La disciplina del mercato mobiliare 9788892111998, 889211199X

Negli ultimi anni, la disciplina delle attività finanziarie ha subito profonde trasformazioni, conseguenti sia all’inter

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La disciplina del mercato mobiliare
 9788892111998, 889211199X

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Indice
Capitolo 1 - INTRODUZIONE. LA DELIMITAZIONE DELLA MATERIA E L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA
Capitolo 2 - LE AUTORITÀ DI VIGILANZA EUROPEE E NAZIONALI
Capitolo 3 - LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. LA VIGILANZA SUI SOGGETTI ABILITATI
Capitolo 4 - LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. ESPONENTI AZIENDALI, ASSETTI PROPRIETARI E CORPORATE GOVERNANCE
Capitolo 5 - SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: NOZIONI GENERALI
Capitolo 6 - SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: RISERVA DI ATTIVITÀ E ACCESSO
Capitolo 7 - SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: REGOLE DI CONDOTTA E DI ORGANIZZAZIONE INTERNA. I CONTRATTI E LA SEPARAZIONE PATRIMONIALE
Capitolo 8 - SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: LE SPECIFICITÀ DEI SINGOLI SERVIZI. OFFERTA FUORI SEDE E TECNICHE DI COMUNICAZIONE A DISTANZA
Capitolo 9 - LA GESTIONE COLLETTIVA DEL RISPARMIO
Capitolo 10 - LA VIGILANZA PRUDENZIALE SUGLI INTERMEDIARI
Capitolo 11 - LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. PROVVEDIMENTI INGIUNTIVI E CRISI
Capitolo 12 - GLI INTERMEDIARI NON BANCARI NON REGOLATI DAL TUF: FONDI PENSIONE, SOGGETTI OPERANTI NEL SETTORE FINANZIARIO, SOCIETÀ DI CARTOLARIZZAZIONE
Capitolo 13 - I SISTEMI DI NEGOZIAZIONE
Capitolo 14 - CONTROPARTI CENTRALI, DEPOSITARI ACCENTRATI E GESTIONE ACCENTRATA
Capitolo 15 - L’OFFERTA AL PUBBLICO DI PRODOTTI FINANZIARI
Capitolo 16 - LE OFFERTE PUBBLICHE DI ACQUISTO
Capitolo 17 - L’INFORMAZIONE SOCIETARIA. L’INSIDER TRADING E GLI ABUSI DI MERCATO
Capitolo 18 - DISCIPLINA DEGLI EMITTENTI E DISCIPLINA DEL MERCATO MOBILIARE
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LA DISCIPLINA DEL MERCATO MOBILIARE

FILIPPO ANNUNZIATA

LA DISCIPLINA DEL MERCATO MOBILIARE Nona edizione

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-1199-8

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

INDICE

pag. CAPITOLO I INTRODUZIONE. LA DELIMITAZIONE DELLA MATERIA E L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA 1.

2. 3.

4. 5.

Il problema definitorio 1.1. La nozione di “attività finanziaria” 1.2. La nozione di “impresa finanziaria” Disciplina del “mercato finanziario” e disciplina del “mercato mobiliare” Un po’ di Storia 3.1. L’evoluzione degli anni ’90 e la riforma del mercato mobiliare in Italia 3.2. L’iter di approvazione del Testo Unico del 1998 3.3. Dal 1998 alla crisi del 2008 3.3.1. L’incessante opera del legislatore europeo 3.3.2. Le riforme interne 3.3.3. La progressiva “trasformazione” del ruolo delle Autorità di vigilanza Dalla crisi finanziaria ... ai giorni nostri Stato e prospettive della disciplina del mercato mobiliare: il difficile equilibrio tra fonti interne e fonti comunitarie e la perdita di centralità del TUF 5.1. Le linee di tendenza: i servizi di investimento 5.2. (Segue): la gestione collettiva del risparmio 5.3. (Segue): i mercati 5.4. Conclusioni

1 3 6 7 10 12 14 16 16 17 21 22 24 26 29 31 32

CAPITOLO II LE AUTORITÀ DI VIGILANZA EUROPEE E NAZIONALI 1. 2.

Le Autorità europee. L’ESMA Le Autorità di vigilanza nazionali

35 39

VI

La disciplina del mercato mobiliare

pag. 3. 4. 5.

I principi generali in materia di vigilanza e il rapporto con il diritto europeo L’esercizio del potere regolamentare La cooperazione tra Autorità e il segreto d’ufficio 5.1. (Segue): il segreto d’ufficio 5.2. (Segue): l’obbligo di segnalazione dei fatti aventi possibile rilevanza penale

45 48 50 54 55

CAPITOLO III LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. LA VIGILANZA SUI SOGGETTI ABILITATI 1. 2.

3. 4. 5. 6. 7.

Premessa La ripartizione delle competenze tra la Banca d’Italia e la Consob 2.1. (Segue): ripartizione della vigilanza e obblighi di collaborazione tra le Autorità Le finalità generali della vigilanza Poteri regolamentari, poteri informativi e di indagine, vigilanza ispettiva Gli interventi sui soggetti abilitati La vigilanza sui gruppi finanziari La revisione legale

59 60 63 63 65 74 76 78

CAPITOLO IV LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. ESPONENTI AZIENDALI, ASSETTI PROPRIETARI E CORPORATE GOVERNANCE 1. 2. 3. 4. 5.

I requisiti degli esponenti aziendali I requisiti dei partecipanti al capitale I “momenti” di valutazione dei requisiti Il potere di richiesta di informazioni ai soci La governance degli intermediari

81 84 85 88 89

CAPITOLO V SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: NOZIONI GENERALI 1. 2.

Premessa La nozione di strumento finanziario

93 94

Indice

VII pag.

3.

4.

La nozione di “servizi e attività di investimento” 3.1. (Segue): la negoziazione per conto proprio 3.2. (Segue): l’esecuzione di ordini per conto dei clienti 3.3. (Segue): i servizi di collocamento 3.4. (Segue): la gestione di portafogli 3.5. (Segue): la ricezione e trasmissione di ordini 3.6. (Segue): la consulenza in materia di investimenti 3.7. (Segue): la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione e di sistemi organizzati di negoziazione I servizi accessori

103 104 106 108 110 112 113 115 115

CAPITOLO VI SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: RISERVA DI ATTIVITÀ E ACCESSO 1. 2.

Premessa La riserva di attività a favore dei soggetti abilitati 2.1. Lo svolgimento “professionale” e “nei confronti del pubblico” dei servizi. Le esenzioni previste dalla MiFID 3. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle SIM 4. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle imprese comunitarie 5. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle imprese extracomunitarie 6. L’operatività all’estero delle SIM 7. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle banche 8. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte degli altri intermediari abilitati 9. I consulenti finanziari 10. Le sanzioni

119 120 121 124 126 128 128 129 129 130 131

CAPITOLO VII SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: REGOLE DI CONDOTTA E DI ORGANIZZAZIONE INTERNA. I CONTRATTI E LA SEPARAZIONE PATRIMONIALE 1. 2.

Regole di condotta e obblighi di organizzazione nel quadro più generale della disciplina dei servizi ed attività di investimento I “criteri generali” di comportamento e il conflitto di interessi

133 135

VIII

La disciplina del mercato mobiliare

pag. 3.

Le regole caratterizzanti: adeguatezza, appropriatezza, best execution 3.1. (Segue): la regola di “adeguatezza” 3.2. (Segue): la regola di “appropriatezza” 3.3. (Segue): i servizi “execution only” 3.4. La best execution 4. La disciplina degli incentivi 5. La “product governance” 6. La disciplina dei contratti 6.1. La facoltà di agire in nome proprio 7. La graduazione delle regole in funzione della natura dell’investitore 8. L’esternalizzazione di funzioni aziendali 9. La separazione patrimoniale 10. La responsabilità dei soggetti abilitati e le conseguenze derivanti dalla violazione della disciplina dei servizi di investimento 10.1. (Segue): le sanzioni amministrative 10.2. Le procedure di conciliazione ed arbitrato

147 147 150 151 152 156 158 160 163 163 167 168 171 173 174

CAPITOLO VIII SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: LE SPECIFICITÀ DEI SINGOLI SERVIZI. OFFERTA FUORI SEDE E TECNICHE DI COMUNICAZIONE A DISTANZA 1. 2.

Premessa La negoziazione per conto proprio e l’esecuzione di ordini per conto dei clienti 3. Il servizio di ricezione e trasmissione di ordini 4. Il servizio di collocamento 5. Il servizio di gestione di portafogli 5.1. (Segue): la nullità delle pattuizioni in violazione 6. La consulenza in materia di investimenti 7. La gestione di sistemi multilaterali di negoziazione 8. L’offerta fuori sede 8.1. La definizione di offerta fuori sede 8.2. Le regole applicabili allo svolgimento dell’attività 8.3. I casi di esclusione 9. Le tecniche di comunicazione a distanza 9.1. (Segue): le disposizioni discendenti dalle norme comunitarie 10. Gli artt. 25-bis e 25-ter TUF e l’estensione della disciplina ai prodotti bancari e assicurativi

177 177 180 180 181 185 186 190 191 191 194 198 199 200 204

Indice

IX pag.

CAPITOLO IX LA GESTIONE COLLETTIVA DEL RISPARMIO 1. 2. 3.

4. 5. 6. 7.

L’evoluzione normativa e la definizione di “gestione collettiva” 1.1. Le esclusioni Le categorie generali La disciplina degli OICR contrattuali 3.1. (Segue): i soggetti coinvolti nell’organizzazione e prestazione del servizio 3.2. (Segue): il depositario 3.3. (Segue): gli investitori e il rapporto con la società di gestione; il regolamento del fondo 3.4. Le diverse tipologie di fondi contrattuali Gli OICR aventi forma societaria: SICAV e SICAF Regole di condotta ed organizzazione nella prestazione del servizio di gestione collettiva La commercializzazione di OICR L’operatività transfrontaliera

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CAPITOLO X LA VIGILANZA PRUDENZIALE SUGLI INTERMEDIARI 1. 2. 3. 4.

Premessa La vigilanza prudenziale sulle SIM La vigilanza prudenziale sui gestori di OICR (SGR, SICAV, SICAF) La disciplina applicabile agli altri soggetti abilitati

251 252 255 257

CAPITOLO XI LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. PROVVEDIMENTI INGIUNTIVI E CRISI. 1. 2.

Premessa I poteri ingiuntivi 2.1. (Segue): intermediari nazionali e non-UE 2.2. (Segue): intermediari UE 2.3. (Segue): OICVM UE, FIA UE e non UE con quote o azioni offerte in Italia 2.4. (Segue): altri provvedimenti ingiuntivi

259 260 260 262 264 264

X

La disciplina del mercato mobiliare

pag.

3.

4.

5. 6.

2.5. (Segue): poteri cautelari applicabili ai consulenti finanziari autonomi, alle società di consulenza finanziaria ed ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede Piani di risanamento, sostegno finanziario di gruppo e intervento precoce 3.1. L’ambito di applicazione e i piani di risanamento 3.2. Sostegno finanziario di gruppo e intervento precoce La disciplina delle crisi 4.1. L’amministrazione straordinaria 4.2. La rimozione collettiva dei componenti degli organi di amministrazione e controllo 4.3. La liquidazione coatta amministrativa Sistemi di indennizzo e fondo di garanzia degli investitori La risoluzione delle SIM 6.1 I piani di risoluzione 6.2. La risoluzione e le altre procedure di gestione delle crisi

266 267 267 268 268 269 274 274 280 284 284 284

CAPITOLO XII GLI INTERMEDIARI NON BANCARI NON REGOLATI DAL TUF: FONDI PENSIONE, SOGGETTI OPERANTI NEL SETTORE FINANZIARIO, SOCIETÀ DI CARTOLARIZZAZIONE 1.

2. 3.

La previdenza complementare. I tratti generali 1.1. I fondi pensione di tipo “negoziale” 1.2. I fondi pensione aperti 1.3. Le forme pensionistiche individuali 1.4. Le modalità di adesione ai fondi pensione e il riscatto 1.5. La vigilanza sulla previdenza complementare I soggetti operanti nel settore finanziario: gli intermediari finanziari non bancari Le società per la cartolarizzazione dei crediti

287 290 292 293 293 294 295 298

CAPITOLO XIII I SISTEMI DI NEGOZIAZIONE 1. 2.

Un po’ di Storia: dal recepimento della Direttiva 93/22/CEE, alla privatizzazione dei mercati borsistici, alla MiFID II La vigilanza sui sistemi di negoziazione

303 307

Indice

XI pag.

3.

I mercati regolamentati 3.1. Il regolamento di gestione dei mercati 4. I sistemi multilaterali di negoziazione 5. I sistemi organizzati di negoziazione 6. I servizi di comunicazione dati 7. I mercati regolamentati italiani 7.1. I comparti della Borsa 7.2. La quotazione ufficiale 7.2.1. La procedura di ammissione a quotazione 7.2.2. Sospensione, revoca ed esclusione dalle negoziazioni 7.3. L’ammissione degli intermediari al mercato 7.4. L’attività di negoziazione 7.5. La risoluzione delle controversie tra la Borsa e i soggetti ammessi 8. Mercati e regole di trasparenza 9. La c.d. “trading obligation” 10. La negoziazione algoritmica 11. Il Regolamento EMIR

309 311 313 315 317 318 318 319 322 324 325 328 329 330 331 332 334

CAPITOLO XIV CONTROPARTI CENTRALI, DEPOSITARI ACCENTRATI E GESTIONE ACCENTRATA 1. 2. 3. 4.

Un quadro composito Le controparti centrali I depositari centrali (CSD) La gestione accentrata e la dematerializzazione

339 340 341 343

CAPITOLO XV L’OFFERTA AL PUBBLICO DI PRODOTTI FINANZIARI 1. 2. 3. 4.

Raccolta del risparmio e offerta al pubblico di prodotti finanziari I modi dell’offerta L’oggetto dell’offerta e la nozione di prodotto finanziario 3.1. In particolare: i prodotti bancari e assicurativi Il prospetto informativo 4.1. Il controllo della Consob sul prospetto 4.2. La forma dei contratti. La revoca dell’acquisto o della sottoscrizione

351 352 354 357 358 361 364

XII

La disciplina del mercato mobiliare

pag. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

11. 12. 13. 14. 15. 16.

Il potere regolamentare della Consob nella materia delle offerte al pubblico 5.1. (Segue): gli schemi di prospetto Il controllo sulla fase preparatoria dell’offerta La correttezza dei comportamenti Gli obblighi informativi e i poteri della Consob La pubblicità finanziaria I casi di inapplicabilità e le esenzioni 10.1. (Segue): gli investitori qualificati e gli altri casi di inapplicabilità 10.2. (Segue): i casi di esclusione parziale 10.3. (Segue): l’esenzione prevista dall’art. 205 TUF I PRIIPs Offerte al pubblico e quotazione nei mercati regolamentati Le sanzioni amministrative 13.1. Le sanzioni civilistiche La responsabilità da prospetto “Crack” finanziari e personificazione della crisi: l’art. 100-bis TUF La raccolta di capitali di rischio in favore di start up e PMI (crowdfunding)

365 365 367 368 369 370 371 372 374 375 376 377 378 379 379 381 384

CAPITOLO XVI LE OFFERTE PUBBLICHE DI ACQUISTO 1. 2.

3.

4. 5. 6.

Premessa La disciplina generale dell’OPA. Ambito di applicazione ed esenzioni 2.1. (Segue): l’Autorità di vigilanza 2.2. (Segue): l’avvio dell’offerta e la pubblicazione del documento d’offerta 2.3. (Segue): lo svolgimento dell’offerta 2.4. (Segue): la passivity rule 2.5. (Segue): la regola di neutralizzazione L’OPA obbligatoria 3.1. (Segue): l’OPA totalitaria 3.2. (Segue): l’OPA preventiva 3.3. (Segue): l’obbligo di acquisto 3.3.1. (Segue): obbligo di acquisto e tutela degli investitori. Il rapporto con la disciplina del recesso e dell’esclusione dalle negoziazioni Il diritto di acquisto La nozione di acquisto di concerto Le sanzioni

389 391 393 394 396 397 401 402 403 410 411

413 416 419 420

Indice

XIII pag.

CAPITOLO XVII L’INFORMAZIONE SOCIETARIA. L’INSIDER TRADING E GLI ABUSI DI MERCATO 1. 2.

3. 4.

5.

Premessa Informazione societaria: ambito di applicazione e disposizioni generali 2.1. (Segue): informazione societaria. La disciplina delle comunicazioni al pubblico 2.2. (Segue): informazione societaria. La comunicazione al pubblico. Il ritardo nella diffusione delle informazioni 2.3. (Segue): informazione societaria. La comunicazione a terzi delle informazioni privilegiate. I sondaggi di mercato 2.4. (Segue): informazione societaria. Le misure di prevenzione 2.5. (Segue): informazione societaria. Gli obblighi di informazione previsti ai sensi dell’art. 114, comma 5, TUF 2.6. (Segue): informazione societaria. La disciplina dell’art. 115 TUF 2.7. (Segue): informazione societaria. La convocazione delle assemblee 2.8. Le operazioni con parti correlate La repressione dell’abuso di informazioni privilegiate. Le sanzioni penali 3.1. (Segue): l’abuso di informazioni privilegiate. Le sanzioni amministrative La manipolazione del mercato 4.1. Le condotte manipolative 4.1.1. Le Linee Guida del CESR 4.1.2. Le prassi di mercato ammesse 4.2. La disciplina degli studi e delle ricerche 4.3. I giornalisti 4.4. Le agenzie di rating 4.5. Il c.d. “Safe harbour” 4.6. Le sanzioni amministrative Abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato. Le disposizioni comuni 5.1. La segnalazione delle operazioni sospette 5.2. Le sanzioni accessorie, l’accertamento degli illeciti e i poteri della Consob 5.3. Le sanzioni ex D.Lgs. n. 231/2001: la responsabilità amministrativa dell’ente

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XIV

La disciplina del mercato mobiliare

pag. CAPITOLO XVIII DISCIPLINA DEGLI EMITTENTI E DISCIPLINA DEL MERCATO MOBILIARE 1. 2.

3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Premessa Le regole in materia di assetti proprietari 2.1. (Segue): le partecipazioni rilevanti 2.2. (Segue): i patti parasociali I diritti dei soci Le deleghe di voto Le azioni di risparmio Organi di amministrazione nelle società quotate Collegio sindacale e revisione contabile negli emittenti quotati L’informazione finanziaria Emittenti quotati e emittenti titoli diffusi

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

479 481 482 485 487 489 490 492 493 496 497 503

CAPITOLO I INTRODUZIONE. LA DELIMITAZIONE DELLA MATERIA E L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA SOMMARIO: 1. Il problema definitorio. – 1.1. La nozione di “attività finanziaria”. – 1.2. La nozione di “impresa finanziaria”. – 2. Disciplina del “mercato finanziario” e disciplina del “mercato mobiliare”. – 3. Un po’ di Storia. – 3.1. L’evoluzione degli anni ’90 e la riforma del mercato mobiliare in Italia. – 3.2. L’iter di approvazione del Testo Unico del 1998. – 3.3. Dal 1998 alla crisi del 2008. – 3.3.1. L’incessante opera del legislatore europeo. – 3.3.2. Le riforme interne. – 3.3.3. La progressiva “trasformazione” del ruolo delle Autorità di vigilanza. – 4. Dalla crisi finanziaria ... ai giorni nostri. – 5. Stato e prospettive della disciplina del mercato mobiliare: il difficile equilibrio tra fonti interne e fonti comunitarie e la perdita di centralità del TUF. – 5.1. Le linee di tendenza: i servizi di investimento. – 5.2. (Segue): la gestione collettiva del risparmio. – 5.3. (Segue): i mercati. – 5.4. Conclusioni.

1. Il problema definitorio 1 Nel corso degli ultimi anni, la disciplina dell’intermediazione finanziaria ha conosciuto, sia in Italia, sia negli altri Paesi comunitari, una costante evoluzione. I fattori che hanno concorso a determinare tale fenomeno sono stati numerosi, e molti di essi non soltanto non accennano a diminuire, ma si sono amplificati con il passare del tempo: il progredire dell’integrazione comunitaria e le 1 Il presente testo è ormai giunto alla IX edizione: con cadenza pressoché biennale, ormai da 18 anni, esso tenta di catturare le incessanti innovazioni che interessano la disciplina del mercato mobiliare, non senza lacune, incertezze, errori. Stante la torrenziale produzione normativa che connota il settore, la presente edizione intende dar conto esclusivamente della disciplina che risulterà in vigore al 3 gennaio 2018 (data di applicazione di MiFID II), come nota alla data del 1 novembre 2017. Della disciplina già emanata a tale data, ma che entrerà in vigore dopo il 3 gennaio 2018, si darà eventualmente conto soltanto sinteticamente, senza approfondirne i contenuti. Del pari si farà per eventuali provvedimenti ancora allo stato di proposta o in fase di discussione.

2

La disciplina del mercato mobiliare

necessità conseguenti all’adattamento al diritto europeo; la crescente integrazione tra i mercati finanziari dei diversi Stati e le conseguenze dell’internazionalizzazione 2; lo sviluppo di nuovi prodotti finanziari e l’affacciarsi di nuove tecniche di contrattazione sui mercati, stimolate anche dall’incessante evoluzione tecnologica; la crescente attenzione per i profili che attengono alla tutela dei risparmiatori e dei consumatori in genere; spesso, il verificarsi di “crisi” dei mercati – tra cui la più recente e violenta maturata nel 2008, della quale ancora oggi si scontano gli effetti – che mettono in luce le (inevitabili) incompletezze e i ritardi della disciplina, e sollecitano risposte urgenti da parte dei regolatori. Ormai da tempo esiste sia in Italia, sia a livello comunitario, un’articolata disciplina del mercato finanziario che investe pressoché tutti i profili rilevanti: intermediari, mercati, emittenti, strumenti e prodotti finanziari. In Italia, la parte preponderante di tale disciplina è formulata, a livello legislativo, dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria): amplissimo è però il rinvio alle fonti regolamentari. Gran parte dei testi normativi – se non la quasi totalità – è oramai di origine comunitaria, se non addirittura riconducibili a fonti europee direttamente applicabili negli Stati membri. La centralizzazione della produzione, e dell’applicazione, del diritto del mercato finanziario in Europa è un fenomeno che ha ormai assunto dimensioni assolutamente determinanti. A livello interno, il Testo Unico del 1998, più volte modificato, cerca di mantenere (per il momento) una sua centralità. Esso stesso, però, non esaurisce la gamma dei testi normativi che interessano il mercato finanziario. La disciplina del D.Lgs. n. 58/1998 si affianca e si intreccia, innanzitutto, con quella delle banche e dell’attività bancaria, formulata nel Testo Unico delle disposizioni in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e relativi provvedimenti di attuazione), ma anch’essa ormai travalicata dalle fonti di diritto europeo. Altri provvedimenti “satellite”, poi, completano e arricchiscono il quadro: la disciplina dei fondi pensione, la disciplina contro il riciclaggio del denaro proveniente da attività illecite, le norme in materia di tutela dei consumatori, la disciplina antitrust, ecc. Altri settori hanno, infine, forti interrelazioni con la disciplina dell’intermediazione finanziaria in senso stretto, che sono andate via via intensificandosi negli ultimi tempi (a partire, essenzialmente, dalla legge n. 262/2005), come tipicamente accade per il settore assicurativo, in specie per quanto attiene ai cc.dd. prodotti “misti” assicurativo-finanziari, in parte attratti nella disciplina del Testo Unico 3. È allora legittimo chiedersi se sia possibile riscontrare una “specificità” del2

Per interessanti valutazioni sui profili giuridici dell’internazionalizzazione v. CARBONE (2000). Per ulteriori considerazioni sui mutamenti del mercato finanziario alle soglie del nuovo secolo v. ROSSI (1999). 3 Conforme sul punto AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 33 ss.

Introduzione

3

la disciplina del mercato finanziario; in altri termini, se sia possibile e corretto parlare di un “diritto del mercato finanziario”, in qualche misura dotato di una sua autonomia, anche dal punto di vista scientifico e didattico. La domanda – che già ci eravamo posti, ormai molti anni fa, in occasione dell’uscita della prima edizione del presente lavoro sorge spontanea, alla luce dello stesso titolo del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) – non ha peraltro perso di attualità. La soluzione della questione non è agevole, soprattutto là dove si intenda riconoscere una qualche autonomia alla disciplina dell’attività bancaria e delle banche rispetto a quella del “mercato finanziario”, il che può avvenire o considerando la prima una parte della seconda, ovvero stabilendo una qualche linea di confine tra l’attività bancaria e l’attività finanziaria (non bancaria). Al fine di individuare un criterio che possa fornire qualche utile spunto, giova ricordare che, nella più tipica prospettiva dell’analisi economica, il mercato finanziario viene tradizionalmente considerato come la sommatoria di tre comparti: quello bancario e creditizio, quello dell’intermediazione finanziaria non bancaria, e quello assicurativo (quantomeno per i profili relativi a quest’ultimo che hanno attinenza con il mercato dei capitali). Esiste dunque, per la dottrina economica, una nozione di “mercato finanziario” che risulta sufficientemente chiara, o, quantomeno, la cui portata risulta ampiamente condivisa. Diverso è, però, l’approccio del legislatore, sia interno, sia comunitario: innanzitutto, non è rinvenibile alcuna definizione normativa di “mercato finanziario” o di “intermediazione finanziaria”. In secondo luogo, tale definizione non è agevolmente desumibile, in via interpretativa, da altre nozioni che pur potrebbero essere rilevanti al fine di individuare, in positivo, i confini della nozione legislativa di “mercato finanziario”. A tal fine, occorre fornire qualche precisazione in merito al contenuto e alla portata di due nozioni che, almeno apparentemente, sembrerebbero idonee ad individuare il “perimetro” della disciplina del mercato finanziario, e cioè la nozione di “attività finanziaria”, e quella di “impresa finanziaria”.

1.1. La nozione di “attività finanziaria” Il riferimento alle “attività finanziarie” figura tanto nel Testo Unico Bancario, quanto nel D.Lgs. n. 58/1998. L’art. 10, comma 3, TUB, nell’individuare le attività che le banche possono svolgere, stabilisce che “le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse e strumentali”. La nozione è poi utilizzata, in modo analogo, all’art. 18 del D.Lgs. n. 58/1998, allo scopo di individuare le attività che le SIM possono svolgere. Né nel primo, né nel secondo caso, tuttavia, si rinviene una specifica definizione di “attività finanziaria”.

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La disciplina del mercato mobiliare

Un elenco di attività “finanziarie” figurava (prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 141/2010) nel Titolo V (artt. 106 ss.) del Testo Unico Bancario, relativo alla disciplina dei “soggetti operanti nel settore finanziario”, ma si trattava in realtà dell’individuazione di alcune particolari attività il cui svolgimento è riservato a determinati soggetti, priva di un’effettiva portata ricostruttiva sul piano generale. In altri termini, l’elenco delle attività formulato dall’art. 106 TUB non esauriva certo il novero delle possibili attività “finanziarie”. Non esiste, dunque, una definizione legislativa di attività finanziaria; il legislatore utilizza tale nozione, ma non ne circoscrive i contorni. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che la portata della nozione di “attività finanziaria” può mutare a seconda che si segua un approccio di tipo estensivo, ovvero di tipo restrittivo. In una prospettiva ampia potrebbero rientrare nella nozione di attività finanziaria tutte le attività che hanno attinenza con il mercato dei capitali, anche se esse non si traducono in una vera e propria attività di “intermediazione” di ricchezza, di denaro, o di prodotti finanziari. Ad esempio, l’attività di consulenza in materia di investimenti finanziari potrebbe avere natura “finanziaria” in quanto ha attinenza, in senso lato, con il mercato dei capitali: ciò parrebbe confermato, tra l’altro, dal fatto che l’attività di consulenza, al ricorrere di determinati presupposti, è ora ricompresa nell’ambito dei cc.dd. “servizi” e “attività” di investimento. In qualche occasione, una impostazione ampia è risultata propria anche delle Autorità di vigilanza e di controllo sui mercati finanziari 4. In base ad un approccio più selettivo, di contro, dovranno intendersi come attività finanziarie soltanto quelle che danno luogo ad una vera e propria attività di intermediazione di capitali, o dei relativi strumenti: in base a tale impostazione, ad esempio, l’attività che consiste nella pubblicazione di studi, ricerche e analisi economico-finanziarie non dovrebbe avere natura “finanziaria”, in quanto essa non comporta alcuna attività di intermediazione di capitali in senso stretto. Anche l’attività di mera consulenza – in quanto si risolve nella semplice formulazione di consigli e raccomandazioni – non comporta alcuna effettiva attività di “intermediazione” di capitali e, dunque, in una prospettiva più ristretta dovrebbe sfuggire alla disciplina delle attività “finanziarie” in senso stretto. Prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 58/1998, e con particolare riferimento al disposto dell’art. 10, comma 3, TUB, un criterio per ricostruire la portata della nozione poteva forse essere individuato nell’elenco delle attività ammesse al mutuo riconoscimento, definite all’art. 1, comma 1, lett. f ), D.Lgs. n. 385/1993. Tale elenco individua le attività che le banche comunitarie possono liberamente 4 Con Comunicazione 8 febbraio 1999, n. DI/99008504 la Consob ha, ad esempio, ritenuto che l’attività di agente assicurativo ha natura finanziaria (da cui la possibilità per una SIM di svolgerla).

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svolgere all’interno dell’Unione Europea, secondo quanto previsto dalle norme in materia di mutuo riconoscimento; esso discende direttamente dalla formulazione della II Direttiva di coordinamento in materia bancaria (Direttiva 15 dicembre 1989, 89/646/CEE) 5. È indubbio che tale elencazione presenti, di fatto, una lista piuttosto articolata di attività in senso lato “finanziarie”, ma l’impostazione non è convincente, per una serie di ragioni, prima fra tutte il fatto che l’elenco formulato dal Testo Unico Bancario comprende attività che di “finanziario” hanno ben poco: si pensi, ad esempio, ai “servizi di informazione commerciale”. La ragione assorbente è però rappresentata dal fatto che – anche in virtù di quanto ora dispone il D.Lgs. n. 58/1998 – vi sono attività che hanno sicuramente natura “finanziaria”, ma che non sono ricomprese nell’elenco di quelle ammesse al mutuo riconoscimento. Si tratta, ad esempio, dell’attività di gestione collettiva del risparmio. La natura finanziaria di tale attività è evidente, già in base al senso 5

Le attività ammesse al mutuo riconoscimento sono le seguenti: 1) raccolta di depositi o di altri fondi con obbligo di restituzione; 2) operazioni di prestito (compreso in particolare il credito al consumo, il credito con garanzia ipotecaria, il factoring, le cessioni di credito pro soluto e pro solvendo, il credito commerciale incluso il “forfaiting”); 3) leasing finanziario; 4) servizi di pagamento, come definiti dagli artt. 1, comma 1, lett. b), e 2, comma 2, D.Lgs. n. 11/2010; 5) emissione e gestione di mezzi di pagamento (carte di credito, “travellers’cheques”, lettere di credito); 6) rilascio di garanzie e di impegni di firma; 7) operazioni per conto proprio o per conto della clientela in: – strumenti di mercato monetario (assegni, cambiali, certificati di deposito, ecc.); – cambi; – strumenti finanziari a termine e opzioni; – contratti su tassi di cambio e tassi d’interesse; – valori mobiliari; 8) partecipazioni alle emissioni di titoli e prestazioni di servizi connessi; 9) consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché consulenza e servizi nel campo delle concentrazioni e del rilievo di imprese; 10) servizi di intermediazione finanziaria del tipo “money broking”; 11) gestione o consulenza nella gestione di patrimoni; 12) custodia e amministrazione di valori mobiliari; 13) servizi di informazione commerciale; 14) locazione di cassette di sicurezza; 15) altre attività che, in virtù delle misure di adattamento assunte dalle autorità comunitarie, sono aggiunte all’elenco allegato alla II Direttiva in materia creditizia del Consiglio delle Comunità europee, 15 dicembre 1989, 89/646/CEE. Si segnala che il riferimento alla Direttiva del 1989, deve ora intendersi – a seguito di successive abrogazioni – alla Direttiva 2013/36/CE (c.d. “CRD IV”).

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comune del termine; anche tecnicamente, e cioè sotto il profilo normativo, si tratta però di un’attività definibile come “finanziaria”: ciò è confermato dal fatto che il D.Lgs. n. 58/1998 la regola – insieme ai servizi di investimento – nella Parte II, relativa alla “disciplina degli intermediari”. È pertanto evidente come la nozione di attività finanziaria non possa limitarsi alle sole attività ammesse al mutuo riconoscimento ai sensi dell’art. 1 del Testo Unico Bancario 6: tale osservazione, però, non aiuta certo a risolvere il problema, anzi forse lo aggrava e lascia l’interprete dinnanzi ad un’opera di qualificazione resa oggettivamente complessa. Per il momento, pertanto, non resta altro che prendere atto, da un lato, della scarsa attenzione del legislatore per un profilo tanto rilevante, forse giustificabile in base all’esigenza di evitare di formulare definizioni legislative di una nozione che risulta in perenne evoluzione, con un evidente rischio di rapida obsolescenza; dall’altro, del fatto che i confini della nozione possono essere di incerta individuazione e che, allo stato, non è forse del tutto opinabile attribuire alla nozione di “attività finanziaria” una portata ampia, tale da ricomprendere ogni attività o servizio che abbiano attinenza con il mercato finanziario e dei capitali in genere.

1.2. La nozione di “impresa finanziaria” Incertezze analoghe si pongono quando si tenti di utilizzare – come criterio per delimitare in positivo una possibile nozione di “diritto del mercato finanziario” –, la nozione di “impresa finanziaria” 7. A differenza della nozione di “attività finanziaria”, quella di “impresa finanziaria” – quando viene utilizzata dal legislatore primario o secondario – è spesso definita: si veda, ad esempio, la nozione di “società finanziaria” utilizzata ai fini dell’individuazione del gruppo bancario (art. 60 ss., D.Lgs. n. 385/1993). Tuttavia, la definizione muta in funzione delle singole discipline; il legislatore sembra così utilizzarla per finalità specifiche, rese di volta in volta particolari dalle peculiarità della materia da regolare: ad esempio, la disciplina dei gruppi bancari, la disciplina della partecipazione al capitale delle banche, ecc. È dunque difficile concludere, da una serie di riferimenti normativi tra loro non ben coordinati, e soprattutto privi di un solido raccordo sistematico, la riconoscibilità nell’ordinamento interno o comunitario di una nozione generale di “impresa finanziaria”; nozione che dovrebbe essere caratterizzata da una esatta individuazione dei contorni, e dotata di una sua specificità, tale addirittura da collocarla a fianco del genus dell’impresa commerciale, e dell’impresa agricola. In realtà, la nozione di “impresa finanziaria” non riflette un’impostazione 6 7

V., con riferimento al Testo Unico Bancario, COSTI (2007). Per un tentativo di enucleare tale nozione generale v. PRINCIPE (1998).

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univoca, ed è una forzatura tentare di ricondurre ad unità una serie di interventi normativi realizzati non già con lo scopo di introdurre una nuova “tipologia” di impresa, ma quello, meno ambizioso, di regolare taluni profili specifici dello svolgimento di particolari attività o di servizi. Per tale motivo, la nozione di “impresa finanziaria” non può costituire una nozione generale, utile per tracciare i “confini” della stessa disciplina del mercato finanziario. In ogni caso, poi, anche qualora si riuscisse a ricostruire in termini univoci la nozione di impresa finanziaria, essa non sarebbe sufficiente ad identificare la portata della disciplina del “mercato finanziario”, la quale comprende non soltanto imprese che svolgono “attività finanziaria”, ma interessa anche i mercati, e gli emittenti 8.

2. Disciplina del “mercato finanziario” e disciplina del “mercato mobiliare” Da quanto precede discende che non sembra possibile, senza incorrere in gravi incertezze o in interpretazioni fortemente arbitrarie, identificare in termini positivi una nozione di “diritto del mercato finanziario”. Sembra dunque preferibile seguire un percorso ricostruttivo diverso, che – muovendo dall’analisi economica – finisca poi per individuare i confini della materia non già in positivo, ma in negativo. Si è già detto che, per la scienza economica, il “mercato finanziario” è costituito dalla sommatoria del comparto bancario, finanziario e assicurativo. Si è anche detto che il legislatore non ha regolato in modo omogeneo i tre comparti, che anzi mantengono forti specificità normative. Non vi è dunque una disciplina unitaria che investa, globalmente, banche, intermediari finanziari, assicurativi, mercati, emittenti, e che possa riflettere la nozione economica di “mercato finanziario”. Ne deriva che: o si accetta la nozione economica, e dunque si concorda sul fatto che il “diritto del mercato finanziario” comprende tutto ciò che ha attinenza con il “mercato di capitali”, e dunque disciplina bancaria, assicurativa, e ogni altra disciplina a tal fine rilevante, oppure si delimita l’oggetto dell’indagine sottraendo dalla nozione “allargata” di mercato finanziario quelle materie che presentano caratteri specifici e, segnatamente, la disciplina delle banche, da un lato, e quella delle assicurazioni, dall’altro. Questo approccio non pare essere del tutto arbitrario in quanto le discipline bancaria e assicurativa si 8

Nella disciplina del mercato finanziario rientrano, infatti, a pieno titolo anche gli emittenti, come dimostra lo stesso D.Lgs. n. 58/1998, che prende atto, per la prima volta in termini tanto netti, delle profonde interrelazioni che sussistono tra disciplina dei mercati e degli intermediari da un lato, e disciplina degli emittenti dall’altro.

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sono evolute, storicamente, in modo distinto, a causa delle specificità che presentano tali attività anche se – giustamente – si sottolinea da più parti come si tratti di materie caratterizzate, ormai, da fortissime interrelazioni e da principi ispiratori comuni 9. Per quanto attiene alle banche, è indubbio che l’attività bancaria presenti caratteristiche che la rendono ben distinguibile da altre attività finanziarie. Tali peculiarità sono dovute al ruolo istituzionale che le banche svolgono, e che è riflesso nella stessa nozione di attività bancaria di cui agli artt. 10 e 11 TUB, in base ai quali “la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria” (art. 10), e “ai fini del presente decreto legislativo è raccolta del risparmio l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma” (art. 11) 10. La definizione di attività bancaria ne pone in luce i tratti distintivi che consistono: (i) nella raccolta di risparmio, con obbligo di rimborso; (ii) nell’esercizio del credito. Per il Testo Unico bancario, la specificità della banca consiste dunque in ciò che essa attua un vero e proprio processo di trasformazione dei rischi: essa rimane, da un lato, debitrice dei fondi raccolti tra il pubblico; dall’altro, utilizza tali fondi per attività di tipo creditizio, accollandosi il rischio dell’insolvenza dei debitori 11. Sebbene non è affatto da escludere che, in altri Paesi europei, la nozione di banca ricomprenda soggetti che non rientrano perfettamente in questi schemi, tale è la prospettiva definitoria del Testo Unico bancario 12. La combinazione di questi due elementi, ed il ruolo che ne deriva in capo all’intermediario-banca, risultano assenti nelle altre figure di intermediari. Di volta in volta potrà mancare il primo elemento (raccolta di risparmio), o il secondo; non si ritroveranno mai congiuntamente, pena la “trasformazione” del soggetto in banca, con possibile violazione dell’art. 10, comma 2, TUB (“l’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche”). Considerazioni analoghe valgono per quanto attiene alle assicurazioni. Anche la materia assicurativa è caratterizzata da tratti specifici, tali da distinguer9 AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), pp. 5 ss. e 35 ss. ove una disamina delle più evidenti forme di “commistione” tra i vari settori della disciplina del mercato dei capitali. Sulle ragioni giustificative della disciplina dei mercati mobiliari COSTI-ENRIQUES (2004), p. 5 ss. 10 In base alla disciplina bancaria, anche la sola attività di raccolta di risparmio tra il pubblico è attività riservata alle banche, o agli altri soggetti individuati in base all’art. 11 TUB. Vi è, dunque, un doppio livello di attività riservate: il primo è quello dell’attività bancaria, definita dall’art. 10 TUB; il secondo, è quello della mera attività di raccolta di risparmio, che è riservata ad un novero di soggetti più ampio, stante il disposto dell’art. 11 TUB. Ad esempio, rientra tra i casi previsti dall’art. 11 l’emissione di obbligazioni da parte di società per azioni, o di strumenti finanziari partecipativi, quali introdotti dalla riforma del diritto societario. 11 FERRO-LUZZI (1995). 12 BRESCIA MORRA (2016).

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la dalle altre attività che eventualmente vengano svolte sul mercato finanziario, dovuti, ancora una volta, al ruolo che le assicurazioni svolgono nel processo di “trasformazione” del rischio. Tale rilievo resta valido anche alla luce del progressivo “avvicinamento” della disciplina di taluni prodotti e attività assicurative alle regole proprie del mercato finanziario, che ha trovato nella legge n. 262/2005 – in materia di tutela del risparmio – espresso riconoscimento anche a livello di normativa primaria. In definitiva sembra dunque che per identificare i “confini” della disciplina del mercato finanziario possano darsi essenzialmente due soluzioni. Sotto un primo profilo, ci si può basare sulla nozione (economica) di mercato finanziario, e ritenere che il “diritto del mercato finanziario” riguardi tutto ciò che, per la dottrina economica, rientra in tale nozione. In base a tale impostazione, la disciplina del mercato finanziario comprenderà quella delle banche e dell’attività bancaria, la disciplina assicurativa, la disciplina delle attività finanziarie non bancarie, i mercati, ecc. Tale impostazione ha pregi e difetti. I difetti consistono nel fatto che, così ragionando, si amplia enormemente il campo dell’indagine, e si trascura il modo in cui la materia si è evoluta, legislativamente, negli ultimi decenni; evoluzione che, invece, ha sempre visto mantenere una precisa connotazione specifica alla disciplina delle attività bancarie e assicurativa, rispetto alle altre attività “finanziarie”. Lo stesso D.Lgs. n. 58/1998 – pur intitolato “Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” – non tocca affatto l’intero arco di soggetti e attività che possono ricomprendersi in tale nozione, limitandosi, in realtà, a disciplinare ciò che non è riconducibile alle discipline bancaria o assicurativa in senso stretto. I pregi sono dovuti al fatto che siffatta impostazione potrebbe consentire di cogliere meglio alcune delle più recenti evoluzioni della disciplina, in particolare per quanto riguarda la materia assicurativa. È anche vero che alcuni, recenti fenomeni hanno visto anche il progressivo assottigliamento dei confini tra la nozione di risparmio “bancario” e quella di risparmio “finanziario”: ciò è accaduto, ad esempio, nel contesto della nuova disciplina delle crisi bancarie, nella quale il risparmio bancario è assoggettato a regole che ne comportano il potenziale assoggettamento al rischio di default dell’emittente (v. le regole che si applicano, con riguardo ai depositi e a certi tipi di obbligazioni bancarie nel contesto delle procedure di risoluzione). Ciò nonostante, quantomeno al momento attuale, i testi normativi mantengono salda la distinzione tra disciplina delle banche, da un lato, e disciplina degli altri intermediari e attività, dall’altro. Nonostante l’utilità di un approccio “allargato” alla disciplina del mercato finanziario, si ritiene pertanto preferibile conservare l’impostazione più restrittiva. Si può dunque ritenere che si possa distinguere, all’interno della disciplina del “mercato finanziario”, un particolare segmento che riguarda in senso stretto le attività che hanno attinenza con il mercato dei capitali, diverse da quella bancaria, come definita e disciplinata

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nel TUB e nei provvedimenti comunitari che disciplinano le banche, e da quella assicurativa, come definita e regolata nei relativi testi normativi; tale segmento può essere individuato con l’espressione (atecnica) di “mercato mobiliare”. La complessità e la crescente innovazione dei mercati finanziari fanno sì che tale disciplina investa materie molto diverse, apparentemente anche lontane, ma in realtà profondamente connesse, quali: i servizi di investimento, la gestione collettiva del risparmio, la gestione accentrata di strumenti finanziari, i mercati regolamentati e non, gli emittenti strumenti finanziari quotati, gli emittenti strumenti finanziari diffusi tra il pubblico; i fondi pensione. Inoltre, alcune linee di confine si sono indubbiamente assottigliate, o addirittura non esistono più, e di ciò l’interprete deve necessariamente tenere conto. Le recenti innovazioni della disciplina assicurativa sono l’esempio più emblematico di tale ultimo fenomeno. Ovviamente, quella qui proposta rappresenta una semplificazione – forse destinata, ormai, presto a scomparire – ma l’evoluzione storica della disciplina conferma la sussistenza di una linea piuttosto chiara di demarcazione tra attività bancarie, da un lato, attività tipicamente assicurative, dall’altro, e attività diverse dall’altro lato ancora, che corre – come un fil rouge – lungo l’intero arco dello sviluppo legislativo in materia, a livello sia comunitario, sia interno. Altra questione è stabilire se la segmentazione normativa dei tre comparti sia una scelta ancora valida e soddisfacente, alla luce della crescente integrazione tra banche, assicurazioni e mercato finanziario in genere che caratterizza gli sviluppi degli ultimi anni. Sul punto, sono sempre più forti, in chi scrive, le perplessità 13 e lo stesso legislatore ha ormai preso atto della necessità di rivedere, almeno in parte, l’approccio tradizionale, integrando maggiormente le regole relative ai tre settori, e spesso sconfinando dall’uno all’altro.

3. Un po’ di Storia La disciplina del mercato mobiliare, quale la conosciamo oggi, è frutto di un complesso processo di produzione legislativa che prende avvio essenzialmente negli anni ’70, con l’istituzione della Commissione nazionale per le società e la borsa – avvenuta nel 1974 – e che subisce poi un rapido processo di accelerazione a partire dall’inizio degli anni ’90, dovuto anche agli effetti del recepimento di numerose Direttive Comunitarie in materia. Prima di tale periodo, la disciplina dell’intermediazione e del mercato finanziario coincideva, essenzialmente, con quella dell’attività bancaria, incen13

V., anche su profili connessi, BESSONE (2002).

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trata – sino all’approvazione del Testo Unico del 1993 – sulla legge bancaria degli anni ’30. Esisteva, in verità, una risalente legislazione sulle Borse, che affondava le sue radici nell’abrogato Codice di Commercio del 1882, ma essa riguardava soltanto l’organizzazione delle Borse come mercati di scambio di titoli quotati, e gli intermediari ammessi alle negoziazioni (all’epoca, i soli agenti di cambio); non esisteva, di contro, alcuna disciplina specifica relativa alla “raccolta” di risparmio svolta al di fuori dei canali propri dell’attività bancaria o creditizia, o riferibile allo svolgimento di altre attività finanziarie – quali oggi disciplinate nel TUF 14 –, o agli obblighi di trasparenza e di informazione degli emittenti quotati. È soltanto con l’istituzione della Consob, e quindi dal 1974 in poi, che si assiste all’introduzione, nell’ordinamento italiano, di una disciplina tendenzialmente rivolta al mercato mobiliare in quanto tale e non più necessariamente connessa o correlata con l’attività di borsa. Ne sono esempi tipici l’istituzione del mercato ristretto avvenuta nel 1977 15 e, in particolare, la legge 23 marzo 1983, n. 77 che segna l’ampliamento dell’attività di controllo della Consob in materia di sollecitazione del pubblico risparmio 16. Gli artt. 1-18 ss. della legge n. 216/1974, modificati dalla legge n. 77/1983, sottopongono, infatti, ai controlli della Commissione nazionale per le società e la Borsa tutti coloro “che intendono procedere all’acquisto o alla vendita mediante offerta al pubblico di azioni o di obbligazioni anche convertibili, o di qualsiasi altro valore mobiliare italiano o estero, ivi compresi i titoli emessi da fondi di investimento mobiliari ed immobiliari, italiani o esteri, ovvero sollecitare con altri mezzi il pubblico risparmio”. L’amplissima portata della disciplina si misura sulla nozione di “valore mobiliare” 17, che l’art. 1/18-bis definisce in termini assai lati come “ogni documento o certificato che direttamente o indirettamente rappresenti diritti in società, associazioni, imprese o enti di qualsiasi tipo, ivi compresi i fondi di investimento italiani od esteri; ogni documento o certificato rappresentativo di un credito o di un interesse negoziabile e non; ogni documento o certificato rappresentativo di diritti relativi a beni materiali o proprietà immobiliari, nonché ogni documento o certificato idoneo a conferire diritti di acquisto di uno dei valori mobiliari sopraindicati ed ivi compresi i titoli emessi dagli enti di gestione fiduciaria di cui all’art. 45 TU delle leggi sull’esercizio delle assicurazioni private, approvato con D.P.R. 13 febbraio 1959, n. 449”. Al contempo, la legge n. 77/1983 introduce in Italia i fondi comuni di inve14

COSTI (2006). Si tratta della legge 23 febbraio 1977, n. 49. 16 COSTI (2006). 17 Si veda per tutti CARBONETTI (1989). 15

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stimento, da tempo presenti in altri Paesi, e che oggi costituiscono uno dei principali attori del mercato finanziario, segnando così l’ingresso nel panorama italiano dei primi investitori “istituzionali”. La disciplina del mercato mobiliare si amplia successivamente, attraverso ulteriori interventi legislativi. In particolare, nel 1988 si assiste alla nascita di uno specifico mercato secondario, dedicato alla negoziazione dei titoli pubblici: si tratta del “Mercato secondario dei titoli di Stato”, sul quale ben presto si concentrano le negoziazioni all’ingrosso di titoli di Stato, e che offre un modello organizzativo destinato ad influire sensibilmente sulla futura disciplina dei mercati regolamentati, in quanto basato su elementi privatistici, nella più generale cornice di controlli pubblici ed amministrativi. Ma è con la legge 2 gennaio 1991, n. 1 (c.d. “legge SIM”) che si assiste all’introduzione della prima disciplina organica delle attività di intermediazione svolte sul mercato mobiliare: vengono istituite le società di intermediazione mobiliare e i mercati borsistici sono oggetto di incisivi interventi di riforma. I relativi controlli sono ripartiti tra la Consob e la Banca d’Italia; si assiste all’introduzione di pervasive regole volte a disciplinare la prestazione dei vari servizi, in una prospettiva di rafforzamento della tutela degli investitori. La legge n. 1/1991 rappresenterà la base sulla quale avverrà il recepimento delle Direttive 93/22/CEE e 93/6/CEE in materia di servizi di investimento. Il successivo D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 84 introduce e disciplina le società di investimento a capitale variabile (SICAV), che, affiancandosi ai fondi comuni di investimento, arricchiscono il panorama degli investitori istituzionali operanti sul mercato mobiliare. Lo stesso deve sostanzialmente dirsi per quanto attiene alle successive leggi 14 agosto 1993, n. 344 e 25 gennaio 1994, n. 86 istitutive, rispettivamente, dei fondi comuni di investimento chiusi, e dei fondi immobiliari. La legge 17 maggio 1991, n. 157 introduce a sua volta – sulla scorta del Diritto Europeo – una disciplina dell’insider trading, e, al contempo, amplia in misura significativa gli obblighi di informazione e di comunicazione al pubblico da parte degli emittenti titoli quotati, segnando una profonda e reale evoluzione rispetto allo schema introdotto dalla legge n. 216/1974. La successiva legge 18 febbraio 1992, n. 149 segna l’introduzione, in Italia, della disciplina delle offerte pubbliche di acquisto e, in tale ambito, dell’OPA obbligatoria. Infine, il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 completa la gamma degli investitori istituzionali presenti sul mercato italiano, introducendo la disciplina dei fondi pensione e della previdenza complementare.

3.1. L’evoluzione degli anni ’90 e la riforma del mercato mobiliare in Italia Su di uno sfondo che vede, da un lato, l’approvazione, nel 1993, del Testo

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Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia e, dall’altro, l’introduzione di una disciplina comunitaria dei servizi di investimento, negli anni ’90 il settore va così rapidamente incontro ad un fenomeno di profonda revisione, cui concorre, peraltro, il rapido processo di crescita e di trasformazione dei mercati. Nel giro di circa quarant’anni, cioè dal 1974 – data di istituzione della Consob – al 2015, il nostro ordinamento ha visto una continua e rapida successione di provvedimenti normativi, che hanno radicalmente mutato il quadro di riferimento del settore. Non a caso, autorevole dottrina ha parlato, nel riferirsi a tale processo, di un vero e proprio “diluvio” legislativo 18. Lo stesso fenomeno si riscontra, oggi, in ambito europeo. Il punto di partenza di tale successione evolutiva, destinata a sfociare nel Testo Unico del 1998 19, coincide con il recepimento in Italia, nel 1996, delle Direttive comunitarie 93/22/CEE e 93/6/CEE, in materia di servizi di investimento 20. Queste rappresentano, nel panorama delle fonti del diritto comunitario in materia di mercati finanziari, il corrispondente – nella materia degli intermediari mobiliari – della II Direttiva CEE di coordinamento in materia bancaria. Gli aspetti più significativi della Direttiva 93/22/CEE sono rappresentati, da un lato, dall’introduzione del principio di mutuo riconoscimento degli intermediari, secondo lo schema già adottato per le banche, per le assicurazioni, e per gli organismi di investimento collettivo; dall’altro lato, dall’introduzione di un analogo principio di mutuo riconoscimento riferibile non già agli intermediari, ma ai mercati. La Direttiva del 1993 non si limita dunque ad estendere agli intermediari non bancari la regola in base alla quale i soggetti autorizzati in un Paese dell’Unione Europea possono offrire liberamente i propri servizi in tutti gli altri Paesi comunitari, ma estende quello stesso principio ai mercati borsistici, o meglio – come statuisce la Direttiva – ai “mercati regolamentati”. Ecco dunque che il legislatore – ma, ancor prima, le imprese – debbono far fronte per la prima volta ad un fenomeno in cui non sono soltanto gli intermediari a spostarsi all’interno dell’Unione Europea, ma sono gli stessi mercati a poter fornire i propri servizi in via transfrontaliera, così consentendo, ad esempio, ad intermediari di altri Paesi di interconnettersi direttamente con i vari sistemi di negoziazione attraverso collegamenti di tipo “remoto”. Sotto questo profilo, sono evidenti le implicazioni e le ricadute derivanti dall’introduzione delle nuove tec18

MINERVINI (1992). V., con riferimento al periodo intercorrente tra la legge n. 1/1991 e il recepimento della Direttiva Eurosim, CAPRIGLIONE (1994). Per un ampio affresco dell’impatto della disciplina comunitaria sull’assetto dei mercati finanziari e creditizi v. PREDIERI (1993). 20 Trattasi, più precisamente, della Direttiva 15 marzo 1993, 93/6/CEE, relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi, e della Direttiva 10 maggio 1993, 93/22/CEE, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari. 19

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nologie, e dalla trasformazione delle strutture delle borse in mercati telematici. Questi due aspetti, congiuntamente considerati, ponevano in realtà complesse questioni di politica legislativa, in quanto idonei a scatenare la competizione tra mercati ed imprese finanziarie all’interno della Comunità europea 21. A questo si aggiunge il quadro istituzionale che caratterizza quel periodo; un quadro complesso ed assai problematico, segnato dalle grandi questioni conseguenti al progredire dell’integrazione monetaria, dall’avvio di ambiziosi programmi di privatizzazione, da un quadro politico spesso instabile, ma comunque caratterizzato da una crescente attenzione ai profili del diritto dell’economia in senso generale. L’avanzare del diritto comunitario, poi, tende a modificare lo stesso modo di intervento pubblico nella regolazione dell’economia, attraverso un progressivo arretramento dei fattori politici, a vantaggio di interventi di natura squisitamente tecnica 22. Il recepimento della Direttiva Comunitaria rappresenta allora l’occasione non soltanto per introdurre il principio del mutuo riconoscimento per intermediari mobiliari e mercati regolamentati, ma anche per attuare una rifondazione complessiva della disciplina sul mercato mobiliare, con l’obiettivo di supportare la crescita e lo sviluppo del mercato finanziario italiano. La legge 6 febbraio 1996, n. 52, con la quale il Governo viene delegato a recepire le Direttive 93/22/CEE e 93/6/CEE prevede pertanto che, al recepimento della Direttiva, segua un passo successivo, rappresentato dall’approvazione di un Testo Unico dell’intermediazione finanziaria, la cui portata travalica il mero soddisfacimento delle esigenze di armonizzazione imposte dall’adeguamento all’ordinamento comunitario. Ai sensi dell’art. 21, comma 4 della legge delega, l’opera di riordinamento normativo riguarda, infatti, la disciplina degli intermediari, dei mercati finanziari e mobiliari, e “gli altri aspetti comunque connessi”. E, in tale ambito, il Governo riceve il potere di modificare anche la “disciplina relativa alle società emittenti titoli sui mercati regolamentati, con particolare riferimento al collegio sindacale, ai poteri delle minoranze, ai sindacati di voto e ai rapporti di gruppo, secondo criteri che rafforzino la tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza”.

3.2. L’iter di approvazione del Testo Unico del 1998 Se queste sono le premesse generali da cui muove il Testo Unico, l’iter che conduce all’approvazione del provvedimento si compone di due momenti distinti. La legge 6 febbraio 1996, n. 52, delega, appunto, al Governo il compito, 21 22

V. per i profili internazionalprivatistici CARBONE-MUNARI (1997). V. sul punto diffusamente PICOZZA (1998).

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innanzitutto, di recepire le Direttive sui servizi di investimento; il recepimento si realizza nel 1996, con l’emanazione del D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (c.d. “Decreto Eurosim”) 23, il quale si occupa unicamente dei profili direttamente incisi dalle Direttive, e cioè il mutuo riconoscimento di intermediari e mercati. La celerità con la quale viene emanato il decreto (appena cinque mesi dopo la legge delega) ha, peraltro, una sua giustificazione di carattere tecnico-politico, rappresentata dalla necessità di rassicurare le Autorità Comunitarie sulla volontà di porre rimedio alla situazione di incompatibilità tra la disciplina italiana e quella comunitaria, derivante dall’eccessivo protezionismo che, in punto di accesso alle attività riservate, mostrava la legge 2 gennaio 1991, n. 1 24. Il Decreto Eurosim è, però, un momento di passaggio, perché il Governo provvede pressoché immediatamente a dare avvio ai lavori per l’emanazione del Testo Unico, affidandoli ad un’apposita commissione, coordinata dalla Direzione Generale del Ministero del Tesoro (ora Ministero dell’Economia e delle Finanze), ed alla quale parteciparono eminenti studiosi, ed esponenti delle istituzioni di vigilanza e di controllo (tra cui, con un ruolo di primissimo piano, Banca d’Italia e Consob). Il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 raccoglie i frutti di tale lavoro. In Italia, la disciplina del mercato dei capitali viene così ad articolarsi in due grandi comparti: il comparto bancario e creditizio, di cui si occupa il Testo Unico Bancario del 1993; ed il comparto non creditizio (nel quale, peraltro, anche le banche sono massicciamente presenti), di cui si occupa il Testo Unico del 1998. Ad essi si affianca la disciplina settoriale relativa alle attività e ai prodotti assicurativi, alla previdenza complementare ed alcuni provvedimenti di contorno. All’interno dei due Testi Unici troviamo, per le parti di rispettiva competenza, gran parte della disciplina del mercato dei capitali, ed anche in termini espositivi tali provvedimenti possono costituire distinti punti di riferimento: il diritto e la legislazione bancaria, da un lato, il diritto del mercato mobiliare, dall’altro.

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V., tra i vari commentari apparsi, quello diretto da CAMPOBASSO (1997), ed i molteplici contributi ivi contenuti. 24 La legge n. 1/1991 fu censurata dalla Corte di Giustizia UE in quanto l’obbligo di costituire, per la prestazione dei servizi in Italia, una società avente sede legale nel territorio dello Stato era in contrasto con le disposizioni del Trattato: la decisione della Corte è peraltro intervenuta a brevissima distanza dal recepimento delle Direttive sui servizi di investimento e, pertanto, dall’effettiva “liberalizzazione” del settore, in conformità alla disciplina del mutuo riconoscimento (v. la sentenza 6 giugno 1996, causa C101/94, pubblicata in Foro it., 1996, IV, c. 53 ss.). V. anche il commento di BOCHICCHIO (1999).

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3.3. Dal 1998 alla crisi del 2008 Come si è visto, numerosi fattori inducono i regolatori a continuamente modificare, affinare, completare la disciplina del mercato mobiliare. Tra i fattori maggiormente determinanti vi sono, da un lato gli stimoli provenienti dal processo di integrazione e armonizzazione comunitaria; dall’altro, il verificarsi di situazioni di choc e di crisi sui mercati, che spesso stimolano interventi in via di “urgenza”. Entrambi questi fattori sono stati alla base delle più rilevanti evoluzioni della disciplina del mercato mobiliare successive al Testo Unico del 1998, e sino alla crisi finanziaria deflagrata nel 2007/8, ed agli interventi successivi. 3.3.1. L’incessante opera del legislatore europeo Anche negli anni successivi all’emanazione del TUF, la Comunità europea ha proseguito, minuziosamente, nel processo di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di mercato mobiliare e finanziario in genere. Si può indubbiamente affermare che l’impatto della disciplina comunitaria è ormai, nella materia di cui si discute, assolutamente determinante. In particolare, tra i primi provvedimenti più significativi che risultano emanati in epoca successiva all’entrata in vigore del TUF vanno sin d’ora ricordati: – le Direttive 2001/107 e 2001/108/CE del 21 gennaio 2002 in materia di organismi di investimento collettivo; – la Direttiva 2003/41/CE del 3 giugno 2003, in materia di fondi pensione; – la Direttiva 2003/71/CE del 4 novembre 2003, in materia di prospetto informativo; – la Direttiva 2003/6/CE del 28 gennaio 2003 in materia di abuso di informazione privilegiata e manipolazione del mercato; – la Direttiva 2004//25/CE del 21 aprile 2004, in materia di offerte pubbliche di acquisto; – la Direttiva 2004/39/CEE (c.d. “MiFID”), il cui recepimento ha comportato – con effetto dal 1° novembre 2007 – modifiche particolarmente rilevanti alla disciplina dei servizi di investimento e dei mercati di strumenti finanziari. Dell’impatto delle singole e specifiche Direttive sulla disciplina interna daremo conto con riferimento alle singole materie di volta in volta interessate. Pressoché quasi tutte queste Direttive sono state, nel tempo, aggiornate, riviste, a volte “trasformandosi” – nelle versioni successive – in Regolamenti europei direttamente applicabili negli Stati membri (si pensi, per tutti, alla disciplina degli abusi di mercato). Anche il quadro delle Autorità di vigilanza è venuto ad arricchirsi per l’effetto dell’istituzione di un articolato quadro di istituzioni europee.

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Ciò che preme porre in luce è la tendenza della disciplina europea a ritagliarsi – già nel decennio 1998-2008 – spazi di intervento sempre più rilevanti, comprimendo così l’autonomia lasciata agli ordinamenti nazionali. Tale fenomeno si manifesta non soltanto in merito all’ampliarsi delle materie incise dal diritto comunitario (l’approvazione della Direttiva sull’OPA costituisce, sotto questo profilo, un fatto di importanza “storica”), ma anche in relazione ai metodi utilizzati dal legislatore comunitario. Infatti, in materia di mercato mobiliare, le Direttive comunitarie erano tradizionalmente basate sui principi dell’“armonizzazione minima” e del “mutuo riconoscimento”: l’impostazione di fondo era dunque volta ad introdurre negli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione Europea quel grado, o livello, di armonizzazione necessario per assicurare l’applicazione e il funzionamento del principio del mutuo riconoscimento. La nuova impostazione muove, invece, da presupposti, e persegue obiettivi, più ambiziosi. Si è infatti riscontrato che, in concreto, il grado di armonizzazione delle legislazioni nazionali, nelle materie che qui interessano, è risultato piuttosto modesto: gli ampi spazi lasciati dalle Direttive ai legislatori nazionali hanno, inevitabilmente, consentito l’affermarsi, in ambito comunitario di regole e standard non comuni, frustrando così l’obiettivo che il legislatore europeo si era posto 25. Nel 2001 (Decisione, 2001/527/EC) la Comunità europea dà dunque avvio ad un nuovo metodo di elaborazione delle Direttive comunitarie, che sostanzialmente prevede l’articolarsi del processo di formazione e applicazione del diritto europeo su quattro livelli: – il primo livello è rappresentato dalla vera e propria Direttiva, approvata dal Consiglio e dal Parlamento; – il secondo livello è rappresentato dall’approvazione di misure di attuazione della Direttiva, ad opera della Commissione europea; – il terzo livello è rappresentato dalle misure di recepimento della Direttiva negli ordinamenti interni degli Stati membri; – il quarto livello è rappresentato dall’applicazione delle singole disposizioni nel diritto interno 26. 3.3.2. Le riforme interne L’evolversi della disciplina del mercato mobiliare è, da sempre, caratterizzata da bruschi momenti di “impennata”, che prendono avvio in dipendenza 25

Sulle ragioni generalmente addotte in favore di un’armonizzazione della disciplina dei mercati finanziari v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 23 ss. 26 Il nuovo “metodo” con il quale il legislatore comunitario opera nel settore finanziario viene comunemente designato con l’espressione di procedura “Lamfalussy”.

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del verificarsi di choc e crisi nel funzionamento dei mercati. Il fenomeno interessa, in realtà, tutti i sistemi: tra i casi più significativi degli ultimi anni del XX secolo deve indubbiamente annoverarsi il caso degli Stati Uniti, dove – a seguito di uno dei più grandi fallimenti della Storia nordamericana (il crack Enron) – prende avvio un ampio movimento di riforma della legislazione federale, sfociato nell’approvazione di un articolato provvedimento nel 2002 (il c.d. Sarbanes-Oxley Act). Anche in Italia, il dibattito tecnico e politico è stato infiammato – nel decennio 1998-2008 – soprattutto in dipendenza del verificarsi di due grandi dissesti finanziari: i crack delle società Cirio e Parmalat. Numerosi sono stati gli spunti di riflessione che derivano dal verificarsi di questi dissesti: il ruolo delle Autorità di vigilanza, la ripartizione dei poteri tra di esse, le finalità stesse della disciplina del mercato mobiliare, le tecniche di prevenzione e repressione delle frodi, la corporate governance degli emittenti quotati, ecc. Sullo sfondo della paziente opera del regolatore europeo, che prosegue nella propria opera di armonizzazione delle legislazioni nazionali, negli anni in esame il legislatore italiano interviene con iniziative autonome, che si inseriscono (talora in modo confuso, e non senza difficoltà di coordinamento) nel più ampio panorama della regolamentazione comunitaria. Sin dal verificarsi dei default che hanno travolto, anche in Italia, importanti gruppi societari si riaccende il dibattito sugli assetti della regolamentazione del mercato mobiliare e finanziario in genere. Il dibattito prosegue tra fasi alterne sino al dicembre 2005, con l’approvazione della legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”. La legge n. 262/2005 si presenta come un provvedimento sfaccettato, nel quale vengono a confluire istanze talvolta anche molto diverse: un primo nucleo di disposizioni è chiaramente identificabile come un segno di “risposta” agli scandali finanziari; altre norme si sono poi aggiunte, nel corso dell’iter preparatorio della legge, al fine di adeguare la disciplina interna al diritto comunitario; altre disposizioni, infine, rappresentano interventi di puro coordinamento o inserite nel corpo originario per finalità più contingenti. Proprio a causa della sua genesi la legge n. 262/2005 presenta dunque tratti disomogenei, e riflette una tecnica legislativa spesso insoddisfacente: i contenuti spaziano dalla disciplina degli emittenti, a quella degli intermediari, a quella dei mercati; in alcuni casi è ravvisabile un chiaro disegno ispiratore, in altri tale individuazione appare meno agevole, e le nuove disposizioni non sono ben coordinate con la disciplina già in vigore o con quella che, nelle more dell’iter parlamentare, sia stata eventualmente emanata in materie affini: sotto questo profilo, gli elementi più problematici attengono alla ripartizione delle funzioni di vigilanza tra le varie Autorità di settore, e al coordinamento con la disciplina europea. Infine, non poche previsioni suscitano rilevanti difficoltà interpretative, dovute alla loro non chiara formulazione, tipica di ogni

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legislazione che trae origine da circostanze contingenti 27. Al di là di questi profili – che hanno reso necessari ampi interventi “correttivi” al testo originario – la legge segna comunque un momento importante nell’evoluzione della disciplina del mercato mobiliare, introducendo soluzioni di interesse anche sul piano sistematico e correggendo alcune evidenti “anomalie” del sistema (si pensi, ad esempio, all’esenzione dalla disciplina della sollecitazione, già prevista dal TUF con riguardo a tutti i prodotti bancari e finanziari). Alquanto incisivo risulta, poi, l’intervento della legge n. 262/2005 per quanto riguarda gli assetti e le competenze delle Autorità di vigilanza: sotto questo profilo, si può affermare che la stessa riforma è stata in qualche modo sollecitata dall’ampio dibattito che, sin dal manifestarsi dei dissesti Cirio e Parmalat, ha interessato il ruolo, le competenze e il modus operandi delle principali Autorità di regolazione. Nelle originarie proposte, la riforma delle Autorità di vigilanza avrebbe dovuto tradursi in un vasto riordino di competenze e di strutture, a seguito del quale era stato ipotizzato anche l’accentramento delle funzioni di vigilanza sul mercato mobiliare in un’unica Autorità. Tale impostazione è stata successivamente abbandonata, e dunque è stata mantenuta la soluzione che vede la vigilanza tendenzialmente ripartita su basi funzionali 28. Nel senso suindicato, la legge n. 262/2005 investe, inevitabilmente, profili che travalicano il solo ambito del mercato mobiliare, per interessare – più in generale – l’intera disciplina del mercato finanziario: in questo senso, appaiono particolarmente significative le innovazioni introdotte con riferimento alla struttura della Banca d’Italia e alle competenze di quest’ultima nel settore dell’antitrust bancario e finanziario. In estrema sintesi, e quanto al primo profilo, l’art. 19 della legge ha inciso sullo statuto della Banca d’Italia, riformando i criteri di nomina del Governatore, del Direttorio e modificandone le competenze 29. La disposizione maggiormente segnaletica della riforma (sulla quale hanno influito profondamente le polemiche innescate dalle vicende che hanno interessato, nel 2005, la Banca Popolare Italiana, la Banca Antonveneta e la Banca nazionale del lavoro), è rappresentata dal comma 7, in base al quale il Governatore dura in carica sei anni, con la possibilità di un solo rinnovo del mandato. Gli altri membri del Direttorio durano in carica sei anni, con la possibilità di un solo rinnovo del mandato. Con riferimento alle competenze della Banca d’Italia in materia di concorrenza nel settore bancario e finanziario, vengono abrogati i commi 2, 3 e 6 del27

Per una disamina delle contrastanti valutazioni suscitate dalla legge n. 262/2005 e dal successivo “Decreto correttivo” v. ROSSI (2006); GRANATA (2007); MICOSSI (2007); SABATINI (2007). 28 Sull’annoso (e ricorrente) problema degli assetti della vigilanza v. VELLA (2007). 29 V. PORZIO (2007).

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l’art. 20 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, relativi alla disciplina delle intese e dell’abuso di posizione dominante. Quanto alle concentrazioni, per le operazioni di acquisizione di cui all’art. 19 del Testo Unico Bancario, e per le operazioni di concentrazione ai sensi dell’art. 6 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, che riguardano le banche, sono necessarie sia l’autorizzazione della Banca d’Italia, per le valutazioni di sana e prudente gestione, sia l’autorizzazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all’art. 10 della citata legge n. 287/1990, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della medesima legge, ovvero il nulla osta della stessa a seguito delle valutazioni relative all’assetto concorrenziale del mercato. La novella intende così realizzare un drastico ridimensionamento dei poteri della Banca d’Italia in materia di concorrenza, a favore dell’Autorità antitrust. In un sistema, quale quello italiano, caratterizzato dal contemporaneo operare di più Autorità di vigilanza, il tema del coordinamento e della collaborazione tra le diverse Autorità non può non rivestire importanza cruciale. Già il TUF aveva previsto specifiche disposizioni volte ad assicurare, nelle materie ivi regolate, un più intenso coordinamento e una più efficace collaborazione tra le Autorità di vigilanza, ma il legislatore ha avvertito l’esigenza di tornare sul punto, rafforzando la linea già seguita nel 1998. La legge n. 262/2005, all’art. 20, rimette alle Autorità di vigilanza il compito di individuare specifiche forme di coordinamento, anche attraverso la conclusione di protocolli d’intesa o di appositi comitati: il principio viene ad essere esteso a tutte le Autorità di regolazione, ivi compresa l’Autorità antitrust. Anche l’obbligo di collaborazione, già previsto dal TUF, viene ora esteso a tutte le Autorità con compiti di controllo e/o regolazione del mercato finanziario; secondo il modello già tracciato dal TUF, le Autorità non possono opporsi il segreto d’ufficio, fermo restando l’operatività di quest’ultimo nei confronti dei terzi. Per lo svolgimento dei poteri di vigilanza informativa ed ispettiva, viene poi prevista la possibilità per le Autorità di avvalersi della collaborazione del Corpo della guardia di finanza: ipotesi, quest’ultima, già contemplata in relazione all’esercizio dei poteri attribuiti alla Consob nell’ambito della disciplina degli abusi di mercato. La legge n. 262/2005 interviene, sotto vari profili, anche sulla materia degli emittenti quotati, o con strumenti diffusi, apportando modifiche di notevole rilievo alla disciplina introdotta con il Testo Unico e, successivamente, con la riforma del diritto societario: le innovazioni non si limitano alle disposizioni specificamente volte a rafforzare la tutela delle minoranze, a migliorare la governance societaria, ma toccano anche profili ulteriori, come ad esempio quello degli assetti dei gruppi quotati.

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3.3.3. La progressiva “trasformazione” del ruolo delle Autorità di vigilanza Un tratto segnaletico dell’“alluvione” legislativa che ha caratterizzato, nel decennio 1998-2008, la disciplina del mercato mobiliare – tra recepimento delle Direttive europee e riforme interne – è rappresentato dalla vera e propria trasformazione del ruolo delle Autorità di vigilanza e, in specie, della Consob. Si tratta di un fenomeno che si è concretizzato, dapprima, con le disposizioni di recepimento della Direttiva sugli abusi di mercato del 2003, e che si è poi accentuato con la legge sulla tutela del risparmio ed i successivi provvedimenti di attuazione. In sostanza, nel quadro delle riforme così realizzate, sia la Banca d’Italia, sia la Consob si sono viste riconoscere il potere di sanzionare direttamente i soggetti sottoposti a vigilanza, secondo un modello che – sebbene già da tempo diffuso all’estero – era rimasto ignoto (se non per profili marginali) al sistema italiano. In tale ambito, alle Autorità sono stati attribuiti pregnanti poteri di indagine e di verifica, spesso ricalcati su quelli propri del procedimento penale. Ad entrambe le Autorità sono stati attribuiti poteri che attengono alla gestione di procedure di conciliazione ed arbitrato, riferite a rapporti tra intermediari e investitori. Appare evidente, da questi brevi cenni, come le Autorità di vigilanza e, soprattutto la Consob, si siano avviate verso un processo di trasformazione del proprio ruolo che non è più confinato alla sfera regolamentare o di controllo, ma che investe funzioni sempre più prossime alla vera e propria sfera “giurisdizionale”. Si tratta di un processo che, tuttavia, non manca di sollevare delicatissime questioni, derivanti dal (talvolta abnorme 30) cumulo di poteri, di diverso genere, in capo all’Autorità amministrativa (normativi, di controllo, sanzionatori, di gestione del contenzioso), ed alla conseguente esigenza di assicurare il rispetto dei principi costituzionalmente garantiti: una vera e propria “sfida” per il sistema, che fino ad ora è stata affrontata soltanto timidamente e con soluzioni poco soddisfacenti 31. 30

Cfr. CRESPI (2009). Con l’attribuzione alle Autorità di vigilanza di poteri sanzionatori diretti, il sistema italiano si allinea ai modelli già da tempo adottati in altri Paesi (si veda, tra i casi più emblematici, l’esperienza della Francia, che ha introdotto la soluzione sin dal 1989) nei quali le Autorità di vigilanza sul mercato finanziario cumulano potere regolamentare, di controllo e sanzionatorio. La scelta risponde ad evidenti esigenze di efficacia del sistema repressivo: l’Autorità di vigilanza dispone, infatti, delle migliori competenze tecniche per valutare e reprimere le condotte illecite. Inoltre, l’accentramento in capo alla stessa Autorità di vigilanza del potere di irrogare direttamente le sanzioni amministrative risponde anche ad esigenze di celerità del procedimento sanzionatorio. Tuttavia, come dimostrano anche le esperienze estere, la scelta pone delicati problemi di tutela del contraddittorio e del diritto alla difesa: secondo quanto si è tentato di fare nei sistemi stranieri, si richiamano, nel contesto, dei procedimenti sanzionatori i principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, 31

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Certo è che il “volto” della Consob e, più in generale, delle Autorità di vigilanza del nuovo millennio è ormai diverso da quello delle origini.

4. Dalla crisi finanziaria … ai giorni nostri Il deflagrare della crisi finanziaria – manifestatasi in tutta la sua violenza, e dimensione planetaria, nel 2008 – ha inevitabilmente dato avvio ad una nuova fase di revisione della disciplina dei mercati finanziari. La riflessione, stante la dimensione globale della crisi, prende subito avvio nelle sedi internazionali, ed investe pressoché tutti i profili della regolazione dei mercati: se, in alcuni casi, le prime iniziative si sono presto tradotte in concreti provvedimenti normativi (Stati Uniti d’America), in altri casi le stesse hanno comunque dato avvio a grandi processi di riforma, di più lunga gestazione (Unione Europea) 32. Per effetto, e nel corso, della crisi, tutti gli assetti della regolazione dei mercati finanziari sono stati chiamati direttamente in causa, o per non aver saputo prevenire i fallimenti di mercato, o per non averli affrontati adeguatamente: in tale ambito, le critiche hanno investito tanto il ruolo delle Autorità di vigilanza, quanto l’oggetto e il contenuto delle regole, quanto – indella verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie. Si tratta dell’applicazione di principi generali dell’ordinamento, che però il legislatore non si è premurato di disciplinare direttamente, demandandone la specificazione alla stessa Autorità di vigilanza (che, peraltro, sul punto si trova tipicamente in una situazione di conflitto): così, la Consob ha provveduto all’istituzione di un apposito “Ufficio sanzioni amministrative” distinto dalle singole Divisioni che, di volta in volta, possono essere interessate dalla valutazione degli illeciti. Come dimostrano le esperienze straniere, è però soltanto l’effettiva applicazione delle nuove regole che consente di valutare, effettivamente, il rispetto dei principi richiamati dalla legge. In un quadro normativo caratterizzato da sempre più ampi margini di regolamentazione e di applicazione delle norme, rimessi alle medesime Autorità amministrative, risulta essenziale il modo in cui queste ultime intendono svolgere il proprio delicatissimo ruolo. L’effettivo contraddittorio delle parti, e il diritto alla difesa dei soggetti, vanno assicurati anche e soprattutto sul piano fattuale e concreto: esigenza, questa, imprescindibile per la stessa salvaguardia non solo dei diritti dei privati, ma anche dell’autorità morale degli Organi di vigilanza. Su questi temi, il dibattito è stato peraltro rinfocolato dall’importantissima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 4 marzo 2014, nel caso Grande Stevens c/Italia, sulla quale cfr. VENTORUZZO (2014). 32 Sulla crisi, la bibliografia è vastissima: per i primi riferimenti, ed ulteriori indicazioni, muovendo dalla letteratura in italiano, si vedano ROSSI (2009); ONADO (2009); MASERA (2010); DI TARANTO (2010); RISPOLI FARINA (2010); MEZZACAPO (2010); PRESTI (2010); SABBATELLI (2010); ENRIQUES (2010); GALGANO (2010); CARDI (2010), nonché i due ricchi volumi collettanei a cura di SANTORO e TONELLI (2012).

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fine – l’enforcement delle stesse. Come spesso accade in concomitanza delle crisi, da più parti si invoca l’adozione di nuove regole, nella convinzione (a volte errata) che più regolamentazione serva a scongiurare nuovi fallimenti dei mercati: è forte la pressione affinché i legislatori procedano con la formulazione di riforme di ampio respiro, in grado di rassicurare mercati ed opinione pubblica (v., negli USA, il Dodd-Frank Act). In alcuni casi i progetti di riforma richiedono tuttavia tempi lunghi di maturazione, e un consenso politico “forte” che ne ritarda l’approvazione, ma le linee di tendenza emergono comunque con sufficiente chiarezza. Il ripresentarsi della crisi nel 2011 sotto forme in parte nuove (crisi degli Stati sovrani prima crisi dell’Euro, poi), ha posto ai mercati e ai regolatori sfide nuove, dense di risvolti anche e soprattutto politici. La disciplina del settore bancario è stata interamente rivista, direttamente a livello europeo, con l’introduzione, da un lato, di nuove misure legislative volte ad allineare il più possibile le legislazioni nazionali (il c.d. Single Rulebook), e, dall’altro, del Meccanismo di vigilanza unico sulle banche, affidato alla Banca Centrale Europea. Una riforma, quest’ultima, di portata storica, che tocca gli stessi aspetti istituzionali dell’Unione Europea. Nel comparto mobiliare, tra le numerose riflessioni che hanno preso avvio in merito agli assetti della regolamentazione, ed alle prospettive di riforma, quella che ha avuto il maggior impatto sull’assetto della futura disciplina europea è rappresentata dall’analisi svolta dal Gruppo di lavoro presieduto da Jacques de Larosière, ed operante su mandato della Commissione europea: le risultanze del Gruppo di lavoro – riflesse nel documento The High-Level Group of Financial Supervision in the EU del febbraio 2009 – hanno tracciato il sentiero lungo il quale il legislatore europeo si è mosso nel corso degli anni successivi. Dopo aver indagato le possibili cause della crisi, il documento formula 31 Raccomandazioni, che investono numerosissimi aspetti: dalla struttura delle Autorità europee, all’ampliamento della regolamentazione a settori non ancora regolati, alla cooperazione internazionale, alla gestione dei rischi, ecc. È sul sentiero tracciato dal rapporto de La Rosière che si è mosso – massicciamente – il legislatore europeo dopo la crisi finanziaria: il rapporto, dunque, costituisce un vero e proprio “tableau de bord” delle riforme più recenti della disciplina del mercato finanziario, oggi pressoché quasi tutte realizzate.

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5. Stato e prospettive della disciplina del mercato mobiliare: il difficile equilibrio tra fonti interne e fonti comunitarie e la perdita di centralità del TUF 33 In Italia, a distanza di quasi 20 anni dall’emanazione del TUF, il panorama che – con specifico riferimento alla disciplina degli intermediari e dei mercati – si presenta agli occhi dell’interprete (e dei pratici) si è, dunque, molto modificato. Innanzitutto, come già detto, l’incidenza della normativa europea è aumentata esponenzialmente, conducendo alla riscrittura di intere sezioni del TUF, sulle quali il legislatore è intervenuto più, e più volte. Ma, su di un piano diverso, è in parte cambiato lo spirito che aveva presieduto all’originaria formulazione del Testo Unico. Il D.Lgs. n. 58/1998 fu salutato a suo tempo – non a torto – come un riuscito esempio di razionalizzazione e sistematizzazione della disciplina degli intermediari e dei mercati: un testo fiducioso nell’autonomia del mercato, improntato – in molti settori – ad ampia delegificazione. Oggi, non resta moltissimo di quell’ispirazione. Interi ambiti del Testo Unico sono ormai caratterizzati dal pervasivo intervento di analitiche norme comunitarie, spesso di diretta applicabilità o comunque tali da lasciare pochi margini di adattabilità alla disciplina interna. La fiducia nella capacità dei mercati di trovare da sé alcuni punti di equilibrio pare essersi incrinata. Dopo le crisi, e i pesanti interventi normativi che hanno investito tutti i settori, sul Testo Unico si stende, minacciosa, l’ombra di regimi sanzionatori sempre più pressanti, delle responsabilità amministrative, civili e penali, di cui la disciplina sugli abusi di mercato costituisce esempio significativo. Gli spazi – in vero tenui, e da sempre incerti – pur lasciati all’autodisciplina sono pressoché scomparsi: non ve n’è quasi più traccia, nelle materie che qui interessano, neppure nei testi di rango secondario. Gran parte dell’evoluzione del Testo Unico successiva alla sua emanazione è frutto dell’espansione della disciplina: sempre più analitica e puntuale, da un lato, sempre più ampia quanto alla sua portata, dall’altro. L’impatto della normativa europea sul Testo Unico si esercita prevalentemente in due direzioni: la prima consiste nella riduzione degli spazi lasciati al legislatore nazionale in sede di recepimento delle Direttive, ora sempre più improntate a modelli di (quantomeno declamata) “massima armonizzazione”, combinati con divieti o limitazioni di “gold plating” (ossia, il potere degli Stati membri di introdurre regole aggiuntive rispetto a quelle derivanti dai testi comunitari). La seconda riguarda, più propriamente, l’ampliamento delle materie nelle quali interviene la legislazione europea. 33 I contenuti del presente e dei successivi paragrafi sono tratti dalla relazione presentata dall’Autore nell’ambito del Convegno “A 15 anni dal TUF” tenutosi presso l’Università Bocconi di Milano in data 13-14 giugno 2013, con i relativi aggiornamenti.

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Quanto al primo profilo, la disciplina europea sul mercato dei capitali degli ultimi anni è decisamente orientata verso modelli di più intensa armonizzazione degli ordinamenti nazionali, perseguito attraverso Direttive sempre più dettagliate e precise, o – ancor di più – ricorrendo allo strumento del Regolamento. Certo, non mancano le eccezioni, ma la tendenza complessiva pare evidente. È chiaro, peraltro, che – in tale contesto – anche il profilo della diretta applicabilità delle norme comunitarie assume un rilievo diverso rispetto ai modelli meno recenti di Direttive europee (se non altro, aumenta la possibilità che anche le Direttive siano, di fatto, direttamente applicabili): la stessa architettura che connota il c.d. metodo “Lamfalussy”, con la previsione di Direttive di dettaglio di secondo livello, conduce a questo risultato. A siffatta tendenza si aggiunge, nelle iniziative più recenti, il crescente ricorso allo strumento del Regolamento comunitario: il confluire della disciplina comunitaria sugli abusi di mercato in un Regolamento, anziché in una Direttiva, è un segno tangibile. La seconda direzione che caratterizza l’impatto della disciplina europea sul TUF consiste nell’ampliamento degli ambiti di intervento del legislatore europeo, che – progressivamente – invade gli spazi ancora lasciati all’autonomia del legislatore nazionale, ovvero ne colma direttamente le lacune. Esempi recenti sono rappresentati dalla Direttiva AIFMD, dai nuovi Regolamenti sulle agenzie di rating, dal Regolamento “EMIR” sui derivati, alla disciplina dei mercati, a quella dei prodotti complessi. Questa impostazione lascia, tuttavia, irrisolto almeno un problema e pone almeno un dubbio. Il problema continua ad essere rappresentato dalla c.d. “armonizzazione effettiva”, ossia dal modo in cui – concretamente – le regole comunitarie vengono applicate e interpretate negli Stati membri. Nel quadro di un più ampio progetto di revisione della struttura della vigilanza europea, che prende avvio con l’introduzione del sistema (recte, procedura) Lamfalussy, si sono introdotte dapprima, e rafforzate poi, le strutture della c.d. comitatologia. Il processo, poi rivisto nel quadro dei suggerimenti avanzati dal Rapporto de Larosière immediatamente dopo lo scoppio della crisi del 2008, poggiava tuttavia su qualche incertezza di fondo, rappresentato dalla natura in parte ibrida dei Comitati. I Comitati sono così state sostituite da vere e proprie Autorità europee (EBA, ESMA e EIOPA)  tra le quali, ai fini che qui interessano, spicca l’ESMA  alle quali spettano funzioni eterogenee: alta vigilanza, elaborazione di standard tecnici, ampie prerogative operanti sul piano della mera moral suasion, funzioni sanzionatorie in caso di mancato rispetto delle norme europee: tutti compiti spesso di difficile inquadramento all’interno di schemi tradizionali. Il ruolo dei Comitati è, poi, a volte reso di difficile intellegibilità, a causa della mancanza di un più chiaro substrato normativo nel Trattato. Non stupisce, allora, che – nonostante il rafforzamento delle Autorità UE, e il livello di dettaglio delle Direttive – continuino a manifestarsi orientamenti disallineati.

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Se, dunque, il problema continua – inevitabilmente – ad essere quello del raggiungimento di un grado di più elevata convergenza tra gli ordinamenti nazionali, il dubbio concerne l’alternativa tra armonizzazione e concorrenza tra ordinamenti. Se, e quale debba essere, il livello di regulatory competition in ambito europeo costituisce un dilemma da sempre, e tutt’ora, irrisolto, soltanto in parte affrontato dalle analisi di impatto che ormai accompagnano l’emanazione di nuovi provvedimenti comunitari. La questione, peraltro, non sembra possa essere confusa con quella della valenza e della portata del principio di sussidiarietà del Trattato: quel principio, infatti, attiene al momento per così dire “originario” dell’intervento del legislatore, relativo all’effettiva giustificabilità e necessità dell’intervento stesso, ma non risolve la questione del grado di pervasività della disciplina che eventualmente ne derivi, e del livello più opportuno di concorrenza da lasciare tra gli ordinamenti. Deve, peraltro, osservarsi che il trend più recente (dopo la crisi del 2008) pare essere nel senso della riduzione di spazi rilevanti di regulatory competition: le emergenze dettate dalla crisi finanziaria sembrano per il momento giustificare interventi in senso opposto.

5.1. Le linee di tendenza: i servizi di investimento Le linee che hanno caratterizzato, nel contesto del quadro comunitario sopra ricordato, l’evoluzione della disciplina degli intermediari e dei mercati (nelle materie, ovviamente, disciplinate dal TUF) sono individuabili piuttosto chiaramente. Una prima dorsale corre, ovviamente, lungo la disciplina dei servizi di investimento che, a giusto titolo, può oggi considerarsi il fulcro stesso dell’intera disciplina delle attività finanziarie non bancarie. Dalla sua prima introduzione nell’ordinamento italiano, con la legge n. 1/1991, la disciplina è andata via via rafforzandosi e ampliandosi, in ciò stimolata dall’intervento del legislatore europeo (ma non soltanto); due sono i profili evolutivi che paiono degni di nota: il “perimetro” della disciplina e il “peso specifico” della stessa. Sotto il primo profilo, la disciplina dei servizi di investimento ha conosciuto, nel tempo, un vero e proprio processo espansivo. Il dato più significativo è rappresentato dall’ampliamento – registrato soprattutto nel passaggio dal Testo Unico del 1998 alla disciplina di recepimento della prima Direttiva MiFID – della definizione di servizio di investimento e di strumento finanziario: i due termini sui quali poggia l’identificazione del “perimetro” della disciplina. L’ampliamento della definizione di servizio di investimento, per includervi l’attività di consulenza e quella di gestione di sistemi multilaterali di negoziazione (con conseguente ridenominazione dello stesso elenco delle attività riservate, ora individuato con l’espressione “servizi e attività di investimen-

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to”), si realizza con il recepimento della Direttiva MiFID nel 2007, e segna anche il definitivo riconoscimento dell’ormai tenue, labile confine che, nella realtà, spesso divide attività degli intermediari e attività dei mercati. Quanto alla nozione di “strumento finanziario” è noto come, con la MiFID, si assista ad un considerevole ampliamento del “catalogo”, con particolare riguardo agli strumenti derivati, la definizione dei quali si presta ora ad includere pressoché qualsiasi tipologia di contratto derivato, sia esso riferibile a entità o grandezze “finanziarie”, relativo a commodities, o di tipo esotico. La forza espansiva che, sul piano della disciplina delle attività finanziarie, consegue – in particolare – alla riformulazione della definizione di “strumento finanziario” costringe, peraltro, il legislatore comunitario a tracciare una incerta linea di confine tra derivati “finanziari” e derivati con funzioni propriamente commerciali (o “non finanziarie”). Il perimetro della disciplina finanziaria, infatti, rischia sempre di più di invadere il campo delle attività proprie dell’economia reale. Questa tendenza espansiva, con specifico riguardo alle sollecitazioni del legislatore europeo, non pare peraltro essersi conclusa. Nel contesto della c.d. MiFID2, il confine tra disciplina delle attività finanziarie e disciplina delle attività reali sembra ulteriormente spostarsi a vantaggio delle prime: oltre ad aggiungere alle attività riservate la gestione di una ulteriore forma di trading venue (gli OTF), la definizione di strumento finanziario si amplia ulteriormente, con l’inserimento – nel novero degli strumenti derivati considerati di per sé finanziari – dei derivati sulle quote di emissione, e di derivati su merci dalla connotazione non esattamente finanziaria. Strumenti che non presentano, necessariamente, alcuna caratteristica di “finanziarietà” vengono infatti attratti nella disciplina del mercato dei capitali, indipendentemente dalla funzione svolta, o dalla sua natura “commerciale”. Si è detto che la forza centrifuga della disciplina dei servizi di investimento non dipende soltanto dall’intervento del legislatore comunitario. Anche sul piano squisitamente interno, la disciplina dei servizi di investimento ha rappresentato un modello di riferimento, idoneo ad offrire un quadro comprensivo e articolato di regole suscettibili di applicazione anche oltre il perimetro tracciato dalle regole comunitarie. Nel 2005, la legge sulla tutela del risparmio aveva già esteso “alla sottoscrizione e al collocamento di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione”, gli artt. 21 e 23 del TUF: ossia, il nucleo apicale delle regole di condotta (art. 21) e delle norme sui contratti (art. 23). Nella stessa redazione del Codice delle assicurazioni, il legislatore utilizza, come modello per la disciplina del collocamento e della distribuzione dei prodotti assicurativi, gli standard da tempo introdotti nella disciplina dei servizi di investimento: fanno così ingresso, nella materia assicurativa (e, in specie, delle polizze assicurativo-finanziarie), regole sulla trasparenza, sui conflitti di interessi, sulla valutazione di adeguatezza originate dal ceppo della disciplina dei servizi di investimento. La più recente disciplina europea in mate-

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ria di distribuzione di prodotti assicurativi “importa”, dal contesto della disciplina del mercato mobiliare, schemi, logiche e regole (Direttiva 2016/97/UE del 20 gennaio 2016 sulla distribuzione assicurativa). Oltre che di una forza espansiva intesa nel senso di allargamento della portata e/o della sfera di “influenza” della disciplina dei servizi di investimento, un’ulteriore “direzione” consiste nella sempre maggior pervasività della stessa, ovvero nel suo crescente “peso specifico”. Il fenomeno è particolarmente vistoso con riguardo a quella che rappresenta il “cuore” stesso di una disciplina che si pone, sin dalle origini (legge n. 1/1991) come strumento di tutela dell’investitore “non professionale”: la disciplina delle regole di condotta. Uno sguardo, anche solo superficiale, al corpus delle regole di condotta, riferita alla prestazione di servizi di investimento nel sistema oggi in vigore, in raffronto a quella che era, ad esempio, la situazione all’indomani del recepimento della Direttiva del 1993, o – addirittura – nella vigenza della legge sulle SIM, rende immediatamente percepibile quanto la disciplina si sia, per l’appunto, estesa. Non soltanto la materia delle regole di condotta è ora ben più ricca e articolata, ma la stessa ha assunto una valenza, per taluni aspetti, diversa rispetto a quella originaria: essa, infatti, si pone oggi non soltanto come fattore di integrazione o specificazione delle clausole generali di correttezza, diligenza, buona fede, rilevante sul piano delle prestazioni contrattuali, o nella fase precontrattuale, ma è sempre più uno strumento che plasma anche l’organizzazione interna, l’organizzazione di impresa dei soggetti che operano professionalmente sul mercato, e che rende tale organizzazione direttamente rilevante sul piano del corretto adempimento degli obblighi (precontrattuali o contrattuali). Le discipline in tema di conflitto di interessi e di best execution e quella, recentissima, in materia di product governance sono emblematiche di questo processo di trasformazione della funzione stessa delle regole di condotta: in queste materie, la valutazione dell’agire dell’intermediario professionale è, anche e soprattutto, una valutazione del modo con cui l’intermediario si è organizzato al proprio interno al fine di raggiungere gli obiettivi posti dal legislatore. Dunque, non soltanto “più regole”, ma un diverso modo di intenderle, e di valutarne la rilevanza nel rapporto intermediario-investitore. Un riflesso di quanto precede è stata la vera e propria esplosione del contenzioso relativo ai servizi finanziari, di cui la torrenziale giurisprudenza in tema di c.d. “risparmio tradito” offre ormai un panorama vastissimo. Complici una serie di fallimenti di mercato – a partire dai “crac” nazionali (Parmalat, Cirio, “bond ” Argentina, ecc.) – sino all’onda lunga della crisi del 2008 che ha investito le banche, il sistema è stato messo a dura prova. La disciplina delle regole di condotta si è dovuta, inevitabilmente, confrontare con la disciplina generale e, in particolare, si è dovuto affrontare – non senza incertezze e difficoltà – il delicato tema delle conseguenze civilistiche della sua violazione. Oggi, il corpo delle regole di condotta si presenta come un insieme articolato, e

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vasto, di disposizioni di norme primarie e secondarie, che vorrebbero rappresentare il primo e più diretto strumento di tutela dell’investitore nel suo “contatto” con il mercato finanziario. Molte di quelle regole, peraltro, si applicano anche nei confronti di investitori professionali. L’interprete non può oggi esimersi dal tentare di redigere un bilancio dei risultati ottenuti, e interrogarsi sulle possibili evoluzioni del sistema. L’intero assetto delle regole di condotta è disegnato assumendo a riferimento la figura di un investitore “ragionevole” (recte, “razionale”). Tale sistema trascura però visioni alternative, come quelle che derivano – ad esempio – dagli studi in tema di finanza comportamentale, dalle quali si ricavano lezioni diverse. Spesso, il sistema fa ancora troppo affidamento su requisiti formali. Forse, la disciplina è troppo permissiva per quanto attiene al tema, fondamentale, e mai del tutto risolto, dei conflitti di interessi 34.

5.2. (Segue): la gestione collettiva del risparmio L’originario assetto del Testo Unico, con riguardo alla disciplina della gestione collettiva del risparmio, rappresentava forse l’esempio più interessante di quella tendenza alla delegificazione che costituiva uno dei tratti distintivi di quel testo. In materia di gestione collettiva, peraltro, tale impostazione era anche agevolata dalla latitanza della disciplina comunitaria che ha per lungo tempo insistito soltanto su una piccola porzione del mercato della gestione collettiva (rappresentato dai fondi aperti “armonizzati”). La stagione immediatamente successiva all’emanazione del TUF ha saputo sfruttare e valorizzare la flessibilità della disciplina, e il sistema italiano è stato luogo di innovazione e di sperimentazione. Risale al 2000 il Provvedimento della Banca d’Italia in materia di gestione collettiva del risparmio che, a valle del D.M. n. 228/1998, per la prima volta disciplina compiutamente, e consente quindi l’istituzione, di fondi – in particolare – riservati e speculativi. Si tratta di prodotti rivolti a un pubblico “esperto”, che fanno il loro ingresso nel sistema italiano a partire dal 2000 e che inaugurano una stagione di intensa sperimentazione, in virtù della quale l’Italia sembra rappresentare un esempio o un laboratorio avanzato. È l’Italia, infatti, a rappresentare il primo Stato europeo a regolamentare e, al contempo, a consentire espressamente l’istituzione di fondi hedge, esempio poi seguito da altri Paesi. La crisi del 2008, come noto, non è stata clemente con questi prodotti, che hanno risentito della forte crisi di liquidità e, più in generale, dello scenario complessivo della crisi: l’industria dei fondi alternativi domestici ha subito un drastico ridimensionamento, e – in molti casi – ha visto 34

ENRIQUES (2006).

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l’integrale uscita dal settore di molti operatori. La gestione della crisi ha conosciuto anche il ricorso a strumenti straordinari, come la creazione di side pockets per i fondi in difficoltà. È nel contesto della crisi che si sono verificati i primi casi di default di società di gestione del risparmio, soprattutto con riguardo al settore dei fondi immobiliari e dei fondi di private equity. Sono anche emersi casi di evidente misselling di prodotti sofisticati, erroneamente consigliati o venduti a investitori non dotati di sufficiente preparazione: si tratta di episodi che hanno duramente compromesso la fiducia degli investitori, e hanno contribuito alla rapida contrazione dell’industria. La regolamentazione ha, comunque, dato prova di un buon livello di tenuta. Le situazioni di crisi sono state il banco di prova di molti istituti. Così, è riemersa violentemente (soprattutto con riguardo a casi di default di fondi immobiliari) la questione della natura giuridica del fondo comune di investimento, e – con essa – quella (ampiamente dibattuta in passato), della titolarità dei beni di compendio del fondo. Le regole sulla separazione patrimoniale, in concomitanza con il presentarsi di situazioni di insolvenza, hanno dovuto essere chiarite e affinate, e le stesse procedure di gestione delle crisi hanno richiesto adattamenti e modifiche (si veda il novellato art. 57 del TUF, in tema di liquidazione coatta amministrativa). La giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza 15 luglio 2010, n. 16605) ha fornito importanti contributi chiarificatori 35. La Direttiva sui gestori di fondi alternativi (Direttiva 2011/611/UE – c.d. Direttiva AIFM) ha inciso profondamente sulla disciplina. La Direttiva si presta a valutazioni contrastanti: da un lato, essa rappresenta un tassello fondamentale del processo di armonizzazione della disciplina europea del mercato dei capitali, e colma una lacuna vistosa del sistema. Nonostante i numerosi ritocchi apportati alla Direttiva 85/611/CEE, la disciplina dei fondi comuni rimaneva, a livello europeo, fortemente incompleta, soprattutto a fronte della sempre maggior diffusione di fondi di private equity, immobiliari o, in senso lato, non armonizzati operanti nei diversi Paesi comunitari. Le discipline nazionali, in questo quadro, sono risultate tra loro molto disallineate, contribuendo a mantenere una forte segmentazione tra i mercati. La Direttiva punta a colmare questa vistosa lacuna, ma con un approccio innovativo e per molti versi sfidante: anziché puntare sull’introduzione di una disciplina comune (anche solo di armonizzazione minima) con riguardo alle diverse tipologie o famiglie di fondi, secondo il modello della Direttiva UCITS, la Direttiva AIFM reca norme di armonizzazione del soggetto gestore, ed introducendo il regime del mutuo riconoscimento per tutti i fondi gestiti dal medesimo, indipendentemente dalla loro natura. Nella Direttiva, dunque, ricadono tutti gli organismi che non rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva UCITS, ma va osservato che 35

ANNUNZIATA (2017).

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la Direttiva, in realtà, non li disciplina direttamente. I fondi diversi da quelli già ricompresi nella Direttiva UCITS, e che beneficeranno del meccanismo del mutuo riconoscimento, non saranno, dunque, prodotti omogenei, ma saranno garantiti gli standard minimi recati dalla AIFMD relativamente al soggetto gestore. Le previsioni che la Direttiva formula con riguardo, direttamente, al fondo (caratteristiche, politiche di gestione, ecc.) sono, a dir poco, scarne, e riferite soltanto a taluni profili specifici: con riguardo a fondi che fanno un intenso uso della leva finanziaria, la Direttiva impone taluni obblighi di trasparenza, da cui possono derivare eventuali iniziative da parte delle Autorità di vigilanza; alcune previsioni riguardano i fondi di private equity. Interi settori della gestione collettiva (ad esempio, i fondi immobiliari) non formano oggetto di specifiche disposizioni. Nell’evidente esigenza di cogliere celermente i suggerimenti formulati dal Rapporto de Larosière, il legislatore comunitario ha dunque privilegiato un approccio “catch all ”, che ha sicuramente evitato le inevitabili complessità e lungaggini di un processo volto ad assicurare l’armonizzazione di singole “famiglie” di prodotti. Ne è derivata, però, una disciplina dai confini incerti.

5.3. (Segue): i mercati Con riferimento ai mercati, la disciplina ha segnato, a partire dagli anni successivi all’emanazione del TUF, il definitivo affermarsi del modello privatistico, ed un processo di progressivo consolidamento dei mercati regolamentati a livello europeo. L’impostazione, che il Testo Unico ha ereditato dal Decreto Eurosim, ha visto, anche in questo caso, e sempre per effetto del recepimento delle Direttive, non poche innovazioni successive. Con l’avvento della MiFID, infatti, si è – dapprima – assistito allo smantellamento definitivo della disciplina della concentrazione delle operazioni nei mercati regolamentati, peraltro già ampiamente ridimensionata (rispetto alla portata originaria) a seguito del recepimento della Direttiva del 1993. Senza ripercorrere le tappe di una vicenda piuttosto complessa, preme piuttosto ricordare come la MiFID muovesse, decisamente, nel senso del definitivo smantellamento delle posizioni di “monopolio” dei mercati regolamentati nell’ambito delle negoziazioni di strumenti quotati, promuovendo e disciplinando – di contro – trading venues alternative (Sistemi multilaterali di trading e Internalizzatori sistematici), quali “piattaforme” operanti in concorrenza con i mercati regolamentati. In questo quadro, nel contesto della disciplina dei mercati, perde peso lo stesso “status” di mercato regolamentato, che altro non rappresenta che una delle possibili sedi di esecuzione degli ordini, senza precostituite posizioni di vantaggio o di monopolio. Lo “status” particolare di mercato regolamentato, oggi, non deriva più da una particolare situazione di privilegio o di preferenza dei mercati regola-

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mentati, nei confronti di altre sedi di esecuzione: esso deriva, piuttosto, da un altro filone della disciplina interna e comunitaria, ossia quella che affida pur sempre un particolare rilievo alla ammissione alla quotazione ufficiale di borsa, e alla conseguente acquisizione della qualifica di emittente quotato. Siamo dunque in presenza di un sistema che sembra viaggiare a due velocità: da un lato, la disciplina dei mercati e degli intermediari, che tende a parificare sempre più le diverse trading venues, rendendole sostituibili e intercambiabili sul piano della scelta del luogo di esecuzione; dall’altro, la disciplina degli emittenti, che assegna alla qualifica di emittente quotato nei mercati regolamentati rilievo particolare (pur tenendo conto della tendenza, sia del TUF, sia della Riforma societaria del 2003, ad estendere taluni istituti anche alle società che, seppur non quotate, fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Nel quadro così tratteggiato, e riguardando la questione dal lato della disciplina delle attività di intermediazione, la disciplina introdotta dalla MiFID ha profondamente modificato la funzione della regola di best execution: non più una previsione posta a tutela e nell’interesse dei mercati, quanto una disciplina a tutela dell’investitore. Il progetto, tuttavia, era ancora incompleto. L’approccio della MiFID non è risultato del tutto vincente, e la frammentazione dei mercati è rimasta elevata. La MiFID II (Direttiva 2014/65/UE) – in vigore dal 3 gennaio 2018 – tenta di colmare alcune delle lacune della disciplina precedente, introducendo una nuova tipologia di trading venue (i cc.dd. “sistemi organizzati di negoziazione”), in linea di continuità con l’impianto complessivo emergente dalla Direttiva del 2004.

5.4. Conclusioni I Testi Unici – si sa – corrono a volte il rischio di perdere la loro centralità, a causa del successivo affastellarsi di normative “speciali”: discipline che vengono a collocarsi formalmente all’esterno del Testo Unico, ma che sono a quest’ultimo strettamente collegate. Il TUF, sino a tempi molto recenti, è rimasto piuttosto immune da questa tendenza: gli interventi che si sono succeduti nei primi 15 anni dalla sua emanazione sono stati pressoché tutti interamente recepiti nel corpo del testo di legge, che ha così potuto mantenere la sua sostanziale unitarietà e centralità per il sistema. Negli ultimi tempi, però, le incursioni del legislatore comunitario pongono però a rischio questo assetto. La disciplina comunitaria delle agenzie di rating e il c.d. Regolamento EMIR toccano, ad esempio, materie di diretta attinenza con il TUF, ma il ricorso allo strumento del Regolamento le colloca, inevitabilmente, al di fuori dell’articolato del Testo Unico medesimo. La nuova disciplina degli abusi di mercato, ora affidata ad un Regolamento (Regolamento 596/2014/UE, in vigore dal 2016), ha com-

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portato, di fatto, l’espunzione dal corpo del TUF di uno dei capisaldi della disciplina dei mercati. Una corposa parte della disciplina sui servizi di investimento e sui mercati è confluita, nel contesto della MiFID II, in Regolamenti comunitari. Le Autorità europee hanno avviato un ambizioso processo – denominato “Capital Markets Union” 36 che, in pressoché tutti i settori della disciplina, prevede ulteriori misure di armonizzazione, e di stimolo all’integrazione e alla crescita dei mercati UE. Sebbene, in tale contesto, non si ipotizzi – almeno per il momento – la costituzione di un’unica Autorità europea di vigilanza sui mercati (sul modello di quanto realizzato nel comparto bancario), è evidente che il progetto CMU segnerà ulteriori sviluppo nel processo di integrazione comunitario, nel quale le legislazioni nazionali arretreranno ulteriormente. Alla domanda se il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria stia forse subendo un processo di disintermediazione, una risposta affermativa sembra ora imporsi, anche se – probabilmente – ciò non rappresenta altro che lo specchio del crescente rilievo della disciplina di rango comunitario, destinata ad occupare spazi sempre più rilevanti, e della frammentazione del sistema. In questo quadro il compito dello studioso, dell’interprete, e di chi – a vario titolo – deve applicare e usare le regole sta diventando improbo. Le fonti normative si sono frammentate, e moltiplicate a dismisura. Interi ambiti normativi sono letteralmente invasi da norme tecniche di dettaglio, soggette a continui cambiamenti. Le fonti normative – di cui è spesso incerta anche solo la mappatura – sono completate da fonti di dubbia qualificazione, soltanto apparentemente strumenti di soft law (Linee guida, comunicazioni, Q&A, pareri, raccomandazioni) che riescono, di fatto, a imporre obblighi e precetti, sfuggendo però alle garanzie proprie del procedimento propriamente legislativo e/o regolamentare. La qualità dei testi normativi, spesso anche di quelli comunitari, è a volte scadente, e lo è ancor di più la qualità delle loro traduzioni nelle lingue degli Stati membri. Siamo in presenza di una complessa fase di de-strutturazione delle regole, nella quale, spesso, il confine tra tecnica e diritto non esiste più. Questo testo, giunto ormai alle IX edizione, tenta, per quanto possibile, di fotografare l’esistente, non senza inevitabili lacune, errori, omissioni.

36 Per una prima disamina SICLARI (2016). Ulteriori informazioni, anche sullo stato di avanzamento del progetto, sono rinvenibili sul sito della Commissione europea.

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CAPITOLO II LE AUTORITÀ DI VIGILANZA EUROPEE E NAZIONALI SOMMARIO: 1. Le Autorità europee. L’ESMA. – 2. Le Autorità di vigilanza nazionali. – 3. I principi generali in materia di vigilanza e il rapporto con il diritto europeo. – 4. L’esercizio del potere regolamentare. – 5. La cooperazione tra Autorità e il segreto d’ufficio. – 5.1. (Segue): il segreto d’ufficio. – 5.2. (Segue): l’obbligo di segnalazione dei fatti aventi possibile rilevanza penale.

1. Le Autorità europee. L’ESMA Le riforme introdotte in Europa dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 hanno innescato grandi trasformazioni: quelle di maggior rilievo hanno, ovviamente, interessato la disciplina delle banche, e, in particolare, l’introduzione del cosiddetto “Meccanismo di vigilanza unico” sulle banche comunitarie, affidato alla Banca centrale europea. Anche la disciplina del mercato mobiliare è stata interessata da analoghe trasformazioni, pur senza che si sia realizzato – quantomeno sino ad oggi – il “trasferimento” dell’attività di vigilanza in senso stretto ad un’unica Autorità europea analoga alla BCE 1. Le riforme attuate in quest’ultimo ambito sono, tuttavia, collegate a quelle realizzate nell’ambito della vigilanza bancaria: in entrambi i casi, lo spunto deriva, infatti, dal Rapporto de Larosière del 2009. Il nuovo Sistema europeo di vigilanza finanziaria è composto da varie istituzioni europee, e si articola su due livelli. Ad un livello, per così dire, superiore, si colloca il Comitato Europeo per il Rischio Sistemico (CERS) o, in inglese, European Systemic Risk Board (ESRB). L’ESRB vigila sui potenziali rischi alla stabilità finanziaria nell’area europea derivanti da sviluppi macroeco1

Si registrano, tuttavia, talune eccezioni di cui si darà conto nel prosieguo del Capitolo, riguardanti il potere di vigilanza dell’ESMA sulle agenzie di rating, sulle operazioni di short selling, sulle controparti centrali nonché la competenza in merito all’elaborazione di norme tecniche di attuazione e la c.d. soft law.

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nomici e da accadimenti che interessano il sistema finanziario nel complesso (cosiddetta vigilanza macro-prudenziale). All’ESRB partecipano – insieme alle altre istituzioni che lo compongono, tra cui la BCE e la Commissione – le tre Autorità europee, e segnatamente: l’European Securities and Markets Authority (ESMA) o, nella versione italiana, “AESFEM” (competente per tutte le attività che rientrano nella disciplina del mercato mobiliare), con sede a Parigi, l’European Banking Authority (con competenza sulle banche e attività bancarie), con sede a Londra (anche se, con Brexit, dovrà presto traslocare), e l’European Insurance and Occupational Pensions Authority (EIOPA) (con competenza su assicurazioni e fondi pensione), con sede a Francoforte. A loro volta, le tre Autorità sono investite di compiti di vigilanza microprudenziale, e collaborano con l’ESRB nello svolgimento delle finalità di quest’ultimo. Esse operano in stretto contatto con le Autorità di vigilanza nazionali degli Stati membri. Il sistema europeo è dunque articolato anche su di un livello sovranazionale, e nazionale, operanti in stretta connessione tra di loro. Indubbiamente, con le riforme attuate sulla scorta del Rapporto de Larosière, il ruolo dei vecchi Comitati, ora trasformati in vere e proprie Autorità, risulta molto rafforzato. Ciò risulta evidente là dove si pongano in luce alcuni elementi qualificanti del Regolamento che disciplina l’ESMA, e che ne individua compiti, funzioni e poteri. In particolare, l’ESMA svolge i seguenti compiti principali: – contribuisce all’elaborazione di norme e prassi comuni di regolamentazione e vigilanza; in tale ambito, fornisce pareri alle istituzioni UE, elaborando orientamenti, raccomandazioni e progetti di norme tecniche di regolamentazione, basati sugli atti legislativi dell’Unione; – contribuisce all’applicazione uniforme degli atti dell’Unione, assicurandone l’applicazione “uniforme, efficiente ed efficace”. Particolare rilevanza assume, in tale contesto, l’azione volta a impedire “l’arbitraggio regolamentare, mediando e risolvendo controversie tra Autorità competenti”; – coopera strettamente con il CESR; – organizza ed effettua verifiche inter pares delle Autorità competenti, anche formulando orientamenti e raccomandazioni e individuando le migliori prassi, al fine di rafforzare l’uniformità della vigilanza; – promuove la tutela degli investitori; – contribuisce al funzionamento uniforme e coerente dei collegi delle Autorità di vigilanza, alla sorveglianza, valutazione e misurazione del rischio sistemico, con un’attenzione specifica alla risoluzione delle crisi dei partecipanti al mercato. Al fine di quanto sopra, all’ESMA spettano molteplici poteri, che si declinano, innanzitutto, nel potere di emanare progetti di norme tecniche di regolamentazione o di attuazione: per evitare il rischio che l’esercizio di questo potere si sostanzi, di fatto, nell’emanazione di atti aventi natura legislativa – il

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che non sarebbe consentito allo stato attuale dal Trattato UE – il Regolamento di istituzione dell’ESMA limita questa potestà ai soli casi espressamente previsti. Il fatto che il Regolamento ESMA si riferisca, in ogni caso, all’emanazione di “progetti” di “norme tecniche” lascia intendere come la delimitazione delle competenze “normative” dell’ESMA sia attentamente calibrata, al fine di non incidere sulla ripartizione di competenze sancita dal Trattato dell’Unione tra Consiglio UE, Commissione e Parlamento. In ogni caso, l’esercizio di questo potere presuppone e richiede specifiche deleghe dalle Autorità comunitarie. Si tratta, in realtà, di un equilibrio delicato, dai contorni necessariamente sfumati stante la portata piuttosto ampia del termine “norme tecniche”; il Regolamento ESMA si sforza, tuttavia, di fornire una delimitazione puntuale di questi elementi, al fine di evitare il rischio di un contrasto con i principi del Trattato. Così, se il Parlamento europeo e il Consiglio delegano alla Commissione il potere di adottare Standard tecnici di regolamentazione mediante atti delegati, l’ESMA può elaborare progetti di norme tecniche di regolamentazione. L’ESMA, in tale contesto, sottopone i suoi progetti di norme all’approvazione della Commissione. Altrettanto circoscritto è il potere di emanare Standard tecnici di attuazione 2: l’ESMA può elaborare questi atti nei settori specificati negli atti legislativi di riferimento, che poi la Commissione potrà emanare. Le norme tecniche di attuazione sono di carattere tecnico, non implicano decisioni strategiche o scelte politiche e lo scopo del loro contenuto è quello di determinare le condizioni di applicazione di tali atti. L’Autorità sottopone i suoi progetti di norme tecniche di attuazione all’approvazione della Commissione. Un altro terreno di elezione dei poteri dell’ESMA, oltre a quanto precede, è poi rappresentato dalla soft law, e dunque dal potere dell’Autorità di emanare orientamenti, pareri e raccomandazioni. L’Autorità è anche dotata di un potere di assumere decisioni individuali nei confronti delle Autorità degli Stati membri e – nel caso in cui il diritto UE sia direttamente applicabile – anche nei confronti dei partecipanti al mercato: l’ESMA è, sotto questo profilo, anche un’Autorità dedita all’enforcement della disciplina europea del mercato dei capitali. In linea con quanto precede, all’ESMA spettano taluni poteri di intervento in situazioni di emergenza: in caso di sviluppi negativi che possano seriamente compromettere il regolare funzionamento e l’integrità dei mercati finanziari nonché la stabilità generale o parziale del sistema finanziario nell’Unione, l’Autorità facilita attivamente e, ove ritenuto necessario, coordina le misure adottate dalle pertinenti Autorità nazionali di vigilanza competenti. Il Consiglio, in consultazione con la Commissione e con il CERS e, se del caso, con le Autorità europee, può adottare una decisione indirizzata all’ESMA con la quale determina l’esistenza di una situazione di emergenza, su richiesta dell’Autorità, della Com2 La distinzione tra Standard tecnici di regolamentazione e Standard tecnici di attuazione è spesso sottile: CAPPIELLO (2015).

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missione o del CERS. Il Consiglio riesamina tale decisione a intervalli opportuni e almeno una volta al mese. Se non è rinnovata entro il termine di un mese, la decisione decade automaticamente. Il Consiglio può dichiarare la cessazione della situazione di emergenza in qualsiasi momento. Qualora ritengano che sussista la probabilità che si verifichi una situazione di emergenza, il CERS o l’ESMA formulano una raccomandazione riservata destinata al Consiglio e gli forniscono una valutazione della situazione. Il Consiglio valuta quindi la necessità di convocare una riunione. Se determina l’esistenza di una situazione di emergenza, il Consiglio informa debitamente e senza indugio il Parlamento europeo e la Commissione. Se il Consiglio adotta una decisione ai sensi di quanto precede, l’ESMA può a sua volta adottare decisioni individuali per chiedere alle autorità competenti di prendere le misure necessarie per affrontare tali sviluppi, assicurando che i partecipanti ai mercati finanziari e le autorità competenti rispettino gli obblighi fissati in tale normativa. Fatti salvi i poteri della Commissione ai sensi del Trattato dell’UE, se un’Autorità competente non si conforma alla decisione dell’ESMA entro il termine fissato nella decisione, l’ESMA può, nei casi previsti, adottare una decisione nei confronti di un singolo partecipante ai mercati finanziari imponendogli di prendere le misure necessarie per rispettare gli obblighi imposti da tale normativa, tra cui la cessazione di ogni eventuale pratica. Tale ipotesi si applica soltanto nelle situazioni in cui un’Autorità competente non applica gli atti legislativi dell’Unione, ivi incluse gli standard tecnici di regolamentazione e di attuazione adottate conformemente ai suddetti atti, o li applica in un modo che sembra una manifesta violazione di tali atti, e se un rimedio urgente è necessario per ripristinare il regolare funzionamento e l’integrità dei mercati finanziari o la stabilità generale o parziale del sistema finanziario nell’Unione. Da ultimo, all’ESMA possono essere affidati compiti specifici di vigilanza su singoli comparti o attività del sistema finanziario: di particolare rilievo sono, in proposito, i poteri attribuiti all’ESMA con riguardo alla vigilanza sulle agenzie di rating, alla disciplina dello short selling, e alla regolamentazione EMIR. Quanto sopra rende evidente la complessità dell’architettura del sistema dei Comitati e delle Autorità UE, rappresentativo di una fase del diritto europeo in cui si va alla ricerca di un punto di equilibrio tra, da un lato, le esigenze di coordinamento degli Stati membri, applicazione uniforme e armonizzazione del diritto europeo e, dall’altro, i limiti imposti dal Trattato. Più radicale e, per certi versi, lineare, è stata fino ad ora l’evoluzione della disciplina europea del comparto bancario, con l’introduzione di un vero e proprio Meccanismo di vigilanza unico, affidato alla Banca Centrale Europea, anche se – pure in quest’ultimo ambito – convivono, in un quadro complesso, competenze delle Autorità di vigilanza nazionali e competenze della Banca Centrale. In ogni caso, la questione dei fondamenti “costituzionali” dei poteri delle

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Autorità di vigilanza europee non mancherà di essere, in futuro, uno dei temi più caldi del diritto del mercato dei capitali UE. Non a caso, la Corte di Giustizia europea è già stata investita, proprio con riguardo all’ESMA, di una questione in tal senso. La vicenda ha interessato l’applicazione del Regolamento UE n. 236/2012 in materia di short selling (come da ultimo modificato dal Regolamento UE n. 909/2014) e, in particolare, l’applicazione dell’art. 28, che attribuisce all’ESMA la facoltà di adottare misure limitative all’effettuazione di determinate tipologie di operazioni allo scoperto o all’assunzione di posizioni short, in circostanze eccezionali di stress dei mercati. Di questa disposizione si era lamentato il Regno Unito, che aveva presentato un ricorso alla Corte, al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del predetto art. 28. Con sentenza del 22 gennaio 2014 (C 270-12) la Corte ha tuttavia rigettato il ricorso, ritenendo che l’art. 28 abbia sufficienti basi nel Trattato dell’Unione e, in particolare, nell’art. 114. La decisione è della massima rilevanza in quanto rileva, più in generale, sul piano della conformità al Trattato dell’intera, e complessa, costruzione del sistema di vigilanza europeo scaturito dai profondi sommovimenti legislativi conseguenti alla crisi del 2008.

2. Le Autorità di vigilanza nazionali A livello nazionale, l’intervento pubblico sul mercato mobiliare poggia sull’azione di Autorità di vigilanza e di controllo, la cui struttura ed il cui ruolo risultano da un complesso di fonti normative, che non si esauriscono nel D.Lgs. n. 58/1998. La ratio della loro esistenza e la definizione dei loro compiti si inquadrano, da un lato, nei precetti costituzionali e, dall’altro – ovviamente – nelle Direttive europee. Alcune Autorità di vigilanza esercitano i poteri loro attribuiti nell’ambito della disciplina del mercato mobiliare in concomitanza con ulteriori compiti, spettanti in base alle rispettive leggi istitutive; in linea generale, esse sono dotate di poteri sia di controllo, sia di regolamentazione, sia di sanzione 3. Ai fini che qui interessano è necessario, e, per il momento, sufficiente, limitarsi a fornire una breve descrizione delle Autorità più importanti, accennando sinteticamente alle funzioni che esse svolgono nell’ambito della regolazione del mercato mobiliare; un’analisi più puntuale risulterà, poi, dall’esame delle singole materie o discipline (servizi di investimento, gestione collettiva del risparmio, disciplina dei mercati, ecc.). Nelle prossime pagine forniremo, pertanto, solo alcune sintetiche informazioni relativamente alle Autorità che attualmente assumono rilievo per la disci3

Cfr., sul quadro d’insieme, le considerazioni di BELLI (1999).

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plina del mercato mobiliare: esse sono il Ministro dell’economia e delle finanze, la Banca d’Italia, la Consob, e la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (c.d. “COVIP”). Un breve cenno merita, infine, l’IVASS (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni). a) Ministro dell’economia e delle finanze Nel Testo Unico Bancario, il Ministro dell’economia e delle finanze è espressamente individuato quale Autorità di vigilanza (art. 3 TUB). Nel TUF difetta una norma analoga, ma è indubbio che il Ministro svolga il ruolo di Autorità di vigilanza anche sul comparto mobiliare: anzi, a seguito dell’emanazione del TUF, le competenze esercitate dal Ministro dell’economia e delle finanze sul mercato mobiliare risultano ampliate e rafforzate. Anteriormente all’approvazione del Testo Unico del 1998, e con riferimento alle materie ora regolate da quest’ultimo, il Ministro svolgeva compiti più circoscritti. Infatti, con l’istituzione della Commissione nazionale per le società e la borsa – avvenuta nel 1974 – molte delle attribuzioni già spettanti al Ministro erano state trasferite alla stessa Consob; al Ministro spettavano tuttavia poteri di alta vigilanza in caso di rilevanti perturbazioni sul mercato dei capitali 4, e specifici compiti previsti di volta in volta da singole previsioni normative 5. Il Testo Unico attua un complessivo riordino delle competenze spettanti al Ministro: al di là delle singole previsioni normative, ne risulta un ampliamento degli spazi di intervento di tale Autorità, con riferimento tanto alla disciplina degli intermediari, quanto a quella degli emittenti. Ciò si riflette, soprattutto, in un netto recupero di competenze di natura regolamentare, che vengono attribuite al Ministro dell’economia e delle finanze nel quadro dell’ampio processo di delegificazione introdotto dal TUF. Emblematica risulta, in proposito, la materia della gestione collettiva del risparmio, che forse costituisce l’esempio più significativo di tale fenomeno (anche se non l’unico). Nel sistema previgente al Testo Unico, la disciplina risultava, preminentemente, da fonti primarie, distinte in funzione della natura e/o della tipologia dell’organismo: fondi comuni aperti (legge n. 77/1983), fondi comuni chiusi (legge n. 344/1993), fondi chiusi immobiliari (legge n. 86/1994), SICAV (D.Lgs. n. 84/1992). Nel TUF l’intera materia è invece condensata in pochi articoli di legge (artt. 33-50-quinquies), ma al Ministro dell’economia e delle finanze sono affidati ampi poteri regolamentari, tra i quali quello di individuare la stessa struttura e le caratteristiche dei fondi comuni di investimento. 4

Cfr. l’abrogato D.P.R. 31 marzo 1975, n. 138, e segnatamente l’art. 7, comma 2, che manteneva ferma la competenza del Ministro del tesoro (ora Ministro dell’economia e delle finanze) per i provvedimenti da adottarsi nei riguardi del mercato mobiliare “per finalità di politica economica”. 5 Il Ministro del tesoro, ad esempio, interveniva in fase di rilascio delle autorizzazioni alle società di gestione di fondi comuni, di riconoscimento in Italia di OICVM di diritto estero, di emissioni di valori mobiliari superiori all’importo di Lire 10 miliardi, e in varie altre occasioni.

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Altrettanto rilevanti sono i poteri spettanti al Ministro in altre materie regolate dal TUF. Nel settore dei servizi di investimento, ad esempio, il Ministro può: (i) individuare, al fine di tener conto dell’evoluzione dei mercati finanziari e delle norme di adattamento stabilite dalle autorità comunitarie, nuove categorie di strumenti finanziari, nuovi servizi e attività di investimento e nuovi servizi accessori, indicando quali soggetti sottoposti a forme di vigilanza prudenziale possono esercitare i nuovi servizi e attività; (ii) adottare le norme di attuazione e di integrazione delle riserve di attività previste dall’art. 18 TUF, nel rispetto delle disposizioni comunitarie (art. 18, comma 5) 6. Anche nell’ambito della disciplina degli emittenti il Ministro si vede riconoscere significative aree di intervento: spetta, infatti, al Ministro, di concerto con il Ministro della giustizia, l’individuazione dei requisiti di onorabilità e professionalità dei componenti gli organi di controllo degli emittenti quotati (art. 148, comma 4, TUF); il Ministro dell’economia e delle finanze agisce poi di concerto con il Ministro della giustizia per l’individuazione dei principi contabili internazionali validi per la redazione del bilancio consolidato, in deroga alle vigenti disposizioni in materia (art. 117 TUF). A livello istituzionale, il Ministro dell’economia e delle finanze rappresenta il referente politico della Commissione nazionale per le società e la borsa. Ormai da molto tempo, però, la Consob non si presenta più come un organismo dipendente o subordinato al Ministro, come invece appariva all’indomani della sua istituzione, nel 1974: la legge n. 281/1985 le ha, infatti, riconosciuto la personalità giuridica e ne ha organizzato l’istituzione e il funzionamento secondo i criteri propri di un’Autorità amministrativa indipendente. La medesima legge ha altresì rafforzato l’autonomia della Commissione dal Ministro, abolendo la previsione in base alla quale l’emanazione dei Regolamenti della Consob doveva sottostare al visto preventivo del Ministro: la regola è ora prevista soltanto per i cc.dd. Regolamenti interni della Consob, ossia quelli con i quali la Commissione delinea la propria organizzazione interna. Deve dunque dirsi che la Consob esercita autonomamente le proprie funzioni, nel quadro di poteri ad essa direttamente spettanti in base alla legge. Ciò non significa, però, che sia venuto meno qualsiasi legame tra il Ministro e la Commissione. In base all’art. 1, comma 12, della legge n. 216/1974, il presidente della Commissione deve infatti informare il Ministro sugli atti e sugli eventi di maggior rilievo e gli trasmette le notizie e i dati di volta in volta richiesti; in ogni caso gli comunica gli atti di natura 6

Il Ministro si era avvalso della facoltà in parola con il D.M. 2 marzo 2007, n. 44, con il quale erano stati espressamente ricompresi nell’ambito degli strumenti finanziari i c.d. “derivati di credito”. Peraltro, tale ricomprensione deriva oggi direttamente dalla nuova definizione di strumento finanziario introdotta nel TUF.

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regolamentare diversi da quelli relativi all’organizzazione interna della Commissione, e il Ministro può formulare le proprie valutazioni alla Commissione, informando il Parlamento. Il Ministro informa altresì il Parlamento degli atti e degli eventi di maggior rilievo dei quali abbia avuto notizia o comunicazione quando li ritenga rilevanti al fine del corretto funzionamento del mercato dei valori mobiliari. Inoltre, la Consob deve presentare al Ministro stesso, con cadenza annuale, una relazione sull’attività svolta nell’anno di riferimento, in uno con le linee programmatiche dell’attività della Commissione per l’anno successivo. La relazione viene poi inviata alle Camere, con le eventuali osservazioni del Ministro (art. 1/1, comma 13, legge n. 216/1974): vi è chi, correttamente, ha visto in tale meccanismo un momento di possibile valutazione politica dell’operato della Commissione 7. b) La Banca d’Italia La Banca d’Italia è dotata, nell’ambito della disciplina del mercato finanziario, di ampi e penetranti poteri che si aggiungono a quelli – già estesissimi – dalla stessa esercitati nell’ambito della disciplina bancaria 8. Come avremo modo di illustrare, alla Banca d’Italia spettano, nell’ambito del TUF, poteri sia di controllo, sia di regolamentazione dell’attività degli intermediari e dei mercati, sia di sanzione; talvolta, tali poteri spettano in via esclusiva alla Banca d’Italia; in altri casi, essi devono esercitarsi in concomitanza con quelli spettanti alla Commissione nazionale per le società e la borsa, o ad altre Autorità. Analogamente a quanto si verifica nell’ambito della disciplina bancaria, anche con riferimento al mercato mobiliare la Banca d’Italia è dotata di funzioni proprie, ad essa affidate dalla legge nel quadro della ripartizione dei compiti tra le diverse Autorità di vigilanza, e – in particolare – tra la stessa Banca d’Italia e la Consob. Il criterio generale in base al quale risultano ripartite le competenze tra queste due Autorità è di tipo funzionale, e ciò nel senso che alla Consob e alla Banca d’Italia, sono attribuiti compiti che non dipendono dalla tipologia dei soggetti sottoposti a vigilanza, ma che derivano, piuttosto, dalla natura dei controlli e dei compiti svolti. Alla Consob spettano, dunque, poteri che attengono al controllo sulla trasparenza e sulla correttezza dei comportamenti dei soggetti sottoposti a vigilanza; alla Banca d’Italia, invece, spettano compiti che attengono al controllo dei rischi, ai mezzi propri di cui gli intermediari devono dotarsi, ed all’organizzazione interna (vigilanza di tipo prudenziale). A differenza della Consob, alla Banca d’Italia il TUF non attribuisce poteri in materia di emittenti quotati. Pertanto, mentre la Consob estende le proprie competenze sull’intera materia regolata dal TUF, la Banca d’Italia esaurisce i 7 8

MINERVINI (1989). V. COSTI (2007).

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propri poteri nell’ambito della disciplina degli intermediari e dei mercati. Fa, ovviamente, eccezione il caso in cui l’emittente in questione sia rappresentato da una banca: si tratta, tuttavia, di un’eccezione soltanto apparente, in quanto, in tal caso, i poteri della Banca d’Italia sull’emittente quotato derivano non già dal TUF, ma dal Testo Unico Bancario; sono, cioè, frutto della disciplina della vigilanza bancaria, e non della disciplina della vigilanza sugli emittenti quotati. Nel comparto del mercato mobiliare, spettano altresì alla Banca d’Italia compiti attinenti anche agli intermediari finanziari, di cui agli artt. 106 ss. del TUB. Inoltre, la Banca d’Italia è individuata, insieme alla Consob, secondo le distinzioni di volta in volta operate dal Testo Unico, quale Autorità competente in vari settori specializzati della disciplina europea: si vedano, a riguardo, le varie disposizioni del TUF in argomento (art. 4-bis, con riguardo alle agenzie di rating; art. 4-ter, per la disciplina delle vendite allo scoperto di cui al Regolamento n. 236/2012/UE; art. 4-quater, per la disciplina MiFID; art. 4-quinquies, per taluni profili degli OICR). c) La Consob Istituita nel 1974, la Consob ha visto nel tempo un graduale, ma non per questo meno significativo, ampliamento dei propri poteri, sino alle più recenti riforme. L’organizzazione e l’assetto della Commissione sono a tutt’oggi disciplinati dalla legge istitutiva (D.L. 8 aprile 1974, n. 95, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 216 e successive modifiche): il legislatore del Testo Unico non ha, infatti, ritenuto di dover intervenire sui profili istituzionali relativi alla Commissione 9. La Consob è un organo collegiale: la nomina dei membri della Commissione avviene con decreto del Presidente della Repubblica, emanato su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio stesso (art. 1/1, legge n. 216/1974). I poteri della Consob travalicano ormai ampiamente la disciplina degli intermediari ed interessano tanto i mercati, quanto gli emittenti; con specifico riferimento agli intermediari ed ai mercati, la Commissione esercita i propri poteri in concomitanza con la Banca d’Italia, con la quale ripartisce il proprio ruolo sulla base dei già richiamati criteri di natura funzionale. Alla Consob spettano, inoltre, in esclusiva compiti di controllo in materia di appello al pubblico risparmio, con riferimento tanto alle offerte di sottoscrizione e vendita, quanto alle offerte pubbliche di acquisto (OPA). Si osservi che – a differenza delle altre Autorità – la Consob trae parte delle risorse finanziarie necessarie per assicurarne il funzionamento da contributi 9 In merito ai profili istituzionali v. CERA (1986); GIANNINI (1987); CARDI-VALENTINO (1993); VESPERINI (1993); CASSESE (1994).

