide persone indigenti che venivano trasferite in autobus dall’altra parte della città per accedere a un ghiotto buffet di assistenza che normalmente a casa non ricevevano: una terapia, un’intera équipe pronta ad ascoltarle, un posto caldo in cui passare la giornata, medicinali e soldi che potevano addirittura raddoppiare il loro misero reddito. Kramer rimase colpito da una cosa. Coloro che si presentavano al centro erano fortemente incentivati a fingere di avere i disturbi in esame, e le case farmaceutiche che conducevano gli studi sperimentali erano fortemente incentivate a fingere di crederci. Kramer continuò a guardare mentre entrambe le parti sembravano prendersi per i fondelli a vicenda. Quando gli sperimentatori chiedevano ai partecipanti di giudicare l’efficacia dei farmaci, i secondi davano spesso le risposte che i primi desideravano, o almeno così pareva. Così Kramer concluse che i risultati degli studi sperimentali sugli antidepressivi – tutti i dati di cui disponiamo – erano inutili. Kirsch, dichiarò, stava costruendo la sua tesi dell’effetto (tutt’al più) minimo su un mucchio di fandonie. Persino gli studi erano fraudolenti. 26 È una constatazione devastante, e Kramer l’ha ampiamente dimostrata. Quando Kirsch la sentì, tuttavia, rimase perplesso e io ho avuto una reazione analoga. Peter Kramer, il principale difensore degli antidepressivi, perora la loro causa dicendo che le relative prove scientifiche sono stupidaggini. Quando ho parlato con lui, gli ho detto che se avesse avuto ragione (e pensavo di sì), le sue conclusioni non sarebbero andate a favore degli antidepressivi, ma contro. Avrebbero significato che, per legge, quei medicinali non avrebbero mai dovuto essere immessi sul mercato. Di fronte alle mie argomentazioni – presentate in tono amichevole – Kramer ha risposto stizzito che anche gli studi sperimentali mediocri possono dare risultati utilizzabili. Si è affrettato a cambiare discorso. Siccome dava molto peso a ciò che aveva visto con i suoi occhi, gli ho domandato cosa avrebbe detto alle persone secondo cui la bacchetta di John Haygarth funzionava, perché anche loro si erano limitate a credere a ciò che vedevano con i propri occhi. In casi come quello, ha spiegato, «il team di esperti non è numeroso come nelle circostanze di cui stiamo parlando qui. Insomma,

sarebbe [uno] scandalo infinitamente più grande se si trattasse di semplici ossi avvolti nella stoffa». Poco dopo ha aggiunto: «Preferisco interrompere la conversazione». Persino Peter Kramer aveva delle riserve riguardo all’uso degli antidepressivi. Ci ha tenuto a precisare che, in base alle prove da lui esaminate, era consigliabile prescriverli solo per un periodo da sei a venti settimane. Oltre, ha detto, «ritengo che le prove siano più carenti, e il mio interesse per le varie argomentazioni va scemando quando ci si concentra sull’assunzione a lungo termine. Insomma, qualcuno sa davvero quali effetti abbiano quattordici anni di uso in termini di danni e di benefici? 27 La risposta, credo, è negativa». All’udire queste parole sono stato assalito dall’ansia: gli avevo già confidato che prendevo gli antidepressivi da quasi quattordici anni. Forse percependo la mia preoccupazione, ha aggiunto: «Anche se penso che siamo stati abbastanza fortunati. Le persone come te ne escono e si riprendono». Ora pochissimi scienziati difendono l’idea che la depressione dipenda da una semplice carenza di serotonina, ma il dibattito sull’efficacia degli antidepressivi – efficacia legata ad altre ragioni che non capiamo appieno – è ancora in corso. Non c’è un consenso generale tra gli scienziati. Molti illustri studiosi concordano con Irving Kirsch; molti con Peter Kramer. Non ero sicuro di quali conclusioni trarre finché Kirsch non mi ha fornito un’ultima prova. Penso che essa riveli il dato più importante sugli antidepressivi chimici. Alla fine degli anni Novanta un team di scienziati volle testare gli effetti dei nuovi SSRI in un contesto che non fosse un laboratorio o uno studio clinico. Erano curiosi di sapere cosa sarebbe successo in una situazione più quotidiana, così organizzarono il cosiddetto Star-D Trial. Era molto semplice: un normale paziente va dal medico e riferisce di essere depresso. Il medico gli espone le varie opzioni e, se entrambi sono d’accordo, il paziente comincia a prendere un antidepressivo. A questo punto, gli scienziati che conducono lo studio iniziano a monitorare il soggetto. Se il farmaco non funziona, il medico gliene prescrive un altro. Se nemmeno questo funziona, gliene consiglia un terzo, e così via finché non ne individua uno che sembri efficace. È così che funziona per la maggior parte di noi nel mondo reale: quasi tutti coloro che si vedono prescrivere un antidepressivo ne provano più di uno, o provano più di una dose, finché non riscontrano l’effetto che stanno

cercando. Lo studio sperimentale concluse che i medicinali funzionavano. Il 67 per cento circa dei pazienti stava meglio, come era accaduto a me nei primi mesi. Ma poi gli studiosi scoprirono qualcos’altro. Nel giro di un anno, metà dei soggetti ricadeva nella depressione. Tra coloro che avevano proseguito la terapia, solo uno su tre mostrava una guarigione duratura ed effettiva (e anche questa è un’esagerazione, perché sappiamo che molte di quelle persone sarebbero guarite spontaneamente senza pasticche). 28 Era la mia storia, raccontata riga dopo riga. All’inizio mi ero sentito meglio; l’effetto si era attenuato; avevo provato ad aumentare la dose, poi l’effetto si era attenuato di nuovo. Quando mi ero accorto che gli antidepressivi non funzionavano più, che la tristezza riprendeva a torturarmi a prescindere dalla quantità, avevo dato per scontato di avere qualcosa che non andava. Ho letto i risultati dello Star-D Trial e mi sono reso conto… di essere normale. 29 Il mio caso era da manuale: lungi dall’essere un’anomalia, avevo vissuto un’esperienza tipica. Da allora, queste prove sperimentali sono state monitorate più volte, e il numero dei soggetti che continuano a essere depressi nonostante la terapia farmacologica si attesta tra il 65 e l’80 per cento. 30 Secondo me, questa è la prova decisiva: dopo un miglioramento iniziale, quasi tutti coloro che prendono questi medicinali rimangono depressi o ansiosi. Voglio sottolineare una cosa: alcuni autorevoli scienziati credono ancora che, grazie a un processo chimico, queste sostanze funzionino per una minoranza di soggetti. È possibile. Gli antidepressivi chimici potrebbero tranquillamente essere una soluzione parziale per un ristretto gruppo di pazienti depressi o ansiosi. Non voglio certo privare le persone di ciò che dà loro sollievo. Se ritenete che vi aiutino e che i pro superino i contro, continuate pure a prenderli. Di fronte a queste prove sperimentali, tuttavia, è impossibile affermare che gli antidepressivi siano sufficienti per la stragrande maggioranza di individui depressi e ansiosi. Non potevo più negarlo: chiaramente dovevamo trovare una storia diversa per spiegare il nostro stato d’animo, e una serie diversa di soluzioni. Ma, mi sono interrogato con sconcerto, quali potevano essere?

3. L’eccezione del lutto

Ironicamente, scoprire che la depressione e l’ansia non derivano da uno squilibrio chimico mi ha fatto sentire squilibrato. Raccontare a una persona una storia sulle ragioni della sua sofferenza, mi ha detto qualcuno una volta, è la cosa più drastica che si possa fare. 1 Privarla di questa storia è altrettanto drastico: avevo la sensazione di essere in balia delle onde su una nave priva di parapetti. Ho cominciato a cercare un’altra storia. È stato solo un po’ di tempo dopo, quando ho parlato per la prima volta con Joanne Cacciatore, una signora dell’Arizona, che ho intravisto il primo accenno di un approccio diverso al problema, approccio che avrebbe trasformato il viaggio in cui stavo per imbarcarmi. «Oh, tesoro» disse il medico a Joanne, «devi soltanto riguardarti un pochino». La paziente soffriva da tre settimane di contrazioni dolorosissime e riteneva di aver bisogno d’aiuto. Era stata molto diligente fin dall’inizio della gravidanza. Non aveva mangiato nemmeno un chewing-gum con l’aspartame perché temeva facesse male alla bambina. Così continuò a insistere: «Le contrazioni sono davvero dolorose. Non mi sembrano normali». Ma il medico insistette a sua volta: «Sì, invece». Quando finalmente Joanne andò in ospedale per partorire, «avevo già avuto tre figli, perciò conoscevo i suoni della sala travaglio» dice. Dunque intuì subito che qualcosa non andava. C’era un gran trambusto e l’équipe medica era visibilmente in preda al panico. Joanne aveva una contrazione della durata di un minuto, seguita da un’altra a distanza di trenta secondi. Mentre spingeva con tutte le sue forze, la informarono che avevano perso il battito della bambina. Cercò di spingere ancora più forte ed ebbe la sensazione di aver lasciato il proprio corpo e di vedere se stessa dall’esterno. «Ricordo […] di aver guardato me stessa. Mi tremavano le gambe. Mi tremavano e basta. Non riuscivo a smettere. Ho chiuso forte gli occhi quando è nata perché [...] volevo farla uscire il prima possibile». Non appena la bambina venne alla luce, i medici decisero – senza

interpellare Joanne – di non provare a rianimarla. La porsero all’allora marito della donna, che le disse dolcemente: «Abbiamo una bambina meravigliosa». In quel momento, «mi sono alzata a sedere» mi ha raccontato Joanne anni dopo. «In quell’istante sono diventata sua madre. Ho allungato le mani e ho detto: ‘Dammela’. Era perfetta. Quattro chili. Aveva rotoli di ciccia sotto le guance e intorno ai polsi minuscoli. Mio marito me l’ha messa tra le braccia. Pareva addormentata. Era uno strano accostamento di nascita e morte, fuse in un singolo momento [e] questo avrebbe cambiato il corso della mia vita. Sai» ha proseguito, «ho avuto molti lutti nella mia vita. Ho perso entrambi i genitori prima ancora di compiere quarant’anni. Ho perso la mia migliore amica». Però «non avevo mai immaginato di perdere mia figlia. È una cosa a cui non sarei mai riuscita a prepararmi. È semplicemente inconcepibile». Tre mesi dopo la morte della bambina, Joanne pesava quarantaquattro chili. «Non ero sicura che ce l’avrei fatta» ha ammesso. «Mi sentivo morire. Ogni giorno aprivo gli occhi – sempre che fossi riuscita a dormire – e dicevo: non voglio essere qui. Non voglio essere qui. Non voglio più stare così. Non ce la faccio più». L’autopsia fu inutile. «Non aveva difetti congeniti. La mia ipotesi è che […] il mio corpo abbia cercato di entrare in travaglio, ma che non ci sia stata nessuna dilatazione. L’unica cosa cui riesco a pensare è che sia stato il mio corpo a ucciderla, a soffocarla letteralmente. Così, come puoi immaginare, ho nutrito molto rancore nei suoi confronti per un lungo periodo […] La sola persona che potevo incolpare ero io stessa. Il mio corpo. Dovevo fare una cosa soltanto: partorire una bambina sana, ed era sana, dunque il problema non era suo, ma mio. Qualcosa era andato storto nel mio corpo. Ho cominciato a chiamarlo Giuda, perché avevo la sensazione che avesse tradito mia figlia e, di conseguenza, me». Negli anni seguenti, Joanne studiò psicologia clinica e alla fine diventò docente di servizio sociale all’Arizona State University. 2 La sua specializzazione era il lutto traumatico, le persone che hanno perso i loro cari nelle peggiori circostanze possibili. Mentre trattava pazienti che avevano vissuto esperienze analoghe alla sua, notò qualcosa di bizzarro. Poco dopo aver subito la perdita di una persona cara, molti si vedevano diagnosticare una depressione clinica e prescrivere psicofarmaci molto forti. Stava diventando la prassi. Così se (per ipotesi) tuo figlio era stato assassinato, il medico ti diceva che stavi male e che era necessario riequilibrare la tua chimica cerebrale. Per esempio una paziente di

Joanne, il cui figlio era morto di recente, aveva detto allo psicoterapeuta che ogni tanto le sembrava di sentirlo parlare. Non la angosciava, anzi le dava un po’ di conforto. Lo specialista, tuttavia, le aveva diagnosticato immediatamente una psicosi e prescritto degli antipsicotici. Joanne si accorse che quando i pazienti ricevevano queste diagnosi «iniziavano a mettere in discussione i propri sentimenti e a dubitare di se stessi, e questo li induceva a nascondersi ancora di più». Dopo aver perso il conto delle volte in cui succedeva, cominciò a esaminare come venisse diagnosticata la depressione e a pubblicare articoli scientifici su un suo aspetto particolare. Negli Stati Uniti, il modo in cui i medici devono identificare la depressione è descritto nel Manuale diagnostico e statistico (DSM), che è già arrivato alla quinta edizione ed è scritto da diverse équipe di psichiatri. È la Bibbia usata da quasi tutti i medici di base americani quando diagnosticano la depressione o l’ansia, e gode di enorme autorevolezza in tutto il mondo. Per ottenere una diagnosi di depressione occorre avere, quasi ogni giorno, almeno cinque sintomi su nove: per esempio, umore depresso, ridotto interesse per il piacere o senso di inutilità. Però, quando i medici adottarono questa checklist, scoprirono qualcosa di imbarazzante. Si dà il caso che quasi tutti coloro che hanno subito un lutto rispecchino i criteri clinici della depressione. Se ti limiti a usare la checklist, quasi chiunque abbia perso qualcuno dovrebbe ricevere una diagnosi inequivocabile di malattia mentale. Questo mise a disagio molti medici e psichiatri. Così gli autori del DSM inventarono una scappatoia, denominata «eccezione del lutto». 3 Si poteva, dissero, mostrare i sintomi della depressione e dell’ansia e non essere considerati malati mentali in una circostanza e una soltanto: se di recente si era subita la perdita di una persona cara. Dopo aver perso (per esempio) un figlio, una sorella o la madre, puoi avere questi sintomi per un anno prima di essere classificato come malato di mente. Se invece continuassi a essere profondamente angosciato dopo questo termine, ti verrebbe diagnosticato un disturbo mentale. Con il passare degli anni e la pubblicazione di diverse edizioni del DSM, questo limite temporale cambiò: fu ridotto a tre mesi, a un mese e infine a sole due settimane. «Per me, è il peggiore degli insulti» mi ha detto Joanne. «Non è solo un’offesa al lutto e alla relazione [con la persona che è morta], ma anche all’amore. Insomma, perché soffriamo? [Se] il mio vicino [che vive nella casa

di fronte alla mia] morisse e io non lo conoscessi, potrei dire: ‘Oh, mi dispiace per la sua famiglia’, ma non soffrirei. Quando invece amo la persona in questione, soffro eccome. Soffriamo perché l’amavamo». Dire che se il lutto dura oltre un limite temporale artificiale è una patologia, una malattia da trattare con i farmaci, equivale – a suo parere – a negare l'essenza della natura umana. Joanne aveva una paziente la cui figlia era stata rapita al parco durante il primo semestre al college e bruciata viva. Come possiamo dire a questa madre che ha un disturbo mentale, mi ha domandato, perché soffre ancora a distanza di anni? Eppure è questo il messaggio del DSM. Lungi dall’essere irrazionale, dice Joanne, il dolore del lutto è necessario. «Non voglio nemmeno riprendermi dalla sua morte» riferisce riguardo alla figlia Chayenne. «Restare legata al dolore della sua morte mi aiuta a fare il mio lavoro con il cuore pieno di compassione» e, per quanto possibile, a vivere fino in fondo. «Ho recuperato il rimorso e la vergogna che provavo, e il senso di tradimento, rendendomi utile agli altri» mi ha raccontato, mentre alcuni dei cavalli che aveva salvato correvano in un campo alle sue spalle. «Così, in un certo senso, questo è un modo per farmi perdonare, per chiederle scusa ogni giorno. Mi dispiace non averti messa al mondo sana e salva, perciò porterò il tuo amore nel mondo». Quell’esperienza l’aveva sensibilizzata al dolore degli altri. «Mi rende più forte» dichiara, «anche nei punti più vulnerabili». L’eccezione del lutto rivelò qualcosa che metteva molto a disagio gli autori del DSM, il distillato del pensiero psichiatrico tradizionale. Nel loro manuale ufficiale erano stati costretti ad ammettere che è ragionevole – e forse addirittura necessario – mostrare i sintomi della depressione in una particolare circostanza. Una volta fatta questa concessione, però, sorge una domanda ovvia. 4 Perché la morte è l’unico evento della vita in cui la depressione è una reazione ragionevole? Perché non dopo che tuo marito ti ha lasciata dopo trent’anni di matrimonio? Perché non se sei imprigionato per i prossimi trent’anni in un lavoro noioso che detesti? Perché non se hai finito per diventare un senzatetto e ti sei ritrovato a dormire sotto i ponti? Se è ragionevole in una circostanza, potrebbe esserlo anche in altre? Il quesito mette fuori uso il timone della barca su cui gli psichiatri del DSM veleggiano da tempo. D’un tratto la vita – con tutta la sua complessità – comincia a tradursi in una diagnosi di depressione e di ansia. Non può essere solo

questione di squilibrio chimico, confermato dalle checklist di sintomi. Dovrebbe essere considerata una reazione alle circostanze. Continuando a indagare l’eccezione del lutto, Joanne Cacciatore si convinse che rivelasse un errore di fondo, insito nella nostra visione culturale del dolore, ben al di là del lutto. Non «prendiamo in considerazione il contesto» mi ha detto. 5 Ci comportiamo come se l’angoscia umana si potesse valutare unicamente con una checklist che si può estrapolare dalla nostra vita, ed etichettare come malattia mentale. A quel punto le ho confidato che nei tredici anni in cui i medici mi avevano prescritto dosi sempre maggiori di antidepressivi, nessuno mi aveva mai chiesto se avessi un motivo per provare angoscia. Non sei l’unico, ha replicato, ed è un disastro. Il messaggio che i dottori mi avevano trasmesso – il dolore non è altro che il risultato di un cervello mal funzionante – ci «disconnette da noi stessi, il che sfocia nella disconnessione dagli altri». Se iniziassimo a tenere conto della vita effettiva delle persone quando trattiamo la depressione e l’ansia, ha aggiunto, servirebbe «una revisione completa del sistema». Ci sono molti psichiatri bravi e onesti che vogliono ragionare in questo modo più profondo, ha sottolineato, e che riescono a vedere i limiti del nostro attuale operato. Invece di dire che il dolore è uno spasmo irrazionale da lenire con i farmaci, capiscono che dovremmo cominciare ad ascoltarlo e a decifrarne il messaggio. Il più delle volte, ha continuato Joanne, dovremmo smettere di parlare di ‘salute mentale’ – un termine che evoca immagini di TAC al cervello e di sinapsi difettose – e parlare piuttosto di ‘salute emotiva’. «Perché la chiamiamo salute mentale?» mi ha chiesto. «Perché vogliamo conferirle un carattere scientifico. Vogliamo farla sembrare scientifica. Ma si tratta delle nostre emozioni». Lei, mi ha spiegato, non si avvicina ai pazienti con una checklist, bensì dicendo: «Raccontami la tua storia. Oddio… che dramma. Probabilmente proverei le stesse cose se fossi nella tua situazione. Probabilmente avrei la stessa ‘sintomatologia’. […] Guardiamo il contesto». Certe volte l’unica cosa che tu possa fare per una persona è abbracciarla. Un giorno, la madre la cui figlia era stata bruciata viva era andata da lei piangendo e urlando di dolore. Leu si era seduta sul pavimento, l’aveva stretta forte e le aveva permesso di sfogarsi e, in seguito, la paziente aveva provato un po’ di sollievo, perché aveva capito di non essere sola. A volte è il massimo che possiamo fare. Ed è già molto. Talvolta, come avrei scoperto in seguito, quando ascolti il dolore e lo vedi

nel suo contesto, ti indica una via per uscirne. Oggi il nostro approccio è, mi ha detto Joanne, «come mettere un cerotto su un arto amputato. [Quando] una persona che sta provando un’angoscia lacerante, [dobbiamo] smettere di trattare i sintomi. Essi segnalano un disturbo più profondo. Andiamo a indagare quello». Da decenni, dunque, nel cuore della Bibbia della psichiatria c’era una frattura. Il pubblico riceveva due messaggi contrastanti: uno raccontava che i sintomi della depressione erano il risultato diretto di uno squilibrio chimico nel cervello, cui si doveva porre rimedio con i farmaci. Secondo l'altro, in qualche modo e allo stesso tempo i sintomi della depressione erano la reazione a un evento terribile della vita, e in quell’unico caso la causa non era lo squilibrio chimico e i farmaci non erano la soluzione. Questa frattura scombussolò molte persone. Sollevava troppe domande. Gli studiosi come Joanne riuscirono a sfruttarla per stimolare discussioni che molti non volevano sostenere. Così gli psichiatri che scrissero la quinta e più recente edizione del DSM, pubblicata nel 2015, trovarono una soluzione: eliminarono l’eccezione del lutto. Nella nuova versione non c’è. C’è soltanto la checklist dei sintomi, seguita da una vaga nota a piè di pagina. 6 Così ora, se il tuo bambino muore e l’indomani vai dal medico perché soffri di profonda angoscia, «ricevi una diagnosi immediata», mi ha spiegato Joanne. Il modello fu quindi conservato. La depressione è qualcosa che si può trovare su una checklist. Se barri le caselle, sei malato di mente. Non cercare il contesto. Cerca i sintomi. Non chiedere cosa stia succedendo nella vita del paziente. Ragionare in questo modo, mi ha detto Joanne, l’aveva indotta a credere che «siamo una cultura assolutamente disconnessa e non comprendiamo la sofferenza». Mi ha guardato e ho riflettuto su tutto ciò che aveva passato e sugli insegnamenti che ne aveva tratto. Ha battuto le palpebre e ha ripetuto: «Non la comprendiamo, basta». Molto tempo dopo aver parlato con Joanne – e dopo aver svolto molte altre ricerche – ho riascoltato l’audio della sua intervista. Cominciavo a pensare che ci fosse qualcosa di significativo nel fatto che il lutto e la depressione avessero gli stessi sintomi. Poi un giorno, dopo aver intervistato diverse persone depresse, mi sono chiesto: e se la depressione fosse, in realtà, una forma di lutto, dovuta al fatto che la nostra vita non va come dovrebbe? E se fosse una forma di lutto per le connessioni che abbiamo perso, ma di cui

abbiamo ancora bisogno? Per capire come sia arrivato a farmi questa domanda, però, dobbiamo fare un passo indietro, fino al momento in cui venne compiuto un passo fondamentale nella comprensione scientifica della depressione e dell’ansia.

4. La prima bandiera sulla Luna

Nel secondo dopoguerra, una ragazza sui vent’anni, che aveva partorito da poco, camminava tra le rovine di Kensal Rise. 1 Il quartiere era un sobborgo operaio di West London, in parte raso al suolo dai bombardamenti nazisti. La giovane procedette verso il Grand Canal. Una volta lì, si gettò nelle acque torbide. Nei mesi e negli anni successivi, nessuno accennò alla sua depressione. Scese il silenzio. Era tabù chiedere perché le persone cadessero in un’angoscia così disperata. In una casa poco lontana viveva un adolescente di nome George Brown. La donna che era morta era una sua vicina e, quando Brown si era beccato un’infezione intestinale, in un mondo senza antibiotici, la ragazza si era presa cura di lui per mesi in quei miseri alloggi claustrofobici. «Era una persona molto premurosa» mi ha raccontato Brown settantun anni dopo, sorridendo al ricordo. «Così quella è stata una delle mie primissime esperienze. All’epoca c’erano sentimenti molto forti – la vergogna – associati alla depressione». L’ha ripetuto anche dopo: «Questo disturbo era causa di profonda vergogna. Anzi, veniva passato sotto silenzio» ha aggiunto. Questo l’aveva sconcertato, anche se non ci aveva riflettuto bene finché non aveva compiuto trentasei anni e non era stato sul punto di fare una scoperta straordinaria. 2 All’inizio degli anni Settanta Brown tornò in un quartiere operaio di Londra, molto simile a quello in cui era cresciuto, per indagare su un mistero. Perché così tante persone sprofondavano nella depressione come la sua vicina? Cosa la provocava? All’epoca il silenzio ammantava ancora non solo la singola vittima, ma la società in generale. Quando i professionisti discutevano di depressione lontano dallo sguardo del pubblico, c’era una spaccatura tra due visioni contrastanti. 3 La si può immaginare all’incirca come la differenza tra il paziente sdraiato sul lettino davanti a Sigmund Freud e un cervello sezionato. I freudiani sostenevano da quasi un secolo che la spiegazione per questo tipo di angoscia si poteva trovare soltanto nella vita personale del soggetto

depresso, in particolare nella prima infanzia. L’unico modo per affrontarla era esplorarla attraverso la terapia individuale, che permetteva di ricostruire gli accadimenti e di creare una storia migliore con cui l’individuo potesse raccontare la sua vita. In reazione a questo approccio, molti psichiatri avevano iniziato a sostenere invece che la depressione era semplicemente un guasto nel cervello o nel corpo della persona – un malfunzionamento interno – e dunque cercare ragioni più profonde nella storia della sua vita equivaleva a uscire dal seminato. Era chiaramente un disturbo fisico, con una causa fisica. Brown aveva sempre sospettato che ci fosse qualcosa di vero in entrambe queste prospettive, ma che nessuna delle due fosse esauriente. Pareva, pensò, che la questione nascondesse altri aspetti. Ma quali? Non aveva studiato medicina o psichiatria, bensì antropologia, una disciplina in cui osservi una cultura da spettatore esterno e cerchi di capire come funziona. In altre parole, mi ha raccontato, aveva iniziato a lavorare in un centro di trattamento psichiatrico a South London quando era ancora «completamente all’oscuro» di ciò che riguardava la depressione, e ora ritiene «che sia stato un grande vantaggio. Non avevo idee preconcette [e quindi] fui costretto ad avere un approccio aperto». Cominciò a leggere gli studi scientifici che erano stati condotti fino a quel momento e rimase colpito dall’esigua quantità di dati. «Ho avuto l’impressione» mi ha confessato «che ci fosse molta ignoranza». Le teorie venivano formulate perlopiù di nascosto e si basavano su aneddoti personali o su ipotesi astratte. «Gli studi [effettuati] parevano davvero insufficienti» ha affermato. Ormai la posizione medica ufficiale della depressione era una via di mezzo tra le due fazioni rivali. 4 La comunità scientifica tradizionale aveva dichiarato che esistevano due tipi di depressione. Il primo si presentava quando il cervello o il corpo iniziavano spontaneamente a funzionare male: i ricercatori l’avevano battezzato ‘depressione endogena’. 5 Ma c’erano anche, avevano aggiunto, forme causate da un evento negativo nella vita personale, cui avevano dato il nome di ‘depressione reattiva’. Tuttavia nessuno sapeva a cosa avrebbero dovuto reagire i soggetti colpiti da depressione ‘reattiva’, o dove si collocasse il confine tra i due diversi tipi, o addirittura se quella distinzione avesse senso. Per scoprire come stavano davvero le cose, concluse Brown, occorreva fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto su scala significativa. Bisognava

condurre un’adeguata indagine scientifica sulle persone depresse o molto ansiose, usando tecniche vagamente simili a quelle che si userebbero (per esempio) per capire perché il colera si diffonde o come si contrae la polmonite. 6 Così iniziò a pianificare una strategia. Mentre Brown camminava lungo le vie del distretto di Camberwell, a South London, il trambusto della città sembrava lontano anni luce. Il quartiere era a soli tre chilometri dal centro di Londra, ma l’unica cosa che lo testimoniasse era la guglia della cattedrale di Saint Paul in lontananza. Superò alcune bellissime dimore vittoriane, quindi percorse vecchie strade degradate, abbandonate una dopo l’altra man mano che le autorità ordinavano la demolizione delle catapecchie. Le case a schiera che aveva conosciuto da bambino venivano sgomberate e abbattute per far posto ai grandi palazzi di cemento che iniziavano a trafiggere la skyline di Londra. Quando finalmente trovò una casa abitata, la proprietaria gli disse che quella settimana aveva dovuto chiamare i vigili del fuoco tre volte perché, durante gli sgomberi, i ragazzini avevano incendiato la spazzatura. In collaborazione con i servizi psichiatrici locali, Brown aveva organizzato un progetto di ricerca senza precedenti. Per molti anni, lui e il suo team avrebbero monitorato e imparato a conoscere due gruppi di donne. Il primo era formato da pazienti cui gli psichiatri avevano diagnosticato una depressione. Erano centoquattordici in tutto, e il compito dei ricercatori era condurre interviste approfondite, a domicilio, e raccogliere alcuni dati fondamentali. 7 In particolare, volevano esaminare cosa fosse successo nella loro vita durante l’anno precedente l’esordio della depressione. Quel periodo era cruciale, per ragioni che spiegherò tra un momento. Allo stesso tempo, selezionarono a caso un secondo gruppo: 344 donne ‘normali’ di Camberwell, della stessa fascia di reddito, che non erano state giudicate depresse. Le intervistarono ripetutamente a domicilio per verificare quali cose positive e negative accadessero nella loro vita in un anno tipo. Il segreto per individuare le cause della depressione, sospettava Brown, si nascondeva nel confronto tra i due gruppi. 8 Immaginate di indagare qualcosa di davvero casuale, per esempio l’eventualità di essere colpiti da una meteora. Se studiaste cos’è successo nell’anno prima dell’incidente alle persone che sono state vittime di questo evento, e se confrontaste i dati con un anno tipo nella vita di individui che l’hanno scampato, arrivereste allo stesso risultato. L’incidente non ha nulla a che vedere con fattori più generali nell’esistenza dei membri del primo

gruppo: sono semplicemente vittime di un masso che cade dallo spazio. Molti pensavano allora – e pensano oggi – che la depressione e l’ansia fossero fatte così: un colpo fortuito di sfortuna chimica, che accade nel nostro cranio anziché nella nostra vita. La ricerca avrebbe dimostrato se avessero ragione. In questo caso, Brown non avrebbe riscontrato alcuna differenza tra la vita delle donne depresse e quella delle donne non depresse nell’anno decisivo prima dell’insorgere della depressione. E se invece ci fosse stata una differenza? Brown sapeva che, se fosse riuscito a scoprirla, sarebbe stata una rivelazione davvero importante. Ci avrebbe dato degli indizi sulle cause della depressione. Il disturbo dipendeva solo dal fatto che le donne depresse avessero avuto una prima infanzia o una vita personale difficile, come sostenevano i freudiani? Oppure c’era dell’altro? Se sì, cosa? Così Brown e il suo team – tra cui la giovane ricercatrice e psicoterapeuta Tirril Harris – andarono a casa delle partecipanti, si sedettero e approfondirono la loro conoscenza. Le intervistarono minuziosamente. Quindi se ne andarono e valutarono la loro vita secondo criteri molto accurati, usando complessi metodi statistici e di raccolta dei dati che avevano concordato all’inizio dello studio. Stavano creando un database per un enorme numero di fattori, qualunque cosa potesse, a loro parere, anche solo presumibilmente influire sulla depressione. Un giorno Tirril fece visita alla signora Trent, 9 che viveva al pianterreno di una tipica casa a due piani del quartiere. Era sposata con un camionista e vivevano in quella casetta con i loro tre bambini, tutti di età inferiore a sette anni. Quando Tirril la incontrò, la donna disse di non riuscire a concentrarsi neppure quanto bastava per leggere il giornale. Non aveva più voglia di mangiare né di fare sesso. Piangeva quasi tutto il giorno. Aveva la sensazione che il suo corpo fosse fisicamente bloccato dalla tensione, ma non sapeva il perché. Da sei settimane restava a letto da mattina a sera, apatica, sperando che il mondo scomparisse. Quando i ricercatori impararono a conoscere la signora Trent, scoprirono che poco prima dell’esordio della depressione era successo qualcosa. Subito dopo la nascita del terzo figlio, il marito aveva perso il lavoro. La moglie non si era preoccupata troppo, e il signor Trent aveva trovato un altro posto di lì a qualche settimana, ma poi era stato licenziato senza motivo apparente. La donna si era convinta che fossero arrivate le referenze dell’ex capo e che fossero negative. Il marito era rimasto disoccupato. Siccome nella

Camberwell dell’epoca era tabù che le madri lavorassero, la famiglia era precipitata nell’insicurezza cronica. Come avrebbero tirato avanti? Il matrimonio era «finito», disse Tirril a Brown, ma cosa poteva fare? La donna continuava a fare le valigie e ad andarsene, ma non si spingeva mai oltre la fine della strada. Dove poteva rifugiarsi? «Ricordo ancora quanto fossero toccanti le interviste» mi ha detto Brown durante il nostro incontro. «In generale, quelle donne non erano abituate a parlare di sé. Ecco qualcuno che aveva mostrato interesse per loro e che le aveva ascoltate». Notò che «era importante per le donne, nel complesso. Inoltre le storie che raccontavano avevano un senso […] Le partecipanti sapevano di soffrire e di essere in difficoltà». Molte di loro erano come la signora Trent, e i due modelli di depressione che erano esistiti fino a quel momento non sembravano sufficienti per descrivere la loro condizione. Magari c’era un problema nel loro cervello o nel loro corpo; sicuramente c'era un problema nella loro vita personale. Secondo Brown, tuttavia, la depressione era stata scatenata da qualcosa di più grande. Lo studioso, però, non sarebbe riuscito a descriverlo meglio finché non avesse letto i risultati. La prima cosa che i ricercatori chiedevano alle partecipanti era se avessero subito perdite gravi o eventi davvero negativi nell’anno precedente l’inizio della depressione. Le donne accennavano spesso a un’intera serie di episodi orribili: un figlio finito in carcere, un marito cui era stata diagnosticata la schizofrenia, un bambino nato con una grave disabilità. Brown e Tirril adottarono criteri rigorosi per classificare la ‘gravità’ nei dati raccolti. Una donna disse che il suo cane era stato come un figlio e che la sua vita ruotava intorno a lui. L’animale era morto, ma il team non lo considerò un evento grave, così escluse il caso. Allo stesso tempo, gli studiosi esaminarono altri elementi che secondo loro potevano influire sulla salute mentale nel corso degli anni, ma che non contavano veramente come eventi straordinari. Li divisero in due categorie. Denominarono la prima categoria ‘difficoltà’ e vi inserirono problemi cronici in corso, come un matrimonio fallito, una casa fatiscente, la necessità di allontanarsi dalla propria comunità e dal proprio quartiere. 10 La seconda era l’esatto contrario e comprendeva gli ‘stabilizzatori’, gli aspetti che, secondo il team, potevano aiutare il soggetto e proteggerlo dalla disperazione. Per questo, gli studiosi registrarono attentamente quanti buoni amici avessero le donne e quanto fosse solida la loro relazione con il partner.

Dopo aver pazientemente raccolto le prove per anni, parlando con una partecipante dopo l’altra e tornando da ciascuna a distanza di lunghi periodi, alla fine i ricercatori iniziarono ad analizzare le cifre. Passarono mesi a cercare di interpretare i dati. Nel frattempo sentirono su di sé il peso della responsabilità. Era la prima volta che le prove scientifiche venivano raccolte in questo modo. Se la storia che il mio medico mi raccontò quando ero teenager – la depressione è causata da una semplice carenza di serotonina nel cervello anziché da un evento della vita – fosse stata vera, non si sarebbe delineata alcuna differenza tra i due gruppi. Tirril elaborò i risultati. Tra le donne che non erano depresse, il 20 per cento circa aveva vissuto un grave evento negativo l’anno precedente. Tra le partecipanti che erano depresse, il 68 per cento circa aveva vissuto un grave evento negativo nei dodici mesi prima dell’esordio del disturbo. Un divario del 48 per cento, molto più alto di quello imputabile al caso. 11 Ciò dimostrava che un’esperienza davvero stressante poteva causare la depressione. Questo, tuttavia, era solo il primo risultato. Emerse che, rispetto alle partecipanti non depresse, le depresse avevano il triplo delle probabilità di incappare in gravi fattori di stress a lungo termine nell’anno precedente l’insorgere della depressione. A provocare il disturbo non era solo un evento negativo, ma anche l’esposizione prolungata a una fonte di stress. E se avevi alcuni stabilizzatori positivi nella vita, le probabilità di cadere in depressione si riducevano drasticamente. Per ogni buon amico che avevi, o se il partner ti dava più sostegno e più premure, la depressione scendeva in picchiata. Così Brown e Tirril avevano scoperto che due elementi rendevano la depressione molto più probabile – vivere un grave evento negativo ed essere esposti a fonti di stress e di insicurezza a lungo termine – ma il risultato più sorprendente era ciò che accadeva quando questi due fattori si sommavano. Le probabilità di diventare depressi non si limitavano ad aumentare, ma addirittura esplodevano. Per esempio, se non avevi alcun amico né un partner premuroso, le probabilità di cadere in depressione dopo un grave evento negativo erano pari al 75 per cento. 12 L’insorgere del disturbo era quasi scontato. Emerse che ogni fatto negativo, ogni fonte di stress e ogni mancanza di sostegno moltiplicavano il rischio di depressione in misura esponenziale. Era

come mettere un fungo in un posto buio e umido. Non sarebbe semplicemente cresciuto più di quanto avrebbe fatto in un luogo solo buio o solo umido. Si sarebbe gonfiato più di quanto sarebbe successo in queste due circostanze messe insieme. Brown non aveva previsto un effetto così marcato. Mentre i ricercatori cercavano di venire a capo di questi risultati, ripensarono alle donne che avevano conosciuto in tutti quegli anni. Avevano dimostrato che la depressione era, in realtà, perlopiù un problema riguardante la vita, non il cervello. Dopo la pubblicazione dello studio, un professore, riassumendo il giudizio collettivo, lo definì un «salto quantico» 13 nella nostra concezione di questi disturbi. La nostra cultura ci insegna che la depressione è una forma estrema di irrazionalità: è questa la sensazione che trasmette, sia dall’interno sia dall’esterno. Invece Brown e Tirril erano arrivati alla conclusione che, come scrissero all’epoca, «la depressione clinica è una reazione comprensibile alle avversità». 14 Pensate alla signora Trent, intrappolata in un matrimonio morto con un disoccupato, costretta ad arrabattarsi per sopravvivere, senza prospettive di una vita migliore. Era certa che la sua esistenza sarebbe stata per sempre una lotta triste e stressante. Non sembrava più sensato, si domandarono i due scienziati, dire che la ‘colpa’ della sua depressione andava ricercata ‘nell’ambiente anziché nella persona’? 15 Leggendo lo studio, mi sono reso conto di quanto fosse solida la loro logica, ma ho sollevato un’obiezione ovvia. In quel momento non vivevo in un quartiere degradato nella peggiore zona di Londra, né vi avevo mai vissuto in alcuna fase della mia depressione. La mia vita non era mai stata come quella della signora Trent, e nemmeno i miei conoscenti depressi vivevano in povertà. Cosa significavano i risultati della ricerca per le persone come noi? Esaminando i numeri, Brown e Tirril scoprirono che i poveri avevano più probabilità di cadere in depressione ma, secondo i dati, era troppo approssimativo dire che la povertà causava la depressione. No: stava succedendo qualcosa di più impercettibile. I poveri erano più a rischio perché, in media, affrontavano un maggiore stress a lungo termine, perché la loro vita era costellata di più eventi negativi e perché avevano meno stabilizzatori. Gli insegnamenti di base, tuttavia, erano validi per tutti: ricchi, membri del ceto medio e poveri. Tutti perdiamo la speranza quando siamo sottoposti a un grave stress, o quando ci accade qualcosa di orribile ma, se lo stress o gli eventi negativi si protraggono per un lungo periodo, la

conseguenza è «la generalizzazione della disperazione», mi ha spiegato Tirril. Lo sconforto si estende a tutta la tua vita, 16 a macchia d'olio, e cominci ad aver voglia di arrenderti. Anni dopo, alcuni team di esperti di scienze sociali usarono le stesse tecniche di Brown e Tirril per indagare le cause della depressione in luoghi totalmente diversi, come la campagna basca e lo Zimbabwe rurale. 17 Scoprirono che questi fattori scatenavano la depressione – o proteggevano gli individui da questo disturbo – in qualunque parte del pianeta. Nella Spagna rurale, la depressione era estremamente rara grazie a una comunità coesa che sosteneva le persone e a un’assenza quasi totale di esperienze traumatiche. Nello Zimbabwe, invece, era estremamente diffusa perché gli individui vivevano spesso esperienze traumatiche: per esempio, se eri una donna e non potevi avere figli, potevano buttarti fuori di casa e dalla comunità (sono andato nello Zimbabwe rurale mentre scrivevo questo libro, e l’ho visto con i miei occhi). Ovunque tu fossi nel mondo, conclusero i ricercatori, questi elementi erano determinanti per l’insorgere o meno della depressione. A quanto pareva, avevano individuato i primi veri ingredienti segreti di questo disturbo. Eppure, dopo tutto questo lavoro, erano certi di aver trascurato qualcosa. Ma cosa? Quando i due ricercatori pubblicarono i risultati dello studio, la reazione degli psichiatri non tardò ad arrivare. Abbiamo sempre detto, dichiararono, che alcuni soggetti diventano depressi a causa degli eventi della vita. Sono gli individui colpiti da ‘depressione reattiva’. Okay, avete ampliato le nostre conoscenze su di loro: tanto di cappello. Ma c’è ancora un enorme numero di persone che sono depresse per ragioni fisiche, cioè affette da ‘depressione endogena’. Nel loro caso, il fattore scatenante è un malfunzionamento interno. Brown e Tirril spiegarono però che, fin dall’inizio, avevano studiato donne appartenenti a entrambe le categorie e che, confrontando i risultati, non avevano rilevato alcuna differenza. Entrambi i gruppi, nella stessa percentuale, avevano delle cose che non funzionavano nella loro vita. La distinzione, conclusero, non aveva senso. 18 «Insomma, oggi sembra davvero incredibile aver dovuto convincere le persone che gli eventi della vita influissero [sulla depressione e sull’ansia], sai?» mi ha detto Tirril, coautrice della ricerca, nello studio a North London

dove fa ancora la psicoterapeuta. Le ho chiesto cosa risponderebbe a chi pensa che la depressione dipenda quasi esclusivamente da cause interne, o dal cervello, come i medici avevano detto alla mia generazione. Ha aggrottato le sopracciglia. «Un organismo non può esistere senza ambiente, perciò è impossibile» ha affermato. «Credo che siano un po’ ignoranti, ecco tutto». Ha sorriso pazientemente. «Insomma, ci sono moltissime persone al mondo che hanno opinioni errate, e ci fai l’abitudine». Anni dopo, Tirril usò le stesse tecniche per effettuare uno studio sull’ansia 19 e ottenne risultati analoghi. Il disturbo non era provocato solo da un problema nel cervello, ma da un problema nella vita. Brown e Tirril credevano che la loro ricerca nelle vie di South London avesse soltanto scalfito la superficie. C’erano molte altre domande da fare. Erano consapevoli di aver trascurato diversi fattori nella vita dei soggetti depressi e ansiosi. Cosa avrebbero dovuto studiare adesso? Stavano piantando la prima bandiera sulla luna delle indagini riguardanti le cause sociali della depressione e dell’ansia. Si aspettavano che presto sarebbero decollate altre navicelle spaziali, pronte a lanciare nuove sonde. E poi… per quanto concerneva la divulgazione di queste idee al pubblico, scese il silenzio. Le altre navicelle non arrivarono mai. Rimase la loro bandiera, in uno spazio senza vento. Il dibattito pubblico sulla depressione si concentrò, nel giro di qualche anno, sulla scoperta dei nuovi antidepressivi e sulla prevenzione del disturbo dentro il cervello anziché fuori, nella società. Il discorso si spostò dalle cause dell’infelicità esistenziale al tentativo di bloccare i neurotrasmettitori cerebrali che ci permettono di sentirla. Tuttavia, anche se con dei limiti, Brown e Tirril ebbero la meglio. Di lì a qualche anno, le prove sperimentali che dimostravano come i fattori ambientali fossero un aspetto fondamentale della depressione e dell’ansia iniziarono ad accumularsi senza sosta, fino a diventare innegabili in quasi tutti i contesti scientifici. Questi risultati finirono ben presto per essere una componente chiave della formazione psichiatrica in molte parti del mondo occidentale. Quasi tutti i corsi tradizionali cominciarono a insegnare che le forme di disagio mentale come la depressione e l’ansia avevano tre tipi di cause, tutti e tre reali: biologiche, psicologiche e sociali. 20 Si parla di ‘modello bio-psico-sociale’. 21 È semplice. Tutti e tre gli insiemi di fattori sono rilevanti e, per capire la depressione e l’ansia di un soggetto, occorre considerarli insieme.

Queste intuizioni geniali, però, rimasero circoscritte all’ambito dei ricercatori, inaccessibili al pubblico cui avrebbero potuto essere utili. Non furono comunicate alle file sempre più numerose di individui depressi e ansiosi e non influirono sul loro trattamento. Il pubblico non venne mai a conoscenza della principale implicazione di questi studi. Brown e Tirril avevano concluso che quando si tratta di depressione e di ansia, «prestare attenzione all’ambiente del soggetto può rivelarsi efficace quanto la terapia fisica». 22 Nessuno chiese loro come procedere o quali cambiamenti ambientali avrebbero alleviato i disturbi. Erano domande che sembravano troppo grandi, troppo rivoluzionarie. Vengono ignorate tuttora; in seguito ho iniziato a interrogarmi sul perché. La ricerca condotta a Camberwell fu – ora me ne rendo conto – un momento in cui la storia dello studio della depressione avrebbe potuto prendere una direzione molto diversa. La ricerca venne pubblicata nel 1978, l’anno prima della mia nascita. Se il mondo avesse ascoltato Brown e Tirril, quando andai nel suo studio, diciotto anni dopo la pubblicazione, il medico mi avrebbe raccontato una storia molto diversa sulle ragioni del mio dolore e su come ritrovare il benessere. Quando l'ho salutato dopo una delle nostre lunghe conversazioni, Brown mi ha detto che avrebbe passato il resto della giornata lavorando sul suo ultimo articolo scientifico, continuando a scavare a fondo nelle cause della depressione. Quando l’ho conosciuto, aveva ottantacinque anni, perciò, disse, probabilmente sarebbe stato il suo ultimo progetto di ricerca, ma non intendeva fermarsi. Mentre si allontanava, ho ripensato alla sua vicina, 23 che si è suicidata in silenzio anni fa. Abbiamo ancora molte cose da capire, mi aveva detto Brown. Perché dovrebbe smettere proprio ora?

PARTE SECONDA

La disconnessione: nove cause della depressione e dell’ansia

5. Raccogliere la bandiera (introduzione alla Parte Seconda)

Dopo aver scoperto tutto questo, ho iniziato a seguire la pista che si snodava dalla ricerca di George Brown e Tirril Harris verso il resto del mondo. Volevo sapere chi altri avesse studiato le dimensioni apparentemente nascoste della depressione e dell’ansia e come quei risultati avrebbero potuto essere utili per contrastare i due disturbi. In tutto il pianeta, ho scoperto negli anni seguenti, c’erano scienziati sociali e psicologi che avevano raccolto la lacera bandiera di Brown e Tirril. 1 Li ho intervistati da San Francisco a Sydney, da Berlino a Buenos Aires, e sono arrivato a considerarli una specie di movimento clandestino della depressione e dell’ansia, capace di ricostruire una storia più complessa e più veritiera. Soltanto dopo aver parlato a lungo con questi esperti mi sono reso conto che tutte le cause sociali e psicologiche della depressione e dell’ansia individuate finora hanno qualcosa in comune. Sono tutte forme di disconnessione. Sono tutti modi in cui siamo stati tagliati fuori da qualcosa di cui abbiamo un bisogno innato, ma che sembriamo aver perso strada facendo. Dopo aver indagato questi due disturbi per diversi anni, sono riuscito a identificare nove cause. Ci tengo a precisare che non penso siano le uniche. Ce ne saranno altre che non sono ancora state individuate (o in cui non mi sono imbattuto durante le mie ricerche). Non sto dicendo nemmeno che ogni persona depressa o ansiosa osserverà tutti questi fattori nella sua vita. Io, per esempio, ne ho riscontrati alcuni, ma non tutti. Ma seguire questa pista avrebbe cambiato la mia visione di alcuni dei miei sentimenti più profondi.

6. Prima causa: la disconnessione dal lavoro gratificante

Joe Phillips 1 non vedeva l’ora che la giornata finisse. Se foste entrati nel negozio di vernici di Philadelphia in cui lavorava e aveste chiesto cinque litri di una particolare sfumatura, vi avrebbe invitati a sceglierla dalla cartella colori e l’avrebbe preparata. La procedura era sempre la stessa. Joe aggiungeva un goccio di pigmento al bidone, metteva il bidone in una macchina che assomigliava un po’ a un microonde, e la macchina lo miscelava vigorosamente per rendere uniforme il colore. Poi Joe incassava i soldi dicendo: «Grazie, signore». Aspettava il cliente successivo e faceva la stessa cosa. Quindi aspettava il cliente successivo, e faceva la stessa cosa. Tutto il giorno. Tutti i giorni. Prendi l’ordine. Miscela la vernice. Di’: «Grazie, signore». Aspetta. Prendi l’ordine. Miscela la vernice. Di’: «Grazie, signore». Aspetta. E così via. Nessuno notava mai se Joe facesse il suo lavoro bene o male. Il suo capo si accorgeva di lui solo quando arrivava in ritardo, e in quelle occasioni lo subissava di urla. Alla fine di ogni turno Joe pensava: «Ho la sensazione di non aver fatto la differenza nella vita di nessuno». L’atteggiamento dei titolari, mi ha detto, era: «Devi farlo in questo modo e devi presentarti a quest’ora. Fallo, e andrà tutto bene». Ma, mi ha confidato, si ritrovava a domandarsi: «Che fine ha fatto la capacità di cambiare? Di crescere? Di avere un impatto sull’azienda per cui lavoro? Chiunque può arrivare in orario e fare quello che gli dici di fare». Aveva l’impressione che i suoi pensieri, intuizioni e sentimenti umani fossero quasi un difetto. Eravamo a cena in un ristorante cinese e, ogni volta

che mi parlava del suo stato d’animo, subito dopo se ne pentiva. «Ci sono persone là fuori che venderebbero l’anima al diavolo pur di avere questo lavoro, e le capisco. Sono grato di essere stato assunto». Lo stipendio era decoroso e gli permetteva di vivere con la sua ragazza in un appartamento carino. Joe conosceva molte persone che non avevano nulla di tutto questo. Si sentiva in colpa per ciò che provava, ma non riusciva a liberarsene. E miscelava altra vernice. E miscelava altra vernice. E miscelava altra vernice. «La monotonia nasce dalla costante sensazione di fare cose che non hai voglia di fare» mi ha detto. «Dov’è la felicità? Non sono abbastanza intellettuale per riuscire a spiegarlo, ma avevo sempre l'impressione […] di aver bisogno di qualcosa che riempisse il vuoto. Anche se non ero in grado di identificare la vera natura di quel vuoto». Usciva di casa alle sette del mattino, lavorava tutto il giorno e rientrava alle sette di sera. Aveva cominciato a farsi delle domande. «Ti spari quaranta o cinquanta ore di lavoro la settimana e, se non ti piace veramente, diventi il candidato perfetto per la depressione e l’ansia. E ti chiedi: perché lo faccio? Deve pur esserci qualcosa di meglio». Ha iniziato a credere, ha aggiunto, che non ci fosse «alcuna speranza. A cosa serve?... Uno ha bisogno di stimoli». Ha scrollato leggermente le spalle; penso che dirlo lo mettesse in imbarazzo. «Devi sapere che la tua voce conta qualcosa. Devi sapere che se hai un’idea, puoi esprimerla e fare la differenza». Non aveva mai avuto un lavoro così e temeva che non l’avrebbe mai trovato. Se passi molte ore a intontirti per tirare la fine della giornata, è difficile, mi ha spiegato, smettere quando arrivi a casa e dedicarti alle persone cui tieni. Aveva cinque ore per se stesso prima di andare a dormire e poi ricominciare a miscelare vernici. Aveva voglia soltanto di crollare davanti alla tv o di restare solo. Nei weekend non faceva altro che bere e guardare le partite. Un giorno mi ha contattato perché aveva ascoltato alcuni dei miei discorsi online e voleva discutere dell’argomento del mio ultimo libro, che (in parte) parlava delle dipendenze. Ci siamo dati appuntamento e abbiamo passeggiato per le vie di Philadelphia prima di cena. Mi ha raccontato un episodio. Dopo aver miscelato vernici per anni, una sera era andato al casinò con un amico, che gli aveva offerto una piccola pasticca azzurra: trenta milligrammi di OxyContin, un antidolorifico a base di oppiacei. L’aveva presa e si era sentito

piacevolmente intontito. Dopo qualche giorno aveva pensato: ‘Magari mi aiuterebbe al lavoro’. Quando assumeva il farmaco, le sensazioni che gli invadevano la testa sembravano attenuarsi. Di lì a poco, ha confessato, «ho cominciato a prendere le pasticche prima di andare in negozio e, mentre lavoravo, a razionarle perché mi bastassero fino alla fine del turno». Quando tornava a casa ne inghiottiva altre con qualche birra, pensando: «Posso sopportare quello schifo di lavoro sapendo che, quando rientro, la mia dose è lì ad aspettarmi». E miscelava altra vernice. E miscelava altra vernice. E miscelava altra vernice. Mi sono chiesto se dipendesse dal fatto che l’Oxy lo rendeva vuoto e sterile quanto il lavoro stesso. Pareva risolvere il conflitto tra il suo desiderio di fare la differenza e la realtà della sua vita. Quando ho cominciato a parlare con Joe, all’inizio era convinto di raccontarmi una storia di dipendenza. Le persone cui si era rivolto perché lo aiutassero a smettere gli avevano detto che era «un farmacodipendente nato» ed è questo che mi ha riferito in un primo momento. Ma quando abbiamo approfondito il discorso, ha ammesso di aver bevuto alcol, fumato erba e sniffato una pista di cocaina ogni tanto quando era al college, e di non aver mai sentito il bisogno di ricorrere a queste sostanze se non durante qualche festa. Era stato solo quando aveva intrapreso un lavoro alienante – e a considerarlo un vicolo cieco – che aveva cominciato a stordirsi. Aveva smesso di prendere l’Oxy ma, dopo alcuni mesi difficili, la sensazione che la vita fosse insopportabile l’aveva assalito di nuovo. Tutti i pensieri che aveva cercato di scacciare erano tornati a tormentarlo mentre miscelava una vernice dopo l’altra. Sapeva che le persone avevano bisogno della vernice, mi ha detto. Ha aggiunto – per l’ennesima volta – che era consapevole di dover essere riconoscente. Però non sopportava l’idea che la sua vita sarebbe continuata così per altri trentacinque anni, fino al momento della pensione. «Insomma… a te piace quello che fai, giusto?» mi ha domandato. Ho smesso di prendere appunti per un istante. «Quando tu ti svegli la mattina, non vedi l’ora di iniziare la giornata. Quando mi sveglio io, non sono entusiasta di andare al lavoro […] È soltanto una cosa che devo fare». Tra il 2011 e il 2012, la società di sondaggi Gallup condusse lo studio più dettagliato mai eseguito su come le persone di tutto il mondo vedono il loro

lavoro. 2 Gli esperti hanno esaminato milioni di lavoratori in 142 paesi. Hanno scoperto che il 13 per cento afferma di «tenere» alla propria professione, cioè «è entusiasta, appagata, e dà un contributo positivo all’azienda». Al contrario, il 63 per cento dichiara di essere «indifferente» alla propria occupazione, cioè «affronta la giornata lavorativa come un sonnambulo, investendo tempo – ma non energie o passione – nell’attività professionale». Un ulteriore 23 per cento è «attivamente disinteressato». 3 Queste persone, spiega Gallup, «non sono soltanto insoddisfatte del loro lavoro, ma anche impegnate a mettere in atto la loro insoddisfazione. Ogni giorno questi lavoratori vanificano i risultati ottenuti dai colleghi più motivati […] I dipendenti attivamente disinteressati sono più o meno decisi a danneggiare l’azienda». In altre parole, secondo questo studio, se l’87 per cento delle persone leggesse la storia di Joe, si riconoscerebbe almeno un pochino. Gli individui che odiano il loro lavoro sono quasi il doppio rispetto a quelli che lo amano. E questa cosa che quasi nessuno di noi ha voglia di fare – che assomiglia al sonnambulismo o peggio – assorbe gran parte della nostra vita. Un professore che ha studiato approfonditamente il fenomeno scrive: «Un recente sondaggio ha confermato che un lavoro dalle nove alle cinque è una reliquia del passato. Oggi il lavoratore medio controlla l’e-mail alle 7.42, arriva in ufficio alle 8.18 e se ne va alle 19.19 […] Dall’indagine emerge che un lavoratore britannico su tre controlla l’e-mail prima delle 6.30, mentre l’80 per cento degli imprenditori britannici considera legittimo telefonare ai dipendenti fuori dall’orario di lavoro». 4 Il concetto di ‘orario di lavoro’ sta svanendo per quasi tutti. Perciò questa cosa che l’87 per cento di noi non ama fare sta fagocitando una fetta sempre più grossa della nostra vita. Dopo la cena con Joe ho cominciato a chiedermi se tutto questo potesse incidere sull’aumento della depressione e dell’ansia. Un sintomo diffuso della depressione è la ‘derealizzazione’, la sensazione che nulla di ciò che si fa sia autentico o reale. 5 Mentre lo leggo, mi pare che descriva Joe alla perfezione… e che non sia affatto irrazionale. Sembra una normale reazione umana alla prospettiva di svolgere un lavoro come il suo per tutta la vita. Così ho iniziato a cercare prove scientifiche per vedere se ci fosse un legame con la depressione e l’ansia. Sono riuscito a individuarlo solo quando ho conosciuto uno scienziato straordinario. Un giorno, alla fine degli anni Sessanta, una piccola donna greca entrò in

un modesto ambulatorio nei sobborghi di Sydney. 6 La struttura faceva parte di un ospedale in uno dei quartieri più poveri della città, che offriva assistenza perlopiù agli immigrati greci. La signora spiegò al medico di turno che piangeva tutto il tempo. «Mi sembra che la vita non valga la pena di essere vissuta» disse. Di fronte a lei erano seduti due uomini, uno psichiatra dal marcato accento europeo e Michael Marmot, un tirocinante australiano alto e giovane. «Quando è stata l’ultima volta che si è sentita davvero bene?» chiese il primo. «Oh, dottore. Mio marito ha ripreso a bere e a picchiarmi. Mio figlio è tornato in prigione. Mia figlia adolescente è incinta. Io piango quasi tutti i giorni. Ho esaurito le energie. Faccio fatica a dormire» rispose la donna. Marmot vedeva molti pazienti come lei arrivare chiedendo aiuto. In Australia, gli immigrati erano oggetto di atti di razzismo e quella prima generazione in particolare faceva una vita dura e degradante. Quando crollavano come quella signora, di solito i medici diagnosticavano un disturbo fisico. Certe volte prescrivevano blande miscele a mo’ di placebo; altre, farmaci più drastici. Secondo Marmot era un approccio bizzarro. «Sembrava sorprendentemente ovvio» scrisse anni dopo «che la depressione [della signora] dipendesse dalle circostanze della sua vita». Eppure «le persone ci esponevano i loro problemi esistenziali e noi le curavamo con flaconi di intrugli». 7 Sospettava che anche molti altri disturbi lamentati dai pazienti – per esempio, gli uomini affetti da misteriosi dolori allo stomaco senza causa apparente – fossero provocati dallo stress della vita che conducevano. Marmot camminava per i reparti dell’ospedale e pensava: ‘Tutte queste malattie e questa angoscia vogliono dirci qualcosa della nostra società e indicarci dove stiamo sbagliando’. Provò a discuterne con gli altri medici, spiegando che a suo parere, con una donna come quella paziente, «dovevamo concentrarci sulle cause della depressione». Gli altri erano perplessi. Lo accusarono di dire stupidaggini. Non è possibile che l’angoscia psicologica provochi malattie fisiche, affermarono. All’epoca era questa la convinzione prevalente tra i medici di tutto il mondo. Marmot sospettava che avessero torto. Ma come poteva dimostrarlo? Non aveva prove e, a quanto pareva, nessuno stava effettuando ricerche sull’argomento. Aveva avuto un’intuizione, ecco tutto. Se era questo che gli interessava, suggerì garbatamente un collega, avrebbe dovuto considerare l’idea di dedicarsi alla ricerca anziché alla

psichiatria pratica. Fu così che, qualche anno dopo, Marmot si ritrovò a Londra nel caos degli anni Settanta. Erano gli ultimi giorni in cui i maschi inglesi andavano al lavoro con la bombetta, anche se per strada passavano accanto a ragazze in minigonna, e due ere evitavano goffamente di incrociare l’una lo sguardo dell’altra. Marmot arrivò, nel bel mezzo di un inverno gelido, in un Paese che pareva andare a pezzi. Di recente l’elettricità era stata tagliata quattro giorni la settimana durante uno sciopero prolungato. Tuttavia, al cuore di questa società frantumata c’era una macchina che funzionava brillantemente. La pubblica amministrazione britannica – con i suoi uffici lungo Whitehall, la strada che corre da Trafalgar Square fino alle Houses of Parliament – ama considerarsi la Rolls-Royce delle burocrazie governative. Consiste di una folta fiumana di impiegati che amministrano ogni aspetto dello Stato e ha un’organizzazione rigida quanto quella di un esercito. Così ogni giorno migliaia di uomini – erano quasi tutti uomini quando Marmot ci andò la prima volta – arrivavano in metropolitana per lavorare a scrivanie ordinate, da cui amministravano le Isole britanniche. A Marmot sembrava un laboratorio perfetto per testare un interrogativo che lo incuriosiva molto: come influisce il lavoro sulla salute? Non si può indagarlo davvero confrontando lavori molto diversi. Se si mettono a confronto (per esempio) un operaio edile, un’infermiera e un commercialista, la differenza è così accentuata che è difficile capire cosa stia succedendo veramente. Gli operai edili hanno più infortuni, le infermiere sono esposte a più malattie, i commercialisti fanno una vita più sedentaria (nociva alla salute); è impossibile individuare le cause effettive di qualcosa. Nella pubblica amministrazione britannica, tuttavia, nessuno è povero, nessuno vive in una casa umida e nessuno è fisicamente in pericolo. Tutti fanno un lavoro impiegatizio. Però ci sono differenze concrete nello status e nel grado di libertà che si ha sul posto di lavoro. I funzionari pubblici britannici erano divisi in categorie, rigidi livelli che determinavano salari e responsabilità. Marmot voleva capire se queste differenze avessero un effetto sulla salute. Sospettava che uno studio avrebbe rivelato qualcosa sul perché molte persone nella nostra società fossero depresse o ansiose. Il mistero, insomma, che lo assillava dai tempi di Sydney. In quel periodo, quasi tutti pensavano di conoscere già la risposta, dunque giudicavano inutile quella ricerca. Immaginate un uomo che dirige un grande ufficio governativo e un altro il cui lavoro – undici gradini più in basso lungo

la scala retributiva – consiste nell’archiviare i suoi documenti e nel battere al computer i suoi appunti. Chi ha più probabilità di avere un infarto? O di essere stressato? O di cadere in depressione? Quasi tutti credevano che la risposta fosse chiara: il capo. Fa un lavoro più stressante. Deve prendere decisioni molto difficili, con conseguenze importanti. Il tipo che si occupa dell’archivio ha molte meno responsabilità, che gravano meno sulle sue spalle. La sua vita sarà più facile. Marmot e il suo team iniziarono a intervistare i funzionari pubblici per raccogliere dati sulla loro salute fisica e mentale. L’indagine avrebbe richiesto anni e sarebbe stata suddivisa in due studi principali. I soggetti entravano, e Marmot parlava con ciascuno per un’ora, a quattr’occhi, delle implicazioni della loro professione. L’équipe esaminò in questo modo diciottomila individui. Marmot notò subito una differenza tra i diversi pioli di questa scala sociale. Quando parlava con i funzionari di alto livello, quelli si appoggiavano allo schienale e prendevano il controllo della conversazione, pretendendo di sapere cosa volesse lo studioso. Quando parlava con i partecipanti di categoria inferiore, quelli si piegavano in avanti e aspettavano le sue istruzioni. Dopo anni di interviste continue, Marmot e il team tirarono le somme. Emerse che le persone ai vertici della pubblica amministrazione avevano il quadruplo di probabilità in meno di avere un infarto rispetto a quelle sugli ultimi gradini della scala di Whitehall. 8 La verità era il contrario di quella che tutti si aspettavano. Ma poi ci fu una scoperta ancora più bizzarra. Se l’aveste tracciato su un grafico, man mano che la vostra posizione nella pubblica amministrazione si fosse alzata, le probabilità di cadere in depressione si sarebbero abbassate. C’era un rapporto molto stretto tra depressione e grado gerarchico. È quello che gli scienziati sociali chiamano «gradiente». «È davvero incredibile» scrisse Marmot. «Perché gli individui con un’istruzione e con un buon lavoro stabile corrono un maggiore rischio di cadere morti stecchiti [o di diventare depressi] rispetto a quelli con un’istruzione o con un lavoro di livello leggermente superiore?» Nel lavoro c’era qualcosa che provocava la depressione. Ma cosa poteva essere? Quando Marmot e il suo team tornarono a Whitehall per continuare l’indagine, volevano rispondere a questa domanda: via via che si sale lungo la scala gerarchica, quali cambiamenti professionali possono spiegare questa evoluzione? Sulla base delle loro osservazioni elaborarono una prima teoria. Poteva

essere, si domandarono, che i funzionari pubblici di alto livello avessero più controllo sul loro lavoro rispetto a quelli di grado inferiore, e che fosse questa la ragione per cui erano meno depressi? Sembrava un’ipotesi plausibile. «Pensa alla tua vita» mi ha detto Marmot quando ci siamo incontrati nel suo studio nel centro di Londra. «Esamina i tuoi sentimenti. I momenti in cui stai male sul lavoro – e probabilmente nella vita – sono quelli in cui ti sembra di non avere il controllo». C’era un modo per scoprirlo. Questa volta, invece di confrontare i partecipanti ai vertici, nel mezzo e in fondo alla piramide, confrontarono soggetti all’interno della stessa fascia, ma le cui mansioni differivano nel grado di controllo che i dipendenti esercitavano. L’équipe voleva sapere se un individuo di livello intermedio avesse più probabilità di cadere in depressione o di avere un infarto rispetto a una persona dello stesso grado ma con più controllo. Gli studiosi tornarono per effettuare altre interviste e raccogliere dati più dettagliati. Ciò che Marmot notò in questa fase fu ancora più sorprendente dei primi risultati. Vale la pena spiegarlo. Se eri attivo nella pubblica amministrazione e avevi maggiore controllo sul tuo lavoro, avevi molte probabilità in meno di cadere in depressione o di sviluppare un grave disagio emotivo rispetto a persone con lo stesso livello retributivo, con lo stesso status, nello stesso ufficio, ma con un minore controllo sulle proprie mansioni. 9 Marmot ricorda una certa Marjorie. Faceva la segretaria nel reparto dattilografia, dove doveva battere a macchina documenti tutto il giorno, tutti i giorni. Era «paradisiaco», disse a Marmot, poter fumare e mangiare caramelle alla scrivania, ma era «assolutamente alienante» restare seduta lì a fare un lavoro che ti veniva scaricato addosso e che non capivi. «Non potevamo parlare» aggiunse, perciò dovevano stare in silenzio, battendo documenti che, per quanto ne sapevano, potevano anche essere scritti in arabo, destinati a perfetti sconosciuti, ed erano circondate da colleghe cui non potevano rivolgere la parola. 10 «La cosa che caratterizza l’attività di Marjorie non è il carico di lavoro, bensì il fatto di non avere la libertà di prendere alcuna decisione» riferisce Marmot. Invece, se eri in cima alla scala e ti veniva un’idea, avevi buone probabilità di realizzarla. Ciò si rifletteva su tutta la tua vita. Influiva sulla tua visione del mondo. Se eri un funzionario pubblico di rango inferiore, tuttavia, dovevi imparare a essere passivo. «Immaginate un tipico martedì mattina in

un grande ufficio governativo» scrisse Marmot anni dopo. 11 «Marjorie del reparto dattilografia va da Nigel, che è undici livelli gerarchici sopra di lei, e dice: ‘Ho riflettuto, Nige. Potremmo risparmiare molti soldi se ordinassimo la cancelleria via Internet. Che ne pensi?’ Ho provato a immaginare questa conversazione, ma invano». Devi spegnerti dentro per sopportare tutto questo, e Marmot riuscì a dimostrare che situazioni del genere influiscono su tutti gli ambiti della vita. Più salivi nella pubblica amministrazione, notò, e più amici e attività sociali avevi dopo il lavoro. Più scendevi, e più questi fattori si ridimensionavano: le persone con mansioni noiose o di basso livello quando arrivavano a casa volevano soltanto crollare davanti alla tv. Perché? «Quando il lavoro è gratificante, la vita è più piena e questo si riflette su ciò che fai al di fuori dell’ambito professionale» mi ha detto Marmot. Invece, «quando è lobotomizzante, alla fine della giornata» ti senti «a pezzi, semplicemente a pezzi». 12 In seguito a questa ricerca e alle conoscenze che ne derivarono, «la concezione dello stress lavorativo è stata oggetto di una rivoluzione» spiega Marmot. Per le persone, lo stress peggiore è non doversi assumere responsabilità. È, mi ha detto, dover sopportare «una mansione monotona, noiosa, alienante, [in cui] muoiono un po’ ogni volta che vanno in ufficio, perché il lavoro non tocca davvero alcuna parte di loro». Secondo questo criterio concreto, Joe del negozio di vernici aveva uno dei lavori più stressanti che esistano. «L’esautorazione» ha proseguito Marmot «è alla base dei disturbi di salute» fisica, mentale ed emotiva. 13 Alcuni anni fa, molto tempo dopo gli studi di Whitehall, l’ufficio imposte del governo britannico incappò in un problema e richiamò Marmot nella pubblica amministrazione per chiedergli di trovare urgentemente una soluzione. Gli addetti incaricati di esaminare le dichiarazioni dei redditi continuavano a suicidarsi. Così Marmot passò del tempo nei loro uffici per scoprire il perché. Gli impiegati gli riferirono che quando iniziavano il turno, si sentivano immediatamente soffocati dalle cassette della corrispondenza in arrivo. Avevano la sensazione che la cassetta «li opprimesse. Più era piena, e più cresceva il rischio di convincersi che non si sarebbero mai messi in pari». Lavoravano sodo per tutto il giorno e, alla fine, la pila di documenti era più alta che all’inizio. «Le ferie li rendevano infelici» mi ha detto Marmot, «perché, durante la loro assenza, le scartoffie si sarebbero accumulate al

punto di sommergerli una volta rientrati. Non era solo l’ineluttabile flusso di lavoro a ucciderli, ma anche la mancanza di controllo. Per quanto fossero costanti e diligenti, rimanevano sempre più indietro». 14 E nessuno li ringraziava mai. I contribuenti non erano certo entusiasti di sentirsi dare degli evasori fiscali. Durante gli studi a Whitehall, Marmot aveva isolato un altro fattore capace di trasformare il lavoro in un generatore di depressione e lo notò anche in questa indagine. Se gli ispettori del fisco lavoravano sodo e ce la mettevano tutta, non se ne accorgeva nessuno. E non se ne accorgeva nessuno nemmeno se facevano un pessimo lavoro. La disperazione, aveva notato, si presentava spesso quando c’era una «mancanza di equilibrio tra sforzi e ricompense». 15 Lo stesso valeva per Joe nel negozio di vernici. Nessuno si accorgeva mai del suo impegno. Il segnale che ricevi dal mondo in quella situazione è: non conti niente. A nessuno interessa cosa fai. Così Marmot spiegò ai dirigenti dell’ufficio delle imposte che erano la mancanza di controllo e la mancanza di equilibrio tra sforzi e ricompense a causare una depressione così grave da condurre i loro sottoposti al suicidio. Quando aveva ipotizzato per la prima volta – quarant’anni prima, in un ospedale nei sobborghi di Sydney – che lo stile di vita potesse provocare la depressione, i medici l’avevano deriso. Oggi nessuno mette seriamente in discussione il nocciolo delle prove che ha trovato, anche se ne parliamo di rado. È diventato uno dei principali esperti di salute pubblica del mondo. Eppure, mi sono reso conto, commettiamo ancora l’errore che quei medici fecero all’epoca. La donna greca che confidò a Marmot di piangere ogni giorno e di non riuscire a smettere non aveva un problema nel cervello, ma nella vita. Però i dottori le diedero qualche pasticca, sapendo che era soltanto un placebo, e la rimandarono a casa. Tornato a Philadelphia, ho parlato a Joe degli studi di Whitehall e delle altre prove scientifiche di cui ero venuto a conoscenza. All’inizio era interessato, ma dopo un po’ ha detto in tono un tantino spazientito: «Puoi approfondire l’argomento a un alto livello intellettuale ma, gira che ti rigira, fare una cosa senza avere uno scopo e poi convincersi di non avere altra scelta se non continuare a farla è terribile. Almeno per me diventa… be’, a cosa serve?» C’era un’ultima cosa di lui che mi lasciava perplesso. Odiava lavorare al negozio di vernici ma, a differenza di altri, non era in trappola: non aveva figli né responsabilità, era ancora giovane e aveva un’alternativa. «Mi piace

pescare» mi ha confidato. «Il mio sogno è pescare in tutti e cinquanta gli Stati degli USA prima di morire. A trentadue anni ne ho [fatti] ventisette». Sogna di fare la guida di pesca in Florida. Sarebbe molto meno redditizio della sua attuale occupazione, ma lo renderebbe felice. Joe non vedrebbe l’ora di andare al lavoro ogni giorno. Ragionando ad alta voce, ha immaginato come sarebbe: «Sacrifichi la stabilità economica per fare qualcosa che ti piace da morire ma, allo stesso tempo… il costo della vita…» Meditava da anni di licenziarsi e di trasferirsi in Florida, ha dichiarato. «Posso parlare solo per me stesso. Quando smonto ogni sera, ho la netta sensazione che questa non possa essere l’unica cosa all’orizzonte per me. Ci sono occasioni in cui dico a me stesso: ‘Amico, molla il lavoro… Va’ in Florida, diventa una guida di pesca a bordo di una barca, e sarai felice». Così gli ho chiesto: «Perché non lo fai? Perché non parti?». «Giusto» ha risposto, speranzoso. Poi è parso spaventato. Durante la conversazione sono tornato sull’argomento: «Potresti farlo già domani. Cosa ti trattiene?» In tutti noi, ha osservato, c’è una parte che pensa: ‘Se continuo a comprare roba, e prendo la Mercedes e la casa con quattro garage, gli altri crederanno che vada tutto a gonfie vele, e allora potrò convincermi di essere felice’. Voleva partire, ma era bloccato da qualcosa che né lui né io capivamo fino in fondo. Da allora mi scervello per comprendere perché, probabilmente, Joe non andrà mai in Florida. A intrappolare molti di noi in situazioni di questo tipo è qualcosa più della semplice necessità di pagare le bollette. Me ne sarei occupato di lì a poco. Quando, dopo esserci salutati, Joe si è incamminato, gli ho gridato: «Va’ in Florida!» Me ne sono subito pentito. Lui non si è voltato.

7. Seconda causa: la disconnessione dagli altri

Quando ero bambino, ai miei genitori successe qualcosa di imprevedibile. Mio padre è cresciuto a Kandersteg, un minuscolo paesino sulle montagne svizzere dove si conoscevano tutti, e mia madre in un quartiere operaio scozzese dove, se alzavi la voce, i vicini udivano ogni tua parola. Poi, dopo la mia nascita, si trasferirono a Edgware. È l’ultima stazione della metropolitana sulla Northern Line, una distesa suburbana di case uni- e bifamiliari, costruita su quelle che allora erano i sobborghi verdi di Londra. Se ti addormenti in treno e ti ritrovi lì, vedi moltissime case, alcuni fast-food, un parco e molte persone oneste, simpatiche e alienate che camminano frettolosamente lungo le strade. Quando i miei traslocarono, cercarono di fare amicizia con i residenti, come probabilmente avevano fatto nei posti da cui venivano. Per loro era un istinto naturale come respirare. Ma quando ci provarono rimasero delusi. A Edgware le persone non erano ostili. Conoscevamo i nostri vicini di vista, ma niente di più. Ogni tentativo di instaurare un rapporto al di là di una breve chiacchierata veniva stroncato sul nascere. La vita, scoprirono pian piano i miei genitori, doveva svolgersi dentro casa. Io non lo giudicavo insolito – era l’unica realtà che conoscevo – ma mia madre non ci si abituò mai. «Dove sono tutti?» mi domandò una volta, quando ero molto piccolo, guardando la strada deserta con espressione sconcertata. Oggi la solitudine incombe sulla nostra società come una cappa densa. Sono in tantissimi a dire di sentirsi più soli che mai, e mi sono chiesto se questo fenomeno sia legato all’innegabile aumento della depressione e dell’ansia. Mentre esaminavo la questione, ho scoperto che due scienziati studiano la solitudine da decenni e hanno fatto una serie di scoperte fondamentali. A metà degli anni Settanta, John Cacioppo, un giovane ricercatore specializzato in neuroscienze, seguiva le lezioni dei suoi professori – tra i migliori al mondo – ma c’era qualcosa che proprio non riusciva ad afferrare.

