La donna perfetta. Storia di Barbie 9788842087106

Barbie sta per spegnere le cinquanta candeline e la sua fama ha raggiunto praticamente ogni landa del pianeta. I numeri

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La donna perfetta. Storia di Barbie
 9788842087106

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i Robinson / Letture

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Nicoletta Bazzano

La donna perfetta Storia di Barbie

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8710-6

a Giulia e Teresa

Ringraziamenti

L’idea di questo libro è nata nella tratta Roma-Teramo conversando con Francesco Benigno e Gabriele Pedullà, affettuosi e solleciti spettatori delle sue varie traversie. Matteo Sanfilippo, che per leggerne la prima stesura ha sacrificato parte di un’entusiasmante notte bianca romana, è stato prodigo di suggerimenti. Giuseppe Mrozek mi ha aiutato, in un momento di difficoltà, a reperire alcuni materiali. Pamela Catalano, Roberta Pizzutto e Alessandra Campanile non hanno mai smesso di incoraggiarmi. A tutti va il mio più sincero ringraziamento. Ugualmente profonda è la mia riconoscenza per Olga Khaustava, che si è spesso presa cura di Ruggero mentre la sua mamma continuava a «giocare con la Barbie», attività che prometto a Massimo di interrompere ringraziandolo di tutto cuore.

La donna perfetta Storia di Barbie

Lilli

Il 23 giugno del 1952, sulla prima pagina del «Bild Zeitung» pronto per la rotativa campeggia una lunga colonna candida, un enorme spazio bianco che bisogna affrettarsi a riempire. Il redattore capo mette all’opera Reinhard Beuthin, il grafico della testata. Il disegnatore, preso alla sprovvista, tratteggia il profilo di un angioletto paffuto. Bocciato. Malgrado il bisogno impellente – il giornale deve andare in macchina entro mezz’ora – si pretende qualcosa di accattivante per il lettore del quotidiano. E così, continuando a lavorare di matita, il visetto rotondo dell’angelo si assottiglia, i boccoli diventano ciocche maliziose che sfuggono da una fluente coda di cavallo; sotto un sorriso che perde in celestialità per acquistare una sfumatura di innocente malizia, viene tratteggiato un corpo tutto curve, che gli abiti severi non riescono neppure minimamente a dissimulare. «Voici Lilli» recita, in un vezzoso francese, la didascalia del disegno che si trova a riempire il 24 giugno 1952 la prima pagina di «Bild Zeitung». Ecco Lilli. Ed è subito un successo, che si rinnova ogni giorno dalla striscia domenicale riservatale dal giornale. Lilli, infatti, risulta estremamente attraente per i lettori. In primo luogo è il suo aspetto a farle conquistare la comune ammirazione. Slanciata e bionda, Lilli impersona il canone di bellezza che il defunto regime nazionalsocialista aveva propagandato come unico possibile e che il tedesco medio ha imparato a considerare come ideale: un modello che si è ancor più radicato quando, al seguito delle truppe di occupazione, 3

sono arrivate in Germania le immagini delle seducenti pin up statunitensi. Seno prosperoso, vita sottile, fianchi morbidi: il suo aspetto sembra compendiare quanto Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Reich hitleriano, aveva scritto, negli anni Trenta, in un racconto giovanile. La donna ha il compito di essere gradevole e di mettere al mondo figli. Questa non è un’idea così retriva e crudele come si può pensare in un primo momento. Le femmine degli uccelli si puliscono per il proprio compagno e si prendono cura delle uova. In cambio il maschio si incarica di portare il cibo al nido, rimane vigile e combatte contro tutti i nemici.

Nei tratti somatici Lilli, con i suoi lineamenti delicati, richiama quell’«essenza del tipo nordico», già inutilmente cercata nel 1926 in un concorso della rivista «Volk und Rasse» (Popolo e razza). Secondo i giudici della rivista nessuna concorrente presentatasi aveva risposto al modello richiesto: al di là dell’aspetto fisico, infatti, essi inseguivano una dimensione morale che, ai loro occhi, le donne del primo Novecento avevano smarrito, dopo che il primo conflitto mondiale le aveva portate a ricoprire ruoli in precedenza di esclusivo appannaggio maschile. Non bastavano gli occhi azzurri e i capelli biondi di Marlene Dietrich a incarnare con la pienezza richiesta l’ideale inseguito. Solo apparentemente si trattava di una questione estetica. L’Angelo azzurro che, prima nel romanzo di Heinrich Mann e poi nel film di Joseph von Sternberg, seduceva il bigotto professor Unrat possedeva una torbida carica erotica che mal si addiceva alla donna tedesca esemplare, il cui tratto dominante doveva essere quello di una spensierata e candida allegria e il cui unico e naturale obiettivo era quello di generare quanti più figli possibile. L’idea che la donna tedesca dovesse avere nella maternità il suo principale obiettivo e nel panorama sbirciato dalle finestre della casa coniugale il suo unico orizzonte era stata af4

fermata con chiarezza sin dai primi anni del secolo. Nel 1914 Fritz Lenz, un eugenista ossessionato da un’imminente «scomparsa» della «razza tedesca» dinanzi alla crescita di altre popolazioni, teorizzò l’obbligo sociale per la donna di dedicare tutte le proprie energie, la propria forza e il proprio vigore alla riproduzione. Secondo i suoi calcoli, si potevano raggiungere livelli di fecondità incomparabili con quelli attestatisi ai due figli per coppia, cui la borghesia tedesca, in consonanza con quanto accadeva contemporaneamente nel resto d’Europa, cominciava a inizio Novecento ad attenersi. Si tratta di un fatto che la donna sia fisicamente in grado di procreare per un periodo medio di 30 anni. Considerando che la donna può generare soltanto una volta ogni due anni questo significa mettere al mondo 15 figli come minimo. Qualsiasi cifra inferiore a questa va considerata come la conseguenza di cause non naturali o patologiche.

Nel 1935 Otmar Freiherr von Verschuer, direttore dell’Istituto sull’igiene della razza dell’Università di Francoforte e sciagurato maestro del criminale nazista Josef Mengele, aveva scritto che la «migliore politica contro la disoccupazione consiste nel favorire il ritorno a casa delle donne». Qualche anno più tardi, forte di queste affermazioni «scientifiche», Hitler dichiarò solennemente che «il campo di battaglia della donna è la casa». E per indurre le donne a lasciare il lavoro e tornare a pappe, pentole e padelle vennero create onorificenze da assegnare alle madri più prolifiche, premiate come combattenti particolarmente valorosi, mentre le coppie senza figli dovevano pagare tasse aggiuntive e l’incapacità delle donne a procreare veniva contemplata come causa di divorzio. Cancellare la presenza femminile dal mondo del lavoro risultò però difficile. Malgrado gli auspici della propaganda, la necessità crescente di manodopera impediva che le donne abbandonassero il posto di lavoro. Paradossalmente rispetto ai dettami del regime, ma in maniera estremamente naturale, 5

viste le condizioni in cui versava la Germania, il numero delle lavoratrici aumentava di concerto con l’inquadramento degli uomini nelle file dell’esercito. Complici alcuni divieti ufficiali, alle donne, nei servizi pubblici come nelle fabbriche, rimanevano gli incarichi più svantaggiosi, gli impieghi meno remunerativi mentre ogni tentativo di migliorare la propria posizione veniva regolarmente frustrato. Il lavoro fu così, per le donne tedesche, una condanna che non redimeva da una condizione oggettiva di inferiorità, dalla quale ci si poteva riscattare solo con la procreazione. Anche negli anni immediatamente successivi alla fine del regime, le donne furono costrette a sopportare una situazione estremamente gravosa. In una Germania confusa, popolata di reduci allo sbando, senza casa, senza famiglia, senza lavoro, le donne affrontavano la durezza di una vita quotidiana che sembrava somigliare per molti aspetti a una lotta darwiniana. Assenti gli uomini, perché morti o prigionieri, le donne sopportavano le lunghe code per i rifornimenti alimentari e si adattavano alle lunghe contrattazioni del mercato nero: ancor più di prima il lavoro diventò un fardello difficile da sopportare. Quasi a voler visualizzare un’aspirazione diffusa, nelle vignette di Reinhard Beuthin, il creatore del nuovo fumetto che rallegra la prima pagina di «Bild Zeitung», Lilli non appare mai al lavoro, ma sempre occupata a far bella mostra di sé e delle sue grazie, esibite con notevole disinvoltura (come d’altronde fanno, oltreoceano, le sue cugine su manifesti e calendari). La sua principale occupazione e la sua maggiore preoccupazione è quella di tenere a bada i numerosi pretendenti in situazioni umoristiche in cui i personaggi si esprimono in un linguaggio non privo di doppi sensi. Il sogno di Lilli – come confessa sin dalle prime strisce, in cui si intrattiene con una cartomante – è quello di sposare un milionario; nel frattempo attraversa con passo leggero le più diverse vicende, più attenta ai portafogli che agli sguardi maschili. Sempre elegan6

te, grazie anche ai preziosi consigli della moglie del disegnatore, Erika Beuthin, Lilli si dedica alla cura del proprio aspetto e alle mille civetterie cui gli uomini tedeschi aspirano per le loro donne, dopo quella che è sembrata un’interminabile stagione di severità. Grazie alla sua coquetterie, Lilli riscuote un grande successo. Diviene un simbolo del «Bild Zeitung», che le affida un’inedita missione pubblicitaria. A un anno dalla sua nascita, Reinhard Beuthin, pur continuando a disegnarne le avventure nelle strisce che arricchiscono la versione domenicale del quotidiano, si mette in contatto con Max Weissbrodt, un progettista della ditta Hausser Elastolin di Neustadt, affinché la sua eroina acquisti tridimensionalità. La Hausser Elastolin era un’azienda fra le più conosciute in Germania. Fondata nei pressi di Stoccarda ai primi del Novecento e trasferitasi in Turingia negli anni Trenta, doveva le sue fortune all’elaborazione di una miscela di cartapesta, colla e gesso con la quale si costruivano figurine in miniatura, l’elastolin. Questo materiale era sicuramente meno costoso del piombo, con il quale in Inghilterra a partire dalla fine dell’Ottocento si realizzavano i soldatini destinati al gioco dei bambini, e una volta pressato negli appositi stampi si prestava ugualmente bene a essere dipinto con vernici satinate da artisti specializzati. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, la Hausser Elastolin aumentò le sue fortune. Su diretta sollecitazione del regime, infatti, la ditta – come molte altre aziende tedesche produttrici di giocattoli – ampliò il suo catalogo realizzando le miniature di mezzi e uniformi dell’esercito tedesco: figurine con le divise della Wehrmacht o della Luftwaffe, autocarri, cannoni, cucine da campo e così via. In questo modo il regime intendeva promuovere nei bambini, sin dalla più tenera età, l’aspirazione alla vita militare e l’idea di appartenere a una nazione forte. Quando, sul finire della guerra, i bombardamenti distrussero gli stabilimenti delle ditte concorrenti, la Hausser Elastolin venne miracolosamente ri7

sparmiata dagli attacchi aerei. Dai laboratori della ditta, che si trovava nella zona occupata dalle truppe statunitensi, cominciarono così a venir fuori le miniature degli autocarri americani. Tuttavia, ben presto, con il ritorno alla normalità, il repertorio militare cessò di essere quello di maggiore importanza per l’azienda, in cerca di ridefinizione malgrado la grande professionalità. In quei primi anni Cinquanta, i progettisti dell’Hausser Elastolin, attenti ai minimi particolari, e i suoi decoratori, sensibili alle più tenui sfumature, sono dunque fra i pochi, in Germania, in grado di garantire a Reinhard Beuthin che, nel passaggio dalla bidimensionalità alla tridimensionalità, Lilli non perda i suoi caratteri originali, ma conservi, amplificandolo, quel tratto vezzoso che la rende affascinante agli occhi maschili. Dopo diversi conciliaboli fra Beuthin e Weissbrodt e svariati tentativi di riprodurre a colori e in tre dimensioni quanto Beuthin ha realizzato in bianco e nero e in due dimensioni, il 12 agosto 1955, Lilli fa il suo ingresso sul mercato tedesco al prezzo di quasi venti marchi. I capelli color platino legati in una coda di cavallo, gli occhi bistrati, l’aria sofisticata non la rendono, però, una bambola destinata alle bambine europee, che continuano a cullare bebè di plastica dagli occhioni sgranati. Nei suoi trenta centimetri scarsi – ne misura in realtà ventinove e mezzo –, la pallida e bionda Lilli, dallo sguardo obliquo e dalle rosse labbra a forma di cuore, racchiude un concentrato di sensualità assolutamente inadeguato alle fantasie infantili. La ricercatezza della bambola è amplificata dalle mises raffinate, realizzate appositamente per lei dalla 3M Dolls sotto la guida di Martha Maar, la madre dell’imprenditore Rolf Hausser, che segue appassionatamente l’evolversi capriccioso della moda dell’epoca. La copia in miniatura del quotidiano «Bild Zeitung» che stringe in mano accentua l’idea che Lilli non sia stata creata per i giochi infantili. 8

Chiusa in una scatola trasparente, che ne fa apprezzare la linea voluttuosa delle forme, Lilli è destinata a un pubblico maschile adulto: un regalo divertente per signori, un gadget malizioso da acquistare in quei luoghi tradizionalmente riservati agli uomini che sono le tabaccherie. Anche la versione in miniatura, che misura diciotto centimetri, e che verrà commercializzata di lì a poco, anch’essa chiusa in una scatola trasparente e accompagnata da una copia del «Bild Zeitung» tutta a lei dedicata, rimane riservata agli uomini, quale stuzzicante mascotte portafortuna. Con questo ruolo provocante Lilli varca i confini tedeschi e comincia a essere distribuita in Austria e in Svizzera, inconsapevole del destino di progenitrice di un autentico mito.

È nata una stella

Spazzate vie le macerie, complice la bontà del cambio, il Vecchio Continente diviene il luogo dove gli abitanti del Nuovo amano trascorrere le loro vacanze: in Europa è possibile respirare quell’atmosfera rarefatta che gli americani non riescono a trovare in patria. La raffinata Audrey Hepburn di Vacanze romane, di Sabrina o della commedia musicale Gigi non può che confermarlo. Ma non sono solo le giovinette di belle speranze ad attraversare l’oceano piene di curiosità. L’Europa attira proprio tutti, anche le tranquille famigliole della classe media americana. Così, nel 1956, fra le tante famiglie che giungono ad ammirare i monumenti europei, si contano anche gli Handler. Il signor Elliott Handler e sua moglie Ruth, i figli Barbara, di quindici anni, e Kenneth, di nove, passeggiano oziosamente godendosi il clima estivo per le vie di Lucerna. È per le strade della cittadina svizzera – come ricorderà negli anni a seguire, confondendo talvolta, nelle diverse interviste rilasciate, Lucerna con Zurigo – che Ruth vede per la prima volta Lilli. Eravamo andati tutti e quattro a fare una passeggiata per vetrine. [...] Presto ci fermammo davanti a un negozio di giocattoli. Ken disparve al suo interno, ed Elliott gli andò dietro. [...] Al posto di seguirli, Barbara ed io ci attardammo a lungo davanti al negozio. Eravamo totalmente affascinate dalla vetrina. Vi erano esposte sei bambole di 28 centimetri; i visi e i capelli erano identici ma ogni bambola portava una tenuta da sci diversa, di stile europeo.

Sebbene abbia da tempo passato l’età dei giochi con le bambole, Barbara, i cui ingenui occhi statunitensi non sanno 10

decifrare la malizia tutta europea di Lilli, vuole assolutamente uno degli esemplari in vetrina. Già immagina di continuare con quella bambola il gioco tante volte fatto con le bambole di cartone, vestite con abiti di carta sempre diversi tenuti da linguette. Per questo Barbara, abituata all’opulenza americana, oltre la bambola vorrebbe almeno un vestito di ricambio. Ma la commessa non può accontentare la ragazza. Nell’Europa in cui anche nelle buone famiglie si rivoltano i soprabiti e si risuolano più volte le scarpe, i singoli abiti non sono in vendita e Barbara deve accontentarsi solo della Lilli che le piace di più. I deliziosi vestitini alla moda disegnati da Martha Maar Hausser non risultano in vendita neppure l’indomani a Vienna, dove la signora Handler acquista ancora due Lilli, una per la figlia, l’altra per sé. La bambola l’ha profondamente colpita, poiché rende palpabile una fantasia a lungo coltivata in cui si fondono elementi contrastanti derivati da una particolare vicenda biografica. Ruth era nata nel 1916 a Denver, in Colorado, da genitori ebrei di origine polacca. Quando era ancora la signorina Mosko, Ruth aveva lavorato come stenografa negli studi della Paramount. Nel 1938, dopo il matrimonio con Elliott Handler, si era stabilita a Hawthorne, in California, la cittadina che ha dato i natali a Norma Jean Baker, la futura Marilyn Monroe, e che si trova a pochi chilometri dal luogo dove sorgerà nel 1955 l’immaginifica Disneyland. In quello che diventerà di lì a poco un «paese dei balocchi», dove i piccoli inseguiranno le grandi sagome di Mickey Mouse e di Donald Duck e i grandi sogneranno lo sguardo languido e dolce di Marilyn, negli anni Quaranta Elliott Handler e il suo socio Harold Mattson fondarono la Mattel. La loro azienda, il cui nome è frutto della fusione fra le prime lettere del cognome del secondo e quelle del nome di battesimo del primo, produceva mobili per case di bambole che riscuotevano un certo successo. Quando Harold Mattson aveva lasciato il socio, il suo ruolo era stato rilevato da Ruth Handler, che si era co11

sì trovata a lavorare fianco a fianco al marito. Elliott, tuttavia, non era eccessivamente ricettivo ai consigli della moglie, che avrebbe voluto ampliare l’attività dell’impresa familiare e produrre un nuovo tipo di bambole. A Ruth riusciva difficile spiegare perché non voleva immettere sul mercato un bambolotto con le braccine paffute da bebè, simile a quanti troneggiavano sugli scaffali dei negozi di giocattoli. Quando poi gli capitava di descrivere la bambola adulta che aveva in mente, non trovava orecchie disposte ad ascoltarla. Eppure avvertiva che le bambine dell’età di sua figlia, o poco più piccole, non trovavano eccessiva soddisfazione nel giocare alle mamme con i pargolotti di plastica. Nel clima di prosperità in cui si trovano gli Stati Uniti negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, con l’affermarsi del consumismo, le bambine tendono a replicare nei loro passatempi le smanie delle borghesi americane, prima fra tutte quella di acquistare e cambiare turbinosamente abito a ogni ora e per ogni occasione. Armate di forbici affilate, ritagliano completi da giorno e abiti da sera, costumi da bagno e tenute sportive, stando ben attente a non eliminare quelle linguette candide che servono ad assicurarli alla rigida bambola di cartone. Agghindate di tutto punto, le bambole sono pronte a vivere le loro fantastiche avventure. Sono tempi nuovi, però, anche per le favole. I volti dei divi e delle dive che occhieggiano dalle pagine dei giornali dopo aver riempito la superficie luminosa dello schermo cinematografico divengono familiari anche ai bambini. E ben presto ai personaggi di Perrault e dei fratelli Grimm, le cui vicende continuano a essere narrate in quei rituali familiari che contemplano «i racconti della buona notte» quale saluto quotidiano dei genitori prima del riposo notturno, bambini e bambine cominciano a preferire gli eroi e le eroine delle nuove favole diffuse dalla celluloide. Il principe azzurro ha i lineamenti regolari e il fascino distinto e scanzonato di Cary Grant oppure il sorriso ironico e lo sguardo penetrante di Clark Gable; Cenerentola o Bianca12

neve cessano di essere gli unici ideali di cui le bambine aspirano a vivere l’avventura romantica; la spigolosa Rossella O’Hara, interpretata con ironia da Vivien Leigh, l’esplosiva Rita Hayworth o l’accattivante Marilyn sembrano possedere l’essenza più nascosta della femminilità. Tutto ciò, probabilmente, non è ignoto alla signora Handler. Ma spiegare come le fantasie di bambine nutrite a latte e cinema possano essere diverse da quelle delle bambine delle generazioni precedenti appare particolarmente difficile in un mondo conservatore quale quello della produzione di giocattoli. A toglierla dall’impaccio giunge, per le strade di una cittadina svizzera, la tedesca Lilli, che sembra compendiare nei suoi formosi trenta centimetri scarsi l’essenza del divismo. Delle icone del cinema Lilli ha lo sguardo ambiguo e ammaliante, il broncio scarlatto e l’inconfondibile allure: è pronta a proiettare mille fantasticherie infantili e adolescenziali sul candido telo del gioco quotidiano. Il viaggio da un continente all’altro non è dei più facili. Lilli non è un oggetto che un wasp – white-anglo-saxon-protestant – metterebbe senza una qualche preoccupazione nelle mani delle figlie innocenti. In Germania la bambola gode di una piccante reputazione, che Ruth Handler, peraltro, ignorava totalmente al momento del fatidico acquisto. Ma per una donna che ha trascorso i suoi anni giovanili nella Hollywood dei grandi studios, ciò non rappresenta certo un problema. Sulla collina dei divi si sprecavano, già da tempo, le chiacchiere sulle allegre tendenze bisessuali di Marlene Dietrich e del gruppo di sue amiche, note come «il circolo del cucito di Marlene»; si sussurrava dell’amicizia particolare che legava la divina Greta Garbo con la scrittrice Salka Viertel; più forte ancora era il mormorio su Charlie Chaplin, la sua passione per le minorenni e la ragguardevole «artiglieria personale», indiscreto particolare che le voci attribuivano anche a Humphrey Bogart. Accanto ad amori omosessuali e passioni extramatrimoniali, argomenti preferiti dei mormorii erano 13

baccanali e festini, dove non si risparmiava su alcol e cocaina. In realtà, quanto avveniva sui bordi delle piscine dei divi non arrivava sulle pagine dei quotidiani, e le stelle del cinema erano al tempo stesso personaggi da applaudire e modelli da imitare. Gli spettatori volevano vestirsi, mangiare e divertirsi come i divi che ammiravano: quando Clark Gable in Accadde una notte si tolse la camicia rimanendo con il torace nudo crollarono le vendite delle canottiere; a Veronica Lake lo stesso governo chiese di modificare la pettinatura, perché diverse operaie che imitavano l’onda di capelli sul viso rimanevano vittime di incidenti sul lavoro. Di tanto in tanto, però, la cieca adorazione degli spettatori veniva scossa dagli scandali che sulle prime pagine dei giornali gettavano un’ombra tetra sulle figure dei divi. Sfrenatezze, droga, violenze, morti improvvise... Ma si trattava di fulmini che squarciavano un cielo pronto a ritornare presto sereno. Come scriverà Kenneth Anger, nel suo Hollywood Babilonia: «I fans adoravano ma erano volubili, e se le loro divinità mostravano di avere i piedi di argilla le abbattevano senza pietà. Tanto, a un passo dallo schermo, c’era sempre una nuova stella in attesa di sorgere». Con il passare del tempo, le grandi case cinematografiche affinarono le loro abilità e presto furono in grado di costruire a tutto tondo le figure dei divi e delle dive che volevano lanciare, di dotarle di tutti quei pregi che la pubblica morale esigeva fossero patrimonio collettivo, di nascondere le infinite debolezze sotto la maschera sfavillante che sfoggiavano, di presentarli impeccabili al pubblico osannante. Del resto gli studios non inventano nulla. Raffinano una pratica nata con le stesse colonie americane, tanti secoli prima, e che già Daniel Defoe aveva raccontato nel suo romanzo Moll Flanders. La maggior parte degli abitanti del Nuovo Mondo, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, non era certo classificabile nella categoria degli onesti borghesi. Si trattava di schiavi o di delinquenti tutti riconoscibili dal marchio a fuoco impresso sulla carne. Tuttavia, al di là dell’oceano si poteva avere una nuova identità: «più di un uccello uscito dalla gabbia di 14

Newgate diventa un grand’uomo, e qui abbiamo [...] diversi giudici di pace, ufficiali di polizia, magistrati, che hanno il marchio di fuoco sulla mano». La stessa Moll, protagonista del romanzo «fu dodici anni prostituta, cinque volte moglie – e una volta al suo stesso fratello –, dodici anni ladra, otto deportata in Virginia, e alla fine diventò ricca, visse onesta e morì penitente». Alla tedesca Lilli, Ruth Handler non chiede rivolgimenti esistenziali così tortuosi. E così, nel volgere di un triennio, l’intraprendente americana cancella la prorompente e ingombrante personalità di Lilli per creare una bambola che le assomiglia moltissimo nel fisico ma che è totalmente nuova per moltissimi altri aspetti: primo fra tutti quello di essere destinata ai giochi infantili. Il 9 marzo 1959, fa il suo ingresso trionfale alla fiera del giocattolo di New York la bambola Barbie, il cui nome altro non è che il diminutivo di quello della figlia degli Handler, Barbara Joyce. La casa produttrice Mattel la presenta come «teen-age fashion model», sottolineando la sua età adolescenziale e l’indelebile attitudine a seguire la moda; e ancora come «a new kind of doll from a real life», un nuovo tipo di bambola dalla vita reale. Tuttavia, la realtà che Barbie si trova a vivere e a far vivere a coloro che giocano con lei è incontestabilmente impregnata di divistica irrealtà. La bambola stessa, sin dalla sua prima comparsa, più che la ragazza della porta accanto appare come una delle inarrivabili dive che popolano gli schermi e le fantasie delle adolescenti statunitensi: la folta chioma bionda come quella di Marilyn Monroe o bruna come quella di Jane Russell con una frangia a far velo allo sguardo; le morbide curve, tanto simili a quelle di Lilli, sono coperte da un costume da bagno di jersey bianco e nero che svela lunghissime gambe, rese ancora più slanciate da affusolati zoccoletti a tacco alto; il viso, ancora una volta tanto somigliante a quello dell’antesignana tedesca, è ingentilito da grandi orecchini dorati. Grandi occhiali da sole bianchi con lenti blu lo possono celare a sguardi indiscreti: ecco a voi Barbara Millicent Roberts, Barbie. Signori, è nata una stella. 15

Diventare grandi

L’ingresso di Barbie nel mondo infantile a prima vista sembra arduo: troppo trucco, troppo seno, troppi tacchi, troppo tutto..., almeno a detta dei moralisti, che gridano allo scandalo. Ma la bambola non ha attraversato l’oceano per subire una condanna, e il successo di mercato cui, sin dalla sua prima apparizione, va incontro non fa che confermarlo. Complice la partecipazione alla popolare trasmissione televisiva per bambini The Mickey Mouse Club, al concorrenziale prezzo di 3 dollari l’una, nel solo 1959 più di 351.000 Barbie lasciano gli scaffali dei negozi per trasferirsi nelle accoglienti case americane, con un importantissimo, malcelato, compito da svolgere. Come ogni gioco che si rispetti, Barbie deve educare le bambine che hanno a che fare con lei, prepararle al futuro. Ma, se è vero che – come afferma negli stessi anni il sociologo Roger Caillois nel saggio I giochi e gli uomini – il gioco «non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto» e che «il ragazzino che gioca col cavalluccio o col trenino non si prepara affatto a diventare cavaliere o macchinista, né si prepara a fare la cuoca la bambina che ammannisce in ipotetici piatti alimenti fittizi insaporiti da finti odori», Barbie non replica pedissequamente le funzioni di un qualsiasi, ingenuo, giocattoluccio di legno o di gomma. Non si limita a consentire l’innocente simulazione di attività per «allenare alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà». Ogni volta che una bambina si mette ai fornelli con Barbie, in lei trova anche un ineludibile riferimento: con il suo aspetto inequivocabilmente adulto e con gli 16

accessori in miniatura di cui ben presto viene dotata, Barbie non può non essere, oltre che una bambola come tutte le altre da accudire e vezzeggiare, soprattutto un modello, in cucina come in qualsiasi altro luogo. La bambina che sveste e riveste Barbie, pettinandone i fluenti capelli di nylon, gioca con quello che, inevitabilmente, sta diventando il proprio archetipo femminile. Come ha sottolineato recentemente Victor Stoichita, nel suo L’effetto Pigmalione, «la bambina gioca con il proprio modello femminile ideale e, di conseguenza, con la propria madre, divenuta, almeno in virtù delle dimensioni, bambina». Da principio, tra le mille attività che una madre svolge dinanzi agli occhi attoniti della sua bambina, Barbie predilige quelle connesse alla sua natura di feticcio della società dei consumi: un tratto amplificato dalle prime campagne pubblicitarie. A differenza di quelle della sua matrice Lilli, che nelle prime foto di presentazione al pubblico si mostrava nuda con le scarpe, in una posa che ne metteva in rilievo la snodabilità, Barbie sin dal suo apparire esalta la sua vocazione di manichino. Un’immagine propagandistica del 1959 la mostra come un multiplo: non una, ma sette Barbie, con diverse acconciature e diverso abbigliamento, sono allineate dinanzi all’obiettivo, che le inquadra controluce, mettendo in rilievo la lieve trasparenza degli abiti. È al tempo stesso reale, nelle sue fattezze di plastica pronte a ogni rifinitura, e irreale, nel suo promettere alle bambine un futuro dinanzi allo specchio con nuovi abiti e nuovi rossetti. Barbie insegna quale, nell’ordinata società occidentale della fine degli anni Cinquanta, sia l’autentico volto della donna: sempre pronto al cambiamento sull’onda di una nuova sollecitazione. E la bimba che, ignara, continua a infiocchettarla per poi sciogliere il nastro, nella rassicurante ripetizione dell’infanzia, apprende i rudimenti di quell’attenzione spasmodica al proprio aspetto fisico che conserverà nei giorni a venire. Nel trasformare il gioco mimetico in strumento di disciplinamento, Barbie non è certo una pioniera. Nell’antichità, 17

le bambole in terracotta raffiguranti figure femminili adulte, quasi sempre nude, avevano il compito di rappresentare, in un certo senso, il culto della fertilità. La bambola veniva solennemente abbandonata in un tempio al momento delle nozze delle fanciulle di tredici o quattordici anni durante una cerimonia che non segnava soltanto l’addio all’infanzia ma anche l’addio alla verginità. Conservavano la loro bambola, e venivano sepolte con essa, solo quante si consacravano agli dèi. L’avvento del cristianesimo eliminò i tratti sessuati nelle bambole che, a partire dall’Alto Medioevo, riprodussero generalmente bambini in fasce, donne e uomini abbigliati secondo la moda del tempo, monaci e monache: si trattava di giocattoli per bambini e bambine, al pari delle trottole di legno e dei fischietti di terracotta, che in un qualche modo prefiguravano loro il futuro. La «sventurata» Gertrude manzoniana, monaca a Monza, che nel Seicento «rispose» agli inviti del dirimpettaio scavezzacollo tuffandosi nel vortice della passione, veniva da un’infanzia in cui «bambole vestite da monache furono i primi balocchi che le si diedero in mano. [...] Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente». Con le lontane bambole controriformistiche, che fanno opera di convincimento, Barbie condivide la missione, anche se apparentemente il suo compito è assai meno problematico e tristo. Non deve piegare nessuno a prendere il velo e a sparire dal mondo per il resto della vita, ma più semplicemente forgiare le abitudini tipiche della donna di media estrazione della società occidentale. Walter Benjamin, nelle poche pagine dedicate a Giocattolo e gioco, afferma che quest’ultimo «e null’altro, è la levatrice di ogni abitudine» e che «l’abitudine nasce come gioco, e in essa, anche nelle sue forme più rigide, sopravvive fino alla fine un piccolo residuo di gioco». Non si sa quanto Barbie sia consapevole di ciò, ma si appresta a svolgere una delicatissima fatica: illustrare alle bambine quanto possa essere palpabile e come debba essere non solo ghermi18

ta, ma posseduta e custodita, quella che in Occidente si chiama «l’essenza della femminilità», un’essenza i cui tratti distintivi sono l’arrendevolezza e la civetteria e i cui segni esteriori si compendiano nei tacchi alti e nel rossetto sgargiante. Vestendola e spogliandola, preparandola per una notte di riposo o per una grande soirée, le bambine imparano a essere sempre opportune, almeno dal punto di vista dell’abbigliamento; ravviandole i capelli, ora sciolti ora in una coda di cavallo ora in un vezzoso chignon, ripassandole il rossetto, si scopre la severa disciplina sottesa all’aspetto curato, le preoccupazioni continue che richiedono un’acconciatura impeccabile e un maquillage raffinato. Sollevate dalle fatiche domestiche dal massiccio impiego degli elettrodomestici, per non avvertire fastidiosi sensi di colpa o discutibili vuoti che potrebbero condurle a una pericolosa introspezione, le fanciulle americane apprendono prematuramente la fatica della bellezza – di certo tipo di bellezza – considerandola connaturata all’esistenza, e assimilano l’impegno necessario per preservarla e la concentrazione esclusiva per affrontare questo titanico sforzo. Ancora libere dalle catene costituite dagli obblighi sociali, le bambine imparano a sopportarne il peso, trovandolo magari gradevole, e a trasformarsi senza un guizzo di adolescenziale ribellione nella «Signora Maggioranza Media», obiettivo principale dell’occulta persuasione di avidi pubblicitari. La Signora Maggioranza Media [...] è assai bene disposta verso tutti i prodotti destinati alla massaia americana, specie verso gli articoli e apparecchi per la cucina che è il centro del suo mondo. [...] Ha uno spiccato senso di responsabilità morale e costruisce tutta la sua vita attorno al proprio focolare domestico. Ma, d’altra parte vive in un mondo angusto, limitato, ed ha un sacro terrore del mondo esterno. Ha scarso interesse per le attività civiche o per le arti, si conforma volentieri a schemi già riconosciuti, e non sente alcun bisogno di originalità. [...] Tende a considerare tutto ciò che si trova al di fuori del suo piccolo universo come una minaccia o un pericolo. 19

Queste parole di Vincent Packard, scritte nel 1958 in The Hidden Persuaders (I persuasori occulti), un anno prima della nascita della bambola, senza sapere quanto utile ai fini dell’occulta persuasione sarebbe stato il suo ingresso in società, tratteggiano un idealtipo nel quale è facile per la bionda e formosa fanciulla ritrovarsi e riconoscersi. Barbie, con le sue scollature e i suoi tacchi a spillo, mentre la lavastoviglie compie il suo dovere in una cucina tirata a lucido, appare non tanto un costrutto sociale ma una forma «naturale», immodificabile del vivere: autentico «mito d’oggi», nella sua formula più compiuta teorizzata da Roland Barthes. E non a caso, sostanzialmente immodificata Barbie attraverserà i suoi primi cinquant’anni, malgrado le mille impercettibili variazioni non solo nell’aspetto fisico, ma anche nelle inclinazioni che le apparenze lasciano trasparire. Totalmente caduti nell’oblio i giorni in cui, sotto altro nome, era un licenzioso giocattolo per adulti, Barbie diverrà il giocattolo per diventare grandi, grazie anche a tutta una serie di complicati oggetti di cui verrà dotata. Con il trascorrere degli anni, acquisterà tre sorelle e un fratello, un paio di cugine, un amico del cuore, scalzato per qualche tempo da un avvenente surfista australiano, un nutrito gruppo di amici di diverse etnie. Altrettanto numeroso sarà il suo gruppo di pets: sei cavalli, uno stallone arabo, tre pony, un levriero afgano, un barboncino, tre cagnolini non meglio identificati e un paio di mici. Barbie collezionerà proprietà mobiliari (auto, barche e così via) e immobiliari (magioni in città e in campagna, in sobrio stile country come nelle più sontuose linee dello stile vittoriano o di quello coloniale, tutte magnificamente arredate e complete di grandi e piccoli elettrodomestici), insieme a innumerevoli abiti da giorno e da sera, tenute sportive e lingerie, nonché scarpe, borse, acconciature, gioielli... A casa Mattel si esaudirà ogni suo desiderio, prima ancora che venga pronunziato, in modo che Barbie diventi simbolo dell’Occidente sazio e non smetta mai di accumulare, senza derogare in alcun modo alle imprescindibili leggi del mercato in nome di altri valori. 20

Non a caso in lei Barthes ritroverebbe un archetipo del giocattolo che prepara «gesti senza avventura, senza sorpresa né gioia»; ma non è per le avventure che le bambine borghesi, in linea di massima, vengono allevate, almeno fino a buona parte degli anni Settanta, ma per essere casalinghe e consumatrici, sempre in cerca di qualche scontata e futile gioia che dia senso a una vita che rischia di esserne priva.