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versati direttamente dai soggetti sottoposti all’attività di vigilanza, secondo un modello ampiamente diffuso all’estero 10. d) La Commissione di vigilanza sui fondi pensione La COVIP è stata istituita dal D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, recante disciplina delle forme pensionistiche complementari (ora abrogato dalla nuova disciplina della previdenza complementare contenuta nel D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252). I compiti della Commissione di vigilanza (COVIP) sono riferiti all’intero settore della previdenza complementare (art. 19, D.Lgs. n. 252/2005): essa persegue, con riferimento a tale settore, compiti analoghi a quelli che, nell’ambito del TUF, sono attribuiti alla Banca d’Italia e alla Consob, ossia “la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione delle forme pensionistiche complementari, avendo riguardo alla tutela degli iscritti e dei beneficiari e al buon funzionamento del sistema di previdenza complementare” (art. 18). La COVIP, tuttavia, – a differenza di altre Autorità – risulta dotata di minor autonomia e indipendenza. L’art. 18 del D.Lgs. n. 252/2005 attribuisce infatti al Ministero del lavoro e delle politiche sociali l’attività di “alta vigilanza” sul settore della previdenza complementare, mediante l’adozione, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, di Direttive generali indirizzate alla COVIP. La Commissione è un organo collegiale, composto da un presidente e da quattro membri. La nomina avviene con deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. I compiti della Commissione sono essenzialmente individuati dall’art. 19 del D.Lgs. n. 252/20005; su di essi avremo modo di soffermarci più in dettaglio. e) L’IVASS (ex ISVAP) Al fine di assicurare la piena integrazione dell’attività di vigilanza nel settore assicurativo, anche attraverso un più stretto collegamento con la vigilanza bancaria, a partire dal 1° gennaio 2013 è operativo il nuovo IVASS (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni), istituito ai sensi del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (c.d. Spending review). L’IVASS è presieduto dal Direttore Generale della Banca d’Italia, è composto da un Presidente, da un Consiglio, che si compone del Presidente e di due Consiglieri, e da un Direttorio integrato, costituito dal Governatore della Banca d’Italia, che lo presiede, e dagli altri membri del Direttorio della Banca e dai due Consiglieri. L’Istituto, avente personalità giuridica di diritto pubblico, opera sulla base di principi di autonomia organizzativa, finanziaria e con10 Sul c.d. sistema di “autofinanziamento” della Consob si veda l’analisi di VALENSISE (1996). In senso conforme v. TORIELLO (1998).

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tabile, oltre che di trasparenza ed economicità, per garantire la stabilità e il buon funzionamento del sistema assicurativo e la tutela dei consumatori. L’IVASS sostituisce l’ISVAP in tutti i poteri, svolgendo le medesime funzioni e competenze già svolte da quest’ultimo ai sensi della legge 12 agosto 1982, n. 576, per l’esercizio di funzioni di vigilanza nei confronti delle imprese di assicurazione e riassicurazione nonché di tutti gli altri soggetti sottoposti alla disciplina sulle assicurazioni private, compresi gli agenti e i mediatori assicurativi. Le funzioni dell’IVASS sono svolte con riferimento al comparto assicurativo: la sua attività interagisce, però, con la disciplina del mercato mobiliare per quanto riguarda il comparto dei prodotti “misti” assicurativo-finanziari. Se l’attività di distribuzione ed offerta di questi ultimi è da tempo “attratta” nella disciplina del TUF, l’IVASS mantiene le proprie competenze per quanto attiene a tutti gli altri profili che possono interessare tali prodotti e i soggetti che li emettono.

3. I principi generali in materia di vigilanza e il rapporto con il diritto europeo I tempi e i modi dell’agire delle varie Autorità di vigilanza derivano, innanzitutto, dalle rispettive leggi istitutive e regolatrici. Il TUF formula, tuttavia, ulteriori previsioni, che orientano l’attività delle Autorità di vigilanza in senso direttamente funzionale al perseguimento degli scopi della disciplina del Testo Unico: l’obiettivo è di fissare principi generali idonei a delimitare l’operato delle Autorità, e di rafforzare l’efficacia del loro intervento, agevolando la cooperazione e lo scambio di informazioni tra di esse. Disposizioni analoghe a quelle di cui si discute si rinvengono, peraltro, già nel Testo Unico Bancario, di guisa che è possibile rinvenire una sostanziale continuità di ispirazione e di impostazione tra i due provvedimenti. In tale prospettiva, una delle disposizioni maggiormente significative che si rinvengono nell’ambito del TUF riguarda i rapporti con il diritto comunitario. Nelle pagine che precedono, abbiamo già avuto modo di sottolineare il profondo legame che sussiste tra il Testo Unico e il diritto europeo. L’art. 2 TUF ribadisce e, al contempo, rafforza tale legame, stabilendo che “il Ministero dell’economia e delle finanze, la Banca d’Italia e la Consob esercitano i poteri loro attribuiti in armonia con le disposizioni comunitarie, applicano i Regolamenti e le Decisioni dell’Unione Europea e provvedono in merito alle raccomandazioni concernenti le materie disciplinate dal presente decreto”. Si tratta di una previsione che figura, in termini sostanzialmente analoghi, anche nel Testo Unico Bancario (art. 6), e che appare volta a delimitare il modo con cui le Autorità di vigilanza e di vigilanza operano, con specifico riferimento al rispetto del diritto comunitario.

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La previsione attiene, innanzitutto, ai rapporti formali tra diritto comunitario ed ordinamento interno. In questa prima, e più limitata prospettiva, la norma ribadisce ciò che già si ricava dai più generali principi della materia, e cioè che l’esercizio da parte delle Autorità di vigilanza dei poteri che attengono all’applicazione del diritto europeo deve avvenire in armonia con le disposizioni comunitarie. Si affida, poi, alle medesime Autorità il compito di provvedere in merito all’applicazione dei Regolamenti e delle Decisioni dell’Unione Europea, nonché in merito alle raccomandazioni concernenti le materie regolate dal Testo Unico. Sotto questo profilo, pertanto, si tratta di una disposizione che attiene all’applicazione del diritto comunitario e delle relative fonti, nell’ordinamento interno, da inquadrarsi nel più classico e tipico ambito dei rapporti (formali e sostanziali) tra il diritto interno ed il diritto europeo. Si osservi, peraltro, che – in questa prima e più limitata accezione – la norma non fa menzione, tra le fonti del diritto europeo, delle Direttive; essa è dunque limitata alle sole fonti comunitarie alle quali l’art. 288 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea espressamente riconosce “efficacia diretta” nell’ordinamento interno degli Stati membri. L’omissione del riferimento alle Direttive sembra però dovuta non tanto alla diversa natura delle stesse, rispetto agli altri atti comunitari, quanto piuttosto al fatto che non è detto che il compito di dare attuazione alle Direttive europee spetti o debba spettare alle Autorità di vigilanza; il legislatore del TUF ha dunque inteso lasciar ferma la disciplina generale, piuttosto che intervenire direttamente sul punto. Se, nell’accezione di cui sopra, l’art. 2 TUF attiene ai rapporti formali tra diritto interno e diritto comunitario, sembra tuttavia possibile attribuire alla norma una portata più ampia. L’art. 2 TUF pare, infatti, idoneo a travalicare le sole norme che costituiscono formale e diretto recepimento della disciplina europea, per estendersi anche a previsioni che non derivano direttamente dal diritto comunitario, o che comunque non sono a questo direttamente riconducibili. Valgano a tal proposito le considerazioni che seguono. Si è già visto che l’art. 2 prevede che “l’esercizio dei poteri delle Autorità di vigilanza deve avvenire in armonia con le disposizioni comunitarie”. Tale formulazione apre la via a due diverse possibili ricostruzioni. La prima consiste nel ritenere che la conformità dell’agire delle Autorità al diritto comunitario sia relativa alle sole materie in cui tale diritto ha espressamente statuito; quindi, ad esempio, alle materie interessate dalle Direttive, o dai Regolamenti, o dallo stesso Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Qualora, invece, in una determinata materia, non constino precise disposizioni comunitarie, il principio di cui all’art. 2 non potrebbe più applicarsi. Tale interpretazione è formalmente corretta, ma sembra privare l’art. 2 di un’effettiva utilità; si tratterebbe, infatti, di conclusioni alle quali già si giungerebbe pacificamente applicando correttamente i principi del diritto comunitario, senza alcuna necessità di formulare specifiche norme, per giunta da collocare al “vertice” dell’intero impianto normativo del Testo Unico.

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Inoltre, se si affronta la questione dei rapporti formali tra diritto comunitario e diritto degli Stati membri, è noto come – per costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, che non necessiterebbe di essere ribadita nel Testo Unico – spetti alle Autorità nazionali assicurare il rispetto del diritto comunitario, in tutte le fasi od occasioni del loro intervento. Orbene, appare evidente che, in tale prospettiva, l’art. 2 non aggiungerebbe nulla a quello che già si ricava dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dalla corretta applicazione dei principi comunitari. La portata dell’art. 2 apparirebbe, invece, più significativa per quanto attiene al riferimento all’applicazione dei Regolamenti, Decisioni e Raccomandazioni comunitarie: la norma, infatti, assolverebbe (quantomeno) alla funzione di chiarire a quali organi interni spetta provvedere in merito 11. Una seconda possibile chiave di lettura del disposto dell’art. 2 TUF consiste, di contro, nel ritenere che l’obbligo di agire “in armonia” con le “disposizioni comunitarie” sottenda un riferimento non soltanto ai singoli provvedimenti comunitari rilevanti per il mercato mobiliare, ma anche al rispetto, più in generale, dei “principi” comunitari, ossia di quei principi generali che ormai da tempo – sia in giurisprudenza, sia in dottrina – sono enucleati come elementi cardine e sovraordinati del diritto comunitario stesso, tra cui assumono particolare rilevanza i principi di non discriminazione, parità di trattamento, libera concorrenza, ecc. 12. È evidente che siffatta lettura del disposto dell’art. 2 TUF può schiudere la prospettiva ad una portata della norma che travalica il solo problema del formale “recepimento” del diritto europeo nel diritto interno, per estendersi più in generale a tutti gli atti e le attività che le Autorità di vigilanza possono o debbono svolgere in virtù di quanto previsto dal TUF; attività che dovranno esercitarsi tenendo presenti, dunque, le norme contenute nel Trattato CE e i principi liberistici che le ispirano. I principi generali del diritto comunitario ricevono così vocazione ad applicarsi in via generale, con riferimento ad un’intera materia – quella regolata, per l’appunto, dal TUF – confermando e, al contempo, amplificando il “respiro” europeo che, come ricordavamo innanzi, caratterizza l’intero provvedimento. Si osservi che, sotto questo profilo, il Testo Unico non rappresenterebbe un’eccezione nel panorama legislativo italiano: ad esempio, in materia di concorrenza, l’art. 1, comma 4, legge n. 287/1990 stabilisce che “l’interpretazione delle norme contenute nel presente Titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento europeo in materia di disciplina della concorrenza”, e non è forse inutile ricordare come la legge antitrust non sia un provvedimento di recepimento o di attuazione di normativa comunitaria, sebbene, in quell’ambito, la disciplina europea sia stata assunta a modello di quella interna. Ed è proprio il raffronto 11

Secondo alcuni Autori, la norma avrebbe anche l’effetto di riconoscere rilevanza giuridica alle raccomandazioni comunitarie: v. TORIELLO (1998). 12 V. PICOZZA (1998).

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con la legge antitrust che consente di cogliere appieno la portata dell’art. 2 TUF. Il richiamo del diritto comunitario che viene a realizzarsi in siffatte disposizioni non può cioè essere limitato alla mera applicazione delle disposizioni comunitarie formalmente emanate in una determinata materia; piuttosto, tale richiamo deve intendersi in senso più ampio come rinvio – per l’individuazione dei criteri che devono presiedere all’azione amministrativa – ai principi ricavabili dal diritto europeo 13.

4. L’esercizio del potere regolamentare La definizione dei tempi e dei modi dell’agire delle Autorità di vigilanza riguarda anche il profilo che attiene all’emanazione dei provvedimenti regolamentari: profilo, questo, rilevantissimo, stante l’amplissimo rinvio che il TUF opera alla normazione secondaria. Anche in questa materia, l’influenza dei principi comunitari appare evidente: è, infatti, profondo il nesso tra il richiamo dei principi comunitari – operato dall’art. 2 – e l’art. 3 TUF. Così come l’art. 2 richiama i principi comunitari ed orienta l’attività delle Autorità di vigilanza conformemente a tali principi, l’art. 3 va a connotare l’azione delle Autorità di vigilanza conformemente a criteri di trasparenza, conoscibilità e predeterminazione dei relativi contenuti (criteri, a loro volta, desumibili dai principi del diritto europeo). La norma, in particolare, stabilisce che: – i Regolamenti ministeriali previsti dal decreto devono essere adottati ai sensi dell’art. 17, comma 3, legge 23 agosto 1988, n. 400 14; – la Banca d’Italia e la Consob devono stabilire i termini e le procedure per l’adozione degli atti e dei provvedimenti di propria competenza; – i Regolamenti e i provvedimenti di carattere generale della Banca d’Italia e della Consob devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Gli altri provvedimenti rilevanti relativi ai soggetti sottoposti a vigilanza sono pubblicati dalla Banca d’Italia e dalla Consob nei propri siti internet. Previsioni dal tenore analogo a quella di cui si discute si rinvengono, nuovamente, anche nel Testo Unico Bancario (art. 4, comma 3). Già di quest’ultima norma la dottrina ha più volte sottolineato la portata innovativa, in rapporto alla disciplina più risalente, caratterizzata, di contro, da un esercizio più discrezionale e meno “trasparente” dei poteri delle Autorità creditizie. 13

Conformi FORTUNATO (1997); KRASNA (1998); FORTUNATO (2002). Sulla portata della norma, e in generale sui provvedimenti di carattere generale previsti dal TUF, v. GALANTI (1998); GENTILI (2002). 14

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Nell’ambito della disciplina dell’intermediazione finanziaria non bancaria la situazione anteriore al D.Lgs. n. 58/1998 si presentava, per la verità, diversa, prevalentemente in virtù del carattere meno risalente delle relative disposizioni, e della maggior influenza della disciplina comunitaria. Ciò non toglie, tuttavia, che, anche nella materia trattata dal Testo Unico, l’art. 3 ha costituito una norma di principio, di fondamentale rilevanza proprio nel momento in cui – con riferimento a numerosi profili – lo stesso Testo Unico ha ampliato i poteri spettanti alle Autorità amministrative, lasciando, tra l’altro, interi settori alla competenza delle norme secondarie. A finalità analoghe risponde il disposto dell’art. 3, comma 4, TUF ai sensi del quale, entro il 31 gennaio di ogni anno, tutti i Regolamenti e i provvedimenti di carattere generale ai sensi del TUF, unitamente ai regolamenti dei mercati, sono pubblicati a cura del Ministero in un unico compendio, anche in forma elettronica, ove anche uno solo di essi sia stato modificato nel corso dell’anno precedente. Tale previsione – che non trova corrispondenza nel Testo Unico Bancario – soddisfa anche un’esigenza eminentemente pratica, dovuta all’elevato tasso di innovazione normativa che caratterizza il settore dell’intermediazione finanziaria, e che può rendere difficile per gli operatori e per gli interessati in genere, l’esatta ricostruzione della disciplina vigente in un dato momento. Il dibattito sugli assetti delle Autorità di vigilanza nazionali che ha interessato, ormai più di dieci anni fa, la legge n. 262/2005 sulla tutela del risparmio, non ha riguardato soltanto i poteri alle stesse attribuiti e i relativi assetti istituzionali, ma anche i tempi e i modi del loro agire. Anche in relazione a questo profilo, la legge n. 262/2005 (artt. 19 ss.) espande ed elabora ulteriormente tendenze già emerse in occasione dell’emanazione del TUF. In particolare, è stato previsto – in capo a tutte le Autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Consob, COVIP e IVASS) – l’obbligo di rispettare particolari regole di trasparenza per l’adozione di atti regolamentari e generali, secondo i migliori standard raccomandati e seguiti in ambito anche internazionale. Oltre all’obbligo di motivazione, l’emanazione dei provvedimenti deve essere accompagnata da una relazione che ne illustri le conseguenze sulla regolamentazione, sull’attività delle imprese e degli operatori e sugli interessi degli investitori e dei risparmiatori. Il principio (già formulato, in materia di intermediari, dall’art. 5, comma 5, TUF) che obbligava le Autorità a soppesare, all’atto dell’adozione di nuovi provvedimenti, costi e oneri della regolamentazione, si espande ora nella previsione che richiede alle Autorità di “tenere conto in ogni caso del principio di proporzionalità, inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari”. A tal fine, è previsto anche l’obbligo di consultazione degli organismi rappresentativi dei soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori. Viene poi introdotto l’obbligo di sottoporre a revisione periodica, almeno ogni tre anni, il

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contenuto degli atti di regolazione, per adeguarli alle mutate esigenze del mercato (art. 23, comma 3) 15. L’attuazione di questi principi è rimessa a regolamenti, affidati alle singole Autorità, i quali potranno anche contemplare i casi di necessità e di urgenza, o le ragioni di riservatezza, che possono giustificarne la deroga. Anche sul piano dei provvedimenti individuali, la legge n. 262/2005 si è mossa in analoga direzione: in relazione ai provvedimenti adottati da tutte le Autorità di vigilanza viene ribadita l’applicazione dei principi sul procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241/1990; in relazione ai procedimenti a carattere contenzioso e a quelli sanzionatori, vengono richiamati i principi della conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie.

5. La cooperazione tra Autorità e il segreto d’ufficio La ripartizione dei compiti di regolazione, vigilanza e controllo tra più Autorità richiede l’adozione di specifiche misure volte ad assicurarne il coordinamento. L’esigenza si manifesta a livello sia interno, sia sovranazionale. L’ormai ampio grado di internazionalizzazione delle imprese e dei mercati finanziari rende, infatti, indispensabile realizzare analoghe misure per quanto attiene ai rapporti tra le Autorità dei diversi Paesi, ed è in tale direzione che si è da sempre mosso, con previsioni puntuali, anche il legislatore comunitario. Infine, lo svolgimento delle funzioni di vigilanza può porre problemi di collaborazione tra le Autorità di vigilanza e altre istituzioni, anche non poste a presidio del funzionamento dei mercati finanziari (si pensi, ad esempio, all’autorità giudiziaria, al fisco, ecc.). Orbene, è inevitabile che la definizione di obblighi di collaborazione tra diverse Autorità di vigilanza e di vigilanza ponga problemi di coordinamento con la disciplina del segreto d’ufficio. Quest’ultimo, per la verità, tutela esigenze spesso incompatibili con la logica della trasparenza che viene posta a base degli obblighi di collaborazione. Si può, infatti, ritenere che tanto più ampi sono gli obblighi di collaborazione e di scambio di informazione con soggetti terzi, posti in capo alle Autorità di vigilanza e di vigilanza, quanto più viene compresso il segreto d’ufficio. Non è agevole trovare il punto di equilibrio tra le due opposte esigenze. La comunicazione e la diffusione delle informazioni può, infatti, indubbiamente rafforzare l’efficacia dell’attività di vigilanza; il mantenimento del segreto in relazione a determinati atti, notizie o informazioni, d’altronde, non soltanto ri15

V. il Provvedimento 24 marzo 2010 della Banca d’Italia.

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sponde alla tutela di valori fondamentali dei singoli soggetti, ma può, a sua volta, essere funzionale all’obiettivo di assicurare l’ordinato svolgimento delle funzioni di vigilanza, ad esempio riducendo il rischio di “fughe di notizie”, che possono compromettere l’efficacia dei relativi interventi. Il Testo Unico affronta tali questioni da un lato formulando regole proprie, e dall’altro lato recependo le norme derivanti dall’ordinamento comunitario. È opportuno distinguere, al riguardo, le norme che attengono ai rapporti tra Autorità di vigilanza, da quelle che riguardano i rapporti tra tali Autorità e terzi soggetti. a) I rapporti tra Autorità di vigilanza Per quanto attiene ai rapporti tra le Autorità di vigilanza, l’art. 4 TUF esprime un orientamento chiaramente volto ad agevolare, se non addirittura a stimolare il relativo scambio di informazioni. Il comma 1 stabilisce, anzi, un vero e proprio obbligo di collaborazione, e, al contempo, statuisce il divieto della reciproca opposizione del segreto d’ufficio. La norma, formulata in termini volutamente categorici, interessa i rapporti tra le Autorità nazionali 16; essa riflette un’analoga previsione già contenuta nel Testo Unico Bancario (cfr. l’art. 4 TUB). Quanto all’inopponibilità del segreto di ufficio nei rapporti tra Autorità di vigilanza si tratta di un necessario corollario degli obblighi di collaborazione. Il principio, ovviamente, non è innovativo, giacché norme sull’inopponibilità del segreto di ufficio erano comunque già rinvenibili, anteriormente alla riforma; ciò che, piuttosto, occorre rilevare è che si tratta: (i) di un principio che, nel TUF, assume portata generale; (ii) di un principio formulato in modo uniforme ed omogeneo per tutte le Autorità, eliminando così le differenze che precedentemente potevano derivare dal non perfetto allineamento tra i vari testi normativi. Una previsione analoga – formulata in attuazione delle Direttive comunitarie – riguarda i rapporti con le Autorità estere 17. Secondo lo schema che si ricava dalle Direttive europee, la disciplina è diversa a seconda che si tratti di Autorità comunitarie, ovvero di Autorità extracomunitarie. Nel primo caso, la formulazione della norma è analoga a quella dettata per i rapporti tra le Autorità nazionali: non compare più, tuttavia, espressamente, il divieto della reciproca opposizione del segreto d’ufficio. Ciò pone alcuni problemi applicativi, 16

Le Autorità reciprocamente interessate dalla disposizione sono: la Banca d’Italia, la Consob, la COVIP e l’IVASS. 17 In questo caso – ossia per quanto attiene ai rapporti con Autorità estere – l’art. 4 TUF si occupa soltanto della Banca d’Italia e della Consob. La disposizione non interessa, di contro, le altre Autorità di vigilanza che ricadono nella previsione del comma 1 del medesimo art. 4, relativo – come si è visto – agli obblighi di collaborazione tra Autorità domestiche.

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giacché – in teoria – potrebbero esservi casi in cui il rispetto del segreto d’ufficio impedisce di dar corso ad una richiesta di collaborazione proveniente dall’Autorità di vigilanza di un altro Stato membro. Vi è, tuttavia, da osservare che gli obblighi di collaborazione tra Autorità degli Stati membri derivano anche, e soprattutto, dalle norme comunitarie, che – in virtù del principio di prevalenza del diritto comunitario rispetto al diritto interno – dovrebbero già di per sé neutralizzare l’eventuale ricorso al segreto d’ufficio come motivo per non dar corso a richieste di cooperazione di altre Autorità europee. Con il recepimento della MiFID I e MiFID II è stato inoltre previsto che la Consob e la Banca d’Italia possano concludere con le Autorità di altri Stati membri e con la BCE accordi di collaborazione, che possono prevedere la delega reciproca di compiti di vigilanza; la Consob è stata poi espressamente individuata come “punto di contatto” per la ricezione delle richieste di informazioni provenienti da altre Autorità di Stati membri, nelle materie disciplinate dalla MiFID (art. 4, commi 2-bis e 2-ter). Più cauto è, invece, l’approccio per quanto attiene ai rapporti con le Autorità di Paesi extracomunitari: in questo caso non viene istituito alcun obbligo di cooperazione o di scambio di informazioni, ma viene prevista la (mera) possibilità per le stesse Autorità di vigilanza di instaurare rapporti di cooperazione e di scambiare informazioni (art. 4, comma 3). Inoltre, lo scambio di informazioni con Autorità extraeuropee è subordinato all’esistenza di norme in materia di segreto di ufficio (art. 4, comma 5-bis). Comunque, nel caso sia delle Autorità comunitarie, sia delle Autorità extracomunitarie, le informazioni ricevute dalla Banca d’Italia e dalla Consob non possono essere trasmesse ad altre Autorità italiane, né a terzi – ivi incluso il Ministro dell’economia e delle finanze – senza il consenso dell’Autorità che le ha fornite. Anche con specifico riferimento alla Banca d’Italia, le previsioni comunitarie trovano concretizzazione nel disposto del comma 9 dell’art. 4, relativo all’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi operanti in più Paesi 18. Il comma 7 dell’art. 4 TUF dispone altresì che le autorità competenti di stati comunitari o extracomunitari possono chiedere alla Banca d’Italia o alla Consob di effettuare per loro conto, secondo le norme previste all’interno del TUF, un’indagine sul territorio dello Stato, o di eseguire notifiche dei provvedimenti adottati: le predette Autorità possono chiedere che venga consentito ad alcuni membri del loro personale di accompagnare il personale della Banca 18 La Banca d’Italia, per agevolare l’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi operanti in più Stati UE definisce – sulla base di accordi con le autorità competenti – forme di collaborazione e coordinamento, istituisce collegi di supervisori e partecipa ai collegi istituiti da altre autorità. Può altresì concordare specifiche ripartizioni di compiti e deleghe di funzioni.

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d’Italia e della Consob durante l’espletamento dell’indagine. Si tratta, con tutta evidenza, di una disposizione di notevole rilievo, per le possibili “aperture” che essa consente nei confronti di forme di cooperazione che travalichino il mero scambio di notizie e informazioni. La rilevanza e l’importanza della cooperazione tra Autorità di vigilanza costituiscono principi ormai unanimemente riconosciuti, a livello sia interno, sia internazionale. Le stesse Autorità di vigilanza dei diversi Paesi hanno peraltro dato vita negli ultimi anni a forme di collaborazione anche spontanee, che si aggiungono a quelle espressamente previste nei singoli provvedimenti interni o sovranazionali. Tra le manifestazioni più significative di tale fenomeno rientra, innanzitutto, il fenomeno di progressiva “istituzionalizzazione” di appositi Comitati tecnici costituiti ed operanti a livello europeo, ai quali spettano importantissimi compiti nel processo di “edificazione” del diritto europeo del mercato mobiliare. L’esempio più significativo di questa tendenza, nel comparto mobiliare, è rappresentato ovviamente dalle tre Autorità europee (ESMA, EBA, EIOPA) 19. Ulteriori comitati operano anche in virtù di processi di cooperazione del tutto spontanei tra le Autorità di vigilanza di diversi Paesi. Essi offrono l’occasione per lo scambio di informazioni, notizie, e per l’elaborazione di orientamenti comuni, sempre più necessari a fronte dell’internazionalizzazione dei mercati 20. Spesso accade che tali organismi emanino raccomandazioni o altri atti (giocoforza privi di portata vincolante), che esprimono il raggiungimento di una posizione comune degli Stati partecipanti in merito ad una determinata questione; la concreta rilevanza di tali atti è assai maggiore di quanto non si possa ritenere a prima vista. Sebbene, infatti, si tratti di provvedimenti privi di efficacia normativa interna, essi esprimono una chiara linea di tendenza alla quale le Autorità di vigilanza verosimilmente si atterranno nei propri orientamenti futuri, in merito all’esercizio delle proprie funzioni, ivi comprese quelle di natura regolamentare. Quanto ad ulteriori manifestazioni “spontanee” di cooperazione, vi rientrano gli accordi stipulati su basi bilaterali tra Autorità di diversi Stati (espressamente citati dall’art. 4 TUF), in base ai quali le Autorità stesse si impegnano reciprocamente a cooperare per lo svolgimento delle rispettive funzioni, e a scambiarsi informazioni e notizie: si tratta di uno schema ormai ampiamente consolidato che ben si inquadra nel panorama delle disposizioni nazionali e comunitarie in materia 21. 19

Sul ruolo e sulla funzione dei Comitati nel diritto internazionale dei mercati finanziari v. MALAGUTI (2003). 20 Tra gli organismi più importanti si ricorda lo IOSCO (International Organisation of Securities Commissions). 21 Risulta che la Consob abbia concluso accordi con oltre 30 Autorità estere (v. l’elenco

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b) I rapporti con soggetti terzi Più limitata è la portata delle norme che pongono obblighi di collaborazione non già nei confronti di altre Autorità di vigilanza o di vigilanza, ma di soggetti terzi. L’art. 4, commi 5 e 6 attiene, in tale ambito, ai rapporti tra le Autorità di vigilanza e le seguenti categorie di soggetti: autorità amministrative e giudiziarie, organismi preposti alla gestione di mercati, sistemi di indennizzo, sistemi di compensazione e di regolamento, gestori delle sedi di negoziazione. In tutti i casi, lo scambio di informazioni è consentito, ma non costituisce un obbligo; sono inoltre previste specifiche limitazioni alla possibilità di rivelare a terzi le informazioni fornite. Più precisamente, le informazioni comunicate ai soggetti di cui sopra non possono essere rivelate a terzi senza il consenso del soggetto che le ha fornite. Tale limitazione, tuttavia, non vale nel caso in cui le informazioni siano fornite in ottemperanza a obblighi di cooperazione e collaborazione internazionale; inoltre, essa non vale neppure per quanto attiene alle informazioni comunicate ad autorità amministrative e giudiziarie nell’ambito di procedimenti di liquidazione o di fallimento, in Italia o all’estero, relativi ai soggetti abilitati.

5.1. (Segue): il segreto d’ufficio Si è già detto che il TUF non ha affrontato il delicato tema dell’assetto istituzionale delle Autorità di vigilanza. Restano dunque applicabili, in materia, le rispettive leggi istitutive e/o regolatrici – ovviamente per quanto compatibili con le previsioni del TUF – nelle quali si rinvengono anche disposizioni in tema di segreto d’ufficio. Un’eccezione a tale impostazione riguarda la Consob: i commi 10-13 dell’art. 4 disciplinano, infatti, limitatamente a tale Autorità, la materia del segreto d’ufficio, formulando le seguenti regole 22: – la Consob è tenuta ad osservare il segreto d’ufficio per tutte le notizie, le informazioni e i dati di cui è in possesso. Ciò significa che tali dati non possono essere divulgati o comunicati a terzi (salvo, ovviamente, quanto stabilito dallo stesso art. 4 TUF); – il segreto non vale nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze. L’eccezione riflette quella più generale prevista per i rapporti con le altre Autorità di vigilanza dal comma 1 dell’art. 4, dove, peraltro, essa figura in uno con la previsione di obblighi di cooperazione tra le Autorità interessate; – sono fatti salvi i casi previsti dalla legge per le indagini relative a violazioni sanzionate penalmente. degli accordi all’indirizzo: http://www.consob.it/web/area-pubblica/cooperazione-internazio nale. 22 Sul punto, e per un raffronto con il più laconico regime della disciplina antecedente al TUF, v. MONTEDORO (1998).

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Anche se l’art. 4 TUF non vi fa alcun cenno, le norme in materia di segreto d’ufficio vanno coordinate con le previsioni della legge n. 241/1990, che riguarda il diritto di accesso ai documenti ed ai procedimenti amministrativi 23. L’applicazione della disciplina di cui alla legge n. 241/1990 comporta, inevitabilmente, un potenziale conflitto con gli obblighi in materia di segreto d’ufficio, posto che essa riconosce ai privati il diritto di acquisire dalle Pubbliche Amministrazioni i documenti e le informazioni che interessano la loro sfera. La questione dei limiti del segreto d’ufficio, in rapporto alla legge n. 241/1990, è stata alquanto dibattuta in dottrina; in giurisprudenza si registrano però numerosi casi significativi, in cui il segreto d’ufficio ha dovuto cedere di fronte alle esigenze di trasparenza, ovvero in presenza di un interesse meritevole di tutela. Così, ad esempio, è riconosciuto il diritto di accesso al fine di esercitare il diritto alla difesa di procedimenti sanzionatori avviati dalle Autorità di vigilanza 24. I precedenti giurisprudenziali esprimono un orientamento chiaramente volto a ridimensionare la portata concreta del segreto d’ufficio, quando prevalgono interessi più ampi alla trasparenza e alla conoscenza dell’attività amministrativa; quando, cioè, risultano integrati gli estremi della legge n. 241/1990. Se ne può dedurre che il segreto d’ufficio sussiste, ed è giuridicamente tutelato, nei termini suesposti, sintanto che esso è necessario per assicurare il corretto svolgimento dell’azione amministrativa e di vigilanza; tuttavia, esso si affievolisce o viene meno quando debbono prevalere altri interessi, tra cui, ad esempio, quello al diritto alla difesa del soggetto privato 25.

5.2. (Segue): l’obbligo di segnalazione dei fatti aventi possibile rilevanza penale L’art. 4, comma 11, TUF attribuisce ai dipendenti della Consob, nell’esercizio delle loro funzioni, il ruolo di pubblici ufficiali, e stabilisce l’obbligo di riferire esclusivamente alla Commissione le irregolarità constatate, anche quando integrino ipotesi di reato. La norma riprende un’analoga previsione del TUB (art. 7, comma 2, TUB). La previsione merita di essere segnalata essenzialmente per due elementi: in primo luogo, in quanto i dipen23

V. diffusamente in argomento le considerazioni critiche di COLANTUONI e KRASNA (1998). V. CABIDDU (1999). 25 Cfr. in argomento e per ulteriori riferimenti SCOGNAMIGLIO (2002). Sul tema v., per un’interessante applicazione giurisprudenziale, la decisione del TAR Lazio, sez. I, 28 maggio 2010, n. 13895. 24

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denti della Consob vengono espressamente qualificati come pubblici ufficiali; in secondo luogo, per il fatto che l’obbligo di riferire dei fatti aventi possibile natura penale, a differenza di quello che si verifica normalmente, non sussiste nei confronti dell’Autorità Giudiziaria, quanto nei confronti della Commissione stessa. In realtà, la norma solleva un problema di cui si è molto discusso anche in relazione al Testo Unico Bancario – con riferimento all’analoga posizione che riveste il Governatore della Banca d’Italia – e che consiste nell’individuazione dei termini entro i quali la Consob, qualora abbia ricevuto la denuncia di un fatto avente rilevanza penale, è tenuta a sporgere denuncia all’Autorità penale, tramite il proprio Presidente. Per quanto attiene alla posizione della Banca d’Italia, l’interpretazione della norma ha oscillato tra due posizioni estreme: da un lato, vi è chi ha sostenuto la tesi della più ampia discrezionalità in capo all’Autorità di vigilanza nel decidere circa la segnalazione o meno dei fatti alla magistratura penale; dall’altro, vi è chi ha sostenuto che, una volta ricevuta la segnalazione, il Governatore avrebbe l’obbligo di provvedere alla successiva notifica alla magistratura penale, sempre e comunque 26. Sia la prima, sia la seconda tesi lasciano insoddisfatti: la prima, perché rischierebbe di privare concretamente il Pubblico Ministero della possibilità di conoscere fatti aventi rilevanza penale, essendo ciò rimesso all’esercizio del potere discrezionale dell’Autorità di vigilanza; la seconda in quanto, se si ritenesse che il Governatore della Banca d’Italia (e, nel caso dell’art. 4 TUF, la Consob) deve automaticamente segnalare al Pubblico Ministero i fatti aventi rilevanza penale, la norma sarebbe priva di utilità, e, anzi, potenzialmente controproducente: risulterebbe, infatti, assai più semplice stabilire che i dipendenti dell’Autorità di vigilanza hanno l’obbligo di segnalare i fatti direttamente alla magistratura. Tra i due estremi è stata autorevolmente proposta una terza posizione, che appare preferibile, e che può essere seguita anche con riferimento al disposto dell’art. 4, comma 11, TUF: si è ritenuto, dunque, che l’Autorità di vigilanza avrebbe l’obbligo di segnalare i fatti penalmente rilevanti una volta che siano stati adottati quei provvedimenti – generalmente urgenti, ed aventi carattere immediato – necessari per evitare che gli effetti conseguenti alla formalizzazione della denuncia penale compromettano gli interessi degli investitori e dei risparmiatori 27. Vi è, infatti, il rischio che anche la semplice notizia dell’avvio di un procedimento penale nei confronti di un intermediario generi apprensione e, talvolta, reazioni di vero e proprio panico da parte dei risparmiatori, rendendo così di difficile realizzazione interventi volti ad assicurare una più ordinata gestione del26 27

Per ulteriori riferimenti in merito al dibattito in questione v. COSTI (2007). COSTI (2007).

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la “crisi”. L’intervento, in guisa di filtro, dell’Autorità di vigilanza dovrebbe dunque proprio consentire alla stessa di adottare in via immediata provvedimenti ritenuti necessari o opportuni, prima della presentazione della denuncia alla magistratura che, nei termini suesposti, resta un atto comunque dovuto.

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CAPITOLO III LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. LA VIGILANZA SUI SOGGETTI ABILITATI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La ripartizione delle competenze tra la Banca d’Italia e la Consob. – 2.1. (Segue): ripartizione della vigilanza e obblighi di collaborazione tra le Autorità. – 3. Le finalità generali della vigilanza. – 4. Poteri regolamentari, poteri informativi e di indagine, vigilanza ispettiva. – 5. Gli interventi sui soggetti abilitati. – 6. La vigilanza sui gruppi finanziari. – 7. La revisione legale.

1. Premessa La disciplina degli intermediari – quale figura nel Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – risulta articolarsi su due livelli diversi, tra di loro complementari. Il primo livello è rappresentato da norme che si applicano in via generale, a tutte le categorie di soggetti disciplinati dal Testo Unico, e dunque alle imprese di investimento, alle società di gestione del risparmio, alle SICAV, SICAF e – in misura parziale – agli agenti di cambio. Tale primo livello si articola, a sua volta, in tre sotto-livelli, rispettivamente rappresentati: i) dalle norme in materia di vigilanza; ii) dalla disciplina degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale; iii) dalla disciplina delle crisi. Il secondo livello è invece rappresentato da norme riferibili soltanto ad alcuni soggetti o allo svolgimento di determinate attività: gli ambiti più rilevanti sono rappresentati dalla disciplina dei servizi di investimento, da un lato, e della gestione collettiva del risparmio, dall’altro. In questa sede affronteremo, innanzitutto, le disposizioni generali in materia di vigilanza; la disciplina degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale verrà affrontata nel prossimo Capitolo; la disciplina delle crisi verrà invece affrontata nel Capitolo XI. La formulazione di un insieme di regole applicabili in via generalizzata a

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tutte le categorie di intermediari, secondo principi di uniformità, rappresenta una delle innovazioni più significative introdotte, a suo tempo, dal TUF nel 1998. Nel sistema previgente, infatti, i singoli soggetti ora regolati dal TUF – e, dunque, le SIM, le società di gestione di fondi comuni, le SICAV/SICAF e, residualmente, gli agenti di cambio – erano sottoposti a regimi specifici, talvolta anche molto diversi tra di loro, con la conseguenza che le varie categorie di intermediari operanti sul mercato erano sottoposti a controlli e forme di vigilanza non coincidenti. Con l’emanazione del Testo Unico si assiste per la prima volta al tentativo di individuare una disciplina comune e generale degli intermediari finanziari, attraverso un livellamento delle regole previgenti e l’adozione di uno standard comune. Siffatta impostazione risulta, tra l’altro, tanto più significativa, là dove si analizzino i rapporti che, proprio sotto questo profilo, intercorrono tra il TUF e il Testo Unico Bancario. Nel TUF, le norme generali in materia di vigilanza sono formulate dagli articoli dal 5 al 12; si tratta di norme modellate sulle analoghe previsioni contenute, in materia di vigilanza sulle banche, nel Testo Unico Bancario del 1993. La somiglianza tra il TUF e il TUB, peraltro, non deve sorprendere, stante l’affinità che sussiste, nei principi fondamentali, tra le corrispondenti Direttive europee. Si è detto che la disciplina della vigilanza, e quella degli assetti proprietari e dei partecipanti al capitale, interessano tutti i soggetti disciplinati dal TUF. L’affermazione, in realtà, va precisata per quanto attiene alle banche, che – pur essendo disciplinate anche dal TUF – traggono la loro disciplina di base dal Testo Unico Bancario e dalle norme europee (in specie, per le banche che vi rientrano, dalla disciplina che ruota attorno al Meccanismo di Vigilanza Unico). Per le banche il TUF si applica, infatti, limitatamente allo svolgimento delle attività e dei servizi regolati dal medesimo provvedimento: vi è dunque una scissione tra la disciplina del soggetto (che, per le banche, resta affidata al Testo Unico Bancario), e la disciplina delle attività, che viene ad essere attratta dal D.Lgs. n. 58/1998 per quanto regolato da quest’ultimo provvedimento.

2. La ripartizione delle competenze tra la Banca d’Italia e la Consob Analogamente a quanto si rinviene nel TUB, la disciplina della vigilanza sugli intermediari è ripartita in tre ambiti di base, che attengono, rispettivamente, ai poteri regolamentari (art. 6), ai poteri/doveri informativi e di indagine (art. 6-bis e art. 8), e ai poteri ispettivi (art. 6-ter). Oltre a questi tre pilastri, sono previste dal TUF disposizioni specifiche che riguardano singoli poteri o attività di vigilanza, di cui alcuni di recente introduzione a seguito del recepimento della Direttiva MiFID 2. L’esame dei singoli profili richiede un inquadramento preliminare dell’in-

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tera materia, che lo stesso TUF opera all’art. 5, in una norma intitolata “Finalità e destinatari della vigilanza”. Nella sua formulazione originaria la disposizione ricalcava, con qualche differenza secondaria, la corrispondente disposizione del TUB (art. 5): nel tempo, essa è stata ampiamente rimodellata. Anche a seguito di tali modifiche è risultata comunque confermata l’impostazione di fondo, volta a ripartire l’attività di vigilanza tra la Consob e la Banca d’Italia secondo un criterio di tipo funzionale. Si tratta di un’impostazione che caratterizza ormai da tempo l’ordinamento italiano: essa risale quantomeno alla legge istitutiva dei fondi comuni di investimento (legge n. 77/1983, abrogata dal TUF), e si è poi affinata con la legge 2 gennaio 1991, n. 1, istitutiva delle SIM (anch’essa da tempo abrogata dai provvedimenti successivi). L’inquadramento della questione, e l’elaborazione delle relative soluzioni, non sono stati agevoli, per il continuo affacciarsi ed intrecciarsi di problematiche di natura tecnica, e di natura, in senso lato “politica” (ossia relative all’assetto istituzionale, ed all’ampiezza dei poteri delle varie Autorità di vigilanza). Non è questa la sede per ripercorrere il dibattito che ha condotto sino all’assetto odierno, e le diverse soluzioni – spesso di compromesso – che, nel corso del tempo, sono state adottate a livello legislativo e che hanno connotato, peraltro, non soltanto l’Italia, ma anche molti altri ordinamenti europei, nei quali la struttura della vigilanza ha subìto numerose modifiche nel tempo (si veda, ad esempio, il Regno Unito). Ciò che più rileva – ai fini che qui interessano – è l’esame della soluzione ad oggi riflessa nel Testo Unico, quale modificato in dipendenza del recepimento della MiFID. Il D.Lgs. n. 58/1998 prevede dunque una ripartizione delle competenze tra Banca d’Italia e Consob su basi funzionali. Tale criterio risulta alternativo rispetto a quello della ripartizione dei compiti per categorie di soggetti, o – addirittura – a quello della vigilanza accentrata, affidata ad un’unica Autorità 1, e consisterebbe nell’affidamento a ciascuna Autorità di poteri e funzioni specifici da esercitarsi nei confronti di tutte le categorie di soggetti sottoposte all’attività di vigilanza. In questa prospettiva, il TUF conferma la scelta di principio – già adottata dalla legge n. 1/1991 e, ancor prima, dalla legge n. 77/1983 2 – di affidare alla Banca d’Italia i profili di vigilanza riconducibili alla c.d. vigilanza 1

La vigilanza “accentrata” fu il modello utilizzato, ad esempio, nel Regno Unito, nel quale la vigilanza su tutti i soggetti operanti nel mercato dei capitali è stata per un certo tempo affidata ad un’unica Autorità (la Financial Services Authority). A seguito delle riforme introdotte dopo la crisi, anche nel Regno Unito è stato adottato – a partire dal 2013 – un sistema di vigilanza ripartito su basi funzionali, articolato tra la Prudential Regulation Authority, facente capo alla Banca d’Inghilterra, e la Financial Conduct Authority. Si segnala che, negli anni ’90, il Regno Unito aveva, invece, adottato un’impostazione di vigilanza ripartita su basi soggettive: per ulteriori riferimenti su quel regime v. ANNUNZIATA (1993). 2 V. MARCHETTI (1983).

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“prudenziale”, e di affidare alla Consob la vigilanza sulla “trasparenza” e sulla “correttezza dei comportamenti”. Più precisamente, in base all’art. 5, commi 2 e 3, TUF, la Banca d’Italia è competente per quanto riguarda il contenimento del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione; la Consob è competente per quanto riguarda la trasparenza e la correttezza dei comportamenti. Viene poi precisato (comma 4) che “la Banca d’Italia e la Consob esercitano i poteri di vigilanza nei confronti dei soggetti abilitati; ciascuna vigila sull’osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari secondo le competenze definite dai commi 2 e 3”. Se ne ricava dunque che le funzioni di vigilanza si articolano in tre filoni: il primo – riferibile alla vigilanza prudenziale – investe tutti i profili che attengono al contenimento del rischio, ed alla solidità patrimoniale del soggetto, ed è affidato alla Banca d’Italia; gli altri due sono rappresentati dalla trasparenza e dalla correttezza dei comportamenti: essi sono affidati alla Consob. La ripartizione delle funzioni per finalità viene poi a concretizzarsi, all’interno del criterio generale, in singole previsioni, rinvenibili nell’ambito delle disposizioni che attengono, rispettivamente, alla vigilanza regolamentare, informativa ed ispettiva. Il criterio di cui sopra, è bene ribadirlo, prescinde dai soggetti che ricadono nella disciplina del TUF: sotto questo profilo, la scelta del legislatore è più netta di quanto non si rinvenisse, ad esempio, nell’ambito dell’abrogata legge n. 1/1991, nella quale la ripartizione per funzioni, dapprima declamata, cedeva poi il passo a soluzioni di compromesso non sempre coerenti con l’assunto iniziale. La generica individuazione delle “finalità” della vigilanza, sulla base delle nozioni di cui sopra, può sollevare, tuttavia, difficoltà applicative. Da un lato, infatti, non sempre è agevole identificare, nell’ambito dell’ampio ventaglio di materie e di argomenti di cui si compone la disciplina del mercato mobiliare, quali aspetti rientrano nell’ambito dell’una, o dell’altra “vigilanza”. Dall’altro lato, vi sono materie con riguardo alle quali è evidente il rischio della sovrapposizione tra i due ambiti della vigilanza. Al fine di risolvere tali questioni, il Testo Unico (già nella sua formulazione originaria) non si affida dunque soltanto a nozioni generali, ma individua analiticamente, in funzione dei diversi ambiti della vigilanza, i poteri spettanti all’una, e all’altra Autorità. Con il recepimento della prima Direttiva MiFID erano anche state individuate alcune materie nelle quali l’esercizio dei compiti di vigilanza regolamentare deve avvenire congiuntamente da parte delle due Autorità. Questa modalità di esercizio “congiunto” delle prerogative attribuite alle Autorità di vigilanza è stata, però, abbandonata con il recepimento, nel mese di agosto del 2017, della MiFID II.

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2.1. (Segue): ripartizione della vigilanza e obblighi di collaborazione tra le Autorità La scelta della ripartizione per funzioni dell’attività di vigilanza valorizza al meglio le specifiche competenze e le conoscenze tecniche di ciascuna Autorità, ma – come si è detto – pone evidenti problemi di coordinamento e di collaborazione tra le stesse. L’intero art. 4 TUF – nello stabilire precisi obblighi di collaborazione tra le Autorità di vigilanza – rappresenta una prima, e per certi versi decisiva, risposta a tale esigenza. Lo stesso art. 5 ritorna sul medesimo aspetto, con un’insistenza opportuna alla luce dell’ampio dibattito che ha da sempre caratterizzato il problema della ripartizione delle funzioni di vigilanza tra la Banca d’Italia e la Consob. L’art. 5, comma 5, TUF, non stabilisce soltanto un generico obbligo di collaborazione (il che sarebbe ripetitivo di quanto già statuisce l’art. 4), ma dispone che le due Autorità devono operare in modo coordinato “anche al fine di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati”; la disposizione precisa, poi, che le Autorità devono darsi reciproca comunicazione dei provvedimenti assunti e delle irregolarità rilevate nell’esercizio dell’attività di vigilanza. La previsione si segnala, innanzitutto, per il modo categorico con cui dà ulteriore concretezza all’obbligo di collaborazione, stabilendo il preciso dovere di darsi reciproca comunicazione dei provvedimenti assunti, e delle irregolarità rilevate nell’esercizio dell’attività di vigilanza. Oltre a ciò, essa riflette la giusta preoccupazione che la frammentazione tra più organismi delle funzioni e dei poteri di vigilanza si risolva in un accrescimento degli oneri a carico dei soggetti vigilati, e stabilisce dunque un preciso obbligo di operare “al fine di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati”. A tale disposizione si aggiunge il comma 5-bis che, sulla scorta delle novità introdotte con il recepimento della prima direttiva MiFID, richiede alla Banca d’Italia e alla Consob di stipulare un protocollo d’intesa, anch’esso finalizzato a “coordinare l’esercizio delle proprie funzioni” e a “ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati”. Il protocollo deve regolare: – i compiti spettanti a ciascuna Autorità e le modalità del loro svolgimento, secondo il criterio della ripartizione di funzioni; – lo scambio di informazioni.

3. Le finalità generali della vigilanza Ai sensi dell’art. 5, comma 1, TUF – ampiamente rimodellato in conseguenza del recepimento della MiFID – la vigilanza sulle attività disciplinate dalla Parte II del TUF ha per obiettivi: a) la salvaguardia della fiducia nel sistema

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finanziario; b) la tutela degli investitori; c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario; d) la competitività del sistema finanziario; e) l’osservanza delle disposizioni in materia finanziaria. La disposizione – che presenta assonanze con l’art. 5 TUB 3 – individua le finalità generali al perseguimento delle quali è orientata l’attività di vigilanza sugli intermediari. Merita, innanzitutto, di essere segnalato il riferimento alla “competitività” e al “buon funzionamento” del sistema finanziario, in quanto elementi che vanno ad aggiungersi a quelli più tipicamente riconducibili alle finalità dell’intervento pubblico nei mercati finanziari (stabilità e trasparenza). Degno di nota è, altresì, il riferimento alla “trasparenza e correttezza dei comportamenti”, che non si rinviene nell’analoga previsione del Testo Unico Bancario, a causa della maggior attenzione che quest’ultimo provvedimento pone ai profili di vigilanza prudenziale, rispetto alle altre possibili finalità della vigilanza. Nella formulazione novellata dell’art. 5 non figura più il riferimento al criterio della “sana e prudente gestione” dei soggetti, che – in precedenza – assumeva la veste di un parametro generale che connota l’esercizio dell’intera attività di vigilanza sugli intermediari. Tuttavia, tale criterio risulta ora al comma 2, là dove si individuano le finalità perseguite dalla Banca d’Italia nell’esercizio della vigilanza. Lo “scivolamento” del criterio della sana e prudente gestione dalla norma sulle finalità “generali” a quella relativa alle competenze della Banca d’Italia non sembra, tuttavia, comportare conseguenze di effettivo rilievo. Il criterio della sana e prudente gestione deriva, infatti, dall’ordinamento comunitario: lo si rinveniva già sia nella II Direttiva di coordinamento in materia bancaria, sia nella MiFID, e risulta ripreso in molte parti della disciplina europea relativa al mercato dei capitali. In origine, esso fungeva da criterio per la valutazione della “qualità” degli assetti del soggetto-intermediario abilitato, con particolare riferimento ai requisiti degli esponenti aziendali e all’acquisto di partecipazioni “rilevanti” 4. Il legislatore italiano ne fece presto, peraltro, un principio generale, che informa l’intera attività di vigilanza (e che viene, tra l’altro, ripreso e ribadito in altre disposizioni del TUF: v. art. 15, comma 2; art. 16, comma 2; art. 19, comma 2; art. 21, comma 1-bis; art. 34, comma 2). La centralità della nozione ed il suo connotare – nei fatti – pressoché l’intera disciplina della vigilanza sui soggetti abilitati (e, dunque, anche gli ambiti di competenza della Consob), ne impongono una più puntuale ricostruzione. Già con riferimento al TUB, il corretto inquadramento della nozione ha posto 3 Ai sensi dell’art. 5 TUB, “le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia”. 4 V., in particolare, gli artt. 9 e 10 della Direttiva 2004/39/CE (MiFID I).

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non poche difficoltà interpretative 5. Il criterio della sana e prudente gestione, infatti, è indubbiamente un parametro molto ampio: in teoria, esso sarebbe in grado di includere qualsiasi valutazione tecnica dell’Autorità di vigilanza, con il rischio di sconfinare (forse) nella discrezionalità amministrativa 6. In realtà, il criterio della sana e prudente gestione – sebbene consenta alle Autorità di vigilanza ampi margini di manovra – deve intendersi riferito a valutazioni di natura squisitamente tecnica: non si tratta, dunque, di un’occasione di recupero di discrezionalità amministrativa nell’esercizio della vigilanza, ma, semplicemente, di un modo traslato di riferirsi alle valutazioni tecniche che le Autorità di vigilanza effettuano nell’esercizio dei poteri ad esse affidati dal legislatore; poteri che comportano valutazioni complesse ed articolate, e la formulazione, anche, di giudizi sull’idoneità dei soggetti alla prestazione dei vari servizi e/o allo svolgimento delle diverse attività, ma pur sempre ancorati a valutazioni di tipo rigorosamente tecnico. È questa, d’altronde, l’unica interpretazione possibile, anche in base ai principi discendenti dall’ordinamento comunitario, che lo stesso TUF impone di osservare. In tale prospettiva, deve dunque convenirsi con l’opinione di quella dottrina che ha avuto occasione di precisare che il termine “sana” deve intendersi riferito ad una gestione “condotta secondo criteri di redditività”, ossia ad una “gestione potenzialmente profittevole” 7; il criterio della “prudenza” va invece riferito ad una gestione tendenzialmente avversa al rischio, o comunque volta al controllo e al monitoraggio dei rischi nello svolgimento delle diverse attività e servizi 8.

4. Poteri regolamentari, poteri informativi e di indagine, vigilanza ispettiva La vigilanza si articola, innanzitutto, in tre filoni generali, e segnatamente:

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V. COSTI (2007). V., diffusamente, la ormai non più recente posizione di MERUSI (1998). 7 LAMANDA (1996). 8 RABITTI BEDOGNI (1998); DE LORENZO (1998); BIANCHI (1998); BROZZETTI (2010). In particolare, secondo quest’ultimo, le Autorità di vigilanza devono “utilizzare i poteri loro attribuiti dall’ordinamento in maniera da incentivare nei soggetti vigilati comportamenti gestori ispirati al profitto e alla salvaguardia dei valori aziendali e informati a principi di indipendenza e neutralità allocativa, nonché avversi all’assunzione di rischi superiori alle proprie capacità di controllo e assorbimento”: è dunque evidente l’approccio essenzialmente tecnico seguito nella considerazione dei principi di “sana e prudente gestione”. V. anche AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 68 ss. 6

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i) poteri regolamentari; ii) poteri informativi e di indagine; iii) vigilanza ispettiva. A questi tre filoni, si sono aggiunte ulteriori, più specifiche previsioni che, anche sulla scorta dell’evidente tendenza del legislatore a rafforzare la vigilanza sul sistema, articolano poteri e attività di vigilanza su profili più granulari. Se la materia trae la propria ispirazione, ancora una volta, dal Testo Unico Bancario, nel quale la vigilanza risulta articolarsi in profili analoghi a quelli di cui sopra, nel TUF si pone il problema della differenziazione, all’interno dei singoli ambiti di intervento, dei poteri e dei compiti spettanti alla Banca d’Italia, rispetto a quelli spettanti alla Consob. È dunque nella definizione di tali profili che viene ad applicarsi il principio generale della ripartizione per funzioni tra le due Autorità, secondo lo schema stabilito dall’art. 5. i) Poteri regolamentari I poteri regolamentari vengono esercitati, essenzialmente, attraverso l’emanazione di norme secondarie, nelle materie di competenza delle Autorità di vigilanza, come di volta in volta individuate dal legislatore. Questo ambito ha conosciuto, con l’emanazione del TUF, un momento di rilevantissima espansione. Sono state, infatti, numerose le materie nelle quali lo spazio lasciato alla produzione regolamentare è risultato amplissimo, sicuramente maggiore di quanto non fosse ravvisabile nella disciplina precedente al Testo Unico (emblematica, in proposito, la disciplina della gestione collettiva del risparmio). Oggi, questo rilievo deve essere, in realtà, in parte ridimensionato. Il crescente spazio, e “peso specifico”, della disciplina comunitaria riduce significativamente gli spazi effettivamente rimessi al potere regolamentare delle Autorità di vigilanza. A ciò concorrono, poi, anche i compiti affidati all’ESMA, che ha, tra le proprie finalità, quella di assicurare il coordinamento e l’omogeneizzazione della disciplina in ambito europeo. I limiti che derivano nell’esercizio del potere regolamentare dalla disciplina europea operano in due sensi: da un lato, essi restringono la discrezionalità delle Autorità nazionali, e gli stessi ambiti nei quali si può esercitare il potere regolamentare; dall’altro, essi condizionano anche il potere delle Autorità di introdurre regole aggiuntive o più gravose rispetto agli standard previsti dalla disciplina UE. Sotto il primo profilo, appare evidente che, là dove le discipline di rango europeo sono affidate a disposizioni direttamente applicabili (tipicamente, Regolamenti UE), il potere regolamentare dell’Autorità nazionali in quella specifica materia viene, semplicemente, meno. Sotto il secondo profilo, la preoccupazione per il cosiddetto fenomeno del gold plating è giustificata, a livello europeo, dall’evidente constatazione che tale fenomeno finisce per disallineare gli ordinamenti degli Stati membri, compromettendo gli obiettivi fondamentali dell’armonizzazione del diritto europeo. Con speci-

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fico riferimento alle materie di cui alla Direttiva MiFID, è stato dunque introdotto uno specifico limite in tal senso 9. Fermo quanto sopra, a monte, per così dire, delle singole disposizioni del TUF che rinviano ai poteri regolamentari delle due Autorità, l’art. 6 si apre con l’esplicitazione dei principi che ne informano l’esercizio. Non senza ripetizioni e sovrapposizioni rispetto all’art. 5 – dovute all’imprecisa tecnica legislativa che caratterizza molte delle riforme più recenti – si dispone, dunque, che Banca d’Italia e Consob debbano osservare i seguenti principi: a) valorizzazione dell’autonomia decisionale dei soggetti abilitati; b) proporzionalità, intesa come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari; c) riconoscimento del carattere internazionale del mercato finanziario e salvaguardia della posizione competitiva dell’industria italiana; d) agevolazione dell’innovazione e della concorrenza. Si tratta, come si vede, di principi generalissimi, la cui origine è rinvenibile sia nelle Direttive (ad esempio, il principio di proporzionalità, che connota numerose disposizioni delle Direttive MiFID, della Direttiva UCITS, e della AIFMD), sia negli orientamenti internazionali in tema di regolazione dei mercati finanziari (competitività del sistema; carattere internazionale del mercato, ecc.). Non è peraltro agevole stabilire quali possano essere gli spazi per contestare l’effettivo rispetto di tali principi da parte delle Autorità di vigilanza: ci si può chiedere, ad esempio, se un regolamento che non “valorizzi l’autonomia decisionale dei soggetti abilitati”, adottato dalla Consob o dalla Banca d’Italia, possa essere contestato in sede giurisdizionale, con i rimedi propri del diritto amministrativo. La risposta, in linea teorica, dovrebbe essere affermativa, ma il contenuto tanto generico dei principi affermati dalla disposizione in commento, ed il fatto che in molte materie il TUF rinvii – praticamente in bianco – all’esercizio del potere regolamentare delle Autorità rende la soluzione, in concreto, assai meno certa. Per tale via, è lecito nutrire dubbi circa l’effettiva utilità del “manifesto” con cui si apre l’art. 6 del TUF, al di là del suo valore “declamatorio”. Ciò detto, ferme le materie attribuite al Ministero dell’economia e delle finanze, la ripartizione delle funzioni tra Banca d’Italia e Consob, nell’ambito di questo primo filone della vigilanza, segue i criteri generali già visti, ma questi ultimi vengono specificati secondo una individuazione delle singole materie 9 Art. 6, comma 02, TUF: nelle materie di cui alla MiFID II la previsione di obblighi aggiuntivi è consentita soltanto “nei casi eccezionali in cui tali obblighi sono obiettivamente giustificati e proporzionati, tenuto conto della necessità di fare fronte a rischi specifici per la protezione degli investitori o l’integrità del mercato che presentano particolare rilevanza nel contesto della struttura del mercato italiano”.

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attribuite alle due Autorità, sia singolarmente, sia in via in qualche modo “congiunta”. Pertanto, ai sensi dell’art. 6, comma 1, la Banca d’Italia, sentita la Consob, è chiamata a disciplinare 10: a) gli obblighi delle SIM e delle SGR in materia di adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, e partecipazioni detenibili, nonché l’informativa da rendere al pubblico sulle stesse materie e sul governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile, i controlli interni e i sistemi di remunerazione e incentivazione; b) gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di deposito e di sub-deposito degli strumenti finanziari e del denaro di pertinenza della clientela; c) le regole applicabili agli OICR aventi a oggetto: 1) i criteri e i divieti relativi all’attività di investimento, avuto riguardo anche ai rapporti di gruppo; 2) le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio; 3) gli schemi-tipo e le modalità di redazione dei prospetti contabili che le società di gestione del risparmio e le SICAV devono redigere periodicamente; 4) i metodi di calcolo del valore delle quote o azioni di OICR; 5) i criteri e le modalità da adottare per la valutazione dei beni e dei valori in cui è investito il patrimonio e la periodicità della valutazione 11; 6) le condizioni per la delega a terzi della valutazione dei beni dell’OICR e del calcolo del valore delle relative quote o azioni; c-bis) profili articolati che riguardano gli assetti organizzativi interni (controlli, gestione del rischio, esternalizzazione di funzioni aziendali), la governance del soggetto, i sistemi di remunerazione e incentivazione. La Consob è, invece, competente a disciplinare, sentita la Banca d’Italia, gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di: a) trasparenza, ivi inclusi: 1) gli obblighi informativi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento, nonché della gestione collettiva del risparmio, con particolare riferimento al grado di rischiosità di ciascun tipo specifico di prodotto finanziario e delle gestioni di portafogli offerti, all’impresa e ai servizi prestati, alla salvaguardia degli strumenti finanziari o delle disponibilità liquide detenuti dall’impresa, ai costi, agli incentivi e alle strategie di esecuzione degli ordini, e – da ultimo – alle pratiche di vendita abbinate; 10

Cfr. PISCITELLO (2002). Per la valutazione di beni non negoziati in mercati regolamentati, la Banca d’Italia può prevedere il ricorso a esperti indipendenti e richiederne l’intervento anche in sede di acquisto e vendita dei beni da parte del gestore. 11

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2) le modalità e i criteri da adottare nella diffusione di comunicazioni pubblicitarie e promozionali e di ricerche in materia di investimenti; 3) gli obblighi di comunicazione ai clienti relativi all’esecuzione degli ordini, alla gestione di portafogli, alle operazioni con passività potenziali e ai rendiconti di strumenti finanziari o delle disponibilità liquide dei clienti detenuti dall’impresa; 4) gli obblighi informativi nei confronti degli investitori dei FIA. b) correttezza dei comportamenti, ivi inclusi: 1) gli obblighi di acquisizione di informazioni dai clienti o dai potenziali clienti ai fini della valutazione di adeguatezza o di appropriatezza delle operazioni o dei servizi forniti; 2) le misure per eseguire gli ordini alle condizioni più favorevoli per i clienti; 3) gli obblighi in materia di gestione degli ordini; 4) l’obbligo di assicurare che la gestione di portafogli si svolga con modalità aderenti alle specifiche esigenze dei singoli investitori e che quella su base collettiva avvenga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell’OICR; 5) le condizioni alle quali possono essere corrisposti o percepiti incentivi b-bis) ulteriori profili in materia di gestione collettiva del risparmio e di servizi di investimento in senso lato riconducibili ai profili comportamentali (ad esempio, conflitti di interessi, incentivi, conoscenza e competenze delle persone che operano nell’impresa). Sino all’entrata in vigore delle disposizioni di recepimento della MiFID II (prevista per il 3 gennaio 2018), restano in vigore le disposizioni che individuavano alcuni ambiti di competenza “congiunta” di Consob e di Banca d’Italia. Si tratta di profili che si collocano, per così dire, a “cavallo” tra le competenze naturalmente proprie delle due Autorità, ma che – a decorrere dalla predetta data – sono stati invece affidati direttamente alle due Autorità, secondo la ripartizione dei compiti sopra richiamata. In pratica, le materie nelle quali il potere regolamentare si esercitava congiuntamente sono state “spacchettate” nella declinazione dei poteri, sopra riassunti, attributi, da un lato, alla Banca d’Italia e, dall’altro, alla Consob. A fronte dell’eliminazione di tale area di esercizio congiunto del potere regolamentare, il legislatore ha però previsto specifici obblighi di collaborazione, che si traducono nella necessità per l’Autorità interessata di acquisire l’intesa dell’altra sui profili di disciplina interessati (cfr. art. 6, comma 2-bis). Non è, allo stato, agevole comprendere se questo nuovo assetto rappresenterà, nella sostanza, un’effettiva novità: il confine tra l’acquisizione di un’intesa da parte dell’altra Autorità interessata, e l’esercizio congiunto del potere regolamentare pare, infatti, assai labile.

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Nell’ambito del potere regolamentare, merita di essere segnalato il riferimento che figura, in più punti, alla portata della disciplina con riguardo alla “professionalità” o alla competenza degli investitori. Ad esempio, l’art. 6, comma 2-quater, lett. c) fa riferimento alla necessità di emanare regole specifiche di condotta applicabili “ai rapporti tra soggetti abilitati e clienti professionali”; la successiva lett. d) si riferisce a sua volta allo speciale regime applicabile nei rapporti con le cc.dd. “controparti qualificate”. In tal senso, la disciplina riflette una precisa impostazione delle norme comunitarie e, in particolare, della MiFID, la quale ultima – come si avrà modo di osservare in relazione alla disciplina dei servizi di investimento – prevede una specifica “graduazione” della disciplina in funzione della “natura” (professionale o meno) del cliente. In tale ambito, la MiFID prevede trattamenti differenziati a seconda che l’investitore rientri nella categoria dei cc.dd. “clienti al dettaglio”, “clienti professionali” o delle cc.dd. “controparti qualificate”. Si tratta, peraltro, di un’impostazione ormai “classica” della disciplina del mercato finanziario e che – al di là delle previsioni tecniche che si succedono storicamente nei diversi provvedimenti – risponde ad un’effettiva, e generalmente condivisa, esigenza di calibrazione del peso della regolamentazione, in funzione delle reali esigenze di tutela da perseguire 12. Una impostazione analoga caratterizza anche la Direttiva AIFM, che tende a segmentare la disciplina in funzione della natura “riservata” o meno degli OICR. ii) Poteri informativi e di indagine La materia dei poteri informativi è stata rimodellata in occasione del recepimento della Direttiva MiFID II. Essa si articola su due disposizioni di base: da un lato l’art. 6-bis, TUF (intitolato “Poteri informativi e di indagine”); dall’altro, l’art. 8 (“Doveri informativi”). Come si ricava dall’art. 6-bis, TUF la vigilanza informativa consiste nel potere, riconosciuto all’Autorità di vigilanza e, in particolare, alla Banca d’Italia e alla Consob, di chiedere ai soggetti abilitati, nell’ambito delle rispettive competenze, la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti con le modalità e nei termini dalle stesse stabiliti. Tale potere si può esercitare, sostanzialmente, innanzitutto, in due modi: la richiesta di informazioni può essere formulata in via generale (anche attraverso, ad esempio, regolamenti che impongono obblighi di comunicazione o di segnalazione, in via periodica o episodica), oppure possono essere formulate richieste specifiche, caso per caso. Le richieste possono essere indirizzate anche al personale dei soggetti abilitati, e a coloro ai quali l’intermediario abbia esternalizzato funzioni aziendali essenziali o importanti, e al loro personale. La norma non pone limiti al potere delle Autorità di vigilanza; essa, dunque, ren12

V. PERRONE (2010).

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de i soggetti abilitati assolutamente “trasparenti” nei confronti delle Autorità stesse, giacché, in linea di principio, non sembrano esservi dati, notizie, informazioni che le Autorità non possono chiedere agli intermediari. L’unico limite che la norma pone, a differenza del Testo Unico Bancario, è che il potere è riferito alla Banca d’Italia e alla Consob per le materie di rispettiva competenza: ne deriva che ciascuna Autorità non può chiedere dati e notizie relativi a materie che rientrano nella sfera di competenza dell’altra Autorità. Con il recepimento di MiFID II, alla Consob sono stati attribuiti poteri specifici, e molto pervasivi, non lontani da quelli che spettano agli organi di polizia giudiziaria, ed esercitabili nei confronti di “chiunque possa essere in possesso di informazioni pertinenti” (art. 6-bis, comma 5): perquisizioni, registrazioni telefoniche, attivare la collaborazione delle pubbliche amministrazioni, agire in deroga alla disciplina della privacy, accedere alla Centrale rischi della Banca d’Italia, ai dati dell’anagrafe tributaria, e procedere anche al sequestro e alla confisca di beni. Alcuni di questi poteri sono, tuttavia, soggetti alla preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica (cfr. il comma 6). Anche queste disposizioni concorrono, naturalmente, a quella “trasformazione” del ruolo delle Autorità di vigilanza alle quali si è già fatto cenno, e che risulta sempre più evidente. Rientra nella vigilanza informativa anche la materia degli obblighi di comunicazione del collegio sindacale e dei revisori contabili dei soggetti abilitati, che sono destinatari di norme particolari (art. 8 TUF “Doveri informativi”). Si tratta di disposizioni che hanno da tempo modificato la prospettiva nella quale, tradizionalmente, si collocavano gli organi di controllo interni delle società di capitali, e ciò in quanto la loro azione viene ad orientarsi anche verso la tutela degli interessi dell’Autorità pubblica, preposta alla vigilanza sul soggetto abilitato. In attuazione di previsioni comunitarie 13, l’art. 8, comma 3, dispone che l’organo di controllo (collegio sindacale, o – a seconda dei modelli societari adottati – consiglio di sorveglianza o comitato per il controllo) debba informare senza indugio la Banca d’Italia e la Consob, di tutti gli atti o i fatti di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei propri compiti che possono costituire un’irregolarità nella gestione, ovvero una violazione delle norme che disciplinano l’attività delle SIM, delle società di gestione del risparmio, delle SICAV o delle SICAF. Una formula simile – riferita ai soggetti incaricati della revisione legale – è infine prevista al comma 4 dell’art. 8, in base al quale i soggetti incaricati della revisione legale dei conti “comunicano senza indugio alla Banca d’Italia e alla Consob gli atti o i fatti, rilevati nello svolgimento dell’incarico, che possano costituire una grave violazione delle norme disciplinanti l’attività delle società sottoposte a revisione ovvero che possano pregiudicare la continuità dell’impresa, o comportare un giudizio negativo, un giudizio con rilievi o una dichiarazione di 13

Si tratta della Direttiva 95/26/CEE, volta al rafforzamento della vigilanza prudenziale.

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impossibilità di esprimere un giudizio sui bilanci o sui prospetti periodici degli OICR” 14. Infine, gli stessi compiti sono previsti in capo agli organi di controllo interno e ai revisori dei soggetti che controllano gli intermediari abilitati. Per gli organi di controllo interni e per i revisori, le norme non sono formulate in modo identico: vi sono, infatti, evidenti differenze tra la portata degli obblighi dei sindaci rispetto a quelli dei revisori. In particolare, mentre i sindaci sono tenuti ad informare le Autorità di vigilanza dei fatti che “possono costituire” irregolarità nella gestione, ovvero violazione di norme che disciplinano l’attività degli intermediari, i soggetti incaricati della revisione devono segnalare soltanto i fatti che possano costituire una “grave violazione” delle norme disciplinanti l’attività delle società sottoposte alla revisione stessa. Inoltre, gli obblighi di segnalazione dei revisori investono anche quei fatti che – pur non costituendo irregolarità o violazioni di norme di legge – possono pregiudicare la continuità dell’impresa o avere impatti sul rilascio del giudizio di certificazione. In definitiva, i doveri dei sindaci sembrano essere più estesi, in quanto riferibili anche ad irregolarità o violazioni non gravi; di contro, i doveri dei revisori riguardano anche fatti diversi dalle irregolarità o dalle violazioni di norme di legge. Resta, comunque, il fatto che la formulazione un po’ generica delle disposizioni in commento lascia pur sempre alquanto indeterminata l’esatta individuazione della soglia al di là della quale scattano gli obblighi di comunicazione 15. Anche nel TUB figura una norma analoga a quella di cui si discute (art. 52); anzi, proprio la coesistenza delle due previsioni ha posto, ancora una volta, il problema di assicurare il coordinamento tra quanto stabilito dal TUF, da un lato, e dal Testo Unico Bancario, dall’altro, con particolare riferimento alla posizione degli organi di controllo delle banche. Tale obiettivo è stato raggiunto mediante due diverse modalità. La prima è prevista dallo stesso art. 8 TUF, il quale ha cura di precisare che le disposizioni testé riassunte si applicano alle banche limitatamente alla prestazione dei servizi di investimento (comma 6). La seconda soluzione è stata invece prevista da vari interventi che hanno modificato l’art. 52 TUB, al fine di renderne la formulazione identica a quella dell’art. 8 TUF, relativamente agli obblighi di comunicazione del collegio sindacale e dei soggetti incaricati della revisione legale dei conti. L’originaria formulazione dell’art. 8 TUF, infatti, differiva leggermente da quella del corrispondente art. 52 TUB, e, sebbene l’art. 8 avesse cura di precisare che esso si applicava alle banche limitatamente alla prestazione dei servizi di investimento, residuava comunque una possibile area di incertezza nell’applicazione dell’una, o dell’altra disposizione, relativamente ad atti, operazioni o attività che possono collocarsi in qualche modo “a cavallo” tra la disciplina dei servizi di 14 15

V. LANOTTE e BALZANO (1998). V. VELLA (1995); SANTONI-BUTA (2002).

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investimento, e quella del TUB (si pensi, ad esempio, allo svolgimento, da parte delle banche, di un servizio accessorio ad un servizio di investimento, come l’attività di custodia ed amministrazione di strumenti finanziari). Il definitivo allineamento tra la disciplina del Testo Unico Bancario e quella del TUF risolve, così, il problema alla radice. Le modifiche apportate al TUF dal 2015 in dipendenza del recepimento delle Direttive CRD IV e MiFID II hanno introdotto, nell’impianto del Testo Unico, due nuove discipline: la prima (ora contenuta nell’art. 4-undecies) prevede che gli intermediari debbano dotarsi di sistemi interni per la segnalazione di possibili violazioni della disciplina di settore (il cosiddetto “whistleblowing”); la seconda (art. 4-duodecies) prevede che il personale dei soggetti abilitati effettui segnalazioni alle Autorità di vigilanza (individuate, a seconda delle competenze, per rinvio all’art. 4, comma 1), relative a violazioni delle previsioni del TUF e delle norme europee ivi individuate. Si tratta di previsioni di grande delicatezza, per gli evidenti problemi che esse pongono nell’individuazione di un punto di equilibrio tra le esigenze della vigilanza, e quelle della tutela della riservatezza e degli interessi del soggetto vigilato. La loro precisa delimitazione è dunque affidata ad appositi provvedimenti delle Autorità di vigilanza. iii) La vigilanza ispettiva Si tratta del terzo “filone” nel quale si articola l’attività di vigilanza. In base all’art. 6-ter TUF la Banca d’Italia e la Consob possono, innanzitutto, nell’ambito delle rispettive competenze e in armonia con le disposizioni comunitarie, effettuare ispezioni e richiedere l’esibizione dei documenti e il compimento degli atti ritenuti necessari presso i soggetti abilitati. Ciascuna Autorità comunica le ispezioni disposte all’altra Autorità, la quale può chiedere accertamenti su profili di propria competenza. Le ispezioni possono essere eseguite anche presso i soggetti ai quali gli intermediari abbiano esternalizzato funzioni aziendali essenziali o importanti, e al loro personale (art. 6-ter, comma 1), nonché – previa autorizzazione del procuratore della Repubblica – anche presso soggetti diversi che abbiano intrattenuto rapporti professionali o patrimoniali con il soggetto abilitato. Rilevante è il riferimento alle disposizioni comunitarie, che viene posto quale criterio generale, o limite, allo svolgimento dell’attività ispettiva. Ancora una volta, il diritto comunitario viene ad essere specificamente richiamato, ribadendo così e, al contempo, rafforzando il richiamo più generale al rispetto della disciplina europea operato dall’art. 2 TUF. Il comma 3 prevede, infine, che la Consob può richiedere – al soggetto incaricato della revisione legale dei conti – informazioni e può autorizzarlo ad effettuare verifiche ispettive per suo conto. Le relative spese sono poste a carico del soggetto ispezionato. La norma, peraltro, nulla dice circa tempi e modi dello svolgimento di tali ispezioni, né regola la formalizzazione dei risultati delle verifiche e/o la loro trasmissione all’Autorità di vigilanza: quantomeno con

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riferimento al primo profilo segnalato, il silenzio pare però possa colmarsi facendo riferimento alle norme che si applicano in ipotesi di attività ispettiva svolta dalla stessa Autorità di vigilanza. In tale contesto, la disposizione opportunamente specifica che il soggetto incaricato agisce in qualità di Pubblico Ufficiale.

5. Gli interventi sui soggetti abilitati A fianco delle tre disposizioni principali in materia di vigilanza si collocano previsioni più specifiche: alcune di queste sono state innestate nel corpo del TUF in occasione del recepimento delle norme europee, tra le quali, soprattutto la MiFID II. Una prima disposizione è quella di cui all’art. 7, rubricata “poteri di intervento sui soggetti abilitati”. L’obiettivo generale che il legislatore si propone con questa disciplina consiste essenzialmente nel riconoscere alle Autorità di vigilanza poteri specifici, che non rientrano negli schemi propri dei tre filoni generali della vigilanza: per la maggior parte, si tratta di poteri che incidono direttamente sull’attività degli organi sociali dei soggetti vigilati 16. In base all’art. 7 TUF, la Banca d’Italia e la Consob possono dunque: a) convocare gli amministratori, i sindaci e i dirigenti dei soggetti abilitati; b) ordinare la convocazione degli organi collegiali, fissandone l’ordine del giorno; c) procedere direttamente alla convocazione degli organi collegiali, quando gli organi competenti non abbiano ottemperato a quanto previsto dalla lett. b): d) convocare gli esponenti aziendali e il personale degli outsourcer; e) pubblicare avvertimenti al pubblico; f) intimare ai soggetti di non avvalersi di un soggetto che possa essere di pregiudizio per la trasparenza e la correttezza dei comportanti (questo potere spetta, specificatamente, alla Consob). Si osservi che il potere delle Autorità di vigilanza si arresta, quantomeno sul piano formale, alla convocazione degli organi collegiali e alla fissazione del relativo ordine del giorno: l’assunzione delle relative decisioni resta, invece, affidata agli organi competenti. Ovviamente, è inevitabile che, nella maggior parte dei casi, il fatto che una determinata deliberazione sia stata richiesta dall’Autorità di vigilanza rappresenterà un forte incentivo all’effettiva adozione della stes16 V. per una disamina più articolata LANOTTE (1998); PISANI (2002). Con particolare riferimento agli incontri periodici tra intermediari e Autorità di vigilanza v. BERIONNED’AMICO (1998).

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sa, in virtù di un’evidente moral suasion conseguente all’intervento stesso dell’Organo di controllo. Per quanto attiene, invece, al contenuto delle richieste che le Autorità di vigilanza possono formulare, la norma è redatta in modo alquanto generico: non si precisa alcunché circa il contenuto delle materie, o degli argomenti, che possono di volta in volta formare oggetto di discussione o di deliberazione. Lo stesso art. 7 TUF, tuttavia, precisa che l’esercizio dei poteri ivi previsti può avvenire, da parte delle Autorità interessate, “nell’ambito delle rispettive competenze”: trova dunque applicazione il principio della ripartizione funzionale dei compiti tra la Consob e la Banca d’Italia, secondo quanto previsto in generale dall’art. 5 TUF, alla luce del quale andrà valutata la materia da potersi inserire tra quelle oggetto di deliberazione. Oltre a quanto precede, le novità recate dal recepimento della Direttiva CRD IV, hanno attribuito alle Autorità i seguenti poteri di intervento (art. 7, commi 2 e 2-bis): – la Banca d’Italia può adottare (sentita la Consob) provvedimenti restrittivi concernenti i servizi, le attività, le operazioni e la struttura territoriale; vietare distribuzione di utili o di altri elementi del patrimonio; vietare il pagamento di interessi riferiti a strumenti finanziari ricompresi nel patrimonio a fini di vigilanza, fissare limiti alla parte variabile delle remunerazioni nei soggetti abilitati; – la Banca d’Italia e la Consob, nell’ambito delle rispettive competenze, possono disporre la rimozione di uno o più esponenti aziendali di SIM, SGR, SICAV e SICAF, qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione del soggetto abilitato o per la trasparenza e la correttezza dei comportamenti 17. Gli innesti operati nel corpo del Testo Unico hanno aggiunto, rispetto ai poteri di intervento di cui sopra, ulteriori ipotesi. L’art. 7-bis attribuisce, innanzitutto, alla Banca d’Italia e alla Consob specifici poteri di intervento nelle materie coperte dal Regolamento (UE) n. 600/2014 in ambito MiFID II, ripartiti secondo la nota logica “funzionale”. Gli artt. 7-ter e 7-quater consentono alle due Autorità di ingiungere agli intermediari la cessazione di condotte irregolari (il c.d. “cease and desist order”), nonché il divieto di intraprendere, nei casi ivi previsti, di intraprendere nuove operazioni. L’art. 7-sexies conferma il potere del Presidente della Consob di disporre la sospensione degli esponenti aziendali, nominando un commissario che assume la gestione dell’impresa per 17 La rimozione non è disposta ove ricorrano gli estremi per pronunciare la decadenza ai sensi dell’art. 13 TUF, salvo che sussista urgenza di provvedere. In pratica, se un esponente aziendale non ha più un profilo in linea con le esigenze di sana e prudente gestione (il c.d. “fit and proper test”), o decade, oppure – se la decadenza non è prevista – può essere rimosso.

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un periodo di 60 giorni: il potere – che risultava già dalle disposizioni della legge n. 1/1991 – può essere esercitato in caso di gravi irregolarità o violazioni di norme di legge. L’art. 7-octies, di recente introduzione, affida alla Consob specifici poteri di contrasto all’abusivismo finanziario, esercitabili (anche) nei confronti di chi offre o svolge attività o servizi di investimento via internet: la Consob può rendere pubblica la circostanza che il soggetto opera in assenza delle dovute autorizzazioni, e può ordinare di porre termine alla violazione. Naturalmente, restano salvi i poteri/doveri della Consob di segnalare alla Procura delle Repubblica le eventuali notizie di reato. L’art. 7-novies, anch’esso introdotto in occasione del recepimento della MiFID II, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di adottare le misure in materia di capitale di cui alla Direttiva 2013/36/UE, nonché quelle di natura macro-prudenziale di cui al Regolamento (UE) n. 575/2013.

6. La vigilanza sui gruppi finanziari La materia della vigilanza si compone, oltre che delle norme generali riferite ai tre “filoni” della vigilanza stessa, di una specifica disciplina relativa alla vigilanza sui gruppi finanziari. Nell’ambito della disciplina bancaria, il Testo Unico del 1993 ha formulato, come noto, un’articolata normativa in materia di vigilanza consolidata sui gruppi bancari, a sua volta discendente dalle Direttive comunitarie in materia. Prima dell’emanazione del TUF, difettava, di contro, una disciplina della vigilanza sul gruppo finanziario non bancario: ossia di quel gruppo che non rientri nella circostanziata definizione di “gruppo bancario”, formulata dall’art. 60 TUB 18. È evidente che si trattava di una lacuna particolarmente grave, stante l’elevata complementarietà che ormai sussiste tra comparto bancario, e non bancario, del mercato finanziario, ed i rischi che, su base consolidata, possono sollevare anche gruppi finanziari che non rientrano nella tipica nozione di gruppo “bancario”. Non deve dunque stupire se, in questa materia, si riscontra nuovamente una fortissima influenza del Testo Unico Bancario sulla formulazione delle relative previsioni normative: il legislatore ha, inevitabilmente, tratto spunto dalla disciplina più articolata in materia, ossia dalla legislazione bancaria, estendendola in parte ai gruppi non bancari. 18

Ai sensi dell’art. 60 TUB, il gruppo bancario è composto alternativamente: a) dalla banca italiana capogruppo e dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate; b) dalla società finanziaria capogruppo e dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate, quando nell’ambito del gruppo abbia rilevanza la componente bancaria, secondo quanto stabilito dalla Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR.

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L’art. 11 TUF affida, innanzitutto, alla Banca d’Italia il potere di “definire” la nozione di gruppo rilevante ai fini della disciplina di cui si discute 19. Secondo il modello derivante dal TUB, il comma 1-bis (introdotto nel 2006) prevede che il gruppo, come sopra individuato, è iscritto in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia. Spetta, inoltre, alla Banca d’Italia individuare le disposizioni del TUF applicabili alle società che controllano una SIM o una SGR, secondo il modello della vigilanza bancaria consolidata. Per quanto attiene al contenuto della disciplina, la Banca d’Italia può impartire alla SIM, alla società di gestione del risparmio o alla società finanziaria posta al vertice del gruppo, disposizioni riferite al complesso dei soggetti facenti parte del gruppo stesso (cfr. la previsione dell’art. 61 TUB). Sempre modellata sulla disciplina del TUB, è l’ulteriore previsione (art. 12, comma 2) in base alla quale la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, emana disposizioni alle componenti del gruppo per l’esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia; gli amministratori delle società del gruppo sono tenuti a fornire ogni dato e informazione per l’emanazione delle disposizioni e la necessaria collaborazione per il rispetto delle norme sulla vigilanza consolidata 20. La previsione dell’art. 12 va, evidentemente, coordinata con la disciplina societaria di diritto comune e, in particolare, con le norme in materia di direzione e coordinamento di società, formulate dagli artt. 2497 ss. c.c. Innanzitutto, proprio l’introduzione, nel sistema legislativo italiano, di una disciplina generale relativa all’attività di direzione e coordinamento di società elimina in radice ogni difficoltà di inquadramento della disposizione di cui si discute. In precedenza, la disciplina del “gruppo” finanziario (introdotta per la prima volta nell’ambito del TUB) aveva, invece, posto difficoltà di inquadramento, in particolare per quanto attiene al riconoscimento, in capo alla società capogruppo, del potere di impartire ordini, istruzioni, disposizioni alle società controllate (ossia, di fatto, di un potere di direzione e coordinamento). In particolare, prima della riforma del diritto societario, la disciplina del gruppo finanziario poteva, almeno in apparenza, presentare profili di contrasto con il diritto societario comune, là dove essa sembrava voler sancire, e legittimare, un potere di direzione della società controllante nei confronti delle società controllate, incompatibile con la visione tipicamente atomistica del fenomeno societario che si ricavava dalla disciplina generale. La questione – quantomeno in questi termini – non ha, ormai, evidentemente più ragione di porsi, posto che tale potere è espressamente riconosciuto dalla disciplina di cui agli artt. 2497 ss. c.c. Al con19

V. in argomento, ZUCCHELLI (1998); MASTRANGELO (1998); CINQUE e TRIFILIDIS (1998); SANTAGATA (2002-II). 20 Per un raffronto tra la disciplina in commento e quella prevista per i gruppi bancari v. ZUCCHELLI (1998).

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tempo, tuttavia, risulta ormai chiaro che – proprio in virtù delle norme generali – l’attività di direzione e coordinamento non può svolgersi in danno delle società controllate: è proprio l’art. 2497 che introduce, al riguardo, una responsabilità per i danni arrecati ai soci minoritari e ai creditori del gruppo in dipendenza di un esercizio non fisiologico dell’attività di direzione e coordinamento. In questo profilo si individua dunque un punto di equilibrio tra le esigenze di centralizzazione del potere della capogruppo, finalizzato al rispetto delle istruzioni emanate dalla Banca d’Italia, e l’autonomia propria delle società controllate. Si deve, dunque, concludere nel senso che il potere riconosciuto alla capogruppo dalle norme di cui si discute può, ora, anche inquadrarsi negli schemi disciplinati dagli artt. 2497 ss. c.c.: resta, però, il fatto che il TUF si occupa non in generale dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, ma del più limitato esercizio di tale potere per il perseguimento di finalità di vigilanza prudenziale 21. In altri termini, il disposto dell’art. 12 esaurisce la propria funzione nell’obiettivo di assicurare che la direzione della capogruppo sulle società controllate venga finalizzata ad assicurare il rispetto delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia, nelle materie di competenza di quest’ultima, lasciando ferma, quanto al resto, l’applicazione della disciplina (di diritto comune) dell’attività di direzione e coordinamento 22. Sempre in base all’art. 12: – la Banca d’Italia e la Consob possono chiedere, nell’ambito delle rispettive competenze, ai soggetti facenti parte del gruppo, la trasmissione, anche periodica, di dati e informazioni; – la Banca d’Italia può impartire disposizioni, ai fini della vigilanza su base consolidata, nei confronti di tutti i soggetti inclusi nel gruppo; – la Banca d’Italia e la Consob possono, nell’ambito delle rispettive competenze, effettuare ispezioni presso i soggetti appartenenti al gruppo o presso soggetti ai quali siano state esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti.

7. La revisione legale Nella prospettiva del rafforzamento dei meccanismi di vigilanza e di controllo sugli intermediari autorizzati ai sensi del TUF, è previsto l’assoggettamento 21

V. FERRO-LUZZI e MARCHETTI (1994); CAMPOBASSO (1995). Un profilo che non è opportuno approfondire in questa sede è, peraltro, quello dell’individuazione della nozione di gruppo ex art. 12 TUF, e il “perimetro” dei soggetti che esercitano, e sono sottoposti, all’attività di direzione e coordinamento in base agli artt. 2497 ss. c.c. I due ambiti, infatti, non necessariamente coincidono, il che può creare qualche problema di “disallineamento” tra disciplina speciale, e disciplina generale. 22

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degli stessi alla disciplina della revisione legale (art. 9 TUF nonché art. 16 D.Lgs. n. 39/2010). L’applicazione della disciplina della revisione legale – operata mediante rinvio all’art. 159, comma 1, TUF – si mostra, innanzitutto, funzionale all’efficace perseguimento degli obiettivi della vigilanza informativa, il cui presupposto è, inevitabilmente, rappresentato dalla disponibilità di dati “attendibili”. Inoltre, l’assoggettamento degli intermediari alla revisione legale si risolve in un’accentuazione del livello di trasparenza e affidabilità delle informazioni contabili anche nei confronti dei terzi, e, pertanto, si pone in una più generale prospettiva di rafforzamento della trasparenza dei mercati, e di tutela degli investitori.

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CAPITOLO IV LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. ESPONENTI AZIENDALI, ASSETTI PROPRIETARI E CORPORATE GOVERNANCE SOMMARIO: 1. I requisiti degli esponenti aziendali. – 2. I requisiti dei partecipanti al capitale. – 3. I “momenti” di valutazione dei requisiti. – 4. Il potere di richiesta di informazioni ai soci. – 5. La governance degli intermediari.

1. I requisiti degli esponenti aziendali Lo svolgimento di attività finanziarie in generale, e di quelle nel comparto mobiliare, richiede – proprio per i rilevanti interessi da tutelare – una preventiva valutazione della “idoneità” dei soggetti che intendono operare, che coinvolge, tra gli altri, profili attinenti la “struttura” stessa dei soggetti. In particolare, è ormai da tempo convinzione diffusa che chi intende svolgere servizi finanziari debba possedere, innanzitutto, requisiti di “onorabilità” e di “professionalità”: i primi servono ad evitare che sul mercato mobiliare operino soggetti che abbiano, ad esempio, determinati precedenti penali, o che sono stati coinvolti in situazioni che ne mettono ragionevolmente in dubbio la stessa “affidabilità”; i secondi, sono necessari al fine di assicurare che lo svolgimento delle attività sul mercato finanziario avvenga da parte di persone competenti, professionalmente preparate e in grado, almeno potenzialmente, di assolvere i delicati compiti che spettano agli esponenti aziendali degli intermediari vigilati 1. Tradizionalmente, l’impostazione di fondo – che discende dalle Direttive europee – è stata dunque nel senso di richiedere, come condizione stessa per l’accesso al mercato da parte degli intermediari, requisiti di professionalità, onorabilità per gli esponenti aziendali, ma anche per i soci che detengano partecipazioni “rilevanti” al capitale dell’intermediario. Inoltre, gli esponenti aziendali devono essere (almeno in parte) in possesso anche di requisiti di indipen1

V. CERA (1997); COSTI (2006); COSTI (2007).

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denza, al fine – evidentemente – di ridurre il rischio di conflitti di interessi, e di migliorare le garanzie a che la prestazione dei servizi avvenga nel miglior interesse degli investitori. Le più recenti evoluzioni della disciplina comunitaria, sviluppatesi nell’ambito, innanzitutto, della disciplina bancaria e poi estese anche agli altri intermediari, hanno ulteriormente ampliato i presidi previsti, anche sulla scorta dell’infittirsi delle iniziative dei legislatori sul fronte della corporate governance dei soggetti che operano nel mercato dei capitali. Per effetto, in particolare, del recepimento in Italia della Direttiva CRD IV (D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72), il TUF è stato conseguentemente modificato, al fine di prevedere, in capo ai soggetti interessati, il possesso di requisiti ulteriori rispetto a quelli tradizionalmente previsti: la disciplina è venuta, così, stratificandosi in un articolato di previsioni, che vengono a volte riassunte con l’espressione del c.d. “fit and proper test”. Più precisamente, in base all’art. 13 TUF, gli esponenti aziendali devono essere “idonei” allo svolgimento dell’incarico. Questa nozione di “idoneità” si declina nel possesso – oltre che dei tradizionali requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza – anche di requisiti che soddisfano “criteri di competenza e correttezza”, nonché nel dovere di dedicare “il tempo necessario all’efficace espletamento dell’incarico”. L’art. 13 TUF non stabilisce direttamente i requisiti di cui si discute, ma affida il relativo compito al Ministro dell’economia e delle finanze 2. Vengono, tuttavia, posti alcuni punti fermi, ai quali la disciplina secondaria dovrà attenersi, tenuto conto, naturalmente, delle indicazioni che emergono in sede sovrannazionale – in particolare – in seno alle Autorità europee e alla BCE 3. In particolare, i requisiti di professionalità e indipendenza devono essere graduati secondo principi di proporzionalità, al fine di tener conto – ad esempio – delle dimensioni, o della complessità operativa dell’intermediario. I criteri di competenza, dovranno essere “coerenti con la carica da ricoprire e con le caratteristiche del soggetto abilitato”; la composizione dell’organo dovrà risultare “adeguata”. I criteri di correttezza dovranno riguardare, tra l’altro, le relazioni d’affari dell’esponente, le condotte tenute con l’autorità di vigilanza, e ad eventuali sanzioni o misure correttive da queste irrogate; andranno altresì considerati eventuali provvedi-

2

Le previsioni dell’art. 13 TUF riprendono pressoché integralmente il disposto dell’art. 26 TUB, a riprova, ancora una volta, della tendenza a dar vita ad un nucleo centrale di disciplina degli intermediari finanziari che travalichi la stessa distinzione tra banche, da un lato, ed intermediari non bancari, dall’altro. 3 Si ha riguardo, in particolare, alle Joint ESMA and EBA Guidelines on the assessment of the suitability of members of the management body and key function holders under Directive 2013/36/EU and Directive 2014/65/EU, pubblicate in data 26 settembre 2017. Per le banche, si vedano le linee guida emanate dalla BCE, Guide to fit and proper assessments, maggio 2017.

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menti restrittivi inerenti ad attività professionali svolte, nonché “ogni altro elemento suscettibile di incidere sulla correttezza dell’esponente”. Al fine di garantire adeguata disponibilità di tempo, il Ministro dovrà stabilire (similarmente a quanto da tempo si richiede per gli emittenti quotati) limiti al cumulo di incarichi, sempre graduati in base a principi di proporzionalità 4. Inoltre, il Regolamento del Ministro può estendere il possesso dei requisiti anche ai responsabili delle principali funzioni aziendali nei soggetti di maggior rilevanza. È importante osservare che la norma primaria, comunque, non fornisce indicazioni puntuali per quanto attiene al contenuto della disciplina secondaria: si tratta, dunque, di una delega piuttosto ampia. Al momento in cui scriviamo, il Ministro non ha ancora provveduto ad emanare il Regolamento di attuazione dell’art. 13 TUF, come modificato, da ultimo, a seguito del recepimento della CRD IV: trova dunque ancora applicazione il decreto emanato originariamente in attuazione del TUF del 1998, che si limita a disporre requisiti di professionalità e onorabilità; gli altri requisiti (tra cui quelli di indipendenza introdotti addirittura nel 2004!) 5 non sono, dunque, ancora stati definiti 6. Un nuovo provvedimento è, tuttavia, stato da poco posto in consultazione per le banche (dal quale si ricavano possibili indicazioni anche per gli intermediari TUF), e sono state da poco pubblicate le linee guida EBA-ESMA su questa materia, alle quali le Autorità nazionali devono attenersi, e dovrebbe vedere la luce a breve 7. Le linee di fondo riguardano la declinazione dei requisiti di professionalità e requisiti di onorabilità. I primi sono essenzialmente riferiti all’esperienza maturata dagli esponenti nel settore finanziario o nello svolgimento di mansioni direttive nell’ambito di imprese; i requisiti non sono identici per tutti gli esponenti aziendali, in quanto per la carica di Presidente del consiglio di amministrazione, di amministratore delegato e di direttore generale sono, in genere, previsti requisiti più stringenti di quanto richiesto per gli altri esponenti. I requisiti di onorabilità consistono, invece, nell’insussistenza di condanne penali per 4 Per ora, i requisiti di correttezza e i limiti al cumulo sono riferiti agli esponenti delle SIM: per quanto riguarda, infatti, SGR, SICAV e SICAF, la normativa comunitaria è in fase di evoluzione. 5 Dall’art. 13 TUF si ricava che i requisiti di indipendenza sono operativi a diversi livelli: da un lato, quelli stabiliti dal Ministro dell’economia e delle finanze; dall’altro, quelli (autonomamente) stabiliti a livello statutario da ciascuna società o discendenti da norme di legge (codice civile, leggi speciali). 6 Vedi il D.M. 11 novembre 1998, n. 468, recante “norme per l’individuazione dei requisiti di professionalità e onorabilità dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso SIM, società di gestione del risparmio e SICAV”. 7 http://www.dt.tesoro.it/it/consultazioni_pubbliche/consultazione_schema_decreto_010 82017.html. Le linee guida EBA-ESMA sono disponibili all’indirizzo https://www.esma.eu ropa.eu/document/joint-esma-and-eba-guidelines-assessment-suitability-members-management -body-and-key-0.

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taluni reati, ovvero nel non trovarsi in condizioni di ineleggibilità o decadenza ai sensi dell’art. 2382 c.c. I requisiti di “competenza” e di “correttezza” attengono, invece, a profili diversi, che possono includere anche questioni che attengono alle vicende professionali (e personali) dei singoli, alla loro correttezza nei rapporti economici, al fatto di aver subito, in passato, sanzioni amministrative da parte di Autorità di vigilanza. Questi requisiti sono, in genere, dotati – anche nelle Linee Guida EBA-ESMA – di una certa flessibilità, nel senso che il verificarsi di un fatto potenzialmente pregiudizievole per il “curriculum” dell’esponente (ad esempio, l’aver subito una sanzione amministrativa) non è di per sé ostativo all’assunzione della carica. Si tratta, piuttosto, di un elemento da valutare caso per caso, tenuto conto della gravità del fatto, della sua risalenza nel tempo, e del complesso delle circostanze. La valutazione di questi profili è rimessa allo stesso intermediario, in particolare al Consiglio di amministrazione o all’organo che, negli altri sistemi previsti dal codice civile, svolge le funzioni corrispondenti. La disciplina dei requisiti mostra una chiara fase espansiva. Le linee guida emanate dalle Autorità europee, e anche il Decreto in fase di consultazione, richiedono, ad esempio, che la valutazione del “fit and proper test” sia svolta anche con riguardo all’organo collegiale nel suo complesso, avuto riguardo, in particolare, alla composizione dello stesso e a come si articolano, al suo interno, i profili dei singoli soggetti che ne fanno parte. Sono poi previsti (cfr. art. 13, comma 4, TUF) requisiti di “idoneità” anche da parte dei soggetti responsabili delle principali funzioni aziendali, nei soggetti di maggiore rilevanza. Le conseguenze del difetto dei requisiti sono diverse a seconda che tale circostanza si presenti inizialmente, in sede di rilascio dell’autorizzazione, ovvero successivamente. Nel primo caso, la carenza dei requisiti funge da ostacolo al rilascio dell’autorizzazione; nel secondo, essa incide sulla prosecuzione del rapporto del soggetto interessato con l’ente, determinandone la decadenza, la sospensione o, anche, la rimozione da parte della stessa Autorità di vigilanza, qualora necessario per assicurare la sana e prudente gestione.

2. I requisiti dei partecipanti al capitale Considerazioni non dissimili a quelle testé svolte con riferimento alla materia degli esponenti aziendali, valgono per quanto attiene alla disciplina dei requisiti previsti per i partecipanti al capitale degli intermediari abilitati. Anche in questo caso, infatti, la disciplina è di fonte comunitaria, e vi è un ampio rinvio alla disciplina regolamentare, la cui emanazione è affidata al Ministro dell’economia e delle finanze, secondo una norma la cui formulazione riprende nuovamente l’a-

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naloga previsione contenuta nel Testo Unico Bancario (art. 25 TUB) 8. Analogamente a quanto previsto per gli esponenti aziendali i requisiti previsti per i partecipanti al capitale sono di onorabilità, competenza e correttezza, mentre non compare il riferimento a criteri di “professionalità”. La diversa impostazione si giustifica in virtù del diverso rilievo che il possesso di requisiti di professionalità ha per quanto attiene agli esponenti aziendali, rispetto ai soci pur titolari di partecipazioni di rilievo al capitale dell’intermediario: per i primi, infatti, l’aver maturato esperienza nel settore di attività interessato rappresenta un’effettiva esigenza, a tutela della sana e prudente e gestione dell’intermediario e, dunque, degli investitori. Per i partecipanti al capitale, di contro, tale esigenza non si pone, in quanto ad essi non spetta direttamente la gestione dell’impresa 9. Tuttavia, il riferimento alla “competenza” in capo ai partecipanti in qualche modo riavvicina le due impostazioni e, seppure non si traduca in veri e propri requisiti di professionalità, lascia chiaramente intendere che, per i soci – quantomeno quelli più rilevanti – rilevano anche l’esperienza e le conoscenze maturate in campo finanziario: in tal senso, l’art. 14, comma 2, lett. b) prevede che il Regolamento ministeriale debba stabilire “criteri di competenza, graduati in relazione all’influenza sulla gestione della società che il titolare della partecipazione può esercitare”.

3. I “momenti” di valutazione dei requisiti Come già per le banche, anche per gli intermediari disciplinati dal TUF il possesso dei requisiti di onorabilità in capo ai partecipanti “di riferimento” assume rilevanza in relazione a tre diversi momenti: il rilascio dell’autorizzazione, l’acquisto di partecipazioni nel soggetto, e la “vita normale” di quest’ultimo. Per quanto attiene al momento autorizzativo, la disciplina è da intendere nel senso che la mancanza dei requisiti funge, come già per gli esponenti aziendali, da causa che osta al rilascio dell’autorizzazione. Per quanto attiene all’acquisto di partecipazioni (rappresentate da azioni o strumenti finanziari) da parte di un soggetto già abilitato, la mancanza dei requisiti funge da causa ostativa all’acquisto stesso. Infine, per quanto attiene al venir meno dei requisiti in capo ad un soggetto partecipante già autorizzato, trova comunque applicazione il disposto generale dell’art. 14, commi 5 e 6 TUF, che riguarda il caso dell’esercizio dei diritti amministrativi da parte di un soggetto non in possesso dei requisiti richiesti. In particolare, è stabilito che “qualora non siano soddi8

La relativa disciplina, a tutt’oggi, è ancora formulata nel D.M. 11 novembre 1998, n. 469 da leggersi, però, avendo riguardo, per le SIM, al “pacchetto” MiFID II e, in particolare, al Regolamento delegato (UE) 2017/1946 della Commissione dell’11 luglio 2017. 9 V. su questa materia MAGGIOLO (2012), p. 19 ss.

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sfatti i requisiti e i criteri di cui ai commi 1 e 2 non possono essere esercitati i diritti di voto e gli altri diritti che consentono di influire sulla società, inerenti alle partecipazioni eccedenti le soglie previste dall’art. 15, comma 1”. In caso di inosservanza del divieto, la deliberazione o il diverso atto, adottati con il voto o, comunque, il contributo determinanti delle partecipazioni non conformi sono impugnabili secondo le previsioni del codice civile. Le partecipazioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione della relativa assemblea. Ai sensi del successivo comma 7, l’impugnazione della delibera può essere proposta anche dalla Banca d’Italia o dalla Consob. Un problema che si pone con riferimento all’applicazione di tale norma riguarda la sua idoneità ad incidere sulle modalità di svolgimento del procedimento assembleare. La soluzione preferibile è nel senso che l’accertamento dei requisiti di onorabilità dei partecipanti al capitale rientri nei compiti del presidente dell’assemblea, il quale è chiamato a darne conto nel corso della riunione, con dichiarazione risultante dal verbale. Tale soluzione discende, inevitabilmente, dalla posizione che si intende adottare con riferimento alla discussa questione dei poteri spettanti al presidente dell’assemblea. Sebbene non vi sia unanimità di vedute al riguardo, sembra, infatti, da preferire la tesi che riconosce al presidente dell’assemblea poteri tanto ordinatori, quanto decisori e, in tale ambito, anche poteri volti a garantire il rispetto delle norme di legge che presiedono alla costituzione e al funzionamento delle assemblee. In effetti, la verifica circa la legittimazione al voto da parte dei soggetti partecipanti risponde anche all’interesse della stessa società a che le delibere adottate non risultino viziate e, in tale prospettiva, sembra ragionevole concludere che il relativo accertamento rientri tra i poteri del presidente dell’assemblea 10. I requisiti richiesti si applicano ai titolari di partecipazioni superiori alle soglie individuate dall’art. 15, comma 1, e segnatamente alle partecipazioni di controllo, o che consentano di esercitare un’influenza notevole, o che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale superiore al 10%. La comunicazione è dovuta anche in caso di superamento (o riduzione al di sotto) delle soglie del 20%, 30% o 50%, o comunque quando vi è variazione del controllo (cfr., comunque, il potere spettante alla Banca d’Italia in merito ai criteri per il computo delle soglie, ai sensi dell’art. 15, comma 5). L’accertamento dei requisiti in capo ai partecipanti al capitale dell’intermediario viene effettuato, come già detto, inizialmente in sede di rilascio dell’au10 È dunque condivisibile l’impostazione adottata dall’art. 3, comma 1, D.M. n. 469/1998, in base al quale “spetta al presidente dell’assemblea dei soci, in relazione ai suoi compiti di verifica della regolare costituzione dell’assemblea e della legittimazione dei soci, ammettere o non ammettere al voto i soggetti che, sulla base delle informazioni disponibili, sono tenuti a comprovare il possesso del requisito di onorabilità”.

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torizzazione, a cura dell’Autorità competente: per le SIM, si tratta della Consob, per le SGR, le SICAV e le SICAF la verifica spetta alla Banca d’Italia. Tale accertamento viene peraltro effettuato anche successivamente, nell’ambito dell’articolato iter previsto in ipotesi di acquisizione, da parte di un soggetto, di una partecipazione “rilevante” al capitale dell’intermediario; fattispecie, quest’ultima, per la quale il TUF detta precise disposizioni, in conformità a quanto stabilito dalle Direttive europee, volte ad accertare la più generale idoneità del soggetto acquirente ad assicurare condizioni di sana e prudente gestione dell’intermediario. Più precisamente, in base all’art. 15 TUF (come novellato dal D.Lgs. n. 21/2010) chiunque, a qualsiasi titolo, intenda acquisire o cedere in una SIM, SGR, SICAV o SICAF, una partecipazione “rilevante” deve darne preventiva comunicazione alla Banca d’Italia. L’obbligo di comunicazione è funzionale alla valutazione che l’Autorità di vigilanza deve compiere in merito alla possibilità di acquisire la partecipazione. L’art. 15, comma 2 individua i criteri che presiedono a tale giudizio: essi si appuntano, in particolare, sulla idoneità del soggetto acquirente a garantire condizioni di “sana e prudente gestione”, nonché sulla “qualità” del potenziale acquirente e sulla “solidità del progetto di acquisizione”. La riformulazione dell’art. 15, ad opera dei più recenti provvedimento, ha comportato la definizione di particolari profili che la Banca d’Italia prende in esame, e segnatamente: – la reputazione del potenziale acquirente, ai sensi dell’art. 14 TUF; – l’idoneità di coloro che svolgeranno, ad esito dell’acquisizione, funzioni di amministrazione, direzione e controllo; – la solidità finanziaria dell’acquirente; – la capacità dell’intermediario di rispettare la disciplina di settore, successivamente all’acquisizione; – la struttura del gruppo del potenziale acquirente, che deve consentire l’efficace esercizio della vigilanza; – l’assenza di fondato sospetto che l’acquisizione sia connessa a fenomeni di riciclaggio di finanziamento del terrorismo. La violazione degli obblighi di comunicazione incide, analogamente a quanto si è visto per i requisiti di onorabilità previsti per i partecipanti al capitale, sull’esercizio dei diritti spettanti ai partecipanti: è dunque stabilito che il diritto di voto e gli altri diritti che consentono di influire sulla società, inerenti alle partecipazioni eccedenti le soglie stabilite ai sensi dell’art. 15, non possono essere esercitati, se non è stata positivamente espletata la procedura prevista. La relativa delibera è annullabile se assunta con il voto determinante del soggetto delegittimato. Inoltre, la Banca d’Italia può in ogni momento sospendere il diritto di voto e gli altri diritti che consentono di influire sulla società, inerenti una partecipazione qualificata, quando l’influenza esercitata dal titolare della partecipa-

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zione possa pregiudicare la gestione sana e prudente o l’effettivo esercizio della vigilanza. Infine, per l’acquisto di partecipazioni in violazione dei limiti esaminati, la Banca d’Italia può anche imporre l’alienazione della partecipazione eccedente i limiti stabiliti in base all’art. 15. È evidente che la disciplina incide sulla formulazione dei contratti di compravendita di partecipazioni al capitale di soggetti abilitati: il trasferimento di partecipazioni rilevanti, infatti, non può realizzarsi in difetto dell’autorizzazione della Banca d’Italia. È però da escludere che l’omissione delle comunicazioni alla Banca d’Italia, o la violazione del divieto di eseguire l’operazione disposto dalla medesima Banca d’Italia, si risolvano nell’invalidità del negozio stipulato. Infatti, il legislatore ha previsto sanzioni alternative, anche sotto il profilo civilistico, che presuppongono proprio che il contratto, seppur concluso in violazione, resti valido (e v., tipicamente, la sanzione della sospensione del diritto di voto, e quella della vendita della partecipazione). Resta, peraltro, aperta la possibilità di ricorrere, a livello negoziale, a tutti gli strumenti che possono opportunamente graduare gli effetti del contratto in modo da renderne la stipulazione compatibile con il disposto dell’art. 15 TUF e, tipicamente, di sottoporre l’efficacia del contratto stesso alla condizione sospensiva dell’ottenimento dell’autorizzazione amministrativa. Di contro, non appare compatibile con la disciplina di cui si discute la sottoposizione degli effetti del contratto a condizioni di tipo risolutivo, e ciò in quanto l’art. 15 TUF richiede che le comunicazioni siano eseguite in via preventiva rispetto all’acquisto della partecipazione. In caso di condizione risolutiva, invece, il contratto produrrebbe immediatamente i propri effetti, salvo poi il loro venir meno nel caso in cui la condizione si verifichi (i.e., nel caso in cui la Banca d’Italia neghi l’autorizzazione).

4. Il potere di richiesta di informazioni ai soci Completa la disciplina degli esponenti aziendali e della partecipazione al capitale degli intermediari l’art. 17 TUF, in base al quale la Banca d’Italia e la Consob, indicando il termine per la risposta, possono richiedere: a) alle SIM, alle società di gestione del risparmio, alle SICAV ed alle SICAF, l’indicazione nominativa dei titolari delle partecipazioni secondo quanto risulta dal libro dei soci, dalle comunicazioni ricevute e da altri dati a loro disposizione; b) alle società e agli enti di qualsiasi natura che partecipano nei soggetti sopra indicati, l’indicazione nominativa dei titolari delle partecipazioni secondo quanto risulta dal libro dei soci, dalle comunicazioni ricevute e da altri dati a loro disposizione; c) agli amministratori delle società e degli enti che partecipano al capitale

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delle SIM, delle società di gestione del risparmio, delle SICAV e delle SICAF, l’indicazione dei soggetti controllanti; d) alle società fiduciarie che abbiano intestato a proprio nome partecipazioni, le generalità dei fiducianti. La norma riecheggia regole già previste, anche precedentemente al TUF, nell’ambito della disciplina delle partecipazioni al capitale delle società quotate 11. La finalità perseguita è essenzialmente quella di assicurare trasparenza degli assetti proprietari, attraverso il riconoscimento alle Autorità di vigilanza del potere di richiedere apposite informazioni ai soggetti che partecipano, direttamente o indirettamente, al capitale degli intermediari. Si osservi che l’esercizio del potere non è, in questo caso, subordinato al possesso, da parte del soggetto destinatario della richiesta, di determinate soglie partecipative: le Autorità possono dunque chiedere le informazioni in questione indipendentemente dalla soglia di partecipazione al capitale.

5. La governance degli intermediari L’evoluzione nel tempo della disciplina europea ha inciso, ormai da tempo, sulle regole in tema di corporate governance degli intermediari vigilati. Il dibattito sulla governance degli intermediari ha interessato, storicamente, dapprima le banche, e poi si è esteso alle altre categorie di intermediari, soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria, che ha posto in luce varie falle nel sistema di governo societario degli intermediari (v. in proposito il rapporto de Larosière). Nell’ambito degli intermediari regolati dal TUF gli stimoli più importanti, con riguardo al profilo della corporate governance, sono venuti dapprima dalla MiFID, quindi dalla CRD IV e, infine, dalla Direttiva AIFM. In tale contesto, questi temi sono progressivamente entrati a far parte del corpus delle materie coperte, in particolare, dall’art. 6 TUF, in tema di poteri regolamentari. Sino al recepimento della Direttiva MiFID II si trattava di una materia rientrante nella competenza congiunta di Consob e Banca d’Italia 12. Ora, la novellata formulazione dell’art. 6, comma 1, lett. c-bis) attribuisce il potere regolamentare in questa materia alla Banca d’Italia, la quale è tenuta comunque ad acquisire l’intesa della Consob. Al momento in cui scriviamo, le nuove 11

V. CAMPOBASSO (2002-IV). Si osservi che, nell’elenco di cui al comma 2-bis, non compare espressamente il riferimento alla definizione delle regole applicabili al funzionamento dei diversi sistemi di amministrazione e controllo: tuttavia, il fondamento del potere regolamentare delle due Autorità nella materia di cui si discute può ricavarsi quantomeno dalle lett. a) (“requisiti generali di organizzazione”), e h) (“responsabilità dell’alta dirigenza”). 12

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disposizioni di attuazione di quanto precede non sono state ancora emanate, e dunque ci si deve riferire ancora al Regolamento congiunto a suo tempo emanato: stante, peraltro, l’affinità che connota, nei principi di fondo, le disposizioni di quest’ultimo con la disciplina delle banche e gli orientamenti internazionali in materia è probabile che, almeno in una fase iniziale, gli emanandi provvedimenti non si discosteranno sensibilmente dall’impostazione sin qui adottata. Secondo un’impostazione che – con le inevitabili differenze – orienta anche la governance delle banche 13, il Regolamento congiunto individua le funzioni dell’organo con compiti di supervisione strategica, quelle dell’organo con compiti di gestione e quelle dell’organo con compiti di controllo. L’individuazione procede in via analitica, e tratteggia tre ambiti diversi, nei quali gli organi a ciò proposti, diversi in base agli assetti statutari, svolgono i compiti spettanti ed operano in modo da “assicurare il bilanciamento dei poteri e un’efficace e costruttiva dialettica” (art. 7, comma 1, lett. a)). Il modello a riferimento è dunque di tipo bilanciato, e cioè un modello nel quale l’assunzione delle decisioni deriva dal saldarsi del momento strategico su quello gestionale, entrambi sottoposti alla verifica degli organi di controllo. La declinazione puntuale di questi principi risente, tuttavia, ancora molto dell’imperfetto stato evolutivo delle Direttive europee, che sono su lunghezze d’onda ancora diverse, e non perfettamente allineate: ad esempio, sebbene la MiFID e la AIFMD abbiano previsto regole di corporate governance per i soggetti che rientrano nell’una o nell’altra Direttiva, nell’ambito del “sistema” AIFMD la materia è affidata in larga misura al Regolamento n. 231/2013 (quindi, a norme direttamente applicabili). Inoltre, quando le attività coperte dalla MiFID sono svolte da una banca, la disciplina in materia bancaria prevale su quella della MiFID. Sebbene, dunque, il sistema sembri convergere verso uno standard comune, sussistono ancora non poche differenze “settoriali”. Dall’individuazione delle funzioni di supervisione strategica, gestione e controllo, tuttavia, non consegue necessariamente un’analoga suddivisione della governance tra tre distinti organi aziendali: il Regolamento precisa, infatti, che la funzione di supervisione strategica e quella di gestione attengono, unitariamente, alla gestione dell’impresa e possono quindi essere incardinate nello stesso organo aziendale (ovviamente, è da intendersi, nel caso in cui il sistema di amministrazione e controllo adottato lo preveda). Inoltre, nei sistemi dualistico e monistico, in conformità delle disposizioni legislative, l’organo con funzio13 V. il Provvedimento della Banca d’Italia 6 maggio 2014, recante aggiornamento della Circolare n. 285, nel quale la vigilanza propugna una spiccata separazione tra compiti di controllo ed amministrazione, con riferimento a tutti i tre modelli previsti dalla disciplina societaria e, in particolar modo, con riguardo al modello dualistico, adottato da alcuni dei principali gruppi bancari. Sull’ampio dibattito storicamente connesso con questi temi si vedano gli ancora attuali contributi in CERA-PRESTI (2007).

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ne di controllo può svolgere anche quella di supervisione strategica (art. 2, comma 1, lett. p)). Strettamente connessa con il profilo della corporate governance è la materia dei sistemi di remunerazione e incentivazione. Anche questo è un tema ormai da tempo oggetto di attenzione da parte dei legislatori, che è venuto via via estendendosi – da un iniziale nucleo riferito soprattutto alle banche – anche agli intermediari regolati dal TUF. Le ragioni che, in senso lato, sottendono il pervasivo intervento in questa materia sono di vario tipo: sistemi di remunerazione non opportunamente strutturati possono, ad esempio, condurre l’intermediario ad assumere rischi eccessivi, o a perseguire obiettivi di breve periodo, trascurando la stabilità di medio-lungo termine del soggetto. Ulteriori rischi si annidano nel potenziale conflitto di interessi di cui può essere foriero un sistema di remunerazione non correttamente calibrato, e nel disallineamento tra interessi del management e interessi degli investitori. La materia è modellata sulla base di regole che derivano, per le SIM, dalla disciplina delle banche (la CRD IV) e, per le SGR, dalla UCITS V e dalla AIFMD. Naturalmente, per le SIM, le regole dettate per le banche vanno applicate coerentemente con le loro dimensioni, caratteristiche operative, nonché avuto riguardo alla tipologia ed entità dei rischi assunti 14. Le regole più penetranti, che discendono dalla CRD IV, non si applicano agli intermediari che, su base individuale, prestano unicamente uno o più dei seguenti servizi: a) ricezione e trasmissione di ordini, o consulenza, senza detenzione di denaro o strumenti finanziari della clientela; b) servizi di investimento in strumenti derivati con sottostante non finanziario, prestati da soggetti che operano solo con clienti professionali. Le regole non si applicano a Poste Italiane, alle società di cui all’art. 106 TUB, e agli agenti di cambio. Sul piano sostanziale, la disciplina, nel complesso, tende a prevenire le possibili distonie conseguenti a sistemi di remunerazione non ben calibrati: incide, ad esempio, sui meccanismi di calcolo delle remunerazioni, potenzialmente forieri di conflitti; tende a limitare il riconoscimento di componenti variabili della remunerazione sproporzionate rispetto alla componente fissa (in particolare, ponendo un limite massimo, per il personale delle SIM, di incidenza della parte variabile, rispetto a quella fissa, pari a 1:1, elevabile in talune circostanze a 2:1); impone sistemi di scaglionamento, nel tempo, del pagamento della componente variabile; richiede la previsione di meccanismi di “malus” e di “claw back”, ossia di previsioni che, al verificarsi di determinati eventi, consentano all’intermediario di non erogare una parte della remunerazione variabile già riconosciuta, ovvero di richiedere la restituzione di quanto già erogato. Principi analoghi, ma meno rigidi, si applicano ai gestori collettivi, sebbene siano mantenuti fermi i principi di fondo di proporzionalità, di correzione del14

V., per alcuni principi generali in materia, l’art. 27 del Regolamento n. 565/2017.

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la remunerazione per il rischio, di meccanismi di malus e claw back. L’art. 6, comma 2-octies, fulmina con la nullità “qualunque patto o clausola non conforme alle disposizioni in materia di sistemi di remunerazione”, prevedendo altresì che le clausole nulle sono sostituite di diritto, ove possibile, con i parametri indicati nelle disposizioni suddette “nei valori più prossimi alla pattuizione originaria”. Questa previsione conferma che la materia delle remunerazioni – anche per l’intenso dibattito che, in argomento, si è sviluppato nel contesto della crisi finanziaria – ha acquisito uno status in qualche modo particolare, dotato di notevole forza precettiva. Oltre al rilievo imperativo che assumono le disposizioni in materia di remunerazione, avvalorato dalla sanzione espressa della nullità, il meccanismo previsto comporta, tuttavia, effetti particolari. Da un lato, infatti, la sanzione colpisce la singola clausola, essendo testualmente esclusa l’ipotesi che la nullità si estenda all’intero contratto. Dall’altro lato, le previsioni contenute nelle clausole nulle sono sostituite di diritto con i parametri indicati nelle disposizioni violate, “nei valori più prossimi alla pattuizione originaria”. La precisazione in base alla quale tale sostituzione opera, però, soltanto “ove possibile”, lascia aperta la strada ad ipotesi in cui la nullità della clausola si traduce nella completa sterilizzazione della stessa, e dei suoi effetti, là dove non sia rinvenibile, nel sistema, una previsione normativa che regoli la relativa fattispecie. In mancanza di diverse indicazioni, deve peraltro ritenersi che la nullità di cui si discute sia rilevabile anche d’ufficio, e che la stessa non sia sanabile, se non tramite il meccanismo di sostituzione di clausole testualmente previsto. Gli effetti saranno poi quelli generali e, dunque, eventuali prestazioni rese in base alla pattuizione nulla, per contrasto con la disciplina in materia di remunerazione, saranno soggette a ripetizione.

CAPITOLO V SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: NOZIONI GENERALI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La nozione di strumento finanziario. – 3. La nozione di “servizi e attività di investimento”. – 3.1. (Segue): la negoziazione per conto proprio. – 3.2. (Segue): l’esecuzione di ordini per conto dei clienti. – 3.3. (Segue): i servizi di collocamento. – 3.4. (Segue): la gestione di portafogli. – 3.5. (Segue): la ricezione e trasmissione di ordini. – 3.6. (Segue): la consulenza in materia di investimenti. – 3.7. (Segue): la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione e di sistemi organizzati di negoziazione. – 4. I servizi accessori.

1. Premessa La disciplina dei servizi e attività di investimento che oggi si rinviene nel D.Lgs. n. 58/1998 risulta dal recepimento in Italia della Direttiva 2004/39/CE e delle relative misure di secondo livello (c.d. “MiFID”), avvenuto con D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164 e, successivamente, della Direttiva 2014/65/UE (c.d. “MiFID II”), avvenuta con D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129. Si tratta, unitamente alla gestione collettiva del risparmio, di uno dei due ambiti nei quali si articola la disciplina degli intermediari nel TUF; sotto il profilo pratico, si tratta di una disciplina che investe alcune delle più importanti attività che si svolgono sul mercato finanziario, in specie per quanto riguarda l’attività di negoziazione, il collocamento di strumenti finanziari e la gestione di portafogli, nonché la consulenza in materia di investimenti, servizio cui come sarà esposto nel prosieguo il legislatore europeo e nazionale hanno attribuito crescente rilevanza nella prospettiva di rafforzare la tutela dell’investitore. L’esame della materia richiede che se ne delineino, innanzitutto, i confini, che sulla scorta della disciplina comunitaria sono da individuarsi sulla base di due specifiche nozioni: lo “strumento finanziario” e il “servizio o attività di investimento”.

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2. La nozione di strumento finanziario Lo “strumento finanziario” rappresenta il primo termine di riferimento della disciplina dei servizi di investimento: i servizi e le attività che rientrano in tale categoria, hanno, infatti, ad oggetto “strumenti finanziari”. La nozione deriva dal diritto europeo, e, quando fu introdotta, essa andò innanzitutto a sostituire la precedente nozione di “valore mobiliare” che rappresentava il termine di riferimento della disciplina delle attività di intermediazione mobiliare, introdotta in Italia con la legge n. 1/1991 1. Tra le due nozioni sussistono differenze non secondarie: il valore mobiliare era individuato sulla base di una definizione generale, al cui interno spettava poi all’interprete ricondurre le singole fattispecie 2; lo strumento finanziario è invece analiticamente individuato in base ad un elenco, che vincola maggiormente l’interprete. La definizione di valore mobiliare era, peraltro, molto ampia: se, infatti, la legge definiva il valore mobiliare come qualunque documento o qualunque certificato che fosse rappresentativo di diritti in imprese, non erano mancate interpretazioni, anche della stessa Autorità di vigilanza, volte a ravvisare la sussistenza del “valore mobiliare” indipendentemente dalla sussistenza di un qualsiasi “documento”, o di un “certificato” 3. Tali interpretazioni affermatesi soprattutto in relazione alla disciplina della sollecitazione del pubblico risparmio si giustificavano alla luce di un’applicazione “finalistica” della disciplina, che si riteneva dovesse assumere rilevanza ogni qualvolta fossero state in gioco esigenze di tutela del risparmio “diffuso”, indipendentemente dallo strumento di volta in volta concretamente utilizzato per l’attività sollecitatoria. In tale prospettiva, erano stati considerati valori mobiliari, nel vigore della disciplina precedente, anche le quote di partecipazione a società di responsabilità limitata, nonché più in generale forme di raccolta di risparmio non necessariamente rappresentate da titoli o certificati 4. 1 Come già si è avuto modo di osservare, la nozione di “valore mobiliare” aveva in realtà una portata che travalicava la sola disciplina delle attività di intermediazione mobiliare, in quanto interessava anche altri comparti della disciplina del mercato finanziario (primo fra tutti, quello della sollecitazione del pubblico risparmio). 2 V. in particolare le definizioni contenute nell’art. 1/18-bis, legge n. 216/1974 e nell’art. 1, comma 2, legge n. 1/1991. 3 Cfr. RABITTI (1992); RIGHINI (1993); SERRA (1993); RABITTI BEDOGNI (1994); CAMPOBASSO (2002); BRANCADORO (2005). Per un tentativo di inquadramento sistematico v. SALAMONE (1995). Oltre alla definizione di cui all’art. 1/18-bis da considerarsi centrale, all’interno del sistema previgente la nozione veniva poi utilizzata in modo non necessariamente coincidente in altre disposizioni normative: ad esempio, la legge sull’insider trading, la legge sulle offerte pubbliche, la legge bancaria. V. BASSO (1998). 4 FERRARINI (1993).

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A differenza del “valore mobiliare”, la nozione di strumento finanziario è “chiusa” 5, e ciò in quanto sia la Direttiva, sia il Testo Unico, formulano un elenco di strumenti, salvo quanto disposto dall’art. 18, comma 5, TUF, che riconosce al Ministro dell’economia e delle finanze il potere di integrare l’elencazione, individuando nuove categorie “al fine di tenere conto dell’evoluzione dei mercati finanziari e delle norme di adattamento stabilite dalle autorità comunitarie”. Con riferimento alle due nozioni, peraltro, con l’avvento della MiFID sembra assistersi ad una sorta di recupero della nozione di valore mobiliare, la quale figura in apertura della definizione di strumento finanziario di cui all’Allegato I, Sezione C, TUF: si tratta, tuttavia, di un semplice “escamotage” terminologico, che lascia ferma l’impostazione di fondo della disciplina secondo quanto già osservato 6. L’elencazione degli strumenti finanziari, arricchitasi sensibilmente in dipendenza della disciplina recata da MiFD e MiFID II, può essere sostanzialmente suddivisa in due gruppi: nel primo gruppo trovano collocazione le forme di investimento non costitutive di strumenti derivati; nel secondo gruppo rientrano, invece, tali ultime tipologie di strumenti. A) Strumenti finanziari diversi dai derivati Il primo gruppo di strumenti finanziari è individuato tramite due sottocategorie e una specifica tipologia di strumento, e segnatamente: a) i valori mobiliari; b) gli strumenti del mercato monetario; c) le quote di un organismo di investimento collettivo del risparmio; d) le quote di emissioni, rappresentative di unità conformi alla Direttiva 2003(87/CE). I “valori mobiliari” trovano una propria identificazione nell’art. 1, comma 1-bis, il quale li definisce come le categorie di valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali, quali ad esempio: a) le azioni di società e altri titoli equivalenti ad azioni di società, di partnership o di altri soggetti e certificati di deposito azionario 7; 5

In realtà, come sottolineano giustamente COSTI-ENRIQUES (2004), p. 38 ss., la “chiusura” dell’elencazione è più apparente che reale, e ciò in quanto le formule impiegate per definire le singole categorie sono alquanto ampie. 6 In altri termini, la nozione di “valore mobiliare” che ora figura nell’elencazione degli “strumenti finanziari” non va confusa con quella che in passato ha costituito il principale punto di riferimento dell’intera disciplina di settore. In effetti, gli attuali “valori mobiliari”, costituiscono semplicemente un sottoinsieme del più ampio insieme degli strumenti finanziari. 7 Il riferimento, nella definizione, alla “partnership” costituisce la conseguenza del fatto

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b) le obbligazioni e altri titoli di debito, comprese le ricevute di deposito relativi a tali titoli 8; c) qualsiasi altro valore mobiliare che permette di acquisire o vendere i valori mobiliari indicati nelle precedenti lettere, o che comporti un regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci o altri indici o misure. Si osservi che questa terza categoria di valore mobiliare è espressamente classificata come strumento derivato (art. 1, comma 2-ter, lett. a). Gli “strumenti del mercato monetario” sono, invece, definiti dall’art. 1, comma 1-ter: con tale termine si intendono categorie di strumenti normalmente negoziati sul mercato monetario quali, ad esempio, i buoni del Tesoro, i certificati di deposito, e le carte commerciali. Le quote di emissioni derivano, invece, dalla disciplina comunitaria attuativa degli accordi internazionali in materia di controllo delle emissioni inquinanti di gas ad effetto serra. La loro inclusione nel perimetro degli strumenti finanziari è una novità introdotta da MiFID II; in precedenza, infatti, le quote di emissioni potevano assumere rilievo, ai fini della nozione di strumento finanziario, in quanto sottostanti strumenti derivati. La novità consiste nel fatto che le quote di emissione ora rappresentano, di per sé, strumenti finanziari, anche indipendente dal loro essere impiegate come sottostante di un derivato: si tratta di un chiaro indice della progressiva tendenza della disciplina del mercato finanziario ad invadere settori, o ambiti, propri della regolamentazione non finanziaria, e che, nel caso di specie, sembra trovare la propria giustificazione nell’evoluzione che hanno conosciuto i mercati di scambio delle quote di emissioni, sviluppatasi nel contesto delle misure attuative degli accordi internazionali in materia, a partire dal protocollo di Kyoto. In sostanza, l’identificazione di questa prima famiglia di strumenti finanziari avviene a due livelli: la diretta indicazione di singole tipologie di strumenti, e il rinvio a sottocategorie (valori mobiliari e strumenti del mercato monetario) che, a loro volta, comprendono determinate tipologie di strumenti. Nel complesso, l’impostazione riflette la tendenza all’individuazione analitica delle singole tipologie di strumenti che rientrano nella definizione di strumenche il recepimento della MiFID è spesso avvenuto mediante la fedele trasposizione del testo in traduzione italiana della Direttiva: si tratta, tuttavia, di una “bizzarria” del legislatore, posto che l’ordinamento italiano non conosce tale nozione, né è dato rinvenire un criterio di collegamento con un preciso ordinamento straniero alla luce del quale ricostruirla. 8 La definizione di “ricevuta di deposito” è formulata dall’art. 1, comma 1-quater, TUF: “per ‘ricevute di deposito’ si intendono titoli negoziabili sul mercato dei capitali, rappresentanti la proprietà dei titoli di un emittente non domiciliato, ammissibili alla negoziazione in un mercato regolamentato e negoziati indipendentemente dall’emittente non domiciliato”.

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to finanziario ma va osservato come tale tendenza non si risolva nell’elaborazione di un elenco del tutto “chiuso”. In primo luogo, infatti, le singole tipologie di strumenti non sono identificate in termini tassativi: ad esempio, oltre alle azioni di società si citano gli “altri titoli equivalenti”, ed oltre alle obbligazioni si richiamano gli “altri titoli di debito”. Nell’ambito delle sottocategorie dei valori mobiliari e degli strumenti del mercato mobiliare, l’individuazione dei singoli elementi è poi espressamente indicata come “esemplificativa”, con il che si lascia spazio all’aggiunta, nel “catalogo”, di strumenti diversi da quelli espressamente indicati, purché assimilabili alle tipologie di base 9. Le ragioni che giustificano tale impostazione sono evidenti: da un lato, si vuole evitare che il mero impiego di nozioni generali generi incertezza e disallineamenti a livello comunitario (si ricordi che la MiFID vorrebbe porsi come disciplina di c.d. “massima armonizzazione”); dall’altro si vuole ridurre il rischio che l’individuazione analitica delle fattispecie non sia in grado di ricomprendere tutte le ipotesi potenzialmente rilevanti, e che sia suscettibile di rapida obsolescenza. Il tratto comune a tutte le tipologie di cui sopra può comunque essere individuato, come già nella disciplina antecedente al recepimento della MiFID, nella idoneità dello strumento a formare oggetto di “negoziazione” sul mercato dei capitali. Il requisito della negoziabilità, in effetti, viene espressamente richiamato come dato caratterizzante le due sottocategorie dei “valori mobiliari” e degli “strumenti del mercato monetario”; per le quote di organismi di investimento collettivo del risparmio il dato non è, in vero, espressamente richiamato, ma deve darsi per sottointeso: la “negoziabilità” delle quote di fondi comuni rappresenta per così dire “a monte”, un dato distintivo della disciplina ad essi applicabile, che viene giustamente dato per presupposto, o per implicito. Parimenti deve dirsi per quanto attiene alle quote di emissioni, che sono per loro stessa natura trasferibili. Ne deriva, così, che uno strumento che non sia negoziabile sul mercato dei capitali pur potendo rientrare in altre categorie (titolo di credito, di massa, prodotto finanziario, ecc.) non sarà uno strumento finanziario. Il riferimento alla “negoziabilità”, peraltro, non figura in termini identici nelle sottocategorie e nelle definizioni: per i valori mobiliari si richiede, infatti, che gli strumenti possano essere negoziati sul mercato dei capitali, mentre per gli strumenti del mercato monetario si fa riferimento al fatto che essi siano normalmente negoziati sul mercato monetario. Inoltre, nell’ambito dei valori mobiliari, si citano i titoli “normalmente negoziati” di cui alla lett. c). La differenza forse troppo sottile, e alla fine, probabilmente inutile a livello di disciplina rifletterebbe una di9 Si segnala che la legge 30 aprile 1999, n. 130, recante disposizioni per la “cartolarizzazione” dei crediti aveva già definito espressamente “strumenti finanziari” anche i titoli emessi nell’ambito delle relative operazioni.