Quando i docenti cercavano di spiegare perché le emozioni umane cambino, parevano concentrarsi su una cosa soltanto: cosa succedeva dentro il cervello. Non prendevano in considerazione gli eventi della vita e non si domandavano se potessero essere responsabili dei cambiamenti cerebrali. Era come se pensassero che il cervello fosse un’isola, tagliata fuori dal resto del mondo e incapace di interagire con esso. Così Cacioppo si chiese cosa sarebbe successo se avessimo adottato un approccio differente. E se avessimo provato a studiare il cervello come se fosse un’isola collegata al mondo esterno da cento ponti che permettevano di importare ed esportare le cose mentre ricevevamo segnali da fuori? Quando sollevò queste obiezioni, i suoi mentori restarono perplessi. «Sai» dissero, «anche se [la tua osservazione] fosse rilevante, [i fattori esterni al cervello] non sono fondamentali» per cambiamenti come la depressione o l’ansia. Inoltre, aggiunsero, è una questione troppo complessa. Nessuno la comprenderà «per altri cent’anni o più. Perciò la ignoreremo» conclusero. Cacioppo non dimenticò mai questi interrogativi. Si spremette a lungo le meningi finché un giorno, negli anni Novanta, trovò il modo di esaminarli più nel dettaglio. Se si vuole capire come cambino il cervello e i sentimenti quando si interagisce con il resto del mondo, si può iniziare considerando cosa accade nella situazione esattamente contraria, cioè quando ci si sente soli e tagliati fuori dal mondo circostante. Questa esperienza, si chiese, provoca cambiamenti nel cervello? E nel corpo? Cominciò con lo studio più semplice che gli venne in mente. Lui e i suoi colleghi riunirono cento estranei all’università di Chicago, dove lavoravano, perché prendessero parte a un semplicissimo esperimento che nessuno aveva mai tentato prima. Se eri un partecipante, ti invitavano a uscire e a passare qualche giorno vivendo la tua normale vita quotidiana, solo con qualche piccolo ritocco. Dovevi indossare un monitor cardiovascolare per misurare la frequenza cardiaca e ricevevi un cicalino e alcune provette. Lasciavi il laboratorio. Il primo giorno, ogni volta che il cicalino emetteva un bip – cosa che, a conti fatti, capitava nove volte al giorno – dovevi interrompere qualunque attività stessi svolgendo e scrivere due cose. Primo, fino a che punto ti sentivi solo o connesso. Secondo, la frequenza cardiaca rilevata dal monitor. Il secondo giorno ripetevi la stessa procedura, solo che questa volta, quando udivi il bip, dovevi sputare in una provetta, sigillarla e conservarla per restituirla al laboratorio.

Cacioppo voleva capire esattamente quanto fosse stressante la solitudine, cosa che ancora nessuno sapeva. Quando si è stressati il battito cardiaco si fa più frequente e la saliva viene inondata dall’ormone cortisolo. Perciò l’esperimento avrebbe finalmente misurato la portata degli effetti. Quando Cacioppo e i suoi colleghi esaminarono i dati, restarono sbalorditi. 1 La solitudine, si scoprì, provocava un’impennata del cortisolo, insieme con alcune delle cose più sgradevoli che possano succedere. La solitudine acuta, dimostrò l’esperimento, era stressante quanto un’aggressione fisica. 2 Vale la pena ripeterlo. La solitudine profonda sembrava scatenare tanto stress quanto il pugno di uno sconosciuto. Cacioppo cominciò a indagare per vedere se altri scienziati avessero analizzato gli effetti della solitudine. Il professor Sheldon Cohen, apprese, aveva eseguito uno studio in cui aveva selezionato un gruppo di persone e registrato quante amicizie e quante connessioni sociali sane avesse ciascuna di loro. 3 Poi le aveva portate in laboratorio e, dopo averle avvisate, le aveva esposte deliberatamente al virus del raffreddore. Voleva sapere se gli individui isolati si ammalassero più spesso di quelli connessi. Saltò fuori che avevano il triplo delle probabilità di buscarsi un raffreddore rispetto a coloro che avevano molti rapporti stretti con altre persone. Un’altra scienziata, Lisa Berkman, aveva seguito per nove anni sia individui isolati sia soggetti connessi per appurare se un gruppo avesse più probabilità di morire rispetto all’altro. 4 Aveva scoperto che le persone sole correvano un rischio da due a tre volte maggiore. Quando si era soli, aveva constatato, quasi ogni cosa diventava più fatale: il cancro, le cardiopatie, i disturbi respiratori. La solitudine, si rese lentamente conto Cacioppo mentre metteva insieme le prove sperimentali, sembrava essere letale. Quando lui e altri scienziati tirarono le somme, conclusero che la disconnessione dalle altre persone aveva sulla salute lo stesso effetto dell’obesità, 5 fino ad allora considerata il principale rischio sanitario del mondo sviluppato. Così ora Cacioppo sapeva che la solitudine provocava inattesi effetti sul corpo. Ma poteva, si interrogò, anche essere una causa scatenante dell’innegabile epidemia di depressione e di ansia? Di primo acchito era una domanda a cui era difficile rispondere. Puoi monitorare le persone e chiedere loro tre cose: sei solo? Sei depresso? Sei ansioso? Quindi puoi confrontare le risposte. Se lo fai, scopri sempre che i

soggetti soli hanno molte più probabilità di essere depressi o ansiosi. Ma ciò non ci permette di andare molto lontano, perché questi individui hanno spesso paura del mondo e delle interazioni sociali, perciò tendono a rifuggirli. Può darsi che prima cadiate in depressione e che questo, a sua volta, vi renda soli. Cacioppo, tuttavia, sospettava che fosse vero il contrario, che se qualcuno resta solo, questo possa renderlo depresso. Così iniziò a cercare la risposta, usando due tipi di studio molto diversi. Tanto per cominciare prese 135 persone che erano state classificate come estremamente sole e le aveva portate nei suoi laboratori all’università di Chicago per un giorno e una notte. Le sottopose a test della personalità così approfonditi che, scherzando, le paragonò ai candidati per una missione su Marte. I risultati furono abbastanza prevedibili: gli individui soli sono anche ansiosi, hanno scarsa autostima, sono pessimisti e temono di non piacere agli altri. Ora Cacioppo doveva trovare un modo per renderne alcuni più soli senza influire su altri aspetti della loro vita, senza fare nulla che potesse mandarli nel panico o farli sentire giudicati, per esempio. Come poteva riuscirci? Divise i partecipanti successivi in due gruppi – A e B – quindi pregò lo psichiatra David Spiegel di ipnotizzarli uno alla volta. 6 Sotto ipnosi, i membri del gruppo A furono indotti a ricordare periodi della vita in cui si erano sentiti veramente soli. Quelli del gruppo B furono indotti a ricordare l’opposto, una fase della vita in cui si erano sentiti davvero legati a una o più persone. In seguito, i candidati furono sottoposti di nuovo ai test della personalità. Cacioppo concluse che se la depressione causava la solitudine, far sentire le persone più sole non avrebbe fatto alcuna differenza. Ma se la solitudine provocava la depressione, allora una maggiore solitudine avrebbe aggravato la depressione. I risultati del suo esperimento furono poi giudicati un punto di svolta fondamentale nel settore. I partecipanti che erano stati spinti a sentirsi soli diventarono molto più depressi, e quelli che erano stati spinti a sentirsi connessi diventarono molto meno depressi. «La cosa sorprendente è che la solitudine non è semplicemente il risultato della depressione» mi ha detto Cacioppo. «Al contrario, conduce alla depressione». Fu, racconta, come il momento in una puntata di CSI in cui gli esperti trovano finalmente le impronte digitali corrispondenti. «La solitudine» spiega, «aveva senza dubbio un ruolo di primo piano». 7

Questo, però, non risolveva il problema. Le condizioni di laboratorio, come Cacioppo ben sapeva, possono essere artificiali da tutti i punti di vista. Così iniziò a indagare la questione in modo diverso. Appena fuori Chicago, in un’area della contea di Cook dominata da una caotica distesa suburbana di cemento e asfalto, cominciò a monitorare 229 americani di età compresa tra cinquanta e settant’anni. Li selezionò in modo che fossero un campione eterogeneo: metà uomini, metà donne, un terzo sudamericani, un terzo afroamericani, un terzo bianchi. Il requisito fondamentale era che all’inizio della ricerca non fossero depressi o eccessivamente soli. Una volta l’anno andavano in laboratorio e si sottoponevano a una serie di test. Cacioppo studiava le loro condizioni di salute, sia fisiche sia mentali. Poi il team faceva loro una sfilza di domande per stabilire fino a che punto si sentissero soli o isolati. Con quante persone erano in contatto ogni giorno? A quante persone erano affezionati? Con chi condividevano i momenti belli della vita? Ecco cosa voleva sapere: quando, nel corso del tempo, alcuni partecipanti allo studio avessero sviluppato la depressione (come era inevitabile che succedesse): cosa veniva per primo, l’isolamento e la solitudine, oppure la depressione? Emerse che – per il quinquennio iniziale di dati analizzati – il più delle volte la solitudine aveva preceduto i sintomi depressivi. 8 Restavi solo e poi venivi assalito da sentimenti di disperazione e di profonda tristezza e depressione. E l’effetto era davvero preoccupante. Immaginate l’estensione della solitudine nella nostra società come una linea retta. A un’estremità siete soli allo 0 per cento. All’altra, al 100 per cento. Se vi spostaste dal centro – 50 per cento – al 65 per cento, le probabilità di mostrare sintomi depressivi aumenterebbero di otto volte. Il fatto di essere arrivato a questa scoperta con due tipi di studio assai diversi – e con molte altre ricerche – spinse Cacioppo verso una conclusione fondamentale, che ha trovato numerose conferme scientifiche: nella nostra società la solitudine provoca spesso depressione e ansia. Di fronte a quei i risultati, Cacioppo cominciò a chiedersi il perché. Perché la solitudine causava così tanta depressione e ansia? Iniziò a sospettare che potesse esserci una ragione evolutiva. In origine, gli esseri umani vivevano nelle savane dell’Africa in piccole tribù di cacciatori-raccoglitori formate da poche centinaia di persone al massimo. Io e voi esistiamo per un motivo: perché quegli uomini capirono come

collaborare. Condividevano il cibo. Curavano i malati. «Erano in grado di abbattere animali molto grandi» mi ha rammentato Cacioppo, «ma solo perché univano le forze». Ciascuno di loro aveva senso soltanto nel gruppo. «Ogni società preagricola di cui siamo a conoscenza ha questa stessa struttura di base» scrive Cacioppo insieme con un collega. «Date le avversità, a stento sopravvivono, ma devono il fatto stesso della sopravvivenza alla fitta rete di contatti sociali e all’alto numero di vincoli reciproci che coltivano. In questo stato di natura non era necessario imporre la connessione e la cooperazione sociale […] la natura è connessione». 9 Ora immaginate se, in quelle savane, vi separaste dal gruppo e rimaneste soli per un periodo prolungato. Sareste in grave pericolo. Sareste esposti agli attacchi dei predatori. Se vi ammalaste, non ci sarebbe nessuno ad assistervi, e anche il resto della tribù sarebbe più vulnerabile senza di voi. Avreste un buon motivo per stare male. 10 Sarebbe un’esortazione urgente del vostro corpo e del vostro cervello a tornare nel gruppo in qualunque modo possibile. 11 Perciò ogni istinto umano è affinato non per la vita in solitudine, bensì per l’esistenza in una tribù. Gli esseri umani hanno bisogno delle tribù quanto le api dell’alveare. 12 Allora, sostiene Cacioppo, il senso di paura e di allerta scatenato dalla solitudine eccessiva si evolse per una ragione più che valida. Spingeva le persone a rientrare nel gruppo e faceva in modo che, quando erano nella tribù, fossero incentivate a trattare bene gli altri per non essere buttate fuori. «Un forte impulso a favore della connessione» spiega «produce semplicemente risultati migliori per la sopravvivenza». O, come mi ha detto in seguito, la solitudine è «uno stato avversivo che ci induce a riconnetterci». Ciò ci aiuterebbe a capire perché la solitudine accompagna spesso l’ansia. «L’evoluzione ci ha plasmati non solo per stare bene, ma anche per sentirci al sicuro quando siamo connessi» scrive Cacioppo. 13 «Il corollario di vitale importanza è che l’evoluzione ci ha plasmati non solo per stare male, ma anche per non sentirci al sicuro se rimaniamo isolati». Era una bellissima teoria, ma lo studioso cominciò a domandarsi come testarla. Ci sono ancora alcune persone, scopriamo, che vivono come vivevano quasi tutti gli esseri umani nelle prime fasi dell’evoluzione. Per esempio, Cacioppo apprese che nel Nord e nel Sud Dakota vive la comunità agricola molto compatta e molto religiosa degli utteriti, 14 definibili come l’ala più fondamentalista degli amish. Vivono dei prodotti della terra e

lavorano, mangiano, pregano e si rilassano insieme. Tutti devono collaborare in ogni momento (come vedrete, durante il mio viaggio ho fatto visita a un gruppo di questo tipo). Così Cacioppo formò un team con gli antropologi che studiavano gli utteriti da anni per capire fino a che punto i membri del gruppo fossero soli. C’è un modo semplice per misurarlo. In qualunque parte del mondo, le persone sole registrano, durante il sonno, un maggior numero di «microrisvegli». Sono brevi momenti che non ricordate al risveglio, ma durante i quali emergete un pochino dal sonno. Anche tutti gli altri animali sociali mostrano lo stesso comportamento quando sono isolati. La teoria più plausibile è che non vi sentiate al sicuro se vi addormentate quando siete soli, perché i primi esseri umani non erano letteralmente al sicuro se dormivano lontano dalla tribù. Sapete che non c’è nessuno a coprirvi le spalle, perciò il cervello non vi permette di entrare nella modalità del sonno totale. Misurare questi «microrisvegli» è un buon modo per valutare la solitudine. Così il team di Cacioppo studiò gli utteriti per vedere quanti ne avessero ogni notte. Il risultato fu zero. 15 «Abbiamo riscontrato che la comunità mostrava il più basso livello di solitudine che avessi visto in qualunque parte del mondo» mi ha spiegato Cacioppo. «Sono rimasto a bocca aperta». Ciò dimostra che la solitudine non è soltanto una forma inevitabile di tristezza umana, come la morte. È un prodotto del modo in cui viviamo oggi. Quando mia madre si trasferì a Edgware e si rese conto che non c’era alcuna comunità – solo educati cenni del capo e porte chiuse – diede per scontato che qualcosa non andasse. In realtà, il nostro piccolo sobborgo non era un’eccezione. Ormai da decenni Robert Putnam, un docente di Harvard, monitora una delle tendenze più importanti della nostra epoca. 16 Ci sono infiniti modi in cui gli esseri umani possono unirsi per fare qualcosa in gruppo: una squadra sportiva, un coro, un’associazione di volontariato, una semplice cena a intervalli regolari. Da decenni, Putnam raccoglie dati sulla frequenza con cui facciamo tutte queste cose e ha riscontrato una vera e propria caduta libera. Ha fatto un esempio che è diventato famoso. Il bowling è uno dei passatempi più popolari negli Stati Uniti e le persone lo praticavano in federazioni organizzate: facevano parte di una squadra che gareggiava contro altre squadre, che socializzava con loro e imparava a conoscerle. Oggi gli americani giocano ancora a bowling, ma lo fanno da soli. Se ne stanno sulla loro pista, ciascuno per conto suo. La struttura collettiva è crollata.

Pensate a tutte le altre cose che facciamo per stare insieme, per esempio dare una mano alla scuola dei nostri figli. «Solo nei dieci brevi anni tra il 1985 e il 1994» scrive Putnam «la partecipazione attiva alle organizzazioni di quartiere […] è calata del 45 per cento». 17 Nell’arco di un decennio – gli anni della mia adolescenza, quando entrai in depressione – in tutto il mondo occidentale abbiamo smesso di riunirci in percentuale massiccia e ci siamo ritrovati tappati in casa. Ci siamo staccati dalla comunità e chiusi in noi stessi, mi ha spiegato Putnam quando ho parlato con lui. Queste tendenze si delineano dagli anni Trenta, ma sono in netto rialzo dal periodo in cui sono nato. Ciò significa che il senso di appartenenza alla comunità o persino la sensazione di avere degli amici su cui contare sono scesi in picchiata. Per esempio, gli scienziati sociali fanno da anni una semplice domanda a un campione di cittadini statunitensi: «Quanti confidenti hai?» Vogliono sapere a quante persone possono rivolgersi durante una crisi, o quando succede loro qualcosa di veramente bello. Quando iniziarono lo studio, decenni fa, ogni americano aveva in media tre amici intimi. Nel 2004 la risposta più frequente era zero. 18 Vale la pena soffermarsi su questo dato: ora la maggior parte degli americani non ha nemmeno un amico intimo. E non si può nemmeno dire che ci siamo rivolti ai nostri famigliari. La ricerca di Putnam dimostra che in tutto il mondo abbiamo smesso di fare le cose anche con loro. Mangiamo insieme molto più raramente; guardiamo la tv insieme molto più raramente; andiamo in vacanza insieme molto più raramente. «Quasi tutte le forme di coesione famigliare» dice Putnam, armato di grafici e di studi, «sono diventate meno frequenti nell’ultimo quarto del XX secolo». 19 Ci sono dati analoghi per la Gran Bretagna e per il resto del mondo occidentale. Facciamo le cose insieme più raramente di qualunque essere umano ci abbia preceduti. Molto prima della crisi economica del 2008 c’è stata una crisi sociale durante la quale ci siamo ritrovati molto più spesso soli e isolati. Le strutture di assistenza reciproca – dalla famiglia al quartiere – si sono disgregate. Abbiamo sciolto le tribù. Ci siamo imbarcati in un esperimento per vedere se gli esseri umani sappiano vivere da soli. Un giorno, mentre facevo ricerche per questo libro, mi sono ritrovato a corto di soldi a Lexington, nel Kentucky, e la mia ultima sera in città mi sono registrato in un motel molto economico vicino all’aeroporto. Era una nuda

stamberga di calcestruzzo sopra la quale gli aerei decollavano senza sosta e, mentre andavo e venivo dalla mia stanzetta, ho notato che nella camera attigua la porta era sempre aperta, la tv era sempre accesa e un uomo di mezza età si dondolava leggermente sul letto, in una posizione goffa e innaturale. La quinta volta che sono passato mi sono fermato a chiedergli quale fosse il problema. Mi ha risposto in un sussurro che qualche giorno prima aveva litigato con il suo figliastro – non ha precisato il motivo – e che quello l’aveva picchiato e gli aveva fratturato la mandibola. Era stato all’ospedale, ha aggiunto, e l’avrebbero operato entro quarantott’ore, ma nel frattempo gli avevano prescritto degli antidolorifici e l’avevano rimandato a casa. L’unico problema era che non aveva soldi per comprare i farmaci, così se ne stava seduto lì a piangere tutto solo. Avrei voluto dire: non ha degli amici? Non c’è nessuno che possa aiutarla? Ma era chiaro che non aveva nessuno. Così si era rifugiato lì dentro. Da bambino non ebbi mai la sensazione che mi mancasse qualcosa sul piano delle connessioni sociali. Mentre parlavo con gli scienziati che studiavano la solitudine, tuttavia, mi sono ricordato di un piccolo dettaglio. Per tutta l’infanzia, fino all’inizio dell’adolescenza, feci un sogno a occhi aperti. Fantasticavo che gli amici dei miei genitori – che erano sparpagliati per tutto il Paese e che vedevamo solo qualche volta l’anno – si trasferissero tutti nella nostra strada, così sarei potuto andare da loro quando la situazione a casa era difficile, cosa che accadeva spesso. Lo sognavo ogni giorno. Ma la nostra strada era abitata solo da persone altrettanto isolate e altrettanto sole. Una volta sentii l’attrice comica Sarah Silverman parlare in un’intervista radiofonica di come la depressione l’avesse colpita per la prima volta. Era all’inizio dell’adolescenza. Quando sua madre e il suo patrigno le avevano domandato cosa non andasse, non aveva trovato le parole per spiegarlo. Ma poi, finalmente, disse di avere nostalgia di casa, la stessa che provava quando si trovava al campeggio estivo. Lo confidò all’intervistatore – Terry Gross 20 di Fresh Air, una trasmissione in onda su NPR – non senza una certa perplessità. Aveva nostalgia di casa, ma era a casa. Credo di capire cosa le fosse successo. Quando parliamo di casa oggi, ci riferiamo solo alle nostre quattro mura e (se siamo fortunati) alla nostra famiglia nucleare. Ma questo non è mai stato il significato di ‘casa’ per i nostri antenati. Per loro, questa parola alludeva a una comunità, a una fitta rete di persone intorno a noi, a una tribù. Questa visione è perlopiù sparita. La

nostra idea di casa è rimpicciolita così tanto e così rapidamente da non soddisfare più il nostro bisogno di appartenenza. Così abbiamo nostalgia di casa anche quando siamo a casa. Mentre Cacioppo dimostrava come questo effetto si manifestasse negli esseri umani, altri scienziati lo studiarono negli animali. Per esempio, la professoressa Martha McClintock separò i ratti da laboratorio. 21 Alcuni furono allevati in una gabbia, da soli. Altri, in gruppo. I primi svilupparono tumori della mammella ottantaquattro volte in più rispetto ai secondi. Molti anni dopo aver iniziato i suoi esperimenti e le sue ricerche, Cacioppo scoprì un risvolto crudele di questa storia. Quando sottopose le persone sole a TAC al cervello, notò una cosa. Questi soggetti si accorgevano di una potenziale minaccia entro centocinquanta millisecondi, mentre le persone socialmente connesse ne impiegavano trecento, esattamente il doppio. Cosa significava? La solitudine prolungata, scoprì, induce a chiudersi sul piano sociale e a essere più diffidenti nei confronti di qualunque interazione. Si diventa ipervigili. Si inizia a essere più permalosi senza motivo e ad avere paura degli estranei. Si comincia a temere proprio la cosa di cui si ha più bisogno. Cacioppo lo chiama ‘effetto valanga’, perché la disconnessione genera altra disconnessione. Gli individui soli sono ipersensibili alle minacce perché sanno inconsciamente che nessuno si prende cura di loro, perciò nessuno li aiuterà se dovessero farsi male. Questo effetto valanga, scoprì Cacioppo, si può invertire, ma per aiutare una persona depressa o gravemente ansiosa servono più amore e più rassicurazioni di quanti ce ne sarebbero voluti all’inizio. La tragedia, si rese conto, è che molti di questi individui ricevono meno amore, perché diventa più difficile stare con loro. Anzi, sono il bersaglio di giudizi e critiche, e questo accelera il loro distacco dal mondo. La valanga li fa precipitare in un luogo sempre più gelido. Dopo aver passato anni a studiare le persone che dicevano di sentirsi sole, Cacioppo si ritrovò a farsi una domanda sorprendentemente elementare: cos’è la solitudine? Rispondere si rivelò più difficile del previsto. Quando chiedeva loro: «Sei solo?» non avevano problemi a capire di cosa parlasse, ma avevano difficoltà a dare una definizione. All’inizio, quando ancora non ci avevo riflettuto bene, ho dato per scontato che Cacioppo alludesse alla solitudine fisica, alla privazione del contatto con gli altri. Ho immaginato una vecchietta che è troppo fragile per uscire di casa e cui nessuno fa visita.

Cacioppo, tuttavia, scoprì che non era così. Durante i suoi studi emerse che sentirsi soli era diverso dal semplice essere soli. Per quanto sorprendente, la sensazione della solitudine non aveva molto a che fare con il numero di persone con cui i partecipanti parlavano ogni giorno, o ogni settimana. In realtà, alcuni di coloro che si sentivano più soli parlavano tutti i giorni con molte persone. «C’è una correlazione relativamente bassa tra connessioni oggettive e connessioni percepite» afferma Cacioppo. Quando me l’ha detto, sono rimasto sconcertato. Poi, però, mi ha invitato a immaginare di essere solo in una grande città dove non conoscevo nessuno. Va’ in un’importante piazza, ha continuato, l’equivalente di Times Square, di Las Vegas Strip o di Place de la République. Non sarai più solo: il posto sarà affollatissimo. Ma ti sentirai solo, probabilmente molto solo. Oppure immagina di essere in un letto d’ospedale in un reparto pieno di malati. Non sei solo. Sei circondato da pazienti. Puoi premere un pulsante, e un’infermiera si materializzerà al tuo fianco entro qualche attimo. Eppure quasi tutti si sentono soli in una situazione simile. Perché? Mentre indagava la questione, Cacioppo intuì che alla solitudine e alla sua guarigione mancava un ingrediente. Per mettere fine alla solitudine occorrono altre persone… più qualcos’altro. Serve anche, mi ha detto, la sensazione di condividere con l’altro individuo, o con il gruppo, qualcosa che sia importante per entrambi. Dovete esserci dentro insieme, e può trattarsi di qualunque cosa abbia significato e valore per tutti e due. Quando sei a Times Square nel tuo primo pomeriggio a New York, non sei solo, ma ti senti solo perché gli altri non fanno caso a te e tu non fai caso a loro. Non condividi la tua gioia o la tua angoscia. Tu non significhi nulla per le persone tutt’intorno, e loro non significano nulla per te. Quando sei ricoverato in ospedale, non sei solo, ma l’aiuto è a senso unico. L’infermiera è lì per aiutare te, ma tu non sei lì per aiutare lei e, se ci provi, ti pregheranno di smettere. Un rapporto unidirezionale non può guarire la solitudine. Soltanto quelli a due (o più) vie ci riescono. La solitudine non è l’assenza fisica degli altri, ha aggiunto Cacioppo, bensì la sensazione di non condividere nulla di importante con nessuno. Se hai molte persone intorno a te – magari persino un marito o una moglie, o una famiglia, o un nutrito gruppo di colleghi – ma non condividi nulla di significativo con loro, continuerai a essere solo. Per contrastare la solitudine occorre un senso di «aiuto e di protezione reciproci», ha intuito Cacioppo,

con almeno un’altra persona o, meglio ancora, con molte altre. Ci ho riflettuto molto. Nei mesi successivi alla mia ultima conversazione con lui ho continuato a notare un cliché del self-help che le persone si ripetono senza sosta e condividono continuamente su Facebook: «Nessuno può aiutarti a parte te stesso». Mi sono reso conto di una cosa: in ogni decennio dagli anni Trenta in poi non abbiamo solo cominciato a fare le cose da soli più spesso, ma anche a credere che questa sia una condizione naturale per gli esseri umani e l’unico modo per stare bene. 22 Abbiamo iniziato a ragionare così: ‘Io penso a me stesso, e tutti gli altri dovrebbero pensare a se stessi, come individui. Nessuno può aiutarti a parte te stesso. Nessuno può aiutarmi a parte me stesso’. Queste idee sono così radicate nella nostra cultura che possiamo addirittura propinarle sotto forma di banalità ottimistiche a coloro che si sentono giù, come se potessero risollevare loro il morale. Cacioppo ha dimostrato tuttavia che questa è una negazione della storia e della natura umane. Ci spinge a fraintendere i nostri istinti più elementari, e questo approccio alla vita ci fa stare malissimo. Quando Cacioppo iniziò a fare queste domande negli anni Settanta, i suoi professori credevano che i fattori sociali fossero perlopiù irrilevanti (o troppo complessi da studiare) se si voleva capire cosa accadesse nel cervello quando l’umore e le emozioni cambiavano. Negli anni seguenti, invece, lo studioso dimostrò senza ombra di dubbio che possono essere decisivi. Fondò una diversa scuola di pensiero, che prese il nome di ‘neuroscienza sociale’. 23 Come spiegherò più avanti, il cervello si modifica a seconda di come viene usato. «L’idea che il cervello sia statico e fisso è inesatta. Questo organo è soggetto a cambiamenti» mi ha detto Cacioppo. La solitudine cambia il cervello, e uscire dalla solitudine anche. Perciò, se non si considerano sia il cervello sia i fattori sociali che lo modificano, è impossibile capire cosa stia succedendo realmente. Il vostro cervello non è mai stato un’isola. Non lo è neppure ora. Eppure c’è una smentita lampante di tutte queste prove sperimentali della nostra disconnessione. È un’idea che continuava a ronzarmi per la testa. Sì, abbiamo perso un tipo di connessione, ma non ne abbiamo forse trovato un altro? Ho appena aperto Facebook. Settanta dei miei amici, vedo, sono online in questo momento, in diversi continenti. Potrei parlare subito con loro. Mentre facevo ricerche per questo libro, ho continuato a imbattermi in questa

apparente contraddizione: viaggiavo per il mondo constatando come fossimo profondamente disconnessi, e poi aprivo il portatile e mi rendevo conto che siamo più connessi ora di quanto lo siamo mai stati in qualunque altro momento della storia umana. Esiste un’enorme quantità di testi sullo stato d’animo legato alla migrazione mentale nel cyberspazio, cioè al fatto che passiamo così tanto tempo online. Ma quando ho iniziato a scavare, mi sono accorto che avevamo trascurato il punto più importante. Internet è arrivata a prometterci una connessione proprio nel momento in cui le forze più estese della disconnessione stavano crescendo sempre più. Ho capito davvero quali fossero le implicazioni di questo fenomeno solo quando sono andato nel primo centro di riabilitazione per dipendenti da Internet negli Stati Uniti. Prima, però, dobbiamo fare un passo indietro per scoprire come è nato. Un giorno, alla metà degli anni Novanta, un venticinquenne entrò nello studio della dottoressa Hilarie Cash, vicino al quartier generale della Microsoft nello Stato di Washington. Lei era una psicoterapeuta e lui un bel giovane elegante. Dopo un garbato scambio di convenevoli, il paziente le espose un problema. James veniva da una piccola città ed era sempre stato il ragazzo più popolare della scuola. 24 Aveva il massimo dei voti ed era diventato capitano di una squadra sportiva. L’ammissione a un’università dell’Ivy League era stata un gioco da ragazzi e una fonte di grande orgoglio. Poi, però, quando James aveva lasciato la sua comunità ed era arrivato nel suo prestigioso ateneo, si era sentito terrorizzato. Per la prima volta in vita sua non era il ragazzo più intelligente della classe. Osservava come parlavano le persone, i rituali cui avrebbe dovuto prendere parte, i bizzarri gruppi sociali che si andavano formando, ed era stato assalito da un profondo senso di solitudine. Così mentre gli altri socializzavano, si ritirava nella sua stanza, accendeva il computer e lanciava il gioco EverQuest. Era uno dei primi a cui si poteva giocare simultaneamente con molti sconosciuti là fuori, nel cyberspazio. In questo modo poteva stare con le persone, ma in un mondo dove vigevano regole chiare e ordinate, e dove poteva essere di nuovo qualcuno. Aveva cominciato a saltare le lezioni per giocare a Ever-Quest. Con il passare dei mesi, il videogame aveva assorbito una parte sempre maggiore della sua vita. James stava svanendo in quel mondo elettronico. Dopo un po’ l’università gli aveva comunicato che non poteva andare avanti così, ma lui

aveva continuato a giocare, come se EverQuest fosse un’amante segreta che lo ossessionava. Quando era stato espulso, gli amici e i famigliari erano rimasti increduli. Aveva sposato la fidanzatina del liceo e le aveva promesso che sarebbe cambiato. Aveva trovato lavoro nel settore informatico ed era sembrato rimettersi lentamente in carreggiata. Quando si sentiva solo o confuso, tuttavia, provava il desiderio irresistibile di giocare. Una sera aveva aspettato che la moglie si addormentasse, era sceso di nascosto al piano di sotto e aveva lanciato EverQuest. Di lì a poco era diventata un’abitudine. James si stava trasformando di nascosto in un giocatore compulsivo. Poi, un giorno, aveva aspettato che la moglie uscisse per andare al lavoro, si era dato malato e aveva giocato fino a sera. Anche questa era diventata un’abitudine. Alla fine, come all’università, i datori di lavoro avevano deciso di cacciarlo via. James non aveva avuto il coraggio di confessarlo alla moglie, così aveva cominciato a pagare le bollette con la carta di credito. Più era stressato, e più giocava. Quando andò da Hilarie, ormai ogni cosa era andata a catafascio. Sua moglie aveva scoperto tutto e James mostrava tendenze suicide. Quando pazienti di questo tipo iniziarono a varcare la soglia del suo studio, Hilarie non era una specialista di rapporti problematici con Internet – perché alla metà degli anni Novanta nessuno lo era – ma riceveva sempre più spesso persone che passavano la vita in mondi virtuali. C’era una donna che era dipendente dalle chat online: aveva sempre almeno sei finestre aperte nello stesso momento e immaginava di avere una relazione sentimentale, o di fare cybersesso, con tutti gli sconosciuti dall’altra parte. C’era un altro giovane che non riusciva a smettere di giocare a una versione online di Dungeons and Dragons. E così via. All’inizio Hilarie non sapeva cosa fare. In un primo momento, mi ha detto in una tavola calda in una zona rurale dello Stato di Washington, «seguivo perlopiù l’istinto». Non c’erano regole scritte. Ora, quando ripensa a quei primi casi, ha aggiunto, «mi sembra di aver visto lo sgocciolio prima dell’inondazione. E l’inondazione sta diventando uno tsunami». Sono sceso dall’auto in una radura nel bosco. Gli aceri e i cedri ondeggiavano leggermente nel vento. Da quella che pareva una fattoria, un cagnolino mi è corso incontro abbaiando. Da qualche parte in lontananza ho sentito altri animali che facevano dei versi, ma non sapevo cosa o dove fossero. Ero davanti al primo centro di riabilitazione contro la dipendenza da

Internet e dai videogiochi negli Stati Uniti, cofondato da Hilarie dieci anni prima e chiamato reSTART Life. 25 D’impulso, senza pensarci, ho controllato il telefono. Non c’era campo e, per quanto possa sembrare assurdo, ho provato una punta di irritazione. All’inizio due pazienti mi hanno fatto fare il giro della struttura. 26 Matthew era un sinoamericano scheletrico sui venticinque anni, mentre Mitchell era bianco, sulla trentina, simpatico, bello e calvo. Questa è la palestra, hanno spiegato, dove facciamo sollevamento pesi. Questa è la capanna per la meditazione, dove impariamo la mindfulness. Questa è la cucina, dove ci insegnano a preparare da mangiare. Poi ci siamo seduti nel bosco dietro l’edificio e abbiamo parlato. Matthew mi ha raccontato che quando si sentiva solo, «nascondevo i miei sentimenti e usavo il computer come una specie di via di fuga». Dall’adolescenza aveva sviluppato un’ossessione per League of Legends. «Si gioca cinque contro cinque» ha continuato. «Ci sono cinque persone in ogni squadra. Si lavora insieme per raggiungere un obiettivo comune e tutti hanno un compito specifico. È molto complesso […] Mi sentivo felice, intensamente concentrato sul gioco». Prima di arrivare al centro, giocava quattordici ore al giorno. Era già pelle e ossa, ma aveva perso quindici chili perché non interrompeva le partite nemmeno per mangiare. «Stavo praticamente sempre seduto davanti al computer». La storia di Mitchell era un po’ diversa. Da quando ricordava, sfuggiva all’isolamento di una situazione famigliare difficile raccogliendo informazioni su qualunque cosa lo incuriosisse. Da bambino conservava altissime pile di giornali sotto il letto. Poi, a dodici anni, aveva scoperto la connessione telefonica a Internet e cominciato a stampare enormi quantità di dati da leggere «fino a perdere i sensi». Non riusciva mai a moderare la sua sete di informazioni, a dire: okay, ora ne so abbastanza. Quando aveva ottenuto un lavoro come sviluppatore di software e ricevuto un incarico che l’aveva messo sotto pressione, si era ritrovato a inseguire senza sosta Bianconigli virtuali. Aveva trecento tab costantemente aperti. I loro racconti mi sono suonati molto familiari. Se sei un tipico occidentale del XXI secolo, controlli il telefono ogni sei minuti e mezzo. 27 Se sei un teenager, invii in media cento messaggi al giorno. E il 42 per cento di noi non spegne mai il cellulare. Mai. Quando cerchiamo una spiegazione per questo cambiamento, ci sentiamo ripetere che dipende perlopiù da qualcosa dentro la tecnologia stessa.

Diciamo che ogni e-mail nella cassetta della posta in arrivo ci procura una piccola scarica di dopamina. Siamo convinti che gli smartphone diano assuefazione. Incolpiamo i dispositivi. Tuttavia, mentre ero al centro di riabilitazione e riflettevo sul mio uso di Internet, ho cominciato a chiedermi se ci fosse un modo diverso e più onesto di vedere la situazione. Quasi tutti i pazienti della struttura, mi ha detto Hilarie, hanno certe cose in comune. Prima che insorgesse la compulsione, erano tutti ansiosi o depressi. Per il soggetto, l’ossessione di Internet era uno strumento per «sfuggire all’ansia attraverso la distrazione. È questo il loro profilo esatto, nel 90 per cento dei casi». Prima della dipendenza da Internet, questi giovani si sentivano persi e isolati nel mondo. Poi la realtà virtuale ha offerto loro le cose di cui avevano un disperato bisogno, ma che erano svanite dall’ambiente, per esempio un obiettivo importante, uno status o una tribù. «I giochi più popolari» continua Hilarie, «sono i multiplayer, dove entri a far parte di una gilda – cioè di una squadra – e hai la possibilità di conquistare uno status al suo interno. L’aspetto positivo, direbbero questi soggetti, è il ragionamento: ‘Sono membro di una squadra. So collaborare con i miei compagni’. È tribalismo puro e semplice». A quel punto, prosegue Hilarie, «puoi immergerti in una realtà alternativa e perdere completamente di vista te stesso. Ti senti gratificato dalle sfide, dall’opportunità di collaborare, dalla comunità cui appartieni, in cui godi di uno status e su cui hai molto più controllo rispetto al mondo reale». Ci ho riflettuto molto, pensando a come la depressione o l’ansia avessero preceduto l’uso compulsivo di Internet per tutti i pazienti del centro. L’ossessione della rete, mi ha detto Hilarie, era un tentativo disfunzionale di risolvere il dolore che già provavano, causato in parte dalla sensazione di essere soli al mondo. E se questo valesse non soltanto per le persone qui dentro, mi sono domandato, ma anche per molti di noi? Internet nacque in un mondo in cui molti individui avevano già perso il senso della connessione reciproca. Ormai il crollo era in atto da decenni. Il web offrì loro una sorta di parodia di ciò che stavano perdendo: amici di Facebook al posto dei vicini di casa, videogame al posto di un lavoro proficuo, aggiornamenti dello stato al posto di uno status nel mondo. Una volta l’attore comico Marc Maron scrisse che «ogni aggiornamento dello stato è soltanto una variazione sul tema: ‘Qualcuno sarebbe così gentile da accorgersi di me?’» 28

«Se la cultura in cui sei inserito non è sana» mi ha spiegato Hilarie, «finirai per diventare un individuo poco sano. Così ultimamente ci ho pensato molto. E poi» – si è passata le dita tra i capelli e si è guardata intorno – «sono stata presa dallo sconforto». Viviamo, si è convinta, in una cultura in cui le persone non «stabiliscono le connessioni di cui hanno bisogno per essere individui sani» ed è per questo che non riusciamo a mettere giù lo smartphone o a sopportare l’idea del log-out. Diciamo a noi stessi che passiamo gran parte della vita nel cyberspazio perché quando siamo lì, siamo connessi, invitati a una festa scatenata con miliardi di persone. «Sono tutte cavolate» ha concluso. Non è affatto contraria alla tecnologia – è su Facebook e le piace – ma «ritengo non sia ciò di cui abbiamo veramente bisogno». «Il tipo di connessione che ci serve è questo» – ha agitato la mano tra noi – «cioè un rapporto faccia a faccia in cui riusciamo a vederci, toccarci, annusarci e udirci a vicenda […] Siamo creature sociali. Siamo destinati a coltivare un contatto reciproco in modo sicuro e affettuoso ma, quando c’è la mediazione di uno schermo, tutto questo viene meno». La differenza tra essere online ed essere fisicamente con le persone, ho capito in quel momento, assomiglia un po’ a quella tra la pornografia e il sesso: affronta un’esigenza fondamentale, ma non è mai appagante. Hilarie mi ha guardato, poi ha lanciato un’occhiata al mio cellulare posato sul tavolo. «La tecnologia mediata da uno schermo non ci dà ciò di cui abbiamo davvero bisogno». Dopo aver studiato la solitudine per anni, John Cacioppo mi ha detto che le prove sperimentali parlano chiaro: i social media non possono compensare psicologicamente la perdita della vita sociale. Ma soprattutto, il loro uso ossessivo è il tentativo di riempire un vuoto, una grande lacuna che si è aperta prima dell’avvento degli smartphone. È, come molti casi di depressione e di ansia, l’ennesimo sintomo della crisi attuale. Poco prima che lasciassi il centro di riabilitazione, Mitchell – il tipo simpatico – mi ha detto che voleva mostrarmi una cosa. «In realtà è soltanto un fatto carino che ho notato qui dentro» ha precisato mentre camminavamo. «C’è un uovo di ragno che si è schiuso sull’albero. Lo capisci perché, se hai visto [il cartone animato] La tela di Carlotta, alla fine i ragnetti nascono e poi buttano fuori le loro stelle filanti e si allontanano fluttuando. È quello che succede qui! Ogni volta che c’è una brezza forte, vedi alcuni fili che volano via dalla cima dell’albero».

Ne aveva discusso per ore con gli altri pazienti del centro, ha proseguito. Ne ha guardato uno e ha sorriso. In un altro contesto l’avrei trovato troppo sdolcinato. Guardate, il maniaco dei videogame passa dal World Wide Web ai piaceri di una vera ragnatela e di una rete di connessioni faccia a faccia con altre persone! Ma il viso di Mitchell esprimeva vera gioia, e mi sono fermato. Abbiamo osservato a lungo la ragnatela. Mitchell l’ha fissata in silenzio. «È solo una cosa molto interessante che non avevo mai visto prima». Commosso, mi sono ripromesso di trarre insegnamento da quell’istante. Poi, quando ero in auto da dieci minuti, ho sentito una fitta di nostalgia e ho notato che il telefono aveva ricominciato a ricevere. Ho controllato subito le e-mail. Oggi, quando i miei genitori tornano nei luoghi della loro infanzia – che all’epoca vantavano comunità molto coese – scoprono che anche quelli si sono trasformati in tanti Edgware. Le persone si salutano con un cenno del capo e chiudono la porta. La disconnessione si è estesa a tutto il mondo occidentale. John Cacioppo, che ci ha insegnato molto sulla solitudine, ama ricordare una citazione del biologo E.O. Wilson: «Le persone devono far parte di una tribù». Come un’ape impazzisce se perde l’alveare, l’essere umano impazzisce se perde la connessione con il gruppo. Cacioppo ha scoperto che, senza nemmeno volerlo, siamo diventati i primi uomini a smantellare le tribù. Di conseguenza, siamo rimasti soli in una savana che non capiamo, disorientati dalla nostra stessa tristezza.

8. Terza causa: la disconnessione dai valori importanti

Quando avevo quasi trent’anni ingrassai moltissimo: un effetto collaterale in parte degli antidepressivi e in parte del pollo fritto. Potrei ancora elencarvi a memoria i relativi pregi di tutti i fast-food di East London che erano alla base della mia alimentazione, dal Chicken Cottage al Tennessee Fried Chicken (con il suo logo raffigurante la caricatura di un pollo sorridente che porta un secchiello di coscette fritte: chi immaginava che il cannibalismo potesse essere un efficace strumento di marketing?). Il mio preferito era Chicken Chicken Chicken, con il suo nome geniale. Le sue alette calde erano, per me, la Monna Lisa dell’unto. Una vigilia di Natale andai al Kentucky Fried Chicken più vicino, e un membro del personale mi vide e mi sorrise da dietro il bancone. «Johann!» disse. «C’è una sorpresa per te!» Gli altri si voltarono e mi guardarono impazienti. Da qualche parte dietro la griglia e gli sfrigolii, il ragazzo tirò fuori un biglietto di auguri. I loro sorrisi smaniosi mi costrinsero a leggerlo subito. «Al nostro miglior cliente» c’era scritto, insieme ai messaggi personali di ciascun membro dello staff. Non andai più a mangiare al KFC. Quasi tutti sappiamo che qualcosa non va nella nostra alimentazione. Non siamo tutti medaglie d’oro nel consumo di grassi come ero io, ma mangiamo sempre più spesso le cose sbagliate e ciò è causa di malesseri fisici. Mentre indagavo su depressione e ansia, ho iniziato a capire che qualcosa di analogo sta accadendo ai nostri valori e che ciò è causa di malesseri emotivi. A rendersene conto è stato lo psicologo americano Tim Kasser, così l’ho incontrato per farmi raccontare la sua storia. Da bambino, Kasser arrivò nel bel mezzo di una lunga distesa di paludi e spiagge sconfinate. Suo padre era il direttore di una compagnia d’assicurazioni e, all’inizio degli anni Settanta, fu trasferito nella contea di Pinellas, sulla costa occidentale della Florida. La regione era perlopiù non edificata e aveva molti grandi spazi all’aperto in cui un bambino poteva

giocare. La contea, tuttavia, raggiunse ben presto la velocità di crescita più alta di tutti gli Stati Uniti e subì una trasformazione radicale. «Quando ho lasciato la Florida» mi ha detto Kasser, «l’ambiente era completamente diverso. Non potevi più guidare lungo la spiaggia e vedere il mare, per via di tutti i condomini e i palazzi. Aree che prima erano selvagge, popolate da alligatori e serpenti a sonagli […] [erano diventate] terreno lottizzato dopo terreno lottizzato dopo centro commerciale». Come i suoi amici, Kasser subì il fascino dei centri commerciali che avevano sostituito le spiagge e le paludi. Lì giocava per ore ad Asteroids e Space Invaders. Ben presto si ritrovò a desiderare alcuni oggetti, i giocattoli che vedeva negli spot pubblicitari. Mi rammenta Edgware, il mio quartiere. Avevo otto o nove anni quando venne inaugurato il suo centro commerciale – il Broadwalk Centre –, e ricordo di aver vagato davanti alle vetrine illuminate e di aver sbirciato, in uno stato di trance euforica, tutte le cose che avrei voluto comprare. Avrei fatto carte false per avere il modellino di plastica verde del castello di Grayskull, la fortezza doveva viveva He-Man, e Tantamore, la città sulle nuvole abitata dagli Orsetti del cuore. A Natale mia madre non colse le mie allusioni e non mi comprò Tantamore, e io tenni il broncio per mesi. Soffrivo e mi struggevo per quel pezzo di plastica. Come quasi tutti i bambini dell’epoca, guardavo la tv almeno tre ore al giorno – solitamente di più – e nelle giornate estive mi staccavo dal televisore solo per andare al Broadwalk Centre e poi tornare a casa. Non ricordo che qualcuno me l’abbia mai detto esplicitamente, ma avevo l’impressione che la felicità coincidesse con la possibilità di acquistare le merci esposte nelle vetrine. Credo che se allora mi aveste chiesto cosa significasse essere felici, avrei risposto: andare al Broadwalk Centre e comprare tutto ciò che vuoi. Domandavo a mio padre quanto guadagnassero i personaggi famosi che vedevo in tv; lui tirava a indovinare e fantasticavamo su cosa avremmo fatto con tutti quei soldi. Era più un rituale affettivo che una fantasia di shopping sfrenato. Ho chiesto a Kasser se, nella contea di Pinellas, avesse mai sentito parlare di un modo diverso di attribuire un valore alle cose, oltre all’idea che la felicità derivasse dall’acquisizione e dal possesso di oggetti. «Be’… penso… non da bambino. No» ha risposto. A Edgware dovevano pur esserci persone con valori differenti, ma credo di non averle mai incrociate. Un’estate, quando Kasser era adolescente, il suo istruttore di nuoto si

trasferì e gli regalò una piccola collezione di dischi, che comprendeva album di John Lennon e Bob Dylan. 1 Mentre Kasser li ascoltava, si rese conto che sembravano esprimere qualcosa che non aveva mai udito altrove. Cominciò a chiedersi se nei testi ci fossero riferimenti a un diverso approccio alla vita, ma non trovò nessuno con cui discuterne. Ci rifletté più attentamente solo quando, al culmine dell’era reaganiana, andò alla Vanderbilt University, un college molto conservatore nel Sud. Nel 1984 votò per Ronald Reagan, ma era molto interessato alla questione dell’autenticità. «Brancolavo nel buio» mi ha detto. «Penso di aver messo in discussione praticamente ogni cosa. Non solo quei valori, ma anche me stesso, la natura della realtà e i valori della società». Aveva la sensazione di essere circondato da pentolacce e di colpirle tutte a casaccio. «A essere sincero, credo che quella fase sia durata a lungo» ha aggiunto. Quando iniziò la specializzazione, lesse molti libri di psicologia. Fu più o meno in quel periodo che notò una cosa bizzarra. Da millenni, i filosofi sostenevano che se l’individuo sopravvalutava il denaro e i beni materiali, o se attribuiva troppa importanza all’opinione altrui, sarebbe stato infelice. In altre parole, i valori della contea di Pinellas e di Edgware erano profondamente sbagliati. 2 L’argomento era stato oggetto di molti dibattiti da parte delle menti più brillanti che avessero mai vissuto su questa Terra, e Kasser pensava che i filosofi avessero ragione. Però nessuno aveva mai condotto un’indagine scientifica per dimostrarlo. Questa consapevolezza lo spinse a imbarcarsi in un progetto che l’avrebbe tenuto impegnato per venticinque anni e che gli avrebbe permesso di trovare ovunque prove del perché ci sentiamo come ci sentiamo e del perché la situazione si stia aggravando. Iniziò tutto durante la specializzazione universitaria, con un semplice sondaggio. Kasser inventò un modo per misurare quanto un individuo prediliga i soldi e i beni materiali rispetto ad altri valori come passare del tempo con la famiglia o cercare di rendere il mondo un posto migliore. Lo chiamò indice di aspirazione, 3 ed è molto immediato. Chiedi alle persone fino a che punto siano d’accordo con affermazioni come «è importante possedere oggetti costosi» e con affermazioni molto diverse come «è importante rendere il mondo un posto migliore per gli altri». Poi puoi calcolare i loro valori. Allo stesso tempo puoi fare molte altre domande, per esempio appurando se il partecipante sia infelice o se soffra (o abbia sofferto) di depressione o di

ansia. Quindi, in una prima fase, controlli le corrispondenze. La prima esitante ricerca di Kasser consistette nel distribuire il sondaggio a 316 studenti. Quando arrivarono le risposte, i risultati lo stupirono: le persone materialiste, secondo cui la felicità viene dall’accumulo di oggetti e da uno status più alto, avevano livelli molto maggiori di depressione e di ansia. 4 Era, Kasser lo sapeva bene, solo un rudimentale primo salto nel buio. Così il passo successivo – nel quadro di uno studio molto più esteso – fu chiedere a uno psicologo clinico di valutare attentamente centoquaranta diciottenni, calcolando dove si collocassero sull’indice di aspirazione e se fossero depressi o ansiosi. Quando Kasser tirò le somme, il risultato fu lo stesso: più i ragazzi ambivano a possedere delle cose e a sfoggiare i loro averi, e più era probabile che soffrissero di depressione e di ansia. 5 Il fenomeno riguardava soltanto i giovani? Per scoprirlo Kasser esaminò cento cittadini di Rochester, nell’area settentrionale dello Stato di New York, che appartenevano a diverse fasce d’età e a diversi contesti economici. Il risultato non cambiò. In che modo si spiegava una cosa del genere? Nella fase successiva condusse uno studio più dettagliato per monitorare l’influsso di questi valori nel tempo. Invitò 192 studenti a tenere un diario particolareggiato dei loro stati d’animo, annotando due volte al giorno la frequenza con cui provavano nove emozioni, tra cui la felicità o la rabbia, e con cui riscontravano nove sintomi fisici, per esempio il mal di schiena. Quando calcolò i risultati, notò ancora una volta che la depressione era più diffusa tra i soggetti materialisti; ma c’era un dato più importante. Pareva proprio che, giorno dopo giorno, i materialisti se la passassero peggio su tutta la linea. Si ammalavano più spesso ed erano più arrabbiati. «Il forte desiderio di oggetti materiali» si convinse Kasser «influisce concretamente sulla vita quotidiana dei partecipanti e abbassa la qualità della loro esperienza». 6 Questi studenti provavano meno gioia e più disperazione. Perché? Come gli psicologi ben sanno dagli anni Sessanta, ci sono due tipi di fattori che ti motivano a scendere dal letto la mattina. I primi sono le motivazioni intrinseche, 7 le cose che fai semplicemente perché le apprezzi in sé, non per ciò che ne ricavi. Quando un bambino gioca, è spinto unicamente da motivazioni intrinseche. Lo fa perché gli dà gioia. L’altro giorno ho chiesto al figlio di un amico, che ha cinque anni, perché stesse giocando. «Perché mi piace» ha risposto. Poi ha arricciato il naso, ha detto: «Sei

sciocco!» ed è corso via fingendo di essere Batman. Queste motivazioni intrinseche persistono per tutta la vita, molto tempo dopo l’infanzia. Contemporaneamente c’è una serie di valori rivali, detti motivazioni estrinseche. 8 Sono le cose che fai non perché tu lo voglia davvero, ma perché ricevi qualcosa in cambio: soldi, ammirazione, sesso, prestigio. Joe, che avete conosciuto nel capitolo precedente, andava al negozio di vernici ogni mattina per ragioni puramente estrinseche: odiava il lavoro, ma doveva pagare l’affitto, comprare l’Oxy che lo intontiva per tutto il giorno, e avere l’auto e i vestiti che, a suo parere, gli garantivano il rispetto da parte degli altri. Tutti abbiamo qualche motivazione di questo tipo. Immaginate di suonare il pianoforte. Se lo fate per voi stessi, perché vi piace, siete guidati da valori intrinseci. Se lo suonate in una bettola ripugnante, giusto per guadagnare quanto basta perché non vi diano lo sfratto, agite sulla spinta di valori estrinseci. Queste categorie rivali di valori esistono in tutti noi. Nessuno è condizionato solo dagli uni o solo dagli altri. Kasser si domandò se esaminare questo conflitto più da vicino avrebbe rivelato qualcosa di importante. Così iniziò a monitorare attentamente un gruppo di duecento persone nel corso del tempo. Le invitò a descrivere i loro obiettivi per il futuro. Quindi stabilì con loro se fossero estrinseci – ottenere una promozione, trasferirsi in un appartamento più spazioso – o intrinseci, come essere un amico più disponibile, un figlio più affettuoso o un pianista più bravo. Infine pregò i partecipanti di tenere un dettagliato diario dell’umore. Ciò che voleva sapere era: il raggiungimento degli obiettivi estrinseci rende felici? E quello degli obiettivi intrinseci? I risultati furono sorprendenti. 9 Le persone che realizzavano le aspirazioni estrinseche non notavano alcun aumento – e sottolineo alcuno – nella felicità quotidiana. Sprecavano un’enorme quantità di energia inseguendo questi obiettivi ma, quando li conseguivano, si sentivano come all’inizio. La promozione? L’auto di lusso? Il nuovo iPhone? La collana costosa? Non aumenteranno minimamente la vostra felicità. I soggetti che raggiungevano gli obiettivi intrinseci, invece, erano molto più felici, e meno depressi e ansiosi. Potevi monitorarne il cambiamento. Mentre si impegnavano e avevano la sensazione (per esempio) di essere diventati amici più affidabili – non perché volessero ricavarne un vantaggio, ma perché ritenevano che fosse una cosa buona – traevano maggiore

soddisfazione dalla vita. Essere un padre migliore? Ballare per il puro piacere di farlo? Aiutare un’altra persona tanto perché è la cosa giusta da fare? Sono tutte azioni che aumentano notevolmente la felicità. Tuttavia la maggior parte di noi, il più delle volte, passa il tempo a inseguire obiettivi estrinseci, quelli che non ci daranno un bel niente. La nostra cultura è fatta per indurci a ragionare in questo modo. Prendi i voti giusti. Trova il lavoro più remunerativo. Scala la gerarchia. Ostenta i tuoi guadagni attraverso i vestiti e le automobili. Così starai bene. Kasser aveva scoperto che questo messaggio è quasi sempre sbagliato. Più questa tesi era oggetto di studio, e più il concetto diventava chiaro. Da allora, ventidue ricerche hanno riscontrato che più si è materialisti e motivati da fattori estrinseci, e più si sarà depressi. 10 Da altre dodici è emerso che più si è materialisti e motivati da fattori estrinseci, e più si sarà ansiosi. Progetti analoghi, ispirati al lavoro di Kasser e basati su tecniche analoghe, sono stati lanciati in Gran Bretagna, Danimarca, Germania, India, Corea del Sud, Russia, Romania, Australia e Canada, e i risultati che arrivano da tutto il mondo sono gli stessi. Kasser ha rilevato che, come siamo passati indiscriminatamente dal consumo di cibo a quello di cibo spazzatura, siamo passati dall’adozione di valori importanti a quella di valori spazzatura. Tutto questo pollo fritto prodotto in massa assomiglia a cibo e attira la parte di noi che si è evoluta verso il bisogno di cibo, ma non ci dà ciò di cui necessitiamo: il nutrimento. Piuttosto, ci riempie di tossine. Allo stesso modo, tutti questi valori materialistici, che ci esortano a conquistare la felicità a suon di shopping, assomigliano a valori reali; attirano la parte di noi che si è evoluta verso il bisogno di principi fondamentali capaci di guidarci nella vita, ma non ci danno ciò di cui necessitiamo: una strada verso un’esistenza gratificante. Piuttosto, ci riempiono di tossine psicologiche. Il cibo spazzatura rovina il nostro corpo. I valori spazzatura rovinano la nostra mente. Il materialismo, insomma, è il KFC dell’anima. Quando Kasser approfondì le ricerche, riuscì a individuare almeno quattro ragioni principali per cui i valori spazzatura ci fanno stare così male. La prima è che ragionare estrinsecamente avvelena i rapporti con gli altri. Kasser unì di nuovo le forze con un altro docente, Richard Ryan – 11 che era stato suo alleato fin dall’inizio – per studiare a fondo duecento soggetti, e i due ricercatori osservarono che più diventiamo materialisti, e più le nostre

relazioni saranno brevi e di scarsa qualità. Se apprezzate una persona per l’aspetto esteriore o per l’immagine di sé che dà agli altri, è facile prevedere che non esiterete a scaricarla non appena arriverà qualcuno di più sexy o di più interessante. Allo stesso tempo, se vi soffermate solo sulla superficie di un altro individuo, è facile prevedere che la vostra compagnia sarà meno piacevole e che anche lui sarà più incline a scaricarvi. Avrete meno amicizie e meno connessioni, e non dureranno altrettanto a lungo. 12 La seconda scoperta concerne un altro cambiamento che si verifica quando si è guidati dai valori spazzatura. Torniamo all’esempio del pianoforte. Ogni giorno Kasser suona il piano e canta per almeno mezz’ora, spesso con i suoi figli. Lo fa unicamente perché gli piace. Nelle giornate buone lo appaga e gli dà gioia. Sente il suo ego dissolversi e vive il momento fino in fondo. Solide prove scientifiche dimostrano che ricaviamo il massimo piacere dagli «stati di flusso» 13 come questo: istanti in cui semplicemente ci perdiamo in qualcosa che amiamo e ci lasciamo trasportare dal momento. Indicano che sappiamo conservare la pura motivazione intrinseca provata da un bambino quando gioca. Ma quando Kasser si concentrò sulle persone particolarmente materialiste, si rese conto che avevano molti meno stati di flusso delle altre. 14 Perché? Si direbbe che abbia trovato una spiegazione. Immaginate che, suonando il piano ogni giorno, Kasser continui a rimuginare: ‘Sono il miglior pianista dell’Illinois? Gli altri applaudiranno la mia esecuzione? Mi pagheranno? Quanto?’ D’un tratto la sua gioia si scioglierebbe come neve al sole. Invece di dissolversi, il suo ego verrebbe esasperato, irritato, pungolato. È così che comincia ad apparire la vostra testa quando diventate più materialisti. Se fate qualcosa non per la cosa in sé ma per ottenere un effetto, non riuscite a godervi il piacere del momento. Monitorate costantemente voi stessi. Il vostro ego urlerà come un allarme impossibile da spegnere. Ciò conduce a una terza ragione per cui i valori spazzatura ci fanno stare male. Quando sei molto materialista, mi ha detto Kasser, «metti sempre in dubbio te stesso e ti domandi come ti giudichino gli altri». Sei costretto a «concentrarti sulle loro opinioni e sui loro elogi, e poi sei come obbligato a preoccuparti di cosa penseranno di te e a chiederti se ti daranno le ricompense che desideri. È un fardello pesante da portare, anziché fare ciò che ti interessa o frequentare persone che ti amano per quello che sei». Se «la tua autostima, la tua fiducia in te stesso, dipende da quanti soldi

hai, o da come sono i tuoi vestiti, o da quanto è grande la tua casa» sei incline a fare continui confronti esterni, dice Kasser. «C’è sempre qualcuno che ha una casa più bella o vestiti più eleganti o un conto corrente più corposo». Anche se fossi la persona più ricca del Pianeta, quanto durerebbe? Il materialismo ti rende costantemente vulnerabile a un mondo fuori del tuo controllo. Infine, prosegue, c’è una quarta ragione fondamentale. Vale la pena analizzarla, perché ritengo sia la più importante. Tutti noi abbiamo alcuni bisogni innati: sentirci connessi, sentirci apprezzati, sentirci al sicuro, avere la sensazione di fare la differenza nel mondo, essere autonomi, pensare di essere bravi in qualcosa. I materialisti, crede Kasser, sono meno felici perché adottano uno stile di vita che non soddisfa queste esigenze. 15 Ciò di cui hai davvero bisogno, mi ha spiegato, sono le connessioni. La nostra cultura invece ti dice che ti servono oggetti e prestigio, e nel divario tra questi due segnali – quello proveniente da te stesso e quello proveniente dalla società – la depressione e l’ansia crescono via via che le tue vere esigenze restano insoddisfatte. Puoi paragonare a una torta, mi ha suggerito Kasser, i valori che dettano i motivi per cui fai le cose nella vita. «Ciascuno dei nostri valori è come una fetta di questa torta. 16 Così hai la fetta della spiritualità, quella della famiglia, quella dei soldi e quella dell’edonismo. Tutti abbiamo tutte le fette». Quando si è ossessionati dal materialismo e dallo status, questa fetta diventa più grande. «Più aumenta, e più le altre devono rimpicciolire». Così se ti fissi sui beni materiali e su uno status superiore, le parti della torta incaricate di curare le tue relazioni, di trovare un significato o di migliorare il mondo devono ridursi per fare loro posto. «Il venerdì alle quattro posso scegliere se fermarmi [allo studio] e continuare a lavorare, oppure tornare a casa e giocare con i bambini» mi ha detto Kasser. «Non posso fare entrambe le cose. O l’una o l’altra. Se i valori materialistici hanno la meglio, resto a lavorare. Se i valori famigliari hanno la meglio, torno a casa e gioco con i bambini». Non è che i materialisti non tengano ai loro figli ma, «quando i valori materialistici prevalgono, gli altri vengono necessariamente esclusi» anche se dici a te stesso che non è vero. La pressione, nella nostra cultura, corre nettamente in una direzione: spendi di più, lavora di più. Viviamo dentro un sistema, afferma Kasser, che ci distrae costantemente «dalle cose davvero belle della vita». Siamo vittime

di una propaganda che ci esorta a condurre un’esistenza incapace di soddisfare i nostri bisogni psicologici fondamentali, così ci ritroviamo vittime di un permanente e sconcertante senso di insoddisfazione. Da millenni, gli esseri umani parlano della regola d’oro, l’idea secondo cui dovremmo fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Kasser, credo, ha scoperto la regola del ‘Voglio cose d’oro’. 17 Più pensate che vivere significhi possedere oggetti e status e ostentarli, e più sarete infelici, depressi e ansiosi. Ma perché gli esseri umani cercano, in misura così massiccia, qualcosa che li rende meno felici e più depressi? Non è assurdo fare qualcosa di così irrazionale? Nella fase successiva delle sue ricerche, Kasser prese in considerazione questo aspetto. I valori non sono mai immutabili. Il livello di valori spazzatura, scoprì monitorando i partecipanti ai suoi studi, può cambiare nel corso della vita. Si può diventare più materialisti e più infelici; oppure meno materialisti e meno infelici. Perciò, a suo parere, la domanda giusta da fare non era: «Chi è materialista?» bensì «Quando le persone sono materialiste?» Voleva sapere cosa provocasse questa variazione. C’è un esperimento, effettuato da un altro team di scienziati sociali, che ci dà un primo indizio. 18 Nel 1978 due ricercatori canadesi presero alcuni bambini di quattro e cinque anni e li divisero in due gruppi. Al primo non fu mostrato alcuno spot pubblicitario. Al secondo ne furono mostrati due di un particolare giocattolo. Quindi gli studiosi proposero ai piccoli un’alternativa. Ora, dissero, puoi scegliere di giocare con uno di questi due bambini. Puoi giocare con questo bambino, che ha il giocattolo della pubblicità, ma dobbiamo avvertirti che non è affatto simpatico. Anzi, è molto sgarbato. Oppure puoi giocare con un bambino che non ha il giocattolo, ma che è veramente gentile. Se avevano visto lo spot, i partecipanti optavano soprattutto per il primo. Altrimenti preferivano quasi sempre il secondo. In altre parole, gli spot li avevano spinti a preferire una connessione umana di qualità inferiore a una di qualità superiore, perché li avevano incoraggiati a pensare che la cosa davvero importante fosse un pezzo di plastica. Questo fu l’effetto di due spot. Già, due soltanto. Oggi, in una mattinata media, ogni individuo è esposto a un numero molto maggiore di messaggi pubblicitari. I bambini di diciotto mesi che sanno riconoscere la M di

McDonald’s sono più numerosi di quelli che conoscono il proprio cognome. 19 A trentasei mesi, il bambino medio conosce già cento loghi commerciali. 20 Kasser sospettava che la pubblicità influisse in modo determinante sul perché, ogni giorno, scegliamo un sistema di valori che ci fa stare peggio. Così, con il collega Jean Twenge, 21 calcolò la percentuale di ricchezza complessiva degli Stati Uniti che era stata investita in pubblicità tra il 1976 e il 2003, e scoprì che più la spesa pubblicitaria aumenta, e più i teenager diventano materialisti. Qualche anno fa, Nancy Shalek, la dirigente di un’agenzia di pubblicità, spiegò in tono d’approvazione: «La pubblicità, nella sua versione migliore, convince gli spettatori che senza quel prodotto sono degli sfigati. I bambini sono molto sensibili a questo […] Si fa leva sulle vulnerabilità emotive, e farlo con i bambini è facile come bere un bicchier d’acqua, perché sono i più vulnerabili sul piano emotivo». 22 Sembrano parole dure, finché non se ne capisce la logica. Immaginate che io guardi uno spot pubblicitario il cui messaggio è: Johann, vai bene così come sei. Hai un aspetto gradevole. Un odore gradevole. Sei attraente. Le persone ti cercano. Ormai possiedi oggetti a sufficienza. Non te ne servono altri. Goditi la vita. Dalla prospettiva dell’industria pubblicitaria, sarebbe il peggiore spot della storia, perché non mi verrebbe voglia di uscire a fare shopping, di correre al pc per ordinare un articolo né di fare alcuna delle altre cose che alimentano i miei valori spazzatura. 23 Mi indurrebbe a perseguire i miei obiettivi intrinseci, che comportano molte spese in meno e molta felicità in più. Quando i pubblicitari parlano tra loro, ammettono fin dagli anni Venti che il loro compito è far sentire inadeguate le persone, per poi offrire loro un prodotto a mo’ di soluzione al senso di inadeguatezza che hanno creato. Gli spot sono il nemico-amico supremo. Ripetono senza sosta: Tesoro, io voglio che tu abbia un aspetto/un profumo/uno stato d’animo fantastici; mi rattrista molto che al momento tu sia brutto/puzzolente/giù di morale; questo oggetto ti trasformerà nella persona che entrambi vogliamo che tu sia. Oh, ti ho detto che devi sborsare qualche dollaro? Voglio soltanto che tu sia la persona che meriti di essere. Non vale la pena spendere qualche dollaro? Certo che sì! Questa logica pervade la nostra cultura e cominciamo a imporcela a vicenda anche in assenza di annunci pubblicitari. Perché, da bambino, volevo

a tutti i costi le scarpe della Nike, anche se avevo tante probabilità di giocare a basket quante di andare sulla Luna? In parte era colpa della pubblicità, ma soprattutto della dinamica di gruppo che essa creava tra tutti i miei conoscenti. Generava un marcatore di status su cui poi vigilavamo. Da adulti, facciamo la stessa cosa, solo in modi leggermente più subdoli. Questo sistema ci abitua, sostiene Kasser, a credere «che nulla sia mai abbastanza. Quando ti concentri sui soldi, sullo status e sugli averi materiali, la società consumistica continua a dirti: di più, di più, di più, di più. Il capitalismo continua a dirti: di più, di più, di più. Il tuo capo continua a dirti di lavorare di più, di più, di più. Interiorizzi questo messaggio e pensi: ‘Oh, devo lavorare di più perché il mio io dipende dallo status e dal successo’. Interiorizzi questo messaggio. È una specie di oppressione interiorizzata». Secondo lui, ciò spiega anche perché i valori spazzatura sfocino in un aumento dell’ansia. «Ti chiedi sempre: riceverò una ricompensa? Questa persona mi ama per quello che sono, o per il mio conto in banca? Riuscirò a salire la scala del successo?» Sei vuoto ed esisti soltanto nel riflesso delle altre persone. «A lungo andare, tutto questo scatena l’ansia». Secondo Kasser, siamo tutti vulnerabili a questi influssi. «Per come la vedo io» mi ha detto, «i valori intrinseci sono una parte fondamentale della natura umana, ma sono fragili. È facile distrarci […] Dai alle persone dei modelli sociali di consumismo […] e loro si muovono in modo estrinseco». 24 Il desiderio di trovare valori intrinseci importanti «esiste, è una nostra componente fondamentale, ma non è difficile distogliere la nostra attenzione». E abbiamo un sistema economico costruito proprio intorno a questo. Mentre discutevamo dell’argomento per ore, ho continuato a pensare a una coppia che vive in una graziosa bifamiliare a Edgware. Voglio bene a entrambi. Li conosco da quando sono nato. Li adoro. Se sbirciaste dalla loro finestra, concludereste che hanno tutto il necessario per essere felici: l’amore, due figli, una bella casa, tutti i beni di consumo che la pubblicità ci dice di comprare. Pur odiando il loro lavoro, sgobbano entrambi per guadagnare soldi e poi spenderli nelle cose che, secondo la tv, li renderanno felici: vestiti e automobili, dispositivi elettronici e status symbol. Postano le foto di questi oggetti sui social e ricevono molti like e commenti come: «Oddio, vi invidio da morire!» Dopo un breve momento di euforia, di solito si ritrovano insoddisfatti e demoralizzati. Confusi da questo stato d’animo, ipotizzano spesso che dipenda dal fatto di

aver comprato la cosa sbagliata. Così lavorano più sodo e acquistano altri prodotti, postano le foto, si sentono euforici per un attimo e poi tornano al punto di partenza. Mi sembrano depressi. Oscillano tra l’apatia, la rabbia e i comportamenti compulsivi. La moglie ha sofferto a lungo di farmacodipendenza, anche se ora non più; il marito dedica almeno due ore al giorno alle scommesse online. Sono quasi sempre furiosi l’una con l’altro, con i figli, con i colleghi e, in generale, con il mondo. In macchina, per esempio, se la prendono con gli altri automobilisti, urlando e insultandoli. Hanno un’ansia che non riescono a scrollarsi di dosso e spesso la imputano a fattori esterni. La moglie controlla in maniera ossessiva i movimenti del figlio adolescente, temendo che da un momento all’altro resti vittima di un crimine o di un attentato terroristico. Questi due individui non hanno gli strumenti per capire come mai stiano così male. Fanno ciò che la cultura li esorta a fare da quando noi eravamo in fasce: lavorano sodo e comprano le cose giuste, le cose costose. Sono uno slogan pubblicitario ambulante. Come i bambini nel recinto di sabbia, hanno imparato a tuffarsi verso gli oggetti e a ignorare la prospettiva dell’interazione con coloro che li circondano. Ora capisco che non soffrono soltanto per la mancanza di qualcosa, come un lavoro stimolante o una comunità, ma anche per la presenza di qualcosa: una serie di valori errati, che li induce a cercare la felicità nei posti sbagliati e a ignorare le potenziali connessioni umane sotto i loro occhi. Quando Kasser scoprì tutti questi fatti, non li usò solo per impostare le sue ricerche scientifiche. Cominciò anche a condurre una vita che gli permettesse di vivere in modo coerente con i risultati dei suoi studi: di tornare, in un certo senso, a qualcosa di più simile alla spiaggia della Florida per cui andava matto da bambino. «Devi allontanarti dagli ambienti materialisti, quelli che rafforzano i valori materialisti» dice, perché paralizzano le tue soddisfazioni interiori. Poi, aggiunge, per rendere sopportabile questa rinuncia devi «sostituirli con azioni che garantiscano quelle soddisfazioni intrinseche [e] incoraggino quegli obiettivi intrinseci». Così, con la moglie e i due figli, si è trasferito in una fattoria su dieci acri di terra nell’Illinois, dove vivono con un asino e un gregge di capre. Hanno un piccolo televisore nel seminterrato, ma non è collegato ad alcuna stazione né alla tv via cavo. Serve soltanto per guardare un vecchio film ogni tanto. Solo di recente si sono allacciati a Internet (nonostante le sue proteste) ma

non lo usano molto. Kasser e sua moglie lavorano part-time «per passare più tempo con i ragazzi, per dedicarci al giardinaggio, al volontariato e all’attivismo e, nel mio caso, alla scrittura». Tutte le cose che regalano loro una soddisfazione intrinseca, insomma. «Giochiamo molto. Suoniamo molto. Parliamo molto». Cantano insieme. L’Illinois occidentale «non è il posto più emozionante del mondo» riconosce Kasser, «ma ho dieci acri di terra, un viaggio di soli dodici minuti con un semaforo lampeggiante e tre stop fino allo studio, e possiamo permettercelo con uno stipendio [full-time complessivo]». 25 Gli chiedo se abbia sofferto di astinenza dal mondo materialista in cui eravamo entrambi immersi da molto tempo. «Mai» risponde senza esitazione. «Le persone me lo domandano spesso: ‘Non ti manca questo? Non vorresti avere quello?’ No, perché non [sono] mai esposto ai messaggi secondo cui dovrei volere quegli oggetti […] Non mi espongo a quelle cose, perciò… no, non ho questo problema». Uno dei suoi momenti di maggiore orgoglio fu quando suo figlio tornò a casa un giorno e disse: «Papà, alcuni ragazzi a scuola mi prendono in giro per le mie scarpe da ginnastica». Non erano griffate né tantomeno nuove di zecca. «E tu cosa gli hai detto?» chiese Kasser. Il ragazzo li aveva guardati e aveva ribattuto: «Perché vi interessa così tanto?» Era rimasto allibito. Aveva capito che ciò cui i suoi compagni attribuivano un significato era vuoto e assurdo. Kasser dice che, vivendo senza questi valori inquinanti, ha scoperto un segreto. Questo stile di vita è più divertente del materialismo. «È più piacevole giocare con i tuoi figli» mi ha confidato. «È più piacevole fare cose motivate intrinsecamente che andare al lavoro e fare cose che magari non hai voglia di fare. È più piacevole sentire che le persone ti amano per quello che sei invece che perché hai regalato loro un grosso anello di diamanti». In cuor loro, crede, lo sanno quasi tutti. «A un certo livello, ne sono convinto, la maggior parte delle persone sa che sono i valori intrinseci a dare loro una vita gratificante» mi ha detto. Quando fai dei sondaggi e chiedi alla gente quali siano le cose più importanti della vita, mettono quasi sempre la crescita personale e le relazioni ai primi due posti. «Ma penso che, in parte, gli individui siano depressi perché la nostra società non è strutturata per aiutarli a vivere, a lavorare, a contribuire all’economia o alla comunità» in modi che sostengano i valori intrinseci. Il cambiamento cui Kasser assistette da bambino in Florida – dove le spiagge si trasformarono in centri

commerciali che calamitarono l’attenzione dei residenti – si è esteso all’intera cultura. Secondo Kasser, gli individui – da soli e in certa misura – sanno applicare queste intuizioni alla quotidianità. «La prima cosa è domandarsi: sto organizzando la mia vita in modo da realizzare i miei valori intrinseci? Frequento le persone giuste, che mi fanno sentire amato anziché farmi credere di essere una persona di successo? […] Certe volte si tratta di scelte difficili». Ma spesso, osserva, ti scontri con un limite culturale. Puoi migliorare, ma non di rado «i problemi cui sono interessato non si risolvono facilmente sul piano individuale, o nello studio dello psicoterapeuta, o con una pasticca». Ci vuole qualcosa di più, come mi sarei accorto in seguito. Quando ho intervistato Kasser, ho avuto l’impressione che mi avesse svelato un mistero. A Philadelphia non avevo capito perché Joe non lasciasse l’odiato lavoro al negozio di vernici e non andasse a pescare in Florida, dove sapeva che sarebbe stato molto più felice. Era il rappresentante di tutti coloro che, tra noi, sopportano situazioni opprimenti. Ora credo di sapere il perché. Joe è costantemente bombardato da messaggi che gli sconsigliano di fare ciò che, secondo il suo cuore, gli donerebbe calma e soddisfazione. La logica della nostra cultura gli suggerisce di restare prigioniero della gabbia consumista, di andare a fare shopping quando è di cattivo umore, di inseguire i valori spazzatura. È immerso in questi messaggi dal giorno in cui è nato. Perciò è stato addestrato a diffidare dei propri istinti più sani. Quando gli ho urlato: «Va’ in Florida!» il mio grido si è confuso in un uragano di messaggi e in un sistema di valori che dicono l’esatto contrario.