99-53-83

Se Barbie, anziché trenta centimetri scarsi, fosse alta un metro e settantacinque, le sue misure seno-vita-fianchi sarebbero 99-53-83. Sono proporzioni poco credibili, e forse anche poco gradevoli: busto troppo corto, con un seno troppo ampio, su una vita troppo sottile, con fianchi troppo stretti, su gambe troppo lunghe che si concludono su piedi troppo arcuati. Eppure, quelle sue forme innaturali – il seno generoso, la vita affusolata, i piedi già predisposti a un tacco impertinente – appaiono agli occhi delle bambine occidentali dei tardi anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta come le più desiderabili. Ricordano le curve delle dive cui anche le loro mamme ambiscono, sottoponendosi a forme di mortificazione della carne che nei cinquant’anni precedenti erano andate gradualmente scomparendo. Corpetti e bustini dalle allacciature complicate erano scomparsi da circa mezzo secolo dai guardaroba femminili a favore di biancheria più comoda e soprattutto meno costrittrice. All’alba del Novecento, il busto delle donne era ancora intrappolato da severi corsetti le cui stecche gonfiavano, spingendolo in avanti, il seno e stringevano parossisticamente il girovita. Da questa gabbia emergevano braccia con maniche arricciate e pompose, mentre le gambe erano nascoste da ampie gonne scivolate, il cui volume era sostenuto dal pouf che enfatizzava il posteriore. Impettite come soldati a una parata, le signore non potevano tirare (flebili) sospiri di sollievo al pensiero della libertà di occulto sgambettamento. Il capric22

cio dei sarti, che dopo lo straordinario successo nella Parigi di metà Ottocento di Charles Worth, il padre della haute couture, divennero incontrastati arbitri dell’eleganza, talvolta aggiunse nuove costrizioni all’abbigliamento femminile. I panneggi delle gonne si stringevano sotto le ginocchia, avvitandosi intorno alle gambe. Un abito così complicato, naturalmente, faceva acquisire a chi lo indossava il romantico aspetto di una sirena, ma non le assicurava certo comodità e speditezza nei movimenti: l’infelice, benché à la page, era costretta a una sostanziale immobilità, che si scioglieva solo nel movimento ritmico e aggraziato del ballo. Liberare le donne da tali rigide imposizioni non era semplice; tuttavia, nel clima per molti versi artisticamente provocatorio che si respirava nella Parigi della Belle Époque, il giovane sarto Paul Poiret propose alle signore della buona società abiti fluidi e sciolti, che potevano essere indossati senza il nascosto ausilio del corsetto. Le tuniche dagli inediti cromatismi che riecheggiavano le sperimentali tele degli artisti squattrinati che vivevano nelle soffitte della Ville lumière ebbero nel mondo della moda lo stesso effetto dirompente. Come affermò lo stesso Poiret, compiaciuto della propria audacia e della sapiente interpretazione dello spirito dei tempi pronti ad accogliere una novità assoluta che consigliava di gettare alle ortiche un indumento da secoli presente nei bauli femminili: «Io non impongo la mia volontà nella moda. Sono semplicemente il primo a percepire i desideri segreti delle donne e a esaudirli in anticipo. È stato in nome della libertà che ho compiuto la mia prima rivoluzione, deliberatamente prendendo d’assedio il corsetto». Tuttavia, la «presunta» rivoluzione di Poiret non frantumava le catene estetiche femminili. Il respiro a pieni polmoni, che le signore potevano finalmente esalare, serviva semplicemente a sbuffare perché le gonne disegnate dal couturier erano tanto strette da impedire di camminare speditamente. Ancora una volta, quella per la quale un sarto maschio disegnava, era una donna quasi introvabile nella realtà, che si 23

muoveva languidamente da un salotto all’altro. La nascente società industriale, con la sua capacità di propagandare velocemente ogni idea nuova, riuscì a fare delle lunghe tuniche del sarto francese un’autentica moda, nei termini descritti da Georg Simmel nel suo saggio La moda. Da principio solo le signore dell’alta società si drappeggiarono negli abiti di Poiret per distinguersi da quante continuarono a rimanere fedeli a crinoline e corsetti; in breve, tutte, in tutti gli strati sociali, rinunciarono all’armatura ottocentesca per imbozzolarsi in quella, più fluida, del nuovo secolo. Poco male per le frequentatrici del jet-set, sempre alla ricerca di novità pur di distinguersi: a soccorrerle nell’impervia fatica di cambiare nuovamente aspetto, continuando a liberarle da innaturali costrizioni, arrivò di lì a poco Coco Chanel, una delle rare donne nell’ambiente della moda, dominato per la maggior parte da uomini. Mademoiselle Coco fu protagonista di un’avventura umana, prima che stilistica, estremamente singolare. Orfana, priva di dote e quindi esclusa dal mercato matrimoniale, carina tanto da poter aspirare a trovare un compagno facoltoso, Gabrielle Chanel a ventidue anni andò a vivere con un allevatore di cavalli, che le offrì la possibilità di frequentare il bel mondo: aristocratici, attori, artisti affermati. Ma la lussuosa vita di mantenuta non si addiceva a quella ragazza dal fisico spigoloso e dalla volontà ferrea, che presto chiese a un nuovo amante di finanziarle un’attività che la rendesse indipendente e le permettesse di diventare ricca. Gli abiti che realizzava nel laboratorio di rue Cambon, a Parigi, per le concittadine dell’alta società furono un autentico inno all’indipendenza femminile, al movimento, alla comodità. Orlo al polpaccio, gonne a pieghe, cardigan che scendevano morbidi sui fianchi, tweed – un tipico tessuto maschile – tinto in colori pastello, vistosi gioielli falsi: complice lo scoppio del primo conflitto mondiale, Mademoiselle Coco interpretava con charme tutto parigino il cambiamento nell’immagine, e nella sostanza, che la guerra faceva sperimentare alle donne europee. 24

Al di là dei dettami parigini, infatti, le donne che prendevano il posto di lavoro degli uomini al fronte rendevano più semplice il loro abbigliamento, anche in rispetto di un principio di sobrietà che mai prima di quel momento era entrato fra quelli ispiratori della moda. Nella Russia rivoluzionaria del 1917 il «Ωurnal dlja choziajek» (Rivista per le casalinghe) invitava le donne di casa cui si rivolgeva ad attenersi a uno stile rigoroso nell’abbigliamento. In tempi di totale distruzione dell’economia è difficile parlare di moda come di una forma d’arte, dei suoi compiti di creare bellezza e armonia, sapendo che a questi compiti corrisponde il lusso e, quindi, una grande spesa, che attualmente deve essere cancellata dal budget di ogni donna. Lo slogan di oggi, anche nella moda, dev’essere semplicità e risparmio. [...] Ponendo come scopo il risparmio, noi, tuttavia, non possiamo negare alla donna il suo intrinseco desiderio di apparire seducente, pur con un abito di poco costo, cucito o rifatto con le proprie mani: l’istinto ci deve suggerire che i tessuti costosi, pizzi, diamanti non sono in sintonia con il momento storico che stiamo vivendo.

L’ostentazione era lasciata a momenti migliori. Tuttavia, la conquista della semplicità apparve consolidata al termine del conflitto. L’ideale di bellezza femminile degli anni Venti del secolo si compendiava nella figura della garçonne, la «maschietta» magra, slanciata, androgina. Le donne alla moda sembravano scolare adolescenti, senza seno e senza fianchi, con il capello corto, nel taglio «alla Eton», e le lunghe gambe scoperte dalle gonne a pieghe. Un ulteriore passo avanti nella definizione di una figura femminile asciutta ed essenziale si compì nel decennio successivo. L’austerità seguita al crollo della borsa di Wall Street nel 1929 segnò la moda dell’intero decennio, che vide le donne impegnate fra diete ed esercizi ginnici per assumere quella linea slanciata, «a matita», che le gonne tornate lunghe e strette sottolineavano e che divenne certezza di eleganza. 25

«Non si è mai ricchi né magri abbastanza», affermava snobisticamente Wally Simpson, duchessa di Windsor, inaugurando la stagione degli immani sacrifici femminili sull’altare della bilancia e confermando in maniera definitiva l’inscindibile binomio «ricchezza-moda». Parallelamente, il cinema hollywoodiano diffondeva con l’immagine ambigua e severa di Marlene Dietrich, Greta Garbo, Katherine Hepburn e Joan Crawford uno stile asciutto, severo, androgino, che cancellava le curve in nome di un’ambita parità fra i sessi. Ma l’immagine della donna mascolina non ebbe successo nell’Europa delle dittature. In Italia come in Germania, con l’ascesa al potere rispettivamente di Mussolini e di Hitler, certi suggerimenti della moda apparivano aberranti. In ottemperanza a quanto proclamano il duce e il Führer, le modiste tornarono a sottolineare le forme del corpo femminile, vagheggiando un’opulenza tizianesca che richiamava la funzione materna. E mentre in Italia e in Germania la propaganda continuava a mostrare signore eleganti nei completi di raso, avvolte in sontuose stole di pelliccia e guarnite di tutti quegli orpelli che le rendevano deliziosamente inadeguate a svolgere qualsiasi attività lavorativa, la realtà costringeva le donne ad adottare uno stile assai più sobrio (e triste). A questo faticoso grigiore reagì la svampita Lilli, che sin dal suo apparire non rinunciò ad alcun vezzo per dimenticare i giorni appena trascorsi. Eppure, quando finalmente tacquero i cannoni e sembrò aprirsi una nuova stagione per le donne e i loro diritti, il misogino mondo della moda non rinunciò a proporre nuove sottili crudeltà, che rinverdirono un antico adagio ormai dimenticato: «per essere belle bisogna soffrire». Nel febbraio del 1947, nella Parigi che malgrado l’occupazione aveva continuato a dettare le incontestabili regole dell’eleganza, debuttò Christian Dior, destinato a segnare con un’indelebile impronta la moda del decennio successivo. Le strade erano piene di passanti e vuote di auto, per la scarsità della benzina, la temperatura era sotto lo zero. Anche nel26

le loro case i parigini soffrivano il freddo, dato che mancava il carbone per il riscaldamento e la razione quotidiana di pane era di appena 200 grammi. Tuttavia, quando il 12 febbraio, alle dieci e trenta, in avenue Montaigne, si aprirono le porte della Maison Dior, alla ristretta cerchia degli invitati sembrò primavera inoltrata. Il salone era decorato da una profusione inimmaginabile di fiori – rose, mughetti e delphinium blu – per presentare al pubblico la collezione Corolle: novanta abiti dai vivi colori e dai nomi inusitati – Amour, Tendresse, Bonheur... – che nella tetra atmosfera del dopoguerra apparvero estremamente innovativi. Rasentava l’insolenza, la nonchalance con la quale, in anni di rinunce, il couturier utilizzava metri e metri di stoffa pregiata. Sotto vitini di vespa degni del miglior sadismo di Mamie e del miglior masochismo di Rossella O’Hara, si aprivano gonne gonfie come mongolfiere, sorrette da strati di sottogonne inamidate. Nel pieno di quel Novecento, che le aveva viste ritagliarsi uno spazio in molti settori lavorativi, tornava a imporsi per le donne una silhouette dal sapore ottocentesco: spalle delicate, seno enfatizzato, vita sottile, fianchi gonfiati da nuvole di tulle. La statunitense Carmel Snow, cronista della rivista «Harper’s Bazaar», colpita dal gusto scenografico che Dior dimostrava malgrado i giorni grami, battezzò new look la linea che, pur accentuandone le morbidezze, proibiva alle signore le elementari comodità conquistate durante la stagione bellica. Ma il mondo voleva sognare, e i variopinti e leziosi abiti di Dior sembravano quasi un inno alla speranza. Il sarto sembrava preconizzare come «l’Europa, stanca delle bombe, volesse sparare i fuochi d’artificio». Non a caso le sue linee vengono incessantemente replicate, anche dopo la sua morte nel 1957, per tutto il decennio successivo, quando il boom economico fa dimenticare le ristrettezze belliche. Incuranti del bustino che torna a serrare la vita e dell’obbligatorio tacco alto che slancia ulteriormente la figura, le fanciulle di tutte le età sono pronte a strizzarsi la vita per permettere alle mille organze delle sottogonne di ondeg27

giare con un fruscio che sa d’altri tempi. I fiduciosi anni Cinquanta vedono così il fiorire di centinaia di gonne a corolla e le donne, per molti versi, tornano a interpretare un ruolo decorativo. Mentre le sartine dei sobborghi americani si affannano a carpire i segreti di tagli ormai dimenticati e i direttori delle case di moda dei quartieri alti aspettano con fibrillazione il momento per andare a Parigi a vedere le nuove collezioni, le signore, come fiori troppo pesanti su steli troppo esili, cominciano a ondeggiare su altissimi tacchi a spillo, segno inconfondibile del privilegio femminile di andare, se proprio si deve, con lentezza, senza alcuna meta da raggiungere. Barbie, con il suo 99-53-83 per un metro e settantacinque di altezza, si rivela un’interprete ideale del new look. E non a caso i disegnatori dei suoi abiti attraversano l’oceano due volte l’anno per carpire quei particolari anche minimi in grado di trasformare la ragazzona americana in una signora sofisticata. Bastano pochi tocchi ed ecco che la nuova bambola si rende perfettamente interprete di quell’eterno femminino che a occhi nostalgici la crudeltà del nuovo secolo ha tentato di cancellare, ma che è risultato – ahimè – impossibile da eliminare. Ammantandosi di sete e chiffon inequivocabilmente passatisti, Barbie riesce a neutralizzare le sue forme scandalose e a entrare a pieno titolo nel novero dei giochi usuali per le bambine americane.

Chic!

Al momento della sua apparizione, malgrado gli abiti parigini e il successo commerciale, Barbie non attira eccessive simpatie. Il suo aspetto estremamente civettuolo è quanto mai lontano da quello della donna più famosa d’America, Jacqueline Lee Bouvier Kennedy, colei che è in quel momento l’autentico modello di classe e distinzione. Ma imitarla non è facile. Jacqueline appartiene alla buona società della costa orientale. Per «diritto di nascita» frequenta le migliori scuole di New York City, alternando lo studio con le lezioni di equitazione e di danza. A diciott’anni, nel 1947, un columnist del gruppo Hearst la presenta come debuttante dell’anno, decantandone la particolare bellezza: «una brunetta regale, dai lineamenti classici e dalla carnagione che ricorda la porcellana di Dresda». Jacqueline, tuttavia, non è certo una bambola di fragile biscuit. Compie gli studi superiori al Vassar College, si perfeziona alla Sorbonne e si laurea in belle arti alla prestigiosa George Washington University. A partire dal 1951 lavora al «Washington Times Herald», prima come fotografa, poi come giornalista. Ed è proprio frequentando per motivi di lavoro il mondo politico che Jackie conosce John Fitzgerald Kennedy. Lo sposa il 12 settembre del 1953 e diviene, malgrado i suoi studi, irreprensibile «angelo del focolare». La carriera di giornalista, grazie a cui ha conosciuto il marito, viene abbandonata il giorno prima delle nozze, a partire dal quale Jacqueline mette le sue qualità al servizio di John: si occupa della sua immagine, dei suoi discorsi, dei suoi ricevimenti e non si risparmia durante l’intera campagna elettorale. Do29

po l’elezione, si dedica al restauro della Casa Bianca: come ogni donna americana anche Jacqueline si preoccupa della gradevolezza e comodità del proprio salotto; e come ogni signora di provincia è orgogliosa di illustrare gli interventi portati a termine: naturalmente non durante un tè con le amiche, ma, sotto gli occhi delle telecamere della CBS. Questa fatica, che le fa conquistare l’Emmy Award, l’Oscar televisivo, scivola quasi in secondo piano di fronte all’impegno a fianco del marito nei viaggi in Europa, India e Pakistan. Gli americani sono incantati dai modi discreti e dall’eleganza di Jacqueline. Colpisce la sua capacità di risultare sempre a proprio agio, l’estrema naturalezza con la quale si mostra, sia a un ricevimento ufficiale sia nella tranquilla intimità della casa, sia durante i viaggi in qualità di first lady sia nel tempo libero, a Long Island, con i figli. Essere inappuntabile come lei diviene il sogno di tutte le americane. Se è impossibile tentare di dotarsi del fortunato bagaglio che i natali privilegiati hanno riservato a Jacqueline, si possono certamente imitarne i modi garbati e l’eleganza. Non si tratta però di un compito semplice, non tanto e non solo perché la prima signora d’America può scegliere il proprio guardaroba fra un ventaglio di proposte irraggiungibili per la maggior parte delle altre donne. L’irreprensibile signorilità di Jacqueline sembra piuttosto essere il frutto del rispetto di una serie di regole, note all’alta società ma sconosciute ai più, che scandiscono tempi e modi dell’eleganza come di altre sfere: un galateo trasmesso di madre in figlia, raramente trasgredito, e in grado di assicurare a chi lo rispetta l’appartenenza a una ristretta, raffinata ed esclusiva cerchia. La visione di Jacqueline in gramaglie e del suo contegno durante la cerimonia funebre del marito, assassinato a Dallas durante la fatale parata del 22 novembre 1963, amplifica non solo il rispetto degli americani per la sua forza morale e le sue capacità personali, ma anche il desiderio di emulazione delle americane per un portamento che neppure nelle circostanze più avverse e dolorose viene abbandonato. I funerali la vedono ieratica ico30

na di quella che di lì a poco verrà battezzata «mistica della femminilità», mentre il piccolo John John fa bella mostra dell’educazione impartitagli dalla madre, salutando militarmente il feretro del padre. Disciplina e compostezza costituiscono una corazza difficilissima da scalfire, che gli abiti impeccabili della prima donna d’America rendono visibile e, per lo meno per qualche particolare, imitabile. Ma non è un caso che i sarti presso cui si serve la first lady siano europei o di origine europea, malgrado le critiche dei compatrioti, primo fra tutti il parigino Oleg Cassini, che disegna per lei le mises più note. E non è neppure un caso che sia per mano di una signora francese, Geneviève Antoine Dariaux, che viene data alle stampe, nel 1964, a New York, una Guide to elegance. Nel testo, un autentico dizionario le cui voci suonano di irresistibile frivolezza (A come Abbronzatura, abito intero, accessori...; F come Figlie, fotografie, funerali...; N come Natale, négligé, nozze...; S come Saldi, soprabiti, spiaggia...), l’autrice, direttrice fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta della casa di moda parigina Nina Ricci, elargisce generosamente alle donne americane consigli per essere raffinate e disinvolte. Nel seguire rispettosamente sia i dettami stilistici che arrivano da Parigi sia i suggerimenti di cui sarti e modiste sono prodighi, Barbie non è da meno delle sue compatriote. Un generoso aiuto le viene da Ruth Handler e dalle due creatrici di moda – Charlotte Johnson, in opera fino al 1964, e Carol Spencer, parte integrante dell’équipe Mattel dal 1963 – che ne disegnano gli abiti. La Johnson e poi la Spencer sono sempre presenti alle sfilate parigine e assicurano a Barbie, non solo un guardaroba ricco, ma anche la capacità di veicolare quelle conoscenze di bon ton necessarie a indossarlo. Le confezioni che racchiudono gli abiti e gli accessori illustrano le occasioni in cui vanno indossati e sembrano, per molti aspetti, ricalcare quei principi che Madame Dariaux destina alle sue lettrici. La prima regola da rispettare consiste nel portare abiti consoni alla vita che si conduce e agli ambienti in cui ci si 31

muove: «Come è possibile essere ben vestite in ogni ora del giorno e in qualsiasi ambiente con una sola toletta?». Ogni abito ha la sua occasione, così come ogni più piccolo accessorio: «non basta possedere una bella scelta di borsette; una donna elegante deve anche saper scegliere la borsa giusta per l’occasione giusta e il momento giusto». Barbie, con le sue decine di abiti e gli svariati accessori, potrebbe apparire una delle migliori allieve, se non la migliore, di Madame Dariaux. I consigli che l’esperta francese enumera non riguardano solo gli abiti, ma la cura della persona nel suo complesso: «Il trucco è una sorta di vestito per il viso, e in città una donna non penserebbe certo di mostrarsi senza trucco come non penserebbe di camminare per strada nuda». E, infatti, l’abbondanza di mascara sulle ciglia e il fresco carminio sulle labbra impediscono a Barbie di dare pubblico scandalo. Allo stesso modo, Barbie non danneggia la propria carnagione esponendosi eccessivamente ai raggi solari: «Se una carnagione leggermente dorata dal sole dà una gradevole impressione di buona salute, al ritorno in città alla fine dell’estate un’epidermide simile a un arrosto bruciato invecchia terribilmente ed è del tutto priva di eleganza». Sin dal mattino, Barbie sembra rispettare il galateo dell’eleganza occidentale, nei termini in cui viene enunciato dalla Dariaux. Lo stile che si addice a una signora che lavora deve essere improntato alla sobrietà e all’efficienza: «In linea di massima, una donna in carriera dovrebbe evitare tutti i fronzoli decorativi, i tessuti fantasia, i colori aggressivi, le lane ruvide, i tessuti molto leggeri che prendono facilmente le pieghe, gonne troppo corte, troppo larghe o troppo strette: in breve, tutto quanto può sembrare volgare o eccessivo. Nel corso delle ore lavorative, ancora di più che in qualsiasi altro momento, è indice di buon gusto attenersi a uno stile riservato e discreto». Così, quando le circostanze la vogliono impegnata nel lavoro, Barbie non disdegna una certa severità, indossando creazioni rigorose come Commuter Set, un tailleur blu notte da completare con una camicia avorio 32

o in cotone stampato a quadretti e un eccentrico cappellino rosso, o Career Girl, lineare tailleur di tweed con accessori in tinta. Madame Dariaux disprezza ogni tipo di sciatteria, soprattutto quando si manifesta nell’ambiente della moda: «Le donne che lavorano nel campo della moda hanno l’obbligo verso se stesse di avere un aspetto particolarmente raffinato. Potrebbe sembrare un’osservazione ovvia, ma vorrei che vedeste quante poche donne ben vestite si vedono a una sfilata per la stampa. Certe volte mi sento molto perplessa... tanto più quando si riflette che queste donne possono creare o distruggere con i loro articoli la reputazione di uno stilista». Proprio a questo tipo di critica sembra rispondere il vivace completo Busy Gal, in cui Barbie si presenta nelle vesti di una disegnatrice di moda. L’aderente gonna e il giacchino avvitato di lino rosso sono portati con una camicia a righe rosse. L’insieme è completato da una grande cartella che contiene i figurini. La mattina, tuttavia, si può riservare ad altro tipo di attività che non sia il lavoro. Quando gli impegni ufficiali obbligano ad abiti meno sportivi, Barbie sfoggia Fashion Luncheon, completo di stoffa operata rosa, o Sunday Visit, tailleur candido con gli accessori color oro, o Gold ’n Glamour, con giacca e cappello bordati di pelliccia come Matinee Fashion. La scelta si amplia quando si passa a impegni di più disinvolta informalità: Suburban Shopper è un prendisole in cotone bianco e azzurro, completato da borsa e cappellino di paglia, che ha anche una versione in rosso, Busy Morning; Cotton Casual è il classico abito estivo di cotone rigato, dal bustino stretto e dalla gonna ampia; Sheath Sensation, uno smilzo chemisier rosso fuoco; Coffee’s On, un fresco modello con un motivo a farfalle. I rigori invernali possono essere affrontati con It’s Cold Outside, un avvolgente cappotto con cappello coordinato, mentre fra le mura domestiche il completo ideale è Sweeter Girl, un caldo twin-set sferruzzato dalla stessa Barbie, che ha a disposizione gomitoli e ferri da calza. 33

Le regole dettate da Madame Dariaux si fanno più rigide man mano che le ore passano: «Al mattino quasi tutte le donne indossano un tailleur, e l’abito da pomeriggio è stato sostituito dall’insieme a due pezzi più giovanile e meno formale, o addirittura da un golfino e una gonna. Ma, a partire dalle sei del pomeriggio, l’abito intero riprende i suoi diritti, come l’abito da cocktail o da mezza sera. È il momento del trionfo per il classico tubino nero, scollato, di lana o di crêpe di seta, la cui eleganza sta tutta nel taglio». Il consiglio è pedissequamente seguito da Barbie, che fra il 1962 e il 1964 sfoggia After Five, un abito nero con un ampio colletto di organza bianca e bottoncini dorati, alternandolo a partire dal 1963 con Black Magic Ensemble, un abito scollato, indispensabile per le cene in città, completato da una cappa di organza dello stesso colore, da guanti e scarpe nere e da una preziosissima pochette dorata. «A un’ora più tarda è preferibile sostituire il nero con colori più vivaci e con un tessuto più ricco, eventualmente ricamato o ornato di perline», consiglia Madame Dariaux. A quell’ora Barbie può indossare Gay Parisienne, un abito dalla linea a palloncino, creata da Hubert de Givenchy, in taffetà blu a pois bianchi e lunghi guanti bianchi con una stola di candido lapin, o Easter Parade, un vestito aderente stampato a pastiglie con un soprabito di faille nero, o Evening Splendour, abito e soprabito in tessuto operato color oro con le finiture in pelliccia, o Red Flare, un cappotto di velluto rosso con un cappellino pillbox – modello reso celebre proprio da Jacqueline Kennedy – e scarpe in tinta: tutti completi da cocktail adatti alle situazioni mondane che una signora della buona società si può trovare a dover affrontare. Non sempre però gli appuntamenti pomeridiani sono contraddistinti dalla formalità. Negli Stati Uniti un’abitudine diffusa è quella dei ricevimenti in giardino per i quali si richiede un abbigliamento vezzoso. Barbie si dimostra all’altezza di ogni invito indossando Plantation Belle, un romantico abito di plumetis rosa ricco di balze e nastri; o Friday 34

Nite Day, uno scamiciato in velluto indossato sopra una romantica camicia candida; o ancora Garden Party, un raffinato abito di cotone stampato a pois e fiori che si apre sopra una sottogonna di pizzo sangallo. Ma è naturalmente con gli abiti da ballo che Barbie riesce a esprimere al meglio la proprietà del suo gusto. Del resto, quello degli abiti da gran sera è l’ambito in cui più sentito è l’entusiasmo femminile: «Per le occasioni formali, poi, l’abito da sera lungo può essere splendido quanto volete. Nel momento in cui lo indossate dovreste avere l’impressione di subire una magica metamorfosi: dovreste sentirvi una principessa. Anche la donna d’aspetto più comune è sempre più bella in un abito da sera lungo. La sera è il solo momento della giornata in cui una donna ha il diritto, seppure non il dovere, di richiamare l’attenzione. Per questo un lungo abito da sera nero, spesso giudicato molto pratico, è una scelta tutt’altro che sensata». Barbie non si concede alcuna insensatezza. Soltanto uno dei suoi primi abiti, Solo in the Spotlight, un attillato modello in paillettes che si apre alle caviglie in una morbida balza di tulle, con guanti, è nero: ma i luccichii del tessuto e un foulard di seta rosa contribuiscono a illuminarlo e completano l’immagine di Barbie, che per una sera si cimenta dinanzi al microfono. Innumerevoli e splendidi, i suoi abiti da ballo sono un’autentica esplosione di colori: Enchanted Evening è rosa cipria; Senior Prom alterna il verde acqua e l’azzurro carico; Campus Sweethearth e Sophisticated Lady giocano con i più diversi toni di rosa e rosso; Midnight Blue fa risaltare un blu sontuoso grazie al contrasto con l’argento; Evening Gala è turchese e oro; rosso fiammeggiante sono Magnificence e Benefit Performance. Intollerabile, per l’esigente Madame Dariaux, è la sciatteria che alcune donne dimostrano nei momenti privati a fronte dello splendore riservato alle occasioni pubbliche: «Una delle più singolari incoerenze in donne per altri versi eleganti è il modo in cui trascurano completamente la loro eleganza nelle 35

ore di intimità in casa propria, esattamente nel luogo e nel momento in cui soprattutto dovrebbero essere attraenti». Ma Barbie può controbattere con Nighty-Negligee Set, un completo formato da camicia da notte e vestaglia dalle rosee trasparenze, che indossa stringendosi al cuore un cagnolino di feltro rosa. Uguale cura Barbie dimostra con la biancheria, ambito nel quale secondo la Dariaux non è concessa alcuna negligenza: «Le donne commettono uno sbaglio se trascurano questo potenziale elemento di attrazione». E Barbie, naturalmente, non commette un errore così grossolano, sfoggiando sotto i sontuosi abiti Floral Petticoat, una gonfia sottoveste ricamata con reggiseno a fascia e slip coordinati, o Fashion Undergarments, un altro completo fornito di guaina. Splendidamente abbigliata, in casa come fuori, nelle occasioni pubbliche come nei momenti di relax, di giorno e ancor più di sera, Barbie sembra tradurre ottimamente la maggior parte dei consigli di Madame Dariaux. Ma la signora francese, che caldeggia un’eleganza tutto sommato fondata sulla sobrietà, rimarrebbe allibita dinanzi alla quantità di abiti e di accessori sui quali nel giro di pochi anni Barbie si trova a poter contare: «Una delle differenze più nette tra un’americana ben vestita e una parigina ben vestita sta nelle dimensioni dei rispettivi guardaroba. L’americana probabilmente rimarrà stupefatta dall’esiguo numero di capi appesi nell’armadio della francese, ma quasi certamente osserverà anche che sono tutti di eccellente qualità, forse costosi secondo lo standard americano, e perfettamente adatti allo stile di vita della francese. Li indossa spesso, smettendoli solo quando sono consunti o fuori moda, e considera un complimento (come tale viene pronunciato) se la sua migliore amica le dice: ‘Sono felice che tu abbia deciso di indossare l’abito rosso: mi è sempre piaciuto!’. [...] Una francese elegante si aspetta che i suoi soprabiti durino almeno tre anni, i tailleur e gli abiti almeno due e gli abiti da sera quasi per sempre. Pos36

siede pochissimi completi di biancheria nello stesso momento, ma li sostituisce spesso. Lo stesso vale per le scarpe e i guanti, mentre le borse durano anni e anni. Rinnova ogni estate soltanto il guardaroba per le vacanze, acquistando spesso gli abiti estivi in un grande magazzino o in una boutique non molto cara». Certo, la direttrice della casa di moda francese non disconosce che un tale atteggiamento è un comportamento indotto, piuttosto che una naturale inclinazione: «Non si può negare che l’americana sia costantemente circondata da tentazioni e aggredita dalle più irresistibili pubblicità di moda. Inoltre, le viene insegnato che il suo ruolo nell’economia nazionale è di acquistare e consumare in continuazione». E, difatti, una certa frenesia nell’acquisto è quanto insegna, in maniera neppure troppo sotterranea, Barbie. Nella confezione di ogni singolo abito è presente un piccolo catalogo che presenta le altre creazioni, con le quali la singola bambola sarà sempre più compiutamente abbigliata. Difficile dire se tale accuratezza sia quell’ineffabile e indefinibile qualità cui aspirano tutte le donne occidentali, l’essere chic, «un dono degli dèi che non ha alcun rapporto né con la bellezza né con la ricchezza», dono che Jacqueline Kennedy sicuramente possiede e che risulta estremamente difficile da insegnare con un manuale o con una bambola che ne rispetti pedissequamente le norme.

L’incubo di Betty Friedan

Belle o, se non altro, eleganti e sposate: questo l’obiettivo principale che le signorine americane devono perseguire, malgrado l’istruzione superiore conseguita. Spesso vanno al college solo per trovare marito, e abbandonano gli studi a metà nella convinzione che un’eccessiva istruzione possa pregiudicare la felice riuscita del matrimonio. Così, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, una volta spentisi gli echi della marcia nuziale, le signore delle classi medie e medio-alte disertano gli uffici per le sale parto, tornando – se proprio devono – al lavoro solo in età avanzata e con nessuna prospettiva di carriera. È questa la situazione denunciata dalla studiosa Betty Friedan, che nel 1963 pubblica The Feminine Mistique (La mistica della femminilità), un’analisi dell’immagine femminile promossa dalle riviste americane e pedissequamente imitata dalle donne nella prosperità del dopoguerra. Con grande costernazione Betty Friedan constata che il profilo della donna così come viene disegnato dalle riviste a grande diffusione è contraddistinto dalla frivolezza. Le donne che sorridono appagate dalle pagine patinate appaiono allegramente soddisfatte di un mondo composto da casa e bambini. L’unico obiettivo di queste donne che attendono con il sorriso sulle labbra alle faccende domestiche, diventate meno faticose grazie alla diffusione degli elettrodomestici, è quello di conquistare una preda maschile e tenersela ben stretta per il resto della vita. Per questo, uno degli appuntamenti quotidiani importanti è quello con la cura del proprio aspetto fisico, che appare la chiave per aprire le porte della felicità coniugale. 38

Così, la stampa femminile dedica ampio spazio alla moda e alla bellezza, all’arredamento e alla cucina, alla posta del cuore e ai bambini. Se in passato il grande escluso dei discorsi per signore era tutto quanto riguardava la sfera del sesso, ora molta della precedente pruderie viene abbandonata. Assolutamente banditi nelle colonne delle riviste femminili sono semmai tutti gli argomenti che possono in qualche modo rimandare a un orizzonte extradomestico: politica, economia, problematiche sociali e così via. Illecita, scandalosa, intollerabile non è l’ammissione del desiderio sessuale ma la possibilità che una donna sia in grado di essere intellettualmente e economicamente autonoma, che possa anche solo aspirare a una personalità indipendente. Assolutamente immorale è che una donna eserciti una professione, costringendo il marito a condividere le fatiche domestiche, invece di permettergli di dedicarsi ai problemi della nazione e del mondo. Malgrado la maggior parte delle lettrici abbiano completato gli studi superiori e abbiano frequentato, almeno per qualche anno, il college, per le redazioni delle riviste esse risultano incapaci di dedicarsi ad altro che alle ricette dei muffins o alla linea degli scamiciati con martingala, con eventuali deviazioni sulla confezione di coprifasce o sulla coltivazione dei rampicanti. Poco importa – rileva Betty Friedan – che le signore condannate nei verdi sobborghi cittadini a un ripetitivo rituale quotidiano, scandito dagli orari scolastici dei figli, dagli appuntamenti con le amiche e dalle attività benefiche, si sforzino di ignorare quella voce interiore che dice: «Voglio qualcosa di più del marito, dei figli, della casa» e di sfuggire alla consapevolezza di vivere in un incubo vischioso. Quando cercano di scantonare dal binario prestabilito in cerca di svolte diverse, a impedirlo c’è lo spettro del pubblico ludibrio. Mentre infatti si confeziona con ogni cura possibile la figura femminile positiva, tutta casa, marito e figli, con altrettanto dispiego di mezzi si costruisce il profilo negativo, tipico della donna che lavora. Se in precedenza la «donnaccia» era colei che trascinava in un rovente e proibito gorgo pas39

sionale l’uomo, ora la donna da sfuggire è colei che dimostra di avere una personalità autonoma e indipendente: essere irreprensibili equivale a scongiurare il sogno, proibito, della carriera. Non a caso, i racconti che allietano le signore americane hanno spesso come protagonista una casalinga minacciata da una donna in carriera che tenta di sedurne il marito o il figlio, per poi insinuarle nell’animo il tarlo dell’insoddisfazione personale e di un sogno di indipendenza, rischiando di farle perdere inevitabilmente e per sempre l’amore maschile. Alla fine la protagonista esorcizza il pericolo cancellando la propria personalità: si realizza così, compiutamente, la togetherness, condizione che vede la donna esistere solo per la felicità e la soddisfazione del marito e dei figli. I giornalisti non mancano di celebrare fulgidi esempi di sacrificio delle aspirazioni personali delle donne in nome della felicità familiare. Anche le attrici, che svolgono una delle pochissime professioni che la «mistica della femminilità» concede alle donne, vengono presentate sotto una luce che ne amplifica i tratti teneri e materni. Le nuove dive non hanno più il tratto volitivo e imperioso di Greta Garbo o di Bette Davis, ma il dolce sorriso di Debbie Reynolds. Le pagine delle riviste non le ritraggono più durante le fatiche sul set o nel momento dell’aspra lotta per raggiungere il successo, ma quando divengono madri o si dedicano alla casa. Le dive al culmine della carriera, poi, non fanno altro che dichiarare di sentirsi fallite intimamente, come donne. Il sacrificio di sé cui le donne vengono chiamate dalla società negli anni Cinquanta e Sessanta Barbie sembra sopportarlo piuttosto bene. E però fa capolino qualche vistosa esitazione. Nel 1962, indossa la toga nera con il tocco e stringe fra le mani il diploma infiocchettato: nella sua biografia ufficiale leggiamo della frequenza presso la Willows High School a Willows, nel Wisconsin, e del perfezionamento presso la Manhattan International High School a New York. Forte dell’istruzione ricevuta, Barbie graduate è pronta a tuffarsi 40

nel magico mondo delle professioni, in questo più simile alle giovani degli anni Quaranta che a quelle degli anni Sessanta. Negli anni Quaranta, infatti, il profilo femminile ideale che molte riviste statunitensi promuovevano era caratterizzato da un allegro e risoluto spirito di autonomia. Le eroine delle novelle pubblicate dai settimanali, generalmente, erano contraddistinte da un’inesausta fiducia nelle proprie capacità personali e da uno spiccato talento professionale. L’impegno lavorativo che le contraddistingueva e che impediva che la loro vita fosse esclusivamente dominata dal sentimentalismo, tingeva di una luce inconsueta la relazione con l’altro sesso. Benché spesso, negli intrecci, una parte rilevante fosse riservata al conflitto fra la dedizione al lavoro e l’amore, le protagoniste riuscivano ad armonizzare i due ambiti che per tante pagine erano rimasti inconciliabili. Insomma se l’eroina rimaneva fedele a se stessa e ai propri valori, in primis quello della propria indipendenza, nonostante tutte le difficoltà e le traversie non veniva abbandonata dal compagno, con il quale convolava, infine, a giuste nozze: questa la morale implicita in tutti i racconti dei magazines. Le storie sentimentali pubblicate dalle riviste, malgrado presentassero come personaggi principali donne assiduamente impegnate nelle più diverse attività professionali, erano indirizzate a un pubblico di casalinghe. Costrette entro il ristretto perimetro domestico, le mogli e madri degli anni Quaranta avevano vissuto il triste periodo della crisi del ’29 e della Grande Depressione. Se per molte ragioni le loro ambizioni erano state frenate, le lettrici di «Ladies Home Journal», «Mc Call’s», «Good Housekeeping», «Woman’s Home Companion», fra pavimenti da pulire e lenzuola da stirare, divoravano le appassionanti vicende delle eroine alle prese con le fatiche del lavoro extradomestico e coltivavano ambiziosi propositi per le proprie figlie. A loro era toccato di sopportare l’amara povertà della Depressione, senza poterla direttamente affrontare in alcuna maniera: le loro bambine sareb41

bero state in grado di lavorare e di disporre di denaro, oltre che di un’autonoma posizione sociale, indipendente da quella del marito anche se a essa simmetrica. Questi i valori che, per motivi generazionali, la giovane Ruth Mosko sembra aver appreso e mai dimenticato, neppure quando si trasforma nella signora Handler: non a caso l’intero mondo di Barbie è il frutto della sua intraprendenza e del suo fiuto per gli affari. Pesa, in questo caso l’appartenenza della signora Handler a una generazione educata a credere che le donne possono diventare statiste, poetesse o fisiche e che sono in grado, coltivando la loro creatività, di guidare altre donne sulla strada dell’emancipazione. Nelle redazioni delle riviste che confezionano con zuccheroso zelo la «mistica della femminilità», le donne sono invece bandite a partire dagli anni Cinquanta. Le redattrici che negli anni Quaranta avevano nutrito i sogni delle casalinghe americane presentando loro il profilo di una donna ideale indipendente e coraggiosa, in grado di coniugare felicemente casa e lavoro, sono allontanate per far posto ai reduci di guerra. Sono uomini coloro che decidono che le donne americane devono votarsi alla casa e alla famiglia, devono tornare a essere autentici «angeli del focolare» dopo l’emancipazione conquistata durante il secondo conflitto mondiale, che le ha viste entrare a far parte del mondo produttivo per sostituire gli uomini partiti per il fronte. Una volta firmati i trattati di pace, gli uomini sono tornati a reclamare quei ruoli che ritengono di loro esclusivo appannaggio in politica come in economia, nelle università come nelle fabbriche. E uomini sono coloro che, dalle pagine delle riviste alla moda, indicano la strada che le donne dovranno percorrere a partire da quel momento, che cantano le delizie della vita domestica ora che essa è resa più leggera dalla presenza degli elettrodomestici, che celebrano le gioie della maternità ora che la medicalizzazione del parto ne ha ridotto i rischi, che salutano con entusiasmo la nascita dei centri commerciali ora che la «regina della casa» può scegliere li42

beramente fra i vari modelli di automobili, vestiti, profumi, soprammobili... Proprio ora, assai più che in passato, interessa non tanto colpire la mente delle donne e contribuire alla loro indipendenza ma gonfiare il portafoglio degli inserzionisti che vogliono vendere detersivi e rossetti. Così Barbie, che si appresta a diventare la bambola più famosa del mondo, malgrado la sua creatrice coltivi valori diversi e immagini proiettata la sua creatura su orizzonti pionieristici, sembra non poter zittire totalmente le sirene del suo tempo, che ha delimitato con precisione l’unico ambito in cui la donna può e deve sentirsi protagonista. Una volta conquistata la laurea, Barbie si tuffa a capofitto nel mondo del lavoro, arrivando ad assumere un’aria consapevolmente professionale. Nei momenti di riposo ama frequentare le esposizioni artistiche e i teatri: il delizioso abito Modern Art, completo di catalogo, è l’abbigliamento ideale per un vernissage, così come Theatre Date, un completo di raso verde smeraldo con il cappellino in tinta, è perfetto per accomodarsi in poltronissima. Ma, nonostante le predilezioni culturali e le duttili capacità che si trova a poter agevolmente dimostrare, Barbie durante gli anni Sessanta non può assumere l’aria di una nuotatrice di lungo corso nell’avventuroso e appassionante oceano che si estende fuori dalla porta di casa. Pronto a essere indossato, nell’armadio, l’attende Barbie-Q Outfit, un vaporoso abito da casa completo di ciabattine, ampio grembiule, cappello da cuoco, presina in tinta, mattarello e mestoli vari: un abbigliamento da cuoca perfetta, ad attestare quali siano le doti che si ritengono necessarie a una donna per realizzare in maniera completa le sue potenzialità. L’incubo di Betty Friedan è servito: acconciando e vestendo la donna-bambola con i preziosi consigli contenuti nelle confezioni degli abiti, le bambine hanno imparato, meglio che con la lettura di una qualsiasi Madame Dariaux, quali siano oneri e onori che le attendono una volta sostituite le calze di cotone con il nylon del collant, e sanno che in ogni caso il volto che dovranno assumere, non importa quanto ric43

ca o complessa sia la loro personalità, è quello rassicurante della donna di casa, felice dell’appagante pienezza della vita domestica. Del resto, anche la creatrice di Barbie rinuncia all’aura di donna in carriera e ama presentarsi al pubblico curioso come una semplice mamma che ha ideato una bambola esclusivamente per far felice la figlia Barbara: peccato che quest’ultima abbia già diciotto anni quando la prima Barbie vede la luce e l’età la pretenda davanti allo specchio a sistemarsi le pieghe dell’abito, anziché a sistemarle a una pupattola di plastica. Tuttavia, quel che l’età ha risparmiato alla giovane Handler toccherà in sorte a milioni di altre bambine che con Barbie imparano a vestirsi, a sorridere, e soprattutto a rimanere immobili nella propria trionfante e «mistica femminilità».