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versa valutazione dell’idoneità del titolo ad essere oggetto di transazioni sul mercato dei capitali 10: in alcuni casi, dunque, è sufficiente l’astratta “idoneità” dello strumento ad essere negoziato; in altri casi, è necessario che tale condizione sia già presente, se non altro quale situazione “normalmente” riscontrabile. La nozione di negoziabilità, tuttavia, resta indefinita, e di non facile individuazione. È, innanzitutto, da escludere che con tale nozione ci si intenda riferire all’idoneità del titolo ad essere negoziato su mercati borsistici ufficiali o, meglio, “regolamentati”: non soltanto, infatti, la norma non fa alcun riferimento alla circostanza che lo strumento sia ammesso a quotazione su di un mercato, o abbia i requisiti per ottenere tale ammissione, ma il riferimento corre alla più ampia nozione di “mercato dei capitali”, che include ma non coincide con i mercati regolamentati. Ne deriva, pertanto, che anche gli strumenti non quotati nei mercati regolamentati possono certamente essere “strumenti finanziari”, purché “negoziabili” o “normalmente negoziati”. Lo stesso deve dirsi con riferimento ai sistemi multilaterali di negoziazione. Se ne ricava, allora, che la “negoziabilità” di uno strumento riflette, più in generale, la sua idoneità ad essere oggetto di transazioni e dunque di trasferimento sul “mercato dei capitali”; nozione, quest’ultima, a sua volta dal contenuto non individuato in via normativa, ma desunto dalla prassi, e dall’analisi economica. Poiché la nozione di “mercato dei capitali” non è definita a livello legislativo, né tale mercato risulta di per sé disciplinato, non è però richiesto che lo strumento debba potersi trasferire secondo determinate regole o procedure (che, di contro, trovano o possono trovare applicazione per le negoziazioni che si svolgono nei mercati ufficiali, o nei sistemi multilaterali): ciò che conta è che, concretamente, lo strumento sia normalmente e generalmente trasferibile, e dunque idoneo a formare oggetto di transazioni. Non sarà, dunque, sussumibile nella nozione di strumento finanziario uno strumento sottoposto a vincoli tali da renderlo inalienabile, mentre è da ritenere che la previsione di limiti al trasferimento (ad esempio: clausole di prelazione o di gradimento, riferibili alle azioni o ai titoli rappresentativi di capitale), se tali da non rendere il titolo intrasferibile (e, dunque, ai fini che qui interessano, non negoziabile) non siano di ostacolo alla qualificazione dello strumento come strumento finanziario. Nei casi dubbi, ciò che rileva, in definitiva, è la concreta valutazione di uno strumento come possibile oggetto di transazioni, secondo un giudizio essenzialmente desumibile dalla prassi dei mercati finanziari, e dalla loro realtà 11. 10 Il “mercato monetario”, che figura come riferimento della sottocategoria degli strumenti del mercato monetario, può considerarsi un sottoinsieme del più ampio mercato dei capitali. 11 In proposito, deve osservarsi che a differenza di quanto stabiliva il TUF precedentemente al recepimento della MiFID nell’elencazione degli strumenti finanziari non figurano più espressamente i cc.dd. “strumenti finanziari partecipativi”, di cui agli artt. 2346 e 2349

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B) Strumenti finanziari derivati Quanto agli strumenti finanziari qualificabili come “strumenti derivati”, si tratta di un complesso molto articolato di strumenti che, negli anni, ha subito un considerevole ampliamento. Se, in precedenza, la definizione era di fatto limitata ai derivati finanziari e ai derivati su merci, l’impostazione della MiFID è nel senso di estendere la portata della definizione sino a ricomprendere l’intera gamma degli strumenti derivati potenzialmente rinvenibili sul mercato dei capitali e che presentino determinati indici di “finanziarietà”, tali da giustificare sul piano della tutela della stabilità e del buon funzionamento del sistema finanziario l’applicazione della disciplina dei servizi di investimento. In tal senso, la lunga elencazione degli strumenti derivati può essere raggruppata in tre classi: i derivati finanziari, i derivati su merci e i derivati diversi dai due precedenti (i cc.dd. derivati “esotici”). I tratti distintivi o caratterizzanti delle singole classi possono essere enucleati dalle complesse definizioni recate dal TUF, in attuazione di MiFID II. A tal fine, è possibile distinguere alcune tipologie distinte di derivati. In primo luogo, assumono rilievo i derivati finanziari, ossia quei contratti derivati che hanno come “sottostante” attività o indicatori tipicamente finanziari, e cioè tassi di interesse, valori mobiliari, valute, indici o misure finanziarie (Allegato 1, Sezione c), punto 4) Tali contratti rientrano pacificamente nella nozione di strumento finanziario derivato, potendosi trattare di contratti standardizzati (future), di contratti swap, di contratti di opzione, o di contratti a termine. Si tratta della categoria che presenta, da sempre, le minori difficoltà di inquadramento, e che si colloca su di una linea di continuità rispetto alla disciplina antecedente alla MiFID 12. c.c. Si ritiene, tuttavia, che tali strumenti siano inclusi nella nozione di “valori mobiliari”, in quanto di volta in volta assimilabili alle tipologie ivi espressamente contemplate, in funzione delle caratteristiche e dei diritti che lo statuto dell’emittente gli attribuisce. Ovviamente, la riconducibilità di questi strumenti alla nozione delineata dal TUF dipenderà anche dalla sussistenza dell’ulteriore elemento della negoziabilità (o della loro effettiva negoziazione sui mercati). V., a conferma di quanto esposto nel testo, l’orientamento assunto dalla Consob nella Comunicazione 28 gennaio 1999, n. DIS/99006197 e nella Comunicazione 16 marzo 1999, n. 99018236. 12 V. tuttavia i criteri aggiuntivi previsti per la qualificazione di determinati contratti su valute di cui all’art. 10 del Regolamento n. 565/2017, dove si identificano gli elementi che dovrebbero escludere che gli stessi siano attratti nella nozione di strumento finanziario. In particolare, e con riguardo ai contratti a pronti (che, naturalmente, non dovrebbero essere considerati alla stregua di strumenti derivati), il par. 2 di tale articolo precisa che un contratto a pronti è un contratto per lo scambio di una valuta con un’altra secondo i cui termini la consegna è prevista entro il periodo più lungo tra i seguenti: a) 2 giorni di negoziazione per qualsiasi coppia di valute principali di cui al paragrafo 3; b) per qualsiasi coppia di valute in cui almeno una non è una valuta principale, il periodo più lungo tra 2 giorni di negoziazione e il periodo generalmente accettato nel mercato per tale coppia di valute co-

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I contratti derivati su merci rappresentano il secondo gruppo: essi hanno come sottostante “merci”: la nozione è da intendersi in senso lato, come risulta dalle disposizioni comunitarie, ed è dunque tale da ricomprendere qualsiasi bene che possa formare oggetto di scambio. I derivati su merci, tuttavia, sono considerati strumenti finanziari se presentano indici di “finanziarietà”, ossia se la funzione cui gli stessi assolvono è in prevalenza di tipo finanziario, anziché essere riferita allo scambio del bene sottostante. Le definizioni forniscono i criteri per individuare quando tale indice di finanziarietà possa dirsi effettivamente presente. In particolare: – in base al punto 5 dell’elenco, un derivato su merci viene considerato alla stregua di uno strumento finanziario quando il regolamento del contratto, alla sua scadenza, può avvenire attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione del caso in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto 13; – in base al punto 6 dell’elenco, sono considerati strumenti finanziari i derivati su merci per i quali il regolamento può avvenire attraverso la consegna del sottostante, e che sono negoziati in un mercato regolamentato o in un sistema multilaterale di negoziazione, o in un sistema organizzato di negoziazione. In questo caso, la “finanziarietà” del contratto deriva di per sé dal fatto che il contratto è negoziato su di una piattaforma di negoziazione regolata dalla disciplina MiFID, e viene fatta salva anche se il contratto prevede, in fase di regolamento, lo scambio del bene sottostante 14; me periodo di consegna standard; c) quando il contratto di cambio di tali valute è utilizzato al fine principale di vendere o acquistare un valore mobiliare o una quota di un organismo di investimento collettivo, il periodo più breve tra il periodo generalmente accettato nel mercato per il regolamento di tale valore mobiliare o quota di un organismo di investimento collettivo come periodo di consegna standard e 5 giorni lavorativi. Inoltre, un contratto non è considerato un contratto a pronti quando, indipendentemente dai suoi termini espliciti, le parti hanno convenuto che la consegna della valuta sia posticipata e non sia effettuata entro il periodo stabilito secondo quanto precede. Ai fini del paragrafo 2 sono comprese tra le valute principali solamente il dollaro USA, l’euro, lo yen giapponese, la sterlina britannica, il dollaro australiano, il franco svizzero, il dollaro canadese, il dollaro di Hong Kong, la corona svedese, il dollaro neozelandese, il dollaro di Singapore, la corona norvegese, il peso messicano, la kuna croata, il lev bulgaro, la corona ceca, la corona danese, il fiorino ungherese, lo zloty polacco e il leu rumeno. 13 L’esclusione si spiega con il fatto che la natura “finanziaria” o meno del contratto non può dipendere dalle vicende patologiche del rapporto. 14 All’interno di questa categoria, sussistono disposizioni particolari relative ai contratti derivati su prodotti energetici, concernenti, specificatamente, petrolio e carbone. Questi ultimi, se negoziati in un sistema organizzato di negoziazione che prevede la consegna fisica del sottostante, sono esclusi dalla definizione di strumenti derivati e, quindi, di strumenti fi-

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– sono anche strumenti finanziari i derivati su merci, che non possono essere eseguiti in modi diversi da quelli indicati al punto 6, che non hanno scopi commerciali, e che hanno le caratteristiche di altri strumenti derivati. Le caratteristiche puntuali di questi derivati sono declinate all’art. 7 del Regolamento n. 565/2017. Gli strumenti derivati “diversi” o “esotici” rappresentano, infine, l’ultima categoria di strumenti derivati. Si tratta di coacervo estremamente variegato, dai contorni non esattamente definibili, nella quale si rinvengono, potenzialmente, tutte le tipologie possibili di strumenti derivati, riferiti a attività, grandezze, parametri, diversi dalle merci e dalle attività finanziarie. Ovviamente, e a maggior ragione, per questa tipologia di strumenti derivati si pone, ancor di più di quanto non accada per i derivati su merci, l’esigenza di distinguere tra contratti “finanziari” (soggetti alla disciplina dei servizi di investimento) e contratti diversi, da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina. In tal senso, fanno dunque parte dei derivati “diversi”: – gli strumenti derivati per il trasferimento del rischio di credito 15 (punto 8); – i contratti finanziari differenziali (punto 9), indipendentemente dall’attività, parametro, indice utilizzato dalle parti quale sottostante; – i veri e propri derivati “esotici”, definiti al punto 10 dell’elenco ossia quelli che utilizzano come sottostante il variopinto catalogo derivante dalla disciplina MiFID, e cioè variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione, statistiche economiche ufficiali, il cui Regolamento avviene attraverso differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti (con esclusione dei casi di inadempimento o risoluzione) 16. nanziari: il che significa che essi sono sottratti alla disciplina dei servizi di investimento (cfr. art. 1, comma 2-ter, lett. c) e Allegato 1, Sezione C, punto 6). L’identificazione di questo requisito non è però agevole, e in merito ad esso l’art. 5 del Regolamento n. 565/2017 fornisce indicazioni puntuali, anche allo scopo di evitare elusioni della disciplina dei servizi di investimento. L’art. 6 del Regolamento, invece, definisce cosa si intende per “petrolio” e “carbone”. 15 Si tratta dei cc.dd. “credit derivatives” che, già prima della MiFID, erano stati attratti nella disciplina del TUF dal D.M. 2 marzo 2007, n. 44, emanato in base all’art. 18 del Testo Unico. 16 Per questi derivati, l’art. 8 del Regolamento n. 565/2017 stabilisce che “in aggiunta ai contratti derivati a cui è fatto esplicito riferimento all’allegato I, sezione C, punto 10, della direttiva 2014/65/UE, un contratto derivato è soggetto alle disposizioni contenute in detta sezione qualora soddisfi i criteri esposti in detta sezione e nell’articolo 7, paragrafo 3, del presente regolamento e sia relativo a uno dei seguenti elementi: a) larghezza di banda delle telecomunicazioni; b) capacità di stoccaggio di merci; c) capacità di trasmissione o trasporto relativa alle merci, sia tramite cavo, condotta o altri mezzi, ad eccezione dei diritti di trasmissione relativi alle capacità interzonali di trasmissione dell’energia elettrica ove siano, nel mercato primario, sottoscritti con o da un gestore di un sistema di trasmissione o da qual-

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È opportuno osservare che, anche con riguardo a questa categoria di strumenti derivati, la “finanziarietà” del contratto deriva dal fatto che il contratto sia negoziato su una delle trading venues riconosciute.. Dall’esame di cui sopra sembra, in definitiva, possibile ricavare due linee di tendenza. La prima agisce in senso centrifugo, ossia nel senso dell’espansione “a dismisura” della nozione di strumento derivato, che risulta chiaramente svincolata dal riferimento a specifiche attività, beni, grandezze di riferimento (emblematica, in proposito, la definizione di cui alla lett. j) dell’elenco). La seconda opera in senso centripeto, in quanto ridimensiona la portata della definizione, escludendo dall’ambito di applicazione della disciplina quei contratti che non si possono ritenere “finanziari”, giacché sono volti essenzialmente al perseguimento di scopi diversi (c.d. scopi “commerciali”). In tal senso, e in via di semplificazione, la MiFID e le definizioni che ne derivano si appuntano su alcuni dati oggettivi che, di per sé, fanno scattare la qualificazione del contratto in senso “finanziario”, come ad esempio le modalità di regolamento, e la circostanza che il contratto sia negoziato su di una trading venue riconosciuta. Dall’elencazione degli strumenti finanziari si desume che la nozione di strumento finanziario trova un limite inferiore ed un limite superiore. Il limite “inferiore” è agevolmente ricavabile dal disposto dell’art. 1, comma 2, TUF, ai sensi del quale i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari. Quanto al limite “superiore”, esso è rappresentato dalla nozione di “prodotto finanziario”, che lo stesso TUF introduce per identificare i “confini” della disciplina dell’appello al pubblico risparmio 17. Di tale ultima nozione, e della sua identificazione, tratteremo in relazione alla disciplina dell’appello al pubblico risparmio.

siasi persona agente come fornitore di servizi per conto di questi e finalizzati all’assegnazione della capacità di trasmissione; d) una quota, un credito, un permesso, un diritto o un bene analogo direttamente collegati all’approvvigionamento, alla distribuzione o al consumo di energia derivata da risorse rinnovabili, tranne il caso in cui il contratto rientri già nell’ambito di applicazione dell’allegato I, sezione C, della direttiva 2014/65/UE; e) una variabile geologica, ambientale o di altro genere, fatta eccezione del caso in cui il contratto è relativo a unità riconosciute conformi ai requisiti della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio; f) qualsiasi altro bene o diritto di natura fungibile, diverso dal diritto a ricevere un servizio, in grado di essere trasferito; g) un indice o una misura relativi al prezzo, al valore o al volume delle operazioni su qualsiasi bene, diritto, servizio o obbligazione; h) un indice o una misura basati sulla statistica attuariale”. 17 Sul rapporto tra la nozione di prodotto finanziario e l’attività bancaria v. BRESCIA MORRA (2010).

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3. La nozione di “servizi e attività di investimento” Anche la nozione di “servizi e attività di investimento” (in precedenza, soltanto “servizi di investimento”), individuata dal TUF sulla scorta della disciplina comunitaria, ha subìto ampi interventi nel tempo. Ai sensi dell’art. 1, comma 5 per servizi e attività di investimento 18 si intendono i seguenti, quando hanno per oggetto strumenti finanziari: a) negoziazione per conto proprio; b) esecuzione di ordini per conto dei clienti; c) assunzione a fermo e/o collocamento sulla base di un impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente; c-bis) collocamento senza impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente; d) gestione di portafogli; e) ricezione e trasmissione di ordini; f) consulenza in materia di investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione; g-bis) gestione di sistemi organizzati di negoziazione. Nella disciplina precedente al recepimento della prima Direttiva MiFID, l’elencazione dei servizi di investimento non era sorretta da ulteriori indicazioni volte ad individuare le caratteristiche o, meglio, la natura delle singole attività. Sotto questo profilo la disciplina dei servizi di investimento si discostava dall’impostazione che, ad esempio, si rinviene nel TUB, con riferimento alla nozione di attività bancaria, o, ancora, da quella che si rinviene nello stesso TUF per quanto attiene alla definizione del servizio di gestione collettiva del risparmio. L’assenza di una precisa definizione dei singoli servizi rappresentava un problema non soltanto teorico, ma anche pratico, in quanto ciascun servizio di investimento ha una propria disciplina, che investe sia il momento iniziale ossia quello del rilascio dell’autorizzazione al relativo svolgimento sia la fase successiva, relativa alla prestazione dell’attività. Il legislatore europeo fornisce ora una vera e propria definizione dei singoli servizi, che risulta ora recepita nei commi 5-bis e seguenti del TUF, ai quali ci si può dunque direttamente riferire per ricostruire i “contorni” delle singole attività e servizi che ricadono nell’ambito della disciplina di cui si discute 19. 18 La ragione per la quale le Direttive MiFID utilizzano anche il termine di “attività” di investimento (oltre che di “servizi” di investimento) è ravvisabile nel fatto che non tutte le attività contemplate configurano veri e propri “servizi” resi dall’intermediario a favore di un cliente o di una controparte: ad esempio, la gestione di un sistema multilaterale di negoziazione. 19 Per un quadro sistematico delle questioni interpretative evocate nel testo v. MAGGIOLO (2012), p. 222 ss.

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3.1. (Segue): la negoziazione per conto proprio Il primo servizio di investimento che figura nell’elencazione di cui al comma 5 è rappresentato dalla negoziazione per conto proprio, per tale intendendosi “l’attività di acquisto e vendita di strumenti finanziari, in contropartita diretta”. La definizione pone in luce taluni degli elementi qualificanti di tale servizio: in primo luogo, esso ha ad oggetto l’acquisto e la vendita di strumenti finanziari, e dunque si sostanzia nel compimento di operazioni sul mercato c.d. secondario. In relazione agli strumenti derivati, e stante le caratteristiche di questi ultimi, l’attività consiste nella conclusione delle relative operazioni e nella stipula dei relativi contratti con gli investitori. In secondo luogo, l’operazione ha luogo “in contropartita diretta”, ossia essa impegna o va ad incidere sul patrimonio proprio dell’intermediario, sul quale si rifletteranno anche i risultati dell’operazione stessa; in tale contesto rientra anche l’attività del c.d. “market maker” 20. Una particolare modalità di prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio è rappresentata dalla c.d. attività di “internalizzazione sistematica”. Questa è definita con riferimento alla figura dell’“internalizzatore sistematico”, individuato dal comma 5-ter nel soggetto che in modo organizzato, frequente, sistematico e sostanziale negozia per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti al di fuori di un mercato regolamentato, di un sistema multilaterale di negoziazione o di un sistema organizzato di negoziazione senza gestire un sistema multilaterale. Il modo frequente e sistematico si misura per numero di negoziazioni fuori listino (OTC) su strumenti finanziari effettuate per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti. Il modo sostanziale si misura per dimensioni delle negoziazioni OTC effettuate dal soggetto su uno specifico strumento finanziario in relazione al totale delle negoziazioni effettuate sullo strumento finanziario dal soggetto medesimo o all’interno dell’Unione Europea.

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L’art. 1, comma 5-quater, TUF, definisce il market maker come il soggetto “che si propone, nelle sedi di negoziazione e/o al di fuori delle stesse, su base continuativa, come disposta a negoziare per conto proprio acquistando e vendendo strumenti finanziari in contropartita diretta ai prezzi dalla medesima definiti”. La figura del market maker è prevista, tipicamente, su mercati poco liquidi, caratterizzati da un elevato rischio nella ricerca delle controparti, ovvero per mercati volatili, come tipicamente si verifica per i mercati di strumenti derivati. La novità introdotta dalla MiFID II consiste, comunque, nell’espresso riferimento al fatto che l’attività del market maker può svolgersi (anche) al di fuori di una sede di negoziazione (per tale intendendosi, naturalmente, un mercato regolamento, un sistema multilaterale, o un sistema organizzato di negoziazione). Sulle particolari regole che si applicano ai market maker v. il Regolamento delegato (UE) del 13 giugno 2016, n. 2017/578 che integra la Direttiva MiFID II per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione che specificano gli obblighi in materia di accordi e sistemi di market making.

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Nell’impianto complessivo della MiFID, l’internalizzazione sistematica degli ordini configura una modalità di esecuzione degli ordini aventi ad oggetto strumenti finanziari che si pone sullo stesso piano, ed in regime di concorrenza, con l’esecuzione degli ordini su mercati regolamentati o su sistemi multilaterali di negoziazione. Di per sé, lo svolgimento di tale attività non configura la prestazione di un servizio diverso dalla negoziazione in conto proprio, anche se come avremo modo di osservare comporta l’applicazione di regole specifiche, volte ad allineare il più possibile gli standard applicabili all’internalizzazione sistematica rispetto a quelli che riguardano i mercati regolamentati e i sistemi multilaterali di negoziazione (soprattutto in termini di regole di trasparenza). Proprio in virtù di tale allineamento, tuttavia, l’internalizzatore sistematico rappresenta (almeno tendenzialmente) una sede di esecuzione degli ordini (c.d. “trading venue”) alternativa rispetto ai mercati regolamentati, ai sistemi multilaterali di negoziazione e ai sistemi organizzati di negoziazione. La MiFID II ha, comunque, cambiato l’impostazione di fondo della disciplina degli internalizzatori sistematici: se, infatti, prima della nuova Direttiva, gli internalizzatori erano ricompresi nel novero delle sedi di negoziazione, tale situazione è mutata (cfr. la definizione di cui all’art. 1, comma 5-octies, lett. c). L’internalizzatore, a differenza dei mercati regolamentati, e dei sistemi multilaterali o organizzati di negoziazione, effettua le operazioni su base esclusivamente bilaterale e con mezzi propri: esso difetta, dunque, di un requisito che, invece, connota le altre sedi di negoziazione, le quali invece combinano le proposte di acquisto o di vendita che affluiscono sulle sedi medesime da terzi soggetti. La precedente definizione di internalizzatore sistematico è stata precisata con il riferimento ad indicatori quantitativi, al fine di meglio individuare quando, effettivamente, si è in presenza di tale attività: la precedente nozione di internalizzatore, basata essenzialmente su elementi qualitativi, aveva infatti dato luogo a difficoltà applicative. Al fine di valutare se un’attività è svolta in “modo frequente e sistematico”, si assumono dunque le transazioni effettuate su di un determinato strumento finanziario. Invece, al fine di valutare se l’attività è svolta in “modo sostanziale” si valutano le dimensioni delle negoziazioni svolte dall’impresa su un determinato strumento rispetto alle contrattazioni totali effettuate sul medesimo all’intero dell’Unione Europea. La specificazione puntuale di questi elementi è affidata all’elaborazione di standard tecnici, da parte dell’ESMA e della Commissione 21. Ulteriori elementi utili ad identificare il servizio di negoziazione in conto proprio emergono con riferimento ai tratti distintivi del servizio di “esecuzione di ordini per conto dei clienti”.

21

V. a riguardo gli artt. 12-16 del Regolamento n. 565/2017.

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3.2. (Segue): l’esecuzione di ordini per conto dei clienti L’attività di esecuzione di ordini per conto dei clienti è definita come quella che comporta “la conclusione di accordi di acquisto o di vendita di uno o più strumenti finanziari per conto dei clienti, compresa la conclusione di accordi per la sottoscrizione o la compravendita di strumenti finanziari emessi da un’impresa di investimento o da una banca al momento della loro emissione” (art. 1, comma 5-septies.1). Si tratta dell’attività che, nell’ambito dei servizi di investimento, mantiene i più forti legami con la tradizionale attività di compravendita di titoli (ora strumenti finanziari), svolta da un intermediario professionale su incarico di un investitore. In termini meramente descrittivi, si può affermare che l’attività di negoziazione consiste nella ricerca di una o più controparti, in vista dell’esecuzione di un’operazione di acquisto o di vendita di un determinato strumento finanziario o di un determinato quantitativo di strumenti finanziari. In tale attività, l’intermediario diversamente da quanto accade nella negoziazione in conto proprio non impegna posizioni proprie, e dunque gli effetti dell’operazione non ricadono sul suo patrimonio. Tale “descrizione” consente di ravvisare taluni elementi che aiutano a distinguere l’attività di esecuzione di ordini dagli altri servizi di investimento. Si è detto che, nel servizio di esecuzione di ordini, l’attività dell’intermediario si sostanzia nella ricerca di una o più controparti: occorre precisare che tale ricerca si svolge con tecniche che non sono quelle dell’offerta di massa, ossia dell’offerta rivolta a condizioni standard ad un pubblico indistinto. L’attività di esecuzione di ordini si distingue, sotto questo profilo, dall’attività di collocamento (anche se questa non è l’unica differenza che corre tra i due servizi): nella prestazione del servizio di collocamento, l’intermediario autorizzato formula un’offerta di vendita, o di sottoscrizione, di strumenti finanziari rivolta in massa al pubblico in generale, o, comunque, ad una cerchia ampia di soggetti, e a condizioni standardizzate, quantomeno nell’ambito del singolo gruppo di destinatari. Nel caso dell’esecuzione di ordini, invece, la ricerca della controparte avviene in relazione ad una specifica operazione di compravendita di un determinato quantitativo di strumenti finanziari. Le singole transazioni, così, si perfezionano a condizioni di prezzo e di quantità non necessariamente coincidenti (il che altro non è che la conseguenza del fatto che l’esecuzione di ordini non è, come già detto, attività di collocamento o offerta in massa di strumenti finanziari). L’attività di negoziazione non deve necessariamente svolgersi sui mercati regolamentati. Là dove ciò si verifichi, troveranno applicazione le regole che disciplinano il funzionamento di tali mercati (tipologie di ordini ammessi; modalità di trasmissione e di esecuzione degli ordini; liquidazione delle operazioni, ecc.); diversamente, l’attività di negoziazione si svolgerà sulla base degli accordi intercorsi tra le parti, fermo ovviamente il rispetto delle regole di comportamento generali e particolari dettate per la prestazione di tale servizio. È

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opportuno porre in luce che, a differenza del servizio di collocamento, il servizio di esecuzione di ordini si svolge tipicamente sul mercato secondario: esso, cioè, ha ad oggetto strumenti finanziari già emessi, e la ricerca di controparti in vista dell’acquisto o della vendita degli stessi (là dove, invece, il collocamento ha ad oggetto la vendita o la sottoscrizione di strumenti finanziari). Se quanto sopra rimane, sostanzialmente, valido anche dopo le modifiche introdotte nel TUF dal Decreto di recepimento della MiFID II, si segnala che, in base a queste ultime, si specifica che costituisce esecuzione di ordini anche la conclusione di accordi per la sottoscrizione o la compravendita di strumenti finanziari emessi da un’impresa di investimento o da un banca al momento della loro emissione. Si tratta, in realtà, di una deroga alla nozione generale giacché, in questo caso, si è chiaramente in presenza di un’operazione che può essere sia di mercato primario, sia di mercato secondario. La ratio di questa deroga si ravvisa nel fatto che le operazioni in questione erano di incerta classificazione in base alla disciplina previgente, essendo discussa la loro chiara riconducibilità al servizio di negoziazione, da un lato, o al servizio di collocamento, dall’altro. Tale incertezza mal si conciliava con la rilevanza che queste operazioni hanno sul mercato: è, infatti, tipico assistere, nella prassi, all’emissione e/o alla negoziazione di titoli emessi in proprio dall’intermediario (si pensi, ad esempio, al collocamento di obbligazioni bancarie presso la clientela delle banche emittenti). Il rischio che si perpetrasse una lacuna all’interno del sistema, con conseguenti cadute di tutela in capo ai risparmiatori, ha dunque suggerito questo ampliamento della definizione, tenuto conto anche di alcune recenti, emblematiche vicende che hanno proprio riguardato le obbligazioni (in specie, quelle c.d. “subordinate”), vendute dalle banche alla propria clientela. L’inquadramento del servizio di esecuzione di ordini nell’ambito delle tipologie contrattuali previste dal codice civile non è agevole. La questione è stata ampiamente dibattuta anche in epoca antecedente all’emanazione del TUF, con riferimento alla natura degli ordini di borsa. Al riguardo, le tesi che sono state avanzate hanno visto una continua oscillazione tra la riconduzione del rapporto allo schema del mandato e della commissione da un lato, e allo schema della mediazione dall’altro 22. È stata altresì avanzata la tesi secondo la quale l’ordine di borsa darebbe luogo ad un contratto atipico, essenzialmente regolato dagli usi di borsa e del mercato. La questione ha ora perso gran parte della sua rilevanza, stante la pervasiva disciplina che, soprattutto a livello regolamentare, investe il rapporto che intercorre tra intermediario e cliente. Appare, peraltro, indubbia l’affinità che comunque sussiste tra l’esecuzione di ordini, e lo schema del contratto di commissione, di cui all’art. 1731 c.c. 23.

22 23

Per un inquadramento del tema v. CARBONETTI (1992). CARBONETTI (1992); ENRIQUES (1998-II).

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3.3. (Segue): i servizi di collocamento L’art. 1, comma 5, TUF distingue due diversi servizi di “collocamento”. Il primo è identificato (lett. c) nella “assunzione a fermo e/o collocamento sulla base di un impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente”. Il secondo (lett. c-bis) è invece il “collocamento senza impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente”. In entrambi i casi, il servizio si può dire che si sostanzi, in senso generale, nell’offerta a terzi di strumenti finanziari. Nella prassi interpretativa della Consob, formatasi antecedentemente alla MiFID ma ancora utilizzabile, il servizio consiste, più precisamente, nell’offerta ad una cerchia di possibili investitori, di un determinato quantitativo di strumenti finanziari, sulla base di un accordo preventivo che intercorre tra l’intermediario collocatore, e il soggetto che emette (o vende) gli strumenti stessi 24. Si osservi però che tale descrizione non basta a distinguere, con sufficiente precisione, il servizio di collocamento dal già menzionato servizio di esecuzione di ordini: anche quest’ultimo, infatti, può consistere nell’“offrire” a terzi di acquistare un determinato quantitativo di strumenti finanziari, sulla base di un accordo preventivamente intercorso tra l’intermediario ed il soggetto venditore (si pensi al caso in cui un soggetto incarichi un intermediario di vendere a terzi un determinato quantitativo di strumenti finanziari). Gli elementi distintivi del servizio di collocamento rispetto al servizio di esecuzione di ordini sono piuttosto così ricostruibili: (i) il servizio di collocamento può avere ad oggetto anche la sottoscrizione, e non soltanto la vendita di strumenti finanziari (può, cioè, essere un servizio che si svolge sul c.d. “mercato primario”). Anche se questo indice interpretativo oggi è meno solido di un tempo stante quanto già osservato in merito all’evoluzione della nozione di esecuzione di ordini per conto terzi esso pare mantenere una sua generale, astratta validità; (ii) l’esecuzione di ordini può avere ad oggetto sia l’acquisto, sia la vendita di strumenti finanziari, là dove, invece, nel collocamento l’intermediario necessariamente offre all’investitore di acquistare o sottoscrivere strumenti finanziari; (iii) nel collocamento, l’offerta degli strumenti finanziari avviene a condizioni standardizzate, nell’ambito dello svolgimento di un’operazione di massa. È possibile, comunque senza contraddire questo ultimo elemento che il collocamento avvenga per tranches, e ciascuna tranche può essere riservata a talune categorie di investitori soltanto, a condizioni specifiche (ad esempio: investitori istituzionali; pubblico indistinto; dipendenti della società o del gruppo, ecc.): ma nell’ambito di ciascuna tranche l’operazione si realizzerà comunque a condizioni uniformi. Infine, pare opportuno porre in luce che il collocamento anche secondo le definizioni forni24

V. la Comunicazione Consob 9 luglio 1997, n. DAL/97006042.

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te dalla Consob presuppone la presenza di un soggetto (emittente o titolare degli strumenti finanziari) per conto del quale l’intermediario agisce: in altri termini, chi promuove, offre, ecc., gli strumenti finanziari da lui stesso emessi o di cui è titolare non svolge un servizio di collocamento. L’operazione può però rientrare come già si è visto nel servizio di esecuzione di ordini, così come può rilevare ai fini della disciplina dell’offerta al pubblico 25. Le due “forme” che può ulteriormente assumere il servizio sono riflesse, rispettivamente, nelle due distinte definizioni di cui alle lett. c) e c-bis) dell’elenco, e che derivano dalla circostanza per la quale l’intermediario può sopportare o meno e, in caso affermativo, con modalità ed intensità diverse il rischio che l’operazione non vada a buon fine. Nel caso di cui alla lett. c-bis), l’intermediario non sopporta il rischio del mancato buon fine dell’operazione; nel caso di cui alla lett. c), tale rischio, di contro, sussiste. Il fatto che l’attività svolta ricada nell’una, o nell’altra “forma” dipende dagli accordi che intervengono tra il collocatore e il soggetto che emette, o vende, gli strumenti finanziari: nel caso di collocamento senza garanzia, il rischio del mancato collocamento è sopportato integralmente dall’emittente, o dal soggetto che pone in vendita gli strumenti finanziari. Nell’ipotesi in cui il collocatore si accolli, invece, tutto o parte del rischio relativo al mancato collocamento degli strumenti finanziari possono darsi quantomeno due casi principali: in base ad un primo schema, il collocatore assume l’impegno di acquisire, al termine dell’offerta, gli strumenti finanziari non collocati; in alternativa, il collocatore acquisisce immediatamente, in tutto o in parte, gli strumenti oggetto del collocamento, assumendo conseguentemente l’impegno di offrirli a terzi (è, questo, il caso della “assunzione a fermo”) 26. Per quanto attiene alle interferenze con altre materie regolate dal TUF, è opportuno porre in luce che la realizzazione di un’operazione di collocamento non comporta necessariamente l’applicazione della disciplina dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari (v. infra): quest’ultima, infatti, avrà vocazione ad applicarsi al ricorrere dei relativi presupposti, che non sono di per sé soddisfatti dallo svolgimento di un’operazione di collocamento 27.

25

In senso conforme COSTI-ENRIQUES (2004), p. 243 ss. In dottrina, si fa giustamente rilevare come il rapporto sottostante tra emittente e intermediario influenzi inevitabilmente le modalità con le quali viene prestato il servizio di collocamento, in quanto reagisce sugli “interessi” di cui è portatore l’intermediario stesso: v. SARTORI (2004), p. 91 ss. 27 V. in argomento MOSCA (2016). 26

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3.4. (Segue): la gestione di portafogli In base alla definizione di cui al comma 5-quinquies, per gestione di portafogli si intende la gestione, su base discrezionale e individualizzata, di portafogli di investimento, che includono uno o più strumenti finanziari e nell’ambito di un mandato conferito dai clienti. Un primo dato che merita di essere segnalato nella definizione è rappresentato dall’elemento della “individualizzazione” del servizio. Si tratta di un riferimento che coglie bene un tratto caratteristico del servizio, che presuppone e si basa su di un rapporto personale tra un investitore e un intermediario; il primo affida dunque al gestore uno specifico patrimonio che resta distinto sia dal patrimonio dell’intermediario, sia da quello di eventuali altri investitori. Si osservi che non è essenziale, al fine della configurazione del servizio di gestione, che il patrimonio venga materialmente consegnato all’intermediario gestore: il patrimonio può, infatti, essere depositato presso un soggetto terzo, purché il gestore abbia il potere di movimentarlo per il compimento delle operazioni che rientrano nell’attività gestoria. È discusso se il rapporto di gestione di portafogli sia riconducibile allo schema civilistico del mandato, ovvero se si sia in presenza di un contratto tipizzato, che ricalca alcuni dei tratti propri della disciplina del mandato, senza tuttavia confondersi del tutto con quest’ultima. La tesi prevalente, e preferibile, è nel secondo senso: in effetti, nell’ambito della disciplina dei servizi di investimento, il servizio di gestione è quello che riceve la regolamentazione più analitica e pervasiva (art. 24 TUF e norme secondarie), così da caratterizzare fortemente il rapporto che ne deriva tra cliente ed intermediario. Occorre, tuttavia, porre in luce che la disciplina del mandato ha comunque vocazione ad applicarsi, se non altro per colmare le lacune della disciplina speciale, e per agevolarne l’interpretazione 28. Un secondo elemento che merita di essere segnalato nell’ambito della definizione è rappresentato dal riferimento alla “discrezionalità” del gestore. Lo svolgimento di un’attività caratterizzata da margini, talvolta assai ampi, di discrezionalità in capo all’intermediario è l’elemento che distingue maggiormente il servizio di gestione dagli altri servizi di investimento, nei quali, di contro, l’intermediario agisce sempre a seguito o in virtù di specifici ordini rilasciati dal cliente, e facendo ricorso ad una discrezionalità meramente tecnica. La discrezionalità è ora un dato qualificante della stessa definizione del servizio, con il che si escludono definitivamente dal servizio in parola le attività che di tale elemento sono prive 29. 28 29

Conforme, tra gli altri, SARTORI (2004), p. 101 s. Il riferimento corre, soprattutto, alle cc.dd. “gestioni con preventivo assenso”, ossia a

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Un altro profilo che occorre indagare nella ricostruzione dei tratti distintivi del servizio è relativo alla nozione di “portafoglio di investimento” che, ancora una volta, non trova un diretto riscontro nella legge. Si osservi, al riguardo, che il legislatore sia comunitario, sia interno non ha utilizzato, al fine di individuare il servizio di gestione, il semplice riferimento agli strumenti finanziari, preferendo utilizzare una diversa, e più ampia, espressione (portafoglio di investimenti), senza tuttavia fornirne una definizione. Sul punto, spetta pertanto nuovamente all’interprete individuare più sicuri indici. In primo luogo, appare evidente che la nozione di portafoglio di investimenti non si esaurisce in quella di strumento finanziario, giacché, se così fosse, il legislatore avrebbe statuito che l’attività di gestione ha più semplicemente ad oggetto tali strumenti (o un portafoglio di strumenti finanziari). Se ne deve dunque concludere che a differenza degli altri servizi di investimento, che possono avere ad oggetto unicamente strumenti finanziari un portafoglio di investimenti può comprendere anche beni e attività diversi dagli strumenti finanziari, e, ovviamente, dal denaro (ad esempio, valute) 30: in tal senso, la definizione si riferisce, per l’appunto, a portafogli di investimento “che includono” uno o più strumenti finanziari. Occorre, tuttavia, porre in luce che ciò non può condurre a svalutare oltre misura il riferimento alla nozione di strumento finanziario che, in realtà, caratterizza, ad un più generale livello, la nozione stessa dei serquei rapporti formalmente qualificati dalle parti come rapporti di “gestione” nei quali tuttavia il gestore, prima di poter eseguire le singole operazioni, deve ottenere il consenso dell’investitore, o essere da quest’ultimo specificamente autorizzato. In passato si è discusso se tali gestioni potessero farsi rientrare nell’ambito del servizio di gestione di portafogli. Secondo alcuni, in tale servizio risultava del tutto snaturata la natura “discrezionale”, di guisa che le gestioni con preventivo assenso avrebbero dovuto ricondursi nel novero del servizio (accessorio) di consulenza in materia di investimenti: v. ENRIQUES (1998); conforme COSTI-ENRIQUES (2004), p. 246 ss. Secondo altri, bisognava tuttavia osservare che anche nelle gestioni con preventivo assenso è pur sempre il gestore ad individuare le operazioni da eseguire, sulla base di un complesso processo decisionale che parte dall’analisi delle caratteristiche e delle esigenze del cliente, per poi includere la definizione delle strategie generali di investimento, la definizione del portafoglio-modello, e, infine, delle operazioni da compiere e/o degli strumenti da acquistare. È soltanto in quest’ultima fase che viene richiesto l’intervento del cliente, fermo restando il rilevante contributo del gestore in tutte le altre fasi del rapporto. Era, in sostanza, questa la posizione della Consob, che da sempre aveva ricondotto il servizio in questione alla vera e propria gestione di portafogli. Della questione si è poi occupata la Corte di Giustizia CE nella causa C-356/00, Testa e Lazzari c/Consob del 7 febbraio 2002, nell’ambito di una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione della Direttiva 93/22/CEE. Secondo la Corte, le gestioni con preventivo assenso esulano dalla nozione comunitaria di “gestione di portafogli”, in quanto nella Direttiva l’elemento della discrezionalità è essenziale. Con la nuova definizione, è definitivamente prevalsa la soluzione accolta dalla Corte di Giustizia. 30 Ha espresso dubbi in proposito SODA (1998). In senso opposto v., invece COSTI-ENRIQUES (2004), p. 248.

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vizi di investimento. L’espressione “portafoglio di investimento”, dunque, pur essendo più ampia di quella di “strumento finanziario”, non può condurre alla conclusione per cui il portafoglio gestito può essere composto in maniera prevalente, o addirittura esclusiva, da attività o beni che non siano strumenti finanziari. Per quanto riguarda le differenze con il servizio di gestione collettiva del risparmio, non soltanto i due servizi sono diversi sotto il profilo delle modalità di svolgimento dell’attività gestoria, ma diverse sono anche la struttura e la natura del servizio stesso. Per quanto attiene alla struttura, la gestione collettiva si caratterizza per l’intervento di tre distinti soggetti, rappresentati dall’investitore, dal gestore, e dalla banca depositaria. Diversa è anche la natura del servizio, perché, nella gestione collettiva, il gestore opera nell’interesse non del singolo investitore, ma di una massa indifferenziata di investitori, ossia dei partecipanti al fondo; è per questo motivo che, nella gestione collettiva, il singolo investitore non può ordinare o richiedere al gestore di eseguire singole operazioni su sua indicazione; diritto che, invece, gli è riconosciuto nell’ambito dell’attività di gestione individuale (art. 24, comma 1, lett. a), TUF). Ciò non toglie, tuttavia, che nella realtà il grado di “personalizzazione” del servizio di gestione possa spesso risultare alquanto ridotto: nella prassi, infatti, l’investitore sceglie di solito una “linea” di gestione, predefinita dal gestore, e pertanto viene ad essere assimilato a tutti gli altri soggetti che hanno compiuto la medesima scelta, e trattato similarmente. A ben vedere, però, tale profilo non influenza affatto la natura stessa del servizio prestato: la personalizzazione, infatti, diviene in ogni momento possibile, sol che l’investitore si avvalga della facoltà di impartire istruzioni specifiche al gestore; peraltro, tale profilo non è di per sé sufficiente a far “scolorire” il servizio di gestione individuale nel servizio di gestione collettiva, stanti le altre differenze strutturali che intercorrono tra i due 31.

3.5. (Segue): la ricezione e trasmissione di ordini Il servizio di investimento, definito alla lett. e) dell’elenco, è rappresentato dalla ricezione e trasmissione di ordini; la successiva “definizione” del comma 5-sexies lo identifica come il servizio che “comprende la ricezione e la trasmissione di ordini nonché l’attività consistente nel mettere in contatto due o più investitori, rendendo così possibile la conclusione di un’operazione tra di loro (mediazione)”. Si tratta un servizio che si colloca a “monte” dell’attività di negoziazione: l’investitore, cioè, trasmette un ordine, che l’intermediario non ese31

Cfr. SARTORI (2004), p. 99 ss.

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gue direttamente, ma ritrasmette ad un soggetto negoziatore, per la successiva esecuzione sul mercato. La concreta rilevanza di questo servizio è essenzialmente legata ai casi in cui l’intermediario intenda eseguire operazioni di titoli negoziati su mercati nei quali egli non è autorizzato ad operare: storicamente, e prima che fosse loro consentito di svolgere direttamente l’attività di negoziazione nei mercati regolamentati, i principali prestatori di questo servizio erano le banche, e soggetti operanti per conto o nell’interesse degli agenti di cambio (che la prassi denominava remisiers) 32. Il legislatore assimila, infine, al servizio di ricezione e trasmissione di ordini, il servizio di “mediazione”. L’identificazione delle caratteristiche e della natura del servizio così qualificato può muovere dalla disciplina di diritto comune di cui agli artt. 1754 ss. c.c.: la stessa definizione legislativa ricalca i tratti propri del rapporto di mediazione, quale ricavabile dalla disciplina codicistica.

3.6. (Segue): la consulenza in materia di investimenti Con il recepimento della MiFID, nel 2007, la consulenza è stata definitivamente ricompresa tra i servizi di investimento. Per l’Italia non era stata una novità assoluta: nella legge n. 1/1991 la consulenza figurava tra le attività riservate, ma la stessa era poi “scivolata” tra i servizi accessori con il recepimento della Direttiva 93/22/CEE, e con l’emanazione del TUF. Non si è trattato, tuttavia, di un mero ritorno al passato, in quanto la MiFID ridefinisce il servizio, con sensibili cambiamenti rispetto al contenuto della nozione precedentemente ricavabile dal sistema. In particolare, per consulenza in materia di investimenti si intende ora “la prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative a strumenti finanziari” (art. 1, comma 5-septies, TUF). Questa definizione va però necessariamente completata con quanto dispone il Regolamento (UE) n. 2017/565, il quale riprende pressoché tutti gli elementi che prima figuravano direttamente nella definizione del TUF. In particolare, l’art. 9 di detto Regolamento stabilisce che una raccomandazione “personalizzata” è una raccomandazione fatta ad una persona nella sua qualità di investitore o potenziale investitore o nella sua qualità di agente di un investitore o potenziale investitore. Detta raccomandazione è presentata come adatta per tale persona, o è basata sulla considerazione delle caratteristiche di tale persona, e consiste nella raccoman-

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V. PICARDI (1998); PICARDI (1998-II).

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dazione di: a) comprare, vendere, sottoscrivere, scambiare, riscattare, detenere un determinato strumento finanziario o assumere garanzie nei confronti dell’emittente rispetto a tale strumento; b) esercitare o non esercitare il diritto conferito da un determinato strumento finanziario di comprare, vendere, sottoscrivere, scambiare o riscattare uno strumento finanziario. Una raccomandazione non è considerata una raccomandazione personalizzata se è rivolta esclusivamente al pubblico 33. I tratti distintivi della complessa definizione che risulta dal combinato disposto del TUF e del Regolamento n. 565 sono, in definitiva, ancora rappresentati dalla personalizzazione della raccomandazione o del consiglio, e dalla sua natura determinata. Quanto al primo elemento, il servizio di consulenza si differenzia da altre attività o servizi che, pur sostanziandosi nel rilascio di consigli o raccomandazioni di investimento, assumono carattere di generalità: ossia, sono rivolti a più soggetti, o comunque non sono basati sulla considerazione specifica delle esigenze e delle caratteristiche di un determinato investitore. È tale, ad esempio, l’attività di ricerca in materia di investimenti, l’analisi finanziaria o altre forme di raccomandazioni generali, riguardanti operazioni in strumenti finanziari. Di contro, forme di comunicazione della raccomandazione in qualche modo personalizzate (come ad esempio la e-mail) possono costituire fattispecie rilevanti ai fini della nozione di consulenza, anche se la situazione va vagliata caso per caso 34. Quanto all’elemento della determinazione, la consulenza consiste nel rilascio di consigli specifici, ossia riferiti ad un particolare strumento finanziario: pertanto, esula dalla definizione l’attività che consiste nel rilasciare consigli e raccomandazioni relativi a categorie, gruppi o tipologie generali di strumenti finanziari o, a maggior ragione, relativi a semplici “asset class” (ad esempio: comparto azionario; comparto obbligazionario, ecc.). Il servizio di consulenza, di contro, presuppone che il consiglio abbia ad oggetto operazioni relative ad un determinato strumento finanziario 35. 33

Sul “nuovo” servizio di consulenza v. AMOROSINO (2010); SCIARRONE ALIBRANDI (2010); PARACAMPO (2010). 34 V. a riguardo la circostanziata formulazione dei Considerando 23 e 24 del Regolamento n. 565/2017. 35 In base a tale definizione non risulta più granché utile la distinzione, precedentemente accolta dal sistema, tra la c.d. consulenza “generale” e la consulenza “strumentale”. La prima si sostanziava nel rilascio di consigli o raccomandazioni di investimento, sia specifici (ossia, riferiti a determinati strumenti finanziari), sia generali, ossia riferiti a classe, gruppi, tipologie di investimenti: essa era considerata, in entrambi i casi, vera e propria attività di consulenza. La c.d. “consulenza strumentale”, invece, si sostanziava nel fornire informazioni e indicazioni circa un determinato prodotto o servizio, in sede di vendita o collocamento dello stesso: si riteneva che questa attività non configurasse una autonoma attività di consulenza, ma una generica attività strumentale al collocamento del servizio o del prodot-

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3.7. (Segue): la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione e di sistemi organizzati di negoziazione Per “gestione di sistemi multilaterali di negoziazione”, si intende la gestione di sistemi multilaterali che consentono l’incontro, al loro interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti (comma 5-octies). La nozione di “sistemi organizzati di negoziazione” di nuovo conio da parte della Direttiva MiFID II è molto simile, differenziandosi per il fatto che, come avremo modo di osservare nel contesto della disamina della disciplina dei mercati, la conclusione dei contratti è, in questo caso, caratterizzata da elementi di discrezionalità (ossia, il gestore del sistema può decidere, secondo taluni criteri, di dar corso o meno all’operazione), e che i sistemi organizzati sono limitati a strumenti non-equity. Si è già osservato come, nell’impostazione che discende dalla MiFID, i sistemi multilaterali di negoziazione e, ora, i sistemi organizzati, si affianchino ai mercati regolamentati veri e propri come possibili trading venues per l’esecuzione delle operazioni su strumenti finanziari. La definizione di questi sistemi è non a caso, assai vicina a quella di “mercato regolamentato” (art. 1, comma 1, lett. w-ter), e ciò in quanto le funzioni alle quali assolvono le due venues sono, per molti aspetti, sovrapponibili. La gestione di sistemi multilaterali o organizzati di negoziazione caratterizzati da regole proprie, molto simili a quelle applicabili ai mercati regolamentati configurano due distinte attività di investimento, e ciò in quanto il rapporto che intercorre tra il gestore del sistema e i partecipanti allo stesso non è tecnicamente configurabile come prestazione di un “servizio”. Ne derivano importanti differenze rispetto alle regole applicabili alla prestazione degli altri servizi di investimento, con particolare riguardo alle regole di comportamento.

4. I servizi accessori Dai servizi di investimento vanno distinti i cc.dd. “servizi accessori”. Questi ultimi non sono soggetti a riserva di attività a favore degli intermediari abilitati alla prestazione dei servizi di investimento; rappresentano, però, servizi che gli intermediari possono svolgere in quanto, per l’appunto, autorizzati alla to in questione. L’impostazione della MiFID, ora riflessa nel TUF, è evidentemente profondamente diversa e, in ogni caso, non scevra da difficoltà interpretative (v. il Documento di consultazione del CESR, Understanding the Definition of Advice under MiFID del 19 aprile 2010).

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prestazione dei servizi di investimento 36. Il relativo elenco si rinviene nell’Allegato I, Sezione B, TUF. Rispetto alla nozione antecedente alla Direttiva MiFID II le attività che rientrano tra i servizi accessori sono state oggetto di vari ritocchi, non sempre, a dire il vero, privi da profili problematici sul piano interpretativo (si veda, ad esempio, l’alquanto oscura formulazione del punto 1 dell’elenco, là dove si riferisce al “livello più elevato”, o quella di cui al punto 7). Ad ogni buon conto, la nozione ora include le seguenti attività: 1) custodia e amministrazione di strumenti finanziari per conto dei clienti, inclusi la custodia e i servizi connessi come la gestione di contante/garanzie reali ed esclusa la funzione di gestione dei conti titoli al livello più elevato; 2) concessione di crediti o prestiti agli investitori per consentire loro di effettuare un’operazione relativa a uno o più strumenti finanziari, nella quale interviene l’impresa che concede il credito o il prestito; 3) consulenza alle imprese in materia di struttura del capitale, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché consulenza e servizi concernenti le concentrazioni e l’acquisto di imprese; 4) servizio di cambio quando detto servizio è legato alla fornitura di servizi di investimento; 5) ricerca in materia di investimenti e analisi finanziaria o altre forme di raccomandazione generale riguardanti le operazioni relative a strumenti finanziari; 6) servizi connessi con l’assunzione a fermo; 7) servizi e attività di investimento, nonché servizi accessori del tipo di cui alle Sezioni A o B, collegati agli strumenti derivati di cui alla Sezione C, punti (5), (6), (7) e (10), se legati alla prestazione di servizi di investimento o accessori. La possibilità di prestare servizi accessori, unitamente ai servizi di investimento, si giustifica, per gli intermediari abilitati, in base all’elevata complementarietà delle due “famiglie” di servizi. Non trattandosi di attività soggette a riserva, si tratta peraltro di servizi che possono essere liberamente svolti anche da soggetti non abilitati. Si osservi, inoltre, che il termine “accessorio” non significa, necessariamente, che i servizi in parola debbano essere giocoforza prestati in via “ausiliaria”, o “strumentale” rispetto ad un servizio di investimento: tale requisito, infatti, è previsto unicamente per il servizio accessorio di intermediazione in cambi. È dunque perfettamente legittimo che un intermediario abilitato alla prestazione di servizi di investimento svolga servizi accessori anche in via autonoma, senza cioè che il servizio accessorio sia, per così dire, di supporto ad un servizio di investimento 37. 36

Sulla differenza tra servizi accessori e altre attività che gli intermediari possono prestare, in quanto “strumentali” o “connesse” all’attività principale, v. AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 109 ss. 37 ATELLI (1998).

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La possibilità di prestare servizi accessori è disciplinata diversamente, in funzione delle diverse categorie di soggetti abilitati. Più precisamente, le SIM e le banche sono autorizzate a prestare tutti i servizi accessori, senza alcuna eccezione. Per le prime, la regola discende dall’art. 18, comma 4, TUF; per le banche, essa discende anche dal Testo Unico Bancario, essendo i servizi accessori ricompresi (salvo quelli individuati alla lett. g-bis) nell’elencazione delle attività ammesse al mutuo riconoscimento in base alle Direttive bancarie (art. 1, comma 2, lett. f), TUB). Per quanto attiene alle SGR e alle società finanziarie di cui all’art. 106 TUB valgono, come vedremo, regole particolari. Anche per gli agenti di cambio vigono particolari limitazioni 38. In merito ai criteri che presiedono alla prestazione dei servizi accessori, gli intermediari abilitati sono tenuti ad osservare (salvo deroghe analiticamente individuate), anche in relazione a tali servizi, le regole generali di comportamento che trovano applicazione in relazione alla prestazione di servizi di investimento. Ovviamente, tale soluzione non può trovare applicazione quando i servizi accessori in quanto attività non soggette a riserva sono prestati da soggetti diversi dagli intermediari abilitati: si assiste, pertanto, alla curiosa situazione in base alla quale gli intermediari abilitati sono soggetti a vincoli più stringenti, rispetto a soggetti non sottoposti ad alcuna forma di controllo o di vigilanza, in merito alla prestazione dei servizi in questione.

38 Cfr. l’art. 201, comma 7, TUF, in base al quale gli agenti di cambio possono svolgere i servizi accessori indicati nell’art. 1, comma 6, lett. c), limitatamente alla conclusione di contratti di riporto e altre operazioni in uso sui mercati, e g), TUF.

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CAPITOLO VI SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: RISERVA DI ATTIVITÀ E ACCESSO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La riserva di attività a favore dei soggetti abilitati. – 2.1. Lo svolgimento “professionale” e “nei confronti del pubblico” dei servizi. Le esenzioni previste dalla MiFID. – 3. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle SIM. – 4. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle imprese comunitarie. – 5. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle imprese extracomunitarie. – 6. L’operatività all’estero delle SIM. – 7. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle banche. – 8. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte degli altri intermediari abilitati. – 9. I consulenti finanziari. – 10. Le sanzioni.

1. Premessa In base a quanto previsto dalla disciplina comunitaria l’accesso alla prestazione dei servizi ed attività di investimento deve essere subordinato ad un’autorizzazione, rilasciata dalle Autorità competenti dei singoli Stati membri. Le norme europee, inoltre, prevedono – in applicazione dei principi relativi al mutuo riconoscimento – la possibilità per i soggetti comunitari di prestare, a determinate condizioni, i loro servizi anche negli altri Stati membri dell’Unione Europea. L’accesso ai servizi ed attività di investimento avviene, però, secondo modalità diverse a seconda che il soggetto sia una banca, o un’impresa di investimento, o uno degli altri soggetti abilitati, e – in ogni caso – a seconda che il soggetto sia italiano, o estero. Le banche e le imprese di investimento non rappresentano, infatti, gli unici soggetti che possono prestare servizi ed attività di investimento. Ad essi, infatti, se ne aggiungono altri, sottoposti a regimi specifici: si tratta delle SGR, delle società di gestione armonizzate (SGA), dei gestori di FIA, delle società finanziarie di cui all’art. 106 ss. TUB, degli agenti di cambio, dei consulenti finanziari, delle società fiduciarie iscritte in una sezione speciale dell’albo delle SIM, e delle società di gestione dei mercati regolamentati.

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Nel presente capitolo esamineremo, in primo luogo, la portata della riserva di attività per i servizi ed attività di investimento, e, successivamente, la disciplina relativa all’accesso all’attività stessa, con riferimento alle diverse categorie di soggetti di cui sopra.

2. La riserva di attività a favore dei soggetti abilitati La riserva di attività in materia di servizi e attività di investimento è formulata dall’art. 18, comma 1, TUF, ai sensi del quale l’esercizio professionale nei confronti del pubblico di tali servizi ed attività è, innanzitutto, riservato alle SIM, imprese di investimento, e alle banche. Banche ed imprese di investimento rappresentano le due principali categorie di soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi ed attività di investimento, e ciò non soltanto per il ruolo che, in concreto, esse svolgono sul mercato dei capitali, ma soprattutto in quanto la riserva è per esse configurata senza limitazioni: tali soggetti, infatti, possono prestare tutti i servizi ed attività di investimento, senza alcuna eccezione 1. Inoltre: – le SIM possono prestare professionalmente nei confronti del pubblico i servizi accessori, e altre attività finanziarie, nonché attività “connesse o strumentali”, salve le riserve di legge (art. 18, comma 4, TUF) 2; – per le banche resta comunque ferma la disciplina del TUB, il quale a sua volta stabilisce che le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna nonché attività connesse o strumentali (e salve le riserve di legge) 3. Ne deriva che, sia le SIM, sia ancor più le banche si presentano come intermediari a capacità multipla, in grado di svolgere un’ampia gamma di servizi 1

Il recepimento della Direttiva europea 93/22/CEE – avvenuto nel 1996 – comportò l’eliminazione della distinzione, che in precedenza figurava nell’ambito della legge n. 1/1991, tra le banche, da un lato, e le SIM, dall’altro, là dove alle prime veniva precluso lo svolgimento in via diretta dell’attività di negoziazione nei mercati regolamentati. La legge n. 1/1991 rifletteva, sul punto, un’impostazione storicamente assai risalente, in base alla quale l’accesso ai mercati regolamentati era riservato a categorie specifiche di intermediari (in origine, agli agenti di cambio, e, a partire dal 1991, anche alle SIM), mentre era preclusa alle banche. V. COSTI (2007). 2 Ad esempio, una SIM non potrebbe svolgere l’attività bancaria, come definita dall’art. 10 TUB, o l’attività di gestione collettiva del risparmio (in quanto riservata alle SGR e alle SICAV), mentre può svolgere altre attività finanziarie non assoggettate a riserva. 3 V. l’art. 10, comma 3, TUB.

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e attività finanziarie, che vanno al di là dei soli servizi di investimento. Indipendentemente da ciò, preme osservare che – anche per i servizi e le attività di investimento – la riserva a favore di tali soggetti, pur formulata in termini tanto ampi, non è assoluta, in quanto, da un lato, attiene esclusivamente ai servizi che sono svolti al ricorrere di determinate condizioni; dall’altro, in quanto le banche e le SIM condividono tale riserva con altri soggetti. Più precisamente: a) gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 ss. TUB possono prestare i servizi di negoziazione per conto proprio e di esecuzione di ordini su strumenti derivati, e il servizio di collocamento di strumenti finanziari (quest’ultimo, indipendentemente dal fatto che il collocamento si configuri con o senza forme di “garanzia”); b) le società di gestione del risparmio e le società di gestione armonizzate (che altro non sono che l’“omologo” europeo delle SGR) possono prestare i servizi di gestione di portafogli e di consulenza. I gestori di FIA possono svolgere anche il servizio di ricezione e trasmissione ordini (v. Cap. IX); c) gli agenti di cambio, nei casi ed alle condizioni stabiliti dall’art. 201 TUF, possono prestare i seguenti servizi: (i) esecuzione di ordini per conto dei clienti; (ii) collocamento senza forme di garanzia; (iii) gestione di portafogli; (iv) ricezione e trasmissione di ordini; (v) consulenza in materia di investimenti ; d) anche le Poste Italiane S.p.A. sono autorizzate a prestare taluni servizi di investimento, nel quadro di un progressivo ampliamento e despecializzazione delle attività svolte che ha preso avvio con il D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144 (art. 12) e che ha reso le Poste un operatore anche di tipo finanziario; e) l’attività di gestione di sistemi multilaterali di negoziazione è consentita – oltre che alle SIM e alle banche – anche alle società di gestione di mercati regolamentati; f) infine, i consulenti finanziari e le società di consulenza di cui agli artt. 18-bis e 18-ter TUF possono prestare, alle condizioni e nei limiti ivi previsti, il servizio di consulenza in materia di investimenti.

2.1. Lo svolgimento “professionale” e “nei confronti del pubblico” dei servizi. Le esenzioni previste dalla MiFID Con riferimento alle condizioni che devono sussistere affinché scatti la riserva di attività, l’art. 18 TUF richiede, per i servizi ed attività di investimento: – lo svolgimento professionale; – l’esercizio nei confronti del “pubblico”. La ratio di questa limitazione è sostanzialmente rinvenibile in motivazioni di “economia” legislativa: un servizio svolto in maniera sporadica, non abitua-

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le, si colloca al di sotto della soglia di rilevanza che giustifica l’applicazione delle pervasive regole previste per lo svolgimento di servizi di investimento. Lo stesso deve dirsi per un servizio che non è prestato nei confronti del pubblico, in quanto esaurisce i propri effetti all’interno dell’economia dello stesso soggetto che lo svolge. Anche in questo caso sarebbe dunque eccessivo sottoporre il prestatore del servizio ai controlli e alle pervasive regole altrimenti giudicate necessarie. Si osservi che le due condizioni devono essere entrambe soddisfatte; non è dunque soggetto a riserva il servizio di investimento che sia svolto in modo “professionale”, ma non nei confronti del pubblico, o viceversa. Storicamente, la disciplina previgente al recepimento della Direttiva 93/22/ CEE faceva riferimento ad analoghi criteri, senza tuttavia definirli o individuarli meglio: ciò aveva sollevato non pochi problemi interpretativi, stante l’incertezza di stabilire quando una determinata attività possa dirsi svolta con “professionalità” o nei confronti del “pubblico”. Con il recepimento di quella Direttiva, il legislatore aveva così formulato una norma di rinvio alla disciplina secondaria, alla quale affidava il compito di adottare “norme di attuazione e di integrazione” della riserva di attività (art. 2, D.Lgs. n. 415/1996); la norma è stata ripresa nel TUF, e precisamente all’art. 18, comma 5, lett. b): in base a tale disposizione, il Ministro dell’economia e delle finanze, con regolamento adottato sentita la Banca d’Italia e la Consob, “adotta le norme di attuazione e di integrazione delle riserve di attività previste dal presente articolo, nel rispetto delle disposizioni comunitarie”. Alla presente data, il decreto al quale si riferisce la disposizione del TUF non è, peraltro, stato ancora approvato, nonostante sia da tempo intervenuto il recepimento della MiFID I e, ora, anche della MiFID II: continua così ad applicarsi – in base al regime transitorio previsto dall’art. 214, comma 5, TUF – il decreto emanato ai sensi dell’abrogato D.Lgs. n. 415/1996, anche se su alcuni profili – ad esempio la nozione di accessorietà – nel contesto di MiFID II sono state emanati specifici standard tecnici 4. 4

L’art. 4 del Regolamento n. 565/2017 prevede ai fini dell’esenzione di cui all’art. 2, par. 1, lett. c), della Direttiva 2014/65/UE, che un servizio di investimento è considerato prestato a titolo accessorio nell’ambito dell’attività professionale in presenza delle seguenti condizioni: a) esiste un collegamento stretto e fattuale tra l’attività professionale e la prestazione del servizio di investimento allo stesso cliente, tale che il servizio di investimento possa essere considerato accessorio all’attività professionale principale; b) la prestazione dei servizi di investimento ai clienti dell’attività professionale principale non mira a fornire una fonte di reddito sistematica alla persona che svolge l’attività professionale; c) la persona che svolge l’attività professionale non commercializza né promuove in altro modo la sua capacità di fornire servizi di investimento, salvo il caso in cui ciò sia comunicato ai clienti come accessorio all’attività professionale principale. Inoltre, il Regolamento delegato (UE) 2017/592 del 1° dicembre 2016, identifica l’elemento dell’accessorietà con riguardo all’esenzione prevista dalla MiFID per le attività di negoziazione avente ad oggetto strumenti derivati su merci.

Servizi e attività di investimento: riserva di attività e accesso

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Il D.M. 26 giugno 1997, n. 329 fornisce utili indicazioni per ricostruire la portata della riserva di attività, per quanto attiene sia alla nozione di “professionalità”, sia alla nozione di “pubblico”, ed è dunque opportuno soffermarvisi brevemente. Sotto il primo profilo, e, segnatamente, per quanto attiene al requisito della “professionalità”, si stabilisce che non rientrano nella riserva di attività i “servizi prestati in via occasionale ed accessoria, senza predisposizione di idonei schemi organizzativi per il loro svolgimento” (art. 2, comma 1, lett. b). A sua volta, l’art. 1, comma 1, lett. b) del D.M. stabilisce l’inapplicabilità della disciplina dei servizi di investimento ai soggetti che “prestano occasionalmente ed a titolo accessorio un servizio di investimento nell’ambito di un’attività professionale disciplinata da disposizioni legislative o regolamentari che ammettono la prestazione del servizio”. La disciplina secondaria conferma, pertanto, che la nozione di “professionalità” deve essere intesa nel senso di svolgimento sistematico, abituale, ricorrente dell’attività: elementi, tutti, che in realtà potevano già ricavarsi dalla nozione generale di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c. A tale elemento, tuttavia, la norma ne aggiunge un altro, rappresentato dalla predisposizione di “idonei schemi organizzativi” per lo svolgimento dell’attività, così richiamando la nozione di “organizzazione”, che pur si ritrova nella definizione di imprenditore, ma che, in quella sede, viene enunciata distintamente rispetto a quella di professionalità. Ne deriva che la disciplina secondaria conferma ciò che già poteva ricavarsi in base ad ordinari criteri interpretativi, ma, allo stesso tempo, circoscrive ulteriormente la portata della riserva, introducendo un elemento (quello riferito, per l’appunto, all’“organizzazione” del soggetto), che non si ricaverebbe di per sé dalla sola nozione di “professionalità”. Per quanto attiene alla nozione di pubblico, il D.M. non ne fornisce una vera e propria definizione. Piuttosto, esso si limita ad individuare taluni casi di esclusione, stabilendo che non ricadono nella riserva i “servizi prestati da imprese esclusivamente ad imprese controllanti, controllate ovvero controllate dalla stessa controllante o ad imprese ad essa collegate, in quanto non esercitati nei confronti del pubblico” 5. L’esonero riflette quanto si rinviene altresì nell’ambito della disciplina bancaria; anche ai fini della nozione di attività bancaria, infatti, non è considerata raccolta di risparmio tra il “pubblico” quella svolta nell’ambito di “gruppi” di imprese 6. Vi è dunque, sotto questo profilo, una rilevante affinità tra la disciplina dei servizi di investimento, e la disciplina bancaria 7. Resta però il fatto che neppure la disciplina secondaria definisce in positivo la no5 Per la nozione di controllo, la norma rinvia all’art. 23 TUB, e per quella di collegamento all’art. 2359, comma 3, c.c. 6 V. l’art. 11 TUB, e i relativi provvedimenti attuativi. 7 Sulla nozione di “pubblico” nella legge bancaria v. COSTI (2007).

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zione di pubblico, né essa fornisce ulteriori indicazioni in proposito. Al riguardo, l’interpretazione preferibile sembra essere analoga a quella prevalentemente seguita in relazione alla disciplina bancaria. Di conseguenza, dovrà considerarsi svolta nei confronti del pubblico l’attività che, genericamente, si rivolge a soggetti o “economie” terze, anche se numericamente limitate, e anche se preventivamente individuate o identificate 8. Le esigenze di controllo e di vigilanza sull’attività si pongono, infatti, anche nei casi in cui l’attività si rivolge a soggetti numericamente ridotti, ma pur sempre al di fuori dell’economia del soggetto che presta il servizio: sotto questo profilo, la nozione di “pubblico” che assume rilevanza in punto di individuazione della riserva di attività per i servizi di investimento assume una portata più ampia di quanto si rinviene, ad esempio, in materia di offerte al pubblico 9. Nel recepire la MiFID II, il legislatore ha peraltro riprodotto, nel corpo del TUF, le varie ipotesi di esenzione dalla disciplina, analiticamente individuate dalla Direttiva all’art. 2: ciò non era avvenuto in concomitanza con il recepimento della prima Direttiva MiFID, sollevando qualche incertezza interpretativa. Il relativo elenco è ora formulato all’art. 4-terdecies TUF 10.

3. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle SIM Se quelli di cui sopra sono gli elementi che connotano la portata della riserva per i servizi e le attività e i servizi di investimento – con riferimento ai vari soggetti abilitati – si tratta ora di individuare le regole che disciplinano l’accesso all’attività da parte delle singole categorie. Per quanto attiene, innanzitutto, alle SIM l’accesso alla prestazione dei servizi ed attività di investimento è subordinato all’ottenimento di un’autorizzazione amministrativa. L’art. 19 TUF individua nella Consob l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione; anche al fine

8

Ovviamente, non potranno applicarsi ai servizi di investimento i casi di esclusione dalla disciplina della raccolta di risparmio tra il pubblico stabiliti per l’attività bancaria dall’art. 11 TUB, e dai provvedimenti attuativi di quest’ultimo. 9 Ad esempio, se un servizio di investimento viene svolto professionalmente unicamente nei confronti di “investitori professionali”, tale servizio ricade comunque nella portata della riserva di attività. Di contro, non è considerata “pubblica” l’offerta di prodotti finanziari rivolta unicamente a tali investitori. 10 Il lungo catalogo delle esenzioni è formulato dall’art. 2, comma 1, della Direttiva MiFID II. Talune fattispecie coincidono e si accavallano con quelle già previste dall’ormai vetusto Decreto ministeriale richiamato nel testo: si veda, ad esempio, l’esenzione prevista alla lett. b) per “le persone che prestano servizi di investimento esclusivamente alla propria impresa madre, alle proprie imprese figlie o ad altre imprese figlie della propria impresa madre”.

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di assicurare il rispetto dei principi di coordinamento stabiliti dal TUF, l’autorizzazione viene tuttavia rilasciata “sentita la Banca d’Italia” 11. Le condizioni richieste per il rilascio dell’autorizzazione sono individuate dal medesimo art. 19, e segnatamente: a) il soggetto deve avere la forma di società per azioni 12; b) la denominazione sociale deve comprendere le parole “società di intermediazione mobiliare”; c) la sede legale e la direzione generale della società devono essere situate nel territorio della Repubblica; d) il capitale versato deve essere di ammontare non inferiore a quello determinato in via generale dalla Banca d’Italia; e) devono essere fornite tutte le informazioni, compreso un programma di attività, che indichi in particolare i tipi di operazioni previste e la struttura organizzativa; f ) i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo devono essere idonei ai sensi nell’art. 13; g) i titolari delle partecipazioni indicate nell’art. 15, comma 1 (i.e. partecipazioni di controllo, che danno la possibilità di esercitare un’influenza notevole o che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento), devono possedere i requisiti di cui all’art. 14, i.e. non devono ricorrere le condizioni per il divieto previsto dall’art. 15, comma 2, tali da non garantire una gestione sana e prudente della SIM; h) la struttura del gruppo di cui è parte la società non deve essere tale da pregiudicare l’obiettivo esercizio della vigilanza sulla società stessa e siano fornite almeno le informazioni richieste ai sensi dell’art. 15, comma 5; i) per i gestori di sistemi multilaterali o organizzati di negoziazione, devono essere rispettati gli specifici requisiti previsti a tal fine dal TUF. Con l’avvento della disciplina MiFID (già con la prima Direttiva del 2004) sono stati previsti requisiti di accesso alla prestazione dei servizi più stringenti di quelli previsti dalla Direttiva del 1993 e, conseguentemente, dal TUF. In particolare, la disciplina MiFID ha rafforzato i requisiti di tipo “organizzativo” imposti ai soggetti abilitati, con specifico riferimento ai profili attinenti alla gestione dei conflitti di interessi, all’esternalizzazione di funzioni aziendali e, in generale, alle procedure aziendali . Di diretta derivazione comunitaria, i requisiti possono dunque distinguersi 11

Per un quadro aggiornato v. MAGGIOLO (2012), p. 60 ss. Dal complesso della disciplina si trae altresì conferma del fatto che le SIM devono avere oggetto sociale esclusivo. La questione, a dire il vero, è ormai pacifica da tempo: cfr. PISANI (2002-IV). 12

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in due gruppi o categorie: da un lato, requisiti che attengono alla struttura del soggetto abilitato (esponenti aziendali; capitale minimo; partecipanti al capitale, ecc.); dall’altro requisiti di tipo organizzativo. Nel rinviare – quanto alla trattazione dei singoli temi – alle singole sezioni del presente volume, in questa sede preme, essenzialmente, rilevare come, ai sensi dell’art. 19, comma 2, TUF, il rilascio dell’autorizzazione è subordinato non già al semplice ricorrere delle condizioni richieste, ma altresì al fatto che, dall’esame delle condizioni indicate, risulti garantita la “sana e prudente gestione” del soggetto e che – con formula innovativa, introdotta a seguito della MiFID – sia “assicurata la capacità dell’impresa di esercitare correttamente i servizi o le attività di investimento”. Sussiste, pertanto, una sfera di valutazione dell’Autorità deputata al rilascio del provvedimento autorizzativo, che travalica la formale verifica circa la presenza delle condizioni richieste, per espandersi alla valutazione della sussistenza di condizioni di “sana e prudente gestione” e, in generale, della capacità di prestare i servizi in modo “corretto”. È, forse, in questa previsione del TUF – più che negli artt. 5 e 15 – che la nozione di sana e prudente gestione dispiega i suoi effetti più significativi, in quanto criterio che presiede direttamente al rilascio dell’autorizzazione e, quindi, all’accesso al mercato da parte dell’intermediario. Quanto alla capacità di prestare i servizi o le attività in modo “corretto”, la formulazione dà evidenza sia ai profili esterni, attinenti cioè al rapporto con gli investitori, sia ai profili che attengono all’organizzazione interna del soggetto. La materia dell’iter autorizzativo, dei documenti e delle formalità a tal fine necessari è demandata al potere regolamentare della Consob nel rispetto degli standard tecnici ex-MiFID II. In base all’art. 19, comma 3, TUF, spetta, infatti, alla Consob, sentita la Banca d’Italia, “disciplinare la procedura di autorizzazione e le ipotesi di decadenza dalla stessa quando la SIM non abbia iniziato o abbia interrotto lo svolgimento dei servizi autorizzati”. Spetta sempre alla Consob, sentita la Banca d’Italia, disciplinare le ipotesi di decadenza dall’autorizzazione di una SIM: in ogni caso, questa è prevista quando la SIM non dà avvio alle attività entro un anno dal rilascio dell’autorizzazione, o quando vi rinunzi espressamente (art. 19, comma 3-ter).

4. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle imprese comunitarie In applicazione dei principi in materia di mutuo riconoscimento, il TUF riconosce alle imprese di investimento comunitarie, autorizzate alla prestazione dei servizi ed attività di investimento nel loro Paese di origine, il diritto di svolgere i medesimi servizi ed attività in Italia. Conformemente a quanto previsto

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dalla MiFID tale attività può avvenire mediante apertura di succursali in Italia, ovvero in regime di libera prestazione dei servizi. Le attività esercitabili in Italia sono quelle individuate nell’Allegato A al TUF, e che rientrano nella portata della disciplina del mutuo riconoscimento secondo quanto stabilisce la MiFID: semplificando, si può dire che l’elenco comprende tutti i servizi e le attività di investimento, “riclassificati” secondo la struttura che discende dalla Direttiva. Si è già detto che l’attività delle imprese comunitarie può essere svolta in Italia nell’esercizio del diritto di stabilimento, o in regime di libera prestazione di servizi. Per quanto attiene al primo, l’art. 27 TUF stabilisce che lo stesso può esercitarsi mediante l’apertura di una succursale, o di agenti collegati. Per tale stabilimento è prevista una specifica procedura, regolata dal diritto comunitario e ripresa nel TUF e nei provvedimenti attuativi. Il primo insediamento di un’impresa comunitaria è preceduto da una comunicazione alla Consob da parte non già dell’impresa, ma dell’Autorità competente dello Stato di origine, secondo le disposizioni che discendono dal diritto europeo e, in particolare, dalle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione della MiFID II. La succursale può quindi iniziare l’attività decorsi due mesi dalla comunicazione 13. Un sistema analogo si applica all’operatività in regime di libera prestazione dei servizi: anche in questo caso, l’avvio dell’attività è subordinato al fatto che la Consob sia stata informata dall’Autorità competente dello Stato d’origine (art. 27, comma 2, TUF). Sul punto, si segnala che la MiFID ha comportato un rafforzamento del principio del c.d. home country control, rispetto a quanto previsto dalla Direttiva 93/22/CEE: la competenza degli Stati ospiti è dunque limitata alle materie espressamente individuate dalla Direttiva, e ciò comporta che, salvo eccezioni, la disciplina alla quale risulta sottoposto il soggetto è, in via predominante, quella dello Stato d’origine. È opportuno porre in luce che, al fine di stabilire se un determinato servizio è prestato in Italia, non assume tanto rilevanza il luogo in cui l’impresa di investimento (o i suoi incaricati) si trova, quanto il fatto che il servizio stesso si “rivolga” ad investitori italiani 14. La precisazione assume, ovviamente, particolare rilevanza per quanto attiene alle attività finanziarie svolte tramite reti telematiche e, in particolare, per quanto attiene all’impiego di Internet. Ne deriva che dovrà ritenersi soggetta alla riserva di attività in favore di soggetti abilitati l’offerta di servizi realizzata, tra l’altro, mediante tecniche di comunicazione a distanza, se tali tecniche sono volte, appunto, a promuovere attivamente il servizio ad investitori italiani.

13

Sugli artt. 26 e 27 v. FORTUNATO (2002-II); ID. (2002-III). V. le numerosissime comunicazioni della Consob in materia disponibili sul sito della Commissione. 14

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5. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle imprese extracomunitarie Con riferimento alle imprese di investimento extracomunitarie, ad esse non potrà ovviamente applicarsi il particolare regime previsto per le imprese comunitarie nell’ambito dei principi del mutuo riconoscimento. Ne consegue che l’operatività di tali soggetti nel territorio della Repubblica viene ad essere assoggettata ad apposita autorizzazione, per la quale è competente la Consob, sentita la Banca d’Italia (art. 28 TUF). Il rilascio dell’autorizzazione è subordinato al possesso dei requisiti di cui all’art. 28 TUF tra cui merita, in particolare, di essere segnalata la sussistenza di accordi di collaborazione tra la Banca d’Italia, la Consob e l’Autorità dello Stato d’origine 15. Le imprese di investimento extracomunitarie possono essere autorizzate a prestare i loro servizi ed attività tramite succursali, ovvero senza stabilimento di succursali, purché sussistano i requisiti di cui al già richiamato art. 28 TUF. Tuttavia, quest’ultima possibilità è stata drasticamente limitata, in sede di recepimento della MiFID II, essendo ora concessa soltanto quando i servizi sono prestati nei confronti di investitori professionali di diritto. Per prestare servizi di investimento in regime di libera prestazione a investitori diversi da questi ultimi, è dunque necessari la costituzione di una succursale nel territorio italiano. Principi analoghi a quelli testè riassunti si applicano nei riguardi delle banche non-UE che intendano prestare servizi di investimento in Italia, in base alle relative previsioni di cui all’art. 29-ter TUF.

6. L’operatività all’estero delle SIM Poiché le SIM sono intermediari che rispettano e soddisfano i criteri richiesti dalla normativa europea, esse stesse sono ammesse al beneficio del mutuo riconoscimento, ovviamente in ambito comunitario. Ai sensi dell’art. 26 TUF, pertanto, le SIM possono operare: a) in uno Stato comunitario, anche senza stabilirvi succursali, in conformità a quanto stabilito dalla disciplina europea, e dal regolamento richiamato nell’art. 26 TUF, ed eventualmente avvalendosi di agenti collegati; b) in uno Stato extracomunitario, anche senza stabilirvi succursali, previa autorizzazione della Consob, sentita la Banca d’Italia. 15

FORTUNATO (2002-IV).

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Quest’ultima eventualità è subordinata, in modo non dissimile da quanto già visto per il caso opposto di imprese extracomunitarie che intendano operare in Italia, all’esistenza di apposite intese di collaborazione tra la Banca d’Italia, la Consob e le competenti Autorità dello Stato ospitante. Regole analoghe si applicano alla prestazione, in altri Stati comunitari, di servizi e attività non ammessi al mutuo riconoscimento.

7. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte delle banche Se quelle testé esposte sono le regole che si applicano alle imprese di investimento (SIM e soggetti esteri), per le banche l’accesso ai servizi di investimento è regolato in modo radicalmente diverso. Prevale, infatti, in questo caso, la disciplina bancaria, e l’autorizzazione è rilasciata non già dalla Consob, ma dalla Banca d’Italia (art. 19, comma 4, TUF). Similarmente, alla prestazione all’estero di servizi di investimento e di servizi accessori da parte di banche italiane, e alla prestazione in Italia dei medesimi servizi da parte di banche estere, si applicano le specifiche disposizioni di cui agli art. 29-bis e 29-ter TUF. In proposito si segnala che, per effetto delle novità introdotte da MiFID II, alle banche non-UE è stata preclusa l’operatività in regime di libera prestazione di servizi nei riguardi di clienti al dettaglio o professionali su richiesta.

8. L’accesso ai servizi ed attività di investimento da parte degli altri intermediari abilitati Quanto alle altre categorie di intermediari abilitati, l’accesso ai servizi di investimento è soggetto a particolari regole. Più precisamente: – per le SGR e gestori FIA l’autorizzazione alla prestazione dei servizi è rilasciata dalla Banca d’Italia, sentita la Consob (art. 34 TUF); – per le società di gestione armonizzate (SGA) la possibilità di prestare in Italia le attività per le quali sono autorizzate nel Paese di origine discende dalle disposizioni comunitarie in materia, in applicazione dei principi del mutuo riconoscimento; – per le società iscritte nell’elenco di cui all’art. 106 ss. TUB, l’autorizzazione alla prestazione dei servizi di investimento che esse possono svolgere è rilasciata dalla Banca d’Italia 16; 16 V., quanto alle condizioni richieste, le apposite Istruzioni di vigilanza emanate dalla Banca d’Italia.

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– per gli agenti di cambio rimasti in carica, trova applicazione il particolare regime di cui all’art. 201 TUF 17; – le Poste Italiane S.p.A. sono autorizzate a svolgere i servizi di investimento di cui all’art. 12, D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, senza necessità di iscrizione in albi od elenchi; – le società di gestione di mercati regolamentati, che intendono svolgere anche l’attività di gestione di sistemi multilaterali di negoziazione, sono autorizzate dalla Consob.

9. I consulenti finanziari Nel recepire la Direttiva 2004/39/CE, il legislatore italiano aveva già inteso consentire la prestazione del servizio di consulenza anche a persone fisiche o giuridiche, in possesso di determinati requisiti. Ciò si è tradotto nell’inserimento, nel corpo del TUF, dell’art. 18-bis che disciplina appunto i cc.dd. “consulenti finanziari”. La prestazione del servizio di consulenza è stata, innanzitutto, estesa alle persone fisiche in possesso dei requisiti di professionalità, onorabilità, indipendenza e patrimoniali, stabiliti dalla normativa secondaria, la cui emanazione è affidata, dall’art. 18-bis, al Ministro dell’economia e delle finanze, sentite Banca d’Italia e Consob 18. In ogni caso, la prestazione del servizio da parte dei consulenti finanziari non può contemplare la detenzione di somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza dei clienti. Essa, inoltre, ha un perimetro limitato ai soli valori mobiliare, e alle quote di OICR. L’accesso alla prestazione del servizio è subordinato all’iscrizione in una sezione dell’albo unico dei consulenti finanziari, regolato dall’art. 31 TUF, trovando dunque applicazione la relativa disciplina in tema di organizzazione, gestione dell’albo, poteri dell’Organismo di vigilanza. Ai sensi del comma 2, spetta alla Consob disciplinare le regole di condotta che i consulenti devono osservare nel rapporto con i clienti, trovano in materia applicazione le regole emanate dalla medesima Consob ai sensi dell’art. 31, comma 6. 17

L’art. 201 TUF conferma lo scioglimento degli ordini professionali relativi agli agenti di cambio, ribadendo quanto già previsto dalla legge n. 1/1991 in merito al fatto che non possono più essere banditi concorsi per il relativo ruolo. Il medesimo art. 201 individua poi le attività che gli agenti di cambio “residui” possono svolgere. 18 Il Ministro dell’economia e delle finanze ha provveduto, con Decreto n. 206/2008, all’emanazione del “Regolamento di disciplina dei requisiti di professionalità, onorabilità, indipendenza e patrimoniali per l’iscrizione all’albo delle persone fisiche consulenti finanziari”.

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Analoga operatività è consentita, in base all’art. 18-ter TUF, alle società di consulenza finanziaria, anch’esse iscritte in un’apposita sezione dell’albo unico dei consulenti finanziari di cui all’art. 31 TUF. L’introduzione di queste figure di consulenti finanziari era già stata contemplata nel contesto del recepimento della prima Direttiva MiFID. La ratio rispondeva, essenzialmente, all’esigenza di consentire lo svolgimento del servizio di consulenza in forma “leggera”, anche da parte di persone fisiche, o di società di diritto comune, in possesso di requisiti “ridotti” rispetto a quelli applicabili agli intermediari abilitati. In questo senso, la disciplina voleva rappresentare anche un parziale correttivo alla circostanza per la quale – con il recepimento della MiFID – la consulenza cessa di essere un mero servizio accessorio, e rientra a pieno titolo nel novero dei servizi ed attività di investimento: tale passaggio potrebbe, infatti, rendere impraticabile la prosecuzione del servizio da parte di soggetti persone fisiche che in precedenza erano di fatto abilitati a svolgerlo. Naturalmente, tale opzione ha introdotto, nel sistema, un elemento di asimmetria, poiché, proprio nel momento in cui – con il recepimento della MiFID – la consulenza rientrava nell’ambito delle attività riservate, e veniva sottoposta alle più pregnanti regole di condotta (tra cui quella di c.d. “adeguatezza”), il suo esercizio era consentito anche soggetti in possesso di requisiti “ridotti” rispetto ai veri e propri intermediari abilitati. Tuttavia, tale asimmetria è stata corretta dal fatto che i consulenti finanziari sono, a tutti gli effetti, sottoposti a specifiche forme di vigilanza e controllo, e che, infine, i consulenti di cui agli artt. 18-bis e 18-ter possono svolgere soltanto un’attività limitata a talune tipologie di strumenti finanziari, e non possono detenere somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza dei clienti 19.

10. Le sanzioni Lo svolgimento di servizi o attività di investimento (in quanto attività riservate) da parte di soggetti non abilitati configura il reato di abusivismo, punito dall’art. 166 TUF: la sanzione è la reclusione da uno a otto anni, e la multa da 4.000 a 10.000 euro. 19 Si ricorda che tutta la disciplina di cui si è fatto cenno, già introdotta nel 2007, non è mai divenuta operativa, in mancanza dei provvedimenti attuativi dell’art. 18-bis e 18-ter TUF, lungamente attesi. I soggetti già operanti nel settore della consulenza alla data del 31 ottobre 2007 hanno goduto, praticamente sino ad oggi, di un lungo regime transitorio, prorogato più volte. Ora, con il recepimento della MiFID II e l’istituzione dell’albo unico dei consulenti finanziari di cui all’art. 31 TUF, la situazione dovrebbe, finalmente, definirsi.

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Sotto il profilo civilistico, la giurisprudenza ritiene altresì che i contratti conclusi da soggetti non abilitati siano affetti da nullità, per contrarietà a norme imperative: alla base di questo consolidato orientamento vi è la convinzione che le norme relative all’accesso ai servizi di investimento tutelano interessi di ordine generale, con la conseguenza che i contratti stipulati da soggetti non in possesso delle prescritte autorizzazioni sono, per l’appunto, nulli ex art. 1418 c.c. 20.

20

V. ad esempio Cass. 7 marzo 2001, n. 3272, in Contratti, 2002, p. 28 ss.

CAPITOLO VII SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: REGOLE DI CONDOTTA E DI ORGANIZZAZIONE INTERNA. I CONTRATTI E LA SEPARAZIONE PATRIMONIALE SOMMARIO: 1. Regole di condotta e obblighi di organizzazione nel quadro più generale della disciplina dei servizi ed attività di investimento. – 2. I “criteri generali” di comportamento e il conflitto di interessi. – 3. Le regole caratterizzanti: adeguatezza, appropriatezza, best execution. – 3.1. (Segue): la regola di “adeguatezza”. – 3.2. (Segue): la regola di “appropriatezza”. – 3.3. (Segue): i servizi “execution only”. – 3.4. La best execution. – 4. La disciplina degli incentivi. – 5. La “product governance”. – 6. La disciplina dei contratti. – 6.1. La facoltà di agire in nome proprio. – 7. La graduazione delle regole in funzione della natura dell’investitore. – 8. L’esternalizzazione di funzioni aziendali. – 9. La separazione patrimoniale. – 10. La responsabilità dei soggetti abilitati e le conseguenze derivanti dalla violazione della disciplina dei servizi di investimento. – 10.1. (Segue): le sanzioni amministrative. – 10.2. Le procedure di conciliazione ed arbitrato.

1. Regole di condotta e obblighi di organizzazione nel quadro più generale della disciplina dei servizi ed attività di investimento La previsione di un corpo di regole di condotta, volte a plasmare e definire lo standard di comportamento degli intermediari nella prestazione dei servizi di investimenti rappresenta un tratto tipico delle riforme realizzate nei vari ordinamenti europei a partire sin dalla fine degli anni ’80. Tale fenomeno ha influito – dapprima timidamente (Direttiva 93/22/CEE), poi in misura netta, sia con MiFID I sia con MiFID II – sulla disciplina di rango comunitario 1. Si sono così stratificate regole articolate, volte a disciplinare la condotta dei prestatori di servizi di investimento, aventi l’obiettivo di rafforzare la tutela degli in-

1

Sulle regole di condotta si segnala, tra i contributi monografici, il contributo di SARattento ai profili di analisi economica del diritto.

TORI (2004), particolarmente

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vestitori, e che reagiscono sia sul piano negoziale – in quanto definiscono il contenuto di obblighi precontrattuali e contrattuali – sia sul piano del diritto amministrativo, e delle sanzioni. Nel corso delle vicende che, negli ultimi anni, hanno interessato il mercato sia italiano, sia di altri Paesi, la rilevanza e la portata della disciplina dei comportamenti degli intermediari ha assunto sempre maggiore evidenza: si tratta, peraltro, di un terreno ormai oggetto anche di amplissima casistica giurisprudenziale, che ne dimostra la vitalità e la centralità per il sistema. Prima della Direttiva MiFID – pur in presenza di evidenti fenomeni di “circolazione” di modelli – il contenuto delle regole di comportamento variava, talvolta anche in modo significativo, negli ordinamenti dei diversi Paesi dell’Unione Europea: in effetti, sotto questo profilo, il grado di armonizzazione delle legislazioni nazionali introdotto dalla Direttiva 93/22/CE era risultato piuttosto modesto. Assai più incisive e dettagliate sono le norme che figurano, di contro, nella disciplina recata dalle due Direttive MiFID. In tal senso, la disciplina europea si pone l’obiettivo di dettare regole comuni, applicabili alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento in tutti gli Stati membri: la disciplina di recepimento ricalca (spesso in maniera pedissequa) il testo delle Direttive, stanti i ristretti margini di autonomia lasciati al legislatore nazionale. Un intero corpo di disposizioni è affidato ai regolamenti di esecuzione di MiFID II, tra i quali, in particolare, il Regolamento (UE) n. 565/2017, di diretta applicazione negli Stati membri. Al contempo, con l’avvento delle Direttive MiFID, la disciplina in commento ha subito ampi e pervasivi interventi di modifica che, in molti casi, segnano un netto punto di rottura con le regole originariamente introdotte dal TUF e dalla prima disciplina di attuazione. Oltre ad introdurre alcune regole nuove, e ad incidere in modo rilevante su altre già note, la prima Direttiva MiFID ha accentuato il legame – già ricavabile dalla disciplina previgente – tra regole di organizzazione interna del soggetto, e regole di condotta: tra profili, cioè, che attengono al modo con il quale il soggetto si struttura e si disciplina per assicurare il corretto svolgimento dei servizi, e l’adempimento degli obblighi nei confronti dei clienti. Si tratta di un principio di per sé certamente non innovativo, in quanto già rinvenibile con chiarezza nella legge n. 1/1991, e successivamente riaffermato dal TUF nel 1998 e dalla disciplina regolamentare: tuttavia, la MiFID ne espande ulteriormente la portata facendolo diventare il cardine sul quale poggiano momenti qualificanti della disciplina, quali le regole in materia di conflitti di interesse, la best execution e, da ultimo, la product governance. L’organizzazione diventa, così, terreno sul quale si misura la capacità dell’impresa stessa di adempiere ai propri obblighi di condotta, con eventuale ricadute sul piano dell’eventuale inadempimento, e dei profili risarcitori.

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2. I “criteri generali” di comportamento e il conflitto di interessi Secondo un’impostazione che ha sempre caratterizzato la disciplina di cui si discute, e che risulta sostanzialmente confermata anche dopo il recepimento della MiFID, la struttura delle regole di comportamento si articola su due livelli principali: ad un primo livello si collocano norme di portata generale, che trovano applicazione a tutti i servizi e a tutte le attività prestate dal soggetto. Ad un secondo livello, si collocano regole di comportamento applicabili ai singoli servizi o attività. Sia nel primo, sia nel secondo livello, le fonti sono rappresentate: (i) da disposizioni europee direttamente applicabili, soprattutto derivanti da MiFID II; (ii) da norme primarie, essenzialmente contenute nel TUF; (ii) da norme regolamentari: per queste ultime, come abbiamo già avuto modo di illustrare, è competente la Commissione nazionale per le società e la borsa. Nell’ambito del primo livello – e cioè delle regole applicabili indistintamente a tutti i servizi – si rinvengono innanzitutto i cosiddetti “criteri generali” (art. 21 TUF), e le norme relative ai contratti (art. 23 TUF). Con riferimento ai criteri generali, l’art. 21 formula – seguendo le indicazioni che emergono anche dai testi comunitari – i “criteri generali” che presiedono allo svolgimento dei servizi ed attività di investimento, articolandoli su alcuni profili di fondo che possono così identificarsi 2: – obblighi generali di correttezza, diligenza, professionalità; – obblighi informativi; – organizzazione interna; – conflitti di interessi. (i) Gli obblighi generali di correttezza, diligenza, professionalità. L’art. 21 TUF si apre (comma 1, lett. a) con una disposizione, in base alla quale gli intermediari devono “comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati”. La previsione riprende principi e clausole generali già ricavabili dal diritto comune, che sarebbero già di per sé applicabili ai vari rapporti e alle diverse attività svolte dagli intermediari abilitati; è dunque opportuno interrogarsi sulle ragioni che hanno indotto il legislatore a formulare tale previsione. In realtà, il richiamo dei principi generali rende palese il legame che sussiste tra norme di diritto comune, e disciplina (speciale) dei comportamenti degli intermediari mobiliari, in quanto profili che concorrono entrambi alla definizione degli obblighi di condotta degli stessi. Le regole di condotta, per tale via, mantengono una posizione di continua dialettica con le clausole generali di correttezza, diligenza, buona fede, ecc., 2 La ricostruzione più aggiornata di taglio sistematico dell’insieme delle regole di condotta è di MAGGIOLO (2012), p. 347.

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a volte specificandole, altre volte integrandole 3. Sotto tale profilo, dunque, la circostanza che la lett. a) dell’art. 21 non riprenda alcune clausole generali (si pensi, ad esempio, al principio di buona fede) è del tutto ininfluente sulla loro applicabilità nella materia di cui si discute. Inoltre, il richiamo delle clausole generali, nell’ambito della disciplina dei comportamenti degli intermediari, rende tali clausole direttamente rilevanti ai fini dell’azione amministrativa, in particolare per quanto riguarda l’eventuale irrogazione di sanzioni in ipotesi di violazione, o l’avvio di procedure di gestione delle “crisi”. L’art. 21, lett. a), oltre a richiamare i principi generali, prevede espressamente l’obbligo per l’intermediario di “servire al meglio l’interesse dei clienti” e di rispettare l’“integrità dei mercati”. Se il primo elemento fa, nuovamente, emergere un profilo comunque ricavabile dal sistema, il secondo inciso necessita di alcune precisazioni. È ovvio che la norma non può certo intendersi nel senso di porre in capo agli intermediari una responsabilità per il corretto andamento dei mercati nel loro complesso; piuttosto, essa va intesa nel senso di richiedere all’intermediario un comportamento che non si ponga in contrasto con l’ordinato svolgimento dei mercati sui quali opera. Se letta in questa prospettiva, la norma è allora idonea a rafforzare il legame che sussiste tra la disciplina dei comportamenti relativamente ai rapporti con i clienti, da un lato, ed il comportamento osservato dall’intermediario nell’operare sui mercati, dall’altro. I due profili risultano, in verità, tra di loro connessi: il perseguimento dell’interesse del cliente richiede, anche nella prospettiva della “sana e prudente gestione”, che il soggetto operi in modo da non violare le regole di ordinato svolgimento dei mercati. Quanto al riferimento alla “integrità” del mercato, ciò dovrà intendersi nel senso di sicurezza, funzionalità, efficienza, trasparenza del comportamento tenuto dall’intermediario sul mercato; inoltre, l’accezione “mercato” va intesa in senso lato, ossia non soltanto come riferita ai cc.dd. “mercati regolamentatati”, ma, più ampiamente, al mercato dei capitali. (ii) Gli obblighi informativi. La disciplina degli obblighi di informazione è caratterizzata da un articolato insieme di disposizioni, chiaramente ispirate all’obiettivo di assicurare, nel rapporto tra intermediari e investitori, la massima trasparenza 4. Come avremo modo di osservare, numerose disposizioni che riguardano l’informativa sono rinvenibili nei Regolamenti europei che derivano, oggi, da MiFID II. Fermo quanto precede, la “cornice” del complesso insieme di regole che riguardano l’informazione nella prestazione dei servizi è tracciata dall’art 21, lett. b), in base al quale l’intermediario deve “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati”. La norma può agevolmente essere scomposta in due sezioni: 3 4

SANTORO (1994); RABITTI BEDOGNI (1998-II); ALPA (1998-III); MIOLA (2002). SARTORI (2004), p. 33 ss.

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nella prima, si tratta, infatti, di informazioni che vengono trasmesse dall’investitore all’intermediario, nella seconda di informazioni che vengono trasmesse da quest’ultimo all’investitore. Quanto al primo “flusso” di informazioni, il contenuto della previsione è, peraltro, estremamente generico, ed esso va opportunamente “decifrato” alla luce della normativa comunitaria e della disciplina regolamentare di attuazione del TUF: si tratta, infatti, di una norma che rinvia all’applicazione delle regole di “adeguatezza” e di “appropriatezza” 5, ora dettagliate negli artt. 54 ss. del Regolamento (UE) n. 2017/565. L’acquisizione delle informazioni dai clienti è dunque funzionale al rispetto delle regole testé richiamate, che operano – con gradi di intensità diversi – nella prestazione dei vari servizi e attività di investimento. In tal senso, la quantità e la qualità delle informazioni che l’intermediario deve richiedere all’investitore, in via preliminare alla prestazione dei servizi, è variabile rispetto alla tipologia del servizio e dell’attività di svolgere, e all’adempimento dei suddetti obblighi. La seconda parte della norma dispone, altresì, che gli intermediari devono operare in modo tale che i clienti siano “sempre adeguatamente informati”. Essa può essere letta congiuntamente con la lett. c) dell’art. 21, comma 1, che impone agli intermediari di “utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti”. Si tratta, infatti, di due disposizioni che incidono in senso lato sul contenuto degli obblighi informativi, sia di tipo squisitamente negoziale, sia di tipo diverso. In particolare, con il primo inciso ci si riferisce sinteticamente agli obblighi di informazione che permeano tutte le fasi del rapporto che intercorre tra intermediario e cliente: dalla fase precontrattuale, a quella di conclusione del contratto, all’esecuzione dello stesso. Con la seconda disposizione, invece, ci si riferisce alle informazioni diffuse in via promozionale e pubblicitarie, e dunque anche al di fuori dello svolgimento di un rapporto negoziale. Il Regolamento (UE) n. 2017/565 formula analitiche previsioni in merito al contenuto preciso di tali obblighi informativi, una volta contenute nel Regolamento intermediari, e oggi sostituite dalla disciplina europea di diretta applicazione. In tale contesto, gli obblighi informativi – per entrambi i profili segnalati – vengono specificati sia sul piano generale, sia con riguardo alla prestazione di singoli servizi, attività od operazioni: si tratta di obblighi che attengono tanto alla fase precontrattuale, quanto a quella dello svolgimento del rapporto. In tale ambito vengono, dapprima, specificati i requisiti generali delle informazioni, che – in qualsiasi fase del rapporto – devono essere “corrette, chiare 5

A causa di un’imperfezione (sic!) nella traduzione del testo in inglese della Direttiva, il termine “appropriatezza”, già utilizzato nel contesto della MiFID I, è stato tradotto con “idoneità”. I due termini sono però sovrapponibili, come dimostra il testo inglese della MiFID II, che utilizza sempre i termini di “appropriateness” e “suitability”.

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e non fuorvianti” (art. 44, Regolamento n. 565/2017). È opportuno porre in luce che la valutazione del rispetto dei criteri generali non è (solo) affidata all’opera dell’interprete, ma anche a precise indicazioni normative: in tal senso, gli artt. 44 e 46 del Regolamento declinano, in una lunga serie di prescrizioni, le “condizioni” affinché le informazioni possano dirsi “corrette, chiare e non fuorvianti”, così come le modalità con le quali le informazioni vanno rese. In tale contesto, si consolidano anche regole in parte già ricavabili dai principi, in parte innovative, in parte già collaudate in altri “settori” della disciplina, ivi compresa, naturalmente, la prima Direttiva MiFID. Viene così fornito all’interprete un puntuale “decalogo” al quale attenersi nell’adempimento dell’obbligo. Se quelli indicati all’art. 44 del Regolamento rappresentano i requisiti delle informazioni, il contenuto di tali informazioni è formulato nelle successive disposizioni. Se l’art. 45 riguarda le informazioni da fornire al cliente in merito alla sua classificazione ai fini MiFID (cliente al dettaglio/professionale/controparte qualificata), l’art. 47 formula un lungo elenco di ulteriori informazioni da rendersi in fase precontrattuale: si tratta, da un lato, di quelle che riguardano l’intermediario e la sua identificazione; dall’altro, di quelle che attengono a taluni elementi-chiave della disciplina, tra i quali, ad esempio, una sintesi della politica in materia di gestione dei conflitti di interessi, o una descrizione sintetica delle misure adottate per assicurare la protezione degli strumenti finanziari eventualmente detenuti. In tale contesto, vanno altresì fornite informazioni relative ai servizi prestati con particolare riguardo al servizio di gestione, che è oggetto – nel contesto delle previsioni dell’art. 47 – di specifiche disposizioni 6. Molto articolate risultano, inevitabilmente, le informazioni da fornire con riguardo agli strumenti finanziari (art. 48 del Regolamento n. 565/2017). Si richiede, in tale contesto, di fornire agli investitori – prima della prestazione dei servizi – “una descrizione generale della natura e dei rischi degli strumenti finanziari, tenendo conto, in particolare, della classificazione del cliente come cliente al dettaglio, cliente professionale o controparte qualificata. Tale descrizione spiega le caratteristiche del tipo specifico di strumento interessato, il funzionamento e i risultati dello strumento finanziario in varie condizioni di mercato, sia positive che negative, e i rischi propri a tale tipo di strumento, in modo sufficientemente dettagliato da consentire al cliente di adottare decisioni di investimento informate”. La previsione, che naturalmente vanta numerosi “antecedenti” nel sistema previgente a MiFID II, mostra qui uno specifico aggancio alla nuova disciplina in tema di product governance (v. infra), là dove, 6 Si segnala, in particolare, l’art. 47, par. 2 del Regolamento, in base al quale “Quando forniscono il servizio di gestione del portafoglio, le imprese di investimento stabiliscono un metodo adeguato di valutazione e raffronto, come ad esempio un valore di riferimento significativo, basato sugli obiettivi di investimento del cliente e sui tipi di strumenti finanziari inclusi nel portafoglio del cliente, in modo da consentire al cliente destinatario del servizio di valutarne l’esecuzione da parte dell’impresa”.

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in particolare, richiede che le informazioni siano rese avuto riguardo al mercato di riferimento, identificato per gli strumenti finanziari. Al di là della puntuale specificazione del precetto, resta fermo che la valutazione circa l’adempimento dell’obbligo deve comunque avvenire avuto riguardo al fatto che le informazioni devono essere “pertinenti per il tipo specifico di strumento finanziario e lo status e il livello di conoscenza del cliente”: l’art. 48 identifica un set essenziali di informazioni, ma le stesse vanno, in realtà, modulate tenuto conto di quanto precede. Si punta, insomma, ad un’informativa di qualità, non ridondante, ma allo stesso tempo completa. Quanto alle successive prescrizioni del Regolamento UE, si rinvengono precisi informativi relativamente ai seguenti profili: – informazioni concernenti la salvaguardia degli strumenti finanziari o dei fondi dei clienti (art. 49) che interessano le modalità con le quali è custodito il patrimonio dei clienti, eventuali modalità di sub-deposito, e l’esistenza di diritti di garanzia o privilegi che possono insistere sul patrimonio stesso, in funzione delle diverse modalità utilizzate per la detenzione. Vanno altresì fornite informazioni circa la possibilità che l’intermediario ha di utilizzare, per conto proprio o per conto di un altro cliente, gli strumenti finanziari (comma 7). Molto analitiche, e significativamente ampliate rispetto ai requisiti imposti dalla prima Direttiva MiFID, risultano le informazioni sui costi e gli oneri connessi alla prestazione dei servizi (artt. 50 e 51), la cui mappatura completa deve, peraltro, ricostruirsi avendo riguardo alle altre discipline di settore che “lambiscono” la materia dei servizi di investimento: offerte al pubblico, OICR, PRIIPS. Ne risulta una complessa matrice che punta, tuttavia, a far sì che il cliente abbia una conoscenza completa dei costi che sostiene per la prestazione dei servizi, e che vengono rappresentati in modo anche visivamente ben percepibile 7. Al di là dell’analitica ricostruzione delle singole disposizioni in tema di informazioni, viene confermata la centralità che, nel sistema delle regole di condotta, assumono gli obblighi informativi, i quali ultimi vengono individuati in via non soltanto generale, ma anche attraverso la puntuale (talvolta, quasi ossessiva) indicazione dei modi e dei tempi di adempimento. Là dove si consideri, poi, che le regole in parola discendono direttamente dal Regolamento europeo, pare evidente il disegno del legislatore comunitario di introdurre uno 7

Art. 50, par. 10, Regolamento n. 565/2017: “Le imprese di investimento forniscono ai clienti un’illustrazione che mostri l’effetto cumulativo dei costi sulla redditività che comporta la prestazione di servizi di investimento. Tale illustrazione è presentata sia ex ante che ex post. Le imprese di investimento provvedono a che l’illustrazione soddisfi i seguenti requisiti: a) l’illustrazione mostra l’effetto dei costi e degli oneri complessivi sulla redditività dell’investimento; b) l’illustrazione mostra eventuali impennate o oscillazioni previste dei costi; c) l’illustrazione è accompagnata da una sua descrizione”.

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standard comune che, puntualmente, disciplini l’adempimento degli obblighi in tutti gli Stati membri, introducendo norme di massima armonizzazione. Si deve osservare che, su questo profilo, la MiFID II apporta davvero significative novità rispetto al regime previgente. (iii) Gli obblighi organizzativi. L’art. 21, comma 1, lett. d) stabilisce che gli intermediari devono “disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività”. La regola non è nuova, in quanto già formulata nel sistema del TUF (e, prima di questo, dalla legge n. 1/1991): ciò che muta, già a partire dal sistema introdotto da MiFID I, è la sua portata, tanto in termini quantitativi, quanto in termini qualitativi. Sotto il primo profilo, il Regolamento n. 565/2017 è ricco di disposizioni che riguardano l’organizzazione interna del soggetto, e la necessità di proceduralizzare la prestazione dei servizi e delle attività 8. Oltre alle procedure previste per assicurare il rispetto delle regole più caratterizzanti del sistema (adeguatezza, appropriatezza, best execution) un ruolo di particolare rilievo spetta, in tale ambito, alle procedure di controllo interno, che – secondo quanto si ricava dalle prescrizioni europee – vengono ora ad articolarsi in tre aree tendenzialmente distinte, rappresentate dall’attività di controllo di conformità (c.d. “compliance”), dall’attività di internal audit e dall’attività di risk management. L’oggetto delle tre distinte funzioni di controllo – caratterizzate da autonomia, assenza di subordinazione rispetto alle aree sottoposte a controllo e separatezza – viene declinato secondo un’impostazione che discende da ormai consolidati orientamenti internazionali, applicabili peraltro anche al settore bancario e finanziario in genere. In sintesi, può rilevarsi come: – alla funzione di compliance spettano compiti di controllo attinenti all’adeguatezza ed efficacia delle procedure interne, nonché funzioni di consulenza ed assistenza, alle diverse funzioni aziendali, in merito all’adempimento degli obblighi discendenti dalla disciplina in tema di servizi di investimento ed accessori 9; – alla funzione di gestione del rischio, spettano compiti attinenti all’individuazione, al controllo e alla gestione delle varie tipologie di rischi alle quali è esposto l’intermediario (sia di tipo finanziario, sia di tipo operativo, legale, o di altro genere); – alla funzione di revisione interna spettano compiti di controllo di più alto livello, essendo tenuta a verificare l’adeguatezza dei sistemi, dei processi, delle procedure e dei meccanismi (anche) di controllo dell’intermediario. 8

V. in particolare gli artt. da 21 a 26 del Regolamento. Nelle banche, le disposizioni della MiFID devono necessariamente coordinarsi con le disposizioni dettate per le banche in tema di controlli interni. 9

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In questo caso, peraltro, il ricorso al principio di proporzionalità, discendente dai testi comunitari, consente agli intermediari di più ridotte dimensioni di adottare soluzioni più snelle rispetto a quella di base, ferma restando la necessità di assicurare i presidi previsti con riferimento a ciascuna delle materie oggetto di controllo. Sempre in tema di procedure, la disciplina di rango europeo conferma l’obbligo – già previsto in parte dalla disciplina previgente – per gli intermediari di dotarsi di regole adeguate per disciplinare lo svolgimento di operazioni personali da parte di esponenti aziendali, dipendenti o, in genere, “soggetti rilevanti” (art. 29, Regolamento n. 565/2017). L’obbligo è riferito, in particolare, alle procedure necessarie per regolare le operazioni personali che possono generare conflitti di interessi o che possono comportare lo sfruttamento di informazioni privilegiate o anche solo confidenziali: si osservi che il precetto è formulato sulla falsariga degli obblighi discendenti dalla disciplina in tema di abusi di mercato, che vengono così estesi e resi funzionali al rispetto anche delle regole sui conflitti di interessi e sullo sfruttamento di informazioni (meramente) confidenziali. Se i profili sui quali insiste la disciplina sul tema degli obblighi organizzativi e procedurali sono numerosissimi, come già detto le innovazioni principali sembrano collocarsi sul piano per così dire “qualitativo”. Intere “aree” della disciplina dei comportamenti sono ora affidate, oltre che al rispetto di regole di condotta in sé, alla procedimentalizzazione dell’agire, ossia alla predisposizione di corrette procedure, attraverso le quali l’intermediario è tenuto ad (auto) regolare tempi e modi della prestazione dei servizi, al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi posti dalle norme che di volta in volta rilevano. L’obbligo di dotarsi delle procedure, pertanto, non agisce soltanto sul fronte di eventuali responsabilità di tipo amministrativo o, in genere, sanzionatorio, ma si pone come direttamente funzionale all’adempimento degli obblighi di condotta, ed ha dunque una diretta ricaduta sul piano esterno, ossia su quello dei rapporti con gli investitori. (iv) La disciplina del conflitto di interessi. Uno dei punti cruciali della disciplina dei servizi e delle attività di investimento è, da sempre, rappresentato dalla regolamentazione dei conflitti di interessi. L’intermediario, infatti, può trovarsi in situazioni nelle quali potrebbe essere indotto a non realizzare appieno l’interesse del proprio cliente/investitore, essendo, piuttosto, tentato di privilegiare altri interessi (ad esempio, l’interesse proprio, quello di altri investitori, o quello di soggetti collegati all’intermediario stesso). La natura polifunzionale dell’intermediario che presta servizi di investimento – tratto caratteristico della stessa disciplina europea – accentua, poi, la portata del problema, anche se i conflitti possono verificarsi indipendentemente dal fatto che il soggetto svolga più servizi contemporaneamente. Il tema dei conflitti, infine, caratterizza anche le possibili

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interferenze tra prestazione di servizi di investimento, e svolgimento di altre attività finanziarie: il caso più emblematico è, a tal riguardo, rappresentato dai potenziali conflitti tra l’attività bancaria “tradizionale” (tipicamente, l’erogazione di credito) e le attività mobiliari 10. Storicamente, l’approccio che, nelle varie legislazioni europee, si è affermato relativamente al problema dei conflitti è stato essenzialmente nel senso di dettare norme per disciplinare le situazioni di conflitto: si è cioè preso atto del fatto che il conflitto di interessi non può essere eliminato, in quanto è immanente alla stessa prestazione dei servizi di investimento, soprattutto da parte di soggetti polifunzionali. Le regole dovrebbero, piuttosto, fare in modo che – nonostante il conflitto – l’intermediario agisca in modo trasparente e nel miglior interesse del proprio cliente. È questa l’impostazione che ora discende anche dalla disciplina MiFID, che tratta dei conflitti di interessi già nell’ambito degli obblighi di organizzazione dell’intermediario (con ricadute sui profili negoziali). In tal senso, l’art. 21, comma 1-bis, TUF prevede che i soggetti abilitati: a) adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interessi che potrebbero insorgere con il cliente o fra clienti, e li gestiscono, anche adottando idonee misure organizzative, in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti; e b) informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti di interessi quando le misure adottate ai sensi della lett. a) non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato. Si tratta di due regole che vengono poi in parte riprese, in parte ulteriormente specificate, negli artt. 33 e ss. del Regolamento n. 565/2017. L’approccio al problema del conflitto di interessi che viene così ad affermarsi, con il recepimento della MiFID, si caratterizza per una marcata accentuazione dei profili di tipo organizzativo: l’obbligo che, in via prioritaria, è imposto all’intermediario è di identificare i conflitti e di gestirli, in particolare attraverso idonee misure organizzative. Soltanto qualora le misure così adottate non siano sufficienti ad evitare il rischio che dal conflitto possa derivare nocumento all’investitore, l’intermediario può far ricorso alla disclosure del conflitto stesso. La disciplina pone, peraltro, varie questioni interpretative ed applicative. Un primo elemento attiene, inevitabilmente, alla identificazione delle situazioni di conflitto: conservando, sul punto, un’impostazione tradizionale, le norme europee si astengono, in linea di massima, dall’identificare puntuali situazio10

Per un’analisi delle conseguenze civilistiche della violazione della disciplina sul conflitto di interessi v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 348 ss. Sui conflitti nella prestazione dei servizi di investimento v. (ancora attuali, anche se antecedentemente al recepimento della MiFID) LUMINOSO (2007); NUZZO (2007); COSTI (2007-II); LENER (2007).

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ni, o casi di conflitto, fornendo, di contro, indicazione delle situazioni che possono dar luogo agli stessi 11. Il processo di “identificazione” dei conflitti passa, dunque, attraverso una vera e propria autoanalisi del soggetto, che è tenuto ad una disamina completa delle situazioni da cui possono originare i conflitti stessi: in tal senso, i criteri di cui all’art. 33 sono, per l’appunto, minimali, e non esimono il soggetto dal considerare altre situazioni che, di volta in volta, potrebbero essere rilevanti in funzione della tipologia di attività svolta, della struttura del gruppo di appartenenza, o di altri elementi. In questo senso, già una insufficiente “mappatura” delle situazioni di conflitto integrerebbe il mancato rispetto della disciplina. Si osservi, peraltro, che – diversamente dal sistema precedente – l’art. 34, par. 2, lett. b) del Regolamento n. 565/2017 fa espresso riferimento anche al fatto che i conflitti non vanno soltanto identificati e gestiti, ma devono anche formare oggetto di prevenzione. L’identificazione dei conflitti comporta, comunque, un’analisi che investe non soltanto l’attività propria del soggetto, ma anche quella dei cc.dd. “soggetti rilevanti” (come definiti dalla normativa), o dei soggetti che intrattengono con lo stesso rapporti di controllo (diretto o indiretto): entrano dunque in gioco sia i rapporti e le situazioni che interessano l’intermediario, sia quelli che coinvolgono tali altre categorie di soggetti. L’analisi deve poi ritenersi estesa non soltanto all’ambito della prestazione di servizi o di attività di investimento, giacché i conflitti possono sorgere anche rispetto ad attività diverse: ad esempio, con riferimento alla contemporanea prestazione, da parte del soggetto, di attività e servizi tipicamente “bancari” (erogazione di credito, concessione di garanzie, ecc.). Si tratta, infine, di un’analisi che è giocoforza dinamica, ossia che deve adattarsi, nel corso del tempo, all’evol11

Art. 33, par. 1, Regolamento n. 565/2017: “Come criterio minimo per determinare i tipi di conflitti di interesse che possono insorgere al momento della fornitura di servizi di investimento e servizi accessori, o di una combinazione di essi, e la cui esistenza può ledere gli interessi di un cliente, le imprese di investimento considerano se l’impresa di investimento, un soggetto rilevante o una persona avente un legame di controllo, diretto o indiretto, con l’impresa si trovi in una delle seguenti situazioni, sia a seguito della prestazione di servizi di investimento o servizi accessori o dell’esercizio di attività di investimento, sia per altra ragione: a) è probabile che l’impresa, il soggetto o la persona realizzino un guadagno finanziario o evitino una perdita finanziaria a spese del cliente; b) l’impresa, il soggetto o la persona hanno nel risultato del servizio prestato al cliente o dell’operazione realizzata per suo conto un interesse distinto da quello del cliente; c) l’impresa, il soggetto o la persona hanno un incentivo finanziario o di altra natura a privilegiare gli interessi di un altro cliente o gruppo di clienti rispetto a quelli del cliente interessato; d) l’impresa, il soggetto o la persona svolgono la stessa attività del cliente; e) l’impresa, il soggetto o la persona ricevono o riceveranno da una persona diversa dal cliente un incentivo in relazione con il servizio prestato al cliente, sotto forma di benefici monetari o non monetari o di servizi”.

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versi della situazione dell’intermediario, e degli altri soggetti coinvolti, e che presuppone, necessariamente, l’attivazione di adeguati flussi informativi tra i soggetti interessati, volti a consentire l’identificazione delle situazioni di conflitto che, nel corso del tempo, potrebbero manifestarsi. Dalla identificazione delle situazioni di conflitto discende l’obbligo di elaborare una “politica di gestione” dei conflitti stessi, che avrebbe l’obiettivo di evitare il rischio che i conflitti possano nuocere all’investitore. Il riferimento alla “politica” è da intendersi all’elaborazione di una procedura scritta (cfr. art. 34, par. 1, Regolamento n. 565/2017), alla quale è affidato il compito di disciplinare la gestione delle situazioni conflittuali. Anche con riguardo alla politica di gestione dei conflitti, la normativa ne identifica il contenuto minimale: il criterio principale da adottare è quello della indipendenza dei soggetti coinvolti in attività od operazioni dalle quali può derivare un conflitto di interessi (art. 34, par. 3), e risultano definiti gli standard ai quali la politica deve conformarsi per assicurare tale indipendenza. In proposito, si prevede che gli intermediari debbano adottare – là dove appropriato 12 – misure e procedure volte a: a) impedire o controllare lo scambio di informazioni tra i soggetti rilevanti coinvolti in attività che comportano un rischio di conflitto di interessi, quando lo scambio di tali informazioni possa ledere gli interessi di uno o più clienti; b) garantire la vigilanza separata dei soggetti rilevanti le cui principali funzioni coinvolgono interessi potenzialmente in conflitto con quelli del cliente per conto del quale un servizio è prestato; c) eliminare ogni connessione diretta tra le retribuzioni dei soggetti rilevanti che esercitano in modo prevalente attività idonee a generare tra loro situazioni di potenziale conflitto di interesse; d) impedire o limitare l’esercizio di un’influenza indebita sullo svolgimento, da parte di un soggetto rilevante, di servizi o attività di investimento o servizi accessori; e) impedire o controllare la partecipazione simultanea o successiva di un soggetto rilevante a distinti servizi o attività di investimento o servizi accessori, quando tale partecipazione possa nuocere alla gestione corretta dei conflitti di interessi. Il “catalogo” recato dall’elencazione di cui sopra riflette soluzioni in parte nuove, in parte già previste dalla disciplina antecedente: emblematica, in tale ultimo senso, la lett. a), che richiama la soluzione dei cc.dd. “chinese walls”, di fatto contemplati e riconosciuti in vari sistemi europei sin dagli anni ’80. An12 L’inciso “là dove appropriato” riflette il c.d. principio di “proporzionalità” che caratterizza numerose previsioni della disciplina dei servizi di investimento, ed in base al quale la concreta portata delle singole regole di organizzazione è da intendersi – in parte – modulabile in funzione delle dimensioni, della complessità e, in genere, dell’assetto dell’intermediario.

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che in questo caso, la natura esemplificativa e minimale dell’elencazione che precede è confermata dal par. 4, comma 2, in base al quale (nel caso in cui le misure e le procedure di cui sopra non assicurino l’indipendenza richiesta , gli intermediari adottano le misure e procedure alternative o aggiuntive necessarie e appropriate a tal fine. La disciplina dei conflitti di interessi si presenta, per tale via, come un tipico esempio di regolamentazione “per obiettivi”: le regole, cioè, non indicano schemi o standard rigidi, ma tengono conto della necessità di adattamento alle specifiche situazioni del caso, fermo restando l’obbligo di assicurare il raggiungimento dello scopo indicato. Nel quadro sopra tratteggiato, la disclosure nei confronti dell’investitore della situazione di conflitto – che configurava, nel sistema previgente, la soluzione di base per il superamento delle situazioni conflittuali – viene ad assumere una portata residuale, per così dire di “extrema ratio” 13. In tal senso, l’art. 34, par. 4 del Regolamento n. 565/2017 prevede che quando le misure adottate per la gestione dei conflitti non siano sufficienti ad evitare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, gli intermediari informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura e/o delle fonti dei conflitti affinché essi possano assumere una decisione informata, sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano. Si precisa, a riguardo, che la disclosure deve intendersi come “misura estrema da utilizzarsi solo quando le disposizioni organizzative e amministrative non sono sufficienti”. Ne deriva, nel modo di affrontare la disciplina dei conflitti, una decisa, e sostanziale svalutazione del ruolo della trasparenza, a tutto vantaggio del ruolo dei presidi organizzativi interni: in particolare, se questi ultimi sono ritenuti sufficienti a raggiungere gli obiettivi posti dalle disposizioni in commento, la disclosure non è né dovuta, né necessaria, ma neppure opportuna. Di converso, qualora i presidi organizzativi interni – nelle due fasi rispettivamente rappresentate dalla “identificazione” e dalla “gestione” dei conflitti – non sono sufficienti, la disclosure è necessaria ma, di per sé, non può sostituirsi ai presidi medesimi, che devono comunque esistere e, per quanto possibile, essere efficaci. In altri termini non è consentito all’intermediario utilizzare la disclosure in via alternativa o sostitutiva rispetto al dovere di organizzarsi adeguatamente, con la conseguenza che, qualora sia carente sul fronte dell’organizzazione, la disclo13 Nel sistema precedente, era questa la soluzione generale prevista dalla normativa in caso di situazioni di conflitto. In particolare, l’art. 27 del Regolamento n. 11522/1998, stabiliva che “gli intermediari autorizzati non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l’investitore sulla natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e l’investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto all’effettuazione dell’operazione”.

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sure del conflitto non varrà a esonerare l’intermediario da responsabilità per aver operato in situazioni di conflitto di interessi. Infine, in tema di conflitto di interessi, l’art. 35 del Regolamento n. 565/2017 prevede l’obbligo di istituire un registro nel quale annotare le situazioni nelle quali sia sorto o, nel caso di un servizio o di un’attività in corso, possa sorgere un conflitto di interesse che rischia di ledere gravemente gli interessi di uno o più clienti. La finalità del registro è, da un lato, funzionale all’adempimento degli obblighi di organizzazione; dall’altro, all’attività di verifica e controllo. Sotto il primo profilo, la “fotografia” delle situazioni “pericolose”, da effettuarsi nel registro, dovrebbe agevolare l’identificazione dei conflitti rilevanti, e la loro adeguata gestione; sotto il secondo profilo, il registro offrirebbe (ma il condizionale è d’obbligo) una prima indicazione delle attività maggiormente esposte al rischio di conflitto, nei confronti delle quali il sistema del controllo, sia interni, sia esterni all’intermediario, dovrebbe appuntare la propria attenzione. Da sempre è, peraltro, discussa la portata della disciplina: in particolare non è del tutto chiaro il rapporto tra la disciplina del “registro” e quella, più generale, della politica di gestione dei conflitti. La tesi che appare preferibile sembra essere nel senso che il registro è destinato ad accogliere l’identificazione dei conflitti maggiormente “pericolosi”: in tal senso depone il fatto che la norma fa riferimento ai conflitti che rischiano di ledere “gravemente” gli interessi dei clienti, inciso che, di contro, non figura nell’ambito delle disposizioni che regolano la politica di gestione, o le regole sulla disclosure dei conflitti. Tuttavia, il riferimento ai conflitti anche solo “potenziali”, che figura nell’art. 35 (e nella corrispondente previsione comunitaria) rende i confini della norma poco chiari, accentuando il rischio che, alla fine, il registro si risolva in un’inutile ripetizione, o in una sorta di “duplicato” della politica (da adottarsi in forma scritta) di identificazione e gestione dei conflitti. È discusso se l’approccio alla materia del conflitto di interessi, discendente dalle due Direttive MiFID, comporti un effettivo rafforzamento della tutela riconosciuta agli investitori, rispetto alle regole precedentemente previste. In senso positivo, si può osservare come le nuove disposizioni siano indubbiamente più attente a profili di tipo “sostanziale”, ossia alla concreta modalità di gestione del conflitto, e al perseguimento dell’obiettivo di evitare che il conflitto – di fatto – nuoccia agli investitori. In senso contrario, tuttavia, si è da tempo osservato come la disciplina renda la gestione del conflitto assai “opaca”: la situazione di conflitto, infatti, viene esternalizzata, e resa nota all’investitore, soltanto in casi estremi, di guisa che l’investitore in generale non saprà neppure che, in una determinata attività od operazione, l’intermediario è portatore di un conflitto. A quel punto, la verifica della “bontà” delle soluzioni adottate finisce per essere affidata a verifiche ex-post, che potrebbero risultare tardive e poco efficaci 14. 14

V. le perplessità sollevate da ENRIQUES (2005).

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Fermo quanto precede, si segnala che la MiFID II ha introdotto regole specifiche, in materia di conflitti di interessi, riferite a talune attività o ambiti particolari: gli artt. 36 e 37 del Regolamento n. 565/2017 formulano disposizioni ad hoc relative alla gestione dei conflitti nell’attività di ricerca in materia di investimenti, e comunicazioni di marketing; l’art. 38 tratta dell’attività di assunzione a fermo e del collocamento l’art. 39 si occupa dei conflitti che possono emergere in relazione alla determinazione del prezzo degli strumenti finanziari in caso di emissione degli stessi; l’art. 40 detta requisiti ulteriori, sempre in materia di collocamento di strumenti finanziari; l’art. 41 formula requisiti supplementari in relazione a consulenza, distribuzione e collocamento di strumenti propri; gli artt. 42 e 43 trattano profili che attengono alla fornitura di credito nel contesto di operazioni di assunzione a fermo o di collocamento. Queste regole specifiche non figuravano nel contesto della MiFID I: la loro formulazione nel contesto della MiFID II testimonia il crescente rilievo che la materia ha assunto nel contesto della disciplina dei servizi di investimento, oggetto di disciplina sempre più analitica ed articolata.

3. Le regole caratterizzanti: adeguatezza, appropriatezza, best execution Nell’ambito dell’articolata e pervasiva disciplina che attiene alla condotta degli intermediari spiccano alcune regole che assumono portata per così dire “caratterizzante”. Oltre alla disciplina del conflitto di interessi si tratta delle disposizioni in tema di adeguatezza, appropriatezza, e best execution. La funzione caratterizzante di queste regole risiede in ciò che esse rappresentano, i.e. i momenti maggiormente qualificanti della condotta degli intermediari, ossia quelli sui quali si misura, in primo luogo e innanzitutto, il rispetto da parte dei soggetti abilitati dei principi generali richiamati anche dall’art. 21 TUF.

3.1. (Segue): la regola di “adeguatezza” La disciplina sull’adeguatezza è, ormai, risalente: in Italia, la sua introduzione risale alla legge n. 1/1991, e la sua portata è ormai oggetto di innumerevoli precedenti giurisprudenziali nell’ambito del contenzioso sul c.d. “risparmio tradito”, diffusosi all’indomani dei default che hanno interessato il mercato finanziario italiano in anni recenti. La funzione alla quale assolve la disciplina in commento è quella di rafforzare i doveri di assistenza e di collaborazione dell’intermediario nei confronti dell’investitore, facendo divieto di effettuare o consigliare operazioni non adeguate al “profilo” dell’investitore stesso. Si tratta, pertanto, di una regola che travalica, e va ben oltre, la semplice filosofia della

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trasparenza, la quale ultima – di contro – affronta il problema della tutela dell’investitore agendo essenzialmente sul profilo dell’informazione e della disclosure. La disciplina derivante dalla MiFID, come già detto, riformula la regola, e ciò nel senso che ridefinisce i parametri in base ai quali l’intermediario è tenuto a verificare l’adeguatezza dell’operazione, e – soprattutto – rende la regola non derogabile: pertanto, a differenza di quanto si stabiliva nella disciplina precedente, là dove una data operazione non sia adeguata, essa non può essere eseguita, neppure nel caso in cui l’investitore autorizzi espressamente l’operazione stessa, o reiteri l’ordine o l’istruzione dalla quale l’operazione originerebbe. Il giudizio di adeguatezza, pertanto – nell’ipotesi in cui dia esito negativo – diviene bloccante, il che, inevitabilmente, rafforza la portata della regola e la sua centralità per il sistema. A fronte di tale impostazione, tuttavia, la MiFID limita la portata della regola di adeguatezza unicamente al servizio di gestione di portafogli ed al servizio di consulenza: ossia, ai due servizi per i quali le scelte di investimento derivano da decisioni o “suggerimenti” dell’intermediario stesso, anziché dell’investitore. Ciò comporta una notevole differenza rispetto alla situazione antecedente, nella quale – di contro – la regola di adeguatezza, anche se “disponibile”, aveva una portata generale. Ciò detto, l’art. 54 del Regolamento n. 565/2017 individua le informazioni che gli intermediari, per adempiere all’obbligo di valutazione dell’adeguatezza, devono acquisire dai clienti, stabilendo che esse consistono nelle informazioni di cui necessitano per comprendere le caratteristiche essenziali dei clienti e per disporre di una base ragionevole per determinare, tenuto conto della natura e della portata, se il servizio fornito soddisfa i seguenti criteri: – corrisponde agli obiettivi del cliente, inclusa la sua tolleranza al rischio. Tra questi obiettivi va considerato anche l’orizzonte temporale per il quale il cliente desidera conservare l’investimento; – è di natura tale che il cliente è finanziariamente in grado di sopportare i rischi connessi all’investimento, compatibilmente con i suoi obiettivi di investimento. Tali informazioni includono il reddito del cliente, le sue attività, gli investimenti, anche in immobili, e i suoi impegni finanziari regolari; – è di natura tale per cui il cliente possiede le necessarie esperienze e conoscenze per comprendere i rischi inerenti all’operazione o alla gestione del suo portafoglio (cfr., sul punto, l’art. 55 del Regolamento n. 565/2017). Nel caso in cui il cliente sia professionale, l’intermediario può presumere la sussistenza di quest’ultimo elemento. Se il cliente è professionale di diritto, l’intermediario può anche presumere che esso sia in grado finanziariamente di sopportare i rischi di investimento. Oltre a ridefinire la portata della regola di adeguatezza, la nuova disciplina chiarisce alcuni elementi problematici. Una prima questione – che si pone, per

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la verità, sin dall’introduzione della regola originaria – attiene alle conseguenze che derivano dalla mancata disponibilità delle informazioni richieste. Sul punto, l’art. 54, par. 8, stabilisce che – in tal caso – il servizio non può essere prestato. La conclusione, peraltro, sembra debba valere sia nell’ipotesi in cui l’investitore non fornisca all’intermediario alcuna delle informazioni richieste, sia nell’ipotesi in cui le informazioni siano fornite, ma in misura non sufficiente a consentire la formulazione del giudizio di adeguatezza. Naturalmente, l’intermediario non può scoraggiare l’investitore dal fornire le informazioni richieste (art. 55, par. 3). In linea generale, l’intermediario non dovrebbe avere il compito di verificare la veridicità e la completezza delle informazioni fornite dagli investitori in base a quanto precede: trattandosi di norme poste a tutela, e nell’interesse dell’investitore stesso, il sistema non può spingersi sino al punto di proteggere quest’ultimo dal proprio inadempimento. In tal senso, sembra potersi concludere che la comunicazione delle informazioni richieste configuri, in capo all’investitore, un vero e proprio obbligo che, in caso di inadempimento, giustifica e legittima il rifiuto di prestare il servizio da parte dell’intermediario. Quanto precede, tuttavia, sembra debba valere nei limiti in cui le informazioni fornite dall’investitore non siano palesemente inesatte, incomplete o superate (cfr. in tal senso, l’art. 54, comma 7): in questo caso, infatti, non possono che riprendere vigore i principi generali che, improntando l’operato dell’intermediario a pregnanti standard di diligenza, correttezza e professionalità, impongono di addivenire ad una diversa soluzione. L’intermediario sarà allora tenuto a integrare le informazioni rilasciate dal cliente con quelle di cui è in possesso, o a richiedere al cliente di confermare, modificare o completare le informazioni già comunicate, in difetto di che dovrà rifiutare la prestazione del servizio. In tale ambito, è opportuno porre in luce come la disposizione testé richiamata contempli anche la circostanza per la quale le informazioni di cui è in possesso l’intermediario risultino superate, in quanto obsolete: sotto questo profilo, si affronta una delle questioni più dibattute nel vigore del sistema precedente, e, in particolare, quella dell’obbligo dell’intermediario di aggiornare il “profilo” dell’investitore, nel corso del tempo. Se, sul punto, nel sistema precedente tale conclusione – volta ad imporre all’intermediario una gestione dinamica del profilo dell’investitore – doveva, non senza fatica, ricavarsi dal sistema, essa sembra comunque discendere de plano dalla formulazione delle disposizioni in commento. Peraltro, nel tempo, l’onere per l’intermediario di aggiornare il profilo del cliente è stato espressamente sancito anche dall’ESMA negli “Orientamenti su alcuni aspetti dei requisiti di adeguatezza della Direttiva MiFID” del 25 giugno 2012, a cui gli intermediari sono tenuti a conformarsi ai fini della corretta ottemperanza agli obblighi stabiliti in via generale dalla normativa loro applicabile. Detti orientamenti sono stati recepiti dalla Consob con la comunica-

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zione del 25 ottobre 2012, n. 12084516, in vigore dal 22 dicembre del medesimo anno, e devono ritenersi tutt’ora validi anche in vigenza della MiFID II. In linea con l’orientamento 4, gli intermediari devono, in un rapporto continuativo con il cliente, conservare informazioni aggiornate e adeguate sullo stesso. L’aggiornamento delle informazioni può avvenire con frequenza diversa a seconda della natura e del profilo di rischio del cliente. Come ricorda l’ESMA, un profilo di rischio più alto o una maggiore anzianità del cliente richiedono un aggiornamento più frequente. Inoltre, anche l’accadimento di alcuni eventi, come, ad esempio, il raggiungimento dell’età pensionabile, potrebbero determinare la modifica del profilo di rischio del cliente, rendendo quindi necessario procedere con un aggiornamento delle informazioni raccolte.