9. Quarta causa: la disconnessione dai traumi infantili

Quando entravano per la prima volta nello studio del dottor Vincent Felitti, alcune pazienti avevano difficoltà a passare dalla porta. 1 Non erano solo un tantino sovrappeso: mangiavano così tanto che stavano diventando diabetiche e distruggendo gli organi interni. Sembrava che non riuscissero a trattenersi. Quell’ambulatorio era la loro ultima spiaggia. Era la metà degli anni Ottanta e, nella città californiana di San Diego, Felitti era stato incaricato dalla Kaiser Permanente, un fornitore di servizi sanitari senza scopo di lucro, di indagare la sua maggiore fonte di spesa: l’obesità. Le avevano provate tutte, ma invano, così gli avevano dato carta bianca. Ricomincia da capo, gli avevano detto. Via libera alla creatività. Cerca di capire come risolvere il problema. Così i pazienti avevano iniziato ad arrivare. Ma ciò che Felitti avrebbe scoperto condusse, in realtà, a un importante progresso in un campo molto diverso: la nostra concezione della depressione e dell’ansia. Mentre tentava di cancellare tutti i preconcetti che circondano l’obesità, venne a conoscenza di una nuova strategia alimentare basata su un pensiero così semplice da essere esasperante. E se queste persone gravemente sovrappeso avessero smesso di mangiare e vissuto delle riserve di grasso accumulate nel loro corpo finché non avessero raggiunto un peso normale? Cosa sarebbe successo? Curiosamente, poco tempo prima il telegiornale aveva parlato di un esperimento in cui era stato messo in pratica proprio questo metodo, a tredicimila chilometri di distanza, per motivi diversi. Per anni, nell’Irlanda del Nord, le persone arrestate per aver preso parte alla lotta armata dell’Irish Republican Army finalizzata a cacciare i britannici dall’Irlanda del Nord, erano classificati come prigionieri politici 2 e trattati diversamente da coloro che (per esempio) erano stati arrestati per una rapina in banca. Potevano indossare i propri vestiti e non erano costretti a svolgere le stesse attività degli altri detenuti.

A un certo punto il governo britannico decise di eliminare questa distinzione e decise che i prigionieri politici erano semplicemente criminali comuni e che non avrebbero più dovuto ricevere un trattamento particolare. Così quelli iniziarono uno sciopero della fame e, lentamente, a deperire. Gli inventori di questa strategia alimentare esaminarono i dati clinici riguardanti questi scioperanti nordirlandesi per scoprire cosa li avesse uccisi. Emerse che il primo problema da affrontare era la carenza di potassio e di magnesio. Senza questi sali minerali, il cuore smette di battere adeguatamente. Okay, pensarono i sostenitori della dieta estrema, e se somministrassimo alle persone degli integratori di potassio e magnesio? Il cuore non ne risente. Se avete abbastanza grasso addosso, avete qualche mese di vita in più, finché la carenza di proteine non diventa letale. Okay, e se vi somministrano integratori per prevenire anche questo? Allora, salta fuori, avete un anno di vita… purché il grasso sia sufficiente. A quel punto morirete per carenza di vitamina C – scorbuto – o di altre sostanze. Okay, e se vi somministrano integratori anche per questo? In tal caso sembra che resterete in vita, scoprì Felitti nella letteratura medica, e in salute, e perderete centocinquanta chili l’anno. 3 Quindi potrete ricominciare a mangiare, stavolta in modo sano. Tutto ciò indicava che, in teoria, anche la persona più obesa scenderebbe a un peso normale entro un tempo ragionevole. I pazienti di Felitti le avevano provate tutte: ogni dieta lampo, ogni umiliazione, ogni bastone e ogni carota. Ma invano. Erano pronte a tentare qualunque cosa. Così, sotto un attento monitoraggio e molta supervisione, iniziarono questo programma. E, con il passare dei mesi, Felitti notò una cosa. Funzionava. I pazienti perdevano peso. Non si ammalavano, anzi tornavano in salute. Le persone che erano state rese disabili dal costante consumo di cibo videro il loro corpo trasformarsi sotto i loro occhi. Amici e parenti applaudirono. I conoscenti rimasero sbalorditi. Felitti credeva di aver trovato la soluzione al sovrappeso estremo. «Ho pensato: Oddio, abbiamo risolto questo problema» ha detto. Poi successe qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Nel programma c’erano alcuni soggetti particolarmente performanti, che persero molto peso in pochissimo tempo. L’équipe medica – e tutti i loro amici – prevedevano che queste persone avrebbero reagito con gioia all’idea di aver ritrovato la salute. Invece non andò così.

I partecipanti che avevano ottenuto i risultati migliori e perso più chili cadevano spesso in una grave depressione, nel panico o nella rabbia. 4 Alcuni manifestarono tendenze suicide. Senza la loro mole avevano la sensazione di non farcela. Si sentivano incredibilmente vulnerabili. 5 Spesso uscivano dal programma, si abbuffavano al fast-food e ricominciavano a ingrassare molto rapidamente. Felitti era sconcertato. Rifiutavano un corpo sano che ora sapevano di poter avere, preferendone uno malato che sicuramente li avrebbe uccisi. Perché? Non voleva essere un medico arrogante e moralista, che rimproverava i pazienti, facendo segno di no e dicendo loro che si stavano rovinando la vita. Non era da lui. Voleva davvero aiutarli a salvarsi. Perciò era disperato. Così fece qualcosa che nessuno scienziato in questo campo aveva mai fatto con le persone gravemente obese. Smise di dire loro cosa fare e cominciò ad ascoltarli. Convocò quelli che erano andati nel panico quando avevano iniziato a dimagrire e chiese loro: cos’è successo quando hai perso peso? Come ti sei sentito? Tra loro c’era una ventottenne, che chiamerò Susan per proteggere la sua privacy. In cinquantuno settimane, Felitti l’aveva portata da duecentoquattro a sessantacinque chili. Pareva che le avesse salvato la vita. Poi – all’improvviso, senza motivo apparente – Susan riprese quasi venti chili in tre settimane. Di lì a poco tornò oltre i duecento chili. Così Felitti le domandò cosa fosse cambiato quando aveva cominciato a dimagrire. Sembrava un mistero per entrambi. Parlarono a lungo. Una cosa c’era, disse Susan alla fine. Quando era molto obesa, gli uomini non la corteggiavano mai, ma quando aveva raggiunto un peso normale, un giorno aveva ricevuto delle avance da un uomo, un collega sposato. Era fuggita e aveva subito iniziato a mangiare in modo compulsivo, senza riuscire a fermarsi. Quello fu il momento in cui Felitti pensò di fare una domanda che non aveva mai fatto prima ai suoi pazienti. Quando hai cominciato a ingrassare? Se (per esempio) è stato quando avevi tredici anni, o quando andavi al college, perché allora, e non un anno prima o uno dopo? Susan rifletté. A undici anni, rispose. Così Felitti chiese: è successo qualcos’altro nella tua vita in quel periodo? Be’, è stato allora che mio nonno ha cominciato a stuprarmi. Felitti prese a fare queste tre semplici domande a tutti i pazienti: come ti sei sentito quando hai perso peso? Quando hai iniziato a ingrassare? Cos’altro è successo in quel periodo? Mentre parlava con i 183 partecipanti al

programma, notò alcuni schemi ricorrenti. Una donna aveva messo su un chilo dopo l’altro a ventitré anni. Cos’era accaduto? Era stata violentata. Dopo averlo confessato, abbassò lo sguardo e mormorò: «Se sei sovrappeso, passi inosservata, ed è di questo che ho bisogno». 6 «Ero scioccato» mi ha detto Felitti durante il nostro in-contro a San Diego. «Sembrava che ogni persona cui facevo queste domande avesse una storia analoga. Continuavo a pensare: non può essere. Si saprebbe, se fosse vero. Qualcuno me l’avrebbe detto. Non è a questo che serve studiare alla facoltà di Medicina?» Quando cinque colleghi arrivarono per condurre altre interviste, emerse che il 55 per cento circa dei partecipanti al programma era stato vittima di abusi sessuali: una percentuale molto più alta rispetto alla popolazione generale. Ancora più numerosi, soprattutto tra gli uomini, erano coloro che avevano avuto un’infanzia molto traumatica. Molte donne erano diventate volutamente obese per una ragione inconscia: per proteggersi dall’attenzione degli uomini, che evidentemente avevano fatto loro del male. Il sovrappeso eccessivo scoraggia la maggior parte degli uomini a guardarti in quel modo. Funziona. Felitti ebbe l’illuminazione mentre ascoltava l’ennesimo atroce racconto di abusi sessuali. «Quello che avevamo scambiato per il problema – l’obesità grave – era in realtà, molto spesso, la soluzione a problemi di cui noialtri non sapevamo nulla» mi ha detto. Felitti cominciò a domandarsi se i programmi antiobesità, compreso il suo, avessero sbagliato tutto, per esempio dando consigli nutrizionali. 7 Gli obesi non avevano bisogno di sentirsi dire cosa mangiare; lo sapevano meglio di lui. Avevano bisogno di qualcuno che capisse perché mangiavano. Dopo aver saputo che una paziente era stata stuprata, mi ha detto, «ho compreso chiaramente che mandarla dal dietologo per imparare a mangiare bene sarebbe stato assurdo». Si rese conto che anziché avere qualcosa da insegnare agli obesi, avrebbe potuto farsi spiegare da loro cosa stesse succedendo. Così riunì i partecipanti in gruppi di una quindicina di membri e chiese loro: «Perché credete che le persone ingrassino? Non come. Il come è ovvio. Voglio sapere il perché […] Quali sono i vantaggi?» Esortati a rifletterci per la prima volta, i pazienti espressero la loro opinione. Le risposte si suddivisero in tre categorie. La prima era che il sovrappeso era una protezione dagli abusi sessuali: gli uomini sono meno interessati a te, perciò sei più al sicuro. La seconda era che l’obesità era una protezione fisica: per esempio, al programma avevano

aderito due guardie carcerarie che avevano perso tra cinquanta e settantacinque chili ciascuna. D’un tratto, mentre dimagrivano, si erano sentite molto più vulnerabili tra i detenuti, perché più esposte ai pestaggi. Per camminare tra i blocchi con disinvoltura, dissero, dovevano avere le dimensioni di frigoriferi. La terza era che il sovrappeso riduceva le aspettative altrui. «Se ti candidi per un lavoro e pesi duecento chili, le persone danno per scontato che tu sia stupido e pigro» ha detto Felitti. Se il mondo ti ha ferito – e la violenza sessuale non è l’unico modo in cui può farlo – spesso hai voglia di chiuderti in te stesso. Ingrassare molto è, paradossalmente, un modo per diventare invisibili a gran parte dell’umanità. «Quando guardi una casa che brucia, la manifestazione più evidente dell’incendio sono le enormi nuvole di fumo che escono» ha aggiunto Felitti. Sarebbe facile, allora, pensare che il fumo sia il problema e che, se ti liberi di quello, sarà tutto risolto». Ma «grazie a Dio i vigili del fuoco sanno che ciò di cui ti devi occupare è ciò che non vedi. Le fiamme dentro, non il fumo fuori. Altrimenti gli incendi verrebbero affrontati portando grossi ventilatori per dissiparlo. [E questo servirebbe soltanto] a far bruciare la casa più rapidamente». L’obesità, si rese conto Felitti, non è il fuoco. È il fumo. Un giorno andò a un congresso medico dedicato all’obesità per presentare i suoi risultati. Dopo che ebbe parlato, un dottore si alzò tra il pubblico e spiegò: «I più esperti sanno che queste affermazioni dei pazienti» – cioè i resoconti degli abusi sessuali – «sono fondamentalmente invenzioni, finalizzate a fungere da copertura per i loro fallimenti esistenziali». Quegli esperti, dunque, sapevano già che un enorme numero di obesi dichiara di aver subito violenze sessuali. Ma davano per scontato che stessero semplicemente inventando dei pretesti. Felitti inorridì. In realtà, aveva verificato le asserzioni dei pazienti parlando con i loro famigliari o con i poliziotti che avevano indagato sui casi, ma era consapevole di non avere solide prove scientifiche per zittire persone come quel medico. Le impressioni che aveva avuto parlando con i singoli soggetti – e persino raccogliendo i dati all’interno del suo gruppo – non dimostravano granché. Voleva reperire dati scientifici inattaccabili. Così avviò una collaborazione con lo scienziato Robert Anda, che si era specializzato per anni nello studio del perché le persone fanno cose autodistruttive come fumare. Insieme, finanziati dai Centri per la prevenzione

e il controllo delle malattie (CDC) – un’importante agenzia statunitense che sovvenziona le ricerche mediche – escogitarono un modo per testare tutto questo, per vedere se fosse vero al di fuori del piccolo campione di soggetti del suo programma. Lo chiamarono Studio sulle esperienze infantili avverse (ACE), ed è molto semplice. È un questionario. Le domande riguardano circa dieci categorie di cose terribili che possono succederti da bambino, dalle violenze sessuali ai maltrattamenti emotivi, all’abbandono. Poi c’è un dettagliato questionario medico per sondare eventuali disturbi come l’obesità o una dipendenza. Una delle voci che aggiunsero alla lista – quasi come un ripensamento – è la domanda: soffri di depressione? Questo sondaggio fu somministrato a diciassettemila persone che per varie ragioni avevano richiesto assistenza medica alla Kaiser Permanente a San Diego. 8 Coloro che compilarono il modulo erano un po’ più benestanti e più anziani della popolazione generale ma, per il resto, abbastanza rappresentativi dei residenti d quella città. Quando arrivarono i risultati, Felitti e Anda li confrontarono, all’inizio per vedere se ci fosse qualche correlazione. Saltò fuori che per ogni categoria di esperienze traumatiche infantili avevi più probabilità di cadere in depressione da adulto. Se da bambino avevi avuto sei categorie di eventi traumatici, da grande avevi il quintuplo di probabilità di diventare depresso rispetto a chi non ne aveva avuta nessuna. 9 Se salivano a sette, avevi 3100 probabilità in più di suicidarti. 10 «Quando sono arrivati i risultati, non potevo crederci» mi ha detto il dottor Anda. «Li ho guardati e ho detto: sul serio? Non può essere vero». In medicina non ti imbatti molto spesso in cifre come queste. 11 Non avevano soltanto trovato la prova che esisteva una correlazione, ossia che queste due cose succedevano allo stesso tempo, ma quei dati sembravano dimostrare che i traumi contribuivano a provocare questi disturbi. Come facciamo a saperlo? Più grave è il trauma, più alto è il rischio di depressione, ansia o suicidio. Il termine tecnico è ‘effetto dose risposta’. Più sigarette fumi, e più aumenta il rischio di cancro al polmone. Questa è una delle ragioni per cui sappiamo che il fumo causa il cancro. Allo stesso modo, più sei stato traumatizzato da bambino, e più si alza il rischio di depressione. Curiosamente, emerse che gli abusi emotivi avevano più probabilità di determinare la depressione rispetto a qualunque altro tipo di trauma, persino rispetto alle molestie sessuali. 12 Tra tutte le categorie, un trattamento crudele

da parte dei genitori era il principale fattore scatenante. Quando Anda e Felitti mostrarono i risultati ad altri scienziati, compresi quelli dei CDC, anche loro rimasero increduli. «Lo studio scioccò tutti» mi ha detto il dottor Anda. «Le persone non volevano crederci. Quelli del CDC non volevano crederci. Quando ho presentato loro i dati, mi sono scontrato con una certa resistenza e [inizialmente] le riviste mediche non volevano darci retta, perché gli esiti erano così sconcertanti che dovevano dubitarne. Perché le costringevano a mettere in discussione la loro visione dell’infanzia […] Mettevano in dubbio molte cose, tutte in una volta. Negli anni seguenti lo studio è stato ripetuto più volte ma, mi ha detto Felitti, a malapena abbiamo cominciato a coglierne le implicazioni. 13 Perciò, riflettendo su tutto questo, Felitti arrivò alla conclusione che abbiamo commesso con la depressione lo stesso errore che lui aveva commesso con l’obesità. Non l’abbiamo considerata una sintomo di qualcosa di più profondo che richiede di essere affrontato. C’è un incendio in molti di noi, si convinse, e noi ci concentriamo sul fumo. 14 Molti scienziati e psicologi avevano presentato la depressione come un malfunzionamento irrazionale del cervello o dei geni, ma Allen Barbour, un internista dell’università di Stanford, aveva affermato che la depressione non era una malattia, bensì una reazione normale a esperienze di vita anormali. 15 «Penso sia un’idea molto importante» mi ha detto Felitti. «Ti porta oltre l’idea confortante e limitata che la ragione per cui sono depresso è uno squilibrio della serotonina, della dopamina o di qualunque altra sostanza». È vero, sostiene, che quando sei depresso succede qualcosa nel cervello, ma questa «non è una spiegazione causale»; è un «meccanismo intermedio necessario». Alcuni non vogliono riconoscerlo perché, almeno all’inizio, «è più confortante», spiega Felitti, pensare che dipenda tutto da qualche cambiamento cerebrale. «[Questa teoria] elimina un processo esperienziale e lo sostituisce con un processo meccanico». Trasforma il dolore in un’illusione ottica cui si può rimediare con i farmaci, ma a lungo andare, continua Felitti, i medicinali sono inefficaci per i depressi quanto il digiuno lo è per gli obesi. «Gli antidepressivi hanno il loro ruolo» mi ha detto. «Sono la soluzione definitiva? No. A volte illudono le persone? Assolutamente sì». Si erano resi conto, ha aggiunto, che per risolvere il problema dei pazienti obesi dovevano risolvere anzitutto i problemi alla base della fame compulsiva. Così avevano creato gruppi di supporto in cui discutere delle

vere ragioni per cui mangiavano e parlare delle loro esperienze. In seguito, molte più persone erano riuscite a rispettare il programma di digiuno e a mantenere un peso sano. 16 Come spiegherò più avanti, Felitti avrebbe iniziato a cercare un modo per fare la stessa cosa con i depressi, con risultati sorprendenti. Felitti mi ha fatto infuriare più di chiunque altro con cui abbia parlato delle cause nascoste della depressione. Dopo averlo incontrato, sono andato sulla spiaggia a San Diego. 17 Incavolato nero, ho cercato dei motivi per ignorare le sue parole. Poi mi sono domandato: ‘Perché sei così arrabbiato?’ Era strano, e non ne vedevo la ragione. Mentre ne discutevo con alcuni conoscenti, ho cominciato a capire. Se credi che la depressione sia dovuta soltanto a un malfunzionamento del cervello, non sei costretto a pensare alla tua vita o agli eventuali abusi che hai subito. La convinzione che dipenda tutto dalla biologia ti protegge, in un certo senso, per qualche tempo. Se invece accetti la versione di Felitti, devi riflettere su quelle cose. E fa male. Gli ho chiesto perché, secondo lui, un’infanzia traumatica produca spesso adulti depressi e ansiosi, e ha ammesso sinceramente di non saperlo. È uno scienziato serio e non voleva fare congetture. Ma io penso di saperlo, anche se la risposta a questo interrogativo va al di là di qualunque cosa si possa dimostrare scientificamente. Quando sei bambino e vivi un’esperienza traumatica, credi quasi sempre che sia colpa tua. C’è una ragione per questo, e non è irrazionale; anzi, come l’obesità, è la soluzione a un problema che quasi nessuno riesce a vedere. Quando ero ragazzo, mia madre era spesso malata e mio padre era quasi sempre lontano, di solito in un altro Paese. In quella situazione caotica io subii gravi atti di violenza da parte di un adulto. In un’occasione, per esempio, questa persona tentò di strangolarmi con un cavo elettrico. A sedici anni mi trasferii in un’altra città, lontano dagli adulti che conoscevo e, una volta lì, mi ritrovai – come molte persone che sono state trattate in questo modo nell’età della formazione – a cercare situazioni pericolose in cui subii trattamenti che non avrei dovuto subire. Anche ora che ho trentasette anni, ho la sensazione che scriverlo e raccontarvelo sia un tradimento verso il responsabile di questi atti di violenza e verso gli altri adulti che si comportarono in modo sbagliato. So che non riuscirete a identificare queste persone dalle mie parole. So che se vedessi un adulto strangolare un bambino con un cavo elettrico, non

mi verrebbe neppure in mente di incolpare il bambino, e che se sentissi qualcuno dire una cosa simile, lo giudicherei pazzo. A livello razionale, so dove si colloca il tradimento in questa circostanza. Eppure la sensazione c’è, e per poco non mi ha impedito di parlare. Perché molti di coloro che subiscono violenze da bambini si sentono nello stesso modo? Perché adottano comportamenti autodistruttivi, come l’obesità, la dipendenza cronica o il suicidio? Ci ho pensato molto. Da bambino hai una capacità molto limitata di modificare l’ambiente in cui sei inserito. Non puoi andartene né costringere qualcuno a smettere di farti del male. Così hai due scelte. Puoi ammettere di essere impotente, riconoscendo che da un momento all’altro potresti essere vittima di gravi violenze e che semplicemente non puoi farci nulla. Oppure puoi dire a te stesso che è colpa tua. In questo caso acquisisci un certo potere, almeno nella tua mente. Se è colpa tua, puoi fare qualcosa per cambiare la situazione. Non sei una pallina sballottata qua e là dentro un flipper. Sei la persona che controlla il flipper. Sei tu ad avere le mani sui pulsanti che manovrano le alette. In questo modo, come l’obesità proteggeva le pazienti di Felitti dagli uomini che temevano potessero violentarle, incolpare te stesso dei traumi infantili ti protegge dalla consapevolezza della tua vulnerabilità passata e presente. Puoi essere tu ad avere il potere. Se è colpa tua, è sotto il tuo controllo. Ma questo ha un prezzo. Se sei responsabile dei tuoi traumi, da un certo punto di vista pensi di esserteli meritati. Una persona che ritiene di essersi meritata gli abusi infantili non crede di meritarsi molto nemmeno da adulta. Questa non è vita, bensì una distorsione di ciò che ti ha permesso di sopravvivere in passato. Forse avrete notato che questa causa della depressione e dell’ansia è un tantino diversa da quelle analizzate finora, e lo è anche da quelle che esaminerò più avanti. Come ho già accennato, quasi tutti coloro che hanno studiato le prove scientifiche riconoscono tre diversi tipi di cause per la depressione e l’ansia: biologiche, psicologiche e sociali. I fattori che ho elencato finora – e su cui tornerò tra un momento – sono ambientali. Presto passerò a quelli biologici. I traumi infantili, però, appartengono a un’altra categoria. Sono cause di natura psicologica. Discutendone qui, spero che vi si aprano gli occhi sulle molte altre cause psicologiche della depressione, troppo specifiche per farne un’analisi approfondita. I modi in cui la psiche può danneggiarsi sono pressoché infiniti. Conosco un uomo che è caduto in depressione dopo aver

scoperto che la moglie lo tradiva da anni con il suo migliore amico. Ne conosco un altro che è sopravvissuto a un attentato terroristico e che ha sofferto quasi costantemente di ansia per dieci anni. Conosco una donna la cui madre è sempre stata affettuosa e tutt’altro che crudele, ma anche molto negativa e pronta a insegnarle a vedere il peggio nelle persone e a mantenere le distanze. Queste esperienze non si possono inserire in categorie precise. Non avrebbe senso elencare ‘adulterio’, ‘attacchi terroristici’ o ‘genitori anaffettivi’ tra le cause della depressione e dell’ansia. Ma ecco cosa sappiamo. Il danno psicologico non deve essere grave quanto una violenza infantile per lasciare un segno incancellabile. Tua moglie che ti tradisce con il tuo migliore amico non è un malfunzionamento del cervello, ma è fonte di profonda ansia psicologica e può provocare depressione e ansia. Se mai vi racconteranno una storia su questi disturbi che non parli anche della vostra psicologia individuale, non prendetela sul serio. Il dottor Anda, uno dei pionieri di queste ricerche, mi ha detto che i risultati l’avevano costretto a ribaltare la sua concezione della depressione e di altri disturbi. «Quando le persone hanno problemi di questo tipo, bisogna smettere di chiedere cosa abbiano che non va» ha dichiarato, «e domandare piuttosto quali esperienze traumatiche abbiano vissuto».

10. Quinta causa: la disconnessione dallo status e dal rispetto

È difficile descrivere cosa si prova quando si soffre di depressione e di ansia grave. 1 Sono condizioni così disorientanti che sembrano sfuggire alla verbalizzazione, ma ci sono alcuni cliché cui ricorriamo continuamente. Spesso, per esempio, diciamo che ci sentiamo ‘giù’. Suona come una metafora, ma non penso che lo sia. Quando sono depresso, mi sento quasi come se fossi stato premuto fisicamente verso il basso. Ho voglia di tenere la testa piegata e il corpo curvo e di lasciarmi andare giù. Altre persone depresse riferiscono la stessa cosa. Anni fa, uno scienziato notò qualcosa di curioso… e fece una scoperta. Un pomeriggio alla fine degli anni Sessanta, al Museo di storia naturale a New York, l’undicenne ebreo Robert Sapolsky fissava un grosso gorilla silverback impagliato in una teca di vetro. 2 Continuò a dare il tormento a sua madre perché lo riportasse in quel museo. Era affascinato, rapito dall’animale, anche se non capiva il perché. Quando era più piccolo, aveva sognato di essere una zebra che correva nelle savane dell’Africa. Poi aveva fantasticato di essere un insetto, ma ora desiderava una comunità di primati tutta sua. Guardando le teche, aveva l’impressione che sarebbe stata un rifugio, un luogo dove si sarebbe sentito a suo agio. Poco più di dieci anni dopo realizzò il suo sogno. 3 Da solo nella savana, cercava di capire come imitare il comportamento di un babbuino. Queste scimmie vivono in branchi comprendenti da cinquanta a centocinquanta membri, nelle lunghe e sconfinate distese erbose del Kenya. Sapolsky ascoltava i loro richiami e provava per ore a riprodurli. Mentre osservava i babbuini, dovette ricordare costantemente che, in termini evolutivi, sono nostri cugini. Un giorno, «una femmina con un piccolo si stava arrampicando su un albero: era il suo primo cucciolo, non aveva molta esperienza e, in una parola, l’ha fatto cadere» mi ha raccontato Sapolsky. Tutte e cinque le altre femmine presenti trasalirono, anche lo

studioso. Guardarono attentamente per vedere se il piccolo fosse sopravvissuto. Lui si rialzò e tornò dalla madre. Le cinque femmine schioccarono la lingua per il sollievo. 4 Anche lo studioso. Non era nella savana in vacanza, ma per provare a risolvere un mistero. A New York aveva avuto il primo dei suoi attacchi di depressione 5 e aveva iniziato a sospettare che l’osservazione dei nostri cugini avrebbe potuto aiutarlo a capire meglio la natura del disturbo. 6 Vide il maschio alfa poco dopo essere arrivato. Ai vertici del branco che avrebbe seguito per i vent’anni successivi c’era un vero e proprio VIP della giungla, 7 cui non tardò a dare il nome di Salomone, come il re più saggio dell’AnticoTestamento. I babbuini sono organizzati in una rigida gerarchia e ciascuno conosce il proprio posto, dal gradino più alto a quello più basso della scala. Notò che Salomone, in cima alla piramide, poteva fare qualunque cosa volesse. Se vedeva un altro membro del branco che masticava qualcosa, glielo strappava di mano e lo mangiava. Poteva fare sesso con qualsiasi femmina; metà dell’attività sessuale dell’intero gruppo prevedeva la sua partecipazione. Quando faceva caldo, poteva cacciare via chiunque fosse seduto all’ombra e occupare i punti più freschi. Aveva conquistato questa posizione terrorizzando il vecchio maschio alfa e costringendolo alla sottomissione. Non impiegò molto tempo per affermare il suo predominio anche su Sapolsky. Un giorno si avvicinò al giovane primatologo, che era seduto su un masso, e lo spinse così forte da farlo cadere e da rompergli il binocolo. Se sei una femmina, erediti il tuo posto nella gerarchia da tua madre, come se fossi un aristocratico inglese del Medioevo, ma se sei un maschio, il tuo ruolo si decide con un conflitto brutale per vedere chi riesce a scalare la vetta. Ed è bene fare il possibile per evitare di essere in fondo. In questo branco, Sapolsky notò una creatura debole e scheletrica, che chiamò Giobbe, come l’uomo più sfortunato della Torah e della Bibbia. 8 Giobbe tremava quasi sempre e aveva quelle che assomigliavano a crisi epilettiche. Certe volte perdeva il pelo. Nel branco, chiunque avesse una giornataccia poteva prendersela con lui. Gli rubavano il cibo, lo relegavano sotto il sole e lo picchiavano spesso. Come tutti i babbuini di grado inferiore, era coperto di morsi. Tra Salomone e Giobbe, c’era una linea gerarchica. Il numero 4 era sopra il numero 5 e poteva sottometterlo. Il numero 5 era sopra il numero 6 e

poteva sottometterlo. E così via. La tua posizione determinava cosa mangiavi, se facevi sesso e ogni momento della tua vita. Sapolsky si svegliava nella sua tenda ogni mattina alle cinque e mezza, tra i suoni della savana, e preparava un kit medico e un proiettile con tranquillante. Il suo compito era uscire e sedare un babbuino per prelevare un campione di sangue. I primati diventarono molto abili a evitarlo, e dovette imparare a sparare quando non guardavano, colpendoli alle spalle. Il campione veniva poi analizzato in cerca di diversi fattori chiave, tra cui il livello di cortisolo, l’ormone dello stress. 9 Sapolsky voleva sapere quali babbuini fossero più stressati, perché credeva che questo dato avrebbe rivelato qualcosa di fondamentale. Una volta esaminato il sangue, emerse che quando è in atto una guerra per la posizione di maschio alfa, gli esemplari più stressati sono quelli in cima alla gerarchia. 10 Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, più sei in basso, e più sei stressato; e i babbuini sull’ultimo gradino, come Giobbe, sono costantemente stressati. Per evitare di essere fatti a pezzi, i babbuini con lo status più basso dovevano dimostrare in modo compulsivo di essere consapevoli della propria sconfitta. 11 Lo facevano con quelli che si chiamano gesti di subordinazione: chinavano la testa, strisciavano sulla pancia. Era il loro modo per segnalare: smetti di picchiarmi. Mi do per vinto. Non sono una minaccia per te. Mi arrendo. Ed ecco la cosa sorprendente. Quando un babbuino si comporta così – quando nessuno gli mostra rispetto ed è relegato in fondo alla linea gerarchica – assomiglia come una goccia d’acqua a un essere umano depresso. Tiene la testa bassa e le spalle curve; non ha voglia di muoversi; perde l’appetito e le energie; quando qualcuno si avvicina, indietreggia. Un giorno, dopo che Salomone aveva spadroneggiato sul branco per un anno, un giovane esemplare, Uria, fece qualcosa di scioccante. 12 Mentre il maschio alfa era steso su un masso con una delle ragazze più sexy del gruppo, si infilò tra loro e provò a fare sesso con lei, proprio davanti al capo. Furioso, Salomone lo aggredì e gli strappò il labbro superiore. Uria fuggì via. Ma il giorno dopo tornò. E quello dopo ancora. E quello dopo ancora. Continuava a prenderle, ma ogni volta Salomone appariva un po’ più stanco e più cauto. Poi, un giorno, quando Uria attaccò, Salomone arretrò un pochino. Solo per un momento. Nel giro di un anno, Uria diventò re e Salomone dovette

accontentarsi del numero 9 nella gerarchia, e tutti coloro che aveva picchiato o vessato erano assetati di vendetta. Tutto il branco iniziò a tormentarlo e i suoi livelli di stress salirono alle stelle. Un giorno, Salomone era così disperato che si allontanò nella savana e non fece più ritorno. 13 Sapolsky aveva scoperto che i nostri cugini sono più stressati in due situazioni: quando il loro status è minacciato (come Salomone quando Uria lo aggrediva) e quando il loro status è basso (come il povero Giobbe in ogni momento). Quando pubblicò la ricerca per la prima volta, ispirò ulteriori studi scientifici sugli stessi argomenti e diventò un autorevole docente di biologia e neurologia a Stanford. Qualche anno dopo si appurò che gli esseri umani depressi sono inondati dallo stesso ormone dello stress rilevato nei babbuini maschi di basso rango. Approfondendo l’indagine, Sapolsky si rese conto di un’altra cosa: si riscontra, spiega, «anche la stessa serie di cambiamenti nel cervello, nell’ipofisi e nelle ghiandole surrenali […] [che si nota] negli esseri umani depressi». 14 Così altri scienziati iniziarono a sospettare che la depressione potesse essere, in parte, qualcosa di profondo nella nostra natura animale. 15 Lo psicologo Paul Gilbert cominciò a sostenere che la depressione è, per gli uomini, anche una «risposta di sottomissione», l’equivalente di Giobbe che diceva: No, basta. Per favore, lasciami in pace. Non devi combattere con me. Non rappresento una minaccia. Dopo averlo saputo, iniziai a chiedermi – specialmente mentre intervistavo le persone depresse – se la depressione fosse anche una reazione al senso di umiliazione che il mondo moderno infligge a molti di noi. Guarda la tv, e ti sentirai dire che le uniche persone importanti al mondo sono i ricchi e i famosi, e sai già che le tue probabilità di entrare in uno di questi due gruppi sono pressoché inesistenti. Sfoglia un feed di Instagram o una rivista patinata, e il tuo corpo, con le sue forme normalissime, ti sembrerà disgustoso. Va’ al lavoro, e dovrai obbedire ai capricci di un capo indifferente che guadagna cento volte il tuo stipendio. Anche quando non subiscono umiliazioni, molti di noi temono di vedersi portare via il proprio status da un momento all’altro. Persino il ceto medio – persino i ricchi – viene indotto a sentirsi perennemente insicuro. Sapolsky aveva scoperto che avere uno status incerto era l’unica cosa ancora più

angosciante di avere uno status basso. Dunque pareva che ci fosse del vero nella teoria secondo cui la depressione è una reazione alla costante ansia dello status con cui molti di noi convivono oggi. Ma come dimostrarlo? Ho fatto visita a una coppia di coniugi e studiosi che mi aveva parlato di questi argomenti e che aveva trovato un modo affascinante per esaminarli. Le ricerche di Kate Pickett e Richard Wilkinson, riassunte nel loro libro La misura dell’anima, li hanno resi due dei più influenti scienziati sociali del mondo. Quando lessero lo studio di Sapolsky, sapevano che nel caso dei babbuini le gerarchie sono abbastanza fisse: 16 i primati vivranno sempre in quel modo, a parte qualche leggero cambiamento. Per gli esseri umani, invece, non funziona così. Come specie, abbiamo trovato molti modi diversi per convivere. Alcune società umane (come quella americana) prevedono divari molto vistosi tra le persone ai vertici e quelle in basso: sono società in cui c’è un gruppetto di Salomone in cima e la maggior parte delle persone sta sull’ultimo gradino, come Giobbe. Altre culture (come quella norvegese), invece, sono molto diverse, con stili di vita perlopiù paritari, dove i vertici e il fondo sono molto vicini. Lì non ci sono Salomone e non ci sono Giobbe. Quasi tutti vivono in una fascia centrale, come i numeri da 10 a 13 nella gerarchia dei babbuini. Se le intuizioni di Sapolsky erano riferibili agli esseri umani, Kate e Richard erano certi che, in società molto inique come quella americana, avrebbero misurato livelli più alti di angoscia e che in società molto eque, come quella norvegese, ne avrebbero riscontrati di molto inferiori. Così si imbarcarono in un vasto programma di ricerca, analizzando enormi quantità di dati. Quando finalmente riuscirono a riportarli su un grafico, si stupirono di quanto il legame fosse stretto. Più iniqua è la tua società, e più diffuse sono tutte le forme di malattia mentale. Poi altri scienziati sociali analizzarono i risultati concentrandosi specificamente sulla depressione e scoprirono che più marcata è la diseguaglianza, e più frequente è questo disturbo. 17 Lo confermano sia i confronti tra diversi Paesi sia quelli tra diversi Stati degli USA. 18 Sembrava chiaro che la diseguaglianza alimentasse la depressione e l’ansia. Quando una società si caratterizza per notevoli divari di reddito e status, mi ha detto Richard, dà l’impressione che «alcuni individui siano

importantissimi e altri non contino nulla». Ciò non influisce soltanto su coloro che sono in fondo alla scala gerarchica. In una società molto iniqua, ciascuno si preoccupa molto per il proprio status. Manterrò la mia posizione? Chi mi minaccia? Fino a che punto posso scivolare verso il basso? La semplice necessità di farci queste domande, che si delinea quando le diseguaglianze crescono, aumenta sempre di più il carico di stress nella nostra vita. Di conseguenza, più persone reagiranno inconsciamente con una risposta che affonda le sue radici nella nostra storia evolutiva. Abbassiamo la testa. Ci sentiamo sconfitti. «Siamo eccezionalmente sensibili a queste cose» mi ha detto Richard. 19 Quando il divario di status è troppo grande, crea «un senso di sconfitta cui non si può sfuggire». Oggi viviamo con divari di status più grandi di quelli dell’intera storia umana. Se lavoravi per un’azienda, a memoria d’uomo era probabile che il tuo capo guadagnasse venti volte più del dipendente medio. 20 Ora sono trecento in più. I sei eredi del patrimonio di Walmart hanno più soldi dei cento milioni di americani di fascia più bassa. 21 Otto miliardari possiedono più denaro della metà inferiore della razza umana. 22 Una volta capito questo, mi ha spiegato Richard, intuisci perché l’angoscia di molti non è dovuta a un guasto spontaneo della chimica cerebrale. No, è «qualcosa» ha aggiunto, «che condividi con tantissime altre persone. È una reazione umana diffusa alle circostanze in cui tutti viviamo. Non è una cosa che ti separa dal mondo. Anzi, la condividi con innumerevoli altri». Dobbiamo comprendere che «non è soltanto un mio problema personale» ha concluso, «ma un problema condiviso e imputabile al tipo di società in cui viviamo». Dopo essere tornato dal Kenya, 23 Robert Sapolsky cominciò a fare un sogno ricorrente. 24 È sulla metropolitana di New York e una banda di teppisti minacciosi si avvicina, decisa a conciarlo per le feste. Li guarda, terrorizzato. In questo sogno c’è una gerarchia, e lui è sull’ultimo gradino. È destinato a diventare una preda, come Giobbe, il babbuino coperto di morsi perché chiunque poteva prendersela con lui. Nel sogno, tuttavia, Sapolsky fa qualcosa di inaspettato. Parla con i teppisti. Spiega ai suoi possibili aggressori che è una situazione assurda e che le cose non devono per forza andare in questo modo. Certe notti parla con i ragazzi della causa del loro dolore, del perché vogliano picchiare qualcuno, e

si immedesima in loro e nella loro angoscia e offre un po’ di terapia estemporanea. In altre occasioni racconta una barzelletta e i giovani ridono con lui. Ogni volta decidono di non fargli del male. Credo sia un sogno su come potremmo essere. 25 I babbuini sono prigionieri della loro gerarchia. Hanno bisogno di qualcuno da pestare e umiliare. Giobbe non potrebbe convincere Salomone a trattarlo bene raccontandogli barzellette e offrendogli una seduta di terapia, né potrebbe persuadere gli altri esemplari a scegliere di vivere in modo più egualitario. Gli esseri umani, invece, hanno un’alternativa. Possiamo, come avrei scoperto in seguito, trovare metodi pratici per smantellare le gerarchie e creare un mondo più equo, dove tutti ricevono una certa dose di rispetto e di status. Oppure possiamo continuare a costruire gerarchie e ad acuire l’umiliazione, come facciamo oggi. Nel secondo caso, molti di noi si sentiranno spinti verso il basso, quasi fisicamente, e mostreranno segni di sottomissione. Piegheremo la testa, curveremo le spalle e diremo in silenzio: Lasciami in pace. Ti ostini a picchiarmi. Non ce la faccio più.

11. Sesta causa: la disconnessione dal mondo naturale

Isabel Behncke mi guardava all’ombra di una montagna. «Ti spiegherò come l’isolamento dal mondo naturale possa causare la depressione» ha detto, «solo se accetti di scalarla con me, subito». Ha alzato le braccia verso Tunnel Mountain, che torreggia sopra la città canadese di Banff. Ho seguito cautamente il suo movimento con gli occhi. La vetta non si vedeva, ma dalle cartoline sapevo che era da qualche parte sopra di me, innevata, con i laghi in lontananza. Ho tossicchiato e le ho spiegato il più educatamente possibile che non amo le attività all’aria aperta. Mi piacciono le belle pareti di cemento fiancheggiate da librerie. I grattacieli. Le stazioni della metropolitana da cui sbuchi davanti ai furgoncini dei taco. Trovo Central Park eccessivamente rurale, e prendo la Decima Avenue per evitarlo. Mi avventuro nel mondo naturale solo quando devo dare la caccia a una storia. Niente scalata, niente intervista, ha ribadito Isabel. «Dai» ha insistito. «Sfidiamo la morte e facciamoci un selfie sull’orlo di un burrone!» Così, con riluttanza e soltanto per ragioni giornalistiche, ho cominciato ad arrancare dietro di lei. Incamminandomi, mi è venuto in mente che, tra tutti i miei conoscenti, Isabel è quella che avrebbe più probabilità di sopravvivere a un’apocalisse. È cresciuta in una fattoria nel Cile rurale, perciò «sono sempre stata stranamente a mio agio nella natura» mi ha confidato lungo il tragitto. «A dieci anni montavo a cavallo – e venivo disarcionata – da sola. Mio padre aveva delle aquile. Ce n’erano tre che vivevano libere dentro casa». Aquile? In casa? ho chiesto. Non vi attaccavano? «Vengo da una famiglia molto insolita» ha ammesso mentre percorrevamo un altro tratto. Erano come un gruppo di nomadi che vagava nella natura. Veleggiavano per giorni sull’Oceano e, a otto anni, Isabel disegnava le orche assassine che vedeva con i suoi occhi. Poco dopo si è avventurata per la prima volta nella foresta pluviale. Quando aveva poco più di vent’anni, si è iscritta all’università per

diventare biologa evolutiva, il che significa, dice, che studia «la natura della natura umana». 1 Il suo lavoro, per conto dell’università di Oxford, è capire come siamo diventati ciò che siamo, in parte esaminando i nostri antenati e cugini evolutivi. La sua prima ricerca importante si svolse al Twycross Zoo, nell’Inghilterra meridionale, dove l’avevano incaricata di rilevare le differenze tra gli scimpanzé e i bonobo in cattività. I bonobo assomigliano a scimpanzé più snelli e, sulla testa, hanno un buffo ciuffetto di peli, che si divide al centro e si solleva sui lati come un aeroplano in fase di decollo. Da adulti sono massicci: hanno più o meno le dimensioni di un ragazzino di dodici anni. Osservandoli, Isabel notò ben presto la loro caratteristica più curiosa: instaurano un legame reciproco praticando molto spesso il sesso di gruppo, perlopiù lesbico. Le piaceva guardare le madri britanniche senza volerlo portavano i figli ad assistere a queste orge. «Mamma! Mamma! Cosa stanno facendo?» chiedevano i bambini. Le madri si affrettavano ad accompagnarli dalle tartarughe delle Galapagos nel recinto di fronte. Ma poi arrivava la stagione riproduttiva anche per loro, «e non hai idea di quanto possano essere pornografiche» dice Isabel, «perché il maschio monta la femmina e fa quel verso». Dal suo punto d’osservazione allo zoo, ridacchiava quando le pallide madri inglesi si spostavano scandalizzate dalle orge dei bonobo agli orgasmi delle tartarughe, borbottando: «Oddio, oddio». Lì si innamorò dei bonobo e della loro visione del mondo. Rimase colpita soprattutto quando vide una femmina fabbricare un pene artificiale. «Un giorno le hanno dato del cibo in un secchiello che era più o meno tagliato a metà […] un secchiello azzurro». L’ha arrotolato e, da quel momento in poi, «l’ha portato con sé ovunque, usandolo soltanto per masturbarsi. Straordinario! E poi ho capito […] perché, naturalmente, la plastica è liscia. I rami? Non sono così levigati. Era una soluzione geniale». In questi bonobo, tuttavia, c’era qualcosa che non andava, qualcosa che Isabel avrebbe intuito solo molto tempo dopo. Si rese conto che se davvero voleva comprendere questa specie, doveva seguirla fin nel suo habitat naturale, nel cuore dell’Africa, cosa che nessuno faceva da anni. Una guerra sanguinosa aveva distrutto la Repubblica democratica del Congo, anche se ora sembrava in via di soluzione. Quando disse agli altri cosa voleva fare, la guardarono come se fosse pazza. Isabel, tuttavia, è una donna a cui difficilmente si riesce a dire di no. Fu così che,

dopo molte pressioni, finì nel bel mezzo della foresta pluviale congolese per tre anni, vivendo in una casa di fango e spiando ogni giorno un gruppo di bonobo, da mattina a sera. Camminava in media diciassette chilometri al giorno. Fu caricata da un cinghiale. In quel periodo imparò a conoscere i bonobo meglio di quasi qualunque altro studioso vivente, e lì colse qualcosa di molto importante per tutti noi. In Congo si accorse che molte delle cose che i bonobo facevano dopo essere stati allontanati dal loro habitat naturale e portati allo zoo – cose che prima aveva considerato normali – erano, in realtà, molto insolite. Certe volte, nella foresta pluviale – l’ambiente dove l’evoluzione le ha destinate a vivere – queste scimmie vengono maltrattate dal loro gruppo sociale e, quando succede, cominciano a comportarsi diversamente. Si grattano in modo compulsivo. Restano ai margini del gruppo e fissano un punto lontano. Si spulciano molto meno e si rifiutano di lasciarsi spulciare da altri esemplari. Quando Isabel vide questo comportamento, lo riconobbe subito. Chiaramente, decise, era il loro equivalente della depressione, per le stesse ragioni che ho esposto nel capitolo precedente. Questi esemplari bistrattati reagivano con tristezza e disperazione. Ma ecco la cosa strana. Per i bonobo allo stato libero, c’è un limite alla depressione. Quest’ultima esiste, specialmente per gli esemplari di status inferiore, ma c’è un livello sotto il quale non scendono. Negli zoo, tuttavia, pareva che scivolassero sempre più in basso, come non avrebbero mai fatto in libertà. Si grattavano fino a sanguinare. Urlavano. Sviluppavano dei tic oppure iniziavano a dondolarsi ossessivamente. Nel loro habitat naturale, Isabel non osservò mai questa «vera e propria depressione cronica» dice, che in gabbia era invece molto diffusa. Si dà il caso che il fenomeno non sia circoscritto ai bonobo. Dopo oltre un secolo di osservazione degli animali in cattività sappiamo che, quando vengono privati del loro habitat naturale, mostrano spesso sintomi indicativi di forme estreme di disperazione. I pappagalli si strappano le penne. I cavalli scrollano la testa senza riuscire a fermarsi. Gli elefanti strofinano la proboscide – allo stato libero, la loro fonte di forza e di orgoglio – contro le pareti delle celle fino a ridurla a un moncone nodoso. Alcuni esemplari sono così traumatizzati da dormire in piedi per anni, muovendosi nevroticamente per tutto il tempo. 2 Queste specie non si comportano mai così allo stato libero. Molti animali in gabbia perdono il desiderio sessuale. 3 È per questo che è così difficile farli accoppiare negli zoo.

Così Isabel si domandò: perché gli animali sono molto più depressi fuori del loro habitat naturale? Per lei, questo interrogativo acquisì una connotazione molto personale mentre scriveva alcune delle sue ricerche al college di Oxford. Lavorando tutto il giorno chiusa in una stanza, si ritrovò depressa per la prima volta in vita sua. Non riusciva a dormire né a concentrarsi su qualcosa che non fosse una possibile via d’uscita da quel dolore terribile. Prese degli antidepressivi ma, come molte altre persone, non ebbe alcun beneficio. Iniziò a chiedersi se la sua depressione potesse essere legata a quella che aveva osservato nei bonobo in gabbia. E se, si chiese, anche gli esseri umani tendessero a diventare apatici quando non possono accedere al tipo di ambiente in cui si sono evoluti? 4 Era per questo che stava così male? Sappiamo da tempo che tutti i tipi di disturbi mentali, compresi quelli gravi come la psicosi e la schizofrenia, sono molto più accentuati in città che in campagna, 5 ma abbiamo iniziato a studiare seriamente gli effetti psicologici della disconnessione dal mondo naturale solo negli ultimi quindici anni. Alcuni scienziati dell’università dell’Essex, in Gran Breta-gna, hanno condotto la ricerca più dettagliata eseguita finora su questo argomento, monitorando la salute mentale di oltre cinquemila famiglie nell’arco di tre anni. Volevano esaminarne due tipi in particolare: quelle che si erano trasferite da un’area rurale ricca di verde a una città, e quelle che si erano trasferite da una città a un’area rurale ricca di verde, e individuare eventuali variazioni nei livelli di depressione. I risultati erano inequivocabili: coloro che si erano spostati nelle aree verdi mostravano una drastica riduzione della depressione, e coloro che si erano allontanati dalle aree verdi mostravano un netto aumento della depressione. 6 Si dà il caso che questo sia solo uno di numerosi studi con esiti analoghi. 7 Naturalmente i ricercatori sapevano che i dati potevano essere influenzati da fattori di ogni tipo: forse le aree rurali hanno comunità più unite, meno criminalità e meno inquinamento, e forse è questo – e non gli spazi verdi – a migliorare l’umore delle persone. Così un altro team di studiosi britannici decise di escludere questo effetto. Gli scienziati confrontarono i quartieri svantaggiati dei centri cittadini che avevano alcune aree verdi con quartieri molto simili ma privi di aree verdi. Tutto il resto, per

esempio i livelli delle connessioni sociali, era identico. Saltò fuori che nei quartieri più verdi c’erano meno stress e disperazione. 8 Leggendo tutte queste prove sperimentali, sono rimasto colpito in particolare da quello che forse era il più semplice di questi studi. Gli scienziati chiesero a persone che vivevano in città di fare una passeggiata nella natura, quindi ne testarono l’umore e la concentrazione. Com’era prevedibile, alla fine stavano tutte meglio e riuscivano a concentrarsi di più, ma l’effetto fu molto più marcato per i soggetti depressi. Il loro miglioramento era pari al quintuplo di quello registrato negli altri partecipanti. 9 Perché? Eravamo a metà strada sul versante della montagna, e Isabel stava fissando i laghi in lontananza, quando le ho confessato una cosa. Ho dovuto ammettere che, in senso astratto, il panorama era bellissimo, ma sono così poco abituato ad apprezzare questo genere di cose che, se dovevo essere sincero, mi sembrava un salvaschermo. Incantevole, ma pur sempre un salvaschermo. Quando l’ho guardato, ho provato un formicolio inconscio, come se se avessi aspettato troppo a lungo prima di premere un tasto sul pc. Isabel è scoppiata a ridere, ma era una risata triste. «Ora mi sento personalmente responsabile, se pensi che sia un salvaschermo! La considero la mia missione. Non mi pare molto coerente parlare di queste cose [e poi dire]: ‘Torniamo a sederci davanti a uno schermo’». Mi ha fatto promettere che saremmo arrivati in cima. Così abbiamo ricominciato a inerpicarci e, continuando a parlare, ho scoperto che Isabel ha essenzialmente condensato le sue riflessioni sull’argomento – che attingono a una nutrita serie di studi scientifici – in tre teorie. Dice candidamente che abbiamo bisogno di molte più ricerche su tutte e tre e che, in certa misura, si sovrappongono. Per capire perché stiamo meglio in ambienti come quello, mi ha spiegato, occorre partire da qualcosa di veramente elementare: «Il fatto è che siamo animali. Continuiamo a dimenticare che questo coso» – ha indicato il proprio corpo – «è fatto per muoversi». Quando abbiamo bisogno di soluzioni per i nostri sentimenti negativi, sostiene, proviamo a cercarle nel linguaggio e nei simboli che abbiamo creato come specie. Ma questi simboli sono, nel lungo flusso delle cose, molto recenti. «Siamo invertebrati da quasi cinquecento milioni di anni. Mammiferi da duecentocinquanta o trecento. Primati da sessantacinque». Durante il periodo passato nella foresta pluviale congolese, vivendo, dormendo e mangiando con i bonobo, ha aggiunto, ha capito quanto

siamo simili a loro. «Siamo animali che si muovono da molto prima di diventare animali che parlano e trasmettono concetti» mi ha detto. «Ma pensiamo ancora che la depressione si possa guarire con questo strato concettuale. Penso [che la prima risposta sia più] semplice. Sistemiamo prima la fisiologia. Usciamo. Muoviamoci». Un animale affamato che vive nel suo habitat naturale e che ha uno status accettabile nel gruppo è difficilmente depresso, sostiene Isabel. 10 Non ci sono quasi testimonianze di una cosa simile. Le prove scientifiche dimostrano senza ombra di dubbio che l’esercizio fisico riduce la depressione e l’ansia. 11 Isabel ritiene che succeda perché ci riporta a una condizione più naturale, a uno stato in cui ci serviamo del nostro corpo, in cui siamo animali, ci muoviamo e le endorfine ci scorrono nelle vene. «A mio parere, i bambini e gli adulti che non si muovono e che non vivono a contatto con la natura per un certo periodo non si possono considerare animali totalmente sani» afferma. Ma deve esserci, aggiunge, qualcosa di più profondo. Quando gli scienziati hanno confrontato le persone che corrono sul tapis roulant in palestra con quelle che corrono nella natura, hanno rilevato una riduzione della depressione in entrambi i gruppi, ma l’effetto era più evidente nel secondo. 12 Allora quali sono gli altri fattori? Ormai eravamo in cima alla montagna. Paesaggi sconfinati su ogni lato. «Ora» ha detto Isabel «hai salvaschermi da tutte le parti. Siamo circondati». Uno scoiattolo si è avvicinato esitante e si è fermato a pochi centimetri dai miei piedi. Ho posato sul pavimento una strisciolina di carne che avevo comprato in città quella mattina. Gli scienziati hanno formulato un’altra teoria sulla ragione per cui, in molti casi, il contatto con il mondo naturale sembra alleviare la depressione, mi ha informato Isabel. Il biologo E.O. Wilson, uno dei principali rappresentanti del suo campo nel XX secolo, sosteneva che tutti gli esseri umani hanno un’inclinazione naturale detta ‘biofilia’, 13 ossia un amore innato per gli ambienti in cui hanno vissuto gran parte della loro esistenza e per la rete naturale della vita che li circonda e che permette loro di vivere. Quasi tutti gli animali vengono assaliti dall’angoscia se allontanati dall’ambiente in cui l’evoluzione li ha portati a vivere. Un rana può vivere sulla terraferma, solo che starà malissimo e alla fine si arrenderà. Perché, si domanda Isabel, gli esseri umani dovrebbero essere l’unica eccezione a questa regola? Guardandosi intorno, dice: «Cazzo, è il nostro habitat».

È un concetto difficile da testare scientificamente, ma qualcuno ci ha provato. Gli scienziati sociali Gordon Orians e Judith Heerwagen hanno testato soggetti di tutto il mondo, in culture molto diverse, mostrando loro immagini di pae-saggi molto differenti, dal deserto alla città, alla savana. 14 A prescindere dalle differenze culturali, le persone avevano una preferenza per gli ambienti che ricordano le savane dell’Africa. In questo, hanno concluso, c’è qualcosa di innato. Ciò conduce a un altro motivo per cui Isabel ritiene che i soggetti depressi o ansiosi stiano meglio negli ambienti naturali. Sa per esperienza che quando sei depresso, hai la sensazione che «ogni cosa riguardi te». Resti intrappolato nella tua storia e nei tuoi pensieri, che ti sbatacchiano nella testa con un’insistenza sorda e amara. Cadere nella depressione o nell’ansia significa diventare prigionieri del proprio ego, dove l’aria esterna non riesce a penetrare. Alcuni scienziati, tuttavia, hanno dimostrato che una reazione frequente al contatto con il mondo naturale è l’esatto contrario di questa sensazione: un senso di soggezione. 15 Davanti a un ambiente naturale, hai l’impressione che tu e le tue preoccupazioni siate molto piccoli e che il mondo sia molto grande, e questa sensazione riduce l’ego a dimensioni gestibili. «[La natura] è una cosa più grande di te» ha continuato Isabel, guardandosi intorno. «C’è qualcosa di profondamente e animalescamente sano in questa sensazione. Le persone amano provarla, [amano] i suoi brevi momenti fugaci». Questo ti aiuta a vedere i modi più profondi e più ampi in cui sei connesso a tutto ciò che ti circonda. «È quasi come una metafora dell’appartenenza a un sistema più grande» dice. «Sei sempre inserito in una rete» anche quando non te ne accorgi; sei «soltanto l’ennesimo nodo» in questo enorme arazzo. A Oxford, Isabel era caduta ben presto in depressione quando era stata costretta a staccarsi da tutto questo. In Congo, mentre viveva con i bonobo, scoprì di non poter essere depressa. Ogni tanto aveva un pensiero cupo e «la natura ti fa sentire piccolo piccolo […] Sei accampato nella savana, senti i ruggiti dei leoni e pensi: ‘Cazzo, sono un pasto proteico’». Questa uscita dall’autosegregazione nell’ego, dice, l’ha fatta sentire meno disperata. Lo scoiattolo ha annusato la carne e, disgustato, è corso via. Solo quando ho controllato la confezione mi sono accorto di avergli dato una strisciolina di salmone disidratato, che a quanto pare è una prelibatezza per i canadesi. «Lo scoiattolo ha un palato raffinato» ha commentato Isabel, guardando

l’incarto con aria schifata, e ha iniziato la discesa. Negli anni Settanta, nella prigione di Stato del Michigan meridionale, si tenne casualmente un esperimento per verificare alcune di queste idee. 16 Per come era strutturato il carcere, metà delle celle si affacciava su alberi e campi coltivati, e metà su nudi muri di mattoni. L’architetto Ernest Moore studiò le cartelle cliniche dei due diversi gruppi di detenuti (che non differivano da nessun altro punto di vista) e scoprì che i membri del primo gruppo avevano il 24 per cento di probabilità in meno di essere colpiti da malattie fisiche o mentali. «Devo dire» mi ha detto in seguito il professor Howard Frumkin, uno dei più autorevoli esperti mondiali dell’ar-gomento, «che se avessimo un farmaco capace di dare risultati preliminari così soddisfacenti, ci precipiteremmo a studiarlo […] Ecco una terapia che ha pochissimi effetti collaterali, non è costosa, non richiede la prescrizione medica e finora ha dato ottime prove di efficacia». Tuttavia è molto difficile trovare finanziamenti per le ricerche, ha proseguito, perché «l’orientamento degli studi biomedici moderni è stato dettato in gran parte dall’industria farmaceutica» e le aziende non sono interessate, perché «è molto arduo commercializzare il contatto con la natura». Non si può venderlo, perciò non ne vogliono sapere. Mentre riflettevo su tutto questo, però, ho continuato a domandarmi: ‘Perché sono da sempre così ostile al mondo naturale?’ Ho trovato la risposta solo dopo averci pensato per mesi e aver ascoltato una volta dopo l’altra l’audio della passeggiata in montagna con Isabel. Come aveva previsto, in natura sento il mio ego che rimpicciolisce e provo la sensazione di essere minuscolo in confronto al mondo, ma per quasi tutta la vita ciò mi ha riempito d’ansia anziché di sollievo. Voglio il mio ego. Voglio tenermelo stretto. Come vedrete, mi sono chiarito le idee in proposito soltanto in una fase successiva di questo viaggio. Isabel aveva visto la cattività scatenare nei bonobo sintomi depressivi che non avrebbero mai mostrato allo stato libero. Come esseri umani, mi ha detto, «penso che abbiamo molte forme moderne di cattività». L’insegnamento che aveva ricavato dai bonobo depressi era: «Non vivere in gabbia. Vaffanculo le gabbie». In cima a quella montagna a Banff c’è una cornice da dove vedi il paesaggio canadese che si stende davanti a te in ogni direzione. L’ho guardata in preda al panico. Isabel ha insistito per prendermi per mano e

portarmi là fuori. La cosa più crudele della depressione, mi ha spiegato, è che ti toglie il desiderio di vivere fino in fondo, di goderti l’esperienza tutta intera. «Vogliamo sentirci vivi» ha osservato. Lo vogliamo e ne abbiamo un gran bisogno. Poi ha detto: «Ovviamente abbiamo rischiato di morire, ma ti sei sentito vivo, giusto? Forse eri terrorizzato, ma non eri depresso». No. Non ero depresso.

12. Settima causa: la disconnessione da un futuro promettente o sereno

Negli anni avevo notato un’altra caratteristica della mia depressione e della mia ansia. Spesso mi facevano sentire stranamente miope. Quando mi assalivano, ero in grado di pensare soltanto alle poche ore successive, a quanto sarebbero sembrate lunghe e dolorose. Era come se il futuro svanisse. Parlando con molte persone depresse o gravemente ansiose, ho riscontrato che descrivevano spesso una sensazione analoga. Un’amica mi ha detto che intuiva che la depressione stava per andarsene quando il suo senso del tempo tornava a dilatarsi, quando era di nuovo in grado di chiedersi dove sarebbe stata di lì a un mese o a un anno. Volevo comprendere questa apparente stranezza e, una volta iniziato a studiarla, mi sono imbattuto in alcune interessanti ricerche scientifiche. Tra tutte le cause della depressione e dell’ansia che ho identificato, questa è stata la più difficile da capire ma, quando ci sono riuscito, mi ha aiutato a risolvere diversi misteri. Poco prima di morire, il capo indiano Plenty Coups si sedette nella sua casa sulle pianure del Montana e fissò il paesaggio in cui, un tempo, la sua gente aveva vagato insieme con i bisonti e dove ora non c’era più nulla. 1 Era nato nell’ultimo periodo in cui il suo popolo – i Crow – aveva vissuto come una tribù di cacciatori nomadi. Un giorno arrivò un cowboy bianco e disse di voler raccontare la storia di Plenty Coups, di volerla documentare fedelmente per i posteri, con le sue parole esatte. Molti visi pallidi avevano rubato le storie dei nativi americani e le avevano distorte, perciò occorse molto tempo prima che i due uomini instaurassero un rapporto di fiducia reciproca. Poi, però, Plenty Coups raccontò al visitatore una storia che parlava della fine del mondo. Quando era giovane, spiegò, la sua gente aveva vagato a cavallo nelle Grandi pianure e la vita era sempre stata organizzata intorno a due attività. 2 Cacciavano e si allenavano per le guerre contro le tribù rivali della regione. Tutto ciò che facevano serviva a prepararli a questi due poli centrali

dell’esistenza. Se cucinavi un pasto, lo facevi in preparazione della caccia o della battaglia. Se celebravi il rito della danza del Sole, lo facevi per chiedere forza durante la caccia o la battaglia. Persino il tuo nome – e quello di tutti i tuoi conoscenti – si basava sul tuo ruolo durante la caccia o la battaglia. Il mondo funzionava così. Plenty Coups ne elencò le numerose regole. Per esempio, al centro della concezione della realtà sposata dai Crow c’era l’idea di piantare un coup stick, un bastone di legno intagliato. Mentre percorrevi le pianure, marcavi il territorio della tua tribù conficcandone uno nel terreno. Il bastone significava: chiunque superi questo punto è un nemico e verrà attaccato. La cosa più ammirevole che potessi fare, nella cultura dei Crow, era piantare e difendere i coup sticks, un'attività alla base della loro etica. 3 Plenty Coups continuò a snocciolare accuratamente le regole del suo mondo perduto. Ricordò la sua vita, i valori spirituali del suo popolo, il rapporto con i bisonti e con le tribù rivali. Era un mondo complesso quanto le civiltà dell’Europa, della Cina o dell’India, e altrettanto strutturato con regole, significati e metafore. Il cowboy, tuttavia, notò che c’era qualcosa di strano nella storia. Il capo era soltanto un ragazzino quando erano arrivati gli europei bianchi, i bisonti selvatici erano stati uccisi, i Crow erano stati sterminati e i sopravvissuti rinchiusi nelle riserve. Il racconto di Plenty Coups, però, finiva sempre lì. Quanto al resto della sua vita – la maggior parte – il capo non aveva alcuna storia. Non aveva nulla da dire. Arrivava al punto in cui i Crow erano stati relegati nelle riserve e diceva: «Dopodiché non è successo più niente». 4 Naturalmente il cowboy sapeva – anzi, tutti sapevano – che il capo aveva fatto molte altre cose nella sua vita. Erano accaduti diversi fatti. In realtà, però, il mondo era finito, per Plenty Coups e per la sua gente. Certo, nelle riserve potevano ancora piantare i coup sticks nel terreno, ma a quale scopo? Chi li avrebbe superati? Come li avrebbero difesi? Certo, potevano parlare del coraggio – il valore cui tenevano di più – ma come potevano dimostrare coraggio in un modo che avesse senso per loro, quando la caccia e le battaglie non c’erano più? Certo, potevano ancora celebrare la danza del Sole, ma perché prendersi il disturbo, quando non c’erano battute di caccia né combattimenti per cui chiedere un esito vittorioso? Come potevi dimostrare ambizione, grinta o audacia? Persino le attività quotidiane parevano inutili. Prima, i pasti venivano

preparati in vista della caccia o della battaglia. «Ovviamente i Crow continuarono a cucinare» spiegò il filosofo Jonathan Lear quando scrisse dell’argomento. 5 «Se qualcuno glielo chiedeva, erano in grado di dire cosa stessero facendo. E se qualcuno insisteva, erano in grado di dire che cercavano di sopravvivere, di tenere unita la famiglia un giorno dopo l’altro». Ma «non c’era un contesto significativo in cui inserire tutto questo». Un secolo dopo, il professor Michael Chandler fece una scoperta. 6 Come moltissimi suoi connazionali canadesi, anno dopo anno apprendeva dal telegiornale una notizia raccapricciante. Sparpagliati nel suo paese, c’erano 196 gruppi delle Prime nazioni, il termine canadese per designare le tribù di nativi americani che – anche se solo nelle riserve e disorientate come Plenty Coups e i suoi Crow – erano sopravvissute all’invasione europea. Come negli Stati Uniti, diversi governi canadesi avevano continuato per anni a distruggerne la cultura portando via i loro figli e allevandoli negli orfanotrofi, impedendo loro di parlare le loro lingue e di scegliere come vivere. Questo processo è continuato fino a qualche decennio fa. Risultato: le persone che avevano subito tutto questo – e i loro figli – avevano le più alte percentuali di suicidio di tutto il Paese. Nel 2016 questo fenomeno è finito sulle prime pagine dei giornali canadesi quando, in una singola riserva in una singola notte, undici rappresentanti delle Prime nazioni si sono tolti la vita. Chandler voleva capire perché. Così negli anni Novanta iniziò a esaminare le statistiche sui suicidi tra i membri delle Prime nazioni, per vedere dove si concentrassero questi episodi. Notò qualcosa di interessante. In alcune nazioni indigene (o «tribù», come erano chiamate negli Stati Uniti) non si registrava alcun suicidio, mentre in altre le percentuali erano altissime. Perché? Cosa poteva spiegare la differenza? Cosa succedeva nelle nazioni indigene senza suicidi che non succedeva in quelle con un alto tasso di suicidi? Chandler ebbe un’intuizione. «Storicamente, i governi hanno trattato i popoli indigeni come bambini e assunto una specie di controllo loco parentis [in vece dei genitori] sulla loro vita» mi ha spiegato. Ma «negli ultimi decenni i gruppi indigeni hanno combattuto contro questo genere di approccio e cercato di riprendere le redini della propria esistenza». Alcuni sono riusciti a riappropriarsi delle terre di cui erano originari, a far rivivere le loro lingue e a riconquistare il controllo di scuole, servizi sanitari e polizia in modo da poter eleggere e dirigere autonomamente questi organi. In alcuni

luoghi, le autorità hanno acconsentito alla gestione da parte delle Prime nazioni e concesso alcune libertà; in altri, no. Dunque c’è un vistoso divario tra i gruppi che sono ancora totalmente controllati e alla mercé di qualunque decisione il governo canadese prenda riguardo al loro futuro, e altre nazioni indigene capaci di ricostruire una cultura che abbia senso ai loro occhi, di ricreare un mondo dove, per usare le loro parole, succeda qualcosa. Così Chandler e i suoi colleghi passarono anni a raccogliere e a studiare attentamente le statistiche. 7 Idearono nove modi per misurare il controllo detenuto da un gruppo tribale, e pian piano, con il passare del tempo, confrontarono i risultati con i tassi di suicidio. Volevano sapere se ci fosse una relazione. Poi pubblicarono i risultati. Emerse che le comunità con il maggiore controllo avevano il minore tasso di suicidi, e viceversa. Riportando questi due fattori su un grafico per tutti i 196 gruppi tribali, si otteneva curiosamente una linea retta. Molto spesso si poteva prevedere il tasso di suicidi semplicemente guardando la percentuale di controllo. Questo non è certo l’unico fattore a sconfortare i popoli delle Prime nazioni. Per citarne solo uno tra tanti: il fatto che le loro famiglie fossero state deliberatamente distrutte e smembrate dallo Stato canadese e che i loro figli fossero stati mandati in orribili «collegi» aveva causato una valanga di traumi nel corso delle generazioni. Chandler, tuttavia, aveva dimostrato che la mancanza di controllo aveva un’enorme incidenza. Era già di per sé una scoperta sorprendente, ma poi lo indusse ad approfondire la ricerca. Mentre Chandler esaminava i risultati dello studio sulle Prime nazioni, si ritrovò a pensare a un progetto di cui si era occupato diversi anni prima. È un po’ più complesso di quelli che ho descritto finora, perciò armatevi di pazienza. Da quando si era laureato in psicologia all’università della California a Berkeley nel 1966, Chandler era incuriosito da una delle domande più antiche e più basilari degli esseri umani: come sviluppi il tuo senso di identità? Come fai a sapere chi sei? Sembra un quesito cui è impossibile rispondere. Ma provate a chiedervi quale sia il filo che lega il vostro io neonato, intento a rigurgitare i biscottini per la dentizione, all’individuo che ora sta leggendo questo libro. Sarete la stessa persona tra vent’anni? Se la incontraste, la riconoscereste? Qual è il rapporto tra voi nel passato e voi nel futuro? Siete

sempre stati gli stessi? Quasi tutti trovano difficile rispondere a questi interrogativi. Crediamo istintivamente di restare gli stessi per tutta la vita, ma è arduo spiegare il perché. C’è una categoria di persone, tuttavia, che pare considerarlo impossibile. Chandler andò in un reparto psichiatrico per adolescenti a Vancouver e passò mesi a intervistare i ragazzi. Dormivano in letti a castello, si sottoponevano alla terapia e spesso si coprivano le cicatrici sulle braccia per la vergogna. Fece loro molti tipi di domande sulla loro vita. Alcuni dei suoi quesiti andarono al cuore di questo dibattito: come formi la tua identità? Sollevò questo argomento in diversi modi, uno dei quali assai semplice. In Canada hanno una collana di fumetti in cui vengono trasposti i classici della letteratura. Uno di essi è un adattamento di Racconto di Natale di Charles Dickens. Probabilmente conoscete la trama: è la storia di Scrooge, un vecchio taccagno che riceve la visita di tre fantasmi e, trasformato da questa esperienza, diventa supergeneroso. Un altro esempio è un adattamento dei Miserabili di Victor Hugo. Probabilmente conoscete anche questo: Jean Valjean, un pover’uomo, commette un reato e fugge. Cambia nome e identità e riesce a diventare sindaco della città, finché l’ispettore Javert arriva a dargli la caccia (e canta alcune canzoni terribili). Chandler pregò due diversi gruppi di adolescenti di leggere questi volumi. Un gruppo era costituito da adolescenti con una forma di anoressia così grave da richiedere il ricovero ospedaliero; l’altro, da adolescenti così depressi da avere tendenze suicide. Li invitò entrambi a pensare a questi personaggi. Scrooge sarà lo stesso in futuro, dopo aver incontrato i fantasmi e cambiato atteggiamento? Se sì, perché? Jean Valjean sarà lo stesso dopo essere fuggito e aver cambiato nome? Spiegatemi in che senso. Entrambi i gruppi erano malati nella stessa misura e i loro livelli di angoscia erano simili. Tuttavia gli anoressici riuscirono a rispondere normalmente, mentre i depressi no. «Quasi esclusiva del gruppo suicida era un’incapacità generalizzata di capire come una persona potesse continuare a essere lo stesso individuo» mi ha detto Chandler. I ragazzi molto depressi rispondevano normalmente a domande di ogni altro tipo ma, quando si arrivava ai quesiti su chi loro o chiunque altro sarebbero stati in futuro, assumevano un’espressione confusa. Sapevano che avrebbero dovuto essere in grado di dare una risposta, ma poi, desolati, dicevano: «Non ne ho la più pallida idea».