Domani mi sposo...

Sin dalla prima collezione, l’abito più importante che Barbie può indossare è naturalmente quello da sposa. Si chiama – c’è bisogno di dirlo? – Wedding Day, e come ogni capo del suo guardaroba è completo di accessori: una tiara di perle trattiene il gonfio velo candido; fra le mani guantate Barbie può stringere un bouquet, mentre sotto le ampie balze della gonna rimane invisibile una civettuola giarrettiera blu, tradizionale portafortuna delle spose. Manca solo un ultimo, non trascurabile accessorio..., lo sposo! Il poco gradevole inconveniente è risolto qualche stagione dopo il debutto di Barbie in società. Bello e aitante, arriva al suo fianco un boyfriend: Ken Carson (il nome, per una particolare par condicio vigente nella famiglia Handler, è mutuato da quello del figlio maschio, Kenneth). Di poco più basso della signorina cui non deve fare ombra, lineamenti regolari, occhio ceruleo e fisico smilzo, il ragazzo è pronto a fare coppia con quella che si appresta a diventare la bambola più famosa del mondo. Per non farla sfigurare in società, il giovanotto, come la dama cui deve fare da accompagnatore e cavalier servente, ha un guardaroba notevole, seppure più modesto, in nome di una certa maschia sobrietà. Il fatto che Barbie e Ken – cloni in miniatura dei fratelli di casa Handler – siano una coppia di innamorati potrebbe insinuare un’aura incestuosa nella relazione fra i due: senonché, essi giocano insieme a tennis e fanno escursioni al mare e in campagna, vanno a sciare e a pescare, lei sorride dalle tribune a lui che si affanna sul campo da baseball... e quando Bar45

bie si drappeggia nelle immacolate trine dell’abito da sposa, Ken cerca di non esserle da meno nel suo Tuxedo nero, completo di farfallino cremisi e di gardenia all’occhiello. Tuttavia le nozze non vengono mai celebrate, ma posposte all’infinito. E negli anni gli abiti da sposa si moltiplicano: velo corto, velo lungo, organze, chantilly, rasi, sete, velluti, perle, fiori d’arancio, mughetti, gelsomini, rose. Tutto il repertorio tradizionale viene periodicamente ricombinato per dar vita a un nuovo, indimenticabile abito che alla collezione successiva viene dimenticato a favore di uno diverso, dello stesso niveo colore, fatto con gli stessi materiali, ma con un volant, una pince, un fronzolo in più o in meno. Barbie non sembra poter resistere al fascino dell’abito da sposa. Tuttavia, la biografia della fanciulla, che la descrive pronta a cedere di fronte a una vetrina che le propone un completo all’ultimo grido, dice anche che è ferrea nella tutela della sua virtù. Peraltro, anche Ken non è certo il tipo di ragazzo caparbiamente deciso a metterla in pericolo. Con la sua aria dimessa, appare proprio uno dei tanti accessori della sua dama, che lo pretende al suo fianco quando esteticamente necessario. Del resto, quando alla Mattel si è trattato di deciderne le fattezze anatomiche, di fronte a tre prototipi diversi si è scelto quello con appendice maschile meno evidente, per evitare che la chiusura lampo dei calzoni lo facesse sembrare un superdotato, poco adatto al ruolo di cicisbeo. Così i due piccioncini non si negano nessuno dei divertimenti che la morale corrente negli anni Sessanta ritiene giusto debbano essere concessi alle giovani coppie. E anche se Barbie ama spesso vestirsi in maniera provocante, sembra non costarle eccessiva fatica attenersi pedissequamente a quanto recitano in quegli anni i manuali di buone maniere per giovinette. Le regole del bon ton, naturalmente, sono state aggiornate in conseguenza di nuove abitudini sociali. Si dà per scontato che i teenager di entrambi i sessi frequentino le stesse lezioni e insieme vadano a balli, gite ed escursioni senza oc46

chiuti chaperon. Ma, nelle occasioni di svago più che in altri momenti, le ragazze di buona famiglia devono tenere un «metro ragionevole di condotta». Ciò che più di ogni altra cosa devono temere è quella che, con circospezione, nelle pagine loro dedicate viene definita «eccessiva confidenza» o «torbida familiarità»: devono quindi saper ben riconoscere il momento in cui l’allegria si trasforma in baldoria incontrollata; devono evitare che abbigliamento, portamento e comportamento possano incoraggiare facili libertà; devono preferire amici e amiche che si comportino con compostezza; devono evitare di bere fino a perdere l’equilibrio e devono saper lasciare la compagnia al momento opportuno. L’elenco fitto dei doveri da rispettare serve alle ragazze a preservare quanto si ritiene abbiano di più prezioso: la verginità, che offriranno solo al futuro sposo, dopo regolare contratto di matrimonio, siglato in un turbinio di chiffon e taffetà, al suono pomposo e familiare dell’organo parrocchiale. L’America che negli anni Sessanta tenta di salvaguardare la virtù delle proprie fanciulle fino alle nozze è, tuttavia, assai consapevole che lo sforzo è impari. Il perbenismo borghese da qualche anno era stato sconvolto dalla pubblicazione, nel 1948, di Sexual Behaviour of the Human Male (Il comportamento sessuale dell’uomo) e, nel 1954, di Sexual Behaviour of the Human Female (Il comportamento sessuale della donna), del dottor Alfred Kinsey. Malgrado l’ostracismo cui il medico era stato condannato, l’opinione pubblica si vedeva costretta a riconoscere la fondatezza della sua analisi dei comportamenti maschili e femminili nel chiuso delle alcove e, quindi, a tollerare che Kinsey attribuisse agli americani comportamenti ritenuti devianti dalla morale corrente. Il «rapporto Kinsey» illustrava come sesso prematrimoniale, masturbazione, adulterio, omosessualità fossero le tentazioni cui gli americani, silenziosamente, non riuscivano a resistere, malgrado il severo conformismo impartito da pulpiti e cattedre. Dopo la pubblicazione dei due rapporti, 47

non sembrò più possibile celare il vizio privato dietro la smagliante pubblica virtù. Il turbamento dei perbenisti di fronte alle rivelazioni del dottor Kinsey era, tuttavia, destinato ad aumentare nel volgere di poco tempo, quando comportamenti sessuali fino a quel momento celati vengono resi noti con naturalezza, se non ostentati. La «rivoluzione sessuale» è uno degli effetti della generale turbolenza che negli anni Sessanta investe la società americana, prima di approdare in Europa. Molti sono i fermenti che inducono gli studenti dapprima e altri gruppi sociali in seconda battuta a contestare l’ordine esistente e a proporne uno nuovo, «rivoluzionario». Sulla scorta di quanto contenuto nel manuale del dottor Benjamin Spock, The Common Sense Book of Baby and Child Care, la cui prima edizione risale peraltro al 1946, i genitori degli anni Sessanta tendono a seguire nuove teorie pedagogiche. A loro volta educati rigidamente, gli adulti del dopoguerra preferiscono attenersi con i loro figli a un comportamento maggiormente permissivo, improntato più sul dialogo che sull’imposizione. Le caratteristiche della nuova educazione sono, naturalmente, patrimonio esclusivamente privato; in molti, ragazze e ragazzi, quando lasciano la famiglia per fare il loro ingresso al college, conoscono così, per la prima volta, divieti e proibizioni. Per contro, infatti, all’interno delle istituzioni, prime fra tutte le università, sembra ancora stagnare la plumbea atmosfera maccartista, che in nome del patriottico sentimento anticomunista, aveva prediletto certe forme di oscurantismo e pregiudicato il confronto fra le diverse generazioni. Inoltre, proprio all’interno delle istituzioni universitarie, dove nel 1965 accede il 44 per cento della gioventù fra i 18 e i 22 anni, gli studenti possono fare, spesso per la prima volta, l’esperienza della disparità sociale e vedere il lato oscuro del «sogno americano». A Berkeley e a Harvard il patriottismo che comporta la segregazione dei neri e l’esclusione dei poveri dalla «felicità» promessa dalla Costi48

tuzione comincia a essere messo seriamente in discussione e la sua critica si lega strettamente alla montante protesta contro la guerra del Vietnam. La voce degli studenti si alza prima per denunciare la ristrettezza di vedute che sembra pervadere i loro programmi di studio. Ben presto, però, sembra che niente sfugga ai vigorosi appunti del mondo studentesco. La discussione comincia così a toccare i più svariati ambiti – l’educazione, l’istruzione, la politica – fino a trasformarsi in contestazione della società capitalistica nel suo complesso: i retrivi valori borghesi vengono combattuti in nome di una nuova libertà. Quello che sembra non venir meno nei gruppi contestatari è il «sogno americano» di costruire una nuova società fondata su valori antitetici a quelli del profitto e della bellicosità; solo che esso viene interpretato con canoni libertari e anticonformistici. I protagonisti della costruzione di nuove comunità, gli hippy, credono fortemente che a partire dalla loro esperienza sociale, caratterizzata dall’eguaglianza sostanziale fra gli individui e dal rispetto reciproco, il mondo possa effettivamente cambiare: sarà instaurata una nuova età, quella che in astrologia viene chiamata l’era dell’Acquario, pacifica e felice, luminosa e colorata. In apertura al musical Hair, dedicato alle vicende di un gruppo di disertori della guerra del Vietnam, scritto nel 1967 e rappresentato per la prima volta l’anno successivo, si inneggia a questa nuova stagione felice per l’umanità. When the moon is in the seventh house And Jupiter aligns with Mars Then peace will guide the planets Love will steer the stars. This is the dawning of the Age of Aquarius, Age of Aquarius, Aquarius... Harmony and understanding Sympathy and trust abounding No more falsehoods or derisions Golden living dreams of vision Mystic crystal revelation 49

And the mind’s true liberation Aquarius, Aquarius... Quando la luna entrerà nella settima casa / e Giove sarà in congiunzione con Marte / sarà la pace a guidare i pianeti / e l’amore a far muovere le stelle. / È l’alba dell’era dell’Acquario. / Armonia e comprensione. / Solidarietà e fiducia a piene mani. / Non più falsità né scherno / ma vita dorata, visioni da sogno, / rivelazioni mistiche dei cristalli. / La mente finalmente liberata. / È l’era dell’Acquario...

Come si allude nel titolo del musical, non casualmente la critica dell’ordine esistente può passare anche per i capelli. Chi contesta vuole rendere immediatamente visibile il suo modo di pensare. In una società regolata da norme precise sull’aspetto fisico, una chioma lunga e fluente è esclusivo appannaggio della donna, che ha comunque l’obbligo di curarla e custodirla quale emblema della sua femminilità. Per questo solo raramente, e spesso solo nell’intimità, i capelli sono sciolti; durante la giornata a trattenerne le onde c’è sempre un fermaglio, una fascia, decine di forcine... Lasciando che le chiome maschili si allunghino, i contestatori sembrano rivendicare nei guerrafondai anni Sessanta statunitensi la presenza in ogni uomo di una parte femminile che gli impedisce di partecipare con soddisfazione a operazioni militari e che, poiché essenziale nel naturale equilibrio dell’individuo, non si vuole più mettere a tacere. Il simbolo del Tao, in cui la rappresentazione del principio maschile e di quello femminile si fondono in una sfera armoniosa, non a caso diviene uno degli emblemi della gioventù ribelle, che affannosamente ricerca «armonia e comprensione», «solidarietà e fiducia», virtù che nella competitiva società statunitense sembrano mancare, mentre non vengono risparmiati ai più deboli «falsità e scherno». Le «visioni da sogno», le «rivelazioni mistiche», la «mente liberata» sono effetto delle droghe, che nelle comunità hippy vengono consumate per combattere quella lucidità e quella razionalità che impedirebbero di comprendere nella sua pienezza la complessità del mondo, e per 50

sconfiggere le inibizioni inculcate dall’educazione borghese in nome di una nuova libertà, soprattutto sessuale. Sodomy, fellatio, Cunnilingus, pederasty, Father, why do this words sound so nasty? Masturbation can be fun. Join the holy orgy kamasutra, everyone. Sodomia, fellatio, / cunnilingus, pederastia. / Padre, perché queste parole suonano così oltraggiose? / Masturbarsi è anche divertente. / Unitevi all’orgia santa del kamasutra, tutti insieme.

In un’atmosfera che si vorrebbe piena di felicità sensuale, la verginità che l’educazione ricevuta invita a custodire religiosamente è un fastidioso inconveniente, che si fa presto a eliminare. Once upon a lookin’ for Donna time, There was a sixteen year old virgin. O Donna... O Donna OO O lookin’ for my Donna, Just got back from lookin’ for Donna San Francisco psychedelic urchin. O Donna... O Donna OO O lookin’ for my Donna. Have you my sixteen year old Tattooed woman? Heard a story she got busted for her beauty. [...] And I’m going to show Her life on hearth can be sweet. Gonna lay my mutated head at her feet And I’m gonna love her, make love to her Till the sky turns brown. Una volta cercavo la donna, / una vergine sedicenne. / Oh Donna, cerco la mia Donna, / una ragazzina psichedelica di San Fran51

cisco. / Oh Donna, cerco la mia Donna. / Avete visto la mia sedicenne tatuata? / Ho sentito dire che l’hanno scacciata per la sua bellezza / [...] / Le farò vedere / quanto è dolce la vita sulla Terra. / Metterò ai suoi piedi la mia testa sballata / e farò l’amore con lei / finché il cielo non si oscura.

Ben presto però l’occhio si abitua alle folte chiome giovanili. I capelli lunghi perdono la loro carica polemica e divengono parte integrante di un’immagine giovanile codificata. Privati del loro potere eversivo, i capelli in libertà possono entrare nell’ordinato mondo di Barbie, una fanciulla che non apprezza la nuova libertà, soprattutto sessuale, che l’onda protestataria le ha fatto guadagnare. L’inveterata fedeltà a Ken lascia intravedere come il suo autentico ideale di uomo appartenga a una tipologia assai ben conosciuta nell’America benpensante di cui Silvia Plath ha tracciato un rapido ma significativo ritratto in The Bell Jar (La campana di vetro), pubblicato nel 1963. Era andato a un liceo privato, nel Sud, specializzato nel formare perfetti gentiluomini, dove vigeva la regola non scritta secondo la quale prima di arrivare al diploma dovevi avere conosciuto una donna. Conosciuto in senso biblico [...]. Sicché un sabato lui e alcuni suoi compagni erano partiti in autobus per la città più vicina, dove c’era un famoso bordello [...]. Era un’attività priva di interesse, come andare al gabinetto.

Inutile, dinanzi a tanta adamantina sicurezza, ipotizzare che forse il sesso è un’altra cosa quando scaturisce da un sentimento. Il pensiero che anche la donna amata è una bestia né più né meno delle altre avrebbe rovinato tutto, perciò lui, se si fosse innamorato di una ragazza, non ci sarebbe mai andato a letto. Se proprio doveva, sarebbe andato con una prostituta, ma la donna amata l’avrebbe tenuta immune da quelle porcherie. 52

Ken non beve, non fuma e appare solidamente allergico a ogni forma di erotismo. Non sappiamo cosa faccia quando Barbie è lontana. Sicuramente, in sua presenza non si lascia andare a niente che non sia più che consono al comportamento di un gentiluomo nei confronti di una gentildonna. Certo, di tanto in tanto può indossare una casacca sgargiante e a partire dai primi anni Settanta comincia a sfoggiare una fluente capigliatura: ma questo non basta a trasformarlo da perfetto fidanzato fifties a fascinoso ribelle, semmai a far entrare nell’ambito del convenzionalmente lecito quanto fino a quel momento è stato visto come segno di rivolta. Così Barbie può dimostrarsi solidale con tutti quei genitori che sognano, come un tempo, il «matrimonio buono» per le loro figlie e che, malgrado le evidenze che i tempi fanno segnare, continuano a figurarsele illibate fino al «grande passo». E continua a essere felice di collezionare, stagione dopo stagione, immacolati abiti da sposa che indossa con tutta solennità, salvo poi lasciare solo – e libero – il suo povero Ken a un passo dall’altare, in un gioco ripetitivo e interminabile. Ma si tratta esclusivamente di un espediente: giusto il tempo di aggiornare scollatura e acconciatura ed eccola ancora lì, che prende per mano il suo promesso... ma solo per un momento.

L’età ingrata

Non si vive di soli matrimoni, peraltro sempre rimandati a data da destinarsi. Nei primi anni Sessanta il ristretto orizzonte di ogni fanciulla occidentale si sta spalancando in maniera inusitata. E così anche lo sguardo di Barbie, che finora ha inquadrato il solo Ken, deve obbligatoriamente ampliarsi. Una donna «moderna» non può avere solo le nozze come unico, accecante obiettivo: le amicizie sono altrettanto importanti, così come la famiglia. Gli affetti non devono essere trascurati dalle fanciulle che cominciano a godere di un’insperata indipendenza: e Barbie lo ricorda riempiendo la sua casa di comprimari, che ne condividono il roseo destino. Il primo nuovo arrivo nella vita di Barbie è naturalmente quello di un’amica del cuore. Nata nel 1963, Midge Hadley non può, ovviamente, contare sul fascino che emana la bambola più famosa del mondo: classica fanciulla da tappezzeria, si accontenta di essere molto simpatica, grazie anche alla generosa spruzzata di lentiggini sul volto, e di poter scambiare gli abiti con Barbie, di cui ha la stessa taglia. Ma è ancora poco: il tenero Ken e la cara Midge non bastano a scacciare la solitudine di cui sembra soffrire Barbie. Peraltro, tutti e tre i mondani personaggi non si rivelano assolutamente in grado di conquistare la fascia di mercato costituita dalle bambine di otto, dieci anni, che vedono le sorelle maggiori impegnarsi con bambole formose giudicate dai genitori inadatte a chi frequenta ancora le elementari. Così nel 1964, a Barbie viene affiancata una sorella, Skipper. La nuova bambola ha un aspetto decisamente infantile, ma può vantare gli stessi capelli 54

fluenti della sorella e un guardaroba altrettanto numeroso. Sempre nel 1964 Midge si fidanza con Allan Sherwood, il migliore amico di Ken. L’allegra comitiva, così genuinamente americana, alla metà degli anni Sessanta, può dirsi tranquilla e soddisfatta. Come la maggioranza degli americani può cullarsi nell’abbondanza dei beni materiali, assicurati da un’economia capitalistica in espansione. Nella semplice e sobria Dream house del 1961, Barbie e i suoi amici gustano il piacere di comportarsi da adulti: sui divani ci si siede a conversare, ma si possono anche conoscere cose nuove leggendo uno dei tanti libri ben ordinati sugli scaffali, o rilassarsi ad ascoltare i numerosi dischi poggiati sul mobiletto con stereo e televisore incassati. Qualche anno più tardi gli ambienti di Barbie si ampliano con la Dream kitchen-dinette, la prima cucina completa di un angolo per la prima colazione e di un altro per il pranzo, con i mobili in serie blu e gialli, l’ampio frigorifero, il forno, la lavastoviglie e il tostapane: un’autentica american kitchen, simbolo per tutti gli americani, sia di plastica sia in carne e ossa, di quel benessere capitalistico che sembra in grado di assicurare anche alle casalinghe fatiche più lievi e una vita più appagante. Quella che si respira negli Stati Uniti è un’atmosfera di piena fiducia nel futuro e nelle possibilità dell’uomo di migliorare costantemente la propria condizione: la tecnologia si dimostra in grado di risolvere i mille piccoli e grandi problemi della vita quotidiana, garantendo un benessere inimmaginabile anche solo una generazione precedente. L’intero universo sembra a portata di mano, dopo i primi viaggi spaziali e l’orma di Neil Alden Armstrong sul suolo lunare. Tuttavia, dietro il benessere patinato serpeggia una sorta di disagio. È l’inquietudine di cui è già stata pionieristica preda l’irrequieto giovane Holden di J.D. Salinger, è la ribellione «senza causa» della «gioventù bruciata» degli anni Cinquanta: un malessere che, un decennio più tardi, nelle uni55

versità americane si esprime con la contestazione studentesca, con il rifiuto dell’aggressività che la società capitalistica occidentale dimostra contro i paesi più poveri del mondo, con il miraggio di una palingenesi promossa dalla libertaria cultura beat. Dall’Atlantico le brezze rivoluzionarie raggiungono con facilità l’Europa. Anche qui i disagi dell’abbondanza si volgono presto in critica verso l’assetto perbenista e gerarchico della società. Ma se in Francia e in Italia i venti di rivolta soffiano nelle università, sollevando urgenze di cambiamento in ambito politico e sociale, nel Regno Unito la «contestazione» dell’ordine costituito e la «trasgressione» delle convenzioni sociali assume un aspetto peculiare, apparentemente più attento agli aspetti esteriori, ma in grado di incidere profondamente e a lungo sui costumi collettivi. La «swinging London» regala al teenager, un attore sociale appena inventato, caratterizzato dall’insoddisfazione e dall’indole critica, dall’entusiasmo per quanto appare sopra le righe e fuori dalle regole, un’immagine, un abbigliamento e un aspetto peculiari, ma soprattutto l’assicurazione che quell’immagine, quell’abbigliamento, quell’aspetto sono esclusivamente suoi, patrimonio di chi non ha più di venticinque anni. Ormai, per i ragazzi non si tratta più di passare dai calzoni corti a quelli lunghi repentinamente, perdendo con il nuovo abbigliamento la spensieratezza dell’infanzia e assumendo un’aria indiscutibilmente seria, adulta; né per le ragazze di abbandonare gli spessi calzettoni e le scarpe allacciate a favore di calze di seta, tacchi alti e filo di perle. Per i giovani in quella che sempre più spesso si sente definire «età ingrata», nelle boutique di Carnaby Street e di King’s Road si trovano capi che non li fanno sembrare fotocopie dei loro «imbalsamati» genitori. Autenticamente rivoluzionaria è la proposta di una giovane diplomata al Goldsmith College of Art che di nome fa Mary Quant e che propone alle ragazze di accorciare decisamente gli orli delle gonne e di evitare il nero e i pastelli a favore di colori vivi e sgargianti. 56

Una volta vinte le riserve, i creatori di moda fanno a gara per proporre capi sempre nuovi, dalle linee avveniristiche, dagli abbinamenti di colore impensati, dai materiali inusitati. Se le passeggiate nello spazio e lo sbarco dell’uomo sulla Luna fanno sembrare vicino e tangibile l’intero universo, il francese André Courrèges dedica all’età spaziale un’intera collezione di abiti molto corti, funzionali e sobri, rigorosi nella bicromia bianca e nera, completati da stivali candidi. Le modelle indossano questi abiti con parrucche di capelli sintetici dai colori inverosimili e con occhiali da sole bianchi, che le fanno assomigliare a veri e propri astronauti in missione. Uno stile cosmonautico è anche quello cui si ispirano negli stessi anni Pierre Cardin, che utilizza spesso e volentieri il vinile per le sue creazioni o Paco Rabanne che realizza in plastica e metallo i suoi abiti futuristici. Questi abiti, che scoprono i corpi in maniera impensata e impensabile fino a qualche anno prima, scandalizzano i benpensanti, né più né meno che i comportamenti che le giovani generazioni cominciano a tenere pubblicamente. Ribelli alle convenzioni che li costringono a soffocare sogni e tempeste ormonali, curiosi di ogni nuova esperienza, gli adolescenti dei secondi anni Sessanta reclamano a gran voce di esprimere apertamente sentimenti e passioni e salgono alla ribalta delle cronache, perché in grado di dare inedite e calzanti definizioni al mondo. La stessa Barbie, a vent’anni di distanza da tutto ciò, in un volumetto autobiografico autorizzato da casa Mattel ricorderà il clima effervescente e ottimista del periodo. I cambiamenti erano nell’aria. Nel 1961 il ballerino Rudolf Nureev [sic] fuggì dall’Unione Sovietica; nel 1962 il twist ribaltò le convenzioni; nel 1963 Valentina Teresˇ kova fu la prima donna lanciata nello spazio e nel 1964 i Beatles, con le loro camicie senza collo, esplosero all’Ed Sullivan Show. Tutto e tutti si stavano rinnovando. 57

Nel novero di coloro che si rinnovano Barbie non inserisce se stessa e il suo mondo, in rapido cambiamento per rispondere prontamente alle sollecitazioni più diverse. Fino a quel momento, infatti, pur essendo in giovane età, Barbie, Ken e gli altri amici di casa Mattel si sono sempre vestiti e comportati da adulti, riproponendo le abitudini in uso fino all’avvento della moda della «swinging London». Ma l’aria londinese, così allettante per chi come Barbie dimostra di avere una sensibilità particolare per il rinnovamento estetico, diviene irresistibile quando anche dagli Stati Uniti si guarda con attenzione a quanto mettono in vetrina le boutique all’ombra del Big Ben, snobbando gli abiti che fanno somigliare le diciottenni alle loro madri. Così, anche le vecchie amiche vengono impercettibilmente trascurate da Barbie per nuove amicizie, che condividono con lei inedite linee di vestiti dai colori inusitati. Nel 1966 fa il suo ingresso in società una cugina di Barbie, Francie, che l’anno dopo si fa raggiungere da un’amica, Casey. Fra le nuove amicizie c’è anche Twiggy, riproduzione in vinile della più famosa modella del momento, mentre nel 1968 entra a far parte del gruppo Stacey, che non a caso giunge proprio da quella creativa Inghilterra che detta le regole del vestire alla moda. Il nuovo quartetto che affianca Barbie ha un fisico più sottile, forme meno accentuate, quasi infantili. Le loro fattezze ripropongono in miniatura il nuovo ideale di donna che, con la nuova moda, si va imponendo e che è rappresentato non solo da Twiggy, ma anche da Veruschka e da Jean Shrimpton: una donna magrissima, quasi eterea, ma non per questo meno sensuale, grazie ai grandi occhi segnati dal kajal e alle labbra perennemente imbronciate. Scattanti, nervose, quasi androgine, rispetto alla linea morbidamente femminile che continua a contraddistinguere Barbie, le sue nuove amiche hanno il fisico perfetto per valorizzare le linee semplici ed essenziali che le nuove tendenze della moda propongono alle giovanissime. Dietro il loro esempio, anche la formosa Barbie non rinuncia a rinnovare il trucco, riproponendo l’affascinante broncio di 58

Brigitte Bardot e lunghissime ciglia da cerbiatta: un volto noto anche come «viso a o» dato che le labbra della bambola sembrano pronunciare questa lettera. Felice anche della possibilità di ruotare il busto, che un’innovazione tecnica le ha concesso, Barbie Twist ’n Turn, cambia l’intero guardaroba seguendo il consiglio degli stilisti emergenti. Sempre in sintonia con lei, anche Ken aggiorna la sua immagine, ispirandosi al fascinoso Warren Beatty. La coppia assume così un’aria decisamente più sbarazzina e meno formale: quello che oggi in molti chiamano aspetto mod, dall’inglese modern. Tuttavia, malgrado le linee giovanili e i disparati materiali utilizzati, malgrado l’idea stessa che la formalità dell’abbigliamento – al pari di tutte le altre noiose formalità – vada combattuta, non sembra tramontare la tradizione sartoriale delle creazioni destinate a Barbie, sempre contraddistinte da un nome e da un’estrema cura di particolari: Sunflower ha una scollatura inusuale e una stampa psichedelica; Lemon Kick è un elegante completo pantalone plissettato; Jump into Lace un raffinato pigiama palazzo di pizzo doppiato in rosa ciclamino; Print a Plenty un asciutto abitino stampato a rettangolini; Caribbean Cruise un completo pantalone giallo sgargiante ornato di volant; Patio Party una tuta pantalone a disegni vivaci completa di spolverino bicolore. Malgrado gli abiti stessi, con i loro colori accesi e le loro fantasie appariscenti, quasi chiassose, vogliano sfidare le convenzioni, Barbie insegna sempre a indossarli nel posto giusto al momento giusto. Appare inutile quanto poi affermerà successivamente, ricordando di aver colto lo spirito del tempo, scegliendo abiti più semplici. I miei bellissimi completi dei primi anni Sessanta, che indossavo con tanto piacere e che tuttavia richiedevano un’accurata preparazione e un modo di presentarsi decisamente perfetto, hanno lasciato il posto a creazioni più vivaci e giovanili. I «coordinati», come li chiamavamo, ovvero scarpe, borsetta, guanti e cappellino in tinta, hanno pian piano perso il loro fascino. 59

Se una certa apparenza formale sembra aver perso ogni incanto agli occhi di Barbie che ora si riveste di abiti più semplici e spiritosi, intatta rimane però la sua capacità di dettare alle ragazzine un preciso galateo dell’abbigliamento, suggerendo con il nome dei singoli abiti le occasioni in cui indossarli. Anche il ventaglio delle attività cui dedicarsi rimane piuttosto ristretto, e non sembra tener conto dei tempi che cambiano. Nel 1968 Barbie Talking pronuncia sei frasi emblematiche: «What shall I wear to Prom?» «Cosa devo indossare per la festa?» «I have a date tonight.» «Ho un appuntamento questa sera.» «Would you like to go shopping?» «Vuoi andare a fare compere?» «Stacey and I are having tea.» «Stacey e io stiamo prendendo un tè.» «Let’s have a costume party!» «Facciamo una festa in costume!» «I love being a fashion model.» «Mi piace fare la modella.»

Naturalmente le parole che escono dalle labbra di Barbie sono quelle veramente indispensabili per la sua quotidianità, una quotidianità dove non c’è posto, nonostante lo sforzo di riprodurre la vita reale, per le normali necessità. Barbie non mangia: beve solo tè, naturalmente quando è in compagnia della britannica Stacey che non può rinunciare alla bevanda nazionale; in caso contrario, si astiene da cibo e bevande. E coerentemente Barbie non fa la spesa, ma si dedica alle spese. Ringiovanita dall’esperienza della «swinging London» la deliziosa fanciulla ha deciso di rinunciare per un poco alle fatiche casalinghe, lasciate a chi ha più anni di lei, per concentrarsi sull’estenuante esperienza delle compere di vestiti e accessori. Barbie non dorme: la sera ha un appuntamento; non sappiamo con chi, ma i pochi dubbi sulla sua moralità ci in60

ducono a pensare che esca con il solito Ken. Barbie si annoia nel suo incessante andirivieni da un party all’altro e, dotata di ogni fantasia, ne propone uno in maschera, tanto per vivacizzare l’atmosfera. Barbie ama il suo mestiere di modella, che le permette di indossare abiti sempre diversi, insufficienti però a sciogliere il primordiale amletico dubbio con cui inaugura la sua conversazione: «Cosa devo indossare per la festa?». Il quesito, degno delle più attente premure, segna l’intera vita di Barbie, costretta a una piatta routine festaiola che solo il cambio dell’abito può contribuire, parzialmente, a rianimare. Pazienti, le bambine rispondono facendole indossare gli abitini che hanno imparato da lei stessa a considerare opportuni. A Barbie sembra impossibile, anche in un periodo in cui più forti si fanno le voci che invitano a non rispettare convenzioni che sembrano assurde, non continuare a impartire, impossibile sapere quanto inconsapevolmente, lezioni di bon ton. Peccato che le sue principali interlocutrici, le bambine degli anni Sessanta, malgrado Barbie prometta loro un futuro di occasioni centrate grazie al rispetto dei codici estetici, non sognino che di diventare grandi per poter finalmente infrangere le regole, e non solo quelle della moda.

Black is black...