3.2. (Segue): la regola di “appropriatezza” Su di un piano diverso, ma contiguo, si pone la regola di “appropriatezza”. La struttura della disciplina rispecchia quella prevista per la valutazione di adeguatezza, ma la differenza si coglie innanzitutto sul piano di applicazione della portata della stessa. Infatti, l’appropriatezza connota la prestazione dei servizi diversi dalla consulenza e dalla gestione. In secondo luogo, il giudizio di appropriatezza si misura soltanto sul livello di esperienza e conoscenza di cui è in possesso l’investitore, necessari per comprendere i rischi che lo strumento o il servizio richiesti comportano: pertanto, il giudizio di appropriatezza non insiste sulla valutazione della capacità finanziaria del cliente, né dei suoi obiettivi di investimento. In terzo luogo, nel caso in cui l’operazione o il servizio non risultino appropriati, l’intermediario è tenuto ad informare l’investitore di tale situazione, ma senza che ciò si traduca nel divieto di operare, come invece si verifica nel caso del giudizio di adeguatezza, e senza che – in tale circostanza – il cliente debba necessariamente reiterare o confermare la propria intenzione di procedere con l’operazione. Infine, qualora le informazioni acquisite non siano sufficienti a consentire all’intermediario di formulare il giudizio di appropriatezza, egli è tenuto – nuovamente – a formulare una mera avvertenza, nei medesimi termini di cui sopra. La complessiva disciplina in materia di adeguatezza e appropriatezza è accompagnata, infine, da presidi rafforzati, quando riguarda strumenti finanziari complessi o strutturati, secondo le indicazioni già fornite dall’ESMA in proposito 15. 15

V. in particolare gli Orientamenti ESMA in materia – ESMA/2015/1787, del 4 febbraio 2016, recepiti dalla Consob con Avviso 12 aprile 2016, n. 0032422/16. Si veda anche la Comunicazione 22 dicembre 2014, n. 0097996, sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi ai clienti retail.

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3.3. (Segue): i servizi “execution only” Nella prestazione dei servizi, la MiFID ha previsto una “zona franca”, ossia un ambito nel quale non trovano applicazione né la regola di adeguatezza, né quella di appropriatezza: si tratta del servizio di ricezione e trasmissione ordine prestato in modalità c.d. “execution only”. In tal caso, infatti, l’intermediario si limita – dichiaratamente – a dare esecuzione agli ordini trasmessi dagli investitori, senza offrire né prestare alcun “supporto” ulteriore La disciplina però si applica al ricorrere dei presupposti indicati nell’art. 25, par. 4 della MiFID II 16, e quando l’attività riguarda gli strumenti finanziari ivi enumerati, ossia strumenti che, in sintesi, si possono definire come “semplici”: i) azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente di un paese terzo o in un sistema multilaterale di negoziazione, se si tratta di azioni di società e ad esclusione delle azioni di organismi di investimento collettivo diversi dagli OICVM e delle azioni che incorporano uno strumento derivato; ii) obbligazioni o altre forme di debito cartolarizzato, ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente di un paese terzo o in un sistema multilaterale di negoziazione, ad esclusione di quelle che incorporano uno strumento derivato o una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio associato; iii) strumenti del mercato monetario, ad esclusione di quelli che incorporano uno strumento derivato o una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio associato; iv) azioni o quote in OICVM ad esclusione degli OICVM strutturati di cui all’art. 36, par. 1, comma 2, del Regolamento (UE) n. 583/2010; v) depositi strutturati, ad esclusione di quelli che incorporano una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio del rendimento o il costo associato all’uscita dal prodotto prima della scadenza; vi) altri strumenti finanziari non complessi ai fini del par. 4. Seppur limitata alla trattazione di particolari strumenti finanziari, la modalità “execution only” rappresenta una modalità di prestazione dei servizi, che può risultare funzionale alla rapidità di esecuzione, e al contenimento del costo di servizio.

16

Art. 25, par. 4, Direttiva MiFID II: “Gli Stati membri autorizzano le imprese di investimento, quando prestano servizi di investimento che consistono unicamente nell’esecuzione o nella ricezione e trasmissione di ordini del cliente con o senza servizi accessori – esclusa la concessione di crediti o prestiti ex allegato I, sezione B1 non consistenti in limiti di credito di prestiti, conti correnti e scoperti di conto già esistenti dei clienti – a prestare detti servizi di investimento ai loro clienti senza che sia necessario ottenere le informazioni o procedere alla determinazione di cui al paragrafo 3”.

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3.4. La best execution Con l’eliminazione della regola in tema di concentrazione degli scambi nei mercati regolamentati, il recepimento della prima Direttiva MiFID aveva comportato altresì la riformulazione della regola di best execution, ossia della regola che impone agli intermediari – nell’esecuzione degli ordini dei clienti – di ottenere le migliori condizioni possibili. Nel vigore della regola di concentrazione – introdotta in Italia con la legge n. 1/1991 – si era, infatti, introdotta una presunzione di rispetto della regola di best execution, riferita in particolare alle operazioni concluse nei mercati regolamentati: la regola di best execution, originariamente concepita quale forma di tutela dell’investitore, finiva così per soddisfare anche (o prevalentemente) l’interesse alla concentrazione delle operazioni nei mercati ufficiali, uscendone – tutto sommato – snaturata. La successiva eliminazione della regola di concentrazione, e la parificazione tra le diverse venues di esecuzione degli ordini, aveva posto la questione in termini nuovi 17. Ora, la MiFID II re-introduce, seppure in termini meno pervasivi di quanto stabiliva la legge n. 1/1991, talune regole che impongono di disporre l’esecuzione degli ordini nelle trading venues organizzate (la c.d. “trading obligation” – v. infra, Cap. XIII), che – sebbene relative alla disciplina dei mercati – ha ovviamente un impatto sulla regola di cui si discute. La disciplina della best execution si affida – innanzitutto – ai requisiti organizzativi e procedurali, quale primo e più importante “modo” per assicurare il rispetto degli standard imposti. L’obbligo che, in via prioritaria, è posto in capo agli intermediari consiste, infatti, nell’elaborazione di una procedura che, in forma scritta, identifichi la “strategia” di esecuzione degli ordini (art. 27, MiFID II e art. 66, Regolamento n. 565/2017), ossia che dia conto e predetermini la selezione delle venues e il loro concreto utilizzo, in funzione delle tipologie di strumenti finanziari e/o di operazioni da compiere. In tal senso, la ricerca delle condizioni di best execution avverrà non in assoluto – con riferimento, cioè, a tutte le possibili sedi di esecuzione potenzialmente accessibili sul mercato in un determinato momento – ma unicamente con riguardo a quelle sedi che, con la diligenza richiesta, l’intermediario ha preventivamente selezionato quali possibili venues all’atto dell’elaborazione della strategia di cui sopra 18. Con il che, il rispetto degli obblighi di best execution arretra, per così 17

Cfr. CAPRIGLIONE (2009). Nel Considerando 104 del Regolamento n. 565/2017 si legge che “L’obbligo di ottenere il miglior risultato possibile quando si eseguono gli ordini dei clienti si applica in relazione a tutti i tipi di strumenti finanziari. Tuttavia, date le differenze tra le strutture dei mercati o degli strumenti finanziari può essere difficile individuare ed applicare, per l’esecuzione alle condizioni migliori, un criterio ed una procedura uniformi che siano validi ed efficaci per tutte le categorie di strumenti. Pertanto gli obblighi di esecuzione alle condi18

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dire, già al livello della definizione della strategia di esecuzione, da predeterminarsi in via generale 19. Tale assetto è reso evidente dalla disamina delle regole che, nel Regolamento n. 565/2017, specificano i criteri generali recati dalla Direttiva MIFID II nella materia di cui si discute, e segnatamente: a) le caratteristiche del cliente, compresa la sua classificazione come cliente al dettaglio o professionale; b) le caratteristiche dell’ordine del cliente, incluso quando l’ordine include operazioni di finanziamento tramite titoli; c) le caratteristiche degli strumenti finanziari che sono oggetto dell’ordine; d) le caratteristiche delle sedi di esecuzione alle quali l’ordine può essere diretto. Si precisa che per “sede di esecuzione” si intende “un mercato regolamentato, un MTF, un OTF, un internalizzatore zioni migliori dovrebbero essere applicati in modo da tenere conto delle diverse circostanze collegate all’esecuzione degli ordini relativi a particolari tipi di strumenti finanziari. Ad esempio, le operazioni su uno strumento finanziario OTC personalizzato che comportano una relazione contrattuale particolare adattata alle caratteristiche del cliente e dell’impresa di investimento possono non essere comparabili, ai fini dell’esecuzione alle condizioni migliori, con le operazioni su azioni negoziate in sedi di esecuzione centralizzate. Dal momento che gli obblighi di esecuzione alle condizioni migliori si applicano a tutti gli strumenti finanziari, siano essi negoziati in sedi di negoziazione o OTC, le imprese di investimento dovrebbero raccogliere i dati di mercato pertinenti al fine di controllare se il prezzo OTC offerto per un cliente è corretto e consono agli obblighi di esecuzione alle condizioni migliori”. 19 È utile, a riguardo, la lettura del Considerando 99 del Regolamento n. 565/2017, in base al quale “Quando stabilisce la strategia di esecuzione a norma dell’articolo 27, paragrafo 4, della direttiva 2014/65/UE, l’impresa di investimento dovrebbe determinare l’importanza relativa dei fattori menzionati all’articolo 27, paragrafo 1, della stessa direttiva o almeno stabilire la procedura attraverso la quale determinare l’importanza relativa di tali fattori, in modo da poter fornire il migliore risultato possibile ai propri clienti. Per poter applicare efficacemente tale strategia le imprese di investimento dovrebbero selezionare le sedi di esecuzione che consentono loro di ottenere sistematicamente il migliore risultato possibile nell’esecuzione degli ordini dei clienti. Per conformarsi all’obbligo giuridico dell’esecuzione alle condizioni migliori le imprese di investimento, quando applicano i criteri per l’esecuzione alle condizioni migliori per i clienti professionali, di norma non utilizzeranno le stesse sedi di esecuzione per le operazioni di finanziamento tramite titoli (SFT) e per le altre operazioni. Questo perché le SFT sono utilizzate come fonte di finanziamento soggetta all’impegno per chi riceve il prestito di restituire titoli equivalenti ad una data da stabilirsi e le condizioni delle SFT sono generalmente stipulate bilateralmente tra le controparti prima dell’esecuzione. Pertanto, la scelta delle sedi di esecuzione per le SFT è più limitata rispetto al caso delle altre operazioni, dato che dipende dalle particolari condizioni preventivamente definite fra le controparti e dalla presenza di una specifica domanda degli strumenti finanziari d’interesse in quelle sedi di esecuzione. Di conseguenza, la strategia di esecuzione degli ordini stabilita dalle imprese di investimento dovrebbe tenere conto delle particolari caratteristiche delle SFT e elencare separatamente le sedi di esecuzione utilizzate per esse. Le imprese di investimento dovrebbero applicare la strategia di esecuzione a ciascun ordine di clienti da loro eseguito, al fine di ottenere il migliore risultato possibile per il cliente conformemente a tale strategia”.

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sistematico, un market maker o altro fornitore di liquidità o un’entità che svolge in un paese terzo una funzione simile a quelle svolte da una qualsiasi delle entità predette”: la disciplina, pertanto, indica chiaramente che l’esecuzione deve avvenire su sedi che siano, quantomeno, sufficientemente liquide. Al fine di stabilire l’importanza relativa dei fattori di cui sopra, vanno considerati, tra l’altro, le caratteristiche al cliente, le caratteristiche dell’operazione e delle sedi di esecuzione. In tale prospettiva, gli intermediari devono dunque adottare una strategia di esecuzione degli ordini finalizzata ad individuare, per ciascuna categoria di strumenti, almeno le sedi di esecuzione che permettono di ottenere in modo duraturo il miglior risultato possibile per l’esecuzione degli ordini del cliente, e ad orientare la scelta della sede di esecuzione fra quelle così individuate. In ogni caso, quando l’ordine è eseguito per conto di un cliente al dettaglio, la selezione delle venues va condotta assumendo, quale criterio di riferimento, quello del corrispettivo totale, costituito dal prezzo dello strumento finanziario e da tutti i costi relativi all’esecuzione (art. 27, MiFID II) 20. La regola di best execution, così articolata, presuppone, necessariamente, che sia l’intermediario a selezionare le sedi di esecuzione, e i modi dell’esecuzione stessa. Ne deriva che, qualora il cliente impartisca istruzioni specifiche, la regola cessa di applicarsi, con riferimento agli elementi specificati dal cliente, come conferma l’art. 64, par. 2, del Regolamento n. 565/2017. La strategia di esecuzione va resa trasparente e comunicata ai clienti, secondo quanto prescritto dall’art. 66, par. 3 del Regolamento n. 565/2017. La strategia di esecuzione deve essere inoltre sottoposta a periodici aggiornamenti e verificata in via minimale almeno una volta all’anno, ma – in presenza di circostanze rilevanti – anche con una periodicità più elevata (art. 66, par. 1, Regolamento n. 565/2017). L’obbligo di ottenere il miglior risultato possibile caratterizza, in via principale, la prestazione del servizio di esecuzione di ordini per conto dei clienti, anche in conto proprio. Esso, tuttavia, si applica anche nella prestazione dei servizi nell’ambito dei quali l’intermediario trasmette l’ordine, per la sua esecuzione, ad un negoziatore: tipicamente, nell’ambito della prestazione del servizio di ricezione e trasmissione ordini, nonché di gestione portafogli (art. 65, Regolamento n. 565/2017) 21. In tale ipotesi, tuttavia, la disciplina fa per così 20

Fattori diversi dal corrispettivo totale possono ricevere precedenza rispetto alla considerazione immediata del prezzo e del costo, soltanto a condizione che essi siano strumentali a fornire il miglior risultato possibile in termini di corrispettivo totale per il cliente al dettaglio. La scelta della venue va però in ogni caso condotta sulla base del corrispettivo totale: a tal fine, sono considerate anche le commissioni proprie e i costi dell’impresa per l’esecuzione dell’ordine in ciascuna delle sedi di esecuzione ammissibili. 21 Va rilevato, tuttavia, che se un gestore di portafogli esegue direttamente gli ordini re-

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dire arretrare il momento di verifica delle modalità di trattazione degli ordini, in quanto all’intermediario è richiesto di predisporre non già una strategia di esecuzione, ma di trasmissione degli ordini 22. In particolare, dovranno essere identificati, per ciascuna categoria di strumenti, i soggetti ai quali gli ordini sono trasmessi, in ragione delle strategie di esecuzione di questi ultimi (art. 65, par. 5): pare allora evidente che, nell’ipotesi in cui l’intermediario non dia esso stesso esecuzione agli ordini, l’adempimento dell’obbligo di best execution si sostanzierà nella verifica della strategia di esecuzione elaborata dai soggetti negoziatori. La disciplina della best execution si presta a valutazioni contrastanti: da un lato, l’approccio della MiFID risulta indubbiamente più coerente con la sostanza della regola, rispetto alla previgente soluzione, che – di fatto – esauriva la portata dell’obbligo (quantomeno con riferimento ai titoli quotati) nel rispetto della regola che obbligava a concentrare le operazioni nei mercati ufficiali. In questo senso, l’equiparazione best execution – esecuzione nei mercati regolamentati era, effettivamente, un’eccessiva semplificazione, anche se oggi – come già detto – la reintroduzione della trading obligation (di cui tratteremo nel Cap. XIII) sembra rimettere, almeno in parte, in discussione questo profilo. Dall’altro lato, però, la dimostrazione dell’effettivo rispetto del principio, nel quadro “destrutturato” del sistema MiFID è tutt’altro che agevole, e in ogni caso la regola viene ad essere intesa in senso “relativo” e non assoluto: la best execution, in realtà, non corrisponde affatto alla miglior esecuzione in astratto “possibile”, ma alla miglior esecuzione che l’intermediario è in grado di ottenere nell’ambito della – anche ristretta – cerchia di sedi di esecuzione da esso stesso selezionate in via preventiva.

lativi ai portafogli gestiti (anche se per il tramite di una propria struttura separata a ciò deputata), egli viene assimilato – ai fini della disciplina della best execution – al negoziatore. 22 V. in proposito il Considerando 100 del Regolamento n. 565/2017, in base al quale “Al fine di assicurare che le imprese di investimento che trasmettono o collocano gli ordini dei clienti presso altre entità per l’esecuzione agiscano secondo il migliore interesse dei loro clienti conformemente all’articolo 24, paragrafo 1 e paragrafo 4, della direttiva 2014/65/UE in termini di comunicazione ai clienti di informazioni adeguate sull’impresa e i servizi che offre, le imprese di investimento dovrebbero fornire ai clienti informazioni adeguate sulle prime cinque entità per ciascuna classe di strumenti finanziari a cui trasmettono o presso cui collocano gli ordini dei clienti e fornire a questi informazioni sulla qualità dell’esecuzione in conformità con l’articolo 27, paragrafo 6, della direttiva 2014/65/UE e le relative misure di esecuzione. Le imprese di investimento che trasmettono o collocano ordini presso altre entità per l’esecuzione possono selezionare un’unica entità per l’esecuzione solo se possono dimostrare che questo permette loro di ottenere sistematicamente il miglior risultato possibile per i propri clienti e se possono ragionevolmente aspettarsi che l’entità selezionata permetterà loro di ottenere per i clienti risultati almeno altrettanto buoni dei risultati che potrebbero ragionevolmente aspettarsi utilizzando per l’esecuzione entità alternative”.

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4. La disciplina degli incentivi La materia degli incentivi (“inducements”) si è affacciata, nel contesto della disciplina dei servizi di investimento, con la Direttiva MiFID del 2004. Essa non è di per sé nuova, in quanto – tradizionalmente – poteva in parte ritenersi ricompresa nell’ambito della disciplina del conflitto di interessi: la percezione da parte dell’intermediario di un compenso, di una commissione o di altra utilità, ad esso erogati da soggetti diversi dall’investitore possono porlo, infatti, in una situazione di conflitto di interessi, da assoggettare alla relativa disciplina. Un problema analogo si pone in relazione agli incentivi non già percepiti, ma corrisposti dall’intermediario. La MiFID non ha tuttavia ritenuto sufficiente limitarsi a disciplinare la materia degli incentivi nell’ambito delle regole in tema di conflitti di interessi, ed ha inteso darne una disciplina autonoma o, meglio, che si applica anche indipendentemente da quella sui conflitti. L’impostazione dalla quale muove la disciplina è nel senso che la percezione o il pagamento di incentivi (tipicamente, retrocessioni commissionali, ma anche ogni altra utilità, anche non monetaria) può incidere negativamente sul dovere dell’intermediario di agire nel miglior interesse del cliente: può cioè indurlo a compiere, o a non compiere determinate operazioni, o ad agire in modo distorto, in quanto a ciò indotto, appunto, dall’incentivo ricevuto, anche a prescindere dalla sussistenza di un conflitto in senso “tecnico”. In ogni caso, la percezione di incentivi deve essere resa nota all’investitore, in modo da porlo in grado di giudicare, in condizioni di trasparenza, la qualità del servizio offerto, e il suo costo complessivo. In definitiva, la disciplina comunitaria – e, oggi, la MiFID II – guarda agli incentivi con forte sospetto, con la conseguenza che la regola di base è che gli incentivi sono vietati, salvo che rientrino in una delle eccezioni previste dalla Direttiva. Il principio è declinato dall’art. 24, par. 9 della Direttiva, in base alla quale “Gli Stati membri provvedono affinché le imprese di investimento non siano considerate in regola con gli obblighi loro incombenti in virtù dell’articolo 23 o del paragrafo 1 del presente articolo 23 qualora paghino o percepiscano un onorario o una commissione o forniscano o ricevano benefici non monetari in relazione alla prestazione di un servizio di investimento o di un servizio accessorio e da parte di un qualsiasi soggetto diverso dal cliente o da una persona operante per suo conto, a meno che i pagamenti o i benefici: a) abbiano lo scopo di accrescere la qualità del servizio fornito al cliente, e b) non pregiudichino il rispetto del dovere dell’impresa di investimento di agire in modo onesto, equo e professionale nel migliore interesse del cliente”. 23 Si tratta dei doveri generali di agire nel miglior interesse del cliente, in modo onesto, equo, professionale, con adeguati presidi sul fronte dei conflitti di interessi.

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L’esistenza, la natura e l’importo degli incentivi o, qualora l’importo non possa essere accertato, il metodo di calcolo di tale importo, devono essere comunicati chiaramente al cliente, in modo completo, accurato e comprensibile, prima della prestazione del servizio di investimento o del servizio accessorio. I pagamenti o benefici che consentono o sono necessari alla prestazione di servizi d’investimento, come ad esempio i costi di custodia, le competenze di regolamento e cambio, i prelievi obbligatori o le competenze legali e, che per loro natura, non possono entrare in conflitto con il dovere dell’impresa di investimento di agire in modo onesto, equo e professionale per servire al meglio gli interessi dei suoi clienti, non sono soggetti agli obblighi in materia di incentivi. È opportuno osservare come la legittimità degli incentivi sia riferita, tanto agli incentivi ricevuti, quanto a quelli corrisposti. Inoltre, la disclosure nei riguardi dell’investitore rappresenta soltanto una delle due condizioni che la norma richiede affinché gli incentivi siano ammessi. È, infatti, richiesta l’ulteriore condizione, volta a dimostrare l’idoneità dell’incentivo ad accrescere la qualità del servizio reso, e a non entrare in conflitto con l’obbligo di servire al meglio gli interessi dei clienti. Le regole generali sugli incentivi vengono rafforzate in contesti nei quali risulta particolarmente grave il rischio che la condotta dell’intermediario non risulti allineata agli interessi del cliente. In particolare: – nella prestazione del servizio di consulenza indipendente, la percezione degli incentivi è vietata del tutto, ad eccezione degli incentivi non monetari, e di modesta entità (ad esempio: pubblicazioni; eventi formativi ecc.); – nella prestazione del servizio di gestione, l’impresa non può trattenere eventuali incentivi ricevuti, essendo obbligata a restituirli alla clientela, sempre salvi gli incentivi “minori” e non monetari. Questo aspetto è stato rafforzato con MiFID II giacché ha assunto rango di norma di primaria (cfr. art. 24, comma 1-bis, TUF). L’introduzione di questa disciplina con MiFID I segnò, per numerosi sistemi, tra cui l’Italia, un vero e proprio momento di rottura rispetto al passato, dalle conseguenze di ampia portata. Le regole in tema di incentivi pongono, infatti, in discussione forme di remunerazione degli intermediari ampiamente diffuse sul mercato, a cominciare dalla remunerazione del servizio di collocamento (in genere corrisposta non dall’investitore, ma dalla società prodotto), sino alle retrocessioni commissionali percepite nella prestazione dei vari servizi di investimento, la cui legittimità è posta in seria discussione, salva la prova della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge. Taluni avevano espresso l’opinione che la disciplina degli incentivi possa presentare profili di dubbia legittimità, in quanto va ad incidere sulla libera iniziativa di mercato, e sui meccanismi di formazione dei prezzi: l’opinione, tuttavia, non pare condivisibile, in quanto – a ben vedere – la disciplina degli incentivi non pone limiti alla remunera-

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zione degli intermediari, ma vuole semplicemente evitare che il modo di remunerazione di volta in volta adottato sia non trasparente e possa distorcere il dovere degli intermediari di agire nel miglior interesse dei clienti. Si osservi, poi, che – in ogni caso – le limitazioni in materia di incentivi non riguardano i compensi pagati (o riconosciuti) ai clienti “finali” e, dunque, di fronte a situazioni apparentemente inestricabili resta comunque ferma la soluzione della ridefinizione della struttura commissionale dei vari prodotti, ponendone il relativo costo direttamente a capo dell’investitore, con un innegabile sforzo sia commerciale, sia di trasparenza, ma con l’indubbio risultato di rendere del tutto trasparente la struttura della remunerazione del servizio.

5. La “product governance” Le regole elaborate sino alla prima Direttiva MiFID, si appuntavano – come si è visto – prevalentemente sul processo di “vendita” o, in senso lato, di “distribuzione” di prodotti e servizi finanziari. Si tratta di previsioni che fanno affidamento sul ruolo del soggetto che entra direttamente in contatto con gli investitori, consegnandogli il compito di assicurare un’adeguata informativa, trasparenza, e correttezza dei comportamenti: il più elevato grado di evoluzione di questa impostazione è, ovviamente, rappresentato dalla regola di adeguatezza. Le vicende che si sono consumate nel contesto della crisi finanziaria del 2008 hanno, tuttavia, posto in luce la (almeno parziale) insufficienza di questi presidi: nonostante le norme di cui si discutono fossero, infatti, ormai da tempo in vigore negli Stati membri, non sono mancati evidenti casi di “misselling” di prodotti finanziari (emblematico, in Italia, il caso degli strumenti derivati), di insufficiente informazione sui rischi connessi con le operazioni, e – in generale – di non adeguata tutela della clientela al dettaglio. Il legislatore europeo ha così introdotto regole precise – volte a presidiare il processo di creazione, strutturazione del prodotto, in base al quale – ancor prima che un servizio o un prodotto finanziario vengano immessi sul mercato – occorre che gli stessi siano opportunamente concepiti e strutturati in funzione delle caratteristiche del mercato target di riferimento 24. Un sistema, pertanto, attento non soltanto alle regole applicabili al momento della vendita, ma che interviene, 24 Il punto di partenza di questa riflessione, poi consolidatasi nella MiFID II, è rappresentato dal documento congiunto EBA-ESMA-EIOPA del 2013, reperibile all’indirizzo https://www.eba.europa.eu/-/eba-eiopa-and-esma-publish-joint-position-on-product-oversightand-governance-processes. Particolarmente interessante risulta l’appendice a questo documento, nel quale si danno conto dei più evidenti casi di misselling di prodotti finanziari emersi nel contesto della crisi finanziaria a livello europeo.

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per così dire, a monte, nella stessa fase “genetica” del prodotto. Si vuole, pertanto, ridurre il rischio che, nei confronti di certe fasce di clientela ed investitori, vengano anche soltanto potenzialmente convogliati prodotti e servizi non adeguati, con il rischio di rendere la mera applicazione delle sole norme sulla vendita degli stessi non sufficienti sul piano delle tutele. In base all’art. 16, par. 3 di MiFID II, le imprese di investimento che realizzano strumenti finanziari da offrire in vendita alla clientela (i cc.dd. “produttori”) devono dotarsi di un processo che, per ciascuno strumento finanziario, individui la clientela target alla quale lo strumento si indirizza. I produttori devono assicurarsi che, a valle della loro analisi, la distribuzione del prodotto avvenga all’interno del mercato di riferimento di volta in volta individuato. Le imprese che distribuiscono i prodotti, sono a loro volte tenute a compiere un’analoga analisi che, sulla base delle indicazioni ricevute dal produttore, valuti il prodotto alla luce delle esigenza della clientela di riferimento, al fine di assicurare che gli strumenti siano offerti o raccomandati quando ciò sia nell’interesse del cliente. L’impresa di investimento riesamina inoltre regolarmente gli strumenti finanziari da essa offerti o commercializzati, tenendo conto di qualsiasi evento che possa incidere significativamente sui rischi potenziali per il mercato target, onde almeno valutare se lo strumento finanziario resti coerente con le esigenze del target e se la prevista strategia distributiva continui ad essere quella appropriata. La declinazione pratica di queste regole – peraltro anche dettagliate da una apposita Direttiva di Livello 2 25 – è in larga misura affidata alle linee Guida elaborate dall’ESMA, che forniscono preziose indicazione in merito a vari profili, tra i quali: – i criteri che presiedono all’identificazione del mercato di riferimento; – il rapporto che intercorre tra la disciplina di product governance, e la disciplina in tema di adeguatezza e appropriatezza; – i limiti e le condizioni alle quali, eventualmente, può consentirsi ad un cliente di acquistare un prodotto che sia al di fuori del suo mercato target di riferimento; – il ruolo dei vertici aziendali e delle funzioni di controllo nella definizione del processo di product governance e nella verifica circa il rispetto dello stesso.

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Si tratta della Direttiva Delegata (UE) 2017/593 della Commissione, del 7 aprile 2016.

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6. La disciplina dei contratti La materia dei contratti trova collocazione in un distinto articolo del Testo Unico (art. 23) interamente dedicato a tale profilo, anch’esso inciso dalle più recenti disposizioni di rango comunitario 26. La tutela dell’investitore, nella disciplina dei servizi ed attività di investimento, poggia anche sulla previsione di specifiche norme che attengono alla formulazione e alla conclusione dei contratti. Si tratta, peraltro, di un profilo che – quantomeno nel sistema italiano – ha formato oggetto di specifica disciplina legislativa sin dalla legge n. 1/1991 27. Sulla scorta di quanto già previsto dalla legislazione antecedente al TUF, e della soluzione accolta, per i contratti bancari, nel Testo Unico Bancario, l’art. 23 TUF stabilisce, dunque, come regola generale, l’obbligo di adottare – per i contratti aventi ad oggetto servizi di investimento e, se previsto, anche i servizi accessori – la forma scritta 28. Un esemplare del contratto deve inoltre essere consegnato al cliente 29. In virtù dell’art. 58, par. 1 del Regolamento n. 565/2017, nel caso di prestazione del servizio di consulenza, la forma scritta è obbligatoria soltanto qualora sia effettuata una valutazione periodica dell’adeguatezza. Di per sé la soluzione non è nuova, e conferma un’impostazione ormai classica nell’ambito della disciplina che attiene alla tutela del risparmio. La particolarità della disciplina recata dal TUF consiste in ciò che la regola della forma scritta può essere derogata – se previsto dal Regolamento emanato dalla Consob, sentita dalla Banca d’Italia – “per motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti”. Trova così nuovamente riscontro legislativo la figura dell’investitore “professionale”, che giustifica l’attenuazione o, addirittura, la disapplicazione di regole più tipicamente volte ad assicurare la tutela di controparti “deboli”. Ma vi è di più: l’art. 23 consente di derogare all’obbligo di forma scritta in relazione a “motivate ragioni”, ad esempio in relazione a particolari operazioni o tipi di operazioni, per le quali la forma scritta si riveli non necessaria o non opportuna, in base, ad esempio, all’esigenza che la transazione venga eseguita tempestivamente, o ad altri fattori. Di queste due ipotesi, sembra tuttavia residuare poco spazio relativamente a quella che ri26

Si applicano ai contratti in materia di servizi di investimento e accessori anche le previsioni del Codice del consumo, se il cliente è un consumatore. V. per ulteriori dettagli COSTI-ENRIQUES (2004), p. 363 s. 27 V. CERA (1994); ZITIELLO (1998); MAFFEIS (2009). Per i rapporti con la disciplina delle clausole vessatorie cfr. SEPE (2010). 28 Sul problema del “formalismo” negoziale e sulla reale efficacia di tale scelta per la tutela degli investitori v. da ultimo SARTORI (2004), p. 235 ss. 29 V. sul punto le considerazioni di ALPA (1998-II).

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guarda i rapporti con i clienti professionali, stante il fatto che l’art. 58 del Regolamento n. 565/2017 li ricomprende comunque tra quelli per i quali la forma scritta è richiesta. Nel caso in cui sia prevista una particolare forma per la conclusione del contratto, la violazione della relativa previsione viene espressamente sanzionata con la nullità. L’art. 23 prevede che si tratti di un caso di nullità “relativa”, ossia di una nullità che – in deroga ai principi generali di cui agli artt. 1418 ss. c.c. – può essere fatta valere soltanto dall’investitore 30. Seguendo nuovamente un’impostazione già fatta propria dal TUB per quanto attiene ai contratti bancari, l’art. 23, comma 2 dispone altresì la nullità di ogni pattuizione che rinvii agli usi la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente; in caso di violazione, nulla è dovuto dal cliente, ma il contratto resta, quanto al resto, valido. In passato, la collocazione della disciplina dei contratti in una disposizione autonoma rispetto ai criteri generali di cui all’art. 21 TUF aveva posto il problema della ricomprendibilità, o meno, della relativa disciplina nell’ambito di quella che attiene al “comportamento” degli intermediari abilitati 31. La questione non è meramente classificatoria, in quanto dalla sua soluzione discende la possibilità per la Consob di emanare, con riferimento alla disciplina dei contratti, disposizioni ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 23 TUF, sulla base delle disposizioni di cui all’art. 6 TUF. In senso favorevole a tale possibilità sembrano però militare alcuni argomenti decisivi. In primo luogo, nelle principali esperienze estere il tema dei contratti con i clienti viene normalmente inteso come strettamente collegato alla disciplina dei comportamenti degli intermediari: in tal senso, è particolarmente significativa l’esperienza inglese, che, insieme a quella francese, è servita da “modello” per la stessa disciplina comunitaria. In secondo luogo, non si può negare che la nozione di “comportamento da osservare nei rapporti con gli investitori” sia sufficientemente ampia da ricomprendere anche la fase di stipulazione dei contratti, con particolare riguardo, quantomeno, ai profili che attengono alla trasparenza e all’informativa dell’investitore. Ed è, infatti, proprio in questo senso che si è mossa la Consob: l’art. 37 del Regolamento intermediari (che potrebbe subire qualche ritocco nella fase finale, ancora in corso, di recepimento di MiFID II) dopo aver ribadito la necessità della forma scritta (ma per i soli contratti relativi ai servizi di investimento 32, diversi dalla consulenza che non prevede la valutazione periodica dell’ade30

La disposizione ha risolto una questione lungamente dibattuta nel vigore della legge n. 1/1991: v. per ulteriori riferimenti ATELLI (1998); CARRIERO (1997). 31 In senso negativo GAGGERO (1998-III). 32 Per i servizi accessori non è dunque previsto l’obbligo del contratto in forma scritta, ad eccezione del servizio di concessione di finanziamenti agli investitori, per i quali l’art. 37, comma 3, mantiene fermo l’obbligo di forma.

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guatezza), è, infatti, essenzialmente volto a disciplinare (anche in conformità all’art. 58 del Regolamento n. 565/2017) i profili che attengono alla “trasparenza” del rapporto contrattuale, e, per tale ragione, esso sembra effettivamente costituire legittimo esercizio del potere regolamentare della Consob. In particolare, la Consob dispone che il contratto con l’investitore al dettaglio deve: a) specificare i servizi forniti e le loro caratteristiche, indicando il contenuto delle prestazioni dovute e delle tipologie di strumenti finanziari e di operazioni interessate; b) stabilire il periodo di efficacia e le modalità di rinnovo del contratto, nonché le modalità da adottare per le modificazioni del contratto stesso; c) indicare le modalità attraverso cui l’investitore può impartire ordini e istruzioni; d) prevedere la frequenza, il tipo e i contenuti della documentazione da fornire all’investitore a rendiconto dell’attività svolta; e) indicare, nei rapporti di esecuzione degli ordini dei clienti, di ricezione e trasmissione di ordini, nonché di gestione di portafogli, la soglia delle perdite, nel caso di posizioni aperte scoperte su operazioni che possano determinare passività effettive o potenziali superiori al costo di acquisto degli strumenti finanziari, oltre la quale è prevista la comunicazione al cliente; f) indicare le remunerazioni spettanti all’intermediario o i criteri oggettivi per la loro determinazione, specificando le relative modalità di percezione e, ove non diversamente comunicati, gli incentivi ricevuti in conformità all’art. 52; g) indicare se e con quali modalità e contenuti in connessione con il servizio di investimento può essere prestata la consulenza in materia di investimenti; h) indicare le altre condizioni contrattuali convenute con l’investitore per la prestazione del servizio; i) indicare le eventuali procedure di conciliazione e arbitrato per la risoluzione stragiudiziale di controversie, ai sensi dell’art. 32-ter TUF. Come si nota, la Consob si astiene dall’intervenire sul contenuto delle obbligazioni contrattuali, limitandosi a richiedere che il contratto contenga determinate informazioni; richiesta che appare legittima, anche a prescindere dalla possibilità di ricomprendere i contratti nell’alveo della disciplina dei “comportamenti” degli intermediari, in base all’art. 6 TUF. Non vi sono, inoltre, indicazioni vincolanti in merito al contenuto del contratto con clienti professionali. Sempre in materia di contratti, infine, è opportuno segnalare due disposizioni particolari: – il novellato comma 4-bis dell’art. 23, fa divieto di concludere, nella prestazione di servizi di investimento per clientela al dettaglio, contratti di garanzia finanziaria con trasferimento del titolo di proprietà, al fine di assicurare o coprire obbligazioni dei clienti; – il disposto dell’art. 23, comma 5, TUF, in base al quale – nell’ambito della

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prestazione dei servizi e attività di investimento – agli strumenti finanziari derivati non si applica l’art. 1933 c.c. La disposizione, nel rendere inapplicabile agli strumenti in questione la cosiddetta “eccezione di gioco”, risolve una questione ampiamente dibattuta in passato, contribuendo a dare certezza in merito all’efficacia e agli effetti delle operazioni in derivati 33.

6.1. La facoltà di agire in nome proprio In base all’art. 21, comma 2, TUF, nello svolgimento dei servizi, le imprese di investimento e le banche possono, previo consenso scritto, agire in nome proprio e per conto del cliente. La norma non sembra essere strettamente attinente al tema delle regole di condotta, ma merita di essere segnalata, in quanto chiarisce che nella prestazione dei diversi servizi l’intermediario potrà agire in nome e per conto del cliente, ovvero anche in nome proprio, se a ciò autorizzato dal cliente. La possibilità è estesa anche ai servizi accessori.

7. La graduazione delle regole in funzione della natura dell’investitore Si è già avuto modo di osservare che, nella disciplina dei comportamenti degli intermediari, sussiste da sempre la tendenza a differenziare il contenuto, e l’applicabilità stessa, delle regole di condotta nei riguardi di clienti “esperti” o “professionali”. In tale prospettiva muoveva già l’art. 11 della Direttiva 93/22/CEE, il quale prevedeva, in proposito, un vero e proprio obbligo in capo agli Stati membri, richiedendo a questi ultimi di tener conto, nel formulare le regole di condotta, della natura professionale dei clienti. Si è già osservato, altresì, che la ragione fondamentale di tale impostazione è da ravvisare nella necessità di individuare un giusto punto di equilibrio tra le esigenze di regolamentazione e di vigilanza del settore dell’intermediazione finanziaria, con quelle di efficienza e flessibilità della disciplina. È, infatti, intuitivo che trattare un investitore “esperto” alla stessa stregua di un cliente ordinario può risolversi nell’applicazione di regole del tutto inutili e, per tale via, in un dannoso dispendio di risorse, tanto per l’intermediario, quanto per l’investitore: il primo sconterà gli oneri inevitabilmente conseguenti alla necessità di assicurare il rispetto di regole pervasive e dalla portata a volte molto circostanziata; il secondo subirà gli svantaggi derivanti, ad esempio, da un rallentamento nell’esecuzione 33 Cfr. sulla questione Trib. Milano 21 febbraio 1995, e Trib. Milano 11 maggio 1995, in Banca, Borsa, 1996, II, p. 447 ss.; Trib. Milano 20 febbraio 1997, ivi, 1998, II, p. 82 ss., ove ulteriori riferimenti: in dottrina v. ROVITO-PICARDI (2002).

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delle operazioni, o dall’incremento dei costi dell’intermediario (che si tradurrà, inevitabilmente, in un aumento del prezzo dei vari servizi). Per tale via, la qualificazione dell’investitore quale soggetto “esperto” giustifica la disapplicazione di numerose regole di condotta, altrimenti concepite, essenzialmente, per la tutela del cliente “comune”, effettivamente bisognoso di tutela e di protezione. Si osservi, tuttavia, che nella disciplina dei servizi di investimento, la natura “professionale” del cliente comporta (soltanto) la disapplicazione delle regole di condotta (e, peraltro, soltanto di alcune di esse), e non già l’integrale sottrazione del relativo servizio, o della relativa attività, all’intera disciplina di settore. Ciò significa, ad esempio, che un intermediario che presti un servizio di investimento unicamente a favore di clienti che rientrano nella definizione di investitore “professionale” resta pur sempre soggetto alla disciplina generale dei servizi di investimento, ivi comprese la necessità di munirsi di autorizzazione per lo svolgimento dell’attività, nonché alle norme in materia di vigilanza prudenziale, di organizzazione interna, ecc. 34. Ciò in quanto, come si è avuto modo di rilevare, la disciplina dei comportamenti rappresenta soltanto uno dei filoni sui quali si articola la disciplina dei servizi di investimento, che sarebbe dunque ingiustificato disapplicare integralmente quando l’attività è limitata ad una determinata cerchia di soggetti “qualificati”. Tale impostazione è stata mantenuta, e, al contempo, rielaborata dalla Direttiva 2004/39/CE e, ora dalla Direttiva 2004/65/2014 (MiFID II), che individua tre categorie diverse di investitori, in funzione delle quali viene graduata la portata delle regole di condotta. Si tratta, segnatamente, dei cc.dd. “clienti al dettaglio”, “clienti professionali” e delle cc.dd. “controparti qualificate” 35. Al fine di individuare le categorie di soggetti che rientrano nelle tre categorie testé citate, giova identificare, in via preliminare, la nozione di “controparte qualificata” e di “clienti professionali”: i clienti al dettaglio, infatti, sono tutti i clienti che non rientrano in queste due ultime categorie. La Direttiva fornisce, in proposito, indicazioni puntuali, che sono state fedelmente riprese in sede di recepimento. Con riguardo, innanzitutto, alle cc.dd. “controparti qualificate”, la relativa nozione è stata direttamente recepita dall’art. 6, comma 2-quater, lett. d), TUF: si tratta di una categoria che include, innanzitutto, tutti i soggetti che operano professionalmente sul mercato dei capitali, ai quali si aggiungono eventualmente altri soggetti, individuati dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, conformemente alla disciplina comunitaria di riferimento nonché le categorie corrispondenti di 34 Sotto il profilo segnalato nel testo, il servizio di investimento pur prestato esclusivamente a favore di investitori “professionali” deve pur sempre ritenersi svolto nei confronti del “pubblico”, e quindi soggetto a riserva. 35 Cfr. PERRONE (2010), con riguardo anche al tema più generale del mercato all’ingrosso.

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soggetti di Paesi non-UE. Si osservi che la classificazione di un cliente come “controparte qualificata” vale solo ed esclusivamente con riferimento alla prestazione dei servizi di cui all’art. 1, comma 5, lett. a), b) ed e) TUF: per gli altri servizi, al più, il cliente potrà essere trattato come cliente “professionale”. Per altro verso, i clienti “professionali” sono invece direttamente definiti dalla Consob (nel rispetto della pervasiva disciplina comunitaria, che lascia pochissimi spazi di intervento), sentita la Banca d’Italia; spetta invece al Ministro dell’economia e delle finanze individuare i clienti professionali pubblici, e i relativi criteri di identificazione (art. 6, commi 2-quinquies e 2-sexies). Nell’ambito dei clienti professionali, si distinguono due sottocategorie: la prima è rappresentata dai clienti professionali di diritto, la seconda dai clienti che su richiesta possono essere trattati come clienti professionali. Se per i primi la classificazione come cliente professionale discende dal possesso di requisisti tendenzialmente oggettivi, per i secondi spetta invece all’intermediario valutare la fondatezza della richiesta, tenendo conto degli indici stabiliti dal legislatore. In particolare, si considerano clienti professionali di diritto i seguenti soggetti: 1) i soggetti tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare nei mercati finanziari – siano essi italiani o esteri – quali banche, imprese di investimento, altri istituti finanziari autorizzati o regolamentati, imprese di assicurazione, organismi di investimento collettivo e società di gestione di tali organismi, fondi pensione e società di gestione di tali fondi, negoziatori per conto proprio di merci e strumenti derivati su merci, soggetti che svolgono esclusivamente la negoziazione per conto proprio su mercati di strumenti finanziari e che aderiscono indirettamente al servizio di liquidazione, nonché al sistema di compensazione e garanzia (locals), altri investitori istituzionali e gli agenti di cambio; 2) le imprese di grandi dimensioni che presentano a livello di singola società, almeno due dei seguenti requisiti dimensionali: – totale di bilancio: 20.000.000 €; fatturato netto: 40.000.000 €; fondi propri: 2.000.000 €; 3) gli investitori istituzionali la cui attività principale è investire in strumenti finanziari, compresi gli enti dediti alla cartolarizzazione di attivi o altre operazioni finanziarie. Nel caso invece di clienti professionali su richiesta, si tratta di soggetti diversi da quelli di cui sopra, che facciano espressa richiesta di essere trattati come clienti professionali, purché siano rispettati i criteri e le procedure menzionati di seguito. Va osservato che – al fine di ridurre il rischio di comportamenti opportunistici – non è consentito agli intermediari presumere che tali clienti possiedano conoscenze ed esperienze di mercato comparabili a quelle dei clienti professionali di “diritto”: l’onere di procedere all’accertamento dell’esperienza e della conoscenza presupposti dalla disciplina è dunque in capo all’interme-

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diario. In tal senso la disapplicazione di regole di condotta previste per la prestazione dei servizi nei confronti dei clienti non professionali è consentita quando, dopo aver effettuato una valutazione adeguata della competenza, dell’esperienza e delle conoscenze del cliente, l’intermediario possa ragionevolmente ritenere, tenuto conto della natura delle operazioni o dei servizi previsti, che il cliente sia in grado di adottare consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e di comprendere i rischi che assume. A tal fine, l’Allegato II alla MiFID II prevede una serie di indici dai quali è possibile ricavare elementi utili per l’accoglimento o meno della richiesta, avanzata da un cliente, di essere trattato come cliente professionale. In particolare: – il possesso dei requisiti di professionalità previsti per dirigenti e amministratori dei soggetti autorizzati a norma delle Direttive comunitarie nel settore finanziario può essere considerato come un riferimento per valutare la competenza e le conoscenze del cliente 36; – nel corso della predetta valutazione, devono essere soddisfatti almeno due dei seguenti requisiti: (i) il cliente ha effettuato operazioni di dimensioni significative sul mercato in questione con una frequenza media di 10 operazioni al trimestre nei quattro trimestri precedenti; (ii) il valore del portafoglio di strumenti finanziari del cliente, inclusi i depositi in contante, deve superare 500.000 €; (iii) il cliente lavora o ha lavorato nel settore finanziario per almeno un anno in una posizione professionale che presupponga la conoscenza delle operazioni o dei servizi previsti; – in caso di persone giuridiche, la valutazione di cui sopra è condotta con riguardo alla persona autorizzata ad effettuare operazioni per loro conto. La disciplina declina, altresì, analiticamente la procedura da seguire per poter procedere alla classificazione “su richiesta” di un cliente come professionale. In sintesi, si ribadisce che la richiesta deve provenire (genuinamente) dal cliente; l’intermediario deve avvertire l’investitore, in una comunicazione scritta e chiara, di quali sono le protezioni e i diritti di indennizzo che potrebbe perdere, e il cliente deve dichiarare per iscritto, in un documento separato dal contratto, di essere a conoscenza delle conseguenze derivanti dalla perdita di tali protezioni. Oltre ai nuovi criteri di classificazione dei clienti, il sistema introdotto da MiFID I, e confermato da MiFID II, si segnala per alcune peculiarità, degne di nota soprattutto in rapporto al regime previgente. Un primo profilo attiene al fatto che la classificazione della clientela è mobile, e ciò nel senso che un cliente – che sia naturalmente classificabile in una determinata categoria – può, salvo 36 Il criterio era già adottato per la classificazione di un soggetto, nel regime previgente, come “operatore qualificato”.

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alcune eccezioni, chiedere di essere trattato diversamente, e dunque di passare in una categoria superiore, o inferiore 37. Un secondo elemento riguarda il fatto che la richiesta del cliente di essere classificato diversamente dalla sua destinazione “naturale” può essere formulata anche limitatamente a singoli servizi, attività, strumenti o prodotti: è dunque possibile che un medesimo cliente, che intrattiene con uno stesso intermediario una pluralità di rapporti, chieda di essere trattato diversamente in funzione dei singoli rapporti od operazioni. La richiesta dell’investitore di essere trattato diversamente può tuttavia essere rigettata dall’intermediario, e ciò sia quando la richiesta riguardi la classificazione in una categoria superiore, sia nel caso opposto. In tale evenienza, l'intermediario dovrebbe recedere dal rapporto, che non può essere prestato secondo modalità concordate con il cliente. Nel primo senso militano chiaramente le norme, sopra riassunte, che regolano la procedura di classificazione di un cliente professionale su richiesta. Nel secondo senso, la conclusione emerge direttamente dalle disposizioni dell’Allegato II, Direttiva MiFID II, il quale richiede che – per la classificazione di un cliente professionale come cliente al dettaglio – è necessaria la stipulazione di un accordo scritto con il prestatore del servizio, dal quale risultino i servizi, le operazioni e i prodotti ai quali si applica il trattamento quale cliente al dettaglio. La classificazione di un cliente all’interno delle diverse categorie incide, come già detto, sulla portata delle regole di condotta. In particolare, nei confronti dei clienti classificati come controparti qualificate vengono disapplicate pressoché tutte le regole di condotta previste, in via generale, per la prestazione dei servizi di investimento, ferma tuttavia restando la disciplina dei conflitti di interessi. Nei confronti dei clienti professionali, invece, le regole vengono disapplicate soltanto in parte, secondo quanto di volta in volta disposto nell’ambito delle singole disposizioni. Con MiFID II, comunque, la distinzione tra regole applicabili ai clienti al dettaglio, e regole applicabili ai clienti professionali si è molto attenuata: la nuova disciplina tende vieppiù a parificare il trattamento degli uni e degli altri, rafforzando la tutela riconosciuta, di default, agli investitori professionali.

8. L’esternalizzazione di funzioni aziendali Se la possibilità di ricorrere all’esternalizzazione è un dato ormai da tempo acquisito nella disciplina di pressoché tutti gli Stati UE, la normativa in materia di esternalizzazione di funzioni aziendali vuole evitare che il ricorso all’out37 La regola c.d. degli “ascensori” non opera, però, per quanto attiene alla classificazione del cliente come controparte qualificata, che non può avvenire su richiesta dell’investitore.

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sourcing provochi un sostanziale “svuotamento” delle funzioni svolte dall’intermediario, un aumento dei rischi connessi con la prestazione dei servizi e, in ultima istanza, la sua deresponsabilizzazione. A tal fine, l’art. 31 del Regolamento n. 565/2017 sottopone l’esternalizzazione a precisi vincoli. In particolare, quando, nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento, gli intermediari affidano ad un terzo l’esecuzione di funzioni operative essenziali o importanti 38, essi devono adottare “misure ragionevoli” per mitigare i connessi rischi. L’esternalizzazione non può ridurre l’efficacia del sistema dei controlli né impedire alle autorità di vigilanza di controllare che gli intermediari adempiano a tutti i loro obblighi (art. 19). Si precisa altresì che: a) l’esternalizzazione non deve determinare la delega della responsabilità da parte degli organi aziendali; b) non devono essere alterati il rapporto e gli obblighi dell’intermediario nei confronti della sua clientela; c) non deve essere a messo a repentaglio il rispetto delle condizioni che l’intermediario deve soddisfare per poter essere autorizzato e per conservare l’autorizzazione alla prestazione di servizi o attività di investimento; d) non deve essere soppressa o modificata nessuna delle altre condizioni alle quali è stata subordinata l’autorizzazione dell’intermediario. È inoltre richiesta l’adozione di varie misure volte ad assicurare il corretto svolgimento del rapporto e, in generale, il rispetto di principi di sana e prudente gestione. In definitiva – e al di là del contenuto tecnico e particolareggiato delle norme che disciplinano, già a livello europeo, questa materia – l’esternalizzazione delle funzioni aziendali è considerata come una scelta di rilievo per l’assetto organizzativo dell’intermediario, da sottoporre ad attenta analisi e da accompagnare con specifici presidi organizzativi e contrattuali. Ancora una volta, emerge con evidenza il profilo dell’“organizzazione” interna del soggetto, questa volta direttamente riferito all’impostazione dei rapporti con gli outsourcer e al controllo del loro operato.

9. La separazione patrimoniale Generalizzando una previsione che la legge n. 1/1991 applicava unicamente alla prestazione del servizio di gestione, l’art. 22 TUF sancisce il principio 38 I criteri per identificare quando una funzione è “essenziale e importante” sono declinati all’art. 30 del Regolamento n. 565/2017.

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della separazione patrimoniale per tutti gli strumenti finanziari e le somme di denaro detenute dagli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento, e dei servizi accessori 39. Più precisamente, nella prestazione dei servizi di investimento e accessori, gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti dall’impresa di investimento UE, da un’impresa di un paese non-UE diversa dalla banca, da una SGR, da una società di gestione UE, da un GEFIA UE o dagli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 TUB, nonché gli strumenti finanziari dei singoli clienti a qualsiasi titolo detenuti dalla banca, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti 40. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario o nell’interesse degli stessi, né quelle dei creditori dell’eventuale depositario o sub-depositario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di questi ultimi. Inoltre, per i conti relativi a strumenti finanziari e a somme di denaro depositati presso terzi non operano le compensazioni legali e giudiziali e non può essere pattuita la compensazione convenzionale rispetto ai crediti vantati dal depositario o dal sub-depositario nei confronti dell’intermediario o del depositario. È dunque evidente che la separazione opera a due distinti livelli: da un lato, è separato il patrimonio proprio dell’intermediario, rispetto a quello degli investitori; dall’altro, sono separati i singoli patrimoni riferibili agli investitori che intrattengono rapporti con l’intermediario. La finalità di tale disciplina è evidentemente di tutelare gli investitori dai possibili rischi di confusione che possono manifestarsi in relazione alla sorte dei patrimoni affidati agli intermediari, per lo svolgimento dei servizi prestati ai sensi del TUF. È opportuno osservare che la separazione è sancita normativamente, indipendentemente dal titolo in base al quale l’intermediario detiene gli strumenti finanziari, o le somme di denaro, ovvero dal tipo di servizio che, concretamente, presta nei confronti dell’investitore. Il principio non vale, tuttavia, per le somme di denaro affidate alle banche: il motivo è da ricercarsi nel fatto che, per le banche, trova applicazione la disciplina del deposito bancario (art. 1834 c.c.), in base alla quale – per i depositi di denaro – la banca acquista la proprietà del denaro depositato dalla clientela, essendo poi tenuta all’obbligo di restituzione del tantundem. Ancora, è da osservare che la rilevanza più significativa del principio di se-

39 La norma è assistita, in ipotesi di violazione, da sanzioni penali (art. 168 TUF): v., con riferimento all’analoga previsione introdotta dal D.Lgs. n. 415/1996, BOTTIGLIONI (1997). 40 L’apparente “puzzle” dell’art. 22 nell’identificare la portata soggettiva della regola sulla separazione deriva in larga misura dalla disciplina comunitaria in materia.

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parazione patrimoniale si ha nel caso di sottoposizione dell’intermediario a procedure concorsuali, nell’ambito delle quali si rende particolarmente importante riuscire ad identificare esattamente gli strumenti finanziari e le somme di denaro di spettanza di ciascun investitore 41. A tal fine, nulla quaestio se la separazione viene effettivamente osservata. Può tuttavia presentarsi il caso in cui la separazione non venga rispettata, in conseguenza, ad esempio, di atti di mala gestio da parte dell’intermediario, oppure in virtù di una situazione di estremo disordine contabile o amministrativo, che rende impossibile ricostruire le posizioni dei singoli investitori: in tali ipotesi troverà applicazione la disciplina della crisi delle banche (art. 91 TUB), che viene richiamata dall’art. 57 TUF, ed in base al quale occorre essenzialmente distinguere due casi: (a) è rispettata la separazione tra intermediario e clienti, ma non anche quella tra i clienti stessi; (b) non è rispettata la separazione tra intermediario e clienti. Nel primo caso, è previsto che gli strumenti finanziari verranno restituiti agli investitori “in proporzione dei diritti per i quali ciascuno dei clienti è stato ammesso alla sezione separata dello stato passivo”. Se ciò non è possibile – ad esempio perché i beni rinvenuti presso l’intermediario non sono sufficienti a soddisfare i diritti degli investitori – si dovrà procedere “alla liquidazione degli strumenti finanziari … e alla ripartizione del ricavato secondo la medesima proporzione”. Se, invece, non è rispettata neppure la separazione tra il patrimonio dell’intermediario e quello dei clienti, questi ultimi concorreranno sull’intera massa in concorso con i creditori chirografari 42. A corollario di tale disciplina, l’art. 22, comma 3 dispone che – salvo consenso scritto dei clienti – gli intermediari non possono utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, gli strumenti finanziari di pertinenza dei clienti, da esse detenuti a qualsiasi titolo 43. La violazione delle regole in materia di separazione patrimoniale è oggetto di specifica sanzione in base all’art. 168 TUF: salvo che il fatto costituisca reato più grave, chi, nell’esercizio di servizi o attività di investimento, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, viola le disposizioni concernenti la separazione patrimoniale, arrecando danno agli investitori, è punito con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da euro 5.165 a euro 103.291 44. 41

V. quanto ai problemi sollevati dalla disciplina previgente, MAYR (1995). Si pongono peraltro complesse questioni nelle ipotesi in cui la separazione è disattesa soltanto in parte, ad esempio per taluni clienti unicamente, e non per tutti: v. D’ALESSANDRO (1997). 43 V. LENER (1996); GUGLIOTTA (1998); BRIOLINI (2002). In argomento cfr. COSTIENRIQUES (2004), p. 356 ss. 44 La stessa disposizione si applica anche alla violazione delle regole di separazione nell’attività di gestione collettiva del risparmio, ovvero nella custodia degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide di un OICR (art. 168 TUF). 42

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10. La responsabilità dei soggetti abilitati e le conseguenze derivanti dalla violazione della disciplina dei servizi di investimento La violazione della disciplina relativa alla condotta nella prestazione dei servizi può essere fonte di responsabilità per l’intermediario. In proposito, il legislatore ha ritenuto di dover emanare una norma specifica: è infatti previsto che, nei giudizi di risarcimento dei danni arrecati al cliente nella prestazione dei servizi, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta (art. 23, comma 6, TUF). Una previsione analoga figurava già nella legge n. 1/1991 45: da quest’ultima il TUF si discosta in quanto precisa ciò che già poteva ricavarsi in via interpretativa, e cioè che la diligenza richiesta all’intermediario è quella “specifica” prevista per l’operatore professionale (cfr. l’art. 1176 c.c.). Non sono chiari i punti di contatto e le differenze che sussistono tra la disposizione e le regole di diritto comune: il dibattito, sul punto, si trascina sin dal 1991. Secondo alcuni, infatti, la regola sarebbe riproduttiva dei principi generali in tema di responsabilità contrattuale, ma la tesi non è condivisa da tutti; secondo altri, essa porrebbe a carico dell’intermediario l’onere di dimostrare che tra la violazione di una norma di settore e il danno non vi è nesso di causalità 46. A prescindere dalle discussioni sui rapporti che la norma ha con le regole di diritto comune è corretto osservare che – comunque – essa contribuisce a dare certezza “al contenuto dell’onere probatorio” che incombe sul soggetto danneggiato, eliminando, sotto questo profilo, le distinzioni che possono derivare dalla natura (contrattuale o aquiliana) della responsabilità dell’intermediario 47. Si è lungamente discusso, altresì, se la violazione delle regole di comportamento si ripercuota sull’eventuale validità del contratto e, in particolare, se da tale violazione consegua la nullità dei contratti. Negli anni successivi al verificarsi dei default Cirio, Parmalat e delle vicende relative al collocamento dei bond dell’Argentina, si è assistito ad un vero e proprio “diluvio” giurisprudenziale, incentrato sui profili di responsabilità degli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento, e nell’ambito del quale sono state sostenute, ed accolte, tesi diverse 48. In particolare, una parte della giurisprudenza di merito – in 45

Cfr. CASTRONOVO (1993). V. ad esempio AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 134. 47 V. per un’ampia disamina della responsabilità degli intermediari nell’ambito della prestazione dei servizi di investimento e mobiliari in genere, FALCONE-GRECO-ROTONDO (2004), ove copiosi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. Per una diligente raccolta del materiale giurisprudenziale v. ZITIELLO (2005): dopo il lavoro di Zitiello il “torrente giurisprudenziale” ha comunque prodotto un numero impressionante di decisioni che, allo stato, attendono ancora di essere puntualmente identificate e raccolte in modo sistematico. 48 V. per una ricostruzione in chiave sistematica della disciplina PERRONE (2005). 46

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ciò seguita da una dottrina poco attenta – si era orientata in senso favorevole, e dunque aveva concluso che dal mancato rispetto delle regole di comportamento deriva la nullità degli atti conclusi in violazione 49: una soluzione indubbiamente di favore per gli investitori, ma che – operando sul piano dei rimedi restitutori – risulta tutto sommato essere una scorciatoia “di comodo”, in quanto aggira lo spinoso problema della quantificazione del danno nei giudizi di risarcimento dei danni per violazione delle regole di condotta. In verità, già in precedenti occasioni, si era avuto modo di osservare come la soluzione della nullità non apparisse convincente. La nullità degli atti conclusi in violazione delle regole di condotta veniva, infatti, semplicisticamente ricavata, dalla giurisprudenza richiamata, dall’asserita natura “imperativa” delle regole di condotta. Tuttavia, la natura imperativa di una norma non la rende automaticamente rilevante ai fini della declaratoria di nullità dei contratti: affinché vi sia nullità, è necessario che le norme violate mirino, tra l’altro, alla tutela di interessi generali, secondo quanto ampiamente elaborato dalla giurisprudenza in punto di applicazione dell’art. 1418 c.c. 50. La correttezza di tale impostazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione che, a Sezioni Unite, ha concluso nel senso che dalla violazione delle regole di condotta può discendere la responsabilità (precontrattuale o contrattuale, a seconda dei casi) dell’intermediario ma non anche – se non nei casi in cui è espressamente stabilita dalla legge – la nullità dei contratti e delle operazioni concluse 51. La pronuncia della Suprema Corte – che si segnala, nel panorama della spesso confusa giurisprudenza sul “risparmio tradito”, per la chiarezza e la lucidità delle argomentazioni – chiude definitivamente il faticoso (e, alla fine, poco produttivo) dibattito 52. Molto intense sono state, altresì, le discussioni emerse con riguardo agli strumenti derivati, oggetto di un ampio – e non sopito – contenzioso tra intermediari (soprattutto banche) e clienti. Le controversie si sono fatte via via più articolate in funzione della complessità delle operazioni in derivati oggetto di contenzioso (la cui fattispecie più diffusa è quasi certamente quella degli Interest Rate Swap aventi una dichiarata funzione di copertura), della natura delle 49 V., ad esempio, Trib. Milano 11 maggio 1995, in Giur. comm., 1996, II, p. 79; Trib. Torino 10 aprile 1998, in I Contratti, n. 11/1999 e, in materia di vendita ai risparmiatori di “obbligazioni argentine”, Trib. Mantova 18 marzo 2004. In dottrina v. conforme SARTORI (2004), p. 51. 50 Per un’accurata analisi dei “rimedi” attivabili nel sistema italiano in caso di violazione delle regole di condotta, e per un’analisi critica dell’efficacia delle stesse v. SARTORI (2004). 51 V. Cass., Sez. Un., 23 ottobre 2007, n. 26724 e 26725, depositate il 19 dicembre 2007. Sul tema delle cc.dd. “nullità di protezione” v. PAGLIANTINI (2009). 52 Per una ricostruzione del dibattito e una disamina delle diverse teorie v. MAGGIOLO (2012), p. 463.

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controparti (clienti privati; operatori qualificati; enti pubblici); dell’elevato grado di tecnicismo che interessa questa specifica materia. Nelle operazioni in derivati le regole di condotta vengono, per così dire, esposte ad un livello di “tensione” particolarmente intenso, dovuto alle forti asimmetrie informative tra intermediari e clienti; alla complessità delle operazioni; agli elevati rischi connessi con le operazioni; alle difficoltà di qualificare, spesso, la “finalità” dell’operazione (speculativa; di copertura dei rischi; mista). La giurisprudenza ha avuto modo, in varie occasioni, di pronunciare la risoluzione dei contratti stipulati in assenza di adeguata informativa alla clientela, o in violazione di altre regole di condotta, disponendo la restituzione delle somme corrisposte nella vigenza del rapporto ed eventualmente il risarcimento del danno 53. In alcuni casi si è fatta discendere la declaratoria di nullità di operazioni poste in essere in mancanza dell’esplicitazione di parametri ritenuti fondamentali, quali il mark to market e i costi impliciti dell’operazione 54. La questione ha investito anche i derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni, le cui vicende sono state ampiamente commentate dalla stampa, con oscillazioni della giurisprudenza anche penale 55.

10.1. (Segue): le sanzioni amministrative Il mancato rispetto delle regole di condotta può anche rilevare sul piano dell’irrogazione di eventuali sanzioni amministrative (art. 190 TUF). Sin dal 2005 le sanzioni sono irrogate dalla Consob o dalla Banca d’Italia, secondo le 53 Cfr., per un panorama delle varie questioni emerse, i contributi raccolti in D. MAFFEIS (a cura di), Swap tra banche e clienti (2014). Un ampio repertorio di sentenze in materia è reperibile sui siti www.derivati.info; www.expartecreditoris.it; www.ilcaso.it; www.dirittobancario.it. In tema di contenzioso in materia di strumenti derivati, negli ultimi anni si è assistito ad un significante aumento di pronunce, finalizzate anche a risolvere la questione relativa alla natura e alla funzione degli stessi strumenti. V., ad esempio, in proposito la pronuncia della Corte d’appello di Milano (sentenza n. 3459/2013) che – rispolverando vecchie categorie – ha ritenuto di qualificare – sul piano civilistico il contratto derivato over the counter, concluso da un intermediario nell’ambito della sua attività di intermediazione finanziaria come un contratto di scommessa legalmente autorizzato, ai sensi dell’art. 1935 c.c. 54 ANGELICI (2016). Nell’ambito dell’ampio materiale disponibile, v. il Lodo arbitrale del 4 luglio 2013, in Giur. comm, 2015, II, p. 337 ss., di particolare interesse per la dissenting opinion di Ferrarini, dalla quale si intuisce quanto il dibattito sia ancora lungi dal trovare una soluzione unanimemente condivisa e, ivi, l’articolata nota critica di CAPUTO NASSETTI, Fair value e fair price nei contratti derivati. 55 V. in particolare la vicenda dei derivati stipulati dal Comune di Milano che ha visto, in primo grado, condannate le banche per un’ipotesi di truffa; decisione poi riformata dalla Corte di appello con sentenza 3 giugno 2014, n. 1937, le cui motivazioni sono disponibili su www.derivati.info.

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rispettive competenze. Peraltro, fino alle modifiche introdotte a seguito del recepimento della Direttiva CRD IV, una particolarità del sistema era rappresentata dal fatto che le sanzioni fossero irrogate in capo ai soggetti che, nell’ambito degli intermediari incisi dai provvedimenti sanzionatori, fossero dipendenti o svolgessero funzioni di amministrazione, direzione o controllo: le società o gli enti ai quali appartengono gli autori delle violazioni rispondevano in solido con questi del pagamento della sanzione, ed erano tenuti ad esercitare il diritto di regresso verso i responsabili. Con il D.Lgs. n. 72/2015, con il quale è stata recepita a livello primario la Direttiva CRD IV, l’impostazione è mutata: i destinatari delle sanzioni sono, in via generale, le società interessate. In capo agli esponenti aziendali, le sanzioni sono irrogate in casi specifici, caratterizzati da particolari gravità o da condotte che hanno inciso direttamente sulle disfunzioni rilevate (cfr. l’art. 190-bis TUF). Il tema delle sanzioni amministrative è stato recentemente interessato da un ampio dibattito, nell’ambito del quale sono state sollevate questioni attinenti alla struttura dei procedimenti sanzionatori avviati dalle Autorità di vigilanza, e alla tutela dei diritti fondamentali dei soggetti sanzionati: trasparenza, contraddittorio, cumulo di sanzioni. Un momento fondamentale di questo dibattito è rappresentato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Grande Stevens c/Italia, del 4 marzo 2014 56: la decisione, emanata in riferimento a sanzioni irrogate nell’ambito della disciplina degli abusi di mercato, ha indirettamente evidenziato varie lacune nel procedimento amministrativo che regola l’applicazione delle sanzioni da parte della Consob (procedimento di cui, tuttavia, la CEDU, non si è occupata direttamente, trattandosi di un procedimento amministrativo e non penale 57). Alla decisione CEDU ha fatto seguito un’importante sentenza del Consiglio di Stato del 26 marzo 2015, la quale ha criticato il Regolamento Consob, ritenendolo insoddisfacente sul piano della tutela dei principi del “giusto procedimento”: il Regolamento, tuttavia, non è stato annullato, per asserito difetto di legittimazione del ricorrente e, nelle more, la Consob ha approvato alcune importanti modifiche al proprio procedimento sanzionatorio, con il dichiarato scopo di rimediare ad alcune delle imperfezioni evidenziate dalla giurisprudenza.

10.2. Le procedure di conciliazione ed arbitrato Seguendo modelli già diffusi in altri sistemi, e in parte già sperimentati anche in altri settori della disciplina del mercato finanziario (si pensi all’esperienza 56

V. VENTORUZZO (2014). Su altri profili della sentenza CEDU nel caso Grande Stevens si rinvia al Capitolo dedicato agli abusi di mercato, in particolare per quanto attiene alla regola del ne bis in idem. 57

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dell’Ombudsman bancario), la legge n. 262/2005 aveva previsto, all’art. 27, commi 2 e 3, l’introduzione di procedure facoltative di conciliazione e di arbitrato in materia di servizi di investimento 58: la disposizione faceva seguito, con tutta evidenza, al cospicuo contenzioso generatosi negli ultimi anni tra intermediari e clienti, di cui i repertori e le cronache di giurisprudenza danno ormai ampio riscontro. In tal senso è emblematico che la procedura riguardasse esclusivamente le controversie attinenti “l’adempimento degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con la clientela”, e fosse limitata ai rapporti con investitori diversi dagli investitori professionali: si tratta, infatti, proprio della materia che negli ultimi anni ha visto il vero e proprio dilagare del contenzioso tra intermediari e clienti. L’obiettivo che, generalmente, viene associato all’introduzione di questo tipo di procedimenti consiste nella maggiore celerità e snellezza che si ritiene possano offrire i sistemi “alternativi” di risoluzione delle controversie, rispetto al ricorso al giudice 59. In realtà, il legislatore ha voluto rendere il ricorso a questi strumenti di conciliazione obbligatorio, prima dell’eventuale presentazione del ricorso all’Autorità giudiziaria. L’art. 5 del D.Lgs. n. 28/2010, come modificato nel 2013, rubricato “Condizione di procedibilità e rapporti con il processo”, prevede che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di – tra gli altri – “contratti assicurativi, bancari e finanziari”, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del menzionato decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179 (oggi abrogato e sostituito dall’art. 32-ter, TUF), ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’art. 128-bis del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento della mediazione è una vera e propria condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Se, in materia di controversie bancarie, è stato da tempo istituito l’Arbitro bancario e finanziario, in attuazione del già richiamato art. 128-bis TUB, per le controversie che riguardano le materie disciplinate da TUF il sistema è stato recentemente innovato con l’istituzione, a cura della Consob, dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie (ACF). L’ACF – istituito con delibera n. 19602 del 4 maggio 2016 – è dunque uno dei possibili strumenti attivabili, in relazione 58

Per un primo commento alle disposizioni dell’art. 27, legge n. 262/2005, v. SCARSELLI (2007), il quale opportunamente segnala i numerosi problemi, anche di tipo processuale, sollevati dalla disposizione in commento, nonché CARIDI (2007), COLOMBO (2007) e LA CHINA (2008). 59 In proposito si vedano specialmente le considerazioni di CAPRIGLIONE (2010) e di PELLEGRINI (2010).

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alle controversie tra investitori “retail” e intermediari per la violazione degli obblighi di diligenza, correttezza, informazione e trasparenza che gli intermediari devono rispettare quando prestano servizi di investimento o il servizio di gestione collettiva del risparmio 60. Solo i risparmiatori possono, comunque, fare ricorso all’ACF, per richieste di risarcimento danni non superiori a 500.000 euro. Gli intermediari sono obbligati ad aderire all’ACF. La funzione dell’Arbitro è, in sintesi, quella di consentire all’investitore di ottenere una decisione sulla controversia in tempi rapidi, senza costi e senza obbligo di assistenza legale. Qualora l’investitore non sia soddisfatto della decisione, può comunque rivolgersi all’Autorità giudiziaria. L’autorevolezza della stessa fonte istitutiva dell’ACF (analogamente all’Arbitro bancario e finanziario, che opera sotto l’egida della Banca d’Italia) dovrebbe costituire un fattore di incentivo ad utilizzare tale strumento rispetto ad altre soluzioni astrattamente praticabili. Nei primi mesi di operatività l’ACF ha già, infatti, affrontato e risolto numerose controversie, a dimostrazione dell’interesse e dell’utilità di tale istituto 61-62.

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Il regolamento Consob è stato emanato in attuazione dell’art. 2, comma 5-ter, D.Lgs. n. 179/2007 (oggi abrogato dal decreto di recepimento della MiFID II). 61 Ulteriori informazioni sull’attività dell’ACF sono rinvenibili sul sito Internet dello stesso, nel quale vengono anche rese disponibili le decisioni rese. 62 Si segnala che – nel contesto della risoluzione di Banca delle Marche, Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti – la necessità e l’urgenza di prevedere misure in favore degli investitori delle quattro banche in liquidazione si sono tradotte nel D.L. n. 59/2016 (c.d. “decreto banche”), a norma del quale ai risparmiatori (che rispettassero determinate condizioni e ne facessero richiesta) è stato concesso di ottenere un rimborso forfettario e automatico, secondo le modalità previste dal decreto e, in particolare, senza dover adire all’ACF, nei casi di misseling dei prodotti/strumenti finanziari della banca.

CAPITOLO VIII SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO: LE SPECIFICITÀ DEI SINGOLI SERVIZI. OFFERTA FUORI SEDE E TECNICHE DI COMUNICAZIONE A DISTANZA SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La negoziazione per conto proprio e l’esecuzione di ordini per conto dei clienti. – 3. Il servizio di ricezione e trasmissione di ordini. – 4. Il servizio di collocamento. – 5. Il servizio di gestione di portafogli. – 5.1. (Segue): la nullità delle pattuizioni in violazione. – 6. La consulenza in materia di investimenti. – 7. La gestione di sistemi multilaterali di negoziazione. – 8. L’offerta fuori sede. – 8.1. La definizione di offerta fuori sede. – 8.2. Le regole applicabili allo svolgimento dell’attività. – 8.3. I casi di esclusione. – 9. Le tecniche di comunicazione a distanza. – 9.1. (Segue): le disposizioni discendenti dalle norme comunitarie. – 10. Gli artt. 25-bis e 25-ter TUF e l’estensione della disciplina ai prodotti bancari e assicurativi.

1. Premessa Oltre ai criteri generali che presiedono allo svolgimento di tutti i servizi di investimento, ed alle regole “caratterizzanti”, sussistono varie disposizioni, specificamente riferibili allo svolgimento dei singoli servizi ed attività di investimento. Le regole applicabili alla prestazione dei servizi di investimento risultano dunque dal cumulo, e dall’intrecciarsi, delle regole generali e caratterizzanti con le regole specifiche; nel complesso, ne risulta una disciplina assai pervasiva, che investe pressoché tutti i profili connessi con lo svolgimento dei servizi ed attività di cui trattasi.

2. La negoziazione per conto proprio e l’esecuzione di ordini per conto dei clienti Le regole applicabili alla prestazione di questi servizi – oltre a quelle già

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esaminate nel Cap. VII – attengono, in primo luogo, alla gestione degli ordini dei clienti. Quale specificazione delle regole generali, l’art. 67 del Regolamento n. 565/2017 declina taluni principi generali: gli ordini eseguiti vanno registrati e assegnati prontamente e accuratamente, gli ordini vanno eseguiti in successione o con prontezza, salvo che le caratteristiche dell’ordine o gli interessi dei clienti non lo rendano possibile; il cliente al dettaglio va informato prontamente di eventuali difficoltà nell’esecuzione. L’intermediario deve adottare tutte le misure per assicurare o controllare che il regolamento di un ordine sia effettuato regolarmente (se tale attività rientra nella sua responsabilità), e non deve fare un uso scorretto delle informazioni relative agli ordini dei clienti in sospeso 1. L’“uso scorretto” è nozione non definita dalla disposizione in commento ma è da ritenere che essa sia tale da riferirsi sia al fenomeno del c.d. “front running”, sia all’utilizzazione delle informazioni nell’interesse proprio o di terzi sia, più genericamente, al compimento di operazioni in conflitto di interessi. Un profilo che, da sempre, è oggetto di specifica attenzione nell’ambito della prestazione dei servizi di investimento è rappresentato dalle regole che disciplinano l’aggregazione degli ordini, e la successiva assegnazione delle operazioni eseguite: è evidente, infatti, che tali operazioni pongono, innanzitutto, l’esigenza di assicurare parità di trattamento tra gli investitori interessati e, più in generale, di evitare conflitti di interessi tra investitori, o tra investitori e intermediario. Il Regolamento n. 565/2017, confermando regole già previste nel regime anteriore, prevede che l’aggregazione degli ordini è consentita quando le condizioni seguenti sono soddisfatte: a) deve essere improbabile che l’aggregazione degli ordini e delle operazioni vada a discapito di uno qualsiasi dei clienti i cui ordini vengono aggregati; b) ciascun cliente per il quale è prevista l’aggregazione è informato che l’effetto dell’aggregazione potrebbe andare a suo discapito in relazione ad un particolare ordine; c) è stabilita e applicata con efficacia una strategia di assegnazione degli ordini che preveda in termini sufficientemente precisi una ripartizione corretta degli ordini aggregati e delle operazioni, compresi il modo in il volume e il prezzo degli ordini determinano le assegnazioni e il trattamento delle esecuzioni parziali. In fase di assegnazione, un profilo particolarmente delicato attiene all’eventuale aggregazione di ordini provenienti dagli investitori, con ordini propri. In particolare, quale regola generale, in caso di esecuzione parziale di ordini ag1 Analoghe previsioni erano, di fatto, formulate nella Direttiva MiFID I e, oggi, sono state sostanzialmente trasfuse nel Regolamento n. 565/2017, direttamente applicabile negli Stati membri.

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gregati di clienti con operazioni per conto proprio, gli intermediari devono assegnare le operazioni eseguite al cliente, prima che a sé medesimi (art. 69, par. 2). Tuttavia, le operazioni eseguite possono essere proporzionalmente assegnate anche all’intermediario se l’intermediario è in grado di dimostrare, con “argomentazioni ragionevoli”, che non sarebbe stato possibile eseguire l’ordine a condizioni altrettanto vantaggiose o non sarebbe stato possibile eseguirlo affatto. In ogni caso gli intermediari, sono tenuti ad adottare misure volte ad impedire una riassegnazione delle operazioni per conto proprio eseguite in combinazione con ordini di clienti in modo pregiudizievole per il cliente. Nell’ambito della prestazione dei servizi di negoziazione, particolare rilievo assume, come si è avuto modo di osservare, l’attività di “internalizzazione sistematica” 2. Si tratta, in realtà, di una particolare modalità di svolgimento dell’attività di negoziazione per conto proprio, che viene a collocarsi su di un piano analogo a quello dei mercati regolamentati e dei sistemi multilaterali di negoziazione, per quanto attiene in particolare al rispetto della regola di best execution. L’avvio dell’attività di internalizzazione sistematica segna, dunque, un momento rilevante, in quanto comporta che l’attività di intermediazione viene assoggettata a talune regole proprie del funzionamento dei mercati (analoghe considerazioni valgono, evidentemente – in senso opposto – all’atto dell’interruzione dell’attività) pur non essendo (più) l’internalizzatore sistematico un vero e proprio “mercato” (recte: “trading venue”). Sebbene la disciplina non abbia fatto dell’internalizzazione sistematica un servizio di investimento a sé stante, sono stati tuttavia previsti specifici obblighi di comunicazione, in capo agli internalizzatori sistematici, volti a far sì che le Autorità di vigilanza possano “identificarli” come tali e, per tale via, assoggettarli alla relativa disciplina. La figura dell’internalizzatore sistematico fa emergere con evidenza il collocarsi della relativa disciplina in una zona un po’ grigia, a cavallo tra regole di prestazione dei servizi di intermediazione, e regole di funzionamento dei mercati: l’essere, cioè, l’internalizzatore sistematico, al contempo in parte, sia “intermediario”, sia “mercato”. 2 Si ricorda che, per “internalizzatore sistematico”, si intende “l’impresa di investimento che in modo organizzato, frequente, sistematico e sostanziale negozia per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti al di fuori di un mercato regolamentato, di un sistema multilaterale di negoziazione o di un sistema organizzato di negoziazione senza gestire un sistema multilaterale. Il modo frequente e sistematico si misura per numero di negoziazioni fuori listino (OTC) su strumenti finanziari effettuate per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti. Il modo sostanziale si misura per dimensioni delle negoziazioni OTC effettuate dal soggetto su uno specifico strumento finanziario in relazione al totale delle negoziazioni effettuate sullo strumento finanziario dal soggetto medesimo o all’interno dell’Unione europea” (art. 1, comma 5-ter, TUF). Naturalmente, la definizione si applica anche alle banche. Sussiste, poi, una specifica definizione riferita agli internalizzatori sistematici sulle quote di emissione (cfr. art 16, Regolamento n. 565/2017).

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3. Il servizio di ricezione e trasmissione di ordini Per la prestazione del servizio di ricezione e trasmissione ordini non sono formulate regole specifiche, in aggiunta a quelle generali. Queste ultime attengono, secondo quanto già illustrato, al rispetto del principio di appropriatezza, e alla formulazione della strategia di trasmissione degli ordini, finalizzata ad assicurare il rispetto del principio di best execution. Si deve, comunque, ritenere che le disposizioni sopra richiamate per i negoziatori (gestione degli ordini dei clienti; aggregazione; assegnazione) trovino applicazione anche alla prestazione del servizio di ricezione e trasmissione ordini, ovviamente con riferimento non già alla fase di esecuzione dell’ordine, ma in relazione alla fase di trasmissione dell’ordine stesso.

4. Il servizio di collocamento Anche per la prestazione del servizio di collocamento restano sostanzialmente ferme le regole generali e quelle caratterizzanti, nei termini già riassunti. Alcune di queste regole sono, tuttavia, rafforzate in relazione alla prestazione di questo specifico servizio, come per la disciplina dei conflitti di interessi e degli inducement. La MiFID II ha, comunque, introdotto requisiti più stringenti con riguardo alla fase di assegnazione degli strumenti finanziari a chiusura del collocamento. L’art. 43 del Regolamento n. 565/2017 prevede, infatti, che gli intermediari conservino le registrazioni dei contenuti e delle tempistiche delle istruzioni ricevute dai clienti. Per ciascuna operazione, le decisioni prese in merito alle assegnazioni sono registrate al fine di fornire una “pista di controllo completa” (sic) tra i movimenti registrati nei conti dei clienti e le istruzioni ricevute dall’impresa di investimento. In particolare, è giustificata chiaramente e registrata l’assegnazione finale effettuata a ciascun cliente investitore. La pista di controllo completa dei passaggi sostanziali del processo di assunzione a fermo e collocamento è messa a disposizione delle autorità competenti che ne fanno richiesta. In base all’art. 40 del Regolamento n. 565/2017, vanno inoltre adottate disposizioni efficaci “per evitare che le raccomandazioni sul collocamento siano influenzate in maniera inappropriata dai rapporti presenti o futuri”, nonché per “prevenire o gestire i conflitti di interesse che insorgono laddove persone responsabili della prestazione di servizi ai clienti investitori dell’impresa siano coinvolte direttamente in decisioni riguardanti le raccomandazioni sull’assegnazione rivolte al cliente emittente”. La percezione di inducement è ulteriormente limitata, rispetto ai requisiti generali, in quanto sussistono tre condizio-

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ni che li rendono non accettabili, segnatamente quando l’inducement è in qualche modo collegato all’assegnazione degli strumenti in fase di “chiusura” del collocamento. Sono, dunque, considerate inaccettabili gli incentivi percepiti nelle seguenti circostanze: a) un’assegnazione effettuata allo scopo di sollecitare il pagamento di commissioni sproporzionatamente elevate per servizi a parte prestati dall’impresa di investimento (“laddering”), quali onorari o commissioni sproporzionatamente elevate pagate da un cliente investitore, o volumi di affari sproporzionatamente elevati con commissioni a livelli normali procurati dal cliente investitore quale corrispettivo in cambio di un’assegnazione dell’emissione; b) un’assegnazione effettuata a un dirigente o a un funzionario aziendale di un cliente emittente attuale o potenziale in cambio dell’affidamento futuro o passato di attività di finanza aziendale (“spinning”); c) un’assegnazione subordinata espressamente o implicitamente al ricevimento di ordini futuri o all’acquisto di qualsiasi altro servizio presso l’impresa di investimento da parte di un cliente investitore o qualsiasi altra entità di cui l’investitore è un funzionario aziendale. Gli intermediari istituiscono, attuano e mantengono una politica di gestione delle assegnazioni che definisce il processo di elaborazione delle raccomandazioni sulle assegnazioni. La politica di gestione delle assegnazioni è fornita al cliente emittente prima di accettare di prestare qualsiasi servizio di collocamento. La politica contiene le informazioni disponibili allo stato sulla metodologia di assegnazione proposta per l’emissione. Inoltre, essi si devono confrontare con il cliente emittente sul processo di collocamento affinché siano in grado di comprendere gli interessi e obiettivi del cliente e di tenerne conto, e devono ottenere il consenso del cliente emittente in merito all’assegnazione per tipologia di cliente proposta per l’operazione nel rispetto della politica di gestione delle assegnazioni. Infine, la prestazione del servizio di collocamento risulta ampiamente incisa anche dalle norme relative alle offerte pubbliche di sottoscrizione e vendita, stanti le forti interrelazioni tra le due materie, con la conseguenza che le regole di dettaglio applicabili alla prestazione di tale servizio derivano, più che altro, dalla disciplina dell’offerta al pubblico (v. infra).

5. Il servizio di gestione di portafogli A livello generale, si ricorda, innanzitutto, che il servizio di gestione è sottoposto al rispetto della regola di adeguatezza. Su tale base, l’art. 24 TUF formula un primo nucleo di regole specifiche, stabilendo che:

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– il cliente può impartire istruzioni vincolanti in ordine alle operazioni da compiere; – il cliente può recedere in ogni momento dal contratto, fermo restando il diritto di recesso del gestore ai sensi dell’art. 1727 c.c.; – la rappresentanza per l’esercizio dei diritti di voto inerente agli strumenti finanziari in gestione può essere conferita all’impresa di investimento, alla banca o alla società di gestione del risparmio con procura da rilasciarsi per iscritto e per singola assemblea nel rispetto dei limiti e con le modalità stabiliti con Regolamento emanato dal Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob. Si rammenta, inoltre, che nella gestione il regime degli inducement è particolarmente rigoroso. In base al comma 1-bis, nella prestazione del servizio di gestione di portafogli non devono essere accettati e trattenuti onorari, commissioni o altri benefici monetari o non monetari pagati o forniti da terzi o da una persona che agisce per conto di terzi, ad eccezione dei benefici non monetari di entità minima che possono migliorare la qualità del servizio offerto ai clienti e che, per la loro portata e natura, non possono essere considerati tali da pregiudicare il rispetto del dovere di agire nel migliore interesse dei clienti. Tali benefici non monetari di entità minima devono essere chiaramente comunicati ai clienti. La disposizione si chiude con la precisazione che “sono nulli i patti contrari alle disposizioni del presente articolo; la nullità può essere fatta valere solo dal cliente”. Quanto alle disposizioni di rango secondario, l’art. 38 del Regolamento intermediari formula, con riguardo al contratto di gestione, regole specifiche che si aggiungono a quelle formulate per tutti i servizi di investimento dall’art. 37 del medesimo Regolamento. La formulazione dell’art. 24 TUF riflette le caratteristiche essenziali del servizio di gestione di portafogli, destinate a trovare specificazione nella disciplina di rango regolamentare. È dunque opportuno procedere ad un esame congiunto della disposizione di legge, e di quelle secondarie, concentrandoci sui profili qualificanti della disciplina. (i) Il contratto. Il contratto di gestione, oltre agli elementi richiesti per gli altri servizi di investimento, deve contenere le ulteriori indicazioni di cui all’art. 38 del Regolamento intermediari. In particolare, il contratto: a) indica i tipi di strumenti finanziari che possono essere inclusi nel portafoglio del cliente e i tipi di operazioni che possono essere realizzate su tali strumenti, inclusi eventuali limiti; b) indica gli obiettivi di gestione, il livello del rischio entro il quale il gestore può esercitare la sua discrezionalità ed eventuali specifiche restrizioni a tale discrezionalità; c) indica se il portafoglio del cliente può essere caratterizzato da effetto leva;

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d) fornisce la descrizione del parametro di riferimento, ove significativo, al quale verrà raffrontato il rendimento del portafoglio del cliente; e) indica se l’intermediario delega a terzi l’esecuzione dell’incarico ricevuto, specificando i dettagli della delega; f) indica il metodo e la frequenza di valutazione degli strumenti finanziari contenuti nel portafoglio del cliente. Elemento tipico del contenuto del contratto di gestione, quale plasmato dalla disciplina secondaria, è rappresentato dall’obbligo di indicare le informazioni sul “profilo” o sulle “caratteristiche” della gestione. Tale elemento si traduce nell’obbligo di indicare gli elementi di cui alle lett. a) b) e c) dell’elenco, in parte già contemplati dalla disciplina previgente. Tuttavia, mentre, nel sistema antecedente al recepimento della prima Direttiva MiFID, il Regolamento intermediari definiva analiticamente i singoli elementi (ad esempio, gli “strumenti finanziari”, le tipologie di “operazioni”, ecc.), la materia è ora lasciata all’autonomia negoziale. Nulla vieta, tuttavia, che le nozioni e le categorie precedenti continuino ad essere utilizzate, ma – in tal caso – su basi per l’appunto volontarie, e a condizione che il contratto le disciplini. In particolare, ciò può risultare utile al fine di identificare la portata di nozioni che, pur utilizzate dalla nuova disciplina, non sono più espressamente definite, come accade – ad esempio – con riferimento all’“effetto leva”. La nozione di “leva finanziaria”, nella disciplina antecedente al recepimento della Direttiva, era espressamente definita dal Regolamento intermediari, mentre la nuova disciplina non ne dà alcuna definizione: nulla osta a che la vecchia definizione sia ripresa nel contratto di gestione, così come nulla osta a che il contratto fornisca una propria specifica definizione di tale elemento. In ogni caso, qualora il gestore possa ricorrere alla leva (e, conseguentemente, possa impegnare il patrimonio gestito anche per valori superiori al controvalore dello stesso, così incrementando l’esposizione del portafoglio al rischio di perdite), tale elemento va indicato nel contratto 3. Rispetto alla disciplina precedente al recepimento della MiFID, una modifica di rilievo attiene al “parametro di riferimento” (il c.d. benchmark): l’abrogato art. 42 del Regolamento n. 11522/1998 stabiliva che “ai fini della definizione delle caratteristiche della gestione, l’intermediario deve indicare all’investitore un parametro oggettivo di riferimento coerente con i rischi a essa 3 La leva finanziaria era definita dall’abrogato Regolamento n. 11522/1998 come “il rapporto fra il controvalore di mercato delle posizioni nette in strumenti finanziari e il controvalore del patrimonio affidato in gestione calcolato secondo i criteri previsti per i rendiconti trimestrali di cui all’Allegato n. 5”. La definizione ha sollevato, peraltro, numerosi dubbi interpretativi, anche sotto il profilo delle modalità di calcolo della leva stessa. Alcune indicazioni – a loro volta non prive di difficoltà interpretative – furono fornite dalla Consob con la propria Comunicazione 6 agosto 1988, n. 98065074.

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connessi al quale commisurare i risultati della gestione”, aggiungendo altresì che il parametro doveva “essere costruito facendo riferimento a indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo”. Ancora, il Regolamento n. 11522/1998 considerava il benchmark un elemento centrale nella definizione delle “caratteristiche della gestione”. Si seguono ora regole diverse: il benchmark va indicato soltanto là dove significativo (in funzione delle caratteristiche della gestione), e in ogni caso al solo fine di “raffrontare” il rendimento del portafoglio. Se previsto 4, si conferma dunque che il benchmark è un indicatore la cui funzione è di consentire all’investitore di porre a raffronto l’attività svolta dal gestore, con l’andamento di un parametro esterno. È dunque da escludere che la rappresentazione del benchmark nel contratto di gestione modifichi la natura degli obblighi assunti dall’intermediario gestore: in altri termini, il benchmark non rappresenta un parametro il cui andamento il gestore è tenuto ad eguagliare o, addirittura, a superare; né, simmetricamente, si potrà ritenere che il gestore incorra in responsabilità per il semplice fatto di aver conseguito, in un determinato periodo, un risultato inferiore a quello del benchmark stesso. La conclusione, che doveva già ricavarsi nel sistema previgente, discende ora de plano dalla nuova formulazione delle disposizioni in tema di gestione. (ii) La possibilità di formulare istruzioni vincolanti e il diritto di recesso. L’art. 24, comma 1, lett. a), TUF stabilisce che, nell’ambito del servizio di gestione, “il cliente può impartire istruzioni vincolanti in ordine alle operazioni da compiere” 5. La norma ribadisce ciò che, notoriamente, rappresenta uno degli stessi tratti distintivi del servizio di gestione individuale, rappresentato dalla possibilità per il cliente di intervenire direttamente – mediante la formulazione di istruzioni vincolanti – nell’attività gestoria; possibilità che invece è da escludere nella gestione collettiva del risparmio. L’ampia formulazione dell’art. 24 è idonea a ricomprendere non soltanto gli ordini specifici che il cliente intenda di dover di volta in volta impartire (ad esempio: acquistare o vendere un determinato strumento finanziario), ma più in generale ogni altro aspetto attinente all’attività gestoria: dalle strategie generali di investimento, al profilo di rischio della gestione, ecc. Sempre ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. b), TUF, il cliente gode del diritto di recedere in qualsivoglia momento dal rapporto di gestione. Anche questa previsione (già rinvenibile nel sistema sin dall’originaria legge n. 1/1991) risponde ad un’evidente necessità di tutela dell’investitore: la possibilità di sciogliersi in qualsiasi momento dal contratto, e di ottenere così la restituzione del 4 Ad esempio, nelle cc.dd. gestioni “flessibili”, il benchmark potrebbe non essere significativo e, dunque, non essere indicato nel contratto. 5 V. MAZZINI (1999); COSSU (2002).

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proprio patrimonio, rappresenta un diritto di cui egli non può essere privato, anche alla luce della sanzione della nullità che, ai sensi dell’art. 24, comma 2, colpisce le pattuizioni in contrasto con quanto richiesto dalla norma primaria 6. Il diritto di recesso previsto dall’art. 24 costituisce una facoltà attribuita in via generale al soggetto che instaura un rapporto di gestione di portafogli. Esso non è da confondere con lo jus poenitendi che l’art. 30, comma 6, TUF riconosce nel caso in cui il contratto di gestione venga offerto “fuori sede” (v. infra). (iii) La rappresentanza per l’esercizio del voto. Confermando una disposizione già prevista nell’originaria formulazione dell’art. 24 TUF, la lett. c) del comma 1 regola le modalità da osservare per l’esercizio del diritto di voto, e stabilisce che la rappresentanza per l’esercizio dei diritti di voto inerenti agli strumenti finanziari in gestione può essere conferita all’intermediario con procura da rilasciarsi per iscritto e per singola assemblea nel rispetto dei limiti e con le modalità stabiliti con regolamento dal Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob 7. Non trova dunque applicazione, in questa materia, la disciplina generale di cui all’art. 2372 c.c.

5.1. (Segue): la nullità delle pattuizioni in violazione L’art. 24, comma 2, TUF stabilisce la nullità delle pattuizioni contrarie alle previsioni del comma 1; analogamente a quanto stabilito dalla previsione generale di cui all’art. 23, si tratta di una nullità che può essere fatta valere soltanto dal cliente. È tuttavia dubbio se la sanzione possa estendersi anche ai patti contrari alle disposizioni del Regolamento intermediari, ovviamente quando la violazione della norma regolamentare non integri (anche) una violazione della norma di legge. La formulazione dell’art. 24, comma 2, sembrerebbe, in realtà, escluderlo. In ogni caso, resta ovviamente ferma ogni valutazione in merito all’applicabilità delle norme di diritto comune. In particolare, dalla violazione delle regole dettate dall’art. 24 o dalla disciplina regolamentare potrà discendere la responsabilità dell’intermediario, secondo quanto ricavabile in via generale.

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Ad esempio, sarebbe affetta da nullità (relativa) la clausola che prevede la possibilità per il cliente di recedere dal rapporto di gestione soltanto dopo che è decorso un periodo minimo di durata del rapporto. Di dubbia validità appaiono poi le clausole che, in qualche misura, condizionano la libertà di recesso del cliente: si pensi, ad esempio, ad un contratto di gestione che preveda l’applicazione di una commissione di “uscita”, ossia di una commissione che viene prelevata nel caso in cui il cliente eserciti il diritto di recesso. 7 V. il D.M. 11 novembre 1998.

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6. La consulenza in materia di investimenti Con MiFID II la disciplina della consulenza subisce un’ennesima, e significativa mutazione. Una delle novità di maggior rilievo recata dalla Direttiva attiene, in particolare, ad una nuova possibile articolazione del servizio secondo due schemi differenti: da un lato, la consulenza “indipendente”, dall’altro la consulenza “non indipendente”. L’impostazione di MiFID II sotto questo profilo è sostanzialmente in linea con molte altre previsioni della Direttiva che, come si è visto, tendono a porre particolare accento sull’agire dell’intermediario secondo parametri di correttezza, e, per l’appunto, indipendenza: si pensi, ad esempio, alle regole in materia di conflitti di interessi, di inducement, e anche a quelli che impongono, in generale, requisiti di diligenza e professionalità. In base al nuovo art. 24-bis TUF, comma 1, in caso di esercizio della consulenza in materia di investimenti, il cliente è informato, in tempo utile prima della prestazione del servizio, anche di quanto segue: a) se la consulenza è fornita su base indipendente o meno; b) se la consulenza è basata su un’analisi del mercato ampia o più ristretta delle varie tipologie di strumenti finanziari, e in particolare se la gamma è limitata agli strumenti finanziari emessi o forniti da entità che hanno con il prestatore del servizio stretti legami o altro stretto rapporto legale o economico, come un rapporto contrattuale talmente stretto da comportare il rischio di compromettere l’indipendenza della consulenza prestata; c) se verrà fornita ai clienti la valutazione periodica dell’adeguatezza degli strumenti finanziari raccomandati. Nella prestazione del servizio di consulenza in materia di investimenti su base indipendente, si applicano, inoltre, le seguenti regole: a) deve essere valutata una congrua gamma di strumenti finanziari disponibili sul mercato, che siano sufficientemente diversificati in termini di tipologia ed emittenti o fornitori di prodotti in modo da garantire che gli obiettivi di investimento del cliente siano opportunamente soddisfatti e non siano limitati agli strumenti finanziari emessi o forniti dal prestatore del servizio o da entità che hanno con esso stretti legami; b) l’intermediario non può accettare e trattenere onorari, commissioni o altri benefici monetari o non monetari pagati o forniti da terzi o da una persona che agisce per conto di terzi, ad eccezione dei benefici non monetari di entità minima che possono migliorare la qualità del servizio offerto ai clienti e che, per la loro portata e natura, non possono essere considerati tali da pregiudicare il rispetto del dovere di agire nel migliore interesse dei clienti. Tali benefici non monetari di entità minima sono chiaramente comunicati ai clienti.

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Le suddette previsioni sono integrate e a volte sovrapposte, secondo una tecnica normativa, a dire il vero, non brillantissima, a quelle recate dal Regolamento n. 565/2017. In base all’art. 52 di quest’ultimo: a) le imprese di investimento spiegano in maniera chiara e concisa se e perché la consulenza in materia di investimenti si configura come indipendente o non indipendente e il tipo e la natura delle limitazioni applicabili, incluso, nel caso di consulenza in materia di investimenti su base indipendente, il divieto di ricevere e trattenere incentivi; b) quando a uno stesso cliente è offerta o fornita consulenza su base sia indipendente che non indipendente, le imprese di investimento spiegano l’ambito di entrambi i servizi per consentire agli investitori di comprendere le differenze tra l’uno e l’altro, e non si presentano come consulente in materia di investimenti indipendente per l’attività complessiva. Nelle comunicazioni con i clienti le imprese non danno risalto in modo indebito ai loro servizi di consulenza in materia di investimenti indipendente rispetto ai servizi di investimento forniti su base non indipendente; c) le imprese di investimento che forniscono consulenza in materia di investimenti, su base indipendente o non indipendente, spiegano al cliente la gamma di strumenti finanziari che potrebbero raccomandare, incluso il rapporto dell’impresa con gli emittenti o fornitori degli strumenti; d) le imprese di investimento forniscono una descrizione dei tipi di strumenti finanziari considerati, della gamma degli strumenti finanziari e dei fornitori analizzati per ciascun tipo di strumento in base all’ambito del servizio e, qualora forniscano una consulenza indipendente, in che modo il servizio soddisfa le condizioni applicabili alla fornitura di consulenza in materia di investimenti su base indipendente e i fattori presi in considerazione nel processo di selezione adottato dall’impresa di investimento per raccomandare gli strumenti finanziari, quali i rischi, i costi e la complessità degli strumenti finanziari; e) quando la gamma di strumenti finanziari valutati dall’impresa di investimento che fornisce consulenza in materia di investimenti su base indipendente include gli strumenti finanziari propri dell’impresa di investimento o strumenti finanziari emessi o forniti da entità che hanno con essa stretti legami o qualsiasi altro rapporto giuridico o economico e anche altri emittenti o fornitori che non hanno con essa tali legami o rapporti, l’impresa di investimento tiene distinta, per ciascun tipo di strumento finanziario, la gamma degli strumenti emessi o forniti da entità che non hanno alcun legame con essa; f) se gli intermediari si obbligano a fornire una valutazione periodica dell’adeguatezza delle raccomandazioni fornite, essi comunicano tutte le informazioni che seguono: i) la frequenza e la portata della valutazione periodica dell’idoneità e, laddove pertinente, le condizioni che la determinano;

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ii) la misura in cui le informazioni precedentemente raccolte sono sottoposte a rivalutazione; iii) il modo in cui una raccomandazione aggiornata è comunicata al cliente. Per la prestazione del servizio di consulenza su base indipendente sono formulate ulteriori, e ancora più analitiche previsioni. In particolare, le imprese di investimento che forniscono consulenza in materia di investimenti su base indipendente definiscono e attuano un processo di selezione allo scopo di valutare e confrontare una congrua gamma di strumenti finanziari disponibili sul mercato conformemente all’art. 24, par. 7, lett. a), della Direttiva 2014/65/UE. Il processo di selezione comprende i seguenti elementi: i) il numero e la varietà degli strumenti finanziari considerati sono proporzionati all’ambito dei servizi di consulenza in materia di investimenti prestati dal consulente in materia di investimenti indipendente; ii) il numero e la varietà degli strumenti finanziari considerati sono adeguatamente rappresentativi degli strumenti finanziari disponibili sul mercato; iii) la quantità degli strumenti finanziari emessi dall’impresa di investimento stessa o da entità che hanno con essa stretti legami è proporzionata alla quantità totale degli strumenti finanziari considerati; iv) i criteri per la selezione dei vari strumenti finanziari comprendono tutti gli aspetti d’interesse, quali rischi, costi e complessità, nonché le caratteristiche dei clienti dell’impresa di investimento, e assicurano che la selezione degli strumenti che potrebbero essere raccomandati sia obiettiva. Quando il confronto in questione non è possibile in ragione del modello commerciale o dell’ambito specifico del servizio fornito, l’impresa di investimento che fornisce consulenza in materia di investimenti non si presenta come consulente indipendente. L’impresa di investimento che fornisce consulenza in materia di investimenti su base indipendente e che si concentra su certe categorie o una gamma specifica di strumenti finanziari rispetta i seguenti requisiti: i) l’impresa si propone sul mercato in una maniera intesa ad attrarre solo clienti che hanno una preferenza per tali categorie o tale gamma di strumenti finanziari; ii) l’impresa chiede ai clienti di indicare che sono interessati ad investire esclusivamente nella specifica categoria o gamma di strumenti finanziari; iii) prima di prestare il servizio l’impresa si assicura che questo sia adeguato al nuovo cliente, in quanto il suo modello commerciale risponde alle esigenze e agli obiettivi del cliente, e che la gamma di strumenti finanziari sia idonea per il cliente. In caso contrario l’impresa non presta al cliente tale servizio. L’impresa di investimento che offre consulenza in materia di investimenti

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sia su base indipendente che su base non indipendente ottempera ai seguenti obblighi: i) in tempo utile prima della prestazione dei servizi, l’impresa di investimento comunica ai clienti, su un supporto durevole, se la consulenza è su base indipendente o non indipendente conformemente all’art. 24, par. 4, lett. a), della Direttiva 2014/65/UE e relative misure di esecuzione; ii) l’impresa di investimento si presenta come indipendente in relazione ai servizi per i quali fornisce consulenza in materia di investimenti su base indipendente; iii) l’impresa di investimento predispone adeguati requisiti organizzativi e controlli per assicurare che i due tipi di servizi di consulenza e di consulenti siano chiaramente distinti l’uno dall’altro, di modo che i clienti non rischino di incorrere in confusione circa il tipo di consulenza che ricevono e che ottengano il tipo di consulenza adeguato al loro profilo. L’impresa di investimento non consente a una persona fisica di fornire consulenza sia indipendente che non indipendente. Nella consulenza sono infine rafforzati anche i presidi in materia di conflitti di interessi, in particolare là dove il servizio si accompagni a quello di distribuzione e collocamento di strumenti finanziari propri dell’impresa (art. 41, Regolamento n. 565/2017). Pare evidente, dalla rapida elencazione delle numerose disposizioni che regolano la consulenza, che la MiFID II ha davvero inciso in modo sostanziale su questa attività che – negli anni – è passata dall’essere un’attività non riservata, al servizio di investimento forse oggetto delle più profonde e analitiche previsioni normative. Tale evoluzione si giustifica in quanto la MiFID pone, al centro delle proprie valutazioni, il “servizio” e il “supporto” che l’intermediario rende al cliente nella prestazione delle varie attività e, in tale contesto, valorizza l’affidamento che il cliente ripone nei consigli e nelle raccomandazioni che l’intermediario rende. La consulenza, insieme alla gestione di portafogli, costituiscono, allora, il vero “cuore” del sistema delle regole MiFID in materia di servizio di investimento. La definizione del servizio di consulenza pone, da sempre, un problema di individuazione della disciplina applicabile alla eventuale prestazione del servizio in questione in via accessoria o strumentale alla prestazione di altri servizi di investimento e, in particolare, dei servizi diversi dalla gestione di portafogli. Lo svolgimento dei servizi di negoziazione, esecuzione di ordini, collocamento, ecc., infatti, presuppone – talvolta necessariamente – la trasmissione da parte dell’intermediario, e nei confronti dell’investitore, di qualificate informazioni attinenti alle caratteristiche dello specifico prodotto o strumento finanziario: in virtù del rapporto di fiducia che si instaura tra l’intermediario e l’investitore, tale situazione integra facilmente il rilascio di quei consigli “specifici e per-

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sonalizzati” che connotano la prestazione del servizio di consulenza 8. Posto che la definizione del servizio di consulenza non consente di per sé di distinguere tra consulenza “strumentale” e consulenza prestata in via autonoma, ne deriva che – in fatto – la prestazione di altri servizi di investimento può in realtà comportare anche la prestazione del servizio di consulenza. Ciò, oltre a porre un eventuale problema di sussistenza, in capo all’intermediario, dell’autorizzazione a prestare anche il servizio di consulenza, comporta il rischio che alla relazione che viene così ad instaurarsi con l’investitore debba eventualmente applicarsi comunque anche la disciplina propria del servizio di consulenza e, in tale ambito, la disciplina in materia di adeguatezza. Tale “rischio” è stato evidenziato dalla Consob, in sede di lavori preparatori del Regolamento intermediari ed ha condotto l’Autorità di vigilanza a “suggerire” di seguire tale impostazione e, dunque, di coniugare – in via generale e salva prova contraria – la prestazione dei servizi di investimento diversi dalla gestione, alla prestazione del servizio di consulenza, anche al fine di limitare il possibile contenzioso con la clientela. La posizione della Consob riflette quella che, indubbiamente, è una “smagliatura” del sistema, ma appare forse eccessiva, in quanto conduce – di fatto – ad applicare le pregnanti regole in tema di adeguatezza a servizi che, in base alla MiFID, dovrebbero invece risultare sottoposti al più attenuato regime di “appropriatezza”, snaturando così una delle più importanti differenze, nelle modalità di prestazione dei diversi servizi, discendenti dalla disciplina comunitaria. In realtà, la soluzione andrebbe ricercata nell’identificazione degli eventuali limiti nei quali la prestazione di attività proprie del servizio di consulenza non comporta l’applicazione delle regole tipiche di quest’ultimo, in quanto attività strumentali alla prestazione di un servizio principale, soggetto a regole diverse.

7. La gestione di sistemi multilaterali di negoziazione La particolare natura dell’attività di gestione di sistemi di negoziazione, ed il suo collocarsi perfettamente “a cavallo” tra disciplina degli intermediari e disciplina dei mercati, giustifica un’impostazione particolare per quanto attiene alle regole di svolgimento di tale attività. In proposito, si può agevolmente convenire sul fatto che l’attività prestata dal soggetto che gestisce un sistema multilaterale od organizzato di negoziazione non è assimilabile alla prestazione di un servizio nei confronti di un investitore: i soggetti che aderiscono al sistema 8 Ciò non accade, in realtà, se i servizi sono prestati, alle condizioni previste, in modalità “execution only”, ma in tutti gli altri casi, invece, si tratta di una situazione che ha ampie possibilità di verificarsi.

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non concludono, infatti, contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari con il gestore del sistema stesso, ma li concludono tra di loro, secondo le regole, ed avvalendosi delle strutture, del sistema stesso. Per tale ragione, l’applicazione – ai rapporti intercorrenti tra gestore del sistema e partecipanti – delle regole di condotta previste per gli altri servizi di investimento risulterebbe inopportuna, e viene sostanzialmente disapplicata.

8. L’offerta fuori sede Nella disciplina dei servizi di investimento si rinvengono regole specificamente riferite all’offerta e alla prestazione dei servizi al di fuori delle sedi dell’intermediario. Si tratta di una disciplina la cui impostazione di base risale già alla legge n. 1/1991, ed il cui obiettivo è di apprestare specifiche forme di tutela per l’investitore che entri in contatto con l’intermediario al di fuori delle sedi o dei locali di quest’ultimo; in una situazione, cioè, nella quale possono mancare i presidi organizzativi e di controllo sull’attività posta in essere che, di contro, trovano applicazione nell’ipotesi di prestazione dei servizi presso la sede del soggetto.

8.1. La definizione di offerta fuori sede L’art. 30, comma 1, TUF definisce “offerta fuori sede” la promozione e il collocamento presso il pubblico di: a) strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; b) servizi e attività di investimento in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio. Elementi centrali della definizione sono, innanzitutto, la nozione di “promozione e collocamento”, e quelle di “sede” e “dipendenza”. Quanto alla prima, rientra nella nozione di offerta fuori sede ogni attività che si sostanzi non soltanto nella vera e propria “vendita” del servizio, ma anche in un’attività “promozionale” finalizzata a tale vendita. Così, ad esempio, l’illustrazione ad un investitore delle caratteristiche di un determinato servizio, finalizzata alla “vendita” del servizio stesso – anche se non è seguita immediatamente dalla stipulazione del contratto – integra già gli estremi di un’attività “promozionale”, come tale attratta nella definizione dell’art. 30. A tal fine si rendono tuttavia necessarie almeno due precisazioni. In primo luogo, l’offerta

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fuori sede va tenuta distinta dalla semplice pubblicità; in secondo luogo, va tenuta distinta dalle cc.dd. “tecniche di comunicazione a distanza” per le quali è prevista una specifica disciplina. Ciò si ricava non tanto dalla definizione dell’art. 30 TUF, ma, soprattutto da quella di cui al successivo art. 32 che – nel trattare delle tecniche di comunicazione a distanza – stabilisce che “per tecniche di comunicazione a distanza si intendono le tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato”. L’art. 32 cita la pubblicità come un caso distinto; regola le tecniche di vendita di prodotti e servizi diverse da quelle che comportano “la presenza fisica e simultanea” dell’intermediario e del cliente. È dunque evidente che: – le tecniche di contatto che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato non rientrano nella nozione di “offerta fuori sede”, ma in quella di “tecniche di comunicazione a distanza”; – le tecniche che comportano tale presenza fisica e simultanea rientrano nella nozione di “offerta fuori sede”; – la pubblicità è caso diverso dalle tecniche di comunicazione a distanza e, a fortiori, dall’offerta fuori sede 9. Più precisamente, deve ritenersi – conformemente alle indicazioni che da tempo provengono sia dalla dottrina, sia dalla prassi interpretativa della Consob – che la pubblicità sia caratterizzata da una valenza essenzialmente informativa, là dove, di contro, l’offerta fuori sede (e le tecniche di comunicazione a distanza) sono attività finalizzate alla conclusione del contratto all’interno di un rapporto diretto e personale con l’investitore 10. Quanto alla nozione di “sede” o “dipendenza” la stessa risulta dall’art. 2, comma 1, del Regolamento intermediari, che la definisce come “una sede, diversa dalla sede legale dell’intermediario autorizzato, costituita da una stabile organizzazione di mezzi e di persone, aperta al pubblico, dotata di autonomia tecnica e decisionale, che presta in via continuativa servizi o attività di investimento”. Non è dunque corretto ritenere che qualsiasi “ufficio” o “luogo” in cui l’intermediario svolge parte della propria attività sia identificabile come “sede” o “dipendenza” (con la conseguenza che l’attività ivi svolta non dovrà sottostare alle regole dettate per l’attività di offerta fuori sede). È, infatti, necessario che la sede possegga i requisiti richiesti dall’art. 2, configurandosi come un luogo in cui l’intermediario presta, attraverso un’organizzazione stabile di mezzi e di persone, uno o più servizi di investimento, in locali accessibili al pubblico.

9 PATRONI GRIFFI (1997); RABITTI BEDOGNI (1998-III); ZITIELLO (1998-II); CHIEPPA MAGGI (2002). 10 V. anche PAGNONI (1998).

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L’offerta fuori sede non costituisce, di per sé, un servizio di investimento distinto rispetto agli altri 11; ne consegue che, per svolgere tale attività, i soggetti abilitati non sono tenuti a munirsi di una specifica autorizzazione. L’offerta fuori sede configura piuttosto una particolare modalità di offerta dei singoli strumenti/servizi, e non un’attività autonoma. Da ciò discendono alcune regole e limitazioni, che appaiono per la verità essere un corollario necessario di tale premessa. E, infatti, quanto agli strumenti finanziari, l’offerta fuori sede degli stessi può essere effettuata soltanto: – dai soggetti autorizzati alla prestazione del servizio di collocamento; – dalle società di gestione del risparmio, dalle società di gestione UE, dalle SICAV, dalle SICAF, dai GEFIA UE e non UE, limitatamente alle quote e alle azioni di OICR. Con riferimento, invece, ai servizi ed attività di investimento, occorre distinguere tra servizi propri e servizi di terzi. Per i primi, ogni intermediario abilitato alla prestazione di un determinato servizio o attività di investimento è altresì abilitato ad offrirlo fuori sede (cfr. art. 30, comma 4, TUF). Per i secondi, è previsto che gli intermediari possano svolgere tale attività, a condizione che siano comunque autorizzati alla prestazione del servizio di collocamento. Dalla disciplina emerge dunque una netta distinzione tra l’offerta fuori sede di strumenti finanziari e di servizi o attività di investimento. Per i primi è necessaria (e sufficiente) l’autorizzazione alla prestazione del servizio di collocamento di strumenti finanziari. Per i secondi, tale condizione non è richiesta, se si tratta di servizi propri, rendendosi di contro necessario ottenere l’autorizzazione alla prestazione del servizio di collocamento, là dove il servizio offerto sia prestato da un intermediario terzo 12. È opportuno segnalare che la disciplina dell’offerta fuori sede si applica, in base all’art. 30, comma 9, anche ai depositi strutturati, ai prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari emessi da banche e, limitatamente ai soggetti abilitati, ai prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione. In virtù di tale disposizione, pertanto, la disciplina dell’offerta fuori sede finisce per avere un ambito di applicazione assai più ampio dei soli strumenti finanziari o servizi o attività di investimento.

11 La situazione era diversa nel vigore della legge n. 1/1991; in tal caso, infatti, l’attività di offerta fuori sede era subordinata al rilascio di una specifica autorizzazione. V. RABITTI BEDOGNI (1998-III). 12 Sulla definizione di offerta fuori sede, e sui suoi “confini”, v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 49 ss., ove preziose indicazioni sul profilo “pubblico” dell’attività e sui rapporti tra offerta fuori sede e sollecitazione.

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8.2. Le regole applicabili allo svolgimento dell’attività Conviene ora riassumere le analitiche regole che disciplinano tale attività che, come già detto, muovono nel senso di rafforzare ulteriormente la tutela dell’investitore, rispetto a quanto già previsto in via generale per lo svolgimento dei servizi di investimento. In tale direzione muove con tutta evidenza il disposto dell’art. 30, comma 6, TUF che riconosce all’investitore il diritto di recesso dai contratti conclusi fuori sede, da esercitarsi entro sette giorni dalla data di sottoscrizione. La previsione – che si riallaccia a norme già previste nella legislazione previgente 13 – riconosce all’investitore lo jus poenitendi, stabilendo che “l’efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi fuori sede è sospesa per la durata di sette giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione da parte dell’investitore 14. Entro detto termine l’investitore può comunicare il proprio recesso (si ritiene, in forma libera) senza spese né corrispettivo al consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede o al soggetto abilitato; tale facoltà è indicata nei moduli o formulari consegnati all’investitore. […] La medesima disciplina si applica alle proposte contrattuali effettuate fuori sede”. Non solo, ma il Legislatore è recentemente intervenuto 15 prevedendo, allo stesso comma 6, che “ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettere c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1° settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettera a)”; modifica la cui ratio sarà analizzata a breve. Si osservi che lo jus poenitendi non è previsto per qualsivoglia prodotto o servizio che venga collocato fuori sede, essendo piuttosto limitato al collocamento di strumenti finanziari, al servizio di gestione di portafogli nonché a 13 V. già l’art. 1/18-ter, legge n. 216/1974 e l’art. 5, legge n. 1/1991. La disciplina antecedente al TUF aveva peraltro sollevato ampio dibattito in merito all’effettiva individuazione del dies a quo per il computo del termine rilevante per il recesso del cliente: v. in proposito i riferimenti contenuti in RABITTI BEDOGNI (1998-III). Il TUF supera brillantemente la questione, individuando il termine nel momento in cui l’investitore sottoscrive il contratto, ovvero la proposta contrattuale, a seconda delle tecniche negoziali di volta in volta utilizzate. Sulle modalità per assicurare all’investitore l’effettivo esercizio del diritto in questione v. i “suggerimenti” indicati nella Comunicazione Consob 23 gennaio 1998, n. DI/98004696. 14 Si osservi che la sospensione riguarda solo i contratti conclusi fuori sede: non anche quelli semplicemente “promossi” fuori sede, ma poi conclusi presso la sede dell’intermediario. Ad esempio, se un intermediario svolge un’attività promozionale presso il domicilio dell’investitore, ma poi il contratto è concluso in sede, il termine di sospensione non si applica: v. già in tal senso AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 138. 15 Si veda, a tal proposito, l’art. 56-quater del D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”).

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quello di negoziazione per conto proprio (a patto che i corrispondenti contratti siano stati sottoscritti a partire dal 1° settembre 2013) 16. Tale limitazione riflette, da un lato, l’evoluzione storica dell’istituto e, dall’altro, una ulteriore conferma della particolare attenzione che il legislatore riserva alla disciplina del servizio di gestione di portafogli, stante le particolari caratteristiche dello stesso. Anche in questo caso, la norma è assistita, in ipotesi di violazione dalla sanzione della nullità (relativa). L’art. 30, comma 7, TUF stabilisce, infatti, che “l’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente”. Occorre segnalare come l’ambito di applicazione del richiamato art. 30, comma 6 sia stato di un ampio dibattito in sede giurisprudenziale, anche a seguito di una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (del 3 giugno 2013, n. 13905), che ha ritenuto applicabile la disciplina in tema di jus poenitendi anche ai contratti, conclusi fuori sede, aventi ad oggetto i servizi di negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti e ricezione e trasmissione di ordini (oltre che al collocamento di strumenti finanziari e alla gestione di portafogli individuali all’epoca previsti dal disposto normativo). La Cassazione, in particolare, ha giustificato tale scelta sulla base della convinzione che il “collocamento” ai sensi dell’art. 30, comma 6 vada inteso, in senso “ampio” ed “atecnico”, come “sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all’investitore di strumenti finanziari”. Tuttavia, tale definizione non è ammissibile su un piano letterale: se infatti può ritenersi accettabile una definizione ampia ed atecnica del “collocamento” ex art. 30, comma 1, negli stessi termini non può declinarsi la particolare figura di “collocamento” prevista al comma 6 dello stesso articolo, cui deve necessariamente essere attribuito – anche in virtù dell’accostamento col servizio di gestione di portafogli – un senso tecnico e specifico coerente con le definizioni di cui all’art. 1, comma 5, lett. c) e c-bis) del TUF. Non solo, ma al di là del dato squisitamente letterale, un siffatto modellamento dello jus poenitendi, concepito per tutelare maggiormente gli investitori, rischierebbe di generare il paradossale risultato di andare contro gli interessi degli stessi: non a caso, la sospensione dell’efficacia degli ordini determinerebbe una situazione di forte incertezza, dal momento che il valore dello strumento finanziario (e dunque il prezzo che l’investitore è tenuto a pagare) – a causa delle inevitabili fluttuazioni di mercato – non corrisponderà a quello conosciuto dal cliente, ma sarà quello sussistente al settimo giorno successivo alla data di 16

Il diritto di recesso è escluso quando l’offerta fuori sede ha ad oggetto azioni con diritto di voto, o altri strumenti finanziari che ne permettono l’acquisto, purché le azioni o gli strumenti finanziari siano negoziati in mercati regolamentati italiani o di paesi UE (art. 30, comma 8, TUF): per una critica della ratio di questa previsione v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 183 ss.

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conclusione dell’operazione. Alla luce di ciò, non è chiaro come possa considerarsi favorevole per il cliente una situazione nella quale questi non si trova nella materiale condizione di conoscere, al momento della conclusione dell’operazione, un imprescindibile dato quale il prezzo (finale e reale) della stessa. Per porre rimedio a tale scomoda condizione di incertezza è intervenuto il Legislatore, il quale – quasi a cercare una via di compromesso tra la formulazione previgente dell’art. 30, comma 6, TUF e la posizione delle Sezioni Unite – ha provveduto, come visto in precedenza, ad includere in via espressa nell’ambito di applicazione dell’art. 30, comma 6 anche la negoziazione per conto proprio ai sensi dell’art. 1, comma 5, lett. a) del TUF per i contratti conclusi dal 1 settembre. La regola più importante che si applica all’offerta fuori sede – da cui discendono conseguenze di rilievo in punto sia di regolamentazione dell’attività, sia di organizzazione della stessa – attiene però all’obbligo che gli intermediari abilitati hanno di avvalersi, per tale attività, di soggetti appositamente abilitati, denominati “consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede” (v. però il regime particolare previsto per i consulenti indipendenti). Già con il recepimento della MiFID I, l’art. 31 TUF è stato modificato, al fine di ribadire le categorie di soggetti che, nell’offerta fuori sede, devono avvalersi dei consulenti, e al fine di recepire il disposto comunitario, che li assimila – ai fini dell’applicazione delle regole di condotta – ad una succursale costituita nel territorio della Repubblica. Ne deriva che, quando un intermediario comunitario, autorizzato ad operare in regime di mutuo riconoscimento, pone in essere attività qualificabili come “offerta fuori sede” sul territorio della Repubblica, egli sconterà, con riguardo all’attività svolta in Italia per il tramite dei consulenti abilitati all’offerta fuori sede, le regole applicabili alle succursali. Tutta la materia è analiticamente regolamentata, e in particolare: i) l’accesso all’attività è riservato a soggetti iscritti in un albo tenuto da un organismo rappresentativo della categoria . Con il recepimento di MiFID II è stato introdotto, a riguardo, un albo unico dei consulenti finanziari, nel quale, oltre ai consulenti abilitati all’offerta fuori sede, sono iscritti anche i consulenti finanziari di cui agli artt. 18-bis e 18-ter TUF 17; ii) l’iscrizione all’albo avviene previo accertamento di requisiti specifici pre17 In base all’art. 31, comma 4, TUF, alla tenuta dell’albo provvede l’Organismo di vigilanza e tenuta dell’albo unico dei consulenti finanziari che è costituito dalle associazioni professionali rappresentative dei consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, dei consulenti finanziari autonomi, delle società di consulenza finanziaria e dei soggetti abilitati. Alle riunioni dell’assemblea dell’Organismo può assistere un rappresentante della Consob. L’Organismo ha personalità giuridica ed è ordinato in forma di associazione, con autonomia organizzativa e statutaria, nel rispetto del principio di articolazione territoriale delle proprie strutture e attività. L’art. 31, comma 6 TUF attribuisce anche alla Consob vari poteri “conformativi” dell’organismo.

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visti dalla legge e – salvi i casi in cui è prevista l’iscrizione di diritto – previo superamento di un apposito esame; iii) il consulente è sottoposto ad analitiche regole di comportamento, e a pregnanti meccanismi di controllo; iv) il consulente può operare esclusivamente nell’interesse di un unico intermediario abilitato e va incontro a specifiche incompatibilità 18; v) i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede non possono detenere denaro e/o strumenti finanziari dei clienti o potenziali clienti del soggetto per cui operano. L’intervento del consulente finanziario vuole rappresentare uno strumento di rafforzamento della tutela dell’investitore, nello svolgimento di un’attività che la legge considera particolarmente delicata. La disciplina precisa, infatti, che i consulenti sono tenuti a comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza (art. 107 Regolamento intermediari). Essi devono osservare le disposizioni legislative, regolamentari e i codici di autodisciplina relativi alla loro attività e a quella della categoria del soggetto abilitato per conto del quale operano; devono inoltre rispettare le procedure e i codici interni di comportamento del soggetto abilitato che ha loro conferito l’incarico. Inoltre, in base all’art. 108, al momento del primo contatto con un investitore, il consulente abilitato all’offerta fuori sede deve: a) consegnare all’investitore copia di una dichiarazione redatta dal soggetto abilitato, da cui risultino gli elementi identificativi di tale soggetto, gli estremi di iscrizione all’albo e i dati anagrafici del medesimo consulente, nonché il domicilio al quale indirizzare la dichiarazione di recesso prevista dall’art. 30, comma 6, TUF; b) consegnare all’investitore copia di una comunicazione conforme al modello di cui all’Allegato 4 del Regolamento Consob. Oltre alle regole più di dettaglio che attengono alla disciplina dell’attività del consulente finanziario – rinvenibili nel Regolamento intermediari –, l’art. 31, comma 3, TUF, prevede che “il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”. Si tratta di una norma che pone in capo all’intermediario abilitato una responsabilità rafforzata, rispetto a ciò che discenderebbe dall’applicazione delle norme di diritto comune, per l’operato dei propri con18

Le incompatibilità per i promotori finanziari sono stabilite dall’art. 106 del Regolamento intermediari, nel quale – oltre alle fattispecie analiticamente individuate – si formula una generale previsione di incompatibilità dell’attività del consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede con “ogni ulteriore incarico o attività che si ponga in grave contrasto con il suo ordinato svolgimento”.

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sulenti. L’intermediario, infatti, risponde in solido con il consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede anche se i danni sono conseguenti ad attività svolte dal consulente in violazione dell’incarico affidatogli, e – addirittura – anche nel caso di responsabilità accertata in sede penale. Non è dunque un caso che la giurisprudenza sia assai rigorosa nel sancire la responsabilità degli intermediari per i danni arrecati dal consulente 19. Il presupposto è che l’intermediario professionale deve essere in grado di controllare attraverso appositi meccanismi l’operato dei propri consulenti abilitati all’offerta fuori sede; si giustifica pertanto il riconoscimento della responsabilità solidale, anche nel caso in cui l’attività del consulente sia stata posta in essere in violazione dei limiti dell’incarico affidatogli.

8.3. I casi di esclusione La legge individua tre casi di esclusione dalla disciplina dell’offerta fuori sede: in due casi l’esclusione è configurata in termini soggettivi; nel terzo caso, in termini di oggetto dell’attività. Relativamente alla prima ipotesi, è previsto che “non costituisce offerta fuori sede quella effettuata nei confronti di clienti professionali” (art. 30, comma 2, TUF). Si rinviene così una nuova conferma della tendenziale “segmentazione” della disciplina in funzione della natura professionale dell’investitore. La disciplina dell’offerta fuori sede viene cioè a configurarsi come tipicamente volta a tutelare l’investitore “debole”, non trovando, di contro, giustificazione la sua applicazione nei confronti degli operatori professionali. In secondo luogo, non costituisce offerta fuori sede l’offerta di strumenti finanziari propri rivolti agli esponenti aziendali o ai dipendenti dell’emittente o di società del gruppo. Quanto alla terza ipotesi, il comma 8 dell’art. 30, dispone che la (sola) disciplina relativa al diritto di recesso nell’offerta fuori sede non si applica alle offerte pubbliche di vendita o sottoscrizione di azioni con diritto di voto, o di altri strumenti finanziari che permettono di acquisire o sottoscrivere tali azioni, purché le azioni o gli strumenti finanziari siano negoziati in mercati regolamentati italiani o dell’Unione Europea. La ragione di tale esenzione è da ravvisare nella sussistenza di un’articolata disciplina, relativa alle offerte pubbliche, che toglie gran parte di utilità all’istituto dello jus poenitendi 20.

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V. in proposito SANTOSUOSSO (1999); POLTRONIERI (1999); BOCHICCHIO (1999). RABITTI BEDOGNI (1998-III).

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9. Le tecniche di comunicazione a distanza Si è già detto che l’art. 32 TUF fornisce una specifica definizione delle cc.dd. “tecniche di comunicazione a distanza”, individuandole nelle “tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato” 21. Acquista così rilievo normativo uno dei “canali” (rectius, delle “modalità”) di distribuzione e collocamento di prodotti e servizi finanziari più innovativo e, al contempo, in fase di maggior espansione degli ultimi anni: il ricorso ad Internet, e alle tecniche di comunicazione a distanza, si è, infatti, rapidamente diffuso, sollevando problemi di inquadramento normativo, e di disciplina, di non agevole soluzione 22. La crescente rilevanza di tale settore ha condotto anche all’elaborazione di una specifica Direttiva comunitaria (Direttiva 2002/65/CE del 23 settembre 2002, concernente la commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, che modifica la Direttiva 90/619/CEE del Consiglio e le Direttive 97/7/CE e 98/27/CE), recepita in Italia con il D.Lgs. n. 190/2005 (ora confluito nel Codice del consumo). Anche in questo ambito, ampio è il potere regolamentare riconosciuto alla Consob. L’art. 32, comma 2, TUF, affida infatti a quest’ultima Autorità, sentita la Banca d’Italia, il potere di disciplinare l’offerta a distanza di servizi di investimento e di prodotti finanziari, in conformità dei principi stabiliti nell’art. 30 TUF, e nel Codice del consumo. La relativa disciplina figura nel Regolamento intermediari, agli artt. 79 e seguenti, ove si individuano, innanzitutto, i soggetti che possono svolgere tale attività che – analogamente all’offerta fuori sede – non richiede o presuppone una nuova o distinta autorizzazione, rispetto a quella generalmente richiesta per lo svolgimento dei servizi di investimento 23. La finalità principale che si intende perseguire attraverso la disciplina dell’offerta a distanza è di rafforzare la tutela degli investitori che, ancor più che nel caso dell’offerta fuori sede, potrebbero essere indotti ad acquisire prodotti

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In dottrina si fa rilevare che “si avrà promozione a distanza e non pubblicità quando la comunicazione presenta … struttura bilaterale o si connota in modo tale da consentire, di per sé, l’instaurazione di una relazione comunicativa bilaterale”: RABITTI BEDOGNI (1998-IV). 22 V. per un inquadramento generale GENTILI (1998). Per un’analisi delle regole di comportamento applicabili all’offerta e/o alla prestazione dei servizi tramite Internet v. SARTORI (2004); COSTI-ENRIQUES (2004) Per ulteriori approfondimenti, e copiosi riferimenti v. PLACANICA (2003); ORTINO (2005). 23 V. per un esame della disciplina BONZANINI (1999); ZITIELLO (1998-II). Con particolare riguardo al servizio di negoziazione offerto “on line”, v. BONZANINI (2000).

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e servizi finanziari in circostanze in cui viene meno persino la presenza fisica dell’intermediario, o di un suo incaricato, e l’instaurarsi del rapporto può essere affidato interamente a strumenti informatici, o di comunicazione spersonalizzata. Il Regolamento richiama dunque, rendendole applicabili all’offerta a distanza, tutte le regole di condotta previste in generale per la prestazione dei servizi di investimento, aggiungendo (o, forse, in realtà specificando ciò che sarebbe già stato ricavabile dalle norme generali) che la promozione e il collocamento mediante tecniche di comunicazione a distanza non possono effettuarsi e, qualora intrapresi, devono essere immediatamente interrotti, nei confronti degli investitori che si dichiarino esplicitamente contrari al loro svolgimento e alla loro prosecuzione. Nel nuovo Regolamento intermediari non figura più, di contro, alcuna disposizione che preveda la necessità di impiegare, in merito a particolari tecniche a distanza, promotori finanziari: la previsione che fondava il potere regolamentare della Consob relativamente a tale specifico profilo è, infatti, stata espunta dall’art. 32 TUF e, di conseguenza, è venuta meno anche la relativa disciplina secondaria.

9.1. (Segue): le disposizioni discendenti dalle norme comunitarie Come già ricordato, la disciplina delle vendite a distanza di servizi finanziari (con una portata oggettiva che travalica la materia del TUF) è direttamente incisa dalle disposizioni di un’apposita Direttiva 24. La Direttiva si pone l’obiettivo di rafforzare la tutela dell’investitore nelle operazioni concluse a distanza, ed introduce regole particolari in materia di: a) diritto di informazione del consumatore prima della conclusione del contratto; b) diritto di recesso (per il quale il termine viene esteso a 14 giorni, e, in taluni casi, a 30 giorni); c) modalità di pagamento del servizio; d) divieto di fornitura di servizi non richiesti. Il recepimento della Direttiva è avvenuto con D.Lgs. n. 190/2005, che è poi stato abrogato e le cui previsioni sono confluite nel Codice del consumo. La relativa disciplina si applica alla commercializzazione a distanza 25 di servizi finanziari 26 ai consumatori, anche quando una delle fasi della commercializzazione comporta la partecipazione, indipendentemente dal suo 24

Per alcune indicazioni sui punti di “disallineamento” tra la disciplina interna e quella della Direttiva AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 150 s. 25 Si tratta di qualunque mezzo che, senza la presenza fisica e simultanea del fornitore e del consumatore, possa impiegarsi per la commercializzazione a distanza di un servizio tra le parti (art. 67-bis del Codice). 26 Si tratta di qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, di pagamento, di investimento, di assicurazione o di previdenza individuale.