Ed ecco la cosa interessante. Come non riuscivano a immaginare chi sarebbe stato Jean Valjean in futuro, non riuscivano a immaginare neppure chi sarebbero stati loro come individui. Per loro, il futuro era scomparso. Esortati a descrivere se stessi di lì a cinque, dieci o vent’anni, facevano scena muta. 8 Era come un muscolo incapace di funzionare. 9 A un livello profondo, aveva scoperto Chandler, le persone estremamente depresse sono disconnesse dal senso del futuro, in un modo che non contraddistingue gli altri individui angosciati. Da queste prime ricerche, però, era difficile stabilire se i sintomi dei ragazzi fossero una causa o un effetto. Potevano essere entrambe le cose. Forse perdere il senso del futuro ti espone a tendenze suicide, o forse essere estremamente depresso ti impedisce di pensare al futuro. Come appurarlo?, si domandò Chandler. Le ricerche sui canadesi delle Prime nazioni, concluse, rispondevano a questa domanda. Se vivi in una comunità indigena senza controllo sul proprio destino, è arduo immaginare un futuro promettente o stabile. Sei alla mercé di forze estranee che hanno già distrutto la tua gente molte volte in passato. Se invece vivi in una comunità indigena che ha il controllo sul proprio destino, puoi costruirti facilmente la visione di un futuro roseo perché, insieme, siete voi a deciderlo. Era, concluse Chandler, la perdita del futuro ad aumentare i tassi di suicidio. Una visione positiva dell’avvenire ha una funzione protettiva. Se la vita è brutta oggi, puoi pensare: ‘Fa male, ma non farà male per sempre’. Ma quando ti rubano l’ottimismo, puoi essere assalito dal timore che il dolore non se ne andrà mai. Chandler mi ha confidato che dopo aver condotto questa ricerca è molto scettico riguardo alla teoria secondo cui la depressione e l’ansia sono perlopiù causate da difetti cerebrali o genetici. «È una sorta di rimasuglio di una concezione molto occidentalizzata e medicalizzata della salute e del benessere» mi ha detto, e manca di «qualunque valutazione seria del contesto culturale in cui succedono queste cose». Se ti comporti in questo modo, ignori «la legittimità della depressione» per molti individui che sono stati privati della speranza. Invece di pensare a queste cause della depressione, tuttavia, ci siamo limitati a prescrivere dei farmaci, ed «è diventato un mercato». Quando sono tornato a Londra per qualche tempo, ho fissato un incontro con una vecchia amica che avevo conosciuto all’università dodici anni prima, ma che in qualche modo avevo perso di vista. La chiamerò Angela. Quando

studiavamo insieme, era una di quelle persone che sembrano fare mille cose in una volta sola: recitare a teatro, leggere Tolstoj, essere la migliore amica di tutti, uscire con i ragazzi più sexy. Era come uno spettacolo pirotecnico a base di adrenalina, cocktail e vecchi libri. Però avevo saputo da alcuni conoscenti comuni che soffriva di una grave forma di ansia e di depressione, e mi era parso così strano che mi era venuta voglia di parlare con lei. L’ho portata fuori a pranzo e ha iniziato a raccontarmi la storia della sua vita da quando ci eravamo visti l’ultima volta. 10 Parlava farfugliando frettolosamente e continuando a scusarsi, anche se non era chiaro per cosa. Dopo la laurea, mi ha spiegato, aveva conseguito un master e, quando aveva cominciato a cercare lavoro, aveva continuato a ricevere la stessa risposta: dicevano che era troppo qualificata e che, se le avessero offerto un posto, si sarebbe licenziata. L’esito dei colloqui era rimasto invariato nel corso dei mesi. Dopo un anno, ancora niente. Angela amava lavorare sodo, ed essere disoccupata era doloroso per lei. Alla fine, non riuscendo più a pagare le bollette, aveva cominciato a fare i turni in un call center a otto sterline (circa nove euro) l’ora, appena sopra il salario minimo britannico dell’epoca. Il primo giorno era arrivata in un ex stabilimento di vernici a East London. C’era una fila di scrivanie dal ripiano di plastica e dalle gambe sottili – come quelle che si trovano nelle scuole elementari britanniche – con sopra dei computer, e al centro, dietro una scrivania più grande, sedeva il supervisore. Poteva ascoltare le telefonate degli operatori in qualunque momento, le avevano detto, e dare loro un feedback. Il call center faceva chiamate per conto di tre dei principali enti benefici della Gran Bretagna, e il compito di Angela era contattare le persone e fare tre richieste. Prima chiedi una grossa somma: potrebbe permettersi cinquanta sterline al mese? Se dicono no, chiedi un importo più modesto: facciamo venti? Se dicono ancora no, chiedi: facciamo due? La telefonata si considera andata a buon fine solo se riesci a fare tutte e tre le richieste. Al call center non c’erano ‘posti di lavoro’ come all’epoca dei nonni di Angela, che facevano la domestica e l’operaio. Se decidiamo di tenerti, aveva spiegato il supervisore, ricevi un’e-mail una volta la settimana, con l’elenco dei turni per la successiva. Possiamo assegnartene quattro o nessuno. Dipende da me e dal tuo rendimento. Alla fine del primo giorno, il supervisore le aveva detto che la sua tecnica era sbagliata e che, se non avesse fatto dei miglioramenti, non le avrebbe assegnato altri turni. Doveva farsi valere di più. Occorreva fare in modo che

molte persone ascoltassero le tre richieste e poi dicessero sì. Nelle settimane seguenti, Angela aveva scoperto che se la percentuale scendeva anche solo del 2 per cento rispetto al turno precedente, il supervisore ti prendeva a male parole e poteva benissimo licenziarti. Certe volte Angela chiamava le persone e quelle le dicevano, piangendo, che non potevano più permettersi di fare donazioni. «So che i bambini ciechi hanno bisogno di me» aveva singhiozzato una vecchietta. «Forse posso comprare una marca diversa di cibo per cani» aveva aggiunto, per dare in beneficenza i pochi penny che aveva risparmiato. Angela aveva ricevuto l’ordine di affondare il colpo. Per il primo mese si era illusa che sarebbe migliorata e che il lavoro sarebbe diventato tollerabile finché non ne avesse trovato uno migliore. «Pensavo: ‘Non mi piace, ma andrà tutto bene. Andrà tutto bene’» mi ha raccontato. Nelle settimane in cui le assegnavano quattro turni, poteva andare al lavoro in autobus e comprare un pollo intero che divideva in diversi pasti. Nelle settimane in cui gliene assegnavano due o meno, mangiava fagioli e andava al lavoro a piedi. Il suo ragazzo aveva un posto altrettanto precario e un giorno si era ammalato. Angela si era ritrovata a infuriarsi con lui perché non capiva la situazione: non sai che abbiamo bisogno di quelle sessanta sterline? Era stato all’inizio del secondo mese che si era accorta di tremare sull’autobus ogni giorno mentre andava allo stabilimento. Non sapeva il perché. Certe volte, alla fine del turno, si concedeva mezza pinta di Guinness nel pub di fronte e, per la prima volta in vita sua, aveva pianto in pubblico. Più o meno nello stesso periodo aveva cominciato a provare una rabbia insolita. Ogni tanto si presentava un nuovo gruppo di candidati per il call center e i suoi turni venivano ridotti. «Inizi a odiare davvero i nuovi arrivati» mi ha detto. Lei e il suo ragazzo avevano finito col litigare per ogni inezia. Quando le ho chiesto di descrivermi il suo stato d’animo verso quel lavoro, si è zittita. «È come doversi comprimere, come cercare di infilarsi per tutto il tempo in un tubo molto stretto. Sai, come provare a lanciarti lungo uno scivolo e accorgerti di non esserne in grado, non poter respirare, avere la nausea e temere di non uscire più. E sentirsi stupidi, incompetenti, come un bambino, un bambino che non sa gestire la sua vita, perciò sei stato relegato nello schifoso mondo in cui gli altri possono dirti che sei un buono a nulla e licenziarti così, su due piedi». Ha schioccato le dita. Sua nonna faceva la domestica e si era vista rinnovare il contratto ogni

anno, nel giorno dell’Annunciazione. Sua madre aveva avuto un lavoro impiegatizio a tempo indeterminato. Angela aveva la sensazione di essere regredita persino oltre ciò che aveva avuto sua nonna negli anni Trenta. Era come fare un provino a ogni ora, a ogni telefonata. Aveva «paura di andare in ufficio» dice, «perché sapevo che la giornata sarebbe stata orribile, e temevo di combinare un casino e di essere licenziata, e allora sì che saremmo stati nei guai». Un giorno si era resa conto di non riuscire a scrollarsi di dosso «la sensazione di non avere un futuro». Non era nemmeno in grado di fare progetti a brevissimo termine. Quando sentiva gli amici parlare di mutui e pensioni, le sembrava quasi un’utopia: messaggi da posti che lei poteva soltanto sognare. «Ti toglie qualunque senso di identità tu possa avere e lo sostituisce con la vergogna, la preoccupazione e la paura […] Cosa sei? Io sono una nullità. E tu?» Non riusciva a immaginare un futuro diverso dal presente: «Mi terrorizza l’idea che quando avremo sessanta o settant’anni saremo poveri come lo eravamo a venti» ha osservato. Era come «un eterno ingorgo stradale» dove non ci si muoveva mai nemmeno di un centimetro. Aveva iniziato a bere alcolici scadenti tutte le sere, perché era troppo ansiosa per prendere sonno. Negli ultimi trent’anni, in quasi tutto il mondo occidentale, questo tipo di incertezza ha caratterizzato il lavoro di un numero crescente di persone. Il 20 per cento circa degli americani e dei tedeschi non ha alcun contratto, bensì lavora di turno in turno. Il filosofo italiano Paolo Virno dice che siamo passati dal ‘proletariato’ – un solido blocco di manovali con un posto fisso – al ‘precariato’, una massa mutevole di individui cronicamente insicuri che non sanno se avranno ancora un lavoro la settimana prossima o se mai avranno un impiego stabile. 11 Ai tempi dell’università, quando Angela aveva una visione ottimistica del futuro, era stata un turbine di positività. Ora che era seduta davanti a me e affermava di aver perso le speranze nell’avvenire, era passiva, quasi apatica. C’è stata una fase in cui il ceto medio e gli operai avevano un certo senso di sicurezza e potevano fare progetti per il futuro. Questa fase è finita perché i politici hanno deciso di liberalizzare le attività economiche e di mettere i bastoni tra le ruote ai lavoratori che volevano organizzarsi per tutelare i propri diritti. Ciò che abbiamo perso è stata la capacità di pianificare l’avvenire. Angela non sapeva cosa il domani avesse in serbo per lei. Lavorare in quel modo le impediva di immaginare se stessa di lì a qualche

mese o, a maggior ragione, di lì a qualche anno o a qualche decennio. In un primo momento, questo senso di precarietà ha riguardato le persone con i lavori peggio retribuiti. Da allora, tuttavia, è salito sempre di più lungo la gerarchia sociale. Ormai molti membri del ceto medio lavorano di progetto in progetto, senza alcun contratto o alcuna sicurezza. Abbiamo dato a questo fenomeno un nome fantasioso: lo chiamiamo ‘lavoro autonomo’ o ‘lavoro temporaneo’, come se avere un’occupazione stabile fosse un hobby. Per quasi tutti noi, il senso del futuro va scomparendo e il sistema ci esorta a considerarla una forma di liberazione. Sarebbe grottesco paragonare le sorti dei lavoratori occidentali a quelle dei nativi americani, sopravvissuti a un genocidio e a più di un secolo di persecuzioni. Mentre facevo ricerche per questo libro, tuttavia, ho passato un po’ di tempo nella Rust Belt. Qualche settimana prima delle presidenziali americane del 2016, sono andato a Cleveland per provare a dissuadere la gente dal votare Donald Trump. Un pomeriggio camminavo lungo una strada nella zona sudoccidentale della città, dove un terzo delle case era stato demolito dalle autorità, un terzo era abbandonato e un terzo era ancora abitato da persone spaurite, con sbarre d’acciaio alle finestre. Ho bussato a una porta e mi ha aperto una donna che, a occhio e croce, doveva avere cinquantacinque anni. Ha iniziato a urlare che era terrorizzata dai vicini, che i giovani del quartiere «sono costretti ad andarsene», che qualcuno doveva porre rimedio alla situazione, che non c’era più nemmeno un supermercato nelle vicinanze e che doveva prendere tre autobus solo per fare la spesa. Si è lasciata sfuggire incidentalmente che aveva trentasette anni, il che mi ha lasciato di stucco. Poi ha aggiunto qualcosa che mi è rimasto impresso per molto tempo dopo le elezioni. Mi ha descritto com’era il quartiere quando ci vivevano i suoi nonni e quando potevi lavorare in fabbrica e avere una vita da ceto medio. Ha avuto un lapsus freudiano. Invece di dire «quando ero bambina» ha detto: «Quando ero viva». In seguito mi sono ricordato di ciò che il capotribù dei Crow disse a un antropologo negli anni Novanta dell’800. «Sto cercando di vivere una vita che non capisco». Nemmeno Angela e gli altri miei amici che sono stati risucchiati dal precariato riescono a dare un senso alla loro esistenza: il futuro si frammenta costantemente. Tutte le loro aspettative giovanili per l’avvenire sembrano svanite.

Quando ho parlato ad Angela degli studi di Michael Chandler, ha sorriso mestamente. Era logico, ha commentato. Quando hai un’immagine stabile di te nel futuro, mi ha spiegato, ti dà «una prospettiva, giusto? Sei in grado di dire: ‘Okay, ho avuto una giornata di merda. Ma non avrò una vita di merda’». Non ha mai preteso, dice, di andare alle feste dei VIP o di possedere uno yacht, ma sperava di poter andare in vacanza ogni anno. Sperava, una volta arrivata alla soglia della quarantina, di sapere chi sarebbe stato il suo datore di lavoro la settimana successiva e quella dopo ancora. Invece è rimasta intrappolata nel precariato. Dopodiché non è successo più niente.

13. Ottava e nona causa: il vero peso dei geni e dei cambiamenti cerebrali

La storia che ci hanno raccontato sul nostro cervello – che siamo depressi e ansiosi per una semplice e spontanea carenza di serotonina – non è vera. Ormai ne ero certo. Ho notato, tuttavia, come alcuni saltino alla conclusione che nessuna delle storie biologiche su questo argomento è esatta, che questi disturbi dipendono esclusivamente da fattori sociali e psicologici. Quando li ho intervistati, però, persino i più convinti difensori delle cause ambientali e sociali hanno sottolineato che le cause biologiche della depressione esistono e sono molto concrete. Così ho voluto indagare. Quale ruolo svolgono? Come funzionano? E cosa c’entrano con tutto quello che ho scoperto? Gli amici di Marc Lewis pensavano che fosse morto. 1 Era l’estate del 1969, e questo studente californiano voleva combattere la disperazione in tutti i modi possibili. Da una settimana inghiottiva, sniffava o si iniettava qualunque stimolante riuscisse a procurarsi. Dopo essere rimasto sveglio per trentasei ore di fila, chiese a un amico di fargli un’iniezione di eroina in modo da crollare. Quando riprese i sensi, si accorse che gli amici stavano cercando un sacco abbastanza grande per infilarci dentro il suo corpo e sbarazzarsene. Quando improvvisamente cominciò a parlare, fece venire un colpo a tutti. Il suo cuore, gli riferirono, aveva smesso di battere per diversi minuti. Finalmente, una decina d’anni dopo, Lewis uscì dalla tossicodipendenza e iniziò a studiare le neuroscienze. Quando l’ho incontrato per la prima volta a Sydney, era uno dei massimi esperti del settore e faceva il docente universitario nei Paesi Bassi. Voleva rispondere a queste domande: come cambia il cervello quando sei profondamente angosciato? 2 Questi cambiamenti ostacolano la guarigione? Se guardate la TAC al cervello di una persona depressa o molto ansiosa, mi ha spiegato Lewis, sarà diversa da quella di un soggetto sano. Le aree

legate all’infelicità o alla consapevolezza del rischio si accenderanno come alberi di Natale. Saranno più estese e più attive. Mi ha mostrato dei grafici e mi ha indicato queste parti del cervello. Coincide, ho osservato, con ciò che mi disse il medico quando ero adolescente: che ero depresso perché il mio cervello era fisicamente guasto e che andava riparato con i farmaci. Quella storia era sempre stata vera? No, ha risposto con espressione triste. Per capire il perché, ha aggiunto, devi afferrare il concetto fondamentale di neuroplasticità. 3 Quindici anni fa, se mi aveste mostrato uno schema del mio cervello e me l’aveste descritto, avrei pensato, come la maggior parte delle persone: ‘Questo sono io’. Se le aree cerebrali che governano l’infelicità o la paura sono più attive, sono destinato a essere sempre più infelice o sempre più impaurito. Forse tu hai le gambe corte o le braccia lunghe; io ho un cervello con regioni della paura e dell’ansia molto vivaci. È così che sono fatto. Ora, però, sappiamo che non è vero. Vedila in un altro modo, mi ha detto Lewis. Se ti mostrassi la radiografia delle braccia di un uomo, potrebbero sembrare deboli e sottili. Ora immagina che segua un corso di pesistica per sei mesi e che poi torni per un’altra radiografia. Le braccia avrebbero un aspetto diverso. Non sono immutabili. Cambierebbero a seconda di come le usa. Lo stesso vale per il cervello, ha aggiunto: cambia a seconda di come lo usi. «La neuroplasticità è la capacità del cervello di modificarsi continuamente in base all’esperienza» ha detto. Così, per esempio, se i tassisti londinesi vogliono ottenere la licenza, devono memorizzare l’intera mappa di Londra e poi superare un complicato test chiamato The Knowledge. 4 Se fai una TAC al cervello a uno di loro, l’area che governa la consapevolezza spaziale è molto più grande di quanto lo sarebbe in noi due. Questo non significa che lui sia nato diverso, ma solo che usa diversamente il cervello nella vita di tutti i giorni. Il cervello cambia costantemente per soddisfare le tue esigenze. Lo fa perlopiù in due modi: sfrondando le sinapsi che non usi e coltivando quelle che usi. Così, per esempio, se allevi un neonato nel buio assoluto, eliminerà le sinapsi deputate alla vista. Il cervello stabilisce che non ne avrà bisogno e che è meglio sfruttare altrimenti quelle capacità mentali. 5 La neuroplasticità prosegue per tutta la vita, e il cervello «cambia continuamente» mi ha spiegato Lewis. 6 Per questo, dice, la storia che il medico mi propinò quando ero ragazzo è sbagliata. Nel contesto attuale, un

dottore che dice a un paziente depresso: «‘Hai il cervello incasinato, perché è diverso da uno normale’ è un incompetente. Sappiamo infatti che questo organo modifica costantemente il suo cablaggio. La filosofia procede sempre in parallelo alla psicologia, punto e basta». Una TAC al cervello è «un’istantanea di una figura in movimento» afferma. «Puoi fare un’istantanea di qualunque momento di una partita di football. Non ti dice cosa succederà dopo o in quale direzione andrà il cervello». Questo organo cambia quando cadi nella depressione o nell’ansia, e cambia ancora quando ne esci. Si modifica sempre in reazione ai segnali del mondo. Quando Lewis era tossicodipendente, con molta probabilità il suo cervello era molto diverso da oggi. Significa soltanto che lo usa diversamente. Quando gli ho confidato che avevo preso gli antidepressivi per tredici anni e che mi avevano sempre detto che la mia angoscia dipendeva da un’anomalia cerebrale, ha commentato: «È assurdo. Le cause sono sempre la tua vita e le circostanze». I sette fattori sociali e psicologici che stavo esaminando all’epoca hanno, secondo lui, la capacità di cambiare fisicamente il cervello di milioni di persone. Se studiare la mappa di Londra modifica il tuo cervello, a maggior ragione lo fanno la solitudine, l’isolamento o il materialismo eccessivo. E, cosa più importante, la riconnessione può modificarlo nuovamente. Ragioniamo in modo troppo semplicistico, dice Lewis. Non riusciresti a capire la trama di Breaking Bad smantellando il set televisivo. 7 Allo stesso modo, non riesci a capire la causa del dolore smantellando il cervello. Per farlo devi soffermarti sui segnali ricevuti dalla tv o dal cervello. La depressione e l’ansia «non sono come un tumore, dove qualcosa cresce a livello cerebrale perché il tessuto si incasina prima dell’insorgere dei disturbi psicologici» dichiara. «Non funziona così. Queste cose» – l’angoscia provocata dal mondo esterno e i cambiamenti cerebrali – «vanno di pari passo». Però, dice Lewis, c’è un aspetto cruciale da considerare, un modo in cui ciò che accade nel cervello modifica la storia per i depressi e gli ansiosi. Immaginate di essere esposti a una delle sette cause della depressione o dell’ansia che ho analizzato finora. Una volta iniziato, il processo – come qualunque altra cosa ci succeda – provoca dei cambiamenti concreti nel cervello, e questi possono poi acquisire uno slancio tutto loro che acuisce gli effetti scatenati dal mondo esterno.

Immagina, mi ha detto Lewis, che «il tuo matrimonio sia appena finito, che ti abbiano licenziato e che… indovina un po’? Tua madre abbia avuto un ictus. È una situazione molto stressante». Siccome provi un dolore intenso per un lungo periodo, il tuo cervello darà per scontato che questo sia lo stato in cui dovrai sopravvivere d’ora in poi. Così potrebbe iniziare a eliminare le sinapsi legate alle cose che ti danno gioia e piacere, e a rafforzare quelle legate alla paura e alla disperazione. Questa è una delle ragioni per cui hai spesso la sensazione di essere prigioniero di uno stato di depressione o di ansia, anche se le cause originali del dolore sembrano essere scomparse. Mi sono ricordato che John Cacioppo l’aveva chiamato ‘effetto valanga’. Così, prosegue Lewis, benché sia sbagliato dire che l’origine di questi disturbi risiede unicamente nel cervello, sarebbe altrettanto sbagliato dire che le reazioni cerebrali non possono aggravare la situazione. Possono eccome. Il dolore provocato dai problemi della vita può scatenare una risposta «così forte che [il cervello] tende a restare [ingabbiato nel dolore] per qualche tempo, finché qualcosa lo spinge fuori da quell’angolo, in un luogo più flessibile». Se il mondo continua a procurarti una profonda sofferenza, naturalmente vi rimarrai imprigionato a lungo, e la valanga si farà sempre più travolgente. Ma dire ai depressi che la causa è sempre stata nel loro cervello equivale a dare loro una mappa sbagliata, ritiene Lewis, una mappa che non servirà a capire perché si sentano così o come possano trovare la via del ritorno. 8 Anzi, potrebbe isolarli ancora di più. Nel suo primo e unico discorso inaugurale da presidente, John F. Kennedy pronunciò le famose parole: «Non chiedere cosa il tuo Paese può fare per te. Chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese». Secondo Lewis, se si vuole imparare a ragionare sulle origini della depressione e capire cosa c’entrino con il cervello in modo più veritiero di quanto ci abbiano insegnato a fare negli ultimi decenni, è utile sapere qualcosa che lo psicologo W.M. Mace disse anni fa, richiamandosi a JFK: «Non chiedere cosa c’è dentro la tua testa. Chiediti dentro cosa è la tua testa». 9 C’è un’altra causa fisica della depressione e dell’ansia di cui hanno sentito parlare quasi tutti. Mia madre ha sofferto di una grave forma di depressione prima della mia nascita (e dopo). Entrambe le mie nonne sono state depresse per lunghi periodi, anche se allora questa parola non era ancora entrata nell’uso. Così, per tutti gli anni in cui ho preso gli antidepressivi, nella misura in cui credevo

che questo disturbo fosse dovuto a qualcosa di diverso da un malfunzionamento cerebrale, ho dato per scontato di averlo ereditato geneticamente. Certe volte consideravo la depressione un gemello perduto, nato nell’utero insieme con me. Nel corso degli anni ho sentito spesso altri dire la stessa cosa. «Sono nato con la depressione» mi ha detto una volta un amico che aveva attraversato lunghe fasi suicide, durante una notte interminabile in cui siamo rimasti svegli e ho cercato di elencargli le ragioni per cui vale la pena vivere. Così volevo sapere fino a che punto la depressione si trasmetta geneticamente. Facendo ricerche sull’argomento, ho scoperto che gli scienziati non hanno identificato un gene specifico o un insieme di geni per la depressione o per l’ansia. Sappiamo tuttavia che esiste un’importante componente genetica, e c’è un modo semplicissimo per testarla. Prendi folti gruppi di gemelli monozigoti e folti gruppi di gemelli eterozigoti, e li confronti. 10 Tutti i gemelli sono geneticamente simili, ma i monozigoti molti più degli altri: vengono dallo stesso uovo fecondato, che si è diviso in due. Così se trovi una percentuale più alta (per esempio) di capelli rossi o di dipendenza o di obesità nei gemelli monozigoti rispetto a quelli eterozigoti, intuisci che c’è una marcata componente genetica. Esaminando il grado di differenza è possibile, secondo i medici, calcolare più o meno fino a che punto sia imputabile ai geni. Si è provato a farlo con la depressione e con l’ansia. 11 Gli scienziati più autorevoli hanno accertato – secondo la panoramica delle migliori ricerche sui gemelli proposta dai National Institutes of Health – che la depressione è ereditaria per il 37 per cento, mentre l’ansia grave per il 30-40 per cento. Tanto per darvi un’idea, la statura è ereditaria per il 90 per cento; la capacità di parlare inglese, per lo 0 per cento. 12 Così i ricercatori hanno concluso che questi due disturbi hanno una base genetica, ma essa non giustifica la maggior parte di ciò che sta succedendo. Tuttavia c’è un colpo di scena. Alcuni scienziati, guidati dal genetista Avshalom Caspi, eseguirono uno degli studi più dettagliati mai condotti sulla genetica della depressione. Per venticinque anni monitorarono mille soggetti in Nuova Zelanda, dalla nascita all’età adulta. Volevano capire, tra l’altro, quali geni rendessero l’individuo più vulnerabile alla depressione. Dopo aver lavorato per anni, fecero una scoperta sorprendente. Si accorsero che avere una variante del gene 5-HTT aumenta le probabilità di diventare depressi.

Però c’era un inghippo. Tutti nasciamo con un patrimonio genetico, ma i geni vengono attivati dall’ambiente. Gli eventi possono accenderli o spegnerli. Caspi si rese conto, come spiega il professor Robert Sapolsky, «che se hai un particolare tipo di 5-HTT, sei più esposto al rischio di depressione, ma solo in un certo ambiente». Se avevi questo gene, dimostrò lo studio, avevi più probabilità di cadere in depressione, ma solo se avevi subito un evento terribilmente stressante o numerosi traumi infantili (i ricercatori non esaminarono quasi nessuna delle altre cause di cui parlo in questo libro, per esempio la solitudine, perciò non sappiamo se anch’esse interagiscano con i geni in questo modo). Se non ti fossero capitate quelle brutte cose, anche se avevi il gene della depressione, non saresti stato a rischio più di chiunque altro. 13 Dunque i geni aumentano la sensibilità, a volte in misura significativa, ma di per sé non sono la causa. In altre parole, se altri geni funzionano come il 5-HTT – e sembra che sia così – nessuno è condannato dal proprio patrimonio genetico a essere depresso o ansioso. I geni possono sicuramente renderti più vulnerabile, ma non scrivono il tuo destino. Sappiamo tutti cosa succede nel caso del peso corporeo. Alcuni hanno serie difficoltà a mettere su qualche chilo: possono abbuffarsi di Big Mac e restare magri come chiodi. Ad altri (tra cui uno a caso) basta invece mangiare uno Snickers mini per sembrare balene incinte. Tutti odiamo i mangioni pelle e ossa, ma sappiamo anche che, pur avendo una maggiore predisposizione genetica a ingrassare, occorre avere la disponibilità di molti cibi nel proprio ambiente perché questa tendenza entri in azione. Disperso nella foresta pluviale o nel deserto senza nulla da mettere sotto i denti, dimagrisci a prescindere dal tuo patrimonio genetico. La depressione e l’ansia, indicano le attuali prove sperimentali, seguono un po’ lo stesso schema. Gli elementi genetici che vi contribuiscono sono molto concreti, ma richiedono anche un fattore scatenante nell’ambiente o nella psicologia dell’individuo. I geni possono poi amplificare questi fattori, ma non crearli da soli. Mentre scavavo più a fondo, tuttavia, mi sono accorto che non potevo lasciare in sospeso le domande sul ruolo svolto dal cervello e dai geni. Come ho spiegato prima, si riteneva che una variante della depressione fosse causata dagli eventi della vita e che un’altra, più pura, dipendesse da un cervello in tilt. Il primo tipo fu chiamato ‘reattivo’ e il secondo ‘endogeno’. 14 Così volevo sapere se ci fosse una categoria di individui depressi il cui

dolore nasceva, come mi aveva spiegato il medico, da un guasto nella cablatura del cervello o da qualche altro difetto congenito. Se sì, quanto era numerosa? L’unico studio scientifico serio che sono riuscito a reperire è, come già accennato, quello di George Brown e di Tirril Harris. Esaminarono soggetti che erano stati ricoverati per depressione reattiva e li confrontarono con altri cui era stata diagnosticata una forma endogena. Emerse che le circostanze erano esattamente le stesse: un pari numero di eventi aveva scatenato la loro disperazione. In base alle prove sperimentali, all’epoca la distinzione parve insignificante. Tuttavia ciò non significa necessariamente che la depressione endogena non esista. Può darsi che i medici di quel periodo non fossero capaci di cogliere la differenza. 15 A quanto ne so, non ci sono ricerche complete sull’argomento. Così ho chiesto a molti medici se, a loro avviso, la depressione endogena – quella determinata esclusivamente da un malfunzionamento del cervello o del corpo – sia reale. Le opinioni non sono unanimi. La professoressa Joanna Moncrieff mi ha detto che a suo parere la forma endogena non esiste. Il dottor David Healy mi ha risposto che «colpisce un numero infinitesimale di persone, non più di uno su cento [tra] coloro che vengono classificati depressi, forse meno». Il dottor Saul Marmot ha affermato che il disturbo potrebbe riguardare ben uno dei suoi pazienti su venti. Tutti, però, sostengono che se la depressione endogena esiste, colpisce una ristretta minoranza di individui. In altre parole, raccontare a tutti i depressi una storia basata soltanto su queste cause fisiche è una cattiva idea, per ragioni che spiegherò tra un momento. Ma, ho domandato loro, cosa mi dite di disturbi come la depressione bipolare o maniacale? Sembrerebbe che abbiano una componente fisica più accentuata. La professoressa Moncrieff è d’accordo, ma precisa che non bisogna sopravvalutarla. Si tratta di una percentuale molto modesta di depressi, ma nel loro caso «credo che la depressione abbia una componente biologica». Un episodio maniacale, asserisce, è un po’ come prendere una generosa dose di anfetamine, che ti lascia pieno di sconforto non appena «smaltisci l’effetto». Ma questo non deve fuorviarci, dice. Anche quando c’è una reale componente biologica, come in questi casi, sicuramente non è l’unica causa, e diversi studi dimostrano che i fattori sociali della depressione e dell’ansia condizioneranno ancora la gravità e la frequenza della

depressione. 16 Ci sono altre situazioni in cui sappiamo che un cambiamento biologico può rendere più vulnerabili. Le persone affette da mononucleosi o ipotiroidismo hanno molte più probabilità di cadere in depressione. È stupido negare che la depressione e l’ansia abbiano una componente biologica concreta (e potrebbero esserci altri influssi biologici che potremmo non avere ancora identificato), ma è altrettanto stupido affermare che questa è l’unica causa. Allora perché ci aggrappiamo così ostinatamente a una storia che ruota soltanto intorno al cervello o ai geni? Intervistando molte persone, sono riuscito a individuare quattro ragioni principali. Due sono molto comprensibili, e le altre due imperdonabili. Tutti i lettori di questo libro conosceranno qualcuno che ha sofferto di depressione o di ansia, ma che apparentemente non aveva motivo di essere infelice. Può essere davvero sconcertante: una persona che pare avere ogni ragione per essere serena precipita in una disperazione improvvisa. Io ne ho conosciute molte. Per esempio, avevo un amico avanti negli anni che aveva una compagna affettuosa, un bell’appartamento, un mucchio di soldi e un’auto sportiva rosso fiammante. Un giorno ha iniziato a sentirsi profondamente triste, e nel giro di qualche mese ha supplicato la sua compagna di ucciderlo. È sembrato un cambiamento repentino e inspiegabile. Si sarebbe detto che la causa fosse fisica. Quale altro motivo poteva esserci? Ho cominciato a vedere questo amico, e le altre persone come lui, con occhi diversi quando, per puro caso, mi sono imbattuto in alcuni dei primi classici femministi degli anni Sessanta e mi sono reso conto di una cosa. 17 Immaginate una casalinga degli anni Cinquanta, prima dell’avvento del femminismo moderno. 18 Va dal medico e gli riferisce che sta malissimo. Dice qualcosa come: «Ho tutto ciò che una donna possa desiderare. Un buon marito che provvede a me. Una bella casa con giardino. Due bambini sani. Un’automobile. Non ho motivi per essere infelice. Ma mi guardi. Sto da cani. Devo avere qualcosa che non va. Per favore, può prescrivermi un po’ di Valium?» I classici femministi parlano spesso di donne come questa. Ce n’erano milioni che pronunciavano frasi di questo tipo. E dicevano sul serio. Erano sincere. Ma se ora potessimo tornare indietro con la macchina del tempo e parlare con loro, commenteremmo: avevate tutto ciò che una donna potesse desiderare secondo i canoni della società. Non avevate motivi per essere

infelici secondo i canoni della società. Oggi, però, sappiamo che i canoni della società di allora erano sbagliati. Le donne hanno bisogno di qualcosa in più oltre alla casa, all’auto, al marito e ai figli. Hanno bisogno di parità, di un lavoro appagante e di autonomia. Non siete voi ad avere qualcosa che non va, assicureremmo loro, ma la società. E se i canoni erano sbagliati all’epoca, mi sono reso conto, possono esserlo anche ora. Puoi avere tutto ciò di cui una persona necessita secondo i canoni della nostra società, ma questi canoni possono giudicare erroneamente ciò di cui un essere umano ha davvero bisogno per avere una vita gratificante o almeno accettabile. La società può creare un’immagine di ciò che ti «serve» per essere felice – attraverso i valori spazzatura di cui ho parlato – ma non è detto che coincida con ciò che ti serve davvero. 19 Ho ripensato al mio amico. Diceva che nessuno aveva bisogno di lui o era interessato a un vecchio. Diceva che da quel momento in poi la sua vita sarebbe trascorsa nell’invisibilità, che era umiliante e che non riusciva a sopportarlo. Volevo credere che dipendesse da un malfunzionamento del cervello, mi sono reso conto, perché preferivo non vedere l’effetto che la cultura dominante aveva su di lui. Ero come un medico che diceva a una casalinga degli anni Cinquanta che l’unica ragione per cui una donna poteva essere infelice – senza lavoro, senza creatività e senza controllo sulla propria vita – era un difetto cerebrale o nervoso. Il secondo motivo per cui ci aggrappiamo all’idea che questi problemi siano provocati solo dal cervello è ancora più profondo. Da molto tempo i depressi e gli ansiosi si sentono ripetere che la loro angoscia non è reale, che è soltanto pigrizia, debolezza o autocommiserazione. A me l’hanno detto diverse volte. Di recente Katie Hopkins, l’opinionista britannica di destra, ha dichiarato che la depressione è «il passaporto definitivo per il narcisismo. Dateci un taglio, gente». 20 Andate a fare jogging e piantatela di piangervi addosso, ha aggiunto. Abbiamo resistito a questa forma di cattiveria replicando che la depressione è una malattia. Non esorteresti un malato di cancro a ripigliarsi, perciò è altrettanto crudele farlo con qualcuno che soffre di depressione o di ansia grave. La strada per allontanarsi dal pregiudizio è stata spiegare pazientemente che si tratta di una malattia fisica come il diabete o il cancro. Così temevo che se avessi mostrato alle persone le prove secondo cui la depressione non dipende principalmente da un disturbo del cervello o del

corpo, avrei riaperto la porta alla derisione. Visto? Persino voi ammettete che non è una malattia come il cancro. Perciò datevi una mossa! Siamo arrivati a credere che l’unica via d’uscita dal pregiudizio sia spiegare alle persone che la depressione è una malattia biologica con cause puramente biologiche. Così, animati da questa buona intenzione, ci siamo affrettati a cercare gli effetti biologici e li abbiamo usati come prova per mettere a tacere chi ci scherniva. Questa questione mi ha assillato per mesi. Un giorno ne ho parlato con Marc Lewis, e mi ha chiesto perché pensavo che descrivere agli altri la depressione come una malattia avrebbe ridotto i pregiudizi al riguardo. Tutti sapevano, fin dall’inizio, che l’AIDS era una malattia, ha detto, ma questo non ha impedito ai malati di essere oggetto di orribili pregiudizi. «Vengono ancora stigmatizzati, gravemente stigmatizzati» ha osservato. Nessuno ha mai dubitato che la lebbra fosse una malattia, eppure i lebbrosi sono stati perseguitati per millenni. Non ci avevo mai pensato, e ho dovuto riconoscere che aveva ragione. Dire che qualcosa è una malattia riduce davvero i pregiudizi? Poi ho scoperto che nel 1997 un’équipe dell’Auburn University in Alabama aveva indagato proprio questo aspetto. La professoressa a capo del progetto – Sheila Mehta, che in seguito ho intervistato – aveva organizzato un esperimento per appurare se etichettare qualcosa come una malattia rendesse le persone più benevole o più crudeli verso le sue vittime. Se prendevi parte all’esperimento, ti portavano in una stanza dove ti spiegavano che si trattava di un test per esaminare come gli individui assimilino le nuove informazioni, e ti pregavano di aspettare che lo preparassero. Durante l’attesa, il partecipante accanto a te attaccava discorso. Non lo sapevi ma, in realtà, era un attore. Diceva incidentalmente di avere una malattia mentale e aggiungeva uno o due dettagli. O ti informava che era «una malattia come qualunque altra», il risultato di una «biochimica» non proprio perfetta, oppure che dipendeva da alcuni eventi della sua vita, per esempio un’infanzia burrascosa. Poi ti spostavi in un’altra stanza e ti annunciavano che il test stava per iniziare. Ti insegnavano a premere dei tasti secondo uno schema complesso, che poi avresti dovuto insegnare allo sconosciuto. Vogliamo capire, dicevano gli sperimentatori, fino a che punto le persone imparino queste cose. Ed ecco l’inghippo. Quando lo sconosciuto preme il pulsante sbagliato, tu azioni

questo grosso pulsante rosso, che gli procurerà una scarica elettrica. Non lo menomerà né lo ucciderà, ma gli farà male. Quando l’attore sbagliava, gli somministravi una serie di piccole scosse. In realtà, fingeva soltanto di essere folgorato, ma tu ne eri all’oscuro. A quanto ne sapevi, gli stavi facendo male. Sheila e gli altri sperimentatori volevano verificare se ci fosse una differenza nel numero e nell’intensità delle scosse in base a come il finto partecipante aveva motivato la sua depressione. 21 Si dà il caso che si sia più propensi a fare del male a qualcuno se si crede che la sua malattia mentale sia conseguenza della biochimica anziché degli eventi della vita. La convinzione che la depressione fosse una malattia non riduceva l’ostilità. Anzi, la aumentava. Questo esperimento – come molte delle cose che ho scoperto – dà un’indicazione interessante. Da molto tempo ci sentiamo ripetere che ci sono soltanto due modi di vedere la depressione. O è una mancanza morale – un segno di debolezza – o è una malattia cerebrale. Nessuna delle due definizioni è servita a mettere fine alla depressione, o ai pregiudizi nei suoi confronti. I dati che ho raccolto, però, suggeriscono che c’è una terza opzione: considerare la depressione perlopiù una reazione al modo in cui viviamo. È l’alternativa migliore, ha osservato Lewis, perché se è una malattia biologica congenita, il massimo che tu possa sperare dagli altri è la compassione, la sensazione che tu, con la tua differenza, meriti un atteggiamento di maggior delicatezza. Se invece è una risposta al nostro stile di vita, puoi ricevere qualcosa di più prezioso – l’empatia – perché potrebbe succedere a chiunque altro. Non è un’ipotesi remota. È una fonte umana universale di vulnerabilità. Le prove sperimentali dimostrano che Lewis ha ragione. Vedere la depressione in questo modo rende le persone meno crudeli, con se stesse e con gli altri. La cosa strana è che gran parte delle informazioni di cui sono entrato in possesso non dovrebbe essere controversa né nuova per nessuno. Come ho spiegato prima, gli psichiatri studiano da decenni il modello bio-psicosociale. 22 È stato dimostrato che la depressione e l’ansia hanno tre tipi di cause: biologiche, psicologiche e sociali. 23 Eppure nessuno dei depressi o degli ansiosi di mia conoscenza si è sentito raccontare questa storia dal suo medico, e quasi nessuno si è visto offrire un aiuto per qualcosa che non fosse

la chimica cerebrale. Volevo capire il perché, così sono andato a Montreal per incontrare Laurence Kirmayer, il direttore del dipartimento di Psichiatria sociale alla McGill University, fra gli scienziati più attenti a queste questioni di cui avessi mai sentito parlare. «In campo psichiatrico le cose sono cambiate» ha detto, e poi mi ha spiegato altre due ragioni fondamentali per cui i medici ci raccontano storie riguardanti solo il cervello e i geni. 24 «La psichiatria ha subito una vera e propria repressione da parte di questo approccio bio-psico-sociale. Benché alcuni vi aderiscano ancora formalmente, la psichiatria tradizionale è diventata molto biologica». Ha aggrottato le sopracciglia. «È un argomento molto delicato». Ci ritroviamo con «un’immagine eccessivamente semplificata» della depressione che, a suo giudizio, «non considera i fattori sociali […] Ma, secondo me, a un livello più profondo non considera i processi umani di base». Tra le altre cose, è «molto più oneroso, da punto di vista politico» dire che molti stanno male per colpa delle società moderne. 25 Invece dire: «Okay, ti renderemo più efficiente, ma per favore non cominciare a fare domande […] perché destabilizzeresti ogni cosa» rispecchia molto meglio il nostro sistema del «capitalismo neoliberale» ha continuato. Questa osservazione, ritiene, racchiude l’altro motivo importante. «Le [case] farmaceutiche sono forze potenti che esercitano una profonda influenza sulla psichiatria, perché rappresentano un cospicuo giro d’affari… miliardi di dollari». Sono loro a sborsare i soldi, perciò dettano buona parte delle regole e ovviamente vogliono che il nostro dolore sia considerato un problema chimico con una soluzione chimica. Il risultato è che, come società, abbiamo finito per avere una visione distorta della nostra angoscia. Lewis mi ha guardato. Il fatto che «l’intero programma di ricerca psichiatrico debba avere [questa] impostazione» ha concluso «è davvero preoccupante». Qualche mese dopo il dottor Rufus May, uno psicologo britannico, mi ha informato che dire alle persone che la loro angoscia è in tutto o in buona parte dovuta a un malfunzionamento biologico ha diversi effetti pericolosi. Anzitutto succede che «si esautori la persona, ritenendo che non sia abbastanza in gamba perché il suo cervello non lo è». Poi, ha proseguito, «ci istiga contro alcune parti di noi stessi». Indica che c’è una guerra in corso nella tua testa. Da un lato ci sono i sentimenti di angoscia, causati dai malfunzionamenti cerebrali o genetici. Dall’altro c’è la tua parte sana. Puoi

soltanto sperare di soggiogare il nemico interno con i farmaci… una volta per tutte. Ma le conseguenze sono ancora più profonde. Una simile affermazione dice che la tua angoscia non ha significato, che è solo tessuto difettoso. E invece «ritengo che abbiamo buoni motivi per essere angosciati» afferma May. Questo, mi sono reso conto, era il più grande spartiacque tra la vecchia e la nuova spiegazione della depressione e dell’ansia. Quella vecchia racconta che l’angoscia è fondamentalmente irrazionale, provocata da un cablaggio difettoso nella nostra testa. Quella nuova dice che l’angoscia, per quanto dolorosa, è razionale e sensata. Quando i pazienti gli parlano della loro depressione o della loro ansia profonda, May li rassicura: «Non sei pazzo. Non sei guasto. Non sei rotto». Ogni tanto cita il filosofo orientale Jiddu Krishnamurti, che affermava: «Non è segno di buona salute mentale essere ben adattati a una società malata». 26 Ci ho riflettuto per un anno intero. Accettarlo non è stata un’impresa facile, e ho dovuto sentirmelo dire da molte persone e in molti luoghi prima di capirlo davvero. Ora il mio compito era dare un significato al mio dolore. E, forse, al nostro dolore.

PARTE TERZA

La riconnessione, o un diverso tipo di antidepressivo

14. La mucca

All’inizio del XXI secolo, lo psichiatra sudafricano Derek Summerfield atterrò in Cambogia, in mezzo a una campagna che assomigliava a tutti i cliché più comuni sul Sud-Est asiatico: placide risaie increspate a perdita d’occhio. Quasi tutti gli abitanti erano risicoltori poverissimi che vivevano nello stesso modo da secoli, ma avevano un problema. Ogni tanto uno di loro calpestava una montagnola di terra e nelle risaie echeggiava un’esplosione. Le vecchie mine antiuomo lasciate dalla guerra contro gli USA negli anni Sessanta e Settanta erano ancora lì, sparse in giro. 1 Summerfield era laggiù per scoprire come il pericolo influisse sulla salute mentale dei cambogiani (mentre facevo ricerche su questo libro, ci sono andato anch’io). Per puro caso, poco prima del suo arrivo, gli antidepressivi erano stati messi sul mercato nazionale per la primissima volta, ma le aziende che cercavano di venderli erano in difficoltà. Saltò fuori che non c’era alcuna traduzione per la parola ‘antidepressivo’ nella lingua khmer. Era un concetto che pareva confondere i cambogiani. Summerfield provò a spiegarlo. La depressione, disse, è un profondo senso di tristezza che non riesci a scrollarti di dosso. I cambogiani rifletterono attentamente e risposero sì, abbiamo delle persone di questo tipo. Gli fecero un esempio: un contadino che aveva perso la gamba sinistra per colpa di una mina si era rivolto ai medici e aveva ricevuto una protesi, ma non si era ripreso. Era costantemente preoccupato per il futuro ed era disperato. Poi aggiunsero che non avevano bisogno di questi nuovi antidepressivi, perché avevano già dei rimedi per casi come quello. Summerfield, incuriosito, li pregò di essere più precisi. Quando i medici e i vicini intuirono che l’uomo era in preda allo sconforto, discussero con lui della sua vita e dei suoi problemi. Era evidente che, nonostante la nuova gamba artificiale, lavorare nelle risaie era troppo faticoso per quel contadino. Era costantemente stressato e vittima di dolori fisici, e questo gli toglieva la voglia di vivere, spingendolo ad arrendersi. Così ebbero un’idea. Credevano che sarebbe stato perfettamente in grado

di fare l’allevatore e che questa mansione l’avrebbe costretto a camminare meno e a evitare i ricordi inquietanti. Perciò gli comprarono una mucca. Nei mesi e negli anni seguenti, la sua vita cambiò. La sua depressione – una forma grave – svanì. «Vede, dottore, la mucca ha funto da analgesico, da antidepressivo» dissero i vicini a Summerfield. Per loro, un antidepressivo non era una sostanza capace di modificare la chimica cerebrale – un’idea bizzarra per la loro cultura – bensì lo spirito della comunità, la volontà di responsabilizzare insieme il depresso perché cambiasse vita. Quando Summerfield ci rifletté, concluse che questo concetto era applicabile anche nel suo studio di psichiatra in un importante ospedale di Londra. Pensò ai suoi pazienti ed ebbe un’illuminazione. 2 «Faccio la differenza quando esamino la loro situazione sociale, non ciò che hanno tra le orecchie» mi ha detto davanti a una birra. Queste parole suonano strane alla maggior parte di noi occidentali nell’era degli antidepressivi chimici. Ci hanno detto che la depressione deriva da uno squilibrio chimico, perciò l’idea di una mucca come antidepressivo sembra quasi una barzelletta. Ma le cose andarono proprio così. Il contadino cambogiano smise di essere depresso quando le circostanze cambiarono. Non era una soluzione individuale. Non gli dissero che il problema era solo nella sua testa e non lo esortarono a darsi una mossa o a ingoiare una pasticca. Era una soluzione collettiva. Non avrebbe mai potuto comprarsi la mucca da solo, perché era troppo demoralizzato e, in ogni caso, non aveva i soldi. Questa decisione risolse il suo problema e dunque la sua disperazione. Dopo una lunga conversazione con Summerfield, mentre viaggiavo per il Sud-Est asiatico intervistando persone in situazioni analoghe, mi domandai per la prima volta: ‘E se avessimo semplicemente definito gli antidepressivi nel modo sbagliato? Per noi sono sempre stati le pasticche che ingoiamo una o più volte al giorno. E se iniziassimo a considerarli qualcosa di molto diverso? E se anche cambiare il nostro stile di vita – in modi specifici, mirati e basati sulle prove sperimentali – si potesse classificare come antidepressivo?’ E se dovessimo ampliare la nostra idea di antidepressivo? Di lì a poco ho discusso delle mie scoperte con la psicologa clinica Lucy Johnstone, che le ha giudicate perlopiù convincenti. Ora, tuttavia, dovevo rispondere a un’altra domanda, ha detto. «Come cambierebbero le cose» mi ha chiesto «se il medico ti ‘diagnosticasse’ una ‘disconnessione’?» 3 Cosa succederebbe in questo caso?

Siccome abbiamo inquadrato male la questione, abbiamo trovato soluzioni difettose. Se si tratta principalmente di un disturbo cerebrale, ha senso cercare le risposte soprattutto nel cervello. Se invece il problema è legato soprattutto al nostro stile di vita, dobbiamo cercarle là fuori, nella nostra quotidianità. Da dove potevo cominciare?, mi sono chiesto. Sembrava chiaro che se la disconnessione era il maggior fattore scatenante della depressione e dell’ansia, dovevamo fare in modo di riconnetterci. Così ho percorso migliaia di chilometri, intervistando chiunque potesse capire questo concetto. Ben presto ho scoperto che la questione era stata studiata ancora meno delle cause della depressione e dell’ansia. Si potrebbero riempire degli hangar con gli studi su ciò che accade nel cervello di un individuo depresso e ansioso, un aereo con le ricerche che sono state condotte sulle cause sociali di questi due disturbi, e un aeroplanino giocattolo con quelle sulla riconnessione. Con il tempo, però, sono riuscito a identificare sette tipi di riconnessione che, secondo le prime prove sperimentali, possono iniziare a curare la depressione e l’ansia. Ho cominciato a vederle come antidepressivi sociali o psicologici, in contrasto con quelli chimici che ci sono stati offerti finora. Oggi, quando ripenso alle sette soluzioni che ho individuato, sono consapevole di due cose: che potrebbero sembrare troppo piccole e che, allo stesso tempo, potrebbero sembrare incredibilmente grandi. In un certo senso, queste sette forme di riconnessione sono soltanto primi passi incerti, perché si basano su ricerche ancora in una fase iniziale. Mi preme sottolineare che abbiamo appena cominciato a indagarle e, benché le prove sperimentali indichino che potrebbero aiutare molte persone, è anche vero che sarebbe solo punto di partenza, che ci sarebbe ancora molto da fare anche se le mettessimo tutte in pratica. Penso tuttavia che se le esaminiamo accuratamente, potremmo intravedere una direzione di viaggio alternativa. Non rappresentano un programma, bensì punti su una bussola. In un altro senso, però, sembreranno audaci, perché impongono rinnovamenti radicali – tanto nella nostra vita personale quanto nella società – in un’epoca in cui abbiamo perso la fiducia nella nostra capacità di operare cambiamenti collettivi. Certe volte temevo di pretendere troppo. Quando ci ho riflettuto, però, mi sono reso conto che l’audacia dei cambiamenti di cui abbiamo bisogno ora non dice niente di me. Rivela soltanto quanto sia profondo il problema. Se i cambiamenti sembrano grandi, è perché il

problema è grande. Ma un problema grande non è necessariamente insolubile. Voglio essere sincero con voi riguardo a come mi sentivo mentre indagavo sull’argomento. Quando mi calavo nel ruolo di giornalista e intervistavo le persone, lo trovavo affascinante; quando tornavo nella mia camera d’albergo, c’era spesso un momento doloroso in cui dovevo riflettere sul legame tra le informazioni che avevo raccolto e la mia situazione personale. Ciò che questi scienziati mi stavano dicendo – ciascuno a suo modo – era che per tutta la mia vita adulta avevo cercato spiegazioni per la mia depressione e la mia ansia nei posti sbagliati. Il solo pensiero mi procurava una fitta al cuore. Adattare la mia mente in modo da vedere le cause della sofferenza individuate dagli esperti fu tutt’altro che facile. È con questo stato d’animo che mi sono ritrovato a Berlino all’inizio di un inverno. Non so esattamente perché ci fossi andato. Certe volte mi domando se non siamo tutti segretamente attratti dai luoghi in cui i nostri genitori sono stati più felici. I miei vivevano a Berlino Ovest, all’ombra del Muro, quando ancora la città era divisa in due, e mio fratello è nato lì. O forse dipendeva dal fatto che negli anni precedenti diversi miei amici si erano trasferiti nella capitale tedesca, fuggendo da Londra o da New York con la speranza di trovare uno stile di vita equilibrato. Un’amica, la scrittrice Kate McNaughton, continuava a dirmi al telefono che Berlino era un posto in cui le persone come noi – gli ultratrentacinquenni – lavoravano meno e vivevano di più. Nessuno dei suoi conoscenti sgobbava dalle nove alle cinque. Era un luogo in cui potevi respirare come non riuscivi a fare nelle città frenetiche in cui abitavo. Secondo Kate, Berlino era una lunga festa, senza buttafuori e con l’ingresso gratuito. Trasferisciti qui, insisteva. Così venivo svegliato ogni mattina dal gatto del suo coinquilino in un anonimo appartamento nell’anonimo quartiere di Mitte. Ho vagato per la città per settimane, parlando inutilmente con le persone. Ho passato ore a intervistare berlinesi anziani che erano sopravvissuti quasi un secolo in quella città. Essere berlinesi anziani significa aver visto ricostruire, distruggere e ricostruire un’altra volta il mondo. Una vecchietta, Regina Schwenke, mi ha portato nel rifugio antiaereo dove, da bambina, si nascondeva con la sua famiglia e pregava di sopravvivere ai bombardamenti. 4 Un’altra ha camminato con me lungo la linea dove prima correva il Muro. Poi, un giorno, qualcuno mi ha raccontato la storia di un quartiere di

Berlino e di come gli avesse cambiato la vita. L'indomani ci sono andato. Ho finito per restarci a lungo, intervistando decine di persone, e ho continuato a tornare, una volta dopo l’altra, per i tre anni successivi. È stato, credo, il posto che mi ha insegnato a riconnettermi.

15. Siamo stati noi a costruire questa città 1

Nell’estate del 2011, in un grigio quartiere popolare di Berlino, una sessantatreenne con l’hijab trovò la forza di alzarsi dalla sedia a rotelle per attaccare un foglio alla finestra. Il cartello diceva che sarebbe stata sfrattata per morosità e dunque, prima che arrivasse l’ufficiale giudiziario, di lì a una settimana esatta, si sarebbe suicidata. Non chiedeva aiuto, perché sapeva che non glielo avrebbero dato. Semplicemente non voleva morire senza che le persone sapessero il perché. In seguito mi ha detto: «Sentivo che ero alla fine… che la fine era imminente». Nuriye Cengiz non conosceva i suoi vicini, e loro non conoscevano lei. Viveva nella zona di Kotti, il Bronx di Berlino, il posto dove i genitori del ceto medio raccomandano ai figli di non andare la sera. Questo quartiere popolare assomiglia a quelli che ho visto in tutto il mondo, da East London a West Baltimore: un grande posto anonimo dove le persone si affrettano a entrare in casa e chiudono la porta a tripla mandata. La disperazione di Nuriye era solo un segnale tra tanti che lì la vita era insopportabile. Kotti grondava ansia e antidepressivi. Di lì a poco alcuni residenti iniziarono a bussare alla sua porta. Si avvicinavano con una certa esitazione. Stava bene? Aveva bisogno di aiuto? Sulle prime, Nuriye si mostrò diffidente. «Pensavo che fosse solo un interesse passeggero, che mi considerassero una stupida con il velo in testa» ha detto. Nei corridoi e sulla strada davanti al suo appartamento, persone che si erano ignorate per anni si fermavano e si scambiavano occhiate. Capivano benissimo la situazione di Nuriye. In tutta Berlino, gli affitti stavano salendo alle stelle, ma gli abitanti di Kotti erano soggetti agli aumenti più gravosi per colpa di un incidente storico. Quando il Muro di Berlino venne costruito in tutta fretta nel 1961 tagliando la città a metà, il suo percorso fu tracciato in modo piuttosto arbitrario, con alcuni curiosi zigzag, e il quartiere finì per essere la parte di Berlino Ovest che sporgeva come un dente verso Berlino Est. In altre parole, era in prima linea: in caso di invasione sovietica, sarebbe stato il primo a essere occupato. Così la zona era punteggiata di edifici

semidemoliti, e gli unici a voler vivere tra le macerie erano coloro che gli altri berlinesi scansavano: operai turchi come Nuriye, squatter di sinistra e omosessuali. Quando gli operai turchi si trasferirono in questo luogo semiabbandonato, lo ricostruirono letteralmente, mentre gli squatter di sinistra e gli omosessuali impedirono alle autorità berlinesi di abbattere l’intero quartiere e di trasformarlo in un’autostrada. In parole povere, lo salvarono. Questi gruppi, tuttavia, si guardavano con diffidenza da anni. Forse erano uniti dalla povertà, ma divisi da ogni altro punto di vista. Poi il Muro crollò e, d’un tratto, Kotti non fu più una zona di pericolo, bensì un’area immobiliare di prestigio. È come se un mattino i newyorkesi si svegliassero e il South Bronx fosse nella Midtown. Nel giro di due anni, appartamenti che prima venivano affittati a seicento euro al mese salirono a ottocento. Quasi tutti i residenti di Kotti spendevano più di metà del loro reddito in canoni di locazione. Di conseguenza, alcune famiglie sopravvivevano con duecento euro al mese. Molti furono costretti ad andarsene, lasciando l’unico quartiere che avessero mai conosciuto. Così il cartello di Nuriye induceva i passanti a fermarsi non solo per compassione, ma anche perché si identificavano con lei. Nei mesi precedenti, altri abitanti della zona avevano cercato un modo per esprimere la rabbia. Era l’anno della rivoluzione in piazza Tahrir (e, di lì a poco, del movimento Occupy Wall Street) e, dopo aver visto quelle scene al telegiornale, un residente ebbe un’idea. C’è una grande strada che passa davanti al quartiere e conduce verso il centro della città. Alcuni si erano già riuniti lì di tanto in tanto per manifestare contro l’aumento degli affitti. E se, si domandarono, bloccassimo il passaggio con qualche sedia e qualche asse di legno, e gli abitanti che stanno per essere sfrattati – compresa Nuriye – scendessero in strada a protestare? E se Nuriye si mettesse al centro del gruppo con la sua grossa sedia a rotelle elettrica, e noi ci schierassimo al suo fianco e dicessimo che non ce ne andremo finché non la autorizzano a restare nell’appartamento? Attireremmo l’attenzione, probabilmente arriverebbero i media, e forse Nuriye non si suiciderebbe. La maggior parte dei residenti era scettica, ma alcuni andarono da lei e le proposero di partecipare alla protesta. Nuriye pensò che fossero un po’ tocchi, ma un mattino uscì e si piazzò proprio sull’incrocio principale. La vista di una vecchietta con il velo e la sedia a rotelle in mezzo alla strada, accanto alle barricate improvvisate, era singolare.

I media locali si materializzarono con perfetto tempismo per scoprire cosa stesse succedendo. Molti vicini raccontarono la loro storia alle telecamere. Vivevano nell’indigenza quasi totale, dichiararono, e temevano di essere costretti a trasferirsi in periferia, dove c’erano molti più pregiudizi contro i turchi, i ribelli di sinistra o gli omosessuali. Una donna turca che, a causa della povertà, aveva dovuto lasciare il suo Paese trent’anni prima mi ha detto in seguito: «Abbiamo perso il nostro luogo d’origine una volta. Non possiamo perderlo anche una seconda». Un proverbio turco recita: se il bambino non piange, non riceve il capezzolo. I residenti affermarono di aver iniziato la protesta perché ritenevano fosse l’unico modo per essere ascoltati. Poco dopo, però, la polizia arrivò e disse: «Okay, vi siete divertiti; è ora di sgomberare e di tornare a casa». I manifestanti spiegarono che non avevano ricevuto alcuna garanzia che Nuriye potesse restare nell’appartamento e, soprattutto, ora volevano essere certi che tutti i canoni di affitto sarebbero stati congelati. Sandy Kaltnborn, i cui genitori erano operai edili afgani, dichiarò: «Siamo stati noi a costruire questa città. Non siamo la feccia della società. Abbiamo il diritto di vivere qui perché siamo stati noi a costruire questo quartiere». A rendere vivibile la città non erano gli investitori assetati di affitti più alti, ma «tutti quanti». I dimostranti temevano che di notte la polizia avrebbe rimosso le sedie e le barricate, così elaborarono spontaneamente un piano. Un’altra residente, Taina Gartner, aveva a casa un clacson rumorosissimo. Spiegò che avrebbero programmato dei turni e che, se fosse arrivata la polizia, chiunque presidiasse il campo di protesta avrebbe potuto usarlo per fare un gran baccano. Allora tutti sarebbero scesi per strada e avrebbero fermato gli agenti. Le persone si accalcarono per scrivere il proprio nome sul foglio dei turni, in modo che l’incrocio fosse sorvegliato giorno e notte. Non sapevi chi sarebbe stato il tuo compagno, solo che era un vicino sconosciuto fino a quel momento. «Non pensavo che avremmo resistito [più di] tre giorni» ricorda Uli Hamann, che era fra coloro che rimasero lì quella sera. Quasi tutti sospettavano la stessa cosa. Era una notte gelida, e Nuriye era in strada con la sua sedia a rotelle. A Kotti, le persone avevano paura di restare fuori al buio ma, racconta Nuriye, «Ho pensato: ‘Non ho niente da fare, non ho il becco di un quattrino; se qualcuno vuole uccidermi, morirò e non avrò più nulla di cui preoccuparmi’».

Sembrava che la protesta fosse destinata a risolversi in un nulla di fatto, perché i dimostranti si trovavano a lottare con persone di cui avevano sempre diffidato. All’inizio Nuriye finì con Taina, madre single di quarantasei anni con i capelli ossigenati, il petto e le braccia coperti di tatuaggi e la minigonna anche in inverno. Una accanto all’altra parevano un duo comico, i poli opposti della vita berlinese: la religiosissima immigrata turca e la hipster tedesca. Se ne stavano lì a presidiare le barricate. Taina credeva di sapere tutto del quartiere ma, osservandolo nell’oscurità, iniziò a vederlo con occhi diversi: il silenzio della notte, il chiarore fioco dei lampioni. In un primo momento, imbarazzata, digitava sul suo portatile. Poi, mentre il tempo passava, le due donne cominciarono a parlare della loro vita, seppure con una punta di esitazione. Scoprirono di avere diverse cose in comune. Entrambe erano arrivate a Kotti giovanissime, ed entrambe in fuga. Nuriye era cresciuta preparandosi i pasti su un fuoco all’aperto, perché nel quartiere dove era nata non c’erano elettricità né acqua corrente. A diciassette anni si era sposata e aveva avuto il primo bambino. Voleva che i suoi figli avessero una vita migliore, così aveva finto di essere più grande per trasferirsi a Kotti e lavorare in fabbrica alla catena di montaggio. Spediva lo stipendio al marito. Quando l’aveva invitato a raggiungerla, tuttavia, aveva ricevuto un messaggio: era morto all’improvviso. D’un tratto si era accorta di essere sola in Germania, ancora minorenne, lontana da casa, con due figli da crescere. Aveva dovuto lavorare senza sosta. Una volta finito il turno in fabbrica, andava a fare le pulizie; poi dormiva qualche ora prima di alzarsi all’alba per consegnare i giornali. Taina era arrivata a Kotti a quattordici anni, dopo che la madre l’aveva buttata fuori casa. Non voleva finire in un istituto e, mi rivela, «ero sempre stata curiosa di andare a Kreutzberg 36 [Kotti]» perché sua madre le aveva detto che se si fosse avventurata laggiù, le avrebbero «piantato un coltello nella schiena». Le era parso incredibilmente emozionante. Al suo arrivo aveva constatato che «le case sembravano più o meno come dopo la Seconda guerra mondiale, tutte vuote e distrutte […] Così abbiamo iniziato a occupare gli edifici all’ombra del Muro. Prima vivevamo qui soltanto io e alcuni turchi, che erano stati sistemati in alloggi schifosi». Quando entrava nelle case fatiscenti, «certe volte era davvero lugubre, [perché c’erano] tutti i mobili, appartamenti completamente arredati, e gli

inquilini erano spariti. Così ci chiedevamo: cos’è successo qui?» Taina aveva fondato una comune con alcuni amici, e vivevano insieme tra le macerie. «Eravamo punk, all’epoca. Punk politici. Avevamo i nostri locali e le nostre band. La musica non costava niente. Solo uno, due o tre marchi, così la band riceveva qualcosa, e il prezzo della birra e delle altre bevande era stracciato». Dopo qualche anno, mentre abitava in uno squat, aveva scoperto di essere incinta. «Era una situazione tragica. All’improvviso ero sola con mio figlio. Non avevo nessuno che mi aiutasse». Taina e Nuriye si erano ritrovate entrambe sole e madri single in un luogo che non conoscevano. Il giorno in cui il Muro era stato abbattuto, Taina stava spingendo la carrozzina con il neonato quando aveva visto una coppia di punk della Germania Orientale infilarsi in un’apertura nel cemento. «Dov’è il negozio di dischi più vicino?» le avevano chiesto. «Vogliamo comprare dei dischi punk». «Ce n’è uno a due passi da qui, ma non credo che abbiate abbastanza soldi» aveva risposto. Le avevano chiesto quanto costavano i dischi e, quando glielo aveva detto, ci erano rimasti malissimo. In quel periodo, Taina era praticamente al verde, ma aveva aperto il portafoglio e dato loro fino all’ultimo centesimo. «Ehi, ragazzi» aveva detto. «Tenete. Compratevi il disco». Quando Nuriye la sentì parlare in questo modo, pensò: ‘Un’altra svitata come me!’ Non l’aveva mai raccontato a nessuno, ma confidò a Taina che suo marito non era morto di infarto in Turchia, come aveva sempre sostenuto. Era morto di tubercolosi. «Me ne sono sempre vergognata» ammise. «È una malattia dei poveri. Non aveva abbastanza da mangiare, niente assistenza medica. C’è una ragione per cui sono venuta qui. Mi illudevo che l’avrebbero curato e che forse sarei riuscita a portarlo in Germania, ma ormai era troppo tardi». Dopo il turno di Nuriye e Taina, venne quello di Mehmet Kavlak, un diciassettenne turco-tedesco con i jeans cascanti. Era appassionato di musica hip-hop e rischiava l’espulsione da scuola. Si ritrovò in coppia con Detlev, insegnante bianco in pensione e comunista vecchio stampo. «È contro tutti i miei principi» commentò Detlev, che considerava una stupidaggine quel genere di politica ‘riformista’, volta a stimolare un cambiamento graduale. Eppure, eccolo lì. Notte dopo notte, Mehmet iniziò a parlare dei suoi problemi scolastici. Dopo un po’, Detlev gli suggerì di portare i compiti per controllarli insieme. Con il passare delle settimane e poi dei mesi, «è diventato come un nonno per me» mi ha confidato Mehmet. I suoi voti sono

migliorati e la scuola non ha più minacciato di espellerlo. L’ombrellone che riparava il piccolo accampamento improvvisato era stato donato dal Südblock, un caffè gay che aveva aperto i battenti qualche anno prima, proprio di fronte al quartiere. Dopo l’inaugurazione, alcuni residenti turchi si erano indignati e, una notte, avevano fracassato le vetrine. «Pensavo che non avrebbero dovuto aprire un cazzo di caffè gay nel mio quartiere» mi ha detto Mehmet. Richard Stein, titolare del locale ed ex infermiere, ha una barbetta a punta. Si era trasferito a Kotti, mi ha raccontato, quando aveva poco più di vent’anni. Veniva da un paesino vicino a Colonia e, come Nuriye e Taina, si considerava un fuggiasco. «Se eri omosessuale e nascevi in un paesino della Germania occidentale» dice, «eri costretto ad andartene. Non c’era altra scelta». A quei tempi, per raggiungere Berlino Ovest dovevi spostarti lungo un’angusta autostrada presidiata da guardie armate, perché «Berlino Ovest era un’isola nel mare comunista» e Kotti «era circondata dal Muro», perciò sembrava un’isola distrutta su un’isola distrutta. Il berlinese più vero, sostiene Stein, viene sempre da qualche altra parte. E quella era la sua vera Berlino. Il primo bar che aprì, all’inizio degli anni Novanta, si chiamava Café Anal (l’altro nome cui Stein aveva pensato era Gay Pig). Organizzavano serate trans e, negli anni dopo la caduta del Muro, quando il mondo andava a Berlino per festeggiare nel nuovo Selvaggio West, le loro feste erano considerate tra le più spinte della città. Così quando aveva aperto il Südblock aveva invitato i vicini a prendere un caffè e una fetta di torta, ma quelli si erano mostrati diffidenti, o peggio. Alcuni lo guardavano in cagnesco. Quando iniziò la protesta di Nuriye, Stein e tutti gli altri del Südblock misero a disposizione le sedie e l’ombrellone, le bevande e il cibo, tutto gratis. Quando Stein annunciò che i manifestanti avrebbero potuto riunirsi nel bar in qualunque momento avessero voluto, «alcuni erano scettici» mi ha confessato lo studente Matthias Clausen, «perché qui ci sono molti conservatori». Sandy Kaltnborn aggiunge: «Alcuni erano dichiaratamente omofobi». Perciò c’era il fondato timore che non si sarebbe presentato nessuno. Alla prima riunione, tuttavia, eccoli lì, anche se con una certa esitazione: tutte quelle anziane con il velo, quegli uomini religiosissimi, seduti accanto a ragazze in minigonna in un locale gay. Il nervosismo imperava su tutti i fronti: anche alcuni omosessuali erano preoccupati, perché pensavano che gli

incontri avrebbero compromesso la compattezza del gruppo suscitando le ire dei dimostranti turchi. A quanto pareva, però, l’esigenza di combattere l’aumento degli affitti aveva la precedenza su ogni altra cosa. «Ci siamo venuti incontro a vicenda» ricorda Uli Kaltnborn. Alcuni dei comunisti più inveterati, che avevano già partecipato ad altre proteste, notarono subito una cosa. «Parlavamo letteralmente lingue diverse» mi ha detto Matthias Clausen. Se usavano le frasi fatte dell’attivismo di sinistra – il solito linguaggio che i sinistrorsi parlano tra loro – le persone comuni non capivano letteralmente a cosa si riferissero e li guardavano inespressivi. Così, dice Clausen, «dovevamo trovare un codice […] comprensibile a tutti. Questo ci ha costretti – mi ha costretto – a riflettere su ciò che volevo dire, a evitare di nascondermi dietro slogan preconfezionati che alla fine non dicevano un bel niente». E ad ascoltare persone che non aveva mai ascoltato prima. Avevano un obiettivo comune: ridurre gli affitti troppo alti. «È stato come se tutti dicessero: ‘Non ce la facciamo più. Siamo qui. Abbiamo costruito questo quartiere e non vogliamo andarcene’» mi ha raccontato un altro residente. Alcuni operai edili che vivevano a Kotti sospettavano che sarebbe stata una lunga battaglia, così ritennero necessario trasformare il campo di fortuna in una struttura più permanente, con tanto di pareti e di tetto. Qualcuno portò un bellissimo samovar per preparare il tè e altre bevande calde. Chiamarono il campo Kotti & Co. Prima, alcuni residenti avevano contattato individualmente i politici berlinesi per lamentarsi degli aumenti, ma erano stati ignorati o presi sottogamba. Ora la gente veniva da tutta la città per assistere alle proteste e i dimostranti comparivano sulle prime pagine dei giornali. Nuriye stava diventando un simbolo. Così i politici iniziarono ad arrivare e si impegnarono a occuparsi della questione. Gli abitanti di Kotti – che prima erano totalmente isolati e camminavano frettolosi, evitando lo sguardo degli altri – cominciarono a guardarsi negli occhi. «Di punto in bianco, giorno dopo giorno, entri in uno spazio in cui prima non saresti entrato» mi ha detto Sandy. «Devi ascoltare di più […] Abbiamo conosciuto persone con cui prima non avremmo mai avuto alcun contatto». Una sera si ritrovò ad ascoltare due anziani che parlavano del servizio militare in Turchia. Non aveva mai pensato alla vita dei suoi vicini in quei termini. Nuriye si stupì della reazione al suo cartello. «Sembrava che mi volessero

bene, non so proprio il perché» mi ha detto. «Venivano sempre a farmi compagnia». Dopo qualche mese decisero di intensificare le proteste, così organizzarono una marcia. Nuriye non aveva mai partecipato a una manifestazione, e voleva mettersi in fondo. Taina disse che era una sciocchezza: sarebbero state in prima fila, in testa al corteo. E così fecero. I dimostranti percuotevano pentole e padelle e, mentre attraversavano Kotti, la folla li acclamava lungo le vie. Una famiglia aveva appeso uno striscione alla finestra: RIMARREMO TUTTI QUI, diceva. I residenti presero a indagare sulle ragioni degli aumenti. Scoprirono che negli anni Settanta era stata firmata una serie di strani accordi immobiliari. All’epoca le persone stavano abbandonando Berlino Ovest, e il governo della Germania Occidentale sapeva che l’Occidente avrebbe fatto una figuraccia se questa vetrina della libertà nel cuore del comunismo si fosse svuotata, così gli imprenditori edili si erano visti offrire per generazioni affitti molto generosi, garantiti dallo Stato, per i palazzi costruiti in prima linea. Perciò i manifestanti conclusero che, sommando i canoni versati in tutti quegli anni, i costi di costruzione erano già stati coperti cinque volte. Ma ecco che i residenti dovevano pagare sempre di più. Le proteste continuarono per mesi. Certe volte arrivavano moltissime persone; altre, no. Un giorno una delle residenti più attive, Uli Kaltnhorn, scoppiò in lacrime durante una riunione. Era esausta. Nono-stante i turni di notte e le proteste, sembrava che nulla fosse cambiato. «Hai l’aria stanca e demoralizzata» commentò un’altra donna. «Dovremmo arrenderci. Molliamo tutto e andiamo a casa. Non vale la pena ridursi così» concluse. Dobbiamo fermarci, se questo è il prezzo da pagare». «Ci siamo guardate» rammenta Uli «per capire fino a che punto fossimo disposte a sopportare». Un giorno, circa tre mesi dopo l’inizio delle proteste, un uomo sulla cinquantina si presentò alla Kotti & Co. Si chiamava Tuncai; aveva pochi denti, e il palato deformato gli impediva di scandire bene le parole. Era evidente che da un bel po’ viveva per strada. Senza che nessuno glielo chiedesse, iniziò a riordinare il locale. Quindi domandò se ci fosse altro che potesse fare. Si fermò per qualche giorno, facendo piccole riparazioni e andando a prendere l’acqua al Südblock, finché Mehmet gli disse che poteva

tranquillamente dormire lì. Nelle settimane seguenti, Tuncai ebbe occasione di parlare con alcuni dei residenti turchi più conservatori, che si erano tenuti alla larga dalle proteste. Gli portavano cibo e vestiti, e si trattennero sempre più spesso alla Kotti & Co. Di lì a poco il campo venne gestito, di giorno, dalle donne turche del quartiere, molte delle quali erano sempre state confinate in casa, da sole, per la maggior parte del tempo. Adoravano Tuncai. «Abbiamo bisogno che tu stia qui sempre» gli disse Mehmet un giorno, e gli prepararono un letto e fecero una colletta finché il Südblock non gli offrì un lavoro retribuito. Tuncai diventò una figura chiave del movimento: quando le persone erano giù di morale, le abbracciava; quando organizzavano delle marce, era in prima fila e suonava un fischietto. Poi, un giorno, arrivò la polizia. Tuncai odiava quando le persone litigavano, così si avvicinò a un agente e cercò di abbracciarlo. Lo arrestarono. Saltò fuori che mesi prima di arrivare alla Kotti & Co. era fuggito da un istituto psichiatrico dove era stato rinchiuso per quasi tutta la sua vita adulta. La polizia ce lo riportò. A Berlino i malati psichiatrici sono distribuiti nelle unità di sicurezza in base all’iniziale del cognome, perciò lo mandarono dall’altra parte della città. Lo sistemarono in una stanza vuota, che conteneva solo una branda e la cui finestra era chiusa. «È sempre chiusa perché fuori c’è la guardia» mi ha detto Tuncai. Ha aggiunto: «La cosa peggiore è l’isolamento. Sei isolato da tutto». Alla Kotti & Co. le persone volevano sapere dove fosse Tuncai. Le vecchiette turche andarono al Südblock e riferirono a Richard Stein: «Hanno preso Tuncai! Dobbiamo riportarlo qui. È uno di noi». I residenti si rivolsero alla polizia, ma all’inizio non cavarono un ragno dal buco. Alla fine rintracciarono Tuncai. Trenta persone andarono dal direttore dell’ospedale psichiatrico spiegando che rivolevano il loro amico. Quando quello rispose che Tuncai doveva restare lì, replicarono: «È fuori questione. Non è un soggetto da tenere [rinchiuso]. Ha bisogno di stare con noi». La Kotti & Co. si trasformò nel quartier generale del movimento Libertà per Tuncai. Firmarono una petizione per tirarlo fuori e continuarono a presentarsi all’istituto, in gruppi numerosi, pretendendo di vederlo e di riportarlo a casa. La struttura era circondata da filo spinato e il servizio di sicurezza non aveva nulla da invidiare a quello di un aeroporto. I manifestanti

dissero agli psichiatri: «Lo conosciamo tutti per quello che è e gli vogliamo bene». Le autorità psichiatriche erano sconcertate. Non avevano mai visto una protesta di massa per far dimettere un ricoverato. «Non avevano mai sentito di qualcuno che fosse interessato a uno dei loro ‘ospiti’» mi ha detto Sandy. Uli ha aggiunto: «La nostra testardaggine, il nostro rifiuto di credere che questo cazzo di sistema avrebbe impiegato tutto quel tempo, ci hanno spinti a insistere». Vennero a sapere che Tuncai era evaso cinque volte e che, ogni volta, era stato catturato e rinchiuso di nuovo. «Nessuno gli aveva mai dato una possibilità» osserva Sandy. «È un tipico esempio di come molti non abbiano mai un’occasione». Alla fine, dopo otto settimane di proteste, le autorità psichiatriche accettarono di liberare Tuncai a patto che venissero rispettate alcune condizioni. Doveva avere una casa e un lavoro fisso retribuito. «Chiunque lo conosca sa che queste sono le sue ultime preoccupazioni» commenta Uli. «Ciò di cui aveva bisogno era sentirsi parte di una comunità e rendersi utile. Aveva bisogno di uno scopo, di uno scopo sociale, di un obiettivo da perseguire e da condividere. Quelli non l’hanno mai capito». In ogni caso, il Südblock confermò l’assunzione in pianta stabile, e un vecchietto decise di lasciare il suo appartamento dopo che il televisore aveva preso fuoco, così Tuncai avrebbe potuto trasferirsi lì, e la comunità imbiancò e arredò l’alloggio per dargli il benvenuto. Quando ho intervistato Tuncai al campo, mi ha detto: «Mi hanno dato moltissimo: vestiti, cibo caldo e un tetto sopra la testa. Quando ero all’ospedale, hanno firmato una petizione. Non so come sdebitarmi. È stato incredibile». In seguito ha continuato: «Sono felicissimo. Con la mia famiglia – Uli, Mehmet e tutte le persone che mi sostengono – semplicemente felicissimo […] Essere qui e dall’altra parte della strada, al Café Südblock, è questo l’importante». «Aveva cinquantatré anni» mi ha riferito Uli, «ed era la prima volta che si sentiva a casa». Questo era lo stato d’animo di molte delle persone che gravitavano intorno alle proteste di Kotti. Matthias Clausen mi ha detto: «Da quando ero bambino, ho traslocato una volta ogni quattro o sei anni, e non mi sono mai sentito a casa come qui. Non ho mai conosciuto così tanti vicini, è davvero speciale […] In vita mia non ho mai avuto [un rapporto come questo] con i vicini, e pochissimi altri hanno avuto questa fortuna».