Con il suo nugolo di amiche rigorosamente caucasiche, Barbie, malgrado gli abitini à la page, negli Stati Uniti degli ultimi anni Sessanta, rischia però di apparire decisamente reazionaria. La componente nera, infatti, è sempre più visibile all’interno della vita pubblica americana e reclama a gran voce un’attenzione che in precedenza le era del tutto negata, dato che ai neri cominciano a essere affidati anche incarichi di prestigio e di responsabilità e che le bambine nere ambiscono a possedere le medesime cose di quelle bianche: un fatto di cui Barbie deve tener conto, tanto più che nella lunga storia della segregazione razziale in America le bambole giocano un ruolo non indifferente. Se, infatti, la guerra di Secessione aveva abolito la schiavitù e sancito in via di principio l’uguaglianza fra bianchi e neri, di fatto nel secondo dopoguerra la società americana è segnata da una profonda frattura fra le due comunità. Non dappertutto la distanza fra gli uni e gli altri è marcata nella medesima maniera. Negli Stati del Nord la discriminazione dei bianchi a danno dei neri è strisciante; negli Stati del Sud le distanze sono più nette. Vige il principio del separate but equal, sancito da una sentenza della Suprema corte del 1896. Nei cinema, nei teatri, nei ristoranti, negli autobus e persino nelle chiese vi sono posti riservati ai neri, vi sono scuole per neri, mentre le sale d’attesa nelle stazioni e gli scompartimenti ferroviari sono rigorosamente separati. Teoricamente quanto destinato ai neri è «uguale» a quanto destinato ai bianchi. Tuttavia, la suprema ipocrisia dei bianchi porta a ri62

conoscere come «uguali» cose assolutamente imparagonabili dal punto di vista qualitativo. Timidi tentativi per contrastare la situazione erano stati tentati sin dall’inizio del Novecento. Ma la National Association for the Advancement of Colored People fondata nel 1910 non era giunta a rilevanti risultati. Un effetto positivo per una maggiore considerazione dei neri e del loro ruolo all’interno della società era, semmai, venuto un decennio più tardi, durante la cosiddetta età del jazz, dal successo ottenuto da alcuni musicisti di pelle nera. Louis Armstrong e Duke Ellington erano divenuti glorie mondiali, in grado di entusiasmare intere platee. Successivamente, poi, il contributo dato dai neri nel secondo conflitto mondiale e i ruoli che i singoli riescono a ricoprire nell’esercito fanno compiere un ulteriore passo nel riconoscimento dell’effettiva uguaglianza con la popolazione bianca. Sin dai primi anni Cinquanta i neri cominciano una battaglia giuridica, basandosi sul principio costituzionale dell’uguaglianza fra tutti i cittadini, che dalla segregazione razziale sarebbe nei fatti negato. Per dimostrarlo lo psicologo Kenneth Clark, nel famosissimo processo Brown contro il Board of Education di Topeka - Texas, propone ad alcuni bambini neri di scegliere fra due bambole perfettamente identiche, salvo che per il colore dell’incarnato. Una maggioranza schiacciante sceglie la bambola bianca «perché più bella»: già nei bambini la pelle scura viene vista come un segno di bruttezza e, quindi, di inferiorità. La pelle bianca, invece, è sinonimo di bellezza, e solo a fatica e con evidente dispiacere i bambini neri ammettono che la bambola più brutta è quella che in realtà somiglia loro di più. Anche grazie all’esperimento di Kenneth Clark, nel 1954 i neri raggiungono i primi risultati. La Corte suprema stabilisce che l’applicazione del principio giuridico separate but equal in ambito scolastico non è ammissibile e quindi intima agli Stati del Sud dove è in vigore di procedere alla desegregazione nelle scuole «with all deliberate speed», con ogni ragionevole velocità. 63

L’America bianca, che tenta di resistere a ogni possibile innovazione in campo razziale, viene inoltre scossa da un episodio di cronaca che suscita grande clamore: a Montgomery, in Alabama, una donna di colore, Rosa Parks, di ritorno dal lavoro, rifiuta di cedere il suo posto in autobus a un bianco. Il suo arresto segna l’inizio di un’azione di resistenza che coinvolge l’intera comunità di colore della città. I neri boicottano il servizio urbano fino a quando il tribunale non riconosce le ragioni di Rosa Parks. A partire da questo episodio nella provincia americana degli anni Cinquanta i casi di neri che si impegnano in forme di resistenza non violenta aumentano. Al loro fianco è schierato il governo centrale, che non tollera che vengano disattese leggi federali e sentenze della Corte suprema. Quando, nel 1957, alla Central High School di Little Rock, in Arkansas, a nove studenti neri è impedito l’ingresso, viene inviato l’esercito a presidiare la cittadina affinché gli studenti possano entrare regolarmente a scuola. Naturalmente, queste misure vengono ritenute troppo drastiche dai molti bianchi che ritengono giusta la separazione dai neri e che rispondono in maniera altrettanto decisa. L’anno successivo, la Central High School di Little Rock, pur di impedire l’ingresso ad allievi di pelle scura, non riapre i battenti. Non basta però un portone chiuso a fermare l’avanzata, tanto più che una volta fuori dai ghetti, nell’ansia di riscatto e di promozione sociale, i neri promettono di diventare un nutrito gruppo di consumatori. Sicuramente si tratta di una fascia di mercato che, in molti settori, ha bisogno di prodotti strutturalmente diversi da quelli usati dai bianchi. Soprattutto le case produttrici di cosmetici devono ampliare la loro offerta per far fronte alle esigenze della nuova clientela che viene da subito considerata come una generosa fonte di profitti. Anche chi vende sogni non può ignorare che essi possono acquistare sfumature diverse da quelle che hanno avuto fino 64

a quel momento. Così la Mattel si trova ad allargare la propria produzione lanciando sul mercato bambole nere, con cui le bambine di pelle scura possano identificarsi. Nel 1968 appare Christie, seguita a un anno di distanza da Julia, le cui fattezze riproducono quelle della protagonista di un serial televisivo dell’epoca, Diahann Carroll. Capelli neri e crespi, grandi occhi castano scuro, pelle ambrata, Christie e Julia, come Barbie e Midge, partecipano a una vita sociale piena di impegni, dal ritmo serrato scandito dal frenetico cambio d’abito: tornei di tennis e merende all’aperto, cocktail party e prime teatrali, balli di beneficenza e vernissage, in cui non si postulano gerarchie basate sulla distinzione razziale... Le due fanciulle prendono parte alle medesime attività di Barbie, non sono relegate nell’angolo né destinate a ruoli di servizio. Julia, addirittura, viene presentata con un dispositivo in grado di farla parlare, al pari della Barbie che viene prodotta in quella stagione. Inoltre Christie e Julia non rimangono le uniche bambole nere di casa Mattel. Nel corso degli anni, infatti, le amiche afroamericane di Barbie aumentano: Cara frequenta Barbie fra il 1975 e il 1978; Dee Dee nel 1986 suona nel gruppo delle Rockers, così come Belinda, che nel 1988 fa parte del gruppo delle Sensation; l’anno seguente si aggiungono al gruppo anche Devon e Stacie; nel 1994 è la volta di Shani, mentre nel 1999 quella di Nichelle. Certo, negli anni Ottanta la spontaneità dell’amicizia di Barbie appare un po’ offuscata dal sospetto di un certo interesse: le star di colore dominano il panorama musicale e Barbie, che dà vita a una band, non può certo prescindere dal loro apporto. Del resto, anche Ken annovera amici neri fra le sue frequentazioni: nel 1970 si accompagna a Brad; nel 1975 a Curtis, fidanzato dell’amica di Barbie, Cara; nel 1988 a Steven, boyfriend di Christie. Inoltre, i due fidanzati hanno provato, letteralmente anche se temporaneamente, a «cambiar pelle». Barbie nera debutta nel 1980: la sua pelle di ebano è valorizzata – nella confezione originale di vendita – da un vestito 65

rosso con dettagli e accessori di gusto etnico e di un lussureggiante color oro. Ma si tratta dell’ebbrezza di un momento, del piacere di vestire – oltre ai mille abiti adatti alle più disparate occasioni – anche una pelle diversa: un brivido che non intacca quella che nel corso degli anni è diventata una tradizionale affezione per l’incarnato pallido, gli occhi celesti e i capelli innaturalmente biondi. Nelle sue prime apparizioni, Barbie, infatti, pur non rinunciando alla carnagione pallida, cambia volentieri colore di capelli, alternando le chiome bionde a quelle nere, non disdegnando talvolta il castano e osando, in qualche occasione particolare, il tiziano o il cannella: la prima Barbie sfoggia con uguale sicurezza il platino e il corvino; sfoggia diverse tinte anche la Barbie, prodotta nel 1961, con la gonfia e corta acconciatura detta «Bubble Cut»; Barbie Fashion Queen, prodotta nel 1963, ha i capelli modellati in vinile, in modo da poter agevolmente cambiare colore con le tre parrucche – nera, castana e bionda – in dotazione; la nuova acconciatura «Swirl Ponytail», sfoggiata a partire dal 1964, viene realizzata con capelli di diverse sfumature. Malgrado le diverse tonalità nulla tolgano al suo fascino, a partire dagli anni Settanta, Barbie non sembra però voler assolutamente rinunciare al look platinato. Nei negozi di giocattoli e nei grandi magazzini, dalle scatole di un rosa sgargiante si affacciano sorrisi immancabilmente ombreggiati da ciocche dorate. Il roseo mondo di Barbie, nelle sue infinite declinazioni (dagli accessori per la scuola ai capi di abbigliamento, dalle calzature ai mobili, dai piccoli elettrodomestici di uso personale ai più svariati gadget e così via), è sempre illuminato da uno sguardo turchino e da un ricciolo biondo. Nell’immaginario collettivo Barbie, malgrado ogni tentativo di variazione, rimane così innegabilmente chiara al punto che anche le bambine nere preferiscono giocare con la versione tradizionale piuttosto che con quella di pelle scura: Barbie è bianca e bionda. Se è vero, come voleva la crea66

trice Ruth Handler, che le bambine vengono aiutate tramite il gioco con Barbie a «esplorare il mondo circostante [...] mostrando le infinite possibilità a loro disposizione [in modo che possano] proiettare se stesse nei loro sogni di crescita e interpretare a modo loro il mondo dei grandi», le bambine di pelle scura, dalle chiome felicemente crespe, possono sin dalla più tenera età cominciare faticosamente a prendere atto di come la vita sembri riservare maggiori soddisfazioni a chi esibisce un incarnato pallido e una chioma dorata rispetto a chi non può vantarli. Ancora oggi ad Harlem, infatti, il «test della bambola», reso noto da Kenneth Clark nel lontano 1954, ha confermato come le bambole più belle, con le quali le bambine nere preferiscono giocare, sono bianche e se viene chiesto loro perché esse siano più belle, le bambine con sconcertante sincerità rispondono che lo sono proprio «perché sono bianche». Una verità che Barbie ha sempre conosciuto, senza necessità di ripetere il «test della bambola», e che, malgrado le più disparate colorazioni di incarnato, chioma e iride, negli ultimi anni in cui ha debuttato con abiti folcloristici come Barbie nel mondo, non ha mai provato effettivamente a contestare. Anzi. Una delle ultime imprese dell’infaticabile fanciulla si è svolta in ambito storiografico: è, infatti, stato dato alle stampe a firma Barbie il primo di una serie di tomi in cui vicende «biografiche» sono intrecciate ai grandi avvenimenti della storia degli Stati Uniti. Ciascun volume racconta un decennio: il primo, dedicato agli anni Sessanta, si intitola Peace, Love & Rock’n’Roll. La vicenda ha inizio nel gennaio del 1964, quando Barbie racconta del suo viaggio a Washington come reporter per realizzare un servizio su Martin Luther King. La memoria sembra, però, tradire la simpatica ragazza, dato che, benché all’inizio del racconto siano passate solo sei settimane dall’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, l’avvenimento – uno dei più sconvolgenti per l’intera America – non viene neppure ricordato. Ugualmente sotto silenzio passano il conflitto in Vietnam o la Guerra Fredda. 67

A uno sguardo più attento ci si accorge che la memoria ha infierito con inaudita crudeltà sulla poco zelante storiografa, la quale dimentica anche che la sua amica Christie ha la pelle nera. Un’immagine che raffigura le due ragazze, le presenta con un identico colore della pelle, indubitabilmente chiaro... Del resto, se ancora oggi al «test della bambola», le bambole nere risultano perdenti al confronto con quelle bianche, perché condannare la cara Christie all’insuccesso sociale?

Yankee go home

Risulta difficile per Barbie ricordare anche il momento in cui, agli inizi degli anni Sessanta, riattraversa l’oceano per approdare nuovamente in Europa e, forte del successo ottenuto nel Nuovo Mondo, cerca di replicarlo nel Vecchio Continente. Il percorso non si rivela per nulla facile: se il debutto americano è stato un succès de scandale, l’arrivo di questa diva di plastica dal guardaroba inusitato nell’Europa di quegli anni, nella quale il nuovo benessere non ha ancora cancellato il ricordo delle sofferenze dell’ultima guerra, viene visto con grande sospetto. Il piccolo balocco che viene dal grande «paese dei balocchi», interpretandone a perfezione lo spirito, contrasta con quanto l’Europa democratica ha nei suoi programmi: se «la società opulenta smorza i fuochi dell’indignazione», come afferma nel 1957 Raymond Aron con una frase destinata a diventare famosa, suscita ben più di una sporadica diffidenza chi, come Barbie, di quell’opulenza si fa latore. Nel 1965 la Società Editrice Giochi, distributrice in Italia della bambola, dalle pagine del catalogo pubblicizza Barbie come «la Bambola-Signorinetta, la Bambola più elegante e più ambiziosa, che dispone di un’invidiabile collezione di vestiti e accessori, tutti finiti e curati come modelli usciti da una grande Sartoria». Ciò che si chiede alle bambine italiane, abituate a cullare i bambolotti e a prendersi cura di loro come mamme in miniatura, è cambiare l’abito alla bambola a seconda delle occasioni. La confezione che la racchiude è completa anche di un piccolo catalogo che mostra i molteplici modelli, comple69

ti di accessori che Barbie è solita utilizzare nella sua mondana quotidianità: «Vestire Barbie è la cosa più facile e più divertente perché, cambiandole d’abito, acquista di volta in volta diversa eleganza e diversa personalità». Tuttavia il gioco appassionante che dovrebbe entusiasmarle è riservato solo a una fascia particolarmente ristretta di fanciulline italiane. Nel 1965 il guadagno medio lordo di una famiglia operaia si attesta sulle 70.000 lire mensili: una semplice Barbie in costume da bagno e scarpe ne costa 1950; la versione più sofisticata con tre parrucche, per permettere alla bambola il cambio dell’acconciatura, addirittura 4500; gli abiti più semplici costano 1600, mentre i più sontuosi possono superare le 3000 lire. Skipper, la sorellina di Barbie, «con costume bianco-rosso, pettine, spazzola e cerchietto» e Midge, l’amica di Barbie, «con costume in due pezzi e scarpe» costano ciascuna 1950 lire, mentre Ken, il fidanzato di Barbie, e Allan, l’amico di Ken, ambedue in giacca di spugna, costume da bagno a calzoncino e sandali, costano – privilegio della virilità – 2400 lire. Preclusa la vendita alle bambine delle famiglie operaie per ovvi motivi, neanche presso la media borghesia la bambola riesce a riscuotere eccessive simpatie. Non si tratta solo delle sue forme procaci, inadeguate ai giochi infantili secondo l’opinione dei genitori che ritengono più educativi i bambolotti, ma anche e soprattutto del fatto che Barbie non promuove certo quei valori di sobrietà e discrezione che devono diventare patrimonio delle bambine di buona famiglia. Il catalogo che accompagna la Barbie recita infatti: «Tutta la stampa ha parlato e continua a parlare di Barbie che è la Bambola più fotografata e più reclamizzata di tutti i tempi». Al contrario, il galateo corrente vuole che le signorine a modo vivano lontane dalla luce dei riflettori, adatta esclusivamente a quelle figure di dubbia moralità che sono le attrici, e non dimostrino un facile orgoglio per la loro avvenenza. Non sono solo le pubblicazioni più bigotte del periodo a consigliare alle fanciulle una condotta modesta. Anche dalle pa70

gine dell’Enciclopedia della donna (1965), voluta dall’Unione donne italiane, l’associazione vicina al Pci che promuove sulla Penisola l’emancipazione femminile, le giovani fanciulle sono ammonite ad apprendere sin dalla più giovane età quali debbano essere le doti da coltivare. I successi dovuti alla femminilità devono essere distinti giudiziosamente tra successi passeggeri originati da slanci istintivi e successi originati invece da reale simpatia per il complesso della nostra personalità. Il contegno della ragazza unito a caratteristiche fisiche appariscenti può provocare l’esplosione di ammirazione istintiva e incontrollata da parte dell’altro sesso. Il piacere che l’ammirazione altrui per le proprie doti fisiche può suscitare è naturale e non ha niente di riprovevole. Ma può contenere il pericolo di spingere la ragazza a sottolineare sempre più la propria avvenenza fisica, rinunciando a quelle soddisfazioni più durature e più profonde che derivano dall’apprezzamento delle sue qualità di intelligenza e di spirito. Per le ragazze molto belle è più difficile emergere per qualità di ingegno, di carattere e di forza morale. La bellezza è un dono prezioso che crea molti doveri; soprattutto quello di non provocare con il suo predominio assoluto la dissipazione degli altri doni avuti da natura.

Una bellezza pudica, quindi, si deve accompagnare a modi garbati, tali da non attirare l’attenzione altrui. Si può consigliare alla giovinetta di tenere presenti alcuni pochi precetti di buona creanza: 1. ascoltare e cercare di capire l’ambiente e le persone, prima di dare giudizi o esporre opinioni; 2. non lasciarsi dominare dal desiderio di far bella figura che può condurre, invece, a fare pessima figura; 3. dimostrare deferenza agli anziani ascoltandoli e lasciando ad essi l’iniziativa della conversazione; 4. accettare di buon grado quanto viene offerto servendosi con misura; 5. sopportare discorsi noiosi senza dar segno di insofferenza; 6. non aver fretta di accomiatarsi, ma non prolungare troppo la visita quando il ricevimento tende ad esaurirsi; 7. non preoccuparsi troppo del proprio aspetto, mettendo mano continuamente allo specchietto e tanto meno al pettine; 8. non pretendere di essere al 71

centro dell’attenzione, ma nello stesso tempo non appartarsi; 9. non far sfoggio delle nozioni o delle abilità da poco conquistate ma, nello stesso tempo, inserirsi nella discussione con i propri problemi culturali e con le proprie opinioni; 10. non portare nelle discussioni un eccesso di calore, pur sostenendo con fermezza il proprio punto di vista; non voler intervenire in discorsi che esigono preparazione e cultura superiore a quella che si possiede, ma ascoltare per apprendere e, nel caso, domandare chiarimenti e spiegazioni; 11. se c’è una persona di riguardo, non voler accaparrare la sua compagnia anche se questa persona dimostra una cortese simpatia per noi.

Barbie, con il suo fisico da pin up, il suo guardaroba smisurato in colori sgargianti e vistosi, i numerosi accessori strettamente coordinati, lo sguardo bistrato e le sontuose pellicce pare invece fatta apposta per trasmettere alle bambine il gusto di monopolizzare l’attenzione altrui. Ma oltre a contravvenire ai principi che regolano la vita nella buona società, la bambola sconta un altro peccato, più grande, che contribuisce non poco alla sua emarginazione. Proprio il suo aspetto appariscente denuncia in maniera innegabile la sua provenienza, quegli Stati Uniti che sono obiettivo di critiche condivise da gruppi e individui della più diversa provenienza ideologica. La diffidenza nei confronti dell’America, a volte tanto forte da sfociare in un autentico ostracismo verso quanto proviene da oltreoceano, fa permanentemente parte, negli anni Sessanta, del patrimonio ideologico di diverse forze politiche. Forte è l’antiamericanismo che si avverte nel Movimento sociale italiano. In questo caso, esso, da un lato, è retaggio degli atteggiamenti coltivati dal regime fascista: Mussolini aveva sempre guardato con sconcerto alla società americana con un pavido atteggiamento strapaesano nei confronti dell’incipiente modernità capitalistica. Questi timori nei confronti del gigante statunitense venivano esorcizzati con il richiamo 72

a un passato inattingibile per gli americani e attutiti grazie ai vincoli instauratisi con l’emigrazione italiana oltreoceano. A segnare in maniera definitiva il distacco dell’Italia mussoliniana da eventuali simpatie atlantiche erano stati, in primo luogo, l’alleanza con la Germania hitleriana e, in secondo luogo, lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Nelle vignette di Gino Boccasile gli americani venivano rappresentati come sinistri figuri capaci di ogni violenza sulla popolazione inerme. Questa immagine si rafforzò, negli schieramenti di destra, all’indomani della Liberazione. Per i nostalgici del regime l’Italia non era stata solo il teatro degli orrori dell’esercito a stelle e strisce: gli Stati Uniti, fornendo gli aiuti del Piano Marshall, vi imponevano un modello di vita decadente e dissoluto, segnato dalla corruzione diffusa e dalla presenza ebraica nei gangli vitali. Il teorico di destra Julius Evola segnalò come lo sfacelo colpiva anche le più giovani generazioni, trascinandole in abissi di nefandezza. Specialmente fra le studentesse l’immoralità è estrema, cagionata non solo dall’indifferenza dei genitori [...] ma dagli spacciatori di stupefacenti, onde un’enorme percentuale di tali ragazze si prostituisce al solo scopo di trovare i soldi della droga. Questa è la realtà americana.

Se nel corso degli anni Cinquanta una tale posizione ideologica divenne gradualmente eredità delle frange più estremiste della destra, mentre nel Movimento sociale italiano maturò una «svolta atlantista», l’antiamericanismo arrivò a essere parte sostanziale dell’ideologia dei partiti della sinistra parlamentare. Durante la guerra e nella stagione immediatamente successiva i gruppi socialisti e comunisti non avevano visto nell’America combattente contro Hitler un autentico nemico; al contrario, l’America era il luogo dove era maturata quella democrazia cui in molti in Italia aspiravano. La svolta che vide i partiti di sinistra opporsi vigorosamente alla politica e ai valori atlantici maturò nel 1947, quando al Co73

minform, nel quadro della lotta mondiale contro gli assetti borghesi che si auspicava i diversi partiti comunisti affrontassero, gli Stati Uniti vennero indicati come il nemico imperialista da sconfiggere. Fu sistematicamente svalutata quella democrazia che fino alla stagione precedente era stata vista con ammirazione: si sostenne anzi che il sistema americano fosse falsamente democratico, in realtà dominato da poche grandi famiglie estremamente facoltose, in grado di orientare e dirigere l’intera sfera della politica statunitense. Tra il 1965 e il 1970 la bandiera a stelle e strisce comincia a essere bruciata nelle manifestazioni, in segno di disprezzo per l’aggressiva azione militarista che gli Stati Uniti stanno conducendo in Vietnam, mentre vengono elevate a modello e simbolo le carismatiche figure di leader del Terzo Mondo. I profili di Fidel Castro, Mao Tze Dong, Ho Chi Min, Che Guevara alimentano l’immaginario collettivo giovanile insieme al sogno di una società in grado di non lasciarsi corrompere dall’abbondanza e dagli eccessi consumistici statunitensi. Ciò che si teme è la vischiosità del benessere statunitense, in grado di deteriorare la società nel suo insieme, di drogarne fino alla morte i componenti, commettendo un autentico crimine, tanto peggiore quanto invisibile. Significative sono a questo proposito parole come quelle che Carlo Levi scrive nel 1967 nel suo Discorso sul Vietnam: La civiltà che ci è proposta dal gruppo dirigente americano è forse più pericolosa di quella che c’era proposta allora con le armi dai dirigenti della Germania, perché è apparentemente affascinante, è ricca di seduzioni, di merci, di vantato benessere, di vantata democrazia, è ricchissima di parole ma più sottilmente metamorfosamente e più alienante di quella. Non si trasforma qui l’uomo in saponetta o in paralume ma lo si trasforma (non solo i nemici ma tutti gli alleati, anche gli americani, tutti gli uomini li trasforma) in merce, in cosa, in oggetto, in numero di economia di mercato, in astratti consumatori. 74

Tuttavia, l’ambiente dove con maggior continuità matura l’avversione nei confronti degli Stati Uniti e di un certo stile di vita è quello cattolico. Alla fine dell’Ottocento si guardava con un sospetto tale alla democrazia e al liberalismo sviluppatisi in America che papa Leone XIII nel 1895 aveva emanato l’enciclica Longinqua oceani: si condannava il tipo di civiltà di cui gli Stati Uniti erano latori perché avrebbe potuto minare alla base i valori gerarchici sulla quale secondo il pontefice si dovevano basare le società occidentali. Nel Novecento la punta di diamante dell’antiamericanismo vaticano era costituita dalla Compagnia di Gesù, che dalle pagine della rivista «Civiltà cattolica» condannava la materialistica ed edonistica società americana, priva di ideali e di fede religiosa. Più della metà dei cittadini degli Stati Uniti sono privi di ogni Chiesa, fuori di ogni professione religiosa. È una massa che vive, se non nell’ateismo, nel puro naturalismo [...]. L’idea di un’appartenenza a un’istituzione religiosa; la necessità di consacrare con qualche pratica religiosa almeno i punti culminanti della vita – nascita, matrimonio, morte; l’idea di dare ai figli, insieme con i primi rudimenti dell’educazione e dell’istruzione, anche qualche verità religiosa che divenga parte della loro educazione fondamentale; tutto questo insieme di riflessi religiosi nella vita quotidiana, per gran parte della massa americana, non esiste.

Agli occhi dei sacerdoti gesuiti, la mancanza di spirito religioso colpiva profondamente la società, dato che uno dei suoi maggiori capisaldi, il matrimonio, in virtù della sua natura essenzialmente civile e non sacramentale, con estrema facilità veniva sciolto. Il divorzio è un male veramente pernicioso data la leggerezza con cui lo si chiede e la facilità con cui lo si ottiene. [...] Agli occhi delle ragazze lavoratrici il matrimonio non ha nulla di religioso, di sacro; esse non ne vedono che l’aspetto economico. [...] È soprattutto un affare e perciò si sposano con una riserva mentale: che se 75

l’affare si rivelerà cattivo esse spezzeranno ogni vincolo per andare liberamente alla ricerca di un’altra combinazione.

La leggerezza con cui veniva slegato quanto dalla Chiesa cattolica era considerato nodo indissolubile si coniugava, secondo i commentatori cattolici della rivista «Politica sociale», con un’estrema spregiudicatezza nel trattare gli argomenti inerenti alla sfera sessuale. La frenesia del sesso assume un carattere pedagogico quando sotto pretesto di istruire i giovani si pubblicano e vendono volumi attraenti dove tra illustrazioni e testo c’è abbastanza per fare esperienza. Ciarpame pseudo letterario a fondo speculativo che attossica le coscienze dei giovani americani [...].

Le coscienze dell’italica gioventù non devono, quindi, in alcun modo essere turbate dal pervertitore «american way of life». Ogni mezzo è buono per raggiungere il fine e tanto prima si comincia a mettere in guardia contro l’immoralità americana meglio è. Nel 1974, vince lo Zecchino d’Oro la canzone Cocco e Drilli: «due coccodrilli / lei lo chiamava Cocco lui invece Drilli» la cui storia d’amore viene messa in pericolo da un cacciatore che cattura Drilli e la carica «in barca dicendo ‘Yes! / Io ne farò borsette, portafogli e beautycase’». L’odioso personaggio che attenta alla felicità amorosa dei due coccodrilli parla l’inviso idioma e ha la truculenta intenzione di affettare la povera Drilli per ricavare tutti quei beni che – si sa – abbondano sulle scintillanti vetrine americane, mentre in Italia – dove si è ancora tutto sommato legati alla parsimonia bellica e si continua a vedere di buon occhio una certa morigeratezza nell’acquisto – sono appannaggio di poche privilegiate. E anche se «più di mille coccodrilli / [...] scesero nel fiume a cercar la Drilli» e «vedendoli arrivare, il cacciatore / buttò la Drilli in acqua per poi scappare», rinunciando così ai suoi turpi propositi, in modo che «Cocco è tornato ancor / a vivere con Drilli il suo bel sogno d’amor», rimane la cer76

tezza che quanti per dire «sì» dicono «yes» e uccidono animali indifesi per farne superflui beautycase non siano certamente persone frequentabili. In una tale atmosfera, la maggiorata e consumista Barbie, così vistosa, provocante e superficiale da trattare il suo velo da sposa come una qualsiasi acconciatura da utilizzare a piacimento, non può essere certo vista di buon occhio. Anche se non disdegna, com’è noto, di armeggiare in cucina, la bionda statunitense sembra trovarsi troppo a proprio agio con gli elettrodomestici che proprio in questi anni cominciano a promettere minore fatica alle casalinghe. Fornelli, frigoriferi, lavatrici, aspirapolvere, frullatori negli anni Sessanta, e poi lavastoviglie e televisore negli anni Settanta, fino al forno a microonde, al tostapane, alla pentola a pressione e alla friggitrice negli anni Ottanta non vengono immediatamente recepiti dal mercato femminile. La «rivoluzione del bucato», compiuta con l’ingresso delle lavatrici nelle case della classe media, offre nuove opportunità, liberando il tempo prima impiegato a mettere a mollo, strofinare, sciacquare, strizzare..., ma in un primo momento atterrisce chi teme di perdere ogni ruolo utile. Barbie, così sicura con le nuove tecnologie, così a suo agio nella gestione del suo (tanto) tempo libero, appare particolarmente inquietante: perciò ammicca dagli scaffali dei negozi di giocattoli sola e altera, in attesa di un momento migliore.

Crisi di crescita

Snobbata in Europa a favore di bambole più tradizionali e meno impegnative, al principio degli anni Settanta Barbie non sembra trovarsi sotto una buona stella neppure nel Nuovo Mondo. Il modello di sviluppo e di consumo basato sulla convinzione che le risorse del pianeta siano inesauribili è definitivamente tramontato. Si apre una stagione di austerità, che incide sulle abitudini dei consumatori, inducendoli a trascurare i consumi lussuosi e voluttuari: quelli che per Barbie sono generi di prima necessità. Anche in casa Mattel spira un’aria poco piacevole. La più importante fabbrica del continente, situata in Messico, viene distrutta da un incendio: i danni economici non sono indifferenti. E di lì a poco la stessa Ruth Handler viene perseguita dal fisco per evasione. Barbie non ricorda il decennio con parole elogiative: «Disturbo qualcuno se confesso che gli anni ’70 non sono stati i miei preferiti per quanto riguarda la moda? Sono stati anni di riorganizzazioni, di ripensamenti, di ritorno alle origini. Ecologia ed economia furono il motto dell’epoca. [...] Abiti da nonna e da contadina, maglie all’uncinetto, molto denim e pantaloni, pantaloni, pantaloni ovunque...». Concentrata sul ricordo della moda, Barbie preferisce non richiamare alla memoria i brutti momenti. Non si tratta solo della crisi economica incipiente, che porta gli acquirenti a preferire bambole concorrenti – ormai ce ne sono diverse – ma meno costose. Uno dei grossi problemi di Barbie si appunta sulle feroci critiche che fioccano su di lei, per la prima volta in maniera massiccia e articolata. 78

Nei primi anni Settanta, infatti, in tutto il mondo occidentale risulta saldamente costituito il movimento per la liberazione della donna. Si tratta di un movimento che nasce nella seconda metà degli anni Sessanta dalla presa di coscienza da parte di molte donne, già impegnate nella contestazione studentesca o per il riconoscimento dei diritti civili ai neri, della loro esclusione dai luoghi decisionali. Come i neri, le donne sono costrette a lavorare ai margini o al di fuori delle strutture di potere, anche all’interno dei gruppi nati per lottare contro le esclusioni sociali e le gerarchie. La decisione di gruppi di donne consapevoli della marginalità del loro ruolo di staccarsi e di costituire i primi, autonomi consciousness raising groups, i primi collettivi femministi, ha un precedente in un episodio avvenuto nel 1966 ed entrato nella leggenda del movimento femminista. In occasione della conferenza nazionale della Students of a Democracy Society, durante una discussione sulla questione femminile, le donne abbandonano il dibattito comune per affrontare da sole, separatamente, la questione: una scena che si ripeterà innumerevoli volte negli Stati Uniti e in Europa e che, in molti casi, segnerà la nascita dei collettivi femministi. Negli Stati Uniti uno di questi gruppi inaugura la propria attività con un’azione estremamente significativa: mentre si svolgono le finali del concorso di bellezza più famoso del continente, l’elezione di Miss America, un gruppo di donne incorona una pecora, getta nella «pattumiera della libertà» reggiseno, bigodini e cosmetici e celebra una cerimonia funebre alla «femminilità tradizionale» nel cimitero nazionale di Arlington, in Virginia. Non è il solo, ma certamente il più plateale episodio, che testimonia come, a partire dalla prima denuncia di Betty Friedan che aveva illustrato come la «mistica della femminilità» avesse creato un eterno femminino afflitto da quel «problema senza nome» che era l’insoddisfazione, si sia radicata l’opinione che la libertà di cui le donne godono nel mondo occidentale è condizionata da una miriade di fattori, tutti riconducibili alla sua posizione di inferiorità. Se Betty Friedan 79

aveva reclamato il diritto femminile al lavoro extradomestico, nei gruppi di autocoscienza che vengono formandosi in maniera spontanea negli Stati Uniti come in Europa, le tematiche che sono discusse non interessano esclusivamente l’ambito lavorativo. Esso, anzi, rischia di risultare marginale di fronte alla riflessione più ampia e articolata che le donne avviano sul corpo femminile, sulla sua proprietà, sull’uso che la società ne fa privandole del diritto di disporne liberamente: partendo spesso dal vissuto personale delle componenti, vengono approfonditi i temi relativi alla sessualità, alla libera scelta della maternità, all’aborto, al divorzio, alle varie forme di schiavitù domestica che molte donne sono costrette a sopportare. Di fronte alle battaglie delle femministe sull’aborto come sul divorzio, sulla parità salariale come sulle politiche familiari, alla lunga, il mondo politico occidentale non può non reagire. E sebbene in tutti gli schieramenti parlamentari e anche nei movimenti politici extraparlamentari le battaglie femministe siano viste con un atteggiamento di sufficienza, se non di fastidio, nel corso degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta vengono varate, anche se con molte timidezze e in mezzo ai mugugni dei gruppi più conservatori, delle leggi in grado di fornire le prime, immediate risposte alle esigenze femminili. Ma è sul piano simbolico che la battaglia delle femministe appare più difficile da combattere: finché non cambia l’idea tradizionale della femminilità appare estremamente difficile che, malgrado una legislazione più attenta ai bisogni delle donne che in passato, le cose cambino effettivamente. I mezzi di comunicazione di massa continuano a promuovere un’immagine femminile caratterizzata dal precipuo interesse per le proprie doti fisiche e per il loro miglioramento, nonché per la capacità di seduzione in grado di esercitare. Si tratta di un’immagine talmente pervasiva da giungere senza difficoltà alle bambine, che la vedono ulteriormente amplificata dall’esistenza di giocattoli come Barbie. Articolare una critica verso la bambola che alla fine degli anni Sessanta copre un’ampia fetta del mercato con un suc80

cesso sfolgorante, anche grazie a furbe operazioni pubblicitarie, non è un’operazione tanto complessa quanto quella di scardinare convinzioni comuni sulla femminilità. Inoltre, la censura nei confronti di Barbie poggia su argomenti che sono stati affilati e perfezionati in cantieri non immediatamente riconducibili all’area del movimento di liberazione della donna. Nel 1963 un cronista del «Saturday Evening Post» aveva condannato le madri americane che, regalando Barbie alle loro figlie, le spingevano verso una precoce maturità. Di lì a poco, sullo stesso giornale Barbie era stata ripresa per l’enfasi che poneva sul possesso – di vestiti, di case, di automobili e così via – e sulle apparenze: sembrava una parodia della ricerca del benessere materiale e della soddisfazione per le banalità. Questi rimproveri suonavano blandi al confronto con quelli che, nel 1964, comparvero in un articolo di «Nation» e che riportavano dati elaborati dalla Medical School dell’Università della California: Barbie era alla radice di alcuni disturbi adolescenziali. La bambola, anche secondo la rivista «Ramparts», proponeva un ideale femminile, spacciandolo come tipicamente americano, che invitava a diventare frigide e impegnate consumatrici. Inoltre – come asseriva anche il direttore della Pediatric Mental Health Unit, dell’Università della California – Barbie avrebbe istigato fantasie sessuali precoci e una notevole propensione al consumo vistoso. Dal 1975, poi la bionda californiana appare regolarmente nella colonna «dei cattivi» della rubrica Toys: Bad News / Good News della rivista «Ms. Magazine» a causa dello stereotipo che rappresenta e che risulta ogni giorno più superato. Le femministe dai capelli sciolti che lasciano intravedere fantasiosi pendenti, che si vestono con larghi camicioni che nascondono le forme, hanno così gioco facile nel condannare Barbie, agghindata e ingioiellata, emblema della donna come oggetto sessuale, il cui compito è esclusivamente quello di sedurre il maschio. Le forme da maggiorata della parte supe81

riore della bambola, inoltre, si coniugano significativamente con un bacino stretto: Barbie è quindi strutturalmente incapace di maternità. Il suo seno prosperoso è solo in grado di suscitare pensieri peccaminosi, non assolvendo ad alcuna altra funzione. Il guardaroba fornito dei più svariati accessori serve ad amplificare ulteriormente la civetteria della bambola, demonizzata quasi quanto il reggiseno che le femministe lanciano nei falò accesi in piazza. Ma questa feroce propaganda negativa è sostanzialmente caratteristica degli Stati Uniti. In Europa, mercato al quale Barbie sta puntando in questo periodo, il movimento di liberazione della donna si concentra su mete più sostanziali, e solo marginalmente risulta interessato a colpire una bambola. La fanciulla, pertanto, non si lascia spaventare più di tanto dagli strali femministi. Intimamente ferrea, esperta e spregiudicata conoscitrice di quello che è il mercato occidentale almeno quanto nell’aspetto è romantica e svenevole, Barbie inaugura una strategia in grado di farle vincere la sfida che i tempi sembrano lanciarle. Se fino a poco tempo prima, con il suo trucco sofisticato e gli abiti in tessuti pregiati, è stata destinata a un pubblico di élite, adesso cambia aspetto e stile. La carnagione chiarissima e il volto teneramente imbronciato e marcatamente truccato, da seduttrice, vengono rimpiazzati da una pelle lievemente abbronzata e da una nuova faccia quasi senza trucco, in cui spiccano due occhioni turchini che si fissano sull’interlocutore, mentre le labbra sono atteggiate a un sorriso aperto e gioviale. Barbie Malibu sceglie definitivamente il biondo platino per la sua chioma e si presenta vestita solo di un costume da bagno celeste. La sua tenuta la rivela pronta al solito cambio di abiti: ma non si tratta più di indossare le squisite creazioni sartoriali dei primi anni Sessanta né gli audaci abiti dell’epoca mod. Le confezioni degli anni Settanta non presentano nessuna delle raffinatezze degli abiti precedenti, a cominciare dal nome. Le contraddistingue un generico best buy seguito da un numero. Allo stesso modo, gli accessori diminuiscono in numero e qualità. In com82

penso, la bambola, venduta in semplici scatole rosa acceso (le pink box), costa assai meno di prima. In precedenza solo in un momento della sua esistenza Barbie aveva goduto di una campagna promozionale a tutto campo, e solo negli Stati Uniti: in occasione del lancio di Barbie Twist ’n Turn, rendendo indietro la vecchia Barbie, ormai fuori moda, con un dollaro e cinquanta, le bambine potevano portarsi a casa la bambola con un trucco più aggiornato e un aspetto più rispettoso dei dettami della moda, nonché capacità di movimento fino a quel momento inaspettate. Ma adesso non si tratta solo di convincere le bambine a cambiare la propria bambola con una che abbia un aspetto più à la page e che si riveli in grado di ruotare il busto. Bisogna conquistare un nuovo mercato, quello più marcatamente popolare di tutti i paesi occidentali dove Barbie è già stata lanciata senza troppo successo: un mercato sostanzialmente ancora vergine perché fino a questo momento estraneo agli obiettivi di casa Mattel, interessata a un target più esclusivo. La strategia di Barbie è furba. Se sia negli Stati Uniti che in Europa, le mamme di estrazione sociale medio-alta sono generalmente più istruite e si rivelano più sensibili ai messaggi femministi (e quindi non permettono che le loro figlie giochino con Barbie, giocattolo maschilista e capitalista, a favore di tutta una serie di giocattoli che le coeve teorie psicopedagogiche ritengono adeguati a una crescita equilibrata e senza derive sessiste), nelle fasce sociali più basse, desiderose di ascesa, un simbolo di consumistica opulenza è più che benvenuto. Barbie viene così destinata alle bambine di famiglie di provenienza sociale media e medio-bassa, anche grazie al prezzo, ora decisamente più allettante. Nei primi anni Settanta, quando in tutta Europa spirano i venti della crisi economica e l’inflazione, insieme all’ascesa dei prezzi del petrolio, rende ogni giorno più costosa la vita quotidiana, in Italia si può avere Barbie anche con duemila, poi con mille e cinquecento e addirittura con sole mille lire, come recitano le pagine pubblicitarie che presentano, a scanso di ogni 83

equivoco con la concorrenza sempre più insidiosa, «la vera Barbie: la tua migliore amica». Anche gli abiti sono decisamente alla portata delle tasche meno gonfie: sempre in Italia, in particolari periodi promozionali, al prezzo di un vestito le bambine possono averne due fra i cinquanta che compongono la collezione della bambola, grazie a un buono sconto di cinquecento lire che viene offerto sulle pagine dei giornalini per ragazzi. Vero è che un intero esercito di mamme, nonne, zie, cugine e vicine di casa si apprestano con forbici, ago, filo e ritagli di stoffa per dotare le bambole di un guardaroba autarchico, ma gli slogan pubblicitari parlano chiaro: «la tua Barbie vuole solo abiti Barbie, perché gli abiti Barbie sono gli unici su misura per lei». Dalle pagine del popolarissimo «Topolino» bordate di rosa, dato che la neonata Tv dei ragazzi non è ancora intervallata da spot, Barbie, con la puntualità degna del direttore di una grande azienda, incanta le bambine dei giorni dell’austerity e del primo lassismo educativo, con l’ordinata abbondanza che offre, insieme all’agognata possibilità di sentirsi adulte immedesimandosi con lei: «Sentiti grande. Grande come la tua Barbie. Quante cose puoi fare con la tua Barbie! Prima di tutto sentirti grande. Giocare grande. Sai che la Barbie ha un’infinità di nuovi vestiti, tutti diversi, tutti bellissimi. Un divertimento solo a guardarli e a ordinarli bene nella sua elegantissima valigia». Barbie sa come ammaliare e dalle pagine dei giornalini a fumetti, quale momentanea attrazione fra una storia e l’altra, emana un fascino incomparabile, promettendo in un momento difficile e cupo la speranza di una vita spensierata. Poco le importa delle condanne emesse sul suo aspetto e sui valori che trasmetterebbe alle bambine che giocano con lei. Tutto sommato, è sopravvissuta al rogo della sua più importante fabbrica, ha ancora due occhi, due tette e due gambe, decine di pantaloni e gonne da indossare in ogni occasione e un desiderio spasmodico di ricominciare ad avere la vita piena di tutti quegli oggetti che, ai suoi occhi di signorina statunitense nata negli anni Cinquanta, risultano ancora assolutamente irrinunciabili. 84