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stato giuridico, di un soggetto diverso dal fornitore 27. Va rilevato che le regole di cui si discute trovano applicazione quando il contratto è concluso a distanza: l’elemento della conclusione del contratto è dunque centrale al fine di stabilire l’applicazione delle regole speciali. Il Codice del consumo, per i contratti conclusi a distanza, prevede, innanzitutto, specifici oneri informativi nei confronti del consumatore. In particolare, ai sensi dell’art. 67-quater, nella fase delle trattative e comunque prima che il consumatore sia vincolato da un contratto a distanza o da un’offerta, gli sono fornite le informazioni riguardanti il fornitore, il servizio finanziario il contratto a distanza e il ricorso. Le informazioni – il cui fine commerciale deve risultare in maniera inequivocabile – devono essere fornite in modo chiaro e comprensibile con qualunque mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza utilizzata, tenendo debitamente conto in particolare dei doveri di correttezza e buona fede nella fase precontrattuale e dei principi che disciplinano la protezione degli incapaci di agire e dei minori. La disciplina specifica il contenuto delle informazioni da fornire relativamente al fornitore 28, al servizio finanziario 29, al contratto a distan-

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I diritti attribuiti al consumatore sono “irrinunciabili” (art. 67-octiesdecies), ed è nulla ogni pattuizione che abbia l’effetto di privare il consumatore della relativa protezione. La nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Ove le parti abbiano scelto di applicare al contratto una legislazione diversa da quella italiana, al consumatore devono comunque essere riconosciute le condizioni di tutela previste dalla disciplina italiana. 28 Le informazioni relative al fornitore riguardano: a) l’identità del fornitore e la sua attività principale, l’indirizzo geografico al quale il fornitore è stabilito e qualsiasi altro indirizzo geografico rilevante nei rapporti tra consumatore e fornitore; b) l’identità del rappresentante del fornitore stabilito in Italia e l’indirizzo geografico rilevante nei rapporti tra consumatore e rappresentante, quando tale rappresentante esista; c) se il consumatore ha relazioni commerciali con un professionista diverso dal fornitore, l’identità del professionista, la veste in cui agisce nei confronti del consumatore, nonché l’indirizzo geografico rilevante nei rapporti tra consumatore e professionista; d) se il fornitore è iscritto in un registro commerciale o in un pubblico registro analogo, il registro di commercio in cui il fornitore è iscritto e il numero di registrazione o un elemento equivalente per identificarlo nel registro; e) qualora l’attività del fornitore sia soggetta ad autorizzazione, gli estremi della competente autorità di controllo (art. 67-quinquies). 29 Ai sensi dell’art. 67-sexies, le informazioni relative al servizio finanziario riguardano: a) una descrizione delle principali caratteristiche del servizio finanziario; b) il prezzo totale che il consumatore dovrà corrispondere al fornitore per il servizio finanziario, compresi tutti i relativi oneri, commissioni e spese e tutte le imposte versate tramite il fornitore o, se non è possibile indicare il prezzo esatto, la base di calcolo del prezzo, che consenta al consumatore di verificare quest’ultimo; c) se del caso, un avviso indicante che il servizio finanziario è in rapporto con strumenti che implicano particolari rischi dovuti a loro specifiche caratteristi-

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za 30 e al ricorso 31: oltre a tali informazioni sono applicabili le disposizioni più rigorose previste dalla normativa di settore che disciplina l’offerta del servizio o del prodotto interessato. Elemento qualificante della disciplina è il riconoscimento, a favore del consumatore, di uno specifico diritto di recesso 32: ai sensi dell’art. 67-duodecies, il consumatore dispone di un termine di quattordici giorni per recedere dal conche o alle operazioni da effettuare, o il cui prezzo dipenda dalle fluttuazioni dei mercati finanziari su cui il fornitore non esercita alcuna influenza, e che i risultati ottenuti in passato non costituiscono elementi indicativi riguardo ai risultati futuri; d) l’indicazione dell’eventuale esistenza di altre imposte e costi non versati tramite il fornitore o non fatturati da quest’ultimo; e) qualsiasi limite del periodo durante il quale sono valide le informazioni fornite; f) le modalità di pagamento e di esecuzione, nonché le caratteristiche essenziali delle condizioni di sicurezza delle operazioni di pagamento da effettuarsi nell’ambito dei contratti a distanza; g) qualsiasi costo specifico aggiuntivo per il consumatore relativo all’utilizzazione della tecnica di comunicazione a distanza, se addebitato; h) l’indicazione dell’esistenza di collegamenti o connessioni con altri servizi finanziari, con la illustrazione degli eventuali effetti complessivi derivanti dalla combinazione. 30 Ai sensi dell’art. 67-septies le informazioni relative al contratto a distanza riguardano: a) l’esistenza o la mancanza del diritto di recesso conformemente all’art. 67-duodecies e, se tale diritto esiste, la durata e le modalità d’esercizio, comprese le informazioni relative all’importo che il consumatore può essere tenuto a versare ai sensi dell’art. 67-terdecies, comma 1, nonché alle conseguenze derivanti dal mancato esercizio di detto diritto; b) la durata minima del contratto a distanza, in caso di prestazione permanente o periodica di servizi finanziari; c) le informazioni relative agli eventuali diritti delle parti, secondo i termini del contratto a distanza, di mettere fine allo stesso prima della scadenza o unilateralmente, comprese le penali eventualmente stabilite dal contratto in tali casi; d) le istruzioni pratiche per l’esercizio del diritto di recesso, comprendenti tra l’altro il mezzo, inclusa in ogni caso la lettera raccomandata con avviso di ricevimento, e l’indirizzo a cui deve essere inviata la comunicazione di recesso; e) lo Stato membro o gli Stati membri sulla cui legislazione il fornitore si basa per instaurare rapporti con il consumatore prima della conclusione del contratto a distanza; f) qualsiasi clausola contrattuale sulla legislazione applicabile al contratto a distanza e sul foro competente; g) la lingua o le lingue in cui sono comunicate le condizioni contrattuali e le informazioni preliminari di cui al presente articolo, nonché la lingua o le lingue in cui il fornitore, con l’accordo del consumatore, si impegna a comunicare per la durata del contratto a distanza. 31 Ai sensi dell’art. 67-octies, le informazioni relative al ricorso riguardano: l’esistenza o la mancanza di procedure extragiudiziali di reclamo e di ricorso accessibili al consumatore che è parte del contratto a distanza e, ove tali procedure esistono, le modalità che consentono al consumatore di avvalersene; l’esistenza di fondi di garanzia o di altri dispositivi di indennizzo. 32 L’art. 67, comma 4-septiesdecies stabilisce che il contratto è nullo, nel caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, ovvero violi gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche. La nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e obbliga le parti alla restituzione di quanto ricevuto.

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tratto senza penali e senza dover indicare il motivo 33. Il termine durante il quale può essere esercitato il diritto di recesso decorre alternativamente: a) dalla data della conclusione del contratto, tranne nel caso delle assicurazioni sulla vita, per le quali il termine comincia a decorrere dal momento in cui al consumatore è comunicato che il contratto è stato concluso; b) dalla data in cui il consumatore riceve le condizioni contrattuali e le informazioni di cui all’art. 67-undecies del Codice del consumo, se tale data è successiva a quella di cui alla lett. a). L’efficacia dei contratti relativi ai servizi di investimento è sospesa durante la decorrenza del termine previsto per l’esercizio del diritto di recesso. Con specifico riguardo alla disciplina del TUF, ha suscitato qualche difficoltà la disarmonia derivante dall’art. 67-duodecies, comma 5, in base al quale il diritto di recesso non si applica a talune tipologie di contratti, e segnatamente ai “servizi finanziari, diversi dal servizio di gestione su base individuale di portafogli di investimento se gli investimenti non sono stati già avviati, il cui prezzo dipende da fluttuazioni del mercato finanziario che il fornitore non è in grado di controllare e che possono aver luogo durante il periodo di recesso”. La disposizione fornisce un’elencazione (esemplificativa) di tali “servizi finanziari”, individuandoli in: operazioni di cambio, strumenti del mercato monetario, valori mobiliari, quote di un organismo di investimento collettivo, contratti a termine fermo (futures) su strumenti finanziari, compresi gli strumenti equivalenti che si regolano in contanti, contratti a termine su tassi di interesse (FRA), contratti swaps su tassi d’interesse, su valute o contratti di scambio connessi ad azioni o a indici azionari (equity swaps), opzioni per acquistare o vendere qualsiasi strumento sopra previsto. La disarmonia è rappresentata dal fatto che, in relazione alle operazioni di collocamento di strumenti finanziari, non viene riconosciuto lo jus poenitendi quando il collocamento è effettuato mediante tecniche di comunicazione a distanza là dove, di contro, tale diritto è riconosciuto dall’art. 30 TUF quando il collocamento ha luogo mediante offerta fuori sede. Nonostante l’apparente anomalia, l’interprete non può, però, che prendere atto dell’impostazione voluta dal legislatore. In base al Codice del consumo, è vietata la fornitura di servizi finanziari al consumatore che non ne ha preliminarmente fatto richiesta, se la fornitura comporta una domanda di pagamento immediato, o differito. Il consumatore non è tenuto ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta: in ogni caso, la mancata risposta non significa consenso. Inoltre, l’utilizzazione da parte di un fornitore di alcune tecniche di comunicazione a distanza richie33 Il predetto termine è esteso a trenta giorni per i contratti a distanza aventi per oggetto le assicurazioni sulla vita di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, e le operazioni aventi ad oggetto gli schemi pensionistici individuali.

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de il previo consenso del consumatore: si tratta del telefax, e dei sistemi di chiamata senza intervento di un operatore mediante dispositivo automatico. Le altre tecniche di comunicazione a distanza, quando consentono una comunicazione individuale, non sono autorizzate se non è stato ottenuto il consenso del consumatore interessato. La disciplina della promozione e collocamento a distanza è assortita da specifiche sanzioni. Ai sensi dall’art. 67-septiesdecies, salvo che il fatto costituisca reato, il fornitore che contravviene alle norme di cui al Codice del consumo, ovvero che ostacola l’esercizio del diritto di recesso da parte del consumatore, ovvero non rimborsa al consumatore le somme da questi eventualmente pagate, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria, per ciascuna violazione, da euro cinquemila a euro cinquantamila. Nei casi di particolare gravità o di recidiva, i limiti minimo e massimo della sanzione sono raddoppiati. Le autorità di vigilanza dei settori bancario, assicurativo, finanziario e della previdenza complementare, ciascuna nel proprio ambito di competenza, sono competenti ad accertare le violazioni alle disposizioni di cui si discute, e le relative sanzioni sono irrogate secondo le procedure rispettivamente applicabili in ciascun settore.

10. Gli artt. 25-bis e 25-ter TUF e l’estensione della disciplina ai prodotti bancari e assicurativi Una parte della disciplina dei servizi di investimento – quella, in sintesi, che più direttamente riguarda il corpo centrale delle regole di condotta – ha vocazione ad applicarsi anche oltre il perimetro delle attività che hanno ad oggetto strumenti finanziari. L’art. 25-bis TUF prevede, infatti, che agli artt. 21 (criteri generali), 23 (contratti), e 24-bis (consulenza in materia di investimenti) si applicano all’offerta e alla consulenza aventi ad oggetto depositi strutturati e prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari, emessi da banche 34. In relazione ai prodotti di cui sopra, la Consob esercita la vigilanza sui soggetti abilitati e sulle banche non autorizzate all’esercizio dei servizi o delle attività 34 In base all’art. 1, comma 6-decies, TUF per “deposito strutturato” si intende un deposito quale definito all’art. 69-bis, comma 1, lett. c), TUB che è pienamente rimborsabile alla scadenza in base a termini secondo i quali qualsiasi interesse o premio sarà rimborsato (o è a rischio) secondo una formula comprendente fattori quali: a) un indice o una combinazione di indici, eccetto i depositi a tasso variabile il cui rendimento è direttamente legato a un tasso di interesse quale l’Euribor o il Libor; b) uno strumento finanziario o una combinazione degli strumenti finanziari; c) una merce o combinazione di merci o di altri beni infungibili, materiali o immateriali; o d) un tasso di cambio o una combinazione di tassi di cambio.

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di investimento, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti degli Stati membri di origine nel caso di soggetti UE. In base all’art. 25-ter, TUF, gli artt. 21, 23, e 24-bis, TUF si applicano anche alla realizzazione, all’offerta e alla consulenza aventi ad oggetto i prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione 35 e i relativi poteri di vigilanza sono assegnati alla Consob. Queste due disposizioni conducono, naturalmente, allo scolorimento delle distinzioni che, da sempre, hanno connotato le discipline dei tre settori chiave del mercato dei capitali: banche, assicurazioni, intermediari non bancari. La ragione di tale fenomeno (in essere sin dal 2005, quando furono assoggettati al TUF certi prodotti assicurativi) è agevole da comprendere: le interrelazioni e interconnessioni tra i settori sono sempre più evidenti, e le esigenze di tutela che si pongono nei riguardi degli investitori tendono ad avvicinarsi nei vari ambiti. Si osservi, tuttavia, che questa estensione – che rende applicabili una lunga serie di regole, analiticamente individuate al comma 2 dell’art. 25-bis – riguarda soltanto l’offerta e la consulenza dei prodotti: essa, cioè, non comporta l’assoggettamento delle attività assicurative e bancarie per intero alla disciplina del TUF. Sotto il profilo soggettivo, il comma 2 dell’art. 25-bis e il comma 2 dell’art. 25-ter rendono evidente che la disciplina trova applicazione alle attività poste in essere da soggetti abilitati ai sensi del TUF, dalle banche non autorizzate (anche) alla prestazione di servizi di investimento e dalle imprese di assicurazione: sono così esclusi gli intermediari assicurativi (ad esempio, agenti o brokers) disciplinati dal Codice delle assicurazioni, per i quali si applicano esclusivamente le disposizioni formulate da quest’ultimo provvedimento. In ogni caso, questa estensione della disciplina dei servizi di investimento ad ambiti limitrofi non è priva di profili problematici: ad esempio, si sono poste difficoltà di coordinamento tra la disciplina del TUF e la disciplina del Codice delle assicurazioni, nella quale ultima si rinvengono specifiche norme in tema di offerta e distribuzione di prodotti assicurativi che non sono coordinate con quelle del TUF. Inoltre, la distinzione tra norme attinenti alla sottoscrizione e al collocamento del prodotto (rientranti nell’ambito degli artt. 25bis e 25-ter), e norme diverse – se può risultare chiara sul piano teorico – sul piano pratico è tutt’altro che semplice da individuare, posto che, in molti casi – soprattutto nel settore assicurativo e, ora, anche bancario – si rinvengono norme che in realtà possono incidere, sovrapponendosi, su entrambi i profili.

35 Si tratta, secondo quanto si ricava dalle definizioni del TUF, le polizze e le operazioni di cui ai rami vita III e V di cui all’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, con esclusione delle forme pensionistiche individuali di cui all’articolo 13, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252.

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CAPITOLO IX LA GESTIONE COLLETTIVA DEL RISPARMIO SOMMARIO: 1. L’evoluzione normativa e la definizione di “gestione collettiva”. – 1.1. Le esclusioni. – 2. Le categorie generali. – 3. La disciplina degli OICR contrattuali. – 3.1. (Segue): I soggetti coinvolti nell’organizzazione e prestazione del servizio. – 3.2. (Segue): il depositario. – 3.3. (Segue): gli investitori e il rapporto con la società di gestione; il regolamento del fondo. – 3.4. Le diverse tipologie di fondi contrattuali. – 4. Gli OICR aventi forma societaria: SICAV e SICAF. – 5. Regole di condotta ed organizzazione nella prestazione del servizio di gestione collettiva. – 6. La commercializzazione di OICR. – 7. L’operatività transfrontaliera.

1. L’evoluzione normativa e la definizione di “gestione collettiva” Anche il quadro normativo in materia di gestione collettiva del risparmio si è evoluto, dopo l’approvazione del TUF, essenzialmente sulla scorta della disciplina comunitaria. Storicamente, nel Testo Unico del 1998, si erano consolidate le varie discipline che, dal 1983 (data di introduzione dei fondi comuni in Italia), erano intervenute sulla materia: da un lato, quella – di derivazione europea – risalente alla Direttiva 85/611/CEE, e relativa ai cosiddetti “OICR aperti” di tipo armonizzato (la cosiddetta Direttiva “UCITS”); dall’altro, quella contenuta nelle leggi antecedenti al Testo Unico che avevano disciplinato i fondi comuni chiusi (legge 14 agosto 1993, n. 344), i fondi comuni chiusi di tipo immobiliare (legge 25 gennaio 1994, n. 86) e le Società di investimento a capitale variabile (SICAV) (D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 84). I successivi aggiornamenti apportati alla Direttiva 85/611/CEE avevano influito, prevalentemente, sulla disciplina di rango secondario, che era venuta via via affinandosi, al fine di recepire le novità introdotte nelle successive versioni della Direttiva UCITS (ormai, ad oggi, giunta al quinto aggiornamento). Di contro, le tipologie di OICR non rientranti nel perimetro della Direttiva UCITS erano rimaste affidate alla legislazione nazionale. Tale situazione è perdurata sino all’emanazione, da parte del legislatore europeo, della Direttiva sui gestori di fondi alternativi: la cosiddetta “AIFMD” (Alternative Investment Funds Managers Directive – Direttiva 2011/61/CE), il cui recepimento – intervenuto in Italia a cavallo tra il 2014

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e il 2015 – ha comportato una sostanziale riscrittura dell’intera disciplina della gestione collettiva in Italia. Per effetto del recepimento della AIFMD sono state così introdotte nuove categorie di soggetti e di prodotti, precedentemente non contemplati dal Testo Unico, e l’intera disciplina domestica risulta ormai di derivazione comunitaria. La AIFMD ha, in effetti, colmato una rilevante lacuna nella disciplina europea del mercato dei capitali, che – proprio nella materia di cui si discute – era rimasta, di fatto, limitata al solo comparto degli organismi di investimento collettivo di tipo aperto, che rientrassero nelle strette definizioni della Direttiva UCITS. Le tipologie di OICR diverse da questi ultimi (fossero essi fondi aperti, chiusi, fondi immobiliari, fondi di private equity, fondi hedge, o altro) non erano, di contro, state interessate dalla disciplina europea. Salvo che per i prodotti UCITS, il mercato europeo della gestione collettiva risultava, così, particolarmente frammentato, regolato in modo difforme da uno Stato membro all’altro, senza i benefici derivanti dal cosiddetto “passaporto europeo”. Al contempo, il recepimento della Direttiva AIFM ha posto, e continua a porre, problemi non indifferenti di inquadramento sistematico. Ciò è dovuto, principalmente, a due fattori: il primo è che la Direttiva AIFM, a differenza della Direttiva UCITS, non disciplina direttamente gli OICR, ma si limita a disciplinare i gestori degli stessi OICR. Non vi sono, in altri termini, regole specifiche riferite alle singole tipologie di fondi alternativi, alle loro caratteristiche, al loro profilo di rischio. La Direttiva, di contro, disciplina i soggetti che intendono gestire gli OICR alternativi, introducendo regole per certi versi simili a quelle che, nel tempo, si sono consolidate nella Direttiva UCITS (anche se, tra le due Direttive, anche sotto questo profilo continuano a sussistere differenze non trascurabili). In secondo luogo, l’ambito di applicazione della Direttiva AIFM è individuato in via, per così dire, negativa: la Direttiva, infatti, si applica a tutti i gestori di OICR che non rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva UCITS. Ovviamente, l’approccio della Direttiva AIFM è assolutamente neutro per quanto riguarda gli schemi organizzativi e le strutture degli OICR, di guisa che i contorni della disciplina non risultano chiarissimi. I problemi più complessi, in particolare, si pongono con riguardo agli organismi costituiti in forma societaria, che può risultare difficoltoso ricondurre al fenomeno della gestione collettiva, piuttosto che a quello delle società di diritto comune, non sottoposte alla disciplina del mercato dei capitali (v. infra). Un ulteriore effetto della Direttiva AIFM è stato quello di ridurre ulteriormente gli spazi lasciati liberi alla legislazione nazionale. Ciò è dovuto, ovviamente, al fatto – di per sé – che oggi la disciplina europea interessa tutto ciò che non rientrava nella precedente Direttiva UCITS, ma è anche il frutto del massiccio impiego che la Direttiva AIFM (redatta secondo lo schema “Lamfalussy”) fa di norme di diretta applicabilità. Oltre ad essere, infatti, una Direttiva che, in molti punti, è già di per sé molto dettagliata, ad essa si accompagna, al

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Livello 2, un Regolamento assai articolato e pervasivo, che si sostituisce a larga parte della disciplina domestica (Regolamento n. 231/2013). Varie previsioni della disciplina interna sono, pertanto, state abrogate, e – in luogo di esse – si applica direttamente il Regolamento europeo: tra queste, le previsioni che riguardano l’organizzazione interna (tra cui, in particolare, la funzione di controllo e di gestione del rischio), la governance, le regole di condotta. Inoltre, in sede di recepimento, il legislatore italiano ha ritenuto di “estendere” molte delle previsioni rivenienti dalla Direttiva AIFM anche al settore degli UCITS, e dei relativi gestori: una scelta che è stata motivata, in sede di consultazione, con l’esigenza di evitare disallineamenti tra le diverse categorie di gestori di OICR, ma che non è comunque quella che risulta prevalente in altri Stati europei, e che finisce – quantomeno allo stato – per sottoporre i gestori di OICR non alternativi a regole più pervasive di quelle imposte dalla disciplina europea. Il quadro che si presenta oggi agli occhi degli interpreti è dunque articolato su due fronti: da un lato, la disciplina degli OICR aperti armonizzati, risalente alla Direttiva UCITS; dall’altro, tutti gli altri OICR, oggetto della più recente Direttiva del 2011 (AIFMD) 1. La gestione collettiva del risparmio è, peraltro, fenomeno molto complesso e, soprattutto, multiforme. Negli Stati membri sono, infatti, presenti diversi schemi organizzativi riferibili a questa attività: i principali sono riconducibili al fondo comune di investimento “contrattuale”, allo schema societario (in base al quale l’OICR è organizzato sotto forma di società di capitali), allo schema del trust, e allo schema della partnership. Al contempo, le caratteristiche del prodotto possono variare moltissimo, e dipendono dalla tipologia e dalla politica degli investimenti: lo “schema” dell’OICR è molto duttile e può essere utilizzato per forme di investimento tra loro diverse (strumenti finanziari, partecipazioni in imprese, immobili, commodities, crediti, ecc.) 2. La delimitazione 1

ANNUNZIATA (2017). La gamma di beni nei quali può investire un OICR italiano non è, tuttavia, illimitata. L’art. 4, D.M. n. 30/2015 prevede infatti che il patrimonio dell’OICR può essere investito in: a) strumenti finanziari negoziati in un mercato regolamentato; b) strumenti finanziari non negoziati in un mercato regolamentato; c) depositi bancari di denaro; d) beni immobili, diritti reali immobiliari, ivi compresi quelli derivanti da contratti di leasing immobiliare con natura traslativa e da rapporti concessori, e partecipazioni in società immobiliari, parti di altri FIA immobiliari, anche esteri; e) crediti e titoli rappresentativi di crediti, ivi inclusi i crediti erogati a valere sul patrimonio dell’OICR; f ) altri beni per i quali esiste un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale. È da notare come all’OICR sia ora consentito anche di erogare crediti, utilizzando il proprio patrimonio (venendo così a svolgere un’attività tradizionalmente riservata in base al Testo Unico Bancario), e come, al di fuori delle categorie previste, l’investimento in altri beni è consentito purché vi sia un mercato e un valore determinabile con certezza almeno ogni sei mesi. 2

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del “perimetro” della disciplina è resa, inoltre, particolarmente malagevole dal fatto che la Direttiva 2011/61/CE ha individuato il proprio campo di applicazione in via negativa, stabilendo – come già ricordato – che essa si applichi a tutti gli OICR che non rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva “UCITS”, indipendentemente dalla loro forma, e dalle loro caratteristiche. Alla luce di quanto precede, la definizione di “gestione collettiva” pertanto, deve necessariamente concentrarsi sui profili per così dire funzionali del fenomeno: deve, cioè, catturare, innanzitutto, l’essenza economico-finanziaria dell’attività, piuttosto che identificarla muovendo dalle sue forme organizzative. Orbene, sotto tale profilo, è indubbio che – indipendentemente dagli schemi e dal contenuto che, in concreto, può assumere l’attività – il cuore della definizione è rappresentato dal fenomeno “gestorio”: la gestione collettiva, in altri termini, si identifica con lo svolgimento di un’attività finanziaria consistente nella gestione di un patrimonio, con riferimento al quale il gestore pone in essere, in via continuativa, una serie di atti ed operazioni di investimento e disinvestimento con l’obiettivo di produrre, nel tempo, un risultato utile o, quantomeno, di ridurre il rischio finanziario insito nel portafoglio. In tale prospettiva, l’art. 1, comma 1, lett. n), TUF definisce, innanzitutto, la gestione collettiva del risparmio come “il servizio che si realizza attraverso la gestione di OICR e dei relativi rischi”. Come è evidente, la definizione non è di per sé completa, in quanto rinvia a, o si basa su, un’altra definizione, e segnatamente sulla definizione di OICR: quest’ultimo – in base all’art. 1, comma 1, lett. k), TUF – è “l’organismo istituito per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi, nonché investito in strumenti finanziari, crediti, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata”. Le due definizioni sono, pertanto, strettamente interconnesse, di guisa che l’una non può leggersi senza l’altra. La gestione collettiva è, in altri termini, soltanto gestione di OICR, là dove questi ultimi sono organismi che presentano i tratti della definizione loro propria. Da queste prime indicazioni, emergono alcuni elementi di particolare rilevanza 3. Innanzitutto, ed a conferma di quanto si è già accennato, la definizione è neutrale rispetto alle forme organizzative dell’OICR: si fa, infatti, riferimento, all’“organismo istituito” per la prestazione del servizio, indipendentemente dalla forma che quest’ultimo può assumere. Come avremo modo di mostrare, il Testo Unico disciplina, in proposito, unicamente due tra le possibili forme utilizzate, nella prassi internazionali, per la gestione collettiva: la forma contrattuale (il fondo comune di investimento), e la forma societaria (o, per utilizzare 3

V. SANDRELLI (2015).

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l’espressione comunitaria, “statutaria”), oggi rappresentata dalla SICAV e dalla SICAF. Per evidenti ragioni di sistema e culturali, non sono oggetto di disciplina le altre forme che, invece, si rinvengono in altri Stati membri (ad esempio: trust e partnership), anche se queste ultime – in virtù del meccanismo del mutuo riconoscimento, introdotto dalla AIFMD – possono in concreto “circolare” anche nel nostro ordinamento. La definizione, in definitiva, guarda però alla sostanza del fenomeno, piuttosto che alla sua forma. Ciò detto, la definizione di OICR è articolata su alcuni elementi chiave, che – si osservi – devono essere tutti presenti, affinché possa dirsi integrata la relativa nozione, e segnatamente: a) la raccolta del patrimonio tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni; b) la gestione (del patrimonio, si intende) “in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi”; c) l’investimento in strumenti finanziari, crediti, partecipazioni o altri beni mobili o immobili; d) l’investimento “in base a una politica di investimento predeterminata”. Ciascuno di questi elementi deve essere, in realtà, meglio specificato, giacché, in caso contrario, rischia di essere privo di una effettiva capacità di identificazione della fattispecie. Nel descrivere e chiarire il contenuto degli elementi qualificanti la nozione di OICR e la relativa portata applicativa si deve, peraltro, tener conto delle indicazioni racchiuse in due fonti complementari: (i) gli orientamenti ESMA 2013/611 del 18 agosto 2013 che definiscono i concetti chiave relativi all’ambito applicativo della AIFMD (“Linee Guida”); (ii) il Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio della Banca d’Italia del 19 gennaio 2015 (“Regolamento OICR”). a) La raccolta del patrimonio tra una pluralità di investitori. La “pluralità” delle forme di raccolta del capitale costituisce, da sempre, uno dei tratti che concorrono a identificare la nozione di OICR. Tale era (ed è tutt’ora) l’approccio storicamente più risalente, contenuto nella Direttiva UCITS, la quale disciplina i fondi aperti rivolti al “pubblico”, e tale era l’approccio della prima disciplina italiana sulla gestione collettiva (legge n. 77/1983), in base alla quale il “fenomeno” del fondo comune di investimento era, a tutti gli effetti, associato alla raccolta “diffusa” del risparmio (tant’è che l’introduzione, in Italia, della disciplina dei fondi ebbe luogo unitamente alla disciplina della sollecitazione del pubblico risparmio). Con l’affermarsi sui mercati di nuove tipologie di fondi il legame tra la nozione di OICR e la dimensione “pubblica” della raccolta si è spezzato: vi sono, infatti, ormai da tempo, tipologie di OICR che non si rivolgono al pubblico indistinto (per tutti, si pensi ai cosiddetti fondi “riservati”), ma è indubbio che la “pluralità” dei destinatari della raccolta continua,

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comunque, a caratterizzare la nozione generale. La gestione “collettiva” del risparmio si distingue in ciò dalla gestione individuale – rientrante nell’alveo dei servizi di investimento – in quanto servizio strutturalmente rivolto ad una pluralità (non necessariamente indistinta) di soggetti. Tale lettura è confermata, in primo luogo, dalle fonti europee. Secondo le Linee Guida dell’ESMA, la raccolta del capitale consiste nel compimento “di azioni dirette o indirette da parte di un organismo o di una persona o un ente che agiscano a suo nome (tipicamente, il GEFIA) al fine di assicurare il trasferimento di o l’impegno a trasferire capitale da parte di uno o più investitori verso l’organismo, allo scopo di investirlo nel rispetto di una politica d’investimento predeterminata”. La formulazione è, ovviamente, molto ampia ed è volta a ricomprendere qualsiasi forma di attività tesa a procurare la partecipazione all’investimento collettivo da parte di “uno o più investitori”, a prescindere dal fatto che (a) l’attività abbia luogo solo una volta, in diverse occasioni oppure su base regolare; (b) il trasferimento di o l’impegno a trasferire capitale assuma la forma di sottoscrizioni in contanti o in natura 4. È interessante osservare come le Linee Guida facciano espresso riferimento al fatto che la raccolta non perderebbe il suo carattere “diffuso” qualora si fosse in presenza anche di un solo investitore, il che potrebbe far sorgere il dubbio che il confine tra la gestione collettiva e la gestione individuale possa risultare – sotto questo profilo – del tutto evanescente. Tale rilievo, tuttavia, va evidentemente contestualizzato alla luce di tutti gli altri elementi della definizione (v. infra), dai quali si ricava che – pur in presenza di un unico investitore – ciò che rileva è la strutturale predisposizione dello schema di investimento ad accogliere, su basi tendenzialmente indifferenziate, le risorse provenienti da più investitori, ed anche soltanto in via indiretta: quest’ultimo potrebbe essere il caso, ad esempio, di un soggetto che investa nell’OICR avendo, a sua volta, dietro di sé una pluralità di soggetti per conto, o nell’interesse dei quali, egli agisce. Il requisito, dunque, opera in astratto e ricomprende anche i casi in cui vi sia, di fatto, un solo investitore o sussistano forme indirette di raccolta dei capitali presso una platea “allargata” di soggetti 5. L’elemento della pluralità degli investitori 4

Il Regolamento OICR stabilisce che “la raccolta del patrimonio presso gli investitori avviene mediante l’offerta di azioni o quote dell’organismo, da chiunque sia effettuata; non assume rilievo la circostanza che la raccolta avvenga in più soluzioni, ovvero che la sottoscrizione da parte degli investitori avvenga mediante conferimento di denaro o in natura”. 5 Il Regolamento OICR si riferisce a titolo esemplificativo alle strutture master-feeder, ai fondi di fondi, alla possibilità di partecipare ad un OICR mediante un intermediario abilitato alla prestazione dei servizi di investimento ex art. 21, comma 2, del TUF. Le Linee Guida, al paragrafo 18 stabiliscono che “un organismo, cui il diritto nazionale, le norme o i documenti costitutivi oppure qualsiasi altra disposizione o altro accordo dal carattere giuridicamente vincolante, vietino la raccolta di capitale da uno o più investitori, dovrebbe essere considerato come un organismo che raccoglie capitale da una pluralità di investitori

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è strettamente connesso a quello della raccolta di capitale: se l’entità è in grado di raccogliere capitali in forma diffusa (poiché non si registrano chiari elementi ostativi a tale attività) allora si presume che la stessa sia partecipata da una pluralità di investitori. Gli elementi che potrebbero, in linea teorica, escludere la sussistenza del requisito in esame, in mancanza di fattori che contribuiscono a definire sufficientemente il concetto di “raccolta”, andrebbero ricercati in forme di esplicita chiusura del capitale (ad esempio, limiti posti all’ingresso di nuovi investitori), o in un programma imprenditoriale che, chiaramente, delimiti il proprio perimetro all’interno di una cerchia predefinita, e limitata, di destinatari chiaramente identificabili. Poiché la nozione di “raccolta del patrimonio” non è ulteriormente qualificata dal legislatore, ci si deve chiedere se la sussistenza di tale requisito possa dirsi integrata indipendentemente dalle caratteristiche della stessa: in proposito, potrebbero in vero sussistere dubbi in merito circa la configurabilità del requisito della “raccolta del risparmio” in presenza di operazioni di reperimento di capitali non di rischio, come potrebbero essere le emissioni obbligazionarie o di strumenti finanziari assimilabili alle obbligazioni. In questo caso, infatti, sembrerebbe difettare la necessaria correlazione tra l’impiego del capitale e il rischio connesso al perseguimento di una politica d’investimento dell’organismo, che è invece proprio della nozione di OICR 6. In ogni caso, v’è da precisare che, al di là delle considerazioni appena esposte, l’elemento della raccolta di capitale, così come quello della pluralità degli investitori, non assurgono, da soli, a vero elemento distintivo della fattispecie di OICR, rispetto ad altre fattispecie. Tali elementi, infatti, possono essere rinvenuti anche in altre forme organizzative dell’attività di impresa, non riconducibili alla nozione di OICR: innanzitutto, e con i limiti sopra segnalati, in qualsiasi società per azioni che offra a terzi le proprie azioni, e ciò a prescindere dalla natura riservata o meno dell’attività svolta. Il rilievo testé esposto contribuisce dunque già di per sé a chiarire la ragione per la quale gli elementi della definizione di OICR devono essere sussunti e letti congiuntamente, giacché ciascuno di essi getta luce sull’interpretazione degli altri. b) La gestione in monte nell’interesse degli investitori e l’autonomia. La gestione collettiva è una forma di gestione spersonalizzata, svolta in via uniforme per tutti i partecipanti all’OICR, e condotta in autonomia dal gestore rispetto ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, lettera a), punto i), della direttiva GEFIA se l’unico investitore: (a) investe capitale che è stato raccolto da una o più persone giuridiche o fisiche con lo scopo di investirlo a beneficio di dette persone; e (b) rappresenta un accordo o una struttura che in totale abbia più di un investitore ai sensi della direttiva GEFIA”. 6 Ed infatti alle SICAV e alle SICAF è correttamente preclusa la facoltà di emettere obbligazioni (artt. 35-quater, comma 8 e 35-quinquies, comma 6, TUF).

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al singolo investitore: è in questo senso che va inteso il riferimento alla gestione “in monte”. Nella gestione collettiva, pertanto, si spezza il rapporto individuale e (tendenzialmente) personalizzato che caratterizza lo schema della gestione individuale di portafogli. Il gestore, nel caso che qui interessa, persegue un programma di investimento predefinito e standardizzato, al quale l’investitore partecipa (aderendo all’OICR), ma che prescinde da sue indicazioni, o istruzioni specifiche. Anche questo elemento della definizione, se assunto isolatamente, non consente tuttavia di identificare con sufficiente precisione la nozione di OICR, e di distinguerla da altri schemi organizzativi dell’attività di impresa o di investimento. Al riguardo, basti osservare come sia la stessa disciplina della società per azioni di diritto comune a non consentire forme dirette di ingerenza del singolo socio (il sottoscrittore, nel modello contrattuale che prevede la SGR e il fondo comune di investimento) nell’attività gestoria, che è riservata all’organo amministrativo. Anche il perseguimento dell’“interesse degli investitori” è un dato che, assunto isolatamente, è privo di una autonoma capacità distintiva. Senza entrare nel merito dei filoni dottrinali che, anche di recente, si sono occupati della questione, il perseguimento dell’interesse degli “investitori” è anch’esso un dato che contraddistingue già lo schema organizzativo di diritto comune della società per azioni. Piuttosto che incamminarsi sul terreno impervio della identificazione dell’“interesse” perseguito nell’attività gestoria o, in genere, nell’attività d’impresa, è forse più utile soffermarsi sul riferimento all’“autonomia” nell’attività di gestione. In particolare, lo schema dell’OICR non prevede, né consente, ad un singolo investitore di conferire al gestore istruzioni vincolanti, che abbiano ad oggetto lo svolgimento della politica di investimento: si tratta di una facoltà che, di contro, è prevista inderogabilmente nell’ambito del servizio di gestione individuale di portafogli. Si tratta altresì di un profilo che si riallaccia alla nozione di gestione “in monte”, ossia di un’attività gestoria che è svolta in via indifferenziata e standardizzata, e che non lascia spazio per ingerenze individuali. In questo senso, il Regolamento OICR precisa che, in un organismo di investimento collettivo, “i partecipanti [...] non dispongono di poteri connessi alla gestione operativa dell’OICR e delle attività in portafoglio in conformità alla politica di investimento, fermo restando l’esercizio dei diritti riconosciuti agli investitori in qualità di azionisti degli OICR in forma societaria”. L’autonomia è qui riferita alla “gestione operativa” dell’OICR e delle attività in portafoglio, e la stessa – si noti – non risulta compromessa da forme di ingerenza degli investitori là dove questi ultimi esercitino i diritti a loro spettanti in qualità di azionisti (nel caso in cui l’OICR assuma forma societaria). Nella realtà, pertanto, potranno presentarsi forme di OICR caratterizzate, anche sotto questo profilo, da diversi gradi, o intensità di “autonomia gestionale”: in alcuni casi, tale autonomia sarà più accentuata – come ad esempio si rinviene nei fondi

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aperti in forma contrattuale, destinati ad essere offerti al pubblico indistinto – in altri casi, sarà più limitata, come ad esempio si verifica nei fondi riservati a investitori professionali, caratterizzati da un elevato livello di “personalizzazione”, o ancora di più, nei fondi riservati di tipo societario (la SICAF). c) La politica di investimento predeterminata. L’attenzione può ora essere rivolta al requisito che, a nostro parere, è quello decisivo per inquadrare correttamente la nozione di OICR, ossia la sussistenza di una “politica di investimento predeterminata”. I fattori che, presi singolarmente o nel loro insieme, lasciano presumere l’esistenza di una politica di tale natura sono individuati dall’ESMA 7. Si tratta, segnatamente dei seguenti profili: a) la politica d’investimento è determinata e fissata al più tardi al momento in cui gli impegni degli investitori verso l’organismo diventano vincolanti per loro; b) la politica d’investimento è sancita in un documento che diventa parte o cui si fa riferimento nelle norme o nei documenti costitutivi dell’organismo; c) l’organismo o la persona giuridica che gestisce l’organismo ha un obbligo (qualunque ne sia la fonte) nei confronti degli investitori, che essi possono fare valere per legge e che impone di seguire la politica d’investimento, comprese tutte le modifiche effettuate su quest’ultima; d) la politica d’investimento specifica gli orientamenti da seguire per l’investimento, con un riferimento a criteri che includono uno o tutti i seguenti elementi: (i) investire in certe categorie di attività o attenersi ai vincoli sull’allocazione degli investimenti; (ii) seguire determinate strategie; (iii) investire in particolare regioni geografiche; (iv) rispettare limiti in materia di leva finanziaria; (v) rispettare i periodi di detenzione minimi, oppure (vi) rispettare altri limiti volti ad assicurare una diversificazione del rischio. 7 I criteri ESMA sono sostanzialmente ripresi dalla Banca d’Italia nel Regolamento OICR, il quale prevede che “ai fini del rispetto della riserva di legge, l’esistenza di una politica di investimento si può desumere in presenza di una o più delle seguenti condizioni: la politica di investimento è definita prima che diventi vincolante l’impegno degli investitori a conferire il capitale nell’OICR; la politica di investimento è contenuta in documenti o accordi vincolanti tra tutti i partecipanti che formano parte integrante, anche per rinvio, del regolamento o dello statuto dell’OICR; la politica di investimento è vincolante per il gestore, ivi comprese le eventuali modifiche alla stessa; la politica di investimento è articolata in una serie di linee guida di investimento, con riferimento tra l’altro: i) alle strategie di investimento; ii) alle categorie di attività in cui l’OICR investe; iii) ai limiti di investimento, inclusi i limiti di leva finanziaria e criteri di diversificazione dei rischi; iv) alle aree geografiche di investimento; v) a eventuali periodi minimi di detenzione delle attività”.

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Orbene, quanto precede non risulta, a dire il vero, conclusivo. Alcuni degli elementi sopra enucleati, infatti, possono caratterizzare, tendenzialmente, qualsiasi attività di impresa che persegua un determinato “programma” di attività, specificato in via più o meno precisa da un “business plan”, o da un piano strategico. Va dunque posto l’accento sugli elementi che, in qualche modo “affogati” nella definizione, possono, di contro, risultare decisivi. Il primo è rappresentato dal fatto che, in un OICR, la politica di investimento è predefinita, secondo quanto indicato nelle lett. a) e b): la predefinizione precede l’assunzione degli impegni di investimento, e la stessa è prevista in documenti che fanno parte di quelli costitutivi dell’OICR 8. Il secondo è rappresentato dal fatto che la politica di investimento deve essere alquanto specifica, ossia deve effettivamente stabilire uno o più limiti, parametri, criteri, sufficientemente precisi. In questo senso, l’elenco formulato alla lett. d) non è, evidentemente, né tassativo né esaustivo, ma fornisce una chiara indicazione di quelli che dovrebbero essere gli elementi minimali sussistenti perché possa dirsi sussistente una vera e propria politica di investimento. Infine, e forse questo è l’elemento più importante, la politica deve presentare elementi di finanziarietà: deve dunque distinguersi da una semplice politica industriale o commerciale. Non è facile, ovviamente, precisare meglio cosa si intende per elementi di “finanziarietà”: si può tuttavia osservare che, uno dei tratti caratteristici di una gestione finanziaria, è il perseguimento di un programma di investimento in vista dell’ottenimento di un risultato correlato all’assunzione di un certo livello di rischio finanziario: in altre parole, la traduzione, in termini gestionali, di un certo profilo, o rapporto, di rischio-rendimento. L’investitore che accede ad un OICR è, infatti, alla ricerca, e aderisce, ad una forma di investimento finanziario, e non (puramente) commerciale o imprenditoriale, al fine di ottenere – auspicabilmente – un rendimento aggregato o, quantomeno, una gestione del rischio correlato agli investimenti. Si comprende allora la formulazione del paragrafo 12 delle Linee Guida ESMA, ove si precisa che ci si trova di fronte ad un organismo di investimento collettivo se: a) l’organismo non ha uno scopo commerciale o industriale generale 9; 8

Chiaramente, trattandosi della definizione di un’attività riservata, la definizione lascia ferma l’applicazione delle regole generali, in particolare al fine di evitare abusi. Dovrà dunque ritenersi sussistente una politica di investimento “predefinita” anche se non contenuta in documenti formali, se la stessa sia desumibile dalle circostanze di fatto. 9 Ai sensi delle definizioni contenute al paragrafo 2 delle Linee Guida, lo scopo commerciale consiste nel perseguimento di una strategia imprenditoriale caratterizzata da elementi quali lo svolgimento in modo prevalente di un’attività commerciale, che comprenda l’acquisto, la vendita e/o lo scambio di beni e merci e/o la fornitura di servizi non finanziari. Tra gli altri elementi si rinviene l’attività industriale, che comprende la produzione di beni o la costruzione di proprietà, oppure una combinazione dell’attività commerciale e industriale.

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b) l’organismo aggrega il capitale raccolto dai suoi investitori per investirlo al fine di generare un
rendimento aggregato per detti investitori 10. Allo stesso modo la Banca d’Italia, nel Regolamento OICR, prevede che “indipendentemente dalla natura giuridica dell’OICR, il patrimonio dell’OICR non può essere utilizzato per perseguire una strategia di tipo imprenditoriale, sia essa commerciale o industriale ovvero una combinazione delle stesse”. Si stabilisce, inoltre, che “l’OICR ha la finalità, attraverso la gestione del suo patrimonio e dei relativi rischi, di generare un rendimento per gli investitori derivante dall’acquisto, dalla detenzione o dalla vendita delle attività in cui è investito il patrimonio stesso volte a ottimizzare o incrementare il valore delle suddette attività”. La finalità del rendimento di un organismo di investimento collettivo non deve, dunque, intendersi come mero perseguimento dello scopo di distribuzione dell’utile – elemento generale del contratto di società ex art. 2247 c.c. – ma deve, piuttosto, essere definito come perseguimento di un rendimento finanziario, ossia un rendimento perseguito attraverso una gestione improntata sul principio della diversificazione del rischio e sulla correlazione rischio-rendimento. Muovendo dalla teoria economica si giunge alla conclusione che si è in presenza di un’attività di gestione di natura finanziaria quando si assiste ad operazioni che comportino l’impiego di capitali, a fronte di un’attesa di investimento, correlata al rischio sottostante, con la precisazione che il rischio deve presentare una connotazione finanziaria 11, ossia deve essere correlato alla remunerazione di capitali investiti 12. 10 Con riferimento al punto (b), per rendimento aggregato deve intendersi “il rendimento generato dal rischio condiviso che deriva dall’acquisto, dalla detenzione o dalla vendita di beni di investimento – comprese le attività finalizzate a ottimizzare o aumentare il valore di tali beni – a prescindere dal fatto che siano previsti rendimenti differenziati per gli investitori, quali quelli assicurati da una politica di dividendi personalizzati”. 11 Ulteriori elementi, volti a precisare la nozione di OICR, emergono dalla disciplina regolamentare della Banca d’Italia, alla quale si rinvia. 12 Al riguardo potrebbe giovare la definizione di OICVM che, seppur più circoscritta da quella di FIA – come ampiamente spiegato in precedenza – offre degli utili spunti sul tema in questione. Ai sensi della Direttiva 2009/65/CE (“UCITS”) per OICVM si intendono gli organismi: a) il cui oggetto esclusivo è l’investimento collettivo dei capitali raccolti presso il pubblico in valori mobiliari o in altre attività finanziarie liquide e il cui funzionamento è soggetto al principio della ripartizione dei rischi; e b) le cui quote sono, su richiesta dei detentori, riacquistate o rimborsate, direttamente o indirettamente, a valere sul patrimonio dei suddetti organismi. È assimilato a tali riacquisti o rimborsi il fatto che un OICVM agisca per impedire che il valore delle sue quote sul mercato si allontani sensibilmente dal valore patrimoniale netto. Il criterio di ripartizione del rischio, pur non essendo espressamente previsto dalla definizione di FIA – con la quale si condividono, comunque, numerosi elementi – pare ido-

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1.1. Le esclusioni La portata, potenzialmente molto ampia, della nozione di gestione collettiva ha suggerito al legislatore europeo di prevedere talune specifiche esclusioni, al fine – prevalentemente – di evitare di ricondurre nel perimetro della disciplina, fattispecie per le quali non sarebbe opportuno applicare la normativa delle attività finanziarie riservate. L’elenco dei relativi casi è ripreso all’art. 32quater TUF, in base al quale le disposizioni del Titolo III non si applicano: a) alle istituzioni sovranazionali, quali la Banca centrale europea, la Banca europea per gli investimenti, il Fondo europeo per gli investimenti, le istituzioni europee di finanziamento allo sviluppo e le banche sviluppo bilaterali, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, e le altre istituzioni sovranazionali e organizzazioni internazionali analoghe, quando tali istituzioni o organizzazioni gestiscono FIA per finalità di interesse pubblico; b) alle Banche centrali nazionali; c) agli Stati, agli enti pubblici territoriali e agli altri enti che gestiscono fondi destinati al finanziamento dei regimi di sicurezza sociale e dei sistemi pensionistici; d ) alle società di partecipazione finanziaria, intese come società che detengono partecipazioni in una o più imprese, con lo scopo di realizzare strategie imprenditoriali per contribuire all’aumento del valore nel lungo termine delle stesse, attraverso l’esercizio del controllo, dell’influenza notevole o dei diritti derivanti da partecipazioni e che: 1) operano per proprio conto e le cui azioni sono ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato dell’Unione Europea; oppure 2) non sono costituite con lo scopo principale di generare utili per i propri investitori mediante disinvestimenti delle partecipazioni nelle società controllate, sottoposte a influenza notevole o partecipate, come comprovato dal loro bilancio e da altri documenti societari; e) ai regimi di partecipazione dei lavoratori all’impresa o ai regimi di risparmio dei lavoratori; f ) alle società di cartolarizzazione dei crediti; g) alle forme pensionistiche previste dal D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. Pare evidente che, tra i casi di esclusione, quello che solleva le maggiori difficoltà interpretative è rappresentato dalla lett. d), soprattutto alla luce dell’introduzione della figura della SICAF: può, infatti, essere malagevole distinguere tra una “società di partecipazione” e un OICR in forma societaria, quale – per neo ad offrire un’importante indicazione interpretativa ai fini dell’applicazione della riserva di attività alle fattispecie cc.dd. alternative. Va, peraltro, notato come lo stesso principio venga richiamato dalle Linee Guida e dalle disposizioni di vigilanza della Banca d’Italia, quale naturale elemento che contribuisce a qualificare l’attività di gestione collettiva di FIA.

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l’appunto – una società di investimento a capitale fisso. D’altro canto, la distinzione è necessaria, al fine di evitare che una semplice società per azioni – che abbia investimenti in altre imprese – sia attratta nella disciplina dei soggetti vigilati. Gli elementi che, a tal fine, sono indicati nella norma di esenzione – e che vanno letti avendo costantemente presenti gli indici che qualificano, in generale, la nozione di OICR – sono due, di cui il primo deve essere sempre presente, mentre il secondo può sussistere nell’una, o nell’altra, delle due forme indicata dalla norma di cui si discute. Il primo elemento consiste nello scopo dell’attività svolta: affinché operi l’esenzione deve, infatti, trattarsi di un’attività che consiste nella “detenzione” di “partecipazioni in una o più imprese, con lo scopo di realizzare strategie imprenditoriali per contribuire all’aumento del valore nel lungo termine delle stesse, attraverso l’esercizio del controllo, dell’influenza notevole o dei diritti derivanti da partecipazioni”. Le componenti di questo primo elemento sono molteplici: in primo luogo, il fatto che l’attività consiste, più che in un’attività di investimento di un portafoglio (di per sé, dinamica), nella mera detenzione di partecipazioni, in quanto tale non finalizzata, almeno tendenzialmente, al perseguimento, nel tempo, di un programma di investimenti e disinvestimenti. In secondo luogo, assume rilievo il perseguimento di strategie imprenditoriali; ossia, di strategie non finanziarie, il che ci riporta all’analisi già svolta in merito alla nozione generale di gestione collettiva. Corollario di questi primi due elementi è il riferimento al perseguimento di obiettivi di lungo periodo, da ottenere non già attraverso lo svolgimento di un’attività finanziaria, ma di un’attività imprenditoriale, attraverso l’esercizio dei diritti connessi alle partecipazioni detenute. Oltre a questo primo elemento, ne deve sussistere un secondo che può essere, alternativamente, uno dei due evocati dalla norma di esenzione. Il primo è rappresentato dal fatto che la società operi “per proprio conto”, ed abbia azioni ammesse a negoziazione in un mercato UE. Il secondo, è che la società non abbia, come scopo principale, quello di generare utili rivenienti dalla dismissione delle partecipazioni. Quest’ultimo elemento, tutto sommato, meglio specifica, o integra, la distinzione tra attività finanziaria (propria di un OICR), e attività commerciale o imprenditoriale (v. supra): se l’utile generato non deriva, in via prioritaria, da un’attività di investimento-disinvestimento, l’attività sembra fuoriuscire dal perimetro delle attività finanziarie, e rientrare, di contro, nell’ambito di quelle imprenditoriali o commerciali. Più problematico è, invece, il primo elemento, che sembra, in realtà, foriero di molta confusione: posto, infatti, che qualsiasi società per azioni che investa il proprio patrimonio opera “per proprio conto”, non si comprende come ciò possa essere un elemento distintivo tra una società di diritto comune, e un OICR. Quanto alla quotazione in un mercato UE, trattasi di un dato addirittura contraddittorio: se una società è quotata, infatti, essa esprime, per definizione, quella tendenziale “apertura” al mercato delle proprie forme di raccolta del capitale, che è uno degli elementi qualifi-

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canti della fattispecie di OICR, e non è dunque molto chiara la ratio che induce, di contro, il legislatore a individuare questo come uno degli elementi su cui si basa l’esclusione dalla disciplina della gestione collettiva. Quest’ultimo rilievo, comunque, non fa altro che confermare quanto si è avuto modo di osservare, ossia che la disciplina delle esenzioni va letta in stretto raccordo con la nozione generale di gestione collettiva, nei suoi vari elementi identificativi, nel tentativo (non agevole) di individuare una razionalità del sistema.

2. Le categorie generali La nozione generale di OICR si declina ulteriormente in una serie di sottonozioni. Le categorie generali, a loro volta, rinviano a categorie più specifiche. La distinzione di base, che corre lungo l’intera disciplina, è tra OICR “aperti”, e OICR “chiusi”: i primi sono quelli che consentono ai partecipanti di chiedere il rimborso del loro investimento “secondo le modalità e con le frequenze previste dal Regolamento, dallo statuto e dalla documentazione d’offerta dell’OICR”. Gli OICR chiusi, invece, sono tutti quelli diversi da quelli aperti: la nozione, in altri termini, si ricava in via negativa. Negli OICR aperti, pertanto, il diritto al rimborso è previsto in via periodica, o ricorrente (in tal senso, si osservi il riferimento alla “frequenza” del rimborso): la definizione è, tuttavia, flessibile, non essendo prevista una periodicità o una frequenza minima, purché – per l’appunto – il rimborso sia ottenibile a scadenze regolari e predeterminate nel regolamento del fondo o nello statuto dell’OICR 13. Da quanto precede si ricava, pertanto, che in un OICR aperto il patrimonio è soggetto a continue variazioni, in funzione, da un lato, delle nuove sottoscrizioni che vengono raccolte e, dall’altro, dei rimborsi: molti OICR aperti, peraltro, prevedono una periodicità di rimborsi e sottoscrizione quotidiani, con la conseguenza che il patrimonio dell’organismo è soggetto a continue variazioni. I provvedimenti di attuazione del TUF hanno, tuttavia, previsto che – per un OICR aperto – la frequenza dei rimborsi debba essere almeno annuale. Sembra, dunque, potersi ricavare la conclusione per la quale se un OICR ha una periodicità di rimborsi meno frequente (ad esempio: ogni 18 mesi), lo stesso debba necessariamente assumere la forma di un OICR di tipo chiuso (con le relative limitazioni) 14. In un OICR chiuso, di contro, gli investitori non hanno – prima della sca13

Vincoli in tal senso possono però discendere dalle Direttive europee: ad esempio, un fondo aperto italiano, per poter rientrare nel perimetro di applicazione della Direttiva UCITS, deve consentire il rimborso delle quote o azioni con almeno quindicinale. 14 Art. 9, comma 2, D.M. n. 30/2015.

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denza del fondo – il diritto di ottenere la restituzione dell’investimento, ma in tal senso può sussistere, di contro, una facoltà in capo al soggetto gestore, che può decidere di effettuare rimborsi in via anticipata: ad esempio, qualora vi sia liquidità nel patrimonio dell’OICR da non impiegare a breve per nuovi investimenti, o in occasione di eventuali nuove emissioni di quote o azioni. Per gli OICR chiusi, il patrimonio non presenta quell’elemento di continua variabilità che, almeno tendenzialmente, caratterizza gli OICR aperti. Il patrimonio, in questo caso, varia o per effetto di emissioni di nuove quote o azioni (fenomeno che avviene in via non continuativa, ma episodica), o per effetto dei rimborsi, che comunque spetta al gestore del fondo prevedere, quantomeno sino alla scadenza del termine di durata dell’OICR 15. Un’altra distinzione, già ricordata, riguarda quella tra gli “OICVM” e gli “OICR alternativi”. I primi sono OICR di tipo aperto, che rientrano nell’ambito di applicazione della ormai risalente Direttiva UCITS, in quanto ne rispettano caratteristiche e struttura: la Direttiva UCITS è piuttosto precisa nell’identificare, tra gli altri profili, le categorie di investimenti effettuabili da un fondo “UCITS”, i limiti di concentrazione, le politiche di gestione del rischio. Inoltre, un OICR aperto di tipo “UCITS” deve prevedere una periodicità di rimborso degli investimenti almeno quindicinale. Gli OICR aperti possono essere contrattuali, oppure possono assumere forma societaria: in questo secondo caso, la forma richiesta è quella della SICAV. Gli OICR alternativi sono, di contro, tutti quelli che, in quanto non ricompresi nell’ambito della Direttiva UCITS, sono ora disciplinati dalla nuova Direttiva sui gestori di fondi alternativi. Si tratta, dunque, di un universo molto ampio e, ovviamente, gli OICR alternativi possono essere, indifferentemente, aperti o chiusi, e possono essere costituiti in forma contrattuale o statutaria Come già ricordato, un ulteriore elemento di distinzione tra le diverse categorie di OICR attiene alla struttura, o alla forma dell’organismo, che può avere una forma societaria (o “statutaria”, secondo quanto recitano le Direttive UE), o “contrattuale”. In Italia, gli OICR che hanno forma societaria sono rappresentati dalle SICAV e dalle SICAF (rispettivamente art. 1, comma 1, lett. i) 15

In base all’art. 11, D.M. n. 30/2015, il regolamento o lo statuto del FIA può prevedere la possibilità che le quote o le azioni siano rimborsate anticipatamente nei seguenti casi: a) su iniziativa del gestore, a tutti i partecipanti, proporzionalmente alle quote o alle azioni da ciascuno possedute; b) su richiesta dei singoli partecipanti, per un ammontare non superiore alle somme acquisite attraverso nuove emissioni e, per i FIA per cui non sia prevista la quotazione in un mercato regolamentato o in un sistema multilaterale di negoziazione, per un ammontare non superiore ai prestiti contratti dal fondo, purché non eccedenti il 10% del valore del FIA. Nel caso in cui il fondo effettui nuove emissioni, i rimborsi anticipati hanno luogo con la medesima frequenza ed in coincidenza con le emissioni stesse e alla stessa data è prevista la determinazione periodica del valore delle quote o delle azioni del FIA.

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e i-bis) TUF); gli OICR che hanno forma contrattuale sono invece i fondi comuni di investimento. Poiché delle SICAV e delle SICAF ci occuperemo specificamente in un apposito paragrafo, è opportuno concentrare l’attenzione, innanzitutto, sui fondi comuni di investimento che rappresentano, a tutt’oggi, la forma assolutamente prevalente di OICR in Italia (ma lo stesso non è vero per quanto riguarda altri Paesi dell’Unione Europa).

3. La disciplina degli OICR contrattuali Secondo la definizione che figura all’art. 1, comma 1, lett. j), TUF, il fondo comune è “l’OICR costituito in forma di patrimonio autonomo 16, suddiviso in quote, istituito e gestito da un gestore”. Un OICR contrattuale è, dunque, un (semplice) patrimonio autonomo: privo dell’espresso riconoscimento della personalità giuridica, ma dotato di precise regole organizzative che incidono, anche, sui profili patrimoniali. In un fondo contrattuale, il rapporto intercorre tra l’investitore e il gestore (nel caso di specie, la Società di gestione del risparmio – SGR, in quanto unico soggetto tra quelli di diritto italiano, abilitato dal TUF a istituire fondi contrattuali). Se la qualificazione del fondo come “patrimonio” è sancita dalla legge, è sempre stata molto incerta la qualificazione della posizione che l’investitore vanta nei confronti di quel “patrimonio”. Stante il silenzio della legge, la “natura” del rapporto che intercorre tra l’investitore ed il fondo (nonché tra il primo e la società di gestione) è, infatti, da sempre oggetto di discussione 17. Così, vi è chi tende ad assimilare il rapporto al mandato, ed a ricostruire il rapporto tra investitore e società di gestione applicando i relativi schemi. Si ritiene, coerentemente, che con la partecipazione al fondo, l’investitore conferisca alla società di gestione un mandato – i cui tratti sono normativamente definiti – che ha ad oggetto la gestione dei suoi risparmi mediante la partecipazione al fondo comune di investimento. La tesi non è, però, condivisibile, in quanto il partecipante ad un fondo comune non ha alcuno dei poteri che generalmente spettano ad un mandante nei confronti del mandatario, e lo sche16

Nel fondo comune, come in ogni altra forma di OICR, l’apporto del singolo va pertanto a confondersi e a confluire in un patrimonio unico, al quale affluiscono anche gli investimenti degli altri soggetti che partecipano al fondo: ciascun “fondo”, tuttavia, rappresenta un patrimonio “autonomo”, sia dal patrimonio dell’intermediario gestore, sia dal patrimonio rappresentativo di altri fondi, anche se gestiti dal medesimo soggetto (cfr. l’art. 36, comma 4, TUF). 17 Per una ricostruzione del problema, ci sia consentito di rinviare a ANNUNZIATA (2017).

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ma del mandato costituisce, al più, un’assonanza. Secondo un’opinione risalente, il fondo dovrebbe, di contro, essere assimilato ad una forma di “comproprietà” tra gli investitori: anche questa tesi è però da scartare, in quanto i partecipanti ad un fondo comune non si trovano nella situazione propria di un comproprietario, giacché non possono né godere, né disporre dei beni che compongono il fondo stesso 18. Ancora, si è avanzata la tesi per cui il patrimonio del fondo sarebbe di proprietà della stessa società di gestione, ma tale tesi si scontra con l’ovvia constatazione che i soggetti titolari di diritti sul fondo sono gli investitori, mentre nessun diritto di natura proprietaria vanta la società di gestione. Ovviamente, a seconda di come si ricostruisce la natura del fondo comune di investimento, varia anche la natura del “diritto” che l’investitore ha nei confronti del fondo o della società di gestione. Se si accede alla tesi della comproprietà, se ne deve, infatti, dedurre che gli investitori sono comproprietari del patrimonio, in proporzione all’importo sottoscritto da ciascuno. Tale soluzione, tuttavia, non è accettabile, per il semplice ed assorbente motivo che gli investitori non hanno diritto ad ottenere una quota-parte del patrimonio collettivo, secondo le regole in materia di divisione che, invece, si applicano nel caso di comproprietà. Essi hanno, piuttosto, il diritto di ottenere la liquidazione in denaro e il rimborso di importi corrispondenti alle quote possedute, nei termini e con i modi previsti dal regolamento del fondo. Ne deriva che l’investitore non è titolare di un diritto di natura reale, quanto piuttosto di un diritto di credito, rappresentato dalla liquidazione del controvalore del suo investimento 19, che sembra più compatibile con una diversa ricostruzione del “fenomeno” del fondo comune di investimento che prescinda dal richiamo dello schema della comproprietà. In realtà, la questione perde in gran parte di interesse nel momento stesso in cui il legislatore formula una disciplina che dà risposta agli interrogativi più direttamente connessi con la soluzione del problema della “natura” del fondo: ossia, a chi spettino i diritti sul patrimonio comune, e come questi vadano organizzati 20. Si è già detto, infatti, che, nella definizione stessa di fondo comune 18

Cfr. GENTILE (1991); COSTI (2006). Lo schema subisce, peraltro, una variazione nel caso delle SICAV, e ciò in quanto in tal caso l’investitore assume la qualifica di azionista della società di gestione, cumulando così su di sé la posizione di investitore e di azionista della società di gestione. Il riferimento alle SICAV consente, altresì, di porre in luce un elemento fondamentale dell’operazione “fondo comune di investimento”, rappresentato dal fatto che l’investitore non diventa socio della società di gestione. 20 Meno diretto è stato l’intervento del legislatore per quanto attiene alla definizione dei profili di responsabilità della società di gestione, per il quale non sussiste un regime speciale. V. per un inquadramento della questione BORGIOLI (1993); SABATELLI (1995). 19

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di investimento, il legislatore si preoccupa di porre in luce “l’autonomia” – anche sul piano patrimoniale – del patrimonio del fondo. Il concetto è ripreso, e sviluppato, dall’art. 36, comma 4, TUF, nel quale si rinviene una norma che – similarmente a quanto si è visto in materia di servizi di investimento – stabilisce che ciascun fondo comune di investimento costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio, e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione del risparmio o nell’interesse della stessa; né quelle dei creditori del depositario o del subdepositario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono, invece, ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi. Tale disciplina delinea così nettamente il regime applicabile al patrimonio del fondo, escludendo che sullo stesso possano interferire posizioni di altri soggetti, o patrimoni, e rende pertanto non più così pregnante la risposta all’interrogativo sulla “titolarità” di quel patrimonio, e sulla natura del relativo diritto 21. Quanto ai profili soggettivi, la tesi da tempo sostenuta, secondo la quale i fondi non sono soggetti di diritto, è stata da ultimo ribadita dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 16605/2010), secondo la quale “(...) i fondi comuni di investimento non costituiscono soggetti di diritto a sé stanti, bensì patrimoni separati della società di gestione che li ha istituti (...)”. È pur vero, tuttavia, che le necessità, anche pratiche, connesse con l’operatività dei fondi sembrano generare soluzioni non sempre coerenti con tale ricostruzione: si pensi, ad esempio, all’assunzione di obbligazioni da parte della SGR nell’interesse, o per conto, del fondo, o all’intestazione di beni registrati o immobili al fondo stesso, che lasciano intravvedere una forma di soggettività riconoscibile, nei fatti, anche al fondo, che – comunque – resta privo di personalità giuridica 22.

3.1. (Segue): i soggetti coinvolti nell’organizzazione e prestazione del servizio L’attività di gestione di un fondo comune di investimento, prevede, nella sua articolazione strutturale, l’intervento di tre soggetti o centri di imputazione di interessi. Il primo centro di imputazione di interessi è costituito dagli investitori che fanno affluire i loro capitali al fondo. Questo centro di imputazione può essere, come si è già avuto modo di osservare, più o meno ampio, e più o meno “diffuso”: se, storicamente, il legame tra fondi comuni di investi21 22

COSTI (2006). ANNUNZIATA (2017); BASILE (2017).

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mento e offerte pubbliche era molto forte, oggi si è ormai spezzato a fronte della diffusione, sul mercato, di tipologie di fondi che si rivolgono soltanto a talune tipologie di investitori, spesso in numero non elevato. Il secondo soggetto è rappresentato dalla società di gestione, ossia dalla società che istituisce e gestisce il fondo 23. Il terzo soggetto è, infine, rappresentato dal depositario, ossia dal soggetto che – materialmente – custodisce e detiene le attività di compendio del patrimonio del fondo. L’art. 47 TUF prevede che, per ciascun OICR (e, dunque, per ciascun fondo) il gestore è tenuto a conferire l’incarico di depositario a un unico soggetto 24. Si osservi, tuttavia, che il deposito dei beni presso la banca depositaria è previsto unicamente in relazione al deposito di strumenti finanziari ed, eventualmente, di somme di denaro (che non necessariamente, nel nuovo regime derivante dal recepimento della AIFMD, vanno affidate al depositario): di contro, ciò non accade mai per beni diversi, e ciò per l’impossibilità stessa a che i beni di compendio del fondo siano oggetto di deposito (si pensi al caso dei fondi che investono in beni immobili, o in crediti) 25. Sia l’attività di “istituzione”, sia quella di “gestione” del fondo sono riservate alle società di gestione del risparmio, e alle società omologhe di queste ultime, autorizzate ad operare in Italia in base alle Direttive comunitarie. Il recepimento della AIFMD ha comportato l’ampliamento dei soggetti esteri che possono svolgere tali attività: in particolare, potrà trattarsi di gestori basati nell’Unione Europea che rispettano i requisiti della Direttiva UCITS (in tal caso, il riferimento corre alle “società di gestione UE”, come definite dall’art. 1, comma 1, lett. o-bis), TUF), ovvero di gestori basati all’interno dell’Unione Europea, o al di fuori di quest’ultima, che rispettano i requisiti stabiliti dalla AIFMD (in tal senso, le definizioni di “gestore di FIA UE (GEFIA UE)” e di “gestore di FIA non UE – GEFIA non UE”), di cui alle lett. p) e q). La gestione collettiva del risparmio è, infine, preclusa alle SIM, alle banche, e agli altri soggetti che – a vario titolo – operano nei mercati finanziari. Analogamente a quanto si è visto per le SIM, l’accesso all’attività per le SGR

23 Il Testo Unico prevedeva originariamente che tale posizione potesse in realtà scindersi in due posizioni distinte e, segnatamente, articolarsi nelle due distinte funzioni di: i) promozione, istituzione e organizzazione del fondo, e di amministrazione dei rapporti con i partecipanti; ii) gestione del patrimonio del fondo. Tale distinzione, peraltro scarsamente utilizzata nella pratica, è però venuta meno con il recepimento in Italia della AIFMD. 24 Art. 47, comma 2 “L’incarico di depositario può essere assunto da banche italiane, succursali italiane di banche UE e di banche di paesi terzi, SIM e succursali italiane di imprese di investimento UE e di imprese di paesi terzi diverse dalle banche”. 25 V. però le puntualizzazioni di COSTI-ENRIQUES (2004), p. 422 s.

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è subordinato al rilascio di un’autorizzazione amministrativa 26; l’autorizzazione viene rilasciata dalla Banca d’Italia, sentita la Consob, quando ricorrono le seguenti condizioni: a) sia adottata la forma di società per azioni; b) la sede legale e la direzione generale della società siano situate nel territorio della Repubblica; c) il capitale sociale versato sia di ammontare non inferiore a quello determinato in via generale dalla Banca d’Italia; d) gli esponenti aziendali e i partecipanti al capitale abbiano i requisiti previsti dagli artt. 13 e 14 TUF; e) la struttura del gruppo di cui è parte la società non sia tale da pregiudicare l’effettivo esercizio della vigilanza sulla società stessa, e siano fornite almeno le informazioni richieste ai sensi dell’art. 15, comma 5, TUF; f ) vengano presentati, unitamente all’atto costitutivo e allo statuto, un programma concernente l’attività iniziale e una relazione sulla struttura organizzativa; g) la denominazione sociale contenga le parole “società di gestione del risparmio”. Stante la distinzione venutasi a determinare a seguito del recepimento della AIFMD tra “OICVM” e “OICR alternativi”, una SGR può essere autorizzata alla gestione di una soltanto, o di entrambe, tali tipologie di fondi. Al fine di rispettare le previsioni delle Direttive europee, è ora previsto che le SGR vengano iscritte nell’apposito albo – tenuto dalla Banca d’Italia – diviso in due sezioni: la prima, destinata ad accogliere le SICAV autorizzate alla gestione di OICVM, rientranti dunque nell’ambito di applicazione della Direttiva UCITS, la seconda destinata ad accogliere le SGR autorizzate a gestire fondi alternativi. Ovviamente, nulla vieta che una SGR venga iscritta in entrambe le sezioni dell’albo, qualora intenda svolgere l’attività di gestione collettiva con riguardo ad entrambe le categorie di fondi 27. A seguito del recepimento della AIFMD, e con specifico riferimento alle società che intendono gestire FIA, la disciplina prevede ora che, qualora la SGR gestisca FIA riservati con un patrimonio al di sotto delle soglie indivi26

Come già per le SIM, anche in questo caso, l’autorizzazione allo svolgimento del servizio non rappresenta una condizione per l’iscrizione della società nel registro delle imprese. 27 Per costante prassi interpretativa, si deve peraltro ritenere che una SGR non possa ottenere l’iscrizione all’albo (e le relative autorizzazioni) se non nel caso in cui svolga l’attività di gestione di OICR (dell’una o dell’altra categoria): non sarà dunque consentita l’iscrizione all’albo ad una SGR che, ad esempio, intenda svolgere unicamente il servizio di gestione individuale di portafogli di investimento, o una delle altre attività consentite dal TUF, diverse dalla gestione collettiva del risparmio.

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duate dalla Direttiva 28, alla stessa non si applichino taluni requisiti altrimenti previsti (ad esempio, il capitale minimo richiesto è, in tal caso, ridotto a 50.000 Euro). È agevole, in ogni caso, rilevare l’affinità delle condizioni richieste per il rilascio dell’autorizzazione ad una SGR, rispetto a quelle richieste per una SIM; l’affinità si manifesta anche in relazione al tipo di verifiche e di controlli che l’Autorità di vigilanza effettua in occasione del rilascio dell’autorizzazione: l’art. 34, comma 2, TUF stabilisce, infatti, che “l’autorizzazione è negata quando dalla verifica delle condizioni indicate nel comma 1 non risulta garantita la sana e prudente gestione” 29. Il principio della sana e prudente gestione, così, torna ad assumere rilevanza, quale criterio-guida per l’accesso all’attività da autorizzare. Come si è visto, le SGR possono prestare, unitamente al servizio di gestione collettiva del risparmio, anche il servizio di gestione di portafogli ed il servizio di consulenza in materia di investimenti. Oltre a ciò, l’art. 33 consente loro di prestare l’attività di istituzione e gestione di fondi pensione, di commercializzare quote o azioni di OICR gestiti da terzi, nonché prestare il servizio di ricezione e trasmissione di ordini, qualora la SGR sia autorizzata a prestare il servizio di gestione di FIA. La possibilità per le SGR di svolgere altri servizi, rispetto a quello di gestione collettiva, produce l’effetto di porre le società di gestione del risparmio al “centro”, per così dire, dell’industria del risparmio gestito. Alle SGR infatti – e soltanto ad esse – è consentito di operare a tutto campo nel settore della gestione del risparmio, individuale e collettiva (e, come vedremo, anche in quella dei fondi pensione), nonché nel settore della consulenza. Come si è già detto, le società di gestione UE e i GEFIA sono gli “omologhi” europei delle SGR di diritto italiano: il loro riconoscimento deriva dalle Direttive europee in materia di gestione collettiva. Conformemente ai principi derivanti da queste ultime, le società di gestione – se autorizzate nel Paese di origine – possono svolgere in Italia le attività per le quali sono autorizzate ai sensi delle Direttive comunitarie di riferimento (UCITS o AIFMD). L’operati28

Il FIA si considera sotto soglia se le sue attività, comprese quelle acquisite mediante la leva finanziaria, non superano in totale la soglia di 100 milioni di euro, oppure la soglia di 500 milioni, a condizione tuttavia – in questo secondo caso – che il FIA non ricorra alla leva finanziaria e preveda che il diritto dei partecipanti al rimborso delle quote o azioni non sia esercitabile per un periodo di almeno cinque anni a decorrere dalla data di investimento iniziale in ciascun FIA. Cfr., per ulteriori indicazioni, il Regolamento OICR, Titolo II, Sezione VII. 29 Spetta alla Banca d’Italia, con proprio regolamento da emanarsi sentita la Consob, disciplinare la procedura di autorizzazione e le ipotesi di decadenza quando la società di gestione del risparmio non abbia iniziato o abbia interrotto lo svolgimento dei servizi autorizzati (art. 34, comma 3, TUF).

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vità in Italia dei soggetti esteri potrà svolgersi mediante stabilimento di una succursale, o in regime di libera prestazione di servizi. Al di là delle singole disposizioni che si applicano nei diversi casi (e che sono contenute negli artt. 41 ss. TUF), giova osservare come le Direttive riconoscano un regime di sostanziale equipollenza tra SGR italiane e gestori basati in altri Paesi dell’Unione Europea: talune regole, tuttavia, si applicano ai GEFIA, in ragione delle specificità che connotano i fondi alternativi. Un ulteriore elemento di peculiarità, sempre riferito ai fondi alternativi, è dato dal fatto che anche gestori di fondi alternativi basati in paesi non appartenenti all’Unione Europea possono gestire fondi alternativi italiani, o commercializzarli in Italia.

3.2. (Segue): il depositario L’altro soggetto che concorre alla prestazione del servizio di gestione collettiva è rappresentato dal depositario, che svolge, innanzitutto, la funzione di custodire le attività dell’OICR rappresentate da strumenti finanziari. Ai sensi dell’art. 47, comma 1, TUF, per ciascun OICR – e dunque per ciascun fondo comune – il gestore è tenuto a conferire l’incarico di depositario a un unico soggetto (che rientri tra le categorie cui al comma 2). Si tratta di una soluzione che conferma e, al contempo, rafforza il principio della separazione patrimoniale: non soltanto il patrimonio del fondo è “autonomo”, in quanto così definito (e disciplinato) a livello normativo, ma esso viene materialmente sottratto alla detenzione da parte del gestore, per essere affidato ad un depositario terzo. Le funzioni del depositario non si limitano, però, alla custodia del patrimonio del fondo: l’art. 48 TUF gli assegna infatti compiti ulteriori, e, in particolare, quelli di “controllare” l’operato della società di gestione, e la sua conformità alle previsioni di legge e del Regolamento. Sotto questo profilo, è opportuno precisare che il controllo sull’operato della SGR interessa anche le operazioni aventi ad oggetto beni di cui il depositario non ha la custodia. Il depositario, dunque: a) accerta la legittimità delle operazioni di vendita, emissione, riacquisto, rimborso e annullamento delle quote del fondo, nonché la destinazione dei redditi dell’OICR; b) accerta la correttezza del calcolo del valore delle parti dell’OICR o, nel caso di OICVM italiani, su incarico del gestore, provvede esso stesso a tale calcolo; c) accerta che nelle operazioni relative all’OICR la controprestazione sia ad essa rimessa nei termini d’uso; d) esegue le istruzioni del gestore, se non sono contrarie alla legge, al regolamento o alle prescrizioni degli organi di vigilanza;

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e) monitora i flussi di liquidità dell’OICR, nel caso in cui la liquidità non sia affidata al medesimo. Le funzioni del depositario vanno così al di là di quelle che spetterebbero in base ad un (normale) rapporto di deposito di strumenti finanziari, o – eventualmente – di somme di denaro, configurandosi lo stesso come un soggetto chiamato a controllare e a vigilare, in via continuativa l’attività della società di gestione. Nello svolgimento delle sue mansioni, il depositario viene ad essere investito di una responsabilità specifica, che si aggiunge a quella generale riveniente dagli obblighi connessi con il deposito degli strumenti finanziari e delle somme di denaro di compendio del fondo: la banca, infatti, è responsabile nei confronti del gestore e dei partecipanti al fondo (o all’OICR) di ogni pregiudizio da essi subito in conseguenza dell’inadempimento dei propri obblighi (art. 49, TUF) 30. La natura esatta di tale responsabilità non è, però, di agevole individuazione: l’opinione preferibile sembra debba essere nel senso che la responsabilità verso i partecipanti al fondo è di natura aquiliana (art. 2043 ss.), mentre quella verso la società di gestione è di natura contrattuale (art. 1218 c.c.) 31. Oltre a quanto precede, a seguito del recepimento della AIFMD, è stata prevista una specifica forma di responsabilità per l’eventuale perdita degli strumenti finanziari detenuti in custodia: in tal caso, il depositario, se non prova che l’inadempimento è stato determinato da caso fortuito o forza maggiore, è tenuto a restituire senza indebito ritardo strumenti finanziari della stessa specie o una somma di importo corrispondente, salvo in ogni caso il risarcimento del maggior danno. La responsabilità resta ferma anche nel caso in cui il depositario si avvalga di subdepositari, salva tuttavia l’eventuale stipula di accordi scritti tra il gestore, il depositario e il subdepositario, volti a determinare l’assunzione in via esclusiva della responsabilità da parte del subdepositario 32. L’art. 100 del Regolamento n. 231/2013 – al fine di chiarire la nozione di “perdita” di uno strumento finanziario – prevede che tale fatto si verifica in presenza di una delle circostanze seguenti: a) l’asserito diritto di proprietà sullo strumento finanziario è dimostrato non valido, perché ha cessato di esistere ovvero non è mai esistito; 30

Cfr., per l’eventuale possibilità di stipulare, da parte del depositario, accordi di esonero o limitazione della responsabilità, gli artt. 101 ss. del Regolamento UE n. 231/2013. 31 V. però i rilievi critici di FERRARIS DI CELLE e SZEGO (1998). Cfr. MIOLA-BRIOLINI (2002); LUBRANO (2002-II). 32 Per l’eventuale stipula di tali accordi, che possono essere replicati anche al successivo livello del sub-subdeposito, è prevista l’emanazione di apposite norme da parte della Banca d’Italia (cfr. art. 49, comma 3, TUF).

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b) l’OICR è stato privato definitivamente del diritto di proprietà sullo strumento finanziario, c) l’OICR non può disporre, direttamente o indirettamente, dello strumento finanziario. La nozione di “perdita”, dunque, sembra non essere riferita alla perdita di valore o al deprezzamento dello strumento, ma alla sua insussistenza materiale, o giuridica, o all’impossibilità di disporne. La complessità delle funzioni da svolgere, e la responsabilità che grava in capo al depositario, giustificano la previsione di norme che subordinano la possibilità di assumere tale incarico al rilascio di una specifica autorizzazione della Banca d’Italia. Inoltre, l’art. 47, comma 4, TUF prevede, infatti, che “gli amministratori e i sindaci del depositario riferiscono senza ritardo alla Banca d’Italia e alla Consob, ciascuna per le proprie competenze, sulle irregolarità riscontrate nell’amministrazione del gestore e nella gestione degli OICR e forniscono, su richiesta della Banca d’Italia e della Consob, informazioni su atti o fatti di cui sono venuti a conoscenza nell’esercizio delle funzioni di depositario”. Si osservi come, nel caso di specie, gli obblighi di comunicazione siano estesi non soltanto ai membri del collegio sindacale, ma anche agli amministratori del depositario, secondo un’impostazione più ampia rispetto a quanto si rinviene nell’ambito delle previsioni che attengono alla vigilanza sugli intermediari 33. 33

L’affidamento delle somme liquide e degli strumenti finanziari di compendio dell’OICR al depositario può porre un teorico problema di compatibilità tra le regole poste dalla disciplina della gestione collettiva del risparmio e quelle relative al c.d. bail-in, in caso di risoluzione del depositario. In particolare, la sottoposizione del depositario alla procedura di bail-in potrebbe incidere anche sul diritto dell’OICR ad ottenere la restituzione delle somme di denaro e degli strumenti finanziari oggetto di deposito. La questione non è sfuggita al legislatore europeo e a quello nazionale in sede di recepimento della Direttiva 2014/59/UE (c.d. Banking Resolution and Recovery Directive, “BRRD”). L’art. 49, comma 1, lett, c), D.Lgs. n. 180/2015 esclude, infatti, dall’ambito di applicazione del bail-in “qualsiasi obbligo derivante dalla detenzione da parte dell’ente sottoposto a risoluzione di disponibilità dei clienti, inclusa la disponibilità detenuta nella prestazione dei servizi e attività di investimento e accessori ovvero da o per conto di organismi di investimento collettivo o fondi di investimento alternativi, a condizione che questi clienti siano protetti nelle procedure concorsuali applicabili”. La disposizione costituisce la trasposizione, nell’ordinamento interno, del disposto dell’art. 44, par. 2, lett. c) della BRRD, in base al quale “Resolution authorities shall not exercise the write down or conversion powers in relation to the following liabilities whether they are governed by the law of a Member State or of a third country: [...] (c) any liability that arises by virtue of the holding by the institution or entity referred to in point (b), (c) or (d) of Article 1(1) of this Directive of client assets or client money including client assets or client money held on behalf of UCITS as defined in Article 1(2) of Directive 2009/65/EC or of AIFs as defined in point (a) of Article 4(1) of Directive 2011/61/EU of the European Parliament and of the Council (31), provided that such a client is protected under the applicable insolvency law [...]”. La formula adottata nelle disposizioni

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3.3. (Segue): gli investitori e il rapporto con la società di gestione; il regolamento del fondo Il rapporto che lega l’investitore alla società di gestione – e che ha oggetto lo svolgimento, da parte di quest’ultima, dell’attività di gestione collettiva del risparmio – ha natura contrattuale; il suo contenuto è stabilito dal “regolatesté richiamate non è per la verità chiarissima, soprattutto a causa dell’inciso in base al quale l’esclusione dal bail-in è condizionata al fatto che i “clienti siano protetti nelle procedure concorsuali applicabili”, non essendo chiaro a quale tipo di “protezione” si faccia, in tale ambito, riferimento. In proposito, deve osservarsi che il patrimonio degli OICR (che sembrerebbero essere, nel caso di specie, i “clienti” dell’ente in risoluzione) è effettivamente protetto, anche in caso di insolvenza, dall’operare della regola di separazione patrimoniale. L’art. 36 TUF, analogamente alla previsione di cui all’art. 22 per i servizi di investimento, non ammette – infatti – che sul patrimonio dell’OICR possano incidere azioni dei creditori del depositario o del subdepositario o nell’interesse degli stessi. Ne deriva che l’OICR e, per esso, i partecipanti allo stesso sembrano poter godere di una protezione nell’ambito del diritto concorsuale. La separatezza patrimoniale costituisce, infatti, secondo quanto previsto dall’art. 91 TUB (al quale rinvia l’art. 57 TUF in tema di liquidazione coatta amministrativa degli intermediari), regola che consente, nella fase di crisi dell’intermediario, di proteggere i diritti dei clienti dalle pretese restitutorie degli altri clienti e dai diritti dei creditori dell’intermediario. Un assetto in parte diverso può riguardare i FIA: questi ultimi, infatti, possono depositare le somme liquide presso soggetti terzi, sui quali ultimi il depositario deve esercitare il proprio controllo, a mente – tra l’altro – dell’art. 86 del Regolamento delegato (UE) n. 231/2013 (v. supra). Si può però ritenere che, nel quadro così delineato, l’esclusione dal bail-in debba applicarsi anche all’obbligo di restituzione delle disponibilità liquide di un FIA che siano detenute da un soggetto terzo. Conclusioni non dissimili – ma per ragioni diverse – possono applicarsi con riguardo alle sorti della liquidità strumentale all’effettuazione di investimenti in depositi e alla costituzione di garanzie di denaro. Tale ipotesi, infatti, sembra possa rientrare nell’esclusione dalla procedura di bail-in D.Lgs. prevista dall’articolo 49, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 180/2015, e relativa a “qualsiasi obbligo sorto per effetto di un rapporto fiduciario tra l’ente sottoposto a risoluzione e un terzo, in qualità di beneficiario, a condizione che quest’ultimo sia protetto nelle procedure concorsuali applicabili”. In proposito, si potrebbe tentare di ricorrere ai principi in tema di mandato e, segnatamente, al disposto dell’art. 1707 c.c., dal quale si ricava – quale regola generale – che i creditori del mandatario non possono far valere le loro ragioni sui beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario abbia acquistato in nome proprio, purché, trattandosi di beni mobili o di crediti, il mandato risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento. Orbene, il deposito della liquidità dell’OICR presso il fondo soddisfa esigenze di segregazione analoghe a quelle sottese alla regola di cui all’art. 1707 c.c. La natura restitutoria della pretesa del mandante sui beni mobili che il mandatario abbia acquistato per suo conto in esecuzione del mandato, e quindi la sottrazione di tale pretesa al regime del concorso fallimentare, risulta, peraltro, anche dall’art. 103, comma 2, legge fall. che fa espressamente salvo il disposto dell’art. 1706 c.c. in tema di acquisti del mandatario, con specifico riferimento ai beni mobili (tra i quali rientra, ovviamente, il denaro). In conclusione, sia sulla base del principio di separazione patrimoniale, sia in base a quelli del mandato (schema richiamato dall’art. 36, com-

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mento” del fondo 34. Conformemente alla natura stessa dell’attività di gestione collettiva del risparmio, il regolamento è un documento standardizzato, predisposto unilateralmente dalla società di gestione 35, sul cui contenuto l’investitore non ha alcuna possibilità di intervenire. La struttura, ed il contenuto del regolamento sono peraltro oggetto di pervasivi controlli amministrativi, che differenziano sostanzialmente la disciplina della gestione collettiva da ciò che, invece, si rinviene nell’ambito della disciplina della gestione individuale. Il regolamento del fondo comune di investimento è, infatti – quale regola generale, che tuttavia non si applica ai fondi FIA riservati 36 – sottoposto all’approvazione della Banca d’Italia 37, ed alla stessa procedura sono soggette le eventuali

ma 3, TUF), le disponibilità liquide di compendio degli OICR e depositate presso un ente sottoposto a risoluzione, restano escluse dalla disciplina del bail-in. Sulla questione si è da ultimo pronunciata la Banca d’Italia con Comunicazione n. 263681/16, nella quale – riscontrando le richieste di Assogestioni, dalle quali abbiamo tratto le considerazioni che precedono – si conclude conformemente a quanto indicato nel testo per gli OICR contrattuali, ma si giunge ad una diversa situazione per la liquidità depositata dagli OICR statutari. Tale ultima posizione è motivata sulla base del rilievo per il quale il TUF non prevede disposizioni in materia di separazione patrimoniale simili a quelle applicabili agli OICR contrattuali: queste ultime non sarebbero, peraltro, “suscettibili di applicazione analogica in ragione del loro carattere eccezionale”. La conclusione non è, a nostro avviso, condivisibile, in quanto, nel caso di specie, l’applicazione analogica non solo sembra possibile, ma si impone, alla luce della unitarietà del fenomeno OICR come disciplinato nelle Direttive UE e dell’identità delle finalità perseguite dalla disciplina, quali riflesse, tra l’altro, nell’art. 35-decies TUF. La Banca d’Italia ritiene anche che la disciplina del bail-in si applichi alle disponibilità liquide che possono essere affidate a soggetti diversi dai depositari, quali quelle funzionali all’investimento in depositi e alla costituzione di depositi, ritenendo inapplicabile l’art. 1707 c.c. 34 La scelta dell’organo sociale competente ad approvare il regolamento del fondo è lasciata all’autonomia della società di gestione: potrà dunque trattarsi sia dell’assemblea (come previsto nella disciplina antecedente al TUF), sia del consiglio di amministrazione. Sugli sviluppi della disciplina v. MEO (2000-II). 35 In origine, l’organo competente per l’approvazione del regolamento dei fondi comuni di investimento fu individuato nell’assemblea della società di gestione (legge n. 77/1983). 36 La ratio della previsione (art. 37, comma 4, TUF) è dovuta al fatto che, per i fondi FIA riservati gli investitori non necessitano del medesimo livello di protezione richiesto, invece, per i fondi destinati al pubblico indistinto, trattandosi, infatti, di investitori “esperti” o comunque professionali. 37 Al fine di semplificare le procedure amministrative di approvazione del testo dei regolamenti, è da tempo previsto la facoltà per la Banca d’Italia di individuare, in via amministrativa, i casi in cui il regolamento del fondo (e le relative modificazioni) si intendono approvati “in via generale”. In particolare, là dove sussistano i presupposti individuati dalla Banca d’Italia, e il regolamento risulti conforme alle indicazioni fornite da quest’ultima nei propri regolamenti, il relativo testo si intende, per l’appunto, automaticamente approvato, ed è soggetto unicamente all’invio ex-post alla Banca d’Italia.

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successive modificazioni del regolamento stesso 38. In proposito, si sono progressivamente affermati nella prassi veri e propri “schemi” di regolamento delle diverse tipologie di fondi, ai quali le società di gestione si attengono in via generale, con conseguente elevata omogeneizzazione dei vari prodotti presenti sul mercato. Tale fenomeno è in realtà conseguenza di precise scelte normative. L’art. 37, comma 2, TUF indica già, infatti, il contenuto minimo obbligatorio del regolamento del fondo 39; i provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia formulano una sorta di “guida” alla redazione del regolamento, con indicazione di clausole “suggerite” dall’Autorità di vigilanza. Ne deriva un grado di “amministrativizzazione” della relativa disciplina assai più rilevante di ciò che si rinviene nell’ambito della disciplina della gestione individuale di portafogli. La partecipazione al fondo comune si perfeziona mediante adesione dell’investitore al regolamento predisposto dalla società di gestione, ed approvato dall’Autorità di vigilanza. Tale partecipazione è “rappresentata” – come ricorda la stessa definizione generale formulata dall’art. 1 TUF – da “quote”; più correttamente, si dovrebbe dire che la partecipazione al fondo è “incorporata” (secondo il contenuto che tale nozione assume nella disciplina dei titoli di credito) in quote di partecipazione, rappresentate da certificati. La Banca d’Italia può stabilire in via generale, sentita la Consob, le caratteristiche dei certificati e il valore nominale unitario iniziale delle quote, tenendo conto anche dell’esigenza di assicurare la portabilità delle quote (art. 36, comma 5). Le quote di partecipazione ai fondi comuni rappresentano non soltanto “strumenti finanziari” – in quanto figurano espressamente nella 38

Si segnala che, nel giugno 2007, la Banca d’Italia ha ampliato i casi in cui il regolamento del fondo può essere dalla stessa approvato in via generale, con conseguente semplificazione del relativo iter amministrativo (cfr. Provv. Banca d’Italia 21 giugno 2007). 39 Sul punto v. LUBRANO (2002-III). Il regolamento deve in particolare contenere: a) la denominazione e la durata del fondo; b) le modalità di partecipazione al fondo, i termini e le modalità dell’emissione ed estinzione dei certificati e della sottoscrizione e del rimborso delle quote, nonché le modalità di liquidazione del fondo; c) gli organi competenti per la scelta degli investimenti e i criteri di ripartizione degli investimenti medesimi; d) il tipo di beni, di strumenti finanziari e di altri valori in cui è possibile investire il patrimonio del fondo; e) i criteri relativi alla determinazione dei proventi e dei risultati della gestione nonché le eventuali modalità di ripartizione e distribuzione dei medesimi; f ) le spese a carico del fondo e quelle a carico della società di gestione del risparmio; g) la misura o i criteri di determinazione delle provvigioni spettanti alla società di gestione del risparmio e degli oneri a carico dei partecipanti; h) le modalità di pubblicità del valore delle quote di partecipazione; i) se il fondo è un fondo feeder.

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relativa definizione – ma veri e propri titoli di credito. La natura del rapporto che si instaura tra l’investitore e la società di gestione, e i possibili riflessi che su tale rapporto possono avere le vicende legate al fondo ed al relativo regolamento, fanno propendere nel senso di attribuire al relativo titolo natura di titolo causale. È opportuno tuttavia precisare che, nella prassi, spesso i certificati rappresentativi delle quote di partecipazione non vengono materialmente emessi, in quanto è prevista la possibilità di emissione di un “certificato cumulativo”, tenuto in deposito presso la banca depositaria, e rappresentativo di una pluralità di quote. Si tratta di una soluzione che risponde ad esigenze sia di semplificazione amministrativa, sia di riduzione del rischio connesso con la circolazione dei certificati rappresentativi delle quote. Sotto il primo profilo, infatti, il ricorso al certificato cumulativo evita che, per ciascuna operazione di cessione di quote, si debba procedere ad effettuare operazioni sui relativi certificati; per quanto attiene alla riduzione del rischio connesso con la circolazione delle quote, l’effetto è analogo a quanto si verifica in ipotesi di “dematerializzazione” di strumenti finanziari: non essendo più previsto un documento cartolare rappresentativo della quota, è conseguentemente eliminato il rischio connesso con il furto, lo smarrimento, la distruzione in genere del certificato stesso. In base a quanto previsto in proposito dalla disciplina secondaria, il certificato cumulativo – rappresentativo di una pluralità di quote, e necessariamente al portatore – va tenuto in deposito gratuito presso la banca depositaria, con rubriche distinte per singoli partecipanti, eventualmente raggruppate per soggetti collocatori. Le quote presenti nel certificato cumulativo possono essere contrassegnate anche soltanto con un codice identificativo elettronico, ferma restando la possibilità della banca depositaria di accedere alla denominazione del partecipante in caso di emissione del certificato singolo o al momento del rimborso della quote. Per tale via, la funzione di “identificazione” della titolarità delle quote viene affidata – anziché al documento cartaceo – alle registrazioni contabili tenute dalla banca depositaria, secondo quanto sopra. In ogni caso, l’immissione di quote nel certificato cumulativo deve garantire la possibilità per: – il partecipante, di richiedere in ogni momento l’emissione del certificato singolo, tornando così all’applicazione del normale regime “cartolare”; – la banca depositaria, di procedere, senza oneri per il partecipante e per il fondo, al frazionamento del cumulativo, anche al fine di separare i diritti dei singoli partecipanti. È evidente che, con riferimento al certificato cumulativo, non si può parlare di vera e propria “dematerializzazione” delle quote di partecipazione al fondo. L’emissione della chartula resta, infatti, pur sempre possibile, ed anzi è uno dei diritti che debbono essere garantiti all’investitore. L’inserimento delle quote del

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singolo investitore nel certificato cumulativo pone altresì un problema di qualificazione dei diritti vantati dal partecipante con riferimento alle quote di sua pertinenza: è infatti dubbio se l’investitore divenga titolare di un mero diritto di credito, ovvero se disponga pur sempre di strumenti finanziari 40.

3.4. Le diverse tipologie di fondi contrattuali Ai sensi dell’art. 39 TUF spetta al Ministro dell’economia e delle finanze definire le caratteristiche generali delle varie tipologie di fondi ammesse nell’ordinamento nazionale. In particolare, con Regolamento emanato sentite la Banca d’Italia e la Consob, il Ministro determina i criteri generali cui devono uniformarsi i fondi comuni di investimento (e più in generale, gli OICR) con riguardo, tra l’altro: a) all’oggetto dell’investimento; b) alle categorie di investitori cui è destinata l’offerta delle quote o azioni; c) alla forma aperta o chiusa e alle modalità di partecipazione, con particolare riferimento alla frequenza di emissione e rimborso delle quote, all’eventuale ammontare minimo delle sottoscrizioni e alle procedure da seguire; d) all’eventuale durata minima e massima; e) alle condizioni e alle modalità con le quali devono essere effettuati gli acquisti o i conferimenti dei beni, sia in fase costitutiva che in fase successiva alla costituzione del fondo. Il medesimo Regolamento stabilisce inoltre: a) le categorie di investitori non professionali nei cui confronti è possibile commercializzare quote di FIA italiani riservati; b) le scritture contabili, il rendiconto e prospetti periodici che le società di gestione redigono, in aggiunta a quelle già previste dal diritto comune, e gli obblighi di pubblicità del rendiconto e dei prospetti periodici; c) le ipotesi in cui la società di gestione del risparmio deve chiedere l’ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato dei certificati rappresentativi delle quote del fondo; d) i requisiti e i compensi spettanti agli esperti indipendenti, eventualmente richiesti per la valutazione dei beni di compendio del patrimonio del fondo (cfr. art. 6, comma 1, lett. c), TUF). È opportuno porre in luce che, nell’esercizio del potere di cui sopra, il legi40 La questione assume rilievo ad esempio in caso di azioni esecutive sulle quote di spettanza dell’investitore, dovendosi stabilire se si debba in tal caso procedere al pignoramento di titoli (rectius: di strumenti finanziari), ovvero di crediti. V. GANDINI (1996).

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slatore secondario incontra precisi limiti derivanti dalla disciplina comunitaria, la quale, nell’ambito della Direttiva UCITS, formula una specifica disciplina per i fondi comuni aperti: da qui la distinzione – più volte richiamata tra fondi “armonizzati” o “comunitari” (rientranti, cioè, nell’ambito di applicazione della Direttiva UCITS), e altre tipologie di fondi (i fondi “alternativi”). Di contro, per i fondi diversi da quelli rientranti nella Direttiva UCITS – ed oggetto, invece, della disciplina di cui alla AIFMD – il legislatore europeo non formula indicazioni puntuali riguardo alla struttura dei fondi comuni, essendo tale ultima Direttiva essenzialmente volta a disciplinare il gestore del fondo. Si è visto che l’art. 1 TUF, nell’individuare la nozione di gestione collettiva del risparmio, fa riferimento all’attività di gestione di OICR, prevedendo che questi ultimi possano avere ad oggetto “strumenti finanziari, crediti, partecipazioni o altri beni mobili o immobili”. Non è dunque necessario, affinché sussista un’attività di gestione collettiva del risparmio, che l’investimento abbia ad oggetto strumenti finanziari: l’attuazione di tale principio, tuttavia, è avvenuta in modo differenziato, a seconda delle diverse categorie di fondi comuni di investimento quali individuate nella normazione secondaria, giusta quanto stabilito dal Testo Unico. Il principio di fondo è che la natura dell’OICR reagisce sulle categorie di beni nei quali può essere investito il relativo patrimonio, e viceversa: gli OICR chiusi, pertanto – dovendo potenzialmente essere in grado di soddisfare le domande di rimborso provenienti in ogni momento dagli investitori – dovranno essere investiti prevalentemente in beni facilmente liquidabili; di contro, gli OICR chiusi saranno investiti prevalentemente in beni meno liquidi, ivi compresi beni immobili, o altri beni per i quali non sussistano mercati organizzati. Tenuto anche conto delle limitazioni rivenienti dalla disciplina europea, il D.M. n. 30/2015 distingue dunque le seguenti categorie: – OICVM italiani; – FIA italiani aperti; – FIA italiani chiusi; – FIA italiani immobiliari; – FIA italiani riservati; – OICR garantiti. Nella categoria degli OICVM italiani rientrano i fondi contrattuali – necessariamente di tipo aperto – che rispettano i requisiti e presentano le caratteristiche della Direttiva UCTIS. Si tratta, pertanto, di prodotti oggetto di un intervento profondamente “conformativo” della normativa europea, sin dalla prima versione della Direttiva, risalente, come già ricordato al 1985. In sintesi, gli OICVM investono il proprio patrimonio essenzialmente in strumenti quotati, strumenti del mercato monetario, altri strumenti dotati di elevata liquidità; di contro, l’investimento in strumenti finanziari non quotati è limitato al

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10% del patrimonio del fondo. L’investimento in strumenti derivati è soggetto a varie limitazioni, al fine di evitarne l’utilizzo per finalità puramente speculative. La gestione di un OICVM incontra, altresì, taluni divieti (ad esempio, non è possibile investire in metalli o pietre preziose), ma quello che incide maggiormente sulla conformazione dei diversi prodotti riguarda il divieto di vendere allo scoperto strumenti finanziari. Anche se, nel tempo, il divieto ha subito alcuni temperamenti 41, per lungo tempo è stato l’elemento di maggior distinzione degli OICVM rispetto ai fondi alternativi (in particolare, rispetto ai cosiddetti hedge funds). Questi “divieti” hanno finalità diverse: alcuni sono volti ad assicurare che il patrimonio del fondo si mantenga sufficientemente “liquido”; altri, ad evitare l’effettuazione di operazioni in conflitto di interessi, potenzialmente dannose per il fondo; altri, infine, ad evitare l’esposizione del fondo a rischi reputati eccessivi (divieto di vendite allo scoperto). Per le diverse “classi” o categorie di attività nelle quali il fondo aperto può investire, sono altresì previsti limiti percentuali, volti – essenzialmente – ad evitare l’assunzione di rischi eccessivi in capo al fondo. Così, ad esempio, il fondo non può investire più di una certa percentuale del proprio patrimonio (variabile, in funzione della tipologia degli strumenti finanziari), in strumenti emessi da uno stesso emittente. Ancora, e sempre a titolo esemplificativo: – il patrimonio dell’OICR non può essere investito in misura superiore al 20% del totale delle attività in depositi presso un’unica banca. Tale limite è ridotto al 10% nel caso di investimenti in depositi presso la banca depositaria del fondo; – il fondo non può avere un’esposizione in transazioni su strumenti finanziari derivati OTC verso una controparte superiore: – al 10% del totale delle sue attività, se la controparte è una banca; – al 5% del totale delle sue attività, negli altri casi; – l’OICR non può essere investito in parti di uno stesso OICR armonizzato per un valore superiore al 20% del totale delle attività; – l’OICR non può essere investito in parti di uno stesso OICR non armonizzato aperto per un valore superiore al 10% del totale delle attività; – l’esposizione complessiva in strumenti finanziari derivati non può essere superiore al valore complessivo netto del fondo. I FIA italiani aperti sono i fondi di tipo aperto che, per una qualsivoglia ragione, non rispettano i parametri previsti dalla Direttiva UCITS. Può trattarsi, pertanto, di fondi che non seguono pedissequamente le prescrizioni della Direttiva UCITS, ad esempio perché seguono una politica di investimento che si discosta da quella degli OICVM, oppure perché non prevedono una 41

Cfr. il Regolamento OICR della Banca d’Italia, Titolo V, Sezione II.

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frequenza nel rimborso delle quote almeno quindicinale (ma, si ricordi, che se la frequenza è inferiore all’anno, il fondo dovrà assumere la forma chiusa). I FIA aperti non possono investire in strumenti non quotati in misura superiore al 20% del loro patrimonio. Il Regolamento OICR della Banca d’Italia prevede, nel caso in cui il FIA sia rivolto al pubblico distinto, taluni limiti di investimento, ovviamente diversi da quelli applicabili agli OICVM. I FIA italiani chiusi sono investiti in strumenti non quotati, beni immobili (e simili), crediti, altri beni in misura almeno pari al 20% del loro patrimonio. Il patrimonio del FIA è raccolto, secondo le modalità stabilite dal Regolamento o dallo statuto, mediante una o più emissioni di quote o azioni di eguale valore unitario. Le quote del FIA chiuso sono sottoscritte entro il termine massimo di ventiquattro mesi dalla conclusione positiva della procedura di commercializzazione prevista dagli artt. 43 e 44 TUF e dalle relative norme di attuazione. In caso di offerta al pubblico, il termine decorre dalla pubblicazione del prospetto ai sensi dell’art. 94, comma 1, del patrimonio. Il Regolamento OICR della Banca d’Italia individua le categorie di beni, e i relativi limiti, in cui può essere investito il patrimonio del FIA chiuso (non riservato). I FIA italiani immobiliari sono, di fatto, una sottospecie dei FIA chiusi. La loro attività si orienta, come è intuitivo, nel comparto degli investimenti immobiliari, nel quale devono investire (salvo talune eccezioni) almeno due terzi del loro patrimonio 42. La raccolta del fondo può realizzarsi sia con versamenti in denaro, sia mediante conferimento di beni: regole specifiche si applicano, in quest’ultimo caso, qualora al fondo vengano apportati immobili di proprietà dello Stato (art. 13). Regole molto analitiche sono volte ad assicurare la correttezza nella valutazione dei beni che compongono il fondo, mediante l’intervento di esperti indipendenti, dotati di particolari requisiti, e che il gestore deve selezionare attenendosi scrupolosamente alle previsioni normative (cfr. art. 16, D.M. n. 30/2015). Per espressa previsione del D.L. n. 133/2014, non sono FIA immobiliari le cosiddette “SIIQ” (Società di investimento in immobili quotate): si tratta, in questo caso, di società per azioni quotate nei mercati regolamentati, tenute tuttavia a rispettare alcuni specifici limiti nella loro attività di investimento e di gestione di immobili: in particolare, il patrimonio deve essere investito, per almeno l’80%, in immobili oggetto di locazione, e nessun socio deve detenere, singolarmente, oltre il 60% dei diritti di voto. A fronte del rispetto di questi requisiti, le SIIQ godono di un regime fiscale agevolato. 42 Ai sensi dell’art. 12, D.M. n. 30/2015 la percentuale è ridotta al 51% qualora il patrimonio del FIA sia altresì investito in misura non inferiore al 20% del suo valore in strumenti finanziari rappresentativi di operazioni di cartolarizzazione aventi ad oggetto beni immobili, diritti reali immobiliari, o crediti garantiti da ipoteca. I limiti di investimento indicati nel presente comma devono essere raggiunti entro ventiquattro mesi dall’avvio dell’operatività.

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I FIA italiani riservati sono riservati agli investitori professionali, come definiti in base alla disciplina MiFID (sia professionali di diritto, sia su richiesta). In ogni caso, il regolamento del fondo deve indicare le categorie di investitori alle quali lo stesso è riservato. Ad essi non si applicano molte delle previsioni che, di contro, trovano applicazione ai fondi destinati al pubblico indistinto: oltre a non applicarsi i limiti di investimento previsti dalle disposizioni applicabili ai FIA aperti o chiusi, il regolamento del fondo (così come le relative modifiche) non è soggetto all’approvazione della Banca d’Italia. Prevale, insomma, in questo schema l’impostazione per cui gli investitori, essendo per l’appunto “professionali”, sono in grado di negoziare direttamente con il gestore le condizioni contrattuali che ritengono preferibili, e il controllo amministrativo è dunque ridotto al minimo. Il Regolamento deve tuttavia indicare: a) la circostanza che il regolamento del fondo non è soggetto all’approvazione della Banca d’Italia; b) la circostanza che non trovano applicazione le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia per i FIA non riservati; c) l’obiettivo, il profilo di rischio, lo stile di gestione e le tecniche di investimento del FIA; d) il livello massimo di leva finanziaria del FIA; e) i limiti di investimento del FIA. In base all’art. 14, D.M. n. 30/2015, il Regolamento del FIA italiano riservato può prevedere la partecipazione anche di investitori non professionali. In tal caso, gli investitori non professionali devono sottoscrivere o acquistare quote o azioni del FIA per un importo complessivo non inferiore a cinquecentomila euro. Tale partecipazione minima iniziale non è frazionabile. Le quote dei FIA italiani riservati non possono essere collocate, rimborsate o rivendute da parte di chi le possiede, direttamente o nell'ambito della prestazione del servizio di cui all’art. 1, comma 5, lett. d) del TUF, a soggetti diversi da quelli indicati nel Regolamento del FIA. Nel caso in cui un gestore intenda limitare la propria attività ai soli FIA chiusi riservati, il capitale minimo richiesto – in luogo di un milione di Euro – è ridotto a 500.000 Euro. Quanto agli OICR garantiti, il gestore, nel rispetto dei criteri di investimento e delle norme prudenziali di frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia, può istituire OICR che garantiscono la restituzione del capitale investito ovvero il riconoscimento di un rendimento minimo, mediante la stipula di apposite convenzioni con banche, imprese di investimento che prestano il servizio di negoziazione per conto proprio, imprese di assicurazione o intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 TUB aventi i requisiti indicati dalla Banca d’Italia, ovvero mediante altre eventuali forme di garanzia indicate dalla Banca d’Italia. Gli OICR garantiti possono

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essere sia di tipo aperto, sia di tipo chiuso. Il “catalogo” recato dal D.M. n. 30/2015 non esaurisce, tuttavia, le tipologie di fondi (in particolare, di FIA) che possono essere istituiti: sulla materia, infatti, è intervenuto direttamente il legislatore europeo. Nell’ambito della AIFMD sono stati, così, introdotti due tipi specifici di FIA: il primo – denominato “EuVECA” – è riferito a FIA sotto-soglia, specializzati nel settore del venture capital (Regolamento EU n. 345/2013). La seconda tipologia è rappresentata dai FIA qualificati per l’imprenditoria sociale (i cosiddetti EuSEF – Regolamento EU n. 346/2013): si tratta di FIA sotto-soglia che hanno come obiettivo l’investimento in impese che forniscano servizi o merci a persone vulnerabili, emarginate, svantaggiate o escluse, che impieghino metodi di produzione che incorporano il loro obiettivo sociale, o che forniscano sostegno finanziario esclusivamente ad imprese sociale. Questi fondi, che sono destinati ad investire prevalentemente in imprese non quotate di piccole dimensioni (c.d. “imprese ammissibili” – cfr. art. 3 del Regolamento UE n. 345/2013), possono essere offerti unicamente presso investitori professionali, o presso altri investitori che si impegnino a investire almeno 100.000 Euro, e rilascino talune dichiarazioni di “consapevolezza” dei rischi assunti. Il Regolamento UE 2015/760, del 29 aprile 2015 (applicabile dal 9 dicembre 2015), ha, infine, introdotto i cc.dd. “ELTIF” (European Long Term Investment Funds): si tratta di OICR di tipo chiuso che investono prevalentemente in strumenti di capitale di rischio (o strumenti quasi-equity), con un orizzonte di medio lungo periodo. Gli ELTIF rispondono, dichiaratamente, all’esigenza di dotare il mercato europeo di un sostegno durevole allo sviluppo dell’economia, ancora profondamente scossa dalle conseguenze della crisi scoppiata nel 2008: gli ELTIF, pertanto, si propongono di fornire supporto finanziario di lunga durata a progetti infrastrutturali di varia natura, a società non quotate ovvero a piccole e medie imprese (PMI) quotate, con un investimento di lungo periodo, idoneo ad accompagnare la crescita delle attività economiche nel tempo. 


4. Gli OICR aventi forma societaria: SICAV e SICAF La prestazione del servizio di gestione collettiva è riservata, oltre che alle società di risparmio, alle società di investimento a capitale variabile (SICAV), e alle società di investimento a capitale fisso (SICAF). Sono, questi ultimi, i due modelli di OICR aventi forma societaria previsti nell’ordinamento italiano 43.

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V. ANNUNZIATA (2017).

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a) Le SICAV Le SICAV sono definite dall’art. 1 TUF come “l’OICR aperto costituito in forma di società per azioni a capitale variabile con sede legale direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni”. L’introduzione nel nostro sistema delle SICAV è avvenuta con il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 84 44. L’istituto, già noto in altri ordinamenti europei, nasce sulla scorta del modello francese. La reale motivazione dell’introduzione delle SICAV, in aggiunta al “modello” del fondo, era da ricercarsi nella volontà del legislatore di ampliare la gamma di prodotti per la gestione in monte del risparmio. In particolare, il tratto distintivo che – nella prospettiva dell’investitore – connota le SICAV rispetto ai fondi comuni di investimento è rappresentato dal fatto che, nelle prime, il risparmiatore-investitore ricopre la figura di socio partecipante che, con il suo diritto di voto, può incidere sulle strategie d’investimento delle società. Ne deriva che, per le SICAV, scompare la tipica distinzione – propria della disciplina generale delle società per azioni – tra capitale sociale e patrimonio, rendendo così necessaria la formulazione di regole speciali, in deroga al diritto comune. Oltre al fatto che alle SICAV non è consentito prestare servizi diversi dalla gestione collettiva – a differenza delle SGR – talune peculiarità attengono alle modalità previste per l’accesso alla prestazione del servizio: le SICAV possono, infatti, costituirsi soltanto previa autorizzazione della Banca d’Italia, sentita la Consob. L’autorizzazione amministrativa viene dunque ad essere condizione (come accade per le banche) non già per l’avvio dell’attività, ma per la costituzione stessa del soggetto 45. Si è già detto che, nelle SICAV, vi è una necessaria coincidenza tra capitale e patrimonio netto; ciò comporta che alle SICAV non potrà applicarsi la normale disciplina relativa al capitale delle società per azioni. Anche alle SICAF, la disciplina del codice civile è in parte disapplicata: in particolare, alle stesse non si applicano gli artt. da 2447-bis a 2447-decies. Le azioni della SICAV e delle SICAF possono peraltro essere al portatore o nominative: la scelta è rimessa al sottoscrittore che, comunque, deve sottostare agli eventuali limiti statutari imposti per l’emissione di azioni nominative. Relativamente alle azioni al portatore, indipendentemente dal loro numero, queste attribuiscono un solo voto (art. 35-quater e 35-quinquies). 44 Sulle principali novità introdotte dal TUF v. ANTONUCCI (1999), cui adde PICARDI (2002-III). Sulla disciplina previgente v., per tutti, LENER (1993). 45 Quanto appena esposto evidenzia la necessità da parte del nostro legislatore di stabilire, per questa prima fase costitutiva, condizioni più rigide rispetto a quanto previsto in precedenza dalla Direttiva 611/85/CE la quale, espressamente, prevedeva l’autorizzazione “all’esercizio dell’attività”.

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Regole particolari attengono al funzionamento delle assemblee delle SICAV. La natura azionaria delle quote di partecipazione alla SICAV rappresenta un elemento di distinzione rispetto ai fondi comuni di investimento, che consente al partecipante/azionista di intervenire nella formazione della volontà e delle decisioni sociali tramite la sua partecipazione alle riunioni assembleari, e l’esercizio del diritto di voto. L’art. 35-sexies TUF stabilisce che l’assemblea ordinaria e quella straordinaria in seconda convocazione sono da considerarsi validamente costituite indipendentemente dalla parte di capitale sociale intervenuta, con la naturale conseguenza della soppressione della seconda convocazione per l’assemblea ordinaria. Il voto può essere dato per corrispondenza, se ciò è ammesso dallo statuto; le convocazioni delle stesse devono avvenire oltre che tramite pubblicazione su Gazzetta Ufficiale, anche con la pubblicazione su specifici quotidiani indicati nello statuto. Questa “particolare” modalità è richiesta dalla peculiarità dell’oggetto sociale delle SICAV, che devono necessariamente ampliare il regime pubblicitario tramite veicoli conoscitivi più accessibili al pubblico. La SICAV – secondo un’impostazione ampiamente diffusa in altri ordinamenti – può provvedere direttamente alla gestione del proprio patrimonio, oppure avvalersi di un gestore esterno (chiaramente, dovrà trattarsi di un soggetto autorizzato alla prestazione del servizio di gestione collettiva): le relative condizioni sono definite, in via generale, dall’art. 38 TUF, e dettagliate nei provvedimenti di attuazione del TUF. L’elemento caratteristico di questo particolare assetto del servizio di gestione collettiva è rappresentato dal fatto che la gestione dell’intero patrimonio della SICAV è affidata ad un gestore terzo. Si assiste, dunque, ad una scissione tra, da un lato, il soggetto che istituisce l’organismo di investimento collettivo (in questo caso, rappresentato dalla stessa società che dà vita all’iniziativa, in forma di società a capitale variabile o fisso), e il soggetto che lo gestisce 46. Sotto questo profilo, la soluzione indicata nell’art. 38 TUF – che avvicina il nostro sistema alle soluzioni diffuse nei principali centri finanziari europei, nei quali si concentra una parte significativa dell’industria del risparmio gestito – differisce da quanto prevede l’art. 33 TUF, in base al quale il gestore può affidare deleghe di gestione a terzi soggetti. Quest’ultima previsione – di portata generale, e dunque applicabile anche alle SGR, oltre che alle SICAV e alle SICAF – consente ai gestori di delegare a terzi “specifiche funzioni inerenti alla prestazione dei servizi di cui al presente capo”: tra le funzioni in questione possono anche rientrare le attività di gestione del patrimonio dell’OICR. Tuttavia, la delega è effettuata con modalità tali da 46 Vale la pena di ricordare che, sino al recepimento della AIFMD, un assetto analogo poteva riscontrarsi, in base all’originaria formulazione del TUF, per quanto riguarda i fondi comuni di investimento, in particolare là dove si realizzasse la scissione tra le funzioni di “promozione” del fondo e le funzioni di “gestione” del fondo stesso.

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evitare lo svuotamento di attività della società stessa e va esercitata nel rispetto delle disposizioni in materia di esternalizzazione di funzioni previste in attuazione dell’art. 6, comma 2-bis. Nel caso di delega – coerentemente con l’impianto generale – resta ferma la responsabilità del delegante nei confronti degli investitori per l’operato dei soggetti delegati. Le SICAV – sebbene siano diffusissime in altri Paesi europei – non hanno avuto successo in Italia. Dalla loro introduzione ne sono state istituite soltanto alcune, e – ad oggi – nessuna SICAV di diritto italiano è operante. Di contro, in Italia sono commercializzate – conformemente alle Direttive europee – moltissime SICAV di diritto estero (soprattutto, basate in Lussemburgo e in Irlanda). b) Le SICAF Le SICAF (pur essendo previste già da tempo in molti altri Paesi europei), sono state introdotte in Italia nel contesto del recepimento della Direttiva AIFM. Stante la neutralità della Direttiva sul piano delle forme organizzative degli OICR, l’introduzione delle SICAF non era un atto dovuto da parte del legislatore interno. Tuttavia, esse sono state previste per allineare l’Italia alla prassi di molti altri sistemi europei, nei quali lo schema societario è ampiamente utilizzato per la realizzazione, in particolare, di OICR di tipo chiuso: soprattutto, nel campo del private equity o degli investimenti immobiliari. Le SICAF sono definite (art. 1, comma 1, lett. i-bis)) come “l’OICR chiuso costituito in forma di società per azioni a capitale fisso con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi”. La differenza tra le SICAV e le SICAF è dunque rappresentata, innanzitutto, dal fatto che, nel primo caso, siamo in presenza di un OICR di tipo aperto mentre, nel secondo caso, di un OICR di tipo chiuso. Conformemente alla distinzione tra queste due categorie, la SICAV ha un capitale variabile; è, invece, fisso il capitale della SICAF, secondo un modello più vicino a quello “classico” della società per azioni. In entrambi i casi, siamo in presenza di OICR che hanno una forma non (puramente) contrattuale – come il fondo comune di investimento – ma una forma societaria: l’investitore, in questo caso, sottoscrive azioni della società (o, nel caso della SICAF, strumenti finanziari partecipativi). Anche alle SICAF non è consentito prestare servizi diversi dalla gestione collettiva e anche le SICAF possono costituirsi soltanto previa autorizzazione della Banca d’Italia, sentita la Consob. Anche alle SICAF, inoltre, la disciplina del codice civile è in parte disapplicata: in particolare, alle stesse non si applicano gli artt. da 2447-bis a 2447decies. Le azioni della SICAF possono essere al portatore o nominative: quelle al portatore, indipendentemente dal loro numero, attribuiscono un solo voto (art. 35-quater e 35-quinquies). Lo statuto della SICAF può prevedere: a) limiti

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all’emissione di azioni nominative; b) particolari vincoli di trasferibilità delle azioni nominative; c) l’esistenza di più comparti di investimento per ognuno dei quali può essere emessa una particolare categoria di azioni; in tal caso sono stabiliti i criteri di ripartizione delle spese generali tra i vari comparti; d) la possibilità di emettere frazioni di azioni, fermo restando che l’attribuzione e l’esercizio dei diritti sociali sono comunque subordinati al possesso di almeno un’azione, secondo la disciplina del presente capo; e) nel caso di SICAF riservata e fermo restando quanto previsto dall’art. 35-bis, comma 4, la possibilità di effettuare i versamenti relativi alle azioni sottoscritte in più soluzioni, a seguito dell’impegno dell’azionista a effettuare il versamento a richiesta della SICAF stessa in base alle esigenze di investimento. Per assicurare la “tipicità” del modello proprio di un OICR, le SICAF non possono emettere obbligazioni. Anche le SICAF possono provvedere direttamente alla gestione del proprio patrimonio, oppure avvalersi di un gestore esterno (chiaramente, dovrà trattarsi di un soggetto autorizzato alla prestazione del servizio di gestione collettiva): le relative condizioni sono definite, in via generale, dall’art. 38 TUF, e dettagliate nei provvedimenti di attuazione del TUF. Come si è già osservato, l’introduzione nell’ordinamento italiano delle SICAF ha reso, per certi versi, problematica la ricostruzione della nozione “generale” di OICR. Ad esempio, una società per azioni, che abbia un portafoglio di investimenti diversificato, potrebbe o meno ricadere nella disciplina delle attività riservate in funzione della ricorrenza, nel caso di specie, degli elementi propri della definizione di OICR: la raccolta tra il pubblico dei capitali, la gestione in autonomia dei partecipanti, la sussistenza di una politica di investimento predefinita (v. supra). Prima delle recenti riforme, società di questo tipo erano ritenute in genere (anche se, a parere di chi scrive, talvolta ingiustificatamente) escluse dalla disciplina della gestione collettiva, anche in quanto assoggettate alle disposizioni del Titolo V del Testo Unico Bancario: la “vecchia” formulazione dell’art. 106 TUB prevedeva, infatti, tra le attività riservate ai soggetti rientranti nel Titolo V TUB, quella di “assunzione di partecipazioni”. Le modifiche apportate al Titolo V del TUB hanno, tuttavia, derubricato questa attività, escludendola da quelle riservate ex art. 106: adesso, l’introduzione della figura della SICAF, pone, di volta in volta, il problema di stabilire la natura delle società di partecipazione. L’esclusione stabilita dall’art. 32-quater, comma 2, lett. d) del TUF non offre, infatti, all’interprete una guida di per sé risolutiva, lasciando sussistere vari margini di incertezza.

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5. Regole di condotta ed organizzazione nella prestazione del servizio di gestione collettiva Quantomeno sin dall’emanazione del TUF anche alla prestazione del servizio di gestione collettiva si applicano specifiche regole di condotta, che perseguono obiettivi in linea con quelli ai quali è ispirata la corrispondente disciplina in materia di servizi di investimento. Già l’art. 35-decies TUF, peraltro, formula principi generali in tema di condotta delle SGR (e degli altri gestori di OICR) che ricalcano quelli originariamente elaborati nell’ambito della disciplina dei servizi di investimento, stabilendo che i gestori collettivi devono: operare con diligenza, correttezza e trasparenza nel miglior interesse degli OICR gestiti, dei relativi partecipanti e dell’integrità del mercato; organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra i patrimoni gestiti e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque un equo trattamento degli OICR; adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti agli OICR, e disporre di adeguate risorse e procedure idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi; assicurare la parità di trattamento nei confronti dei partecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite dalla normativa secondaria 47. Per effetto delle riforme intervenute, nella disciplina europea, in materia di agenzie di rating, l’art. 35-duodecies sancisce, infine, il divieto per gli OICR di fare affidamento esclusivo o meccanico alle valutazioni emesse da agenzie di rating del credito nei loro processi decisionali. Anche la normativa europea è intervenuta direttamente nella materia di cui si discute: il Regolamento UE n. 231/2013 formula, in proposito, norme di dettaglio, di diretta applicazione, che riguardano sia il profilo delle regole di condotta, sia quello dell’organizzazione interna. Tra le disposizioni più significative, si segnalano: – gli artt. 15-20, che individuano lo standard di diligenza al quale è tenuto il gestore, sia in generale, sia con riguardo a questioni specifiche. In particolare: l’art. 19 definisce la diligenza richiesta in caso di investimenti a liquidità limitata; l’art. 20, la diligenza nel processo di selezione delle controparti; l’art. 21 e 22 riguardano la competenza di cui deve essere in possesso il gestore e le risorse disponibili; l’art. 23 formula il principio di equità di trattamento degli investitori del FIA; l’art. 24 tratta della materia degli incentivi; l’art. 25 delle

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L’espresso riferimento al principio di parità di trattamento è stato inserito, nel corpo del TUF, a seguito del recepimento della AIFMD: si tratta di una previsione che, per l’appunto, andrà qualificata e riempita di contenuto dalla normativa di attuazione, tenuto conto – peraltro – delle peculiarità dei fondi alternativi riservati (come peraltro riconosce espressamente l’art. 35-decies TUF).

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procedure; l’art. 26 degli obblighi informativi sulle sottoscrizioni e rimborsi; gli artt. 27, 28 e 29 si occupano della execution e transmission policy, e dell’aggregazione degli ordini; – gli artt. 30-36 disciplinano la materia dei conflitti di interessi, seguendo (anche in questo caso) i modelli già introdotti dalla MiFID, in base ai quali i conflitti di interessi devono essere identificati, e gestiti correttamente al fine di evitare rischi di danni agli investitori. Anche nel caso della gestione collettiva, la disclosure del conflitto resta una misura comunque residuale, che non si sostituisce alle regole organizzative; – l’art. 37 obbliga i gestori ad elaborare strategie per il corretto esercizio dei diritti di voto; – gli artt. 38-56 riguardano un profilo cruciale della disciplina AIFMD, relativo alla gestione del rischio (risk management) degli OICR, formulando regole molto articolate che incidono sia sull’organizzazione del gestore, sia sugli obblighi di trasparenza ed informazione; – gli artt. 57-66 si occupano, nuovamente, di questioni che attengono all’organizzazione interna dei gestori: procedure, controlli, elaborazione di dati, procedure contabili, operazioni personali del management; – gli artt. 67-74 formulano nuove regole per quanto attiene al processo di valutazione dei beni di compendio dell’OICR, stabilendo che tale attività deve essere affidata ad una funzione indipendente del gestore; – gli artt. 75 ss. riguardano l’esternalizzazione di funzioni aziendali, tra cui anche la delega alla gestione dei portafogli. Sempre per quanto attiene alle regole applicabili alla prestazione del servizio di gestione collettiva, si segnala che la Direttiva AIFM ha richiesto ai gestori di dotarsi di una specifica politica di remunerazione, da elaborarsi conformemente agli standard della Direttiva, volta a ridurre il rischio di conflitti di interessi nello svolgimento dell’attività, comportamenti opportunistici, e l’assunzione di rischi non allineati con gli interessi degli OICR gestiti. Stante il fatto che la Direttiva incide su un settore dell’industria del risparmio gestito in precedenza, ed almeno in parte, non regolata, l’impatto di queste disposizioni della Direttiva è risultato molto significativo, andando ad incidere su schemi, soluzioni e prassi ampiamente consolidate sul mercato 48. Come già detto, il modello di riferimento di tutte queste disposizioni è rappresentato dalla disciplina MiFID, ovviamente riadattata in più punti per tener conto della specificità del modello della gestione collettiva del risparmio. Tenuto conto del fatto che un gestore di OICR può essere autorizzato a prestare anche servizi di investimento, tale impostazione è condivisibile, in quanto finisce per sottoporre i gestori stessi a regole tendenzialmente uniformi, evi48

Ci sia consentito rinviare a ANNUNZIATA (2014).

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tando di introdurre sistemi diversi applicabili a un medesimo soggetto. Il fatto che, in Italia, le disposizioni del Regolamento UE siano state, pressoché per intero, estese anche ai gestori di OICVM rafforza questa impostazione, anche se – almeno per il momento – rischia di sottoporre i gestori di quest’ultimo tipo a regole non ancora previste dalla Direttiva UCITS. Vi è, tuttavia, da dire che l’evoluzione che si prefigura relativamente alle ultime modifiche di quest’ultima Direttiva sembrano andare verso un livellamento sostanziale della disciplina europea, e a ridurre le differenze tra OICR UCITS, e OICR alternativi, quantomeno con riguardo alle materie di cui si discute.

6. La commercializzazione di OICR Le regole che presiedono alla commercializzazione di OICR – oggetto di profondi interventi di modifica nel contesto del recepimento della AIFMD – riguardano organismi di investimento collettivo sia di diritto italiano, sia esteri. Anche in questa materia, peraltro, si ritrova la già più volte ricordata distinzione tra OICR rientranti nell’ambito di applicazione della Direttiva UCITS (e che costituiscono il nucleo, per così dire, “storico” della disciplina), e organismi che ricadono, invece, nell’ambito di applicazione della Direttiva sui gestori di fondi alternativi. Con riguardo ai primi, l’art. 42 TUF costituisce la trasposizione, nell’ordinamento italiano, delle previsioni della Direttiva UCITS, e si riferisce dunque ai fondi armonizzati di tipo aperto che ricadono nell’ambito di applicazione della medesima Direttiva. Il regime di mutuo riconoscimento, che la Direttiva riconosce agli organismi di investimento collettivo conformi alle prescrizioni comunitarie, consente di commercializzare liberamente gli OICR europei nel territorio italiano, previo espletamento delle formalità previste dalla relativa disciplina. Si osservi che, nella maggioranza dei casi, la commercializzazione dei fondi aperti armonizzati in Italia dà luogo ad una vera e propria offerta al pubblico, in merito alla quale troveranno altresì applicazione le relative disposizioni contenute nel Regolamento emittenti: non può, tuttavia, escludersi e – anzi – si hanno casi in cui l’offerta del fondo in Italia non costituisce offerta al pubblico, essendo, ad esempio, limitata soltanto ad investitori professionali. Relativamente agli OICR “alternativi”, l’art. 43 TUF disciplina innanzitutto la commercializzazione di FIA riservati ad investitori “professionali” 49, preve49 L’art. 43 definisce la commercializzazione come “l’offerta, anche indiretta, su iniziativa o per conto del gestore, delle quote o azioni del FIA gestito rivolta ad investitori residenti o aventi sede legale nel territorio dell’UE”. Si noti che questa definizione non è ri-

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dendo che la relativa attività debba essere preceduta da una notifica alla Consob, (che la trasmette a sua volta alla Banca d’Italia). Se non sussistono motivi ostativi, la Consob – entro 20 giorni lavorativi – comunica al gestore che l’attività di commercializzazione può avere inizio. Al di là dei profili più di dettaglio, preme segnalare che la procedura di notifica riguarda sia i fondi italiani, sia i fondi esteri (europei e non), venendosi così ad introdurre una specifica disciplina della commercializzazione in Italia di prodotti diversi dai tradizionali fondi aperti “armonizzati”, inclusi quelli italiani 50. Regole analoghe, ma non identiche, si applicano – in base all’art. 44 TUF – alla commercializzazione di FIA non riservati (tendenzialmente costitutiva di un’offerta al pubblico). Anche in questo caso, la commercializzazione è preceduta da una notifica alla Consob, che – in ipotesi di esito favorevole – comunica che l’attività può avere inizio entro 10 giorni lavorativi. Regole particolari si applicano, però, per i soggetti che intendono commercializzare in Italia, presso il pubblico (recte, presso investitori diversi dai “professionali”), OICR alternativi che, nello stato di origine del FIA, sono commercializzati al dettaglio: in questo caso, che giustifica controlli rafforzati, l’art. 44, comma 5, prevede che la commercializzazione debba essere preceduta dal rilascio di un’autorizzazione da parte della Consob, subordinata al rispetto dei requisiti previsti dalla medesima disposizione.

7. L’operatività transfrontaliera L’intera materia della gestione collettiva è ormai incisa dalle Direttive europee, e il TUF ne riflette l’impianto per quanto riguarda l’operatività transfrontaliera. L’art. 41 disciplina, in particolare, l’operatività transfrontaliera dei gestori italiani (SGR, SICAV e SICAF), prevedendo – secondo lo schema classico delle Direttive – la possibilità per i gestori di operare all’estero sia mediante succursali, sia in regime di libera prestazione di servizi. L’art. 41-bis riguarda le società di gestione UE, che possono seguire analoghi schemi, disciplinando anche il caso in cui una società di gestione di altro Stato Membro gestisca un OICVM di diritto italiano: questa ipotesi, introdotta nelle versioni più recenti della Direttiva UCITS consente, in pratica, ad una società di gestione basata in uno Stato membro di istituire e gestire direttapresa anche dall’art. 42, il che pone il problema dell’identificazione del perimetro dell’attività di “commercializzazione” nei due casi. 50 Cfr., per l’ambito di applicazione, i commi 2 e 8 dell’art. 43 TUF.

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mente organismi di investimento collettivo di paesi terzi. Per effetto del recepimento della AIFMD, gli artt. 41-ter e 41-quater disciplinano l’operatività transfrontaliera di gestori di fondi alternativi basati nell’Unione Europea o al di fuori dell’Unione Europea. Per i primi (GEFIA UE), le regole generali riflettono quelle generali già richiamate; per i secondi è previsto invece uno specifico regime autorizzativo. Al di là delle singole previsioni recate dall’art. 41-quater, giova segnalare che la facoltà concessa ai gestori di fondi alternativi non comunitari, di svolgere la loro attività in ambito europeo (tanto in Italia, quanto in altri Stati comunitari), costituisce uno dei profili maggiormente innovativi della AIFMD, peraltro non del tutto scevra da difficoltà applicative e interpretative.

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CAPITOLO X LA VIGILANZA PRUDENZIALE SUGLI INTERMEDIARI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La vigilanza prudenziale sulle SIM. – 3. La vigilanza prudenziale sui gestori di OICR (SGR, SICAV, SICAF). – 4. La disciplina applicabile agli altri soggetti abilitati.