Combattendo per la riduzione degli affitti e per Tuncai, i manifestanti si sono cambiati a vicenda. Il fatto che il bar gay si fosse mobilitato per aiutare un turco in difficoltà aveva colpito i residenti turchi. Mehmet, che all’inizio aveva guardato il Südblock con disgusto, mi ha confessato: «Quando ho imparato a conoscerli, ho capito che ognuno può fare ciò che vuole. Riceviamo un enorme supporto dal Südblock […] Sono cambiato molto». Quanto alle proteste, aggiunge: «La persona che mi ha stupito di più sono io. Mi sono reso conto di cosa ero in grado di fare, del mio potenziale». Quando le persone osservavano quanto fosse curiosa questa coalizione di musulmani e omosessuali, di squatter e donne con l’hijab, gli abitanti di Kotti sbuffavano. «Non è un mio problema! Il problema è di quelli che ragionano in questo modo!» è sbottata Nuriye. «Non me ne frega niente. Se qualcuno si scandalizza per la minigonna di Taina o per il mio velo, non me ne frega niente. Secondo noi, si abbinano alla perfezione». Ha riso. «Se per te non è normale, va’ dallo psicologo! Siamo amiche. Non fermarti alle apparenze, è questo che ho imparato nella mia famiglia e durante la vita. Ciò che conta è come siamo dentro». La strada verso una maggiore tolleranza non è stata una linea retta, bensì uno zigzag. «Tutti dovrebbero poter fare ciò che vogliono, purché non provino a convertirmi» ha proseguito Nuriye. «Non so come reagirei se i miei figli mi dicessero che sono omosessuali… Non lo so». Il Südblock si offrì di fare da sponsor alla squadra di calcio femminile turca; i genitori delle ragazze risposero che mettere il nome di un locale gay sulle maglie delle loro figlie sarebbe stato eccessivo. Un giorno, nel pieno delle proteste, Richard Stein era nel suo bar quando una delle residenti turche più conservatrici – una donna che indossa il niqab – gli portò dei dolci. Stein aprì la scatola. Su uno di essi, la signora aveva disegnato con la glassa una piccola bandiera arcobaleno. Mentre la comunità di Kotti si compattava, tuttavia, gli sfratti continuavano. Un giorno, Nuriye conobbe una donna in una situazione molto simile alla sua. Rosemary aveva superato la sessantina, era perlopiù inchiodata a una sedia a rotelle, e stava per essere buttata fuori dalla sua casa in un’altra zona di Berlino perché non poteva più pagare l’affitto. «Aveva sofferto molto nella Germania dell’Est, sotto il regime [comunista]. Era stata torturata e non stava bene. Era malata nel fisico e nella mente» ricorda Nuriye. «L’idea che sarebbe finita in mezzo a una strada mi ha commossa». Così decise di passare all’azione. Quando veniva a sapere che lo sfratto era

imminente, andava lì – spesso con Taina – e usava la sua ingombrante sedia a rotelle elettrica per mettersi di mezzo e impedire l’accesso agli ufficiali giudiziari. «Mi sono arrabbiata così tanto che ho deciso di bloccare la porta in ogni modo possibile» racconta. Quando la polizia cercò di spostarla, disse che aveva appena subito l’asportazione della cistifellea (era vero). «Ho detto: ‘Se mi toccate, se mi succede qualcosa, avrò un sacco di testimoni. Passerete un brutto guaio […] Non opporrò resistenza, non vi insulterò, ma quello che state facendo è sbagliato. Non toccatemi». «Dalle loro facce si capiva che non se l’aspettavano» ha proseguito Taina. «Una protesta come quella, con una musulmana su una sedia a rotelle che non si muoveva e che non aveva paura di loro. Con le loro tenute antisommossa sembravano Darth Vader, e lei si limitava a starsene lì e a sorridere dicendo: ‘Non mi muovo’». Rosemary, però, fu costretta a lasciare l’alloggio. Morì di infarto due giorni dopo, in un freddo rifugio per senzatetto. Di lì a poco, anche Nuriye dovette liberare l’appartamento, anche se, dopo una lunga e frenetica ricerca, la comunità gliene trovò un altro nelle vicinanze. Così la Kotti & Co. intensificò le sue attività. I membri protestarono di più. Litigarono di più. Marciarono di più. Attirarono più media. Scavarono di più nelle manovre finanziarie delle aziende proprietarie delle case, e scoprirono che nemmeno i politici della città erano a conoscenza dei contratti assurdi stipulati anni prima. 2 Finché un giorno, un anno dopo l’inizio delle proteste, arrivò la notizia. Grazie alle pressioni politiche di Kotti, gli affitti sarebbero stati congelati. C’era la garanzia che sarebbero rimasti invariati. Non successe in tutti i quartieri popolari di Berlino, ma successe a Kotti. Fu la diretta conseguenza dell’attivismo dei suoi residenti. Erano tutti euforici ma, quando ho parlato con loro, mi hanno detto che, a loro parere, la protesta non riguardava più soltanto i canoni di locazione. Neriman Tuncer, una donna turco-tedesca, mi ha riferito di aver ottenuto qualcosa di molto più importante di un affitto più basso. «Ti rendi conto» ha dichiarato, «di quante bellissime persone vivano intorno a te, vicino a casa tua». Erano sempre state lì, ma non si erano mai accorte l’una dell’altra. E ora… eccole là. Quando le sue connazionali vivevano in Turchia, chiamavano il villaggio ‘casa’. Quando arrivarono in Germania, scoprirono

che questo concetto si riduceva a quattro mura e allo spazio che racchiudevano; un’idea di casa limitata e ottusa. Quando esplosero le proteste, però, la loro visione di casa si allargò di nuovo, fino a coprire tutto il quartiere e la fitta rete di persone che ci viveva. Ascoltando Neriman mi sono domandato quanti di noi, nella nostra società, siano dei senzatetto secondo i criteri della Kotti & Co. Quanti di noi, se venissero sfrattati o rinchiusi in un ospedale psichiatrico, avrebbero decine di persone pronte a schierarsi dalla loro parte e a proteggerle? «È questo il senso della protesta. Siamo andati oltre le differenze, prendendoci cura uno dell’altro» mi ha spiegato un manifestante. «Siamo cresciuti prendendoci cura l’uno dell’altro». Davanti al samovar, Mehmet mi ha detto che senza questa iniziativa avrebbe mollato il liceo. «È qualcosa su cui puoi contare» ha aggiunto, «e, insieme, possiamo diventare forti […] Sono molto felice di aver conosciuto tutte queste bellissime persone». «Abbiamo imparato molto. Riesco a vedere le cose attraverso gli occhi degli altri, e questa è una nuova [fonte di] significato […] Siamo come una famiglia» è intervenuta Taina. Sandy mi ha detto che le proteste dimostrano quanto sia stupida l’idea di isolarci uno dall’altro, di portare avanti ciascuno la sua piccola storia, di guardare ciascuno la sua piccola tv e di ignorare coloro che ci circondano. «Invece è normale che ti stiano a cuore». Certe volte penso che i membri della Kotti & Co. mi abbiano preso per pazzo, perché comparivo di tanto in tanto, mi sedevo con loro, ascoltavo le loro storie e a un certo punto scoppiavo a piangere. Prima delle proteste, Sandy aveva notato che «molti erano depressi. Si chiudevano in se stessi […] Prigionieri dello sconforto. Prendevano dei farmaci […] Stavano male, erano malati per colpa di questi problemi». Nuriye era così depressa da volersi suicidare. Ma poi «grazie alle proteste, hanno ritrovato la voglia di vivere». «Per noi è come una terapia» ha osservato dolcemente Sandy. A Kotti «si sono resi pubblici» mi ha detto Uli. In un primo momento ho pensato che fosse una traduzione un po’ approssimativa nel suo inglese solitamente impeccabile, ma poi ci ho riflettuto e ho capito che, in realtà, aveva trovato le parole esatte per descrivere la mobilitazione dei residenti. Avevano smesso di essere unicamente privati, di starsene da soli. Si erano resi pubblici. E così facendo, avventurandosi in una dimensione più grande, si erano liberati del dolore. Due anni dopo che Nuriye aveva attaccato il cartello alla finestra, sono

tornato a Kotti e ho scoperto che gli abitanti si erano alleati con altri attivisti in tutta Berlino per continuare la battaglia. Nella capitale tedesca, qualunque cittadino raccolga un numero sufficiente di firme può proporre un referendum. Così la gente del quartiere si sparpagliò per la città, chiedendo agli altri berlinesi di firmare a favore di un referendum che garantisse affitti bassi per tutti. La proposta prevedeva un pacchetto di riforme: più sussidi, comitati eletti dai cittadini per controllare il sistema dell’edilizia residenziale, l’impegno che i profitti sarebbero stati destinati ad altra edilizia sociale a basso costo, la fine degli sfratti per i poveri. Raccolsero il più alto numero di firme per un referendum mai registrato nella lunga storia di Berlino. I membri del Senato berlinese, spaventati dal radicalismo delle proposte, si rivolsero ai residenti di Kotti e agli altri fautori dell’iniziativa e offrirono un accordo. Se ritirerete la proposta, dissero, accetteremo gran parte delle vostre richieste. Altrimenti, quando vincerete, contesteremo il risultato nelle corti europee per violazione della legge sulla concorrenza, bloccando così le riforme per anni. Fecero una nutrita serie di controproposte. Se eri povero e non potevi permetterti l’affitto, avresti ricevuto un sussidio aggiuntivo di centocinquanta euro al mese, una bella somma per una famiglia indigente. Lo sfratto sarebbe diventato l’ultima risorsa e sarebbe stato utilizzato solo in rari casi. Da quel momento in poi, i vertici delle società di edilizia abitativa avrebbero accettato nei consigli direttivi membri eletti dai residenti. «Non è ciò che volevamo» mi ha detto Matti, «ma è già molto. Sì, è già molto». L’ultimo giorno a Kotti, molti personaggi di questa storia mi sono sfilati davanti mentre sedevo fuori del Café Südblock con Taina, che fumava soddisfatta una sigaretta dopo l’altra sotto un sole pallido. L'accampamento dall’altra parte della strada è ora una struttura permanente. Non verrà mai smantellato. Alcune donne turche bevevano caffè, dei bambini giocavano a pallone. Nella società moderna, mi ha detto Taina tra una boccata e l’altra, se sei giù di morale, ti inducono a «credere che il problema sia solo a casa tua. Che sia solo tuo. Perché non ce l’hai fatta. Non hai ottenuto un lavoro più redditizio. È colpa tua. Sei un cattivo padre. E poi, all’improvviso, siamo scesi per strada e molti se ne sono resi conto: ‘Ehi, io sono nella stessa situazione! Pensavo di essere l’unico’ […] Me l’hanno detto anche molte altre persone. Mi sentivo persa e depressa, ma ora, okay… Sono una guerriera. Sto bene. Esci dal tuo angolo piangendo e inizi a combattere».

Ha soffiato il fumo nell’aria. «È un’esperienza che ti cambia» ha concluso. «Dopo ti senti forte».

16. Prima riconnessione: agli altri

In quasi tutto il mondo occidentale, Nuriye si sarebbe sentita dire che qualcosa non andava nella chimica del suo cervello. Lo stesso vale per gli altri residenti di Kotti. Si sarebbero impasticcati e sarebbero rimasti soli nei loro piccoli appartamenti finché non li avessero buttati fuori e sparpagliati qua e là. Questa storia non mi è mai parsa sbagliata come in quel quartiere di Berlino. I suoi abitanti mi hanno insegnato che quando gli esseri umani si riscoprono, problemi che prima sembravano insolubili iniziano ad apparire risolvibili. Nuriye voleva suicidarsi. Tuncai era rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Mehmet stava per essere espulso da scuola. Cosa ha risolto i loro problemi? A mio parere, le persone che erano al loro fianco, disposte a camminare con loro, a trovare soluzioni collettive ai loro problemi. Non avevano bisogno di farmaci. Avevano bisogno di stare insieme. Ma era soltanto un’impressione. Così me ne sono andato con due quesiti ancora in sospeso. C’erano prove scientifiche che cambiamenti come quelli riducessero l’ansia e la depressione, al di là delle storie individuali che avevo sentito a Berlino? E c’era un modo per riprodurre quell’esperienza, al di là delle circostanze insolite di Kotti? Dopo aver letto alcune importanti ricerche in questo campo, sono partito per Berkeley, in California, per parlare con uno degli scienziati sociali che le hanno svolte, la straordinaria Brett Ford. Ci siamo incontrati in un caffè nel centro della città che dal mondo esterno è considerata un focolaio di radicalismo di sinistra. Però, mentre andavo all’appuntamento, sono passato accanto a molti senzatetto, tutti che chiedevano l’elemosina, tutti che venivano ignorati. Quando sono arrivato, Brett picchiettava freneticamente sulla tastiera del portatile. Stava inviando delle domande di lavoro, mi ha spiegato. Con le colleghe Maya Tamir e Iris Mauss – entrambe docenti universitarie – aveva iniziato, diversi anni prima, a condurre alcune ricerche su un interrogativo piuttosto semplice. Volevano sapere se cercare consapevolmente di essere più felici

funzionasse davvero. 1 Se uno decidesse – oggi, seduta stante – di dedicare più tempo alla ricerca deliberata della felicità, tra una settimana o un anno sarebbe veramente più felice? Il team studiò questo argomento in quattro paesi: Stati Uniti, Russia (in due luoghi diversi), Giappone e Taiwan. Monitorarono migliaia di persone, alcune delle quali avevano deciso intenzionalmente di inseguire la felicità e altre no. Quando confrontarono i risultati, fecero una scoperta inaspettata. Se cerchi volutamente di diventare felice, non lo diventerai… se vivi negli Stati Uniti. Se invece abiti in Russia, in Giappone e a Taiwan, sì. Le ricercatrici si chiesero il perché. Gli scienziati sociali sanno da tempo che – per dirlo senza troppi riguardi – c’è una differenza significativa tra come vediamo noi stessi nelle società occidentali e come le persone concepiscono se stesse in quasi tutta l’Asia. Ci sono molti piccoli esperimenti che potete eseguire se volete una conferma. Per esempio, prendete un gruppo di amici occidentali e mostrate loro l’immagine di un oratore che parla alla folla. Invitateli a descrivere cosa vedono. Poi fate la stessa cosa con la prima comitiva di turisti cinesi che incontrate. Gli occidentali descriveranno quasi sempre prima l’oratore e poi la folla. Per gli asiatici è il contrario: di solito descrivono prima la folla e poi, quasi come un ripensamento, l’oratore. 2 Oppure prendete la fotografia di una bambina che fa un gran sorriso, al centro di un gruppo di coetanee dall’aria triste. Mostratela ad alcuni ragazzini e domandate loro se la bambina nel mezzo sembri felice o triste. I ragazzini occidentali penseranno che sia felice. Quelli asiatici che sia triste. Perché? Perché i primi non hanno difficoltà a isolare l’individuo dal gruppo, mentre i secondi danno per scontato che se una bambina è circondata dall’angoscia, sarà angosciata a sua volta. In altre parole, in Occidente abbiamo perlopiù una visione individualista della vita. In Asia, hanno perlopiù una visione collettiva. Quando Brett e le sue colleghe indagarono meglio, conclusero che questa era la spiegazione più valida della differenza in cui si erano imbattute. Se decidi di inseguire la felicità negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, la insegui per te stesso, perché credi che funzioni così. Fai ciò che io faccio quasi sempre: accumuli cose per te stesso, collezioni successi per te stesso, costruisci il tuo ego. Se invece cerchi consapevolmente la felicità in Russia, in Giappone o in Cina, fai qualcosa di molto diverso. Tenti di migliorare la situazione per il tuo gruppo, per le persone intorno a te. Per te, è in questo che

consiste la felicità, perciò ti sembra ovvio. Queste sono le due visioni fondamentalmente opposte di cosa significhi diventare più felici. E salta fuori – per tutte le ragioni che ho elencato prima – che la versione occidentale della felicità non funziona, mentre quella collettivista sì. «Più pensi che la felicità sia una cosa sociale, e meglio stai» mi ha spiegato Brett, riassumendo i risultati e un lungo elenco di altri studi di scienze sociali. Mentre mi descriveva queste ricerche, mi sono reso conto di cosa avevo visto per tutto il tempo a Kotti. I residenti erano passati da una visione individualista della vita – chiuditi in casa, accumula roba per te stesso – a una visione collettivista: siamo un gruppo, siamo uniti, siamo legati. In Occidente abbiamo circoscritto il senso dell’io all’ego (o, tutt’al più, alla nostra famiglia), e ciò ha aumentato il dolore e ridotto la felicità. Queste prove indicano che se torniamo a vedere l’angoscia e la gioia come qualcosa da condividere con una rete di persone, il nostro stato d’animo cambierà. Questa tesi cozzava tuttavia con una cosa di cui mi vergogno un po’. Quando ho iniziato a scrivere questo libro, cercavo delle soluzioni rapide alla depressione e all’ansia, soluzioni che potessi attuare da solo, in tempi brevi. Volevo qualcosa da poter fare subito, per conto mio, per stare meglio in prima persona. Volevo una pasticca e, se non avesse funzionato, qualcosa di altrettanto immediato. Voi lettori, che avete scelto un libro sulla depressione e sull’ansia, probabilmente desiderate la stessa cosa. Quando gli ho esposto alcune delle idee che intendevo esprimere nel libro, un conoscente ha osservato che avevo semplicemente sbagliato compressa. Dovresti provare lo Xanax, mi ha consigliato. La tentazione è stata forte, ma poi mi sono domandato: come possiamo affermare che la soluzione a tutto il dolore e a tutta l’angoscia di cui ho parlato sia prendere un tranquillante, e invitare milioni di persone a fare la stessa cosa, per sempre? Però, a essere sincero, è il tipo di soluzione che sognavo. Qualcosa di individuale; qualcosa che si potesse fare da soli, senza sforzo; qualcosa da ingoiare in due secondi la mattina per andare avanti con la propria vita come se niente fosse. Se il rimedio non poteva essere di natura chimica, volevo un altro trucco, un interruttore da premere per aggiustare le cose. Le prove sperimentali dicevano invece che la ricerca di soluzioni individuali rapide era una trappola. Anzi, era una delle cause che ci avevano cacciato nei guai. Siamo rimasti imprigionati nel nostro ego, barricati dietro

un muro dove la vera connessione non può raggiungerci. Ho cominciato a riflettere su uno dei nostri cliché più banali e più ovvi: sii te stesso. Ce lo ripetiamo senza sosta. Condividiamo dei meme che lo riportano. Lo diciamo per incoraggiare le persone quando sono disorientate o sconfortate. Ce lo dicono persino i flaconi dello shampoo: perché voi valete. E invece ho imparato che se vuoi uscire dalla depressione, non devi essere te stesso. Non fissarti sul perché vali. È pensare a te e a te soltanto che ti fa stare da schifo. Non essere tu. 3 Sii noi. Sii parte del gruppo. Fa’ in modo che sia il gruppo a valere. La vera strada per la felicità, dicevano gli studi, viene dallo smantellamento dei muri dell’ego, dal permettere a te stesso di fluire nelle storie degli altri e alle storie degli altri di fluire nella tua, dal raccogliere la tua identità, dal capire che tu non sei mai stato tu, solo, eroico e triste. No, non essere te stesso. Connettiti con tutti coloro che ti circondano. Sii parte del tutto. Non ambire a essere l’oratore. Aspira a essere la folla. Il primo e uno dei più importanti passi per superare la depressione e l’ansia è fare fronte comune, come hanno fatto a Kotti, e dire: «Ciò che abbiamo avuto finora non è sufficiente. La vita che siamo stati costretti ed esortati a vivere non soddisfa le nostre esigenze psicologiche di connessione, sicurezza o coesione. Pretendiamo di meglio e, insieme, combatteremo per averlo». La parola chiave in questa frase è ‘insieme’. La lotta collettiva è la soluzione, o almeno la sua base. A Kotti hanno ottenuto parte delle loro richieste iniziali, ma non tutto. Eppure la battaglia comune ha dato loro la sensazione di non essere individui allo sbando, bensì un gruppo. So che in alcune librerie questo volume finirà nel reparto self-help (letteralmente, auto-aiuto), ma ormai ho capito che proprio questa mentalità è parte del problema. Fino a un certo punto, quando mi ero sentito giù, avevo cercato di auto-aiutarmi. Mi ero concentrato sull’io. Pensavo che avesse qualcosa di rotto e che la soluzione consistesse nell’aggiustarlo e nell’esaltarlo. Tendevo a gonfiarlo. Ma si dà il caso che l’io non sia la soluzione. L’unica risposta va oltre. Il mio desiderio di una soluzione privata e personale – l’equivalente psicologico di una compressa – era, in realtà, un sintomo della mentalità che inizialmente aveva causato la depressione e l’ansia. Dopo averlo capito, ho deciso di fare alcune cose diversamente. Prima, quando mi ero sentito assalire dalla depressione e dall’ansia, avevo provato il bisogno affannoso di restare a galla per fare qualcosa per me stesso. Mi

compravo qualcosa, guardavo un film che mi piaceva, leggevo un buon libro o parlavo della mia angoscia a un amico. Era un tentativo di curare l’io isolato, e molto spesso non funzionava. Anzi, queste azioni erano non di rado l’inizio di una caduta ancora più rovinosa. Leggendo le ricerche di Brett, ho capito l’errore che avevo commesso. Ora, quando mi sento giù di morale, non faccio qualcosa per me stesso, bensì per qualcun altro. Vado a trovare un amico e provo a concentrare tutta la mia attenzione sul suo stato d’animo e su come alleviare la sua sofferenza. Cerco di fare qualcosa per la mia rete o per il mio gruppo, o addirittura di aiutare sconosciuti che soffrono. Ho imparato una cosa che prima non avrei mai creduto possibile. Anche se il dolore ti tormenta, riesci quasi sempre a far stare meglio qualcun altro. Oppure investo le mie energie in azioni politiche più esplicite, volte a migliorare la società. Quando ho applicato questa tecnica, mi sono accorto che spesso – anche se non sempre – frenava la caduta. Era molto più efficace del tentativo di salvarmi da solo. Più o meno in quel periodo ho scoperto un’altra area di ricerca che forse poteva rispondere ai miei quesiti, così ho deciso di andare a trovare i diretti interessati. Ho visto il mio primo calesse amish nelle sconfinate pianure dell’Indiana, mentre lo sorpassavo in auto a centodieci chilometri l’ora. Sul ciglio dell’autostrada, un uomo vestito di nero con una lunga barba sedeva a cassetta di un carro trainato da cavalli. Alle sue spalle c’erano un bambino e due donne con delle cuffiette in testa, che mi guardavano come i rifugiati di una fiction storica della BBC ambientata nel XVII secolo. Nel panorama piatto e sterminato del Midwest, dove all’orizzonte non c’è nulla se non altro orizzonte, sembravano come fantasmi. Io e il dottor Jim Cates eravamo partiti due ore prima da Fort Wayne, la città più vicina, e siamo arrivati nel villaggio amish di Elkhart-LaGrange. Cates è uno psicologo che redige perizie sui membri della comunità colpevoli di aver violato la legge. Pur essendo ‘inglese’ – il termine con cui gli amish designano chiunque non appartenga al gruppo – è uno dei pochi estranei che da anni fanno parte della comunità. Aveva accettato di presentarmi i residenti. Abbiamo passeggiato lungo le strade, superando molti cavalli e donne vestite esattamente come le loro antenate trecento anni fa. Quando gli amish

arrivarono negli Stati Uniti, erano determinati a vivere secondo una semplice visione fondamentalista del cristianesimo e a rifiutare qualunque nuovo sviluppo potesse interferire con essa. Questa volontà esiste tuttora. Così gli abitanti non sono collegati alla rete elettrica. Niente tv, niente Internet, niente auto e quasi nessun bene di consumo. La loro madrelingua è una variante del tedesco. Si mescolano raramente agli ‘inglesi’. Hanno le loro scuole e un sistema di valori totalmente diverso da quello del resto degli Stati Uniti. Da bambino vivevo poco lontano da una comunità di ebrei ultraortodossi che, per certi versi, erano simili agli amish e, quando passavo loro accanto per strada, li guardavo incredulo: perché qualcuno avrebbe dovuto voler vivere in quel modo? Crescendo, ho cominciato a nutrire un certo disprezzo – devo essere sincero – per qualunque gruppo rifiutasse i vantaggi della modernità. Consideravo i loro atteggiamenti anacronismi assurdi. 4 Ma, riflettendo su alcuni difetti del nostro stile di vita, mi sono chiesto se, nonostante tutto, gli amish avessero qualcosa da insegnarmi, soprattutto alla luce di un importante studio scientifico. Freeman Lee Miller ci aspettava davanti a una tavola calda. Era un tipo sulla trentina, con una barba di lunghezza media: gli amish cominciano a farla crescere quando si sposano. Prima ancora che iniziassimo a parlare, ha indicato qualcosa in lontananza. «Vedete quel fienile con il tetto rosso e verde? È lì che sono cresciuto» ha detto. Da bambino viveva laggiù, in un gruppetto di case disposte le une accanto alle altre, insieme con quattro generazioni della sua famiglia, su fino ai bisnonni. L’elettricità era prodotta da batterie o da gas propano, e potevano viaggiare solo fin dove arrivavano a piedi o in calesse. In altre parole, se non era presente un determinato adulto, «avevi qualcun altro che badava a te». Eri costantemente attorniato da grandi e piccini. «Perciò sì, senza dubbio ho ricevuto sufficienti attenzioni» ha spiegato. Non avevano il concetto di passare del tempo con la famiglia, perché erano sempre con la famiglia. Spesso «stare con loro significava uscire e lavorare nei campi o mungere le mucche». In altre occasioni, mangiare insieme o partecipare agli eventi sociali. Una famiglia amish, ha aggiunto, non è come una famiglia inglese. Non è formata soltanto da madre, padre e figli. È una grande tribù interconnessa di circa centocinquanta persone: tutti gli amish, in realtà, che vivono entro una distanza percorribile a piedi o in calesse. Non esiste una chiesa fisica. Per le funzioni della domenica, ci si riunisce ora a casa dell’uno, ora a casa dell’altro. Non c’è nemmeno una gerarchia

prestabilita. Si fa a turno anche per ricoprire il ruolo di pastore, che viene assegnato a caso. «Domenica terremo la funzione a casa nostra» ha detto Freeman Lee. Ci sarebbero stati i suoi parenti più stretti, ma anche tutte le altre famiglie amish. Alcune le conosceva bene, alcune meno. «Così instauri un altro rapporto […] Nella nostra comunità, tutto ruota intorno alla coesione, all’affetto. E immagino sia questa la nostra forza nei momenti di difficoltà. D’un tratto le persone si stringono intorno a te». Quando gli amish compiono sedici anni devono fare un viaggio che, curiosamente, li dota degli strumenti necessari per commentare la nostra cultura. Devono vivere per qualche tempo nel mondo ‘inglese’. Questo rito di passaggio si chiama Rumspringa, e i giovani non seguono le rigide regole amish per una media di due anni. Si ubriacano, vanno negli strip club (o almeno, Freeman Lee ci è andato), usano il telefono e Internet. Lee ha sempre pensato che qualcuno dovrebbe lanciare un rum di marca Rumspringa. Poi, alla fine di questi bagordi giovanili, devono fare una scelta. Vuoi mollare tutto e tornare a casa per entrare a far parte della Chiesa amish, oppure vuoi restare nel mondo esterno? Nel secondo caso, potrai ancora far visita alla tua famiglia, ma non sarai mai un amish. L’80 per cento circa sceglie la Chiesa. 5 Questo assaggio di libertà è una delle ragioni per cui gli amish non vengono mai considerati una setta. La loro è una vera e propria scelta di vita. Freeman Lee mi ha raccontato di aver apprezzato molte cose del mondo esterno. Ha ancora nostalgia delle partite di baseball alla tv e degli ultimi successi pop alla radio, ma uno dei motivi per cui è tornato è la convinzione che una comunità amish sia un posto migliore per avere figli e per essere bambini. Nel nostro mondo aveva la sensazione di «avere sempre l’acqua alla gola. Non hai tempo per la famiglia. Non hai tempo per i bambini». Non riesce a immaginare cosa ne sia dei bambini in una cultura come quella. Come crescono? Che razza di vita è? Gli ho chiesto come cambierebbe il rapporto con i suoi figli se (per esempio) avesse la tv. «Potremmo guardarla insieme» risponde con una scrollata di spalle. «Potremmo divertirci a seguire i programmi, ma non reggerebbe il confronto con i momenti passati insieme in cortile. Anche solo per pulire il calesse. Non c’è paragone». In seguito ho fatto visita a Lauron Beachey, un trentenne che fa il banditore d’aste. Spesso vende oggetti provenienti da case pignorate. Ci siamo accomodati in salotto, circondati da libri (Lauron ha un debole per William Faulkner), e mi ha spiegato che si può capire la differenza tra il

mondo amish e quello esterno soltanto comprendendo che gli amish hanno scelto deliberatamente di rallentare e che non lo considerano un sacrificio. Sapeva che avevo fatto un viaggio di migliaia di chilometri per andare a Eckhart-LaGrange, ha affermato. Poi: «Mi piacerebbe visitare la Terra Santa, ma la nostra Chiesa proibisce di usare l’aereo. Così siamo costretti a rallentare. La famiglia è più unita perché, se potessimo prendere l’aereo, potrei andare in California, tenere un’asta e poi tornare indietro, mentre ora è molto scomodo, perciò resto a casa più spesso». Ma perché, ho chiesto, qualcuno dovrebbe scegliere la lentezza? Quando rallenti, ha risposto, perdi qualcosa, ma guadagni qualcos’altro di più importante. «Il senso [della] comunità locale. Se avessimo le auto, il nostro distretto ecclesiastico si estenderebbe per un raggio di trenta chilometri. Non vivremmo gli uni accanto agli altri. I vicini non verrebbero così spesso a cena […] C’è una vicinanza fisica e, di conseguenza, anche spirituale o mentale. Le automobili e gli aeroplani sono comodissimi, e vediamo quanto sia utile la velocità ma, come gruppo, credo che abbiamo deciso di resisterle [per avere invece] una comunità coesa». Se – grazie ai mezzi di locomozione o a Internet – puoi essere ovunque, finisci, pensa Lauron, per non essere da nessuna parte. Gli amish, al contrario, hanno sempre la «sensazione di essere a casa». Per spiegarmi il concetto ha usato una metafora. La vita umana, dice, è come un grande fuoco caldo. Ma se prendi un tizzone e lo isoli, si consuma rapidamente. Noi ci riscaldiamo a vicenda, osserva, restando insieme. «Mi sarebbe piaciuto fare il camionista, vedere il Paese ed essere pagato senza dover sudare» continua. «Mi sarebbe piaciuto guardare i playoff dell’NBA. Mi piaceva guardare That ’70s Show. Lo trovavo molto divertente. Ma non è difficile farne a meno». Quindi ha fatto un paragone tra gli amish e i gruppi del mondo ‘inglese’, come Weight Watchers, dove le persone si riuniscono per dimagrire e offrirsi sostegno reciproco. Non riuscireste mai a resistere a tutto quel cibo da soli, ma scoprite di potercela fare in gruppo, restando uniti, controllandovi e incoraggiandovi l’un l’altro. L’ho guardato, cercando di assimilare il significato delle sue parole. «Dunque» ho chiesto, «stai dicendo che la comunità amish è quasi come un gruppo di supporto per resistere alle tentazioni di una civiltà individualista?» Ha riflettuto per un istante e ha sorriso. «Sì, questo è uno dei maggiori vantaggi». Dopo tutto ciò che avevo scoperto, ho trovato disorientante il soggiorno

tra gli amish. Da ragazzo avrei liquidato le loro regole etichettandole come arretratezza, ma un importante studio scientifico eseguito sulla salute mentale degli amish negli anni Settanta indica che hanno livelli di depressione molto più bassi degli altri americani. 6 Da allora, questo risultato è stato confermato da diverse ricerche minori. È stato a Elkhart-LaGrange che ho capito chiaramente cosa abbiamo perso nel mondo moderno e, allo stesso tempo, cosa abbiamo guadagnato. Gli amish hanno un profondo senso dell’appartenenza e del significato della vita, ma ho intuito anche che sarebbe assurdo considerare il loro stile di vita una panacea. Io e Cates abbiamo passato un pomeriggio con una moglie che aveva implorato la comunità di aiutarla dopo che il marito aveva picchiato lei e i suoi figli. Gli anziani della Chiesa le avevano detto che il compito di una donna amish era sottomettersi al marito, qualunque cosa accadesse. Aveva continuato a subire abusi per anni e alla fine se n’era andata, scandalizzando molti membri della comunità. Il gruppo è tenuto insieme da legami molto proficui, ma condivide anche una teologia spesso estrema e brutale. Le donne sono subordinate; gli omosessuali ricevono un trattamento agghiacciante; le percosse ai bambini sono viste di buon occhio. Elkhart-LaGrange mi ha rammentato il paesino di mio padre sulle montagne svizzere. C'era un profondo senso della comunità e della famiglia, ma quella famiglia aveva non di rado regole crudeli. Il fatto che quando la comunità e il significato della vita vengono messi sul piatto della bilancia possano addirittura, per alcuni, pesare più del dolore concreto e terribile causato da questi problemi è un segno della loro forza. È uno scambio inevitabile?, mi sono chiesto. La conquista dell’individualità e dei diritti indebolisce inesorabilmente la comunità e il suo significato? Dobbiamo scegliere tra la bellissima ma brutale coesione di Elkhart-LaGrange e la cultura aperta ma depressa di Edgware? Non voglio abbandonare il mondo moderno e tornare a un passato mitico, più connesso per certi versi ma più barbaro per molti altri. Voglio vedere se riusciamo a trovare una sintesi in cui imitare la coesione della comunità amish senza soffocare noi stessi o convertirci a idee estreme che giudico perlopiù ripugnanti. Per ottenere questo risultato, cosa dovremmo sacrificare, e cosa ricaveremmo? Continuando il viaggio, ho cominciato a individuare luoghi e tecniche che, a mio parere, potrebbero indicare la strada verso la risposta. Nel cuore della campagna amish, Freeman Lee era consapevole che il suo

mondo mi sarebbe parso strano. «So come lo giudicate voialtri, ma la nostra idea è che si può avere un angolino di paradiso sulla Terra se solo si interagisce con gli altri. Perché è così che lo immaginiamo, sai. Quando la vita finisce, se vai in paradiso, interagisci con le persone. È questo che crediamo». Se la tua immagine di un aldilà perfetto è stare sempre con coloro che ami, mi ha chiesto, perché non dovresti scegliere di farlo già oggi, da vivo? Perché dovresti preferire smarrirti nella nebbia delle distrazioni?

17. Seconda riconnessione: il social prescribing

Avevo capito perché i residenti di Kotti erano usciti dalla depressione e dall’ansia, ma la loro era una situazione fuori del comune. Come si può, continuavo a scervellarmi, riprodurre questo passaggio dall’isolamento alla connessione? È saltato fuori che la risposta, o almeno un primo indizio, era sempre stata a pochi chilometri da dove avevo vissuto tutta la prima fase della mia depressione: in un piccolo poliambulatorio nella zona più povera di Londra. I ricercatori che ci lavorano pensano di aver trovato un modello riproducibile. A metà anni Novanta, nello studio del suo medico a East London, la trentacinquenne Lisa Cunningham dichiarò che non poteva assolutamente essere depressa. Poi scoppiò in un pianto incontrollabile. «Santo cielo» commentò il dottore, «altroché se è depressa». Tra un singhiozzo e l’altro, Lisa pensò: ‘Non può succedere proprio a me. Faccio l’infermiera in un reparto di psichiatria. Il mio compito è risolvere problemi come questo, non soccombervi’. Non ne poteva più. Da diversi anni lavorava in un importante ospedale londinese. Quell’estate era stata una delle più calde nella storia della città. Nel reparto non c’era l’aria condizionata – l’amministrazione aveva chiuso i cordoni della borsa – e Lisa, grondando di sudore, aveva visto le cose andare di male in peggio. Aveva a che fare con soggetti colpiti da disturbi mentali abbastanza gravi da richiedere il ricovero ospedaliero: dalla schizofrenia al disturbo bipolare, alla psicosi. Era diventata infermiera perché voleva aiutare quelle persone, ma ormai aveva capito che i medici si limitavano a imbottirle di farmaci. Un giovane affetto da psicosi era stato sedato così pesantemente che le gambe gli tremavano senza sosta e non riusciva a reggersi in piedi. Suo fratello aveva dovuto portarlo in spalla fuori della camera per metterlo seduto e dargli da mangiare. Un’infermiera aveva schernito il paziente riferendosi a un vecchio sketch dei Monty Python: «Siamo forse al Ministero delle

camminate strambe? Guardate le sue gambe, gente!» Una volta, una donna aveva avuto un episodio di incontinenza e un’altra infermiera l’aveva rimproverata davanti agli altri pazienti. «Guardate. Si è pisciata addosso. Oddio, non riesci ad arrivare in tempo al gabinetto?» Quando Lisa aveva fatto notare alle colleghe che non era quello il modo di trattare i pazienti, l’avevano accusata di essere ‘ipersensibile’ e ben presto le si erano rivoltate contro. Era cresciuta in un ambiente molto aggressivo, perciò per lei questa dinamica – essere presa di mira e umiliata – era insieme familiare e insostenibile. «Un giorno sono andata al lavoro e ho pensato: ‘Non sopporto di restare qui’» mi ha confidato. «Sono rimasta seduta alla scrivania a fissare lo schermo del computer. Non riuscivo a fare niente. Fisicamente, intendo. E ho detto: ‘Non mi sento molto bene, devo tornare a casa’». Quando era rincasata, aveva chiuso la porta, si era infilata nel letto e aveva pianto. Sostanzialmente era restata lì per i sette anni successivi. Di solito, durante la sua lunga fase depressiva, si svegliava a mezzogiorno, in preda all’ansia. «Ansia bell’e buona» racconta. Si domandava ossessivamente: «Cosa pensano gli altri di me? Posso uscire? Sai, vivevo nell’East End. Non potevi mettere piede fuori dalla porta senza incontrare qualcuno». Ogni giorno si truccava e cercava il coraggio di uscire, quindi si lavava la faccia e crollava di nuovo sul letto. Se non fosse stato perché doveva dar da mangiare ai gatti, forse sarebbe semplicemente rimasta lì a consumarsi. Invece si precipitava nel negozietto cinque porte più in là, faceva scorta di cibo per gatti, di cioccolato e di gelato, e tornava di corsa a casa. Poco prima di essere dichiarata inabile al lavoro, aveva iniziato a prendere il Prozac, ingrassando a vista d’occhio. Era arrivata a pesare centododici chili. Mangiava ossessivamente. «Durante il giorno, torta di gelato al cioccolato, tavolette di cioccolato e poco altro» ricorda. Quando l’ho intervistata anni dopo, aveva qualche difficoltà a descrivere quel periodo. «Ero come un'invalida. Tutte le cose che ero sempre stata capace di fare fino a quel momento [erano svanite]. A me piaceva ballare. Quando mi ero trasferita a Londra, ero diventata famosa perché ero sempre la prima a scendere in pista, così entravo nei locali gratis. ‘Quella è Lisa? Per lei, ingresso omaggio. Tra poco inizierà a ballare’. Ma con la depressione è finito tutto. Avevo la sensazione di aver smarrito me stessa […] Ho perso completamente la mia identità». Poi, un giorno, il medico le parlò di un nuovo progetto di ricerca e le chiese se avesse voglia di partecipare.

Un pomeriggio, alla metà degli anni Settanta, sulla grigia costa occidentale della Norvegia, due diciassettenni lavoravano in un cantiere navale. Facevano parte di una squadra impegnata nella costruzione di una grande nave. La sera prima si era alzato un vento impetuoso e, per impedire che la gru si ribaltasse, l’avevano fissata a un grosso masso con un rampino. L’indomani mattina, però, qualcuno dimenticò che la gru era ancora bloccata, così quando un operaio provò a spostarla, i ragazzi udirono un cigolio assordante, e d’un tratto il macchinario iniziò a cadere nella loro direzione. Uno di loro, Sam Everington, riuscì a salvarsi, ma vide il collega scomparire sotto la gru. «Nella vita ci sono momenti fondamentali, quelli in cui pensi: ‘Cazzo, sto per morire’» mi ha detto Everington. In quell’istante fece una promessa a se stesso. Non avrebbe vissuto nell’apatia. Avrebbe assaporato ogni attimo fino in fondo. In altre parole, si sarebbe rifiutato di seguire il copione altrui e si sarebbe concentrato soltanto su ciò che contava davvero. Everington ripensò a quel momento quando, all’epoca in cui era un giovane medico a East London, si sentì a disagio perché continuava a notare qualcosa che non avrebbe dovuto notare. Molti pazienti si rivolgevano a lui per un problema di depressione e di ansia, e all’università gli avevano insegnato come curarli. «Ai tempi, alla facoltà di Medicina» spiega, «tutto era biologia, perciò quella che si definiva depressione era [dovuta ai] neurotrasmettitori, a uno squilibrio chimico». La soluzione, allora, erano i farmaci. Questo rimedio, tuttavia, non sembrava adattarsi alla realtà sotto i suoi occhi. Se ascoltava attentamente i pazienti, il problema iniziale – l’idea di un malfunzionamento cerebrale – «si rivelava raramente la questione che stava loro a cuore». C’era quasi sempre qualcosa di più profondo e, se li invitava a parlarne, i soggetti lo accontentavano. Un giorno arrivò un giovane residente nell’East End che era molto giù di morale. Everington tirò fuori il bloc-notes per prescrivergli delle pasticche o dargli l’indirizzo di un assistente sociale. L’uomo lo guardò e disse: «Non mi serve un cazzo di assistente sociale, ma lo stipendio di un assistente sociale». Everington lo giardò bene in faccia e pensò: «Ha ragione. Sono io che sbaglio». Ricordò i suoi studi. ‘Mi sfugge qualcosa’. Ciò che gli avevano insegnato, ha ammesso in seguito, «era ben lontano dal contrastare efficacemente i disturbi». Spesso i pazienti erano depressi, si rese conto, perché dalla loro vita erano sparite le cose per cui vale la pena vivere. Rammentò la promessa che aveva fatto a se stesso da ragazzo. Così si

interrogò: ‘Cosa possiamo fare per dare una vera risposta alla depressione?’ Lisa entrò per la prima volta nel poliambulatorio che Everington contribuiva a gestire. Il Bromley-by-Bow Center sorge in una fessura di cemento a East London, stretto tra alcuni brutti edifici di edilizia popolare, quasi in fondo a una galleria. Lisa si vergognava da morire. Da anni usciva a malapena di casa. I capelli le erano cresciuti fino a diventare ricci e arruffati come quelli di un clown. Temeva che il nuovo programma non avrebbe funzionato o che il contatto con le persone le sarebbe stato insopportabile. Il piano di Everington – lavorare con un’équipe di colleghi dalle idee analoghe alle sue – era semplice. Credeva che i depressi avessero qualcosa che non andava, ma non nel cervello o nel corpo, bensì nella vita. Se voleva aiutarli a guarire, dunque, doveva aiutarli a cambiare vita. Ciò di cui avevano bisogno era riconnettersi. Così fondò un team che contribuì a trasformare il poliambulatorio in un polo d’attrazione per tutti i gruppi di volontariato di East London, nel quadro di un esperimento senza precedenti. 1 Quando andavi dal medico, non ricevevi soltanto pasticche. Ti prescriveva uno di oltre cento modi diversi per riconnetterti con le persone, con la società e con i valori davvero importanti. Lisa si vide suggerire qualcosa che, in apparenza, era così insulso da sembrare quasi stupido. Dietro l’angolo c’era una brutta striscia di boscaglia e cemento che i residenti avevano soprannominato ‘Dog Shit Alley’, un posto squallido che ospitava soltanto erbacce, un palco per orchestra rotto e (come suggerisce il nome) merda di cane. Uno dei programmi che Everington aiutò a organizzare consisteva nel trasformare questa orribile landa desolata in un giardino pieno di fiori. Un membro dello staff si occupava del coordinamento ma, per il resto, era tutto nelle mani di una ventina di pazienti-volontari depressi o affetti da altre forme di angoscia. È tutto vostro, dissero i medici. Aiutateci a renderlo bello. Il primo giorno, Lisa guardò prima le erbacce, poi gli altri volontari, e fu presa dall’ansia al solo pensiero della responsabilità. Come avrebbero fatto a sistemare ogni cosa in soli due giorni la settimana? Il cuore cominciò a martellarle nel petto. Ebbe delle conversazioni molto nervose ed esitanti con gli altri membri del gruppo. Conobbe un operaio bianco che affermò di aver abbandonato gli studi quando era giovanissimo. 2 In seguito, i medici le riferirono che, quando si era presentato al poliambulatorio, si era mostrato molto minaccioso e aggressivo, e ci avevano pensato due volte prima di accettarlo nel

programma. Lisa conobbe anche il signor Singh, un vecchietto asiatico che disse di aver viaggiato per il mondo e iniziò a raccontare storie bizzarre sui luoghi in cui era stato. C’erano due persone con gravi difficoltà di apprendimento, e alcuni benestanti che non riuscivano a scrollarsi di dosso la malinconia. Lisa li guardò e pensò: ‘In qualunque altro posto di Londra non ci rivolgeremmo neppure la parola’. Decisero tuttavia di impegnarsi per raggiungere l’obiettivo comune: trasformare il vicolo in uno splendido piccolo parco. Nei primi mesi si documentarono su semi e piante e discussero di come strutturare il giardino. Erano gente di città. Non sapevano che pesci pigliare. Si resero conto di dover imparare a conoscere la natura. Fu un processo lento. A un certo punto piantarono qualcosa e aspettarono che crescesse, ma invano. Capirono cosa avevano sbagliato solo quando affondarono le dita nel terreno e si accorsero che una parte del vicolo era argillosa. Con il passare delle settimane compresero che avrebbero dovuto adeguarsi ai ritmi delle stagioni e della terra sotto i loro piedi. Decisero di piantare giunchiglie, arbusti e fiori di stagione. All’inizio procedettero a rilento e con una certa difficoltà. Intuirono «che la natura fa di testa sua» mi ha detto Lisa. «Non puoi cambiarla, perché sono le condizioni meteorologiche e le stagioni a farlo. Perciò puoi piantare delle cose che possono crescere oppure no. Devi imparare. Devi avere pazienza. I risultati non arrivano in quattro e quattr’otto. Per creare un giardino ci vogliono tempo, energia e impegno […] Forse, dopo una sola seduta di giardinaggio, hai la sensazione di non aver ottenuto un granché ma, se torni ogni settimana per un certo periodo, noterai un cambiamento». «Lo scopo è dedicarsi a qualcosa che potrebbe richiedere molto tempo» ha concluso Lisa «e avere la pazienza di aspettare». Normalmente, le persone depresse o ansiose cui viene proposto un trattamento diverso da quello farmacologico si ritrovano nella posizione di dover parlare del loro stato d’animo, ma spesso è l’ultima cosa che hanno voglia di fare. I sentimenti sono insopportabili. Lì avevano un luogo dove fare qualcosa di lento e di regolare, e dove nessuno insisteva perché parlassero di altri argomenti. Tuttavia, quando instaurarono un rapporto di fiducia reciproca, cominciarono a esternare le loro emozioni, ciascuno con i suoi tempi. Lisa raccontò la sua storia ai compagni con cui si trovava meglio, e loro fecero la stessa cosa con lei. Lisa si rese conto che tutti avevano delle ragioni comprensibili per stare

male. Un uomo le confidò che dormiva ogni notte sull’autobus 25: i conducenti sapevano che era un senzatetto, così non lo cacciavano via. Lisa lo guardò e pensò: ‘Come si può evitare la depressione in una situazione simile?’ Come i medici in Cambogia avevano intuito che il contadino aveva bisogno di una mucca, capì che molti depressi del gruppo avevano bisogno di soluzioni pratiche. Così iniziò a tempestare il consiglio comunale di telefonate finché le autorità non accettarono di dare un alloggio all’uomo. Nei mesi seguenti, la sua depressione si attenuò. Con il passare del tempo, i volontari videro sbocciare i primi fiori. I passanti iniziarono ad attraversare il parchetto e a ringraziare queste persone – che a lungo si erano chiuse in se stesse e sentite inutili – per ciò che stavano facendo. Una vecchietta si fermava sempre mentre tornava a casa dal supermercato, e regalava alle bengalesi del gruppo qualche spicciolo per piantare altri fiori. Il signor Singh sosteneva che le piante erano legate a tutte le altre cose dell’universo, che facevano parte di un piano cosmico. Nel loro piccolo, i membri cominciarono a sentire di avere uno scopo, di poter fare qualcosa. Un giorno un uomo chiese a Lisa come fosse caduta in depressione e, dopo aver ascoltato il suo racconto, commentò: «Sei stata vittima di mobbing? È capitato anche a me». In seguito le disse che era stato un momento fondamentale della sua vita: «Mi sono reso conto che noi due siamo uguali». Mentre me lo riferiva, Lisa aveva le lacrime agli occhi: «Santo cielo, in realtà era proprio questo l’obiettivo del progetto». Molti membri del gruppo riuscirono a guarire da due forme di disconnessione. La prima era quella dalle altre persone. Nel Bromley-by-Bow Center c’è un caffè dove si riunivano dopo le sedute di giardinaggio. Di lì a qualche mese, Lisa si accorse che quasi urlava, da tanto era sollevata all’idea di poter parlare di nuovo con qualcuno dopo tutto quel tempo. Prima era terrorizzata al solo pensiero di mettere piede fuori casa e moriva di vergogna davanti agli altri, ma ora aveva fatto il primo passo. «Avevo un bisogno quasi disperato di riconnettermi con le persone» ammette. Mentre condivideva i loro problemi e le loro gioie, «ho smesso di pensare ossessivamente a me stessa. Avevo gli altri di cui preoccuparmi». Phil, il tipo minaccioso e aggressivo, prese sotto la sua ala i due compagni con difficoltà dell’apprendimento. Era il primo ad assicurarsi che venissero coinvolti in ogni iniziativa e ad aiutarli. Fu lui a proporre di iscriversi tutti

insieme a un corso di orticoltura, idea che il gruppo accolse con entusiasmo. La seconda forma di disconnessione era quella dalla natura, ritiene Lisa. «C’è qualcosa di meraviglioso nel dedicarsi all’ambiente naturale, anche se è un piccolo appezzamento incolto in un’area urbana» dichiara. «Mi stavo riconnettendo con la terra e notavo le piccole cose. Smetti di sentire gli aerei e il traffico, e capisci quanto sei minuscolo e insignificante». In realtà, ha aggiunto, era stato «sporcarmi le mani, letteralmente» a farle scoprire «un senso di appartenenza. Non c’ero soltanto io. C’era il cielo. Il sole […] Non ruotava tutto intorno a me, giusto? O alla mia lotta contro le ingiustizie. Esisteva un contesto più ampio e dovevo tornare a farne parte. È così che mi sentivo mentre ero seduta sul lastricato del giardino, con le mani nell’aiuola». Grazie a questo piccolo e modesto programma, «le due cose con cui avevo completamente perso il contatto» – le persone e la natura – «erano rientrate nella mia esistenza». Lisa ebbe l’impressione che i membri del gruppo prendessero vita come i fiori del giardino. Per la prima volta dopo anni erano orgogliosi di se stessi. Avevano fatto qualcosa di bello. Quando ho visitato il parchetto, ho provato una grande serenità in quella piccola oasi verde con la sua fontana gorgogliante, nel bel mezzo della rumorosa e inquinata East London. Dopo aver fatto parte del programma per alcuni anni, Lisa smise di prendere il Prozac e, in seguito, perse più di trenta chili. Si innamorò di un giardiniere, un certo Ian, e dopo qualche altro anno si trasferì in un paesino del Galles dove, quando l’ho conosciuta, stava per aprire un centro di giardinaggio tutto suo. È ancora in contatto con alcuni membri del gruppo. Si sono salvati a vicenda, mi ha detto. Loro, e quel pezzo di terra. Mentre mangiavamo salsicce e patatine fritte a East Lon-don, Lisa mi ha spiegato che alcuni potrebbero fraintendere la morale della sua esperienza con il gruppo di giardinaggio. «Non è una cosa che succede e basta. Penso che se sei depresso, non puoi semplicemente uscire, trovare un giardinetto, coltivarlo e sentirti meglio. Servono coordinamento e sostegno». Se le persone si limitano a dire: «Va’ al parco, starai meglio; fa’ una passeggiata nel bosco, starai meglio» continua, «naturalmente hanno ragione, ma qualcuno deve aiutarti». Non ce l’avrebbe mai fatta da sola. Perché accadesse c’è voluto un medico che le prescrivesse questo trattamento, che la convincesse della sua efficacia e che la spronasse. Senza, teme che sarebbe ancora tappata in casa a ingozzarsi di gelato, spaventata alla sola idea di mostrarsi agli altri e con l’unica prospettiva di chiudersi lentamente in se

stessa. Quando sono andato al Bromley-by-Bow Center per la prima volta, ho scoperto che la receptionist può mandarti da un medico o suggerirti uno degli oltre cento programmi disponibili, che spaziano dalla ceramica alla ginnastica, al volontariato. Nel primo caso, lo studio medico è un tantino diverso dal solito. Il dottore non è seduto dietro una scrivania, con davanti uno schermo. Vi sedete fianco a fianco, insieme. Questo, spiega Everington, è un piccolo segno di una concezione della salute diversa da quella tradizionale. Alla facoltà di Medicina gli hanno insegnato a comportarsi come «la persona che possiede la conoscenza». Il paziente entra, elenca i sintomi, lo sottoponi ad alcuni esami, fai la diagnosi e consigli una terapia. Ci sono casi, dice, in cui questo è l’approccio giusto – «Hai un’infezione delle vie respiratorie, ti serve un antibiotico. Detto, fatto. È tutto risolto» – ma «il più delle volte» non è così. Quasi tutti si rivolgono al medico perché sono angosciati. Anche quando hai un disturbo fisico – per esempio, un ginocchio dolorante – ti sentirai molto peggio se non hai nient’altro nella vita e se sei privo di connessioni. La maggior parte delle visite, aggiunge, riguarda anche la salute emotiva del paziente. Il primo compito del medico è ascoltare. Soprattutto nel caso della depressione e dell’ansia, Everington ha imparato a non chiedere: «Cosa ti è successo?» ma «Cosa ti sta più a cuore?» Se vuoi trovare una soluzione, devi capire cosa manca nella vita del soggetto depresso o ansioso e aiutarlo a procurarselo. I medici del poliambulatorio prescrivono gli antidepressivi chimici e li difendono, ritenendoli efficaci. Li considerano tuttavia una piccola parte del quadro generale e non una soluzione a lungo termine. Saul Marmot, un altro dottore del centro, mi ha detto: «È inutile […] mettere dei cerotti sul dolore del paziente». «Anzitutto devi scoprire le ragioni per cui si è rivolto a te». Poi ha proseguito: «È inutile usare gli antidepressivi se le cose non sono cambiate perché, una volta interrotta la terapia, [il soggetto] torna al punto di partenza […] Qualcosa deve cambiare, altrimenti non fai alcun progresso». Spesso le persone arrivano all’ambulatorio credendo – come me – che la loro depressione sia puramente fisica, un malfunzionamento del cervello. Everington spiega loro due cose, entrambe sorprendenti. Prima dice che molti medici non conoscono la depressione e l’ansia e non sanno che si tratta di una questione complessa, perciò occorre lavorare con il paziente per sviscerarla. «È la [nostra] filosofia fondamentale: avere l’umiltà di dire ‘Non lo so’. È

importantissimo. È la cosa più importante che si possa dire. Anzi: dicendolo aumenterai la fiducia del paziente nei tuoi confronti». Poi racconta loro della profonda ansia di cui ha sofferto per diversi anni dopo il divorzio. Può succedere a chiunque, spiega. Non sei solo. «C’è un che di rassicurante nel dire: ‘È naturale’» afferma. «Esito a usare la parola ‘normale’, ma è normale». Se invece il medico ti diagnosticasse un disturbo cerebrale, prosegue, «non avresti alcun controllo e non potresti farci nulla. Chiaramente è un’assurdità bell’e buona. E quali prospettive ti apre per il futuro?» chiede. «Quando il soggetto è depresso, è in un luogo molto buio e, se riesci a dargli un assaggio di guarigione, anche se è un piccolo assaggio, soltanto un barlume di speranza, [è] importantissimo, e non sai mai da dove verrà quella speranza». Così snocciola una lunga lista di piccoli passi che l’individuo può fare per riconnettersi. Cerca di dare il buon esempio mentre parla con i pazienti. Una parte del suo lavoro, sostiene, consiste nell’«essere un amico». Vive a poche centinaia di metri dal poliambulatorio. È facilmente rintracciabile. Aggiunge che un altro principio cardine della loro filosofia è: «Ogni scusa è buona per far festa». E infatti trovano continuamente pretesti per festeggiare, invitando tutti i pazienti. Questo approccio, che Everington chiama social prescribing, 3 ha dato il via a un vivace dibattito. I potenziali vantaggi sono ovvi. Il fondo sanitario di Everington spende, da solo, un milione di sterline l’anno (circa 1.130.000 euro) per fornire antidepressivi chimici a diciassettemila pazienti, con risultati mediocri. Everington crede che il social prescribing possa dare esiti uguali o migliori con una spesa di gran lunga inferiore. Così, da anni, il Bromley-byBow Center e altri gruppi che hanno adottato questo metodo raccolgono pazientemente i dati, sperando che gli studiosi esaminino il loro operato. Finora, tuttavia, sono state condotte poche ricerche. Perché? Era la stessa storia che sentivo ovunque. La vendita di farmaci contro la depressione e l’ansia è uno dei più grandi mercati del mondo, perciò gli investimenti per finanziare le ricerche sono enormi (e spesso gli studi sono distorti, come avevo scoperto). Il social prescribing, se efficace, non sarebbe molto redditizio. Anzi, aprirebbe una voragine in quel mercato chimico multimilionario, riducendo drasticamente i profitti. Così i diretti interessati fanno finta di niente. C’è stata però una serie di studi scientifici sull’‘orticoltura terapeutica’,

cioè il ricorso al giardinaggio per migliorare la salute mentale. 4 Queste indagini non hanno coinvolto gruppi particolarmente numerosi né si sono protratte per lunghi periodi, e alcune non sono strutturate in modo impeccabile, perciò vanno prese con le molle. I risultati indicano tuttavia che vale la pena di approfondire la questione. Secondo uno studio norvegese, un programma di questo tipo ha prodotto, in media, un miglioramento di 4,5 punti sulla scala della depressione: più del doppio rispetto agli antidepressivi chimici. Un’altra ricerca, effettuata su giovani donne colpite da gravi forme d’ansia, ha dato risultati analoghi. Ciò suggerisce, come minimo, che è un terreno fertile per cominciare a piantare i semi della ricerca. 5 Sono tornato da Michael Marmot, lo scienziato sociale che per primo scoprì il legame tra lavoro poco gratificante e depressione. Come forse ricorderete, aveva iniziato il suo viaggio in un ambulatorio a Sydney, dove i pazienti arrivavano in ospedale perché depressi da una vita schifosa, e i medici davano loro un flacone di intruglio e li invitavano a tornare a casa. Sapevo che, negli anni, Marmot aveva fatto visita e dato consigli informali al Bromley-by-Bow Center, e volevo conoscere la sua opinione. Il loro approccio è semplice, ha esordito. Quando il paziente lamenta un disturbo fisico, curano il disturbo fisico. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, non si va dal medico per questo. «Quando il soggetto segnala un problema esistenziale» ha detto, «cercano di risolvere il problema esistenziale». Everington pensa che tra un secolo considereremo una tappa fondamentale nella storia della medicina la scoperta secondo cui occorre soddisfare le esigenze emotive delle persone per aiutarle a guarire dalla depressione e dall’ansia. Fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento non si conosceva la causa del colera e questa malattia mieté migliaia di vittime. 6 Poi il dottor John Snow si accorse (guarda caso, a pochi chilometri dal poliambulatorio di Everington) che il vibrione si contrae dall’acqua, e iniziammo a costruire sistemi fognari adeguati. Così le epidemie di colera smisero di abbattersi sull’Occidente. Un antidepressivo, hanno concluso Everington e i suoi colleghi, non è soltanto una compressa, bensì qualunque cosa attenui la disperazione. Le prove sperimentali che dimostrano come i farmaci non funzionino per la maggior parte delle persone non devono indurci a rinunciare all’idea degli antidepressivi, bensì invogliarci a cercarne di migliori. E non è detto che corrispondano alla descrizione propinataci finora dalle grandi case farmaceutiche.

Secondo Saul Marmot, i benefici dell’approccio adottato dal Bromley-byBow sono «così ovvi che non so come ho fatto a non vederli prima, e non capisco perché la società non li noti». Io e Sam Everington ci trovavamo nell’affollato caffè del poliambulatorio e le persone continuavano a interromperci per parlargli o per abbracciarlo. Quella è la donna che insegna a dipingere le vetrate, mi ha detto a un certo punto. Quello è un ex poliziotto che è passato di qui mentre era di pattuglia, si è innamorato di questo posto e ora lavora per noi. È buffo, osserva, vedere gli adolescenti che gli chiedono cosa dovrebbe fare ipoteticamente qualcuno per evitare un ipotetico reato. Mentre faceva ciao all’ennesima persona, mi ha rivelato una cosa. Ha imparato che quando sei connesso con coloro che ti circondano, «recuperi la natura umana». Al centro di questa rete di connessioni risvegliate, una donna seduta al tavolo accanto al nostro, che aveva origliato la conversazione, ha sorriso a Everington. Lui l’ha guardata e ha ricambiato il sorriso.

18. Terza riconnessione: al lavoro gratificante

Ogni volta che mi sentivo ottimista riguardo alle probabilità di diffusione di questa connessione al di là di isole felici come Kotti a Berlino o il poliambulatorio di Bromley-by-Bow a East London, incappavo in un enorme ostacolo, e per lungo tempo ho creduto che fosse insuperabile. Noi trascorriamo gran parte della vita viglie lavorando, e l’87 per cento di noi prova disinteresse o addirittura rabbia per la propria occupazione. Odiare la propria professione è due volte più probabile che amarla e, se nel calcolo includete le e-mail, l’orario lavorativo si estende a una fetta sempre maggiore della nostra vita: cinquanta, sessanta ore la settimana. Non è un sassolino. È la montagna al centro dell’esistenza di quasi tutti noi. È ciò in cui investiamo il nostro tempo, la nostra vita. Perciò sì, puoi suggerire alle persone di provare delle alternative, di ambire a qualcosa di meglio, ma quando, esattamente, dovrebbero farlo? Nelle quattro ore in cui crollano sul divano e cercano di giocare con i bambini prima di infilarsi a letto per poi ricominciare tutto da capo? Ma non è questo l’ostacolo cui mi riferivo. L’ostacolo è il fatto che il lavoro poco gratificante va fatto comunque. Non è come alcune delle altre cause della depressione e dell’ansia di cui ho parlato, per esempio il trauma infantile o il materialismo estremo, che sono malfunzionamenti non necessari nel sistema più generale. Il lavoro è indispensabile. Ho pensato ai lavori che hanno fatto tutti i miei parenti. La mia nonna materna puliva gabinetti; il mio nonno materno lavorava al porto; i miei nonni paterni erano contadini; mio padre faceva il conducente di autobus; mia madre lavorava in un rifugio per vittime di violenza domestica; mia sorella fa l’infermiera; mio fratello, il magazziniere in un supermercato. Tutte queste occupazioni sono necessarie. Se le persone smettessero di svolgerle, alcuni segmenti fondamentali della società smetterebbero di funzionare. E se questi lavori – essere comandati a bacchetta, essere costretti a farli, essere condizionati dal mercato a fare cose noiose ma indispensabili – sono essenziali, anche se causano depressione e

ansia, qualcuno deve continuare a farli. Sembra una trappola inevitabile. Sul piano individuale, alcuni di noi potrebbero sfuggire. Se potete optare per un lavoro dove siete meno controllati e avete più autonomia, o se fate qualcosa che secondo voi è importante, fatelo. Probabilmente il vostro livello di ansia e di depressione scenderà, ma in un contesto dove soltanto il 13 per cento delle persone ha una professione che giudica appagante, questo consiglio sembra quasi crudele. Nella situazione attuale, la maggior parte di noi non otterrà un posto che personalmente considera gratificante. Mentre scrivo, immagino una persona che conosco e a cui voglio bene. È una madre single che fa un lavoro sottopagato per garantire un tetto ai suoi tre figli. Dirle che ha bisogno di un’occupazione più soddisfacente quando fatica ad averne una in generale sarebbe tanto meschino quanto inutile. Ho cominciato a guardare diversamente questo ostacolo – e a intravedere un modo per superarlo – solo quando sono andato in un luogo piuttosto banale: un negozietto a Baltimora dove si vendono e si riparano biciclette. Mi hanno raccontato una storia, e quella storia mi ha predisposto a un dibattito molto più ampio e alle prove sperimentali secondo cui possiamo attribuire al nostro lavoro un maggiore significato e renderlo molto meno deprimente, non solo per alcuni privilegiati, ma per l’intera società. Il giorno in cui Meredith Mitchell rassegnò le dimissioni, si domandò se stesse facendo una pazzia. Lavorava nel reparto raccolta fondi di un gruppo di promozione no profit nel Maryland. Era una tipica mansione da ufficio: le affidavano dei progetti con una scadenza e il suo compito era tenere la testa bassa e obbedire alle istruzioni. Certe volte aveva qualche buona idea per migliorare le cose. Se provava a proporla, le rispondevano di occuparsi dei suoi incarichi. Aveva una superiore che sembrava una persona gentile, ma era lunatica, e Meredith non riusciva mai a interpretare i suoi sbalzi d’umore. Sapeva che, in teoria, probabilmente il suo lavoro era utile in qualche modo, ma non sentiva mai una connessione con esso. Era come essere al karaoke: 1 il suo compito era cantare seguendo uno spartito scritto da qualcun altro. Non era una vita in cui sarebbe riuscita a scrivere la propria canzone. A ventiquattro anni, la sua unica prospettiva era continuare così per altri quaranta. Più o meno in quel periodo iniziò a provare un profondo senso d’ansia che non riusciva a capire. La domenica sera aveva il cuore che le galoppava nel petto e veniva assalita dal panico al pensiero della settimana successiva. 2 Di lì a poco cominciò a soffrire d’insonnia nelle nottate infrasettimanali.

Continuava a svegliarsi in preda a un nervosismo inspiegabile. Tuttavia, quando informò la sua superiore che voleva licenziarsi, non era affatto sicura di fare la cosa giusta. Era cresciuta in una famiglia dalle idee politiche conservatrici, e ciò che stava per fare sembrava assurdo ai suoi parenti e, se doveva essere sincera, anche a lei. Suo marito Josh aveva un piano. Lavorava nei negozi di biciclette da quando aveva sedici anni e, prima ancora, aveva praticato l’hobby del ciclismo per un lungo periodo: amava i modelli da venti pollici, con cui potevi sfrecciare per la città e fare acrobazie sui lati inclinati degli edifici. Ma vendere biciclette, si era reso conto, è un modo davvero difficile di guadagnarsi da vivere. Lo stipendio è basso. Niente contratto d’assunzione, niente malattia retribuita, niente ferie. Certe volte può essere monotono. Vivi costantemente nell’insicurezza. Non puoi fare progetti e non hai possibilità di fare carriera. Sostanzialmente sei intrappolato sul gradino più basso della gerarchia. Se mai volessi un aumento, un giorno di permesso o un periodo di malattia, dovresti supplicare il capo. Josh lavorava da qualche anno in un tipico negozio di biciclette in città. Il proprietario non era, a livello personale, una cattiva persona, ma per tutte queste ragioni la vita era piuttosto triste. Potevi sopportarla da adolescente ma, quando superavi i vent’anni e cominciavi a pensare al futuro, avevi l’impressione di avere davanti soltanto un grande vuoto. All’inizio la sua soluzione fu provare una cosa che, in gran parte, è passata di moda negli Stati Uniti. Si rivolse ai suoi dieci colleghi e chiese loro se, insieme, avrebbero preso in considerazione l’idea di fondare un sindacato interno per chiedere formalmente condizioni migliori. Occorse un po’ di tempo per convincerli, ma Josh è un tipo convincente, e alla fine tutti accettarono. Fecero una lista di richieste molto semplici. Volevano un contratto scritto. Un aumento di stipendio per due di loro, in modo che arrivassero al livello di tutti gli altri. E assemblee annuali per discutere dei salari. Non era molto, ma ritenevano che li avrebbe resi meno ansiosi e più sicuri. In realtà, la lista di richieste era più di questo. Era un modo per dire: non siamo semplici ingranaggi in una macchina, come le viti che mettiamo nelle biciclette quando le aggiustiamo. Siamo esseri umani, ciascuno con le sue esigenze. Siamo sullo stesso piano e meritiamo rispetto. All’epoca Josh non la pensava esattamente così, ma si trattava, mi ha detto in seguito, di restituire la dignità a operai che, in sostanza, si erano sentiti ripetere che non valevano

molto e che potevano essere sostituiti in qualunque momento. Riteneva tuttavia che fossero in una posizione inattaccabile, perché era certo che il negozio non sarebbe potuto andare avanti senza di loro. Quando gli presentarono le richieste, il titolare si stupì, ma promise che ci avrebbe riflettuto. Di lì a qualche giorno assunse un avvocato antisindacalista privo di scrupoli ed ebbe inizio un lungo processo per cercare di negare ai dipendenti il diritto di organizzarsi. Si trascinò per mesi; l’intero sistema legale degli Stati Uniti è studiato per intralciare la fondazione dei sindacati e facilitarne lo scioglimento. I lavoratori non potevano permettersi un legale. Il titolare cominciò a esaminare nuovi candidati per rimpiazzare gli altri. Josh sapeva che, tecnicamente, sarebbe stato illegale licenziare lui o i suoi colleghi, ma entrambe le parti erano consapevoli che i dipendenti non potevano affrontare una lunga battaglia legale per affermare quel diritto. Fu allora che Josh ebbe un’idea. Sapeva come si gestiva un negozio di biciclette. I suoi colleghi sapevano come funzionava, perché di fatto svolgevano quasi tutto il lavoro. Potremmo farcela, pensò. Potremmo mandare avanti un negozio come questo, da soli, senza il capo. Se questa fosse la solita storia americana, a questo punto Josh se ne andrebbe, fonderebbe la sua azienda e diventerebbe il Jeff Bezos delle biciclette (o almeno finirebbe per avere una casa sulla spiaggia nel Jersey Shore). Ma non voleva diventare il tipo che comanda a bacchetta tutti gli altri. Negli anni in cui aveva lavorato nei negozi di biciclette, aveva notato alcune cose. Il capo è isolato. Anche quando è una persona simpatica, è relegato nella strana posizione di dover controllare gli altri, il che gli impedisce di comunicare normalmente. Questo sistema, con un uomo ai vertici che dà ordini, non sembrava affatto proficuo. I dipendenti avevano molte buone idee per aumentare le vendite. Vedevano cose che il titolare non vedeva, ma non faceva alcuna differenza. La loro opinione era irrilevante e questo, secondo Josh, danneggiava l’attività. No, ciò che desiderava era far parte di un’azienda basata su un diverso ideale americano: la democrazia. Si documentò sulla storia delle cooperative. Il modo di lavorare che ora diamo tutti per scontato – una società organizzata come un esercito, con una persona in cima a dare ordini alle truppe, che non hanno voce in capitolo – era, scoprì, molto recente. Solo nel XIX secolo era diventato lo standard. Quando prese piede, incontrò una resistenza accanita. Molti dissero che avrebbe creato un sistema di «schiavitù del lavoro salariato» in cui gli individui sarebbero stati controllati senza sosta e

avrebbero finito per essere infelici. Alcuni, apprese Josh, avevano proposto di basare il lavoro su principi totalmente diversi. 3 Nacquero così le cooperative democratiche, alcune delle quali si erano rivelate vincenti. Così Josh espose la sua idea agli amici più cari, con cui lavorava da tempo, e a Meredith. Apriamo un negozio tutto nostro e gestiamolo come una cooperativa. In altre parole, ci dividiamo il lavoro e ci spartiamo i profitti. Prenderemo le decisioni democraticamente. Non avremo alcun capo, perché tutti saremo il capo. Lavoreremo sodo, ma in modo diverso. E forse staremo meglio. Meredith la giudicò una proposta allettante ma, quando rassegnò le dimissioni, continuava a chiedersi se fosse un progetto realistico e se avrebbe funzionato. Mentre mi avvicinavo al Baltimore Bicycle Works sull’angolo di una strada del centro, mi è sembrato un negozio come tanti altri. Al pianterreno, su un pavimento di calcestruzzo, ci sono biciclette e accessori dai colori vivaci ovunque, e un registratore di cassa dietro cui, quando sono entrato, sedeva Meredith. Quando mi ha accompagnato di sopra, ho visto una fila di biciclette sollevate da specie di carrucole, e alcuni uomini che parevano impegnati a eseguire rudimentali interventi chirurgici. Le biciclette, parzialmente smontate, venivano modificate con cacciavite e un attrezzo che non avevo mai visto prima. Mi è balenata nella testa l’immagine di George Clooney che riparava il cuore di qualcuno in ER. Alex Ticu, un trentenne dai baffoni folti, ha continuato ad aggiustare la bicicletta mentre mi parlava della sua vita prima di diventare socio della cooperativa, quando lavorava per un’azienda di catering. Sentiva la titolare una volta ogni due settimane «con una telefonata la mattina, durante la quale mi urlava dietro o mi rimproverava, e poi una telefonata la sera, durante la quale mi urlava dietro o mi rimproverava […] Ma non aveva idea di cosa facessi, perciò non ho mai capito su cosa basasse i suoi rimproveri». Come molte persone che svolgono un lavoro standard, dice, «mi svegliavo stressato nel cuore della notte. Era molto sgradevole. Aveva ripercussioni su ogni cosa». Al Baltimore Bicycle Works, dice, funziona diversamente. Si riuniscono ogni giovedì mattina per valutare insieme le decisioni aziendali. Hanno diviso il lavoro in sette aree – dal marketing alla riparazione delle biciclette rotte – e ognuno si assume la responsabilità congiunta di almeno due di esse. Se qualcuno ha un’idea per migliorare un aspetto dell’attività o per smettere di fare qualcosa di controproducente, può proporla durante la riunione. Se

qualcuno la appoggia, ne discutono tutti insieme e poi la mettono ai voti. Così, per esempio, se qualcuno vuole cominciare a offrire un nuovo marchio di biciclette, la prassi è questa. Ci sono sei soci che si spartiscono gli utili e, all’epoca della mia visita, c’erano anche tre apprendisti che avrebbero lavorato nel negozio per un anno e poi, se tutti fossero stati d’accordo, sarebbero diventati soci a loro volta. Alla fine di ogni anno, ciascuno compila una relazione in cui giudica l’operato di tutti gli altri. L’obiettivo è che tutti mettano lo stesso impegno nella cooperativa e trovino il modo di dare il migliore contributo possibile. È stato difficile avviare una nuova attività, e Meredith mi ha spiegato che per il primo anno ha lavorato dieci ore al giorno, tutti i giorni. Questo lavoro implica più responsabilità del precedente, ma Meredith ha notato qualcosa di inatteso. Ben presto l’ansia e il batticuore che la tenevano sveglia di notte sono svaniti e non sono più tornati. Perché?, ho chiesto. Ha fatto alcune ipotesi, che combaciano con ciò che avevo scoperto studiando la depressione e l’ansia. Tutti i lavori precedenti, dice, erano «esperienze fuori del mio controllo. Non importava se avevi una buona idea. Se esulava dalle tue competenze, non interessava a nessuno. Ottenevi il posto e facevi il tuo dovere, ti mettevi in fila e, forse dopo cinque anni, ricevevi una promozione e svolgevi il nuovo incarico per altri cinque». Al Baltimore Bicycle Works, invece, le sue idee – e quelle di tutti gli altri – contano. «Ho la sensazione che sia diverso perché, se ho una proposta valida o voglio migliorare qualcosa, ho la libertà di farlo e di vedere quelle idee realizzarsi». Quando suggerisce una diversa strategia pubblicitaria, o individua un errore nella riparazione di un particolare tipo di bicicletta, o trova un nuovo articolo da offrire alla clientela, può mettere in pratica la proposta e vedere i risultati. Mentre parlavo con Meredith, mi sono tornate in mente le parole di Michael Marmot. Non è il lavoro a farci ammalare, aveva affermato. Sono altre tre cose. La sensazione di essere controllati, di essere un ingranaggio insignificante in un sistema. La sensazione che, per quanto tu possa lavorare, ti tratteranno nello stesso modo e nessuno se ne accorgerà (uno squilibrio tra sforzi e ricompense, lo definisce). E la sensazione di essere in fondo alla gerarchia, di essere una persona di status inferiore che non conta nulla rispetto al boss nell’ufficio d’angolo. Al Baltimore Bicycle Works erano tutti molto più soddisfatti, meno ansiosi e meno depressi di quando lavoravano nelle organizzazioni

verticistiche che dominano la nostra società. Ma ecco la cosa che più mi ha affascinato e che mi ha mostrato come aggirare l’ostacolo apparentemente insuperabile cui ho accennato all’inizio del capitolo. Per la maggior parte dei soci, il lavoro quotidiano non è cambiato molto. Le persone che riparavano le biciclette prima le riparano anche ora. Quelli che si occupavano della pubblicità prima se ne occupano anche ora. La trasformazione della struttura, tuttavia, ha implicato una trasformazione radicale della loro visione del lavoro. Quando ho intervistato Josh in un’altra occasione, mi ha detto quali sono, a suo parere, le ragioni di questo cambiamento. «Sono fermamente convinto che la depressione e l’ansia dipendano da un senso di confusione e di impotenza […] Penso sia difficile vivere in una società dove non hai controllo su nulla […] Non controlli la tua vita economica, perché non è affatto sicuro che tu riesca a trovare lavoro e poi, se lo trovi, entri in quel posto e ci passi quaranta, cinquanta, sessanta, ottanta ore la settimana. Non hai libertà di parola né di prendere decisioni». L’ansia e la depressione gli sembrano, continua, «reazioni razionali alla situazione, anziché una sorta di malfunzionamento biologico». Questo modo di vivere e lavorare, aggiunge, è un tentativo di risolvere il problema. 4 Quando non hai voce in capitolo, il lavoro diventa sterile e insignificante. Quando invece lo controlli, puoi iniziare a riempirlo di significato. Diventa tuo. E se c’è qualcosa che ti deprime, puoi chiedere di smettere di farlo o di alternarlo a qualcosa di più gratificante, e hai buone probabilità di essere ascoltato. Può sembrare una descrizione pretenziosa per un negozio di biciclette, ma mi sembra che lì abbiano trovato un modo di collaborare abbastanza simile a quello delle tribù partecipative in cui gli esseri umani vivevano nelle savane africane millenni fa, una struttura in cui tutti sono indispensabili e ciascuno ha un ruolo appagante (questo sistema ha anche molti vantaggi che gli uomini preistorici non avevano: nessun grande predatore entrerà nel Baltimore Bicycle Works per divorarli, e vivranno ben oltre la trentina). Questo modello, ho concluso, offre diverse forme di riconnessione allo stesso tempo. Ti riconnetti con il lavoro perché hai la sensazione di averlo scelto, perché vedi la differenza che produce e perché ne trai vantaggio direttamente. Ti riconnetti al senso dello status, perché non subisci l’umiliazione di essere comandato a bacchetta o di ricevere ordini. E ti riconnetti al futuro: anziché temere di poter essere licenziato da un momento

all’altro, sai dove sarai tra un anno o tra cinque, se decidi di restare e se continui a lavorare sodo. Naturalmente, mi hanno detto, hanno ancora i loro momentacci. Ci sono giorni in cui devono pungolarsi a vicenda per fare qualcosa, in cui non hanno voglia di lavorare, in cui occorre portare a termine mansioni noiose. Uno dei primi soci ha ritenuto che la responsabilità di partecipare alla direzione dell’azienda fosse eccessiva e ha preferito tornare a un lavoro impiegatizio più tradizionale. Il Baltimore Bicycle Works non è una soluzione magica, ma «quando ho iniziato a lavorare lì, ho smesso di soffrire d’insonnia» dice Meredith, le cui parole trovano conferma in quelle di diversi colleghi. Pensano anche che il loro sistema sia più efficace, che il loro negozio sia davvero migliore. Prima c’era una sola persona deputata a risolvere tutti i problemi, e farsi ascoltare era una fortuna rara. Ora ce ne sono ben nove. Al bar e alle feste, quando Meredith parla del suo lavoro, le persone sono spesso incredule. «Gli altri si stupiscono sempre. Non capiscono come si possa gestire un’attività in questo modo» dichiara. Però risponde che tutti hanno vissuto in un ambiente collettivo, in una famiglia o in una squadra. Sai come funziona. «Ma d’un tratto, quando lo trasponi nel contesto del guadagno o della gestione di un’azienda, rimangono tutti a bocca aperta. Secondo me, non è così complicato. Le persone vogliono renderlo più difficile di quanto sia in realtà […] Non riescono neppure a immaginare le sinergie da cui nascono semplici decisioni […] Mi piace precisare che è un’organizzazione democratica. Non è un concetto sconosciuto. Viviamo in America. Diciamo di essere una democrazia, ma le persone sono molto lontane da questo concetto». I nostri politici decantano costantemente la democrazia come il sistema migliore. Il modello ideato da Josh è soltanto la sua estensione al luogo dove passiamo la maggior parte del tempo. Josh ricorda come la democrazia sia spesso solo un fatto propagandistico: le persone sono costrette a lavorare in un ambiente che spesso non sopportano e a farlo per quasi tutta la loro vita vigile, vedendo finire i profitti della loro fatica nelle tasche di chi comanda, ma vengono illuse di «essere persone libere». Alle feste, Meredith si sente obiettare che, senza un capo, tutti se ne starebbero sicuramente lì a girarsi i pollici. E invece no, replica lei, «il negozio è la nostra fonte di sostentamento, perciò, se battessimo la fiacca, non guadagneremmo un bel niente». Ritiene che oltre a questo ci sia dell’altro. Da questa esperienza ha imparato che «le persone vogliono

lavorare. Tutti vogliono lavorare, sentirsi utili e avere uno scopo». 5 L’umiliazione e la subordinazione che vigono in molti posti di lavoro possono soffocare questo desiderio o indurti ad accantonarlo, ma questa esigenza è sempre presente e nell’ambiente giusto riemerge. Gli esseri umani «vogliono avere la sensazione di fare la differenza per gli altri, di aver migliorato il mondo in qualche modo». In realtà, ci sono prove valide che dimostrano come questo a lungo termine incrementi l’efficienza. Un importante studio condotto dagli scienziati della Cornell University ha esaminato trecentoventi piccole aziende. Metà aveva un controllo verticistico, l’altra permetteva ai dipendenti di gestirsi da soli secondo un modello più simile al sistema democratico del Baltimore Bicycle Works. Le attività del secondo gruppo sono cresciute, in media, quattro volte più di quelle dell’altro. 6 Perché? Alex Ticu, che stava ancora sottoponendo una bicicletta a un intervento chirurgico, mi ha confidato che, per la prima volta, è orgoglioso di ciò che fa. Scott Myers, un altro addetto alle riparazioni, ha aggiunto: «È sicuramente molto gratificante quando arrivi, vedi il negozio e non lo consideri un posto di lavoro, ma qualcosa che hai contribuito a creare». Certe volte, riprende Meredith mentre guardiamo l’esposizione di biciclette, sembra di essere «all’inizio di un cambiamento culturale». Perché qualcuno dovrebbe voler lavorare secondo il vecchio metodo, si domanda lo staff del Baltimore Bicycle Works, quando può riprendere il controllo della propria occupazione e renderla di nuovo appagante? Ho scoperto che in tutto il mondo esistono decine di migliaia di aziende democratiche come il Baltimore Bicycle Works. Diversi illustri scienziati sociali hanno provato a ottenere fondi per studiare questo fenomeno, 7 ma le loro richieste sono state tutte respinte, dunque non abbiamo molti dati. Come ho accennato prima, tuttavia, ci sono numerose prove che la sensazione di essere controllati e comandati a bacchetta sul lavoro e di essere in fondo alla gerarchia rende più depressi e più ansiosi. 8 Sembra giusto, dunque, ipotizzare che la diffusione delle cooperative avrebbe un effetto antidepressivo, anche se sono necessari molti altri studi. Sono consapevole che questa ricetta per la salute mentale potrebbe ridursi alle quattro parole che, nella nostra cultura, tutti capiscono istintivamente: scegli il tuo capo. Il lavoro non sarebbe un calvario, qualcosa da sopportare. Sareste parte di una tribù democratica e la controllereste tutti nella stessa misura. Uno degli slogan politici più popolari degli ultimi anni è stato

«riprenditi il controllo». Le persone fanno bene a identificarsi con queste parole – hanno perso il controllo e desiderano riaverlo – ma questo motto è stato usato da forze politiche come quelle che sostenevano la Brexit o Donald Trump, forze che daranno loro ancora meno controllo. Questo, ho concluso, è un modo per riappropriarsi di quello slogan e per aiutare le persone a conquistare ciò cui giustamente aspirano. Alla fine del nostro ultimo incontro, Meredith mi ha detto che, a suo parere, questo desiderio di avere un lavoro gratificante – di avere voce in capitolo su ciò che occupa la maggior parte della nostra vita – è presente, appena sotto la superficie, in chiunque. «La felicità è avere davvero la sensazione di aver avuto un effetto positivo su un altro essere umano. Penso che molte persone vogliano un lavoro così» ha osservato. Si è guardata intorno nel negozio che ha costruito e che controlla con i suoi colleghi. «Non trovi?»