Una nuova casa

L’intima soddisfazione di Barbie non risiede esclusivamente nel cambiarsi d’abito: le bambine lo sanno, e se non lo sanno lo imparano presto dalle pagine pubblicitarie profilate di rosa che costellano i giornalini. Negli anni Settanta, per molti versi faticosi anche per chi, con ancora i giocattoli in mano, ascolta i genitori a cena lamentarsi dei prezzi in vertiginosa ascesa e li vede tacere quando la televisione aggiorna sull’ultimo attentato, quelle pagine rappresentano il sogno a occhi aperti di una vita dispendiosa e spensierata. Ogni momento dell’esistenza di Barbie è vissuto con una leggerezza estrema, dal primo istante della mattina «fresca e allegra nella sua meravigliosa cameretta color ciclamino» fino alla tarda sera quando, prima di dormire, «siede davanti alla specchiera per i soliti preparativi: spazzolarsi i capelli, togliersi il trucco». La bambola non possiede solo una vezzosa camera da letto, ma anche mobili per tutte le altre stanze: «I nuovi mobili di Barbie sono stati realizzati seguendo le più raffinate linee proposte da arredatori ed architetti. Nulla è lasciato al caso ed è per questo che tutti i particolari – quale ad esempio soprammobili e posate – rispettano un garbato gusto moderno. Anche i tessuti che rivestono poltrone, divano, sedie, sgabelli sono nei colori e nei disegni di moda». Quando le linee funzionali dell’arredamento moderno la annoiano, Barbie può cambiarlo scegliendo mobili in stile liberty che «hanno cassetti e sportelli veri, cuscini e piccoli segreti». Tutto trova ampio spazio nella sua casa «completamente ridisegnata nelle tappezzerie e nei pavimenti [...] molto gra85

ziosa ed elegante. Sei grandi locali completamente arredati con l’ascensore [...] alta 1 metro e 10 cm». Qualora le bambine restino basite di fronte a tanta meraviglia e non sappiano come utilizzare l’ingombrante giocattolo e le bambole già in loro possesso, in uno spazio pubblicitario tanto ampio da accogliere più fotografie e lunghe didascalie, e non importa quanto costoso, Barbie racconta la sua prima giornata nella nuova casa. Dal suo racconto le bambine potranno trarre ispirazione per giocare in modo «corretto». Giornata memorabile per Barbie. Le hanno appena consegnato le chiavi della sua nuova casa di città, perciò desidera condividere la sua gioia con gli amici, li invita tutti a visitarla e da perfetta padrona di casa li accoglie presentando loro i moderni ambienti. «Al piano terra ecco la spaziosa cucina» – dice Barbie a Cara mostrandole tutti i particolari – «ed ora passiamo in sala da pranzo». In questo ambiente fanno spicco il tavolo con due poltroncine e ci si affaccia sulla piscina circondata dal giardino. Ken e Cara, felici della gioia di Barbie, si complimentano con l’amica mentre, in ascensore, salgono al secondo piano. Qui, nel soggiorno, Cara conversa, comodamente seduta sul divano con Skipper, in attesa di Barbie che sta mostrando a Ken la stanza attigua, adibita a studio; Ken potrà sedersi comodamente in poltrona e consultare alcuni libri della biblioteca di Barbie. «Ma c’è ancora un piano da visitare!» – dice Cara, mentre in ascensore raggiungono il terzo piano. «Com’è allegra la tua camera da letto... e c’è anche la camera degli ospiti». Così dicendo Cara batte le mani, complimentandosi per il raffinato gusto dell’amica nella scelta delle colorate tappezzerie e del raffinato arredamento. Ken ha sempre più dell’ammirazione per la personalità della sua amica Barbie che sa primeggiare in tutte le occasioni e commenta: «Una casa stupenda e, benché su tre piani, l’ascensore la fa più comoda e razionale!». «Brava Barbie!» – ripetono continuamente, complimentandosi con lei gli amici.

Ascensore privato, giardino, piscina: non sono pochi i lussi che Barbie si concede in mezzo alla generale approvazione, 86

ma soprattutto non sono i soli. I confini del suo universo non ricalcano le mura domestiche. Per le sue scorribande Barbie ha diverse automobili: «una stupenda vettura color ciclamino» con cui può correre «all’impazzata sente[ndo] il vento fra i capelli» ascoltando la musica proveniente dalla radio o dal mangianastri posizionati sul cruscotto; una «Volkswagen Golf Cabriolet [...] lunga ben 50 centimetri [con la] capote per le giornate più fresche [e che] quando Barbie decide di fare una gita all’aria aperta [...] viaggia completamente aperta»; in più può contare su uno scooter per i «sentieri più impervi, anche perché lo Scooter ben si presta a questo genere di corsa libera [per andare] poi via allegramente al suono del clacson». Auto e moto le servono per raggiungere quello che per le ragazze, secondo lei, dovrebbe essere uno dei luoghi più importanti, il salone di bellezza. Nel suo Salone di Bellezza, Barbie si è lavata i capelli, proprio come si fa da un vero parrucchiere, con l’acqua che scende da un rubinetto apposito. Tu lo hai visto fare tante volte ed ora lo metti in pratica con la tua Barbie, le attorcigli i bigodini in testa, la metti sotto il casco e quando uscirà, la tua Barbie avrà i capelli lucidi e vaporosi. Infatti, ecco la tua Barbie che si ammira allo specchio e, dal sorriso, sembra piuttosto soddisfatta. Ma ora facciamo un leggero trattamento di bellezza al viso, poi mettiamo un po’ di trucco ed è fatto! Comodo questo Salone di Bellezza, vero? C’è proprio tutto e la tua Barbie è felice, ora più bella che mai.

Fresca di parrucchiere e con il trucco appena fatto, Barbie può concedersi una sosta al ristorante: «Un ristorantino alla moda in cui, quando il tempo lo permette, si può fare colazione all’aperto, attorno ad un tavolo, sotto l’ombrellone e seduti su comode sedie. Nella vetrinetta si possono scegliere: frittelle, kraffen [sic], hamburger, spuntini che stuzzicano l’appetito». Per mantenersi in forma la fanciulla pratica con estremo successo gli sport più diversi: il tennis; l’equitazione con Tim87

bo, un cavallo che «con estrema agilità salta la siepe anche perché Barbie sa guidarlo con perizia, stringendo le redini perché è dotata di mani prensili»; il windsurf «in bikini a strisce bianche e rosse [...] sulle onde lunghe del Grande Oceano»; la vela, con un catamarano «agile, coloratissimo con un albero alto 90 cm e con il timone perfettamente funzionante»; lo sci e volteggiando sulle piste si fa vedere sulle pagine pubblicitarie con didascalie che contraffanno le voci di commento per la sua apparizione. E quella che scende spericolata dalla pista più ripida? Sì, proprio quella in gran completo sci con cappuccio in pelo... Ma è ancora lei, Barbie, insieme a Ken, sui campi da sci di Sun Valley, nel Colorado. Bastoni, scarponcini, occhiali da neve: e pensare che appena la settimana scorsa faceva il surf ai Tropici!

Dalle spiagge tropicali alle cime montane. Del resto, Barbie è una professionista delle vacanze, che affronta sempre al volante: ha un camper che «all’arrivo si divide in una agile automobile ed una comodissima casetta completa di tutto»; una casa mobile «ideale per lunghe e indimenticabili vacanze a contatto con la natura [...] fornita di letti a cuccetta, tavolo e sedie, fornello, lavello, doccia e tanti altri utilissimi accessori»; una roulotte accanto alla quale Barbie può montare una piscina. Barbie con la sua Roulotte è sulle rive del lago a trascorrere le ultime vacanze. Il sole è ancora caldo e la Roulotte offre tante comodità, da non far rimpiangere la propria casa. Con Barbie, sono Ken e Skipper, hanno girato la Roulotte in modo da avere anche il finestrone posteriore, che fa anche da tavolo, rivolto verso il lago. Ken è già seduto, perché stanco della lunga nuotata, mentre Barbie ha finito di attaccare gli adesivi colorati anche sulla parete che fa da parasole. Skipper ha preparato i sacchi a pelo per la notte ed ora programmano la giornata di domani e tu farai risplendere il sole per la tua Barbie. Ed ora tutti in piscina! La Piscina di Barbie è molto bella e grande, Barbie può comodamente fare il bagno, nuotando 88

e tuffandosi dal trampolino, mentre a Skipper piace tuffarsi dallo scivolo e fare «shciaf!» nell’acqua. Il sole è ancora caldo e Barbie ne approfitta per mantenere la tintarella conquistata al sole estivo, è comodamente sdraiata sul materassino e pensa a quanti metri ha fatto nuotando, se ha percorso ben dieci volte la piscina che misura 40 cm.

Su queste pagine le bambine degli anni Settanta coltivano i loro sogni consumistici e sperano nelle festività o nei compleanni quando genitori altrimenti risparmiatori si interrogheranno sui gusti della loro piccolina. Possono scegliere tra Barbie Western «bellissima: grandi occhi meravigliosamente truccati, abito western con frange con una stupenda gonna lunga, cappello e stivaletti [con] un cavallo splendido: Dallas» e Barbie Jeans con «scarpe da tennis bianche, jeans e coloratissime t-shirt [...] pronta per un’allegra festa con gli amici, una capatina in città a fare compere al supermercato o una divertente scampagnata»; tra una Barbie Fotomodella «che si muove con sicurezza davanti all’obiettivo [...] in pantaloni, con la sopragonna e i capelli sciolti sulle spalle o con il mantello che le copre le spalle» e Barbie Principessa «con uno stupendo abito lungo da ballo [...] una vera corona e la regale fascia con lo scettro», tra Barbie Coiffure dai «nuovi capelli magici [che] tengono realmente la piega» e Barbie 16 Anni con «un bel visino fresco e ingenuo, una pettinatura semplice, e un abitino da festa molto elegante [e con] pettine e spazzola, creme per la tintarella, profumo e un completino modernissimo di blue jeans»; tra Barbie Mani Vere che «può portare in tavola un vassoio» e Barbie Ballerina che «esegue sulle punte i balletti più impegnati»; tra Barbie Sposa che «per l’occasione sfoggia un radioso sorriso» e Barbie Superstar «protagonista sia nella vita che nel teatro», deliziosa quando è seduta nel suo «camerino così bello che fa spettacolo». Le bambine che già hanno ricevuto il necessario per far fronte alle esigenze della sobria fanciulla bionda, possono 89

trovare «uno splendido purosangue bianco [che] guida la Carrozza di Barbie, preziosa nelle sue decorazioni floreali e nella lanterna, con il mantice regolabile ed i pannelli laterali intercambiabili», oppure due nuovi amici di Barbie, Tracy in «classico abito bianco lungo, velo in tulle e bouquet variopinto» e Todd in «frac a due colori, camicia e farfallino», pronti a convolare a nozze. Alle bambine italiane l’appuntamento settimanale con l’amica Barbie sulle pagine di un famoso periodico infantile sembra bastare. Alle fillettes d’Oltralpe invece, è riservato, un trattamento assai più raffinato: per loro, che avevano gratificato con un immediato successo Barbie sin dal 1963, nasce al principio degli anni Ottanta il Club Barbie. Non si tratta, in terra giacobina, dell’ennesimo prodotto, mirato alle infanti, di una disposizione secolare all’associazione: nel club, voluto da casa Mattel, non trovano posto appassionate e appassionati della bionda fanciulla statunitense che si incontrano per magnificarne le virtù (e magari scambiarsi modelli esclusivi di abiti da sera), ma bambine, spesso in compagnia delle loro mamme, che in Barbie hanno il loro balocco preferito e che nel club trovano l’occasione di intrattenere un rapporto con la loro eroina. Associandosi al club, ogni bambina attiva una relazione diretta e unica con Barbie, grazie all’uso sapiente della corrispondenza. Per chi non riceve lettere né dalla nonna né dalla zia, essere periodicamente la destinataria di una missiva personale ha un impatto emotivo rilevante, tanto più che i plichi sono personalizzati e contengono sempre un piccolo regalo, un libretto, dei giochi, dei gadget e così via. Barbie, per le bambine francesi, cessa così di essere solo una bambola per diventare un’autentica compagna di giochi, cui legarsi anche affettivamente, almeno per un paio d’anni, tempo medio di appartenenza al club. In questo periodo, che può peraltro diventare più lungo, Barbie può diventare la depositaria di un incondizionato affetto, che si esprime con l’invio di disegni, di regalucci e di lettere su lettere, piene di atten90

zioni, a Chantilly, 60641 Cedex, l’indirizzo del club. La struttura, che al compimento del quindicesimo anno, nel 1998, ha meritato il Gran premio europeo per il marketing, secondo i suoi responsabili ha il fine di incrementare le vendite. Non abbiamo missioni pedagogiche o educative nel club. Il nostro scopo è quello di utilizzare questo formidabile strumento che è la posta personalizzata per fidelizzare la nostra clientela di ragazzine. Abbiamo un canale privilegiato per presentare i nostri prodotti.

Tuttavia, proprio attraverso la relazione affettuosa che Barbie intrattiene con le sue amiche di penna passa una serie di consigli che modellano le coscienze delle signorine occidentali; naturalmente, non si tratta di moniti sempiterni: Barbie con la stessa spumeggiante vivacità con cui cambia abito segue principi morali aggiornati ai tempi e alle mode, riuscendo al tempo stesso – modello esemplare di coerenza – a mantenere intatta la sua personalità.

Buone maniere

Attraverso le pagine delle riviste per bambini e le lettere che periodicamente ricevono bimbe come quelle francesi si entra a far parte del mondo di Barbie: un mondo che, in quegli anni Settanta che passeranno alla storia come «anni di piombo» e che segnano il traumatico passaggio della società occidentale alla postmodernità, continua a mantenere per la bionda fanciulla un aspetto rassicurante. Malgrado l’adeguamento al tempo che passa, e che allontana sempre di più dagli ordinati anni Cinquanta, in cui si poteva sistematizzare tutta l’esperienza umana per riporla ordinatamente dentro i pensili di una cucina all’americana, Barbie si rivela perfettamente in grado di mantenere vivo e forte il legame del nuovo turbinoso tempo con il passato recente. Nel corso degli anni Settanta, quando le strade delle città italiane cominciano a essere percorse da cortei di protesta, i più colorati dei quali composti da donne che reclamano il diritto a una vita completa e non complicata dalle rigide convenzioni borghesi, Barbie inizia a essere la felice protagonista di vicende narrate in vistosi libri illustrati, all’interno dei quali «insegna molti segreti del suo successo come perfetta padrona di casa». Dalle pagine di questi volumetti «allegri e utili, in cui Barbie vi invita in campagna, al mare, al circo e a seguirla in tante, tantissime avventure», vengono impartiti quei precetti che risulta sempre più difficile far giungere a destinazione, ora che le teorie del dottor Benjamin Spock sono diventate patrimonio comune e bambini e bambine vengono educati con pochi divieti e molte concessioni: valori che la 92

movimentata società del tempo sembra aver dimenticato a favore di un pericoloso e inelegante permissivismo. Il primo libro della biblioteca di Barbie si intitola La Casa di Barbie e racconta del trasloco della fanciulla in una nuova casa e della festa inaugurale. Sia nella trama del racconto che nelle didascalie delle illustrazioni, Barbie, ormai definitivamente bionda, non perde occasione per elargire consigli che le madri dei figli maschi troverebbero disdicevoli se indirizzati alla loro prole. I primi riguardano la cura della persona. Barbie illustra la ginnastica «per snellire il collo, per migliorare il busto [qualsiasi cosa ciò significhi] per rinforzare la spina dorsale, per snellire i fianchi, per assottigliare la vita, per eliminare la pancetta», svela «il segreto dei suoi capelli lucidi e morbidi», che consiste nel risciacquarli con camomilla e succo di limone; apostrofa come «sciocche le ragazzine che si mangiano le unghie o non si preoccupano di curarsi le mani», che sono «il nostro biglietto da visita»; snocciola con sicurezza «consigli utilissimi antibrufoletti», che invitano le lettrici a stare attente alla dieta, evitando salame, cioccolato, fritti, cibi piccanti e aprendo la giornata con acqua minerale e yogurt, a usare il latte detergente ogni giorno, a pulire ogni settimana il viso con il vapore prima di stendere una maschera di bellezza. Da perfetta padrona di casa quale nell’introduzione promette di essere, Barbie non si limita a fornire consigli sull’aspetto fisico, ma suggerisce anche le ricette adatte per una festicciola: frullato di pomodoro, spuma di latte, pesche alla Melba, prugne in sorpresa, triangolini, frullato di uva, frullato di pomodoro, tartine... Alcune pagine più avanti, mentre scorre il racconto della festa, nelle didascalie Barbie continua a elargire i suoi suggerimenti per decorare un tavolino rovinato e preparare fiori di carta, tovagliette decorate, contenitori per la corrispondenza, tappeti di stoffa intrecciata e copriletti fantasia, tutti da realizzare «con pazienza e con buon gusto». Dopo il bricolage, c’è anche posto per il giardinaggio (con l’istruttiva didascalia «Come coltivo i gerani», sotto l’illustrazione che vede Barbie e Ken comodamente seduti in giardino, 93

mentre Skipper si dà da fare con l’innaffiatoio). Quanto dopo la lettura è stato appreso, ricorda la chiusa del testo, «è merito di un trasloco e della nuova casa di Barbie». Ma quante sono arrivate fino alla fine del volume non vengono graziate dal finale. Proprio all’ultima pagina, non a caso intitolata I consigli di Barbie, la saputa fanciulla non può non concludere con le sue ultime perle di saggezza: «Quando i denti crescono di traverso, ci vuole un apparecchio apposta e più di un anno di pazienza fra i dodici e i tredici anni. Quest’apparecchio dà un esito straordinario e crea un sorriso perfetto». E ancora: «I capelli vanno spazzolati: dalla nuca verso la punta delle ciocche; dalle tempie verso la punta delle ciocche; dalla fronte verso la punta delle ciocche». Oppure: «Quando le scarpe si bagnano per la pioggia occorre metterle dentro l’apposita forma, e riempirle di carta di giornale. Quando sono asciutte, alla sera, vanno lucidate per l’indomani». Bassa profumeria e alta economia domestica si mescolano perfettamente, in un cocktail tutto sommato assai poco pericoloso per chi lo trangugia, in quanto non gli (o le) si chiede altro se non il rispetto di alcune forme esteriori, di una precettistica impregnata di moralismo ma fondamentalmente priva di ogni morale. Sin dal loro primo apparire, nel 1558, nel Galateo di Giovanni Della Casa certe norme di comportamento non avevano mirato alla costruzione di azioni meritorie ed edificanti, ma all’elaborazione di un modo gradevole di stare in società. Giovanni Della Casa aveva scritto tenendo bene a mente le necessità di «chiunque si dispone di vivere non per solitudini o ne’ romitori, ma nelle città e tra gli uomini». Egli aveva sottolineato come nella quotidianità, i valori di magnanimità, liberalità, «giustizia, fortezza e le altre virtù più nobili» solo «rade volte» si è «constretti a dimostrare»; al contrario è necessario esercitare spesso «la dolcezza de’ costumi e la convenevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole». Il testo ospitava quelle norme necessarie alla convivenza sociale, senza dettare alcun vincolo morale per quanti le esercitassero. 94

La sostanziale amoralità del Galateo e il fatto che la precettistica che ospitava fosse esclusivamente formale, rifuggendo dal faticoso esercizio sostanziale della virtù, destinarono il libro sin dal momento della sua comparsa a un enorme successo in tutta Europa. Sulla base del suo contenuto si elaborano i protocolli cortigiani e diplomatici nonché le maniere del «vivere civile». Come ogni grosso successo, non fu esente da imitazioni: nel corso del Sei e del Settecento, e poi ancora con maggiore vigore nell’Ottocento aumentarono i testi – detti non a caso galatei – che insegnavano a lettori e lettrici le buone creanze. Lasciando a Della Casa il compito di illustrare le norme generali, altri autori si incaricarono di precisare le regole il cui rispetto conveniva a singoli soggetti. Si tratta di una miriade di pubblicazioni, sempre più puntigliose nel classificare forme, modi e luoghi, che accompagnano per secoli la storia europea fino alla contemporaneità. Fu proprio il passaggio alla società industriale a incrementare in maniera esponenziale le pubblicazioni sui migliori modi di comportarsi nei diversi momenti, complice una nuova mobilità e una ricca sociabilità che aumentava le occasioni di incontro collettivo. Furono più spesso le donne a incaricarsi di stendere i decaloghi, che si moltiplicarono ulteriormente nel corso del Novecento fino a diventare, nell’Italia del boom, autentici successi editoriali. L’Italia che smetteva i panni contadini per vestire quelli cittadini sentiva il bisogno di sgrezzarsi, di abbandonare le spicce maniere rurali per modi urbani, signorili, che assai più di qualsiasi bene tangibile legittimassero l’ascesa sociale e il nuovo benessere. Un capolavoro del genere è Il saper vivere di Donna Letizia di Colette Rosselli, edito nel 1960, che dipingeva tra le righe un’Italia da jet-set: si tratta di un testo che, con i suoi corredi di nozze contenenti otto tappetini per il bagno, diciotto asciugabicchieri di lino e diciotto asciugapentole di canapa, nonché con le occasioni di incontro con un’altezza reale («di Principi oggi se ne incontrano un po’ dappertutto: ai ricevimenti, nei 95

luoghi di villeggiatura e di cura, sui transatlantici»), serve più a far sognare che a dare consigli di una qualche utilità. Una quotidianità dorata è quanto mai lontana dalle fatiche che le lavoratrici italiane, sempre più divise fra casa, figli e lavoro, devono affrontare ogni giorno: se, quindi, il libretto di Donna Letizia ha un grande successo, le lettrici spesso gli affiancano i fascicoli, dall’orizzonte assai più modesto, della Grande enciclopedia della donna dei Fratelli Fabbri, che esce settimanalmente in edicola dal 27 ottobre del 1962 al primo ottobre del 1966. Ancora una volta, regole su regole si affastellano per disciplinare signorine e signore italiane, alla ricerca di un equilibrio fra i diversi obblighi: le faccende domestiche e le cure per piacere al consorte, i fornelli e la vita professionale. Lo spirito sotteso ai consigli che vengono generosamente elargiti dalle pagine patinate della Grande enciclopedia della donna è impregnato da una (sconcertante, visti i tempi) consapevolezza della sostanziale minorità, fisica e psichica, della figura femminile, la cui sudditanza nel mondo del lavoro come fra le mura domestiche è necessaria alla felicità collettiva. Nei sovversivi e femministi anni Settanta un certo tipo di pubblicazioni non scompare, ma viene fondamentalmente rivisitato. Latrice di uno sguardo scanzonato e provocatorio sulla congerie di norme che sono indirizzate alle donne e che postulano una condizione di subalternità è la giornalista Brunella Gasperini, autrice alla metà del decennio di una disinibita Guida utile, divertente, aggiornatissima ai misteri del galateo che cambia. Un ironico sorriso pervade l’intero scritto, che annota i rapidi cambiamenti di costume della società italiana con una partecipe bonarietà, come si può leggere nella premessa. Più che un libro di galateo, questo si può dire un libro di controgalateo. Il galateo tradizionale infatti è oggi un anacronismo: una sovrastruttura corrosa, che non regge più alle spinte del nostro tempo svelto e concreto. Già la parola, galateo, fa pensare a una sorta di stereotipata coreografia, a un insieme di regole fisse, passi obbligati, frasi fatte e 96

gesti di rito, oggi svuotato d’ogni vitalità e d’ogni autentico significato. Il ritmo, lo spirito, le situazioni del tempo in cui viviamo richiedono ben altre cose: cose come elasticità, immediatezza, buon senso, spirito critico, ironia. [...] Allora, il nuovo galateo, o controgalateo, vuol dire sovvertimento, distruzione, linciaggio del galateo? Ma no: non proprio, non sempre, non del tutto. Vuol dire se mai revisione, aggiornamento, discussione, demistificazione. Vuol dire riconoscere che la cortesia formale, senza il sostanziale contenuto di reciproco rispetto e disponibilità, è un involucro vuoto, da buttare. Vuol dire, quindi, cercar di sostituire buon senso, spontaneità, elasticità, umorismo a quelle rigide e ormai logore sovrastrutture convenzionali che intralciano, invece di agevolarli, i rapporti umani così profondamente mutati. Questo libro non ha pretese didattiche. È semplicemente una serie di annotazioni basate sulla realtà, cioè sull’osservazione quotidiana del nostro prossimo, così come mi capita di vederlo e di sentirlo nella pratica consueta del mio lavoro e della mia vita privata. [...] Forse, anzi di certo, qualcuno si scandalizzerà: pazienza. Io guardo la realtà com’è, non come si vorrebbe che fosse. È dall’osservazione della realtà, e non dai dogmi, che si può cercar di capire che cosa funziona e che cosa non funziona più, che cosa bisogna difendere, che cosa abolire, che cosa modificare, che cosa aggiungere. In conclusione: se il galateo inteso tradizionalmente vuol dire «guida al modo di apparire», il nuovo galateo, o controgalateo, vuol dire «guida al modo di essere» e quindi di vivere il più sensatamente possibile, in questo tempo per molti versi insensato.

Dopo secoli di probi consigli, l’invito alla «sensata naturalezza» appare decisamente rilassante: ma questo savoir vivre che mescola l’ironia e la consapevolezza dell’inevitabile cambiamento (in meglio) della società, non diviene con facilità patrimonio di quante vedono nelle regole formali una fonte di certezze. E anche se della moda anni Settanta, Barbie ha tratto una carnagione abbronzata e un abbigliamento più informale, dell’atmosfera del periodo non riesce a cogliere lo spirito libertario e continua, imperterrita, dalle pagine dei suoi libri a dettare quelle norme che perpetuano una sempre più evanescente «mistica della femminilità». 97

La «vie en rose»

Rosa: tutto l’universo di Barbie è incontestabilmente rosa. Rosa carne, rosa cipria, rosa buganvillea, rosa bon bon, rosa salmone, rosa ciliegia, rosa shocking, rosa fragola, rosa malva, rosa baby, rosa peonia, rosa confetto, rosa ciclamino, rosa albicocca, rosa lilla, rosa lampone, rosa lollipop, rosa antico, rosa pesca, rosa fucsia, rosa caramella... Lucido, iridescente, opaco, fluorescente, matto, diafano, scintillante, madreperlato, opalescente, glitterato, velato, paillettato, luccicante... purché rosa. Barbie non nega di avere una spiccata simpatia per questo colore nelle sue più svariate declinazioni. In un’intervista rilasciata al principio degli anni Ottanta a Laura Jacobs, confessa: Tutti quelli che mi conoscono sanno che la mia firma è il rosa. Questo colore si addice perfettamente al mio carattere e, in tutti questi anni, l’ho sempre portato con grande gioia. Un rosa morbido era la mia sfumatura preferita tanti anni fa e, a mio parere, l’abito di plumetis rosa pallido del primo anno è ancora incredibilmente grazioso. Due anni dopo ho sfilato con un abito color crema con la gonna drappeggiata, forse la creazione più femminile che abbia mai indossato oltre che un capolavoro di stile. Quando nel 1962 ho vinto il concorso fotografico di un giornale per ragazze e ho passato l’estate a New York lavorando al giornale come modella e giornalista ho imparato che il rosa è uno dei colori che valorizza meglio la carnagione: ecco perché un ombrello rosa riesce a essere un accessorio perfetto e perché alcuni dei cappellini più belli sono rosa. 98

Negli anni Sessanta anche il rosa confetto è entrato a far parte del mio guardaroba con un abito di satin con boa di struzzo che mi faceva il solletico al naso, e con un superbo abito da sartoria bordato in satin rosa: molto parigino! Il mio abito preferito degli anni Settanta era a quadri bianchi e rosa con le maniche di organza e nastri di velluto nero al collo e ai polsi: lo conservo ancor oggi in un portabito, naturalmente rosa! E un maglione che ho molto amato è quello del 1986 con il collo a ruches, naturalmente color rosa chewing-gum. Il rosa carico e il rosa shocking, e molte sfumature del lavanda (il colore delle favole, cugino del rosa) sono entrati a far parte del mio guardaroba negli anni Ottanta, un’epoca di colori più forti, più carichi, e il mio trench di un magenta esagerato del 1988 è portabile altrettanto bene con un abito senza spalline e con una tuta.

Ma non sono solo la maggior parte degli abiti di Barbie a essere inesorabilmente rosa. Rosa è la scatola dalla quale sorride civettuola dagli scaffali dei grandi magazzini. Rosa sono le pareti della sua casa, rosa le sue automobili, dalla vecchia Corvette ai più nuovi e rombanti modelli, rosa la roulotte e rosa la moto, rosa i decori della piscina e i mobili delle diverse stanze, rosa sono la lavatrice, la lavastoviglie, il frigorifero, e rosa sono ancora piatti, bicchieri, posate. E virata in rosa è ogni cosa che parla di lei: profili rosa hanno le pagine pubblicitarie che la vedono protagonista, volute rosa ornano le copertine dei libri a lei dedicati. Sfidando ogni parvenza di buon gusto, a partire dagli anni Settanta, Barbie coltiva la monomaniacalità cromatica con una dedizione incrollabile e insospettata fino a quel momento. Nei suoi primi dieci anni di vita, infatti, la fanciulla ha fatto uso di tutte le sfumature dell’arcobaleno, non ostentando alcuna preferenza fra le diverse tinte che i disegnatori della Mattel le propongono di utilizzare in ogni occasione, sia per gli abiti che per diversi oggetti. Ma quando, negli anni Settanta, la fanciulla, in un momento deludente, decide di andare alla conquista di nuovi spazi, si costringe giocoforza a inforcare le lenti dell’ottimismo e colora la sua vita di un rosa inequivocabile. 99