1. Premessa Si è già detto che la ripartizione delle competenze in materia di vigilanza sugli intermediari disciplinati dal TUF, tra la Banca d’Italia e la Consob, si basa sulla finalità dei relativi interventi e che, con il recepimento di MiFID II, viene sancito il superamento dell’attività regolamentare congiunta delle due Autorità. Riguardo la normativa di vigilanza prudenziale, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), TUF, spetta alla Banca d’Italia disciplinare – per SIM e SGR – l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni e le partecipazioni detenibili, nonché l’informativa da rendere al pubblico sulle stesse materie e sul governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile, i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazione. Il medesimo art. 6, comma 1, individua, alla lett. c), le competenze della Banca d’Italia in merito agli organismi di investimento collettivo; inoltre, singole disposizioni del TUF affidano alla medesima Autorità compiti e poteri in specifiche materie, sempre tuttavia collegate ai profili di vigilanza prudenziale. Come in molti altri ambiti, anche la disciplina della vigilanza prudenziale degli intermediari regolati dal TUF è ormai, pressoché interamente, di derivazione comunitaria. Per le SIM, la materia è stata, peraltro, attratta dalla Direttiva sui requisiti di capitale (la cosiddetta “CRD IV”) e dal relativo Regolamento europeo (cosiddetto “CRR” – Regolamento n. 575/2013/UE), applicabili anche alle banche. Per i gestori di OICR, la materia è, invece, disciplinata dalle Direttive di riferimento (UCITS e AIFMD), come recepite nell’ordinamento nazionale. Seppur all’interno di un quadro europeo che ha di fatto armonizzato la disciplina prudenziale negli Stati membri – pur lasciando, soprattutto per quan-

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to riguarda il CRR varie opzioni e flessibilità di cui, di volta in volta, i singoli Stati possono avvalersi – l’impostazione di fondo rimane profondamente diversa per le SIM e per i gestori di OICR. La diversità discende, prevalentemente, dalla diversa natura dei rischi che caratterizzano, da un lato, i servizi di investimento e, dall’altro, l’attività di gestione collettiva del risparmio. Dalla diversità dei rischi discendono, inevitabilmente, diverse impostazioni in punto di requisiti prudenziali: minimi di capitale richiesti, coefficienti patrimoniali, ecc. Nelle SIM, i rischi, a fronte dei quali sono richiesti specifici requisiti patrimoniali, sono comunque riferiti ad attività e servizi prestati che comportano l’assunzione di rischi idonei ad incidere direttamente sul patrimonio dell’intermediario. Servizi quali, ad esempio, la negoziazione in conto proprio, o il collocamento di strumenti finanziari (con assunzione a fermo o sulla base di un impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente), richiedono pertanto la disponibilità, da parte della SIM, di mezzi propri adeguati (sia per importo, sia per “qualità”) per fronteggiare rischi che possono essere alquanto significativi. Altri servizi – in specie se sono prestati senza che la SIM detenga denaro o strumenti finanziari per conto della clientela – comportano, invece, rischi decisamente inferiori. Per i gestori di OICR, i rischi di natura patrimoniale riferiti al servizio di gestione collettiva sono, di contro, diversamente strutturati: il regime di separazione patrimoniale che connota la disciplina degli OICR fa sì che il rischio principale dell’attività si concentri, per così dire, sul patrimonio gestito. È dunque la disciplina del patrimonio che serve a presidiare i rischi riferibili all’attività finanziaria: limiti di concentrazione, all’impiego di certe tecniche di gestione, segmentazione del prodotto in funzione delle caratteristiche della clientela di riferimento (fondi riservati, da un lato, fondi aperti al pubblico indistinto, dall’altro). Nel caso di un gestore di OICR i requisiti patrimoniali sono, dunque, tendenzialmente contenuti, e comunque diversamente configurati rispetto alle imprese di investimento.

2. La vigilanza prudenziale sulle SIM Il CRR assoggetta alla propria disciplina tutte le imprese di investimento, ma con alcune eccezioni: in particolare, sono escluse le imprese (non autorizzate alla prestazione del servizio accessorio di locazione di cassette di sicurezza e amministrazione di strumenti finanziari per conto dei clienti), che prestano soltanto uno o più dei servizi e attività di investimento elencati all’allegato I, sezione A, punti 1, 2, 4 e 5 della MiFID (“ricezione e trasmissione di ordini”, “esecuzione di ordini”, “gestione di portafogli”, “consulenza in materia di investimenti”), e che non sono autorizzate a detenere fondi o titoli appartenenti ai loro clienti. La ragione è piuttosto intuitiva: tali soggetti non possono, infat-

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ti, mai trovarsi in situazione di debito con tali clienti (art. 4, par. 1, punto 2 CRR). Le imprese di investimento così definite, insieme agli enti creditizi, rientrano nella definizione di “enti” ai sensi dell’art. 4, par. 1, punto 3, CRR. In linea tendenziale, pertanto, la regolamentazione ad esse applicabile si avvicina, quantomeno sul piano dei modelli di riferimento, a quella applicabile alle banche. Per tener conto delle peculiarità dei rischi assunti in relazione all’operatività svolta, il CRR prevede, comunque, specifiche regole prudenziali per diverse “categorie” di imprese. In particolare, è possibile individuare le seguenti tipologie di imprese di investimento: i) quelle sottoposte integralmente al regime CRR/CRD IV; ii) quelle che hanno un’autorizzazione limitata e che sono sottoposte al particolare regime dell’art. 95 CRR; iii) quelle che hanno un’autorizzazione limitata e che sono sottoposte al regime dell’art. 96 CRR. I requisiti patrimoniali sono dunque graduati in senso discendente rispetto a quanto sopra. Alla luce del nuovo quadro normativo, la Banca d’Italia con comunicazione del 31 marzo 2014, ha posto in luce alcuni elementi di novità introdotti dal pacchetto CRR/CRD IV nella normativa applicabile alle SIM. In particolare: – le SIM autorizzate alla gestione di sistemi multilaterali di negoziazione applicano le regole previste per le imprese di investimento ad “autorizzazione limitata” (in particolare, ex art. 95 CRR), non essendo più assimilate a quelle “a rischio pieno” (“negoziazione per conto proprio” e “collocamento con garanzia”); – ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali, l’art. 95 CRR prevede che l’importo complessivo dell’esposizione al rischio sia il più alto tra: la somma degli elementi dell’art. 92 CRR (ad eccezione del requisito per il rischio operativo) e l’importo dei fondi propri basati sulle spese fisse generali ex art. 97 CRR moltiplicato per 12,5. Pertanto le SIM sottoposte al regime dell’art. 95 CRR applicano la presente previsione e non possono più tenere in considerazione solo i requisiti per rischi di cambio, credito e controparte come previsto dalla previgente disciplina nazionale; – il portafoglio di negoziazione è definito dall’art. 4, par. 1, punto 86 del CRR come “l’insieme delle posizioni in strumenti finanziari e su merci detenute da un ente per la negoziazione o per la copertura del rischio inerente a posizioni detenute a fini di negoziazione”. Pertanto, non rientrano in tale portafoglio posizioni che non rispettino tali requisiti; – con l’entrata in vigore del CRR è venuta meno la discrezionalità nazionale

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prevista dall’art. 13, par. 2 della Direttiva 2006/49/CE (“CAD”) in base a cui le Autorità nazionali potevano prevedere la deduzione delle componenti illiquide ai fini del calcolo dei fondi propri; – il requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito può essere calcolato solo attraverso il metodo standardizzato o quello basato sull’utilizzo di modelli interni. Non è più ammessa la metodologia standardizzata semplificata; – in presenza di gruppi di SIM composti solo da imprese di investimento “ad autorizzazione limitata”, ai sensi dell’art. 98 CRR si applicano anche a livello consolidato le specifiche regole previste a livello individuale ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali. Come già precisato, le SIM che prestano esclusivamente i servizi di “ricezione e trasmissione di ordini” e di “consulenza in materia di investimenti” senza detenzione dei beni della clientela non rientrano nell’ambito di applicazione del CRR/CRD IV e del relativo regime. Oltre a quanto precede, con riguardo alle diverse categorie di rischi e requisiti ai quali sono sottoposte le SIM, alle stesse è ovviamente richiesto di dotarsi di un capitale minimo iniziale. La disciplina del capitale minimo delle SIM non è stata modificata in dipendenza del recepimento della CRD IV/CRR, né la MiFID II prescrive novità in materia, limitandosi a richiamare la necessità che le SIM siano autorizzate alla prestazione dei servizi a condizione che si dotino di un sufficiente capitale iniziale conformemente ai requisiti previsti dal CRR; pertanto, allo stato, continua ad applicarsi il Provvedimento della Banca d’Italia del 29 ottobre 2007. In particolare, il capitale minimo delle SIM risulta differenziato in funzione delle tipologie di servizi di investimento che il soggetto intende prestare. L’importo minimo è, infatti, più elevato là dove l’attività svolta comporti un maggior livello di rischio. Più precisamente: – per le SIM che intendono svolgere unicamente il servizio di consulenza (senza detenzione di beni della clientela e senza correre rischi in proprio), il capitale è stabilito in 120.000 euro; – per le SIM che intendono prestare il servizio di collocamento (senza forme di garanzia), gestione di portafogli, ricezione e trasmissione ordini, (senza detenzione di beni della clientela e senza correre rischi in proprio), il capitale è stabilito in misura pari a 385.000 euro; – negli altri casi, il capitale minimo è pari a 1 milione di euro. Si osservi che l’importo del capitale minimo è, tutto sommato, alquanto contenuto, soprattutto nel caso in cui la SIM svolga attività che comportano l’assunzione di rischi, le cui dimensioni possono essere molto rilevanti. Al riguardo si rendono necessarie due precisazioni. In primo luogo, il monitoraggio sui rischi assunti nello svolgimento dei servizi, e i mezzi propri a tal fine richiesti,

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sono massimamente affidati – anziché al capitale minimo – alla più articolata materia dell’adeguatezza patrimoniale nel suo complesso. In secondo luogo, e anche come corollario di ciò, è ormai unanimemente condiviso che l’imposizione di livelli di capitale minimo non risponde tanto all’esigenza di fronteggiare il rischio associato con la prestazione dei servizi, quanto a quella di selezionare gli operatori all’ingresso sul mercato, scoraggiando iniziative imprenditoriali marginali, che potrebbero rappresentare un fattore di rischio per il sistema nel suo complesso. Il capitale minimo è richiesto come condizione per l’ottenimento dell’autorizzazione; in tale occasione, il capitale deve essere interamente versato. È, peraltro, dubbio se tale condizione debba risultare soddisfatta già in sede di costituzione della società. Orbene, l’enunciazione nell’oggetto sociale della prestazione dei servizi di investimento comporta che la società dovrà già disporre, in sede di costituzione, di quegli elementi minimi essenziali la cui mancanza si risolverebbe nell’impossibilità stessa di svolgimento dell’attività, e tra queste condizioni rientra indubbiamente il capitale minimo. Quest’ultimo, pertanto, dovrà risultare interamente sottoscritto all’atto della costituzione del soggetto, fermo restando che il suo integrale versamento potrà essere rinviato sino al momento di presentazione dell’istanza di autorizzazione allo svolgimento dei servizi. In ogni caso, il rispetto del capitale minimo deve essere verificato in via continuativa: la Banca d’Italia richiede, infatti, che le SIM verifichino costantemente il mantenimento degli importi minimi di capitale sopra indicati, tenendo anche conto delle riserve indisponibili. Qualora, in conseguenza di perdite, gli importi minimi risultino intaccati, le SIM sono tenute a provvedere tempestivamente al loro reintegro: la previsione lascia, ovviamente, ferma l’applicazione delle regole generali, e, segnatamente, delle norme del codice civile in tema di riduzione del capitale sociale. Infine, preme osservare che il capitale minimo richiesto può risultare concretamente più elevato là dove il soggetto intenda svolgere servizi o attività particolari, per le quali la disciplina imponga requisiti aggiuntivi (come, ad esempio, l’attività di market maker sui mercati regolamentati).

3. La vigilanza prudenziale sui gestori di OICR (SGR, SICAV, SICAF) La regola di base è che i gestori di OICR devono disporre di un ammontare di capitale sociale minimo iniziale, interamente versato, di almeno 1 milione di euro. L’importo è ridotto a cinquecento mila euro in caso di gestori che intendano svolgere esclusivamente l’attività di gestione di FIA chiusi riservati. I soggetti che gestiscono soltanto fondi “sotto soglia” sono, tuttavia, sottoposti

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ad un regime particolarmente agevolato, in quanto ad essi è richiesto semplicemente di avere un capitale minimo iniziale almeno pari a quello previsto dal codice civile per le società per azioni (50.000 euro). Oltre al capitale minimo, i gestori sono sottoposti a requisiti patrimoniali ulteriori. In particolare, l’ammontare del patrimonio di vigilanza delle SGR non deve essere inferiore alla somma: 1) del maggiore importo tra: a) la copertura patrimoniale richiesta per la massa gestita di OICR e fondi pensione; b) la copertura patrimoniale richiesta per il rispetto del coefficiente “altri rischi”; 
 2) della copertura patrimoniale richiesta per la gestione di fondi pensione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale; 
 3) della copertura patrimoniale a fronte del rischio derivante dalla responsabilità professionale, prevista per le SGR che gestiscono FIA. 
In ogni caso il patrimonio di vigilanza non può essere inferiore all’ammontare del capitale minimo richiesto per l’autorizzazione all’esercizio dell’attività. Più precisamente, al fine di determinare il requisito patrimoniale per le masse gestite, le SGR fanno riferimento alla somma delle attività – come risultante dall’ultimo prospetto contabile approvato – degli OICR e dei fondi pensione, compresi quelli per i quali le SGR hanno delegato la gestione; sono escluse dalla somma le attività degli OICR per le quali le SGR svolgono attività di gestione in qualità di delegato. Sulla parte dell’importo così determinato, che eccede i 250 milioni di euro, la SGR calcola un requisito patrimoniale pari allo 0,02%, fino a un massimo di 10 milioni di euro. 
 Quanto alla copertura patrimoniale a fronte degli “altri rischi”, sui costi operativi fissi risultanti dal bilancio dell’ultimo esercizio si applica una copertura patrimoniale nella misura del 25%. La Banca d’Italia ha facoltà di ridurre tale obbligo in caso di modifica sostanziale dell’attività rispetto all’esercizio precedente. Nel caso di gestione di fondi pensione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale, le SGR determinano un requisito patrimoniale pari all’ammontare delle risorse necessarie per fare fronte all’impegno assunto in relazione alla garanzia prestata. 
 Secondo quanto previsto dalla Direttiva AIFM, le SGR che gestiscono FIA devono, inoltre, rispettare un particolare requisito a fronte del rischio derivante dalla responsabilità professionale. Esse, in alternativa: i) stipulano una polizza assicurativa; oppure ii) costituiscono una dotazione patrimoniale aggiuntiva rispetto ai requisiti generalmente applicabili. I rischi da responsabilità professionale, la dotazione di mezzi patrimoniali aggiuntivi e le caratteristiche del-

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la polizza assicurativa sono disciplinati negli artt. 12, 14 e 15 del Regolamento delegato (UE) n. 231/2013. Le SGR sono tenute a verificare costantemente il rispetto dei requisiti minimi di patrimonio. La Banca d’Italia può peraltro prevedere, ove la situazione patrimoniale, economica o finanziaria di una SGR o il profilo di rischio della stessa lo richieda, l’applicazione di misure di adeguatezza patrimoniale più stringenti rispetto a quelle determinate in via generale. Alle SICAV e alle SICAF si applicano, in quanto compatibili e con alcune peculiarità, le medesime disposizioni sui requisiti prudenziali applicabili alle SGR 1.

4. La disciplina applicabile agli altri soggetti abilitati Se quelle sopra riassunte sono – in estrema sintesi – le principali disposizioni applicabili alle SIM e ai gestori in materia di vigilanza prudenziale, per quanto attiene agli altri soggetti abilitati occorre fare riferimento alla disciplina di volta in volta applicabile ai soggetti stessi. Con particolare riferimento alle banche, la materia è dunque regolata nell’ambito del Testo Unico Bancario, che considera i servizi di investimento come una delle molteplici attività che le banche possono svolgere, disciplinandoli – sotto il profilo che qui interessa – nel più ampio ambito dello svolgimento di attività bancarie e finanziarie. A tal fine, peraltro, la valutazione e la misurazione dei rischi in cui incorrono le banche nello svolgimento di servizi di investimento avviene secondo modalità non dissimili da quelle previste per le SIM. Lo stesso deve dirsi per quanto attiene agli intermediari finanziari non bancari di cui all’art. 106 TUB, per i quali sussistono specifiche previsioni in materia, emanate nell’ambito della disciplina della vigilanza prudenziale ai sensi del Testo Unico Bancario. Per i consulenti finanziari e la società di consulenza finanziaria, la materia è affidata al Regolamento, da adottarsi a cura del Ministro dell’economia e delle finanze (artt. 18-bis, comma 1, e 18-ter, commi 1 e 2, TUF). Per quanto riguarda, infine, gli agenti di cambio, la disciplina della vigilanza prudenziale è ad essi in realtà pressoché inapplicabile, e ciò soprattutto in virtù del regime ad essi riconosciuto dall’art. 201 TUF.

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Cfr., per approfondire, quanto precisato nel Titolo II, Capitolo 5 e nel Titolo III, Capitolo 2 del Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio del 19 gennaio 2015.

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CAPITOLO XI LA DISCIPLINA DEGLI INTERMEDIARI. PROVVEDIMENTI INGIUNTIVI E CRISI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I poteri ingiuntivi. – 2.1. (Segue): intermediari nazionali e non-UE. – 2.2. (Segue): intermediari UE. – 2.3. (Segue): OICVM UE, FIA UE e non UE con quote o azioni offerte in Italia. – 2.4. (Segue): altri provvedimenti ingiuntivi. – 2.5. (Segue): poteri cautelari applicabili ai consulenti finanziari autonomi, alle società di consulenza finanziaria ed ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede. – 3. Piani di risanamento, sostegno finanziario di gruppo e intervento precoce. – 3.1. L’ambito di applicazione e i piani di risanamento. – 3.2. Sostegno finanziario di gruppo e intervento precoce. – 4. La disciplina delle crisi. – 4.1. L’amministrazione straordinaria. – 4.2. La rimozione collettiva dei componenti degli organi di amministrazione e controllo. – 4.3. La liquidazione coatta amministrativa. – 5. Sistemi di indennizzo e fondo di garanzia degli investitori. – 6. La risoluzione delle SIM. – 6.1. I piani di risoluzione. – 6.2. La risoluzione e le altre procedure di gestione delle crisi.

1. Premessa La “crisi” degli intermediari è regolata – uniformemente per le diverse tipologie di soggetti abilitati – dalla Parte II, Titolo I e Titolo IV, del TUF. La disciplina investe sia i casi in cui gli intermediari pongano in essere atti o comportamenti in violazione delle disposizioni che ne disciplinano l’attività, sia quelli in cui essi non siano in grado di proseguire nella prestazione dei servizi, ad esempio perché insolventi. Essa è articolata in quattro distinti ambiti: i poteri ingiuntivi dell’Autorità; i piani di risanamento, il sostegno di gruppo e l’intervento precoce; l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa; la risoluzione delle SIM. Le disposizioni del TUF risentono moltissimo delle norme del Testo Unico Bancario, dal quale sono state, ancora una volta, mutuate numerose regole e soluzioni, nonché delle recenti novità introdotte per rispondere all’esigenze di conservazione in continuità dell’intermediario finanziario (banca e SIM) e di rafforzamento della fiducia nel sistema finanziario, soprattutto all’indomani

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della crisi finanziaria; si fa riferimento, in particolare, ai decreti di recepimento della Direttiva 2014/59/UE sulla risoluzione delle banche (BRRD), i.e. i D.Lgs. 16 novembre 2015, nn. 180 e 181, e al decreto di attuazione della Direttiva 2014/65/UE (MiFID 2), i.e. il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129.

2. I poteri ingiuntivi I poteri ingiuntivi si ritrovano, a seguito delle novelle legislative, nei nuovi artt. da 7-ter a 7-septies. Il tratto che accomuna i diversi poteri ingiuntivi disciplinati dai menzionati articoli può essere sostanzialmente identificato nell’esigenza di porre in essere un intervento pubblico sul soggetto, qualora constino irregolarità o violazioni delle disposizioni relative all’attività degli intermediari. La finalità perseguita dalle varie previsioni è dunque, con tutta evidenza, quella di tutelare gli investitori dai possibili rischi che in tal caso possono manifestarsi, ricorrendo a strumenti che vanno dalla sospensione temporanea dell’attività, sino alla nomina di un commissario, in sostituzione degli organi sociali. La materia è articolata come segue: 1. poteri ingiuntivi nei confronti di intermediari nazionali e non UE; 2. poteri ingiuntivi nei confronti di intermediari UE; 3. poteri ingiuntivi nei confronti degli OICVM UE, FIA UE e non UE con quote o azioni offerte in Italia; 4. sospensione degli organi amministrativi; 5. poteri cautelari applicabili ai consulenti finanziari autonomi, alle società di consulenza finanziaria ed ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede.

2.1. (Segue): intermediari nazionali e non UE Con riferimento agli intermediari nazionali ed extracomunitari, l’art. 7-ter TUF prevede che, in caso di violazione – da parte di SIM, di imprese di paesi terzi e di SGR, di SICAV, di SICAF, di GEFIA non UE autorizzati in Italia e di banche autorizzate alla prestazione di servizi e attività di investimento aventi sede in Italia – delle disposizioni loro applicabili ai sensi del medesimo TUF e della disciplina europea richiamata dal citato Testo Unico, la Banca d’Italia o la Consob (nell’ambito delle rispettive competenze) possono ordinare anche in via cautelare, la cessazione temporanea o permanente del comportamento antigiuridico 1 (il c.d. “cease and desist order”). 1

Per un raffronto tra l’originaria disciplina del TUF e del TUB in materia di provvedimenti ingiuntivi v. BONFATTI (1998); MASSARMORMILE (2002).

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L’Autorità di vigilanza che procede, sentita anche l’altra Autorità, può anche vietare ai soggetti di cui sopra di intraprendere nuove operazioni, nonché può imporre ogni altra limitazione riguardante singole tipologie di operazioni, servizi o attività, anche limitatamente a singole succursali o dipendenze dell’intermediario, quando le violazioni commesse possano pregiudicare interessi di carattere generale, o nei casi di urgenza per la tutela degli interessi degli investitori. La portata della disposizione va individuata con riferimento ai soggetti destinatari, e all’oggetto della stessa. Per quanto attiene ai profili soggettivi, la norma accomuna gli intermediari nazionali a quelli extracomunitari; per gli intermediari comunitari trova invece applicazione il disposto dell’art. 7-quater TUF, che è diversamente formulato in virtù della necessità di coordinare l’intervento delle Autorità italiane con quello degli omologhi organismi comunitari. In tale prospettiva, i provvedimenti ingiuntivi di cui all’art. 7-ter TUF finiscono col gravare in capo a tutti i soggetti che siano autorizzati alla prestazione di servizi di investimento da parte delle Autorità italiane, con la sola eccezione degli intermediari iscritti all’albo ex art. 106 TUB e degli agenti di cambio, che non vengono espressamente richiamati dalla norma 2. Quanto alla portata della disciplina, essa ha un amplissimo ambito di applicazione: si veda il comma 1 dell’art. 7-ter, ove il riferimento è (genericamente) alla violazione delle disposizioni applicabili agli intermediari ai sensi del Testo Unico – così includendo norme sia di legge, sia regolamentari – e della disciplina europea richiamata dal medesimo. Più circostanziato è, invece, il disposto del comma 2 dell’art. 7-ter, che, d’altronde, prevede un intervento dell’Autorità di vigilanza più incisivo di quanto previsto dal comma 1, risolvendosi nell’imposizione di un divieto di intraprendere nuove operazioni; la norma, infatti, richiede che le violazioni possano “pregiudicare interessi di carattere generale”, ovvero che sussistano “casi di urgenza per la tutela degli interessi degli investitori”. Pur alla luce della genericità di tali espressioni risulta chiaro che, nel caso di imposizione di divieti, è richiesto un più accentuato grado di “criticità” delle condotte dei soggetti. È, tuttavia, evidente la difficoltà di rintracciare precisi indici interpretativi, ai quali ancorare la valutazione dell’operato dell’Autorità di vigilanza, sebbene debba ritenersi che gli “interessi di carattere generale” ai quali fa riferimento la norma coincidano, in definitiva, con gli obiettivi e le finalità della vigilanza, e non comprendano interessi diversi. Si osservi, altresì, che la norma non stabilisce un termine massimo di durata dei provvedimenti adottati ai sensi del comma 2; si deve però ritenere che la durata del provvedimento ingiuntivo non possa eccedere quanto strettamente necessario al ripristino di 2

Il riferimento alle società finanziarie compare invece all’art. 7-quater TUF riferito agli intermediari comunitari.

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condizioni di normale funzionamento del soggetto o al definitivo accertamento di condizioni tali da comportare l’eventuale adozione di uno dei provvedimenti di cui al Capo I bis e II del Titolo IV.

2.2. (Segue): intermediari UE Nei confronti di intermediari comunitari, la disciplina si ispira a principi analoghi a quelli sopra visti, ma con la rilevante differenza che, in questo caso, l’intervento delle Autorità di vigilanza italiane deve giocoforza iscriversi nel quadro delle disposizioni comunitarie, con particolare riferimento al rispetto del principio dell’home country control, in virtù del quale – come noto – il controllo sugli intermediari comunitari spetta in via principale all’Autorità di vigilanza del Paese di origine 3. Se dunque, per quanto attiene all’adozione di provvedimenti con i quali l’Autorità ordina all’intermediario di cessare comportamenti irregolari o illeciti, la disciplina non si discosta in modo significativo da quella che trova applicazione nei riguardi di intermediari nazionali – salvo l’obbligo di comunicare i provvedimenti all’Autorità di vigilanza dello stato membro in cui l’intermediario ha sede legale, per i provvedimenti eventualmente necessari – diverse sono le regole che riguardano l’adozione di altri provvedimenti, che possano incidere sull’operatività del soggetto. Queste ultime, infatti, devono giocoforza coordinarsi con le norme comunitarie e, in particolare, con la disciplina dettata dalla MiFID II. L’art. 7-quater, comma 2 stabilisce dunque che la Consob, o la Banca d’Italia, nell’ambito delle proprie competenze, possono adottare i provvedimenti necessari, sentita l’altra autorità, compresa l’imposizione del divieto di intraprendere nuove operazioni, nonché ogni altra limitazione riguardante singole tipologie di operazioni, singoli servizi o attività anche limitatamente a singole succursali o dipendenze dell’intermediario, ovvero ordinare la chiusura della succursale, quando: a) manchino o risultino inadeguati i provvedimenti dell’autorità competente dello Stato in cui l’intermediario ha sede legale; b) risultino violazioni delle norme di comportamento; c) le irregolarità commesse possano pregiudicare interessi di carattere generale; d) nei casi di urgenza per la tutela degli interessi degli investitori. I provvedimenti di cui sopra sono comunicati all’Autorità competente dello Stato comunitario in cui l’intermediario ha sede legale.

3

V. MASSARMORMILE (2002-II).

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L’art. 7-quater TUF, pertanto, si presenta come una deroga al principio generale che basa il controllo sugli intermediari comunitari sulla competenza dell’Autorità del Paese di origine; deroga il cui impatto risulta appena temperato dalla necessità di provvedere alla comunicazione dei provvedimenti adottati all’Autorità di vigilanza del Paese di origine del soggetto. In realtà, si tratta di soluzioni che discendono dalla stessa impostazione delle Direttive UE, le quali – dopo aver stabilito il principio dell’home country control – lasciano ferma la competenza del Paese ospitante in merito a determinati profili. Il D.Lgs. n. 129/2017 (di recepimento della MiFID II) non ha modificato nella sostanza il precedente impianto conseguente al recepimento della prima Direttiva MiFID. In particolare, ai sensi dei commi 4 e 5 dell’art. 7-quater TUF la Banca d’Italia e la Consob sono tenute ad informare l’autorità competente del Paese di origine, nel caso in cui sussista il fondato sospetto che un’impresa di investimento o una banca comunitaria (operanti in Italia in regime di libera prestazione di servizi) non ottemperino agli obblighi derivanti dalla disciplina europea. Qualora, nonostante le misure adottate dall’autorità del Paese di origine, l’intermediario persista nel proprio comportamento, e quest’ultimo è tale da pregiudicare l’interesse degli investitori o il buon funzionamento dei mercati, la Banca d’Italia e la Consob possono adottare “tutte le misure necessarie compresa l’imposizione del divieto di intraprendere nuove operazioni in Italia”. In questi casi resta comunque fermo l’obbligo di informare l’Autorità del Paese di origine, al quale si aggiunge anche quello di informare la Commissione europea. Tali previsioni si applicano anche nel caso di violazioni di obblighi derivanti da disposizioni dell’Unione Europea commesse da parte di imprese di investimento UE o banche UE, con succursale in Italia, ovvero società di gestione UE, GEFIA UE e non UE autorizzati in uno Stato dell’UE diverso dall’Italia e operanti in libera prestazione di servizi in Italia. La previsione risponde all’esigenza di evitare che la ripartizione delle competenze tra Autorità dello Stato di origine e dello Stato ospite provochi – con riferimento agli intermediari che operano in regime di mutuo riconoscimento – pericolosi “vuoti”, consentendo così all’autorità del Paese ospite di intervenire direttamente qualora l’azione dell’autorità del Paese di origine non risulti sufficiente. In ultimo si segnala che, ai sensi del comma 6, qualora la violazione riguardi disposizioni relative alla liquidità dell’impresa di investimento comunitaria (o in ogni altro caso di deterioramento della situazione di liquidità della stessa), la Banca d’Italia può adottare, in caso di inerzia o di inadeguatezza degli interventi presi dall’autorità competente dello Stato d’origine, le misure necessarie per garantire la stabilità finanziaria o la tutela delle ragioni della clientela. Permane in ogni caso l’obbligo di comunicare tali misure all’autorità competente dello Stato d’origine.

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2.3. (Segue): OICVM UE, FIA UE e non UE con quote o azioni offerte in Italia La Banca d’Italia e la Consob, quando sussistono elementi che fanno presumere l’inosservanza da parte degli OICVM UE, dei FIA UE e non UE di obblighi derivanti da disposizioni dell’ordinamento italiano e dell’Unione Europea loro applicabili richiamate dal TUF, possono: i) sospendere in via cautelare, per un periodo non superiore a sessanta giorni, l’offerta delle relative quote o azioni; ii) in caso di accertata violazione, sospendere temporaneamente ovvero vietare l’offerta delle quote o delle azioni degli OICR (art. 7-quinquies TUF) 4. Inoltre, le autorità di vigilanza sono tenute ad informare l’autorità competente dello Stato di origine dell’OICVM UE, FIA UE e non UE le cui quote o azioni sono offerte in Italia, ovvero del gestore di tale OICR, affinché esse assumano i provvedimenti necessari, quando vi è fondato sospetto che tali soggetti non ottemperino agli obblighi derivanti da disposizioni dell’Unione Europea; Se, nonostante le misure adottate dall’autorità competente, l’OICR, ovvero il suo gestore, persiste nell’agire in modo tale da pregiudicare gli interessi degli investitori o il buon funzionamento dei mercati, la Banca d’Italia o la Consob, dopo aver informato l’Autorità dello Stato di origine, adottano le misure necessarie per proteggere gli investitori o assicurare il buon funzionamento dei mercati, ivi compreso il divieto di offerta delle quote o azioni dell’OICR.

2.4. (Segue): altri provvedimenti ingiuntivi In materia di sospensione degli organi amministrativi, l’art. 7-sexies TUF sottopone le SIM a particolari procedure di gestione delle situazioni di crisi, mediante nomina di organi commissariali incaricati di provvedere alla gestione provvisoria dell’intermediario. È previsto che il Presidente della Consob può disporre, in via d’urgenza, ove ricorrano situazioni di pericolo per i clienti o per i mercati, la sospensione degli organi di amministrazione delle SIM e la nomina di un commissario che ne assume la gestione quando risultino gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie. Il relativo procedimento può essere attivato soltanto dalla Consob, nella persona del proprio Presidente, e non anche dalla Banca d’Italia, alla quale spetta, di contro, l’iniziativa in materia di amministrazione straordinaria e di liquidazione coatta amministrativa (v. infra). Il commissario dura in carica per un 4

Cfr. LA SALA (2002).

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periodo massimo di 60 giorni; egli assume la qualifica di pubblico ufficiale, e le azioni civili contro di esso, per atti compiuti nell’espletamento dell’incarico, sono promosse previa autorizzazione della Consob. Il ricorso ai provvedimenti di cui all’art. 7-sexies va posto a raffronto con le misure di intervento precoce di cui all’art. 55-quinquies e con le procedure di gestione della crisi di cui agli artt. 56 e ss. (i.e. l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa). Mentre tra i provvedimenti di sospensione degli organi amministrativi e le misure di intervento precoce – che comportano la rimozione dei componenti degli organi di amministrazione e controllo e dell’alta dirigenza – la differenza è più netta, in ragione dell’ambito applicativo di queste ultime (cfr. infra), la linea di confine tra i primi e le procedure di gestione della crisi è più sottile: infatti, talune condotte potrebbero, apparentemente, comportare l’applicazione tanto della procedura di cui all’art. 7-sexies, quanto, ad esempio, dell’amministrazione straordinaria. Si deve, comunque, ritenere che il ricorso al procedimento dell’art. 7-sexies presupponga situazioni di criticità di minor rilievo, rispetto ai presupposti necessari per l’applicazione della procedura di amministrazione straordinaria. A tale conclusione si giunge, essenzialmente, là dove si osservi che il procedimento di cui all’art. 7sexies, TUF, può avere una durata massima di 60 giorni: un arco temporale, dunque, più limitato del termine massimo di durata previsto per l’amministrazione straordinaria. Si tratta, per quanto generico ed impreciso, dell’unico possibile criterio per distinguere tra le due procedure, giacché così come l’art. 7sexies si riferisce al verificarsi di “gravi irregolarità” o a “gravi violazioni”, analogo riferimento figura all’art. 56 TUF con riguardo ai presupposti di avvio dell’amministrazione straordinaria 5. La procedura di sospensione degli organi amministrativi trova applicazione anche per le imprese di investimento UE o banche UE, con succursale in Italia, ovvero società di gestione UE, GEFIA UE e non UE autorizzati in uno Stato dell’UE diverso dall’Italia, per la violazione di obblighi derivanti da disposizioni dell’Unione Europea per le quali è competente lo Stato membro in cui l’intermediario ha sede legale.

5 È stato sostenuto che la scelta di attribuire soltanto alla Consob il potere di avviare la procedura di cui all’art. 7-sexies riflette il fatto che tale procedura dovrebbe potersi attivare soltanto quando il pericolo per gli investitori e per il mercato non incide sui profili economico-patrimoniali, e quindi di stabilità (ASSOGESTIONI (1998)). Tale soluzione non emerge, in realtà, dalla norma, che è formulata in modo molto ampio, sebbene appaia coerente con la ripartizione delle funzioni di vigilanza tra Banca d’Italia e Consob operata dal TUF. Di certo, tale criterio non serve ad individuare la linea di confine tra la procedura dell’art. 7-sexies e l’amministrazione straordinaria, giacché quest’ultima può essere attivata su proposta sia della Consob, sia della Banca d’Italia.

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2.5. (Segue): poteri cautelari applicabili ai consulenti finanziari autonomi, alle società di consulenza finanziaria ed ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede Per quanto attiene ai consulenti finanziari autonomi, alle società di consulenza finanziaria ed ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, l’art. 7-septies prevede anch’esso il ricorso alla sospensione cautelare del soggetto nel caso in cui siano presunte gravi violazioni di legge o di regolamento. I poteri ingiuntivi sono in questo caso affidati al nuovo Organismo di vigilanza e tenuta dell’albo unico dei consulenti finanziari, previsto dall’art. 31, comma 4, TUF. L’Organismo, nello specifico, in caso di necessità e urgenza, dispone in via cautelare la sospensione per un periodo massimo di centottanta giorni, qualora sussistano elementi che facciano presumere l’esistenza di gravi violazioni di legge ovvero di disposizioni generali o particolari emanate in forza del Testo Unico. Inoltre, è prevista la sospensione, per la durata massima di un anno, nel caso di sottoposizione dei soggetti iscritti all’Albo a misure cautelari personali (di cui al Libro IV, Titolo I, Capo II, del codice di procedura penale o nel caso in cui questi assumano la qualifica di imputato ai sensi dell’art. 60 dello stesso codice 6) per la commissione di determinati reati 7. La norma, come riformulata, conferma le perplessità dottrinali: si è infatti fatto rilevare che la semplice assunzione della qualità di imputato non dovrebbe essere presupposto sufficiente per determinare la sospensione del promotore (oggi consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede). Le garanzie del cittadino in caso di azione penale, che si riflettono nella presunzione di innocenza (art. 27 Cost.) e nel diritto alla difesa (art. 24 Cost.) non paiono, infatti, del tutto in linea con la previsione dell’art. 7-septies, TUF, in merito alla quale paiono fondati i dubbi di legittimità costituzionale da taluni avanzati 8. Si osservi, inoltre, che la sospensione cautelare ha la durata massima di un anno, e pertanto – stanti i tempi assai protratti del processo penale nel nostro Paese – il consulente potrà, in genere, normalmente riprendere la sua attività alla scadenza del periodo, il che rende la norma ancora più incongruente.

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V. CHIEPPA MAGGI (2002-IV). Si tratta, in particolare, dei reati seguenti: a) delitti previsti nel Titolo XI del Libro V del codice civile e nella legge fallimentare; b) delitti contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro il patrimonio, contro l’ordine pubblico, contro l’economia pubblica, ovvero delitti in materia tributaria; c) reati previsti dal Titolo VIII del Testo Unico Bancario; d) reati previsti dal TUF. 8 ASSOGESTIONI (1998). 7

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3. Piani di risanamento, sostegno finanziario di gruppo e intervento precoce Questi istituti sono stati introdotti dai provvedimenti di recepimento della Direttiva 2014/59/UE (BRRD), che istituisce un quadro armonizzato a livello dell’Unione Europea in tema di risanamento e di risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento. La materia è regolata, nel TUF, mediante numerosi rinvii alla disciplina del TUB: un profilo, questo, che da sempre connota la disciplina delle crisi degli intermediari disciplinati dal Testo Unico della Finanza.

3.1. L’ambito di applicazione e i piani di risanamento I piani di risanamento (art. 53-ter TUF) sono, in sostanza, programmi di intervento di cui gli intermediari devono dotarsi al fine di prestabilire le azioni da intraprendere nel caso in cui si verifichi una situazione di significativo deterioramento delle condizioni dello stesso. Essi si iscrivono tra le misure finalizzate a predisporre, in via anticipata, presidi per la gestione delle crisi aziendali, nell’ottica di evitare, per quanto possibile, l’applicazione di strumenti più traumatici, quali ad es. la risoluzione o la liquidazione coattiva, che rischierebbero di scattare in presenza di un ulteriore aggravamento del deterioramento della situazione. I piani di risanamento sono, quindi, obbligatoriamente adottati dagli intermediari e approvati dalla Banca d’Italia allorché la crisi non si è ancora manifestata; questa cioè non è neanche allo stadio iniziale, essendo gli intermediari tenuti a “prepararsi per tempo” rispetto all’eventualità che si manifestino le prime criticità. Tali piani verranno, eventualmente, concretamente attuati, su richiesta dell’Autorità di vigilanza, anche parzialmente, allorché il deterioramento della situazione tecnica del soggetto abbia manifestato i primi segni ed è, quindi, ancora alla fase iniziale, non avendo raggiunto uno stato di irreversibilità tale da giustificare l’avvio di una procedura di risoluzione o la liquidazione coattiva. La disciplina dei piani di risanamento si applica alle SIM aventi sede legale in Italia che prestano uno o più dei seguenti servizi o attività di investimento: a) negoziazione per conto proprio; b) sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo o assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; c) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione. Tali SIM devono dotarsi di un piano di risanamento individuale sulla base della disciplina dettata dal Testo Unico Bancario (cfr. art. 69-quater). Non sono, invece, tenute a dotarsi di piani di risanamento individuali le SIM appartenenti a un gruppo bancario o a un gruppo sottoposto a vigilanza consolidata, salvo che ciò non sia loro espres-

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samente richiesto dall’Autorità. La società posta al vertice di un gruppo, infatti, è tenuta a dotarsi di un piano di risanamento di gruppo nei casi e secondo quanto previsto dall’art. 69-quinquies TUB. Alla Banca d’Italia, sentita la Consob per i profili di competenza, spetta la valutazione dei piani di risanamento.

3.2. Sostegno finanziario di gruppo e intervento precoce L’art. 55-quater, TUF, prevede la possibilità per le SIM appartenenti a un gruppo, di concludere con altre componenti del gruppo accordi per la fornitura di sostegno finanziario nel caso in cui si realizzino i presupposti dell’intervento precoce ai sensi dell’art. 55-quinquies 9. I presupposti per l’intervento precoce (precisati dall’art. 69-octiesdececies TUB a cui la disciplina del TUF, art. 55-quinquies, fa espresso rinvio) consistono in violazioni: (i) dei requisiti patrimoniali ai sensi della CRR e della CRD IV, (ii) degli obblighi di trasparenza nelle sedi di negoziazione ai sensi del Regolamento UE n. 600/2014; (iii) di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie o gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero di casi in cui il deterioramento della situazione dell’intermediario sia particolarmente significativo. Fermo restando quanto precede, nei confronti di una SIM o di una società posta al vertice del gruppo, la Banca d’Italia può, sentita la Consob o su proposta della stessa, in presenza dei presupposti dell’intervento precoce, imporre agli intermediari di svolgere alcune attività. In tale contesto, la Banca d’Italia può disporre le misure indicate agli artt. 69-noviesdecies e 69-vicies-semel, TUB, aventi ad oggetto l’attuazione del piano di risanamento o la rimozione dei componenti degli organi di amministrazione e controllo e dell’alta dirigenza 10.

4. La disciplina delle crisi La disciplina delle crisi degli intermediari risulta, allo stesso modo di quanto sin qui osservato in materia di provvedimenti ingiuntivi e piani di risanamento, modellata su quella corrispondente del Testo Unico Bancario, di cui vengono ripresi i due istituti più importanti, riferiti alla crisi delle banche, rappre9

Agli accordi si applicano le regole del Titolo IV, Capo 02-I, del TUB. A tal fine, la Banca d’Italia esercita i poteri informativi e di indagine (art. 6-bis, commi 1, 2, 3, 11, TUF), ispettivi (6-ter, commi 1, 5, 6, 7, 8, TUF) e di vigilanza sul gruppo (art. 12, comma 5, TUF). 10

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sentati dall’amministrazione straordinaria e dalla liquidazione coatta amministrativa 11.

4.1. L’amministrazione straordinaria I presupposti per l’avvio dell’amministrazione straordinaria sono individuati dall’art. 56 TUF 12. La norma dispone che il Ministero dell’economia e delle finanze – su proposta della Banca d’Italia o della Consob, nell’ambito delle rispettive competenze – può disporre con decreto lo scioglimento degli organi di direzione e controllo delle SIM, delle SGR, delle SICAV e delle SICAF quando ricorra almeno una delle seguenti tre condizioni: a) risultino gravi irregolarità nell’amministrazione ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie che ne regolano l’attività; b) siano previste gravi perdite del patrimonio della società; c) lo scioglimento sia richiesto con istanza motivata dagli organi amministrativi o dall’assemblea straordinaria ovvero dal commissario nominato ai sensi dell’art. 7-sexies TUF. Il provvedimento può essere adottato anche nei confronti delle succursali italiane di imprese di paesi terzi diversi dalle banche e di GEFIA non UE autorizzati in Italia: in tal caso, i commissari straordinari e il comitato di sorveglianza assumono nei confronti delle succursali stesse i poteri degli organi di amministrazione e di controllo dell’impresa. La direzione della procedura e tutti gli adempimenti connessi spettano alla Banca d’Italia, e ciò anche nel caso in cui l’amministrazione straordinaria abbia preso avvio su istanza della Consob; tale scelta è probabilmente dovuta ad esigenze di razionalizzazione della procedura, che rendono opportuno l’affidamento della direzione della stessa ad una sola Autorità di vigilanza. La derivazione “bancaria” della procedura ha peraltro giustificato la scelta in favore della Banca d’Italia, anziché della Consob. L’amministrazione straordinaria configura, già nella legislazione bancaria, una forma di gestione “coattiva” dell’impresa, che comporta una sostituzione degli organi della stessa con uno o più commissari nominati dall’Autorità di vigilanza. Nonostante la natura “amministrativa” della procedura, essa però non dà luogo ad una vera e propria gestione “sostitutiva” dell’impresa da parte dell’Autorità 11

Per una ricostruzione storica v., con riferimento alla disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 415/1996, MINERVINI (1996). Per un esame dell’evoluzione della disciplina dalla legge n. 1/1991 TUF, v. DORIA (1998), e CABIDDU (1997) ove ulteriori riferimenti. 12 V. BOCCUZZI e DESIDERIO (1998); MASSAMORMILE (2002-III).

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pubblica. Non sussiste, infatti, un legame strutturale tra il commissario e l’Autorità di vigilanza: l’organo commissariale, seppur nominato ed operante sotto la direzione dell’Autorità di vigilanza, agisce così indipendentemente, e non come “organo” dell’Autorità pubblica. L’amministrazione straordinaria ha lo scopo di “sospendere” la gestione dell’impresa da parte degli organi sociali, sostituendoli – per il periodo massimo indicato dalla legge – con commissari di nomina pubblica. L’obiettivo è di rimuovere le irregolarità o la situazione di crisi riscontrata (se possibile), e di restituire così l’intermediario alla gestione ordinaria; in caso contrario – ad esempio perché le irregolarità sono irreversibili, e non possono essere rimosse – l’amministrazione straordinaria sarà l’“anticamera” per la successiva sottoposizione del soggetto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa. È da ritenere che l’amministrazione straordinaria non sia assimilabile ad una procedura concorsuale: essa, infatti, non ha l’obiettivo di assicurare la par condicio tra i creditori dell’impresa, e non incide sui rapporti tra l’intermediario ed i terzi, che proseguono normalmente (salvo quanto previsto per l’eventuale sospensione dei pagamenti, in virtù del richiamo all’art. 74 TUB) 13. Già si è detto che sussistono notevoli affinità tra il provvedimento di sospensione degli organi amministrativi disciplinato dall’art. 7-sexies TUF, e l’amministrazione straordinaria: in particolare, sia nel primo, sia nel secondo caso, il presupposto per l’avvio della procedura è rappresentato dalla sussistenza di “gravi irregolarità nell’amministrazione” o di “gravi violazioni delle disposizioni” che regolano l’attività del soggetto. Tuttavia, i presupposti di avvio dell’amministrazione straordinaria sono più ampi, in quanto vi figurano anche il caso di gravi perdite del patrimonio della società, e la richiesta da parte degli organi amministrativi, dell’assemblea o del commissario nominato ai sensi dell’art. 7-sexies. L’amministrazione straordinaria non è dunque necessariamente correlata alla sussistenza di “irregolarità” o di violazioni normative; infatti, essa può scattare, ad esempio: per effetto di una situazione di squilibrio patrimoniale, dovuta ad un andamento diseconomico dell’attività del soggetto, e in seguito o congiuntamente alla richiesta di attuazione del piano di risanamento o alla rimozione dei componenti degli organi di amministrazione e controllo e dell’alta dirigenza, nell’ambito di quanto osservato in materia di piani di risanamento. Inoltre, rilevanti sono le differenze che attengono alla portata del provvedimento di sospensione degli organi amministrativi e dell’amministrazione straordinaria. In vero, per effetto dell’amministrazione straordinaria viene sciolto non soltanto l’organo amministrativo, ma anche quello di controllo (ossia, il collegio sindacale); si tratta di una vera e propria revoca degli organi, alla pari di quanto visto in materia di intervento precoce, e non già di una mera “sospen13

L’art. 56, ultimo comma, ha peraltro cura di stabilire l’inapplicabilità del Titolo IV della legge fallimentare alle SIM, alle SGR, alle SICAV ed alle SICAF.

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sione” degli stessi, come invece previsto ai sensi dell’art. 7-sexies TUF. Ciò significa che, mentre nel caso della procedura di cui al menzionato 7-sexies, al termine della stessa riprenderanno le loro funzioni i precedenti organi sociali, all’atto della cessazione dell’amministrazione straordinaria sarà comunque necessario procedere alla nomina di nuovi organi (salvo l’avvio della liquidazione coatta amministrativa). Anche il procedimento di avvio dell’amministrazione straordinaria è più complesso di quello richiesto per l’applicazione della procedura di cui all’art. 7-sexies TUF: si è visto, infatti, che il potere di disporre l’avvio dell’amministrazione straordinaria spetta al Ministero dell’economia e delle finanze, mentre alla Consob e alla Banca d’Italia spetta il potere di proporre tale avvio, ciascuna per le materie di competenza. Tornando all’esame dei presupposti richiesti per l’avvio dell’amministrazione straordinaria si rende opportuno procedere ad un esame più puntuale delle diverse ipotesi: a) il primo presupposto per l’applicazione della procedura è rappresentato dalla sussistenza di “gravi irregolarità nell’amministrazione”. La formula legislativa è di per sé molto ampia, e si presta a ricomprendere un ventaglio assai articolato di casi. In linea generale, si può ritenere che costituiscano “gravi irregolarità” tutti quegli atti, fatti, comportamenti che si sostanziano in una deviazione dai principi generali della “sana e prudente gestione” del soggetto, anche se ciò non si traduce in una vera e propria violazione di specifiche norme di legge o di regolamento. Si pensi, ad esempio, a carenze organizzative, tali da porre in dubbio la capacità del management dell’impresa di disporre di dati affidabili sull’andamento dell’attività, o all’assenza di efficaci sistemi di controllo interno: si tratta di elementi che assumono rilevanza nell’ambito sia dei principi generali dell’attività di vigilanza (art. 5 e ss. TUF), sia dei principi di comportamento previsti, ad esempio, nella materia dei servizi di investimento; b) più specifico risulta il riferimento alle “gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie” che regolano l’attività degli intermediari. Assumono così diretta rilevanza, per l’avvio dell’amministrazione straordinaria, tutte le disposizioni, sia primarie sia secondarie, che regolano l’attività dei soggetti, come di volta in volta previste nell’ambito (anche) della vigilanza regolamentare; anche in questo caso, l’avvio dell’amministrazione straordinaria presuppone un giudizio circa la “gravità” delle violazioni. Si osservi, inoltre, come la norma faccia riferimento alla violazione delle disposizioni statutarie, che vengono così a porsi sul medesimo piano delle norme di legge o amministrative, come regole di organizzazione interna al rispetto delle quali l’intermediario è tenuto con lo stesso rigore delle disposizioni normative. Un riferimento analogo figura, peraltro, anche nel Testo Unico Bancario 14, ma con una pregnanza

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Cfr. l’art. 70 TUB.

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maggiore posto che, per le banche, è previsto un pervasivo controllo amministrativo sulla formulazione degli statuti societari; controllo che, invece, manca per gli intermediari regolati dal TUF; c) per quanto riguarda il manifestarsi di “perdite”, è opportuno porre in luce che l’avvio dell’amministrazione straordinaria non richiede che le perdite si siano già manifestate definitivamente; è, infatti, sufficiente che le perdite siano “previste” (come, ad esempio, nel caso in cui si stimi che un credito possa non essere più recuperabile, anche se non è stata ancora portata a termine la procedura di recupero forzoso dello stesso). Peraltro, è richiesto che le perdite siano “gravi”, ossia tali da incidere, in modo significativo, sulla stabilità patrimoniale del soggetto; d) per quanto attiene all’ultima ipotesi, è da ritenere che la richiesta dei soggetti indicati dalla norma debba comunque basarsi su uno dei presupposti sopra citati; la norma, dunque, si limita a modificare la legittimazione attiva per l’avvio del procedimento, generalmente riconosciuta alla Banca d’Italia e alla Consob. Per quanto attiene allo svolgimento della procedura di amministrazione straordinaria, la disciplina è di nuovo fortemente modellata sul TUB. L’art. 56 TUF vi opera un diretto rinvio, richiamando pressoché integralmente gli artt. 7077-bis TUB, secondo quanto di seguito sommariamente indicato. Per effetto del provvedimento, le funzioni dell’assemblea restano sospese, a meno che non siano i commissari stessi a convocarla, in applicazione dell’art. 72, comma 6, TUB. La durata della procedura è sino ad un anno; il termine è prorogabile, anche per più di una volta, per un altro anno. Tra i commi dell’art. 70 del TUB richiamati dalla norma in commento non figura il comma 7, che stabilisce l’inapplicabilità alle banche dell’art. 2409 c.c., introducendo – in sostituzione della procedura ivi prevista – una specifica forma di denuncia da parte dei soci alla Banca d’Italia. Ne deriva che, almeno apparentemente, l’art. 2409 c.c. trova applicazione nei confronti delle SIM, delle SGR e delle SICAV, il che può comportare problemi di non agevole soluzione, per il possibile accavallarsi dei provvedimenti adottabili ai sensi del TUF e delle norme di diritto comune. Tale conclusione però non è scontata. Infatti, proprio la difficoltà di coordinare la disciplina generale, e quella speciale, ha indotto il legislatore ad escludere espressamente l’applicazione dell’art. 2409 c.c. alle banche; ma, ancora prima che l’esclusione fosse esplicita la giurisprudenza era giunta alle medesime conclusioni, sulla base del fatto che le banche sono già soggette ad una specifica forma di vigilanza. L’ambigua formulazione del Testo Unico sembra tuttavia riproporre il problema per gli intermediari ivi disciplinati 15. Giusto il richiamo dell’art. 71 TUB, lo svolgimento della procedura è affi-

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Ritiene che l’art. 2409 c.c. si applichi ai soggetti regolati dal TUF, PISCITELLO (2002-II).

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dato ad appositi organi. Essi possono essere uno o più commissari, e un comitato di sorveglianza, composto da tre a cinque membri. La loro nomina avviene a cura della Banca d’Italia, alla quale spetta anche il potere di revoca e di sostituzione (art. 72, comma 2-bis). Sia i commissari, sia i membri del comitato di sorveglianza sono soggetti esterni alla Banca d’Italia; per ragioni di urgenza, l’art. 71, comma 5 prevede la possibilità di nominare un commissario “provvisorio”, scelto tra i funzionari della Banca d’Italia. Quanto ai poteri e alle funzioni degli organi, ai sensi dell’art. 72, comma 1, TUB, i commissari hanno i poteri già spettanti ai disciolti organi amministrativi; il loro compito è di provvedere ad “accertare la situazione aziendale, a rimuovere le irregolarità e promuovere le soluzioni utili” nell’interesse degli investitori. È stato giustamente osservato che il “fulcro” stesso della procedura consiste non tanto nell’accertamento della situazione (che, in parte, deve darsi per presupposto, in quanto implicito nel provvedimento di avvio dell’amministrazione straordinaria), quanto nella promozione delle iniziative necessarie per la rimozione della situazione di crisi 16. La norma, a riguardo, dispone che ai commissari spettano i compiti di accertare la situazione aziendale, rimuovere le irregolarità e promuovere le soluzioni utili nell’interesse dei depositanti e della sana e prudente gestione, senza introdurre un preciso elenco dei provvedimenti adottabili, che potranno pertanto assumere i caratteri più vari: interventi di riorganizzazione interna, cessione di rami di azienda, ecc. Sono applicabili agli organi dell’amministrazione straordinaria tutte le norme di funzionamento degli organi dell’amministrazione previste dall’art. 72 TUB, quelle relative agli adempimenti iniziali previsti dall’art. 73 TUB, e quelle relative alla chiusura della procedura. In particolare, al termine del loro incarico – o ad intervalli periodici stabiliti all’atto della nomina o successivamente – gli organi dell’amministrazione straordinaria devono redigere separati rapporti sull’attività svolta, da trasmettere alla Banca d’Italia. Prima della cessazione delle loro funzioni, i commissari provvedono inoltre affinché siano ricostituiti gli organi dell’amministrazione ordinaria, il che avviene – tipicamente – attraverso la convocazione di apposita assemblea dei soci. Il richiamo dell’art. 74 TUB rende, infine, applicabile alla procedura l’istituto della sospensione dei pagamenti: i commissari, previa autorizzazione della Banca d’Italia e sentito il comitato di sorveglianza, possono dunque sospendere – per un periodo non eccedente un mese, prorogabile per altri due – il pagamento delle passività di qualsiasi genere, ovvero la restituzione degli strumenti finanziari ai clienti. Si tratta di un’iniziativa che è subordinata al ricorrere di circostanze “eccezionali”, e che produce un duplice effetto: da un lato, per l’appunto, quello di “congelare” il pagamento delle passività dell’intermediario; dall’altro, quello di paralizzare eventuali atti di esecuzione forzata o cau16

ASSOGESTIONI (1998).

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telari sui beni dell’intermediario e sugli strumenti finanziari dei clienti, in via del tutto analoga a quanto si verificherebbe per effetto dell’avvio di una procedura concorsuale. L’art. 74, comma 3, TUB ha, peraltro, cura di precisare che il ricorso alla sospensione “non costituisce stato d’insolvenza”.

4.2. La rimozione collettiva dei componenti degli organi di amministrazione e controllo In base all’art. 56-bis TUF, la Banca d’Italia può disporre la rimozione di tutti i componenti degli organi con funzione di amministrazione e di controllo degli intermediari vigilati (con esclusione, incomprensibilmente, delle SICAF), e delle relative società capogruppo, al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 56, comma 1, lett. a) (i.e. le gravi irregolarità che possono far scattare l’amministrazione straordinaria). Con il provvedimento, la Banca d’Italia convoca l’assemblea del soggetto interessato, per la nomina dei nuovi esponenti aziendali. Si tratta di un istituto che va letto in controluce con quanto prevede l’art. 7, comma 2-bis, TUF, in base al quale la Banca d’Italia può disporre la rimozione di uno o più esponenti aziendali, qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione del soggetto abilitato. La differenza tra i due istituti riguarda non soltanto i presupposti posti alla base dei medesimi, ma anche gli effetti: i presupposti della rimozione collettiva sono, naturalmente, più gravi; inoltre, nel caso della rimozione collettiva tutti i componenti degli organi di amministrazione e controllo sono colpiti dal provvedimento mentre, mentre nel caso dell’art. 7, la rimozione è limitata ad alcuni membri soltanto (“uno o più”, come stabilisce la norma).

4.3. La liquidazione coatta amministrativa Anche per quanto attiene alla liquidazione coatta amministrativa, il TUF realizza un intervento di razionalizzazione ed omogeneizzazione della disciplina delle crisi, assoggettando tutti i soggetti italiani regolati dal TUF 17. L’istituto della liquidazione coatta amministrativa trova in genere applicazione, nell’ordinamento italiano, in ipotesi di crisi di soggetti sottoposti a forme di vigilanza e

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Per la verità già l’art. 34, D.Lgs. n. 415/1996 aveva assoggettato le SIM alla liquidazione coatta amministrativa. In merito alle società di gestione di fondi comuni, in tal senso disponeva inoltre l’art. 8, comma 3, legge n. 77/1983 e, per le SICAV, l’art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 84/1992. Nel vigore della legge n. 1/1991, di contro, le SIM erano soggette al fallimento. V. LEPROUX e TUSINI COTTAFAVI (1998); MASSAMORMILE (2002-IV).

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controllo pubbliche: la procedura, infatti, tende a tutelare il perseguimento di interessi anche generali (ad esempio: l’interesse degli investitori, dei depositanti, degli assicurati, a seconda delle singole materie), contemperandoli con la tutela degli interessi dei creditori, ordinariamente protetti nell’ambito delle procedure concorsuali. La sottoposizione alla liquidazione coatta amministrativa comporta dunque la non assoggettabilità degli intermediari a procedure concorsuali diverse (art. 80, comma 6, TUB, richiamato dall’art. 57 TUF); nel caso in cui il soggetto versi in stato di insolvenza la disciplina fallimentare, tuttavia, si applica anch’essa, a condizione di compatibilità. Ne deriva, pertanto, che in caso di accertamento dello stato di insolvenza in capo al soggetto sottoposto a liquidazione coatta amministrativa, troveranno applicazione le norme della legge fallimentare relative, ad esempio, agli effetti sui rapporti preesistenti, o su quelli pendenti 18. Secondo quanto già detto, la procedura si applica alle SIM, alle SGR, alle SICAV ed alle SICAF, nonché – nei casi previsti dall’art. 58 TUF – alle succursali di imprese di investimento e di gestori di paesi extra UE. Per le SIM di cui all’art. 55-bis TUF, destinatarie della disciplina in materia di piani di risanamento, il procedimento si applica se ricorrono i presupposti della risoluzione o di altre procedure di gestione della crisi ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 189/2015; mentre per le banche resta ferma l’analoga disciplina prevista dal Testo Unico Bancario. Come già per l’amministrazione straordinaria, anche per la liquidazione coatta amministrativa degli intermediari del mercato mobiliare è peraltro fortissima l’influenza del modello normativo rappresentato dal Testo Unico Bancario: alcune delle disposizioni di quest’ultimo sono pressoché integralmente riprodotte dal TUF. Il procedimento prende avvio per effetto di un decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, emanato su proposta della Banca d’Italia o della Consob, ciascuna nell’ambito delle proprie competenze. Il provvedimento – che può essere emanato anche se sono in corso l’amministrazione straordinaria della società, o la liquidazione volontaria – è subordinato al fatto che “le irregolarità nell’amministrazione ovvero le violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie o le perdite previste dall’art. 56 siano di eccezionale gravità”. L’emanazione del provvedimento comporta automaticamente la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività. Rispetto all’amministrazione straordinaria, la liquidazione coatta è subordinata alla ricorrenza di ipotesi di gravità “eccezionale”; aggettivo, quest’ultimo, che non connota i presupposti dell’amministrazione straordinaria e che 18 L’art. 82 TUB disciplina le conseguenze dell’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza in pendenza di liquidazione coatta amministrativa, o prima che questa abbia preso avvio. Per le conseguenze sui contratti a termine v. LENER (1999).

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consente già di per sé di intuire come tra i due provvedimenti vi sia una differenza di intensità che interessa, anche e soprattutto, le condizioni di crisi in cui versa il soggetto. Ne deriva che, mentre l’amministrazione straordinaria presuppone una residua possibilità di risanamento o di “salvataggio” del soggetto, tale possibilità sembra doversi escludere per la liquidazione coatta, in virtù per l’appunto del carattere “eccezionale” delle irregolarità riscontrate, da cui risulti in sostanza l’inidoneità del soggetto a proseguire nell’attività. Ciò spiega, peraltro, il motivo per il quale il decreto di assoggettamento alla procedura di liquidazione coatta comporta la revoca automatica dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività: effetto che, invece, non si produce nel caso dell’amministrazione straordinaria. Sempre in merito ai presupposti per l’avvio della procedura, l’art. 57, comma 2, TUF ripropone quanto si è già visto in merito all’amministrazione straordinaria, e cioè che la liquidazione coatta può essere disposta su istanza motivata degli organi amministrativi, o dell’assemblea straordinaria, aggiungendo anche – quanto alla legittimazione attiva – il commissario nominato ai sensi dell’art. 7-sexies TUF, i commissari straordinari e i liquidatori. A tali ipotesi occorre altresì aggiungere quella prevista dall’art. 82 TUB – al quale rinvia l’art. 57, comma 3, TUF – rappresentata dall’emanazione di una sentenza che accerti lo stato di insolvenza dell’intermediario: in tal caso, l’avvio della liquidazione coatta configura un atto dovuto da parte del Ministero, senza necessità di ulteriori valutazioni in punto di “gravità” della situazione. Quanto allo svolgimento della procedura, la materia è regolata pressoché per intero mediante rinvii alla corrispondente disciplina del Testo Unico Bancario. Il decreto e la proposta di nomina degli organi della liquidazione sono dunque comunicati agli interessati prima dell’insediamento degli organi stessi, al fine di evitare gli effetti negativi che potrebbe avere una comunicazione anticipata sotto il profilo della tutela degli investitori e dei creditori (art. 80, comma 3, TUB). Quanto agli organi della società, essi cessano dalle loro funzioni, con la sola eccezione dell’avvio di un concordato di liquidazione ai sensi degli artt. 93-94 TUB. Gli organi della procedura sono nominati dalla Banca d’Italia e sono rappresentati da uno o più commissari liquidatori e da un comitato di sorveglianza, composto da tre a cinque membri; alla stessa Banca d’Italia compete il potere di revocarli o sostituirli. Ai commissari liquidatori – che sono pubblici ufficiali – la legge attribuisce poteri di rappresentanza, e la titolarità di tutte le azioni da esperire nell’interesse della procedura, nonché i poteri per provvedere alle operazioni di liquidazione (art. 84, comma 1). Il comitato di sorveglianza ha, invece, compiti di controllo sull’attività dei commissari e poteri consultivi, i quali ultimi si sostanziano, essenzialmente, nel rilascio di pareri (art. 84, comma 2, TUB). Nell’ambito della procedura, spetta alla Banca d’Italia un generale potere di direzione degli organi: essa può emanare Direttive, e sottoporre ad autorizzazione determinate operazioni o categorie di operazioni. L’esercizio dell’azio-

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ne di responsabilità contro gli organi cessati dell’impresa è comunque sempre sottoposto all’autorizzazione della Banca d’Italia. Il richiamo dell’art. 83 TUB rende applicabile agli intermediari regolati dal TUF la relativa disciplina in merito agli effetti della liquidazione coatta amministrativa. In particolare, gli effetti di paralisi del patrimonio concorsuale decorrono dalla data di insediamento degli organi liquidatori, e comunque dal terzo giorno successivo alla data di emanazione del provvedimento: sono dunque posticipati nel tempo gli effetti relativi alla sospensione dei pagamenti, al divieto di azioni individuali contro la procedura, e gli altri effetti del fallimento. La ragione di tale soluzione (introdotta nel sistema con il D.Lgs. n. 415/1996) è dovuta all’intendimento di evitare le conseguenze negative che potrebbero derivare da un’immediata “cesura” dell’attività, per effetto dell’avvio della procedura. Dal medesimo termine si producono, altresì, gli effetti previsti dalle disposizioni del Titolo II, Capo III, Sez. II e IV della legge fallimentare. Elemento distintivo della procedura di liquidazione coatta è rappresentato dall’articolazione della stessa in fasi, secondo la seguente successione: – accertamento dello stato passivo; – liquidazione dell’attivo; – restituzione e riparti; – adempimenti finali. Tutte le fasi di cui sopra sono disciplinate mediante rinvio alla corrispondente disciplina bancaria, secondo le seguenti regole, che riassumiamo brevemente. a) Accertamento dello stato passivo Per la formazione dello stato passivo, entro un mese dalla nomina, i commissari comunicano a ciascun creditore, mediante raccomandata con avviso di ricevimento o posta elettronica certificata, le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture e i documenti contabili. Analoga comunicazione viene inviata ai soggetti titolari di diritti reali sui beni e sugli strumenti finanziari relativi ai servizi di investimento, nonché ai clienti aventi diritto alla restituzione di detti strumenti. Entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione, i destinatari possono presentare o inviare, mediante raccomandata con avviso di ricevimento o posta elettronica certificata, i loro reclami ai commissari, allegando i documenti giustificativi. Nel caso in cui i creditori e i titolari dei diritti sui beni e sugli strumenti finanziari non abbiano ricevuto la comunicazione dei commissari, essi devono chiedere il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei propri beni entro sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto di liquidazione nella Gazzetta Ufficiale. I commissari, trascorso il termine di cui sopra, e non oltre i 30 giorni successivi, presentano alla Banca d’Italia l’elenco dei creditori ammessi; i clienti

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aventi diritto alla restituzione degli strumenti finanziari e del denaro relativi ai servizi disciplinati dal TUF sono iscritti in apposita e separata sezione dello stato passivo. Successivamente, i commissari comunicano senza indugio a coloro ai quali è stato negato in tutto o in parte il riconoscimento delle pretese, la decisione presa nei loro riguardi. Dell’avvenuto deposito dello stato passivo è dato avviso tramite pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Le eventuali opposizioni allo stato passivo sono disciplinate dall’art. 57, comma 5 e, quanto al resto, dall’art. 87 TUB. Possono dunque proporre opposizione i soggetti le cui pretese non siano state accolte, in tutto o in parte, entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione di cui all’art. 86, comma 8, TUB; i soggetti ammessi possono proporre opposizione entro lo stesso termine, decorrente dalla pubblicazione dell’avviso nella Gazzetta Ufficiale. L’opposizione si propone mediante deposito in cancelleria del ricorso al presidente del tribunale ove l’intermediario ha la sede legale. Il presidente del tribunale assegna a un unico giudice istruttore tutte le cause relative alla stessa liquidazione; quest’ultimo provvede all’istruzione delle cause, che rimette al collegio perché siano definite con un’unica sentenza. Contro la sentenza del tribunale può essere proposto appello ai sensi degli artt. 99 e ss. della legge fall. Per quanto riguarda le insinuazioni tardive, l’art. 89 TUB – richiamato anch’esso dall’art. 57 TUF – prevede che, dopo il deposito dello stato passivo e fino a che non siano esauriti tutti i riparti e le restituzioni, i creditori e i titolari dei diritti indicati nell’art. 86, comma 2, che non abbiano ricevuto la comunicazione dai commissari e che non risultino inclusi nello stato passivo, possono chiedere di far valere i loro diritti secondo quanto previsto per le opposizioni allo stato passivo. Essi sopportano le spese conseguenti al ritardo della domanda, salvo che il ritardo stesso non sia a essi imputabile. b) La liquidazione dell’attivo In virtù di quanto stabilito dall’art. 90 TUB – integralmente richiamato dall’art. 57 TUF – i commissari liquidatori hanno tutti i poteri occorrenti per realizzare l’attivo. Essi possono anche cedere le attività e le passività, l’azienda, rami di azienda, nonché beni e rapporti giuridici individuabili in blocco; la cessione avviene con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d’Italia, e può aver luogo in qualsiasi stadio della procedura. Il cessionario, in deroga alle regole generali disciplinanti la cessione di azienda, risponde unicamente delle passività risultanti dallo stato passivo. L’art. 90, comma 3, TUB prevede inoltre la possibilità che la Banca d’Italia autorizzi i commissari a continuare l’esercizio dell’impresa, o di determinati rami di attività.

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c) Restituzioni e riparti La materia è regolata per rinvio all’art. 91 TUB: i commissari provvedono alle restituzioni dei beni nonché degli strumenti finanziari relativi alla prestazione di servizi di investimento e, secondo l’ordine stabilito dalla legge fall., alla ripartizione dell’attivo liquidato. Se risulta rispettata la separazione del patrimonio dell’intermediario da quelli dei clienti iscritti nell’apposita sezione separata dello stato passivo, ma non risulta rispettata la separazione dei patrimoni di detti clienti tra di loro, ovvero gli strumenti finanziari non risultino sufficienti per l’effettuazione di tutte le restituzioni, i commissari procedono, ove possibile, alle restituzioni in proporzione dei diritti per i quali ciascuno dei clienti è stato ammesso alla sezione separata dello stato passivo, ovvero alla liquidazione degli strumenti finanziari di pertinenza della clientela e alla ripartizione del ricavato secondo la medesima proporzione. Se, invece, non sia rispettata la separazione del patrimonio dell’intermediario da quello dei clienti, i clienti devono concorrere per l’intero credito con i creditori chirografari. Sono possibili riparti parziali, conformemente a quanto stabilito dai commi da 4 a 10 dell’art. 91 TUB. d) Adempimenti finali In materia di adempimenti finali, l’art. 57 opera un rinvio integrale agli artt. 92-94 TUB. Liquidato l’attivo e prima dell’ultimo riparto ai creditori, o dell’ultima restituzione ai clienti, i commissari sottopongono il bilancio finale di liquidazione, il rendiconto finanziario e il piano di riparto, accompagnati da una relazione propria e da quella del comitato di sorveglianza, alla Banca d’Italia, che ne autorizza il deposito presso la cancelleria del tribunale. Dell’avvenuto deposito è data notizia mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale; nel termine di venti giorni, gli interessati possono proporre le loro contestazioni con ricorso al tribunale. Decorso tale termine senza che siano state proposte contestazioni, ovvero definite queste ultime con sentenza passata in giudicato, i commissari liquidatori provvedono al riparto o alla restituzione finale in conformità con quanto previsto per i riparti parziali. Le somme e gli strumenti che non possono essere distribuiti vengono depositati nei modi stabiliti dalla Banca d’Italia per la successiva distribuzione agli aventi diritto; è fatta salva la facoltà di acquisire in luogo di ciò idonee garanzie. Quanto al rinvio agli artt. 93 e 94 TUB, essi si riferiscono alla possibilità che i commissari, con il parere del comitato di sorveglianza, predispongano un concordato al tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede legale. La proposta di concordato, che va autorizzata dalla Banca d’Italia, deve indicare la percentuale offerta ai creditori, il tempo del pagamento e le eventuali garanzie. L’obbligo di pagare le quote di concordato può essere assunto anche da terzi, con liberazione totale o parziale dell’intermediario concordatario. È prevista un’eventuale fase di opposizione alla proposta di concordato, esaurita la quale il con-

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cordato viene eseguito e si dà luogo alla chiusura della procedura (art. 94 TUB). Da ultimo, il D.Lgs. 16 aprile 2012, n. 47, attuativo della Direttiva UCITS IV, ha introdotto all’art. 57 TUF modifiche volte a tracciare la disciplina applicabile alle situazioni di crisi dei fondi comuni di investimento, alla luce del regime patrimoniale che li caratterizza. In particolare, le modifiche delineano la disciplina applicabile alla liquidazione dei fondi nel caso di sottoposizione della SGR a liquidazione coatta amministrativa (comma 3-bis), e definiscono gli strumenti di tutela spettanti ai creditori nelle situazioni in cui una società di gestione del risparmio, in bonis, gestisca uno o più fondi incapienti (comma 6bis). Il comma 3-bis prevede che i commissari liquidatori della società di gestione del risparmio provvedano alla liquidazione o alla cessione dei fondi dalla stessa gestiti e siano dotati di tutti i poteri a ciò necessari. La liquidazione dei fondi segue il regime ordinario, che viene però integrato da specifiche disposizioni (proprie della liquidazione coatta amministrativa (ai fini di un ordinato svolgimento dell’attività dei commissari liquidatori della società di gestione del risparmio, salvaguardando la par condicio creditorum e gli interessi dei partecipanti. Nel novellato comma 6-bis, si prevede inoltre che, su ricorso dei creditori o della stessa SGR, possa essere accertata dal tribunale l’incapienza di uno o più fondi di una società di gestione del risparmio non sottoposta a liquidazione coatta amministrativa. In tale ipotesi, Banca d’Italia nomina o più liquidatori che, applicando le stesse regole di gestione previste al comma 3-bis, provvedono alla liquidazione o alla cessione dei soli fondi dei quali sia stata accertata l’incapienza. La disposizione tende, da un lato, a evitare il rischio che l’incapienza di un singolo fondo possa comportare interventi destabilizzanti per la stessa SGR e per tutti i fondi, anche capienti, gestiti dalla stessa, e dall’altro, a fornire adeguata tutela ai creditori del fondo insolvente, prevedendo una specifica possibilità di ricorso al tribunale per far cessare la gestione del fondo e un conseguente intervento dell’autorità di vigilanza per assicurare modalità idonee di liquidazione o di cessione del fondo stesso. Pacifico che, ove ne ricorrano i presupposti, potrà essere sottoposta a liquidazione coatta la SGR e, conseguentemente, i commissari liquidatori della stessa procederanno alla liquidazione o alla cessione dei fondi da questi gestiti ai sensi del comma 3-bis.

5. Sistemi di indennizzo e fondo di garanzia degli investitori Strettamente connessa con la disciplina delle “crisi” dei soggetti è la materia dei sistemi di indennizzo e dei fondi di garanzia degli investitori, che formano oggetto di una specifica regolamentazione. La previsione di apposite forme di garanzia a tutela degli investitori risponde alla necessità di salvaguardare la fiducia nell’affidabilità del sistema finan-

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ziario, e rappresenta pertanto un fondamentale elemento per assicurare il buon funzionamento del mercato. L’introduzione di veri e propri sistemi di “indennizzo” degli investitori, di cui è previsto l’intervento in caso di insolvenza degli intermediari, si era realizzata già con l’approvazione della legge n. 1/1991. La disciplina è poi stata oggetto di revisione in occasione del recepimento della Direttiva 93/22/CEE, che conferma l’obbligatorietà dell’adesione ad un sistema di indennizzo per gli intermediari abilitati; analoga soluzione emerge dalla Direttiva 2004/39/CE (MiFID) e dalla Direttiva 2014/65/UE (MiFID II). Alla disciplina derivante dalle norme comunitarie, il legislatore italiano aveva sovrapposto un proprio intervento, previsto dall’art. 27, comma 2 della legge n. 262/2005 (la c.d. legge sulla tutela del risparmio), che contemplava l’istituzione di uno specifico fondo per la tutela stragiudiziale dei risparmiatori e degli investitori; oggi il D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179 di attuazione dell’art. 27, comma 2, è stato abrogato dal D.Lgs. n. 129/2017, che ha introdotto nel TUF gli artt. 32-ter e 32ter.1, rispettivamente in materia di risoluzione stragiudiziale di controversie e di fondo per la tutela stragiudiziale dei risparmiatori e degli investitori. a) Quanto ai sistemi di indennizzo regolati dal TUF, in base all’art. 59, comma 2, spetta al Ministro dell’economia e delle finanze disciplinarne l’organizzazione e il funzionamento (v. D.M. 14 novembre 1997, n. 485, tutt’ora in vigore). I sistemi di indennizzo sono, secondo la definizione contenuta nel decreto, soggetti di natura privatistica aventi personalità giuridica, costituiti per la tutela dei crediti vantati dagli investitori nei confronti di imprese di investimento e di intermediari finanziari. I soggetti interessati ad ottenere il riconoscimento quali sistemi di indennizzo devono presentare apposita istanza al Ministero dell’economia e delle finanze (già Ministero del tesoro): tra i requisiti richiesti è stabilito l’obbligo di avere la sede in Italia, e quello di conformare lo statuto dell’organismo a quanto richiesto dal decreto. I sistemi di indennizzo operano, sostanzialmente, alla stregua di meccanismi mutualistici, nei quali tutti gli aderenti versano un contributo annuale, che viene utilizzato per costituire un apposito “fondo”, il quale viene a sua volta utilizzato per rimborsare i crediti degli investitori, qualora ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge. Gli obblighi contributivi ai quali sono tenuti i soggetti aderenti possono essere diversamente articolati, ma in ogni caso debbono rispondere a criteri di non discriminazione e di equità. Tuttavia, qualora si renda necessario per garantire la capacità del sistema stesso di far fronte agli obblighi di rimborso nei tempi stabiliti dal decreto, i sistemi di indennizzo possono richiedere una contribuzione straordinaria ed aggiuntiva agli intermediari aderenti; il regolamento operativo del sistema deve fissare i criteri e le modalità che regolano tale contribuzione aggiuntiva. Quanto all’intervento dei sistemi, essi si attivano per assicurare il rimborso dei crediti vantati dagli investitori soltanto in alcuni casi tassativamente individuati, e segnatamente:

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– nel caso di liquidazione coatta amministrativa di banche e di SIM; – nel caso di fallimento o di concordato preventivo di agenti di cambio e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 106 TUB 19. In tale ambito, sono ammessi al rimborso unicamente i crediti iscritti nello stato passivo dell’intermediario. I crediti per i quali gli investitori hanno diritto al rimborso sono quelli rappresentati da somme di denaro e da strumenti finanziari derivanti da operazioni di investimento, e vantati dagli investitori nei confronti di soggetti tenuti all’adesione al sistema di indennizzo e, quindi, di banche italiane, SIM, intermediari finanziari e loro succursali comunitarie, nonché succursali italiane di banche ed imprese di investimento estere, limitatamente all’attività svolta in Italia, ed, infine, agenti di cambio. Il decreto stabilisce inoltre, all’art. 4, talune esclusioni soggettive per quanto attiene alla possibilità di ricorrere ai sistemi di indennizzo. In particolare, sono esclusi dal rimborso del sistema di indennizzo i crediti vantati dalle seguenti categorie di soggetti: a) investitori nei confronti dei quali sia intervenuta condanna per i reati previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.; b) investitori che abbiano concorso a determinare l’insolvenza dell’intermediario, come accertato dagli organi della procedura concorsuale; c) banche, SIM, agenti di cambio, intermediari finanziari non bancari di cui al Titolo V TUB, imprese di investimento, imprese di assicurazione, organismi di investimento collettivo del risparmio e fondi pensione; d) enti sovrannazionali, amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici territoriali; e) società appartenenti allo stesso gruppo dell’intermediario; f) soci che detengono, anche per interposta persona, almeno il 5% del capitale dell’intermediario; g) amministratori, dirigenti, sindaci, revisori contabili dell’intermediario, o di altre società del gruppo di appartenenza dell’intermediario medesimo, in carica negli ultimi due esercizi; h) il coniuge e i parenti fino al quarto grado dei soggetti indicati alle lett. a), b), f) e g). È dunque evidente l’impostazione volta ad escludere dalla tutela offerta dai sistemi di indennizzo soggetti “qualificati” o riconducibili allo stesso intermediario insolvente. Conformemente alla disciplina comunitaria, i crediti vantati da ciascun investitore possono comunque essere rimborsati sino all’ammontare massimo com19

Il sistema interviene anche per quanto attiene alle SGR, con riferimento alla prestazione dei servizi di investimento da parte di questi ultimi soggetti.

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plessivo di 20.000 euro. Ai fini del rispetto di tale limite devono sommarsi, per ciascun investitore, i crediti derivanti da singole operazioni di investimento e la quota di pertinenza dei crediti derivanti da operazioni congiunte di investimento di due o più investitori. Il sistema di indennizzo deve indicare nel regolamento operativo le modalità ed il termine entro il quale gli investitori ammessi allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa o del fallimento, o al concordato preventivo dell’intermediario devono presentare la domanda di rimborso al sistema. L’art. 6 del D.M. stabilisce che tale termine non può essere inferiore a cinque mesi dalla data in cui l’investitore ha ricevuto la comunicazione dell’ammissione definitiva del proprio credito allo stato passivo, o dalla sentenza di omologazione del concordato preventivo passata in giudicato; il rimborso deve essere disposto entro tre mesi dalla scadenza di tale termine. Nel caso in cui, per circostanze eccezionali, il sistema di indennizzo non sia in grado di rispettare tale termine, esso può chiedere una proroga al Ministero del tesoro; la proroga non può comunque essere superiore a 3 mesi. b) Il Fondo per la tutela stragiudiziale dei risparmiatori e degli investitori ex art. 32-ter.1 TUF, introdotto dal D.Lgs. n. 129/2017, come anticipato, sostituisce il Fondo di Garanzia per i risparmiatori e gli investitori istituito dal D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, che rimane in vigore fino alla data di applicazione delle nuove disposizioni. L’art. 32-ter.1 prevede che, al fine di agevolare l’accesso dei risparmiatori e degli investitori alla più ampia tutela nell’ambito delle procedure di risoluzione stragiudiziale delle controversie di cui all’art. 32-ter, la Consob istituisca presso il proprio bilancio il Fondo per la tutela stragiudiziale dei risparmiatori e degli investitori. Il Fondo è destinato a garantire ai risparmiatori e agli investitori, diversi dai clienti professionali, nei limiti delle disponibilità del Fondo medesimo, la gratuità dell’accesso alla procedura di risoluzione stragiudiziale delle controversie su menzionata, nonché, per l’eventuale parte residua, a consentire l’adozione di ulteriori misure a favore dei risparmiatori e degli investitori, da parte della Consob, anche con riguardo alla tematica dell’educazione finanziaria 20.

20 Ai sensi del comma 2, art. 32-ter.1, il Fondo è finanziato con il versamento della metà degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie riscosse per la violazione delle norme che disciplinano le attività di cui alla Parte II del TUF e con le risorse iscritte in un apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze.

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6. La risoluzione delle SIM Nell’ambito degli intermediari disciplinati dal TUF, e secondo quanto previsto dalla disciplina europea di riferimento, le SIM sono soggette alle procedure di risoluzione, alle quali sono sottoposte anche le banche in base alla Direttiva “BRRD”. I gestori collettivi del risparmio, di contro, sono esclusi dall’ambito di applicazione della Direttiva BRRD: per essi, dunque, non trova applicazione l’istituto della risoluzione. La risoluzione è un articolato processo di ristrutturazione gestito dalle Autorità a tal fine competenti (le cc.dd. “Autorità di risoluzione – in Italia, la Banca d’Italia) che, attraverso l’utilizzo di tecniche e poteri offerti dalla Direttiva, si pone l’obiettivo di evitare l’interruzione delle attività dell’intermediario, ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana dello stesso, e liquidarne le parti restanti. L’alternativa alla risoluzione è, naturalmente, la liquidazione coatta amministrativa. La risoluzione può in genere essere attivata se sono soddisfatte le seguenti condizioni: l’intermediario è in dissesto o a rischio di dissesto (ad esempio, quando, a causa di perdite, l’intermediario abbia azzerato o ridotto in modo significativo il proprio capitale); eventuali misure di natura privata (quali aumenti di capitale) o altri strumenti di vigilanza non consentirebbero di evitare in tempi ragionevoli il dissesto dell’intermediario; la liquidazione ordinaria non permetterebbe di salvaguardare la stabilità sistemica, di proteggere i clienti, di assicurare la continuità dei servizi finanziari essenziali e, quindi, la risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico.

6.1. I piani di risoluzione Fanno parte delle misure della risoluzione i cc.dd. “piani” di risoluzione. Essi sono predisposti dall’Autorità di vigilanza, ed indicano le azioni che gli intermediari dovrebbero intraprendere qualora si rendesse necessaria la risoluzione. L’art. 60-bis.2, comma 2 dispone, a tal proposito, che la Banca d’Italia predispone, sentita la Consob per i profili di competenza: a) un piano di risoluzione individuale per ciascuna SIM non sottoposta a vigilanza su base consolidata secondo quanto previsto dall’art. 7 del D.Lgs. n. 180/2015; ovvero b) un piano di risoluzione di gruppo per i gruppi indicati dall’art. 11, TUF. I piani di risoluzione predisposti dalla Banca d’Italia sono comunicati alla Consob.

6.2. La risoluzione e le altre procedure di gestione delle crisi La risoluzione di un intermediario è, come già detto, un procedimento complesso che, attraverso l’utilizzo di tecniche e poteri offerti dalle disposizioni eu-

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ropee (molti dei quali innovativi) mira a evitare interruzioni nella prestazione dei servizi essenziali offerti dall’intermediario; ripristinare condizioni di economicità della parte “sana” del soggetto; liquidare le parti restanti. L’art. 60bis.3, TUF, prescrive che sia la Banca d’Italia a valutare se una SIM – non facente parte di un gruppo – sia o meno risolvibile secondo i criteri declinati rispettivamente agli artt. 12 e 13 del D.Lgs. n. 180/2015. Nel caso di un gruppo finanziario, disciplinato dall’art. 11 TUF, è sempre la Banca d’Italia a valutare tale ipotesi, sempreché la stessa Banca d’Italia sia l’autorità competente ad assumere tale decisione sulla base dei criteri che discendono dalla disciplina di attuazione della BRRD. In estrema sintesi, si intendono risolvibili la SIM o le società del gruppo quando, anche in presenza di situazioni di instabilità finanziaria generalizzata o di eventi sistemici, possono essere assoggettate alle procedure concorsuali rispettivamente applicabili oppure alla risoluzione, minimizzando le conseguenze negative significative per il sistema finanziario. Il concreto esercizio dei poteri affidati alla Banca d’Italia quale autorità di risoluzione, e le misure adottabili, sono regolate mediante rinvio al decreto di recepimento della BRRD che riguarda, in via principale, le banche. Alle SIM, in particolare, si applicano i Titoli IV e VI nonché gli artt. 99, 102, 103, 104 e 105 di tale provvedimento (Decreto 2014/59).

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CAPITOLO XII GLI INTERMEDIARI NON BANCARI NON REGOLATI DAL TUF: FONDI PENSIONE, SOGGETTI OPERANTI NEL SETTORE FINANZIARIO, SOCIETÀ DI CARTOLARIZZAZIONE SOMMARIO: 1. La previdenza complementare. I tratti generali. – 1.1. I fondi pensione di tipo “negoziale”. – 1.2. I fondi pensione aperti. – 1.3. Le forme pensionistiche individuali. – 1.4. Le modalità di adesione ai fondi pensione e il riscatto. – 1.5. La vigilanza sulla previdenza complementare. – 2. I soggetti operanti nel settore finanziario: gli intermediari finanziari non bancari. – 3. Le società per la cartolarizzazione dei crediti.

1. La previdenza complementare. I tratti generali In Italia, come in molti altri Paesi, il sistema previdenziale pubblico si è tradizionalmente assunto il pesante onere di sopportare, in un regime di monopolio, ogni forma di trattamento pensionistico e previdenziale dei lavoratori. Il sistema tecnico finanziario a ripartizione, adottato per l’erogazione del trattamento previdenziale trovava, nei contributi versati dalla popolazione attiva, i suoi finanziamenti, ed aveva lo scopo di garantire una pensione basata sul reddito degli ultimi anni lavorativi. Negli ultimi anni, le profonde trasformazioni della società civile, e della realtà economica hanno mostrato i limiti di tale soluzione, che comporta un peso rilevantissimo a carico del sistema pubblico. Si è dunque accentuato l’interesse per forme di previdenza complementare, delle quali i Fondi pensione rappresentano l’esempio più significativo. In Italia, i Fondi pensione sono stati introdotti dal D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 che, tuttavia, presentava numerosi limiti, tali da impedire, di fatto, il “decollo” del settore della previdenza complementare. Il legislatore, dopo vari “ritocchi” al D.Lgs. n. 124/1993, ha deciso di intervenire con una riforma di ampia portata, a seguito della quale è stato emanato (in attuazione

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della legge 23 agosto 2004, n. 243) il D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 che ridisciplina l’intera materia 1. Il Decreto si è posto l’obiettivo di realizzare una riforma a tutto tondo della previdenza complementare, allo scopo di sviluppare quest’ultima, intesa come strumento di tutela dei lavoratori per la costituzione di una rendita aggiuntiva destinata ad integrare il livello di reddito nell’età anziana. In tale ambito, il Decreto ha inteso favorire l’adesione alle forme di previdenza complementare, attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto (TFR), agevolazioni fiscali applicabili a contributi e prestazioni, l’ampliamento delle possibilità di scelta e di trasferimento delle posizioni maturate da parte dei lavoratori. Al fine di agevolare il raggiungimento degli obiettivi della riforma, il Decreto prevede un assetto che punta ad uniformare le regole applicabili a tutte le forme pensionistiche complementari, e la sottoposizione delle stesse alle medesime forme di vigilanza. In particolare, con il Decreto vengono previste regole omogenee, per le diverse forme di previdenza, in punto di autorizzazione, regole di trasparenza, e la sottoposizione delle stesse alla vigilanza della COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione). A quest’ultima sono attribuiti articolati poteri, finalizzati a perseguire il raggiungimento di finalità non dissimili da quelle che caratterizzano la disciplina degli intermediari nel TUF, e segnatamente la sana e prudente gestione dei Fondi pensione, la trasparenza e la correttezza dei comportamenti avendo riguardo alla tutela degli iscritti e dei beneficiari di tutte le forme pensionistiche complementari e al buon funzionamento del sistema di previdenza complementare. Inoltre, e specificatamente: – per i fondi aperti e le forme individuali, vengono affidate alla COVIP le competenze in materia di regolamentazione e vigilanza sulle modalità di offerta al pubblico sia per la fase di raccolta delle adesioni sia per quella relativa all’informativa periodica durante il rapporto di partecipazione 2. Con riguardo alle forme pensionistiche individuali, viene poi attribuito alla COVIP il potere di approvare il regolamento di tali forme a corredo del contratto di assicurazione, necessario per l’iscrizione anche di tali forme nell’albo tenuto dalla COVIP; – vengono assoggettate alla vigilanza della COVIP le forme preesistenti istituite all’interno di enti, società o gruppi sottoposti ai controlli in materia di esercizio della funzione creditizia e assicurativa, in precedenza sottoposte alla 1

Il Decreto è entrato in vigore il 1° gennaio 2007 (termine così anticipato, rispetto a quello originariamente previsto nel 1° gennaio 2008, dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296). 2 Pertanto, le competenze che spettavano alla Consob sull’offerta al pubblico delle quote di fondi pensione aperti (in quanto “prodotti finanziari” ai sensi della disciplina del TUF) devono intendersi revocate e trasferite alla COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione).

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vigilanza delle Autorità che esercitano i controlli sul soggetto al cui interno la forma è costituita; – restano confermate le competenze della COVIP sui fondi negoziali, come precedentemente stabilite dalla disciplina della previdenza complementare. Uno dei punti qualificanti del Decreto, con il quale, come detto, si persegue l’obiettivo di garantire lo sviluppo del settore della previdenza complementare, è rappresentato dalla possibilità di conferimento del TFR a tutte le forme pensionistiche complementari, ivi comprese le forme pensionistiche individuali. In particolare, la scelta di destinazione del TFR deve essere effettuata dal lavoratore entro sei mesi dall’assunzione. Con dichiarazione esplicita diretta al datore di lavoro, il lavoratore potrà scegliere di destinare il TFR maturando alla forma di previdenza complementare prescelta, sia essa collettiva o individuale, oppure di mantenere il TFR presso il datore di lavoro. In tale ultimo caso, però, se l’azienda occupa almeno 50 dipendenti, il TFR maturando verrà trasferito dal datore di lavoro al “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto” gestito dall’INPS che assicura le stesse prestazioni previste dall’art. 2120 c.c. In mancanza di scelta nei termini previsti, il TFR maturando sarà destinato dal datore di lavoro alla forma pensionistica collettiva individuata secondo i criteri fissati dal decreto e, in ultima istanza, alla forma pensionistica complementare appositamente istituita presso l’INPS, denominata FONDINPS 3. Con riguardo all’assetto delle forme pensionistiche complementari, il Decreto interviene anche sulla materia della governance dei fondi (che varia a seconda della tipologia di forma pensionistica complementare), anche mediante l’istituzione di nuovi organi: ad esempio, per i fondi aperti, si dispone l’istituzione di un organismo di sorveglianza, che ha la funzione di rappresentare adeguatamente gli interessi degli aderenti, e di verificare che l’amministrazione e gestione del fondo si svolgano nell’esclusivo interesse degli stessi. Al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentita la COVIP, è lasciata l’individuazione delle attività nelle quali i fondi pensione possono investire le proprie disponibilità, i criteri di investimento e le regole da osservare in materia di conflitti di interesse. Quanto al versamento dei contributi ai fondi pensione, è riconosciuta la possibilità per il lavoratore di definire il contributo a proprio carico, ferma restando, nelle forme pensionistiche collettive, la competenza delle fonti istituti3

La legge di stabilità per il 2015 ha introdotto la possibilità per il lavoratore dipendente del settore privato, con un’anzianità lavorativa di almeno sei mesi presso la stessa azienda, di farsi liquidare mensilmente in busta paga le quote di TFR maturando (l’opzione è temporanea e vale per il periodo marzo 2015-giugno 2018).

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ve a stabilire la misura minima della contribuzione a carico dei lavoratori e del datore di lavoro. È prevista la possibilità di contribuire alle forme anche solo mediante il conferimento del TFR; qualora il lavoratore versi anche contributi a proprio carico ha diritto alla contribuzione a carico del datore di lavoro, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti e accordi collettivi 4.

1.1. I fondi pensione di tipo “negoziale” I fondi pensione “negoziali” nascono per effetto di accordi di categoria. Ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. n. 252/2005, essi possono derivare da contratti, accordi collettivi, regolamenti di enti o aziende, da decisioni delle Regioni, o possono essere istituti da determinati enti di diritto privato. Tali fondi pensione sono costituiti come soggetti giuridici di natura associativa, ai sensi dell’art. 36 c.c., e come soggetti dotati di personalità giuridica: in tale ultima ipotesi, il riconoscimento della personalità giuridica consegue al provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla COVIP. I fondi pensione istituiti ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. g), h) e i) possono essere costituiti altresì nell’ambito della singola società o del singolo ente attraverso la formazione, con apposita deliberazione, di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, con gli effetti di cui all’art. 2117 c.c. 5. L’esercizio dell’attività dei fondi pensione è subordinato alla preventiva autorizzazione da parte della COVIP. Per la gestione del patrimonio, i fondi pensione devono stipulare apposite convenzioni con i soggetti individuati dal Decreto (in altri termini, il fondo pensione negoziale non può gestire direttamente le risorse affidate dai partecipanti) 6. Tali soggetti sono individuati negli intermediari autorizzati alla prestazione dei servizi di gestione e nelle imprese di assicurazione. Più precisamente, ai sensi dell’art. 6 del Decreto, la gestione delle risorse può essere affidata: a) a soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività di gestione di portafogli, italiani o comunitari, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento; 4

La riforma della previdenza complementare D.Lgs. n. 252/2005, non ha finora trovato applicazione per il settore del pubblico impiego a causa del mancato esercizio della delega prevista nella legge n. 243/2004. Il Decreto stesso ha previsto che ai Fondi pensione rivolti ai dipendenti pubblici sia applicata la precedente normativa contenuta nel D.Lgs. n. 124/1993. 5 La medesima previsione è estesa ai fondi aperti e alle forme individuali. 6 Cfr. tuttavia l’art. 6, comma 12 del Decreto, in base al quale i fondi pensione, costituiti nell’ambito delle autorità di vigilanza sui soggetti gestori a favore dei dipendenti delle stesse, possono gestire direttamente le proprie risorse. Sulle convenzioni di gestione v. RIGHINI (2006).

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b) a imprese assicurative italiane o comunitarie, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento; c) a società di gestione del risparmio, ovvero a società di gestione UE, che abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento. In alternativa, la gestione può avvenire mediante sottoscrizione o acquisizione di azioni o quote di società immobiliari o di quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiuso, nei limiti previsti dal Decreto (in sintesi, il 20% del proprio patrimonio e il 25% del capitale del fondo). Per quanto riguarda l’erogazione delle prestazioni, quelle in forma di rendita devono essere erogate sulla base di convenzioni con una o più imprese assicurative. In deroga a quanto precede, i fondi pensione possono essere autorizzati dalla COVIP ad erogare direttamente le rendite, affidandone la gestione finanziaria ai soggetti di cui sopra, nell’ambito di apposite convenzioni stabilite in base a criteri generali, determinati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la COVIP. In ogni caso, qualora il fondo preveda l’erogazione di prestazioni definite (ossia predeterminate sin dall’adesione al fondo), e comunque per le eventuali prestazioni per invalidità e premorienza, il fondo è tenuto a stipulare apposite convenzioni con imprese assicurative 7. Il processo di selezione dei gestori deve essere condotto secondo le istruzioni adottate dalla COVIP, finalizzate a garantire la trasparenza del procedimento e la coerenza tra obiettivi e modalità gestionali, decisi preventivamente dagli amministratori, e i criteri di scelta dei gestori. Specifiche regole riguardano il contenuto delle convenzioni di gestione, sottoposte ad un pregnante controllo amministrativo da parte della COVIP 8. Anche in materia di fondi pensione si pone, con tutta evidenza, il problema di disciplinare la titolarità del patrimonio del fondo, e il regime di separazione patrimoniale. Il Decreto – riprendendo una previsione già formulata nella disciplina antecedente – conferma che i fondi pensione sono titolari dei valori e delle disponibilità conferiti in gestione, restando peraltro in facoltà degli stessi di concludere, in tema di titolarità, diversi accordi con i gestori a ciò abilitati nel caso di gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale. Inoltre, i valori e le disponibilità affidati ai gestori costituiscono in ogni caso patrimonio separato ed autonomo, devono essere contabilizzati a valori correnti e non possono essere distratti dal fine al quale sono stati destinati, né for7

Per un’analisi della distinzione tra i fondi a contribuzione definita, e quelli a prestazione definita v. CANDIAN (1998), p. 35 ss. 8 In merito alle regole che disciplinano la stipulazione della convenzione, e il suo contenuto, v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 456 ss.

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mare oggetto di esecuzione sia da parte dei creditori dei soggetti gestori, sia da parte di rappresentanti dei creditori stessi; infine, non possono essere coinvolti nelle procedure concorsuali che riguardano il gestore. Allo scopo di attribuire effettività a tale previsione, la norma precisa che – in ipotesi di insolvenza del gestore – il fondo pensione è legittimato a proporre la domanda di rivendicazione di cui all’art. 103 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267). Replicando il modello che caratterizza la gestione collettiva del risparmio, l’art. 7 del Decreto stabilisce che le risorse dei fondi, affidate in gestione, sono depositate presso una banca distinta dal gestore, che deve presentare i requisiti di cui alle norme del TUF; la banca depositaria esegue le istruzioni impartite dal soggetto gestore del patrimonio del fondo, “se non siano contrarie alla legge, allo statuto del fondo stesso e ai criteri stabiliti nel decreto del Ministro dell’economia e delle finanze”. In particolare, alla banca depositaria si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni relative ai depositari degli OICR diversi dagli OICVM di cui agli artt. 47, 48 e 49 del TUF e relativa disciplina secondaria. In capo agli amministratori e ai sindaci del depositario, inoltre, ricade l’onere di riferire senza ritardo alla COVIP sulle irregolarità riscontrate nella gestione dei fondi pensione. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere attuato, come anticipato, mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente, e attraverso il conferimento del TFR maturando. Nel caso di lavoratori autonomi e di liberi professionisti il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi. Ferma restando la facoltà per tutti i lavoratori di determinare liberamente l’entità della contribuzione a proprio carico, relativamente ai lavoratori dipendenti che aderiscono ai fondi su base collettiva, le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore stesso possono essere fissati dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali.

1.2. I fondi pensione aperti La costituzione di fondi pensione aperti è consentita agli stessi soggetti con i quali è ammessa la stipulazione delle convenzioni di gestione per i fondi chiusi. Si tratta pertanto di banche, SIM, SGR e compagnie di assicurazione 9. Detti fondi sono aperti alle adesioni dei medesimi destinatari dei fondi negoziali, i quali vi possono destinare anche la contribuzione a carico del datore di lavoro a cui abbiano diritto, nonché le quote del TFR. 9 Sulla disciplina dei fondi aperti v. in particolare VOLPE PUTZOLU (1996); D’AMBROSIO (1999).

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L’autorizzazione alla costituzione e all’esercizio è rilasciata, ai sensi dell’art. 4, comma 3, del Decreto dalla COVIP, sentite le rispettive autorità di vigilanza sui soggetti promotori. Ai fondi aperti si applicano le regole sopra viste per i fondi negoziali in tema di criteri, limiti di investimento e banca depositaria. La struttura di un fondo aperto presenta vari punti di contatto con quella dei fondi comuni di investimento: la partecipazione al fondo è disciplinata da un apposito regolamento, redatto in base alle Direttive impartite dalla COVIP e dalla stessa preventivamente approvato. 1.3. Le forme pensionistiche individuali La previdenza complementare può assumere la forma anche dell’adesione a forme pensionistiche individuali: esse possono essere attuate mediante adesione ai fondi pensione aperti, o contratti di assicurazione sulla vita, stipulati con imprese di assicurazioni italiane, o comunitarie ammesse al mutuo riconoscimento. L’adesione a queste forme di previdenza prescinde da accordi o contratti collettivi, e avviene appunto su base individuale, anche da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’art. 2 del Decreto. I contratti di assicurazione utilizzati per i piani individuali devono essere corredati da un regolamento, redatto in base alle Direttive impartite dalla COVIP e dalla stessa preventivamente approvato, recante disposizioni circa vari profili, tra i quali rientrano le modalità di partecipazione, il trasferimento delle posizioni individuali verso altre forme pensionistiche, e la trasparenza dei costi e delle condizioni contrattuali. Il suddetto regolamento è parte integrante dei contratti medesimi, e le condizioni generali dei contratti devono essere comunicate dalle imprese assicuratrici alla COVIP, prima della loro applicazione. La COVIP approva i Regolamenti ma non le Condizioni generali di contratto che sono di competenza dell’IVASS (l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni). 1.4. Le modalità di adesione ai fondi pensione e il riscatto Le modalità di adesione e di partecipazione ai fondi pensione sono affidate ai documenti regolatori del rapporto: statuto del soggetto (nel caso di fondi negoziali) o regolamento del fondo (nel caso di fondi aperti). Ove vengano meno i requisiti di partecipazione, gli statuti e i regolamenti stabiliscono il trasferimento ad altra forma pensionistica complementare alla quale il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività. In alternativa, è consentito il riscatto (parziale o totale, a seconda che l’attività lavorativa cessi o meno definitivamente).

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In caso di morte dell’aderente ad una forma pensionistica complementare prima della maturazione del diritto alla prestazione pensionistica, l’intera posizione individuale maturata è riscattata dagli eredi ovvero dai diversi beneficiari dallo stesso designati, siano essi persone fisiche o giuridiche. In mancanza di tali soggetti, la posizione, limitatamente alle forme pensionistiche complementari di cui all’art. 13, viene devoluta a finalità sociali secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Nelle altre forme pensionistiche complementari, la suddetta posizione resta acquisita al fondo pensione. Decorsi due anni dalla data di partecipazione ad una forma pensionistica complementare, l’aderente ha comunque facoltà di trasferire l’intera posizione individuale maturata ad altra forma pensionistica. Gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche devono prevedere esplicitamente la predetta facoltà e non possono contenere clausole che risultino, anche di fatto, limitative del suddetto diritto alla portabilità dell’intera posizione individuale.

1.5. La vigilanza sulla previdenza complementare La vigilanza sulla previdenza complementare spetta, in via principale, alla COVIP. La Commissione esercita i compiti ad essa attributi “in conformità agli indirizzi generali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, e ferma restando la vigilanza di stabilità esercitata dalle rispettive autorità di controllo sui soggetti abilitati di cui all’articolo 6, comma 1”: essa, dunque, è dotata di un grado di autonomia minore rispetto a quanto caratterizza altre Autorità di settore. A conferma di ciò, l’art. 18, comma 1 prevede che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali vigila sulla COVIP ed esercita l’attività di alta vigilanza sul settore della previdenza complementare, mediante l’adozione, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, di Direttive generali alla COVIP, volte a determinare le linee di indirizzo in materia di previdenza complementare. Nei limiti di quanto precede, in base all’art. 19 del Decreto, la COVIP dispone di articolati poteri, che si sono peraltro arricchiti con la riforma del 2005, la quale ha stabilito l’accentramento in capo alla citata Commissione di tutti i compiti di vigilanza sul settore, ivi compresi quelli precedentemente svolti da altre Autorità (ad esempio, dalla Consob, nell’ambito delle operazioni di offerta al pubblico delle quote di fondi aperti).

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2. I soggetti operanti nel settore finanziario: gli intermediari finanziari non bancari Nell’ambito dei soggetti operanti sul mercato dei capitali, sottoposti a particolare disciplina, rientrano taluni soggetti che prestano attività o servizi finanziari non riservati in via esclusiva agli altri intermediari abilitati. La disciplina di questi intermediari finanziari si è stratificata nel tempo nel disposto di cui artt. 106 ss. TUB (Titolo V, D.Lgs. n. 385/1993) 10, dopo essere stata introdotta nel 1991, in occasione dell’emanazione della prima normativa c.d. “antiriciclaggio”. In origine, la regolamentazione dei cosiddetti soggetti “operanti nel settore finanziario” avrebbe dovuto rispondere essenzialmente a finalità di censimento dei soggetti: era, infatti, interesse del legislatore, nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata, ed al riciclaggio del denaro proveniente da attività illecite, disporre quantomeno di una “mappatura” completa dei soggetti operanti in ambito finanziario, essendo questo uno dei settori più critici nei quali le attività criminose potrebbero infiltrarsi. Alle regole originarie si è poi sostituito, con l’emanazione del TUB nel 1993, un sistema che tendeva, almeno in linea generale, a sottoporre i soggetti a vere e proprie forme di controllo e di vigilanza: ciò è soprattutto vero per i soggetti iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 TUB, nei confronti dei quali, alla luce del rischio sistemico connesso alla loro operatività, si applicavano norme in termini di vigilanza prudenziale, ispirate a modelli e soluzioni non lontani da quelli propri delle banche. Di converso, proprio questi ultimi soggetti vedevano ampliarsi la loro operatività, potendo essere autorizzati a prestare quantomeno alcuni servizi di investimento (v. supra). In origine, lo “spazio” occupato dai soggetti in questione era quello che non risultava già riservato in via esclusiva ad altri soggetti abilitati. L’originaria formulazione dell’art. 106 TUB identificava in positivo le attività che tali soggetti svolgevano, e segnatamente: – l’assunzione di partecipazioni; – la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma; – la prestazione di servizi di pagamento; – l’intermediazione in cambi. La materia è stata oggetto di profonde modifiche intervenute a partire dal 2010. In particolare, per effetto del recepimento, in Italia, delle Direttive comunitarie in materia di istituti di pagamento (artt. 114-sexies ss. TUB, introdotti dal D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11), sì è reso necessario espungere, dall’elenco di cui all’art. 106 TUB, l’attività di prestazione di servizi di pagamento, ormai 10

V. TROIANO (2005).

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analiticamente regolata dal Titolo V ter TUB in relazione ai vari soggetti ivi declinati (Banche, IMEL, Istituti di pagamento). Quanto alle altre tre attività, il legislatore ha ritenuto opportuno mantenere e, per certi versi, rafforzare, la disciplina applicabile ai soggetti che svolgono attività di concessione di finanziamenti, i quali ultimi restano assoggettati agli artt. 106 ss. TUB (cfr. D.Lgs. n. 141/2010). Le altre due attività sono state, invece, espunte dal perimetro dell’art. 106. In particolare, l’attività in valute è stata “attratta”, da un lato, nella disciplina dei servizi di investimento (in virtù dell’ampliarsi della nozione di strumento finanziario), dall’altro, nell’ambito della riserva di attività di cambiavalute (i.e. negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta) ex art. 17-bis, D.Lgs. n. 141/2010. Quanto all’attività di assunzione di partecipazioni, essa è stata sostanzialmente derubricata, fuoriuscendo di per sé dal perimetro di attività vigilate, salva l’eventualità in essa sia da ricondursi al fenomeno della gestione collettiva (cfr. quanto precisato nel Capitolo IX). In definitiva, l’unica che oggi risulta disciplinata – nelle sue varie configurazioni – dagli artt. 106 e ss. TUB è rappresentata dalla concessione di finanziamenti, sotto qualsiasi forma: tale attività, se svolta nei confronti del pubblico, è riservata agli intermediari finanziari non bancari iscritti in un apposito e unico albo tenuto dalla Banca d’Italia, e sottoposti alla disciplina emanata da quest’ultima in attuazione dei richiamati articoli del Testo Unico Bancario, che ormai ricalcano, in maniera esplicita, gli schemi tipici di vigilanza previsti per le banche 11 (c.d. principio della “vigilanza equivalente”). 11

Per approfondire si precisa che l’art. 2, D.M. n. 53/2015 prevede quanto segue: “1. Per attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma si intende la concessione di crediti, ivi compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma. Tale attività comprende, tra l’altro, ogni tipo di finanziamento erogato nella forma di: a) locazione finanziaria; b) acquisto di crediti a titolo oneroso; c) credito ai consumatori, così come definito dall’articolo 121, TUB.; d) credito ipotecario; e) prestito su pegno; f) rilascio di fideiussioni, avallo, apertura di credito documentaria, accettazione, girata, impegno a concedere credito, nonché ogni altra forma di rilascio di garanzie e di impegni di firma. 2. Non costituisce attività di concessione di finanziamenti, oltre ai casi di esclusione previsti dalla legge: a) l’acquisto dei crediti di imposta sul valore aggiunto relativi a cessioni di beni e servizi nei casi previsti dalla normativa vigente; b) l’acquisto, a titolo definitivo, di crediti da parte di società titolari della licenza per l’attività di recupero stragiudiziale di crediti ai sensi dell’articolo 115 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza quando ricorrono le seguenti condizioni: 1) i crediti sono acquistati a fini di recupero e sono ceduti da: i) banche o altri intermediari finanziari sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, i quali li hanno classificati in sofferenza, ovvero ii) soggetti diversi da quelli indicati al punto i), purché si tratti di crediti vantati nei confronti di debitori che versano in stato di insolvenza, anche non accertato giudizialmente, o in situazioni sostanzialmente equiparabili, secondo quanto accertato dai competenti organi sociali; non rileva, a tal fine, l’esistenza di garanzie reali o personali; 2) i finan-

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In tale ambito, gli intermediari iscritti nell’albo di cui all’art. 106 TUB possono essere autorizzati a prestare anche servizi di investimento e, segnatamente i servizi di esecuzione di ordini – limitatamente agli strumenti finanziari derivati – nonché il servizio di collocamento con o senza garanzia (cfr. art. 18, comma 3, TUF), e, da ultimo, in virtù delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 45/2012, l’emissione di moneta elettronica e i servizi di pagamento. Appare evidente, da quanto precede, che è indispensabile individuare con sufficiente precisione quando l’attività di cui all’art. 106 TUB si consideri svolta “nei confronti del pubblico”, giacché è questo l’elemento che comporta, da un lato, l’assoggettamento alla disciplina speciale e, dall’altro, rende possibile – nei casi previsti – ai relativi soggetti la prestazione di alcuni servizi di investimento. Riemerge, dunque, il problema dell’individuazione della nozione di “pubblico”, che abbiamo già avuto modo di affrontare, ad esempio, in relazione alla disciplina dei servizi di investimento 12. La soluzione del problema è affidata alla normazione secondaria: l’art. 106, comma 3 prevede, infatti, che il Ministro dell’economia e delle finanze specifichi il contenuto delle attività svolte dai soggetti operanti nel settore finanziario, nonché “in quali circostanze ricorra l’esercizio nei confronti del pubblico”. In tale prospettiva, l’art. 3, D.M. n. 53/2015 dispone che l’attività di concessione di finanziamenti si considera esercitata nei confronti del pubblico qualora sia svolta “nei confronti di terzi con carattere di professionalità”; precisando, inoltre, che non si configura operatività nei confronti del pubblico, segnatamente per: a) tutte le attività esercitate esclusivamente nei confronti del gruppo di appartenenza ad eccezione dell’attività di acquisto di crediti vantati nei confronti di terzi da intermediari finanziari del gruppo medesimo; b) l’acquisto di crediti vantati da terzi nei confronti di società del gruppo di appartenenza; c) l’attività di rilascio di garanzie, di cui all’art. 2, comma 1, lett. f) del D.M., quando anche uno solo tra l’obbligato garantito e il beneficiario della garanzia faccia parte del medesimo gruppo del garante; d) i finanziamenti concessi, sotto qualsiasi forma, da produttori di beni e servizi o da società del gruppo di appartenenza, a soggetti appartenenti alla medesima filiera produttiva o distributiva del bene o del servizio quando ricorrano le seguenti condizioni: ziamenti ricevuti da terzi dalla società acquirente non superano l’ammontare complessivo del patrimonio netto; 3) il recupero dei crediti acquistati avviene senza la stipula di nuovi contratti di finanziamento con i debitori ceduti, la novazione di quelli in essere, la modifica delle condizioni contrattuali; non rilevano a tali fini l’estinzione anticipata e la posticipazione dei termini di pagamento”. 12 VOLPE (2000).

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1) i destinatari del finanziamento non siano consumatori ai sensi dell’art. 121, TUB, né utilizzatori finali del bene o servizio; 2) il contratto di finanziamento sia collegato a un contratto per la fornitura o somministrazione di beni o servizi, di natura continuativa ovvero di durata non inferiore a quella del finanziamento concesso; e) i finanziamenti concessi da un datore di lavoro o da società del gruppo di appartenenza esclusivamente ai propri dipendenti o a coloro che operano sulla base di rapporti che ne determinano l’inserimento nell’organizzazione del datore di lavoro, anche in forma diversa dal rapporto di lavoro subordinato, al di fuori della propria attività principale, senza interessi o a tassi annui effettivi globali inferiori a quelli prevalenti sul mercato; f ) le attività di concessione di finanziamenti poste in essere da società costituite per singole operazioni di raccolta o di impiego e destinate a essere liquidate una volta conclusa l’operazione, purché le limitazioni dell’oggetto sociale, delle possibilità operative e della capacità di indebitamento risultino dalla disciplina contrattuale e statutaria della società ed essa sia consolidata integralmente nel bilancio consolidato della capogruppo di un gruppo bancario, finanziario o di SIM.

3. Le società per la cartolarizzazione dei crediti Un breve cenno deve ora essere dedicato ai soggetti che ricadono nell’applicazione della legge 30 aprile 1999, n. 130, recante disposizioni sulla “cartolarizzazione dei crediti” 13. Le operazioni di cartolarizzazione consentono di smobilizzare un portafoglio di crediti, finanziando tale operazione mediante ricorso al mercato dei capitali: i crediti vantati da un soggetto (ad esempio: un’impresa, o una banca) vengono ceduti ad un altro soggetto, che finanzia l’acquisizione mediante l’emissione di appositi strumenti finanziari. In particolare, le risorse raccolte mediante gli strumenti finanziari emessi a fronte dell’operazione vengono destinate al pagamento del corrispettivo della cessione; gli importi pagati dai debitori vengono destinati al rimborso degli strumenti finanziari emes13 Nel 2005 la legge si è arricchita di un nuovo art. 7-bis, che regola l’emissione delle cc.dd. “obbligazioni garantite” e con il D.L. n. 91/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 116/2014 si è data alle società per la cartolarizzazione, tra l’altro, la possibilità di concedere finanziamenti a determinate condizioni (art. 1, comma 1-ter). Da ultimo deve segnalarsi l’inserimento del nuovo art. 7.1 ad opera del D.L. n. 50/2017, convertito con modificazioni dalla legge n. 96/2017, col quale viene consentito alle società di cartolarizzazioni di convertire direttamente i crediti deteriorati in portafoglio in strumenti finanziari (equity), ovvero – sebbene indirettamente – di detenere e gestire gli immobili posti a garanzia di quei crediti.

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si a fronte dell’operazione, dei proventi previsti (ad esempio: interessi periodici), e al pagamento dei costi dell’operazione (art. 1, comma 1). Per tale via, il cedente ottiene l’anticipazione dell’incasso dei crediti; il cessionario raccoglie le risorse finanziarie necessarie sul mercato dei capitali. Può, peraltro, verificarsi il caso in cui il cessionario e l’emittente i titoli siano soggetti distinti, essendo i loro rapporti regolati da una convenzione interna. Ai sensi dell’art. 3 della legge n. 130/1999, i crediti relativi a ciascuna operazione (sia i crediti vantati nei confronti del debitore o dei debitori ceduti, sia ogni altro credito maturato dalla società per la cartolarizzazione) costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alle altre operazioni; su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi. Non sono ammesse, altresì, azioni da parte di soggetti diversi da questi ultimi sui conti delle società che partecipano all’operazione di cartolarizzazione (società cedente, cessionaria o emittente dei titoli), aperti presso la banca depositaria ovvero presso i soggetti incaricati della riscossione dei crediti ceduti e dei servizi di cassa e di pagamento, nonché ogni altra somma pagata o comunque di spettanza della società ai sensi delle operazioni accessorie condotte nell’ambito di ciascuna operazione di cartolarizzazione o comunque ai sensi dei contratti dell’operazione. Diversamente, sono ammesse azioni da parte dei creditori sui conti correnti dove vengono accreditate le somme incassate per conto delle società che partecipano all’operazione di cartolarizzazione solo per l’eccedenza delle somme incassate e dovute a tali società. Si ritrova, dunque, una nuova applicazione del principio di separazione, che abbiamo già visto esplicitato in relazione sia alla gestione collettiva del risparmio, sia ai servizi di investimento. La legge regola espressamente le modalità e l’efficacia della cessione, stabilendo che alle relative operazioni si applica l’art. 58, commi 2, 3 e 4, TUB (cessione di rapporti giuridici a banche) 14, e regolando conseguentemente l’opponibilità a terzi dell’operazione mediante pubblicazione di apposito avviso nella Gazzetta Ufficiale 15. In particolare, dalla data di pubblicazione di tale avviso, la cessione dei crediti è opponibile: a) agli altri aventi causa del cedente, il cui titolo di acquisto non sia stato reso efficace verso i terzi in data anteriore;

14 Ovvero, su espressa volontà delle parti, il disposto dell’art. 5, commi 1, 1-bis e 2 della legge n. 52/91 (legge “factoring”). 15 L’art. 58, comma 2, TUB prevede che “la banca cessionaria dà notizia dell’avvenuta cessione mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. La Banca d’Italia può stabilire forme integrative di pubblicità”.

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b) ai creditori del cedente che non abbiano pignorato il credito prima della pubblicazione della cessione. L’operazione può avere ad oggetto crediti pecuniari, sia esistenti sia futuri, individuabili in blocco se trattasi di una pluralità di crediti. Gli strumenti emessi a fronte dell’operazione sono qualificati come “strumenti finanziari” (integrando così l’elenco formulato dall’art. 1, comma 2, TUF); la loro diffusione presso gli investitori deve essere preceduta dalla predisposizione di un prospetto informativo. Nel caso in cui l’offerta sia limitata ad investitori professionali, il prospetto è comunque richiesto, in deroga alla disciplina generale delle operazioni di offerta al pubblico: la legge si preoccupa inoltre di stabilirne il contenuto minimo obbligatorio (art. 2). Nel caso in cui l’offerta sia rivolta ad investitori non professionali, l’operazione deve anche essere sottoposta alla valutazione del merito del credito da parte di operatori terzi (c.d. rating): ciò al fine di consentire al pubblico di disporre del giudizio professionale di un terzo soggetto indipendente sull’operazione stessa 16. Per lo svolgimento delle operazioni di cartolarizzazione, è richiesto l’intervento di apposite società: più precisamente, la società cessionaria, o la società emittente gli strumenti finanziari se diversa dalla società cessionaria, devono avere per oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei crediti. È opportuno porre in luce, infine, che – in teoria – le operazioni di cartolarizzazione possono essere realizzate anche mediante il ricorso allo schema della gestione collettiva del risparmio. Gli OICR possono, infatti, avere per oggetto, tra l’altro, anche l’investimento in crediti: un risultato analogo a quello raggiunto mediante la società di cartolarizzazione può pertanto essere ottenuto tramite l’istituzione di un fondo di investimento, destinato ad acquisire i crediti oggetto della cessione 17. La soluzione potrebbe discendere in parte già dalla disciplina della gestione collettiva del risparmio, ma è confermata e ribadita dalla legge n. 130/1999, la quale prevede, a tal proposito, che le relative disposizioni si applichino anche alle operazioni realizzate mediante cessioni a fondi comuni di investimento, aventi ad oggetto l’investimento in crediti. Lo schema dell’OICR, però, mal si adatta al fenomeno della cartolarizzazione, in quanto l’attività di gestione propria di tali organismi è tendenzialmente dinamica, là dove – di contro – le società di cartolarizzazione svolgono un’attività statica, che si limita alla detenzione delle posizioni creditorie acquisite per effetto della cartolarizzazione. Sull’onda lunga della crisi finanziaria e del gravoso problema dei non-performing loans delle banche, la legge n. 130/1999 è stata recentemente oggetto 16

I requisiti dei soggetti incaricati della valutazione sono stabiliti dalla Consob con proprio regolamento (art. 2, comma 5). 17 V. MAUGERI (2000); GENTILE (2000).

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di un intervento di modifica 18, che rappresenta uno dei tanti asseriti rimedi con i quali il legislatore sta cercando di affrontare tale questione. In particolare, viene ora consentito alle società di cartolarizzazione-SPV (Special Purpose Vehicle) di “acquisire o sottoscrivere azioni, quote e altri titoli e strumenti partecipativi derivanti dalla conversione di parte dei crediti”. Dall’altro lato, si chiarisce che la SPV può “concedere finanziamenti al fine di migliorare le prospettive di recupero dei crediti oggetto di cessione e di favorire il ritorno in bonis del debitore ceduto”. A riguardo, con un’evidente ottica di favore, vengono dichiarate inapplicabili le disposizioni di cui agli artt. 2467 e 2497-quinquies del codice civile (disciplina della postergazione dei finanziamenti soci). Le modifiche hanno sollevato giuste perplessità tra i primi commentatori, in quanto di fatto snaturano la funzione tipicamente “statica” degli SPV di cartolarizzazione, e rischiano di aggravare il rischio di confusione con l’attività (riservata) di gestione collettiva del risparmio 19.

18 19

V. sopra nota 1. V. CARRIÈRE (2017).

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CAPITOLO XIII I SISTEMI DI NEGOZIAZIONE SOMMARIO: 1. Un po’ di Storia: dal recepimento della Direttiva 93/22/CEE, alla privatizzazione dei mercati borsistici, alla MiFID II. – 2. La vigilanza sui sistemi di negoziazione. – 3. I mercati regolamentati. – 3.1. Il regolamento di gestione dei mercati. – 4. I sistemi multilaterali di negoziazione. – 5. I sistemi organizzati di negoziazione. – 6. I servizi di comunicazione dati. – 7. I mercati regolamentati italiani. – 7.1. I comparti della Borsa. – 7.2. La quotazione ufficiale. – 7.2.1. La procedura di ammissione a quotazione. – 7.2.2. Sospensione, revoca ed esclusione dalle negoziazioni. – 7.3. L’ammissione degli intermediari al mercato. – 7.4. L’attività di negoziazione. – 7.5. La risoluzione delle controversie tra la Borsa e i soggetti ammessi. – 8. Mercati e regole di trasparenza. – 9. La c.d. “trading obligation”. – 10. La negoziazione algoritmica. – 11. Il Regolamento EMIR.

1. Un po’ di Storia: dal recepimento della Direttiva 93/22/CEE, alla privatizzazione dei mercati borsistici, alla MiFID II La disciplina dei mercati regolamentati ha subito, nell’arco degli ultimi vent’anni anni, trasformazioni epocali. Vale la pena ripercorrere brevemente le tappe di questa evoluzione, che prende avvio all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, e che conduce sino alle grandi innovazioni introdotte dalla MiFID. Come abbiamo già ricordato, uno dei fenomeni più rilevanti conseguenti al recepimento della prima Direttiva sui servizi di investimento del 1993 (Direttiva 93/22/CEE) – avvenuto nel 1996 – fu, indubbiamente, la radicale trasformazione della disciplina dei mercati regolamentati, per i quali si assiste così ad una vera e propria integrale “rifondazione” delle regole di funzionamento e dei relativi assetti istituzionali 1. L’impulso alla revisione della disciplina interna si produce, in occasione del recepimento della Direttiva del 1993, per effetto dell’introduzione della disciplina del mutuo riconoscimento, che la Direttiva applica non soltanto agli intermediari, ma anche ai mercati. La qualificazione di un mercato come “rego1

V. la diffusa analisi di MOTTI (1999).

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lamentato” in uno Stato membro ne comporta, infatti, la possibile estensione di operatività negli altri Paesi dell’Unione Europea. Con il recepimento della Direttiva 93/22/CEE si assiste ad una prima radicale trasformazione degli assetti dei mercati, che – in Italia e in altri Paesi – tendono sempre di più a diventare soggetti “privati”: vere e proprie imprese, dunque, pur sottoposte a forme, diversamente articolate, di controlli pubblici. Tradizionalmente, prima del recepimento della Direttiva, in ambito europeo, la disciplina dei mercati borsistici poteva ricondursi a due modelli principali, che – in termini forse un po’ semplicistici, ma efficaci – potrebbero definirsi come modelli di stampo “pubblicistico” e “privatistico”. Il primo è tipico dei Paesi dell’Europa continentale, mentre il modello privatistico è tipico del Regno Unito; il primo modello, quello pubblicistico, poggia sul presupposto che la Borsa sia un mercato “ufficiale”, istituito per legge, o per provvedimento amministrativo, gestito e controllato da Autorità pubbliche, generalmente operante in regime di monopolio 2. La disciplina della Borsa è, pertanto, di impronta pubblicistica; sono il diritto amministrativo e pubblico che, in gran parte, regolano il funzionamento e l’istituzione della Borsa 3. Conseguenza inevitabile di questa impostazione è la sottoposizione dei mercati borsistici a pregnanti controlli pubblici. Diversa era, invece, l’impostazione seguita nei sistemi basati sul modello privatistico, prevalentemente riconducibile al sistema inglese. La Borsa, in questo caso, si configura non già come un mercato “pubblico”, ma come una istituzione privata, operante sulla base del ricorso più o meno ampio a forme di autoregolamentazione. Anche i meccanismi sanzionatori previsti in ipotesi di violazione delle regole disciplinanti il mercato riflettono e risentono della natura essenzialmente privata dei mercati stessi. A fronte di una storica ed evidente contrapposizione tra i due modelli, negli anni immediatamente antecedenti all’emanazione dell’anzidetta Direttiva, da più parti si avverte l’esigenza di un parziale avvicinamento degli stessi. È, infatti, evidente che entrambi i modelli presentano pregi e difetti: il modello pubblicistico ha l’inevitabile limite di essere più rigido nelle sue regole di funzionamento, affidate ai formalismi delle norme pubblicistiche, ma sembra – almeno apparentemente – offrire un più forte presidio (pubblico) sul corretto funzionamento dello stesso, e sulle sanzioni in ipotesi di inosservanza delle regole. Il modello privatistico si presenta, di contro, assai più snello in punto di regolamentazione: sono infatti gli stessi aderenti al mercato che si danno le regole che 2 L’art. 1, R.D. 4 agosto 1913, n. 1068, riservava la denominazione di “Borsa di commercio” o di “Borsa di valori”, o “Mercato di valori”, o altra consimile, alle Borse esclusivamente istituite ai sensi di legge. 3 Per un esame dell’evoluzione storica della disciplina v. BAIA CURIONI (1995). V. anche SABATINI (1998); SEPE (1998).

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ritengono più adatte, e che le modificano in funzione di nuove esigenze. D’altro canto, in un modello prettamente privatistico, l’efficacia delle regole può essere limitata, se l’autoregolamentazione non è assistita da efficaci meccanismi sanzionatori, condivisi da una solida coscienza del “gruppo”. L’esigenza di avvicinare i due modelli comporta innanzitutto l’avvio di un processo di progressiva “privatizzazione” dei mercati nei Paesi più aderenti al modello pubblicistico; d’altro canto, il modello privatistico viene in parte superato attraverso l’introduzione di forme di controllo pubblico. Anche l’Italia è interessata dal fenomeno, che prende avvio proprio nel 1996, con il recepimento della Direttiva 93/22/CEE. Il processo, in questo caso, si realizza attraverso la “trasformazione” della Borsa in una società per azioni, con abbandono della forma dell’ente pubblico. L’impianto pubblicistico non viene, però, totalmente superato: le società di gestione dei mercati regolamentati italiani sono, infatti, sì società per azioni, partecipate e gestite da soggetti privati, ma esse sono sottoposte a pervasivi controlli pubblici, giustificati in base all’interesse generale, costituzionalmente protetto, della tutela del risparmio 4. Pur in presenza di uno schema parzialmente “misto”, in cui convivono profili di controllo pubblico, e di regolazione privata dei mercati, appare tuttavia evidente che l’accento prioritario cade, nel nuovo regime, su quelli privatistici: l’attività di organizzazione e gestione dei mercati è definita attività “di impresa”, anche con scopo di lucro (art. 61 TUF nella sua originaria formulazione); il suo svolgimento è riservato a società per azioni appositamente autorizzate, al cui capitale partecipano soggetti privati; l’attività non viene più esercitata in regime di monopolio, ma può essere svolta, in regime di concorrenza, da più soggetti: in quanto tale, all’attività di gestione e organizzazione dei mercati può applicarsi anche la disciplina antitrust, con tutto ciò che ne consegue 5. Può essere interessante, nel nuovo quadro che è venuto a determinarsi, chiedersi cosa rappresenti, sotto il profilo giuridico, il “mercato”, e in che cosa si sostanzi la partecipazione al mercato da parte degli intermediari o degli emittenti. Nello schema tradizionale, l’accesso al mercato avveniva sulla base di un’autorizzazione pubblica. In uno schema “privatistico” tale soluzione non ha più ragione d’essere; la partecipazione al mercato non è, infatti, più frutto di un provvedimento amministrativo, ma deriva da un atto di natura privata, che, in realtà, altro non rappresenta se non un contratto che viene stipulato tra il soggetto (intermediario o emittente) e la società di gestione del mercato. Ovviamente, la persistenza di elementi di controllo e di vigilanza pubblica sui mercati, e la stessa posizione in cui si trova la società di gestione del mercato, connotano tale “contratto” di elementi particolari: in primo luogo, infatti, il “contenuto” del contratto risulta in realtà predeterminato unilateralmente dal4 5

Cfr. le considerazioni di RUBINO DE RITIS-PISANI (2002). V. MOTTI (1997); COSTI (2000-II).

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la società di gestione; la seconda particolarità è che le caratteristiche di tale contratto non sono neppure liberamente determinabili dalla società di gestione, essendo sottoposte al controllo dell’Autorità di vigilanza. Più precisamente, l’ammissione al mercato avviene sulla base delle norme contenute nel Regolamento del mercato stesso, che viene predisposto dalla società di gestione, ma che è sottoposto al vaglio dell’Autorità pubblica. L’assetto raggiunto con il recepimento della Direttiva del 1993, e l’emanazione del TUF, ha subito ulteriori evoluzioni, per effetto del recepimento della MiFID. L’impostazione di fondo della MiFID è nel senso di riconoscere, ed equiparare, mercati regolamentati e sistemi alternativi di negoziazione, eliminando – al contempo – l’obbligo di concentrazione delle operazioni in borsa, ancora in essere in alcuni Paesi dell’Unione Europea. A tal fine, la Direttiva – come si è avuto modo di rilevare – introduce e disciplina una nuova tipologia di servizio (recte: di attività) di investimento, rappresentato dall’attività di gestione dei sistemi multilaterali di negoziazione (Multilateral Trading Facilities – MTF), e prevede altresì la figura del c.d. “internalizzatore sistematico”, quale canale per l’esecuzione degli ordini equipollente ai primi due 6. Per quanto riguarda i mercati regolamentati, la conseguenza più immediata di tale impostazione è, ovviamente, la perdita del loro regime di monopolio, giacché – per gli investitori e gli intermediari – le transazioni potranno liberamente avvenire sui mercati stessi, o al di fuori di tali mercati, su altri circuiti, tendenzialmente a parità di condizioni e in regime di libera concorrenza tra le diverse forme e sistemi. Alla luce di quanto sopra, vi è dunque da chiedersi se, nel contesto della MiFID, la disciplina dei “mercati regolamentati” abbia mantenuto effettivamente una sua specificità. Apparentemente, la risposta potrebbe essere negativa: è chiaro, infatti, che il riconoscimento e la parificazione ai mercati regolamentati dei sistemi multilaterali di negoziazione e degli internalizzatori sistematici assottiglia, di fatto, la classica distinzione tra “intermediari” e “mercati” che da sempre caratterizza la disciplina del mercato dei capitali. I sistemi multilaterali, inoltre, possono essere gestiti sia dai gestori di mercati regolamentati, sia da intermediari abilitati: si tratta, dunque, di un’attività che si colloca, ormai, perfettamente “a cavallo” tra la disciplina dei mercati, e quella degli intermediari. È proprio in questa prospettiva, tra l’altro, che la MiFID prevede l’assoggettamento dei mercati regolamentati a regole “costitutive” (requisiti dei soggetti gestori, norme di organizzazione, ecc.) in senso lato “modellate” su quelle proprie degli intermediari. Tuttavia, la nozione di mercato regolamentato mantiene tuttora una valenza specifica: più precisamente, i veri e propri “mercati regolamentati” sono quelli che conferiscono agli emittenti lo status di emittente quotato, al fine dell’appli6

V. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 260 ss.

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cazione di particolari discipline (ad esempio: OPA; tutela delle minoranze; corporate governance; obblighi informativi, ecc.). Si può, dunque, pur sempre parlare di mercati “ufficiali”, anche dopo il recepimento della Direttiva: tali saranno i mercati regolamentati che rispettano i requisiti previsti per i mercati regolamentati, e con riferimento ai quali si applicano particolari discipline, volte ad assicurare l’integrità e il buon funzionamento dei mercati stessi secondo standard particolarmente elevati. È, però, evidente che la qualificazione di un mercato come “regolamentato” non sottende più alcuna posizione di “monopolio” o di “riserva” nel contesto della disciplina MiFID. Con MiFID II la disciplina dei mercati subisce un nuovo impulso: si assiste, in primo luogo, al ridisegno della mappa delle trading venues là dove, da un lato, gli internalizzatori sistematici non sono più ricompresi in tale ambito e, dall’altro, si introduce una nuova fattispecie denominata “sistema multilaterale di negoziazione”. In secondo luogo, vengono rivisti numerosi elementi che attengono al funzionamento delle trading venues, anche per tener conto dell’evoluzione tecnologica e delle tecniche di negoziazione, come ad esempio il c.d. “high frequency trading”. Vengono altresì introdotte regole specifiche per i servizi di comunicazione dati e, soprattutto, viene re-introdotta una sorta di regola di concentrazione delle operazioni sulle trading venues, denominata “trading obligation”.