19. Quarta riconnessione: ai valori importanti

Quando ho cercato di mettere in pratica ciò che avevo imparato – di cambiare, per essere meno depresso – ho provato una sensazione sorda e insistente. Continuavo a ricevere segnali secondo cui la strada verso la felicità era semplice. Compra delle cose. Ostentale. Sfoggia il tuo status. Accumula oggetti. Questi impulsi mi chiamavano da ogni spot pubblicitario e da moltissime interazioni sociali. Avevo imparato da Tim Kasser che questi sono valori spazzatura, una trappola capace di generare solo altra ansia e depressione. Ma come si fa a superarli? Capivo perfettamente le argomentazioni contro questi valori. Ne ero convinto. Ma eccoli lì, nella mia testa e tutt’intorno, che tentavano di imprigionarmi. Ho scoperto che, per iniziare, Kasser propone due modi per liberarsi. Il primo è difensivo; il secondo proattivo, ossia è un metodo per individuare valori differenti. Quando respiriamo male per colpa dell’aria inquinata, eliminiamo la causa dell’inquinamento: vietiamo alle fabbriche di pompare fuori piombo. La pubblicità, dice Kasser, è una forma di inquinamento mentale. Perciò la soluzione è ovvia. Limitare o eliminare l’inquinamento mentale, come facciamo con quello fisico. Non è un’idea astratta. È già stata testata. Per esempio, San Paolo, in Brasile, veniva lentamente soffocata dai cartelloni pubblicitari. 1 Coprivano ogni spazio possibile e immaginabile: loghi e marchi vistosi dominavano la skyline ovunque si guardasse. Facevano sembrare brutta la città e sentire brutte le persone, esortandole a consumare senza sosta. Così nel 2007 le autorità cittadine presero un’iniziativa coraggiosa. Proibirono la pubblicità all’aperto di qualsiasi tipo. La chiamarono Lei Cidade Limpa (legge città pulita). Mentre i tabelloni venivano rimossi a uno a uno, gli abitanti cominciarono a vedere i begli edifici antichi che erano rimasti nascosti a lungo. La costante stimolazione dell’ego attraverso gli inviti a spendere fu cancellata e sostituita da opere d’arte pubbliche. Il 70 per

cento circa dei residenti dice che il cambiamento ha reso San Paolo un posto migliore. Ci sono andato di persona, e quasi tutti sostengono che, in qualche modo, la città sembra psicologicamente più pulita e più sgombra di prima. Potremmo prendere questa intuizione e approfondirla. Diversi paesi, tra cui la Svezia e la Grecia, hanno vietato la pubblicità diretta ai bambini. Mentre scrivevo questo libro, è nata una controversia dopo che un’azienda produttrice di alimenti dietetici aveva affisso nella metropolitana di Londra dei manifesti che chiedevano E TU SEI PRONTA PER LA PROVA COSTUME? accanto alla foto di una donna magra come un chiodo. 2 Messaggio implicito: se sei uno del 99,99 per cento degli esseri umani che non sono altrettanto in forma, non sei ‘pronto’ per mostrare il tuo corpo in spiaggia. C’è stata una decisa reazione collettiva e alla fine i manifesti sono stati proibiti. In tutta Londra è iniziata un’ondata di proteste, con le persone che deturpavano i manifesti con le parole LA PUBBLICITÀ TI RIEMPIE LA TESTA DI STRONZATE. Ho pensato: immagina se avessimo un severo ente di controllo della pubblicità che vietasse gli spot capaci di sminuirci da qualunque punto di vista. Quanti ne sopravvivrebbero? È un obiettivo raggiungibile, ed eliminerebbe gran parte dell’inquinamento mentale dalle nostre teste. Questa idea è valida di per sé, ma credo che la battaglia per realizzarla potrebbe stimolare un l'ufficio Pubbliche Relazioni di un sistema economico che funziona facendoci sentire inadeguati e invitandoci costantemente a spendere. Se cominciamo a parlare davvero di come questo influisca sulla nostra salute mentale prendendo iniziative anche modeste come questa, ci rendiamo conto della portata dei cambiamenti da attuare. Un esperimento che ha cercato di andare a fondo della questione – non solo bloccando i messaggi negativi che convogliano i nostri desideri verso la spazzatura, ma anche verificando se riusciamo a tirare fuori i valori positivi – fornisce un’indicazione su come procedere. Ha condotto alla seconda, e più emozionante, strada del ritorno verso il benessere mentale esplorata da Kasser. I ragazzi ripetevano continuamente una cosa a Nathan Dungan. Avevano bisogno di oggetti, di beni di consumo, ed erano frustrati – anzi, incavolati neri – perché non li ricevevano. I loro genitori si rifiutavano di comprare le scarpe da ginnastica, i vestiti firmati o le ultime diavolerie elettroniche che desideravano con tutto il cuore, e questo li gettava in un vero e proprio panico esistenziale. I grandi non capivano quanto fosse importante avere tutto questo?

Dungan non aveva immaginato che avrebbe sentito cose come quella. Era un uomo di mezza età che aveva lavorato per anni nei servizi finanziari in Pennsylvania, fornendo consulenze sugli investimenti. Un giorno stava parlando con una pedagogista in una scuola media e la donna gli aveva spiegato che i ragazzi con cui lavorava – appartenenti al ceto medio, non ricchi – avevano un problema. Pensavano che la felicità e il senso della vita derivassero dall’acquisto di oggetti. Quando i genitori non potevano permetterseli, sembravano sinceramente angosciati. Si era chiesta se Dungan potesse andare a scuola e parlare ai ragazzi delle realtà finanziarie. Lui aveva accettato con una certa esitazione, ma quella decisione si sarebbe rivelata molto istruttiva e l’avrebbe indotto a mettere in discussione molte delle cose che dava per scontate. Arrivò credendo che il suo compito fosse ovvio. Era lì per insegnare ai ragazzi e ai loro genitori a programmare le spese e a vivere secondo le loro possibilità. Poi, però, si scontrò con questo muro di bisogni, con questa fame vorace di oggetti. Era sconcertato. Perché li desideravano così tanto? Qual è la differenza tra le scarpe da ginnastica con il logo della Nike e quelle senza? Perché il divario è così notevole da mandare i ragazzi in crisi? Cominciò a domandarsi se avrebbe dovuto parlare non di come programmare le spese, bensì del perché i teenager volessero quelle cose. Il suo ragionamento andò oltre. Vedere gli adolescenti smaniosi di possedere cose apparentemente insignificanti lo spinse a chiedersi: noi adulti siamo così diversi? Non aveva idea di come iniziare la conversazione, così cominciò a improvvisare. E questo approccio sfociò in un sorprendente esperimento scientifico in cui Dungan si ritrovò a collaborare con Kasser. Di lì a poco, in una sala conferenze a Minneapolis, Dungan conobbe le famiglie che avrebbero partecipato all’esperimento. Erano un gruppo di sessanta genitori con figli adolescenti, tutti seduti davanti a lui. Nei tre mesi successivi, Dungan avrebbe avuto una serie di lunghi incontri con loro per indagare queste questioni e le alternative (allo stesso tempo, l’esperimento seguì altre sessanta famiglie che non ebbero contatti con Dungan né ricevettero aiuto di altro tipo. Erano il gruppo di controllo). Anzitutto Dungan distribuì dei fogli di lavoro con una lista di domande a risposta aperta. Spiegò che non esisteva una risposta esatta: voleva soltanto che iniziassero a riflettere sui quesiti, uno dei quali diceva: «Per me, i soldi sono…» e i partecipanti dovevano riempire lo spazio vuoto.

In un primo momento le persone erano confuse. Nessuno aveva mai fatto loro una domanda simile. Molti scrissero che i soldi erano troppo pochi. O una fonte di stress. O una cosa cui cercavano di non pensare. Quindi si divisero in gruppi di otto persone ed esaminarono le risposte, non senza una certa esitazione. Molti ragazzi non avevano mai sentito i loro genitori parlare di preoccupazioni economiche. Poi i gruppi si soffermarono sul quesito: perché spendo? Iniziarono a elencare le ragioni per cui acquistavano i beni di prima necessità (erano ovvie: dovevano mangiare) e poi quelle per cui compravano cose superflue. Certe volte, dissero, acquistavano oggetti voluttuari quando si sentivano giù. Spesso, dichiararono i teenager, desideravano quelle cose perché volevano provare un senso di appartenenza: i vestiti firmati permettevano di essere accettati dal gruppo o conferivano loro un certo status. Mentre discutevano, emerse piuttosto rapidamente – senza alcuna esortazione da parte di Dungan – che spesso l’azione di spendere non riguarda l’oggetto in sé, bensì il raggiungimento di una condizione psicologica di benessere. Queste intuizioni non erano inconsce. I soggetti le esposero molto velocemente anche se, quando le espressero ad alta voce, parvero un tantino sorpresi. Ne erano consapevoli appena sotto la superficie, ma non erano mai stati invitati a manifestare questo sentimento latente. Poi Dungan li pregò di elencare ciò cui tenevano di più, le cose che consideravano più importanti nella vita. Le risposte più frequenti furono provvedere alla famiglia, dire la verità e aiutare gli altri. Un quattordicenne scrisse semplicemente «amore» e, quando lo lesse, scese un silenzio improvviso. «Non si sentiva volare una mosca» mi ha detto Dungan. «Ciò che si stava chiedendo era: fino a che punto mi interessa essere connesso?» Queste due domande – «Per cosa spendi i tuoi soldi?» e «Cosa ti sta davvero a cuore?» – misero in evidenza un divario tra le risposte. Emerse che i partecipanti accumulavano e acquistavano oggetti che, in sostanza, non coincidevano con le loro priorità. Perché? Dungan si era documentato sul perché desideriamo tutti questi beni materiali. Aveva scoperto che l’americano medio è esposto fino a cinquemila stimoli pubblicitari al giorno, dai cartelloni ai loghi sulle T-shirt, agli spot televisivi. È il mare in cui nuotiamo. «Ti raccontano che se [compri] questa cosa, ti renderà più felice, perciò sei bombardato da questo messaggio migliaia di volte al giorno» mi ha spiegato. «Chi dà forma a questo racconto?» si interrogò. Non persone che hanno capito cosa ci renderà

davvero felici e che sono così generose da diffondere la buona novella, bensì persone che hanno un solo scopo: convincerci a comprare il loro prodotto. Nella nostra cultura, concluse, finiamo per mettere il pilota automatico materialista. Siamo costantemente tempestati da messaggi secondo cui staremo meglio (e saremo meno puzzolenti, meno grassi e, in generale, meno inutili) solo se acquisteremo un particolare prodotto; e poi se compreremo un’altra cosa, e un’altra ancora, e così via, finché la nostra famiglia ci acquisterà la bara. Dungan si domandò: se le persone smettessero di pensare a questo ed esaminassero delle alternative, come stava facendo il suo gruppo, riusciremmo a spegnere il pilota automatico e a riprendere il controllo di noi stessi? Alla seduta successiva pregò i partecipanti di fare un breve esercizio: menzionare un bene di consumo che non avevano potuto fare a meno di comprare. Dovevano descrivere l’oggetto, spiegare come avessero saputo della sua esistenza, perché l’avessero desiderato, come si fossero sentiti dopo averlo acquistato e dopo averlo posseduto per qualche tempo. Durante la discussione, molti si resero conto di una cosa. Il piacere era spesso nel desiderio e nell’attesa. È capitato a noi tutti di ottenere finalmente ciò che volevamo, di portarlo a casa e di sentirci stranamente delusi, per poi constatare che di lì a poco il ciclo del desiderio ricomincia da capo. I partecipanti cominciarono a parlare di come spendevano il denaro. Pian piano capirono quale fosse il nocciolo del problema. Spesso, anche se non sempre, l’acquisto «colma una lacuna. Riempie una specie di vuoto della solitudine». Ma spingendoli verso quell’euforia effimera, li allontanava anche dalle cose cui tenevano davvero e che avrebbero garantito loro un appagamento a lungo termine. Avevano la sensazione di essere diventati superficiali. Alcuni – ragazzi e adulti – rifiutarono fermamente questa tesi. Dissero che gli oggetti li gratificavano e che volevano continuare a comprarli. La maggior parte, tuttavia, era ansiosa di cambiare mentalità. Iniziarono a parlare della pubblicità. In un primo momento, quasi tutti osservarono che poteva influenzare gli altri, ma che non aveva molto potere su di loro. «Tutti vogliono essere più furbi della pubblicità» ha raccontato Dungan. Ma fece in modo di riportare la discussione sui beni di consumo che desideravano così tanto. Non passò molto tempo prima che i membri del gruppo ammettessero: «Non spenderebbero miliardi di dollari [in pubblicità] se non ha alcun impatto. Sarebbe assurdo. Nessuna azienda lo farebbe mai».

Fino a quel momento, l’esperimento aveva spinto le persone a mettere in dubbio i valori spazzatura che ci vengono propinati da tempo. Ora arrivava la parte più interessante. Dungan spiegò la differenza, di cui ho già parlato, tra valori estrinseci e intrinseci. Chiese ai partecipanti di fare una lista dei loro valori intrinseci, delle cose che consideravano importanti in sé e non per i loro eventuali benefici. Poi domandò: in che modo cambierebbe la vostra vita se agiste in base a questi altri valori? Una discussione sull’argomento prese il via. I soggetti rimasero stupefatti. Veniamo costantemente incoraggiati a parlare dei valori estrinseci, ma gli inviti ad analizzare quelli intrinseci sono rari. Alcuni dissero, per esempio, che avrebbero lavorato meno e passato più tempo con i loro cari. Dungan non li aveva condizionati in alcun modo. Bastò fare qualche domanda a risposta aperta perché il gruppo ci arrivasse spontaneamente. Le motivazioni intrinseche sono sempre presenti, si rese conto Dungan; «sopite, stavano venendo alla luce». Conversazioni come quella, intuì, non «si svolgono nella cultura odierna. Non diamo né creiamo spazio [per] queste discussioni fondamentali, aggravando così l’isolamento». Ora che i partecipanti avevano capito di essere stati ingannati dai valori spazzatura e avevano identificato i loro valori intrinseci, Dungan chiese: sarebbero stati in grado – tutti insieme – di seguire gli obiettivi intrinseci? Invece di rispondere alla pubblicità, sarebbero riusciti a rispondere ai valori più importanti e a un gruppo che cercava di fare la stessa cosa? Avrebbero coltivato consapevolmente i valori significativi? Dopo aver individuato i suoi obiettivi intrinseci, durante gli incontri successivi ognuno avrebbe descritto i passi che aveva fatto per raggiungerli. Avrebbero dovuto rispondere l’uno all’altro. Ora avevano l’occasione per riflettere su cosa volevano veramente nella vita e su come ottenerlo. Avrebbero parlato di come erano riusciti a lavorare meno e a passare più tempo con i figli, per esempio, o di come avevano cominciato a suonare uno strumento o a scrivere. Nessuno, però, sapeva se l’esperimento avrebbe avuto un effetto concreto. Quelle conversazioni avrebbero davvero ridotto il materialismo delle persone e aumentato i loro valori intrinseci? Alcuni scienziati sociali indipendenti misurarono il livello di materialismo dei partecipanti all’inizio dello studio e poi di nuovo alla fine. Dungan aspettò i risultati con un certo nervosismo. Si era trattato di un piccolo intervento nel mezzo di una vita di bombardamento consumistico

costante. Avrebbe fatto qualche differenza? Quando arrivarono i dati, Dungan e Kasser esultarono. Kasser aveva già dimostrato che il materialismo aveva una forte correlazione con l’aumento della depressione e dell’ansia. Questo esperimento confermava, per la prima volta, che era possibile intervenire nella vita delle persone in modo da abbassare notevolmente il livello di materialismo. I partecipanti avevano finito per diventare molto meno materialisti e per avere molta più autostima. Era un effetto innegabile e misurabile. 3 Fu una prima dimostrazione di quanto sia efficace uno sforzo deciso per invertire i valori che ci rendono infelici. Le famiglie che presero parte allo studio non sarebbero mai state in grado di attuare questi cambiamenti da sole, ritiene Dungan. «Quella connessione e quella comunità hanno aiutato le persone a uscire dall’isolamento e dalla paura. Questo argomento spaventa molti». Soltanto insieme, in gruppo, erano riusciti a «rimuovere quegli strati [in modo da] arrivare davvero al significato, al cuore: la loro determinazione». Ho chiesto a Dungan se sia possibile incorporare questi insegnamenti nella vita normale, se tutti abbiamo bisogno di fondare e di iscriverci a una sorta di Alcolisti anonimi per i valori spazzatura, una sede in cui incontrarci per mettere in discussione le idee responsabili della depressione e imparare invece ad ascoltare i valori intrinseci. «Direi… assolutamente sì» ha risposto. Quasi tutti intuiamo di aver attribuito importanza alle cose sbagliate per troppo tempo. Dobbiamo creare, mi ha detto, un «contro-ritmo» ai valori spazzatura che hanno minato la nostra salute mentale. In quella spoglia sala conferenze a Minneapolis, Dungan ha dimostrato una cosa: non siamo per sempre prigionieri dei valori che ci fanno stare male. Incontrando altre persone, riflettendo attentamente e riconnettendoci con le cose davvero importanti, possiamo scavare un tunnel che ci riconduca ai valori significativi.

20. Quinta riconnessione: la gioia compartecipe e il superamento della dipendenza dall’io 1

Non vedevo la mia amica Rachel da quasi tre anni quando è entrata nella mia camera d’albergo in una cittadina nel cuore dell’America, si è sdraiata sul letto ed è scoppiata a ridere. Quando mi sono trasferito a New York, Rachel Shubert è stata una delle prime persone con cui ho legato. Ci siamo seduti uno accanto all’altra durante una lezione universitaria, entrambi un tantino disorientati, dalla città e dalla vita. Rachel era intrappolata in un matrimonio che, per varie ragioni, non funzionava. Stava cercando di costruirsi una carriera e, saltò fuori in seguito, per restare incinta del primo figlio. Io ero reduce da una serie di crisi. Avevamo molte cose in comune, e una di queste era la tendenza a sparlare. Rachel aveva vissuto in Svizzera per due lunghi anni; mio padre è nato in Svizzera e, da bambino, mi costringeva a passare le vacanze laggiù; così sparlavamo degli svizzeri. Sparlavamo dei compagni di corso. Sparlavamo del docente. Ridevamo molto. Ma spesso, anche se non sempre, era una risata amara, di quelle che non ti lasciano un senso di benessere. C’era molta gioia nella nostra amicizia – l’amore di Rachel per la commedia britannica ci ha uniti per la vita – ma quando ci siamo conosciuti c’era anche molta rabbia. Dopo la fine del suo matrimonio, Rachel è tornata nella sua cittadina rurale nell’Illinois e ci siamo persi di vista per un po’. Quando sono andato a trovarla, tuttavia, non ho tardato a notare un cambiamento nel suo carattere. Sembrava più serena e chiaramente meno depressa. Le ho chiesto cosa fosse successo. Quando era tornata a casa, ha risposto, aveva provato a prendere degli antidepressivi e inizialmente era stata meglio, ma poi aveva ricominciato a stare male. Anziché aumentare la dose come consigliato dal medico, aveva riflettuto molto sul suo approccio alla vita. Dopo aver letto diversi libri, mi ha spiegato, aveva trovato alcuni strumenti che l’avevano aiutata a vivere diversamente e la cui efficacia era dimostrata da alcune prove

scientifiche. Si era resa conto di essere spesso arrabbiata e invidiosa. Si vergognava di ammetterlo, perché sapeva di fare la figura della cattiva ma, tanto per citare un esempio, aveva una parente che la faceva ammattire da anni. Era simpatica, e Rachel non aveva alcun motivo per detestarla, ma ogni suo successo professionale o familiare le sembrava uno smacco e alimentava la sua antipatia per l’altra e il suo disprezzo per se stessa. L’invidia si era estesa a tutta la sua vita, guastandole l’umore ogni giorno. Pareva una delle principali cause della sua depressione e della sua ansia. Facebook era diventato insopportabile: era come se tutti ostentassero la loro superiorità, e quello che Rachel aveva soprannominato ‘mostro dell’invidia’ era ormai incontrollabile. Negli anni aveva provato, da sola, a escogitare piccoli trucchi che la facessero stare meglio. Quando vedeva qualcuno che suscitava la sua invidia, trovava una ragione per sminuirlo. Okay, sei bellissima, ma tuo marito è orrendo. Okay, hai un lavoro stimolante, ma non vedi mai i tuoi figli. Era, mi ha detto, il suo «metodo empirico per cercare di attenuare l’invidia». Le dava sollievo, ma solo per un momento. Si era convinta di avere qualcosa che non andava ma, quando aveva cominciato a documentarsi sull’invidia, aveva scoperto che era la nostra cultura a spingerla a sentirsi così. Era stata educata a competere e a confrontarsi costantemente. «Siamo molto individualisti» mi ha spiegato, e ci sentiamo ripetere senza sosta che la vita è «un gioco a somma zero. La torta ha solo un certo numero di fette, perciò se qualcuno altro ha successo, bellezza o qualunque altra cosa, in qualche modo ne lascia meno per te. Oppure, se riesci a ottenerli anche tu, sono meno gratificanti perché ce li hanno molte altre persone». Veniamo educati a pensare che la vita sia una lotta per accaparrarsi le poche risorse disponibili, «anche se si tratta di cose come l’intelligenza umana, che nel mondo può crescere all’infinito». Se tu diventi più in gamba, questo non rende meno in gamba me, ma siamo stati abituati a credere il contrario. Così Rachel sapeva che se (per ipotesi) avesse scritto un libro magnifico, e allo stesso tempo anche la sua parente avesse scritto un libro magnifico, «avrebbe frenato il mio entusiasmo, pur non facendo nulla per sminuire la mia opera, che sarebbe stata completamente diversa». Oscilliamo tra invidiare gli altri e cercare di suscitare la loro invidia. «È come se negli anni avessimo imparato benissimo dai pubblicitari. Siamo noi stessi esperti di

marketing e sappiamo, in modo inconscio, come presentare e vendere la nostra vita. Assorbiamo questa mentalità dalla società». Così metti in mostra la tua vita su Instagram e durante le conversazioni come se fossi il responsabile del marketing di te stesso e «cercassi di convincere gli altri a comprare nient’altro che l’idea di essere anche tu straordinario e degno d’invidia. Hai presente?» Rachel aveva capito che qualcosa non andava quando, un giorno, le avevano riferito che una persona era invidiosa di lei e la notizia le aveva procurato un brivido di piacere. «Mi vergogno di confessarlo» mi ha detto. Non voleva essere così. Come me, è una convinta sostenitrice dello scetticismo e della razionalità, perciò aveva cercato tecniche che, secondo gli studi scientifici, apparivano fondate, e aveva scoperto l’antico metodo della ‘gioia compartecipe’, uno fra i tanti approcci che si sono dimostrati sorprendentemente efficaci. È molto semplice, afferma. Si tratta di un metodo per alimentare «l’opposto della gelosia e dell’invidia […] Consiste semplicemente nell’essere felici per gli altri». Mi ha spiegato come funziona. Chiudi gli occhi e visualizzi te stesso. Immagini che ti succeda qualcosa di bello: innamorarti oppure scrivere un libro di cui vai fiero. Senti la gioia che ne deriverebbe. Lasci che ti pervada. Poi visualizzi qualcuno cui vuoi bene e immagini che gli accada qualcosa di meraviglioso. Senti la gioia che ne deriverebbe e ti lasci pervadere anche da quella. Fin qui, tutto chiaro. Quindi visualizzi qualcuno che non conosci, per esempio la cassiera del supermercato. Immagini che le capiti qualcosa di magnifico e ti sforzi di essere contento per lei, di provare una gioia sincera. A questo punto diventa più difficile. Visualizzi qualcuno che non ti piace e immagini che gli accada qualcosa di bello. Ti sforzi di essere contento per quella persona, di provare la stessa gioia che proveresti per te stesso o per qualcuno che ami. Immagini quanto sarebbe felice e commosso. Infine visualizzi qualcuno che odi o che invidi davvero. Per esempio, nel caso di Rachel, la sua parente. Cerchi di essere contento per lei, di provare una gioia autentica e pura. «Durante la meditazione può darsi che tu non ti senta affatto così. Dire quelle cose potrebbe quasi ucciderti» mi ha spiegato. «Forse odi quella persona e il suo successo, ma lo dici». Ripeti l’esercizio ogni giorno, per quindici minuti. Le prime settimane, Rachel aveva pensato che fosse inutile. Non era cambiato niente. Poi, però,

aveva cominciato a notare che «non provavo lo stesso fastidioso pugno allo stomaco. Non c’era più, punto e basta». I sentimenti negativi si erano dissolti a poco a poco. L’invidia non la tormentava più diverse volte al giorno. Più usava questa tecnica, e più quei sentimenti si affievolivano. Riferendosi alla sua parente, osserva: «Non è che non la invidi più. È solo che l’invidia si è ridotta al punto di non farmi più soffrire nello stesso modo». Questo tipo di meditazione, aggiunge, richiede di «ripromettersi di cambiare, quasi come se dicessi: ‘Voglio provare sentimenti diversi nei tuoi confronti’ e lo ripetessi abbastanza a lungo da provarli veramente. Penso che funzioni a un livello al di sotto della normale consapevolezza». Continuando a esercitarsi, si era accorta di un’altra cosa. Lo scopo della gioia compartecipe è provare meno invidia, ma un obiettivo ancora più importante è cominciare a vedere la felicità altrui non come un handicap, bensì come motivo di gioia anche per te. Un giorno, al parco, aveva visto una coppia di sposi che posavano per le fotografie. In passato sarebbe stata invidiosa e si sarebbe consolata trovando qualche difetto in uno dei due. Invece aveva provato un impeto di gioia che l’aveva accompagnata per il resto della giornata. Non aveva avuto la sensazione che la felicità della sposa riducesse la sua, ma al contrario che la aumentasse. Non aveva confrontato mentalmente la giovane con se stessa nel giorno delle sue nozze. Non avrebbe mai più rivisto la coppia, ma gli occhi le si erano riempiti di lacrime di gioia compartecipe. Le ho chiesto che tipo di emozione fosse. «Felicità. Calore... e un pizzico di tenerezza» ha risposto. «È quasi come se le persone diventassero tuoi figli. La stessa felicità tenera e calda che provi per tuo figlio quando si diverte ed è soddisfatto o quando ottiene qualcosa che gli piace, la provi per un perfetto estraneo, ed è incredibile. È quasi come guardarle con gli occhi di un genitore affettuoso che desidera soltanto la felicità e la serenità di qualcuno cui vuole bene, e secondo me c’è tenerezza in questo». Si era stupita di essere tanto cambiata. «Credi che certe cose siano immutabili» dice, «invece non lo sono. Puoi essere divorato dall’invidia e pensare che faccia semplicemente parte della tua natura, e scopri di poterla modificare facendo una cosa molto elementare». Mentre io e Rachel trascorrevamo qualche giorno insieme passeggiando e mangiando nelle tavole calde, ho notato un vero cambiamento in lei e – ironia della situazione – l’ho invidiata. Mi ha guardato e ha detto: «Ho cercato la felicità per me stessa per tutta la vita e sono esausta. Mi sembra di non

essermi avvicinata nemmeno di un centimetro. Dov’è il limite? L’asticella continua ad alzarsi». Ma questo diverso modo di ragionare, ha aggiunto, pareva offrire un vero senso di piacere e un distacco dai pensieri deprimenti e ansiosi che l’avevano tormentata. «Nella vita ci saranno sempre motivi per cui essere infelici. Se riesci a essere felice per gli altri, ci sarà sempre una scorta di felicità disponibile per te. La gioia per procura sarà pronta per l’uso in milioni di modi ogni singolo giorno. Se vuoi guardare gli altri ed essere felice per loro, puoi essere felice ogni singolo giorno, a prescindere da ciò che ti sta succedendo». Quando aveva adottato questa tecnica, si era resa conto che era un ribaltamento totale di quello che le avevano insegnato. È consapevole che per molte persone è una filosofia da sfigati. Non ce la fai, così devi accontentarti di gioire quando ce la fa qualcun altro. Perderai grinta. Resterai indietro nella costante corsa per il successo. Secondo Rachel, però, questa è una falsa dicotomia. Perché non puoi essere felice per gli altri e per te stesso? Perché essere divorato dall’invidia dovrebbe renderti più forte? Le cose che la società l’aveva abituata a invidiare erano, aveva capito a poco a poco, le meno preziose che abbiamo: «Chi è invidioso del buon carattere di qualcun altro? Chi è invidioso delle premure di un marito verso la moglie? Non provi invidia per queste cose. Semmai ammirazione, ma non invidia. Invidi altre cavolate: i beni materiali o lo status». Continuando a meditare nel corso degli anni, Rachel aveva iniziato a capire che anche se avesse avuto quelle cose, non sarebbe stata felice. Non sono ciò che conta davvero. «Credo che questo concetto potrebbe aiutare moltissimi depressi» ha detto, indicandomi le prove scientifiche, che poi ho studiato nel dettaglio. Il più grande studio scientifico sull’uso della meditazione come trattamento contro la de-pressione ha scoperto qualcosa di veramente interessante: è emerso che i depressi avevano molte più probabilità di guarire se frequentavano un corso di meditazione per otto settimane, rispetto a un gruppo di controllo che non lo seguiva. Il 58 per cento circa del gruppo di controllo ha avuto una ricaduta, mentre solo il 38 per cento di coloro che avevano partecipato al corso si ammalava di nuovo. 2 Un’enorme differenza. Secondo altri studi, la meditazione è altrettanto utile per gli ansiosi. Un’altra ricerca che restringeva leggermente il campo di indagine ha rilevato che la meditazione è particolarmente efficace per chi è caduto in depressione in seguito ad abusi subiti durante l’infanzia. 3 Questi individui hanno un tasso di miglioramento superiore del 10 per cento rispetto agli altri.

Ma ero impaziente soprattutto di leggere le prove scientifiche sul tipo di meditazione che mi aveva insegnato Rachel, per scoprire se cambiasse davvero le persone. Se partecipavi allo studio più importante condotto su quella tecnica, venivi assegnato casualmente a uno di due gruppi, il primo in cui si apprendeva la meditazione della gentilezza amorevole, l’altro che non riceveva alcun aiuto. Se eri nel primo, praticavi un metodo simile a quello di Rachel ogni giorno per alcune settimane. Poi, alla fine, entrambi i gruppi venivano sottoposti a un test strutturato in modo ben preciso: facevi dei giochi che, ti informavano gli sperimentatori, costituivano un allenamento, e a cui partecipavano degli attori. Durante i giochi, di proposito e inaspettatamente, uno di loro faceva cadere qualcosa o mostrava chiaramente di aver bisogno di aiuto. I ricercatori volevano sapere se, nel momento in cui era necessario dare una mano, si sarebbe delineata qualche differenza tra i due gruppi. Riscontrarono che se avevi imparato la meditazione della gentilezza amorevole avevi quasi il doppio di probabilità di aiutare qualcun altro rispetto a chi non l’aveva mai praticata. Questo è un primo segno a conferma della tesi di Rachel: si può raddoppiare la propria compassione dedicandosi a questa pratica anche solo per un breve periodo. 4 Ciò sfocerebbe a sua volta in una maggiore connessione con gli altri. È come se la meditazione allenasse un muscolo che ci permette di resistere al peggio della nostra cultura e di neutralizzarlo. Ciò che succede in quel quarto d’ora è solo l’inizio. Rachel ha concluso che «durante la meditazione pianti dei semi che fioriscono spontaneamente durante la giornata e per tutta la tua vita». In questo libro ho parlato di come le prove sperimentali dimostrino che la depressione ha tre tipi di cause: biologiche, psicologiche e sociali. All’inizio ho spiegato che gli attuali interventi biologici – gli antidepressivi – il più delle volte non funzionano. Poi, fin qui, ho discusso dei cambiamenti ambientali o sociali che potrebbero aiutarci. Rachel, tuttavia, mi stava indicando qualcosa di diverso. Proponeva un cambiamento psicologico. Ci sono anche altri tipi di cambiamento psicologico che le persone possono sperimentare. Uno è la preghiera. Secondo le prove scientifiche, coloro che pregano sono meno esposti al rischio di depressione 5 (io sono ateo, perciò per me è fuori questione). Un altro è la terapia comportamentale cognitiva (TCC), che incoraggia gli individui ad abbandonare gli schemi o i pensieri negativi e a adottarne di più positivi. 6 Le ricerche indicano che

questo genere di terapia ha un effetto modesto e temporaneo, ma ugualmente reale (a essere onesti, il principale promotore della TCC, il professor Richard Layard, sostiene che occorre abbinarla al cambiamento sociale se si vogliono ottenere i risultati migliori). Un altro è la psicoterapia. È difficile misurarne scientificamente l’utilità. Non si può organizzare uno studio clinico in cui si somministra a qualcuno una finta terapia, per poi confrontarla con quella vera. Ci sono tuttavia prove sorprendenti sul valore della terapia per gli individui che hanno avuto un’infanzia traumatica. Ci tornerò sopra nel prossimo capitolo. Così vale la pena sottolineare che il cambiamento ambientale non può, da solo, aiutare le persone. Se siete convinti di essere in trappola e davvero non riuscite a modificare il vostro ambiente, alcuni di questi metodi potrebbero esservi utili. Ho la netta impressione che se contribuiranno ad alleviare la vostra depressione e la vostra ansia, vi accorgerete di poter cambiare l’ambiente – unendo le forze con altre persone – più di quanto pensiate. Prima dell’incontro con Rachel, ero diffidente verso la meditazione. Le ragioni erano due. La prima è che avevo paura di restare solo e in silenzio con i miei pensieri. Era un’immagine che associavo alla depressione e all’ansia. La seconda è che giudicavo problematici molti dei motivi per cui la meditazione è stata promossa negli ultimi anni. Ci sono guru del self-help che sono diventati ricchi sfondati convincendo le persone che la meditazione può rendere le piccole api operaie più efficienti, più in grado di lavorare senza sosta e di gestire lo stress. Mi sembrava solo l’ennesima ‘soluzione’ individualista che mancava il bersaglio. Perché così tanti individui si sentono esausti e stressati in partenza, e come impedire che ciò accada? Ora, però, sapevo che esistevano molti tipi differenti di meditazione. Quella di Rachel è l’opposto della meditazione individualista che mi infastidiva. Non si tratta di gestire un po’ meglio l’angoscia e la tensione della disconnessione, bensì di trovare la strada verso la riconnessione. La cosa che più mi ha affascinato della trasformazione di Rachel è il modo in cui diceva di aver modificato il rapporto con il suo ego. Non sembrava vittima delle costanti stimolazioni dell’ego cui siamo tutti esposti nella nostra cultura, quelle provenienti dalla pubblicità, dai social e dalle persone competitive. Aveva trovato il modo di proteggersi. Osservandola mi sono domandato: ‘Cos’altro potremmo fare per difenderci dai fattori depressivi che inquinano l’atmosfera? Cos’altro potremmo far per rimpicciolire l’ego e rafforzare le connessioni?’ Mentre mi

documentavo sulla scienza della meditazione, ho cominciato a scavare in una serie di studi diversi ma pertinenti che, francamente, all’inizio mi avevano lasciato piuttosto scettico. Se avete letto il mio libro Chasing the Scream, sapete che ho affrontato alcuni aspetti della questione in maniera piuttosto sbrigativa. Tuttavia continuavo a esaminare gli ultimi risultati scientifici e a restare sbalordito, così mi sono imbarcato in un viaggio in questo campo. In un primo momento, ciò che ho scoperto potrebbe sembrarvi bizzarro. È questa l’impressione che ha fatto a me. Pazientate e vedrete. Roland Griffith cercava di meditare, ma invano. Aveva l’impressione che i minuti fossero ore interminabili. Alla fine provava soltanto frustrazione, così si diede per vinto. Non avrebbe più meditato per vent’anni, finché non contribuì a una scoperta fondamentale non solo per se stesso, ma per tutti noi. Quando affrontava i suoi fallimentari tentativi, era un giovane specializzando in Psicologia con davanti una brillante carriera accademica. Si affermò in questo campo fino a diventare un illustre docente alla facoltà di Medicina della Johns Hopkins University nel Maryland, una delle migliori al mondo. Quando l’ho conosciuto, era uno degli scienziati più stimati a livello internazionale nello studio dell’assunzione di droga, in particolare degli effetti della caffeina. Mentre eravamo nel suo studio, mi ha spiegato che dopo aver ricoperto questa posizione per vent’anni «se non sono diventato così stacanovista da dover essere internato, c’è mancato poco. «La mia carriera andava a gonfie vele» ha detto, ma sentiva che mancava qualcosa. «Per certi versi, avevo la sensazione di fare lo scienziato e lavorare in campo scientifico in modo meccanico, senza alcun entusiasmo». Si accorse di aver ricominciato a pensare senza motivo apparente ai suoi fiaschi meditativi di tanti anni prima. Nel suo settore, riflettere sul profondo io interiore era un’eresia. Era specializzato in una branca della psicologia che considerava cose come quelle delle assurdità da hippie e non una questione su cui gli psicologi accademici seri avrebbero dovuto soffermarsi. Ma, ha aggiunto, «mi pareva evidente che ci fosse qualcosa di affascinante in questa metodologia di meditazione, finalizzata da millenni a tentare di sondare gli abissi delle dimensioni più profonde della mente, dell’io, della coscienza, qualunque cosa questa significhi». Un suo amico frequentava regolarmente in un ashram – un ritiro spirituale – nel nord dello Stato di New York dove meditava all’interno di un gruppo e, un giorno, Griffith gli chiese se poteva accompagnarlo. A

differenza che in passato, ora aveva qualcuno che poteva guidarlo nella meditazione, insegnandogli la tecnica. Scoprì che, nonostante tutto, era fattibile. Continuando a esercitarsi giorno dopo giorno, notò con stupore che «il mondo interiore cominciava ad aprirsi, che io cominciavo ad aprirmi» mi ha raccontato. «Dovevo ammettere che la cosa aveva un certo fascino». Gli habitué dell’ashram sembravano aver arricchito la loro vita di una dimensione spirituale molto proficua. Apparivano più calmi, più sereni e meno ansiosi. Nella personalità dell’essere umano, intuì Griffith, c’erano aspetti che lui aveva trascurato e che gli studiosi non avevano esaminato a dovere. Così cominciò a farsi alcune semplici domande. Cosa succede quando una persona medita? Cosa cambia dentro di lei? Alcuni, come la mia amica Rachel, dicono che se mediti in con costanza, per un certo lasso di tempo, inizi a percepire un cambiamento spirituale: valuti le cose in modo diverso. Vedi il mondo in modo diverso. Perché la meditazione trasmetteva agli individui la sensazione di intraprendere un cambiamento in senso mistico, e cosa diavolo significava? Cercò studi scientifici su soggetti che sostenevano di aver vissuto esperienze mistiche, e scoprì che la letteratura sull’argomento era fitta, seppure piuttosto bizzarra. Dalla metà degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, diversi team di scienziati, in famose università sparse per tutti gli Stati Uniti, avevano scoperto una cosa. Se somministri alle persone droghe psichedeliche – perlopiù l’LSD, che all’epoca era legale – in condizioni controllate, è abbastanza probabile che vivano qualcosa di simile a un’esperienza spirituale. Permetti loro di trascendere l’ego e le preoccupazioni quotidiane e di stabilire un’intensa connessione con qualcosa di molto più importante: gli altri, la natura, persino la natura stessa dell’esistenza. 7 La stragrande maggioranza di coloro che avevano ricevuto la droga dai medici avevano descritto questo effetto, commentando che l’episodio li aveva toccati nel profondo. Leggendo, Griffith notò una cosa in particolare. Lo stato d’animo raggiunto da coloro che avevano preso la droga psichedelica era sorprendentemente simile a quello riferito da coloro che avevano meditato intensamente per lunghi periodi. Durante queste ricerche, gli scienziati avevano riscontrato numerosi benefici nella somministrazione di queste droghe in condizioni cliniche. Molti alcolisti cronici avevano smesso di bere. 8 Molti depressi cronici si

erano sentiti assai meglio e si erano buttati la depressione alle spalle. 9 Questi studi sperimentali non erano stati effettuati secondo gli standard che useremmo oggi, 10 e i risultati vanno presi con le molle, ma attirarono l’attenzione di Griffith. Verso la fine degli anni Sessanta, però, in tutti gli Stati Uniti era dilagato il panico sulle droghe psichedeliche. Alcuni avevano avuto brutte esperienze quando le avevano assunte per uso ricreativo e, per giunta, circolavano molte storie che demonizzavano queste sostanze. 11 Per esempio, circolava la voce che se prendevi l’LSD fissavi il sole fino a diventare cieco. Nel bel mezzo di questa controversia l’LSD era stata proibita, le ricerche sulle droghe psichedeliche erano cessate di colpo e la pista si era raffreddata. Riesaminando questi studi negli anni Novanta, Griffith era curioso di sapere se ci fosse un legame tra le esperienze di chi praticava regolarmente la meditazione e quelle provocate dalle droghe psichedeliche. Se erano due strade diverse per la stessa destinazione, ci avrebbero aiutato a capire cosa stesse succedendo? Così decise di condurre il primissimo studio clinico su una droga psichedelica dai tempi della proibizione di queste sostanze, avvenuta una generazione prima. 12 Voleva somministrare la psilocibina, una sostanza chimica presente naturalmente nei funghi ‘magici’, a rispettabili cittadini che non l’avevano mai usata prima, per vedere se avrebbero avuto un’esperienza mistica e per analizzare le eventuali conseguenze a lungo termine. «Devo ammettere, francamente, che ero scettico» mi ha confessato. Non pensava che una droga potesse provocare un’esperienza paragonabile a quella della meditazione profonda e regolare, e prevedeva che non avrrebbe sortito effetti degni di nota. Dal bando degli anni Sessanta, nessun altro scienziato era stato autorizzato a eseguire uno studio di questo tipo, ma Griffith era così famoso e così inattaccabile che, per lo stupore generale, ricevette il via libera. Secondo molti, ci riuscì solo perché le autorità avevano dato per scontato che avrebbe dimostrato gli effetti nocivi della droga. Così decine di professionisti furono reclutati in tutto il Maryland. Vogliamo, dissero gli scienziati, che facciate qualcosa di insolito. Mark non sapeva cosa aspettarsi quando attraversò il laboratorio di Griffith ed entrò in una stanza arredata come un normale salotto. 13 C’erano un divano, quadri rasserenanti alle pareti e un tappeto per terra. Mark era un consulente finanziario quarantanovenne piuttosto perbenista, che aveva letto un’inserzione sul quotidiano locale. Si trattava di un nuovo studio sulla

spiritualità, diceva l’annuncio. Mark non aveva mai fatto uso di droghe psichedeliche in vita sua; non aveva mai neppure fumato la cannabis. Aveva risposto perché dopo il divorzio era caduto in depressione. Aveva preso un antidepressivo – il Paxil, come me – per quattro mesi, ma l’unico effetto era stata una fiacchezza generale. Nell’anno e mezzo da quando aveva smesso aveva cominciato a preoccuparsi per se stesso. «Ritenevo che nella vita mi mancasse la capacità di interagire con gli altri» mi ha raccontato. «Ero una persona che teneva tutti a distanza. L’idea di avvicinarmi a qualcuno mi metteva a disagio». Era iniziato tutto quando aveva dieci anni e suo padre era stato colpito da un disturbo cardiaco, un difetto a una valvola. Un giorno l’avevano portato all’ospedale perché lamentava delle fitte dolorose al cuore e, quando Mark l’aveva guardato andare via aveva capito istintivamente che non l’avrebbe più rivisto. Sua madre era così affranta da non riuscire a parlare della tragedia con lui, e nessun altro si era preso il disturbo di farlo. «Sono stato abbandonato a me stesso» ha detto «e credo di aver soffocato le emozioni. Penso di essere semplicemente entrato in modalità negazione della realtà». Era stato l’inizio di uno schema: nascondere i suoi sentimenti per proteggere se stesso. Crescendo, questo senso di distanza gli aveva procurato una notevole ansia sociale. Quando lo invitavano (per esempio) a una festa, trovava sempre un pretesto per non andare. Se partecipava, faceva tappezzeria, vergognandosi da morire. «Stavo molto attento a ciò che dicevo ed esercitavo un controllo eccessivo su me stesso» ricorda. Era costantemente vittima di un monologo interiore che chiedeva: hai detto una stupidaggine? Cosa devi dire adesso? Sarà un’altra stupidaggine? E cosa dirai dopo? La sua ansia era comprensibilmente alle stelle il giorno in cui si sedette sul divano nel salotto finto. Sarebbe stata la prima di tre sedute in cui gli avrebbero somministrato la psilocibina. A mo’ di preparazione, nei mesi precedenti aveva imparato a meditare da Bill Richards, uno psicologo della Johns Hopkins. Gli avevano insegnato un mantra da ripetere – om mani padme hum – per calmarsi se fosse caduto in confusione o nel panico sotto l’effetto della droga. Richards gli aveva promesso che sarebbe stato presente per tutto il tempo, pronto a rassicurarlo e a guidarlo. Quando Mark era ragazzo, l’unica cosa che aveva sentito riguardo alle droghe psichedeliche era che facevano perdere la ragione. Alla chiesa battista che frequentava distribuivano ai teenager brevi fumetti su un uomo che prendeva l’LSD e aveva la sensazione che gli si sciogliesse la faccia. Non

riusciva a smettere, veniva ricoverato in psichiatria e non guariva mai più. Mark non immaginava di stare per assumere una sostanza di quel tipo in una delle più prestigiose università del mondo. Gli avevano chiesto di portare alcuni oggetti che avessero un significato per lui, così aveva scelto le foto dei suoi genitori, morti entrambi, e di Jean, la sua nuova ragazza. Aveva anche una castagna che aveva trovato a terra il giorno del divorzio e che, senza sapere perché, aveva conservato. Si stese sul divano e, quando fu a suo agio, gli porsero una piccola compressa di psilocibina. Poi, con calma, guardò le illustrazioni di un libro insieme con Richards – foto di paesaggi – e poi lo psicologo lo bendò e gli mise una cuffia da cui usciva una musica soave. Nel giro di quarantacinque minuti, Mark cominciò a provare qualcosa di diverso. «Ho sentito la mente che si lasciava andare» mi ha detto. «Ho intuito che c’era qualcosa, un cambiamento in arrivo […] Ho avuto la netta impressione che mi stesse investendo». Poi, d’un tratto, andò fuori di testa. Non capiva cosa gli stesse succedendo. Si alzò e annunciò che voleva andarsene. Si era reso conto di non essere stato del tutto sincero con Jean riguardo ai suoi sentimenti per lei. Voleva andare a dirglielo. Richards gli parlò dolcemente e, di lì a qualche minuto, Mark decise di risedersi e cominciò a ripetere il mantra per concentrarsi e rilassarsi. Intuì che doveva permettere a questa esperienza di «andare sempre più a fondo» e fidarsi. Durante la lunga preparazione, gli scienziati gli avevano spiegato che definire quelle droghe ‘allucinogene’ era un errore. Avere un’allucinazione significa vedere qualcosa che non c’è e pensare che sia reale quanto il libro che avete tra le mani, un oggetto fisico nel mondo. In realtà, è un fenomeno molto raro. È più preciso, avevano aggiunto, chiamarle ‘psichedeliche’, che in greco significa letteralmente ‘manifestazione dell’anima’. Queste sostanze tirano fuori delle cose dal subconscio e le trasferiscono alla mente conscia. Perciò non hai le allucinazioni. Piuttosto, vedi le cose nello stesso modo in cui le vedi in sogno, solo che sei cosciente e in qualunque momento potrai parlare con Bill, la tua guida, e avere la certezza che sia fisicamente presente e che le visioni dovute alla droga non lo siano. «Non vedi le pareti girare o roba simile» mi ha detto Mark. «È buio pesto. E senti soltanto la musica, che ti radica alla realtà. È semplicemente una visualizzazione interiore […] Direi che [è come] sognare da svegli», solo che alla fine ricordava tutto vividamente, «vividamente come qualunque altra

cosa in vita mia». Mentre era steso sul divano, ebbe la sensazione di pagaiare sulle acque fresche di un grande lago. Iniziò a esplorarlo e vide che c’erano diverse calette, probabilmente con le relative insenature. Intuì – come succede nei sogni – che il lago simboleggiava l’umanità. Tutti noi, pensò, riversiamo qui dentro sentimenti, desideri e pensieri. Decise di esplorare una caletta. Saltò da un sasso all’altro, risalendo un torrente, ed ebbe la sensazione che qualcosa lo esortasse a proseguire senza fermarsi. Quindi raggiunse una cascata alta quasi venti metri e la guardò ammirato. Si rese conto di poterla superare a nuoto e pensò che quando fosse arrivato in cima, sarebbe stato dove voleva essere nella vita e che «lì avrei trovato la risposta che cercavo». Spiegò a Richards cosa stava succedendo. «Continua» lo incoraggiò lo psicologo. Quando Mark raggiunse la sommità della cascata, vide un cerbiatto in acqua, impegnato a bere dal torrente. L’animale lo guardò e, riferendosi alla sua infanzia, disse: «Hai una questione in sospeso da risolvere. È qualcosa di cui devi occuparti, se vuoi continuare a evolverti e a crescere». In una sorta di rivelazione, Mark capì il significato di quelle parole. «Avevo nascosto alcune esperienze che avevo vissuto. Risalivano alla mia infanzia, e avevo cercato di accantonarle e di tirare avanti meglio che potevo». Ora, in cima alla cascata, sentì per la prima volta in vita sua di poter affrontare il lutto che nascondeva da quando aveva dieci anni. Seguendo il cerbiatto lungo il fiume, trovò un anfiteatro. Lì, ad aspettarlo, c’era suo padre, come l’aveva visto l’ultima volta. Gli avrebbe detto, annunciò il padre, alcune cose che voleva dirgli da tempo. Anzitutto voleva assicurarlo che stava bene. «Che era dovuto andare via» ricorda Mark, «e che gli era dispiaciuto, ma ha detto: ‘Sei perfetto così come sei, e hai tutto ciò che ti serve’». All’udire queste parole, Mark pianse come non aveva mai pianto per suo padre. L’altro lo abbracciò e aggiunse: «Non nasconderti. Continua a cercare». Allora Mark capì che «questo viaggio, tutto ciò che avevo vissuto, tutta la fatica significavano… che la vita va vissuta. Esci e vivi. Esci ed esplora il mondo, divertiti e goditi ogni cosa fino in fondo». Percepì chiaramente la bellezza di essere vivo, di essere umano. «La magnificenza, la saggezza [di questo messaggio], erano semplicemente travolgenti». Ma ebbe anche la netta

sensazione che «per quanto potesse sembrare folle, tutto questo non arrivava dall’esterno, bensì da dentro di me. Capisci? La droga non ha portato qualcosa con sé, bensì ha aperto un altro spazio al mio interno», uno spazio che era sempre esistito, sotto la sua perdita. Poi l’effetto della droga cominciò a esaurirsi e fu «come tornare nel mio ego» riferisce Mark. Era arrivato alla Johns Hopkins alle nove del mattino e se ne andò alle cinque e mezzo del pomeriggio. Quando Jean passò a prenderlo e gli chiese come fosse andata, lui non aveva idea di cosa rispondere. Nei mesi seguenti, Mark scoprì di poter parlare di suo padre come non aveva mai fatto prima. Capì che «più sono aperto e comunicativo, e più traggo vantaggio da ogni cosa». L’ansia era stata sostituita in buona parte dallo stupore. «Mi sono reso conto di saper essere un pochino più umano con le persone» e iniziò persino a frequentare un corso di balli da sala con Jean, cosa che prima non avrebbe fatto nemmeno per tutto l’oro del mondo. Passarono tre mesi prima della seconda seduta. La procedura fu la stessa, ma questa volta Mark ebbe molte visioni frammentarie che non gli sembrarono particolarmente significative. «Non era poesia, ma prosa, non so se mi spiego» dice. Restò deluso. Ma fu la terza seduta, prosegue, a «cambiare la mia vita per sempre». Quando partecipi a questi esperimenti, non ti dicono se ti somministreranno la dose bassa, media o alta, ma Mark è sicuro che l’ultima volta gli abbiano dato quella alta. Quando la droga cominciò a fare effetto, ebbe di nuovo la sensazione di essere in un luogo molto diverso. Questa volta, però, non era un paesaggio familiare, come la cascata. Era qualcosa di molto differente e di molto lontano dalla sua esperienza. Ebbe la sensazione di fluttuare nel nulla, «come in un’immensità da qualche parte» nello spazio cosmico. Quindi, mentre cercava di orientarsi, accanto a lui si materializzò un essere che pareva un giullare di corte. Mark intuì istintivamente che l’avrebbe aiutato durante l’esperienza. Vide un grande oggetto cilindrico che ruotava in lontananza e capì che conteneva tutta la saggezza dell’universo e che, se fosse stato ricettivo, gliela avrebbe trasmessa. All’inizio disse: «Lo so. Lo so». Poi, però, udì un coro di voci e si unì a loro: «Lo sappiamo. Lo sappiamo». Il «lo sappiamo» gli sembrò molto più forte. «È stato quasi come se la danza dell’universo, che si avvicinava a me in quella forma cilindrica, si

fermasse, e la mia guida ha detto: ‘Prima dobbiamo occuparci di una cosa’. Ha infilato la mano dentro di me e ha tirato fuori questo essere tremante, ansioso e impaurito, e ha comunicato con lui. [Ha detto]: ‘Mark, dobbiamo parlare con questa parte di te’ […] [Poi gli ha detto:] ‘Sei stato bravissimo con Mark. L’hai protetto. Hai creato incredibili artefatti per lui. Questi bellissimi muri che hai costruito, queste trincee, questa impalcatura che l’ha protetto per molti, moltissimi anni e che l’ha condotto fin qui. Dobbiamo assicurarci che tu riesca ad abbattere questi [muri] in modo da vivere ciò che arriverà dopo». «E l’ha fatto con molto amore» prosegue Mark. «Senza giudicare. Senza insinuare: ‘Se sei qui, devi essere una persona terribile’». Le parti spaventate di Mark acconsentirono a demolire i muri e, in quel momento, lui vide le persone cui aveva voluto bene e che erano morte – suo padre e sua zia – applaudire lì accanto. Quindi capì di essere aperto a qualunque saggezza l’universo avesse da offrirgli, e la sentì fluire dentro di sé e fu felice. «Sai, abbiamo sempre questa parte di noi stessi che continua a giudicare, a guardare noi stessi e gli altri, a monitorare ogni cosa» mi ha detto. «[In quel momento] ero in un luogo in cui il mio ego era semplicemente sparito. Insomma, la definiscono ‘morte dell’ego’. Ma ‘io’ non c’entravo nulla. Ero completamente chiuso fuori». Per la prima volta in vita sua ebbe la sensazione che «non ci fosse alcun giudizio. C’era compassione, un incredibile senso di compassione per te stesso e per tutti gli altri nell’universo». Si sentì una cosa sola con tutte le cose viventi, legato a loro attraverso la natura. Mentre si crogiolava nella gioia, si rivolse al giullare, a suo padre e a sua zia e chiese: «Chi è l’unico vero Dio?» Loro lo guardarono e, scrollando le spalle, risposero: «Non lo sappiamo. Sappiamo molte cose, ma non questa». Scoppiarono a ridere e Mark li imitò. Quando tornò da questa esperienza, non era più la stessa persona. Ritiene, mi ha spiegato, di aver imparato che le persone hanno bisogno «di essere accettate, di sentirsi importanti e di essere amate. Posso fare questo dono a chiunque in qualunque momento, ed è un gioco da ragazzi. Basta prendersi cura. Basta stare con le persone e amarle». Poi gli successe un’altra cosa. Due mesi dopo la somministrazione della psilocibina, Griffith doveva intervistare tutti coloro che l’avevano assunta. I soggetti entravano uno alla

volta e la loro risposta era quasi sempre la stessa. Di solito dichiaravano che era stata «una delle [esperienze] più interessanti della mia vita» e la paragonavano alla nascita di un figlio o alla morte di un genitore. Mark non fece eccezione. «All’inizio mi è parso inverosimile» commenta Griffith. «Il mio primo pensiero è stato: che razza di vita facevano queste persone [prima dell’esperimento]? Ma erano perlopiù professionisti affermati, e dunque partecipanti credibili […] Non me lo sarei mai aspettato. Non riuscivo a capacitarmene». L’80 per cento circa dei soggetti cui era stata somministrata la dose più alta disse che era stata una delle cinque cose più importanti che avessero mai vissuto. Griffith e la sua équipe misurarono i cambiamenti avvenuti nei volontari. Quasi tutti avevano «un atteggiamento [più] positivo verso se stessi e verso la vita, relazioni migliori con gli altri [e diventarono] più compassionevoli». È esattamente ciò che accade a chi pratica la meditazione. Griffith era incredulo. Quando ho intervistato i partecipanti a questo esperimento e ad altri studi analoghi, l’ho trovato curiosamente stimolante. Molti erano finalmente riusciti a raccontare traumi infantili sepolti da tempo nel loro subconscio o a superare determinate paure. Molti hanno pianto di gioia mentre ne parlavano. All’inizio Griffith non l’aveva previsto ma, conducendo la prima ricerca scientifica sulle droghe psichedeliche di una generazione, aveva spalancato una porta che era rimasta chiusa a lungo e, dati i risultati sorprendenti, molti altri scienziati cominciarono a intrufolarcisi dentro. Questo fu solo il primo di decine di nuovi esperimenti. Sono andato a Los Angeles, nel Maryland, a New York, a Londra, ad Aarhus in Danimarca, a Oslo e a San Paolo per incontrare i team di scienziati che hanno ripreso le ricerche sulle droghe psichedeliche e provare a capire le implicazioni per la depressione e l’ansia. 14 Un’équipe che lavora con Griffith alla Johns Hopkins voleva vedere cosa sarebbe successo se avesse somministrato la psilocibina a fumatori accaniti che da anni cercavano invano di smettere. Dopo sole tre sedute – come Mark – l’80 per cento smise e, dopo sei mesi, non aveva ancora ripreso a fumare. È una percentuale di successo più alta rispetto a quella di qualunque altra tecnica paragonabile. 15 Un team che lavorava allo University College a Londra somministrò la psilocibina a soggetti che soffrivano di depressione grave e che non erano stati aiutati con nessun’altra forma di trattamento. 16 Fu soltanto una ricerca preliminare, perciò non dobbiamo sopravvalutarlo, ma

riscontrarono che nei tre mesi dello studio sperimentale quasi il 50 per cento dei pazienti erano guariti completamente. Soprattutto, i ricercatori scoprirono qualcosa di ancora più importante. Questi effetti positivi dipendevano da un fattore ben preciso. 17 Le probabilità di uscire dalla depressione o dalla dipendenza variavano secondo l’intensità dell’esperienza spirituale vissuta durante l’esperimento. Più forte era l’esperienza, e migliori erano i risultati. Tutti gli scienziati coinvolti mettono giustamente in guardia dalle generalizzazioni basate su questi piccoli campioni. Tuttavia si trattava di risultati straordinari che parevano confermare le ricerche degli anni Sessanta. Griffith iniziò a credere, mi ha detto, che «questi effetti avessero davvero la capacità di provocare trasformazioni radicali nella vita [delle persone]». Cosa significava? E dov’era l’inghippo? Uno dei modi in cui i ricercatori provarono a rispondere a queste domande fu un approccio trasversale: individuare le analogie e le differenze tra queste esperienze e la meditazione profonda. Fred Barrett, docente alla Johns Hopkins, collaborava con Griffith a uno studio in cui somministravano la psilobicina a soggetti che praticavano la meditazione da più di dieci anni, persone che avevano partecipato a ritiri di mesi e che meditavano almeno un’ora al giorno da anni. 18 Mi ha spiegato che gli individui come Mark, che prima non avevano mai meditato né fatto uso di droghe psichedeliche, di solito (almeno all’inizio) non avevano parole per descrivere ciò che avevano vissuto sotto l’effetto della droga e non riuscivano a trovare alcun parallelo nella loro vita. Coloro che praticavano la meditazione, invece, di parole ne avevano eccome, perché la droga li conduceva, affermavano, negli «stessi luoghi» che la meditazione profonda, ai suoi massimi picchi, ogni tanto riusciva a raggiungere. «In generale» mi ha detto Barrett «sostengono che questi posti sono, se non simili, identici». Così gli scienziati si domandarono: quali effetti hanno queste pratiche? Cos’hanno in comune? Mentre cenavamo in un ristorante tailandese, Barrett mi ha dato una spiegazione che mi ha lasciato a bocca aperta. Entrambe, mi ha informato, interrompono la «dipendenza da noi stessi». Quando nasciamo, non sappiamo chi siamo. Se osservi un neonato, prima o poi si colpirà il viso, perché non conosce ancora i confini del proprio corpo. Crescendo, acquisirà la consapevolezza di se stesso. Imparerà a tracciare i confini. Gran parte di questo processo è salutare e necessaria. Hai bisogno di confini per proteggerti. Ma alcune parti di ciò che costruiamo nel tempo

hanno un effetto controverso. A dieci anni, Mark aveva eretto dei muri per difendersi da un dolore che non aveva potuto confidare a nessuno. Con il passare del tempo, tuttavia, quei muri protettivi erano diventati una prigione che gli aveva impedito di vivere appieno. Il nostro ego, il nostro senso dell’io, ha sempre entrambe queste qualità: protettiva e restrittiva. La meditazione profonda e le esperienze psichedeliche ci insegnano che gran parte di quell’io, di quell’ego, è una costruzione. D’un tratto Mark aveva capito che la sua ansia sociale era un modo per proteggersi, ma che non ne aveva più bisogno. La mia amica Rachel aveva capito che l’invidia era un modo per proteggersi dalla tristezza, e la meditazione le aveva insegnato che non doveva necessariamente essere così, che invece poteva difendersi con la positività e con l’amore. Entrambi i processi, mi ha detto Griffith, «creano un nuovo rapporto con la mente». Il tuo ego è una parte di te. Non ti rappresenta nella tua interezza. Nei momenti in cui si «dissolve e si fonde con il tutto», in cui nuota nel lago dell’umanità che Mark aveva visto nella sua visione, riesci a vedere oltre. Acquisisci una prospettiva totalmente diversa su te stesso. Come dice Barrett, queste esperienze ti insegnano che «non devi essere controllato dal tuo concetto di te stesso». «Se la meditazione è il metodo collaudato per [scoprirlo]» ha aggiunto Griffith, «la psilocibina deve sicuramente essere il metodo d’urto». Tutti coloro che ho intervistato e che somministrano le droghe psichedeliche in condizioni cliniche sottolineano che queste sostanze donano perlopiù un profondo senso di connessione con gli altri, con la natura e con il significato della vita. L’esatto contrario, insomma, dei valori spazzatura di cui siamo intrisi. «Un tema piuttosto frequente quando le persone si alzano dal divano» dopo un’esperienza con la psilocibina, mi ha riferito Barrett, «è l’amore. Riconoscono il legame tra se stesse e gli altri […] Si sentono più motivate a connettersi con gli altri, a prendersi cura di se stesse in modo sano anziché distruttivo». Mentre parlava, ho continuato a pensare alle sette cause sociali e psicologiche della depressione e dell’ansia che avevo identificato, e i paralleli erano evidenti. Queste esperienze trasmettevano agli individui la sensazione che le cose per cui ci angosciamo ogni giorno – gli acquisti, lo status, i piccoli torti – in realtà non contano. Permettevano loro di vedere i traumi infantili sotto una luce diversa. Provocano, dice Griffith, «uno spostamento percettivo in cui riconosci di non essere schiavo dei tuoi pensieri, delle tue

emozioni o dei tuoi sentimenti, di poter fare una scelta in ogni momento, e questa è una gioia». È per questo, per esempio, che l’80 per cento dei fumatori accaniti aveva smesso dopo questa esperienza. Non è che la droga abbia premuto un interruttore chimico nel loro cervello. È che se torni indietro e vedi la magnificenza della vita, pensi: ‘Sigarette? Dipendenza?’ Io sono superiore. Io scelgo la vita». Questo ci aiuta anche a capire perché il piccolo studio iniziale allo University College a Londra sembri aver dato risultati così straordinari negli individui gravemente depressi. «La depressione è una specie di coscienza limitata» mi ha detto Bill Richards. «Si potrebbe anche dire che le persone hanno dimenticato chi sono, cosa sono capaci di fare; che sono rimaste bloccate […] Molti depressi riescono a vedere solo il loro dolore, le loro ferite, i loro rancori e fallimenti. Non riescono a vedere il cielo azzurro e le foglie gialle, capisci?» Questo processo di riapertura della coscienza può interrompere questa prigionia e dunque la depressione. Demolire i muri dell’ego e predisporre a connetterci con ciò che conta. «Benché gli effetti [della droga] svaniscano» mi ha spiegato Griffith, «il ricordo dell’esperienza persiste» e può diventare una nuova guida nella vita. Ma gli inghippi, ho scoperto, sono due e sono importanti. Il primo è che mentre alcuni trovano liberatorio uscire dalla prigione dell’ego, altri lo trovano spaventoso. Il 25 per cento circa dei partecipanti agli studi della Johns Hopkins ebbe almeno qualche istante di puro terrore. Per la maggior parte, come Mark, fu una sensazione fugace, ma per un gruppetto furono sei ore terribili. Una donna aveva immaginato di vagare in una terra desolata dove erano tutti morti. Molte delle affermazioni sulle droghe psichedeliche fatte negli anni Sessanta – come l’idea che ti inducessero a fissare il sole fino a bruciarti le cornee – non erano vere, ma il bad trip non era un mito. Successe a molte persone. Mentre mi documentavo, mi è tornata in mente una cosa. Su una montagna del Canada, Isabel Behncke mi aveva spiegato che la disconnessione dalla natura aggrava la depressione e l’ansia. Mi aveva detto che spesso, nel mondo naturale, ci rendiamo conto di quanto siamo piccoli. Le storie che il nostro ego ci racconta – Tu sei importantissimo! Le tue preoccupazioni sono urgentissime! – sembrano improvvisamente banali. L’ego rimpicciolisce e sei libero. In quel momento avevo dovuto ammettere che era vero. Era capitato anche a me lassù, solo che non l’avevo trovato liberatorio. L’avevo percepito come una minaccia. Avevo avuto la tentazione

di opporre resistenza. Ma non sapevo il perché. Isabel aveva aggiunto che avrebbe ridotto la depressione e l’ansia, e le prove scientifiche le davano ragione. Dopo aver esaminato gli studi sulla meditazione e sulle droghe psichedeliche – e soprattutto dopo aver parlato con Mark di come avesse superato il lutto per suo padre – ho compreso il motivo della mia riluttanza. Avevo rafforzato il mio ego, il mio senso di importanza nel mondo, per proteggere me stesso, a volte in circostanze pericolose. Quando vedi una persona sotto l’effetto di una droga psichedelica, capisci perché abbiamo bisogno di un ego. Quest’ultimo si spegne e il soggetto è letteralmente indifeso; non lo lasceresti camminare da solo per strada. L’ego ci protegge. Ci sorveglia. È necessario. Ma quando diventa troppo grande, ci preclude la possibilità della connessione. Il suo ridimensionamento, dunque, non è un’operazione da eseguire alla leggera. Per coloro che si sentono al sicuro solo dietro un muro, il suo smantellamento non avrà il sapore di un’evasione dal carcere, bensì di un’invasione. Quel giorno, immerso nella natura, non ero pronto ad abbattere i muri dell’ego di cui sentivo di aver bisogno. È per questo che gli scienziati sconsigliano ai depressi e agli ansiosi di procurarsi una droga psichedelica e di prenderla senza preparazione e senza sostegno. Si tratta di sostanze forti. Secondo Bill Richards, è come la discesa libera: praticarla senza istruttore è una follia. Sarebbe opportuno combattere per modificare le leggi in vigore affinché queste droghe possano essere somministrate a fini medici, nelle giuste circostanze, a pazienti che potrebbero trarne beneficio. L’obiettivo a lungo termine, ha concluso Richards, non è annientare l’ego, bensì riportarci a un rapporto sano con lui. Per questo, gli individui devono sentirsi abbastanza protetti da abbassare le difese per qualche tempo, in uno spazio sicuro, con persone di cui si fidano. Il secondo inghippo è, a mio parere, ancora più importante. Il dottor Robin Carhart-Harris era uno degli scienziati che condussero l’esperimento londinese con la psilocibina e i soggetti gravemente depressi. Ne abbiamo discusso per ore in un caffè a Notting Hill e mi ha descritto una cosa che lui e i suoi colleghi avevano notato durante lo studio. La droga aveva un effetto straordinario nei primi tre mesi circa: quasi tutti i volontari si erano sentiti molto più connessi e dunque erano stati molto meglio. Una paziente in particolare, tuttavia, sembrava rappresentare una tendenza più diffusa. Dopo quell’esperienza incredibile, la donna era tornata alla sua vita.

Faceva la receptionist, un lavoro piuttosto degradante, in un’orribile cittadina inglese. Aveva avuto una rivelazione da cui aveva imparato che il materialismo non conta, che siamo tutti uguali, che le distinzioni di status sono inutili. Ora era rientrata in un mondo che ci ripete senza sosta che il materialismo è la cosa più importante, che non siamo uguali e che, cazzo, è meglio rispettare le distinzioni di status. Era stato un ritorno alla doccia fredda della disconnessione. A poco a poco la paziente era ricaduta in depressione, perché gli insegnamenti acquisiti attraverso l’esperienza psichedelica non si potevano mettere in pratica nel mondo così com’è. Ci ho riflettuto a lungo. Mi sono chiarito le idee solo quando ho parlato con il dottor Andrew Weil, che svolse alcune ricerche in questo campo negli anni Sessanta. Nessuno dice che le droghe psichedeliche funzionino come credevamo che funzionassero gli antidepressivi negli anni Novanta: non modificano la chimica cerebrale e dunque non ti ‘aggiustano’. No. Ciò che fanno – quando l’esperienza va a buon fine – è infondere un forte senso di connessione per un brevissimo periodo. «Il valore dell’esperienza» mi ha detto Weil «è mostrarti la possibilità», mostrarti come la connessione può farti sentire. Poi, dice, «sta a te trovare altri modi per prolungare l’effetto». Non è importante tanto come esperienza psichedelica quanto come esperienza di apprendimento, e occorre continuare a mettere in pratica la lezione, in una maniera o in un’altra. Se vivi questa esperienza intensa e poi torni alla disconnessione, i benefici non dureranno. Se invece la sfrutti per costruire un senso di connessione più profondo e tenace – al di là del materialismo e dell’ego – potrebbe durare. Ti mostra cosa hai perso e di cosa hai ancora bisogno. È questo l’insegnamento che Mark ricavò da questa espe-rienza. Dopo la terza e ultima seduta domandò a Griffith: «Cosa diavolo faccio ora? […] Ho bisogno di qualcosa per concretizzare tutto questo nella mia vita». Griffith, che in passato era stato così stacanovista da non riuscire a meditare per più di qualche minuto, conosceva la risposta. Lo mandò in un centro dove si praticano tecniche di meditazione profonda. Ora Mark ci va spesso, e lo faceva da quasi cinque anni quando l’ho intervistato. Sa di non poter vivere sempre nello spazio che ha trovato usando la psilocibina, e nemmeno lo vorrebbe, ma desidera incorporare quelle intuizioni nella sua vita di tutti i giorni. «Non volevo che andassero sprecate» ha confessato. Griffith non avrebbe mai immaginato di consigliare la meditazione e le droghe psichedeliche, e Mark non avrebbe mai immaginato di accettare

volentieri questi consigli. Entrambi l’avevano giudicata una svolta improbabile nella loro vita, ma si erano lasciati persuadere dalla credibilità delle prove e dalla profondità dell’esperienza. Ora Mark guida gli altri durante le lezioni di meditazione. Usando queste tecniche, non sente l’ansia sociale che lo tormentava in passato. È aperto a ciò che il mondo vuole offrirgli. Alla fine dell’ultima intervista, mi ha detto che ora crede di avere «una specie di connessione che non svanisce mai», un profondo senso di gioia compartecipe. Da allora non pensa più agli antidepressivi chimici. Nel suo caso non hanno mai funzionato e ora, dice, non ne ha bisogno. Non tutti devono seguire il suo esempio per arrivare a questo risultato, continua. Si può staccare la spina dalle cose che ci mandano in tanti pezzi – i valori spazzatura e l’egocentrismo che ne deriva – in molti modi. Alcuni lo faranno con le droghe psichedeliche, altri con la meditazione, e dobbiamo prendere in esame molte altre tecniche. Ma qualunque sia il metodo scelto, conclude, «non è un’illusione. È un’apertura mentale che ti permette di vedere […] [le] cose che sono già dentro di te […] Non fa altro che aprire la porta a ciò di cui – in un certo senso – abbiamo sempre saputo di avere bisogno».