Negli anni Quaranta, nell’Europa ingrigita dal conflitto, Edith Piaf cantava: «Quand il me prend dans ses bras / Il me parle tout bas / Je vois la vie en rose» (quando lui mi prende fra le braccia e mi parla sussurrando vedo rosa la vita). La vie en rose è una vita priva di ennui, di malumori, di chagrin, di rimpianti, piena di amore, di fiducia, di entusiasmo, di felicità. Il colore rosa serviva nel testo scritto dalla stessa cantante a evocare quei particolari significati che all’interno della cultura occidentale tradizionale generalmente sono attribuiti al rosso. Il rosso è il colore per eccellenza. Per la cultura cristiana, il rosso richiama il sangue, ossia ciò che dà la vita, che purifica e che santifica. Rosso è il sangue versato sulla croce da Gesù Cristo; rossa la fiamma dello Spirito Santo. Rosso inoltre è il colore del dinamismo: le sue vibrazioni sono tali che un oggetto rosso sembra più vicino all’occhio di chi lo guarda di quanto lo sia in realtà. Per la cultura progressista, rosso è il sole dell’avvenire, speranza per gli sfruttati che sognano un mondo migliore. Rosso acceso è il colore dell’infanzia, dei giocattoli, delle confetture e dei frutti più golosi. Rosso, soprattutto, è il colore del lusso e della festa. Nell’antichità il tessuto più prezioso era quello tinto con il murice che gli conferiva un sontuoso color porpora e non a caso, in molte occasioni, solo all’imperatore era concesso abbigliarsi di quel colore. Nel Medioevo e in età moderna, in molti luoghi, le leggi suntuarie riservavano all’aristocrazia l’abbigliamento scarlatto. I tessuti vermigli erano, infatti, i più preziosi, non solo per il valore simbolico del loro colore ma anche perché le tecniche dell’arte tintoria non assicuravano buoni risultati per colori diversi dal rosso. Fino all’Ottocento inoltrato, quando vennero messi in uso coloranti sintetici, per i tessuti erano utilizzate tinture vegetali: il guado per ottenere il blu, il granoturco o la ginestra per il giallo, l’ortica e le foglie di betulla per il verde, le noci per il nero, le foglie di ontano per il grigio e così via. Tuttavia, i colori ottenuti da queste materie non penetravano bene nelle fibre del tessuto. Le stoffe blu, 100

verdi, gialle, nere, con la pioggia e con i lavaggi, con l’aria e con il sole, sbiadivano facilmente e inesorabilmente, assumendo un aspetto polveroso, velato. La robbia, colorante utilizzato per ottenere il rosso, invece, garantiva risultati migliori: penetrava profondamente nelle fibre tessili e resisteva meglio all’acqua, all’aria e alla luce. Non a caso rosse erano le stoffe destinate agli abiti da cerimonia. Da qui e dal valore simbolico del rosso, dipendeva il fatto che gli abiti da sposa fossero, fino al XIX secolo, generalmente rossi. Tuttavia, il rosso ha un valore ambivalente. Le sfumature scarlatte indicano l’errore, il pericolo: in rosso sono sottolineati gli errori sui compiti scolastici; utilizza il rosso la segnaletica stradale, ferroviaria, marittima, aerea per indicare i divieti; rossa è una zona piena di insidie; rossa è la linea di attacco durante i conflitti; nell’America che non riesce a dimenticare la Guerra Fredda rosse sono le bandiere comuniste; rosso il telefono per scongiurare un conflitto mondiale; rosso l’allarme che indica l’emergenza estrema; rosse le fiamme dell’inferno. Anche in riferimento alla figura femminile i toni scarlatti presentano significati negativi accanto a quelli positivi: se rosso è l’abito nuziale, peccaminosamente rossa è la biancheria delle prostitute e sgradevolmente rosso è anche il sangue mensile che rende, nella credenza popolare, le donne impure e la femminilità pericolosa. Il rosa è un parente stretto del rosso, appartiene alla medesima scala cromatica ed è, nella cultura occidentale, il colore per antonomasia delle femminucce appena nate, così l’azzurro lo è per i maschietti. L’uso di attribuire ai bebè, rispettivamente, l’azzurro se maschi e il rosa se femmine era una pratica nata nell’Ottocento tipica dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. Si sarebbero dati ai neonati i colori della Vergine, al fine di essere protetti nel periodo difficile e pericoloso della prima infanzia. Tuttavia, mentre l’azzurro sin dal XII secolo è il colore della Vergine Maria, il rosa non lo è e non lo è mai stato. Il secondo colore della Vergine, dopo la 101

proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione nel 1854, è il bianco. Inoltre, il fatto che questa abitudine sembri più radicata nei paesi protestanti che in quelli cattolici rimarca il fatto che essa non può essere messa in relazione al culto mariano. La coppia azzurro/rosa può essere invece una declinazione della coppia blu/rosso. Si tratta di colori pastello, ovvero bianchi leggermente colorati, in cui il bianco richiama la purezza e l’innocenza, legate alla nascita di un nuovo individuo, mentre il viraggio diverso rispetto al sesso riprende una distinzione nata alla fine del Medioevo: il blu è maschile e il rosso è femminile. La definizione di genere che il blu e il rosso assumono e la loro opposizione si fondano su vaghe considerazioni simboliche e hanno valore solo quando i due colori sono giustapposti: il blu è maschile nella misura in cui è abbinato al rosso e viceversa; soli, o associati ad altri colori, rosso e blu sono sprovvisti di questa connotazione. Invece celeste e rosa, e soprattutto quest’ultimo, anche se non sono appaiati, mantengono il loro significato legato al genere e in base a esso vengono attribuiti, indossati e utilizzati. E mentre il celeste, malgrado indichi preferibilmente il maschio, può essere portato anche dalle femmine, senza tema che l’identità sessuale simbolica ne soffra, il rosa, quando è attribuito al maschio, indica lo scherno, è beffa della virilità: non a caso, rosa era il triangolo che nei campi di concentramento nazisti gli omosessuali erano costretti a esibire sulla giubba. Il rosa, quindi, nel Novecento, è il colore femminile per eccellenza e nel corso del secolo arriva a rappresentare tutti i valori positivi della femminilità, senza che conturbanti bagliori amaranto ne vengano a ricordare possibili aspetti spiacevoli. Presente in natura in piccolissime quantità, quasi mai in una tonalità uniforme, ma sempre compatto, il rosa, nelle sue gradazioni più sature, è uno dei colori che conosce un grande successo nella rivoluzione cromatica e del gusto operata dai movimenti hippy. Contro la «cromoclastia» di origine protestante, che viene ereditata dalla civiltà borghese di fi102

ne Ottocento e che in parecchi ambiti importanti della vita religiosa e sociale (il culto, l’abito, l’arredamento, l’arte, gli affari e così via) raccomanda ancora in pieno Novecento un sistema di colori interamente costruito attorno all’asse nerogrigio-bianco, i figli dei fiori dimostrano un amore sviscerato, e naturalmente contestatario, per i colori accesi, carichi, vibranti: giallo, arancio, verde erba e verde acido, turchese e, naturalmente, rosa, nelle sue molteplici nuance. I maschi non si fanno scrupolo di indossare abiti rosa: la loro ribellione è accesa anche contro la rigidità borghese dell’identità sessuale. Vestirsi di rosa per un uomo significa far mostra di accettare anche la propria parte femminile, di costituire quel perfetto insieme Tao in cui yin e yang, il maschile e il femminile, il freddo e il caldo, il luminoso e l’oscuro si compenetrano, formando un essere completo. Tutto ciò non serve a sdoganare definitivamente il rosa dal significato che ha assunto nell’immaginario occidentale. Se nella sfumatura più tenue esso comincia a fare capolino nei guardaroba dei gentiluomini degli anni Ottanta, è per testimoniare una sorta di anticonformismo; ma, in effetti, il rosa continua a essere colore femminile, in qualsiasi modo si interpreti la parola «femminilità». «Rosa» si intitola quel «quaderno di studio e di movimento sulla condizione della donna» che viene periodicamente pubblicato in Toscana fra il 1974 e il 1976 e che intende essere uno strumento di lotta politica. Rosa è, però, anche il colore preferito della famosa scrittrice Barbara Cartland e la nota cromatica più incisiva nelle copertine dei suoi romanzi e di quelli della maggioranza delle sue emule (definiti «rosa», per l’appunto), che raccontano le disavventure di un’eroina sfortunata che deve superare mille vicissitudini per coronare felicemente il suo sogno d’amore. Non è quindi un caso che Barbie scelga il rosa, colore femminile e romantico. Rosa è anche il colore dell’alba e dell’aspettativa inconsapevole e felice, il colore della fiducia: in103

dossare gli occhiali rosa significa guardare alla vita con ottimismo, confidando nelle proprie capacità per raggiungere gli obiettivi propostisi. Una dichiarazione di intenti, formulata da Barbie a partire dalle pink box, le scatole rosa che le fanno da cornice proprio negli anni Settanta, in uno dei momenti più difficili della sua esistenza. Il rosa dell’involucro, come quello dei mille particolari che compongono il suo consumistico universo, altro non sono che la dichiarazione della volontà di sopravvivere in un mondo sempre più insidioso per le giovinette di narcisistici costumi degli anni Cinquanta. Poco importa se spesso le sfumature utilizzate tendano a essere squillanti e un tantino vistose, volgari. Barbie, che non ha mai nascosto la sua passione per i lustrini, non teme la volgarità. Come non teme l’ambivalenza che caratterizza il rosa. Agli occhi dell’osservatore attento non sfugge che rosea è la caramellosa sfumatura attraverso la quale tutto, anche ciò che non lo è, appare bello e desiderabile: Siegfried Kracauer, nel suo Gli impiegati, sin dal 1930, spiegava come per divenire un ingranaggio di una macchina burocratica nella società moderna «decisiva è piuttosto la carnagione moralmente rosa. Così desiderano coloro che hanno il compito della selezione. Vorrebbero ricoprire la vita con una vernice che nasconda la sua realtà tutt’altro che rosea. Guai se la morale si spingesse sotto la pelle, e se il rosa non fosse più abbastanza morale per impedire l’eruzione dei desideri». Rosa sono spesso gli abiti delle reginette del liceo, come la caramellosa vicenda di Grease ci insegna. Ma quegli stessi abiti, spesso leziosamente decorati da rose, fiocchi e nastri, in un trionfo di ingenua abbondanza, sono anche quelli indossati dalla sorridente Laura Palmer, che con l’affettata ingenuità dei suoi completi contribuisce a celare quanto di torbido si nasconde nella misteriosa cittadina di Twin Peaks. E non a caso sempre rosa sono i golfini indossati da Laura Dern e da Naomi Watts nei film di David Lynch Blue Velvet e Mulholland Drive: il colore serve a evocare un’atmosfera superficialmente felice ma, allo stesso tempo, 104

con la sua dichiarata innaturalità ricorda come sotto ogni superficie si possano nascondere oscure profondità abissali, non sempre piacevolmente esplorabili. Barbie sembra giocare con questa ambivalenza; reginetta del ballo e, in spregiudicate interpretazioni della sua personalità da parte di artisti buontemponi, irretiti dalle sue formosità, disinibita intrattenitrice in fumosi, e non sempre raccomandabili, luoghi del sottobosco urbano occidentale, la fanciulla sembra nutrire una sola, grande paura: che un mondo dove viga una signorile sobrietà condanni lei, i suoi capelli a partire da questo momento ossigenati (almeno nello stereotipo), le sue forme procaci e la sua «vie en rose» alla scomparsa.

I mille volti dell’«american dream»

Tanta pervicace fiducia nel futuro paga. Nel 1986 Barbie supera uno dei traguardi più ambiti della popolarità: i suoi occhi sgranati e il suo sorriso vengono immortalati da Andy Warhol, il modo più blasonato per essere riconosciuta come icona della cultura popolare. E gli anni Ottanta sono ricordati da Barbie con una gioia difficilmente contenibile. Finalmente la narcisistica fanciulla che per tutti gli anni Settanta ha ignorato il movimento per l’emancipazione delle donne, continuando a interpretare l’aberrato stereotipo, ora che alcune rivendicazioni appaiono sostanzialmente accettate e che le discriminazioni nei confronti delle donne destano sempre maggior scandalo, almeno nella sfera pubblica, sembra convertirsi a un pacato femminismo, come dichiara nell’intervista alla Jacobs. Nel 1980 è uscito il film 10 e, a mio parere, ha dato il tono a tutto il decennio. Le donne erano pronte a fare e ottenere tutto. Essere o non essere mogli, madri e donne in carriera perfette, questo era il problema. I personaggi femminili delle telenovelas della sera come Dallas e Dynasty, che fossero a capo di un’impresa o soltanto mogli, indossavano abiti sontuosi e completi da donna in carriera diventando esempi di una nuova élite femminile. Questa tendenza a lasciare le donne libere di prendere in mano e di crearsi il loro futuro è andata di pari passo con la moda della buona forma fisica, che, a sua volta, ha dettato i nuovi parametri della forza e delle forme femminili. I muscoli sono diventati «in», l’indolenza «out», la parola «definizione» è diventata lo slogan: non stavamo soltanto ridefinendo i nostri muscoli e la nostra vita, ma anche il nostro posto nella società. 106

Gli anni Ottanta, quindi, per Barbie comportano il vero confronto con il mondo del lavoro, un confronto che in precedenza era stato sostanzialmente rimandato, anche se la fanciulla non aveva rinunciato di tanto in tanto a vestire abiti adatti a svolgere una determinata mansione. Nei primi anni di vita, la professione di modella, che ufficialmente e ordinariamente svolge, era stata di tanto in tanto abbandonata per altre esperienze. Il primo cimento in un campo diverso da quello dell’abbigliamento consiste in ciò cui aspirano tutte le bambine che giocano con lei: fare la ballerina. E Ballerina si chiama l’insieme di abiti e accessori che è possibile acquistare per preparare la bambola ai clamori del palcoscenico. Il tutù che indossa non è però uno qualsiasi, bensì quello adatto per interpretare la Fata Confetto sulle note dello Schiaccianoci di Cˇajkovskij. Non si tratta di una scelta casuale: tradizionalmente, dalla sua prima rappresentazione, nel 1954, con la coreografia di George Balanchine, il balletto viene rappresentato nei giorni precedenti il Natale come spettacolo adatto alle famiglie. Molte delle bambine della classe media e medio-alta americana sognano di interpretare i ruoli femminili più importanti di quella che è una delle più belle fiabe da recitare sulle punte. La storia, tratta da un racconto di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, nella versione meno cruenta elaborata da Alexandre Dumas e sceneggiata per balletto da Marius Petipa, si svolge durante la vigilia di un Natale di inizio Novecento. Il sindaco indice una festa natalizia per i propri bambini, allietati dai regali e dai giochi di prestigio del signor Drosselmeyer. A Clara, Drosselmeyer regala uno schiaccianoci a forma di soldatino, che però il fratello della bambina, Fritz, rompe per dispetto. Drosselmeyer lo aggiusta. Clara, dopo tanti festeggiamenti, si addormenta e sogna: una miriade di topi, capitanati dal Re Topo, cercano di rubarle lo schiaccianoci, ma lei resiste ingaggiando una battaglia con gli intrusi, aiutata dallo stesso schiaccianoci. Alla fine della battaglia, restano in vita solo lo schiaccianoci e 107

il Re Topo, che Clara uccide tirandogli la sua scarpetta. Alla morte del topo lo schiaccianoci si trasforma in un principe. Clara e il principe intraprendono un viaggio verso la dimora della Fata Confetto dove ha inizio una grande festa da ballo: sono travolti dalle danze il caffè, il tè, i pasticcini, i fiori, finché il sogno svanisce e Clara si risveglia con il suo schiaccianoci fra le braccia. Si tratta di una storia adatta a un pubblico infantile, che Barbie interpreta con soddisfazione negli anni immediatamente successivi al suo debutto, non dimenticando di ricordare alle bambine, che sognano tutù e applausi, che la danza è una disciplina severa: le ballerine, quando smettono l’abito di scena, indossano una tutina aderente per gli innumerevoli esercizi preparatori. Del resto, in questa fase della sua vita quando, lasciato in un angolo il vezzoso tutù della Fata Confetto, Barbie è pronta a vestire altri panni professionali, come le fanciulle in carne e ossa del periodo, lavora solo in ambiti dove le qualità «femminili» per eccellenza vengono considerate insostituibili: gli unici lavori concessi dalla «mistica della femminilità», e per breve tempo, alle donne americane prima del matrimonio. Così Barbie, dal 1961 al 1964, si trova a vestire l’uniforme di hostess come American Airlines Stewardess, mentre nel 1966 lavora come Pan Am Stewardess: una professione molto ambita nell’America kennediana, fiduciosa e aperta alle novità tecnologiche, ma nella realtà esercitata solo da ragazze di bell’aspetto, in grado di servire un drink con grazia all’uomo in viaggio di affari. Più accessibili sono vesti e accessori di Registered Nurse: con il camice bianco con tanto di crestina, la mantellina blu foderata, gli occhiali con la montatura nera, la bottiglia dello sciroppo e la borsa dell’acqua calda, Barbie promette di essere un’infermiera sollecita e paziente, oltre che esperta e diplomata (a scanso di ogni equivoco, porta con sé il «pezzo di carta» che ne garantisce la professionalità). Un’occupazione molto comune fra le ragazze che ancora studiano è quella di baby-sitter, che Barbie svolge con il contenuto di Baby-Sits: un enorme grembiu108

lone, per mettere al riparo i vestiti da possibili esternazioni dell’infante, che giace in una cesta foderata; telefono e promemoria dei numeri per le urgenze – dottore, vigili del fuoco, polizia; biberon; e poi ancora occhiali, salatini, soda, sveglia e ben due libri per ingannare l’attesa: significativi i titoli, How to Travel (Come si viaggia) e How to Lose Weight (Come perdere peso), tanto per ricordare a sé e agli altri che non si è mai abbastanza in linea. Meno male che il tomo che porta con sé a lezione, quando è Student Teacher, si intitola molto semplicemente Geography: con la bacchetta brandita con estrema sicurezza e l’aria professorale, malgrado l’abito fasciante e gli altissimi tacchi rossi, Barbie non vuole impartire precetti per una sana e filiforme costituzione. Hostess, infermiera, studentessa, baby-sitter per i neonati e maestrina per i più grandicelli, cui insegna nozioni di geografia. Ma l’insegnamento più importante che Barbie dispensa è che, nella vita pubblica, si devono ricoprire quei ruoli ritenuti inadeguati per il sesso forte, per natura incapace di nutrire l’altruismo e la dedizione necessari alla cura degli altri. Così, anche negli anni Settanta, quando non si lascia irretire dalle sirene femministe, Barbie lascia il suo frenetico andirivieni tra il mare e la montagna solo per vestire il camice sterilizzato del chirurgo e continuare a servire, almeno quando si misura in una professione, alla pubblica utilità. Tanta silenziosa abnegazione viene meno con l’arrivo degli anni Ottanta, quando le donne cominciano a ricoprire incarichi fino a quel momento preclusi. Del resto, è proprio una signora, Lady Margaret Thatcher, primo ministro in Gran Bretagna dal 1979 al 1990, a figurare fra le figure più rilevanti del decennio. Il premier ha un ideale di pubblica felicità che non contempla il sostegno statale alle fasce più deboli della popolazione, credendo invece che il libero dispiegarsi dell’attività economica dei singoli, secondo i propri interessi e senza gli intralci dati dalle norme sui licenziamenti o sulla tutela ambientale, possa far aumentare il benessere economico. Le sue decisioni impopolari causano forti resistenze, cui da vera 109

iron lady, signora di ferro, risponde con durezza inusitata, svelando un volto pubblico della femminilità decisamente inedito. Non è certo questa durezza a ispirare Barbie, ma sicuramente il fatto che sempre più spesso il mondo delle professioni si dimostri aperto all’ingresso femminile, senza che la donna debba necessariamente dimostrare istinti altruistici, è un buon incentivo. Così, nel 1985 fa il suo ingresso in società Day-to-Night Barbie, una donna d’affari in tailleur doppiopetto e valigetta ventiquattrore, naturalmente color fragola. Il severo completo però può trasformarsi facilmente in una mise da sera di chiffon e lamé: come non si stancano di ripetere le riviste femminili, sotto il gessato, le donne in carriera sono quasi obbligate a vestire sete seduttive e pizzi maliziosi. Si è ormai spenta anche l’eco dei tamburi nei cortei di protesta e i falò, dove si riunivano donne in cerca di liberazione, non mandano più alcun barbaglio. La stagione dell’«impegno», naufragata negli «anni di piombo» degli attentati e della lotta al terrorismo, appare ormai archiviata. Dopo gli anni dei timori, con il passaggio dai Settanta agli Ottanta, si inaugura una nuova fase, la cui caratteristica principale si riassume nell’abusata parola «riflusso». La nausea per la politica si mescola alla riabilitazione della sfera privata; un’economia nuovamente fiorente e produttiva spalanca le porte alla pubblica esibizione del benessere. Se negli anni Settanta i figli dei fiori avevano usato l’apparenza esclusivamente in senso provocatorio, vestendo colori sgargianti o evitando ogni possibile contatto con il barbiere e sottolineando, anche attraverso l’uso di allucinogeni, la ricerca dell’autentica interiorità umana, un decennio dopo sembra che apparire ed essere, come negli anni Cinquanta, tornino a coincidere: è il trionfo dell’immagine, della bellezza dei canoni pubblicitari, dell’estetica. Gli «anni di panna» o «di pongo», agli yuppie che hanno desiderio di ostentare le ricchezze inseguite con avidità con i giochi borsistici, prospettano una ridda di locali notturni, discoteche, ristoranti dove appare d’obbligo per le 110

signore, mollato il cipiglio decisorio tenuto dalle nove alle cinque, farsi vedere in raso e paillettes vistosamente allusivi. Gli «anni del riflusso» significano, per molti aspetti, un deciso passo indietro, almeno in quegli aspetti formali che sono la sostanza dell’effimero e in cui Barbie non ha mai smesso di poter essere maestra. Del resto, Barbie, anche con le nuove acconciature e il sorriso del nuovo modello Superstar, che non ha mai sfoggiato in precedenza, conserva sempre la grazia di ragazza degli anni Cinquanta, in fondo attenta solo alla piega dei capelli. Vi unisce però un’inedita grinta post-femminista che la conduce, dopo aver vestito i panni dell’executive, a indossare a partire da quel momento, fino a oggi, quelli di istruttrice di aerobica, portavoce dell’Unicef, medico, ufficiale dell’esercito, astronauta, ballerina televisiva, insegnante di linguaggio dei segni, pilota nell’aviazione americana, ambasciatrice di pace, tennista, cantante rock, diplomatica, stella del varietà sul ghiaccio, protagonista di video musicali, pattinatrice, insegnante di storia dell’arte, attrice cinematografica, ufficiale di marina, manager, sergente dei marines, musicista rap, ufficiale di polizia, ginnasta, ufficiale medico nell’esercito, stella del circo, chef, cantante del Radio City Music Hall, giocatrice di baseball, pediatra, ufficiale durante l’operazione Desert Storm, sommozzatrice, poliziotta canadese a cavallo (ma solo in Canada), regista, pilota nei rally, insegnante di spagnolo, cowgirl, capitano dell’aeronautica, ginnasta, pittrice, poliziotta, pompiere, veterinaria, ingegnere, dentista, paleontologa, maestra d’asilo ed elementare, negoziante... Finalmente il suo fisico e il suo aspetto vistoso non sono più guardati con diffidenza. Con il trionfo dell’effimero comincia per ogni donna il quotidiano, impari confronto con lo specchio. Dalle videocassette che invadono il mercato, Jane Fonda istiga al saltello continuo, e migliaia di donne in carriera e madri di famiglia, quanto mai lontane fino a questo momento quanto ad abitudini e stile di vita, si trovano accomunate dalla tutina svelacuscinetto con lo scaldamuscolo in tinta, mentre il sudore ruscella dalle tempie come da una fonte di acqua sorgiva. In tut111

to il mondo occidentale si inaugura la gara a chi mostra il ventre più piatto, il seno più alto, il gluteo più sodo: nessuna è esente dal confronto, e poco importa se per mestiere ci si affatica le pupille sui caratteri cuneiformi o si trapiantano bulbi di piante tropicali in serre umide. Per tutte, ma proprio tutte, è iniziata la corsa all’aspetto radioso: una corsa che ancora oggi non si è fermata. In questo, ça va sans dire, Barbie ha la meglio. Inoltre, qualsiasi cosa faccia, riesce a non correre mai il rischio di incappare nella critica dell’opinione pubblica, tendenzialmente conservatrice, del decennio. Certo, vi sono dei pessimi soggetti in giro per il mondo che, complici le sue forme da pin up, si divertono a farle indossare i panni succinti di coniglietta di «Play boy», di spogliarellista, di ballerina di lap dance, dando corpo a fantasie fetish, porno, sadomaso o lesbiche. Non mancano inoltre quanti, stanchi del glamour delle sue tenute, la costringono alla mancanza di maquillage e di coiffeur, nonché a mestieri privi di qualsiasi attrattiva – contrabbandiera, donna delle pulizie in locali pubblici, precaria di call center, bidella... Nessuno, naturalmente, pensa di farla entrare dentro un archivio o una biblioteca e neppure in un laboratorio o in un osservatorio astronomico. Casa Mattel, infatti, vigila attentamente sulle sorti della sua creatura. E se da una parte avversa tutte le rappresentazioni «forti» della bambola, arrivando a combattere, peraltro spesso vittoriosamente, anche con artisti di fama internazionale (da Cat Sass a Tom Forsythe ad Albertina Carri) colpevoli di enfatizzare la sua accentuata femminilità o di utilizzarla in maniera anticonformista, dall’altra rinuncia a farle svolgere attività che comunemente sono ritenute noiose o inadatte alle donne. In ogni momento la deliziosa fanciulla si uniforma alle aspettative generali, non osando mai un passo troppo lungo, ma facendo agevolmente vedere dove può arrivare l’alluce una volta tesa la gamba: una vera strategia dell’ammiccamento che le procura sempre più apprezzamenti. E anche nei decenni successivi non dimentica la lezione. Così, nel nuovo secolo, men112

tre impazzano le campagne presidenziali negli Stati Uniti e con qualche timidezza si comincia a discutere della possibilità di una signora alla scrivania della Stanza ovale, Barbie si candida alle elezioni a capo di un Party of Girls, il partito delle ragazze, e, con un sobrio caschetto platinato che ben si accorda al severo completo che indossa, si prepara a prendere le decisioni più importanti per il pianeta. Il suo programma elettorale è fondato su valori pacifisti e animalisti, anche se la fanciulla dimostra di non avere alcun timore al momento opportuno a imbracciare le armi e servire nell’esercito, anche in operazioni rischiose. In ogni momento Barbie si dimostra all’altezza delle aspettative che aumentano nei suoi confronti, sempre conforme alle direttive del mondo occidentale e deliziosamente incurante delle contraddizioni. Barbie, tipico soggetto suburbano dell’America benestante della Guerra Fredda, soffre di quello che lo studioso David Riesman, autore di The Lonely Crowd (La folla solitaria), già negli anni Cinquanta chiamava «irrazionale bisogno di indiscriminata approvazione da parte dei propri pari»: un disturbo dal quale, malgrado il passare degli anni e il crescere di una certa affezione del mercato nei suoi confronti, la fanciulla non guarisce. Anzi, in certi momenti, come durante la guerra del Golfo, i sintomi appaiono pericolosamente peggiorare. La sua spasmodica ricerca di conformità la porta a interpretare l’«american dream», il sogno americano, intendendolo quale inesausta capacità di raggiungere il successo in ogni occasione, sotto ogni cielo, in ogni ambito. Barbie, che a prima vista sembra esclusivamente un’adepta del consumismo, rivela così di possedere quella religiosità intima che gli americani amano pensare innervi il loro spirito collettivo e quell’inveterata fiducia nelle proprie possibilità che ha animato i pionieri alla conquista di nuove frontiere. Non si tratta di una mistica avulsa dalla realtà, ma di una filosofia pragmatica, che trova la sua compiuta espressione nella miriade di manuali per raggiungere il successo, derivati 113

da quello pionieristico pubblicato per la prima volta nel 1952 dal reverendo Norman Vincent Peale e destinato a diventare un bestseller planetario, The Power of Positive Thinking (Il potere del pensiero positivo, tradotto in Italia con il titolo Come vivere in positivo, a sottolineare la natura di ricettario del volume). Quasi seguendo pedissequamente il decalogo del reverendo Peale, Barbie mostra di avere impressa «in mente in modo indelebile un’immagine felice e fortunata» di se stessa, di mantenerla viva con tenacia; soprattutto dà prova di non dubitare mai dell’immagine di successo che ha costruito. Sembra capace di formulare un pensiero positivo ogni volta che la assale un dubbio sulle sue capacità personali e di eliminare le difficoltà. Ogni mattina, qualsiasi cosa succeda, si dice «che tutto sta andando benone, che la vita è bella»: è questa granitica certezza a regalarle la palma di migliore interprete dell’«american dream», un sogno che si presenta sempre uguale a se stesso, anche se può essere reso palpabile attraverso i mille costumi diversi che Barbie conserva appesi nell’armadio.

Barbie burqa

Con il suo ottuso ottimismo della volontà, Barbie è un emblema a stelle e strisce. Anche se la sua «mamma» è un’ebrea di origini polacche; anche se la sua sorella maggiore Lilli è tedesca; anche se le sue prime ore di vita si sono consumate in Giappone; anche se in un secondo momento viene realizzata in Messico; anche se i suoi vestiti seguono prima la moda francese e poi quella inglese; anche se vengono cuciti a Taiwan. È intimamente americana per le sue ascendenze europee, che condivide fino agli anni Ottanta con la maggioranza della popolazione degli Stati Uniti; è americana per lo sguardo appassionato sulla moda parigina e londinese, malgrado alcune inevitabili cadute di stile; ma, soprattutto, è americana per la sua capacità di prendere quanto di più conveniente il mondo offre e piegarlo ai propri fini: sono i meccanismi della sua fabbricazione a renderla americana fino al midollo. Alla fine degli anni Cinquanta sembra impossibile tanto in Europa quanto in America trovare un’azienda in grado di fornire le cerniere in miniatura necessarie alla confezione di un abito di Barbie – dicono alla Mattel –, solo in Estremo Oriente vi è una manualità tanto raffinata. Così la Mattel fonda in Giappone la YKK, una compagnia che produce la minuteria necessaria al completamento degli abiti e parecchi accessori del composito mondo di Barbie. Ma perché stampare in Giappone anche i cataloghi che accompagnano ogni confezione di Barbie e dei suoi abiti? In Occidente non ci sono tipografie adeguate per la stampa a colori di quelle pagi115

ne di 10 centimetri per 7,5 tenute insieme da due graffette in costa? E non vi sono neppure sarte accurate, se nel 1963 la Mattel decide di aprire uno stabilimento di Barbie a Taishan, nell’isola di Taiwan, dove vengono confezionati rigorosamente a mano gli abiti di cui la fanciulla californiana farà sfoggio sotto ben altri cieli. Anche dopo la chiusura della fabbrica di Taiwan nel 1987, c’è ancora chi, in quella che oggi è una delle «tigri asiatiche» in pieno boom economico, con affezione nostalgica continua a cucire abitini per la Barbie, ricordando che la maggiorata statunitense offriva un’occupazione a un terzo della popolazione del paese, spesso a intere famiglie. Bambine comprese? La Mattel ha sempre e con sdegno respinto le accuse di sfruttamento del lavoro minorile. E sicuramente negli stabilimenti statunitensi ed europei vi è sempre stato un pedissequo rispetto della legislazione vigente e una politica dei salari adeguata alle aspettative di operaie e operai. Tuttavia ancora recentemente, nel Messico centrale, a proposito della fabbrica di Tepeji del Rio, vi sono sindacalisti che denunciano che in aziende satelliti del colosso produttore di giocattoli, vi siano minori – cui generalmente in Messico non vengono pagati contributi e non viene garantita l’assistenza sanitaria – che superano ampiamente il tetto delle sei ore lavorative al giorno, cucendo vestitini per la vanitosa yankee per ben oltre nove ore. Se fosse vero, il giocattolo preferito delle bambine del Nord del mondo sembrerebbe trasformarsi per molte del Terzo mondo in un autentico incubo. Del resto, così facendo, la casa madre della signorina Barbie non si comporterebbe diversamente da moltissime altre aziende con cervello statunitense e braccia e gambe disperse nei luoghi più reconditi del pianeta, laddove le condizioni locali consentono, in assenza di forte rappresentanza sindacale, orari superiori alle sessanta ore settimanali, la mancata osservanza del riposo settimanale, il lavoro dei minori e dei carcerati, il licenziamento in tronco per le donne in gravidanza, lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, discutibili standard di sicurez116

za e di salubrità sui luoghi di lavoro e così via: tutta una serie di elementi che si uniscono a caratterizzare le condizioni di produzione delle multinazionali nell’era della cosiddetta «globalizzazione». Protagonista di una faccia del fenomeno, quella caratterizzata dalla delocalizzazione della produzione nelle più diverse lande del pianeta, Barbie non si esime dall’esserlo, e con grande dispiego di mezzi, anche dell’altra, quella che la vede presente sui mercati di tutto il mondo. Sempre uguale a se stessa, Barbie occhieggia dalle vetrine di tutto il mondo, anche se in modo politicamente corretto non esita a vestire gli abiti tipici dei paesi che la ospitano. Nel corso degli anni, a partire dal 1987, Barbie è stata italiana, con un costume agli occhi americani adatto ai saltelli della tarantella; francese, con stivaletti allacciati, calze nere, gonna a balze di pizzo e cappello piumato, pronta a sfrenarsi nel più parigino dei can can; inglese, con un abito da cavallerizza ispirato a cacce alla volpe ottocentesche; scozzese, con tanto di gonna e sciarpa in tartan e berretto con pompon; cittadina di Hong Kong in laminato dorato e giacchino color porpora; indiana, con un sari rosso bordato d’oro e la fronte segnata dal caratteristico bindi; spagnola, in severa mantilla nera con tanto di peineta dorata; svedese; irlandese, con un vestito verde carico in onore del lussureggiante paesaggio e una spilla a forma di trifoglio, simbolo nazionale dell’Irlanda; svizzera; greca; peruviana, stretta nel coloratissimo serape, la sciarpa utile a coprirsi e a stringere a sé i bambini; tedesca, con grandi trecce raccolte sulle tempie, scialle immacolato e grembiule sull’ampia gonna rossa da ragazza di campagna; coreana, sontuosa nello sgargiante costume folcloristico; canadese, membro della polizia a cavallo; russa, in rosso fiammeggiante e un cappello che richiama il profilo delle cupole della chiesa moscovita di San Basilio; messicana, le trecce scure accuratamente pettinate e l’abito nei colori nazionali, il bianco, il rosso e il verde; nigeriana, in un trionfo di capelli crespi e un abito maculato; brasiliana, pronta al più lungo carnevale del mondo e alle 117

sambe più audaci; malese, con lo smilzo sarong in seta stampata e una giacca di taffeta rosa carico; cecoslovacca, tutta un fruscio di pizzo sangallo candido che completa la mise in nero, giallo e rosso; giamaicana, i capelli raccolti in una bandana e un grembiule patchwork; pellerossa, ieratica nel suo costume da cerimonia con il copricapo che ricorda un antico totem; australiana, in partenza per una lunga cavalcata; olandese, in zoccoletti bianchi e gonna inamidata in una sfumatura di azzurro da porcellana di Delft; cinese, con un raffinato cheongsam di seta stampata a crisantemi, simboli di lunga vita e le ampie maniche che richiamano gli abiti dei mandarini di un tempo; kenyota, il collo circondato da una miriade di collane di perline colorate in autentico stile masai; cilena, pronta a domare i cavalli come i locali huasos; polinesiana, con tanto di gonna di paglia svolazzante al vento e una magnifica collana di ibisco; giapponese, nel tradizionale kimono stretto in vita da una larga obi e con i classici zori ai piedi; norvegese, con il tipico bunad a fiori bianchi e rosa su fondo blu; ghanese, in uno sgargiante abito a disegni geometrici e un alto turbante, a garantire l’altezza della posizione sociale; inuit, avvolta nel caldo parka con il cappuccio bordato di pelliccia; portoricana, con un abito bianco stretto in vita da una cintura a fiori tropicali; polacca, in un tripudio di fiori e nastri; marocchina, in fruscianti sete dai toni aranciati e una preziosa collana di monete; austriaca, sobria e romantica nella sua gonna stampata a fiori alpini e nel suo giacchino di lana cotta; thailandese, pronta a danzare scalza malgrado la magnificenza dell’abito. Naturalmente, non sempre si è presentata all’appuntamento con le rispettive tradizioni nazionali con la pelle eburnea, la chioma platinata e le iridi azzurre; ogni volta le sue fattezze hanno ripreso quelle caratteristiche della popolazione indigena, rimescolando nelle più svariate combinazioni carnagione chiara, olivastra e nera, capelli biondi, rossi, neri, lisci, ondulati, crespi, sciolti e raccolti, occhi celesti, marroni, tondi e a mandorla. 118

Ma tanta buona volontà non è stata premiata, soprattutto in Medio Oriente, dove Barbie ha tentato inutilmente di conquistare plauso e posizioni. A poco le è valso il travestimento da Sherazade, regina delle Mille e una notte, insieme al fido Ken nelle vesti di sultano. I suoi veli succinti hanno convinto poco e non sono bastati a far dimenticare l’attitudine narcisistica e consumistica che da sempre la caratterizzano. La poca simpatia che si nutre in queste regioni per tutto quanto odora di statunitense ha fatto il resto. In molti paesi mediorientali a Barbie è precluso l’ingresso. La polizia religiosa saudita ha indetto una vera e propria campagna contro la bambola. È pericolosa perché, dopo averci giocato, le bambine fanno «strane richieste»: «Mamma, mi compri i jeans, una T-shirt e un costume da bagno come Barbie?». Così i ministri, memori anche delle origini della signora Handler che ai loro occhi risultano intrinsecamente colpevoli e nefaste, ammoniscono: «Le bambole ebraiche di Barbie con i loro vestiti che lasciano vedere le forme, le posizioni oscene, i differenti stili e accessori sono il simbolo della decadenza e della perversione occidentale. C’è da riconoscere il pericolo ed essere vigili». In Iran rincarano la dose: «Ogni Barbie è più dannosa di un missile americano». Così, l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e dei giovani adulti – un’agenzia governativa affiliata al Ministero dell’Istruzione – ha messo allo studio due bambolotti, Sara e Dara che, grazie anche alla contemporanea produzione di cartoni animati che ne mostrano le avventure, dovrebbero far sparire dal mercato i letali Barbie e Ken. Sara e Dara sono una sorella e un fratello di otto anni dal sobrio guardaroba e con un forte attaccamento ai tradizionali valori musulmani. Per Sara niente minigonne o rossetto, né tanto meno lunghi capelli biondi. Tutti e quattro i prototipi esistenti della bambola hanno in dotazione una sciarpa bianca per coprire capo e riccioli rigorosamente castani o neri. La bambina poi può scegliere fra una camicia arancione lunga fino al ginocchio, pantaloni blu e calze bianche, o una blusa a fiori o un chador a fiorellini lungo fino al119

le caviglie; il fratello Dara fra camicia bianca e pantaloni neri oppure camicia beige, pantaloni neri e giacca rossa. Nell’attesa che Sara e Dara facciano il loro ingresso in società, le bambine di credo islamico, che non possono trastullarsi con Barbie per i più svariati motivi, da qualche tempo hanno a disposizione altri balocchi. Dal novembre 2003, in Siria, Egitto e Qatar viene pubblicizzata come migliore amica di ogni bambina la bambola Fulla, «gelsomino», il cui aspetto ricorda vagamente quello di Barbie, solo un po’ più larga di fianchi, più modesta di seno e assai più scura di pelle e capelli, esce dalla scatola avvolta in un’abaya nera e con il capo coperto dall’hijiab. I genitori, neppure sfiorati dal pensiero di comprare Barbie alle loro bambine, acquistano lieti Fulla, che ha un guardaroba dalle linee sobrie e possiede un bel tappeto di feltro rosa per le orazioni quotidiane. Fulla non ha alcun fidanzato, ma è ben felice di seguire i dettami paterni e materni, dimostrandosi onesta, dolce e premurosa. Si dice che presto Fulla, che non disdegna cucinare o leggere, diventerà una donna in carriera, ma solo come insegnante e come medico, uniche professioni ritenute rispettabili dagli ulema. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna le bambine di famiglia islamica giocano con Razanne, il cui nome significativamente evoca quella «scintillante modestia» che deve essere patrimonio insostituibile delle donne musulmane. Anche Razanne legge e rispetta il Corano e porta con inusitata grazia un immacolato chador. Né Fulla né Razanne incorreranno mai nella fatwa di condanna pronunciata in Kuwait contro Barbie, sin dal lontano 1994. Il funzionario religioso ha vietato la presenza di Barbie dentro i confini nazionali perché essa «non ha niente a che vedere con i bambini». Difficile dire se egli condanni usi e costumi della bambola: il testo lapidario è supportato da una lunga e articolata serie di motivi che potrebbero farla bandire. Può darsi che egli veda in Barbie l’incarnazione di un pericoloso modello di bellezza occidentale; può darsi che non approvi certe smanie consumistiche. 120

Di fatto le parti della pin up californiana sono state prese da famose esponenti del movimento femminista di qualche decennio fa. Secondo la sessuologa Shere Hite, autrice di quel famoso Rapporto Hite la cui pubblicazione nel 1976 tanto contribuì al mutamento dei costumi sessuali, il bando emesso contro Barbie altro non sarebbe che la manifestazione del fastidio che si prova nei confronti del pensiero di una sessualità femminile attiva, non forzatamente legata alla procreazione. Le culture religiose fondamentaliste ravvisano in Barbie una bambola che ostentando seni e fianchi, pur mancando di genitali, aiuterebbe le bambine a prefigurare le forme di un corpo femminile adulto, orgogliosamente portato. Ciò che più si teme, secondo la Hite, è che le bambine imparino dalla bambola che indossa gli sfrontati abiti occidentali anche quei comportamenti che all’abbigliamento sembrano legati, soprattutto la possibilità di controllare e prendere decisioni per quanto riguarda il proprio corpo, in campo sessuale e riproduttivo: un’autonomia che spaventa ogni integralista, a qualsiasi religione appartenga. Prova ne sia la risposta neoevangelica a Barbie, le bambole Elsie, Latlie, Millie e Violet del gruppo Mission City Press, tutte fornite di Bibbia oltre che di ombrellini e cappelliere in omaggio alla visione di una femminilità quieta e sottomessa. A fronte di tutte queste emulatrici, la Barbie degli ultimi anni, candidata alla Casa Bianca e astronauta, sembra sicuramente l’emblema della riscossa femminile. Al di là di ciò, nell’ultimo decennio le critiche nei suoi confronti si sono decisamente affievolite, fino quasi a scomparire. Anzi, la fanciulla riscuote nuovi apprezzamenti, proprio da parte di quegli ambienti che in precedenza ne avevano condannato aspetto e modi. Con la sua disponibilità alle fatiche professionali e la rinuncia alla maternità, con il congelamento in un’immagine femminile stereotipata, Barbie rifletterebbe la capacità delle donne di oggi di misurarsi con le attività più diverse sempre con successo. Barbie libererebbe le bambine dall’ob121

bligo di immaginarsi future casalinghe e, grazie alla capacità di precorrere i tempi, provandosi in ruoli inediti per le donne – primo fra tutti quello di presidente degli Stati Uniti – lancerebbe un messaggio di emancipazione assai più efficace di mille slogan. In più, il recente abbandono dello slavato Ken a favore di una nuova libertà sentimentale e di un disimpegnato flirt con un aitante surfista australiano, Blaine, svecchia Barbie dalla patina di grigia fedeltà a un fidanzato tiepido che ne offuscava lo splendore e le fa vestire gli invidiabili panni di single, in un mondo sempre più a loro misura. Insomma, Barbie, sulla soglia dei primi cinquant’anni, sembrerebbe pronta a viverne altrettanti con l’inveterato entusiasmo delle debuttanti.