2. La vigilanza sui sistemi di negoziazione I vari sistemi di negoziazione sono sottoposti, nella nuova architettura del TUF risultante dal recepimento di MiFID II, a regole differenziate per quanto attiene alla vigilanza. Tali regole – che comunque ruotano essenzialmente attorno alle attribuzioni riconosciute alla Consob e alla Banca d’Italia, a seconda dei casi – sono segmentate in funzione, da un lato, della tipologia di trading venue e, dall’altro, in funzione di particolari caratteristiche della stessa. Fermo il richiamo ai principi generali sui quali si articola la vigilanza nel sistema del TUF, con particolare riguardo alla ripartizione funzionale delle competenze tra le due Autorità (art. 61), l’art. 62 assegna comunque alla Consob il compito di vigilare sulle sedi di negoziazione, fermi i poteri e le attribuzioni spettanti alla Banca d’Italia in base alla Parte II del TUF: in tale contesto, la Consob vigila al fine di assicurare la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori. La vigilanza della Consob può essere molto pervasiva: non si limita, infatti, ad insistere sui soggetti gestori, ma investe anche le regole che presiedono al funzionamento delle sedi stesse. Inoltre la Consob, in caso di necessità e urgenza, può anche giungere a sostituirsi al gestore di un mercato regolamentato (art. 62, commi 3 e 4, ove si disciplina la relativa

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procedura di urgenza). Nel quadro di base disegnato dal TUF, a Consob e Banca d’Italia sono attribuiti poteri che rispecchiano – mutatis mutandis – la struttura di base della vigilanza nei riguardi degli intermediari: si rinvengono, così, poteri informativi e di indagine (art. 62-octies), poteri ispettivi (art. 62novies), poteri di intervento (art. 62-decies). Diverso è l’assetto per le sedi di negoziazione all’ingrosso di titoli di Stato: in tal caso, il Ministero dell’economia e delle finanze, sentite Consob e Banca d’Italia, può stabilire requisiti specifici per i mercati e per i relativi gestori. La vigilanza spetta alla Banca d’Italia, ma ferme le competenze e i poteri della Consob ai sensi del TUF: le finalità della vigilanza su tali mercati sono comunque analoghe a quelle già viste. In ogni caso, e posto il fatto che il riparto delle competenze non è certo individuato in termini chiari dall’art. 62-ter, il comma 4 dello stesso articolo affida alla Consob e alla Banca d’Italia il compito di stipulare un protocollo d’intesa per definire e coordinare i rispettivi ambiti di intervento. Con riguardo a tutte le sedi di negoziazione all’ingrosso, la Banca d’Italia stabilisce gli obblighi informativi e di comunicazione dei gestori nei propri confronti. Ulteriori competenze sono declinate dall’art. 62-quater, e attribuite alla Consob, al Ministro dell’economia e delle finanze e alla stessa Banca d’Italia. Regole particolari si applicano alle sedi di negoziazione di strumenti finanziari derivati sull’energia e il gas (art. 62-sexies). In linea di principio, trattandosi comunque di mercati di strumenti finanziari, i mercati sui derivati dell’energia e del gas sono sottoposti alle disposizioni in genere applicabili agli altri mercati regolamentati: tuttavia, è previsto che – nei casi contemplati dall’art. 62-sexies TUF – la Consob condivida i propri poteri con l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico. In ultima istanza, la disciplina contempla anche un possibile intervento del Ministero dello sviluppo economico, al quale l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas è tenuta a comunicare le irregolarità riscontrate sul mercato che possono incidere sul funzionamento dei mercati fisici dei prodotti sottesi, nonché sulla sicurezza e sull’efficiente funzionamento delle reti nazionali di trasporto dell’energia elettrica e del gas (comma 6). Un altro comparto sul quale la vigilanza segue regole specifiche è quello dei sistemi multilaterali di scambio di depositi monetari in euro (art. 62-septies): per evidenti ragioni, in questo caso, la vigilanza e i poteri di intervento sono affidati alla Banca d’Italia (art. 62-septies). Nel complesso, l’architettura della vigilanza sui mercati, nel contesto del TUF può sembrare bizantina: essa si sforza di rimanere fedele all’articolazione base dei poteri di vigilanza tra Banca d’Italia e Consob, ma presenta numerose varianti. Si tratta, peraltro, di un’impostazione che da sempre connota la disciplina delle trading venues nel contesto del Testo Unico, e che si giustifica a causa delle specificità che, inevitabilmente, caratterizzano particolari mercati, anche alla luce delle interconnessioni inevitabili che si pongono tra regole di

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mercato, da un lato, e regole dei settori sui quali quei mercati insistono (ad esempio, elettricità, gas, depositi monetari, ecc.).

3. I mercati regolamentati L’art. 64 del TUF 7 formula, per l’attività di gestione dei mercati regolamentati, una specifica scelta organizzativa, che peraltro richiama quella che – salvo eccezioni minori – riguarda anche la disciplina degli intermediari: l’attività in parola, infatti, può essere svolta soltanto da società per azioni, anche senza scopo di lucro. Nel contesto della disciplina dei mercati la scelta della società per azioni è stata giustificata in virtù della convinzione che tale forma si adatta meglio alla nuova struttura “privatistica” dei mercati. L’assenza dello scopo di lucro – che rappresentava, nel regime previgente, una conseguenza per così dire implicita e automatica nella stessa natura “pubblica” dei mercati – non rappresenta, peraltro, più in alcun modo un requisito implicito nell’organizzazione e nell’assetto dei mercati regolamentati: la relativa attività può dunque essere svolta anche secondo i canoni tipici dell’attività d’impresa, e lucrativa. Per lo svolgimento dell’attività di organizzazione e gestione dei mercati sono previsti requisiti in capo alla società di gestione che riecheggiano quelli enunciati dalla disciplina degli intermediari; al contempo, la disciplina primaria prevede rinvii alla normazione secondaria, alla quale spetta specificare le regole generali 8. Ai sensi dell’art. 64, comma 4, TUF, la Consob è quindi chiamata a stabilire, con proprio Regolamento, le attività connesse e strumentali che le società di gestione possono svolgere, nonché i requisiti generali di organizzazione del mercato. La norma riflette, con tutta evidenza, le analoghe regole in materia di “esclusività” dell’oggetto sociale degli intermediari, e risponde ad esigenze tanto di vigilanza sull’attività del soggetto, quanto di prevenzione degli eventuali conflitti di interessi. 7 A differenza del previgente art. 61 TUF, l’art. 64 non prevede più espressamente che l’attività di gestione di un mercato regolamentato è un’attività d’impresa. All’indomani dell’emanazione del TUF questa affermazione aveva una portata rivoluzionaria: si usciva, infatti, dalla fase di privatizzazione della borsa, ed era allora opportuno chiarire definitivamente che l’attività di organizzazione e gestione dei mercati regolamentati avrebbe ormai perso ogni qualificazione legata, o conseguente, alla tradizionale configurazione della stessa come “pubblico servizio”, per rientrare più direttamente nel novero delle attività economiche private (art. 2082 c.c.). Oggi, quella affermazione è immanente nel sistema, e non è dunque neppure più necessario ribadirla. 8 Si vedano altresì gli standard tecnici contenuti nel Regolamento (UE) 14 luglio 2016, n. 2017/584 che specifica i requisiti organizzativi delle sedi di negoziazione.

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Spetta al Ministro dell’economia e delle finanze, sempre analogamente a quanto previsto nella disciplina degli intermediari (artt. 13 e 14 TUF), stabilire – in base agli artt. 64-bis e 64-ter – i requisiti degli esponenti aziendali, e dei partecipanti al capitale 9. Anche queste disposizioni sono modellate su quelle rivenienti dalla disciplina degli intermediari, ma non senza differenze. In particolare, ai sensi del comma 3 dell’art. 64-bis, le informazioni sugli assetti proprietari e sulle relative modifiche sono trasmesse alla Consob dalla società di gestione. Nuovamente ripresa dalla disciplina degli intermediari è, poi, la questione delle conseguenze che si verificano nel caso di violazione del divieto di esercizio del diritto di voto, per le azioni acquistate in eccedenza rispetto alla soglia minima individuata in base ai commi 7, 8 e 9 dell’art. 64-bis. Con previsione, che non trova riscontro nella disciplina degli intermediari, è previsto che la Consob, entro 90 giorni dalla comunicazione da parte della società di gestione, possa opporsi ai cambiamenti negli assetti azionari delle società di gestione, qualora tali cambiamenti mettano a repentaglio la gestione sana e prudente del mercato (comma 5). Sempre con riferimento all’assetto proprietario della società di gestione, è opportuno rilevare che il TUF non ha dettato specifiche disposizioni relative ad una particolare composizione “qualitativa” del capitale. In altri termini, non sussistono limiti soggettivi alla partecipazione al capitale della società di gestione: chiunque (purché in possesso dei requisiti di onorabilità) potrà essere socio (anche di controllo) di una società di gestione dei mercati, potendo tale condizione essere limitata soltanto dalla previsione di particolari clausole statutarie che i soci stessi abbiano adottato. Allo stesso modo, non è previsto che, ad esempio, una determinata quota del capitale della società debba giocoforza appartenere ad una certa categoria di soggetti (ad esempio, gli intermediari ammessi alle negoziazioni). Un’indicazione in tal senso era invece contenuta nell’art. 56, comma 5, D.Lgs. n. 415/1996, il quale stabiliva che la maggioranza del capitale della società di gestione avrebbe dovuto appartenere, per l’appunto, ad intermediari: la previsione, però, riguardava soltanto la fase di privatizzazione dei mercati all’epoca esistenti, senza costituire un vincolo per il periodo successivo e, pertanto, non risulta ripresa dal TUF. Il tema, comunque, riemerge con riguardo all’organizzazione che le società di gestione devono darsi e, in particolare, in relazione agli assetti statutari e alle regole concernenti i conflitti di interessi.

9 Tale profilo non era, di contro, disciplinato dal D.Lgs. n. 415/1996, che si occupava unicamente dei requisiti di onorabilità dei partecipanti stessi.

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3.1. Il regolamento di gestione dei mercati Ai sensi dell’art. 64-quater TUF l’organizzazione e la gestione del mercato sono disciplinate da un Regolamento deliberato dall’assemblea ordinaria o dal consiglio di sorveglianza della società di gestione oppure, se ciò prevede lo statuto della società, anche dall’organo di amministrazione. Se però le azioni della stessa società di gestione del mercato sono quotate in un mercato regolamentato, il Regolamento va approvato dal consiglio di amministrazione, o dal consiglio di gestione della società, ciò al fine di ridurre il rischio di conflitti di interessi che, inevitabilmente, si porrebbe. La definizione del contenuto del Regolamento è affidata, innanzitutto, al rispetto dei criteri stabiliti dalla Consob 10, in conformità alla disciplina europea. Il TUF stabilisce, tuttavia, alcuni standard, che riflettono le pervasive regole derivanti dalla MiFID II. In particolare, il Regolamento deve soddisfare, nel suo complesso, gli standard volti ad assicurare la trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori. In tale contesto, il Regolamento del mercato deve inoltre determinare: a) le condizioni e le modalità di ammissione alle negoziazioni e di esclusione e sospensione dalle negoziazioni degli operatori; b) le condizioni e le modalità di ammissione alla quotazione e alle negoziazioni e di esclusione e sospensione dalla quotazione e dalle negoziazioni degli strumenti finanziari; c) le condizioni e le modalità per lo svolgimento delle negoziazioni e gli eventuali obblighi degli operatori e degli emittenti; d) le modalità di accertamento, pubblicazione e diffusione dei prezzi; e) i tipi di contratti ammessi alle negoziazioni nonché i criteri per la determinazione dei quantitativi minimi negoziabili; f) le condizioni e le modalità per la compensazione e il regolamento delle operazioni concluse sui mercati; g) le modalità di emanazione delle disposizioni di attuazione del regolamento da parte del gestore. La Consob approva le eventuali modifiche al regolamento del mercato (comma 6). I mercati regolamentati sono altresì sottoposti a pregnanti regole di organizzazione, declinate dall’art. 65 TUF, nel rispetto delle previsioni comunitarie in materia. Nonostante i limiti discendenti dalle disposizioni sopra richiamate, è possibile ravvisare nel Regolamento un atto di autonomia privata, avente natura 10 Cfr. l’art. 62, comma 1-quater per quanto attiene ai casi in cui tale potere spetta, invece, alla Banca d’Italia.

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negoziale. In primo luogo, infatti, il Regolamento è approvato dalla società di gestione, e più precisamente (come regola generale) dall’assemblea della stessa, e non è un atto amministrativo. In secondo luogo, l’adesione al mercato da parte di un intermediario – o di un emittente – comporta l’accettazione delle regole che disciplinano il mercato stesso, come formulate nel Regolamento approvato dalla società di gestione. Si assiste pertanto ad un meccanismo di formazione del contratto per “adesione”, sulla base di un testo predisposto unilateralmente dalla società di gestione. La natura contrattuale del Regolamento comporta, ovviamente, rilevanti conseguenze per quanto attiene al rapporto tra i soggetti ammessi al mercato e le società di gestione: ad esempio, eventuali controversie andranno risolte, anziché con gli strumenti propri del diritto pubblico – come tipicamente accade quando l’organizzazione e la gestione del mercato sono affidati a soggetti pubblici – con quelli del diritto privato, e dunque mediante ricorso all’Autorità giudiziaria ordinaria, o a procedimenti arbitrali. Al di là di tale specifico profilo, ne viene in realtà modificata la stessa prospettiva nella quale si inquadrano i rapporti tra gli operatori ammessi al mercato, ed il soggetto deputato alla sua gestione e organizzazione. La dinamica dei rapporti tra la società di gestione e gli operatori ammessi al mercato non è più quella che tipicamente caratterizza il soggetto privato nei suoi rapporti con la Pubblica amministrazione, ma è quella assai diversa che riguarda i rapporti tra due controparti contrattuali di cui una – la società di gestione del mercato – si trova sì in una condizione di “superiorità”, ma pur sempre nel senso in cui tale espressione deve intendersi quando ci si riferisce a rapporti di natura contrattuale, che intercorrono tra privati, anziché tra soggetti privati e soggetti pubblici 11. In tale prospettiva, pare essenziale porre in luce che il regolamento del mercato non è di per sé oggetto di autorizzazione da parte dell’Autorità di vigilanza. L’art. 64-quater, comma 3, TUF stabilisce, infatti, che la Consob autorizza l’esercizio dei mercati regolamentati, quando il regolamento del mercato è conforme alla disciplina comunitaria, ed è idoneo ad assicurare la trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori. L’oggetto dell’autorizzazione amministrativa è dunque espressamente riferito all’attività di “gestione” del mercato, e non al Regolamento in quanto tale, il che non fa altro che confermare l’ampio margine di autonomia della società di gestione nella predisposizione del Regolamento, e confermarne, al contempo, la natura privatistica 12. Va tuttavia osservato che l’art. 64-quater, comma 6, sottopone all’approvazione della Consob le modificazioni del regolamento del mer11

V. VENTORUZZO (2005). Cfr. SEPE (1998); COSTI (2006); RUBINO DE RITIS (2002). Più attenta alla permanenza nel sistema di profili pubblicistici la posizione di CAPRIGLIONE (1998), e quella di NAPOLETANO (1998), riferita ai mercati all’ingrosso di titoli di Stato. 12

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cato, creando così un’apparente asimmetria tra l’oggetto formale dell’autorizzazione iniziale alla gestione del mercato, e la fase successiva relativa ad eventuali modifiche al Regolamento. In realtà, vi è però da dire che, nella sostanza, in fase di rilascio dell’autorizzazione lo scrutinio della Consob si estende, inevitabilmente, anche al Regolamento. La Consob può revocare l’autorizzazione del mercato regolamentato quando: a) l’autorizzazione è stata ottenuta presentando false dichiarazioni o con qualsiasi altro mezzo irregolare; b) non sono più soddisfatte le condizioni cui è subordinata l’autorizzazione; c) sono state violate in modo grave e sistematico le disposizioni del TUF relative al mercato regolamentato o al gestore del mercato; d) abbia cessato di funzionare da più di sei mesi o rinunci espressamente all’autorizzazione. In analogia agli istituti previsti per gli intermediari, in caso di gravi irregolarità nella gestione del mercato regolamentato ovvero nell’amministrazione del gestore del mercato regolamentato e comunque quando lo richiede la tutela degli investitori, il Ministero dell’economia e delle finanze, su proposta della Consob, dispone lo scioglimento degli organi amministrativi e di controllo del gestore del mercato, nominando un commissario.

4. I sistemi multilaterali di negoziazione Introdotti, nel sistema comunitario, dalla prima Direttiva MiFID, i sistemi multilaterali di negoziazione sono assimilabili, sul piano della loro microstruttura, ai mercati regolamentati. Tale profilo emerge, con tutta evidenza, dalla definizione dell’art. 1, comma 5-octies del TUF, in base alla quale il sistema multilaterale di negoziazione (in inglese, Multilateral Trading Facility – MTF) è “un sistema multilaterale gestito da un’impresa di investimento o da un gestore del mercato che consente l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti conformemente alla parte II e alla parte III” 13. La differenza di base tra i due risiede, dunque, nel fatto che un MTF può essere gestito sia da una società di gestione di mercati regolamentati, sia da intermediari abilitati alla prestazione di servizi e attività di investimento. 13 Il mercato regolamentato è definito come un “sistema multilaterale amministrato e/o gestito da un gestore del mercato, che consente o facilita l’incontro, al suo interno e in base alle sue regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti relativi a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione conformemente alle sue regole e/o ai suoi sistemi, e che è autorizzato e funziona regolarmente e conformemente alla parte III” (art. 1, comma 1, lett. w-ter).

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Inoltre, i requisiti degli MTF sono in parte diversi e, per alcuni profili, meno pervasivi di quelli degli MTF. Infine, quando un MTF è organizzato e gestito da un intermediario (ad esempio, una banca o un’impresa di investimento), le regole che disciplinano il soggetto gestore (esponenti aziendali; partecipazioni rilevanti; capitale) discendono essenzialmente dalle norme del TUF in materie di intermediari, anziché da quelle che regolano i soggetti che gestiscono un mercato. Trattandosi di un’attività che, in sostanza, coincide con quella della gestione di un mercato regolamentato, i soggetti che intendono gestire un MTF sono sottoposti ad obblighi specifici. In base all’art. 65-bis TUF, il gestore di un sistema multilaterale di negoziazione dispone di: a) regole e procedure trasparenti che garantiscono un processo di negoziazione corretto e ordinato nonché di criteri obiettivi che consentono l’esecuzione efficiente degli ordini; b) misure per garantire una gestione sana dell’operatività del sistema, compresi dispositivi di emergenza efficaci per far fronte ai rischi di disfunzione del sistema; c) misure atte ad individuare puntualmente e a gestire le potenziali conseguenze negative per l’operatività dei sistemi da essi gestiti o per i loro membri o partecipanti e clienti di eventuali conflitti tra gli interessi del sistema multilaterale dei suoi proprietari, del gestore del sistema multilaterale di negoziazione e il sano funzionamento del sistema stesso; d) almeno tre membri o partecipanti o clienti concretamente attivi, ciascuno dei quali con la possibilità di interagire con tutti gli altri per quanto concerne la formazione dei prezzi. Sono inoltre richieste misure necessarie per favorire il Regolamento efficiente delle operazioni concluse nel MTF, ed obblighi informazione nei confronti dei membri o partecipanti o clienti delle rispettive responsabilità per quanto concerne il Regolamento delle operazioni effettuate nel sistema. Si osservi che queste previsioni si applicano anche ai sistemi organizzati di negoziazione (OTF – v. infra). Se la differenza tra MTF e mercati regolamentati si gioca, in primo luogo, sul piano dei soggetti che possono gestire gli uni e gli altri, la differenza tra MTF e OTF riguarda, invece, la discrezionalità, o meno nell’esecuzione degli ordini che affluiscono sulla trading venue: in particolare, gli MTF sono sistemi che eseguono le operazioni in modo non discrezionale, come risulta dalla definizione generale e anche dall’art. 65-ter del TUF, il quale ribadisce, per l’appunto, che un MTF deve soddisfare, tra altri, il requisito consistente nella previsione di “regole non discrezionali per l’esecuzione degli ordini nel sistema”. Nell’ambito degli MTF, MiFID II ha previsto un regime particolare per quei sistemi che si pongano l’obiettivo di agevolare l’accesso al mercato da parte delle piccole e medie imprese: si tratta dei cosiddetti “mercati di crescita per le

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PMI”, ora disciplinati dall’art. 69 TUF che in vario modo, cerca di incentivare l’accesso alla negoziazione su tali mercati delle imprese che rispettano i parametri indicati nella definizione di “piccola o media impresa” (art. 61, comma 1, lett. h) 14. Soltanto il tempo potrà dire se questi “incentivi” saranno sufficienti e se questi particolari MTF saranno, effettivamente, in grado di attrarre le imprese alle quali si rivolgono.

5. I sistemi organizzati di negoziazione In base all’art. 65-quater TUF, “in un sistema organizzato di negoziazione l’esecuzione degli ordini è svolta su base discrezionale”: è proprio questa la prima, e più evidente, cifra distintiva di un OTF (l’acronimo deriva dall’inglese Organized Trading Facility) rispetto ad un MTF o ad un mercato regolamentato. Una seconda cifra distintiva è data dal fatto che sugli OTF possono essere negoziati soltanto strumenti finanziari diversi dalle azioni, come risulta dalla definizione (in linea con MiFID II) di cui all’art. 1, comma 5-octies, lett. b) TUF 15. Quanto al primo elemento – quello della discrezionalità – l’art. 65-quater,

14

Istruttivi, a riguardo, i Considerando del Regolamento n. 565. Il Considerando 112 afferma che “data la diversità dei modelli operativi degli attuali sistemi multilaterali di negoziazione (MTF) che nell’Unione si concentrano sulle PMI e con l’obiettivo di assicurare il successo della nuova categoria del mercato di crescita per le PMI, è opportuno concedere ai mercati di crescita per le PMI un adeguato grado di flessibilità circa la valutazione dell’adeguatezza degli emittenti per l’ammissione nella loro sede. In ogni caso, il mercato di crescita per le PMI non dovrebbe prevedere norme che impongono agli emittenti oneri maggiori rispetto a quelli loro applicabili nei mercati regolamentati”. Con specifico riguardo al prospetto/documento informativo, il Considerando 113 afferma che “Per quanto concerne il contenuto del documento di ammissione che un emittente dovrebbe produrre all’ammissione iniziale alla negoziazione dei suoi titoli su un mercato di crescita per le PMI se non si applica il requisito di pubblicare un prospetto a norma della direttiva 2003/71/CE, è opportuno che le autorità competenti mantengano la discrezionalità di valutare se le norme stabilite dal gestore del mercato di crescita per le PMI consentono un’informazione adeguata degli investitori. Sebbene la piena responsabilità delle informazioni contenute nel documento di ammissione debba ricadere sull’emittente, dovrebbe spettare al gestore del mercato di crescita per le PMI definire il modo in cui esaminare adeguatamente il documento di ammissione. Ciò non dovrebbe obbligatoriamente prevedere un’approvazione formale da parte dell’autorità competente o del gestore”. 15 Sistema organizzato di negoziazione: “un sistema multilaterale diverso da un mercato regolamentato o da un sistema multilaterale di negoziazione che consente l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a obbligazioni, strumenti finanziari strutturati, quote di emissioni e strumenti derivati, in modo da dare luogo a contratti conformemente alla parte II e alla parte III”.

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comma 1, chiarisce che la discrezionalità sussiste quando il gestore di un OTF decide di: a) collocare o ritirare un ordine sul proprio sistema; o b) non abbinare lo specifico ordine di un cliente con gli altri ordini disponibili nel sistema in un determinato momento, purché ciò avvenga nel rispetto delle specifiche istruzioni ricevute dal cliente, nonché degli obblighi individuati ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), n. 2 del TUF. Il gestore di un sistema organizzato di negoziazione che abbina gli ordini dei clienti può dunque decidere se, quando e in che misura abbinare due o più ordini all’interno del sistema. Fermo quanto precede, il gestore di un sistema organizzato di negoziazione può facilitare la negoziazione tra clienti, in modo da far incrociare due o più interessi di negoziazione potenzialmente compatibili in un’operazione. Il gestore di un sistema organizzato di negoziazione non può, però, operare anche come internalizzatore sistematico. Un sistema organizzato di negoziazione non può neppure collegarsi a un internalizzatore sistematico in modo tale da consentire l’interazione tra i propri ordini e gli ordini o quotazioni in un internalizzatore sistematico, né può collegarsi a un altro sistema organizzato di negoziazione in modo tale da consentire l’interazione tra gli ordini dei diversi sistemi. Sussistono altresì specifici limiti a che il gestore di un OTF adotti una strategia di esecuzione del tipo “matched”, per tale intendendosi (art. 1, comma 6octies del TUF) una negoziazione nella quale il soggetto che si interpone tra l’acquirente e il venditore non è mai esposto al rischio di mercato durante l’intera esecuzione dell’operazione, con l’acquisto e la vendita eseguiti simultaneamente ad un prezzo che non permette a tale soggetto di realizzare utili o perdite, fatta eccezione per le commissioni, gli onorari o le spese dell’operazione previamente comunicati. Tali limiti – che puntano anche a ridurre il rischio di conflitti di interessi – sono dettagliati all’art. 65-quinquies del TUF. Quanto alle tipologie di strumenti finanziari negoziabili su un OTF, la scelta della Direttiva di limitarli a taluni strumenti non-equity non è, a dire il vero, del tutto comprensibile. Si è trattato di una scelta di compromesso, peraltro maturata nelle ultimissime battute dei lavori preparatori di MiFID II. Al di là della “bontà” di tale scelta, restava il fatto che il sistema presentava una grave lacuna: non era, infatti, chiara la qualificazione di quei sistemi che consentono di negoziare, su basi multilaterali, azioni o altri strumenti di capitale di rischio, secondo regole connotate da elementi di discrezionalità del gestore. Tali sistemi non sarebbero infatti MTF (in quanto discrezionali), né OTF (perché tratterebbero strumenti esclusi da questi ultimi). Al fine di colmare tale “vuoto”, l’art. 23, par. 2, del Regolamento MiFIR ha però disposto che “un’impresa di investimento che gestisce un sistema interno di abbinamento che esegue gli ordini dei clienti su azioni, certificati di deposito, fondi indicizzati quotati, certificati e altri strumenti finanziari analoghi su base multilaterale deve assicurare di possedere l’autorizza-

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zione come sistema multilaterale di negoziazione a norma della direttiva 2014/ 65/UE e rispetti tutte le pertinenti disposizioni relative a tali autorizzazioni”.

6. I servizi di comunicazione dati La MiFID II – sempre nell’ottica di migliorare la trasparenza delle contrattazioni ha previsto l’introduzione di una nuova specifica disciplina relativa ai servizi di comunicazione dati (c.d. data reporting services). Tale disciplina viene, in particolare, ad articolarsi su tre fronti: (i) i dispositivi di pubblicazione autorizzati (Approved Publication Arrangement – APA); (ii) i meccanismi di segnalazione autorizzati (Approved Reporting Mechanism – ARM) e (iii) i sistemi consolidati di pubblicazione (Consolidated Tape Provider – CTP). Ai sensi delle definizioni fornite nella MiFID II (art. 4, comma 1, punti 52, 53, 54), e riprese nel TUF, gli APA sono i soggetti autorizzati a pubblicare i report delle operazioni concluse per conto delle imprese di investimento. Gli ARM sono, invece, soggetti autorizzati a segnalare le informazioni di dettaglio sulle operazioni concluse alle Autorità competenti o all’ESMA. I CTP sono, infine, i soggetti autorizzati a fornire il servizio di raccolta, presso le varie trading venues, dei report delle operazioni concluse: essi hanno il compito di consolidare le informazioni in un flusso elettronico di dati costantemente attualizzati, in grado così di fornire informazioni sui prezzi e sul volume per ciascuno strumento finanziario. Questa nuova disciplina è stata recepita nel TUF agli artt. 79-bis e ss., dove vengono individuati i soggetti che possono essere autorizzati allo svolgimento di queste attività (tra i quali possono rientrare anche gestori di sedi di negoziazione), i relativi requisiti, e le procedure per il rilascio delle autorizzazioni 16. L’introduzione di questa nuova disciplina, nel contesto di MiFID II, dovrebbe contribuire ad accrescere la qualità delle informazioni disponibili in materia di negoziazione, e assicurare che i dati siano pubblicati in modo tale da facilitarne il consolidamento con i dati pubblicati dalle singole sedi di negoziazione. Uno dei limiti, infatti, della disciplina dei mercati, sia nel contesto di MiFID I, quanto di MiFID II, è proprio rappresentato dal rischio di frammentazione delle informazioni “sparpagliate” tra diverse trading venues, tra di loro non integrate. Tale rilievo giustifica la particolare attenzione che la disciplina pone alle condizioni di accesso alle informazioni (che deve avvenire in modo non discriminatorio), nonché ai costi praticati dai soggetti autorizzati al 16 Si vedano anche le norme tecniche recate in proposito dal Regolamento (UE) 2 giugno 2016, n. 2017/571 e dal Regolamento (UE) 22 giugno 2017, n. 2017/1110.

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servizio dati. Il Considerando 124 del Regolamento n. 565/2017 richiama l’attenzione sul fatto che le commissioni per i dati siano fissate ad un livello ragionevole, e, pertanto, le commissioni devono avere un rapporto equilibrato con il costo di produzione e diffusione dei dati. Pertanto, senza pregiudizio dell’applicazione delle norme sulla concorrenza, i fornitori dei dati dovrebbero determinare le commissioni in base ai loro costi, ai quali può essere aggiunto un margine commerciale, considerando fattori come il margine operativo, il return on costs (ROC), il rendimento delle attività operative e il rendimento del capitale. Per il Considerando 125, invece, i dati di mercato dovrebbero essere forniti in modo non discriminatorio, il che presuppone che debba essere offerto lo stesso prezzo e gli stessi altri termini e condizioni a tutti i clienti appartenenti alla medesima categoria secondo criteri oggettivi pubblicati. Questi elementi sono poi ripresi nel corpo del Regolamento n. 565/2017, in specifiche e puntuali disposizioni (art. 88-89).

7. I mercati regolamentati italiani Allo stato attuale, i mercati regolamentati italiani sono gestiti e organizzati da due società: Borsa Italiana S.p.a. e MTS S.p.a. (controllata da Borsa Italiana, a sua volta controllata dal London Stock Exchange). MTS gestisce i mercati all’ingrosso dei titoli di Stato italiani esteri, e di altri titoli a reddito fisso. Gli altri mercati sono tutti gestiti da Borsa Italiana spa. Per effetto delle innovazioni introdotte, nel panorama europeo, dalla MiFID, Borsa Italiana S.p.a. ha inteso perseguire un obiettivo di internazionalizzazione delle proprie attività, che – dopo una lunga fase di valutazione – ha condotto la società all’ingresso nel gruppo London Stock Exchange. L’operazione – ampiamente pubblicizzata anche dalla stampa – ha reso Borsa Italiana S.p.a. una società controllata dal London Stock Exchange ed ha consentito ai mercati italiani, gestiti da Borsa Italiana, di inserirsi in un più ampio circuito internazionale.

7.1. I comparti della Borsa Con riferimento alla data del 31 ottobre 2017, i mercati regolamentati gestiti dalla Borsa Italiana S.p.a., risultano i seguenti: 1. Mercato Telematico Azionario (“MTA”); 2. Mercato telematico degli OICR aperti ed ETC (“ETFplus”); 3. Mercato telematico delle obbligazioni (“MOT”);

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4. Mercato telematico dei securitised derivatives (“SeDeX”); 5. Mercato telematico degli investment vehicles (“MIV”); 6. Mercato degli strumenti derivati (“IDEM”) per la negoziazione degli strumenti finanziari previsti dall’art. 1, comma 2, lett. f) e i), D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (“XDMI”). Non è questa la sede per procedere ad una disamina completa dei regolamenti dei mercati, con riferimento ai diversi segmenti in cui gli stessi risultano articolati. Ai fini che qui interessano, preme essenzialmente fornire una sintetica descrizione dei requisiti e della procedura di ammissione alla quotazione, nonché delle operazioni che si svolgono sul mercato, rinviando, quanto al resto, direttamente ai Regolamenti di Borsa Italiana S.p.a., ed alle relative Istruzioni 17. Daremo pertanto sinteticamente conto dei seguenti profili, riferiti essenzialmente al segmento ordinario dell’MTA 18: – condizioni per l’ammissione alla quotazione di Borsa; – procedura di ammissione a quotazione; – categorie di operatori ammessi sul mercato; – modalità di contrattazione.

7.2. La quotazione ufficiale L’ammissione alla quotazione ufficiale, è in generale subordinata alla sussistenza delle condizioni indicate nel Titolo 2.1 del Regolamento 19. Tali condizioni riguardano sia l’emittente, sia i relativi strumenti finanziari. Quanto all’emittente, condizione di base per ottenere l’ammissione a quotazione è che esso sia regolarmente costituito, e che il suo statuto sia conforme alle leggi e ai regolamenti cui è soggetto. Il requisito è ulteriormente specificato per gli emittenti esteri, che sono sottoposti a regole particolari: per questi ultimi, si tratta sostanzialmente di verificare che la quotazione in Italia non si ponga in contrasto con l’ordinamento di origine, né con quello interno.

17

I Regolamenti dei mercati e le relative Istruzioni sono costantemente reperibili, nella loro versione aggiornata, sul sito Internet della stessa Borsa Italiana S.p.a. all’indirizzo http://www.borsaitalia.it. 18 L’attenzione si concentrerà pertanto sul Regolamento dei mercati gestiti e organizzati dalla Borsa Italiana S.p.a., nella versione pro-tempore vigente (al quale ci riferiremo sinteticamente con l’espressione il “Regolamento”). 19 In materia di ammissione alla quotazione in mercati regolamentati, trovano ora applicazione anche le disposizioni di cui al Regolamento (UE) 24 maggio 2016, n. 2017/568.

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Quanto agli strumenti finanziari, essi devono essere: a) emessi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti, e di ogni altra disposizione applicabile; b) conformi alle leggi ed ai regolamenti ai quali sono sottoposti; c) liberamente negoziabili. Gli strumenti finanziari il cui trasferimento sia soggetto a restrizioni sono considerati liberamente negoziabili qualora la restrizione non comporti alcun rischio di perturbare il mercato; d) idonei ad essere oggetto di liquidazione mediante il servizio di compensazione e liquidazione di cui all’art. 69 TUF, ovvero attraverso omologhi servizi esteri sottoposti a vigilanza dalle Autorità competenti dello Stato di appartenenza; e) idonei ad essere negoziati in modo equo, ordinato ed efficiente 20. Oltre ai requisiti generali di cui sopra, gli emittenti devono essere in possesso di condizioni più specifiche, che risultano individuate nel Regolamento distintamente per ciascuna tipologia di strumento finanziario. Limitandoci, in questa sede, a trattare delle azioni (che rappresentano la tipologia più importante), l’art. 2.2.1 stabilisce che – per poter ottenere la quotazione delle azioni – l’emittente deve aver pubblicato e depositato, conformemente al diritto nazionale, i bilanci anche consolidati degli ultimi tre esercizi annuali. Di tali bilanci, almeno l’ultimo deve essere stato sottoposto a revisione contabile ai sensi dell’art. 156 TUF e del D.Lgs. n. 39/2010, o della corrispondente disciplina di diritto estero applicabile. L’ammissione a quotazione non può essere disposta se la società di revisione ha espresso un giudizio negativo, ovvero si è dichiarata impossibilitata ad esprimere un giudizio 21. In via eccezionale, la Borsa si riserva di accettare un numero inferiore di bilanci. La deroga deve tuttavia rispondere agli interessi dell’emittente e degli investitori, e questi ultimi devono disporre comunque di tutte le informazioni necessarie per una valutazione dell’emittente e degli strumenti per i quali è richiesta l’ammissione. Di particolare rilievo è il disposto dell’art. 2.2.1, comma 7, in base al quale l’emittente deve esercitare, direttamente o attraverso le proprie controllate, e in condizioni di autonomia gestionale, una “attiva capacità di generare ricavi”. La norma risponde all’esigenza di evitare che accedano alla quotazione soggetti inattivi o che non siano in grado di operare in condizioni di equilibrio economico: si osservi che il requisito viene, da un lato, valutato tenuto conto del com20

Il Regolamento prevede regole particolari per gli strumenti finanziari emessi da soggetti italiani, ma sottoposti ad un ordinamento estero. 21 Le società di recente costituzione ovvero che abbiano subito, nel corso dell’esercizio precedente a quello di presentazione della domanda o successivamente, modifiche sostanziali nella loro struttura patrimoniale devono produrre ulteriore documentazione, tra cui il conto economico e lo stato patrimoniale pro-forma.

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plesso delle attività svolte dal soggetto, anche tramite le controllate; dall’altro, si considera la capacità del soggetto di soddisfare tale requisito “in condizioni di autonomia gestionale”, con il che si limita la possibilità di ammettere a quotazione non soltanto soggetti che soddisfano il requisito della redditività unicamente, o prevalentemente, per effetto di rapporti intrattenuti con altri soggetti (tipicamente, all’interno del gruppo di appartenenza), ma anche società che operano prevalentemente sotto la “direzione” di altre società. A tal fine si prevede che la Borsa Italiana, nel valutare la sussistenza delle condizioni di autonomia gestionale, verifica che non vi siano ostacoli alla massimizzazione degli obiettivi economico-finanziari propri dell’emittente. Qualora la Borsa Italiana ravvisi elementi potenzialmente idonei a ostacolare il conseguimento dell’autonomia gestionale, essa richiede che sia data al pubblico adeguata informativa all’atto dell’ammissione a quotazione, ed eventualmente in via continuativa 22. Ancora, per poter ottenere la quotazione di azioni di società controllate sottoposte all’attività di direzione e coordinamento di un’altra società, è previsto che non debbano sussistere le condizioni, di cui all’art. 37 del Regolamento mercati, al ricorrere delle quali la quotazione stessa è inibita. Infine, e allo scopo di evitare la quotazione di società che non rappresentino effettivamente un valore aggiunto per il listino ufficiale, si precisa che l’attivo di bilancio ovvero i ricavi dell’emittente non devono essere rappresentati in misura preponderante dall’investimento, o dai risultati dell’investimento, in una società le cui azioni sono già ammesse alle negoziazioni in un mercato regolamentato. Come già detto, i requisiti previsti per gli emittenti variano in ipotesi di ammissione a quotazione di altri strumenti finanziari, diversi dalle azioni. Con particolare riferimento alle obbligazioni, è opportuno sottolineare che l’ammissione alla quotazione di obbligazioni convertibili in azioni può essere disposta soltanto se le azioni di compendio sono ammesse alla quotazione in Italia o in altro Stato, oppure se formano oggetto di una contestuale domanda di ammissione. Quanto alle condizioni richieste per i singoli strumenti finanziari, esse variano in funzione della tipologia di strumenti finanziari. Sempre con riguardo alle azioni, l’art. 2.2.2 del Regolamento stabilisce che esse devono avere i seguenti requisiti: – capitalizzazione di mercato prevedibile pari almeno a 40 milioni di euro, sebbene la Borsa Italiana possa ammettere azioni con una capitalizzazione inferiore qualora ritenga che per tali azioni si formerà un mercato sufficiente; 22 In argomento v. anche l’art. 62, comma 2-bis, TUF: si prevede che il regolamento di gestione del mercato “può stabilire che le azioni di società controllanti, il cui attivo sia prevalentemente composto dalla partecipazione, diretta o indiretta, in una o più società quotate in mercati regolamentati, vengano negoziate in segmento distinto del mercato”. Cfr. PACE (2007).

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– sufficiente diffusione (il c.d. “flottante”), che si presume realizzata quando le azioni siano ripartite tra il pubblico 23 per almeno il 25% del capitale rappresentato dalle categorie di appartenenza. Anche in questo caso il criterio può essere derogato, e il flottante richiesto può essere inferiore, sempreché il valore di mercato delle azioni possedute dal pubblico faccia ritenere che le esigenze di regolare funzionamento del mercato possano essere soddisfatte anche con una percentuale inferiore a quella di cui sopra. Inoltre, una regola particolare vale per le azioni di risparmio, per le quali non è prevista una soglia fissa di flottante, ma la sufficiente diffusione dovrà essere tale da assicurare un regolare funzionamento del mercato; – nel caso di azioni prive del diritto di voto nelle assemblee ordinarie, esse non possono essere ammesse se azioni dotate di tale diritto non sono già quotate, ovvero se non sono oggetto di contestuale provvedimento di ammissione a quotazione (salvo il caso di azioni di banche popolari o di cooperative autorizzate all’esercizio dell’assicurazione). 7.2.1. La procedura di ammissione a quotazione La procedura di ammissione alla quotazione prende – formalmente – avvio a seguito della presentazione da parte dell’emittente di una domanda redatta in conformità a quanto previsto dal Regolamento e dalle Istruzioni. Lo schema di domanda di ammissione conferma la natura contrattuale del rapporto che viene ad instaurarsi tra l’emittente e la società di gestione del mercato (nel caso specifico Borsa Italiana S.p.a.): nella domanda, infatti, l’emittente formula una vera e propria dichiarazione negoziale, in quanto “si obbliga all’osservanza” delle norme del Regolamento e delle Istruzioni “che dichiara di conoscere ed accettare”; inoltre, egli è chiamato ad approvare specificamente, ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c., talune clausole del Regolamento, che assumono rilevanza ai fini dell’applicazione della relativa disciplina. La presentazione della domanda, peraltro, è preceduta da varie fasi preparatorie, nel corso delle quali viene impostata e analizzata l’operazione, nei suoi risvolti economici, finanziari e legali 24. L’emittente è altresì tenuto – in base alle disposizioni di cui all’art. 113 TUF – a presentare alla Commissione nazionale per le società e la Borsa un prospetto redatto con l’avallo dello sponsor, ossia dell’intermediario finanziario che assiste l’emittente in fase di quotazione e – successivamente – opera sul mercato al fine di assicurare il regolare svolgimento delle contrattazioni. 23

Il Regolamento dei mercati stabilisce i criteri per il computo della percentuale. V., per una sintetica ma efficacia descrizione dell’intero “processo” di quotazione, AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 234 ss. 24

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Né il Regolamento, né il TUF stabiliscono l’organo dell’emittente competente a decidere o a deliberare la richiesta di ammissione a quotazione. Nel sistema previgente, la relativa competenza spettava all’assemblea ordinaria; il Regolamento si limita ora a precisare che la domanda “deve essere sottoscritta dal legale rappresentante dell’emittente o dal soggetto munito dei necessari poteri”. È dunque da ritenere che sia venuta meno la competenza necessaria dell’assemblea in merito alla delibera di ammissione alla quotazione in Borsa, potendo la relativa decisione essere assunta anche dagli amministratori; resta ovviamente fermo il caso in cui il Regolamento di un particolare mercato stabilisca, in futuro, particolari requisiti al riguardo (magari reintroducendo la competenza assembleare già prevista nel regime previgente). Quanto sopra merita, tuttavia, alcune precisazioni. In primo luogo, sul piano fattuale, l’assemblea dell’emittente sarà pressoché sempre chiamata in causa, soprattutto per quanto attiene alle necessità di adeguare lo statuto dell’emittente alle disposizioni del TUF e del codice civile in materia di emittenti quotati 25. La competenza assembleare, pertanto, riemerge quantomeno sotto questo profilo. In secondo luogo, preme ricordare che, se l’accesso alla quotazione può realizzarsi anche senza un intervento dell’organo assembleare, non altrettanto si verifica per quanto riguarda l’esclusione dalle negoziazioni di Borsa. Ai sensi dell’art. 133 TUF, infatti, la richiesta di esclusione dalle negoziazioni deve essere deliberata – al ricorrere delle altre condizioni richieste – dall’assemblea straordinaria dell’emittente: come avremo modo di illustrare, la norma solleva interessanti questioni, anche sotto il profilo sistematico, che attengono al “valore” che la nuova disciplina riconosce all’elemento della negoziabilità dei titoli sui mercati ufficiali. Un’ultima precisazione riguarda il fatto che – in alcuni casi – è possibile che un emittente veda i propri strumenti finanziari ammessi a negoziazione su di un determinato mercato regolamentato senza averne fatto richiesta: ciò può accadere quando gli strumenti finanziari in questione siano già negoziati in un altro mercato regolamentato italiano. Tale disciplina risponde, essenzialmente, sia alla finalità di allargare i “luoghi” di contrattazione degli strumenti finanziari, soprattutto alla luce del processo di crescita del numero di mercati regolamentati operanti in Italia, sia evidentemente all’interesse degli investitori a disporre del più ampio ventaglio di scelte e alternative circa i mercati sui quali effettuare gli scambi. Sotto questo profilo, dunque, si ritiene che – una volta che l’emittente ha espletato la procedura per l’ammissione alla quotazione su di un mercato regolamentato – gli strumenti così quotati possano essere ammessi alle negoziazioni su altri mercati, anche senza che l’emittente lo abbia richiesto: prevale, cioè, l’interesse alla massima diffusione e articolazione dei “luoghi” di scambio dei titoli, sull’interesse dell’emittente a mantenere la negoziazione dei propri strumen25

Per una disamina della questione v. CHIAPPETTA (1999).

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ti su di un unico mercato regolamentato. In queste ipotesi, va dunque distinta la fase di ammissione alla quotazione da quella di ammissione alla negoziazione: la prima, è giocoforza decisa e “guidata” dall’emittente; la seconda può anche prescindere dalle determinazioni di quest’ultimo 26. 7.2.2. Sospensione, revoca ed esclusione dalle negoziazioni Il Regolamento della Borsa Italiana disciplina, agli artt. 2.5.1 e ss., i casi di sospensione, revoca e esclusione su richiesta dalle negoziazioni 27. Per quanto attiene alla sospensione, la Borsa Italiana può disporla se la regolarità del mercato dello strumento finanziario non è temporaneamente garantita o rischia di non esserlo, ovvero se lo richiede la tutela degli investitori. La formulazione della norma è molto ampia, e lascia alla Borsa notevoli margini di apprezzamento, sebbene essa abbia cura di precisare che, al fine dell’adozione del provvedimento, fa prevalentemente riferimento ai seguenti elementi: a) diffusione o mancata diffusione di notizie che possono incidere sul regolare andamento del mercato; b) delibera di azzeramento del valore nominale delle azioni con contestuale delibera di ricostituzione del capitale sociale e di contemporaneo aumento al di sopra del limite legale; c) ammissione dell’emittente a procedure concorsuali; d) scioglimento dell’emittente; e) giudizio negativo della società di revisione o impossibilità per la società di revisione di esprimere un giudizio per due esercizi consecutivi. Con riguardo alla revoca, 2.5.1, comma 1, lett. b) del Regolamento prevede che Borsa Italiana possa disporla in caso di prolungata carenza di negoziazione ovvero se, a causa di circostanze particolari, non sia possibile mantenere un mercato normale e regolare per tale strumento. Ai fini della revoca della quotazione, la Borsa Italiana fa prevalentemente riferimento ai seguenti elementi: a) controvalore medio giornaliero delle negoziazioni eseguite nel mercato e numero medio di titoli scambiati, rilevati in un periodo di almeno diciotto mesi; b) frequenza degli scambi registrati nel medesimo periodo; c) grado di diffusione tra il pubblico degli strumenti finanziari in termini di controvalore e di numero dei soggetti detentori; d) ammissione dell’emittente a procedure concorsuali; 26

Cfr. sul punto anche le previsioni dell’art. 40 della Direttiva 2004/39/CE. Si vedano anche le norme tecniche contenute nei Regolamenti (UE) n. 2017/569 e n. 2017/560, rispettivamente del 24 e 26 maggio 2016. 27

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e) giudizio negativo della società di revisione o impossibilità per la società di revisione di esprimere un giudizio per due esercizi consecutivi; f) scioglimento dell’emittente; g) sospensione dalla quotazione per una durata superiore a diciotto mesi. Anche la realizzazione di un’operazione ai sensi dell’art. 108 TUF, o l’esercizio del diritto di acquisto sono presupposto di revoca dalla quotazione: in tal caso, la revoca decorre dal giorno di Borsa aperta successivo all’ultimo giorno di pagamento del corrispettivo dell’offerta. Altro presupposto di sospensione e/o revoca dalla quotazione è rappresentato dalla sussistenza dei requisiti per l’esercizio del diritto di acquisto di cui all’art. 111 TUF. La sospensione e/o revoca avviene tenuto conto dei tempi previsti per l’esercizio del diritto di acquisto; in ogni caso, la Borsa Italiana dà comunicazione al mercato della data di revoca con congruo anticipo. La revoca dalla quotazione ha luogo nell’ambito di un procedimento che garantisce il rispetto del principio del contraddittorio: la Borsa Italiana invia all’emittente una comunicazione scritta con la quale vengono richiamati gli elementi che costituiscono presupposto per la revoca, e viene fissato un termine non inferiore a 15 giorni per la presentazione di deduzioni scritte. L’emittente può richiedere un’audizione, e così la Borsa Italiana. La decisione della Borsa viene quindi assunta entro 60 giorni dall’invio della comunicazione 28. Per quanto attiene all’esclusione su richiesta delle negoziazioni, l’art. 2.5.6 del Regolamento specifica – per quanto di competenza della Borsa Italiana – gli adempimenti connessi all’applicazione del disposto dell’art. 133 TUF, sul quale avremo modo di soffermarci.

7.3. L’ammissione degli intermediari al mercato Ai sensi dell’art. IA.3.1.1 delle Istruzioni al Regolamento (richiamate dall’art. 3.1.1, comma 2 del Regolamento) possono partecipare alle negoziazioni nei mercati organizzati e gestiti dalla Borsa Italiana: a) i soggetti autorizzati all’esercizio dei servizi di investimento di negoziazione per conto proprio e/o di esecuzione di ordini per conto dei clienti, ai sensi del TUF, del TUB o di altre disposizioni di legge italiane; b) le banche e le imprese di investimento autorizzate alla prestazione dei ser28 Il termine di 60 giorni può essere interrotto dalla Borsa Italiana con propria comunicazione, per una sola volta, qualora la stessa ravvisi la necessità di richiedere ulteriori dati e informazioni in relazione ad eventi rilevanti intervenuti successivamente all’avvio della procedura di revoca. In questo caso, a partire dalla data di ricevimento della relativa documentazione, decorre nuovamente il suddetto termine di 60 giorni.

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vizi e delle attività di negoziazione per conto proprio e/o di esecuzione di ordini per conto dei clienti ai sensi delle disposizioni di legge di Stati Ue o extra-UE; c) le imprese costituite in forma di società per azioni, società a responsabilità limitata, o forma equivalente: – per le quali sussistano in capo ai soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo e ai responsabili dell’attività di negoziazione e della funzione di controllo interno, i requisiti di onorabilità e professionalità, equivalenti a quelli previsti per gli intermediari su strumenti finanziari 29; – che abbiano istituito una funzione di revisione interna, che non dipenda gerarchicamente da alcun responsabile di aree operative, che svolga verifiche periodiche sull’attività di negoziazione su strumenti finanziari 30; – che siano in possesso di un adeguato patrimonio netto, risultante dall’ultimo bilancio certificato. Per l’ammissione alle negoziazioni, i suddetti soggetti devono, altresì, attestare che: a) gli addetti alle negoziazioni conoscano le regole, le modalità di funzionamento del mercato e gli strumenti tecnici funzionali all’attività di negoziazione e siano in possesso di un’adeguata qualificazione professionale, nonché che il responsabile della funzione di compliance abbia una approfondita conoscenza del Regolamento e delle regole di funzionamento del mercato e fornisca adeguato supporto alla struttura nell’applicazione delle stesse; b) gli addetti all’attività di specialista su strumenti finanziari diversi da strumenti derivati, oltre ad essere in possesso dei requisiti sopra indicati per i negoziatori, conoscano le regole e le modalità di svolgimento dell’attività di specialista e dei relativi strumenti tecnici; c) si è dotato in via continuativa di adeguati sistemi, procedure e controlli dell’attività di negoziazione e di adeguate procedure di compensazione e garanzia e di liquidazione; d) si è dotato di una unità interna di information technology adeguata a garantire la continuità e puntualità di funzionamento dei sistemi di negoziazione e liquidazione utilizzati. L’operatore inoltre comunica a Borsa Italiana il nominativo di un referente per la funzione di information technology, il quale deve essere reperibile durante l’orario di mercato, nonché del relativo sostituto. 29 Tale requisito non si applica alle imprese autorizzate dall’Autorità competente di uno Stato comunitario a uno o più servizi di investimento o alla gestione collettiva del risparmio. 30 Borsa Italiana si riserva, tuttavia, la possibilità di esonerare dal rispetto di tale requisito, valutata la dimensione dell’operatore (c.d. “principio di proporzionalità”).

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Per l’ammissione alle negoziazioni, gli intermediari devono presentare apposita domanda alla Borsa Italiana: anche in questo caso, la forma e il contenuto della domanda assumono natura spiccatamente negoziale. L’ammissione alle negoziazioni è subordinata ad un apposito accertamento, effettuato dalla Borsa Italiana sulla base di criteri oggettivi non discriminanti, e finalizzato a “garantire il regolare funzionamento del mercato”. In generale, il Regolamento tende ad assicurare il rispetto, da parte degli intermediari ammessi alle negoziazioni, di elevati standard di correttezza, trasparenza, diligenza e professionalità. L’art. 3.3.1 del Regolamento riflette assai chiaramente tale impostazione, là dove ribadisce – riprendendo principi che discendono dalla disciplina delle regole di comportamento – che “gli operatori si astengono dal compiere atti che possano pregiudicare l’integrità dei mercati”. In particolare (anche sulla falsariga delle regole in tema di abusi di mercato) è fatto divieto agli operatori di: – compiere atti che possano creare impressioni false o ingannevoli negli altri partecipanti ai mercati; – compiere atti che possano ostacolare gli intermediari partecipanti al mercato nell’adempimento degli impegni assunti; – porre in essere operazioni fittizie non finalizzate al trasferimento della proprietà degli strumenti finanziari negoziati, o alla variazione dell’esposizione sul mercato; – porre in essere, anche per interposta persona, operazioni che siano effettuate in esecuzione di un accordo preliminare avente a oggetto lo storno, mediante compensazione, delle operazioni stesse; – negoziare o far negoziare strumenti finanziari nei confronti dei quali la Borsa Italiana abbia adottato provvedimenti di sospensione dalle contrattazioni, senza preventiva autorizzazione della stessa Borsa. Sono previsti poteri di controllo e di sanzione nei confronti degli operatori in caso di violazioni delle disposizioni del Regolamento o delle Istruzioni: per quanto attiene alle “sanzioni”, deve ritenersi che esse abbiano la natura di “pene private”. Il Regolamento si preoccupa in ogni caso di regolare la procedura sanzionatoria, al fine di assicurare un effettivo diritto alla difesa da parte dell’intermediario (art. 3.4.4). Le sanzioni agli operatori possono consistere in: a) richiamo scritto in forma privata; b) richiamo scritto in forma pubblica.

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7.4. L’attività di negoziazione Assai complessa è la disciplina dei contratti ammessi e delle modalità di negoziazione sul mercato: essa, tra l’altro, varia per ciascuno dei mercati regolamentati, e dei relativi segmenti. Con specifico riferimento al Mercato Telematico Azionario, l’art. 4.1.1 precisa che in tale mercato si negoziano, per qualunque quantitativo, azioni, obbligazioni convertibili, diritti di opzione, e warrant. Borsa Italiana si riserva di stabilire per singolo strumento finanziario un quantitativo minimo negoziabile, qualora lo richiedano esigenze di funzionalità del mercato, di agevole accesso da parte degli investitori, e di economicità nell’esecuzione degli ordini. Le negoziazioni si svolgono nelle seguenti fasi: a) asta di apertura; b) negoziazione continua; c) asta di chiusura. La fase di asta di apertura si articola in due sottofasi (pre-asta, e apertura). Nella fase di pre-asta, gli intermediari possono immettere le loro proposte di negoziazione (con limite di prezzo o senza limite di prezzo), modificarle, e cancellarle; il sistema telematico di contrattazione calcola e aggiorna in tempo reale un prezzo “teorico” d’asta, determinato sulla base dei seguenti criteri, che vengono presi in considerazione seguendo un principio gerarchico (ossia, il criterio successivo viene considerato soltanto se l’applicazione di tutti i criteri precedenti non consente di addivenire ad un risultato univoco). Il prezzo teorico d’asta è definito come: a) il prezzo al quale è negoziabile la maggior quantità di titoli; b) nel caso in cui lo stesso quantitativo sia negoziabile a più di un livello di prezzo, il prezzo teorico d’asta è il prezzo che produce il minor volume non negoziabile relativamente alle proposte in acquisto o in vendita aventi prezzi uguali o migliori rispetto al prezzo considerato; c) qualora rispetto a più prezzi risulti di pari entità anche il quantitativo di strumenti non negoziabili di cui alla precedente lett. b), il prezzo teorico d’asta coincide con il prezzo più alto se la maggiore pressione è sul lato degli acquisti o con il prezzo più basso se la maggiore pressione è sul lato delle vendite; d) qualora in applicazione della precedente lett. c) la pressione del mercato sul lato degli acquisti sia pari a quella del lato delle vendite, il prezzo teorico d’asta è pari al prezzo più prossimo all’ultimo contratto valido; e) qualora non esista un prezzo di riferimento, il prezzo teorico d’asta è pari al prezzo più basso tra quelli risultanti alle lettere precedenti. Infine, qualora siano presenti in acquisto e in vendita esclusivamente proposte senza limite di prezzo, il prezzo teorico d’asta è pari al prezzo dell’ultimo contratto valido.

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L’ultimo prezzo teorico di pre-asta viene assunto come prezzo d’asta per la conclusione dei contratti se il suo scostamento dal c.d. prezzo statico non supera la percentuale di variazione massima stabilita dalla Borsa Italiana. Sulla base di tale prezzo si concludono i contratti mediante abbinamento delle proposte in acquisto aventi prezzi uguali o superiori a quello di pre-asta, con le proposte di segno contrario a prezzi uguali o inferiori a tale prezzo. L’abbinamento avviene automaticamente, a cura del sistema, secondo la priorità di prezzo e tempo delle singole proposte. La fase di negoziazione continua segue immediatamente la fase di pre-asta. In tale fase, gli intermediari possono inserire, cancellare o modificare le loro proposte di negoziazione. La conclusione delle operazioni avviene, per le quantità disponibili, mediante abbinamento automatico di proposte aventi segno contrario, presenti nel sistema di contrattazione per uno stesso strumento finanziario. Il Regolamento individua le caratteristiche delle varie proposte: esse sono automaticamente ordinate dal sistema in base al prezzo, nonché – a parità di prezzo – in base alla priorità temporale determinata in base all’orario di immissione (art. 4.3.2, comma 7). Al termine della giornata di contrattazione – i cui orari sono stabiliti dalla Borsa – viene calcolato il “prezzo ufficiale”, il “prezzo di riferimento” e il “prezzo di controllo”. Il primo è definito dall’art. 4.3.8 del Regolamento come il “prezzo medio ponderato dell’intera quantità” di un determinato strumento, negoziata durante la seduta. Il prezzo di riferimento è invece il prezzo di asta di chiusura. Solo qualora non sia possibile determinare il prezzo d’asta di chiusura il prezzo di riferimento è pari alla media ponderata dei contratti conclusi in un determinato intervallo temporale (stabilito dalla Borsa) della fase di negoziazione continua (art. 4.3.7). Ulteriori nozioni di prezzo sono il prezzo “dinamico” e il prezzo “statico”. Il prezzo dinamico è dato da: a) prezzo dell’ultimo contratto concluso durante la seduta della giornata di contrattazione; b) prezzo di riferimento del giorno precedente, qualora non siano stati conclusi contratti nel corso della seduta della giornata di contrattazione. Il prezzo “statico” e, invece: a) il prezzo di riferimento del giorno precedente, in asta di apertura; b) il prezzo di conclusione dei contratti della fase di asta, dopo ogni fase di asta.

7.5. La risoluzione delle controversie tra la Borsa e i soggetti ammessi Un cenno particolare meritano, da ultimo, le regole che presiedono alla risoluzione delle controversie tra la Borsa Italiana S.p.a. e le categorie di soggetti ammessi al mercato (in qualità tanto di emittenti, quanto di intermediari). La natura privatistica della società di gestione comporta, evidentemente, l’inutilizzabilità degli istituti propri del diritto amministrativo che, di contro, caratterizzavano il sistema previgente; i rimedi sono dunque quelli tipici della materia dei

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contratti, e, pertanto, il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria, o all’arbitrato 31. La Parte 7 del Regolamento distingue al riguardo tra controversie sottoposte all’Autorità giudiziaria, e altre controversie. Le prime sono relative alla materia dei corrispettivi, al diniego dell’ammissione alla quotazione ufficiale di Borsa, e alla revoca di tale ammissione: in base all’art. 7.2 del Regolamento, esse sono sottoposte alla giurisdizione esclusiva dei giudici italiani, e sono di competenza del Foro di Milano. Ogni altra controversia occasionata o derivante dal Regolamento, dalle Istruzioni e da ogni altra disposizione emanata dalla Borsa, è invece riservata alla competenza di un collegio arbitrale, nominato e funzionante ai sensi dell’art. 7.5. Quest’ultimo prevede la formazione di un collegio arbitrale composto da tre membri; l’arbitrato ha carattere rituale e viene svolto in osservanza delle norme del codice di procedura civile italiano. In tale ambito va segnalata la particolare soluzione accolta nell’art. 7.4: infatti, condizione necessaria per attivare la procedura arbitrale è il preventivo esperimento di un’apposita procedura dinnanzi al Collegio dei Probiviri. Quest’ultimo è composto da tre membri, nominati dal Consiglio di amministrazione della Borsa Italiana, tra persone “indipendenti e di comprovata esperienza in materia di mercati finanziari”. Il Collegio dei Probiviri decide sulla controversia secondo diritto, con rispetto del principio del contraddittorio; il termine per la decisione è assai rapido, essendo stabilito in 30 giorni dalla data di impugnazione del provvedimento contestato. Il Collegio dei Probiviri svolge una funzione alquanto diversa da quella del collegio arbitrale: in base al comma 6, le decisioni del Collegio hanno valore interlocutorio, e sono comunque sostituite dal lodo arbitrale, ove una parte instauri quest’ultimo procedimento. Inoltre, le decisioni del Collegio non hanno valore vincolante nei confronti degli arbitri eventualmente nominati, i quali “hanno ogni più ampia facoltà e potere di riesame totale e integrale della controversia, senza preclusione alcuna”. Appare allora evidente che il Collegio dei Probiviri svolge un ruolo di mediazione tra le parti, vicino a quello di un soggetto conciliatore, senza però assumere la formale posizione di organo giudicante, né sostituirsi agli arbitri. Il preventivo ricorso al Collegio dei Probiviri non è, comunque, obbligatorio per le controversie che sono affidate alla competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria.

8. Mercati e regole di trasparenza La parificazione, e proliferazione di varie sedi di negoziazione, comporta, inevitabilmente, l’accentuarsi dei problemi legati a trasparenza ed informativa 31

V. BENEDETTELLI (1999).

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relativamente alle condizioni alle quali è possibile negoziare, sulle varie sedi, gli strumenti finanziari. Come si è già osservato, il rischio che la MiFID reca con sé è quello della frammentazione delle sedi di esecuzione, e della difficoltà che ne potrebbe derivare in punto di ricerca, tra l’altro, delle condizioni di best execution. Oltre all’introduzione dei nuovi servizi di fornitura di dati (v. supra), uno dei principali rimedi che la Direttiva prevede, al fine di scongiurare che la proliferazione delle trading venues generi un effetto opposto a quello voluto, è quello della trasparenza delle condizioni di negoziazione sulle diverse sedi di negoziazione: la ratio che ispira tale disciplina è nel senso che la costante disponibilità di adeguate informazioni sui prezzi rende confrontabili le diverse sedi e, per tale via, agevola il raggiungimento degli obiettivi che la Direttiva si pone (aumento della trasparenza, dell’efficienza e della concorrenzialità tra le sedi di esecuzione). A tal fine, già dalla prima Direttiva MiFID discendano dunque precisi obblighi di trasparenza che riguardano sia la fase precedente la conclusione delle operazioni (c.d. pre-trade transparency) sia quella successiva (c.d. post-trade transparency), anche se il quadro tracciato da quella Direttiva era incompleto, perché escludeva dall’applicazione della disciplina della trasparenza i mercati diversi da quelli azionari. MiFID II formula – sia direttamente, sia negli atti delegati – regole più pervasive in materia di trasparenza, in massima parte affidate a disposizioni di diretta applicazione negli Stati membri (in specie, nel Regolamento UE n. 600/2014). Il sistema normativo è, a riguardo, alquanto complesso: non soltanto per come vengono declinati gli obblighi di trasparenza, ma anche per il sistema di eccezioni e deroghe che sono previsti a livello comunitario. Nel rinviare alle disposizioni del Regolamento per l’esame puntuale delle singole previsioni, si può comunque osservare che la disciplina della pre-trade e posttrade transparency è costruita su un delicato equilibrio tra esigenze di trasparenza del mercato, e regole di microstruttura dei mercati, e ne riflette gli inevitabili compromessi.

9. La c.d. “trading obligation” Pur non reintroducendo esattamente la vecchia disciplina sulla “concentrazione” delle operazioni nei mercati regolamentati o, in generale, nelle trading venues, MiFID II dispone, tuttavia, che – in una serie di circostanze – le negoziazioni poste in essere dalle banche e dalle imprese di investimento vadano effettivamente eseguite nelle trading venues stesse. In particolare, le operazioni che hanno ad oggetto azioni e altri strumenti equity negoziati nelle trading venues devono, come regola generale, essere eseguite su di un mercato regolamen-

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tato, un MTF o tramite un internalizzatore sistematico. La negoziazione può anche avvenire, a certe condizioni, su sedi non-UE a tal fine riconosciute equipollenti (cfr. art. 23 del Regolamento MiFIR). Una disciplina analoga riguarda i derivati soggetti alle norme del Regolamento EMIR per quanto attiene al loro regolamento. Le eccezioni a queste regole generali attengono al fatto che l’ordine presenti caratteristiche peculiari, in quanto “non sistematico”, “irregolare” o “non frequente”, oppure in quanto interviene tra controparti professionali o qualificate, e non contribuisce al processo di formazione dei prezzi. La concreta identificazione di questi presupposto è affidata, nel contesto di MiFID II, all’elaborazione di specifici standard tecnici. Si tratta, in parte, di un ritorno al passato: la regola sulla concentrazione, affondata da MiFID I, riemerge così in parte nel contesto della MiFID II e soltanto il tempo potrà dirsi se si tratta di un caso isolato, oppure di un processo destinato, nel tempo, a ricondurre indietro la lancetta dell’orologio.

10. La negoziazione algoritmica La negoziazione algoritmica è definita dall’art. 1, comma 6-quinquies del TUF come “la negoziazione di strumenti finanziari in cui un algoritmo informatizzato determina automaticamente i parametri individuali degli ordini, come ad esempio l’avvio dell’ordine, la relativa tempistica, il prezzo, la quantità o le modalità di gestione dell’ordine dopo l’invio, con intervento umano minimo o assente, ad esclusione dei sistemi utilizzati unicamente per trasmettere ordini a una o più sedi di negoziazione, per trattare ordini che non comportano la determinazione di parametri di negoziazione, per confermare ordini o per eseguire il regolamento delle operazioni”. Un tipo particolare di negoziazione algoritmica è quella c.d. “ad alta frequenza” definita, dall’art. 1, comma 6-septies del TUF come “qualsiasi tecnica di negoziazione algoritmica caratterizzata da: a) infrastrutture volte a ridurre al minimo le latenze di rete e di altro genere, compresa almeno una delle strutture per l’inserimento algoritmico dell’ordine: co-ubicazione, hosting di prossimità o accesso elettronico diretto a velocità elevata; b) determinazione da parte del sistema dell’inizializzazione, generazione, trasmissione o esecuzione dell’ordine senza intervento umano per il singolo ordine o negoziazione, e c) elevato traffico infra-giornaliero di messaggi consistenti in ordini, quotazioni o cancellazioni”. Di per sé, apparentemente, si tratta, semplicemente, di una particolare modalità di svolgimento dei servizi di investimento: in realtà, la negoziazione algoritmica ad alta frequenza pone delicati problemi che attengono proprio al-

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l’impatto che essa può avere sul funzionamento delle trading venues 32. Il fatto che, in pochissime frazioni di secondo, vengano a riversarsi sui mercati volumi elevati di operazioni, generati da algoritmi matematici, con impatti rilevanti sulla liquidità e sul processo di formazione dei prezzi pone ai regolatori sfide e problemi del tutto nuovi. Il dibattito su questo tema è stato intenso nel corso dell’iter di approvazione di MiFID II, anche sulla scorta di più ampie riflessioni condotte nelle sedi internazionali. Come osservato in dottrina, “si tratta, innanzitutto, generalmente di negoziazioni per conto proprio, basate su algoritmi programmati a leggere informazioni rilevanti, ad esempio circa differenze di prezzo tra piazze di scambio, ed effettuare un elevatissimo numero di ordini e transazioni su strumenti liquidi con periodi di possesso brevissimi, nell’ordine di frazioni di secondo, senza detenere una posizione alla chiusura della giornata borsistica (c.d. ‘flat position’). L’obiettivo è quello di realizzare profitti unitari minuscoli dalla singola transazione, ma numerosi, essenzialmente tramite arbitraggi tra diversi mercati e con tempi di esecuzione infinitesimali che consentono di sfruttare la ‘latency’, ossia l’intervallo che intercorre tra ordine ed esecuzione” 33. Per poter sfruttare questi elementi, sono importanti anche le localizzazioni fisiche dei sistemi di negoziazione: i computer devono, quindi, collocarsi in prossimità delle sedi di negoziazione, perché anche una breve distanza può fare la differenza sulla “velocità” di trasmissione degli ordini al mercato. La negoziazione algoritmica ad alta velocità si presta, naturalmente, a valutazioni contrastanti: per alcuni versi, essa sembra addirittura sconfinare nelle condotte vietate dalla disciplina degli abusi di mercati, in quanto apparentemente sconvolge i normali meccanismi di funzionamento dei mercati. Tuttavia, la MiFID II, e anche il Regolamento sugli abusi di mercato del 2014, non la considerano necessariamente tale, pur sottoponendola a specifici presidi. L’art. 67-ter del TUF pone, in capo ai soggetti che svolgono negoziazioni con modalità algoritmiche, obblighi qualificati sul piano dei presidi e dei controlli. In particolare, le SIM e le banche, in tale ambito: a) pongono in essere controlli dei sistemi e del rischio efficaci e idonei alla luce dell’attività esercitata sulle sedi di negoziazione, volti a garantire che i propri sistemi di negoziazione algoritmica siano resilienti e dispongano di sufficiente capacità, siano soggetti a soglie e limiti di negoziazione appropriati, impediscano di inviare ordini erronei o comunque recare pregiudizio all’ordinato svolgimento delle negoziazioni; b) pongono in essere controlli efficaci dei sistemi e del rischio per ga-

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V. Per la specificazione della nozione di “elevato traffico” infra-giornaliero l’art. 19 del Regolamento n. 565/2017. I requisiti organizzativi delle imprese che svolgono attività di negoziazione algoritmica sono specificati dal Regolamento (UE) 19 luglio 2016, n. 2017/589. 33 ALVARO-VENTORUZZO (2016).

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rantire che i sistemi di negoziazione algoritmica non possano essere utilizzati per finalità contrarie al Regolamento (UE) n. 596/2014 o alle regole della sede di negoziazione; c) dispongono di meccanismi efficaci di continuità operativa per rimediare a malfunzionamenti dei sistemi di negoziazione algoritmica e provvedono affinché i loro sistemi siano soggetti a verifica e monitoraggio in modo adeguato per garantirne la conformità ai requisiti del presente comma. Anche i presidi nel contesto della disciplina degli abusi di mercato devono, naturalmente, rafforzarsi in presenza di siffatte operatività, stante il fatto che – pur non essendo esse, di per sé, condotte abusive – possono fungere da viatico per condotte che, invece, si pongono in contrasto con i relativi precetti. Il dibattito su questi temi – al di là delle prime regole introdotte con MiFID II – è, comunque, ancora articolato.

11. Il Regolamento EMIR Il Regolamento (UE) n. 648/2012 (c.d. Regolamento EMIR, European Market Infrastructure Regulation) trova le proprie profonde radici nella crisi finanziaria del 2008 e nei connessi casi di default verificatisi nel mercato internazionale, che hanno messo in luce la necessità di intervenire in un settore particolarmente delicato: il mercato degli strumenti derivati over the counter 34. I leader internazionali del G20, riuniti prima nel 2009 a Pittsburgh e poi nel 2010 a Toronto, hanno evidenziato la necessità di rafforzare il mercato dei derivati OTC standardizzati, tramite l’introduzione di forme di negoziazione e garanzie di trasparenza che fossero assimilabili a quelle proprie dei listini ufficiali. Sulla base di tale impulso internazionale, la reazione del Legislatore europeo si è tradotta proprio nella riforma EMIR, il cui obiettivo è di regolamentare un mercato che – per sua natura – nasce come non regolamentato. L’obiettivo di una maggiore solidità, stabilità e integrità dei mercati è stato perseguito dal Regolamento EMIR anzitutto tramite la previsione di due particolari categorie di soggetti, ossia le controparti centrali (o CCP) e i repertori di dati sulle negoziazioni, introducendo meccanismi di funzionamento del mercato dei contratti derivati OTC analoghi a quelli propri dei mercati regolamentati: non a caso, le controparti centrali sono definite dal Regolamento come persone giuridiche che si interpongono tra le controparti di contratti negoziati su uno o più mercati finanziari, agendo come acquirenti nei confronti di ciascun 34

In realtà, come ormai sempre accade con la normativa europea, al Regolamento EMIR sono collegati vari provvedimenti che ne completano il quadro e la disciplina. Per una raccolta aggiornata di tale “pacchetto” si veda l’apposita sezione del sito Internet della Consob all’indirizzo: http://www.consob.it/web/area-pubblica/emir-normativa-europea.

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venditore e come venditore nei confronti di ciascun acquirente; i repertori di dati sulle negoziazioni sono invece persone giuridiche che raccolgono e conservano in modo centralizzato le registrazioni sui derivati. È chiaro che le funzioni attribuite a tali soggetti trovano un’evidente corrispondenza con l’oggetto del Regolamento stabilito all’art. 1 dello stesso, ossia, da un lato, la fissazione di obblighi di compensazione e di gestione del rischio bilaterale per i contratti derivati over the counter, dall’altro lato, obblighi di segnalazione per i contratti derivati. Per quanto attiene all’ambito di applicazione, lo stesso art. 1 stabilisce che il Regolamento si applica alle CCP (nonché ai loro partecipanti diretti), ai repertori di dati sulle negoziazioni, alle controparti finanziarie, alle controparti non finanziarie e alle sedi di negoziazione nei casi previsti: mentre la categoria delle controparti non finanziarie ha carattere residuale rispetto alle CCP e alle controparti finanziarie, queste ultime sono definite (all’art. 2, par. 1, punto 8, Regolamento EMIR) come enti creditizi, imprese di investimento, di assicurazione, di riassicurazione, enti professionistici aziendali o professionali, nonché OICVM (e, se del caso, la loro società di gestione) e fondi di investimento alternativi. Per quanto attiene alla compensazione dei derivati OTC, il Regolamento prevede un differente regime – di obbligo o non-obbligo di compensazione – a seconda che gli stessi derivati presentino o meno le caratteristiche di cui all’art. 4. In particolare, è previsto un obbligo di compensazione per i contratti aventi ad oggetto determinate categorie di derivati OTC (puntualmente individuate in un registro pubblico istituito e aggiornato dall’ESMA, reso disponibile sul sito internet della stessa Autorità), a patto che siano soddisfatte le seguenti condizioni: a) i contratti devono essere stati conclusi secondo una delle seguenti modalità: (i) tra due controparti finanziarie; (ii) tra una controparte finanziaria e una controparte non finanziaria che soddisfa le condizioni di cui all’art. 10, par. 1, lett. b) del Regolamento; (iii) tra due controparti non finanziarie che soddisfano le condizioni di cui all’art. 10, par. 1, lett. b) del Regolamento; (iv) tra una controparte finanziaria o una controparte non finanziaria che soddisfa le condizioni di cui all’art. 10, par. 1, lett. b) del Regolamento, e un soggetto stabilito in un paese terzo che sarebbe sottoposto all’obbligo di compensazione se fosse stabilito nell’Unione Europea; o (v) tra due soggetti stabiliti in uno o più paesi terzi che sarebbero sottoposti all’obbligo di compensazione se fossero stabiliti nell’Unione Europea, purché il contratto abbia un effetto diretto, rilevante e prevedibile nell’Unione Europea o laddove tale obbligo sia necessario od opportuno per evitare l’elusione delle disposizioni dello stesso Regolamento; b) gli stessi contratti devono essere stipulati o novati: (i) a partire dalla data di decorrenza dell’obbligo di compensazione; o (ii) a decorrere dalla data di comunicazione di cui all’art. 5, par. 1 del Regolamento, ma anteriormente alla data

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di decorrenza dell’obbligo di compensazione se la durata residua dei contratti è superiore alla durata residua minima stabilita dalla Commissione europea. L’obbligo di segnalazione è trattato dall’art. 9 del Regolamento, ai sensi del quale le controparti e le CCP devono assicurare che le informazioni relative ai contratti derivati che hanno concluso, e a qualsiasi modifica o cessazione del contratto, siano trasmesse ad un repertorio di dati sulle negoziazioni. Le informazioni devono essere trasmesse al più tardi il giorno lavorativo che segue la conclusione, la modifica o la cessazione del contratto. Se il repertorio di dati sulle negoziazioni non è disponibile per la registrazione delle informazioni relative al contratto derivato, le controparti e le CCP devono provvedere a che tali informazioni siano segnalate all’ESMA. Nel caso, invece, di contratti derivati CCP non compensati mediante CCP, l’art. 11 del Regolamento EMIR stabilisce che le controparti finanziarie e non finanziarie che stipulano siffatti contratti devono adottare adeguate tecniche di attenuazione dei rischi. Ai sensi dello stesso art. 11, le controparti finanziarie devono, altresì, adottare procedure di gestione dei rischi che prevedano uno scambio di garanzie effettuato in modo tempestivo, accurato e con adeguata segregazione, e devono detenere un importo di capitale adeguato e proporzionato per gestire il rischio non coperto da scambi di garanzie. Il Regolamento EMIR tocca anche il tema delle sanzioni connesse alla violazione delle disposizioni dettate in materia di compensazione, segnalazione e attenuazione dei rischi dei derivati OTC: si prevede che gli Stati membri debbano stabilire le norme relative all’irrogazione di tali sanzioni e adottare tutte le misure necessarie ad assicurarne l’applicazione; in particolare, le sanzioni devono includere almeno sanzioni amministrative ed essere efficaci, proporzionate e dissuasive. Il Regolamento EMIR disciplina l’iter di autorizzazione che deve essere messo in atto dalle persone giuridiche che intendono operare come CCP e il procedimento di registrazione previsto per i repertori di dati sulle negoziazioni. A tal fine le CCP devono avere un capitale iniziale permanente e disponibile di almeno 7,5 milioni di euro e comunque adeguato alla copertura dei rischi. Inoltre il Titolo V del Regolamento prevede pregnanti requisiti che devono essere costantemente posseduti dalle CCP, in relazione a organizzazione interna, condotta degli affari e presidi prudenziali. Il Regolamento EMIR formula analoghe previsioni anche riguardo ai repertori di dati sulle negoziazioni: a tal proposito, è interessante segnalare che ai fini della registrazione e della vigilanza sugli stessi repertori, svolge un ruolo fondamentale l’ESMA, alla quale deve essere presentata domanda di registrazione. L’ESMA verifica che i repertori soddisfino in ogni momento le condizioni richieste ai fini della registrazione e può applicare sanzioni amministrative pecuniarie a carico degli stessi. La natura dei requisiti richiesti ai repertori di dati sulle negoziazioni (Tito-

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lo VII del Regolamento) è strettamente connessa alla loro funzione di garantire la massima trasparenza e sicurezza dei dati raccolti: per questo, oltre ad una serie di requisiti generali sul governo societario, struttura organizzativa e continuità operativa, il Regolamento include due articoli (rispettivamente 80 e 81) aventi ad oggetto da un lato la salvaguardia delle registrazioni dei dati raccolti, dall’altro la trasparenza e disponibilità degli stessi. Ai sensi dell’art. 80, i repertori di dati sulle negoziazioni devono assicurare la riservatezza, l’integrità e la protezione delle informazioni ricevute, e le devono conservare per almeno dieci anni a decorrere dalla cessazione dei contratti interessati; devono utilizzare inoltre procedure di conservazione dei dati rapide ed efficaci per documentare le modifiche apportate alle informazioni registrate.

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Controparti centrali, depositari accentrati e gestione accentrata

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CAPITOLO XIV CONTROPARTI CENTRALI, DEPOSITARI ACCENTRATI E GESTIONE ACCENTRATA SOMMARIO: 1. Un quadro composito. – 2. Le controparti centrali. – 3. I depositari centrali (CSD). – 4. La gestione accentrata e la dematerializzazione.

1. Un quadro composito L’individuazione di sistemi atti ad agevolare l’efficiente esecuzione delle operazioni di contrattazione di strumenti finanziari rappresenta un’esigenza tipica che connota, da sempre, la disciplina dei mercati. Il buon funzionamento di questi ultimi dipende, infatti, sia dalle modalità di conclusione dei contratti e delle operazioni, sia dalle operazioni di regolamento (settlement) delle stesse. Anzi, è proprio in questa fase che si annidano possibili rischi per la stabilità stessa dei mercati: difficoltà o, addirittura, default in fase di regolamento possono avere conseguenze gravi; sotto un altro profilo, la presenza, in ambito europeo, di diversi sistemi di regolamento delle operazioni rallenta il processo di integrazione dei mercati, e ne accentua la frammentazione. In tale contesto, il ruolo dei gestori accentrati è, come vedremo, essenziale, così come quello delle controparti e dei depositari accentrati. Questa complessa materia è stata consolidata e riordinata nella Parte III del TUF, al cui interno si rinvengono dunque, dopo la disciplina delle sedi di negoziazione: – le regole applicabili alle controparti centrali (Parte III, Titolo II, artt. da 79-quinquies a 79-novies); – le regole applicabili ai depositari centrali e alla gestione accentrata (Parte III, Titolo II-bis, artt. da 79-decies a 90); – accesso ai servizi di post-trading e tra sedi di negoziazione infrastrutture di post-trading (Parte III, Titolo II-ter, da art. 90-bis a art. 90-septies).

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2. Le controparti centrali Il Regolamento (UE) n. 648/2012 sugli strumenti derivati OTC, le controparti centrali e i repertori di dati sulle negoziazioni (il già richiamato Regolamento “EMIR”) ha introdotto, a carico delle controparti di un contratto derivato, una serie di obblighi al fine di ridurre il rischio dei mercati derivati e migliorarne la trasparenza. Tali obblighi sono diversamente modulati a seconda della natura delle controparti (finanziarie e non finanziarie), e della natura dei contratti. Il Regolamento EMIR prevede, tra gli altri, l’obbligo di compensazione mediante controparti centrali di taluni contratti derivati OTC che presentano specifiche caratteristiche in termini di possibile standardizzazione, volumi trattati, liquidità. La compensazione dei contratti tramite la controparte centrale elimina, di fatto, il rischio di controparte, giacché il contratto viene regolato direttamente con la controparte centrale stessa, in quanto ente sottoposto a vigilanza e a specifiche regole volte a garantirne la stabilità. L’assetto delle competenze di vigilanza sugli adempimenti derivanti dal Regolamento EMIR è definita nel nostro ordinamento all’art. 4-quater del TUF. Il comma 2-bis attribuisce a Banca d’Italia, Consob, Ivass e Covip la competenza sui soggetti già vigilati dalle medesime Autorità, secondo le rispettive attribuzioni di vigilanza; il comma 3 designa la Consob quale Autorità competente sulle controparti non finanziarie, che non siano già vigilate da altre Autorità 1. Il Regolamento EMIR ha, però, introdotto una disciplina di vigilanza anche nei riguardi delle controparti centrali, ossia sui soggetti attraverso i quali vengono regolati i contratti che rientrano nell’ambito di applicazione del medesimo: l’art. 79-quinquies del TUF individua nella Banca d’Italia e nella Consob le Autorità a tal fine competenti – secondo la tipica ripartizione funzionale delle rispettive competenze 2 – e l’art. 79-sexies disciplina il rilascio dell’autorizzazione a favore dei soggetti che intendono operare quali controparti centrali. I criteri, e il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione sono regolati direttamente dal Regolamento EMIR, salvo alcuni profili che, rientrando negli ambiti lasciati agli Stati membri, sono per così dire “completati” dalla previsione del TUF testé citata (requisiti degli esponenti e dei partecipanti al capitale). Al fine di assicurare che le controparti centrali assolvano correttamente alle loro funzioni di settlement delle operazioni è, naturalmente, essenziale che esse siano adeguatamente protette dal rischio di procedure esecutive e che quanto da loro detenuto non sia destinato a fini diversi. Le controparti centrali, infatti, si interpongono tra le parti del contratto in fase di regolamento, assumendo le relative po1

Ulteriori disposizioni riferite all’identificazione delle autorità competenti ai sensi di specifiche norme del Regolamento EMIR si rinvengono agli artt. 79-octies e 79-octies.1. 2 Cfr. art. 70-sexies, comma 3, TUF.

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sizioni in proprio, e, pertanto, necessitano di regole che, a tal fine, le rendano immuni da possibili rischi estranei alla loro funzione tipica 3. A tal fine, l’art. 79-septies prevede una disciplina di particolare protezione della controparte centrale: si prevede, infatti, che i margini e le altre prestazioni acquisite da una controparte centrale a titolo di garanzia dell’adempimento degli obblighi derivanti dall’attività di compensazione svolta in favore dei propri partecipanti non possono essere soggetti ad azioni esecutive o cautelari da parte dei creditori del singolo partecipante o della controparte centrale, anche in caso di apertura di procedure concorsuali. Le garanzie acquisite possono essere utilizzate esclusivamente secondo quanto previsto dal Regolamento (UE) n. 648/2012. L’apertura di una procedura di insolvenza nei confronti di un partecipante non pregiudica l’adozione e l’efficacia delle misure previste dall’art. 48 del predetto Regolamento da parte della controparte centrale, in conformità al medesimo articolo, finalizzate alla gestione delle posizioni del partecipante insolvente e funzionali alla portabilità delle medesime e delle relative garanzie o alla restituzione di queste ultime ai clienti, secondo quanto previsto dal medesimo Regolamento. Tali misure non possono essere dichiarate inefficaci in virtù dell’applicazione di altre norme dell’ordinamento. Regole ad hoc sono previste nel caso in cui l’insolvenza riguardi un soggetto italiano, partecipante ad una controparte estera (UE o non-UE).

3. I depositari centrali (CSD) L’individuazione di sistemi atti ad agevolare l’efficiente esecuzione delle operazioni di contrattazione di strumenti finanziari rappresenta un’esigenza tipica del mercato mobiliare. L’evoluzione della disciplina, pertanto, è stata segnata dall’introduzione di meccanismi volti a rendere più rapida e sicura la fase non soltanto di negoziazione degli strumenti, ma anche di regolamento delle operazioni: di quella fase, cioè nella quale si verifica lo scambio delle prestazioni (tipicamente: consegna di titoli, a fronte del pagamento del prezzo; liquidazione degli importi dovuti). In questa materia – che ha conosciuto varie evoluzioni, sul piano storico, sin dagli anni ’80 del XX secolo – è intervenuto anche il legislatore europeo, in particolare tramite il Regolamento (UE) n. 909/2014 (c.d. Central Securities Depositories Regulation – “CSDR”), il quale introduce una disciplina uniforme, in ambito europeo, relativa al regolamento 3

In base all’art. 2 del Regolamento EMIR, una controparte centrale è “una persona giuridica che si interpone tra le controparti di contratti negoziati su uno o più mercati finanziari agendo come acquirente nei confronti di ciascun venditore e come venditore nei confronti di ciascun acquirente”.

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delle operazioni su strumenti finanziari, e ai gestori accentrati, per tali intendendosi coloro che operano in un sistema di regolamento titoli (Securities Settlement System, “SSS”) e svolgono almeno uno degli ulteriori servizi “core” di cui alla Sezione A dell’Allegato al CSDR, ossia i servizi di (i) registrazione iniziale dei titoli in un sistema di scritture contabili (notary service) e (ii) fornitura e mantenimento dei conti titoli a livello più elevato (central maintenance service). La disciplina del regolamento delle operazioni in strumenti finanziari introdotta dal CSDR si articola principalmente su tre fronti. In primo luogo, viene introdotto – per tutti gli Stati membri – l’obbligo di rappresentare gli strumenti ammessi alla negoziazione o negoziati in sedi di negoziazione attraverso scritture contabili (book-entry form) mediante accentramento o emissione diretta in forma dematerializzata. In Italia, quest’ultimo obbligo è, di fatto, già previsto da lungo tempo (v., in particolare, il Decreto n. 213/1998 recante introduzione dell’euro) 4. Si introducono poi regole armonizzate per la data di regolamento (settlement date) delle operazioni eseguite, che non può essere successiva al secondo giorno lavorativo dopo la negoziazione (c.d. “T + 2”): anche questa disposizione è, di fatto, già da tempo adottata in Italia. Infine, il Regolamento punta a migliorare le regole che presiedono al regolamento delle operazioni prevedendo, in particolare, misure in caso di inadempimenti, sanzioni pecuniarie a carico dei partecipanti, e procedure di acquisto forzoso dei titoli non disponibili al momento del regolamento (il c.d. “buy in”). Il CSDR disciplina anche i profili inerenti all’autorizzazione e alla vigilanza dei CSD, attribuendo le relative funzioni alle autorità competenti appositamente designate da ciascun Stato Membro, secondo uno schema classico, che replica – mutatis mutandis – gli schemi già visti in materia. Anche sul piano delle regole di vigilanza, vi sono numerosi profili in comune: sono previste regole in materia di corporate governance, funzioni di controllo, conflitti di interesse, esternalizzazione di funzioni aziendali, regole operative e di condotta. Sono poi previsti presidi per assicurare la protezione dei titoli, e la segregazione delle posizioni degli aderenti ai CSD e dei relativi clienti. I CSD – che possono prestare la loro attività anche in ambito transfrontaliero – sono, infine, assoggettati a obblighi di natura prudenziale (gestione dei rischi, politica di investimento e adeguatezza patrimoniale). Ai sensi dell’art. 79-undecies del TUF, la Consob e la Banca d’Italia sono le autorità nazionali competenti per l’autorizzazione e la vigilanza sui CSD 4

L’art. 83-bis del TUF estende l’obbligo di dematerializzazione ai valori mobiliari italiani ammessi alla negoziazione o negoziati con il consenso dell’emittente in una qualsiasi sede di negoziazione italiana o dell’Unione – inclusi i sistemi multilaterali di negoziazione (MTF) nonché, i sistemi organizzati di negoziazione (OTF). Si prevede, inoltre, la possibilità di assolvere all’obbligo di dematerializzazione aderendo a un CSD di altro Stato membro che operi in via transfrontaliera in Italia secondo il regime del passaporto UE, sebbene questa possibilità risulti preclusa in ipotesi di dematerializzazione volontaria.

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italiani. Esse sono, inoltre, anche le autorità “rilevanti” ai sensi del CSDR, ex art. 79-terdecies del TUF. L’autorizzazione ai CSD è rilasciata dalla Consob, d’intesa con la Banca d’Italia. Le finalità della vigilanza esercitata dalle due autorità e i relativi poteri sono definiti dall’art. 79-quaterdecies, mentre l’art. 79duodecies individua le autorità competenti a svolgere specifiche funzioni contemplate dal CSDR in materia di regolamento titoli e settlement discipline 5. L’art. 79-quinquiesdecies rimette al “regolamento dei servizi” del CSD – soggetto all’ approvazione da parte della Consob, sentita la Banca d’Italia – la definizione delle modalità di svolgimento e dei criteri di ammissione dei partecipanti 6. Regole particolari, si applicano – da sempre – con riguardo alla materia dei titoli di Stato. In base all’art. 90 del TUF spetta al Ministro dell’economia e delle finanze stabilisce con regolamento le modalità di individuazione dei depositari centrali dei titoli di Stato, nonché i criteri per la fornitura dei relativi servizi. In tale ambito, però, è stata esclusa la potestà del Ministro in merito alla disciplina delle modalità di svolgimento delle attività di gestione accentrata, che resta regolata dalle norme relative agli strumenti finanziari dematerializzati.

4. La gestione accentrata e la dematerializzazione Il legislatore italiano ha espressamente riservato ai CSD autorizzati alla prestazione dei servizi “core” di cui alla Sezione A, punti 1) e 2) dell’Allegato al CSDR (su cui v. supra) e dei relativi servizi accessori la prestazione delle attività di gestione accentrata di strumenti finanziari (art. 82, comma 1, TUF). 5

Sempre in materia di CSD, le disposizioni del Titolo II-ter individuano le autorità competenti ai fini della disciplina dell’accesso ai CSD italiani, e tra sedi di negoziazione e infrastrutture di post-trading (artt. 90-bis e 90-ter, TUF). I successivi artt. 90-quater, 90-quinquies e 90-sexies accolgono, con qualche riformulazione, le originarie disposizioni del TUF in materia (artt. 70-bis e 70-ter) mentre l’art. 90-septies identifica i poteri di vigilanza che la Consob e la Banca d’Italia possono esercitare nei confronti di sedi di negoziazione, CSD e CCP ai fini dello svolgimento delle funzioni di cui al medesimo Titolo II-ter. 6 Il Capo III del Titolo II-bis (rubricato “I depositari centrali”) riproduce le previsioni in materia di revisione legale dei conti e crisi già contenute – salvo qualche intervento di coordinamento – nei previgenti artt. 80, comma 10 e 83 del TUF (ora artt. 79-octiesdecies e 79-bis decies, rispettivamente) e introduce una specifica norma (art. 79-noviesdecies) volta a disciplinare le ipotesi di violazione delle previsioni del CSDR in ordine alle modifiche all’assetto di controllo del CSD (art. 27, parr. 7 e 8, CSDR), prevedendo, tra l’altro, la sterilizzazione dei diritti di voto inerenti alle partecipazioni rilevanti e la possibilità (anche da parte della Consob e della Banca d’Italia) di impugnare la deliberazione (o diverso atto) adottata con il voto o il contributo determinante delle stesse.

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Nell’ordinamento italiano, la Storia della disciplina della gestione accentrata è risalente, e si è svolta, essenzialmente, in due fasi distinte. La prima fase – avviata con la legge n. 289/1986 – coincide essenzialmente con l’istituzione della Monte Titoli S.p.a., e con l’introduzione della relativa disciplina. Elemento caratteristico di tale fase consiste nell’“accentramento” dei titoli oggetto della disciplina presso una società di gestione accentrata, in capo alla quale vengono registrate – nelle forme, e con il sistema che analizzeremo – le operazioni di trasferimento. La forma cartacea del titolo, tuttavia, permaneva, potendo, infatti, i titoli essere ritirati dal sistema di gestione accentrata, e riprendere così la loro forma originaria. La seconda fase, avviata con il D.Lgs. n. 213/1998 ha invece comportato la totale dematerializzazione, tra gli altri, degli strumenti finanziari negoziati nei mercati regolamentati, e la correlativa scomparsa di ogni rappresentazione “cartolare” degli strumenti stessi. Come avremo modo di porre in luce, tra le due fasi sussistono rapporti di profonda integrazione, posto che la disciplina della dematerializzazione poggia proprio sul ruolo e sull’intervento delle società di gestione accentrata, tra cui – in primo luogo, e con riferimento all’Italia – la Monte Titoli S.p.a. È appena il caso di rilevare che la seconda fase – caratterizzata dalla “privatizzazione” della Monte Titoli, e dalle profonde trasformazioni che hanno interessato anche la disciplina e gli assetti dei mercati regolamentati – ha schiuso a sua volta la prospettiva ad un’ulteriore fase di sviluppo dell’attività degli organismi di gestione accentrata, che tendono sempre più ad unificare e ad accentrare le attività relative al regolamento ed al settlement delle operazioni, non limitandosi a quelle relative alla custodia e alla gestione accentrata dei titoli. A sua volta, l’integrazione in essere tra i mercati europei funge da stimolo alla conclusione di accordi tra gli organismi di gestione accentrata dei singoli Paesi, allo scopo di rendere sempre più efficiente la procedura di regolamento e di liquidazione delle operazioni in strumenti finanziari all’interno della Comunità. Sin dall’origine, il perno attorno al quale ruota l’intero sistema della gestione accentrata è stato rappresentato dal sub-deposito, e questo è ancora lo schema di base su cui operano i CSD: i titoli interessati vengono affidati in deposito a soggetti abilitati (ad esempio banche, SIM, ecc.), e successivamente immessi in sub-deposito presso la società di gestione accentrata; il sistema ne consentirà il trasferimento senza che debba farsi luogo alla materiale consegna del documento. Trattasi, tecnicamente, di un deposito regolare, alla rinfusa: il CSD non diviene dunque proprietario dei titoli. I depositanti non hanno tuttavia il diritto di ottenere gli stessi titoli depositati, ma unicamente un quantitativo corrispondente di titoli della stessa specie 7. Il Testo Unico distingue le disposizioni applicabili alla gestione accentrata 7

Per tutti v. LENER (1989-II).

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in regime di dematerializzazione, da quelle relative alla gestione accentrata di strumenti rappresentati da titoli. Le regole di base sono previste relativamente agli strumenti dematerializzati. La differenza che intercorre tra l’originaria disciplina della gestione accentrata, e la più recente disciplina della dematerializzazione, è di rilievo. Infatti, per la prima, la “dematerializzazione” dei titoli è un evento, per così dire, “transitorio”, destinato a perdurare, e a produrre i propri effetti, se e fino a quando gli strumenti finanziari restino nel sistema di gestione accentrata. Assai più radicale risulta, di contro, il regime di dematerializzazione: l’art. 83-bis TUF sancisce, infatti, il divieto di rappresentare in forma cartolare gli strumenti finanziari dematerializzati 8. Ciò significa che per gli strumenti dematerializzati, non è possibile “incorporare” i diritti relativi agli strumenti in questione in un documento cartolare, secondo gli effetti propri della disciplina dei titoli di credito, ponendosi tale impossibilità già in fase di emissione dei titoli. Gli strumenti finanziari naturalmente soggetti al regime di dematerializzazione sono quelli ammessi alla negoziazione o negoziati in una sede di negoziazione italiana. L’art. 83-bis, comma 2 prevede l’assoggettabilità alla disciplina della dematerializzazione anche di strumenti finanziari diversi da quelli di cui sopra, “al fine di agevolarne la circolazione”. La “circolabilità” degli strumenti diviene così elemento che può comportare l’assimilazione degli strumenti finanziari alla categoria degli strumenti negoziati nelle trading venues ufficiali, secondo una linea di tendenza che trova conferma anche in altre rilevanti previsioni del TUF e, segnatamente, nella disciplina dell’informazione societaria. Infine, l’emittente strumenti finanziari può assoggettarli, in via volontaria, al regime di dematerializzazione. In base all’art. 83-quater, il trasferimento degli strumenti finanziari dematerializzati nonché l’esercizio dei relativi diritti patrimoniali possono effettuarsi soltanto tramite gli intermediari. A tal fine: – a nome e su richiesta degli intermediari, la società di gestione accentrata accende per ogni intermediario conti destinati a registrare i movimenti degli strumenti finanziari disposti tramite lo stesso; – l’intermediario, incaricato dello svolgimento del servizio, registra per ogni titolare di conto gli strumenti finanziari di sua pertinenza nonché il trasferimento, gli atti di esercizio ed i vincoli, in conti distinti e separati sia tra loro, sia rispetto agli eventuali conti di pertinenza dell’intermediario stesso. Effettuata la registrazione, il titolare del conto ha la legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati, e può disporne secondo le regole previste.

8

V. SPADA (1999); BUTA (2002).

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Riecheggiando la disciplina dei titoli di credito, l’art. 83-quinquies, comma 2, prevede che colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore, in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte di precedenti titolari. La legittimazione all’esercizio dei diritti inerenti gli strumenti dematerializzati è attestata dall’esibizione di certificazioni rilasciate in conformità alla proprie scritture contabili dagli intermediari e recanti l’indicazione del diritto sociale esercitabile. La legge precisa – per non snaturare la stessa essenza del regime di dematerializzazione – che le certificazioni non conferiscono altri diritti oltre alla legittimazione sopra indicata, stabilendo altresì la nullità degli atti di disposizione aventi a oggetto le certificazioni suddette. La legittimazione all’intervento in assemblea e all’esercizio del diritto di voto è attestata da una comunicazione all’emittente, effettuata dall’intermediario, in conformità alle proprie scritture contabili, in favore del soggetto a cui spetta il diritto di voto (art. 83-sexies, comma 1). In base a quanto previsto dalla disciplina comunitaria, per le assemblee dei portatori di strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nei mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali di negoziazione italiani, o di altri paesi dell’Unione Europea, con il consenso dell’emittente, la comunicazione è effettuata dall’intermediario sulla base delle evidenze relative al termine della giornata contabile del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea in prima o unica convocazione. Le registrazioni in accredito e in addebito compiute sui conti successivamente a tale termine non rilevano ai fini della legittimazione all’esercizio del diritto di voto nell’assemblea: viene così a modificarsi radicalmente, per le società interessate, la regola originariamente prevista dal diritto societario, in base alla quale le azioni dovevano formare oggetto di deposito nei giorni antecedenti le assemblee, non potendo formare oggetto di trasferimento sino alla data della delibera. Ciò dovrebbe comportare, nelle intenzioni del legislatore, una maggior efficienza del mercato. Per le assemblee diverse da quelle di cui sopra, lo statuto può però comunque stabilire che le azioni oggetto di comunicazione siano registrate nel conto del soggetto a cui spetta il diritto di voto a partire da un termine prestabilito, eventualmente prevedendo che esse non possano essere cedute fino alla chiusura dell’assemblea. Nelle società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante il termine non può, tuttavia, essere superiore a due giorni non festivi. Qualora lo statuto non impedisca la cessione delle azioni, l’eventuale cessione delle stesse comporta l’obbligo per l’intermediario di rettificare la comunicazione precedentemente inviata. Nel sistema così delineato, il ruolo dell’intermediario risulta, dunque, essenziale, ed i compiti allo stesso spettanti sono indicati dall’art. 83-decies del TUF. L’intermediario è in particolare responsabile:

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a) verso il titolare del conto, per i danni derivanti dall’esercizio dell’attività di trasferimento suo tramite degli strumenti finanziari, di tenuta dei conti, e per il puntuale adempimento degli obblighi posti dal TUF e dal Regolamento del CSD; b) verso l’emittente, per l’adempimento degli obblighi di comunicazione e segnalazione imposti dal TUF e dal Regolamento del CSD. Nell’ambito della disciplina della dematerializzazione, il legislatore ha affrontato – con soluzioni anche innovative – il tema della costituzione di vincoli sugli strumenti finanziari dematerializzati. Ai sensi dell’art. 83-octies del TUF, i vincoli di ogni genere sugli strumenti finanziari dematerializzati possono costituirsi unicamente con le registrazioni in apposito conto tenuto dall’intermediario. Essendo definitivamente scomparsa la chartula, la creazione dei vincoli viene ad essere affidata in via esclusiva al sistema di registrazioni contabili, previste nell’ambito della disciplina della dematerializzazione: sul punto, le norme regolamentari individuano le modalità per l’effettuazione delle registrazioni, e per la tenuta dei conti destinati ad accogliere gli strumenti finanziari oggetto di vincoli. La disciplina non si limita però a introdurre regole relative alla registrazione di vincoli su singoli strumenti finanziari: l’art. 83-octies, comma 2, prevede la possibilità di accendere “specifici conti destinati a consentire la costituzione di vincoli sull’insieme degli strumenti finanziari in essi registrati”. L’elemento degno di nota, introdotto dalla disposizione in commento, attiene alla possibilità di creare vincoli su di un insieme di strumenti finanziari; interpretando correttamente la ratio della disposizione legislativa, le norme regolamentari precisano che il vincolo ha ad oggetto il “valore dell’insieme” degli strumenti finanziari registrati nell’apposito conto: oggetto del vincolo non sono dunque i singoli strumenti finanziari registrati nel conto (come nell’ipotesi precedente), ma il loro “valore complessivo”. Ne deriva che gli strumenti finanziari registrati nel conto possono essere sostituiti, anche in via continuativa, fermo restando il vincolo sul loro valore complessivo. Si schiude così definitivamente la prospettiva alla possibilità di costituire garanzie di tipo “rotativo” (e, in particolare, pegni) su un insieme di strumenti finanziari, superando in radice – per gli strumenti dematerializzati – l’atteggiamento di chiusura manifestato in passato dalla giurisprudenza relativamente a tali forme di garanzia 9. Si tratta di un elemento di notevole importanza per il grande rilievo che tali schemi contrattuali hanno sul mercato finanziario, tanto domestico, quanto internazionale, in quanto normalmente connessi con l’effettuazione di alcune tra le più comuni operazioni di mercato (ad esempio: pegno di portafogli; garanzie a fronte di finanziamenti bancari; operazioni di prestito titoli, ecc.). Anche sotto questo profilo, si coglie un’evidente volontà di adeguamento della disciplina 9

V. LENER (1998-II); PISCITELLO (1999); RESCIGNO (2000).

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alle mutate esigenze dei mercati mobiliari e finanziari, che la normativa sulla dematerializzazione realizza a più livelli 10. Per quanto attiene alla gestione accentrata di strumenti finanziari rappresentati da documenti, la relativa disciplina è modellata su quella della dematerializzazione (cfr. l’art. 85, che richiama gli artt. da 83-quater a 83-undecies). In questo caso, l’“ingresso” nel regime di gestione accentrata ha luogo attraverso il deposito dello strumento finanziario presso l’intermediario e il successivo subdeposito presso la società di gestione accentrata. La clausola del contratto di deposito che attribuisce al depositario la facoltà di procedere al sub-deposito degli strumenti finanziari stessi presso la società di gestione accentrata deve essere approvata per iscritto; al depositario sono attribuiti tutti i poteri necessari, compreso quello di apporre la girata a favore della società di gestione accentrata, quando si tratta di strumenti finanziari nominativi. L’immissione nel sistema comporta l’inserimento dello strumento finanziario in un deposito regolare; d’altro canto, il deposito è a tutti gli effetti qualificabile come deposito alla rinfusa: gli strumenti finanziari perdono dunque la loro individualità e, in caso di ritiro degli strumenti stessi dal sistema, il titolare non otterrà necessariamente gli stessi strumenti a suo tempo depositati. Ne deriva che la società di gestione non acquista la proprietà degli strumenti finanziari, ma essa è comunque legittimata – in base all’art. 85, comma 3, del TUF – a compiere tutte le operazioni inerenti la gestione, nonché le azioni conseguenti alla distruzione, allo smarrimento e alla sottrazione degli strumenti finanziari. La legittimazione non si estende però all’esercizio dei diritti incorporati negli strumenti finanziari, che continua a spettare ai relativi titolari, ai quali vengono – anche in questo caso – rilasciate apposite certificazioni, che attestano la partecipazione al sistema, e che non conferiscono altri diritti oltre alla legittimazione all’esercizio del diritto (ad esempio: intervento in assemblea, riscossione del dividendo, ecc.). In caso di ritiro dal sistema, la società di gestione accentrata mette a disposizione del depositario gli strumenti finanziari di cui è chiesto il ritiro. Gli stru10 Il tema della costituzione di garanzie su strumenti dematerializzati è oggetto anche di disciplina a livello comunitario: la Direttiva 2002/47/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 170, e succ. mod., disciplina, in particolare, i “contratti di garanzia finanziaria”, stabilendo un principio generale in base al quale, al fine della prestazione della garanzia, è sufficiente la registrazione degli strumenti finanziari sui conti degli intermediari ai sensi delle disposizioni in tema di dematerializzazione. Le disposizioni della Direttiva riconoscono poi ampia libertà nella scelta della legge regolatrice delle garanzie, e nella strutturazione del contenuto dei relativi contratti, e dei diritti attribuiti alle parti Cfr. GARDELLA (2007); GUCCIONE (2008). La Direttiva del 2002 è stata modificata dalla Direttiva 2009/44/CE del 6 maggio 2009, recepita in Italia con il D.Lgs. 24 marzo 2011, n. 48, e dalla Direttiva 2014/59/UE (in fase di recepimento).

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menti finanziari nominativi sono girati al nome del depositario che completa la girata con il nome del giratario. Con riguardo alla disciplina della gestione accentrata si segnala, infine, che l’art. 90 TUF prevede regole speciali applicabili alla gestione accentrata dei titoli di Stato. In particolare, spetta al Ministro dell’economia e delle finanze disciplinare tale materia, indicando i criteri per il suo svolgimento e le modalità di individuazione delle società di gestione accentrata dei titoli di Stato. È tuttavia applicabile, ove non altrimenti previsto, la disciplina emanata ai sensi degli artt. da 83-bis a 83-decies TUF: anche in questo caso, dunque – salve le deroghe eventualmente previste – la disciplina della dematerializzazione funge da schema di riferimento.

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CAPITOLO XV L’OFFERTA AL PUBBLICO DI PRODOTTI FINANZIARI SOMMARIO: 1. Raccolta del risparmio e offerta al pubblico di prodotti finanziari. – 2. I modi dell’offerta. – 3. L’oggetto dell’offerta e la nozione di prodotto finanziario. – 3.1. In particolare: i prodotti bancari e assicurativi. – 4. Il prospetto informativo. – 4.1. Il controllo della Consob sul prospetto. – 4.2. La forma dei contratti. La revoca dell’acquisto o della sottoscrizione. – 5. Il potere regolamentare della Consob nella materia delle offerte al pubblico. – 5.1. (Segue): gli schemi di prospetto. – 6. Il controllo sulla fase preparatoria dell’offerta. – 7. La correttezza dei comportamenti. – 8. Gli obblighi informativi e i poteri della Consob. – 9. La pubblicità finanziaria. – 10. I casi di inapplicabilità e le esenzioni. – 10.1. (Segue): gli investitori qualificati e gli altri casi di inapplicabilità. – 10.2. (Segue): i casi di esclusione parziale. – 10.3. (Segue): l’esenzione prevista dall’art. 205 TUF. – 11. I PRIIPs. – 12. Offerte al pubblico e quotazione nei mercati regolamentati. – 13. Le sanzioni amministrative. – 13.1. Le sanzioni civilistiche. – 14. La responsabilità da prospetto. – 15. “Crack” finanziari e personificazione della crisi: l’art. 100-bis TUF. – 16. La raccolta di capitali di rischio in favore di start up e PMI (crowdfunding).

1. Raccolta del risparmio e offerta al pubblico di prodotti finanziari L’attività di “raccolta” di risparmio tra il pubblico può realizzarsi con modalità diverse, variabili in funzione delle caratteristiche delle operazioni, della tipologia degli strumenti utilizzati e dei destinatari. Sotto il profilo non soltanto economico, ma anche normativo, sussiste tuttavia una netta differenza tra le operazioni che si sostanziano nella raccolta di fondi con obbligo di rimborso, ed altre operazioni: le prime, infatti, come si è avuto modo di illustrare, configurano uno degli estremi della nozione di “attività bancaria”, ed il loro svolgimento è riservato, ai sensi dell’art. 11 TUB, alle banche (salve le eccezioni ivi previste). Le altre operazioni, invece, sono attratte nella disciplina dell’intermediazione e del mercato mobiliare, e vengono dunque regolate dal D.Lgs. n. 58/1998 e, naturalmente, dalle corrispondenti fonti UE. La ragione di tale distinzione attiene, più a monte, alla stessa differenziazione tra disciplina bancaria, da un lato, e disciplina dei mercati mobiliari, dall’altro; essa riflette il diverso grado di rischio in cui incorrono, in relazione ora all’una, ora all’altra ti-

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pologia di operazioni, tanto gli intermediari, quanto gli investitori 1. La “specificità” che, sotto questo profilo, presenta l’attività bancaria trova un diretto riscontro nella relativa disciplina di settore. Anche sotto il profilo terminologico i due campi sono nettamente delimitati: all’attività di raccolta di risparmio “non bancario” viene riservata una denominazione specifica, parlandosi infatti di “offerta al pubblico”, la cui disciplina è contenuta negli artt. 93-bis e ss. TUF. La sua analisi rende necessaria la preliminare individuazione dell’ambito di applicazione della stessa, da realizzarsi – come già per i servizi di investimento e per la gestione collettiva del risparmio – muovendo dalle definizioni contenute nell’art. 1 del TUF, e segnatamente dalla definizione di “offerta al pubblico” e di “prodotto finanziario”. La prima nozione (quella di offerta al pubblico) serve ad individuare le operazioni rilevanti per l’applicazione della disciplina: riguarda, cioè, le modalità dell’offerta; la seconda si riferisce, invece, all’oggetto dell’offerta. L’esame delle due nozioni deve procedere distintamente, anche al fine di porre in luce – in un’ottica di miglior comprensione della disciplina – le differenze rispetto al sistema previgente 2.

2. I modi dell’offerta Con riferimento ai “modi” dell’offerta, l’art. 1, comma 1, lett. t), TUF definisce offerta al pubblico “ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati”. La definizione identifica la nozione di offerta indipendentemente dallo strumento o dalla forma utilizzati: in questo senso, essa si pone in linea di sostanziale continuità con la nozione (precedente al TUF) di “sollecitazione all’investimento”. Ne deriva pertanto che – analogamente a quanto si riteneva con riferimento alla nozione di sollecitazione all’investimento – la disciplina di cui si discute si applica indipendentemente dal fatto che l’operazione presenti i caratteri dell’offerta al pubblico, come definita dall’art. 1336 c.c. La finalità è, infatti, di realizzare una forma di tutela del risparmiatore “inconsapevole” o “disinformato”, indipendentemente dal fatto che l’operazione presenti tutti i caratteri della norma civilistica. Qualsiasi operazione volta a realizzare una forma “diffusa” di raccolta di risparmio rientra allora nella definizione, incluse le offerte in 1 2

COSTI (2007). DI BRINA (2010); BRUNO-ROZZI (2008).

L’offerta al pubblico di prodotti finanziari

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Borsa, le offerte indirette, le offerte a domicilio, le offerte a distanza, o gli inviti ad offrire 3. Rispetto alla nozione precedente, la definizione di offerta al pubblico di prodotti finanziari – introdotta a seguito del recepimento della Direttiva sui prospetti (Direttiva 2003/71/CE 4) – richiede che il messaggio presenti “sufficienti informazioni” tali da porre l’investitore in condizione di decidere se aderire o meno all’operazione: in questo senso, si registra un distacco dalla precedente definizione di sollecitazione all’investimento, che comprendeva espressamente anche i semplici “messaggi promozionali”, e che – per tale via – pareva idonea ad includere anche i messaggi pubblicitari 5. In base alla nuova definizione, di contro, questi ultimi potranno configurare una vera e propria offerta al pubblico, soltanto qualora presentino i caratteri di specificità indicati dalla norma. Resta comunque fermo che – in ogni caso – per i messaggi pubblicitari relativi ad operazioni di offerta al pubblico, l’art. 101 TUF prevede regole specifiche. Al fine di identificare i “modi” dell’offerta, assume particolare rilievo il carattere “pubblico” delle operazioni: la definizione dell’art. 1 TUF è infatti riferita espressamente alle “offerte al pubblico”, per tali intendendosi le comunicazioni rivolte “a persone”. La nozione di “pubblico” non è, dunque, individuata direttamente dal legislatore, ma va ricavata a livello interpretativo. A tal riguardo, anche sulla base di una ormai risalente prassi della Consob, è da ritenere che il carattere “pubblico” dell’operazione si manifesti quando essa è rivolta ad una pluralità di soggetti, che non siano esattamente individuabili ex ante (come è il caso, ad esempio, dell’offerta rivolta ad una cerchia ristretta di soggetti, già preventivamente identificati ed individuati): in questo senso va inteso il riferimento, volutamente generico, alle “persone”, che figura nella definizione. L’esatta individuazione della portata della nozione deve tuttavia poggiare soprattutto sulla previsione di cui all’art. 100 TUF, che formula espressamente i casi di esclusione dalla disciplina delle offerte pubbliche, e sulla quale ci soffermeremo nel prosieguo. 3 Gli “inviti ad offrire” consistono nella formulazione di inviti – rivolti a potenziali investitori – a formulare essi stessi “proposte” (recte, offerte) per l’investimento in prodotti finanziari. Il riferimento agli inviti ad offrire figurava nell’originaria definizione di “sollecitazione all’investimento”, mentre non compare più in quella di “offerta al pubblico”: sembra tuttavia che la nuova definizione risulti idonea a ricomprendere anche questa modalità di offerta. 4 Si segnala che, a decorrere dal 21 luglio 2019, entrerà in vigore il nuovo Regolamento comunitario sui prospetti, che comporterà l’abrogazione della Direttiva 2003/71/CE (Regolamento 14 giugno 2017, n. 2017/21129). Sebbene alcune, limitate disposizioni del Regolamento entreranno in vigore anche nel 2018, si può dire che la disciplina recata dalla Direttiva resta in vigore sino a tale data. Del nuovo Regolamento e delle novità dallo stesso introdotto daremo dunque conto nella prossima edizione del presente manuale. 5 V. FORMICHELLI (1998).

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3. L’oggetto dell’offerta e la nozione di prodotto finanziario Per quanto attiene all’oggetto dell’offerta, la disciplina si applica alle operazioni relative a “prodotti finanziari”: questi ultimi sono definiti dall’art. 1, comma 1, lett. u), TUF come “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”. La medesima disposizione precisa che “non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari”. A seguito delle disposizioni introdotte dalla legge n. 262/2005 sulla tutela del risparmio, la definizione di prodotto finanziario si è, inoltre, arricchita di un nuovo elemento, rappresentato dai “prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione”, definiti alla lett. w-bis), comma 1, art. 1, TUF. Non è agevole individuare esattamente i “confini” del prodotto finanziario. L’art. 1, lett. u), TUF, lascia chiaramente intendere che il “prodotto finanziario” è qualcosa in più dello strumento finanziario, ma l’unico riferimento che il legislatore offre è rappresentato dalla precisazione che il prodotto finanziario abbraccia ogni “investimento di natura finanziaria”. Il modo più corretto per individuare la portata della nozione potrebbe essere quello di ripercorrere prima, a livello interpretativo, la (vecchia) nozione di “valore mobiliare” (utilizzata anteriormente al Testo Unico); quindi, quella di “strumento finanziario” e, infine, valutare le differenze o le sovrapposizioni che possono sussistere tra tali nozioni e quella di “prodotto finanziario”. Non è, però, questa la sede più opportuna per svolgere analiticamente siffatto ragionamento. Ai nostri fini è sufficiente porre in luce taluni elementi essenziali, che possono così riassumersi. In primo luogo, e con riferimento alla nozione di valore mobiliare, nel regime precedente, pur nell’ambito dell’ampio dibattito relativo alla sua esatta individuazione 6, si era alla fine affermata la posizione volta ad identificare la nozione con gli strumenti che, in senso lato, possono essere utilizzati per la raccolta di risparmio diffuso, indipendentemente dalla forma assunta: una nozione, dunque, più ampia di quella di “titolo di credito” o di “titolo di massa” 7. Per quanto attiene allo strumento finanziario, la nozione è – come noto – individuata con diretto riferimento ad un elenco, che di per sé, pare abbastan-

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V. BASSO (1998), il quale rammenta che nella legislazione previgente al TUF vi erano in realtà diverse nozioni di valore mobiliare: a cominciare da quella contenuta nella legge bancaria, nella legge n. 216/1974, nella disciplina della Monte Titoli, nella legge sull’insider trading, sino a quella formulata nella legge sulle offerte pubbliche (legge n. 149/1992). V. anche BRANCADORO (2005) e più recentemente ONZA-SALAMONE (2009); NIUTTA (2009); POMELLI (2010). 7 V. LIBONATI (1999).

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za preciso. A questo punto, non resta altro che raffrontare la nozione di valore mobiliare con quella di strumento finanziario, per passare poi a quella di prodotto finanziario. Per quanto attiene al primo profilo, non sembra che il “passaggio” dalla nozione di valore mobiliare a quella di “strumento finanziario” comporti novità di significativo rilievo per quanto attiene all’applicazione della disciplina dell’offerta al pubblico. In passato, la questione è stata, in realtà, ampiamente dibattuta, ed ha dato luogo ad orientamenti anche contrastanti, ma il TUF apporta oggi elementi testuali per risolverla. Infatti, se si analizza la nozione di “strumento finanziario”, si può agevolmente rilevare che – quanto alle fattispecie diverse dagli strumenti derivati – esse sono tutte pacificamente riconducibili alla previgente nozione di “valore mobiliare 8”. Quanto agli strumenti diversi – e, segnatamente, agli strumenti derivati – nel sistema previgente si era posto il problema se i valori mobiliari potessero o meno ricomprendere anche tali strumenti 9. Per la soluzione della questione il TUF apporta, ormai, un elemento decisivo, di tipo testuale, che conferma, peraltro, quanto già affermato dalla più autorevole dottrina nel sistema previgente, e cioè che gli strumenti derivati possono essere oggetto di offerta al pubblico, e dunque possono essere ricompresi tra i (vecchi) “valori mobiliari”: ciò deriva dal fatto che, come si è visto, il Testo Unico, nell’individuare la portata della disciplina dell’offerta al pubblico fa già di per sé diretto riferimento alla nozione di strumento finanziario, senza escludere gli strumenti derivati, che di tale nozione fanno, come sappiamo, parte. Posto dunque che l’offerta può avere ad oggetto tutti gli strumenti finanziari di cui alla definizione recata dal TUF, occorre ora stabilire in cosa si differenzi, rispetto alla nozione di strumento finanziario, la nozione di prodotto finanziario, che il legislatore caratterizza mediante il rinvio alla categoria (aperta) delle “forme di investimento di natura finanziaria”. Per il prodotto finanziario si ritorna, in sostanza, ad una categoria che non viene definita mediante formulazione di un elenco tendenzialmente preciso di fattispecie, ma che va ricostruita sulla base di più generali indici interpretativi, anche provenienti dalle discipline economiche. Ed è, infatti, proprio muovendo dalla teoria economica che si giunge a concludere che si sarà in presenza di un investimento di natura finanziaria ogni qualvolta si assiste ad operazioni che comportino l’impiego di capitali, a fronte di un’attesa di rendimento, correlata al rischio sottostante, con la precisazione ulteriore che il “rischio” deve 8 Peraltro, si è avuto modo di osservare come, nella ridefinizione dell’elenco degli strumenti finanziari conseguente al recepimento della MiFID, si assiste alla reviviscenza della nozione di valore mobiliare, ma con finalità esclusivamente “organizzative” dell’ampia e articolata nozione di strumento finanziario che discende dalla Direttiva. 9 V. FERRARINI (1993).

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presentare una connotazione “finanziaria”, ossia deve essere correlato alla remunerazione dei capitali investiti 10. Se ne ricava, dunque, che la nozione di prodotto finanziario risulta talmente ampia da ricomprendere ogni strumento che sia idoneo alla raccolta di risparmio, comunque denominato (e, pertanto, indipendentemente dalla forma che lo strumento assume), e anche se privo dei tratti propri degli strumenti finanziari 11, purché rappresentativo di un impiego finanziario di capitali 12. Ne deriva, altresì, che la categoria non include i prodotti di erogazione di credito, quali ad esempio contratti di mutuo, leasing, ecc., e ciò in quanto tali prodotti non rappresentano forme di “investimento” di natura finanziaria 13. Si può quindi tentare una ricostruzione organica della disciplina. Un primo elemento che appare inequivocabile è che la disciplina dell’offerta al pubblico interessa le operazioni che si sostanziano nella raccolta di risparmio; gli strumenti di erogazione del credito sono di contro esclusi, in quanto non rientranti nella nozione di “prodotto finanziario”. Nell’ambito degli strumenti di raccolta del risparmio, poi, le nozioni-cardine sono due: lo strumento finanziario e il prodotto finanziario. La prima nozione (che delimita anche la portata della disciplina dei servizi di investimento) è individuata in modo preciso (e tassativo) dall’art. 1 TUF, attraverso un’elencazione di strumenti che risulta delimitata, nel suo perimetro inferiore, dal “mezzo di pagamento” (che non è uno strumento finanziario). Il prodotto finanziario delimita, invece, la nozione di strumento finanziario verso l’alto: il prodotto finanziario, infatti, comprende tutti gli strumenti finanziari, e, in più, ogni altra forma di investimento di natura finanziaria, configurandosi così quale nozione che assorbe quella di strumento finanziario 14. 10

COSTI (2000); MIOLA (2002-IV). Ad esempio, non è richiesto – per i prodotti finanziari – il requisito della negoziabilità: sono dunque prodotti finanziari anche le quote di società a responsabilità limitata (Comunicazione Consob 1° giugno 2001, n. DEM/1043775). In argomento v. AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 51 ss. V. per ulteriori riflessioni COSTI-ENRIQUES (2004), p. 42 ss. 12 La nozione sarebbe idonea ad includere anche i fondi pensione, come confermato dall’originaria disciplina secondaria di attuazione del TUF. Tuttavia, con la riforma della previdenza complementare, la disciplina dei fondi pensione risulta del tutto sottratta al TUF, ed interamente rimessa alla legislazione speciale. 13 Recentemente, ha fatto, ad esempio, discutere il problema se le pietre preziose siano, o meno, prodotti finanziari. In generale, anche se questi prodotti sono venduti da un intermediario finanziario, la risposta dovrebbe essere negativi, a meno che l’operazione complessiva sia connotata, anziché dal trasferimento del bene materiale, da profili di finanziarietà. V. in proposito FRANZA (2017) e la Comunicazione diramata dalla Consob il 31 gennaio 2017 che, comunque, mette in guardia dai rischi di siffatte operazioni. 14 È, peraltro, opportuno sottolineare nuovamente che il prodotto finanziario prescinde sia da ogni forma di rappresentazione “documentale”, sia dalla “negoziabilità” dello strumento. In questo senso v. BASSO (1998). 11

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3.1. In particolare: i prodotti bancari e assicurativi Sin dall’emanazione del TUF, risultava evidente come la nozione di prodotto finanziario fosse idonea di per sé a ricomprendere tutte le forme di “investimento” e, quindi, anche prodotti bancari, e i cc.dd. prodotti misti assicurativo-finanziari. Tuttavia, il legislatore del TUF non aveva ritenuto di portare all’estremo le conseguenze di tale impostazione, e, pur muovendo da un approccio “totalizzante” (tale, cioè, da abbracciare l’intera gamma delle forme di raccolta di risparmio) aveva poi preferito optare per una soluzione di compromesso, escludendo dalla disciplina fattispecie altrimenti rilevanti rappresentate, per l’appunto, dai prodotti bancari e dai prodotti finanziari “assicurativi”. L’argomento di fondo, posto a base di tali casi di esclusione dalla disciplina dell’offerta al pubblico, risiedeva, essenzialmente, nell’esigenza di evitare duplicazioni tra la disciplina del TUF, da un lato, e le singole discipline di settore che potenzialmente possono assumere rilievo; discipline identificabili, essenzialmente, con quella assicurativa, e con quella bancaria. In tale prospettiva, lo stesso art. 1, comma 1, lett. t), TUF stabiliva, innanzitutto, che non costituiva sollecitazione all’investimento la raccolta dei depositi bancari o postali realizzata senza emissione di strumenti finanziari: si trattava, con tutta evidenza, di una previsione che assolveva alla specifica funzione di mantenere la storica distinzione tra disciplina della raccolta di risparmio bancario o postale – forme già assoggettate ad una specifica forma di vigilanza – e la disciplina della raccolta di risparmio “non bancario” 15. La norma, tuttavia, non escludeva dall’applicazione del regime della sollecitazione la raccolta di risparmio bancario che si realizzasse attraverso l’emissione di strumenti finanziari, quali – tipicamente – obbligazioni o certificati di deposito. Tale era, effettivamente, l’intenzione originaria del legislatore, manifestata in sede di lavori preparatori del Testo Unico: l’esclusione dalla disciplina della sollecitazione avrebbe, infatti, dovuto riguardare unicamente le forme di raccolta di risparmio bancario, non realizzate mediante emissione di strumenti finanziari; fermo restando che, per tali strumenti – giusta il loro assoggettamento anche alla disciplina bancaria – si sarebbe dovuto prevedere un regime di controlli più attenuato rispetto a quanto previsto in generale. Una soluzione analoga interessava i prodotti assicurativi a prevalente componente finanziaria: anche per essi il progetto del TUF tendeva ad assoggettarli alla disciplina della sollecitazione. Tale impostazione non era però sopravvissuta nella versione definitiva del provvedimento, essenzialmente a causa della forte opposizione manifestata dalle categorie interessate (banche e compagnie assicurative): l’art. 100, comma 1, lett. f), esentava, così, dalla disciplina della sollecitazione i prodotti bancari ed assicurativi. 15

Come si è visto la precisazione è ora “scivolata” – più correttamente – nella lett. u).

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L’impostazione originaria del TUF è stata opportunamente rivista a seguito dell’emanazione della legge n. 262/2005, nonché del recepimento della Direttiva comunitaria sul prospetto informativo. Era, infatti, evidente che l’assetto del Testo Unico non risultava compatibile con la disciplina comunitaria (in specie per quanto riguarda gli strumenti finanziari emessi dalle banche), e comunque creava forti disarmonie all’interno del sistema, posta la sostanziale assimilazione di alcuni prodotti assicurativi ai veri e propri prodotti finanziari. L’intervento del legislatore si è realizzato così su due fronti: – l’abrogazione dell’esenzione contemplata dall’art. 100, comma 1, lett. f ) TUF; – l’aggiunta di una nuova nozione di “prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione”, che identifica con precisione le tipologie di prodotti assicurativi che rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina di cui si discute. Tali prodotti sono individuati nelle polizze ed operazioni di cui ai rami vita III e V di cui al c.d. “Codice delle assicurazioni”, con esclusione delle forme pensionistiche individuali. La concreta conseguenza dell’abrogazione, delle regole applicabili all’offerta di prodotti bancari e assicurativi rende opportuna qualche precisazione. Con specifico riferimento ai prodotti bancari, deve innanzitutto osservarsi che i prodotti finanziari emessi dalle banche – che non assumano la forma di strumenti finanziari – continuano in realtà ad essere esclusi dalla disciplina dell’offerta al pubblico, in forza del più generale disposto dell’art. 1, comma 1, lett. u), TUF, in base al quale “non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari”. Ne deriva che il deposito bancario – che non si accompagni all’emissione di strumenti finanziari –, pur potendo astrattamente rientrare nella nozione di “prodotto finanziario”, rimane sottratto all’applicazione della disciplina in materia di offerta al pubblico in quanto non rappresentato da uno strumento finanziario. Ciò nonostante, anche quando la raccolta di depositi bancari si realizza tramite l’emissione di strumenti finanziari, la disciplina dell’offerta al pubblico potrebbe non trovare applicazione sulla scorta delle ipotesi di esclusione previste dalla Direttiva 2003/71/CE sul prospetto informativo, e riferite a talune tipologie di titoli emessi dalle banche o tipici del mercato monetario (obbligazioni e titoli similari).

4. Il prospetto informativo Se quanto testé esposto consente di individuare, con un sufficiente grado di precisione, l’ambito di applicazione della disciplina dell’offerta al pubblico, si tratta ora di illustrarne il contenuto.

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Come già detto, la finalità della disciplina in questione consiste nell’assicurare agli investitori una tutela sotto il profilo essenzialmente della “trasparenza”, per tale intendendosi la disponibilità di informazioni che, per qualità e quantità, possano considerarsi adeguate al fine della formulazione di un giudizio “fondato” sull’investimento. Lo strumento a tal fine utilizzato è rappresentato dal prospetto informativo. La disciplina che figura nel TUF, in dipendenza delle modifiche apportate al fine di recepire la Direttiva comunitaria, distingue due regimi differenziati: il primo è rappresentato dalle offerte al pubblico di “strumenti finanziari comunitari 16” e di prodotti finanziari diversi dalle quote o azioni di OICR aperti; il secondo è rappresentato dalle offerte al pubblico di quote o azioni di OICR aperti. I principi di fondo che caratterizzano le due tipologie di operazioni sono, comunque, analoghi, e la differenziazione di disciplina riguarda profili più applicativi. Con riguardo alle offerte di strumenti comunitari e di prodotti finanziari diversi dagli OICR aperti, l’art. 94 stabilisce la regola fondamentale, applicabile alle offerte pubbliche di sottoscrizione e vendita, e cioè che lo svolgimento dell’operazione di offerta è subordinata alla pubblicazione di un prospetto d’offerta 17. A tal fine, coloro che intendono effettuare un’offerta al pubblico ne danno preventiva comunicazione alla Consob, allegando il prospetto destinato alla pubblicazione 18. Il prospetto deve contenere – in base al comma 2 – le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell’emittente e dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti 19. Il prospetto contiene anche una

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Gli strumenti finanziari comunitari sono definiti dall’art. 93-bis, comma 1, lett. a), TUF come “i valori mobiliari e le quote di OICR chiusi”. 17 Nel caso di offerta al pubblico di quote o azioni di OICR chiusi per le quali l’Italia è lo Stato membro d’origine, il prospetto è pubblicato quando si è conclusa la procedura prevista dall’art. 43 o dall’art. 44 TUF – e dalle relative disposizioni di attuazione – per la commercializzazione di FIA riservati e non riservati (art. 94, comma 1, TUF). 18 La regola è ripresa all’art. 98-ter per l’offerta di quote o azioni di OICR aperti italiani, FIA UE e non UE. La comunicazione alla Consob prevede, nel caso di offerta di OICVM italiani, l’allegazione del documento contenente le informazioni chiave per gli investitori (KIID) e il prospetto destinati alla pubblicazione; nel caso di offerta di FIA italiani aperti, FIA UE e non UE, l’allegazione della documentazione d’offerta è individuata dalla Consob nel Regolamento emittenti, ai sensi dell’art. 98-quater, lett. a-bis). 19 Cfr., per l’offerta di quote o azioni di OICR aperti, l’analoga previsione dell’art. 98ter, comma 2.

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nota di sintesi recante le informazioni essenziali sull’offerta 20. L’impatto sulla materia del diritto europeo è reso evidente dalla previsione del comma 3, in base al quale – quando l’offerta ha ad oggetto i cc.dd. “strumenti finanziari comunitari”, e l’Italia è lo Stato membro di origine – il prospetto è redatto in conformità agli schemi previsti dai Regolamenti comunitari che disciplinano la materia 21. Per i prodotti finanziari diversi, spetta alla Consob definire, con proprio Regolamento, il contenuto del prospetto. In casi particolari, ossia qualora non sia stato approvato uno schema di riferimento, la Consob stabilisce, su richiesta dell’emittente o dell’offerente, il contenuto del prospetto. Il prospetto si può presentare nella forma di un unico documento o di documenti distinti: in quest’ultimo caso, – utile soprattutto nei casi in cui si intende porre in essere, nel corso del tempo, più operazioni di offerta – le informazioni vengono formalmente suddivise in un documento di registrazione, una nota informativa sugli strumenti e i prodotti offerti, e una nota di sintesi. Ampio è stato, in passato, il dibattito in merito al contenuto “minimo” del prospetto informativo. In particolare, si è discusso circa il fatto se il prospetto debba rivolgersi essenzialmente all’investitore “comune”, ovvero se esso debba essere redatto in modo da contenere informazioni rivolte al lettore “professionale” o “qualificato”. La posizione che è prevalsa è nel senso di ritenere che il prospetto debba attestarsi, innanzitutto, sul livello necessario od opportuno per l’investitore “comune”, fermo restando che – qualora ad esempio tale soggetto necessitasse, per una più consapevole lettura del documento, dell’ausilio di un consulente professionale – il prospetto dovrebbe contenere informazioni idonee anche a soddisfare tale più approfondito esame. La soluzione risulta confermata anche nel TUF e nella disciplina comunitaria. L’art. 94, comma 2, non distingue, infatti, sotto il profilo del contenuto del prospetto, tra categorie di destinatari; inoltre, la Consob dispone di un potere di “graduazione” o di “adattamento” delle informazioni da inserire nel prospetto: l’art. 94, comma 5, prevede infatti che – se necessario per la tutela degli investitori – la Consob può disporre l’inserimento nel prospetto di informazioni supplementari e, dunque, anche di quelle informazioni che – assumendo un carattere più tecnico ed approfondito – risultino prevalentemente destinate ad un investitore professionale. 20 Per le quote o azioni di OICR aperti, in conformità con la disciplina comunitaria, si conferma che il KIID può costituire il documento valido per l’offerta in Italia (senza necessità dunque di utilizzare il prospetto informativo), salva la traduzione in italiano. 21 La definizione di “Stato membro di origine” è formulata, in conformità al diritto europeo, dall’art. 93-bis, lett. f ). In sostanza, tale impostazione deriva dal principio del mutuo riconoscimento, che con la Direttiva riceve piena attuazione, ed in base al quale l’approvazione del prospetto nello Stato di origine consente all’emittente di utilizzare il medesimo documento per estendere l’offerta anche in altri Stati membri dell’Unione Europea.