21. Sesta riconnessione: riconoscere e superare i traumi infantili

Vincent Felitti non voleva scoprire solo fatti tristi, ma anche soluzioni. Come ho raccontato, era il medico che aveva trovato le sorprendenti prove del ruolo svolto dai traumi infantili nella comparsa della depressione e dell’ansia in una fase successiva della vita e dimostrato che i traumi infantili aumentano nettamente le probabilità di soffrire di questi due disturbi da adulti. Ha viaggiato per tutti gli Stati Uniti spiegando la sua teoria, e oggi molti scienziati sono d’accordo con lui, ma per Felitti la questione non si fermava lì: non voleva dire ai sopravvissuti dei traumi che erano destinati a una vita insoddisfacente perché da bambini non erano stati adeguatamente protetti. Voleva aiutarli a superare quel dolore. Come ho già accennato – è stato moltissime pagine fa, perciò non preoccupatevi se avete bisogno che vi rinfreschi la memoria – aveva appurato questi fatti anche inviando un questionario a ogni persona che riceveva assistenza sanitaria dalla compagnia di assicurazioni Kaiser Permanente. Le domande indagavano su dieci eventi traumatici che possono accadere durante l’infanzia e poi li confrontavano con lo stato di salute del contraente. Solo dopo aver lavorato per oltre un anno e aver esaminato i dati, ebbe un’idea. E se, quando un paziente segnalava di aver subito un trauma infantile, il medico avesse aspettato che il paziente si rivolgesse a lui per una qualsiasi ragione e gli avesse chiesto di quell’episodio? Avrebbe fatto qualche differenza? Così iniziarono un esperimento. Ogni medico che forniva assistenza a un paziente della Kaiser Permanente – per qualunque disturbo, dalle emorroidi all’eczema, alla schizofrenia – ricevette istruzioni di consultare il relativo questionario e, se il soggetto aveva subito un trauma infantile, di intraprendere una procedura, dicendo: «Vedo che durante l’infanzia è dovuto sopravvivere a X o Y. Mi dispiace che sia successo proprio a lei. Non sarebbe dovuto capitare. Ha voglia di parlare di quelle esperienze?» Se il paziente rispondeva di sì, il medico doveva mostrarsi solidale e domandare: «Crede

che abbia avuto effetti negativi a lungo termine su di lei? Che abbia ripercussioni sul suo attuale stato di salute?» 1 Lo scopo era offrire due cose allo stesso tempo. La prima era l’opportunità di descrivere l’esperienza traumatica, di creare una storia al riguardo, affinché il paziente potesse darle un senso. All’inizio dell’esperimento, una delle cose che emersero quasi subito fu che molti soggetti non avevano mai confidato l’accaduto a un altro essere umano. La seconda – altrettanto cruciale – era assicurare loro che non sarebbero stati giudicati ma, al contrario, mi ha spiegato Felitti, mostrare loro che una figura autorevole di cui si fidavano era pronta a offrire vera comprensione. Così i medici cominciarono a fare domande. Mentre alcuni pazienti preferirono non parlare del loro passato, molti accettarono. Alcuni dissero di essere stati trascurati, molestati sessualmente o picchiati dai genitori. Quasi nessuno, saltò fuori, si era mai chiesto se quelle esperienze avessero avuto qualche effetto sulle loro condizioni di salute. Esortati dai medici, iniziarono a rifletterci sopra. Felitti voleva capire se tutto questo sarebbe stato utile, oppure se rivangare i vecchi traumi sarebbe stato dannoso. Aspettò con impazienza i risultati di decine di migliaia di visite. Infine arrivarono i dati. 2 Nei mesi e negli anni successivi, i pazienti che avevano ricevuto comprensione per il loro dramma da una figura autorevole parvero mostrare una diminuzione significativa delle malattie, con il 35 per cento di probabilità in meno di tornare a chiedere assistenza medica per un qualunque disturbo. In un primo momento, i medici temettero che ciò fosse la conseguenza del turbamento e della vergogna. Tuttavia nessuno si lamentò e, durante il periodo di monitoraggio, molti soggetti dichiararono di essere stati contenti dell’interessamento. Per esempio, una signora anziana che aveva confessato per la prima volta di essere stata stuprata da bambina scrisse loro una lettera: «Grazie per avermelo chiesto. Temevo che sarei morta e che nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza dell’accaduto». 3 In uno studio pilota di dimensioni più modeste, dopo aver risposto a queste domande, i pazienti poterono scegliere se discutere della loro esperienza infantile con uno psicoanalista. I soggetti che accettarono avevano il 50 per cento di probabilità in meno di tornare dal medico lamentando sintomi fisici o chiedendo farmaci durante l’anno seguente. 4 Si sarebbe detto che andassero meno dal medico perché erano davvero

meno ansiosi e stavano meglio. Si trattava di risultati sorprendenti. Com’era possibile? La risposta, sospetta Felitti, ha a che vedere con la vergogna. «Durante quel breve colloquio» mi ha detto, «una persona rivela a qualcun altro, di solito per la prima volta nella vita, qualcosa di importantissimo […] qualcosa [di cui] si vergogna profondamente. E constata che l’interlocutore continua ad accettarla. È un’esperienza che contiene una enorme possibilità di trasformazione». E indicherebbe che la causa dei disturbi – comprese la depressione e l’ansia – non sono soltanto i traumi infantili in sé, ma anche la tendenza a nasconderli per vergogna. Quando li chiudi nella mente, suppurano e la vergogna cresce. Felitti non può (ahimè) inventare una macchina del tempo per tornare indietro e impedire gli abusi, ma può aiutare i pazienti a smettere di nascondersi e di vergognarsi. Come ho già detto, molti studi rivelano che l’umiliazione ha un peso notevole nella depressione. Mi sono domandato se avesse qualche importanza anche in questo caso, e Felitti ha risposto: «A mio giudizio, stiamo offrendo strumenti molto efficaci per ridurre drasticamente l’umiliazione e la scarsa autostima». Ha cominciato a considerarla una versione laica della confessione cattolica. «Non lo dico da persona religiosa – perché non lo sono affatto! – ma la confessione viene usata da milleottocento anni. Se è durata così a lungo, forse soddisfa un’esigenza umana fondamentale». Devi raccontare a qualcuno cosa ti è successo e devi avere la certezza che l’altro non ti considererà meno importante di sé. Queste prove sperimentali suggeriscono che riconnettendo un individuo ai suoi traumi infantili e dimostrandogli che un osservatore esterno non li considera scandalosi, gli dai una grossa mano a liberarsi di alcuni dei loro effetti negativi. «È sufficiente?» mi ha chiesto Felitti. «No, ma è un enorme passo avanti». Può essere vero? Altri studi confermano che la vergogna fa ammalare le persone. Per esempio, durante la crisi dell’AIDS, i gay che non avevano ancora rivelato la loro omosessualità morivano da due a tre anni prima degli omosessuali dichiarati, anche quando ricevevano cure mediche nello stesso stadio della malattia. 5 Nascondere una parte di sé e pensare che sia disgustosa ti avvelena la vita. Era possibile che in questo caso fosse all’opera la stessa dinamica? Gli scienziati coinvolti sono i primi a sottolineare che sono necessarie altre ricerche per scoprire come sfruttare questo incoraggiante primo passo per fare ulteriori progressi. Questo deve essere soltanto l’inizio. «Ormai penso che la svolta scientifica sia imminente» mi ha detto il collega di Felitti,

Robert Anda. «Saranno necessari un cambio di mentalità e una generazione di studiosi che dovrà mettere insieme tutti i risultati, la strada da fare è ancora lunga». Non avevo mai parlato delle violenze e degli abusi che ho subito da bambino prima dei venticinque anni circa, quando ho incontrato un ottimo psicoterapeuta. Gli stavo descrivendo la mia infanzia e raccontai la stessa storia che avevo raccontato a me stesso per tutta la vita: che avevo vissuto quelle cose perché avevo fatto qualcosa di male, e dunque me le meritavo. «Ascolta cosa stai dicendo» replicò lui. All’inizio non capii, ma poi si spiegò meglio. «Pensi davvero che un bambino vada trattato così? Cosa diresti ora se vedessi un adulto dire quelle parole a un ragazzino di dieci anni?» Poiché avevo tenuto per me quei ricordi, non avevo mai messo in discussione il racconto che avevo costruito all’epoca. Mi sembrava naturale. Così la domanda mi colse alla sprovvista. All’inizio difesi gli adulti che si erano comportati così. Attaccai il ricordo del mio io infantile. Solo a poco a poco, con il tempo, compresi cosa voleva dire. E mi liberai della vergogna.

22. Settima riconnessione: restituire il futuro

C’era un altro ostacolo che incombeva sopra questi tentativi di superare la depressione e l’ansia, e sembrava più grande di qualunque altro argomento avessi trattato fino a quel punto. Se vuoi provare a riconnetterti nei modi che ho descritto – se vuoi (per esempio) creare una comunità, democratizzare il tuo posto di lavoro o fondare gruppi per esaminare i tuoi valori intrinseci – avrai bisogno di tempo e di ottimismo. Ma siamo costantemente a corto di entrambi. Quasi tutti lavorano fino a sfiancarsi e non hanno certezze per il futuro. Sono esausti e hanno la sensazione che la pressione cresca di anno in anno. È difficile partecipare a una grande battaglia quando occorre combattere per arrivare alla fine della giornata. Chiedere alle persone di assumersi altre responsabilità quando sono già oberate è quasi una presa in giro. Mentre facevo ricerche per questo libro, però, sono venuto a conoscenza di un esperimento studiato per restituire alle persone un po’ di tempo e di fiducia nel futuro. A metà degli anni Settanta, un gruppo di funzionari governativi canadesi scelse – apparentemente a caso – la cittadina di Dauphin, nella provincia rurale del Manitoba. 1 Non era nulla di speciale, lo sapevano bene. Winnipeg, la città più vicina, era a quattro ore di auto. Dauphin sorgeva nel bel mezzo delle praterie, e quasi tutti i residenti erano agricoltori che coltivavano la colza. I diciassettemila abitanti lavoravano più sodo che potevano, ma tiravano avanti a stento. Quando il raccolto era abbondante, stavano tutti bene. La concessionaria vendeva le auto e il bar gli alcolici. Quando il raccolto era scarso, ne risentivano tutti. Poi, un giorno, i cittadini di Dauphin si sentirono dire che erano stati selezionati per partecipare a un esperimento, grazie a un’audace decisione del governo progressista. Da molto tempo i canadesi si domandavano se lo Stato assistenziale che stavano costruendo a singhiozzo nel corso degli anni fosse troppo ingombrante e inefficiente e non aiutasse un numero adeguato di

persone. Lo scopo di uno Stato assistenziale è creare una rete di sicurezza al di sotto della quale nessuno dovrebbe mai cadere: un limite che impedisca ai cittadini di diventare poveri e ansiosi. Si dà il caso, tuttavia, che in Canada la povertà e l’insicurezza fossero ancora molto diffuse. C’era qualcosa che non andava. Così qualcuno ebbe quella che sembrava un’idea così semplice da risultare quasi stupida. Fino a quel momento, lo Stato assistenziale aveva lavorato cercando di colmare le lacune, acchiappando coloro che cadevano sotto un certo livello e aiutandoli a risalire. Ma se l’insicurezza dipende dal fatto di non avere abbastanza soldi per tirare avanti, si chiesero, cosa succederebbe se dessimo denaro sufficiente a tutti, senza alcuna condizione? E se semplicemente spedissimo a ogni singolo cittadino canadese – ai giovani, agli anziani, a tutti quanti – un assegno annuale con cui vivere? La cifra verrebbe calcolata accuratamente. Riceveresti quanto basta per sopravvivere, ma non per concederti dei lussi. Lo chiamarono reddito base universale. Invece di usare una rete per acchiappare le persone quando cadono, proposero di sollevare il pavimento su cui poggiavano tutti. Questa idea era stata discussa addirittura da politici di destra come Richard Nixon, ma non era mai stata testata prima. Perciò i canadesi decisero di provarci, in un posto ben preciso. Fu così che per diversi anni ciascuno degli abitanti di Dauphin ricevette dal governo l’equivalente di diciannovemila dollari americani (in valuta odierna), senza alcuna condizione. Non devi preoccuparti. Non c’è nulla che tu possa fare per perdere questo reddito base. Ti spetta di diritto. Poi i ricercatori fecero un passo indietro per vedere cosa sarebbe successo. All’epoca, a Toronto, viveva Evelyn Forget, una giovane studentessa di economia, e un giorno un docente parlò alla classe di questo esperimento. Evelyn rimase affascinata. Poi, però, a tre anni dall’inizio dello studio il potere in Canada passò a un governo conservatore e la ricerca fu interrotta all’improvviso. Il reddito garantito svanì. Se lo dimenticarono tutti tranne i destinatari degli assegni. Trent’anni dopo, Evelyn era diventata docente alla facoltà di Medicina dell’università del Manitoba e continuava a incappare in alcune inquietanti prove sperimentali. È assodato che più sei povero, e più rischi di diventare depresso o ansioso e di ammalarti sotto quasi tutti i punti di vista. Negli Stati Uniti, se hai un reddito inferiore a ventimila dollari, hai il doppio di

probabilità di cadere in depressione rispetto a qualcuno che guadagna settantamila dollari o più. 2 Se hai un reddito da immobili corri un decimo del rischio di sviluppare un disturbo d’ansia rispetto a chi non può contare su un’entrata analoga. «Una delle cose che trovo sorprendenti» mi ha detto Evelyn «è il rapporto diretto tra la povertà e la quantità di farmaci psicoattivi che le persone assumono, di antidepressivi che prendono per tirare la fine della giornata». A suo parere, se si vuole davvero curare questi disturbi, occorre affrontare queste questioni. Così si ritrovò a interrogarsi su quel vecchio esperimento che aveva avuto luogo decenni prima. Quali erano i risultati? Le persone che avevano beneficiato del reddito garantito erano diventate più sane? Cos’altro poteva essere cambiato nella loro vita? Iniziò a cercare studi scientifici dell’epoca, ma invano. Così prese a scrivere lettere e a fare telefonate. Sapeva che in quel periodo l’esperimento era stato esaminato attentamente, che erano state raccolte montagne di dati. Era quello il punto: si trattava di uno studio. Che fine aveva fatto? Dopo un lungo lavoro investigativo durato cinque anni, finalmente trovò la risposta. Le dissero che i dati erano nascosti ai National Archives e che stavano per andare al macero. «Ci sono andata, ed era quasi tutto su carta. Conservato in scatoloni» ricorda. «Cinquanta metri cubi. L’equivalente di milleottocento scatoloni pieni di carta». Nessuno aveva mai analizzato i risultati. Quando i conservatori erano saliti al potere, non avevano voluto che si continuasse a indagare. Ritenevano che l’esperimento, contrario ai loro valori morali, fosse una perdita di tempo. Così Evelyn e un team di ricercatori si apprestarono al difficile compito di capire quali fossero state le conclusioni dell’esperimento. Allo stesso tempo cercarono di rintracciare i partecipanti per scoprire gli effetti a lungo termine. La prima cosa che colpì Evelyn mentre parlava con gli abitanti di Dauphin fu la vividezza dei loro ricordi. Tutti avevano una storia da raccontare su come la ricerca avesse influito sulla loro vita. Le dissero che, principalmente, «i soldi fungevano da polizza assicurativa. Eliminavano lo stress derivante dalla paura di non poter pagare la retta scolastica dei bambini per un altro anno, di non poterti permettere di comprare le cose che ti servivano». Dauphin era una comunità agricola conservatrice, e uno dei cambiamenti più radicali aveva riguardato l’immagine che le donne avevano di se stesse. Evelyn conobbe una signora che aveva preso l’assegno e l’aveva usato per

diventare la prima donna della famiglia a frequentare l’università. Era diventata bibliotecaria e uno dei membri più rispettati della comunità. Mostrò alla studiosa le foto della laurea delle sue due figlie e dichiarò di essere molto orgogliosa di aver dato loro il buon esempio. Altri dissero che, per la prima volta in assoluto, l’assegno aveva dato loro un po’ di sollievo dal costante senso di insicurezza. Una donna aveva il marito disabile e sei figli, e sbarcava il lunario tagliando i capelli alle persone nel suo salotto. Il reddito universale, raccontò, le aveva permesso per la prima volta di mettere «la panna nel caffè», piccole cose che rendevano la sua vita un po’ più sopportabile. Erano storie commoventi, ma la dura realtà era nei numeri. Dopo anni di lavoro, ecco alcuni degli effetti chiave individuati da Evelyn. 3 Gli studenti restavano a scuola più a lungo e avevano un rendimento migliore. Il numero di neonati sottopeso diminuì, perché più donne rimandavano la gravidanza finché non si sentivano pronte. I genitori di bambini piccoli li accudivano più spesso e non avevano fretta di tornare al lavoro. Le ore di lavoro complessive erano calate leggermente perché le persone dedicavano più tempo alla famiglia o allo studio. Ma c’era un risultato che mi è sembrato particolarmente importante. Evelyn esaminò le cartelle cliniche dei partecipanti e scoprì che «meno persone si rivolgevano al medico per disturbi dell’umore». Nella comunità, la depressione e l’ansia erano scese drasticamente. Quanto alla depressione grave e ad altri disturbi mentali così preoccupanti da richiedere il ricovero ospedaliero, si era registrata una contrazione del 9 per cento in soli tre anni. Perché? «L’assegno eliminava o riduceva lo stress cui le persone erano sottoposte nella vita di tutti i giorni» conclude Evelyn. Eri certo che avresti avuto un reddito garantito il mese successivo, e l’anno successivo, perciò potevi crearti un’immagine stabile di te stesso nel futuro. L’esperimento aveva avuto un altro effetto inaspettato, mi ha detto. Se sai che, qualunque cosa succeda, avrai soldi sufficienti per tirare avanti, puoi licenziarti da un lavoro umiliante o poco gratificante. «Non sei più ostaggio del tuo lavoro, e alcuni dei mestieri che le persone fanno per sopravvivere sono terribili, degradanti». Ti conferiva «quel poco di potere necessario per dire: ‘Non sono costretto a restare’». In altre parole, i datori di lavoro dovevano rendere le mansioni più allettanti. Nel tempo, tutto questo avrebbe ridotto le disuguaglianze in città e presumibilmente anche la depressione causata da estreme differenze di status.

Secondo Evelyn, ciò rivela qualcosa di fondamentale sulla natura della depressione. «Se fosse soltanto un disturbo cerebrale, un acciacco fisico, non ti aspetteresti di vedere una correlazione così inequivocabile con la povertà» e non riscontreresti una diminuzione così significativa dopo la concessione di un reddito base garantito. «Di sicuro» commenta, «rende più agiata la vita dei beneficiari, e questo funge da antidepressivo». Osservando il mondo attuale e i suoi cambiamenti rispetto alla Dauphin della metà degli anni Settanta, pensa che il bisogno di un’iniziativa come questa – in tutte le società – sia soltanto cresciuto. All’epoca «le persone speravano ancora di diplomarsi, cercare un lavoro e restare nella stessa azienda [o] almeno nello stesso settore fino a sessantacinque anni, e poi di ritirarsi con un bell’orologio d’oro e una bella pensione. Ma «oggi le persone faticano a trovare questo tipo di stabilità nel lavoro […] Non credo che quei tempi torneranno mai. Viviamo in un mondo globalizzato. In sostanza, il mondo è cambiato». Non riconquisteremo la sicurezza tornando indietro, soprattutto perché i robot e la tecnologia rendono obsoleto un numero crescente di professioni, ma possiamo andare avanti, verso un reddito base per tutti. Come Barack Obama suggerì in un’intervista verso la fine della sua presidenza, un reddito universale potrebbe essere lo strumento migliore che abbiamo per ricreare la sicurezza, non con false promesse di ricostruire un mondo perduto, ma facendo qualcosa di assolutamente nuovo. Sepolto in quei polverosi scatoloni di dati negli archivi nazionali canadesi, forse Evelyn trovò uno degli antidepressivi più efficaci del XXI secolo. Volevo capire meglio le implicazioni di questa scoperta e approfondire i miei timori e le mie domande al riguardo, così ho fatto visita a Rutger Bregman, un brillante storico dell’economia olandese nonché il principale paladino europeo dell’idea di un reddito base universale. 4 Abbiamo mangiato hamburger, bevuto bibite piene di caffeina e parlato fino a tarda notte, discutendo le possibili conseguenze di questa proposta. «Ogni tanto» ha detto, «attribuiamo all’individuo la colpa di un problema collettivo. Sei depresso? Prendi una pasticca. Sei disoccupato? Rivolgiti a un consulente. Ti insegnerà a scrivere un curriculum o [a iscriverti a] LinkedIn. Ma ovviamente così non si va alla radice del problema […] Pochi riflettono su cosa è accaduto al mercato del lavoro, e alla società, perché queste [forme di disperazione] spuntassero ovunque». Anche i membri del ceto medio sperimentano una «mancanza di

certezze» cronica sul loro futuro a breve termine, osserva. L’approccio alternativo – un reddito garantito – permette in parte di eliminare questa umiliazione e di sostituirla con la sicurezza. Seppure in piccolo, è stato adottato in molti luoghi, come Bregman spiega nel libro Utopia per realisti. C’è uno schema ricorrente quando si propone questa idea per la prima volta. Le persone rispondono: cosa? Distribuire soldi? Distruggerà l’etica del lavoro. La gente li spenderà in alcol e droga e passerà il tempo a guardare la tv. Poi arrivano i risultati. Per esempio, sulle Great Smoky Mountains, c’è un gruppo tribale di ottomila nativi americani che hanno deciso di aprire un casinò. Ma lo hanno fatto in modo un po’ diverso. Hanno stabilito che avrebbero diviso equamente i profitti tra tutti i membri. Ciascuno avrebbe ricevuto un assegno di seimila dollari l’anno, che poi sarebbe salito a novemila. Era, a tutti gli effetti, un reddito base universale. Gli osservatori esterni commentarono che erano pazzi. Quando gli scienziati sociali studiarono il progetto, emerse tuttavia che il reddito garantito aveva determinato un grosso cambiamento. I genitori avevano deciso di passare molto più tempo con i figli e, poiché erano meno stressati, erano anche più presenti nella vita dei ragazzi. Risultato? I disturbi comportamentali come il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD) e la depressione infantile erano diminuiti del 40 per cento. 5 Non sono riuscito a trovare altri esempi analoghi di riduzione di disturbi psichiatrici infantili in un periodo paragonabile. I nativi americani ci erano riusciti offrendo ai genitori la possibilità di una connessione con i figli. In tutto il mondo – dal Brasile all’India – questi esperimenti continuano a dare lo stesso risultato. «Quando chiedo alle persone: ‘Cosa faresti [personalmente] con un reddito base?» dice Rutger, «il 99 per cento circa risponde: ‘Ho dei sogni, delle aspirazioni, farei qualcosa di ambizioso e di utile’». Ma quando domanda cosa pensano che farebbero gli altri, rispondono: «Diventerebbero zombie apatici e guarderebbero Netflix tutto il giorno». Questo progetto determina un grosso cambiamento, continua, ma non ciò che immagina la maggior parte della gente. Il cambiamento più radicale, crede, riguarderà la concezione del lavoro. 6 Quando chiede alle persone cosa facciano effettivamente, e se lo ritengano utile, si stupisce di quanti rispondano senza esitazione che la loro occupazione è insulsa e che non arricchisce il mondo in alcun modo. Il vantaggio del reddito garantito,

osserva Rutger, è che conferisce il potere di dire no. 7 Per la prima volta, le persone potranno licenziarsi da lavori degradanti, umilianti o atroci. Ovviamente alcune mansioni noiose continueranno a essere indispensabili. Perciò i datori di lavoro dovranno offrire retribuzioni più alte o condizioni migliori. All’improvviso i lavori peggiori, quelli che causano il maggior numero di casi di depressione e ansia, dovranno migliorare nettamente per attirare i lavoratori. Le persone saranno libere di fondare aziende basate sulle cose in cui credono, di gestire progetti stile Kotti per arricchire la comunità, per accudire i figli e i parenti anziani. Questo è tutto lavoro reale, ma il più delle volte il mercato non lo ricompensa. Quando gli individui sono liberi di dire no, afferma Rutger, «credo che la definizione di lavoro [diventi] aggiungere qualcosa che valga, rendere il mondo un po’ più interessante o un po’ più bello». Si tratta, dobbiamo essere sinceri, di una proposta costosa. Un vero reddito garantito eroderebbe una grossa fetta della ricchezza nazionale di qualunque Paese sviluppato. Al momento è un traguardo lontano, ma ogni proposta rivolta al progresso civile è nata come sogno utopico, dallo Stato assistenziale ai diritti delle donne, alla parità degli omosessuali. Secondo le previsioni del presidente Obama, potrebbe realizzarsi nei prossimi vent’anni. 8 Se cominciamo a difenderla e a promuoverla ora – come antidepressivo, come modo di combattere lo stress dilagante che affligge molti di noi – con il tempo ci aiuterà a individuare sul nascere uno dei fattori che causano tutta questa disperazione. È un modo, prosegue Rutger, per restituire un avvenire sicuro a persone che stanno perdendo la capacità di vederne uno; un modo per restituire a tutti noi la libertà di cambiare la nostra vita e la nostra cultura. Mentre ripensavo a questi sette possibili rimedi contro la depressione e l’ansia, mi rendevo conto che richiedono enormi cambiamenti in noi stessi e nella società. In quegli istanti mi echeggiava nella testa una vocina insistente. Non cambierà mai nulla, diceva. Le forme di cambiamento sociale che vuoi propugnare sono soltanto fantasie. Siamo bloccati qui. Guardi il telegiornale? Credi che stiano per verificarsi dei cambiamenti positivi? Quando questi dubbi mi assalivano, pensavo sempre a uno dei miei amici più cari. Nel 1993 il giornalista Andrew Sullivan scoprì di essere sieropositivo. Eravamo in piena emergenza AIDS. Gli omosessuali morivano in tutto il

mondo. Non c’erano cure in vista. Il primo pensiero di Sullivan fu: ben mi sta. Me la sono andata a cercare. Era cresciuto in una famiglia cattolica, in una cultura omofoba dove, da bambino, aveva creduto di essere l’unico gay del mondo, perché non ne aveva mai visto nessun altro in tv, per strada o nei libri. 9 Viveva in un mondo dove gli omosessuali, se erano fortunati, venivano presi in giro e, se erano sfortunati, venivano presi a pugni. Pensò: è tutta colpa mia. Questa malattia mortale è la punizione che merito. La diagnosi gli evocò un’immagine. Una volta era andato al cinema, il proiettore si era guastato e l’immagine si era deformata, assumendo un’angolazione bizzarra e inguardabile. Era rimasta così per alcuni minuti. Ora, concluse, la sua vita era come essere seduto in quel cinema, solo che l’immagine non si sarebbe mai più raddrizzata. Poco dopo lasciò il posto di direttore della New Republic, una delle principali riviste statunitensi. Patrick, il suo migliore amico, stava morendo di AIDS, il destino che Sullivan era certo sarebbe toccato anche a lui. Così andò a morire a Provincetown, l’enclave gay sulla punta di Cape Cod, nel Massachusetts. Quell’estate, in una casetta vicino alla spiaggia, iniziò a scrivere un libro. Sapeva che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto, perciò decise di promuovere un’idea folle e illogica, così bizzarra che nessuno ne aveva mai parlato prima. Voleva proporre di autorizzare i matrimoni gay, di considerarli alla pari delle unioni eterosessuali. Era convinto che fosse l’unico modo per liberare gli omosessuali dall’odio per se stessi e dalla vergogna di cui era stato ostaggio in prima persona. Per me è troppo tardi, si disse, ma forse aiuterò coloro che verranno dopo. Quando il libro – Praticamente normali: le ragioni dell’omosessualità – uscì, un anno dopo, Patrick morì a pochi giorni dalla distribuzione nelle librerie e Sullivan fu oggetto di scherno per aver suggerito una simile assurdità. Fu attaccato non solo dalla destra, ma anche da molti gay di sinistra, che lo accusarono di essere un venduto, un aspirante eterosessuale, un fenomeno da baraccone, perché credeva nel matrimonio. Il gruppo delle Lesbian Avengers intervenne alle presentazioni del libro con l’immagine della sua faccia nel mirino di un fucile. Sullivan guardò la folla e cadde nella disperazione. Quell’idea strampalata – il suo ultimo gesto prima di morire – sarebbe chiaramente finita in un nulla di fatto. Quando sento le persone dire che i cambiamenti necessari per superare la depressione e l’ansia sono impossibili, immagino di tornare indietro nel

tempo, all’estate del 1993, in quella casetta a Provincetown e di parlare con Sullivan. Okay, Andrew, tu non mi crederai, ma ecco cosa succederà. Tra ventiquattro anni sarai ancora vivo. Lo so, è inverosimile, ma aspetta. Il meglio deve ancora venire. Il libro che hai scritto innescherà un vero e proprio movimento e verrà citato nella storica sentenza della Corte suprema che autorizzerà i matrimoni gay. Sarò con te e con il tuo futuro marito il giorno dopo che avrai ricevuto una lettera dal presidente degli Stati Uniti. La battaglia per le unioni gay, dirà il presidente, è andata a buon fine anche grazie a te. Quel giorno illuminerà la Casa Bianca con i colori della bandiera arcobaleno. Ti inviterà a cena per ringraziarti di ciò che hai fatto. Oh, a proposito, il presidente sarà un nero. Probabilmente ti sarebbe sembrata fantascienza, ma è successo. Non è impresa da poco sovvertire duemila anni di persecuzioni contro gli omosessuali. È accaduto per una sola ragione. Perché un numero sufficiente di persone coraggiose ha unito le forze e l’ha preteso. Ogni singolo lettore di questo libro è il beneficiario di grandi cambiamenti sociali in direzione del progresso civile che parevano impossibili quando qualcuno li propose per la prima volta. Sei una donna? Per legge, le mie nonne non potevano neppure avere un conto corrente tutto loro prima dei quarant’anni. Sei un operaio? Il week-end fu etichettato come un’idea utopistica quando i sindacati iniziarono a combattere per ottenerlo. Sei nero, asiatico o disabile? Non è necessario che continui. 10 Così ho detto a me stesso: se ti balena in testa il pensiero che sia impossibile eliminare le cause sociali della depressione e dell’ansia, fermati e renditi conto che è un sintomo della depressione e dell’ansia. Tuttavia i cambiamenti di cui abbiamo bisogno ora sono enormi. Hanno più o meno la portata della rivoluzione avvenuta nel trattamento riservato agli omosessuali. Eppure quella rivoluzione ha avuto luogo. Dovremo ingaggiare una lunga battaglia per risolvere veramente questi problemi, ma la verità è che siamo alle prese con una profonda crisi. Possiamo negarlo, ma in questo caso resteremo intrappolati nel problema. Sullivan mi ha insegnato che la risposta a una grave crisi non è tornare a casa e piangere, bensì agire in grande, pretendere qualcosa che sembra impossibile, e non darsi pace finché non lo si ottiene. Ogni tanto Rutger, il principale fautore del reddito base universale, legge un articolo su qualcuno che ha fatto una scelta professionale radicale. Un

manager cinquantenne si accorge di essere insoddisfatto e si licenzia per diventare cantante lirico. Una quarantacinquenne molla la Goldman Sachs e va a lavorare per un ente benefico. «Viene sempre presentato come qualcosa di eroico» ha detto Rutger mentre bevevamo la decima Coca-Cola light. Sbalordita, la gente chiede loro: «Hai davvero intenzione di farlo?» Vuoi veramente cambiare vita per sentirti realizzato? È un segno, commenta, di quanto siamo andati fuori strada, di come avere un lavoro appagante sia considerato un’eccezione bizzarra, alla stregua di una vincita alla lotteria, anziché il modo in cui tutti dovremmo vivere. Concedere a ognuno un reddito base garantito, aggiunge, «ci permetterebbe di [dire a tutti]: ‘Certo che farai ciò che vuoi fare. Sei un essere umano. Vivi una volta sola. Preferiresti fare qualcosa che non vuoi?’»

Conclusione: si torna a casa

Un pomeriggio, terminate le ricerche e scritto quasi tutto il libro, ho camminato per ore senza meta lungo le strade di Londra, finché mi sono accorto di essere a un tiro di schioppo dalla farmacia dove quasi vent’anni prima avevo acquistato e inghiottito il mio primo antidepressivo. Mi sono avvicinato e mi sono fermato davanti all’ingresso, ripensando alla storia a cui avevo creduto all’epoca e per molto tempo da quel giorno in poi. Me l’avevano raccontata il mio medico, le grandi case farmaceutiche e i bestseller di quel periodo: il problema è nella tua testa. È uno squilibrio chimico. I tuoi ingranaggi rotti vanno riparati, è questa la soluzione. I clienti mi passavano accanto entrando e uscendo dal negozio e, data la diffusione degli antidepressivi, ero certo che alcuni di loro fossero lì per comprare le pasticche. Forse uno di loro stava per inghiottirne una per la prima volta, e la storia sarebbe ricominciata da capo. Mi sono domandato cosa avrei detto ora, dopo tutto ciò che avevo scoperto, al mio io adolescente se avessi avuto la possibilità di tornare indietro nel tempo e di parlare con lui prima che mandasse giù la prima pasticca in quel punto esatto. Proverei, spero, a raccontargli una storia più sincera sulla sua angoscia. Quello che ti hanno detto finora è falso, direi. Non significa che tutti gli antidepressivi siano dannosi: alcuni autorevoli scienziati sostengono che donano un sollievo temporaneo a una piccola percentuale di pazienti, e non è una cosa da poco. Invece è sbagliato affermare che la depressione dipende da uno squilibrio chimico nel cervello e che la soluzione principale per la maggior parte degli individui è un antidepressivo chimico. Questa storia ha permesso alle grandi case farmaceutiche di guadagnare più di cento miliardi di dollari, 1 e questa è una delle ragioni fondamentali per cui resiste. La vera storia, spiegherei, è nota agli scienziati da decenni. La depressione e l’ansia hanno tre tipi di cause: biologiche, psicologiche e sociali. Sono tutte reali, e nessuna può essere ridotta a qualcosa di rudimentale come l’idea di uno squilibrio chimico. I fattori sociali e

psicologici sono stati ignorati a lungo, anche se pare che quelli biologici non entrino nemmeno in azione senza di loro. Queste cause non sono una stramba teoria marginale, aggiungerei. Sono la conclusione ufficiale delle principali istituzioni mediche internazionali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, la più autorevole del Pianeta, ha riassunto benissimo le prove sperimentali nel 2011, quando ha dichiarato: «La salute mentale si produce a livello sociale: la sua presenza o assenza è soprattutto un indicatore sociale e dunque richiede soluzioni sociali, oltre che individuali». 2 Le Nazioni Unite, nella loro dichiarazione ufficiale per la Giornata mondiale della salute nel 2017, hanno spiegato che «il racconto biomedico dominante della depressione» si basa sull’«uso distorto e selettivo dei risultati di ricerche» che «producono più danni che benefici, indebolendo il diritto alla salute, e che vanno abbandonate». 3 C’è un «crescente corpus di prove», continuano, che dimostra come le cause della depressione siano più profonde; perciò, benché i farmaci abbiano una certa efficacia, dobbiamo smettere di usarli «per risolvere problemi che sono strettamente legati a fattori sociali». Dobbiamo spostare «il punto focale dagli ‘squilibri chimici’ agli ‘squilibri di potere’». Così vorrei dire a quell’adolescente che le implicazioni di queste scoperte per il suo dolore sono enormi. Non sei una macchina con un pezzo rotto. Sei un animale le cui esigenze non vengono soddisfatte. Hai bisogno di una comunità. Hai bisogno di valori importanti, non dei valori spazzatura che ti sono stati inculcati per tutta la vita, facendoti credere che la felicità venga dai soldi e dall’acquisto di cose. Hai bisogno di un lavoro gratificante. Del mondo naturale. Di sentirti rispettato. Di un avvenire sicuro. Di connessioni con tutte queste cose. Di liberarti della vergogna che forse provi per essere stato maltrattato. Ogni essere umano ha queste esigenze e, nella nostra società, siamo abbastanza bravi a soddisfare i bisogni fisici. Per esempio, quasi nessuno muore veramente di fame, il che è un risultato straordinario. Però abbiamo perso la capacità di soddisfare i bisogni psicologici. Questo è uno dei primi motivi per cui tu e molti altri siete depressi e ansiosi. Non soffri di uno squilibrio chimico nel cervello, bensì per uno squilibrio sociale e spirituale nel nostro stile di vita. Molto più di quanto ti abbiano raccontato finora, non dipende dalla serotonina, ma dalla società. Non dal tuo cervello, ma dal tuo dolore. Certo, la biologia può aggravare l’angoscia, ma

non è la sua causa. Non è il fattore scatenante. Non è la sede in cui cercare la spiegazione o la soluzione principale. Poiché ti hanno dato la spiegazione sbagliata sulle cause della depressione o dell’ansia, cerchi la soluzione sbagliata. Poiché ti hanno detto che questi due disturbi sono difetti della chimica cerebrale, smetterai di cercare le risposte nella tua vita, nella tua psiche, nell’ambiente e in una loro eventuale trasformazione. Rimarrai imprigionato nella storia della serotonina. 4 Tenterai di liberarti della depressione nella tua testa, ma non funzionerà a meno che non ti liberi delle cause della depressione nella tua vita. No, direi al mio io più giovane, la tua angoscia non è un malfunzionamento. È un segnale, un segnale necessario. Mi rendo conto che è difficile da accettare, proseguirei, perché so quanto sia profonda la tua sofferenza. Ma questo dolore non è tuo nemico, anche se fa molto male (santo cielo, so benissimo quanto faccia male). È tuo alleato; ti allontana da una vita sprecata e ti indica la strada verso un’esistenza più appagante. Poi gli direi: ora sei a un bivio. Puoi provare ad attenuare il segnale, ma non farai altro che sprecare anni senza alleviare il dolore. Oppure puoi ascoltarlo e lasciare che ti guidi lontano dalle cose che ti fanno soffrire e ti prosciugano le energie, e verso quelle che soddisfano i tuoi veri bisogni. Perché nessuno all’epoca mi ha detto tutto questo? Quando si cerca una spiegazione, quei cento miliardi di dollari incassati sono un buon punto di partenza. Ma non basta; non possiamo dare tutta la colpa alle grandi case farmaceutiche. Il meccanismo ha funzionato, mi rendo conto ora, solo perché si è combinato con una tendenza più profonda della nostra cultura. Per decenni, molto prima dell’avvento di questi nuovi antidepressivi, ci siamo disconnessi da noi stessi e da ciò che conta. Abbiamo perso la fiducia nell’idea di qualcosa di più grande o di più importante dell’individuo e del possesso di beni materiali. Quando ero bambino, Margaret Thatcher disse: «La società non esiste, ci sono soltanto gli individui e le loro famiglie» e, in tutto il mondo, il suo punto di vista ha preso il sopravvento. Ci abbiamo creduto tutti, compresi coloro che pensavano di averlo rifiutato. Ora lo so, perché sono consapevole che quando andai in depressione, per tredici anni non mi passò neppure per l’anticamera del cervello di imputare la mia angoscia al mondo circostante. Ero certo che il problema fosse dentro di me, nella mia testa. Come tutti i miei conoscenti, avevo totalmente privatizzato il

mio dolore. In un mondo convinto che la società non esista, l’idea che la depressione e l’ansia abbiano radici sociali sembrerà incomprensibile. È come parlare in aramaico a un bambino del XXI secolo. Le grandi case farmaceutiche hanno proposto la soluzione di cui una cultura isolata e materialista riteneva di avere bisogno: una soluzione che si potesse comprare. Avevamo perso di vista il fatto che alcuni problemi non si risolvono facendo shopping. Si dà il caso, però, che viviamo tutti in una società, anche se fingiamo di no. Il desiderio di connessione non passa mai. Così invece di considerare la depressione e l’ansia una forma di pazzia, spronerei il mio io più giovane a vedere la logica di questa tristezza. Devi capire che ha un senso, direi. Naturalmente è straziante. Avrò sempre paura che quel dolore ritorni, ogni giorno della mia vita, ma ciò non significa che la sofferenza sia folle o irrazionale. Se avvicini la mano a una stufa accesa, anche quel dolore sarà lancinante, e la staccherai il prima possibile. 5 È una reazione normalissima. Se lasciassi la mano sulla stufa, continuerebbe a bruciare fino a distruggersi. La depressione e l’ansia potrebbero, in un certo senso, essere la reazione più ragionevole che tu possa avere. 6 È un segnale che dice: non sei costretto a vivere in questo modo e, se nessuno ti aiuta a trovare una strada migliore, ti perderai il meglio della vita. Quel pomeriggio mi sono ritrovato a ripensare a tutte le persone che ho conosciuto durante questo viaggio, e a una in particolare. Joanne Cacciatore ha perso sua figlia e ha provato il profondo dolore che è naturale e legittimo quando proviamo un grande amore che poi ci viene portato via. Eppure sapeva che gli psichiatri diagnosticavano una malattia mentale e prescrivevano farmaci alle persone sofferenti se la loro angoscia straziante persisteva dopo un breve lasso di tempo. Joanne mi ha detto che il lutto è necessario. Soffriamo perché abbiamo amato, perché la persona che abbiamo perduto ci stava a cuore. Dire che il lutto deve scomparire entro un certo numero di giorni è un insulto all’amore che abbiamo provato. Non a caso, mi ha spiegato, il lutto e la depressione hanno sintomi identici. La depressione, ho pensato allora, è una forma di lutto per tutte le connessioni di cui abbiamo bisogno, ma che non abbiamo. Ho capito una cosa: come era un insulto nei confronti di Joanne dire che il dolore incessante per la perdita di sua figlia era una disfunzione mentale,

era un insulto al mio io adolescente dire che il suo dolore era soltanto il risultato di una chimica cerebrale difettosa. Era un insulto a ciò che aveva passato e alle sue esigenze. Oggi, in tutto il mondo, il dolore delle persone viene insultato. Dobbiamo cominciare a rimandare questo insulto al mittente e a pretendere maggiore attenzione verso i veri problemi da risolvere. Negli ultimi anni, mentre raccoglievo tutte queste informazioni, ho cercato di applicarle alla mia vita. Ho provato alcuni degli strumenti psicologici di cui ho parlato in questo libro: ho trascorso meno tempo a gonfiare il mio ego, a cercare beni materiali, a cercare uno status superiore. Queste, ora lo so, erano tutte droghe che alla fine mi facevano stare ancora peggio. Ho imparato a investire più ore in obiettivi che corrispondano ai miei valori intrinseci. Ho usato tecniche come la meditazione per essere più tranquillo. Mi sono riconciliato con il mio trauma. Ho iniziato a usare anche alcuni strumenti sociali. Mi sono sforzato di interagire di più con gli altri: amici, familiari, sostenitori di cause più grandi della mia. Ho modificato il mio ambiente per non essere circondato da cose che suscitassero pensieri deprimenti. Ho ridotto drasticamente l’uso dei social, ho smesso di guardare i programmi televisivi pieni di pubblicità. Invece dedico molto più tempo al rapporto diretto con le persone che amo e alle cause che contano davvero. Sono più connesso agli altri e al significato della vita di quanto lo sia mai stato prima. Quando ho introdotto questi cambiamenti, la depressione e l’ansia si sono notevolmente ridimensionate. Certo, non è tutto rose e fiori. Ho ancora delle giornatacce, sia per le difficoltà personali sia perché continuo a vivere in una cultura in cui tutte le forze cui ho accennato sono dilaganti. Ma non provo più quel dolore incontrollabile. È svanito. Sono restio, tuttavia, a concludere questo libro con il messaggio semplicistico ‘io ce l’ho fatta, potete farcela anche voi’. Non sarebbe onesto. Sono riuscito a operare questi cambiamenti perché sono davvero fortunato. Ho un lavoro compatibile con uno stile di vita molto diverso; ho avuto molto tempo; grazie al mio libro precedente avevo guadagnato abbastanza soldi per prendermi una pausa; non ho figli o altre persone cui provvedere. Molti lettori depressi e ansiosi si muovono, per colpa della cultura in cui siamo immersi, entro parametri molto più angusti dei miei. È per questa ragione che, secondo me, non dovremmo – anzi, non dobbiamo – parlare di risolvere la depressione e l’ansia solo attraverso i

cambiamenti individuali. Dire che la soluzione consiste unicamente o principalmente nel dare qualche ritocco alla loro vita equivarrebbe a negare molti degli insegnamenti derivati da questo viaggio. Una volta compreso che la depressione è perlopiù un problema collettivo, provocato da una disfunzione culturale, diventa ovvio che anche le soluzioni devono essere perlopiù collettive. Dobbiamo cambiare la società affinché più persone siano libere di cambiare la propria vita. Finora abbiamo scaricato la responsabilità di superare la depressione e l’ansia sugli individui depressi e ansiosi. Facciamo loro la ramanzina o li blandiamo dicendo che devono impegnarsi di più (o ingoiare pasticche). Ma se le cause del problema non sono soltanto dentro di loro, non lo è neppure la soluzione. Collettivamente, tutti insieme, dobbiamo cambiare la società, estirpare i fattori scatenanti di questi due disturbi che seminano infelicità. È questa, dunque, la cosa più importante che vorrei dire al mio io adolescente. Non riuscirai a risolvere il problema da solo. Non è un tuo difetto. Il desiderio di questo cambiamento è ovunque intorno a te, latente appena sotto la superficie. Mentre leggi queste parole, osserva i passeggeri seduti di fronte a te sulla metropolitana. Molti di loro sono depressi e ansiosi. Molti altri sono inutilmente infelici, smarriti nel mondo che abbiamo creato. Se rimanete frammentati e isolati, probabilmente continuerete a essere depressi e ansiosi. Ma se unite le forze, potete cambiare il mondo che vi circonda. A Kotti, il cambiamento è scaturito da una richiesta prosaica come il congelamento degli affitti ma, mentre protestavano, i residenti si sono accorti di aver rinunciato a molte connessioni per lungo tempo. Ho riflettuto molto sulle parole di una manifestante. Come ho detto, è cresciuta in un villaggio in Turchia e lo considerava casa sua. Quando è arrivata in Europa, ha scoperto che casa tua è soltanto il tuo appartamento, e si è sentita sola. Quando è iniziata la protesta, tuttavia, ha cominciato a considerare casa sua tutto il quartiere e i suoi abitanti. Si è resa conto di aver avuto la sensazione di essere senza casa per più di trent’anni e di averne finalmente ritrovata una. Oggi, in Occidente, molti di noi sono senza casa. A quelli di Kotti è bastato un piccolo impulso, un momento di connessione, per capirlo e individuare una soluzione. Ma ci è voluto qualcuno che desse il via alle proteste. È questo che vorrei dire al mio io adolescente. Devi aprirti alle altre persone ferite intorno a te e trovare il modo per connetterti con loro e per

costruire una casa insieme, un luogo in cui siate legati uno all’altro e troviate insieme il significato della vita. 7 Ormai siamo senza tribù e senza connessioni da troppo tempo. È ora di tornare a casa. In quell’istante, finalmente ho capito per la prima volta perché, durante questo viaggio, avevo continuato a pensare al giorno in cui ero stato male in Vietnam. Quando implorai che mi somministrassero dei farmaci per alleviare il sintomo peggiore – la nausea – il dottore disse: «Hai bisogno della nausea. È un messaggio e dobbiamo ascoltarlo. Ci dirà cos’hai che non va». Se avessi ignorato o messo a tacere quel sintomo, i miei reni sarebbero collassati e io sarei morto. Avete bisogno della nausea. Avete bisogno del dolore. È un messaggio e dobbiamo ascoltarlo. Le persone depresse e ansiose di tutto il mondo ci lanciano un messaggio. Ci dicono che qualcosa non va nel nostro stile di vita. Dobbiamo smettere di attenuare, soffocare o patologizzare il dolore. Invece dobbiamo ascoltarlo e onorarlo. Solo così potremo risalire alla sua fonte, e solo allora, quando ne avremo individuate le vere cause, potremo iniziare a superarlo.

Per tenervi aggiornati sui nuovi sviluppi nel campo della depressione e dell’ansia potete: a) seguire la pagina Facebook di questo libro: www.facebook.com/thelostconnections; b) seguire Johann su Twitter: www.twitter.com/johannhari101; c) registrarvi su www.thelostconnections.com/updates per ricevere aggiornamenti occasionali via e-mail.

Ringraziamenti

Non si può scrivere un libro come questo senza l’aiuto di moltissime persone. Voglio ringraziare anzitutto Eve Ensler, che non è solo un’amica straordinaria e la persona migliore che si possa sperare per scambiarci idee, ma anche una fonte d’ispirazione per combattere le ingiustizie con gioia anziché con rabbia. Allo stesso modo, ringrazio la mia amica Naomi Klein, che sa riflettere a fondo su questioni complesse senza ridurne o tradirne la complessità. Le persone con cui ho contratto il maggiore debito di gratitudine mentre scrivevo questo libro sono gli scienziati sociali che hanno condotto le ricerche qui citate e che hanno risposto pazientemente alle mie domande e alle mie infinite richieste di chiarimenti. Le scienze sociali sono uno degli strumenti più sottovalutati per migliorare il mondo. In questo contesto, vorrei ringraziare i docenti che mi hanno insegnato questa materia a Cambridge, in particolare David Good, Patrick Baert e John Dunn. Ovunque abbia riassunto il lavoro o parti della vita di qualcuno in questo volume, ce l’ho messa tutta per assicurarmi che le informazioni fossero accurate. Ci tengo a sottolineare che questi sono i miei resoconti delle loro idee e scoperte e che i diretti interessati potrebbero darne un’interpretazione diversa: non vanno intesi come il loro punto di vista sugli argomenti trattati. Per questo vi consiglio di leggere le loro opere, indicate nelle note. Questo libro prende spunto da una conversazione con il mio ottimo agente americano Richard Pine e, senza la sua insistenza, non avrebbe mai visto la luce. Anche il mio editor alla Bloomsbury, Anton Mueller, ha contribuito a migliorare notevolmente il testo. Ringrazio inoltre Peter Robinson, il mio straordinario agente letterario britannico; Roxana Ardle, la mia agente cinematografica; e Charles Yao, il mio addetto stampa. Grazie anche ad Alexa von Hirschberg, Grace McNamee, Sara Kitchen e Hermione Lawton della Bloomsbury. I miei amici hanno sopportato le mie interminabili discussioni sull’argomento, e le loro domande e osservazioni hanno trasformato il mio approccio. Ringrazio in particolare Alex Higgins, Dorothy Byrne, Jake Hess,

Decca Aitkenhead (che mi ha dato alcuni geniali suggerimenti di editing), Rachel Shubert, Rob Blackhurst, Ammie al-Whatey, Judy Counihan, Harry Woodlock, Josepha Jacobson, Matt Getz, Jay Luxembourg, Noam Chomsky, Chris Wilkinson, Harry Quilter-Pinner, Peter Marshall, Sarah Punshon, Dan Bye, Dot Punshon, Alex Ferreira, Andrew Sullivan, Imtiaz Shams, Anna Powell-Smith, Jemima Khan, Lucy Johnstone, Avi Lewis, Zeynep Gurtin, Jason Hickel, Stuart Rodger, Deborah Orr, Stanton Peele, Peter Marshall, Jacquie Grice, Patrick Strudwick, Ben Stewart, Jamie Byng, Crispin Somervile e Joss Garman. Nel corso degli anni, da quando ero teenager, ho avuto molte discussioni proficue sulla depressione e sull’ansia con Emily De Peyer, Rosanne Levine, Mike Legg, John Williams, Alex Broadbent, Ben Cranfield, David Pearson, Zoe Ross, Lawrence Morley, Laura Carey, Jeremy Morgale, Matt Rowland Hill e Eve Greenwood. Forse le domande e le osservazioni di Stephen Grosz hanno contribuito più di tutte a plasmare le mie conclusioni su questi temi: consiglio a tutti il suo magnifico libro La storia che non possiamo raccontare. Il team di TED mi ha invitato a una conferenza a Banff, in Canada, dove ho conosciuto alcuni dei personaggi chiave di questo volume: la mia riconoscenza va, in particolare, a Bruno Giussani e Helen Walters. I miei amici Martin Kirk e Alnoor Ladha del gruppo attivista The Rules mi hanno portato a Montreal e infuso la loro saggezza per tutto il periodo in cui ho lavorato a questo libro. Per saperne di più sulle loro brillanti iniziative andate su www.therules.org. A Kotti sono stati tutti fantastici. Un ringraziamento particolare va a Matthias Clausen, che mi ha aiutato moltissimo. Jim Cates ha messo a mia disposizione tempo e intuizioni quando mi ha accompagnato in una comunità amish nell’Indiana (e mi ha mostrato il tombino più grande del mondo). Kate McNaughton mi ha offerto un alloggio e la sua saggezza a Berlino, e Jacinta Nandi mi ha riempito di gioia, come sempre. Stephen Fry mi ha parlato di E.M. Forster a Los Angeles e mi ha dato una mano a schiarirmi le idee sulla connessione. CarolLee Kidd ha trascritto le interviste: se vi serve un eccellente servizio di trascrizione, inviatele un’email all’indirizzo [email protected]. In Danimarca, Kim Norager mi ha aiutato a organizzare le interviste. A Sydney, il Festival of Dangerous Ideas mi ha dato la possibilità di intervistare molte persone, e sono molto grato anche a Emanuel Stamatakis per i consigli sulla verifica

delle informazioni e sull’accuratezza scientifica. A Città del Messico, Sofia Garcia e Tania Rojas Garcia mi hanno trasmesso la loro interessante visione di questi argomenti. A Vancouver, Gabor Maté mi ha introdotto al lavoro di Vincent Felitti e mi ha insegnato molte altre cose. A Toronto, Heather Mallick mi ha dato suggerimenti molto utili. In Norvegia, Sturla Haugsjerd e Oda Julie mi hanno aiutato enormemente. A San Paolo ho trovato una logica in ogni cosa grazie a Rebecca Lerer. E in Vietnam, il mio impagabile contatto Dang Hoang Linh mi ha impedito di vomitare fino a morire, cosa per cui gli sarò riconoscente in eterno. Il fantastico e benevolo psicologo Bruce Alexander mi ha trasmesso una visione diversa della salute mentale anzitutto attraverso il suo esperimento «Rat Park», di cui ho discusso nel mio libro precedente, Chasing the Scream. Jake e Joe Wilkinson hanno contribuito a dare forma a questo libro, rendendomi molto felice. Lo stesso dicasi per i miei genitori Violet McRae e Eduard Hari, i miei fratelli Elisa e Steven, mia cognata Nicola e i miei nipoti Josh, Aaron, Ben ed Erin. Se volete imparare la meditazione della gioia compartecipe dalla stessa persona da cui l’ho imparata io – di persona nell’Illinois oppure online – andate su rachelshubert.com; Rachel lavora anche nelle carceri e negli asili. Se volete acquistare una bicicletta da qualunque luogo degli Stati Uniti, ordinatela al Baltimore Bicycle Works (le spediscono in tutto il Paese) e sostenete i posti di lavoro democratici: www.baltimorebicycleworks.com. Anche se non leggeranno mai queste righe, tre autori che amo mi hanno aiutato a riflettere – ciascuno a modo suo – su questa questione: James Baldwin, E.M. Forster (che tutti fraintendono quando si parla di connessione – un giorno chiedetemi come) e Andrea Dworkin. Una scrittrice che potrebbe leggere queste righe, perché è ancora viva, la cui produzione mi ha aiutato a riflettere più a fondo su questi argomenti, è Zadie Smith, a mio giudizio la grande poetessa delle forme contemporanee di disconnessione. Un ultimo ringraziamento speciale va alla mia amica Lizzie Davidson, la cui capacità di scovare il recapito di chiunque si voglia intervistare è letteralmente fuori del comune. Il suo sostegno tecnico e la sua bravura nello stanare i fatti, dopo avermi sconcertato, si sono rivelati indispensabili per questo libro e probabilmente, tra dieci anni, le permetteranno di dirigere l’Agenzia per la sicurezza nazionale (non mandarmi a Guantanamo, Lizzie). Eventuali errori contenuti in questo volume sono interamente colpa mia. Per me è molto importante che tutti i fatti qui riferiti siano corretti. Se

qualche inesattezza è sfuggita ai nostri meticolosi controlli, vi prego di inviarmi un’email a [email protected], e li correggeremo nelle edizioni future. Visitate il sito del libro per la lista completa di quelli che mi sono stati segnalati.

Prologo: la mela

1 Le citazioni di questa introduzione sono riportate a memoria, in appunti presi poco dopo l’episodio. Dang Hoang Linh, il mio interprete e contatto in Vietnam, fu presente per tutto il tempo e ha confermato per iscritto che questo resoconto corrisponde anche ai suoi ricordi più vividi. Dato che non continuava a vomitare, probabilmente è più affidabile di me!

Introduzione: un mistero

1 Questa formula fu inaugurata da Peter D. Kramer, Listening to Prozac, Penguin, New York 1997 (tr. it. La pillola della felicità, Sansoni, Milano 1994). 2 Mark Rapley, Joanna Moncrieff e Jacqui Dillon, ed., De-Medicalizing Misery: Psychiatry, Psychology and the Human Condition, Palgrave Macmillan, London 2011, p. 7. 3 Citato a memoria, scritto anni dopo; ho verificato con il mio psicoterapeuta e ha confermato ai curatori di questo libro che il mio resoconto combaciava con i suoi ricordi. 4 Allen Frances, Saving Normal: An Insider’s Revolt against Out-ofControl Psychiatric Diagnosis, DSM-5, Big Pharma, and the Medicalization of Ordinary Life, William Morrow, New York 2014, p. xiv (tr. it. Primo, non curare chi è normale: contro l’invenzione delle malattie, Bollati Boringhieri, Torino 2013). 5 www.health.harvard.edu/blog/…, accesso: 8 gennaio 2016; Edward Shorter, How Everyone Became Depressed: The Rise and Fall of the Nervous Breakdown, Oxford University Press, New York 2013, pp. 2, 172. 6 Carl Cohen e Sami Timimi, ed., Liberatory Psychiatry: Philosophy, Politics and Mental Health, Cambridge University Press, Cambridge 2008; Alan Schwarz e Sarah Cohen, A.D.H.D. Seen in 11% of U.S. Children as Diagnoses, New York Times, 31 marzo 2013, www.nytimes.com/2013/…; Ryan D’Agostino, The Drugging of the American Boy, Esquire, 27 marzo 2014, www.esquire.com/news-politics/…; Marilyn Wedge, Why French Kids Don’t Have ADHD, Psychology Today, 8 marzo 2012, www.psychologytoday.com/blog/…; Jenifer Goodwin, Number of U.S. Kids on ADHD Meds Keeps Rising, USNews.com, 28 settembre 2011, http://health.usnews.com/health-news/…, accesso: 8 gennaio 2016. 7 France’s drug addiction: 1 in 3 on psychotropic medication, France24, 20 maggio 2014, www.france24.com/en/…, accesso: 8 gennaio 2016. 8 Dan Lewer et al., Antidepressant use in 27 European countries:

associations with sociodemographic, cultural and economic factors, British Journal of Psychiatry, 207, no. 3, luglio 2015, pp. 221-226, doi: 10.1192/bjp.bp.114.156786, accesso: 1° giugno 2016. 9 Matt Harvey, Your tap water is probably laced with antidepressants, Salon, 14 marzo 2013, www.salon.com/2013/…; Prozac «found in drinking water», BBC News, 8 agosto 2004, http://news.bbc.co.uk/1/hi/health/3545684.stm, accesso a entrambi: 8 gennaio 2016. 10 Come la maggior parte delle persone che assumono antidepressivi per lungo tempo, in passato avevo già interrotto la terapia per diversi mesi, e ne ho scritto in varie sedi, ma quello fu il momento in cui smisi una volta per tutte. 11 Ho scritto articoli sull’argomento per oltre dieci anni, soprattutto per l’Independent e l’Evening Standard. Come spiegato nell’introduzione, riguardo ad alcuni aspetti di questi temi muovevo qualche passo verso le ricerche contenute in questo libro, modificavo leggermente il mio approccio e poi facevo marcia indietro, perché ero troppo spaventato all’idea di dover ripensare il tutto. In questo volume non ho descritto ogni piccolo cambiamento della mia concezione. A volte avevo qualche frammento delle intuizioni che ho approfondito in queste pagine, ma non duravano mai a lungo e non hanno mai impedito alla fede nella teoria dello squilibrio chimico di riaffiorarmi alla mente e di eclissare gli altri pensieri più complessi che facevo di tanto in tanto. Quando ho cominciato a scrivere questo libro, tuttavia, ero ancora un fermo sostenitore di questa ipotesi: ci avevo creduto all’inizio della terapia antidepressiva, per quasi tutta la sua durata e, di nuovo, alla fine del suo ultimo periodo. Questo volume è un tentativo di riflettere su queste diverse intuizioni. 12 www.nimh.nih.gov/about/…, accesso: 10 gennaio 2017. 13 Per ulteriori informazioni si veda Edward Shorter, How Everyone Became Depressed, op. cit. Farei un’eccezione per le fobie causate da esperienze traumatiche: per esempio, trovarsi su un aereo che precipita e poi cominciare ad avere paura di volare. Anche questi fenomeni sono classificati come ‘disturbi d’ansia’, ma non sono l’argomento di questo libro. Sono oggetto di altri studi scientifici e hanno perlopiù cause diverse da quelle della depressione o di quelli che quasi tutti considerano disturbi d’ansia generalizzati. 14 In tutto il libro attingo da due diversi tipi di esperienze che ho

accumulato negli anni. Il primo è la rigorosa formazione che ho ricevuto nell’ambito delle scienze sociali quando studiavo all’università di Cambridge. Le scienze sociali sono il campo in cui si applica il metodo scientifico non a ciò che succede in una provetta o in un acceleratore di particelle, bensì a come io e voi viviamo ogni giorno, alla vita sociale. È lo studio scientifico del modo in cui le persone vivono. Spazia dalla psicologia alla sociologia, all’antropologia. Questa formazione ha fatto sì, spero, che capissi come passare al vaglio le prove da esaminare e come distinguere quelle valide. Il secondo è la narrazione. Faccio il giornalista da quindici anni e ho imparato che assorbiamo molto meglio le informazioni se ci vengono esposte attraverso la storia di un altro essere umano. Così vi descriverò questi studi attraverso la mia storia e quella di alcune persone straordinarie che ho avuto occasione di conoscere. Una singola storia, tuttavia, non dimostra granché. La molteplicità degli aneddoti non è una prova. È per questo che ho cercato di raccontare solo storie personali che confermano le prove scientifiche o che ci guidano nella loro direzione. La scienza viene per prima. Se in questo libro dovessi raccontarvi storie che vanno al di là delle prove, o sul cui significato gli scienziati sono in profondo disaccordo, non esiterò a segnalarvelo.

1. La bacchetta

1 John Haygarth, Of the Imagination as a Cause And as a Cure of Disorders of the Body, Exemplified by Fictitious Tractors and Epidemical Convulsions, R. Crutwell, London 1800; Stewart Justman, Imagination’s Trickery: The Discovery of the Placebo Effect, The Journal of the Historical Society, 10, no. 1, marzo 2010, pp. 57-73, doi: 10.1111/j.15405923.2009.00292.x, accesso: 1° gennaio 2016; Joel Falack e Julia M. Wright, ed., A Handbook of Romanticism Studies, Wiley, Chichester e Malden 2012, pp. 31-32; Heather R. Beatty, Nervous Disease in Late Eighteenth-Century Britain: The Reality of a Fashionable Disorder, Pickering and Chatto, London, Vermont, 2011. 2 Irving Kirsch, The Emperor’s New Drugs: Exploding the Antidepressant Myth, Bodley Head, London 2009, p. 1 (tr. it. I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito, Tecniche Nuove, Milano 2012). 3 Dylan Evans, Placebo: The Belief Effect, Harper-Collins, New York 2003, p. 35. 4 Ibid., pp. 1-2; Ben Goldacre, Bad Science: Quacks, Hacks, and Big Pharma Flacks, Harper, London 2009, p. 64 (tr. it. La cattiva scienza, Bruno Mondadori, Milano 2009). 5 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., p. 7. 6 Ibid., pp. 9-11. Per questo capitolo e per il successivo ho attinto dai seguenti studi (oltre che da molti altri): Irving Kirsch e Guy Sapirstein, Listening to Prozac but Hearing Placebo: A Meta-Analysis of Antidepressant Medication, Prevention & Treatment, 1, no. 2, giugno 1998; Kirsch, Antidepressants and the Placebo Effect, Z Psychol, 222, no. 3, 2014, pp. 128-134, doi: 10.1027/2151-2604/a000176; Kirsch, Challenging Received Wisdom: Antidepressants and the Placebo Effect, MJM, 11, no. 2, 2008, pp. 219-222, PMCID: PMC2582668; Kirsch et al., Initial Severity and Antidepressant Benefits: A Meta-Analysis of Data Submitted to the Food and Drug Administration, http://dx.doi.org/10.1371/journal.pmed.0050045; Kirsch et al., The emperor’s new drugs: An analysis of antidepressant medication data

submitted to the U.S. Food and Drug Administration, Prevention & Treatment, 5, no. 1, luglio 2002, http://dx.doi.org/10.1037/15223736.5.1.523a; Kirsch, ed., Efficacy of antidepressants in adults, BMJ, 2005, p. 331, doi: https://doi.org/10.1136/bmj.331.7509.155; Kirsch, ed., How Expectancies Shape Experience, American Psychological Association, Washington, DC, 1999, pp. xiv, 431, http://dx.doi.org/10.1037/10332-000; Kirsch et al., Antidepressants and placebos: Secrets, revelations, and unanswered questions, Prevention & Treatment, 5, no. 1, luglio 2002, numeri di pagina non disponibili, articolo 33, http://dx.doi.org/10.1037/15223736.5.1.533r; Irving Kirsch e Steven Jay Lynn, Automaticity in clinical psychology, American Psychologist, 54, no. 7, luglio 1999, 504-515, http://dx.doi.org/10.1037/0003-066X.54.7.504; Arif Khan et al., A Systematic Review of Comparative Efficacy of Treatments and Controls for Depression, http://dx.doi.org/10.1371/journal.pone.0041778; Kirsch, Yes, there is a placebo effect, but is there a powerful antidepressant drug effect?, Prevention & Treatment, 5, no. 1, luglio 2002, numeri di pagina non disponibili, articolo 22, http://dx.doi.org/10.1037/1522-3736.5.1.522i; Ben Whalley et al., Consistency of the placebo effect, Journal of Psychosomatic Research, 64, no. 5, maggio 2008, pp. 537-541; Kirsch et al., National Depressive and Manic-Depressive Association Consensus Statement on the Use of Placebo in Clinical Trials of Mood Disorders, Arch Gen Psychiatry, 59, no. 3, 2002, pp. 262-270, doi:10.1001/archpsyc.59.3.262; Kirsch, St John’s wort, conventional medication, and placebo: an egregious double standard, Complementary Therapies in Medicine, 11, no. 3, settembre 2003, pp. 193-195; Kirsch, Antidepressants Versus Placebos: Meaningful Advantages Are Lacking, Psychiatric Times, 1° settembre 2001, 6, Academic OneFile, accesso: 5 novembre 2016; Kirsch, Reducing noise and hearing placebo more clearly, Prevention & Treatment, 1, no. 2, giugno 1998, numeri di pagina non disponibili, articolo 7r, http://dx.doi.org/10.1037/15223736.1.1.17r; Kirsch et al., Calculations are correct: reconsidering Fountoulakis & Möller’s re-analysis of the Kirsch data, International Journal of Neuropsychopharmacology, 15, no. 8, agosto 2012, pp. 11931198, doi: https://doi.org/10.1017/S14611457 11001878; Erik Turner et al., Selective Publication of Antidepressant Trials and Its Influence on Apparent Efficacy, N Engl J Med, 358, 2008, pp. 252-260, doi: 10.1056/NEJMsa065779. 7 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., p. 25. Il mio amico Ben

Goldacre ha fatto un lavoro straordinario sul bias di pubblicazione. Per qualche informazione di base si veda www.badscience.net/category/…. 8 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., pp. 26-27. 9 Ibid., p. 41. 10 Ibid., p. 38. 11 Ibid., p. 40; http://web.law.columbia.edu/sites/…; www.independent.co.uk/news/…; http://news.bbc.co.uk/1/hi/business/3631448.stm; www.pharmatimes.com/news/…; www.nbcnews.com/id/…; http://study329.org/; http://science.sciencemag.org/content/…; www.nature.com/nature/…; accesso: 3 gennaio 2017; Wayne Kondro e Barb Sibbald, Drug company experts advised staff to withhold data about SSRI use in children, Canadian Medical Association Journal, 170, no. 5, marzo 2004, p. 783. 12 Andrea Cipriani et al., Comparative efficacy and tolerability of antidepressants for major depressive disorder in children and adolescents: a network meta-analysis, The Lancet, 338, no. 10047, agosto 2016, pp. 881890, doi: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736 (16)30385-3, accesso: 1° novembre 2016. 13 Per capire il contesto più ampio consiglierei tre libri davvero magnifici: Ben Goldacre, Bad Pharma: How Drug Companies Mislead Doctors and Harm Patients, Fourth Estate, London 2012 (tr. it. Effetti collaterali: come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti, Mondadori, Milano 2013; Marcia Angell, The Truth About Drug Companies: How They Deceive Us and What We Can Do About It, Random House, New York 2004 (tr. it. Farma&co.: storie straordinarie di ordinaria corruzione, Il Saggiatore, Milano 2006; Harriet A. Washington, Deadly Monopolies: the Shocking Corporate Takeover of Life Itself, Anchor, New York 2013.

2. Lo squilibrio

1 David Healy, Let Them Eat Prozac, New York University Press, New York, London 2004, p. 263. 2 John Read e Pete Saunders, A Straight-Talking Introduction to The Causes of Mental Health Problems, PCCS Books, Ross-on-Wye 2011, pp. 43-45. 3 Katherine Sharpe, Coming of Age on Zoloft: How Anti-depressants Cheered Us Up, Let Us Down, and Changed Who We Are, Harper, New York 2012, p. 31; articolo senza titolo, Popular Science, novembre 1958, pp. 149152. Si veda anche https://deepblue.lib.umich.edu/bitstream/handle/2027.42/83270/LDH%20science%20gender.pd sequence=1, accesso: 20 settembre 2016; TB Milestone, rivista Life, 3 marzo 1952, pp. 20-21; Scott Stossell, My Age of Anxiety: Fear, Hope, Dread, and the Search for Peace of Mind, William Heinemann, London 2014, p. 171. 4 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., pp. 83-85. 5 Gary Greenberg, Manufacturing Depression: The Secret History of a Modern Disease, Bloomsbury, London 2010, pp. 167-168 (tr. it. Storia segreta del male oscuro, Bollati Boringhieri, Torino 2014). Si veda anche Gary Greenberg, The Noble Lie: When Scientists Give the Right Answers for the Wrong Reasons, Wiley, Hoboken 2008. Ho anche intervistato il dottor Greenberg. 6 James Davies, Cracked: Why Psychiatry Is Doing More Harm Than Good, Icon Books, London 2013, p. 29. 7 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., pp. 91-92. 8 Edward Shorter, How Everyone Became Depressed, op. cit., pp. 4-5; Davies, Cracked, op. cit., p. 125; Gary Greenberg, The Book of Woe: The DSM and the Unmasking of Psychiatry, Scribe, Victoria 2013, pp. 62-4; Gary Greenberg, Manufacturing Depression, op. cit., pp. 160-168, 274-276. 9 H.G. Ruhé, et al., Mood is indirectly related to serotonin, norepinephrine, and dopamine levels in humans: a meta-analysis of monoamine depletion studies, Mol Psychiatry, 8, no. 12, aprile 2007, pp. 951-

973. 10 Davies, Cracked, op. cit., p. 128; Read e Saunders, A StraightTalking Introduction, op. cit., p. 45. 11 Shorter, How Everyone Became Depressed, op. cit., pp. 156-159. 12 Lawrence H. Diller, Running on Ritalin: A Physician Reflects on Children, Society, and Performance in a Pill, Bantam Books, New York 1999, p. 128. 13 Consiglio i suoi ottimi libri. Joanna Moncrieff, The Myth of the Chemical Cure: A Critique of Psychiatric Treatment, Palgrave Macmillan, London 2009; e Mark Rapley, Joanna Moncrieff e Jacqui Dillon, ed., DeMedicalizing Misery: Psychiatry, Psychology and the Human Condition, op. cit. Hanno contribuito entrambi a plasmare il mio approccio. 14 Consiglio i suoi splendidi libri: A Straight-Talking Guide To Psychiatric Diagnosis, PCCS, London 2014; Formulation In Psychology and Psychotherapy, Routledge, London 2006 e Users and Abusers of Psychiatry, Routledge, London 1989. 15 Questo è un adattamento della metafora che il grande giornalista californiano Robert Scheer usò per descrivere lo smantellamento della legislazione bancaria che sfociò nella crisi dei pignoramenti immobiliari. 16 David H. Freedman, Lies, Damned Lies, and Medical Science, The Atlantic, novembre 2010, www.theatlantic.com/magazine/…, accesso: 20 marzo 2016. 17 Quando gli ho inviato i suoi commenti, il professor Ioannidis mi ha pregato di fare alcune piccole modifiche, perciò c’è qualche leggera differenza tra l’audio di queste citazioni, disponibile sul sito, e le dichiarazioni qui riportate. 18 H. Edmund Pigott et al., Efficacy and Effectiveness of Antidepressants: Current Status of Research, Psychotherapy and Psychosomatics, 79, 2010, pp. 267-279, doi: 10.1159/000318293; Yasmina Molero et al., Selective Serotonin Reuptake Inhibitors and Violent Crime: A Cohort Study, PLOS Medicine, 12, no. 9, settembre 2015, doi:10.1371/journal.pmed.1001875; Paul W. Andrews, Primum non nocere: an evolutionary analysis of whether antidepressants do more harm than good, Frontiers in Psychology, 3, no. 177, aprile 2012, https://doi.org/10.3389/fpsyg.2012.00117; A. D. Domar, The risks of selective serotonin reuptake inhibitor use in infertile women: a review of the impact on fertility, pregnancy, neonatal health and beyond, Human

Reproduction, 28, no. 1, 2013, pp. 160-171; Dheeraj Rai, Parental depression, maternal antidepressant use during pregnancy, and risk of autism spectrum disorders: population based case-control study, BMJ, 346, aprile 2013; doi: https://doi.org/10.1136/bmj.f2059; André F. Carvalho et al., The Safety, Tolerability and Risks Associated with the Use of Newer Generation Antidepressant Drugs: A Critical Review of the Literature, Psychotherapy and Psychosomatics, 85, 2016, pp. 270-288, https://doi.org/10.1159/000447034. 19 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., p.153. 20 John Haygarth, Of the Imagination as a Cause, op. cit., p. 25. 21 Peter D. Kramer, Listening To Prozac, op. cit., pp. VI-VII. 22 Questo è il mio migliore tentativo di riassumere le ricerche di Peter Kramer. Leggendo i suoi articoli ho notato che sembra reagire aggressivamente a chiunque non elogi il suo lavoro. Qui ho cercato di ricapitolare in termini obiettivi e imparziali il nucleo della sua tesi. Potrebbe tranquillamente non essere d’accordo. Se volete leggere le sue argomentazioni direttamente dalla sua penna, vi consiglio il libro: Peter D. Kramer, Ordinarily Well: The Case for Anti-Depressants, Farrar, Straus and Giroux, New York 2016. 23 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., pp. 63-67; Davies, Cracked, op. cit., p. 143. 24 Peter D. Kramer, Ordinarily Well, op. cit., p. 127. 25 Joanna Moncrieff, The Myth of the Chemical Cure, op. cit., p. 143. 26 Peter D. Kramer, Ordinarily Well, op. cit., pp. 132-133, 138-146. 27 Li usai per tredici anni, con alcune brevi pause. Durante l’intervista gli ho detto per sbaglio di averli assunti per quattordici anni, ecco perché ha usato questa cifra. 28 Evans, Emperor’s New Drugs, op. cit., pp. 58-62, 73, 94; Healy, Let Them Eat Prozac, op. cit., p. 29. 29 Diane Warden et al., The STAR-D Project Results: A Comprehensive Review of Findings, Current Psychiatry Reports, 9, no. 6, 2007, pp. 449-459; A. John Rush et al., Acute and Longer-Term Outcomes in Depressed Outpatients Requiring One or Several Treatment Steps: A STAR-D Report, American Journal of Psychiatry, 163, 2006, pp. 1905-1917; Bradley Gaynes et al., What Did STAR-D Teach Us? Results from a Large-Scale, Practical, Clinical Trial for Patients With Depression, Psychiatric Services, 60, no. 11, novembre 2009, http://dx.doi.org/10.1176/ps.2009.60.11.1439; Mark Sinyor

et al., The Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression (STAR-D) Trial: A Review, Canadian Journal of Psychiatry, 55, no. 3, marzo 2010, pp. 126-135, doi: 10.1177/070674371005500303; Thomas Insel at al., The STARD Trial: Revealing the Need for Better Treatments, Psychiatric Services, 60, 2009, pp. 1466-1467. Warden et al., The STAR-D project results: A comprehensive review of findings, Current Psychiatry Reports, 9, no. 6, dicembre 2007, pp. 449-459. Le prove dello Star-D vengono contestate da Peter Kramer in modo, a mio avviso, poco convincente: chiunque voglia leggere le sue obiezioni può trovarle in Ordinarily Well, op. cit., pp. 192-193. Si veda anche Robert Whitaker, Mad in America: History, Science, and the Treatment of Psychiatric Disorders, Psychology Today, https://www.psychology today.com/blog/mad-in-america/201008/the-stardscandal-new-paper-sums-it-all; www.nimh.nih.gov/funding/…, accesso: 1° novembre 2016. 30 P.K. Corey-Lisle et al., Response, Partial Response, and Nonresponse in Primary Care Treatment of Depression, Archives of Internal Medicine, 164, 2004, pp. 1197-1204; Trivedi et al., Medication Augmentation after the Failure of SSRIs for Depression, New England Journal of Medicine, 354, 2006, pp. 1243-1252; Stephen S. Ilardi, The Depression Cure: The SixStep Programme to Beat Depression Without Drugs, Ebury Publishing, London 2010, pp. 44-45. Questi autori sottolineano anche come si possa restare depressi ma trarre ugualmente qualche beneficio, cioè qualche miglioramento sulla scala di Hamilton. Asserire di essere ancora depressi non è uguale ad affermare di non aver avuto alcun vantaggio. Significa soltanto che la terapia non è sufficiente e che non può essere considerata una soluzione completa.