Le smanie del collezionismo

Il mondo è vario: se vi sono signore e signori che hanno cambiato idea su Barbie, criticandola in gioventù e trovandone inediti lati positivi con l’avanzare degli anni, vi sono anche signore e signori che nel corso degli anni hanno irrobustito l’amore infantile fino a farlo diventare un’ardente passione. Sfogliavano i giornalini con l’occhio vagante alla ricerca della sinuosa silhouette della loro beniamina e poi rimanevano a guardarne gli infiniti accessori con espressione rapita, la medesima che avevano di fronte alle vetrine dei negozi di giocattoli nelle quali si materializzavano in mille sfumature di rosa i loro sogni più reconditi. Il primo stipendio non l’hanno speso per una rata del motorino, ma per dotare delle agognate due ruote la loro fanciulla del cuore... e poi sono venute le quattro ruote dell’utilitaria, della decappottabile e della fuoriserie, le sei ruote del camper, e poi le più sontuose magioni, in stile vittoriano o coloniale, con i mille particolari realistici, mobili, suppellettili e decorazioni. In questo scenario, dove nulla è lasciato al caso, accanto alla prima bambola, regalata in un giorno speciale dell’infanzia che ancora viene ricordato con batticuore, pian piano se ne aggiungono altre. Si cerca dai più vetusti giocattolai, si frequentano i mercatini del modernariato, si spulciano i carretti dei rigattieri per cominciare a poter esporre accanto alla fedele e sorridente Barbie Malibu, compagna di mille pomeriggi, le sorelle maggiori: la Talking, che pronunzia alcune frasi, la Twist ’n Turn, in grado di ruotare il busto, la Color 123

Magic, che cambia il colore dei capelli e, andando indietro, l’American Girl, dai capelli a caschetto, i diversi tipi di Swirl Ponytail, la Fashion Queen, con le sue parrucche, la Miss, l’unica a chiudere le palpebre, e poi ancora indietro le prime, indicate solo con un numero, la n. 5 Ponytail, la n. 4 Ponytail, la n. 3 Ponytail, la n. 2 Ponytail, fino alla debuttante, la n. 1 Ponytail. Due, tre, dieci, cento, duecento, cinquecento... fino alle seimila (ma il numero è approssimato per difetto) che vanta uno dei maggiori collezionisti italiani, tutte diverse, in uno o più particolari, ma tutte uguali, tutte inconfondibili, tutte Barbie. Una passione tanto accesa, condivisa da centinaia di cuori, non passa inosservata in casa Mattel, che ne coglie i primi timidi segnali alla fine degli anni Ottanta e con palpitante sollecitudine incoraggia chi ancora risulta restio. Nel 1988, quando viene lanciata sul mercato, la prima Barbie della serie Happy Holidays, la sua immagine radiosa in gonna di tulle rosso e guarnizioni di raso bianco, viene accompagnata da una significativa didascalia. Bella, elegante, preziosa. Veramente unica! Ha il corpino di prezioso velluto, capelli lunghi e luminosi e la gonna è ampia e soffice come una nuvola. Barbie Gran Galà, nel suo vestito scintillante è bellissima, preziosa. Così preziosa che quando sarai grande la terrai con i gioielli e le tue cose più care.

Il monito è quello di non sciupare vestito e acconciatura (cosa alquanto difficile se bambola e infante fanno il loro mestiere), ma di scegliere un’interazione contemplativa che lasci intonso quello che non è più solo un giocattolo. Difficile sapere chi abbia ottemperato alle raccomandazioni di casa Mattel; certo è che questa Barbie, con il suo successo, inaugura una serie di bambole particolarmente «preziose», immesse sul mercato annualmente prima delle feste natalizie per ornare gli scaffali dei negozi prima e di casa poi con i lo124

ro abiti da sera gonfi come meringhe e scintillanti come luci al neon. Si apre così la porta alla produzione delle Barbie da collezione, create non per il mercato infantile, ma per quegli adulti – e sono parecchi – disposti a metter mano al portafoglio per continuare a coltivare la passione infantile. I pretesti che casa Mattel individua per offrire nuovi pezzi agli avidi collezionisti sono innumerevoli: dopo aver celebrato le feste natalizie e indossato i costumi tradizionali delle più lontane province del pianeta, Barbie con la serie Great eras si tuffa nel passato, vestendo con la medesima disinvoltura i panni di signora di un maniero medievale o i sontuosi vestiti à la page nella Francia napoleonica o addirittura le auguste vesti della regina Elisabetta I d’Inghilterra; con la serie Great fashion ripercorre la storia della moda dal 1919 al 1979; elegantissimi sono gli abiti che si drappeggia addosso con la serie Princesse; fantasmagorici i colori della serie dedicata ai pittori, che annovera bambole ispirate a Monet, Van Gogh e Renoir, come anche quella denominata Birdy of Beauty, dove gli uccelli di perfetta bellezza, in attesa d’altro, sono il pavone, il fenicottero e il cigno, o l’altra ispirata ai Flowers, o quella delle Fairies o dello Zodiac: un labirinto in cui si districano solo gli amanti del genere; e poi ancora la serie del Classic ballet, dove Barbie indossa i più vezzosi tutù della storia del balletto; la serie American stories, dove veste ancora una volta i panni dell’indiana d’America (anche se non vanno confusi con quelli portati nella serie delle Barbie nel mondo, qualcuno potrebbe aversene a male!), e poi quelli di pellegrina al seguito dei Padri approdati sulle coste orientali nel lontano XVII secolo, di colona, di rivoluzionaria e patriota (con tanto di giubba blu e cappello piumato per difendere i diritti delle colonie nei confronti della rapace Inghilterra), e infine di infermiera durante la guerra civile. Ricercate, non solo dai collezionisti di Barbie, sono tutte quelle bambole che richiamano un altro marchio (Coca-Cola, Harley-Davidson, Ferra125

ri): esempio riuscito di marketing incrociato, riescono a trovare appassionati anche fra coloro che collezionano quanto appartenga al marchio giustapposto. Fra le bambole più ambite dai collezionisti vi sono quelle che celebrano il mondo hollywoodiano, dove Barbie imita Rossella O’Hara dell’indimenticabile Via col vento, pavoneggiandosi nell’abito bianco e verde della festa alle Dodici Querce, nello splendido abito verde realizzato con le tende di casa o in quello sfrontatamente rosso con cui Rhett Butler la conduce a un ricevimento; oppure rievoca l’amatissimo My Fair Lady, prima con le umili vesti da fioraia e poi con i più eleganti abiti indossati nel corso della commedia dalla protagonista, Audrey Hepburn. Sempre alla Hepburn, nei panni di Holly Golly di Colazione da Tiffany, è dedicata un’altra bambola. Ma forse, gli abiti hollywoodiani che con maggior piacere Barbie indossa sono quelli di Marilyn Monroe, da quello rosso fuoco di Come sposare un milionario a quello rosa acceso di Gli uomini preferiscono le bionde all’immortale plissé svolazzante di Quando la moglie è in vacanza... La consonanza fra le due dive, nate a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, nella stessa assolata California, è tale che Barbie non disdegna di cancellare i propri tratti, per assumere quelli, pieni di innocente sensualità, di Marilyn, ricordandola con quel vestito scandalosamente cucito addosso un attimo prima di intonare in un sussurro pieno di sottintesi «Happy Birthday» al presidente Kennedy. Ugualmente ricercate sono le bambole vestite e truccate dalle grandi firme della moda attuale: Armani, Burberry, Escada, Bill Blass, Oscar de la Renta, Ralph Lauren, Calvin Klein, Donna Karan, Versus, Versace... Troppo giovane per vestire un autentico Christian Dior, che ispirò però i suoi primi sarti, ultimamente Barbie, per tutti gli appassionati di moda, ripropone anche gli abiti che lanciarono il new look, per i quali il suo fisico sembra creato. Particolarmente amate dagli intenditori sono le bambole truccate e vestite da Bob Mackie, un famoso costumista hol126

lywoodiano, che con Barbie come modella sembra aver trovato un medium ideale di espressione. Abiti impressionanti, ispirati ai disegni stilizzati e fantasiosi di Erté o ai più rutilanti musical cinematografici, ricchi di ricami, di paillettes, di racemi, di volumi solidi che inventano imponenti colletti e reinventano la figura femminile, coprono bambole con un trucco innovativo, che definisce nuovamente i lineamenti accordando l’espressione alla magnificenza delle vesti. Non tutte le bambole vengono prodotte nella stessa quantità, né realizzate secondo la richiesta del mercato. Le diverse serie sono divise in quattro insiemi: pink, silver, gold e platinum. Le pink sono le più comuni, realizzate in numero illimitato; solo 50.000 fortunati possono invece vantare il possesso di una bambola di classe silver; a 25.000 sono riservate le gold; mentre croce e delizia dei collezionisti di tutto il mondo sono le platinum, rigorosamente prodotte in numero di 1000, per accendere quella smania di possesso che solo chi colleziona conosce. Rafforza la febbre il fatto che casa Mattel attua la vendita non solo attraverso i canali tradizionali, ma anche per corrispondenza e con le televendite, commercializzando alcun modelli solo in ambiti particolari (un fan club specifico, un singolo mercato nazionale, un unico continente). In questo modo si scatena la caccia spasmodica alle rarità e si fanno salire ulteriormente le quotazioni di oggetti già estremamente cari rispetto al prodotto riservato al normale gioco infantile. Ma i collezionisti più entusiasti – e sono tanti –, oltre a seguire quanto promuove la casa madre, sono anche fra i promotori e i frequentatori assidui di appuntamenti annuali irrinunciabili. Grazie a un tam tam che l’utilizzo del web ha amplificato e perfezionato, gli appassionati si riuniscono per mostrare, vendere, comprare, scambiare bambole e accessori. In queste fiere si aggirano genitori che, lasciati a casa i pargoli, non vogliono assolutamente rinunciare ai propri balocchi. Aggirandosi fra soli adulti, non sono colpiti tanto dalle collezioni «filologicamente» corrette. Naturalmente, dinanzi alla prima 127

Barbie, che occulta con il mitico costume bianco e nero del suo debutto il marchio sulla natica destra Barbie™ Pats. Pending © MCMLVIII by Mattel Inc.

non manca il sorriso che l’intenditore riserva alla rarità, così come dinanzi al suo colorito pallido, giustamente da signora d’altri tempi, un pallore che nelle edizioni successive si andrà sempre più riscaldando, fino ad assumere le mille sfumature che contraddistinguono le diverse origini etniche che la bambola interpreta oggi. Ma l’autentica meraviglia è riservata alle creature di cui i veri amanti della bambola sono orgogliosi e che scatenano gli istinti più bassi degli appassionati: le OOAK, «one of a kind», uniche al mondo. Si tratta di bambole alle quali con infinita pazienza e una discreta quantità di acetone è stato cancellato il trucco originale. Con mano ferma e grande perizia, l’occhio sempre rivolto alle proposte più innovative delle sfilate di moda, si è proceduto poi a truccare nuovamente il viso con nuove vernici, fornendo la bambola di nuove labbra, nuove sopracciglia e un’iride di colore totalmente nuovo. Anche i capelli sono stati acconciati liberamente mentre la fantasia si è sbizzarrita nel realizzare vestito e accessori, la cui unicità è garantita dal creatore con certificati o etichette speciali. Impossibile elencare i soggetti ispiratori: le OOAK fanno veramente interpretare a Barbie, talvolta in compagnia di Ken, ogni ruolo possibile sul pianeta e fuori, e sempre con una generosità di mezzi e una mancanza di ogni senso della misura impensabili per un prodotto industriale. Ancora una volta casa Mattel non è stata a guardare. Per venire incontro alle esigenze di questo target di mercato ca128

ratterizzato da desideri «lussuosi», quando non «lussuriosi», ha creato una serie di bambole decisamente raffinata nel suo genere. Con un nuovo materiale, pesante come la porcellana e particolarmente voluttuoso al tatto, il silkstone, ha realizzato delle bambole che riprendono nei tratti del volto le Barbie dei primi anni, rinverdendone oltremodo i fasti d’antan con un guardaroba di taglio e realizzazione sartoriale, accurato fin nei più insignificanti particolari. Per loro, in omaggio a una particolare clientela, è concepito un nuovo packaging, in cui il rosa decisamente pacchiano che contraddistingue la maggior parte delle confezioni tradizionali non compare. Una discreta scatola bianca e blu contiene quello che per molti è un autentico oggetto del desiderio, tenuto da nastri di raso che non ne possano scalfire la setosa superficie. A queste bambole, particolarmente rifinite anche nella struttura del corpo e già in elegante posa da mannequin, i creatori di OOAK dedicano il meglio della loro fantasia per poi esporle e venderle in apposite occasioni (fiere specializzate, concorsi, convention a tema e così via). Non sfigurano accanto a queste le OOAK derivanti da bambole che hanno visto giorni migliori e che sembravano condannate a un presente squallido e a un futuro infelice: bambole trovate per caso nelle soffitte o nei mercatini, danneggiate da giochi energici o dagli inevitabili sadismi infantili, che vengono riparate, ritruccate e rivestite («customizzate» si dice fra gli addetti ai lavori) per rivivere una nuova gioventù con uno splendore di cui neanche appena sfornate dalla fabbrica hanno goduto. Nelle mani di questi spregiudicati creatori, Barbie si libera dalle remore giovanili e se pure non convola ad agognato talamo, si scrolla di dosso l’aria candida con la quale ha conquistato (e tormentato) generazioni di ragazzine, per assumere espressioni navigate che meglio si confanno a una fanciulla da tanto tempo sotto la luce dei riflettori. Certo, a volte i suoi magnifici costumi più che a una signora al ballo dell’ambasciata rischiano di farla assomigliare a una drag queen in pieno spettacolo: ma è un inconveniente che in mol129

ti sono disposti a correre, pur di appropriarsi di una di queste pupe sopra le righe. Una volta ghermito il tesoro, il collezionista può goderlo nel chiuso delle proprie mura; ma più spesso ormai, complice la rete, gli appassionati allestiscono vetrine dove mostrare orgogliosamente i propri pezzi unici, oltre a tutto il resto. Le bambole eccezionali fungono spesso da richiamo per piazzare presso acquirenti altrimenti irraggiungibili pezzi più ordinari, meno pregiati, ma non per questo privi di un valore commerciale. Impossibile dinanzi a loro non pensare alla descrizione fatta da Walter Benjamin di Eduard Fuchs, un collezionista non solo desideroso di ingrandire la propria collezione ma, nell’era della riproducibilità tecnica, di diffonderla sul mercato e di trarne un qualche vantaggio economico. I collezionisti più generosi elargiscono suggerimenti per gli acquisti o consigli per personalizzare le proprie bambole; i più sentimentali arricchiscono le didascalie con il racconto delle traversie incontrate per conquistare l’amata, prima di ostentarla all’occhio dei più. E non manca chi le fa recitare storie che si compongono scatto dopo scatto, facendone un’interprete di fotoromanzi cibernetici. In queste personalissime vesti dotate dell’ineguagliabile pregio dell’unicità, se non sempre e necessariamente del buon gusto, Barbie – sia con il vezzoso broncio delle pregiate silkstone sia con il sorriso smagliante della dozzinale Superstar – appare finalmente libera dall’obbligo di insegnare qualcosa e rischia di apparire quasi affascinante al profano, che dimentica il profluvio di rosa in tutte le sfumature e la proliferazione bulimica di accessori per rimanere inebetito. Quello che vive Barbie, una volta passata dalle mani di originali creatori, è la possibilità di nuove avventure, meno stereotipate di quelle concepite in casa Mattel e più aderenti ai sogni di un singolo. Proprio questo sembra muovere quanti trascorrono il proprio tempo libero a disegnare nuove mises per la loro bambola preferita, a realizzare accessori che riproducano come perfette miniature quelli al momento in voga, a costruire perfette ambientazioni dove posizionarla. Bar130

bie con il suo fisico iperrealistico offre la possibilità di creare un mondo fittizio ma estremamente rappresentativo di quello reale: la distanza e la distorsione tra realtà e rappresentazione stanno nell’eliminazione di ogni particolare che possa turbare l’armonia voluta dal suo creatore. Il bizzarro mondo che il customer realizza è pertanto estremamente sicuro, ma al tempo stesso in grado di incantare uno spettatore qualunque. Quello che Barbie ha offerto e offre a quanti hanno ormai da tempo abbandonato l’età dei giochi è la possibilità di una second life, dalla ricca tattilità e con il vantaggio di appuntamenti periodici con i propri simili e un pubblico positivamente colpito. Come la Second Life che si affaccia dagli schermi del computer è solo un gioco e non ha alcun senso per i profani scandalizzarsi: si tratta di adulti. Consenzienti.

È bello ciò che è bello

Malgrado le interminabili variazioni cui la costringe il suo pubblico di appassionati, malgrado le mille sfumature che assumono chioma e iride, nell’immaginario collettivo Barbie è bionda con gli occhi azzurri. Non è un caso: si tratta di un binomio cromatico armonico per antonomasia e latore di perfetta bellezza. In un Mediterraneo olivastro, dalla spuma delle acque del mare Egeo nasceva la bionda Afrodite, le cui chiome erano di uno splendente color oro, quanto mai lontane da ogni rugginosa imperfezione, e quindi da corruzione e morte, come scriveva la poetessa greca Saffo. Biondi, naturalmente, erano i lunghi capelli della bella Elena, vero pomo della discordia fra il troiano Paride e il greco Menelao. Dal mito alla realtà, i capelli chiari sono sempre stati emblema di bellezza. Le matrone romane amavano che le loro chiome rifulgessero sotto i raggi del sole. E se nell’oscuro Medioevo le ciocche bionde venivano guardate con sospetto, l’umanista del XIV secolo, Jacopo Alighieri, figlio del più famoso Dante, rinveniva nei riccioli biondi un netto segno di chiara bellezza, in accordo con l’innamorato Francesco Petrarca che sospirava sui «capei d’oro a l’aura sparsi» dell’amata Laura. L’eleganza rinascimentale ingabbiò le gentildonne di corte in severi bustini e pesanti gonne, lasciando visibile solo la parte superiore del busto e il volto. Nella concezione della bellezza del tempo, l’ordine estetico doveva replicare quello cosmico. Pertanto, le parti superiori venivano mostrate, 132

quando non ostentate, poiché, come le regioni celesti, erano degne della migliore attenzione; al pari di quelle, che avevano nel sole il loro principale bagliore, esse erano come illuminate dalla chioma bionda. Non casualmente, nella trattatistica riservata alle signore del tempo, i consigli su come ottenere capelli biondi, folti e ondulati si moltiplicavano. Caterina Sforza, nei suoi famosi Experimenta pubblicati nel 1504, consigliava alle brune di illuminarsi utilizzando impacchi di fiori di lupino mescolati a salnitro, zafferano e altre sostanze e avendo poi cura di far asciugare i capelli al sole. A Venezia si scomodò addirittura Tiziano per mettere a punto la tintura per «capelli file d’ore», necessaria a ottenere il cangiante «biondo veneziano» che le signore amavano sfoggiare: 2 libbre di albume, 6 once di zolfo nero e 4 once di miele distillato con acqua. Cosparso il capo con la mistura, le vanitose gentildonne si ritiravano sopra i tetti delle case, in «alcuni edifici di legno quadri, in forma di logge scoperte, chiamate altane». Qui, «con una sponzetta ligata alla cima di un fuso» bagnavano ripetutamente le chiome presto asciutte a causa del sole e dell’aria aperta, non temendo il «colmo del gran calore del sole, sopportando molto per questo effetto». Naturalmente biondi erano i boccoli dell’affascinante Lucrezia Borgia, che da un noto ritratto fissa lo spettatore con un occhio limpidamente azzurro, altro segno di perfetta bellezza che attraverso i secoli si manterrà costante, malgrado i molteplici cambiamenti di gusto. Anche le forme di Barbie, al di là delle esagerazioni, parlano all’occhio occidentale di una «perfetta bellezza». Naturalmente, per riconoscerla quale modello esemplare non occorre risalire fino a tempi mitici: solo nel corso dell’Ottocento le curve femminili cominciarono a divenire visibili in società e fu possibile rintracciare anche nelle linee del corpo il segno della bellezza. Naturalmente furono i tempi, il dinamico Ottocento e il frenetico Novecento, a dettare le condizioni della silhouette: non si trattò solo della ricerca di una maggiore comodità a far indovinare 133

sotto i vestiti i profili femminili. La scoperta della villeggiatura marittima – magnifica invenzione della contemporaneità – si accompagnò alla «scopertura» delle membra. Anche le donne vollero un fisico asciutto, modellato dalla ginnastica e dalla vita all’aria aperta, che non le facesse sentire goffe mentre si muovevano per la prima volta libere sulle spiagge. L’affinamento fisico, però, in Barbie, data la sua origine teutonica che la vuole gradevole strumento di piacere e vigoroso agente demografico, non può cancellare quelle rotondità che immediatamente fanno pensare alla voluttà e alla maternità. Le cosce affusolate, dove è impossibile immaginare anche un solo sospetto di cellulite – di cui non a caso le donne cominciarono a preoccuparsi a inizio Novecento –, e i polpacci sottili che rimandano alle immagini levigate immortalate in Olympia da Leni Riefenstahl o alle linee tese della statuaria di Arno Breker sono innestati su un busto disponibile a ogni voluttà. Capace di coniugare armonicamente il passato più lontano con il presente, Barbie rinviene negli abiti che ne amplificano o cancellano la morbida femminilità o la passione sportiva i migliori alleati, interpretando al meglio l’attuale postmodernità dalla facile plastica facciale e/o corporale e veicolando con estrema facilità quel principio, alla base di tante operazioni di medicina estetica, secondo cui è la volontà a modellare il corpo. Non è però esclusivamente quello il messaggio che nella sua misura ridotta la bionda fanciulla trasmette con il suo aspetto radioso. Nell’Occidente dall’instancabile lavorio intellettuale, la bellezza non è stata mai solo, o semplicemente, qualità esteriore: essa, come compendiava ai primi del Seicento Cesare Ripa nella sua famosa Iconologia, riprendendo un concetto elaborato dal cistercense abate Suger, vissuto secoli e secoli prima, è sempre stata ritenuta «splendore che deriva dalla luce della faccia di Dio». Tramite l’osservazione del 134

volto e del corpo si possono scoprire messaggi reconditi, come sostiene ancora nell’illuminato Settecento, in termini certo polemici con il razionale spirito del secolo, ma non per questo inascoltati, lo scrittore tedesco Johann Kaspar Lavater, che afferma il valore euristico della fisiognomica. Se ogni granello di sabbia, se ogni fogliolina contiene in sé l’Infinito, l’uomo, il quale è sintesi dell’Universo, deve attraverso il corpo, a cui il suo Spirito è indissolubilmente legato, cogliere le intime armonie spirituali di cui è l’espressione, e d’altro canto le deficienze di una materia, sorta a rispondere all’energia plastica dell’Idea che in essa intende reincarnarsi.

Ancora fra Otto e Novecento, negli scritti di Rudolf Kassner, autore dei Fondamenti della fisiognomica, come in quelli di Cesare Lombroso la fisiognomica è uno strumento per comprendere in maniera piena la realtà. Chi utilizza lo strumento fisiognomico ne trae la possibilità di conoscere anche le reazioni emotive, in quanto i tratti somatici rimandano a un preciso «tipo» con una determinata indole, che reagirà alle contingenze in una serie di predeterminati modi e non in altri. Con i suoi capelli biondi e gli occhi turchini, la pelle rosata e il seno prosperoso Barbie riesce a esprimere le profondità altrimenti insondabili del suo animo. Ciò che corpo e volto di Barbie raccontano contribuiscono a definire un profilo peculiare di una bambola che non vuole essere semplicemente «bella», come è facile comprendere sulla scorta di quanto recita il trattato di Giovan Battista Della Porta nel 1599, poi tradotto in volgare nel 1610 e i cui principi, banalizzati e filtrati attraverso i secoli, fanno tuttora parte della cultura comune. Il capo, in proporzione di poco più grande rispetto al collo su cui insiste, indica buon senso, grande intelligenza e animo magnanimo. Unito a spalle larghe e forti nonché a un torace ampio (e qui Barbie non ha nulla da invidiare a nessuna) denota inoltre una notevole carica carisma135

tica. La carnagione chiara, leggermente rosata e altrettanto lievemente abbronzata, è segno di una non comune capacità di apprendimento. Soprattutto questa sfumatura rosea rimanda a Venere, dea della bellezza e della seduzione amorosa, la cui influenza rende dotati di ogni fascino uomini e donne. Le virtù, che la carnagione denota, sono amplificate quando, come accade a Barbie, si accompagnano con sorridenti occhi azzurri, segno di capacità superiori, quasi divine. Il tutto appare concluso e compendiato nella chioma bionda, simbolo di altissime qualità umane e intellettuali. Le mille qualità che chi ha la fortuna di possedere ciocche dorate fra Cinque e Seicento potrebbe ostentare non sembrano più riguardare le bionde preferite dagli uomini di Anita Loos nel 1925, che stigmatizzò l’idea della bionda soavemente svampita: una convinzione che si stagliò indelebilmente nell’immaginario collettivo una volta che, nel 1953, il personaggio della bionda Lorelei venne magistralmente interpretato da Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde. A partire da questo momento, per le bionde la sorte sembra segnata. Solo al volgere del nuovo millennio dai grandi schermi si proietta sulla realtà La rivincita delle bionde. Non è un successo epocale e la chiara Reese Witherspoon, che interpretando il ruolo principale combatte lo stereotipo della bionda bella e stupida, riesce a mietere successi nella seria e intellettuale Harvard non può certo vantare il successo di altre platinate, di ben altro rilievo. Del resto, sono i tempi a sdoganare le bionde, di vispo intelletto e di bell’apparenza: come Barbie, assai più di qualsiasi sbiadita e saccente Mary Poppins, per antonomasia «praticamente perfetta sotto ogni aspetto».

La donna perfetta

È la perfezione l’autentica cifra di Barbie. Il suo mondo, sia che venga concepito dagli attenti progettisti di casa Mattel sia che rappresenti il frutto delle sfrenate fantasie e degli innamorati sensi del collezionista, è sempre un’interpretazione della realtà accuratamente accomodata affinché la bionda fanciulla non debba in nessun modo esperire il seppur minimo senso di disagio. La moltitudine degli accessori fa sì che Barbie non patisca alcun bisogno, neanche quando aspira al più voluttuario dei consumi. L’apollinea radiosità non è scalfita dal disappunto per la camicia sudata e le scarpe strette o dal fastidio per una puntura di zanzara, dalle quotidiane seccature per i servizi pubblici non funzionanti o anche solo dall’indefinibile uggia pomeridiana: questi inconvenienti non trovano posto in un universo costruito trascurando ogni possibile spiacevolezza. Naturalmente, sono bandite anche le devastanti passioni che, se pure animano tanta letteratura, hanno notoriamente pessimi risvolti: nel migliore dei casi fanno colare il mascara, nel peggiore conducono sull’orlo dell’abisso senza alcun gadget utile come parapetto. La vita di coppia, quasi mai per Barbie, ha assunto la sconvolgente sfumatura dell’amore. Ken, fin quando è stato sulla cresta dell’onda, è stato trattato con rispettoso distacco; Big Jim, con il quale si vocifera abbia avuto una fugace ma segreta e focosa liason, è caduto nel dimenticatoio, sembra senza particolari conseguenze; e anche l’aitante surfista Blaine, dopo una stagione di innocente corteggiamento, è stato irrimediabilmente trascurato. Non che Barbie non ami le sfrenatezze: la bulimia con la quale ammassa abiti e ac137

cessori ne è una prova non larvata. Ma le frenesie d’acquisto sono sempre dissimulate dal sorriso composto, che sottolinea l’imprescindibilità esistenziale dell’ultimo acquisto: «Ma come vuoi che guidi se non ho il fuoristrada con l’aria condizionata e il lettore cd?»; «Si può vivere senza televisore al plasma?»; «Devo assolutamente avere una piscina in tono con il mio ultimo costume da bagno!». Con falsa ma saputa modestia Barbie si emancipa da una vita all’insegna della scomoda imprevedibilità, per adagiarsi in una comoda quotidianità, tagliata su misura per i suoi trenta centimetri scarsi e per i suoi sogni di fanciulla borghese con nessun desiderio di rivolta. Il suo mondo, del resto, può solo continuare a espandersi, in un’infinita bramosia d’accumulo: il fatto stesso di essere di plastica lo rende in odor di eternità, privo della facoltà di decomporsi, incorruttibile perlomeno per un minimo di quattrocento anni: perfetto, al pari di colei per la quale è stato edificato. Non è un caso che sceneggiatori, scenografi e costumisti del film La donna perfetta (tardo remake della Fabbrica delle mogli, storia di una casalinga con una forte passione per la fotografia, uscito nel 1975, in pieno rigoglio della protesta femminista) sembrino ispirarsi a Barbie e al suo mondo per tratteggiare il mondo privo di pecche dove si rifugia la protagonista Joanna (la bionda Nicole Kidman), ex workalcoholic scioccata da un insuccesso sul lavoro. La cittadina di Stepford, dove Joanna viene portata dal marito insieme ai figli per ritemprarsi, è composta da lussuose ville circondate da rigogliosi giardini; tutte le donne sono attraenti, curatissime e tutte si dedicano interamente al marito, alla casa e alla famiglia, consigliate dalla fondatrice della cittadina, Claire Wellington (una splendida Glenn Close); gli uomini si riuniscono al circolo cittadino, dove trascorrono il tempo a giocare a carte, bere alcolici e fare conversazione, sotto la carismatica guida del marito di Claire, Mike. La donna in carriera che è in Joanna è stupita e disgustata da quanto vede accadere a Stepford: le riunioni al circolo culturale femminile, dove si 138

commentano capolavori letterari sull’arte degli addobbi natalizi o dell’inappuntabile cottura dei dolci, la ginnastica in tacchi a spillo e i colori pastello immancabilmente scelti per l’abbigliamento da tutte le sue concittadine. Ma ben presto il mistero viene svelato: prima allo spettatore, poi a Joanna. Le mogli di Stepford sono state sottoposte a un trattamento che ne ha annullato la vera personalità e le rende zuccherose e servizievoli robot: donne «perfette». Prima della lobotomia erano persone di grande successo e carisma, sposate a uomini banali e inconsistenti, che dopo anni di frustrazioni assaporano, senza mai saziarsene, il gusto, mai provato, della superiorità. Anche Joanna, dopo giorni di permanenza nella cittadina, appare trasformata: lasciati sulle grucce i severi completi neri da manager, eccola sbocciare da morbide gonne mentre sulle spalle ondeggiano le lunghe chiome bionde; una Barbie in carne e ossa, che con incedere gentile spinge il carrello del supermarket riempiendolo di ogni bendidio e risparmiando al consorte anche le più lievi fatiche domestiche, prima – immaginiamo – di soggiacere arrendevolmente alle sue voglie. Il colpo di scena finale assicura lo spettatore che Joanna ha finto ogni docilità per smascherare la falsità del mondo di Stepford, un mondo all’interno del quale le donne sono «perfette» nella misura in cui assecondano i più biechi desideri dei mariti, e assecondano i più biechi desideri dei mariti nella misura in cui i loro naturali sensi sono obnubilati costringendole a una vita di bambole. Bambola plasticosa, sottomessa e festaiola, ridanciana eroina di un fantastico mondo tutto di plastica è la protagonista dell’innocente canzoncina estiva Barbie Girl del gruppo danese Aqua. Il loro leader Søren concepisce il ritornello passando dinanzi a un locale di Copenaghen dove fanno bella mostra di sé delle bambole luccicanti nei loro vestiti di raso. Hi Barbie! Hi Ken! Do you wanna go for a ride? 139

Sure Ken! Jump in... I’m a Barbie girl, in a Barbie world, Life in plastic, it’s fantastic! You can brush my hair, undress me everywhere, Imagination, life is your creation. Come on Barbie, let’s go party! [...] I’m a blond bimbo girl, in the fantasy world, Dress me up, make it tight, I’m your dolly. You’re my doll, rock’n’roll, feel the glamour in pink, Kiss me here, touch me there, hanky-panky... You can touch, you can play, if you say: «I’m always yours». [...] Make me walk, make me talk, do whatever you please. I can act like a star, I can beg on my knees. Come, jump in, bimbo friend, let us do it again, Hit the town, fool around, let’s go party. You can touch, you can play, if you say: «I’m always yours». [...] Oh, I’m having so much fun! Well Barbie, we’re just getting started. Oh, I love you Ken! Ciao Barbie! / Ciao Ken! / Vuoi fare un giro? / Certo Ken! / Salta su! / Sono una ragazza Barbie, in un mondo Barbie, / la vita nella plastica è fantastica! / Puoi spazzolarmi i capelli, denudarmi tutta, / immaginazione, la vita è una tua creazione. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Sono un’oca bionda in un mondo di fantasia. / Mettimi il vestito, stringilo, sono la tua bambola. / Tu sei la mia bambola “rock and roll”, segui la moda del rosa. / Baciami qui, toccami lì, facciamo del sesso. / Puoi toccare, puoi giocare, se lo dici sarò sempre tua. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Fammi camminare, fammi parlare, fai quello che vuoi. / Posso recitare come una diva, posso chiedere in ginocchio. / Vieni salta su amica oca facciamolo ancora. / Fai col140

po sulla città, vaghiamo, andiamo a divertirci. / Puoi toccare, puoi giocare, se lo dici sarò sempre tua. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Oh mi sto divertendo moltissimo! / Beh Barbie, abbiamo appena cominciato. / Oh ti amo Ken!

Nel ritrarre la bambola e il suo mondo, secondo casa Mattel che dopo aver letto attentamente il testo intenta loro una causa miliardaria, Søren, Claus, Lene e René, componenti degli Aqua, sottolineerebbero tutti gli aspetti che qualificano Barbie come plasticoso oggetto sessuale. Cedere al focoso desiderio del maschio è, in effetti, pregio primo e indubbio della «donna perfetta»; il secondo è non darlo a vedere sfacciatamente. Barbie, che avvolge in drappi di un ingenuo rosa confetto il seno provocante, è ampia dimostrazione di ciò. Probabilmente parte del suo successo è proprio dovuto al nicodemismo sessuale, come ben sa casa Mattel che, malgrado continui a vestirla e svestirla seguendo i dettami della moda, tutela costantemente il buon nome e la moralità della sua protetta: gli Aqua hanno messo il piede su un terreno minato. Così la casa discografica Universal, distributrice del gruppo negli Stati Uniti, per evitare uno scontro con la potente industria produttrice di giocattoli, decisa non solo a ottenere il risarcimento dei danni per la lesa immagine della sua pupilla ma anche il ritiro dal commercio di tutte le copie della canzone, arriva a scrivere sulle confezioni del singolo: «La canzone Barbie Girl è un’espressione di critica sociale e non è stata creata o approvata dai produttori della bambola». Fatica sprecata in quanto la canzone serve, semmai, alla fine degli anni Novanta, a rilanciare l’immagine un po’ appannata di Barbie: in molti credono che Barbie Girl sia un tributo alla bambola più famosa del mondo. Fra gli altri che difendono gli Aqua e il loro tormentone, vi sono quelli che prendono spunto dall’aggressività della Mattel per denunciarne il falso moralismo sugli argomenti riguardanti la sfera sessuale. Valga per tutti quanto scrive in 141

una lettera aperta un ragazzo statunitense, che gestisce un sito dedicato agli Aqua: Questa è una lettera aperta, pubblicata su Internet, diretta a chiunque si preoccupi di ascoltarmi all’interno di una società senza volto chiamata Mattel. [...] Il lato più triste della vicenda è che l’immagine di Barbie che avete tentato di proteggere semplicemente non esiste. Il personaggio di Barbie fu creato approssimativamente una quarantina d’anni fa (non ricordo l’anno esatto in cui fu prodotta la prima bambola) ed è stata fidanzata con Ken per buona parte di questo tempo (non so con certezza quando fu creato il suo personaggio). Comunque, avete ritenuto per molti anni che a Barbie non dovesse essere concesso di sposarsi – così Barbie e Ken sono condannati a vivere per sempre nel peccato. Dite che non vivono insieme? Quando avete visto, per l’ultima volta, una casa, un appartamento o qualcosa del genere venduto con il marchio di Ken? Ken ha forse una sua auto? O un lavoro? Dipende in tutto e per tutto da Barbie – è il suo piccolo schiavo d’amore, direi. In realtà, quando avete ideato Barbie & The Rockers, Ken non ne faceva parte. Quando il pubblico se ne rese conto, voi avete rimediato alla bell’e meglio, aggiungendolo, in ritardo, alla band. Di recente avete cominciato a vendere dei fratellini e delle sorelline di Barbie e Ken. Mi spiace per voi, ma sembrano piuttosto i loro bambini. Ma loro non possono avere bambini, dal momento che non sono sposati, e così li chiameremo fratellini, per nascondere il fatto che Barbie ha avuto figli fuori dal matrimonio (dal momento che abbiamo stabilito che non si è mai sposata).

La lunga lettera demolisce la presunta «perfezione» di Barbie, la cui innaturalità nei comportamenti sessuali fa ipotizzare «imperfette» tresche degne di un pontefice del primo Rinascimento: figli avuti fuori dal matrimonio, in una relazione tutto sommato clandestina con un «perfetto» uomo oggetto, oltretutto nullafacente; la sordida copertura di una parentela fittizia per celare quella autentica... In effetti, Barbie, con l’impudicizia delle sue forme coniugata con l’atteggiamento puritano impostole dai suoi produt142

tori, non può non sottrarsi alle ambiguità. L’ardito giovane che osa puntare il dito contro casa Mattel non è un’eccezione nel mondo occidentale, dove Barbie ha talmente occupato l’immaginario, infantile e non, da suscitare più diffidenza che simpatia e, spesso, più odio che apprezzamento. Sicuramente, nella disincantata Europa, in parte indifferente grazie al cattolicesimo ai turbamenti sessuali, in parte emancipata dal femminismo, non sono le sinuosità di Barbie a scatenare istinti distruttivi nei suoi confronti. Turba molto di più la sua immarcescibile perfezione, la sua innata capacità di non provare mai un momento di imbarazzo o di non trovarsi mai fuori posto, come quelle «donne perfette», senza un ricciolo in disordine o coreograficamente trasandate in lingerie di pizzo, che sorridono dalle pagine dei giornali o dagli schermi della televisione, assorte nella lettura di poderosi tomi nei momenti di tempo libero, ma pronte ad agghindarsi per l’happy hour, proprio il giorno prima di un colloquio di lavoro, che naturalmente le vedrà magnificamente a proprio agio e in grado di colpire favorevolmente l’interlocutore, per l’eleganza del loro tailleur oltre che per la brillantezza dell’eloquio, in una girandola di situazioni che vedrebbero le «donne normali», generalmente dotate di mutande dall’elastico slabbrato e del buon proposito di andare dal parrucchiere più spesso, tremare come foglie in vista del «d-day» con l’insano, e liberatorio, desiderio di barrire al mondo la loro vera e vibrante imperfezione.

Ti odio!

Al di là dell’invidia per l’amica (amica? conoscente!) che non ha mai un capello fuori posto, se proviamo a farne una questione di numeri, Barbie è guardata con diffidenza dai più e detestata da molti. Poco male se l’acredine è nutrita da chi ha superato i due lustri di età: compiuti i dieci anni, ormai, si è già fuori dalla fascia ritenuta «interessante» in casa Mattel per piazzare le prime Barbie Pink Label™. Se, infatti, fino a qualche anno fa la clientela attratta dalla bionda bambola e pronta a impegnare costantemente le proprie paghette settimanali per dotarla del necessario si attestava alle preadolescenti, oggi sono le bambine fra i quattro e i sette anni le principali destinatarie di Barbie e di tutti i suoi accessori, la quale, significativamente, nell’ultima stagione veste i panni delle principesse delle favole. Per coloro che escono dalla scuola materna per approdare a quella elementare sono anche concepiti il necessaire per la scuola, le linee di abbigliamento, le calzature e così via, che portano l’inconfondibile marchio brevettato da casa Mattel. A loro sono destinati i videogiochi e i film, dalle cui custodie la fanciulla occhieggia sorridente promettendo svago e libertà, rispettivamente, a bambine e genitori. Per loro è concepito un apposito sito, declinato in centoquaranta versioni – tante quanti sono i paesi dove la bambola è presente sul mercato –, dove le possibilità di interagire con Barbie si moltiplicano, nel tentativo di rendere fedeli (o «fidelizzare» come si dice in gergo) delle utenti quanto mai volubili, pronte nel fatidico passaggio dai sette agli otto anni ad abbandonare spensieratamente e con malcelata indiffe144

renza chi per anni si è proposta come migliore amica e fidata custode di tutti i segreti. A poco serve il fatto che, per speciali occasioni come i compleanni, Barbie sia anche disposta ad abbandonare le sue romantiche gonne fruscianti per vestirne una di pan di spagna, marzapane e confettini. L’immagine di Barbie sorridente, anche se per metà coperta di sciroppo alla fragola e per l’altra metà da un panettone glassato, che troneggia al centro di una tavola imbandita, rimbalza da un sito all’altro per ispirare le mamme in cerca di idee per festeggiare le figlie, ma altro non sembra per la bionda nata e cresciuta con ben altre aspirazioni che l’anticamera per quello che l’aspetta una volta cresciuta la padroncina. Nel migliore dei casi Barbie viene lasciata a marcire in un angolo (da dove forse in una fase particolare della maggiore età verrà ripresa, vestita con più orpelli di una sposa di provincia e truccata da travestito d’altobordo). Ma può anche accadere che il congedo prenda la forma di un rituale voodoo. Le cronache, sempre più spesso, fanno registrare Barbie con la testa rapata, il sorriso ridotto a sberleffo con un pennarello, gli occhi pesti... per non parlare delle braccia o delle gambe spezzate... o dell’arrostimento a colpi di microonde... Nessun altro giocattolo ha subito e subisce tante decapitazioni, scotennamenti e mutilazioni. L’accanimento con il quale tali pratiche sono state messe in atto, nonché la loro diffusione, il tutto unito alla notorietà di una bambola che più di una volta si è attirata gli strali del mondo «culto» e progressista, ha incuriosito frotte di ricercatori di psicologia e li ha condotti a indagare sulle ragioni di un tale, plateale, smaccato odio. E dato che la cosa si è ripresentata in periodi diversi, in cui in maniera diversa Barbie dominava mercato e giochi infantili, diverse sono state le diagnosi rilasciate. In passato, si è ipotizzato che tanto malanimo nei confronti di un’imbelle pupattola al momento dell’abbandono fosse causato proprio dal suo aspetto inequivocabilmente adulto. Proprio l’obiettivo che la sua creatrice Ruth Handler si era prefissa di raggiungere, quello di traghettare verso l’età 145

adulta le bambine, aiutandole tramite la bambola a prefigurare il loro futuro, era alla base di un sadismo che trovava sfogo nella mutilazione. Sfigurando colpendo la prosperosa Barbie, le bambine esprimevano tutto il loro dissenso nei confronti di una crescita indesiderata e i timori per il passaggio a quel «mondo dei grandi», dal quale non è possibile fare ritorno all’infanzia. Oggi, gli eredi di quegli stessi ricercatori, osservando l’estrema voluttà con la quale le bambine seviziano la loro Barbie, danno della cosa un’interpretazione estremamente differente. Sebbene immediatamente identificabile grazie al bagliore del ciuffo biondo e all’indimenticabile rosa chewinggum, la moltiplicazione della bambola nelle sue mille versioni, croce e delizia dei collezionisti, disorienta chi con Barbie vuole solo giocare. La confusione che genera l’abbondanza dei modelli è l’esatto contrario di ciò che deve necessariamente possedere un giocattolo, tanto più se esso, come accade per Barbie oggi, è indirizzato alla prima età scolare. Barbie difetta di quella riconoscibilità che suscita l’affezione. E da perfetta e indifferente sconosciuta, diventa il bersaglio di tutte quelle crudeltà, che i bambini oggi possono sperimentare direttamente dopo un’attenta osservazione in televisione. Afferma Agnes Nairn, autrice di uno studio sull’argomento: I bambini non parlano mai di una Barbie in particolare. Quando ne parlano, fanno sempre riferimento a scatole piene di Barbie, per cui per loro la bambola è quasi diventata il simbolo dell’eccesso. Le Barbie non sono speciali: sono usa e getta e vengono buttate via e rifiutate. Nell’intimo, è diventata un oggetto inanimato. Ha perso quel calore individuale che forse aveva quando veniva percepita come un individuo singolo. Questo potrebbe spiegare la violenza e la tortura.

La foga con cui gli infanti si esercitano sulle bambole sbiadisce a fronte di quello, elaborato fino ad assurgere a forme 146

artistiche, di cui si dimostrano capaci gli adulti. Innumerevoli i motivi che conducono a colpire la fanciulla californiana e a sottoporla a sevizie. In un Occidente satollo fino alla nausea, l’indole consumistica di Barbie attira più di una critica. Questa ragazzona mai contenta di quello che ha, e che a ogni nuovo acquisto già pregusta il successivo, ancora più vistoso, non può secondo i critici non influenzare negativamente bambini e bambine: Barbie insegna ad acquistare non per sovvenire a una necessità, ma semplicemente per acquistare in sé e per sé, e incita all’acquisto continuo, interminabile, arrivando ad assumere i tratti distorti e grotteschi di ancella del consumismo. Accanto a una tale bramosa voracità, l’altro motivo di rimprovero è la vieta riproposizione di luoghi comuni sulle donne e le loro facoltà intellettive: in una versione parlante di qualche anno fa, Barbie afferma che «la lezione di matematica è difficile», scatenando le ire di chi interpreta la frase come «le ragazze non sono abbastanza intelligenti per studiare matematica». Ulteriore antipatia scatenano quel suo aspetto fisico inappuntabile e quel sorriso indelebile che nulla può scalfire. La catarsi si può manifestare tramite gioielli che al posto delle pietre ostendono brani del corpo di plastica dell’odiata bambola come trofei di guerra: ciondoli con raggiere di natiche o di tette a formare un fiore, pendenti da cui ondeggia un’ormai gelida manina, anelli con il noto sorriso e, si spera, un valore apotropaico. Ma non sempre la brama di distruzione si accompagna a preoccupazioni estetiche e l’istinto di profanazione e il bisogno di comunicazione possono manifestarsi con insolite urgenze in coloro che, senza troppi complimenti, espongono Barbie fatta a pezzi dentro un frullatore o sfigurata dal calore o dal vetriolo o, finalmente, mentre, dovendo comunque proteggere la verginità, con doviziosa lentezza si esercita in una fellatio con l’amato Ken, dalle protuberanze per una volta regolari. Non mancano sfregi letterari, come quello, godibilissimo, di Chiara Rapaccini, che in Povera Barbi, riporta la confes147

sione della bambola che dalle colline di Beverly Hills per rovesci di fortuna, mai comunicati da casa Mattel, si è ritrovata temporaneamente a vivere fra topi e cimici, abbandonata da Ken fidanzatosi con una rivale. Per il pomeriggio, mi ero confezionata uno scamiciato in tela di sacco con toppe di cartone (collezione «Barbi sfigata: vita nel fango») che indossavo con un certo cappellino fatto di tappi di birra e ai piedi lattine di pepsi legate tra loro e fissate sotto alla pianta del piede con la corda. Ogni tanto infatti rimpiangevo i tacchi, che rendevano le mie gambe affusolate ancora più eccitanti. La sera lavoravo ai ferri (letteralmente, erano due ferri pescati in una discarica), un maglione per Skifer, un gilè per me, oppure calzerotti per tutti e due. La lana l’avevo sostituita con lunghi fili di paglia che a dire il vero non erano morbidissimi, ma in compenso isolavano magnificamente dall’umido. Ma dove mi sbizzarrivo era nei gioielli. I tappi dorati delle bottiglie, gli avanzi di lamiera, i turaccioli, i noccioli di pesca, le lische di pesce, si trasformavano nelle mie mani in allegre collane, lunghi orecchini a pendaglio, bracciali da indossare a tutte le ore del giorno (vedi «Barbi sfigata-gioielli», collezione «L’allegra poverella»).

Anche in queste pagine deliziosamente sarcastiche Barbie non riesce, però, a non risalire la china, a non avere un successo eclatante e naturalmente a non dettare uno stile, lo stile. Un giorno inciampai per la strada e la gonna si impigliò in uno spunzone. Ci fu uno strappo terribile all’altezza del sedere e me ne dovetti tornare a casa con le mutande bene in vista tra gli sguardi divertiti dei passanti. Un fotografo (in quei giorni mi perseguitavano) appostato dietro l’angolo, mi immortalò con la gonna bucata e sporca di terra e polvere. Il giorno dopo ero in prima pagina sulla cronaca di Denver. «Barbi non finisce di stupirci! Da oggi la gonna si porta strappata sul sedere!» Da quel momento non feci che incontrare signore che portavano le sottane lacerate a bella posta sul didietro e per di più imbrattate di fango. 148

Inutile dire che nel finale, Barbie lascia la discarica e torna sulle colline di Beverly Hills, nuovamente con begli abiti e con l’adorato Ken, nuovamente in tiro, pronta a riprendere la solita vita e a riprendere le fanciulle di ogni età, nelle loro quotidiane mancanze, con l’indice teso e un sorriso condiscendente. Certo, non è la sola a guardare dall’alto in basso le ragazze che, per i più svariati motivi, hanno il girovita appesantito, il colletto della camicia gualcito, la calza sfilata... Ancora oggi, i milioni di donne che nel mondo guidano autobus e trattori, si destreggiano tra provette e manoscritti, asfaltano strade e sminano campi, non riescono a dominare l’angoscia che le assale per l’«imperfezione» del loro aspetto fisico. Anche se da tempo hanno riposto le bambole, dalle patinate pagine delle riviste femminili, Barbie con il suo fisico «perfetto» continua a tormentarle, come sottolinea Eve Ensler, nel suo Il corpo giusto. L’attenzione delle donne è così occupata da pancia, glutei, cosce, capelli o pelle da non avere più spazio per la guerra in Iraq o per qualsiasi altra cosa. Il modello del corpo perfetto è stato programmato in me fin dalla nascita. Ma al di là delle influenze culturali e delle pressioni esterne, sono stata io a impormi la preoccupazione per il grasso di troppo, la dieta, l’esercizio e il tormento costanti. Io compro le riviste, io credo in questo ideale, io sono convinta che le ragazze bionde e magre conoscano il segreto.

Sicuramente Barbie conosce il segreto di cui parla Ensler, ma anche con tutti i suoi ammennicoli che rendono la vita di Barbie sempre più simile alla nostra, altro non è che una bambola: plastica e vernice. Non carne e ossa, e da chi di carne e ossa è fatta non può essere imitata. Impossibile dire se le donne occidentali continueranno, anche inconsciamente, a voler imitare Barbie, e a voler impersonare, al di là della professione svolta, quell’ideale accogliente, attraente, disponibile e rigorosamente taglia 42 (una misura pesante da rispettare quanto l’obbligo di portare il burqa), che equivale all’«eter149

no femminino» elaborato dalla modernità. Affrancarsene è, in verità, assai difficile, perché, come si chiede Fatema Mernissi, autrice di L’harem e l’Occidente: «Come si fa a organizzare una marcia politica credibile, e gridare nelle strade che i tuoi diritti umani sono stati violati perché non riesci a trovare una gonna che ti va bene?». Eppure, è con quest’ultimo capestro che le donne, che hanno raggiunto per molti versi la parità, sono vessate. L’accusa che in proposito lancia Germaine Greer dalla pagine della Donna intera. Una donna che non vivesse per impersonare le fantasie sessuali maschili, che non confidasse su un uomo per acquisire identità e status sociale, una donna che non fosse obbligata a essere bella, che potesse essere intelligente e che invecchiando acquistasse sempre maggiore autorità. [...] Il marketing occidentale cominciò a blaterare su di lei ricorrendo alla sua vasta panoplia di effetti spettacolari, proclamando con sussiego e strombazzando ai quattro venti il vangelo altamente seduttivo della salvazione secondo la Barbie senza fianchi, senza utero e dalle tette dure. Le forti donne infilarono il loro piede muscoloso nei tacchi a spillo e impararono a trottare. Stiparono i loro utili seni nei reggipetti e invece del latte materno presero a nutrire i loro figli con formule commerciali fatte d’acqua sporca; spesero quei soldi di cui disponevano in rossetti e smalti per unghie e vennero trasformate in donne moderne.

La Barbie è una donna moderna: spezzata, frigida e privata della maternità, ma in grado di affrontare mille mestieri sempre con una manicure impeccabile, espressione palpabile e vincente della sostanziale subalternità femminile odierna. Mentre le femministe occidentali lottavano strenuamente per conquistarsi una chiave d’accesso alle stanze da bagno del potere, lo stereotipo femminile completava la sua conquista del mondo.

Naturalmente Barbie non è l’unica responsabile di come vanno le cose, né la principale. Ma ha un che di rassicurante 150

venire a sapere che da qualche tempo le bambine snobbano la bionda californiana, anche se per rendersi più allettante ha cominciato di nuovo a tingersi i capelli in diverse sfumature e scopre l’ombelico (che prima non aveva) con abiti da teenager. Non serve. Le bambine di oggi sono attratte da altre bambole, da altri miti. Prime della lista sono le cinque Winx, e non solo perché ostentano un ombelico sicuramente meno stagionato di quello di Barbie. Nate in una nostrana Cartoonia e solo da poco uscite dal piccolo schermo per approdare prima a quello grande e poi al fantastico mondo dei giocattoli per bambine, le apprendiste fate Bloom, Musa, Flora, Stella e Tecna vivono in una dimensione extraterrestre che le esimerebbe da ogni obbligo proiettivo nei confronti delle bambine che con loro si intrattengono. Eppure a fronte di una Barbie in carriera, costretta a coltivare ora e sempre il proprio aspetto e a rinunciare alla maternità, pur essendo ancora studentesse al college delle fate Alfea, le cinque adolescenti Winx sembrano far preconizzare un futuro da «donne intere». Forti ciascuna di un proprio carattere, malgrado siano affascinate dalle mode e dalla moda (e, ahimè, anche dal rosa fucsia, ma nessuno è perfetto), si sforzano di sviluppare i loro singoli talenti, che reggono il confronto con quelli dei loro accompagnatori, i quali – al contrario del povero e frustrato Ken – ci immaginiamo in un futuro prossimo felici papà di magici e soddisfatti poppanti. Sfidanzate, e felici della loro autonomia, sono invece le Bratz, monelle per l’appunto. Queste fanciulle, dall’aspetto di chi è appena uscito da un ghetto ma è sicurissimo di tornarci, e non solo a dormire, non hanno letto molto; sicuramente ignorano ogni tipo di galateo. Vestono jeans strappati, calzano pericolosissimi trampoli e amano il trucco vistoso: un affronto all’eleganza calcolata di Barbie, sempre attenta a non portare accessori scoordinati, ma un sostanziale inno alla libertà nelle apparenze. Aggressive, sboccate, con i loro occhi pesantemente bistrati e le labbra in evidenza, sicuramen151

te non si possono definire belle. Finalmente, nella distorsione della realtà che fa il giocattolo mimetico, viene a cadere l’obbligo estetico, con un effetto – si spera – autenticamente liberatorio. Le bambine, costrette all’apparecchio dentale o latinamente brune, finalmente hanno trovato bambole che non dicono loro come dovrebbero essere, cominciando dall’aspetto fisico per finire a modi e maniere, ma bambole in cui riconoscersi e delle quali, malgrado difetti e imperfezioni, si può essere migliori: «le brave ragazze andranno pure in paradiso, ma le cattive vanno dappertutto». Non è un caso che le bambine di oggi adorino il menefreghismo delle Bratz, trovando stucchevole e antiquata Barbie, che malgrado i tentativi di ringiovanimento, sembra di nuovo destinata come la sua lontana sorella maggiore Lilli a essere un giocattolo per adulti. Del resto che cosa può aspettarsi la nostra fanciulla che come un Van Gogh appena riscoperto viene battuta da Christie’s? Si consoli sapendo che nella versione numero uno, datata 1959, può raggiungere l’astronomico prezzo dei 740.000 euro. Si rincuori sapendo che, in casa Mattel, si pensa a risollevarla dall’insuccesso in cui è incorsa a inizio millennio, promuovendone l’ingresso nel mondo virtuale. E si senta lusingata quando, al volante della sua decappottabile con un bianco cappello da cowgirl, sorride a chi visita il Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Noi, adesso, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Barbie, grazie al cielo, ormai è roba da museo.

Bibliografia

La bambola Barbie è stata, sin dal suo apparire, protagonista di diversi saggi; da ricordare fra i più recenti e aggiornati Billyboy, Barbie, Her Life and Times, Crown Publishers, New York 1992; M.G. Lord, Forever Barbie. The Unautorized Biography of a Real Doll, Avon Books, New York 1994; M. Tosa, Barbie. I mille volti di un mito, Mondadori, Milano 1997; M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie poupée totem. Entre mère et fille, lien ou rupture?, Editions Autrement, Parigi 1998; M.F. Rogers, Barbie culture, Sage, Londra 1999; I. Germano, Barbie, Castelvecchi, Roma 2000; M. Debouzy, La bambola Barbie, in «Acoma», wwwesterni.unibg.it/acoma/2/11.pdf; A. Scacchi, Barbie, da fidanzata d’America a icona pop, in Miti americani oggi, a cura di C. Ricciardi e S. Vellucci, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 237-246. Si tratta, naturalmente, di una produzione in qualche modo critica, mentre supervisionato dalla Mattel è il libro Barbie. Guida completa fashion, Fabbri, Milano 2000, sorta di biografia autorizzata.

Lilli Sulla figura di Lilli si sofferma M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie poupée totem, cit., pp. 18-43. La traduzione del testo di Joseph Goebbels è tratta da www.olokaustos.org/saggi/saggi/donne/donne1.htm; la traduzione del testo di Fritz Lenz è tratta da www.olokaustos.org/saggi/saggi/donne/donne2.htm.

È nata una stella Le parole di Ruth Handler sono tratte da M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie poupée totem, cit., p. 29; il volto oscuro della capitale 153

del cinema è rivelato da K. Anger, Hollywood Babilonia, Sugar, Milano 1960, la citazione si trova a p. 16; la vicenda di Moll Flanders è al centro dell’omonimo romanzo di Defoe (D. Defoe, Moll Flanders, Garzanti, Milano 1999, ed. or. 1722); la citazione, tratta dal lungo sottotitolo dell’edizione originale, si trova a p. XIV.

Diventare grandi Al tema del gioco con le bambole sono dedicati F. Gicca Palli, La bambola. La storia di un simbolo dall’idolo al balocco, Convivio, Firenze 1990 e Giocattoli. Produzione ed evoluzione dal XVIII al XX secolo: dai manufatti artigiani alla bambola Barbie, Electa, Napoli 1998; in particolare, nel corso del testo vengono citati R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1981 (ed. or. 1967), p. 12; V.I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2006, p. 233; A. Manzoni, I promessi sposi, Mondadori, Milano 1999 (1a ed. 1840), p. 149; W. Benjamin, Giocattolo e gioco, in Il bambino che gioca, a cura di M. Trinci, Bollati Boringhieri, Torino 1973, pp. 111-115; R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994 (ed. or. 1957), p. 52. Sui meccanismi che regolano la civiltà dei consumi un insuperato classico rimane V. Packard, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1989 (ed. or. 1958), puntualmente citato alla p. 111. Più in generale, sull’argomento, si veda V. De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006, mentre su certo tipo di atteggiamento consumistico definito come tipico delle adolescenti si può leggere Tiqqun, Elementi per una teoria della jeune-fille, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

99-53-83 Un’efficace introduzione al tema della moda è costituito da G. Simmel, La moda, Editori Riuniti, Roma 1985 (ed. or. 1895). Un quadro d’insieme sulla moda del Novecento si ricava da E. Morini, Storia della moda, Skira, Milano 2000; dedicate alle singole persona154

lità dell’haute couture sono P. White, Poiret, Studio Vista, Londra 1973 (le parole di Poiret sono riportate a p. 29); A. Madsen, Chanel. Una vita, un’epoca, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1990; M.-F. Pochna, Christian Dior, Flammarion, Parigi 1994 (la citazione si trova a p. 177). La citazione dal «Ωurnal dlja choziajek» è tratta da H. Blignaut e L. Popova, Maschile, femminile e altro. Le mutazioni dell’identità della moda dal 1900 ad oggi, Franco Angeli, Milano 2005, p. 84.

Chic! Alcuni lati privati del carattere di Jacqueline Lee Bouvier Kennedy emergono dalla lettura di M. Sgubin, Cucinando per Madam: ricette e ricordi dalla casa di Jacqueline Kennedy Onassis, Campanotto, Pasian di Prato 2002; i consigli sulle regole da seguire nell’abbigliamento sono elargiti da G.A. Dariaux, Guida all’eleganza, Mondadori, Milano 2005 (ed. or. 1964): per i passi citati passim.

L’incubo di Betty Friedan L’opera più importante della famosa scrittrice femminista americana è B. Friedan, La mistica della femminilità, Edizioni di Comunità, Milano 1982 (ed. or. 1963).

Domani mi sposo... I testi noti come rapporti Kinsey sono A.C. Kinsey, W.B. Pomeroy e C.E. Martin, Sexual Behaviour in the Human Male, W.B. Saunders Company, Philadelphia-Londra 1948 e A.C. Kinsey, W.B. Pomeroy, C.E. Martin, P.H. Gebhard, Sexual Behaviour in the Human Female, W.B. Saunders Company, Philadelphia-Londra 1953, sui quali in Italia si può leggere L. Saffirio, Il rapporto Kinsey e le differenze di comportamento fra la donna e l’uomo, in Il pensiero americano contemporaneo, dir. da F. Rossi-Landi, Edizioni di Comunità, Milano 1958, 2 voll., II, Scienze sociali, pp. 223-298. Innu155

merevoli edizioni ha avuto sin dal suo apparire B. Spock, Il bambino. Come si cura e come si alleva, Antonio Vallardi, Milano 2005 (ed. or. 1945). Emblema di un’epoca è S. Plath, La campana di vetro, Milano, Mondadori 2007 (ed. or. 1963): la citazione è tratta dalle pp. 70-71.

L’età ingrata Romanzo chiave per la comprensione di un’intera stagione è J.D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, Torino 2004 (ed. or. 1951). Un’autobiografia della creatrice di moda più importante della «swinging London» è M. Quant, Quant by Quant, Cassell, Londra 1966. Le parole di Barbie sono tratte da L. Jacobs, Barbie, Leonardo International, Milano 1997 (ed. or. 1994), p. 12. Le frasi pronunciate da Barbie Talking sono riportate in M. Tosa, Barbie. I mille volti di un mito, cit., p. 44.

Black is black... Molto estesa è la bibliografia sulla questione razziale negli Stati Uniti: una rapida e aggiornata sintesi dei principali avvenimenti si trova in R. Petrignani, L’era americana. Gli Stati Uniti da Franklin D. Roosevelt a George W. Bush, il Mulino, Bologna 2001. Sulla storia dell’America raccontata da Barbie si veda G. Giuliani, Barbie insegna la storia ma quante dimenticanze, in «la Repubblica», 9 aprile 2005, e B. Thompson, The World According to Barbie, in «The Washington Post», 27 marzo 2005; sul «test della bambola», A. Sacchi, La più bella? Quella dalla pelle bianca..., in «Corriere della Sera», 9 agosto 2006.

Yankee go home Per un primo approccio all’americanistica in Italia si veda F. Fasce, American Studies in Italy, in «European Journal of American Studies», EJAS 2006, http://ejas.revues.org/document404.html. 156

Sulla percezione degli Stati Uniti in Europa si può leggere F. Romero, Dalla convergenza alla divaricazione: l’America nell’immaginario dell’Europa occidentale, in Quale occidente, occidente perché, a cura di T. Bonazzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 189201. Dedicato all’antiamericanismo in Italia è M. Teodori, Maledetti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio antiamericano, Mondadori, Milano 2002, da cui sono tratte le citazioni di J. Evola e di «Civiltà cattolica» (rispettivamente p. 64 e p. 105). Il parere di Carlo Levi è espresso in C. Levi, Discorso sul Vietnam, in Id., Il dovere dei tempi. Prose politiche e civili, a cura di L. Montevecchi, Donzelli, Roma 2005, p. 311. I passi sull’ideale comportamento femminile sono tratti da Enciclopedia della donna, a cura di D. Bertoni Jovine, Editori Riuniti, Roma 1965, 2 voll., I, pp. 348-349. Il testo della canzone Cocco e drilli è rintracciabile in www.filastrocche.it/nostalgici/canzoni/coccodri.htm.

Crisi di crescita Le parole di Barbie sugli anni Settanta sono tratte da L. Jacobs, Barbie, cit., pp. 13-14. La letteratura sull’affermazione del movimento femminista è copiosa: un primo approccio è possibile a partire dalla rivista «Genesis», in particolare Anni Settanta, III, 2004, 1 e Femminismi e culture. Oltre l’Europa, IV, 2005, 2.

Una nuova casa Innumerevoli sono i numeri di «Topolino» che contengono pubblicità di Barbie: è possibile vedere parte di questa produzione in www.webalice.it/pisapia/cartolina.htm. Sull’atmosfera degli anni Settanta in Italia un grande affresco d’insieme è dato da G. Crainz, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003. Informazioni sul club francese delle amiche di Barbie sono reperibili in M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie poupée totem, cit., pp. 212-227.

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Buone maniere Uno dei primi libri che Barbie dedica a se stessa in Italia è Dolly & Gloria, La casa di Barbie, Giunti Marzocco, Firenze 1976. Matrice di ogni libro sul comportamento da tenere in pubblico è, naturalmente, G. Della Casa, Galateo, a cura di S. Prandi, introd. di C. Ossola, Einaudi, Torino 1994 (1a ed. 1558), generalmente contrapposto al coevo B. Castiglione, Il libro del cortegiano, a cura di A. Quondam, Garzanti, Milano 1981 (1a ed. 1528). Alla diffusione dei galatei nell’Europa preindustriale è dedicato I. Botteri, Galateo e galatei. La creanza e l’instituzione della società nella trattatistica italiana tra antico regime e stato liberale, Bulzoni, Roma 1999; moltissime edizioni ha avuto C. Rosselli, Il saper vivere di Donna Letizia, Mondadori, Milano 1960; recentemente alcuni fascicoli dell’Enciclopedia della donna, pubblicati originariamente sciolti con cadenza settimanale, sono confluiti nel centone La grande enciclopedia della donna, Rizzoli, Milano 2006; non ha più goduto invece del successo iniziale B. Gasperini, Il galateo di Brunella Gasperini. Guida utile, divertente, aggiornatissima ai misteri del galateo che cambia, Sonzogno, Milano 1975, la cui citazione è tratta dalle pp. 5-6.

La «vie en rose» La predilezione di Barbie per il rosa è documentata in L. Jacobs, Barbie, cit., p. 16. Il testo della canzone La vie en rose è reperibile in http://www.canzoni-mp3.net/testo_la_vie_en_rose.htm. Interamente dedicato al significato dei colori è M. Pastoureau, Dictionnaire des couleurs de notre temps: symbolique et société, Bonneton, Parigi 1992; sul dubbio significato del rosa S. Kracauer, Gli impiegati. L’analisi profetica della società contemporanea, Einaudi, Torino 1980 (ed. or. 1930), la cui citazione è a p. 21. Schede sui film Blue Velvet e Mulholland Drive si trovano rispettivamente in www.film.tv.it/ scheda.php/film/7662/velluto-blu/ e www.mymovies.it/dizionario/ recensione.asp?id=33782.

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I mille volti dell’«american dream» L’entusiasmo di Barbie per gli anni Ottanta è dichiarato in L. Jacobs, Barbie, cit., p. 14. Sul conformismo statunitense testo di riferimento rimane D. Riesman, La folla solitaria, il Mulino, Bologna 2006 (ed. or. 1950); a interessanti riflessioni conduce T.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954; innumerevoli ristampe ha avuto sin dal momento della sua uscita N.V. Peale, Come vivere in positivo, Bompiani, Milano 2002 (ed. or. 1952).

Barbie burqa Notizie sulla politica di produzione della Mattel si trovano in M. Tosa, Barbie. I mille volti di un mito, cit. I diversi modelli di Barbie sono raffigurati e descritti in Barbie. Guida completa fashion, cit. Le notizie sulla produzione taiwanese si ricavano da S. Pucci, In a Chinese Barbie World, in «Din Sum. The British Chinese community website», 9 dicembre 2006, www.dimsum.co.uk/culture/in-a-chinesebarbie-world.html; sul lavoro minorile in fabbriche produttrici per conto Mattel si legga I vestiti della Barbie cuciti dalle bambine, in «Corriere della Sera», 24 maggio 2005, consultabile anche sul sito www.romaeconomia.it/attachment/163894Vestiti%20delle%20b arbie%20cuciti%20da%20bambine_24-5-07.pdf. La descrizione di Sara e Dara si trova in Licca Chan, Sara e Dara: il giro del mondo in ottanta bambole, 8 aprile 2002, www.dispenseronline.rai.it /show.php?id=500 mentre a Fulla, Razanne e alle bambole neoevangeliche sono dedicati K. Zoepf, Fulla, la Barbie con il velo che fa impazzire il Medio Oriente, in «la Repubblica», 23 settembre 2005 e M.N. De Luca, Barbie, Violet e Razanne le bambole tra Bibbia e chador, in «la Repubblica», 23 novembre 2005. La difesa di Barbie da parte dell’autrice del Rapporto Hite (Milano 1976) si trova in Shere Hite, Questioni erotiche. Barbie fuori legge, in «D. la Repubblica delle donne», 14 aprile 1998.

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Le smanie del collezionismo Le ossessioni collezionistiche sono magistralmente descritte in W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 2000 (ed. or. 1936), pp. 79-123. Tutte le serie di bambole richiamate sono rintracciabili in www.barbie.it. Un autentico prontuario per chi voglia cominciare a collezionare Barbie è costituito da J. Fennick, Barbie: guida per collezionisti, Idea libri, Rimini 2000 (ed. or. 1998); molteplici sono i siti che gli appassionati di Barbie dedicano alla loro beniamina: particolarmente accurato, fra gli altri, risulta www.mistergiuseppe.it, all’interno del quale alcune pagine sono riservate alla fruizione per soli adulti.

È bello ciò che è bello Il verso di Petrarca è tratto da F. Petrarca, Il canzoniere, testo critico e introd. a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1964, p. 123, XC. Sul significato nella società occidentale dei capelli biondi si veda J. Pitman, Tutto sulle bionde, Longanesi, Milano 2004; importante testimonianza sui procedimenti di bellezza in uso nel nostro Rinascimento è il manoscritto degli Experimenta, compilato da Caterina Sforza nel 1504 e conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze; le parole di Tiziano sono tratte da D. Calanca, Storia sociale della moda, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 54; l’immagine della bionda svampita si cristallizza a partire da A. Loos, Gli uomini preferiscono le bionde, Sellerio, Palermo 2001 (ed. or. 1925); una scheda sull’omonimo film si può reperire su www.mymovies.it/diziona rio/recensione.asp?id=26506 mentre su www.mymovies.it/dizio nario/recensione.asp?id=33888 si può leggere quanto relativo a La rivincita delle bionde. Sulla bellezza e i mutamenti nella sua concezione è oggi consultabile G. Vigarello, Storia della bellezza, Donzelli, Roma 2007 (ed. or. 2004); sull’argomento si veda anche V.I. Stoichita, L’effetto Pigmalione, cit. La definizione della bellezza è tratta da C. Ripa, Iconologia, Tea, Milano 1992, (1a ed. 1598), p. 38. Sulla fisiognomica testo principe è G.B. Della Porta, Della fisonomia dell’uomo, Ugo Guanda, Parma 1988 (1a ed. 1610), la cui lettura può 160

essere introdotta da L. Rodler, I silenzi mimici del volto. Studi sulla tradizione fisiognomica italiana fra Cinque e Seicento, Pacini, Ospedaletto 1991. Gli approfondimenti novecenteschi sull’argomento sono rinvenibili in R. Kassner, I fondamenti della fisiognomica. Il carattere delle cose, Neri Pozza, Vicenza 1997 (1a ed. 1922).

La donna perfetta Su Barbie come modello stereotipato di bellezza G. Jacomella, Una mostra trasforma le donne in tante Barbie, in «Corriere della Sera», 1° agosto 2005; una scheda sul film La donna perfetta si può leggere in www.film.it/cinema/schedafilm.php?id=13854 mentre notizie sugli Aqua e l’intero testo della canzone si trovano in J. Tysk, Il mondo degli Aqua, Arcana editrice, Padova 1998, pp. 33-39.

Ti odio! Un esemplare di torta Barbie si può ammirare in www.gennari no.org/tortabarbie.htm. Sul disagio sull’omologazione dei giocattoli e delle Barbie in particolare si legga R. Denti, Gioco, paura, divertimento: conversazione e consigli sulla letteratura giovanile, in Da Cenerentola a Barbie. Percorsi nella letteratura dell’infanzia, a cura di L. Zoffoli, Giunti, Firenze 1996, pp. 54-60. Le notizie sulle sevizie riservate alle loro Barbie da alcune bambine inglesi si trovano in La dura vita delle Barbie: «Le bambine in realtà le odiano», in «City», 19 dicembre 2005. Notizia del lavoro di Agnes Narn si può ricavare dal sito http://www.bath.ac.uk/news/articles/releases/ barbie161205.html. Sul fatto che Barbie possa essere un giocattolo «pericoloso» si veda R. Caprile, Israele, basta Barbie negli asili, in «la Repubblica», 6 settembre 2005. Sulla crisi di tutti i giocattoli del boom si veda E. Livini, Polistil & C., Il crac dei giochi anni ’70, in «la Repubblica», 14 novembre 2005. Un ritratto totalmente dissacrante di Barbie è quello fatto da C. Rapaccini, Povera Barbi, El, Trieste 1997, da cui sono tratte le citazioni passim. Alcune Barbie politicamente scorrette sono presenti in www.trailertrashdoll.com. Nel corso del testo vengono inoltre richiamati E. Ensler, Il corpo 161

giusto, Tropea, Milano 2005, p. 11; F. Mernissi, L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze 2000, p. 171; G. Greer, La donna intera, Mondadori, Milano 2000 (ed. or. 1999), p. 7. Sulla recente strategia della Mattel per promuovere Barbie si veda E. Assante, Barbie, l’icona delle teenager diventa hi-tech, in «la Repubblica Affari e Finanza», 14 aprile 2008.

Indice

Ringraziamenti

VII

Lilli

3

È nata una stella

10

Diventare grandi

16

99-53-83

22

Chic!

29

L’incubo di Betty Friedan

38

Domani mi sposo...

45

L’età ingrata

54

Black is black...

62

Yankee go home

69

Crisi di crescita

78

Una nuova casa

85

Buone maniere

92 163

La «vie en rose»

98

I mille volti dell’«american dream»

106

Barbie burqa

115

Le smanie del collezionismo

123

È bello ciò che è bello

132

La donna perfetta

137

Ti odio!

144

Bibliografia

153