3. L’eccezione del lutto

1 Me l’ha detto l’autorevole psicologa clinica Lucy Johnstone. Non sono le sue testuali parole e non sono riuscito a rintracciare l’originale. Se qualcuno ne è in possesso, mi contatti in modo che possa completare la nota. 2 In questo capitolo attingo spesso dagli articoli di Joanne. Si vedano: Joanne Cacciatore e Kara Thieleman, When a Child Dies: A Critical Analysis of Grief-Related Controversies in DSM-5, Research on Social Work Practice, 24, no. 1, gennaio 2014, pp. 114-122; Cacciatore e Thieleman, The DSM-5 and the Bereavement Exclusion: A Call for Critical Evaluation, Social Work, 2013, doi:10.1093/sw/swt021; Jeffrey R. Lacasse e Joanne Cacciatore, Prescribing of Psychiatric Medication to Bereaved Parents Following Perinatal/Neonatal Death: An Observational Study, Death Studies, 38, no. 9, 2014; Cacciatore, A Parent’s Tears: Primary Results from the Traumatic Experiences and Resiliency Study, Omega: Journal of Death and Dying, 68, no. 3, ottobre 2013-2014, pp. 183-205; Cacciatore e Thieleman, Pharmacological Treatment Following Traumatic Bereavement: A Case Series, Journal of Loss and Trauma, 17, no. 6, luglio 2012, pp. 557-579. 3 Ho scoperto l’eccezione del lutto leggendo la geniale produzione di Gary Greenberg, che vi raccomando caldamente. Si vedano: Book of Woe, op. cit., pp. 6, 158-160; Manufacturing Depression, op. cit., pp. 246-248; John Read e Pete Sanders, A Straight-Talking Introduction, op. cit., pp. 60, 88-91. 4 Robert Spitzer, uno dei principali autori della quarta edizione del DSM, l’ha ammesso tacitamente. Si vedano The Therapy Trap, p. 49, e The Trap, il documentario del mio amico Adam Curtis, trasmesso dalla BBC. 5 L’hanno ammesso anche altri autori del DSM. Si veda William Davies, The Happiness Industry: How the Government and Big Business Sold Us Well-Being, Verso, New York 2016, p. 174 (tr. it. L’industria della felicità: come la politica e le grandi imprese ci vendono il benessere, Einaudi, Torino 2016). 6 Si veda American Psychiatric Association, Diagnostic and Manual of Mental Disorders, 5th Edition, American Psychiatric Publishing,

Washington, DC 2013, pp. 155-189. La vaga nota a piè di pagina è a p. 126.

4. La prima bandiera sulla Luna

1 Su richiesta di Brown ho modificato leggermente le informazioni sulla donna per proteggerne l’anonimato. 2 Per questo capitolo ho attinto da molti articoli scientifici di Brown e Tirril. Per esempio: George W. Brown et al., Social Class and Psychiatric Disturbance Among Women in An Urban Population, Sociology, 9, no. 2, maggio 1975, pp. 225-254; Brown, Harris et al., Social support, self-esteem and depression, Psychological Medicine, 16, no. 4, novembre 1986, pp. 813831; George W. Brown et al., Life events, vulnerability and onset of depression: some refinements, The British Journal of Psychiatry, 150, no. 1, gennaio 1987, pp. 30-42; George W. Brown et al., Loss, humiliation and entrapment among women developing depression: a patient and non-patient comparison, Psychological Medicine, 25, no. 1, gennaio 1995, pp. 7-21; George W. Brown et al., Depression and loss, British Journal of Psychiatry, 130, no. 1, gennaio 1977, pp. 1-18; George W. Brown et al., Life events and psychiatric disorders Part 2: nature of causal link, Psychological Medicine, 3, no. 2, maggio 1973, pp. 159-176; George W. Brown et al., Life Events and Endogenous Depression: A Puzzle Reexamined, Arch Gen Psychiatry, 51, no. 7, 1994, pp. 525-534; Brown and Harris, Aetiology of anxiety and depressive disorders in an inner-city population. 1. Early adversity, Psychological Medicine, 23, no. 1, febbraio 1993, pp. 143-154; Brown et al., Life stress, chronic subclinical symptoms and vulnerability to clinical depression, Journal of Affective Disorders, 11, no. 1, luglio-agosto 1986, pp. 1-19; Harris et al., Befriending as an intervention for chronic depression among women in an inner city. 1: Randomised controlled trial, British Journal of Psychiatry, 174, no. 3, marzo 1999, pp. 219-224; Brown et al., Depression: distress or disease? Some epidemiological considerations, British Journal of Psychiatry, 147, no. 6, dicembre 1985, pp. 612-622; Brown et al., Depression and anxiety in the community: replicating the diagnosis of a case, Psychological Medicine, 10, no. 3, agosto 1980, pp. 4445-4454; Brown et al., Aetiology of anxiety and depressive disorders in an inner-city population. 2. Comorbidity

and adversity, Psychological Medicine, 23, no. 1, febbraio 1993, pp. 155165; Brown e Harris, Stressor, vulnerability and depression: a question of replication, Psychological Medicine, 16, no. 4, novembre 1986, pp. 739-74; Harris et al., Mourning or early inadequate care? Reexamining the relationship of maternal loss in childhood with adult depression and anxiety, Development and Psychopathology, 4, no. 3, luglio 1992, pp. 433-449; Brown et al., Psychotic and neurotic depression Part 3. Aetiological and background factors, Journal of Affective Disorders, 1, no. 3, settembre 1979, pp. 195-211; Brown et al., Psychiatric disorder in a rural and an urban population: 2. Sensitivity to loss, Psychological Medicine, 11, no. 3, agosto 1981, pp. 601-616; Psychiatric disorder in a rural and an urban population: 3. Social integration and the morphology of affective disorder, Psychological Medicine, 14, no. 2, maggio 1984, pp. 327-345; Brown e Harris, Disease, Distress and Depression, Journal of Affective Disorders, 4, no. 1, marzo 1982, pp. 1-8. Ho attinto anche dal libro di Brown e Tirril Life Events and Illness, Unwin Hyman, Sydney, 1989 e dall’eccellente scritto commemorativo per Brown, curato da Tirril e intitolato Where Inner and Outer Worlds Meet: Psychosocial Research in the Tradition of George Brown, Routledge, London 2000. 3 George Brown e Tirril Harris, Social Origins of Depression: A Study of Psychiatric Disorder in Women, Tavistock Publications, London 1978, p. 19; Edward Shorter, How Everyone Became Depressed, op. cit., pp. 152-155. 4 Read e Saunders, A Straight-Talking Introduction, op. cit., pp. 32-41. 5 Shorter, How Everyone Became Depressed, op. cit., pp. 80, 89, 112, 122, 135-139, 171. 6 Harris, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 7-10. 7 Harris e Brown, Social Origins of Depression, op. cit., p. 49. 8 Ibid., p. 162. 9 È uno pseudonimo che le hanno dato per proteggere la sua riservatezza. 10 arris e Brown, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 1416; Harris e Brown, Social Origins of Depression, op. cit., pp. 174-175. 11 Harris e Brown, Social Origins of Depression, op. cit., pp. 63, 136. 12 Ibid., p. 180. 13 Harris e Brown, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., p. 123. 14 Harris, Social Origins of Depression, op. cit., p. 46. 15 Ibid., p. 83.

16 Ibid., pp. 82, 234. 17 I. Gaminde et al., Depression in three populations in the Basque Country – A comparison with Britain, Social Psychiatry and Psychiatric Epidemology, 28, 1993, pp. 243-251; J. Broadhead et al., Life events and difficulties and the onset of depression amongst women in an urban setting in Zimbabwe, Psychological Medicine, 28, 1998, pp. 29-30. Si veda anche Harris e Brown, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 22-25. 18 Harris, Social Origins of Depression, op. cit., pp. 217-218. 19 R. Finlay-Jones e G.W. Brown, Types of stressful life event and the onset of anxiety and depressive disorders, Psychological Medicine, 11, no. 4, 1981, pp. 803-815; R. Prudo et al., Psychiatric disorder in a rural and an urban population: 3. Social integration and the morphology of affective disorder, Psychological Medicine, 14, maggio 1984, pp. 327-345; G.W. Brown et al., Aetiology of anxiety and depressive disorders in an inner-city population. 1. Early adversity, Psychological Medicine, 23, 1993, pp. 143154. Brown et al., Aetiology of anxiety and depressive disorders in an innercity population. 2. Comorbidity and adversity, Psychological Medicine, 23, 1993, pp. 155-165. 20 Harris, Social Origins of Depression, op. cit., p. 235. Si veda Harris, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 25-27. 21 La storia di questo concetto è riassunta da Nassir Ghaemi in The Rise and Fall of the Biopsychosocial Model: Reconciling Art and Science in Psychiatry, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2010, anche se non condivido alcune delle sue conclusioni. Si veda anche Nassir Ghaemi, On Depression: Drugs, Diagnosis and Despair in the Modern World, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2013; Read e Saunders, A StraightTalking Introduction, op. cit., pp. 36-37, 53-55. 22 Harris, Social Origins of Depression, op. cit., p. 266. 23 Brown ha precisato che non aveva visto un legame diretto tra quel suicidio e le ricerche sulla depressione effettuate in seguito. Aveva ricominciato a pensarci solo anni dopo.

5. Raccogliere la bandiera (introduzione alla Parte Seconda)

1 Harris, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 27-28.

6. Prima causa: la disconnessione dal lavoro gratificante

1 Joe non è il suo vero nome; mi ha pregato di usare uno pseudonimo. Gli altri dettagli non sono stati modificati, e la sua vera identità e l’audio dell’intervista sono stati verificati da Bloomsbury, l’editore di questo libro. 2 William Davies, The Happiness Industry, op. cit., p. 106. 3 Fleming, The Mythology of Work, Pluto Press, London 2015, pp. 4143; Daniel Pink, Drive: The Surprising Truth About What Motivates Us, Canongate, London 2011, p. 111 (tr. it. Drive: la sorprendente verità su ciò che ci motiva nel lavoro e nella vita, Etas, Milano 2010). C’è un’interessante discussione sull’argomento nel libro, ingiustamente dimenticato, di Joel Spring, A Primer On Libertarian Education, Black Rose Books, Toronto 1999. 4 Fleming, Mythology of Work, op. cit., p. 35. Altre statistiche scioccanti sono riportate in Rutger Bregman, Utopia For Realists, Bloomsbury, London 2017, p. 41 (tr. it. Utopia per realisti: come costruire davvero il mondo ideale, Feltrinelli, Milano 2017). 5 Matt Haig, Reasons to Stay Alive, Canongate, London 2016, p. 157 (tr. it. Ragioni per continuare a vivere, Ponte alle Grazie, Milano 2015). 6 Michael Marmot, The Health Gap: The Challenge of an Unequal World, Bloomsbury, London 2015, p. 2 (tr. it. La salute disuguale: la sfida di un mondo ingiusto, Il pensiero scientifico, Roma 2016). 7 Ibid., p. 3. Per questo capitolo ho attinto da numerosi studi di Marmot e dei suoi colleghi. Tra gli altri: Marmot et al., Health inequalities among British civil servants: the Whitehall II study, The Lancet, 337, no. 8745, giugno 1991, pp. 1387-1393; Marmot et al., Low job control and risk of coronary heart disease in Whitehall II (prospective cohort) study, BMJ, 314, 1997, p. 558, doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.314.7080.558; Marmot et al., Work characteristics predict psychiatric disorder: prospective results from the Whitehall II Study, Occup Environ Med, 56, 1999, pp. 302-307, doi:10.1136/oem.56.5.302; Marmot et al., Subjective social status: its determinants and its association with measures of ill-health in the Whitehall

II study, Social Science & Medicine, 56, no. 6, marzo 2003, pp. 1321-1333; Marmot et al., Psychosocial work environment and sickness absence among British civil servants: the Whitehall II study, American Journal of Public Health, 86, no. 3, marzo 1996, pp. 332-340, doi: 10.2105/AJPH.86.3.332; Marmot et al., Explaining socioeconomic differences in sickness absence: the Whitehall II Study, BMJ, 306, no. 6874, febbraio 1993, pp. 361-366, doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.306.6874.361; Marmot et al., When reciprocity fails: effort–reward imbalance in relation to coronary heart disease and health functioning within the Whitehall II study, Occupational and Environmental Medicine, 59, 2002, pp. 777-784, doi:10.1136/oem.59.11.777; Marmot et al., Effects of income and wealth on GHQ depression and poor self rated health in white collar women and men in the Whitehall II study, J Epidemiol Community Health, 57, 2003, pp. 718-723, doi:10.1136/jech.57.9.718; M. Virtanen et al., Long working hours and symptoms of anxiety and depression: a 5-year follow-up of the Whitehall II study, Psychological Medicine, 41, no. 12, dicembre 2011, pp. 2485-2494. 8 Michael Marmot, Status Syndrome: How Your Place on the Social Gradient Affects Your Health, Bloomsbury, London 2004, p. 1. 9 Ibid., pp.130-131, 157. 10 Ibid., p. 126. 11 Ibid., p. 129. 12 Marmot precisa di essersi basato sulle ricerche di altri scienziati sociali. L’idea secondo cui lo stress deriva dall’equilibrio tra carico di lavoro e controllo fu influenzata soprattutto da R.A. Karasek e T. Theorell. Le intuizioni sul rapporto tra sforzo e ricompensa si fondano sugli studi di J. Siegrist. Si veda in particolare Adverse health effects of high-effort/lowreward conditions, J Occup Health Psychol 1, no. 1, gennaio 1996, pp. 2741. 13 Ciò aiuta anche a spiegare perché i disoccupati si sentano ancora peggio di coloro che hanno un lavoro poco gratificante. Quest’ultimo causa la depressione soprattutto attraverso la mancanza di controllo, e i disoccupati hanno ancora meno controllo sulla loro vita. Non hanno risorse finanziarie né uno status sociale né la possibilità di fare delle scelte. 14 Marmot, The Health Gap, op. cit., p. 180. 15 Marmot, Status Syndrome, op. cit., p. 125.

7. Seconda causa:la disconnessione dagli altri

1 Per questo capitolo ho attinto da molti studi pubblicati da Cacioppo e dai suoi colleghi. Tra questi: Y. Luo et al., Loneliness, health, and mortality in old age: A national longitudinal study, Social Science & Medicine, 74, no. 6, marzo 2012, pp. 907-914; J.T. Cacioppo et al., Loneliness as a specific risk factor for depressive symptoms: Cross-sectional and longitudinal analyses, Psychology and Aging, 21, no. 1, marzo 2006, pp. 140-151; L.C. Hawkley e J.T. Cacioppo, Loneliness Matters: A Theoretical and Empirical Review of Consequences and Mechanisms, Ann Behav Med, 40, no. 2, 2010, p. 218; Cacioppo et al., Loneliness and Health: Potential Mechanisms, Psychosomatic Medicine, 64, no. 3, maggio/giugno 2002, pp. 407-417; J.T. Cacioppo et al., Lonely traits and concomitant physiological processes: the MacArthur social neuroscience studies, International Journal of Psychophysiology, 35, no. 2-3, marzo 2000, pp. 143-154; Cacioppo et al., Alone in the crowd: The structure and spread of loneliness in a large social network, Journal of Personality and Social Psychology, 97, no. 6, dicembre 2009, pp. 977-991; Cacioppo et al., Loneliness within a nomological net: An evolutionary perspective, Journal of Research in Personality, 40, no. 6, dicembre 2006, pp. 1054-1085; Cacioppo et al., Loneliness in everyday life: Cardiovascular activity, psychosocial context, and health behaviors, Journal of Personality and Social Psychology, 85, no. 1, luglio 2003, pp. 105-120; Cacioppo e Ernst, Lonely hearts: Psychological perspectives on loneliness, Applied and Preventive Psychology, 8, no. 1, 1999, pp. 1-22; Cacioppo et al., Loneliness is a unique predictor of age-related differences in systolic blood pressure, Psychology and Aging, 21, no. 1, marzo 2006, pp. 152-164; Cacioppo et al., A Meta-Analysis of Interventions to Reduce Loneliness, Personality and Social Psychology Review, 15, no. 3, 2011; Hawkley e Cacioppo, Loneliness and pathways to disease, Brain, Behavior, and Immunity, 17, no. 1, febbraio 2003, pp. 98-105; Cacioppo et al., Do Lonely Days Invade the Nights? Potential Social Modulation of Sleep Efficiency, Psychological Science, 13, no. 4, 2002; Hawkley et al., From Social

Structural Factors to Perceptions of Relationship Quality and Loneliness: The Chicago Health, Aging, and Social Relations Study, J Gerontol B Psychol Sci Soc Sci, 63, no. 6, 2008, pp. S375-S384; Cacioppo et al., Loneliness. Clinical Import and Interventions Perspectives on Psychological Science, 10, no. 2, 2015; Cacioppo et al., Social Isolation, Annals of the New York Academy of Sciences, 1231, giugno 2011, pp. 17-22; Cacioppo et al., Evolutionary mechanisms for loneliness, Cognition and Emotion 28, no. 1, 2014; Cacioppo et al., Toward a neurology of loneliness, Psychological Bulletin, 140, no. 6, novembre 2014, pp. 1464-1504; Cacioppo et al., In the Eye of the Beholder: Individual Differences in Perceived Social Isolation Predict Regional Brain Activation to Social Stimuli, Journal of Cognitive Neuroscience, 21, no. 1, gennaio 2009, pp. 83-92; Cacioppo et al., Objective and perceived neighborhood environment, individual SES and psychosocial factors, and self-rated health: An analysis of older adults in Cook County, Illinois, Social Science & Medicine, 63, no. 10, novembre 2006, pp. 25752590; Jarameka et al., Loneliness predicts pain, depression, and fatigue: Understanding the role of immune dysregulation, Psychoneuroendocrinology, 38, no. 8, agosto 2013, pp. 1310-1317; Cacioppo et al., On the Reciprocal Association Between Loneliness and Subjective Wellbeing, Am J Epidemiol, 176, no. 2012, pp. 777-784; Mellor et al., Need for belonging, relationship satisfaction, loneliness, and life satisfaction, Personality and Individual Differences, 45, no. 3, agosto 2008, pp. 213-218; Doane and Adam, Loneliness and cortisol: Momentary, day-to-day, and trait associations, Psychoneuroendocrinology 35, no. 3, aprile 2010, pp. 430-441; Cacioppo et al., Social neuroscience and its potential contribution to psychiatry, World Psychitary, 13, no. 2, giugno 2014, pp. 131-139; Shanakar et al., Loneliness, social isolation, and behavioral and biological health indicators in older adults, Health Psychology, 30, no. 4, luglio 2011, pp. 377385; Cacioppo et al., Day-to-day dynamics of experience-cortisol associations in a population-based sample, PNAS, 103, no. 45, ottobre 2006, pp. 17058-17063; Cacioppo et al., Loneliness and Health: Potential Mechanisms, Psychosomatic Medicine 64, 2002, pp. 407-417. 2 John T. Cacioppo e William Patrick, Loneliness: Human Nature and the Need for Social Connection, W.W. Norton, New York 2008, pp. 94-95. 3 Marmot, Status Syndrome, op. cit., pp. 164-165. 4 Susan Pinker, The Village Effect: Why Face-to-Face Contact Matters, Atlantic Books, London 2015, pp. 67-68.

5 Cacioppo, Loneliness, op. cit., pp. 5, 94; George Monbiot, The age of loneliness is killing us, Guardian, 14 ottobre 2014, www.theguardian.com/commentisfree/…, accesso: 16 settembre 2016. 6 Cacioppo et al., Loneliness within a nomological net: An evolutionary perspective, Journal of Research in Personality, 40, 2006, pp. 1054-1085. 7 Cacioppo, Loneliness, op. cit., p. 88. 8 Cacioppo et al., Perceived Social Isolation Makes Me Sad: 5-Year Cross-Lagged Analyses of Loneliness and Depressive Symptomatology in the Chicago Health, Aging, and Social Relations Study, Psychology and Aging, 25, no. 2, 2010, pp. 453-463. 9 Cacioppo, Loneliness, op. cit., p. 61. 10 Bill McKibben, Deep Economy: The Wealth of Communities and the Durable Future, Henry Holt, New York 2007, pp. 109, 125. 11 Cacioppo, Loneliness, op. cit., p. 7. 12 C’è un’interessante discussione sull’argomento in Sebastian Junger, Tribe: One Homecoming and Belonging, Twelve, New York 2016, in particolare pp. 1-34. Si veda anche Hugh MacKay, The Art of Belonging: It’s Not Where You Live, It’s How You Live, Pan Macmillan, Sydney 2016, soprattutto pp. 27-28. 13 Cacioppo, Loneliness, op. cit., p. 15. 14 Naturalmente non sono nomadi, perciò non vivono come ha vissuto la maggior parte degli esseri umani nella storia, ma sono più vicini di noi a quel modello. 15 Cacioppo et al., Loneliness Is Associated with Sleep Fragmentation in a Communal Society, Sleep, 34, no. 11, novembre 2011, pp. 1519-1526. Si veda anche Junger, Tribe, op. cit., p. 19. 16 Robert Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Simon and Schuster, New York 2001, pp. 111-112 (tr. it. Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in America, Il Mulino, Bologna 2004). 17 Putnam, Bowling Alone, op. cit., p. 60. 18 Cacioppo, Loneliness, op. cit., p. 247; M. McPherson et al., Social isolation in America: Changes in core discussion networks over two decades, American Sociological Review, 71, 2006, pp. 353-375. 19 Putnam, Bowling Alone, op. cit., p. 101. 20 www.npr.org/sections/…, accesso: 16 settembre 2016. 21 Pinker, Village Effect, op. cit., p. 26; McClintock et al., Social

isolation dysregulates endocrine and behavioral stress while increasing malignant burden of spontaneous mammary tumors, Proc Natl Acad Sci USA, 106, no. 52, dicembre 2009, pp. 22393-22398. 22 McKibben, Deep Economy, op. cit., pp. 96-104. 23 C’è un’interessante discussione sull’argomento in The Village Effect, pp. 4-18. Si veda anche William Davies, The Happiness Industry, op. cit., pp. 212-214. 24 James non è il suo vero nome: Hilarie mi ha pregato di usare uno pseudonimo per proteggere la sua identità. 25 Hilarie ne parla nel libro Video Games and Your Kids: How Parents Stay in Control, Issues Press, New York 2008. 26 Ho modificato i nomi di battesimo, ma non gli altri dettagli. 27 Sherry Turkle, Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age Penguin, New York, 2015, p. 42 (tr. it. La conversazione necessaria: la forza del dialogo nell’era digitale, Einaudi, Torino 2016). 28 Maron, Attempting Normal, Spiegel and Grau, New York 2014, p. 161.

8. Terza causa:la disconnessione dai valori importanti

1 Kasser scrive del suo rapporto con la musica di Lennon nel libro Lucy in the Mind of Lennon, OUP, New York 2013. 2 R.W. Belk, Worldly possessions and criticisms, Advances in Consumer Research, 10, 1983, pp. 514-519; Tim Kasser e Allen Kanner, ed., Psychology and Consumer Culture: The Struggle for a Good Life in a Materialistic World, American Psychological Association, Washington, DC 2003, pp. 3-6. 3 Tim Kasser, High Price of Materialism, MIT Press, Cambridge 2003, pp. 6-8; Kasser e Ryan, A dark side of the American dream: Correlates of financial success as a central life aspiration, Journal of Personality and Social Psychology, 65, no. 2, 1993, pp. 410-422. 4 Kasser, A dark side, op. cit., pp. 410-422; Kasser, High Price of Materialism, op. cit., p. 10. 5 Kasser e Ryan, Further examining the American dream: Differential correlates of intrinsic and extrinsic goals, Personality and Social Psychology Bulletin, no. 31, pp. 907-914. 6 Kasser, High Price of Materialism, op. cit., pp. 11-12, 14. 7 Pink, Drive, op. cit., pp. 1-11, 37-46; Junger, Tribe, op. cit., pp. 21-22. 8 Ho scoperto questa distinzione leggendo uno splendido articolo di George Monbiot: si veda www.monbiot.com/2010/…, accesso: 1° dicembre 2016. Per una guida valida sulla scoperta delle motivazioni intrinseche ed estrinseche, consiglio Pink, Drive, pp. 1-11. 9 Kasser e Sheldon, Coherence and Congruence: Two Aspects of Personality Integration, Journal of Personality and Social Psychology, 68, no. 3, 1995, pp. 531-543. 10 Helga Dittmar et al., The Relationship Between Materialism and Personal Well-Being: A Meta-Analysis, Journal of Personality and Social Psychology, 107, no. 5, novembre 2014, pp. 879-924; Kasser, High Price of Materialism, op. cit., p. 21. 11 Kasser e Ryan, Be careful what you wish for: Optimal functioning

and the relative attainment of intrinsic and extrinsic goals, in Life Goals and Well-Being: Towards a Positive Psychology of Human Striving, ed. P. Schmuck e K. Sheldon, Hogrefe & Huber Publishers, New York 2001, pp. 116-131. Si veda anche Kasser, High Price of Materialism, op. cit., p. 62. 12 Sherry Turkle, Reclaiming Conversation, op. cit., p. 83. Si veda anche Robert Frank, Luxury Fever: Weighing the Cost of Excess, Princeton University Press, Princeton 2010; William Davies, The Happiness Industry, op. cit., p. 143. 13 Mihály Csíkszentmihály, Creativity: the Power of Discovery and Invention, Harper, London 2013. 14 Tim Kasser, Materialistic Values and Goals, Annual Review of Psychology, 67, 2016, pp. 489-514, doi: 10.1146/annurev-psych-122414033344. 15 Tim Kasser, The ‘what’ and ‘why’ of goal pursuits, Psychol Inqu, 11, no. 4, 2000, pp. 227-268; Ryan e Deci, On happiness and human potential, Annu Rev Psychol, 52, 2001, pp. 141-166. 16 Kasser, Materialistic Values, op. cit.; S.H. Schwartz, Universals in the structure and content of values: theory and empirical tests in 20 countries, Advances in Experimental Social Psychology, 25, dicembre 1992, pp. 1-65. 17 Ero consapevole – come Kasser lo è sempre stato in tutte le sue ricerche – che una prova di correlazione non è una prova di causalità. Il fatto che due cose accadano nello stesso momento non dimostra che una sia causa dell’altra. Il gallo canta e il sole sorge, ma ciò non prova che il canto del gallo sia la causa dell’alba. Così ho chiesto a Kasser (e a tutti gli scienziati sociali che ho intervistato) se potesse trattarsi di una semplice correlazione e se stessimo facendo troppe congetture. «Anzitutto direi che è molto difficile dimostrarlo, perché l’unico modo per provare la causalità è dividere gli individui in gruppi secondo criteri casuali. Ciò implicherebbe destinarli casualmente a diventare materialisti oppure no, e poi verificare se siano diventati più depressi oppure no. Perciò, primo, è impossibile. Secondo, probabilmente è immorale» ha risposto Kasser. Tuttavia, ha aggiunto, numerose tecniche fanno pensare che qui ci sia una relazione più profonda della coincidenza. Mi ha spiegato – e ne ha parlato nelle sue ricerche pubblicate – che 1) nei contesti sperimentali si possono rendere le persone più o meno materialiste in un dato momento. Questa procedura si chiama priming: si spingono i partecipanti a pensare inconsciamente ai soldi e poi si

controllano eventuali cambiamenti d’umore. 2) Si possono condurre studi longitudinali, che monitorino le fluttuazioni del materialismo dei soggetti, e analizzare il legame con la depressione. 3) Si può esaminare cosa succede quando gli individui diventano più materialisti e dimostrare che, quando accade, «adottano uno stile di vita che non soddisfa i loro bisogni psicologici, e le ricerche lo confermano molto chiaramente. Così le persone finiscono per sentirsi meno libere, meno competenti, per avere rapporti interpersonali peggiori e questo, a sua volta, si accompagna a un livello inferiore di benessere». Si chiama «path model o modello a equazioni strutturali» e «va dai valori materialisti estrinseci alla ridotta soddisfazione dei bisogni, a bassi livelli di benessere». Credo che, mettendo insieme tutte queste prove, si possano trarre alcune conclusioni abbastanza plausibili, ma è importante precisare che non si può semplicemente fare una sperimentazione controllata randomizzata, dunque non si raggiunge il livello di attendibilità più alto. Kasser ha accennato inoltre alle prove da lui raccolte sul fatto che la causalità sembra muoversi anche nella direzione opposta: pare che la depressione e l’insicurezza (soprattutto in età infantile) accentuino il materialismo. La causalità non va in un solo senso, ma in entrambi. 18 Marvin E. Goldberg e Gerald J. Gorn, Some Unintended Consequences of tv Advertising to Children, Journal of Consumer Research, 5, no. 1, giugno 1978, pp. 22-29; Kasser, High Price of Materialism, op. cit., p. 66; Kasser, Materialistic Values, op. cit., p. 499; S.E.G. Lea et al., The Individual in the Economy: A Textbook of Economic Psychology, Cambridge University Press, New York 1987, p. 397; Kasser, ed., Psychology and Consumer Culture, op. cit., pp. 16-18. 19 Neal Lawson, All Consuming: How Shopping Got Us into This Mess and How We Can Find Our Way Out, Penguin, London 2009, p. 143. 20 Martin Lindström, Brandwashed: Tricks Companies Use to Manipulate Our Minds and Persuade Us to Buy, Kogan Page, New York 2012, p. 10 (tr. it. Le bugie del marketing: come le aziende orientano i nostri consumi, Hoepli, Milano 2012). 21 Twenge e Kasser, Generational changes in materialism, Personal Soc Psychol Bull, 39, 2013, pp. 883-897. Ho anche intervistato Twenge. 22 Kasser, High Price of Materialism, op. cit., p. 91. 23 Gary Greenberg, Manufacturing Depression, op. cit., p. 283. 24 Kasser, Materialistic Values, op. cit., p. 499, contiene una valida panoramica delle prove scientifiche a supporto di questa tesi.

25 L’audio dice due stop. L’ho corretto perché, durante il controllo delle informazioni, Kasser si è accorto di avermi dato un’indicazione errata.

9. Quarta causa:la disconnessione dai traumi infantili

1 Il dottor Gabor Mate è stato il primo a parlarmi del lavoro di Felitti quando l’ho intervistato a Vancouver. Ho approfondito le mie conoscenze attraverso i suoi scritti, in particolare il magnifico libro In The Realm of Hungry Ghosts, Random House Canada, Toronto 2013. In passato ho accennato brevemente agli studi del dottor Felitti in Chasing the Scream e in alcuni articoli basati su questo mio volume. 2 www.bbc.co.uk/history/…, accesso: 17 settembre 2016. 3 Vincent Felitti et al., Obesity: Problem, Solution, or Both?, Permanente Journal, 14, no. 1, 2010, p. 24; Vincent Felitti et al., The relationship of adult health status to childhood abuse and household dysfunction, American Journal of Preventive Medicine, 14, 1998, pp. 245258. 4 Vincent Felitti, Ursprünge des Suchtverhaltens - Evidenzen aus einer Studie zu belastenden Kindheitserfahrungen, Praxis der Kinderpsychologie und Kinderpsychiatrie, 52, 2003, pp. 547-559. 5 Vincent Felitti et al., Chadwick’s Child Maltreatment: Sexual Abuse and Psychological Maltreatment, volume 2 di 3, 4a ed., 2014, p. 203; Felitti et al., The relationship of adult health status, op. cit. 6 Felitti et al., Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 203. 7 Felitti, Obesity: Problem, Solution, or Both?, op. cit., p. 24. 8 Felitti, Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 204. 9 Vincent Felitti, Adverse childhood experiences and the risk of depressive disorders in childhood, Journal of Affective Disorders, 82, novembre 2004, pp. 217-225. 10 Felitti, Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 209. 11 Felitti, Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 206; Felitti, Ursprünge des Suchtverhaltens, op. cit.; Vincent Felitti, Childhood Sexual Abuse, Depression, and Family Dysfunction in Adult Obese Patients, Southern Medical Journal, 86, 1993, pp. 732-736. 12 Felitti, Adverse childhood experiences, op. cit., p. 223. Nel suo

Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 208, c’è anche un ottimo grafico delle prescrizioni di antidepressivi rispetto ai punteggi ACE. 13 Per alcune meta-analisi, si vedano per esempio: A. Danese e M. Tan, Childhood maltreatment and obesity: systematic review and meta-analysis, Molecular Psychiatry, 19, maggio 2014, pp. 544-554; Nanni et al., Childhood Maltreatment Predicts Unfavorable Course of Illness and Treatment Outcome in Depression: A Meta-Analysis, American Journal of Psychiatry, 169, no. 2, febbraio 2012, pp. 141-151. 14 George Brown e Tirril Harris hanno svolto alcune ricerche interessanti con risultati analoghi, ma non identici. Per una panoramica, si veda Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 16-20, 227-40. 15 Felitti, Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 209. 16 Felitti, Obesity: Problem, Solution, or Both?, op. cit., p. 24. 17 Ero a conoscenza da qualche tempo degli studi sulle ACE e credevo di averne colto il messaggio, soprattutto per quanto riguardava le dipendenze. Solo in quell’occasione mi sono reso conto di non averlo interpretato correttamente – non per il mio caso, almeno – e penso sia questo il motivo per cui ho avuto una reazione così forte.

10. Quinta causa:la disconnessione dallo status e dal rispetto

1 Non avrei potuto scrivere questo capitolo senza l’aiuto di Kate Pickett e di Richard Wilkinson. Conobbi Kate anni fa, quando intervenimmo entrambi alla conferenza del Partito verde, e sono due degli scienziati sociali che più ammiro al mondo. Ho scoperto il lavoro di Robert Sapolsky grazie ai loro scritti, e hanno discusso con me nel dettaglio i temi di questo capitolo. Tra poco uscirà un loro libro dedicato ad argomenti analoghi. Al momento della stesura di queste righe non è ancora andato in stampa, perciò non conosco il titolo, ma vi consiglio caldamente di leggere tutto ciò che scrivono. 2 Robert Sapolsky, A Primate’s Memoir, Vintage, London 2002, p. 13 (tr. it. Diario di un uomo scimmia, Frassinelli, Milano 2001). Sono stati Richard Wilkinson e Kate Pickett a suggerirmi di consultare le ricerche di Sapolsky e a spiegarmi cosa c’entrassero con la depressione e l’ansia. Sono molto grato a entrambi. Una fonte decisiva per questo resoconto è A Primate’s Memoir, nella cui introduzione Sapolsky dice di aver sovrapposto alcuni personaggi secondari del libro ai fini di una maggiore chiarezza. Non ho citato nessuno di questi personaggi, dunque non credo che qui sia rilevante, ma ci ho tenuto a precisarlo ugualmente. A differenza degli altri scienziati sociali menzionati in questo volume, ho potuto intervistare Sapolsky solo brevemente, via e-mail. 3 Sapolsky, Primate’s Memoir, op. cit., p. 65; Robert Sapolsky, Why Zebras Don’t Get Ulcers, Henry Holt, New York 2004, p. 312 (tr. it. Perché alle zebre non viene l’ulcera?, LIT, Castel Gandolfo 2012). 4 Sapolsky, Primate’s Memoir, op. cit., p. 240. 5 Ibid., pp. 302-303. 6 Ibid., pp. 14-15. 7 Ibid., pp. 16-21. 8 Ibid., pp. 21-22. 9 Ibid., pp. 38, 105; Sapolsky, Why Zebras Don’t, op. cit., pp. 355-356. 10 Robert Sapolsky, Cortisol concentrations and the social significance

of rank instability among wild baboons, Psychoneuroendochrinology, 17, no. 6, novembre 1992, pp. 701-709; Sapolsky, The endocrine stress-response and social status in the wild baboon, Hormones and Behavior, 16, no. 3, settembre 1982, pp. 279-292. Sapolsky, Adrenocortical function, social rank, and personality among wild baboons, Biological Psychiatry, 28, no. 10, novembre 1990, pp. 862-878. 11 Sapolsky, Primate’s Memoir, op. cit., p. 97; Sapolsky, Why Zebras Don’t, op. cit., pp. 300-304, 355-359. 12 Sapolsky, Primate’s Memoir, op. cit., p. 23. 13 Ibid., p. 95. 14 Ibid., p. 177. 15 Si veda, per esempio, Carol Shivley et al., Behavior and physiology of social stress and depression in female cynomolgus monkeys, Biological Psychiatry, 41, no. 8, aprile 1997, pp. 871-882. 16 Una certa evoluzione culturale è possibile anche tra i babbuini. Per questa storia affascinante, si veda Natalie Angier, No Time for Bullies: Baboons Retool Their Culture, New York Times, 13 aprile 2004, www.nytimes.com/2004/…, accesso: 23 dicembre 2016. 17 Erick Messias et al., Economic grand rounds: Income inequality and depression across the United States: an ecological study, Psychiatric Services, 62, no. 7, 2011, pp. 710-712. Si veda anche http://csi.nuff.ox.ac.uk/?p=642, accesso: 10 dicembre 2016. 18 Richard Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level: Why Equality Is Better for Everyone, Penguin, London 2009, pp. 31-41, 63-72, 173-196 (tr. it. La misura dell’anima: perché le diseguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli, Milano 2009). 19 Paul Moloney, The Therapy Industry, Pluto Press, London 2013, p. 109. 20 www.hrreview.co.uk/hr-news/…, accesso: 10 gennaio 2017; Junger, Tribe, op. cit., p. 31. 21 www.vanityfair.com/news/…, accesso: 10 dicembre 2016. 22 www.bbc.co.uk/news/…, accesso: 1° aprile 2017. 23 Non sto dicendo che Robert Sapolsky condivide tutte le analisi presentate in questo capitolo (o nel resto del libro). Questa è una visione della depressione e dell’ansia che è stata inaugurata dalle sue prime ricerche sui babbuini e che in seguito è stata approfondita dagli scienziati sociali in modi su cui il primatologo non era del tutto d’accordo. Chiaramente ritiene che la

depressione sia multicausale. Chiunque cerchi una breve introduzione sul suo approccio più generale può guardare questa conferenza: https://www.youtube.com/watch?v=NOAgplgTxfc (accesso: 3 febbraio 2017). Chi invece vuole leggere una trattazione più dettagliata può optare per il suo superbo Why Zebras Don’t Get Ulcers, op. cit. 24 Sapolsky, Primate’s Memoir, op. cit., p. 127. 25 Questa è la mia interpretazione del sogno; Sapolsky potrebbe non essere d’accordo.

11. Sesta causa:la disconnessione dal mondo naturale

1 Usò questa espressione durante un discorso al FutureFest a Londra, cui assistetti nel settembre del 2016. 2 John Sutherland, Jumbo: The Unauthorized Biography of a Victorian Sensation, Aurum Press, London 2014, pp. 9-10 26-27, 46, 58-60, 127. 3 Ibid., p. 62. 4 Edmund Ramsden e Duncan Wilson, The nature of suicide: science and the self-destructive animal, Endeavour, 34, no. 1, marzo 2010, pp. 21-24. 5 Ian Gold e Joel Gold, Suspicious Minds: How Culture Shapes Madness, Free Press, New York 2015. Ho anche intervistato entrambi gli autori. Per un riepilogo breve ma interessante, si veda anche T. M. Luhrmann, Is the World More Depressed?, New York Times, 24 marzo 2014, https://www.nytimes.com/2014/03/25/opinion/a-great-depression.html 6 Ian Alcock et al., Longitudinal Effects on Mental Health of Moving to Greener and Less Green Urban Areas, Environmental Science and Technology, 48, no. 2, 2014, pp. 1247-1255. Si veda anche Davies, The Happiness Industry, op. cit., pp. 245-247. 7 Per esempio, David G. Pearson e Tony Craig, The great outdoors? Exploring the mental health benefits of natural environments, Front Psychol, 5, 2014, p. 1178; Kirsten Beyer et al., Exposure to Neighborhood Green Space and Mental Health: Evidence from the Survey of the Health of Wisconsin, Int J Environ Res Public Health 11, no. 3, marzo 2014, pp. 34523472. Si vedano anche Richard Louv, The Nature Principle, Algonquin Books, New York 2013, pp. 29, 33-34; Richard Louv, Last Child in The Woods, Atlantic Books, New York 2010, p. 50 (tr. it. L’ultimo bambino nei boschi: come riavvicinare i nostri figli alla natura, Rizzoli, Milano 2006). 8 Catherine Ward Thompson et al., More green space is linked to less stress in deprived communities, Landscape and Urban Planning, 105, no. 3, aprile 2012, pp. 221-229. 9 Marc Berman et al., Interacting with Nature Improves Cognition and Affect for Individuals with Depression, Journal of Affective Disorders, 140,

no. 3, novembre 2012, pp. 300-305. 10 Louv, Last Child, op. cit., p. 32. 11 Andreas Ströhle, Physical activity, exercise, depression and anxiety disorders, Journal of Neural Transmission, 116, giugno 2009, p. 777. 12 Natasha Gilbert, Green Space: A Natural High, Nature, 531, marzo 2016, pp. 56-57. 13 E. O. Wilson, Biophilia, Harvard University Press, Cambridge 1984 (tr. it. Biofilia, Mondadori, Milano 1985). 14 Louv, The Nature Principle, op. cit., p. 54. 15 Un interessante riepilogo è disponibile alla pagina www.psychologytoday.com/articles/…, accesso: 3 settembre 2016. 16 La citazione è tratta dall’accurata rassegna scientifica di Howard Frumkin (che vi consiglio caldamente di leggere per intero) Beyond Toxicity: Human Health and the Natural Environment, Am J Prev Med, 20, no. 3, 2001, p. 237. Si veda anche David Kidner, Depression and the Natural World, International Journal of Critical Psychology, 19, 2007.

12. Settima causa:la disconnessione da un futuro promettente o sereno

1 onathan Lear, Radical Hope: Ethics in the Face of Cultural Devastation, Harvard University Press, New York 2006, pp. 1-4. Ho scoperto questo materiale grazie al magnifico libro di Lear, che vi consiglio caldamente di leggere. 2 Ibid., p. 10. 3 Ibid., pp. 13-14. 4 Ibid., p. 2. 5 Ibid., pp. 40-41. 6 Michael J. Chandler e Christopher Lalonde, Cultural continuity as a hedge against suicide in Canada’s First Nations, Transcultural Psychiatry, 35, no. 2, 1998, pp. 191-219; Marc Lewis, The Biology of Desire: Why Addiction Is Not a Disease, Scribe,Victoria 2015, pp. 203-204. 7 Oltre che sull’intervista a Chandler e sulla lettura delle sue ricerche, questo capitolo si basa sull’intervista a Laurence Kirmayer, che ha curato lo studio di Chandler per l’autorevole rivista accademica Journal of Transcultural Psychiatry. Mi ha aiutato anche a inserirlo in un contesto più ampio. 8 Lorraine Ball e Michael Chandler, Identity formation in suicidal and nonsuicidal youth: The role of self-continuity, Development and Psychopathology, 1, no. 3, 1989, pp. 257-275; Michael C. Boyes e Michael Chandler, Cognitive development, epistemic doubt, and identity formation in adolescence, Journal of Youth and Adolescence, 21, no. 3, 1992, pp. 277304; Michael Chandler et al., Assessment and training of role-taking and referential communication skills in institutionalized emotionally disturbed children, Developmental Psychology, 10, no. 4, luglio 1974, p. 546; Michael Chandler, The Othello Effect, Human Development, 30, no. 3, gennaio 1970, pp. 137-159; Chandler et al., Aboriginal language knowledge and youth suicide, Cognitive Development, 22, no. 3, 2007, pp. 392-399; Michael Chandler, Surviving time: The persistence of identity in this culture and that,

Culture & Psychology, 6, no. 2, giugno 2000, pp. 209-231. 9 La tesi secondo cui la depressione comporta una visione disperata del futuro precede inequivocabilmente questo studio. Per esempio, negli anni Sessanta lo psicologo Aaron Beck la inserì nella ‘triade depressiva’, le tre caratteristiche cognitive di tutti i depressi. Per una spiegazione chiara si veda Brown e Harris, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 10-11. 10 L’audio di questa conversazione e l’identità della donna sono stati verificati dall’editore. 11 Ivor Southwood, Non-Stop Inertia, Zero Books, Arlesford 2011, pp. 15-16 (che, tra parentesi, è un libro magnifico); Nick Srnicek e Alex Williams, Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, Verso, London 2015, p. 93 (tr. it. Inventare il futuro: per un mondo senza lavoro, Nero, Roma 2018; Mark Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?, O Books, Winchester 2009, pp. 32-37 (tr. it. Realismo capitalista, Nero, Roma 2018).

13. Ottava e nona causa:il vero peso dei geni e dei cambiamenti cerebrali

1 Marc Lewis, Memoirs of an Addicted Brain: A Neuroscientist Examines His Former Life on Drugs, Doubleday Canada, Toronto 2011, pp. 139-142. Ho anche discusso questi eventi nel dettaglio con Lewis. 2 Marc Lewis, The Biology of Desire, op. cit., p. xv. 3 Alcune guide valide: Norman Doidge, The Brain That Changes Itself, Penguin, London 2008 (tr. it. Le guarigioni del cervello, Ponte alle Grazie, Milano 2015); Moheb Costandi, Neuroplasticity, MIT Press, Cambridge 2016; Lewis, Memoirs of an Addicted Brain, op. cit., pp. 154-156; Lewis, Biology of Desire, op. cit., pp. 32-33, 163-165, 194-197. 4 Eleanor A. Maguire et al., London taxi drivers and bus drivers: A structural MRI and neuropsychological analysis, Hippocampus, 16, no. 12, 2006, pp. 1091-1101. 5 Gabor, In the Realm of Hungry Ghosts, op. cit., p. 183. 6 L’audio della citazione in questo capoverso, disponibile sul sito, è leggermente diverso perché Lewis mi ha chiesto di modificarlo per renderlo più aderente ai fatti. 7 Ho sentito questa analogia per la prima volta dalla straordinaria psicologa clinica Lucy Johnstone e dall’ottimo psicologo infantile Sami Tamimi; non ricordavano chi l’avesse usata per primo, e non sono riuscito a risalire alla fonte originale. Se qualcuno la conosce, è pregato di inviarmi un’e-mail, così la inserirò nelle prossime edizioni del libro. 8 Read e Saunders, A Straight-Talking Introduction, op. cit., p. 34. 9 http://cspeech.ucd.ie/Fred/docs/Anthropomorphism.pdf; www.trincoll.edu/~wmace/…, accesso: 8 giugno 2016. 10 C’è un certo dissenso sulla legittimità di questa tecnica. Qui non mi è possibile scendere nel dettaglio ma, se volete scoprire un punto di vista scettico sull’argomento, leggete Sami Timimi, Rethinking ADHD: From Brain to Culture, Plagrave Macmillan, London 2009, p. 63. 11 Falk W. Lohoff, Overview of the Genetics of Major Depressive

Disorder, Curr Psychiatry Rep, 12, no. 6, dicembre 2010, pp. 539-546, accesso: 12 giugno 2016. È la panoramica migliore.http://coping.us/images/Hettema_et_al_2001_OCD_Meta_analysis.pdf accesso: 12 giugno 2016. 12 Marmot, Status Syndrome, op. cit., p. 50. 13 Robert Sapolsky, Monkeyluv: And Other Lessons on Our Lives as Animals, Vintage, New York 2006, pp. 55-56; A. Caspi et al., Influence of Life Stress on Depression: moderation by a polmorphism in the 5-HTT gene, Science, 301, 2003, p. 386; Brown e Harris, Where Inner and Outer Worlds Meet, Routledge, London 2000, pp. 131-136. 14 Ogni tanto gli scienziati hanno usato nomi e definizioni diversi, ma alla base c’era la convinzione unanime che esistesse una forma biologica intrinseca di depressione, distinta da quella causata da fattori della vita sociale e psicologica. Le definizioni, tuttavia, non erano identiche. 15 All’inizio, dopo le sue ricerche negli anni Settanta, George Brown concluse che la depressione endogena non esisteva. Quando l’ho intervistato più di trent’anni dopo, tuttavia, ha detto di aver cambiato idea. Pur non avendo svolto altri studi sull’argomento, ormai riteneva che una piccola percentuale di casi fosse di origine endogena. 16 Si vedano per esempio Brown e Harris, Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 263-272; S. Malkoff-Schwartz et al., Stressful Life events and social rhythm disruption in the onset of manic and depressive bipolar episodes: a preliminary investigation, Archives of General Psychiatry, 55, no. 8, agosto 1998, pp. 702-709. 17 Particolarmente utile mi è stato il libro di Betty Freidan, The Feminine Mystique, Penguin, London 2010 (tr. it. La mistica della femminilità, Castelvecchi, Roma 2012). 18 Come spero sia chiaro dal contesto, questa è una conversazione ipotetica, del genere che aveva luogo allora, non una citazione letterale. 19 Potrebbe sembrare bizzarro affermare che gli esseri umani non siano bravi a comprendere i nostri bisogni ed esigenze e che possano sbagliarsi su ciò che proviamo davvero e sulla ragione per cui lo proviamo. In realtà, la letteratura scientifica dimostra quanto sia scarsa la nostra capacità di capire i nostri sentimenti o di individuarne l’origine. Se siete interessati, vi consiglio caldamente di leggere lo straordinario libro Strangers to Ourselves di Tim Wilson, Harvard University Press, Cambridge 2010. È un’ottima introduzione a questo campo della ricerca scientifica.

20 Zoe Shenton, Katie Hopkins comes under fire for ridiculing depression in series of tweets, Mirror, 30 March 2015, www.mirror.co.uk/3am/…, accesso: 28 aprile 2015. 21 Sheila Mehta e Amerigo Farina, Is Being ‘Sick’ Really Better? Effect of the Disease View of Mental Disorder on Stigma, Journal of Social and Clinical Psychology, 16, no. 4, 1997, pp. 405-419. Ho scoperto questo esperimento leggendo Davies, Cracked, op. cit., p. 222. Si veda anche Ethan Watters, The Americanization of Mental Illness, New York Times Magazine, 8 gennaio 2010, www.nytimes.com/2010/…, accesso: 10 giugno 2016. 22 La storia di questo concetto è riassunta in The Rise and Fall of the Biopsychosocial Model di S. Nassir Ghaemi, op. cit. Si veda anche Read e Saunders, A Straight-Talking Introduction, op. cit., pp. 36-37, 53-55. 23 Mi hanno condotto a queste intuizioni più generali anche le ricerche sulle cause sociali della dipendenza per il mio libro Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs, Bloomsbury, New York 2015. Preferisco non fare qui riferimento a quel materiale ma, se siete interessati a come sia arrivato a queste conclusioni, date un’occhiata in particolare ai capitoli 12 e 13 di quel volume e al lavoro di uno dei miei eroi, Bruce Alexander, soprattutto The Globalization of Addiction: A Study in Poverty of the Spirit, Oxford University Press, New York 2008. 24 Per ulteriori informazioni si veda Roberto Lewis-Fernandez, Rethinking funding priorities in mental health research, British Journal of Psychiatry, 208, 2016, pp. 507-509. 25 Questa tesi è discussa ulteriormente, e con grande competenza, in Mark Rapley, Joanna Moncrieff e Jacqui Dillon, ed., De-Medicalizing Misery, op. cit. 26 Merrill Singer e Hans A. Baer, Introducing Medical Anthropology: A Discipline in Action, AltaMira Press, Lanham, 2007, p. 181. Lo studioso David Mechanic ha dichiarato che il lavoro di George Brown «ha restituito significato alle ricerche di psichiatria sociale». Si veda Where Inner and Outer Worlds Meet, op. cit., pp. 61-77.

14. La mucca

1 Per ulteriori informazioni sulle mine inesplose nel Sud-Est asiatico si veda Michaela Haa, The Killing Fields of Today: Landmine Problem Rages On, Huffington Post, 2 giugno 2013, www.huffingtonpost.com/michaelahaas/…, accesso: 21 dicembre 2016. 2 Summerfield esamina questa tesi anche in Global Mental Health Is an Oxymoron and Medical Imperialism, British Medical Journal, 346, maggio 2013, f3509. 3 Lucy mi ha fatto questa domanda specifica via e-mail, perciò sul sito non è disponibile alcun audio. 4 C’è un interessante articolo su di lei: Sara Wilde, Life inside the bunkers, Exberliner, 17 settembre 2013, www.exberliner.com/features/…, accesso: 10 dicembre 2016.

15. Siamo stati noi a costruire questa città256

1 Elenco alcuni degli articoli da cui ho attinto per questo capitolo: https://kottiundco.net/; www.flickr.com/photos/…; www.neuesdeutschland.de/artikel/…; www.tagesspiegel.de/berlin/…; www.taz.de/Protestcamp-am-Kotti/…; http://needleberlin.com/2010/10/31/when-youre-from-kotti/; http://jungleworld.com/artikel/2012/24/45631.html; www.tagesspiegel.de/berlin/…; accesso: 30 settembre 2016 (ringrazio mio padre, Eduard Hari, per avermi aiutato a decifrare il tedesco). A Kotti, ho intervistato decine di persone nel corso di diversi anni. Come con ogni evento complesso, c’erano alcune piccole discrepanze nei loro ricordi di episodi specifici. Non le ho riportate nel testo: mi sono attenuto alle spiegazioni fornite dalla maggior parte degli intervistati o ai loro ricordi più vividi. In separata sede, per descrivere la situazione più generale degli affitti a Berlino, ho consultato anche il libro di Peter Schneider Berlin Now: The Rise of the City and the Fall of the Wall, Penguin, London 2014. 2 I retroscena sono descritti nel volume Abschoeibongs Dschungel Buch di Mischa e Susan Claasen, LitPol, Berlin 1982.

16. Prima riconnessione:agli altri

1 https://eerlab.berkeley.edu/pdf/papers/Ford_etal_inpress_JEPG.pdf, accesso: 1° novembre 2016; B.Q. Ford et al., Culture Shapes Whether the Pursuit of Happiness Predicts Higher or Lower Well-Being, Journal of Experimental Psychology: General. Pubblicazione online Advance, 144, no. 6, 2015, http://dx.doi.org/10.1037/xge0000108. 2 Richard Nisbett, The Geography of Thought: How Asians and Westerners Think Differently... and Why, Nicholas Brealey Publishing, New York 2005 (tr. it. Il Tao e Aristotele: perché asiatici e occidentali pensano in modo diverso, Rizzoli, Milano 2007) contiene una discussione davvero interessante su questo campo di ricerca. Si veda anche Paul Moloney, The Therapy Industry, op. cit., p. 118. 3 John Gray, The Silence of Animals: On Progress and Other Modern Myths, Penguin, London 2014, pp. 108-112. 4 Ci tengo a precisare che qui riporto il mio giudizio adolescenziale sugli ebrei ultraortodossi e su qualunque altro gruppo religioso apparentemente estremo, come i cristiani o i musulmani fondamentalisti. Molto diversi erano i miei sentimenti verso gli ebrei laici o moderati: sono cresciuto in un quartiere abitato prevalentemente da ebrei laici ed eravamo imparentati con una famiglia ebrea del posto, dunque è una cultura cui mi sento molto vicino. 5 www.npr.org/templates/…, accesso: 10 dicembre 2016. 6 J.A. Egeland et al., Amish Study: I. Affective disorders among the Amish, 1976-1980, American Journal of Psychiatry, 140, 1983, pp. 56-61, www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/…; E. Diener et al., Beyond money: Toward an economy of wellbeing, Psychological Science in the Public Interest, 5, no. 1, luglio 2004, pp. 1-31; Tim Kasser, Can Thrift Bring Well-being? A Review of the Research and a Tentative Theory, Social and Personality Psychology Compass, 5, no. 11, 2011, pp. 865-877, doi:10.1111/j.17519004.2011.00396.x. Si vedano anche Brandon H. Hidaka, Depression as a disease of modernity: explanations for increasing prevalence, Journal of Affective Disorders, 140, no. 3, novembre 2013, pp. 205-214,

www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/…; e Kathleen Blanchard, Depression symptoms may come from modern living, Emaxhealth.com, 13 agosto 2009, www.emaxhealth.com/1020/…. Si veda anche Junger, Tribe, op. cit., p. 22.

17. Seconda riconnessione:il social prescribing

1 Le altre figure fondamentali erano Lord Andrew Mawson, Rob Trimble, Karen McGee, Sheenagh McKinlay e la dottoressa Julia Davis. 2 ‘Phil’ e ‘signor Singh’ sono entrambi pseudonimi per proteggere la riservatezza dei diretti interessati. 3 Potete trovare un interessante riassunto del dibattito in Janet Brandling e William House, Social prescribing in general practice: adding meaning to medicine, Br J Gen Pract, 59, no. 563, giugno 2009, pp. 454-456, doi: 10.3399/bjgp09X421085. Si veda anche Peter Cawston, Social prescribing in very deprived areas, Br J Gen Pract, 61, no. 586, maggio 2011, p. 350, doi: 10.3399/bjgp11X572517. 4 Marianne Thorsen Gonzalez et al., Therapeutic horticulture in clinical depression: a prospective study of active components, Journal of Advanced Nursing, 66, no. 9, settembre 2010, pp. 2002-2013, doi: 10.1111/j.13652648.2010.05383.x; Y.H. Lee et al., Effects of Horticultural Activities on Anxiety Reduction on Female High School Students, Acta Hortric, 639, 2004, pp. 249-251, doi: 10.17660/ActaHortic.2004.639.32; P. Stepney et al., Mental health, social inclusion and the green agenda: An evaluation of a land based rehabilitation project designed to promote occupational access and inclusion of service users in North Somerset, UK, Soc Work Health Care, 39, no. 3-4, 2004, pp. 375-397; M.T. Gonzalez, Therapeutic Horticulture in Clinical Depression: A Prospective Study, Res Theory Nurs Pract, 23, no. 4, 2009, pp. 312-328; Joe Sempik e Jo Aldridge, Health, well-being and social inclusion: therapeutic horticulture in the UK, https://dspace.lboro.ac.uk/2134/2922; V. Reynolds, Well-being Comes Naturally: an Evaluation of the BTCV Green Gym at Portslade, East Sussex, rapporto no. 17, Oxford Brookes University, Oxford; Caroline Brown e Marcus Grant, Biodiversity and Human Health: What Role for Nature in Healthy Urban Planning?, Built Environment, 1978, 31, no. 4, Planning Healthy Towns and Cities, 2005, pp. 326-338. C’è una miniera di affascinanti ricerche sull’argomento anche nel Journal of Therapeutic Horticulture, http://ahta.org/ahta-the-journal-of-therapeutic-

horticulture, accesso: 10 settembre 2016. Si veda anche Davies, The Happiness Industry, op. cit., p. 246. 5 Paul Moloney, The Therapy Industry, op. cit., p. 61. 6 www.bbc.co.uk/history/…, accesso: 10 dicembre 2016.

18. Terza riconnessione:al lavoro gratificante

1 Credo di aver sentito per la prima volta questa metafora dallo scrittore britannico Dennis Potter, durante un’intervista in cui parlava della sua serie tv Lipstick on Your Collar. 2 Paul Verhaeghe, What About Me? The Struggle for Identity in a Market-Based Society, Scribe, Victoria 2014, p. 199, spiega che questa è una reazione diffusa al modo in cui lavoriamo. 3 Sono grato a Noam Chomsky, che ha ispirato Josh e Meredith, per avermi raccontato questa storia. Ne parla in tutta la sua produzione. 4 Qui non avevo spazio per elencare le prove di come i posti di lavoro in cui si può usare la motivazione intrinseca siano anche più efficienti. Se siete interessati, vi consiglio Drive di Daniel Pink, op. cit., pp. 28-31 e p. 51, e l’eccellente descrizione dei posti di lavoro democratici in Germania nel libro di Thomas Georghegan Were You Born on the Wrong Continent? How the European Model Can Help You Get a Life. Si veda anche Paul Rogat Loeb, Soul of a Citizen: Living with Conviction in Challenging Times, St. Martin’s Press, New York 2010, pp. 100-104. 5 Pink, Drive, op. cit., 76. 6 Ibid., p. 91; Paul Baard et al., Intrinsic Need Satisfaction: A Motivational Basis of Performance and Well-Being in Two Work Settings, Journal of Applied Social Psychology, p. 34, 2004. 7 Per esempio, Kate Pickett e Richard Wilkinson. 8 Davies, The Happiness Industry, Verso, New York 2016, pp. 108, 132133. Si veda anche Robert Karasek e Tores Theorell, Healthy Work: Stress, Productivity and the Reconstruction of Working Life, Basic Books, New York 1992 (tr. it. Autonomia e salute sul lavoro: stress, produttività e riorganizzazione del lavoro, FerrariSinibaldi, Milano 2012).

19. Quarta riconnessione:ai valori importanti

1 L’ho scoperto attraverso l’eccellente documentario This Space Available al New York Documentary Film Festival. Si vedano anche Justin Thomas, Remove billboards for the sake of our mental health, The National, 25 gennaio 2015, www.thenational.ae/opinion/…; Amy Curtis, Five Years After Banning Outdoor Ads, Brazil’s Largest City Is More Vibrant Than Ever, NewDream.org, www.newdream.org/blog/…; Arwa Mahdawi, Can cities kick ads? Inside the global movement to ban urban billboards, The Guardian, 12 agosto 2015, www.theguardian.com/cities/…, accesso: 25 agosto 2016. 2 Rose Hackman, Are you beach body ready? Controversial weight loss ad sparks varied reactions, The Guardian, 27 giugno 2015, www.theguardian.com/us-news/…, accesso: 10 gennaio 2017. 3 Tim Kasser et al., Changes in materialism, changes in psychological well-being: Evidence from three longitudinal studies and an intervention experiment, Motivation and Emotion, 38, 2014, pp. 1-22.

20. Quinta riconnessione:la gioia compartecipe e il superamento della dipendenza dall’io281

1 Dottor Miguel Farias e Catherine Wilkholm, The Buddha Pill: Can Meditation Change You?, Watkins, New York 2015, pp. 108-109; T. Toneatta e L. Nguyen, Does mindfulness meditation improve anxiety and mood symptoms? A review of the evidence, Canadian Journal of Psychiatry, 52, no. 4, 2007, pp. 260-266; J.D. Teasdale et al., Prevention of relapse/recurrence in major depression by mindfulness-based cognitive therapy, Journal of Consulting and Clinical Psychology, 68, no. 4, agosto 2000, pp. 615-623; J.D. Creswell et al., Brief mindfulness meditation training alters psychological and neuroendocrine responses to social evaluative stress, Psychoneuroendochrinology, 32, no. 10, gennaio 2014, pp. 11041109. 2 Farias e Wikholm, The Buddha Pill: Can Meditation Change You?, op. cit., p. 74; C. Hutcherson e E. Seppala, Loving-kindness meditation increases social connectedness, Emotion, 8, no. 5, ottobre 2008, pp. 720-734; J. Mascaro et al., Compassion meditation enhances empathic accuracy and related neural activity, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 8, no. 1, gennaio 2013, pp. 48-55; Y. Kang et al., The non-discriminating heart: Lovingkindness meditation training decreases implicit intergroup bias, Journal of Experimental Psychology, General 143, no. 3, giugno 2014, pp. 1306-1313; Y. Kang et al., Compassion training alters altruism and neural responses to suffering, Psychological Science, 24, no. 7, luglio 2013, pp. 1171-1180; Eberth Sedlmeier et al., The psychological effects of meditation: A meta-analysis, Psychological Bulletin, 138, no. 6, novembre 2012, pp. 1139-1171. 3 Farias e Wikholm, Buddha Pill, op. cit., p. 112; Frank Bures, The Geography of Madness: Penis Thieves, Voodoo Death and the Search for the Meaning of the World’s Strangest Syndromes, Melville House, New York 2016, p. 123. 4 Farias e Wikholm, Buddha Pill, op. cit., pp. 128-131.

5 P.A. Boelens et al., A randomized trial of the effect of prayer on depression and anxiety, International Journal of Psychiatry Medicine, 39, no. 4, 2009, pp. 377-392. 6 D. Lynch, Cognitive behavioural therapy for major psychiatric disorder: does it really work? A meta-analytical review of well-controlled trials, Psychological Medicine, 40, no. 1, gennaio 2010, pp. 9-24, doi: https://doi.org/10.1017/S003329170900590X. 7 Walter Pahnke e Bill Richards, Implications of LSD and experimental mysticism, Journal of Religion and Health, 5, no. 3, luglio 1966, pp. 175-208; R.R. Griffith et al., Psilocybin can occasion mystical-type experiences having substantial and sustained personal meaning and spiritual significance, Psychopharmacology, 187, no. 3, agosto 2006, pp. 268-283; Michael Lerner e Michael Lyvers, Values and Beliefs of Psychedelic Drug Users: A CrossCultural Study, Journal of Psychoactive Drugs, 38, no. 2, 2006, pp. 143-147; Stephen Trichter et al., Changes in Spirituality Among Ayahuasca Ceremony Novice Participants, Journal of Psychoactive Drugs 41, no. 2, 2009, pp. 121134; Rick Doblin, Pahnke’s ‘Good Friday experiment’: A long-term followup and methodological critique, Journal of Transpersonal Psychology, 23, no. 1, gennaio 1991: 1. Per utili informazioni generali sull’argomento: William Richards, Sacred Knowledge: Psychedelics and Religious Experiences, Columbia University Press, New York 2016. 8 Pahnke et al., LSD In The Treatment of Alcoholics, Pharmacopsychiatry, 4, no. 2, 1971, pp. 83-94, doi: 10.1055/s-00281094301. 9 L. Grinspoon e J. Bakalar, The psychedelic drug therapies, Curr Psychiatr Ther, 20, 1981, pp. 275-283. 10 Bill Richards spiega il perché in Sacred Knowledge, op. cit. 11 La migliore decostruzione di questi miti, con le relative prove, è contenuta nell’eccellente Saying Yes di Jacob Sullum, Jeremy Tarcher, New York 2004. 12 Non vennero approvate leggi per proibire queste droghe; le autorità non autorizzarono alcun esperimento. Fu un divieto di fatto, non di natura legale. 13 Mark è il suo vero nome, ma nel resoconto mi ha pregato di modificare alcuni piccoli particolari della sua vita. L’audio e i dettagli di questa intervista sono stati verificati dall’editore. 14 A Los Angeles, all’UCLA ho intervistato Charles Grob e Alicia

Danforth. A Baltimora, alla Johns Hopkins, Albert Garcia, Bill Richards, Fred Barratt, Roland Griffiths, Jim Fadiman e diversi partecipanti ai loro studi sperimentali, che hanno chiesto di non essere nominati. A Londra, all’UCL, ho intervistato David Nutt, Jim Rucker e Robin Carhart-Harris. A San Francisco, Richard Vaughan. In Danimarca, David Eritzoe. A New York, Elias Dakwar, Andrew Tatarsky e Katherine Maclean. In Norvegia, Teri Krebbs e Pal Johansen. A San Paolo, Diartiu Silviera. Ho intervistato anche alcuni dei principali fautori di queste ricerche: Rick Doblin, direttore della Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS) a Boston; Brad Burge della MAPS in California; e Amanda Fielding, direttrice della Beckley Foundation a Londra. Una guida a queste ricerche, che mi ha aiutato a individuare le persone con cui parlare, è questo superbo articolo di Michael Pollan: The Trip Treatment, New Yorker, 9 febbraio 2015, www.newyorker.com/magazine/…, accesso: 12 dicembre 2016. 15 Matthew W. Johnson et al., Pilot study of the 5-HT2AR agonist psilocybin in the treatment of tobacco addiction, Journal of Psychopharmacology, 28, no. 11, settembre 2014, pp. 983-992. 16 Robin Carhart-Harris et al., Psilocybin with psychological support for treatment-resistant depression: an open-label feasibility study, Lancet Psychiatry, 3, no. 7, luglio 2016, pp. 619-627. 17 Matthew W. Johnson et al., Pilot study of the 5-HT2AR, op. cit. 18 Questo studio non è ancora stato pubblicato. Qui potete ascoltare Barrett che ne parla: https://vimeo.com/148364545, accesso: 12 dicembre 2016.

21. Sesta riconnessione:riconoscere e superare i traumi infantili

1 Felitti et al., Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 211; V. Felitti et al., The relationship of adult health status, op. cit. 2 Felitti et al., Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., p. 212; V. Felitti, Long Term Medical Consequences of Incest, Rape, and Molestation, Southern Medical Journal, 84, 1991, pp. 328-331. 3 Felitti et al., Chadwick’s Child Maltreatment, op. cit., 205. 4 Felitti, Ursprünge des Suchtverhaltens, 52, 2003, pp. 547-559. 5 Judith Shulevitz, The Lethality of Loneliness, New Republic, 13 maggio 2013, https://newrepublic.com/article/113176/science-lonelinesshowisolation-can-kill-you, accesso: 12 dicembre 2016. La ricerca più importante sugli straordinari effetti della liberazione dai fardelli mentali è stata condotta da James Pennebaker all’università del Texas a Austin. Se siete interessati all’argomento, vi consiglio di leggere tutta la sua affascinante produzione.

22. Settima riconnessione:restituire il futuro

1 Questo resoconto si basa sull’intervista a Evelyn Forget e sulla lettura dei suoi articoli pubblicati, in particolare Evelyn Forget, The Town with No Poverty: The Health Effects of a Canadian Guaranteed Annual Income Field Experiment, Canadian Public Policy, 37, no. 3, 2011, doi: 10.3138/cpp.37.3.283. Ho attinto anche da Srnicek e Williams, Inventing the Future, op. cit. e Bregman, Utopia for Realists, op. cit. Mi sono stati utili anche i seguenti articoli: Zi-Ann Lum, A Canadian City Once Eliminated Poverty and Nearly Everyone Forgot About It, Huffington Post, 3 gennaio 2017, http://www.huffingtonpost.ca/2014/12/23/mincome-in-dauphinmanitoba n_6335682.html; Benjamin Shingler, Money for nothing: Mincome experiment could pay dividends 40 years on, Aljazeera America, 26 agosto 2014, http://america.aljazeera.com/articles/…; Stephen J. Dubner, Is the World Ready for a Guaranteed Basic Income?, Freakonomics, 13 aprile 2016, http://freakonomics.com/podcast/mincome/; Laura Anderson e Danielle Martin, Let’s get the basic income experiment right, TheStar.com, 1° marzo 2016, www.thestar.com/opinion/…; CBC News, 1970s Manitoba poverty experiment called a success, CBC.ca, 25 marzo 2010, www.cbc.ca/news/…; accesso: 20 agosto 2016. Si sono rivelate preziose anche le interviste all’ottimo economista e pensatore tedesco Stefan Mekkifer a Berlino e all’economista americano Karl Widerquist a Montreal. 2 Cohen e Timimi, Liberatory Psychiatry, op. cit., pp. 132-134; Blazer et al., The prevalence and distribution of major depression in a national community sample: the National Comorbidity Survey, Am Psych Assoc, 151, no. 7, luglio 1994, pp. 979-986. 3 Bregman, Utopia for Realists, op. cit., pp. 63-64. 4 www.indybay.org/newsitems/…, accesso: 12 dicembre 2016. 5 E. Jane Costello et al., Relationships Between Poverty and Psychopathology: A Natural Experiment, JAMA, 290, no. 15, 2003, pp. 20232029. Si veda anche Moises Velasquez-Manoff, What Happens When the Poor Receive a Stipend?, New York Times, 18 gennaio 2014,

https://opinionator.blogs.nytimes.com/2014/01/18/…, 1° gennaio 2017. Si veda anche Bregman e Manton, Utopia for Realists, op. cit., pp. 97-99. Si veda anche https://academicminute.org/2014/06/jane-costello-dukeuniversitysharing-the-wealth/, accesso: 1° gennaio 2017. 6 http://edoc.vifapol.de/opus/…, accesso: 20 ottobre 2016; Danny Dorling: A Better Politics: How Government Can Make Us Happier, London Publishing Partnership, London 2016, pp. 98-100. 7 Questa tesi viene difesa con forza anche in Srnicek e Williams, Inventing the Future, pp. 120-121. 8 www.wired.com/2016/…, accesso: 12 dicembre 2016. 9 Sullivan ne parla a lungo nel bellissimo libro Love Undetectable, Vintage, London 2014. 10 Per una guida più esauriente consiglio due libri magnifici: Rebecca Solnit, Hope in the Dark: Untold Histories, Wild Possibilities, Canongate, London 2016 e Paul Rogat Loeb, Soul of a Citizen, op. cit.

Conclusione: si torna a casa

1 www.researchandmarkets.com/research/…, accesso: 23 dicembre 2016. 2 Verhaeghe, What About Me?, op. cit., pp. 191-193. 3 www.ohchr.org/EN/…, accesso: 16 aprile 2017. Sostengono che, per i casi più gravi, i medicinali vanno tenuti presenti come opzione, ma «l’uso di sostanze psicotrope come trattamento di prima linea contro la depressione e altri disturbi non è, molto semplicemente, convalidato da prove sperimentali. In base a un paradigma neurobiologico ridotto, il ricorso eccessivo a medicinali e ad altri interventi biomedici è più nocivo che benefico». 4 Moloney, The Therapy Industry, op. cit., p. 70. 5 Questa immagine viene dal meraviglioso libro di Stephen Grosz The Examined Life: How We Lose and Find Ourselves, Vintage, London 2015 (tr. it. La storia che non possiamo raccontare: come perdiamo e ritroviamo noi stessi, Mondadori, Milano 2013). 6 Mark Fisher propone un’interessante trattazione di questo argomento in Capitalist Realism, op. cit., pp. 18-20. 7 Questa idea del ritorno a casa è ripresa dal testo di Naomi Klein in This Changes Everything: Capitalism vs. The Climate, Penguin, London 2015 (tr. it. Una rivoluzione ci salverà: perché il capitalismo non è sostenibile, BUR, Milano 2015) e dal film omonimo di Avi Lewis.

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Frontespizio L’autore Prologo: la mela Introduzione: un mistero PARTE PRIMA. La crepa nella vecchia storia 1. La bacchetta 2. Lo squilibrio 3. L’eccezione del lutto 4. La prima bandiera sulla Luna PARTE SECONDA. La disconnessione: nove cause della depressione e dell’ansia 5. Raccogliere la bandiera (introduzione alla Parte Seconda) 6. Prima causa: la disconnessione dal lavoro gratificante 7. Seconda causa: la disconnessione dagli altri 8. Terza causa: la disconnessione dai valori importanti 9. Quarta causa: la disconnessione dai traumi infantili 10. Quinta causa: la disconnessione dallo status e dal rispetto 11. Sesta causa: la disconnessione dal mondo naturale 12. Settima causa: la disconnessione da un futuro promettente o sereno 13. Ottava e nona causa: il vero peso dei geni e dei cambiamenti cerebrali PARTE TERZA. La riconnessione, o un diverso tipo di antidepressivo 14. La mucca 15. Siamo stati noi a costruire questa città 16. Prima riconnessione: agli altri 17. Seconda riconnessione: il social prescribing 18. Terza riconnessione: al lavoro gratificante 19. Quarta riconnessione: ai valori importanti 20. Quinta riconnessione: la gioia compartecipe e il superamento della dipendenza dall’io 21. Sesta riconnessione: riconoscere e superare i traumi infantili 22. Settima riconnessione: restituire il futuro Conclusione: si torna a casa Ringraziamenti Note

3 2 6 10 20 21 30 41 48 58 59 60 71 89 103 113 120 129 140 153 154 159 174 184 195 205 212 234 238 248 256 260