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La disciplina dell’offerta al pubblico – simboleggiata dal prospetto informativo – si inquadra così nella tipica filosofia della disclosure che, sin dalla legislazione statunitense degli anni ’30, costituisce uno degli elementi caratterizzanti la stessa disciplina del mercato finanziario, e che si basa sull’assunto per cui un investitore “medio”, che abbia a disposizione uno stock sufficiente di informazioni è (o dovrebbe essere) in grado di valutare adeguatamente l’opportunità di aderire o meno all’operazione proposta. In realtà, l’evoluzione dei mercati, e della loro disciplina, hanno mostrato come alla trasparenza e all’informazione non possano di per sé assegnarsi poteri miracolosi: il mito del risparmiatore “informato”, e dunque “consapevole”, è destinato spesso a scontrarsi con una realtà in cui tale soggetto ha scarsa capacità di elaborare le complesse informazioni che vengono trasmesse, di guisa che egli tende sempre di più ad affidare le proprie decisioni ad intermediari professionali. La disciplina, pertanto, dovrebbe non soltanto preoccuparsi di assicurare la diffusione sul mercato di determinate informazioni, ma dovrebbe altresì intervenire sui rapporti tra investitori e intermediari professionali: ed è in tale direzione che si è evoluto il più recente filone della disciplina degli intermediari, in specie rappresentato dalla disciplina dei servizi di investimento e, in tale ambito, dalla disciplina delle regole di comportamento. Ed è sempre nella medesima direzione che muove anche la disciplina dell’offerta al pubblico, non più limitata ai soli profili della trasparenza e della disclosure: l’art. 95, comma 1, lett. d), e comma 2, TUF, affida infatti alla Consob un potere regolamentare che va al di là dei profili (meramente) informativi, stabilendo che l’Organo di controllo ha il compito di disciplinare con propri Regolamenti “le modalità di svolgimento dell’offerta anche al fine di assicurare la parità di trattamento tra i destinatari” e le “norme di correttezza” dei soggetti partecipanti all’operazione.

4.1. Il controllo della Consob sul prospetto Come regola generale, il prospetto informativo – redatto a cura del soggetto che promuove l’offerta – è sottoposto al preventivo controllo della Consob, la quale lo approva nei termini previsti in conformità con le disposizioni comunitarie (art. 94-bis TUF) 22. Il Testo Unico affida alla Commissione il com22

Poiché l’art. 12 della legge n. 262/2005, in materia di attuazione della Direttiva sul prospetto, prevedeva che il decreto di recepimento avrebbe dovuto tendere a realizzare un adeguamento alla normativa comunitaria della disciplina dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari anche diversi da quelli a cui la Direttiva si applica, all’art. 94 TUF è stato mantenuto l’obbligo di pubblicazione del prospetto, previa approvazione della Consob, non solo per gli strumenti finanziari comunitari, ma anche per i prodotti finanziari diversi dalle quote o azioni di OICR aperti e dai prodotti finanziari assicurativi.

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pito di stabilire tali termini, avendo cura di precisare che “la mancata decisione da parte della Consob nei termini previsti non costituisce approvazione del prospetto”: viene così esclusa l’operatività del meccanismo di silenzio-assenso, in precedenza previsto dall’art. 94 TUF. La competenza generale della Consob in punto di approvazione del prospetto subisce, tuttavia, eccezioni e temperamenti. Quanto alle eccezioni, esse riguardano i prospetti relativi agli OICR aperti e ai prodotti finanziari assicurativi. In base all’art. 98-ter TUF, la pubblicazione dei prospetti relativi ad OICR italiani, FIA UE e non UE, è preceduta da una mera comunicazione alla Consob. Se l’operazione ha ad oggetto l’offerta di OICVM italiani, alla comunicazione sono allegati il documento contenente le informazioni chiave per gli investitori (il c.d. “KIID – key investor information document”) e il prospetto destinati alla pubblicazione. Se l’offerta ha ad oggetto FIA italiani aperti, FIA UE e non UE, alla comunicazione è allegata la documentazione d’offerta individuata dalla Consob in via regolamentare (cfr. l’art. 98-quater, lett. a-bis)). Il KIID rappresenta, sostanzialmente, una evoluzione del tradizionale prospetto informativo, con l’obiettivo di dar vita ad un documento sintetico, maggiormente fruibile da parte di un investitore non professionale rispetto al prospetto informativo, spesso troppo complesso e lungo: da segnalare che la disciplina riconosce espressamente sia al KIID, sia al prospetto natura precontrattuale (art. 98-ter, comma 3, TUF). Un’ulteriore eccezione riguarda l’offerta di prodotti finanziari assicurativi, per i quali il controllo preventivo di tipo autorizzativo non sarebbe in ogni caso consentito, in quanto in contrasto con il regime comunitario dei prodotti in questione. Quanto ai temperamenti della disciplina: – la Consob può affidare alle società di gestione dei mercati regolamentati compiti inerenti il controllo del prospetto, per offerte di strumenti finanziari quotati ovvero oggetto di domanda di quotazione (tale delega era tuttavia consentita sino al 31 dicembre 2011); – al fine di assicurare l’efficienza del procedimento di approvazione del prospetto per i titoli di debito bancari non destinati alla negoziazione in un mercato regolamentato, la Consob stipula accordi di collaborazione con la Banca d’Italia; – la Consob può, infine, trasferire l’approvazione di un prospetto in caso di offerta avente ad oggetto strumenti finanziari comunitari all’autorità competente di un altro Stato membro, previa accettazione di quest’ultima. La legge non chiarisce espressamente la natura della potestà della Consob, né i controlli che essa è chiamata a svolgere. Quanto al primo profilo, l’opinione prevalente è nel senso che – quando il prospetto è sottoposto alla preventi-

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va approvazione della Consob – a tale approvazione si debba riconoscere natura di autorizzazione 23. Quanto alla natura del controllo, dal complesso della disciplina, e dalla ratio della stessa, emerge con evidenza che il controllo dell’Autorità amministrativa riguarda essenzialmente il profilo della completezza e dell’adeguatezza delle informazioni fornite al mercato. La Consob dovrà, dunque, innanzitutto appurare che il prospetto comunicato sia conforme agli schemi previsti; dovrà altresì accertarsi che il prospetto contenga tutte le informazioni necessarie per consentire all’investitore di addivenire ad un “fondato giudizio” sull’operazione. Di contro, è escluso che la Consob possa o debba pronunciarsi circa il merito dell’operazione, o ancor più, circa la sua “convenienza”. Problema diverso è stabilire se la Consob debba controllare la veridicità delle informazioni contenute nel prospetto, e se il controllo della Commissione debba (o possa) estendersi anche alla legittimità dell’operazione. Si tratta di questioni ampiamente dibattute, ed in merito alle quali la soluzione preferibile sembra essere quella di negare che la Consob abbia il dovere di verificare la veridicità di tutte le informazioni, e ciò anche in quanto tale verifica sarebbe evidentemente incompatibile con i ristretti limiti di tempo che la disciplina affida alla Commissione per lo svolgimento dei propri compiti. Occorre tuttavia fare un’eccezione per le informazioni per le quali la non-veridicità risulti “evidente”: ad esempio, errori grossolani, agevolmente riscontrabili dalla lettura del prospetto, ovvero informazioni di cui la Consob già disponga, in dipendenza dello svolgimento delle proprie funzioni. In tal caso non si può certo escludere il compito dell’Organo di controllo di verificare anche siffatti elementi, e dall’omissione della verifica ne può derivare anche una responsabilità in proprio della Consob 24. Quanto alla legittimità delle operazioni, l’opinione da tempo prevalente è nel senso di escludere che il controllo della Consob debba estendersi anche a tale profilo: la conclusione deriva, nuovamente, dalle finalità che persegue la disciplina dell’offerta al pubblico, e dal suo appuntarsi sui profili essenzialmente informativi e di trasparenza 25.

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V. FERRARINI (1993). COSTI (2006). Tale interpretazione risulta da tempo ormai accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità: v. la sentenza della Cass., 12 marzo 2001, n. 3132/2001 e la successiva sentenza della Corte d’appello di Milano, 21 ottobre 2003, in Foro it., 2004, I, c. 584, con nota di CAPUTI. Sul problema della responsabilità degli organi di vigilanza cfr. anche BLANDINI (1999). Sulla natura dei controlli adde MIOLA (2002-IV) e, da ultimo, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, COSTI-ENRIQUES (2004), p. 79 ss. 25 MINERVINI (1989). 24

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4.2. La forma dei contratti. La revoca dell’acquisto o della sottoscrizione A differenza di quanto si è visto in materia di contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, gli artt. 94 e ss. TUF non prevedono espressamente un requisito di forma per i contratti conclusi a seguito di un’operazione di offerta al pubblico. Tuttavia, la Consob ha precisato che l’adesione alle operazioni di offerta può effettuarsi unicamente “mediante la sottoscrizione, anche telematica, dell’apposito modulo o con altre modalità equivalenti indicate nel prospetto” (art. 34-quinquies del Regolamento emittenti). Ne deriva che, sotto il profilo amministrativo, anche questi contratti devono essere redatti per iscritto, o con forme equivalenti; è tuttavia dubbio se l’inosservanza di tale forma possa comportare la nullità o l’inefficacia del contratto concluso in altra forma. La tesi negativa 26 – che poggia sul fatto che il requisito di forma non sarebbe previsto dalla disciplina primaria – necessita quantomeno di una precisazione. Si può infatti osservare che, nella maggior parte dei casi, l’offerta è posta in essere grazie all’intervento di intermediari collocatori, che agiscono dunque nell’ambito di un servizio di investimento, per la prestazione del quale il requisito della forma scritta è testualmente previsto dall’art. 23 TUF. Ne deriva che, quantomeno per l’ipotesi in cui l’offerta al pubblico è posta in essere con l’intervento di intermediari collocatori, la forma prevista dalla Consob sembra porsi quale forma imposta ai sensi dell’art. 23 TUF, e dunque tale da riverberarsi, in ipotesi di inosservanza, sulla validità dei negozi conclusi. In attuazione della Direttiva comunitaria, l’art. 95-bis disciplina la revoca dell’acquisto o della sottoscrizione, in caso di offerte al pubblico. In particolare, nel caso in cui il prospetto non abbia indicato taluni elementi essenziali dell’operazione (prezzo o quantità dei prodotti), l’investitore può revocare la propria accettazione entro il termine indicato nel prospetto e comunque entro un termine non inferiore a due giorni dalla data in cui sono depositati il prezzo definitivo e la quantità dei prodotti finanziari offerti. Nel caso in cui venga pubblicato un supplemento al prospetto, spetta una analoga facoltà di revoca a favore degli investitori che hanno aderito all’offerta prima di tale pubblicazione. In entrambi i casi si tratta, evidentemente, di norme volte a consentire di svincolarsi dai termini di un’operazione noti soltanto in parte, o in modo incompleto, o che si sono successivamente modificati.

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COSTI (2000).

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5. Il potere regolamentare della Consob nella materia delle offerte al pubblico Anche nella materia dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari, ampio è il rinvio al potere regolamentare della Consob, alla quale vengono affidati pressoché tutti i profili che attengono allo svolgimento dell’offerta, al comportamento dei partecipanti all’operazione, all’attività preparatoria, ecc. (art. 95 TUF). Al fine di non trascurare le specificità che possono caratterizzare le singole operazioni di offerta, e dalle quali può discendere l’opportunità di formulare regole anche diverse rispetto a quelle generali, il comma 1 dell’art. 95 precisa che le norme regolamentari potranno essere differenziate “in relazione alle caratteristiche dei prodotti finanziari, degli emittenti e dei mercati”. La precisazione deve essere intesa nel senso di riconoscere alla Consob un potere di adattamento di norme regolamentari di portata comunque generale, e non certo di procedere con regole emanate caso per caso, al di fuori dello schema regolamentare generale. Quanto al contenuto minimo delle norme regolamentari, esso è individuato dalle lett. da a) ad f-bis) del comma 1 dell’art. 95, ai sensi del quale la Consob stabilisce, tra l’altro, il contenuto del prospetto (nei casi non disciplinati direttamente dalle norme comunitarie), le modalità da osservare per diffondere notizie, per svolgere indagini di mercato ovvero per raccogliere intenzioni di acquisto o di sottoscrizione, e le condizioni per il trasferimento dell’approvazione di un prospetto all’Autorità competente di un altro Stato membro, secondo la disciplina comunitaria. Rispetto a tali elementi, il comma 2 aggiunge che la Consob deve individuare con proprio Regolamento le “norme di correttezza che sono tenuti a osservare l’offerente, l’emittente e chi colloca i prodotti finanziari nonché coloro che si trovano in rapporto di controllo o di collegamento con tali soggetti”.

5.1. (Segue): gli schemi di prospetto Lo svolgimento dell’offerta al pubblico presuppone la predisposizione di due documenti: la comunicazione alla Consob e il prospetto. La comunicazione è un documento di sintesi delle caratteristiche dell’operazione; i suoi tratti sono individuati dalla Consob in sede regolamentare. Per quanto attiene al contenuto dei prospetti, sia la disciplina comunitaria sia il TUF confermano la soluzione, già adottata dalla disciplina previgente, volta a realizzare una significativa standardizzazione di tali documenti. Per le operazioni che rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina europea, gli schemi di prospetto discendono direttamente e in via generale dalle norme

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comunitarie; per le altre operazioni, la Consob è chiamata, quale regola generale, a predeterminare il contenuto del prospetto informativo, e, per tale via, a rendere noti in via preventiva, sia il tipo di informazioni da comunicare al pubblico in occasione di operazioni di offerta al pubblico, sia le modalità da osservare per la relativa comunicazione. La predeterminazione del contenuto generale dei prospetti informativi, e delle relative modalità di pubblicazione, già costituiva uno degli elementi qualificanti della disciplina previgente: la standardizzazione dello stock di informazioni di cui è necessario assicurare la diffusione sul mercato in occasione di operazioni di offerta al pubblico non soltanto attribuisce certezza al comportamento degli operatori, e del mercato nel suo complesso, ma agevola anche il confronto tra operazioni similari o successive nel tempo. Il procedere per schemi predeterminati non esclude, peraltro, la possibilità di introdurre adattamenti in funzione delle specificità delle singole operazioni. Non soltanto, infatti, l’art. 94 TUF prevede la facoltà per la Consob di richiedere agli offerenti informazioni integrative da inserire nel prospetto, nonché di stabilire specifiche modalità di pubblicazione del prospetto stesso, ma lo stesso potere regolamentare potrà essere esercitato in modo “modulato”, in funzione delle diverse esigenze che caratterizzano le singole categorie di operazioni di offerta. L’art. 95 TUF, piuttosto, non chiarisce se la Consob (al di là degli schemi che discendono direttamente dalla disciplina UE) debba procedere a definire gli schemi, in via generale e predeterminata, per tutte le possibili operazioni di offerta al pubblico, ovvero se soltanto per le operazioni maggiormente diffuse o ricorrenti sul mercato. Già nel sistema antecedente al TUF, la Consob aveva, infatti, provveduto ad emanare disposizioni relativamente agli schemi di prospetto informativo, per talune operazioni soltanto: per le sollecitazioni non espressamente contemplate, il contenuto del prospetto andava dunque stabilito di volta in volta. Da più parti si era, tuttavia, posta in luce l’utilità di poter disporre di uno schema di prospetto informativo per così dire “residuale”, ossia genericamente riferibile ad operazioni diverse da quelle espressamente disciplinate in sede regolamentare 27: tale soluzione, infatti, avrebbe contribuito ulteriormente alla chiarificazione delle regole applicabili alle operazioni di offerta al pubblico, senza peraltro comportare un eccessivo irrigidimento della disciplina, in quanto la Consob avrebbe comunque potuto avvalersi – in relazione a singole operazioni – del potere di richiedere l’“adattamento” del contenuto dei prospetti. Tale soluzione non sembra però essere stata accolta dal TUF: gli artt. 94 e 95, in realtà, non specificano nulla al riguardo, ed è da ritenere che la Consob resti libera di seguire un orientamento corrispondente a quello precedente. Nel Regolamento emittenti non si rinviene dunque alcuno schema “residuale” di prospetto, per operazioni diverse da quelle espressamente contempla27

FERRARINI (1993); MARCHETTI (1994).

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te: si conferma piuttosto che se l’offerta ha ad oggetto prodotti finanziari per i quali non sono previsti appositi schemi, la Consob stabilisce, su richiesta dell’offerente, il contenuto del prospetto. Come già ricordato in base all’art. 94, comma 4, il prospetto può concretamente avere la forma di un unico documento, o essere articolato in tre documenti distinti (rappresentati da un documento di registrazione, una nota informativa e una nota di sintesi). L’art. 9 del Regolamento emittenti disciplina le modalità di pubblicazione del prospetto, stabilendo che la stessa può avvenire mediante inserimento in giornali quotidiani (lett. a)), o in forma stampata presso la sede dell’emittente e dei collocatori (lett. b)), o nei siti internet di questi ultimi (lett. c)). Se la modalità prescelta è quella di cui alla lett. c) il prospetto è anche consegnato in forma cartacea a chi ne faccia richiesta. Si è già detto che, già in dipendenza del recepimento della Direttiva 2003/ 71/CE, è stata data piena attuazione al principio del mutuo riconoscimento nell’ambito della disciplina del prospetto informativo. In tal senso, l’art. 98 TUF stabilisce che il prospetto approvato dalla Consob è valido ai fini dell’offerta degli strumenti finanziari comunitari negli altri Stati membri della UE (a tal fine la Consob effettua la notifica all’autorità estera competente). Ove l’offerta di strumenti finanziari comunitari sia prevista in Italia, quale Stato membro ospitante, il prospetto e gli eventuali supplementi approvati dall’Autorità dello Stato membro d’origine sono validi, purché siano rispettate le procedure di notifica previste dalle disposizioni dell’Unione Europea. Gli offerenti di paesi extracomunitari, che intendano promuovere offerte pubbliche in Italia, sarebbero – in base alle regole generali – interamente assoggettati alla disciplina italiana. Tuttavia, l’art. 98-bis consente – a determinate condizioni – che la Consob approvi il relativo prospetto redatto secondo la legislazione del Paese extracomunitario: si tratta di una disposizione fortemente innovativa, la cui concreta portata va misurata sulla effettiva sussistenza delle condizioni richieste dalla norma 28.

6. Il controllo sulla fase preparatoria dell’offerta La lett. c) del comma 1 dell’art. 95 TUF conferma che la disciplina dell’offerta al pubblico si espande anche nella fase antecedente l’avvio dell’operazio28 In particolare, affinché la Consob possa approvare il prospetto redatto secondo la legislazione del Paese extracomunitario, è necessario che il prospetto sia redatto “conformemente a standard internazionali definiti dagli organismi internazionali delle commissioni di vigilanza dei mercati” e che “le informazioni richieste, incluse le informazioni di natura finanziaria, siano equivalenti alle prescrizioni previste dalle disposizioni comunitarie”.

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ne: la circolazione di informazioni, la diffusione di dati e notizie, le indagini preliminari, che precedono l’avvio dell’offerta costituiscono, infatti, elementi idonei ad influire sensibilmente sia sulla trasparenza dell’operazione, sia sulla parità di trattamento tra gli investitori: si tratta di profili che la disciplina tende adeguatamente a presidiare. L’art. 34-decies del Regolamento emittenti stabilisce pertanto che, prima della pubblicazione del prospetto, l’offerente, l’emittente e il responsabile del collocamento possono procedere alla diffusione di notizie, allo svolgimento di indagini di mercato e alla raccolta di intenzioni di acquisto purché le informazioni siano coerenti con quelle contenute nel prospetto. Inoltre, l’attività è consentita purché la relativa documentazione venga trasmessa alla Consob contestualmente alla sua diffusione, venga fatto espresso riferimento alla circostanza che sarà pubblicato il prospetto informativo, e al luogo in cui esso sarà disponibile, e venga precisato che le intenzioni di acquisto raccolte non costituiscono proposte di acquisto. Si tratta, con tutta evidenza, di norme che assolvono allo scopo di evitare lo “svuotamento” della funzione del prospetto, e la diffusione di informazioni incoerenti rispetto a quelle affidate a quest’ultimo.

7. La correttezza dei comportamenti Per quanto attiene agli elementi di cui alla lett. d) dell’art. 95, comma 1, il loro esame può svolgersi congiuntamente alla previsione del comma 2 del medesimo art. 95 29. Le due norme, infatti, esprimono entrambe uno dei profili più innovativi della disciplina dell’offerta al pubblico, quale introdotta dal TUF, rappresentato dalla sua idoneità ad investire non soltanto la trasparenza e l’informazione connessa a tali operazioni, ma anche le modalità di svolgimento e le regole di comportamento 30. In virtù dell’art. 34-sexies, i soggetti che partecipano all’offerta sono tenuti ad osservare “principi di correttezza, trasparenza e parità di trattamento dei destinatari dell’offerta” e “si astengono dal diffondere notizie non coerenti con il prospetto o idonee ad influenzare l’andamento delle adesioni”. Particolari cautele assistono le cc.dd. operazioni di stabilizzazione, volte a sostenere il prezzo degli strumenti finanziari nel periodo successivo all’offerta. Questa disciplina discende, ormai, direttamente dalla normativa europea, e segnatamente dalla Direttiva in tema di abusi di mercato: le cc.dd. operazioni di 29

Cfr. SPITALERI (1999). Per la verità, anche la disciplina antecedente al TUF trattava tali profili, ma limitatamente alle operazioni disciplinate dalla legge n. 149/1992 (ossia, alle offerte di titoli con diritto di voto). 30

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stabilizzazione, infatti, in quanto idonee ad influenzare il meccanismo di formazione dei prezzi degli strumenti finanziari oggetto dell’offerta, sono sottoposte a specifici limiti sia quantitativi, sia qualitativi, discendenti dal Regolamento MAR sugli abusi di mercato (sul quale v. infra, Cap. XVII).

8. Gli obblighi informativi e i poteri della Consob Assai pervasive sono le disposizioni dettate dal TUF, e dalle norme regolamentari, per quanto attiene alla vigilanza sui soggetti che svolgono operazioni di offerta al pubblico, e sugli obblighi facenti capo agli stessi. Gli artt. 96 e 97 TUF sottopongono gli emittenti i prodotti finanziari oggetto dell’offerta alla disciplina della revisione contabile, e a taluni degli obblighi informativi che, ai sensi degli artt. 114 e 115 TUF, trovano applicazione nei confronti degli emittenti quotati 31. La finalità è, evidentemente, quella di predisporre specifici presidi di controllo sull’informativa resa al pubblico dall’emittente, con particolare riferimento ai dati contabili: l’art. 96 stabilisce al riguardo che l’offerta al pubblico non può essere effettuata se la società di revisione ha espresso un giudizio negativo, ovvero si è dichiarata impossibilitata ad esprimere un giudizio. Si tratta di previsioni che, in misura diversa, erano già contenute nella disciplina previgente, alle quali si accompagna ora una disposizione dal contenuto fortemente innovativo: l’art. 97, comma 4 stabilisce, infatti, che la Consob, allo scopo di acquisire elementi conoscitivi, può richiedere, entro un anno dall’acquisto o dalla sottoscrizione dei prodotti finanziari, la comunicazione di dati e notizie, e la trasmissione di atti e documenti agli acquirenti o sottoscrittori dei prodotti finanziari, fissando i relativi termini. Tale potere può essere esercitato anche nei confronti di coloro per i quali vi è fondato sospetto che svolgano, o abbiano svolto, un’offerta al pubblico in violazione delle disposizioni previste dall’art. 94 TUF. La peculiarità della norma è rappresentata dal fatto che il potere della Consob si esercita nei confronti di soggetti non necessariamente sottoposti a vigilanza: gli “acquirenti” o i “sottoscrittori” dei prodotti finanziari sono, infatti, gli investitori che hanno manifestato la loro adesione all’offerta e, dunque, possono ben comprendere soggetti non rientranti nel novero degli intermediari. Quanto ad altri poteri esercitabili dalla Commissione, l’art. 99 TUF le attribuisce specifici poteri interdittivi, il cui uso può essere “graduato” in funzione della situazione di fatto, e che consistono nella possibilità, tra l’altro, di sospendere in via cautelare l’offerta, o di vietarla. 31

TUF.

Con riguardo all’offerta di quote o azioni di OICR aperti si veda l’art. 98-quinquies

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Nell’ipotesi in cui l’operazione abbia ad oggetto strumenti finanziari comunitari, sono però, ovviamente, previste norme volte ad assicurare il coordinamento tra la Consob e l’Autorità competente dello Stato membro d’origine (cfr. art. 99, commi 2 e 3).

9. La pubblicità finanziaria Strettamente connessa alla materia del prospetto è la disciplina della “pubblicità finanziaria”, relativa ad operazioni di offerta al pubblico. La disciplina ha subito, in passato, varie evoluzioni 32, sino a consolidarsi nell’art. 101 TUF, come da ultimo modificato in dipendenza del recepimento della Direttiva europea sul prospetto. Per quanto riguarda le offerte al pubblico di prodotti finanziari diversi dagli strumenti comunitari, l’art. 101 formula un divieto generale di diffusione di annunci pubblicitari prima della pubblicazione del prospetto. In generale, la pubblicità deve essere effettuata secondo i criteri stabiliti dalla Consob, in conformità alla disciplina comunitaria: le norme regolamentari devono aver riguardo alla correttezza dell’informazione e alla sua coerenza con quella contenuta nel prospetto, se è già stato pubblicato, o con quella che deve figurare nel prospetto da pubblicare. In ogni caso, la documentazione pubblicitaria deve essere trasmessa alla Consob contestualmente alla sua diffusione. Lo stesso art. 101, comma 4, attribuisce alla Consob specifici poteri relativi agli annunci pubblicitari, che possono tradursi nella sospensione o nel divieto dell’attività pubblicitaria. Conformemente alla disciplina comunitaria, l’art. 101, comma 5 tratta, infine, delle informazioni comunicate in via selettiva, a determinati investitori, nel corso dei contatti che in genere precedono l’offerta vera e propria. In proposito, si prevede l’obbligo di ripristinare condizioni di parità di informazione: pertanto, le informazioni fornite a determinati soggetti o gruppi di soggetti devono essere divulgate a tutti gli investitori appartenenti alle medesime categorie, ai quali l’offerta è diretta in esclusiva. Quanto precede si applica anche a prescindere dall’obbligo di pubblicazione del prospetto.

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V. ANNUNZIATA (1999).

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10. I casi di inapplicabilità e le esenzioni L’esame della disciplina dell’offerta al pubblico non può andare disgiunto da un’attenta disamina dei casi di esclusione dalla disciplina stessa. La questione è stata oggetto, in passato, di amplissimo dibattito, e risulta ora espressamente risolta dall’art. 100 TUF, e dalle disposizioni comunitarie. In conformità a queste ultime, l’art. 100 individua innanzitutto talune operazioni alle quali la disciplina non si applica affatto; in secondo luogo, affida alla Consob il potere di individuare ulteriori casi di inapplicabilità, totale o parziale, della disciplina stessa. Non è questa la sede più opportuna per ripercorrere le tappe del dibattito, e dell’evoluzione della disciplina, anteriormente al TUF: ai fini che qui interessano è sufficiente porre in luce che, nel sistema previgente, la legge individuava alcuni casi specifici di esclusione dalla disciplina della sollecitazione, giustificati in base alla particolare “natura” dei titoli offerti, e segnatamente: titoli pubblici; titoli, diversi dalle azioni, emessi da banche nell’esercizio dell’attività bancaria; titoli emessi da società quotate, offerti in opzione agli aventi diritto (ad esempio: azioni, o obbligazioni convertibili) 33. Al di là di questi casi, la legge non faceva però riferimento ad ulteriori ipotesi di inapplicabilità della disciplina, né prevedeva che la Consob potesse disporre tale inapplicabilità, in relazione, ad esempio, alle caratteristiche più generali dell’operazione, o al numero dei soggetti destinatari. In carenza di un’espressa previsione normativa, la Consob era tuttavia giunta a tale risultato in via (meramente) interpretativa, e muovendo da due presupposti tra loro concorrenti: da un lato, la non ravvisabilità in concreto – relativamente a talune operazioni – delle esigenze di tutela alle quali si deve ritenere ispirata la disciplina dell’offerta al pubblico (criterio della c.d. “need for protection”); dall’altro, l’insussistenza dei presupposti stessi di applicazione della disciplina (ad esempio, quando l’operazione è rivolta ad una “cerchia ristretta”, o esattamente predeterminabile, di soggetti). In particolare, l’esame delle finalità perseguite dalla disciplina dell’offerta al pubblico rendeva possibile concludere nel senso che tali finalità coincidessero essenzialmente con la tutela di soggetti “deboli” o, meglio “disinformati”: comunque, con la tutela di soggetti “bisognosi di protezione”. Nel caso in cui l’operazione si indirizzasse esclusivamente a soggetti che non manifestassero tale necessità di tutela, l’applicazione delle regole delle offerte al pubblico si sarebbe rivelata, da un lato, sostanzialmente inutile, dall’altro, potenzialmente controproducente, in quanto volta ad imporre rilevanti oneri ai soggetti incisi dalla stessa, senza che ne conseguisse un’effettiva utilità. Gli orientamenti della Consob avevano così trovato formalizzazione in una previsione dell’ormai risa33

Per un’indicazione dettagliata v. ANNUNZIATA (1999).

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lente (e abrogato) Regolamento n. 6430/1992, emanato tuttavia in carenza di un’esplicita norma primaria, e, pertanto, di dubbia legittimità. Con l’emanazione del TUF, e a seguito di quanto disposto dall’art. 100 TUF, i problemi relativi all’inquadramento della materia, e al fondamento del potere regolamentare della Consob, trovano definitiva composizione. La disciplina è, peraltro, direttamente incisa dalle norme comunitarie. L’art. 100 TUF, come già detto, individua innanzitutto alcuni casi di inapplicabilità totale della disciplina, stabilendo che le relative norme in materia di offerta al pubblico non trovano applicazione alle operazioni: – rivolte ai soli investitori qualificati, comprese le persone fisiche e le piccole e medie imprese, come definiti dalla Consob con Regolamento in base ai criteri fissati dalle disposizioni comunitarie; – rivolte a un numero di soggetti non superiore a quello indicato dalla Consob con proprio Regolamento; – di ammontare complessivo non superiore a quello indicato dalla Consob con proprio Regolamento; – aventi a oggetto strumenti finanziari diversi dai titoli di capitale emessi o garantiti da uno Stato UE o da organismi internazionali a carattere pubblico di cui facciano parte Stati UE; – aventi a oggetto strumenti finanziari emessi dalla Banca Centrale Europea o dalle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’Unione Europea; – aventi ad oggetto strumenti diversi dai titoli di capitale emessi in modo continuo o ripetuto da banche, a condizione che tali strumenti: i) non siano subordinati, convertibili o scambiabili; ii) non conferiscano il diritto di sottoscrivere o acquisire altri tipi di strumenti finanziari e non siano collegati ad uno strumento derivato; iii) diano veste materiale al ricevimento di depositi rimborsabili; iv) siano coperti da un sistema di garanzia dei depositi a norma degli artt. 96-e 96-quater TUB 34; v) aventi ad oggetto strumenti del mercato monetario emessi da banche con una scadenza inferiore a 12 mesi.

10.1. (Segue): gli investitori qualificati e gli altri casi di inapplicabilità L’esclusione dalla disciplina dell’offerta al pubblico per le operazioni rivolte ai soli investitori “qualificati” rappresenta una soluzione che conferma e ri34 Come appare evidente, il venir meno dell’esenzione generale prevista in origine dall’art. 100, comma 1, lett. f) per i prodotti finanziari emessi da banche, ne comporta in linea di principio l’assoggettamento alla disciplina delle offerte al pubblico.

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flette non soltanto una regola già immanente nel sistema previgente, ma anche una più generale tendenza della disciplina del mercato finanziario, sulla quale abbiamo già avuto modo di soffermarci più volte (e cioè la distinzione, che viene a determinarsi, tra la portata delle singole norme o discipline in funzione delle caratteristiche e dell’“esperienza” delle controparti) 35. In realtà, la disciplina dell’offerta al pubblico manifesta, sul punto, una peculiarità: infatti, in questo caso, la natura “professionale” dei destinatari comporta la totale inapplicabilità della disciplina stessa, e non già la semplice disapplicazione di talune regole. Quanto alla nozione di “investitori qualificati” si tratta di un riferimento che va a sostituire quello alla nozione di “cliente professionale”, contenuto nell’originaria formulazione della norma: la modifica discende dall’adeguamento al diritto comunitario. La norma affida alla Consob il compito di definire i contorni della nozione: come già in passato, la Consob ha “allineato” la nozione di investitore professionale rilevante ai fini dell’esenzione dalla disciplina dell’offerta al pubblico, alla nozione di “investitore professionale” utilizzata nell’ambito della disciplina dei servizi di investimento. Con riferimento agli altri casi di inapplicabilità previsti dall’art. 100, nel proprio Regolamento la Consob ha provveduto, innanzitutto, a specificare i parametri quantitativi richiamati dalla norma di legge, stabilendo che l’intera disciplina dell’offerta al pubblico non trova applicazione alle offerte: – rivolte ad un numero di soggetti non superiore a 150, diversi dagli investitori qualificati; – di ammontare complessivo inferiore a 5.000.000 di euro nell’Unione Europea. A tal fine si considerano unitariamente più offerte aventi ad oggetto il medesimo prodotto effettuate dal medesimo emittente od offerente nell’arco di dodici mesi; – aventi ad oggetto prodotti finanziari per un corrispettivo totale di almeno 100.000 euro per investitore, e per ciascuna offerta separata; – aventi ad oggetto prodotti finanziari di valore nominale unitario di almeno 100.000 euro; – aventi ad oggetto OICR aperti il cui ammontare minimo di sottoscrizione sia pari ad almeno 100.000 euro; – aventi ad oggetto prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione con premio minimo iniziale di almeno 100.000 euro. La Commissione ha poi provveduto ad individuare – ai sensi di quanto disposto dal comma 2 dell’art. 100 TUF – ulteriori casi di inapplicabilità e di 35 Si pensi a quanto si è visto in merito alla disciplina dei servizi di investimento, e in particolare delle regole di comportamento, nonché alla disciplina della gestione collettiva del risparmio.

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esenzione dalla disciplina, elencati nell’art. 34-ter del Regolamento emittenti (disposizione che, nel tempo, è stata soggetta a frequenti revisioni e modifiche, alla quale rinviamo). La ratio sottesa ai vari casi di inapplicabilità non è, come appare evidente, sempre la stessa: talvolta, il criterio è quello del numero limitato di soggetti, o comunque della sussistenza di una cerchia di destinatari dell’operazione predeterminabile con esattezza (il che esclude, pertanto, la natura “pubblica” dell’operazione); in altri casi, è la natura non speculativa dell’operazione, la sua dimensione, o la particolare natura dei prodotti offerti (titoli di emittenti pubblici), o la sussistenza di regole “equivalenti” 36. In generale, il legame che unisce le diverse fattispecie è rappresentato dall’insussistenza, nei vari casi, delle esigenze di tutela e di protezione che l’applicazione della disciplina dell’offerta al pubblico tenderebbe a soddisfare, anche in virtù della sussistenza di controlli concomitanti sulle medesime operazioni o soggetti.

10.2. (Segue): i casi di esclusione parziale Se quelli di cui sopra sono i casi di esclusione totale dalla disciplina dell’offerta al pubblico, l’art. 100, comma 2, TUF prevede che la Consob possa individuare anche casi di esclusione parziale. A tal fine, sono state individuate varie fattispecie, tra cui (sempre ai sensi dell’art. 34-ter del Regolamento emittenti) ci limitiamo ad indicare le seguenti: – offerte aventi ad oggetto valori mobiliari offerti in opzione ai soci di emittenti con azioni o obbligazioni convertibili diffuse; – offerte rivolte ad amministratori, ex amministratori, dipendenti, ex dipendenti o promotori di società non quotate, o da un’impresa controllata o collegata; – offerte aventi ad oggetto strumenti finanziari diversi dai titoli di capitale emessi in modo continuo o ripetuto da banche, per le quali è prevista la pubblicazione di un prospetto semplificato, al ricorrere di certe condizioni; – offerte aventi ad oggetto strumenti diversi dai titoli di capitale emessi in modo continuo o ripetuto da banche di credito operativo o da altre banche che, ai sensi dell’art. 2409-bis comma 2, c.c., possono prevedere nello statuto che il controllo contabile sia esercitato dal collegio sindacale. Le operazioni testé indicate rappresentano dunque, a tutti gli effetti, offerte al pubblico, rilevanti per la relativa disciplina, la quale tuttavia non viene ad esse applicata integralmente, prevedendosi l’inapplicabilità di talune norme, 36 In particolare, per quanto riguarda le polizze di assicurazione “collettive” la ratio è connessa alla natura del prodotto in questione, per il quale non si assiste all’impiego di capitale da parte degli investitori.

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analiticamente individuate dalle stesse disposizioni regolamentari. Anche in questo caso, la ratio sottostante alle diverse ipotesi non è omogenea, sebbene possa generalmente ricondursi alle stesse finalità già esposte in relazione ai casi di inapplicabilità totale della disciplina (v. supra).

10.3. (Segue): l’esenzione prevista dall’art. 205 TUF La definizione di “offerta al pubblico”, per come è formulata, rischia di determinare l’assoggettamento alla disciplina del prospetto informativo anche per l’attività che si sostanzia nella formulazione di proposte sui mercati regolamentati e – a seguito del recepimento della MiFID – anche sui sistemi multilaterali di negoziazione, o da parte degli internalizzatori sistematici. È evidente, infatti, che, in tali casi, l’esposizione di proposte si sostanzia, tecnicamente, in un’offerta rivolta a “terzi”, per tali intendendosi sia i soggetti che partecipano al circuito di trading, sia gli investitori che hanno accesso alle informazioni pretrade. È altresì evidente, tuttavia, che l’indiscriminata applicazione a tale fattispecie della disciplina delle “offerte al pubblico” rischia di determinare inutili appesantimenti della disciplina, posto che in linea di principio, gli strumenti che sono negoziati sui mercati regolamentati (e, in parte, anche sui sistemi multilaterali) sono strumenti per i quali l’ammissione alla negoziazione è stata preceduta dalla pubblicazione di un adeguato stock di informazioni, e per i quali si applicano obblighi di informazione aggiuntivi anche in fase successiva. Al fine di trovare un punto di equilibrio soddisfacente, l’art. 205 del TUF, come modificato con il D.Lgs. n. 164/2007 e con il D.Lgs. n. 184/2012, prevede che “le offerte di acquisto e vendita di prodotti finanziari effettuate in mercati regolamentati, nei sistemi multilaterali di negoziazione e, se ricorrono le condizioni indicate dalla Consob con Regolamento, da internalizzatori sistematici non costituiscono offerta al pubblico di prodotti finanziari né offerta pubblica di acquisto e scambio ai sensi della parte IV, titolo II”. Le relative previsioni sono analiticamente formulate nell’art. 2 del Regolamento emittenti. In sintesi, la ratio è quella di escludere dall’applicazione della disciplina sull’offerta al pubblico le ipotesi in cui per gli strumenti oggetto di offerta sia già a disposizione del pubblico un adeguato set di informazioni relative all’emittente. Si osservi che, alle offerte di vendita effettuate nei sistemi multilaterali di negoziazione o da internalizzatori sistematici può applicarsi, comunque, anche l’art. 100-bis, comma 2, TUF: pertanto – salve le deroghe di cui al predetto art. 2 del Regolamento emittenti – esse costituiscono un’offerta al pubblico qualora tramite le stesse vengano rivenduti a investitori non qualificati prodotti finanziari che abbiano costituito oggetto in Italia o all’estero di un collocamento riservato a investitori qualificati, purché tale rivendita sia sistematica e avvenga nei dodici mesi successivi al collocamento c.d. “istituzionale”.

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11. I PRIIPs La materia degli obblighi di informazione connessa con l’offerta al pubblico (e, segnatamente, a clienti al dettaglio) di prodotti finanziari continua ad attirare l’attenzione del legislatore, anche europeo. In aggiunta alle numerose disposizioni che, anche in funzione dei diversi prodotti, trovano applicazione, è stata da ultimo introdotta una specifica disciplina che riguarda i prodotti finanziari “preassemblati”: i cosiddetti PRIIPs (“packaged retail investment and insurance-based investment products”), di cui al Regolamento (UE) 26 novembre 2014., n. 1286/2014. La novità introdotta dal Regolamento PRIIPs consiste, essenzialmente, nell’obbligo di redigere un documento informativo (Key Information Document, di seguito “KID”), con l’obiettivo di fornire agli investitori talune informazioni “essenziali” sul prodotto: caratteristiche, rischi, costi. Sono PRIIPs – indipendentemente dalla loro forma o struttura – tutti i prodotti rivolti agli investitori al dettaglio, per i quali l’importo dovuto è soggetto a fluttuazione, in quanto, ad esempio, esposto ad un parametro, ad un valore di riferimento, oppure perché tale valore è collegato al rendimento di attività che un investitore al dettaglio non può acquisire direttamente (ad esempio, strumenti derivati, prodotti strutturati, taluni prodotti finanziari assicurativi, il cui valore è esposto alla fluttuazione di un parametro, o di un mercato, ecc.). Sono, invece, esclusi dal Regolamento prodotti quali i contratti assicurativi non vita; le assicurazioni vita quando le prestazioni sono dovute soltanto in caso di more o invalidità; i depositi bancari semplici, legati solo a un tasso di interesse; attività finanziarie detenute direttamente dall’investitore; fondi di investimento riservati, taluni piani pensionistici, aventi lo scopo di offrire all’investitore un reddito durante la pensione (Regolamento PRIIPs Considerando 7). La redazione del KID (strutturato in 8 sezioni, analiticamente disciplinate dal Regolamento e dai relativi standard tecnici) è a cura del manufacturer del prodotto: ossia del soggetto che lo “emette”, o lo “crea”. Gli intermediari che distribuiscono PRIIPs hanno, di contro, l’obbligo di consegnare il KID in tempo utile per poter permettere al cliente di prendere una decisione consapevole 37. Rispetto al documento “KIID” previsto per l’offerta di OICVM, il KID dei PRIIPs deve includere la descrizione del tipo di investitore al dettaglio a cui si intende commercializzare il PRIIP: tale previsione rinvia, con tutta evi37

L’apparente chiara distinzione tra produttore e distributore del PRIIP è incrinata, tuttavia, dalla previsione per la quale è considerato produttore anche “un soggetto che apporta modifiche a un PRIIP esistente anche, ma non soltanto, modificandone il profilo di rischio e di rendimento o i costi associati ad un investimento del PRIIP”. Vi possono essere casi, infatti, nei quali il distributore contribuisce in maniera sostanziale a definire le caratteristiche finali del prodotto, anche in termini di costi, e a determinarne il profilo di rischio finale.

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denza, alla disciplina della c.d. “product governance” di recente introduzione. Regole particolari si applicano, infine, ai PRIIPs che offrono all’investitore al dettaglio diverse opzioni di investimento sottostanti, consentendo, in tal caso, di inserire nel KID del PRIIP un rinvio a documentazione informativa precontrattuale più dettagliata relativa ai prodotti di investimento a cui si riferiscono le opzioni di investimento sottostanti. Sulla materia dei PRIIPs vigilano la CONSOB e l’IVASS, secondo il riparto (piuttosto articolato) di competenze di cui all’art. 4-sexies TUF. Le maggiori criticità derivanti dalla nuova disciplina PRIIPs attengono alle sovrapposizioni tra i vari ambiti nei quali lo stesso interviene: in primo luogo, la disciplina del prospetto informativo, e poi il settore dei prodotti assicurativo-finanziari che, in parte, sono già assoggettati alle regole del TUF in materia di offerta. Su di un piano più concettuale, ci si può altresì interrogare sull’effettiva utilità di introdurre, in un sistema già gravido di regole che insistono sull’informativa dell’investitore, un ulteriore strumento, che si aggiunge a quelli già in essere. È sempre più evidente, infatti, il rischio di una ipertrofia informativa, che rischia di compromettere le finalità che la disciplina punta a realizzare.

12. Offerte al pubblico e quotazione nei mercati regolamentati La disciplina dell’offerta al pubblico assume rilevanza anche in relazione alla fase di ammissione alla quotazione in mercati regolamentati degli strumenti finanziari. Le due operazioni sono spesso, in realtà, tra loro connesse: la condizione della sufficiente diffusione tra il pubblico degli strumenti finanziari – presupposto per ottenerne la quotazione nei mercati regolamentati – viene di regola raggiunta attraverso il lancio di un’offerta pubblica di vendita o sottoscrizione, che si conclude con l’approdo alla quotazione. In realtà la quotazione in Borsa può avvenire anche indipendentemente dallo svolgimento di un’operazione di offerta al pubblico: ciò può verificarsi, ad esempio, quando gli strumenti finanziari risultino già sufficientemente diffusi tra il pubblico. La quotazione in Borsa è oggetto di specifiche previsioni comunitarie (Direttiva 80/390/CEE; Direttiva 2003/71/CE). Conformemente a quanto richiesto dalle Direttive, l’art. 113 TUF dispone dunque l’obbligo di pubblicare un “prospetto di quotazione” per gli strumenti finanziari comunitari; il successivo art. 113-bis TUF regola la materia per quanto riguarda la quotazione di quote o azioni di OICR aperti. Analogamente alla disciplina dell’offerta al pubblico, l’art. 113, commi 2 e 3 affida alla Consob una serie di compiti e poteri, finalizzati a dare attuazione alla disciplina di legge e ad attribuire alla Commissione poteri di intervento e di vigilanza.

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Quando la quotazione è preceduta da un’operazione rilevante ai fini della disciplina dell’offerta al pubblico, si pone peraltro un’evidente esigenza di coordinamento tra le due discipline. Il TUF – razionalizzando il complesso sistema previgente – si fa dunque carico di realizzare tale obiettivo, stabilendo che la Consob, nel disciplinare la materia del prospetto di quotazione, è tenuta a formulare “specifiche disposizioni per i casi in cui l’ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato sia preceduta da un’offerta al pubblico”. Pertanto, con la domanda di autorizzazione alla pubblicazione del prospetto di quotazione, può essere comunicato alla Consob che si intende effettuare un’offerta pubblica relativa agli strumenti finanziari oggetto della domanda. In tal caso il prospetto predisposto per la quotazione, integrato con le informazioni relative all’operazione di offerta, vale anche come prospetto informativo per l’offerta al pubblico. Ciò significa che, nel caso di ammissione alla quotazione preceduta da un’operazione di offerta al pubblico, il prospetto informativo è unico (art. 63, comma 1, del Regolamento emittenti).

13. Le sanzioni amministrative Ai sensi dell’art. 191 TUF, chiunque effettua un’offerta al pubblico in violazione degli artt. 94 e 98-ter, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da venticinquemila euro fino a cinque milioni di euro. Inoltre, chiunque viola gli artt. 94, commi 2, 3, 5, 6 e 7, 96, 97, e, 101, ovvero le relative disposizioni emanate dalla Consob, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 750.000 euro 38. Sanzioni più gravi – che possono arrivare fino al 10% del fatturato – si applicano in ulteriori casi, tra i quali la violazione degli artt. 98-ter e 98-quater. L’applicazione delle sanzioni comporta la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità previsti dal TUF per gli esponenti aziendali dei soggetti abilitati, per i consulenti finanziari autonomi e per i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede. Inoltre, ne deriva l’incapacità temporanea ad assumere incarichi direttivi in società quotate o con titoli diffusi, e nelle società appartenenti al medesimo gruppo. La sanzione amministrativa accessoria ha durata non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni.

38 La medesima sanzione si applica nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della società o dell’ente nei casi previsti dall’art. 190-bis, comma 1, lett. a), TUF (cfr. art. 191, comma 2-bis, TUF).

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13.1. Le sanzioni civilistiche È opinione da tempo consolidata, in dottrina e in giurisprudenza, che lo svolgimento di operazioni di offerta al pubblico in violazione della relativa disciplina può incidere sulla stessa validità dei negozi conclusi. In particolare, nel caso in cui venga realizzata un’operazione di offerta al pubblico senza che si sia adempiuto all’obbligo di pubblicazione del prospetto informativo, i contratti conclusi devono ritenersi affetti da nullità, per violazione di norme imperative (art. 1418 c.c.). La sanzione della nullità non è stabilita espressamente dalla legge, ma è ricavata dalla natura pubblica degli interessi tutelati dalla disciplina dell’offerta al pubblico e dalla natura imperativa delle relative disposizioni.

14. La responsabilità da prospetto Con il recepimento della Direttiva 2003/71/CE è stata introdotta anche in Italia una specifica disciplina relativa alla c.d. “responsabilità da prospetto”. Prima del recepimento della Direttiva, il sistema italiano non contemplava regole speciali in punto di responsabilità da prospetto. La portata e l’estensione della responsabilità riveniente dall’aver inserito nel prospetto informazioni non veritiere, o inesatte, doveva pertanto ricostruirsi sulla base dei principi generali. A tal riguardo, l’opinione prevalente era nel senso che la responsabilità da prospetto potesse inquadrarsi nell’art. 1337 c.c., trattandosi dunque di un caso di responsabilità precontrattuale. In effetti, l’obbligo di informare correttamente i destinatari in merito alle caratteristiche dell’operazione di offerta può inquadrarsi nell’ambito del più generale dovere di agire, in fase di trattative, secondo buona fede; e dalla violazione di tale canone generale discende l’obbligo di risarcire i danni arrecati per effetto di una compilazione errata o incompleta del prospetto. Tale ricostruzione, tuttavia, non era pacifica: anzi, sulla responsabilità da prospetto la dottrina si è spesso trovata su posizioni contrapposte. In primo luogo, infatti, era la stessa natura della responsabilità ex art. 1337 c.c. ad essere discussa: è noto, al riguardo, il dibattito circa il fatto che tale responsabilità sia inquadrabile negli schemi della responsabilità contrattuale, ovvero da fatto illecito. In secondo luogo, vi era chi distingueva, nell’ambito della responsabilità da prospetto, tra prospetto di quotazione, e prospetto di offerta al pubblico. Nel caso del prospetto di quotazione, infatti, poiché manca un rapporto negoziale tra emittente, e acquirente il titolo, la responsabilità non avrebbe potuto che essere di tipo extracontrattuale 39; nel secondo caso, la respon39

Si osservi che tale profilo non sussiste quando, come accade nella maggioranza dei

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sabilità sarebbe stata di natura precontrattuale, a sua volta da ricondurre negli schemi della responsabilità da contratto 40. Quanto alla posizione della giurisprudenza, i precedenti sembravano inequivocabilmente orientarsi verso la natura precontrattuale della responsabilità da prospetto, a sua volta inquadrabile negli schemi della responsabilità da contratto 41. La natura della responsabilità da prospetto veniva indagata anche sotto il profilo penalistico, in particolare per quanto attiene all’applicazione della disciplina del reato di falso in comunicazioni sociali. La soluzione in base alla quale la falsità nel prospetto sarebbe sanzionabile in base all’art. 2621 c.c. è stata accolta in giurisprudenza 42; analoga soluzione sembrava prevalere in dottrina 43, sebbene si debba tener conto del fatto che tra falso in prospetto e false comunicazioni sociali non sussiste un’identità assoluta, e – pertanto – possano darsi casi in cui l’art. 2621 c.c. non potrà applicarsi 44. Il dibattito di cui sopra è ormai da valutarsi alla luce di quanto espressamente previsto dall’art. 94 TUF. Con disposizione innovativa, e secondo quanto richiesto dalla Direttiva 2003/71/CE, l’art. 94, comma 8, TUF, formula una regola specifica, in base alla quale i soggetti che redigono il prospetto sono responsabili dei danni subiti dall’investitore che abbia fatto ragionevole affidamento sulla veridicità e completezza delle informazioni contenute nel prospetto: la responsabilità è posta in capo all’emittente, all’offerente e all’eventuale garante (a seconda dei casi) nonché in capo alle “persone responsabili delle informazioni contenute nel prospetto”, ciascuno in relazione alle parti di propria competenza. La responsabilità non scatta, tuttavia, qualora si provi di aver adottato ogni diligenza allo scopo di assicurare che le informazioni in questione fossero conformi ai fatti e non presentassero omissioni tali da alterarne il senso. Si tratta, dunque, di una responsabilità che si misura sul grado di diligenza concasi, la quotazione è preceduta da una offerta al pubblico, finalizzata alla quotazione stessa. In tal caso, infatti, il prospetto informativo è al contempo un prospetto di offerta e di quotazione (v. supra). 40 FERRARINI (1986); COSTI (2000). Sul tema della responsabilità da prospetto v. VENTORUZZO (2003); ROSSI M.G. (2007). Sulla “allocazione” dell’onere probatorio in tema di responsabilità da prospetto v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 174 ss. 41 V. Trib. Milano, 11 gennaio 1988, in Giur. comm., 1988, II, 585, con nota di FERRARINI; in Banca, Borsa, 1988, II, p. 532, con nota di CASTELLANI; in Nuova giur. civ., 1988, I, p. 459 ss., con nota di BAZZANI; in Società, 1988, II, p. 513, con nota di TENCATI. La decisione è stata confermata da App. Milano, 2 febbraio 1990, in Banca, Borsa, 1990, II, p. 734 ss. 42 Trib. Milano, 28 novembre 1987, in Banca, Borsa, 1989, II, p. 622 ss.; Cass., sez. V, 28 febbraio 1991, in Cass. pen., 1991, I, p. 1849, n. 1406). 43 V. NAPOLEONI (1996); contra CRESPI (1989). 44 Ad esempio, l’art. 2621 c.c. si applica solo alle società soggette a registrazione, mentre il prospetto informativo potrebbe essere predisposto e diffuso anche da un soggetto diverso.

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cretamente esercitato all’atto della redazione del prospetto, anche da parte di soggetti che hanno prodotto le informazioni destinate poi a confluire nel prospetto vero e proprio 45. Un regime specifico si applica, altresì, all’intermediario responsabile del collocamento: nel caso in cui constino, nel prospetto, informazioni false, od omissioni idonee ad influenzare le decisioni di un investitore ragionevole, la responsabilità grava in capo al responsabile del collocamento, a meno che non provi di aver adottato la diligenza prevista (comma 9). Le azioni risarcitorie per responsabilità da prospetto devono essere esercitate entro cinque anni dalla pubblicazione del prospetto, salvo che l’investitore provi di aver scoperto le falsità delle informazioni o le omissioni nei due anni precedenti l’esercizio dell’azione. Le regole di cui sopra si applicano, infine, sia ai prospetti relativi ad operazioni di offerta al pubblico, sia ai prospetti di quotazione (tranne la disposizione di cui al comma 9 che non potrà, evidentemente, applicarsi qualora la quotazione non sia preceduta da un’operazione di collocamento) 46.

15. “Crack” finanziari e personificazione della crisi: l’art. 100-bis TUF L’art. 100-bis TUF tradisce – ancor più chiaramente di altre previsioni aggiunte nel corso del tempo all’originale impianto del TUF – la sua origine, profondamente legata alle “crisi” che hanno caratterizzato il mercato italiano in anni passati 47. La disposizione, infatti, costituisce la traduzione, in termini normativi, di una delle più evidenti situazioni originatesi da tali vicende: ossia il trasferimento a clientela “al dettaglio” di corporate bonds, originariamente emessi nei soli confronti di investitori professionali, e dunque in assenza di prospetto informativo 48 (fenomeno particolarmente evidente nel caso dei default Cirio, Parmalat, Giacomelli e altre simili vicende). L’art. 100-bis affronta la questione con una soluzione originale. Nella sua formulazione attuale – riveniente da modifiche successive, apportate dal decreto correttivo della legge n. 262/2005, e frutto di un “tormentato” 45

V. MACCHIAVELLO (2009). V. in argomento SANGIOVANNI (2010). 47 Per un articolato primo commento v. GRECO (2007). Più recente l’approfondita monografia di DALMARTELLO (2012). 48 Una parte rilevante del contenzioso originatosi dalle richiamate vicende riguardò, come noto, l’asserita violazione, da parte degli intermediari, delle regole di trasparenza e di comportamento in sede di “trasferimento” o negoziazione degli strumenti finanziari in questione nei confronti di clientela non professionale. 46

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iter legislativo – si dispone che la successiva rivendita di prodotti finanziari che hanno costituito oggetto di un’offerta al pubblico esente dall’obbligo di pubblicare un prospetto costituisce ad ogni effetto una distinta e autonoma offerta al pubblico, nel caso in cui ricorrano le condizioni indicate nella definizione generale (art. 1, comma 1, lett. t)) e non ricorra alcuno dei casi di inapplicabilità di cui all’art. 100. In particolare, si realizza un’offerta al pubblico anche qualora i prodotti finanziari – che abbiano costituito oggetto di un collocamento riservato a investitori qualificati – siano, nei dodici mesi successivi, sistematicamente rivenduti a soggetti diversi da investitori qualificati, e sempreché tale rivendita non ricada in alcuno dei casi di inapplicabilità di cui all’art. 100. L’intermediario, nelle rivendite successive di prodotti finanziari, può avvalersi di un prospetto già disponibile e ancora valido, purché l’emittente o la persona responsabile della redazione del prospetto abbiano dato il loro consenso a tale utilizzo mediante accordo scritto. Qualora, invece, non sia stato pubblicato un prospetto, l’acquirente – che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale – può far valere la nullità del contratto, e i soggetti abilitati presso i quali è avvenuta la rivendita dei prodotti finanziari rispondono del danno subito 49. La disciplina risponde, in generale, all’esigenza di evitare elusioni della disciplina dell’offerta al pubblico. In particolare, tale rischio è particolarmente evidente qualora i prodotti finanziari vengano collocati privatamente (in assenza di prospetto), e successivamente rivenduti (ad esempio, nell’ambito di un’attività di negoziazione) a investitori non qualificati. Trattandosi, in ipotesi, di operazioni di rivendita riconducibili alla prestazione di un servizio di negoziazione (in quanto prive, tipicamente, del requisito della standardizzazione, proprio delle operazioni di collocamento di strumenti finanziari), il rischio è che investitori non qualificati acquisiscano gli strumenti finanziari senza la “protezione” offerta dalla disciplina delle offerte pubbliche e, in tale ambito, dal prospetto informativo. Al fine di ricondurre le operazioni della specie nell’ambito delle regole proprie dell’offerta al pubblico, la disposizione agisce su tre livelli diversi: – in primo luogo, viene ribadita l’applicazione della disciplina delle offerte al pubblico, per le operazioni di rivendita dei prodotti finanziari in origine emessi senza prospetto, e che presentino i caratteri generali individuabili sulla base della definizione di cui all’art. 1, comma 1, lett. t), TUF (in realtà tale conclusione poteva già ricavarsi dalle regole generali);

49 L’art. 100-bis TUF precisa, in ogni caso, che resta fermo il regime sanzionatorio di cui all’art. 191 TUF, e quanto stabilito dagli artt. 2412, comma 2, 2483, comma 2 e 2536, comma 4, c.c.

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– in secondo luogo, la rivendita sistematica, nei dodici mesi successivi, ad investitori non qualificati, dei prodotti finanziari emessi – in Italia o all’estero – nell’ambito di un’offerta riservata originariamente a investitori qualificati è sottoposta alla disciplina delle offerte al pubblico e dunque richiede la predisposizione del prospetto informativo. In questo caso, la disposizione ha un effettivo carattere innovativo, in quanto comporta l’applicazione della disciplina delle offerte pubbliche ad operazioni che non necessariamente ricadono nella definizione generale: è, infatti, richiesto semplicemente che la rivendita dei prodotti finanziari sia effettuata in modo sistematico, senza che siano ravvisabili tutti gli elementi propri dell’offerta al pubblico. In tal senso, dunque, anche lo svolgimento di un’attività di negoziazione, avente ad oggetto i prodotti finanziari in questione, può ricadere nell’ambito di applicazione della disposizione. Si osservi, tuttavia, che la norma pone un limite temporale (dodici mesi successivi al collocamento), decorso il quale la rivendita, anche sistematica, dei prodotti finanziari non sconta più le regole speciali 50; – il terzo livello è quello sanzionatorio. In ipotesi di violazione, i contratti conclusi con i soggetti abilitati sono affetti da nullità, salvo il risarcimento del danno subito: la tutela è tuttavia limitata ai soli soggetti che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale, ossia a soggetti che siano qualificabili come consumatori (non è peraltro chiaro il motivo per il quale il legislatore non ha utilizzato, in questa sede, la nozione di investitore qualificato o professionale, come discrimine per l’applicazione della disciplina, come invece sarebbe parso naturale). In generale, l’art. 100-bis si presta – nonostante l’ampia revisione subita rispetto alla formulazione originaria – a valutazioni contrastanti. Se va dato merito al legislatore di aver quantomeno tentato di colmare una lacuna del sistema – emersa con violenza in occasione dei “crack” finanziari – al contempo, la soluzione adottata non è del tutto soddisfacente. In particolare, il concetto di rivendita “sistematica” non è identificabile con certezza, e non corrisponde ad altre nozioni proprie della disciplina del mercato mobiliare; inoltre, il limite temporale di 12 mesi finisce, in realtà, per creare una vera e propria zona franca, giacché è sufficiente che le operazioni si perfezionino dopo tale termine affinché la disciplina non si applichi più. È pur vero che, sino al decorso di tale termine, l’intermediario corre su di sé il rischio di un eventuale default dell’emittente ma, in realtà, il termine potrebbe risultare troppo breve 51. 50

Le disposizioni di cui al comma 2 dell’art. 100-bis non si applicano alla rivendita di titoli di debito emessi da Stati OCSE, con classamento creditizio di qualità bancaria, assegnato da almeno due agenzie internazionali di rating. Resta però ferma l’applicazione delle altre azioni civili, penali e amministrative previste a tutela del risparmiatore (art. 100-bis, comma 4). 51 Sulla responsabilità conseguente alla violazione dell’art. 100-bis, v. SANGIOVANNI (2008).

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16. La raccolta di capitali di rischio in favore di start up e PMI (crowdfunding) Il D.L. del 18 ottobre del 2012, n. 179 (c.d. decreto-sviluppo-bis), convertito con modificazioni nella legge 17 dicembre 2012, n. 221 ha introdotto una nuova disciplina riguardante le imprese innovative del settore tecnologico (c.d. start up innovative) che interessa e si estende, oltre che agli ambiti del diritto societario e tributario, anche alla normativa del mercato mobiliare. Nel dettaglio, il decreto  nel definire un quadro normativo di favore per le start up innovative, con la finalità di agevolarne non solo la nascita ma anche la patrimonializzazione  ha inteso rimuovere eventuali ostacoli all’approvvigionamento delle risorse finanziarie permettendo un più facile ed immediato accesso al mercato dei capitali. Tale agevolazione è stata successivamente riconosciuta (cfr. legge di Bilancio 2017) anche alla raccolta di capitale di rischio da parte delle PMI in generale, non limitando l’accesso alle sole start-un e PMI innovative. Lo strumento che è stato scelto e sviluppato per il raggiungimento di tale obiettivo è stato individuato nella raccolta di capitali svolta attraverso “portali on-line”, fenomeno meglio conosciuto, nell’esperienza statunitense, con il nome di crowdfunding. Si tratta, in estrema sintesi, di una forma di finanziamento collettivo di progetti imprenditoriali in cui la raccolta dei capitali avviene attraverso piattaforme on-line accessibili dalla massa dei risparmiatori e con importi generalmente di misura ridotta. Tale fenomeno assume varie configurazioni e non è certo questa la sede per analizzarle nel dettaglio; basta sin da ora premettere che l’innovativa scelta del legislatore e la pioneristica normativa regolamentare demandata ed emanata dalla Consob riguardano, esclusivamente, l’equity crowdfunding, ossia l’offerta di strumenti finanziari che attribuiscono agli investitori che li sottoscrivono la partecipazione nel capitale di rischio delle start up c.d. innovative, Regolamento n. 18592/2013 e succ. Sono tali le società di capitali il cui oggetto sociale esclusivo o prevalente contempli lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico, costituite da non più di 48 mesi e aventi la sede principale dei propri affari in Italia. Le start up innovative, inoltre, non devono aver distribuito utili e le relative azioni o quote non devono essere negoziate in mercati regolamentati. A queste si aggiunge un’ulteriore serie di condizioni che riguardano gli investimenti in ricerca, la qualifica dei lavoratori e la titolarità di (almeno) una privativa industriale relativa ad un certo numero di invenzioni (art. 25 e ss., D.L. 18 ottobre 2012, n. 179). Il D.L. n. 3/2015, convertito in legge 24 marzo 2015, n. 33, ha esteso alle PMI innovative (oltre a OICR e a società che investono prevalentemente in start up e PMI innovative) la possibilità di effettuare offerte di capitale di rischio tramite i portali on-line. Ulteriori modifiche hanno avuto ad oggetto l’introduzione di particolari regole

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sulla dematerializzazione delle quote delle start up e PMI innovative. Come detto, la disciplina è stata poi ulteriormente estesa, quanto ad ambito di applicazione soggettivo, ricomprendendo anche le PMI in generale, non limitando quindi più l’accesso alle sole start-up e PMI innovative. Nell’ambito del processo di attuazione della Direttiva MIFID 2, la portata è stata ulteriormente allargata alle modalità di raccolta del capitale del rischio rivolta alle imprese sociali. Nel disciplinare i meccanismi di fundraising di queste particolari società, il D.L. n. 179/2012 è intervenuto sul TUF introducendo, da un lato, l’attività (riservata) di gestione di portali on-line per la raccolta del capitale di rischio, e, dall’altro, integrando (e derogando parzialmente) la disciplina generale dell’offerta al pubblico attraverso la previsione di una ulteriore fattispecie tipica di offerta realizzata, appunto, attraverso i predetti portali. Tra le definizioni di cui all’art. 1, TUF compare quindi al comma 5-novies la nozione di portale per la raccolta di capitali per le PMI e per le imprese sociali: per tale si intende “una piattaforma on-line che abbia come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio da parte delle piccole e medie imprese, come definite dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera (f), primo allinea, del Regolamento UE 2017/1129, delle imprese sociali e degli OICR o altre società che investono prevalentemente in PMI”. Il modello di regolazione scelto dal legislatore per l’attività di gestione di portali on-line ricalca lo schema tradizionale delle attività del mercato finanziario, saldamente incentrato sulla figura della riserva di attività. L’art. 50-quinquies  ambiguamente collocato al Titolo III del TUF ove viene disciplinata l’attività di gestione collettiva del risparmio – stabilisce che sono gestori di portali on-line per la raccolta di capitali (i) le SIM e le banche autorizzate alla prestazione dei servizi di investimento, oltre alle SGR, SICAV e SICAF autogestite 52 (cfr. comma 2) e (ii) quei soggetti che esercitano professionalmente tale attività e che risultano iscritti in un apposito registro tenuto dalla Consob (cfr. comma 1), ma solo a condizione che questi ultimi trasmettano gli ordini riguardanti la sottoscrizione e la compravendita di strumenti finanziari rappresentativi di capitale esclusivamente a banche e imprese di investimento. Più nel dettaglio, il Regolamento Consob n. 18592, adottato in attuazione dell’art. 50-quinquies, prevede l’istituzione di un apposito “albo dei gestori”, suddiviso in due sezioni. Una prima sezione, ordinaria, è riservata ai soggetti c.d. autorizzati: si tratta di soggetti diversi da banche e SIM che vengono sottoposti ad una vera e propria procedura di autorizzazione che richiede, tra le altre condizioni, la presentazione di una relazione sull’attività d’impresa e sulla struttura organizzativa. Una seconda sezione, speciale, vede iscritti “i gestori 52 Le SGR, SICAV e SICAF posso gestire portali on-line limitatamente all’offerta sul portale di quote o azioni di OICR che investono in piccole e medie imprese.

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di diritto” ai quali è richiesta una semplice comunicazione di avvio dell’attività riservata. Secondo un approccio oramai ampiamente consolidatosi nel settore finanziario, anche lo svolgimento dell’attività di gestione di portali on-line per la raccolta di capitali per le PMI e le imprese sociali richiede il possesso da parte dei partecipanti al capitale dei requisiti di onorabilità, e da parte dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo di requisiti di onorabilità e di professionalità stabiliti dalla Consob con proprio Regolamento. Il Regolamento Consob sviluppa il quadro descritto dal TUF delineando uno scenario che si articola su due distinte ipotesi, alle quali corrispondono due diversi regimi regolamentari, a seconda che il portale on-line sia gestito da una banca o SIM, oppure da un soggetto diverso. Nel caso in cui la piattaforma d’offerta sia gestita da un soggetto diverso da una SIM o da una banca il gestore è tenuto (i) al rispetto di una serie di obblighi informativi atti a garantire la realizzazione di un percorso di investimento consapevole, e (ii) alla trasmissione degli ordini di adesione ad un soggetto abilitato, senza che esso possa detenere in modo alcuno somme di denaro di pertinenza di terzi; soluzione quest’ultima che, se si vuole, rappresenta un presidio ancora più incisivo rispetto alla separazione patrimoniale prevista all’art. 22 TUF. Si tratta di una vera e propria attività di ricezione e trasmissione ordini rispetto alla quale vengono applicate le condizioni per l’esenzione facoltativa dalle regole MiFID. Il perfezionamento della sottoscrizione avviene, dunque, in una fase immediatamente successiva che vede coinvolti soggetti abilitati alla prestazione dei servizi di investimento. Questi, in quanto tali, sono tenuti al rispetto delle regole di condotta, tra cui la profilatura della clientela, imposti dalla MiFID. Tuttavia, al fine di evitare una completa equiparazione ai meccanismi e alle regole proprie dei servizi di investimento, vanificando le prerogative di flessibilità che avrebbero dovuto contraddistinguere tale nuovo impianto, è stata introdotta una soglia minima concernente l’ammontare del corrispettivo versato a fronte della sottoscrizione al di sotto della quale le regole MiFID non trovano comunque applicazione. Tale regime differenziato  ed è questa la divergenza che rileva maggiormente rispetto all’ipotesi appena illustrata  non opera nel caso in cui il portale online per la raccolta dei capitali di rischio sia gestito da una banca o da una SIM. I gestori dei portali per la raccolta di capitali sono sottoposti alla vigilanza della Consob che verifica l’osservanza delle disposizioni in materia. A tal fine è previsto che la Consob possa chiedere la comunicazione di dati e di notizie, la trasmissione di atti e di documenti, e che possa effettuare ispezioni. Da rilevare altresì il divieto da parte dei gestori di portali di crowdfunding iscritti nella sezione ordinaria (diversi quindi dai gestori di diritto iscritti alla sezione speciale) di condurre sui propri portali offerte aventi ad oggetto strumenti finanziari di propria emissione o emessi da soggetti appartenenti al medesimo gruppo (c.d. autoquotazione).

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È altresì previsto un apposito regime sanzionatorio che risulta  nuovamente  differenziato a seconda che si tratti di un gestore di diritto (SIM, banche, SGR, ecc.) o di un soggetto iscritto nell’albo dei gestori tenuto dalla Consob. In via generale, è stabilito che tutti i gestori di portali on-line che violino le norme di riferimento del TUF e le disposizioni attuative emanate dalla Consob, siano puniti, in base alla gravità della violazione e tenuto conto dell’eventuale recidiva, con una sanzione amministrativa pecuniaria da cinquecento euro a venticinquemila euro. Inoltre, nei confronti dei soli soggetti diversi dalle SIM e dalle banche può altresì essere disposta la sospensione dell’attività da uno a quattro mesi, o la radiazione dal registro. Per gli intermediari abilitati alla prestazione dei servizi di investimento resta fermo, invece, quanto previsto dalle disposizioni in materia di soggetti vigilanti.

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CAPITOLO XVI LE OFFERTE PUBBLICHE DI ACQUISTO SOMMARIO 1. Premessa. – 2. La disciplina generale dell’OPA. Ambito di applicazione ed esenzioni. – 2.1. (Segue): l’Autorità di vigilanza. – 2.2. (Segue): l’avvio dell’offerta e la pubblicazione del documento d’offerta. – 2.3. (Segue): lo svolgimento dell’offerta. – 2.4. (Segue): la passivity rule. – 2.5. (Segue): la regola di neutralizzazione. – 3. L’OPA obbligatoria. – 3.1. (Segue): l’OPA totalitaria. – 3.2. (Segue): l’OPA preventiva. – 3.3. (Segue): l’obbligo di acquisto. – 3.3.1. (Segue): obbligo di acquisto e tutela degli investitori. Il rapporto con la disciplina del recesso e dell’esclusione dalle negoziazioni. – 4. Il diritto di acquisto. – 5. La nozione di acquisto di concerto. – 6. Le sanzioni.

1. Premessa Le offerte pubbliche di acquisto sono, sul piano economico, operazioni opposte alle offerte volte alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari. In questo caso, un soggetto offre di acquistare i prodotti già detenuti, a vario titolo, dagli investitori: si verifica, pertanto, un fenomeno non già di investimento del risparmio, ma di disinvestimento. In caso di adesione all’offerta, gli investitori venderanno i relativi prodotti finanziari, e potranno poi decidere, se e come impiegare diversamente, la liquidità ottenuta. Naturalmente, tale decisione comporta varie valutazioni: la prima, e più evidente, è quella che conduce, di volta in volta, alla scelta di non aderire all’offerta (e di conservare così l’investimento nel tempo, e i relativi rischi), ovvero di aderire all’offerta stessa. Le finalità perseguite dalla disciplina dell’OPA sono almeno di due tipi. Su di un piano generale, essa vuole assicurare condizioni di adeguata trasparenza alle operazioni di offerta, e il regolare svolgimento delle stesse: sotto questo profilo, dunque, la ratio può agevolmente avvicinarsi a quella che ispira le regole in tema di offerte al pubblico di vendita o di sottoscrizione. Nell’ambito della più generale disciplina dell’OPA, si colloca poi la disciplina dell’OPA obbligatoria, il cui obiettivo precipuo consiste nell’apprestare specifici strumenti di tutela delle minoranze in caso di acquisto di una partecipazione “rilevante” al capitale di emittenti quotati, ponendo i soci minoritari nella condi-

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zione di poter a loro volta vendere i propri titoli per un corrispettivo che si approssimi, o sia pari, a quello percepito dal socio che ha ceduto la quota rilevante 1. In questa seconda prospettiva, la disciplina dell’OPA obbligatoria tende a correggere le inefficienze del mercato, che non consente un’equa ripartizione del cosiddetto “premio di maggioranza”, collegato al trasferimento del pacchetto di maggioranza della società. La disciplina dell’OPA, sin dalla sua prima introduzione in Italia, avvenuta con la legge n. 149/1992, è sempre stata caratterizzata da profili problematici. La legge n. 149/1992 – che pur rappresentò un provvedimento di grande portata innovativa per il sistema italiano – aveva previsto soluzioni non ottimali, e in gran parte lacunose. Con il TUF si assiste ad una coraggiosa opera di razionalizzazione e sistematizzazione della materia, ma – all’epoca – ancora in presenza di un quadro composito delle legislazioni europee, dai contorni sfuocati, che rendeva le offerte pubbliche di acquisto “transfrontaliere” soggette a regimi profondamente disomogenei. Dopo una lunghissima fase di gestazione, e innumerevoli difficoltà, il legislatore comunitario ha approvato la Direttiva 2004/25/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 229 2. La Direttiva sull’OPA è stata caratterizzata da complessi lavori preparatori, e da ampie divergenze di opinioni tra gli Stati membri: si tratta, forse, della disciplina comunitaria che, quantomeno nel settore del mercato dei capitali, ha richiesto la più lunga gestazione che mai si ricordi. Le difficoltà maggiori, che avevano costellato l’iter preparatorio della Direttiva, erano molteplici: oltre alle profonde divergenze degli ordinamenti nazionali che caratterizzavano la situazione antecedente alla Direttiva, erano gli stessi assunti di base della disciplina dell’OPA (soprattutto, l’OPA obbligatoria) ad essere oggetto di un acceso dibattito e confronto in sede comunitaria. Il testo della Direttiva riflette, inevitabilmente, i numerosi compromessi che si sono resi necessari per addivenire ad un consenso comune tra gli Stati dell’Unione Europea. In realtà, dietro al richiamo del principio di sussidiarietà del diritto comunitario rispetto al diritto dei singoli Stati membri – che sembrava giustificare l’elaborazione di una disciplina “minimalista” – la versione definitiva della Direttiva non riesce a nascondere l’imbarazzo di un legislatore comunitario alle prese, ormai da decenni, con un’opera di armonizzazione difficilissima, resa ancor meno agevole dall’ostruzionismo, più o meno conclamato, di alcuni Paesi. In Italia, dopo il recepimento della Direttiva, sono stati apportati ulteriori correttivi e modifiche al TUF, non sempre ispirate a solidi principi sistematici. Alcune di queste modifiche risalgono alla fase più acuta della crisi finanziaria; altre (come ad esempio le recenti novità introdotte in materia di piccole e medie imprese) sono, invece, più recenti. In tale quadro, la disciplina rinvenibile 1 2

MUCCIARELLI (2014); POMELLI (2014). V. ANGELILLIS-MOSCA (2007).

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ad oggi nel TUF è il frutto dello stratificarsi della disciplina comunitaria sulla disciplina originaria introdotta nel 1998 e di ulteriori interventi. La disciplina, dunque, è lungi dall’offrire un quadro interamente stabile, e – sullo sfondo – si profila una possibile revisione della Direttiva europea 3. Il carattere controverso delle riforme continua, pertanto, a suggerire all’interprete un cauto atteggiamento ricostruttivo.

2. La disciplina generale dell’OPA. Ambito di applicazione ed esenzioni L’art. 1, comma 1, lett. v), TUF definisce l’offerta pubblica di acquisto o di scambio come “ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma effettuati, finalizzati all’acquisto o allo scambio di prodotti finanziari, e rivolti a un numero di soggetti e di ammontare complessivo superiori a quelli indicati nel Regolamento indicato dall’art. 100, comma 1, lett. b) e c); non costituisce offerta pubblica di acquisto o di scambio quella avente ad oggetto titoli emessi dalle banche centrali degli Stati comunitari” 4. La definizione ha una struttura analoga a quella di “offerta al pubblico”, e si basa dunque sui medesimi elementi, ossia: la nozione di “prodotto finanziario”, ed un ampio riferimento alle possibili “tecniche” o “modi” dell’offerta, formulato in termini diversi rispetto alla definizione dell’art. 1, comma 1, lett. t), ma – nella sostanza – assimilabili, salvo il fatto che – in materia di OPA – è rimasto il riferimento ai “messaggi promozionali” che è invece scomparso (quantomeno formalmente) dalla definizione di “offerta al pubblico di prodotti finanziari”. Si osservi, al riguardo, che le offerte pubbliche di scambio – nelle quali convivono profili che attengono sia all’investimento, sia al disinvestimento in prodotti finanziari – vengono, per effetto di questa definizione, assimilate alle offerte di acquisto, facendo così prevalere il secondo aspetto, rispetto al primo 5. Si osservi altresì che – analogamente alle regole in materia di offerta al pubblico – la disciplina generale dell’OPA ha vocazione ad applicarsi anche ad emittenti non quotati; di contro, la disciplina dell’OPA obbligatoria trova applicazione limitatamente agli emittenti quotati (v. infra). 3

Sulle eventuali ipotesi di revisione v. ENRIQUES (2009); POMELLI (2014). Si tratta, con tutta evidenza, di una pseudodefinizione in quanto, oltre a definire la nozione di “offerta pubblica”, in realtà si forniscono già importanti elementi di disciplina. 5 V. però il nuovo art. 102, comma 4-bis, TUF, che consente all’offerente (per le offerte di scambio aventi ad oggetto obbligazioni e altri titoli di debito) di chiedere l’applicazione delle norme sulle offerte pubbliche di vendita e sottoscrizione, in sostituzione di quelle in tema di OPA. 4

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La definizione contiene in sé già alcuni rilevanti elementi di disciplina, e segnatamente: – si fa riferimento al fatto che, qualora l’operazione rientri nei parametri quantitativi di cui all’art. 100, comma 1, lett. b) e c), la stessa è esentata dalla disciplina di cui si discute 6; – in ogni caso la disciplina dell’OPA non si applica alle operazioni aventi ad oggetto titoli emessi dalle banche centrali degli Stati comunitari. Si osservi che non sono, invece, applicabili alle OPA gli altri casi di inapplicabilità od esenzione dettati in materia di offerte al pubblico di prodotti finanziari dall’art. 100 TUF. Di contro, l’art. 101-bis individua alcune specifiche disposizioni che non si applicano a talune operazioni. Più precisamente, le operazioni esentate sono (comma 3): – le offerte pubbliche di acquisto o di scambio aventi ad oggetto prodotti finanziari diversi dai titoli; – le offerte pubbliche di acquisto o scambio che non hanno oggetto titoli che attribuiscono il diritto di voto sugli argomenti di cui all’art. 105, commi 2 e 3; – le offerte pubbliche di acquisto o di scambio promosse da chi detiene individualmente, direttamente o indirettamente, la maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea della società; – le offerte pubbliche di acquisto aventi ad oggetto azioni proprie. Alle offerte di cui sopra l’art. 101-bis dichiara inapplicabili l’art. 102, commi 2 e 5 (relativo agli obblighi di informazione nei confronti dei lavoratori), l’art. 103, comma 3-bis (relativo al contenuto del comunicato della società oggetto dell’offerta, con riguardo agli effetti che l’operazione avrà sull’impresa e sull’occupazione), nonché “ogni altra disposizione che pone a carico dell’offerente o della società emittente specifici obblighi informativi nei confronti dei dipendenti o dei loro rappresentanti”. Sono parimenti inapplicabili gli artt. 104 (difese), 104-bis (regola di neutralizzazione) e 104-ter (clausola di reciprocità). Con una previsione aggiunta dal D.Lgs. n. 146/2009, alla Consob è stato riconosciuto il potere di individuare con regolamento, le offerte pubbliche di acquisto o di scambio, aventi ad oggetto prodotti finanziari diversi dai titoli, alle quali non si applicheranno le disposizioni in tema di OPA, ove ciò non contrasti con le finalità indicate nell’art. 91 TUF (art. 101-bis, comma 3-bis). 6

V., seppur con riguardo alla disciplina antecedente il recepimento della Direttiva, MO(1999); WEIGMANN (2002); SIANI (2002), ove anche un’ampia disamina della normativa regolamentare e della prassi della Consob. Per un’articolata disamina della disciplina delle esenzioni COSTI-ENRIQUES (2004), pp. 55 ss. e 155 ss. SCA

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2.1. (Segue): l’Autorità di vigilanza Una delle finalità perseguite dal legislatore comunitario con la Direttiva 2004/25/CE è di introdurre regole chiare per quanto riguarda l’individuazione dell’Autorità competente a vigilare sull’offerta in caso di offerte transnazionali (una finalità analoga ispira, peraltro, la Direttiva sul prospetto informativo – v. supra, Cap. XV). A tal fine, la Direttiva formula, all’art. 4, analitiche previsioni, recepite all’art. 101-ter TUF. In base a quanto ivi previsto, l’Autorità competente italiana per la vigilanza sulle offerte pubbliche di acquisto o di scambio è la Consob. Ai fini del riparto delle competenze tra la Consob e le autorità degli altri Stati comunitari, la Direttiva europea individua un criterio misto che si basa, da un lato, sulla sede dell’emittente e, dall’altro, sulla localizzazione dei mercati sui quali i titoli dell’emittente stesso sono negoziati. In dipendenza di ciò, la vigilanza spetta alla Consob quando l’offerta ha ad oggetto: – titoli emessi da una società con sede legale in Italia e ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati italiani; – titoli emessi da una società con sede in uno Stato UE (diverso dall’Italia) e ammessi alla negoziazione esclusivamente su mercati regolamentati italiani; – titoli con sede legale in uno Stato UE (diverso dall’Italia) e ammessi a negoziazione su mercati italiani e di altri Stati UE, diversi da quello dove la società ha la sede legale, qualora siano stati ammessi per la prima volta alla negoziazione su un mercato italiano. Tuttavia qualora i titoli siano stati ammessi per la prima volta a negoziazione contemporaneamente su mercati italiani e di altri Stati UE, la Consob è l’autorità di vigilanza se la società la sceglie come tale. L’individuazione della Consob come Autorità di vigilanza competente ha importanti effetti sulla legge applicabile all’offerta: in tal caso, sono infatti disciplinate dal diritto italiano le questioni inerenti al corrispettivo dell’offerta, alla procedura, al documento di offerta e alla divulgazione dell’offerta. Per altre questioni resta invece competente l’autorità dello Stato membro in cui la società emittente ha la sede legale (ovviamente, se diversa dalla Consob) 7. Se, infine, l’offerta ha ad oggetto titoli emessi da società con sede legale in Italia, e ammessi alla negoziazione esclusivamente su mercati regolamentati di altri Stati comunitari, le materie di cui sopra sono regolate dal diritto italiano, e l’autorità competente in merito alle stesse è la Consob. 7

Le questioni che restano disciplinate dalla legge dello Stato in cui l’emittente ha la sede legale sono così individuabili in base al comma 4 dell’art. 101-ter: i) le questioni riguardanti l’informazione che deve essere fornita ai dipendenti della società emittente; ii) le questioni di diritto societario, con particolare riguardo a quelle relative alla soglia al cui superamento consegue l’obbligo di OPA; iii) le deroghe all’obbligo di OPA; iv) le condizioni in presenza delle quali l’organo di amministrazione della società emittente può compiere atti od operazioni che possano contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta.

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2.2. (Segue): l’avvio dell’offerta e la pubblicazione del documento d’offerta Lo schema procedurale previsto per il lancio dell’offerta ricalca a grandi linee quello previsto per le offerte al pubblico di sottoscrizione e vendita, ma con alcune peculiarità. In primo luogo, la decisione ovvero il sorgere dell’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto o di scambio devono essere senza indugio comunicati alla Consob e contestualmente resi pubblici (art. 102, comma 1). La previsione chiarisce un punto controverso della disciplina dell’OPA, assimilando in sostanza la decisione di lancio di un’OPA ad una vera e propria informazione privilegiata, soggetta, dunque, agli obblighi di pubblicità ai sensi della Regolamento MAR sugli abusi di mercato. Alla pubblicità della notizia del lancio dell’OPA consegue un obbligo di informativa dei lavoratori, posto in capo sia alla società offerente, sia alla società emittente. La diffusione della notizia rende improrogabile l’obbligo di lanciare l’OPA, entro e non oltre 20 giorni, mediante deposito alla Consob del documento di offerta: il termine, volutamente ristretto, è posto nell’interesse del mercato, che si troverebbe in condizioni di incertezza qualora, all’annuncio iniziale, non facesse seguito, in tempi ragionevolmente brevi, alcuna concreta iniziativa da parte dell’offerente. Il mancato rispetto di tale termine comporta, peraltro, l’applicazione di una sanzione specifica: il documento d’offerta, eventualmente presentato alla Consob oltre il termine, è dichiarato irricevibile e l’offerente non può promuovere un’ulteriore offerta avente ad oggetto prodotti finanziari del medesimo emittente (dunque, anche prodotti diversi da quelli ai quali l’offerta originaria si sarebbe indirizzata), nei successivi dodici mesi (cfr. – anche per i termini di approvazione del documento da parte della Consob – l’art. 102, comma 4). Si osservi come la sanzione frustri l’intendimento del “presunto” offerente a ripresentarsi sul mercato con una nuova ipotesi di offerta pubblica nei dodici mesi successivi: in questo senso, la previsione mira evidentemente ad assicurare la serietà degli intenti di chi intende comunque incidere sul funzionamento del mercato anche solo annunciando il lancio di un’OPA. Analogamente a ciò che si verifica per i prospetti da redigere in occasione di operazioni di sollecitazione all’investimento, il Regolamento emittenti formula, in allegato, gli schemi di documento informativo da utilizzarsi per le diverse operazioni di offerta 8. Il documento informativo costituisce, infatti, 8

V. MIOLA-PICARDI (2002). Un profilo degno di nota è relativo al riferimento, che compare nell’art. 102, comma 4, TUF, alle “particolari garanzie” che l’offerente è chiamato a prestare. Si tratta di un elemento posto a tutela dei destinatari dell’offerta, volto a garantire l’adempimento degli obblighi assunti dall’offerente: il Regolamento emittenti non prevede, peraltro, che la garanzia debba assumere particolari forme, ma la Consob ha il potere, ex art. 102 TUF, di richiederne l’integrazione, ove essa sia giudicata insufficiente. Qualora si renda necessario richiedere all’offerente informazioni supplementari, i termini sono sospesi, per

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l’omologo, nella disciplina dell’OPA, del prospetto informativo previsto per le offerte pubbliche di vendita o sottoscrizione, e il suo contenuto – che si pone l’obiettivo di porre a disposizione degli investitori le informazioni necessarie per compiere una scelta consapevole – è dunque ispirato ad un criterio di standardizzazione, anche per agevolare la confrontabilità tra diverse operazioni e la corretta rappresentazione delle informazioni. Le modalità di pubblicazione e diffusione del documento di offerta sono indicate dall’art. 38 del Regolamento emittenti: ciò che più interessa è rilevare che il documento – come integrato in base alle eventuali richieste della Consob – deve essere trasmesso senza indugio all’emittente. L’adempimento è precipuamente finalizzato alla valutazione dell’offerta da parte degli organi sociali di quest’ultimo, soprattutto in relazione all’invio ai rappresentanti dei lavoratori (art. 102, comma 5), e alla predisposizione di un apposito comunicato che l’emittente deve pubblicare e che deve contenere “ogni dato utile per l’apprezzamento dell’offerta e la propria valutazione sull’offerta” (art. 103, comma 3) 9. Si tratta di un profilo di grande rilievo nell’ambito della disciplina dell’offerta pubblica di acquisto: gli organi sociali dell’emittente sono, infatti, tenuti ad esprimere un giudizio sull’offerta, il cui scopo è – evidentemente – quello di orientare il comportamento degli azionisti (o dei titolari dei prodotti finanziari oggetto dell’offerta) in merito all’adesione, o meno, all’operazione. Con il recepimento della Direttiva, è stato stabilito che il comunicato deve anche contenere valutazioni circa gli effetti che l’eventuale successo dell’offerta avrà sugli interessi dell’impresa, nonché sull’occupazione e la localizzazione dei siti produttivi. Vengono così in considerazione delicati profili di valutazione dell’operazione, che fanno emergere il possibile conflitto nel quale possono trovarsi gli organi sociali dell’emittente: se, infatti, l’offerta è “ostile”, gli amministratori della società bersaglio potrebbero essere indotti a formulare un giudizio negativo sull’operazione finalizzato, essenzialmente, al mantenimento dello status quo, e delle proprie posizioni 10. Se, di contro, l’offerta è “amichevole”, il rischio è che gli amministratori della società bersaglio siano indotti a stimolare l’adesiouna sola volta, fino alla ricezione delle stesse. La Delibera 17 luglio 2013, n. 18612 modificando l’art. 38 del Regolamento Emittenti ha ora previsto che in questo caso l’offerente diffonda senza indugio un comunicato al mercato per dare notizia dell’intervenuta sospensione dei termini istruttori effettuata dalla Consob ai sensi dell’art. 102, comma 4, del Testo Unico, nonché del riavvio degli stessi. 9 La predisposizione del comunicato è a cura del Consiglio di amministrazione dell’emittente. Per le società organizzate secondo il sistema dualistico, l’art. 103, comma 3, stabilisce che “il comunicato, eventualmente congiunto, è approvato dal consiglio di gestione e dal consiglio di sorveglianza”. L’inciso “eventualmente congiunto” non è, peraltro, chiarissimo e non si capisce se la competenza, in via principale, sia dell’uno o dell’altro organo. 10 REGOLI (1996).

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ne all’offerta, facendo prevalere, nelle proprie valutazioni, interessi propri. L’esigenza di far prevalere, di contro, la valutazione dell’interesse dei soci, ha peraltro indotto il legislatore a rendere il comunicato dell’emittente un vero e proprio obbligo (e non già una semplice facoltà): gli amministratori dovranno dunque soppesare attentamente i termini dell’offerta e formulare un giudizio il più possibile obiettivo, avendo riguardo in via esclusiva agli interessi dei soci, sia di breve, sia di medio-lungo periodo.

2.3. (Segue): lo svolgimento dell’offerta Per quanto attiene allo svolgimento dell’offerta, l’art. 103, comma 1, TUF stabilisce che l’offerta pubblica è irrevocabile; ogni clausola contraria è nulla. Inoltre, essa va rivolta a parità di condizioni a tutti i titolari dei prodotti finanziari che ne formano oggetto 11. Il principio della irrevocabilità dell’offerta non impedisce, tuttavia, che l’offerta sia sottoposta a condizioni: un conto, infatti, è revocare l’offerta, altro è sottoporre l’offerta stessa a determinate condizioni. Così, ad esempio, l’offerta può essere condizionata al raggiungimento di un quantitativo minimo di titoli, alla trasformazione della forma giuridica del soggetto, ecc. L’apposizione di siffatte condizioni non viola i principi posti a base della disciplina dell’OPA, purché – ovviamente – non si tratti di condizioni meramente potestative 12, e purché le condizioni siano rese note al mercato in via preventiva (ossia, nel documento di offerta) così ponendo in grado gli investitori di valutare appieno tutte le condizioni dell’operazione. Altri profili di rilievo attengono alla durata dell’operazione, e alla disciplina delle offerte concorrenti: ambedue risultano disciplinati dalla Consob, in sede regolamentare, sulla base del disposto dell’art. 103, comma 4, lett. d), TUF. Quanto alla durata, lo svolgimento di un’offerta pubblica di acquisto deve necessariamente essere contenuto entro periodi temporali limitati: ciò al fine di non creare gravi incertezze sul mercato, e di non rendere obsoleto il contenuto dei documenti e delle informazioni trasmesse al pubblico in occasione del lancio dell’operazione. A tale esigenza, il Regolamento emittenti dà riscontro stabilendo limiti precisi 13. 11

V. l’analisi di CANNELLA (1999); LAMANDINI (2002). L’art. 1355 c.c. prevede, infatti, che è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante, o, rispettivamente, da quella del debitore. 13 Cfr. l’art. 40, comma 2 del Regolamento emittenti: la regola di base è che la durata dell’offerta va stabilita tra un minimo di 15 e un massimo di 25 giorni per le offerte ex artt. 106, comma 4 e 107 TUF; per le altre offerte il periodo è tra un minimo di 15 e un massimo di 40 giorni. La durata esatta dell’operazione viene concordata con la società di gestio12

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Per quanto attiene alle offerte concorrenti, si pone il problema di individuare un compromesso accettabile tra l’interesse degli investitori a disporre di offerte più vantaggiose, in concorrenza tra di loro, e – nuovamente – l’esigenza di evitare che la durata dell’offerta si prolunghi eccessivamente, attraverso il ricorso a rilanci incrociati. Ancora, occorre evitare che il ricorso alle offerte concorrenti si risolva, in realtà, in una condizione di turbativa dell’offerta pubblica di acquisto, come ad esempio si verificherebbe qualora venissero presentate offerte concorrenti per corrispettivi, o quantitativi, non superiori a quelli già offerti, con una finalità essenzialmente di disturbo. La questione viene ora affidata al potere regolamentare della Consob. L’art. 44 del Regolamento emittenti stabilisce, pertanto, che: – le offerte concorrenti possono essere pubblicate fino a cinque giorni prima della data prevista per la chiusura del periodo di adesione, anche prorogato, dell’offerta precedente; – eventuali rilanci sono effettuati entro 5 giorni dall’offerta concorrente, o di un precedente rilancio, o modifica di altro offerente; – per i rilanci non è ammessa la riduzione del quantitativo richiesto.

2.4. (Segue): la passivity rule Uno dei profili più controversi della disciplina dell’OPA è rappresentato dalla c.d. “passivity rule”. Si tratta, in particolare, di stabilire se, e a quali condizioni, la società oggetto dell’offerta possa adottare tecniche di difesa, in ipotesi – essenzialmente – di lancio di un’offerta ostile sui propri titoli. Anche storicamente, il problema è stato variamente affrontato e risolto nelle più significative esperienze estere: gli orientamenti non sono univoci, posto che dipendono da una più generale diversità di impostazione in merito alla disciplina dell’OPA e alle sue finalità 14. Ad un estremo, si collocano soluzioni volte a impedire il ricorso a qualsivoglia tecnica o strumento di difesa da parte della società-bersaglio: in tal caso, la disciplina favorisce evidentemente l’offerente, e rende più agevole la “scalata” della società, che deve assistere inerme – nel caso in cui l’offerta sia “ostile” – all’aggressione 15. All’estremo opposto – e passando per una serie di soluzioni intermedie – si collocano, di contro, gli ordinamenti che consentono un ampio ricorso alle tecniche di difesa, lasciando ne del mercato o, nel caso di strumenti finanziari non quotati, con la Consob. La durata può essere prorogata fino ad un massimo di 55 giorni, se il provvedimento è motivato da esigenze di corretto svolgimento dell’offerta e di tutela degli investitori. 14 V. l’analisi comparatistica di FERRARINI (2000); v. anche MOSCA (1999-II); GATTI (2000); VELLA (2002-II); VENTURINI (2010). 15 Un divieto assoluto di adottare tecniche difensive era previsto dalla legge n. 149/1992.

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tendenzialmente che siano il mercato e le società coinvolte nell’operazione, a raggiungere un soddisfacente grado di equilibrio. La propensione per l’una o per l’altra soluzione si risolve, con tutta evidenza, in una maggiore o minore “apertura” del sistema delle imprese al ricambio del controllo societario, da cui discendono, a loro volta, conseguenze di notevole rilievo per quanto attiene all’ingresso delle imprese sul mercato, al grado di facilità con cui si realizzano i fenomeni di concentrazione, al livello di “protezionismo” dei singoli Stati. In sede di elaborazione della Direttiva, il legislatore comunitario è stato incapace di trovare, su di un terreno tanto delicato, un punto di incontro tra gli Stati membri, e ha dunque scelto una soluzione di compromesso, che si rivela insufficiente, oltre che complessa e farraginosa 16. In questo senso, la Direttiva 2004/25/CE ha in realtà mancato il proprio obiettivo (l’armonizzazione della legislazione degli Stati membri) e soltanto una revisione dei testi comunitari potrà porre rimedio alla situazione che si è venuta a creare. In Italia, ulteriori modifiche introdotte dal 2009 dal nostro legislatore hanno ulteriormente complicato la questione. L’assetto europeo, come previsto nella Direttiva OPA, connota sia la passivity rule, sia la regola di neutralizzazione (la breakthrough rule – v. infra), in merito alle quali gli Stati membri possono scegliere tra quattro opzioni: a) prevedere come obbligatorie sia la passivity, sia la breakthrough rule; b) prevedere la passivity rule, ma non imporre la breakthrough rule; c) escludere la passivity rule e introdurre la breakthrough rule (con l’avvertenza che le regole escluse possono sempre essere introdotte volontariamente negli statuti delle società, c.d. opt-in volontario); d) escludere entrambe le regole. Le opzioni sul campo si espandono, poi, per effetto della c.d. “clausola di reciprocità”, e delle scelte lasciate, sul piano statutario, alle singole società. Al fine di ricostruire la disciplina, giova trattare dapprima la materia delle difese (art. 104), e successivamente la clausola di reciprocità (art. 104-ter). A differenza di ciò che accade per la disciplina generale dell’OPA, la portata dell’art. 104 TUF è limitata alle sole società italiane quotate. Ciò detto, ai sensi dell’art. 104 TUF, le società i cui titoli sono oggetto dell’offerta devono astenersi dal compiere atti od operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta, salvo autorizzazione dell’assemblea. L’autorizzazione assembleare è richiesta anche per l’attuazione di “decisioni” prese prima dell’inizio dell’applicazione della passivity rule, che non siano state attuate in tutto o in parte, e che non rientrino nel corso normale delle attività della società, e la cui attuazione possa contrastare il perseguimento degli obiettivi dell’offerta 17. 16

Sulle novità introdotte dal Decreto di recepimento della Direttiva, in materia di misure difensive, v. OPROMOLLA (2007). 17 Il riferimento alle “decisioni” presuppone, necessariamente, che vi siano margini di discrezionalità, ossia che la società possa decidere di procedere o meno in un determinato

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In sede di prima attuazione regolamentare delle norme del Testo Unico si era discusso ampiamente in merito ai termini di decorrenza della c.d. passivity rule. L’originaria impostazione della Consob – risultante dalla prima versione del Regolamento emittenti e da alcune (ormai risalenti) Comunicazioni interpretative – era nel senso che il divieto si applicasse sin dal momento dell’invio alla Consob della comunicazione prevista dall’art. 102 TUF, anche se incompleta e, dunque, priva, ad esempio, del documento di offerta. Tale soluzione è stata tuttavia criticata, in quanto ritenuta in contrasto con il disposto degli artt. 102 e 104 TUF, e – sotto il profilo del merito – eccessivamente favorevole all’offerente: poteva, infatti, risultare sufficiente comunicare anche la sola “intenzione” di promuovere l’offerta, per provocare, a tempo indeterminato, la paralisi della società bersaglio. In occasione di un’importante operazione, la posizione della Consob è stata così contestata in sede giurisdizionale 18; le domande dei ricorrenti sono state accolte, e la decisione ha poi condotto ad una modifica del Regolamento emittenti, in base al quale alla Comunicazione alla Consob devono essere allegati, tra gli altri documenti, anche il documento di offerta e la scheda di adesione. Con il recepimento della Direttiva, la questione è ora affrontata direttamente dal legislatore primario: ai sensi dell’art. 104, comma 1, TUF, l’obbligo di astensione si applica sin dalla prima comunicazione al mercato, e fino alla chiusura dell’offerta, ovvero sino a quando l’offerta stessa non decada. L’offerta deve poi essere promossa al massimo entro venti giorni, il che riduce ampiamente i rischi paventati in precedenza. Infine, con una novella legislativa del 2009, l’Italia – diversamente da quanto fatto in sede di primo recepimento della Direttiva – ha inteso avvalersi della facoltà, prevista dalla disciplina europea, di rendere la regola derogabile: in base all’art. 104, comma 1-ter, gli statuti delle società possono dunque derogare, in tutto o in parte, ai commi 1 e 1-bis dell’art. 104. senso. Non sembrano dunque rientrare nel disposto del comma 1-bis quelle operazioni che configurano un automatismo, e che non richiedono l’adozione di decisioni in senso stretto (si pensi, ad esempio, ad una clausola statutaria di conversione automatica di azioni da una categoria ad un’altra). 18 Più precisamente, la formulazione dell’art. 37 del Regolamento emittenti, in relazione al disposto dell’art. 35, comma 1, lett. c), del medesimo Regolamento, è stata oggetto di contestazione in relazione all’offerta pubblica di acquisto promossa, nel 1999, dalle Assicurazioni Generali S.p.a. sull’INA S.p.a. Il disposto regolamentare è stato impugnato in uno con la Comunicazione Consob n. DIS/99071599. Il TAR del Lazio, con ordinanza 21 ottobre 1999, ha accolto la domanda e ha sospeso in via di urgenza gli effetti del Regolamento n. 11971/1999 (per la parte rilevante); la decisione è poi stata sostanzialmente confermata in sede di appello dal Consiglio di Stato (ordinanza del 29 ottobre 1999). Sulla vicenda, e sui suoi molteplici risvolti v. FERRARINI (2000); PRESTI-RESCIGNO (2000); CHIAPPETTA-RISTUCCIA (2000).

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L’art. 104-ter TUF, intitolato “clausola di reciprocità”, consolida una delle regole più dibattute della disciplina comunitaria. Anche in questo caso, stante l’incapacità di definire un terreno comune a livello europeo per quanto attiene alla passivity rule, il legislatore comunitario ha concepito un complicato regime: in definitiva, è previsto che, qualora l’offerta sia promossa da un soggetto che ha sede in uno Stato UE in cui è contemplata la possibilità di adottare misure difensive in caso di OPA, le eventuali disposizioni che, nello Stato UE in cui è situata la società “bersaglio” non consentirebbero a quest’ultima di adottare misure difensive possono non trovare applicazione. In tal senso, l’art. 104ter, comma 1 stabilisce che le disposizioni di cui all’art. 104, commi 1 e 1-bis, e – quando previsto dagli statuti – le disposizioni dell’art. 104-bis, commi 2 e 3, non si applicano “in caso di offerta pubblica promossa da chi non sia soggetto a tali disposizioni o a disposizioni equivalenti, ovvero da una società o un ente da questi controllata 19”. L’obiettivo è dunque, evidentemente, quello di allineare la situazione della società bersaglio, a quella applicabile in base alla legislazione del Paese di origine dell’offerente. Ovviamente, quanto sopra ha poco a che fare con l’armonizzazione del diritto degli Stati membri che – in teoria – dovrebbe essere l’obiettivo a cui tendono le Direttive comunitarie 20. La norma pone, poi, complessi problemi interpretativi: il primo, e più rilevante, attiene all’identificazione dei casi in cui le disposizioni applicabili all’offerente siano “equivalenti” a quelle cui è soggetta la società emittente: l’art. 104-ter rimette la delicata questione nelle mani della Consob, la quale – su istanza dell’offerente o della società emittente, ed entro venti giorni dalla presentazione dell’istanza stessa – deve pronunciarsi in proposito. Si tratta, con tutta evidenza, di una soluzione che genera incertezza, e che rischia – tra l’altro – di stimolare il contenzioso: da un lato, infatti, il giudizio di equivalenza non è esattamente formulabile a priori dalle parti in gioco, dall’altro la decisione della Consob può a sua volta essere censurata, se ritenuta viziata sul piano amministrativo. In realtà, una disamina attenta delle condizioni presenti negli Stati membri avrebbe dovuto essere affidata ad un’Autorità sopranazionale (la Commissione europea, o l’ESMA ad esempio), con un giudizio reso in via generale e preventiva, in modo da rendere chiare le “regole del gioco” prima dell’avvio dell’operazione. Ma, anche su questo punto, il legislatore comunitario ha fallito il proprio obiettivo. Infine, di difficile comprensibilità risulta il disposto dell’art. 104-ter, com19 In caso di offerta promossa di concerto, è sufficiente che a tali disposizioni non sia soggetto anche uno solo degli offerenti. 20 MOSCA (2009). La scelta del legislatore comunitario potrebbe peraltro contribuire a rendere più contendibile il controllo societario, e più efficiente il relativo “mercato”, ma si tratta di un esito non scontato.

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ma 4, TUF (derivante dall’art. 12, comma 5 della Direttiva), in base al quale “qualsiasi misura idonea a contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta adottata dalla società emittente in virtù di quanto disposto al comma 1 deve essere espressamente autorizzata dall’assemblea, in vista di una eventuale offerta pubblica, nei diciotto mesi anteriori alla comunicazione della decisione di promuovere l’offerta ai sensi dell’art. 102, comma 1”. La portata di questa disposizione resta piuttosto oscura, in quanto non si comprende come sia possibile che intervenga l’approvazione dell’assemblea, in relazione ad una decisione da adottare in un momento in cui l’offerta non solo non sussiste, ma potrebbe non essere stata neppure concepita.

2.5. (Segue): la regola di neutralizzazione Un’altra disposizione che è stata trasposta nel TUF – esercitando così la facoltà di opt-in prevista dalla Direttiva – è rappresentata dalla cosiddetta “regola di neutralizzazione”, prevista dall’art. 104-bis. Si tratta di una regola che ha per obiettivo quello di neutralizzare eventuali “barriere” che si possono frapporre al successo dell’offerta, rappresentate, tipicamente, da limiti statutari al trasferimento di titoli, da limitazioni al diritto di voto, da regole speciali in materia di nomina degli amministratori: insomma, una regola volta – almeno in teoria – ad aumentare la contendibilità del controllo societario. Come per la passivity rule, anche su questa materia il dibattito, in sede comunitaria, è stato molto articolato, tant’è che l’adozione della regola di neutralizzazione è stata, alla fine, configurata come una opzione per gli Stati membri: risulta, peraltro, che soltanto pochi Stati (tra cui l’Italia) l’abbiano adottata. In base all’art. 104-bis, comma 1, la regola di neutralizzazione si applica “fermo quanto previsto dall’art. 123, comma 3” TUF: ossia ferma restando la previsione che consente, in caso di OPA, il recesso anticipato dai patti parasociali aventi ad oggetto i titoli dell’emittente. L’ambito di applicazione è nuovamente individuato con riferimento alle “società italiane quotate”, ma ad esclusione delle cooperative. Ciò premesso, il comma 2 prevede che – nel periodo di adesione all’offerta – non hanno effetto nei confronti dell’offerente le limitazioni al trasferimento di titoli previste nello statuto, né hanno effetto, nelle assemblee chiamate a decidere sugli atti e le operazioni previste dall’art. 104, le limitazioni al diritto di voto previste nello statuto o da patti parasociali. Inoltre, quando l’offerente venga a detenere almeno il 75% del capitale con diritto di voto nelle deliberazioni riguardanti la nomina o la revoca degli amministratori (o dei componenti il consiglio di gestione o di sorveglianza) nella prima assemblea che segue la chiusura dell’offerta, convocata per modificare lo statuto o per revocare o nominare gli amministratori, non hanno effetto:

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a) le limitazioni al diritto di voto previste nello statuto o da patti parasociali; b) qualsiasi diritto speciale in materia di nomina o revoca degli amministratori o dei componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza previsto nello statuto (comma 3) 21. La regola di neutralizzazione, in quanto incide sull’esercizio di diritti previsti dallo statuto o da patti parasociali, è assortita da un obbligo di indennizzo, formulato dal comma 5: in sostanza, l’offerente – in caso di esito positivo dell’offerta – ha l’obbligo di risarcire i soggetti che non hanno potuto esercitare i diritti loro spettanti. Il diritto all’indennizzo è subordinato al fatto che i diritti di cui non è stato possibile l’esercizio fossero efficaci prima della comunicazione di avvio dell’offerta, ed al fatto che la richiesta di indennizzo sia presentata entro 90 giorni dalla chiusura dell’offerta ovvero, nel caso previsto dal comma 3, entro 90 giorni dalla data dell’assemblea. I commi 5 e 6 dell’art. 104-bis si preoccupano di stabilire più precisi criteri per la determinazione dell’indennizzo, ma l’intera materia è di difficilissima attuazione pratica: il punto nodale è inevitabilmente la quantificazione del risarcimento, tant’è che si prevede che la sua determinazione sia effettuata dal giudice “in via equitativa”, avendo riguardo (ovviamente …) all’andamento dei prezzi. Anche in merito alla regola di neutralizzazione si segue, come si è già detto, il regime di reciprocità di cui all’art. 104-ter: il disposto dell’art. 104-bis, commi 2 e 3, non si applica, pertanto, in caso di offerta promossa da un soggetto che, nel proprio Stato di origine, non è sottoposto a tali disposizioni, o a “disposizioni equivalenti”.

3. L’OPA obbligatoria La disciplina dell’OPA obbligatoria ha un ambito di applicazione circoscritto: essa, infatti, si applica unicamente alle società italiane con titoli 22 ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati italiani 23. Nel TUF – come modificato a seguito del recepimento della Direttiva – le tipologie di OPA obbligatoria sono rappresentate dalla c.d. “OPA successiva totalitaria” (art. 106), 21

Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 104-bis non si applicano alle limitazioni statutarie al diritto di voto attribuito da titoli dotati di privilegi di natura patrimoniale. 22 Ai sensi del nuovo art. 101-bis, per titoli si intendono gli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifici argomenti, nell’assemblea ordinaria o straordinaria. 23 Con riguardo al mercato italiano, l’OPA obbligatoria è stata estesa, su basi volontarie, alle società i cui titoli sono negoziati sull’AIM gestiti da Borsa Italiana, che è un MTF, e non un mercato regolamentato.

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e dall’“OPA preventiva” (art. 107). Rientra nell’ambito della disciplina anche il c.d. “obbligo di acquisto” (art. 108) (così ridenominato, dopo il recepimento della Direttiva, rispetto alla precedente denominazione di “OPA residuale”, ed ampiamente rimodellato).

3.1. (Segue): l’OPA totalitaria La regola di base della disciplina dell’OPA totalitaria è contenuta nell’art. 106 TUF: chiunque, a seguito di acquisti, venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia del 30% promuove un’offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli (come definiti dall’art. 101-bis) sulla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso. La regola generale subisce, tuttavia, una eccezione nelle società diverse dalle cosiddette “piccole e medie imprese”: per tali società, infatti, l’OPA totalitaria è promossa anche da chiunque, a seguito di acquisti, venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia del 25%, in assenza di altro socio che detenga una partecipazione più elevata (comma 1-bis) 24. Va precisato che la soglia del 30% (o del 25%, a seconda dei casi) non è prevista espressamente dalla Direttiva: quest’ultima, infatti, rimette sostanzialmente agli Stati membri il compito di individuare la soglia di partecipazione, 24 Il D.L. 16 ottobre 2017 n. 148 ha introdotto una nuova previsione, volta a ridurre il rischio di scalate striscianti e a dare maggiore trasparenza al mercato. Dopo il comma 4 dell’art. 120 TUF è aggiunto il seguente: “4-bis. In occasione dell’acquisto di una partecipazione in emittenti quotati pari o superiore alle soglie del 10 per cento, 20 per cento e 25 per cento del relativo capitale, salvo quanto previsto dall’articolo 106, comma 1-bis, il soggetto che effettua le comunicazioni di cui ai commi 2 e seguenti del presente articolo deve dichiarare gli obiettivi che ha intenzione di perseguire nel corso dei sei mesi successivi. Nella dichiarazione sono indicati sotto la responsabilità del dichiarante: a) i modi di finanziamento dell’acquisizione; b) se agisce solo o in concerto; c) se intende fermare i suoi acquisti o proseguirli nonché se intende acquisire il controllo dell’emittente o comunque esercitare un’influenza sulla gestione della società e, in tali casi, la strategia che intende adottare e le operazioni per metterla in opera; d) le sue intenzioni per quanto riguarda eventuali accordi e patti parasociali di cui è parte; e) se intende proporre l’integrazione o la revoca degli organi amministrativi o di controllo dell’emittente. La CONSOB detta con proprio regolamento disposizioni di attuazione precisando il contenuto degli elementi della dichiarazione e i casi in cui la suddetta dichiarazione è dovuta dai possessori di strumenti finanziari dotati dei diritti previsti dall’articolo 2351, ultimo comma, del codice civile, tenendo conto, se del caso, del livello della partecipazione e delle caratteristiche del soggetto che effettua la dichiarazione, nonché le disposizioni relative ai controlli svolti dalla stessa sul contenuto delle dichiarazioni e le relative modalità”.

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al superamento della quale scatta l’obbligo di offerta (cfr. l’art. 5 della Direttiva). Risulta, tuttavia, che pressoché tutti gli Stati membri abbiano individuato tale soglia in misura pari al 30% o ad 1/3 dei diritti di voto 25. La flessibilità che, sul punto, lascia la Direttiva, ha recentemente consentito di introdurre, nel sistema italiano, ulteriori differenziazioni sempre per quanto attiene alla portata della regola dell’OPA obbligatoria nei confronti delle cosiddette “piccole e medie imprese”. L’art. 106, comma 1-ter TUF – al fine di rendere la disciplina più flessibile per le imprese di dimensioni contenute – prevede che, negli statuti delle PMI, è possibile prevedere una soglia diversa dal 30%, comunque non inferiore al 25% né superiore al 40%. In tal modo, le PMI possono valutare se modificare la soglia in funzione del livello di contendibilità del controllo societario che si intende prevedere, anche alla luce dei concreti assetti proprietari che, di volta in volta, l’emittente può presentare 26. In definitiva, per effetto di quanto precede, la disciplina ora prevede tre soglie che in qualche modo sono rilevanti, e dunque: – per le PMI, la soglia del 25% (minimo) e del 40% (massimo), all’interno delle quali la società potrebbe fissare liberamente la percentuale di volta in volta ritenuta preferibile; – per le società diverse dalle PMI, la soglia del 30%, eventualmente ridotta al 25% se nessun altro socio detiene una partecipazione più elevata. Un ulteriore elemento che è venuto ad articolare ancora di più la disciplina, in punto di individuazione della soglia rilevante, riguarda l’introduzione, nell’ordinamento italiano, di tipologie di azioni che consentono di ottenere, al ricorrere di taluni presupposti, la maggiorazione del diritto di voto. Si tratta di una novità di rilievo che ha comportato il superamento del tradizionale principio “one share-one vote”, e che si è tradotto nell’inserimento, nel corpo del Testo Unico, dell’art. 127-quinquies (Maggiorazione del voto), con il quale si stabilisce la regola in base alla quale “gli statuti possono disporre che sia attribuito voto maggiorato, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a 24 mesi” a decorrere dall’iscrizione del soggetto in un apposito elenco tenuto a cura dell’emittente 27. La cessione delle azioni che hanno maturato il diritto alla maggiorazione del voto, comporta la perdita di tale diritto. Sulla base di 25 Cfr. il Report della Commissione Europea n. COM(2012)347 sull’applicazione della Direttiva 2004/25 negli Stati membri dell’Unione. 26 La previsione di una soglia diversa dal 30% deve essere espressamente prevista dallo statuto. Se la modifica interviene dopo l’ammissione alla quotazione in un mercato regolamentato, la stessa fa scattare il diritto di recesso per i soci che non hanno concorso alla deliberazione, con conseguente applicazione degli artt. 2437-bis e ss. c.c. 27 In particolare sulle interrelazioni con la disciplina dell’OPA v. MOSCA (2015).

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quanto precede risulta allora evidente che, per le società che prevedono le azioni a voto maggiorato, i diritti di voto possono modificarsi per effetto dell’acquisizione, o della perdita, della maggiorazione, con effetti che si riverberano sui diritti di voto facenti capo ai singoli azionisti. In tale ambito rientrano sia le ipotesi nelle quali un azionista vede aumentato il proprio potere di voto per effetto della maturazione del diritto al voto maggiorato, sia le ipotesi in cui i diritti di voto di un azionista variano in via “passiva”, ossia per effetto della attribuzione (o della perdita) del voto maggiorato in capo ad altri azionisti. La disciplina dell’OPA è stata dunque adattata, in più punti, anche per riflettere tali ipotesi e giungere, così, alla corretta determinazione dei diritti di voto di volta in volta da assumere per il computo delle soglie rilevanti per l’offerta obbligatoria. Ciò detto, qualora un soggetto venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia di volta in volta rilevante, egli sarà tenuto a promuovere un’offerta totalitaria, ossia un’offerta che riguarderà “la totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato”. L’offerta è promossa – per ciascuna categoria di titoli – entro 20 giorni ad un prezzo non inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente, e da persone che agiscono di concerto con il medesimo, nei dodici mesi anteriori alla comunicazione di avvio dell’OPA, per acquisti di titoli della medesima categoria 28. Se, nel periodo indicato, non sono stati effettuati acquisti a titolo oneroso (come nel caso di OPA per maggiorazione dei diritti di voto), il prezzo dell’OPA è non inferiore a quello medio ponderato di mercato degli ultimi 12 mesi, o del minor periodo disponibile 29. Giova soffermarsi ulteriormente sui presupposti per l’avvio dell’offerta, e sull’oggetto della stessa. Quanto ai presupposti, l’art. 105 stabilisce che per “partecipazione” si intende una quota, detenuta anche indirettamente per il tramite di fiduciari o per interposta persona, dei titoli emessi dalla società, che attribuiscono diritti di voto nelle deliberazioni assembleari riguardanti nomina o revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza. La nozione di partecipazione, dunque, è svincolata dal riferimento ad una specifica categoria di azioni, essendo rilevanti – in generale – tutte le azioni che comunque attribuiscano il voto nelle deliberazioni assembleari riguardanti nomina o revoca degli amministratori, o del consiglio di sorveglianza: deliberazioni, tutte, che sono considerate rilevanti nella più volte richiamata prospettiva dell’“influenza” che un socio è in grado di esercitare sulla società partecipata. Questa nozione di “partecipazione” è, però, suscettibile di adattamenti. L’art. 105, comma 3, TUF prevede, infatti, che la Consob può – con Regola28

Rispetto alla disciplina anteriore al recepimento della Direttiva risulta ampliato l’oggetto dell’offerta (ora estesa a tutti i “titoli”, e non più soltanto alle azioni), e risulta modificato il criterio di determinazione del prezzo. 29 V. CANNELLA (1999-II); WEIGMANN (2002-II).

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mento – includere nel capitale rilevante categorie di titoli che attribuiscono diritti di voto su uno o più argomenti diversi, tenuto conto della natura e del tipo di influenza sulla gestione della società che può avere il loro esercizio anche congiunto. La Consob determina altresì con Regolamento i criteri di calcolo della partecipazione nelle ipotesi in cui i titoli risultino privati, per effetto di disposizioni legislative o regolamentari, del diritto di voto, ovvero nelle ipotesi in cui lo statuto preveda la maggiorazione del diritto di voto. Sempre la Consob stabilisce i casi e le modalità con cui gli strumenti finanziari derivati detenuti sono computati ai fini della soglia. A sua volta, l’art. 106, comma 3-bis prevede che la Consob può anche individuare le ipotesi in cui l’obbligo di offerta consegue ad acquisti a titolo oneroso che determinano la detenzione congiunta di titoli e altri strumenti finanziari con diritto di voto nelle materie di cui all’art. 105, in modo tale da attribuire un potere complessivo di voto equivalente a quello di chi detiene una partecipazione superiore alla soglia rilevante. La disciplina assegna, pertanto, all’Autorità di controllo il potere di conformare la portata della disciplina dell’OPA in funzione delle diverse caratteristiche che azioni e strumenti finanziari possono assumere nel nuovo sistema: il tratto unificante, sotto questo profilo, è rappresentato per l’appunto dall’influenza che la titolarità degli strumenti può comportare sulla gestione della società. Preme, innanzitutto, osservare come l’esercizio del potere da parte della Consob rappresenti una facoltà e non un obbligo, con l’eccezione del caso dei derivati, in merito ai quali la norma è formulata in termini perentori (art. 105, comma 3-bis). Deve, poi, porsi in luce che l’eventuale attuazione della norma deve avvenire per via regolamentare: il richiamo allo strumento del Regolamento rende evidente come la Consob sia chiamata all’esercizio del proprio potere in via generale, dovendosi dunque escludere determinazioni dell’Autorità amministrative adottate caso per caso. In tal senso, la Commissione ha ritenuto – dopo una lunga fase di consultazione – di includere nel computo delle soglie anche strumenti finanziari derivati cash-settled, tali da conferire una posizione lunga sui titoli indicati nell’art. 105, comma 2, TUF (cfr. il novellato art. 44-ter del Regolamento emittenti) 30. Il riferimento alla possibilità di influire sulla gestione della società – come elemento tale da assegnare rilevanza, ai fini della nozione di partecipazione rilevante, a categorie di strumenti diversi da quelli attualmente contemplati dall’art. 105 – va, peraltro, a sua volta attentamente qualificato. Il principio accolto dalla riforma del diritto societario è, infatti, quello della riserva esclusiva della gestione dell’impresa a favore degli amministratori (cfr. l’art. 2380-bis, comma 1). In base a tale principio, dunque, deve ritenersi preclusa l’attribuzione all’assemblea del potere di assumere decisioni che attengono diretta30

V. sul punto SANDRELLI (2012).

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mente alla sfera gestoria. Appare allora evidente che l’identificazione del grado di “influenza” sulla gestione, da parte del socio, deve avvenire sulla base di quanto l’ordinamento ora consente, fermo cioè il principio della riserva della gestione a favore dell’organo amministrativo. In tale prospettiva, le ipotesi che potrebbero assumere rilievo potrebbero riguardare, innanzitutto, strumenti che abbiano diritto di voto nelle deliberazioni assembleari previste per l’autorizzazione al compimento di atti di gestione da parte degli amministratori (cfr. art. 2364 c.c.). Al di là di questa ipotesi, e senza pretese di completezza, ulteriori casi rilevanti potrebbero essere rappresentati da strumenti che abbiano diritto di voto in relazione ad operazioni che, per la loro struttura, o per il loro impatto possono avere un’influenza decisiva sulla gestione dell’impresa: si pensi, tipicamente, ad operazioni di fusione, o di scissione. Potrebbero, altresì, assumere rilevanza le decisioni previste dall’art. 2361, comma 2, in base alle quali l’assemblea autorizzi l’acquisto di partecipazioni che comportino l’assunzione di responsabilità illimitata (in quanto decisioni idonee a modificare il profilo di rischio dell’attività, e dunque rilevanti sotto il profilo “gestorio”). Un’ulteriore ipotesi sembra rinvenibile nelle deliberazioni con le quali l’assemblea (a ciò eventualmente deputata in base allo statuto) deliberi l’istituzione di patrimoni separati, ai sensi degli artt. 2447-bis e ss. c.c. La particolare struttura degli strumenti finanziari, e la circostanza in base alla quale il diritto di voto agli stessi spettanti sarà esercitabile comunque nella relativa assemblea speciale rende estremamente arduo identificare quando il possesso congiunto di azioni e strumenti finanziari attribuisca al relativo titolare un potere di voto “equivalente” a quello di chi detiene una partecipazione superiore alla soglia di volta in volta rilevante. Tale difficoltà è resa ancora più elevata dall’obbligo – che la legge pone in capo alla Consob – di ricorrere, nuovamente, allo strumento regolamentare: l’individuazione di fattispecie astratte, in base alle quali risulti possibile predeterminare il grado di influenza del socio-titolare di strumenti partecipativi può così risultare estremamente complessa, anche alla luce della scarsa definizione, ad opera del legislatore della riforma, delle modalità di espressione del diritto di voto dei portatori di strumenti finanziari 31. Il superamento della soglia può avvenire sia direttamente, sia indirettamente. Rientrano tra le ipotesi di superamento “indiretto” anche i casi in cui venga acquisito il controllo di una società che, a sua volta, detiene una partecipazione superiore alla soglia rilevante di una società quotata. In tale eventualità, tuttavia, si pone l’esigenza di evitare che – soprattutto quando la società acquisita è a sua volta una società quotata – l’acquisto del controllo determini l’avvio di offerte pubbliche di acquisto “a cascata”: una sulla società di cui è stato acqui31

In proposito, da ultimo, TOMBARI (2007).

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stato il controllo, ed una sulla società da quest’ultima partecipata in misura superiore alla soglia che rileva per il lancio dell’OPA (e così via …). A tal fine, l’art. 106, comma 3, TUF affida alla Consob il potere di determinare le condizioni alle quali scatta l’obbligo di promuovere l’offerta: l’art. 45 del Regolamento emittenti adotta un criterio di “prevalenza”, nel patrimonio della società acquisita, della partecipazione quotata superiore alla soglia rilevante 32. Lo stesso art. 106, comma 3, lett. b) affida alla Consob il compito di individuare i casi in cui l’obbligo di offerta consegue “ad acquisti superiori al 5% da parte di coloro che già detengono la partecipazione indicata nel comma 1 senza detenere la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria”. La fattispecie è disciplinata dall’art. 46 del Regolamento emittenti, intitolato “consolidamento della partecipazione” che, di fatto, configura un ulteriore caso di obbligo di avvio dell’OPA totalitaria. Viene, pertanto, previsto che il soggetto che detiene già una partecipazione pari o superiore al 30% (o alla diversa soglia individuata da un emittente che sia una PMI) è tenuto a promuovere l’offerta obbligatoria, qualora acquisisca a titolo oneroso più del 5% del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto nelle materie di cui all’art. 105, per acquisti effettuati in un arco temporale di dodici mesi. Questa previsione (cosiddetta “OPA da consolidamento” o “OPA incrementale”) può, tuttavia, non trovare applicazione alle PMI: in base all’art. 106, comma 3-quater, lo statuto di una PMI può, infatti, prevedere la disapplicazione dell’obbligo di OPA da consolidamento sino alla data dell’assemblea convocata per approvare il bilancio relativo al quinto esercizio successivo alla quotazione. A seguito delle modifiche apportate al TUF in dipendenza del recepimento della Direttiva comunitaria, l’art. 106, comma 3, lett. c) affida alla Consob anche il potere di stabilire i casi in cui l’OPA può essere promossa ad un prezzo inferiore o superiore a quello più elevato pagato, purché ricorra una delle circostanze ivi indicate, tra le quali si segnala, in particolare, il fondato sospetto che i prezzi di mercato “siano stati oggetto di manipolazione”. È opportuno precisare che, per il lancio dell’OPA, il superamento della soglia deve avvenire per effetto di comportamenti in qualche modo “qualificati”: è, infatti, necessario che tale evento si sia realizzato “a seguito di acquisti”, ovvero per effetto di maggiorazione dei diritti di voto 33. Quanto all’oggetto dell’offerta obbligatoria, essa deve essere rivolta alla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato. L’art. 101-bis TUF stabilisce, a tal fine, che per “titoli” si intendono gli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifici ar32

Cfr. l’art. 45 del Regolamento emittenti. La nuova formulazione non richiede peraltro più che si sia trattato di acquisti “a titolo oneroso”. 33

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gomenti, nell’assemblea ordinaria o straordinaria: dunque l’offerta ha ad oggetto anche titoli a voto limitato (come ad es. azioni privilegiate), secondo una soluzione innovativa rispetto al sistema antecedente al recepimento della Direttiva. Quanto al prezzo dell’offerta, il recepimento della Direttiva ne ha comportato la ridefinizione: mentre in base all’art. 106 TUF – nella sua formulazione originaria – il prezzo dell’offerta risultava da una “media” tra prezzi di mercato e prezzo pagato dall’acquirente della partecipazione, ora il prezzo è pari a quello più elevato pagato dall’offerente nei dodici mesi antecedenti l’avvio dell’OPA. Si possono, tuttavia, presentare casi particolari, e segnatamente: – se non sono stati effettuati acquisti a titolo oneroso nei dodici mesi antecedenti, l’offerta è promossa a un prezzo non inferiore a quello medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi. Se questo arco temporale non è disponibile, si prende in considerazione il minor periodo disponibile; – in caso di superamento della soglia per effetto della maggiorazione del voto ai sensi dell’art. 127-quinquies, si applica il criterio di cui sopra, in mancanza di acquisti a un prezzo più elevato. L’obbligo di promuovere l’offerta non sussiste nei casi determinati dalla Consob con proprio Regolamento, da emanarsi nel rispetto dei criteri stabiliti dall’art. 106, comma 5, TUF. In particolare, l’acquisto di una partecipazione rilevante non comporta l’obbligo di offerta di cui all’art. 106 TUF se sussiste almeno una delle seguenti condizioni: – operazioni dirette al salvataggio di società in crisi; – trasferimento dei titoli previsti dall’art. 105 tra soggetti legati da rapporti di partecipazione; – cause indipendenti dalla volontà dell’acquirente; – operazioni di carattere temporaneo; – operazioni di fusione o di scissione; – acquisti a titolo gratuito. Oltre ai casi di cui sopra, l’art. 106, comma 6, prevede che la Consob può, con provvedimento motivato, disporre che il superamento delle soglie rilevanti, non comporta obbligo di lanciare l’OPA con riguardo a casi non espressamente previsti nel Regolamento approvato ai sensi dell’art. 106, comma 5. Oltre ai casi di cui sopra – che configurano ipotesi di esenzione – l’art. 106, comma 4, TUF stabilisce, con norma di portata generale, che l’obbligo di offerta non sussiste se la partecipazione rilevante è detenuta a seguito di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio rivolta a tutti i possessori di titoli per la totalità di titoli in loro possesso (purché, nel caso di offerta pubblica di scambio, siano offerti titoli quotati in un mercato regolamentato UE o sia offerto come alternativa un corrispettivo in contanti). La ragione dell’esclusione dell’ob-

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bligo di promuovere l’OPA totalitaria è facilmente individuabile: in tal caso, infatti, viene meno la stessa esigenza di imporre il lancio dell’offerta totalitaria, posto che tale condizione già si è realizzata su iniziativa (spontanea) dell’acquirente.

3.2. (Segue): l’OPA preventiva La seconda tipologia di OPA obbligatoria è rappresentata dalla c.d. “offerta pubblica di acquisto preventiva” (art. 107 TUF): essa configura, in realtà, a sua volta un caso di esclusione dall’obbligo di promuovere l’offerta totalitaria ex art. 106. È previsto, infatti, che – oltre ai casi di cui all’art. 106 – l’obbligo di offerta pubblica previsto dal medesimo articolo non sussiste se la partecipazione “rilevante” viene a essere detenuta a seguito di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio avente ad oggetto almeno il 60% dei titoli di ciascuna categoria 34. A tal fine, devono però ricorrere le seguenti condizioni: a) l’offerente, e i soggetti che agiscono di concerto con lui, non devono aver acquistato partecipazioni in misura superiore all’1%, anche mediante contratti a termine con scadenza successiva, nei 12 mesi precedenti la presentazione del documento di offerta alla Consob; b) l’efficacia dell’offerta deve essere condizionata all’approvazione di tanti possessori di titoli che possiedano la maggioranza dei titoli stessi. Vanno però esclusi dal computo i titoli detenuti dall’offerente, dal socio di maggioranza, anche relativa, se la sua partecipazione è superiore al 10%, e quelle dei soggetti che agiscono di concerto; c) la Consob deve accordare l’esenzione, previa verifica delle condizioni di cui sopra. La ratio dell’istituto dell’OPA preventiva può individuarsi nell’esigenza di evitare il lancio dell’OPA totalitaria, a condizioni tali da assicurare, comunque, la tutela delle minoranze. A tal fine, assumono rilievo soprattutto l’entità dell’offerta (che deve riguardare almeno il 60% delle azioni), e l’intervenuta approvazione dell’assemblea, nella quale – stante la sterilizzazione del voto esercitabile dai soci di maggioranza e dall’offerente – spetterà dunque agli altri soci pronunciarsi sulla convenienza dell’operazione, valutando, in primis, il prezzo offerto dall’offerente. Peraltro, se l’assemblea non approva l’operazione, l’acquirente sarà comunque tenuto a promuovere l’offerta successiva, in caso di acquisto della partecipazione rilevante, al prezzo minimo stabilito ai sensi dell’art. 106 TUF. 34 V. WEIGMANN (2002-III), riferito però alla precedente formulazione dell’art. 106, che si riferiva alle sole azioni ordinarie.

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Allo scopo di evitare che il ricorso all’istituto dell’OPA preventiva si traduca in uno strumento di elusione della disciplina, l’art. 107, comma 3, TUF prevede che l’offerente sarà comunque tenuto a promuovere l’offerta totalitaria se, nei dodici mesi successivi: – l’offerente medesimo, o le persone che agiscono di concerto con esso, abbiano effettuato acquisti di partecipazioni in misura superiore all’1%; – l’assemblea della società emittente abbia deliberato operazioni di fusione o di scissione. Se, nel primo caso, è evidente la finalità elusiva dell’operazione, la seconda ipotesi necessita di qualche chiarificazione. Un’operazione di fusione o scissione, che consegua in tempi ravvicinati ad un’OPA preventiva, potrebbe rappresentare un caso di “elusione” dell’obbligo di OPA totalitaria, qualora, ad esempio, venisse previsto un rapporto di cambio sfavorevole ai soci della società oggetto dell’offerta. In tale ipotesi, infatti, i soci della società – bersaglio che non hanno aderito all’offerta preventiva, verrebbero danneggiati per effetto dell’operazione di fusione o di scissione successivamente deliberata, il che giustifica il venir meno dell’esenzione.

3.3. (Segue): l’obbligo di acquisto Il recepimento della Direttiva comporta novità di rilievo per quanto attiene alla disciplina della precedente “OPA residuale” che viene eliminata, e sostituita da un nuovo istituto denominato “obbligo di acquisto”. In particolare, il comma 1 dell’art. 108, nella nuova formulazione, dispone che l’offerente che viene a detenere, a seguito di un’offerta pubblica totalitaria, una partecipazione almeno pari al 95% del capitale rappresentato da titoli ha l’obbligo di acquistare i restanti titoli da chi ne faccia richiesta. Qualora siano emesse più categorie di titoli, l’obbligo sussiste solo per le categorie di titoli per le quali sia stata raggiunta la soglia del 95%. Salvo quanto sopra, chiunque venga a detenere una partecipazione superiore al 90% del capitale rappresentato da titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato ha l’obbligo di acquistare i restanti titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato da chi ne faccia richiesta, se non ripristina entro novanta giorni un flottante sufficiente ad assicurare il regolare andamento delle negoziazioni. Anche in questo caso, se sono emesse più categorie di titoli, l’obbligo sussiste soltanto in relazione alle categorie di titoli per le quali sia stata raggiunta la soglia del 90%. Un primo dato segnaletico, che distingue la nuova disciplina da quella prevista nel regime antecedente il recepimento della Direttiva, è dato dalla sua biforcazione: l’art. 108, infatti, disciplina due fattispecie diverse, la prima rappre-

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sentata dal superamento della soglia del 95% in dipendenza di un’OPA totalitaria; la seconda, rappresentata dal superamento della diversa soglia del 90%, per cause anche diverse dall’OPA. Inoltre, mentre la prima soglia è calcolata con riferimento al capitale rappresentato da “titoli”, la seconda è riferita ai “titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato”. In terzo luogo, l’obbligo di acquisto, in entrambi i casi, non comporta l’avvio di una offerta pubblica (come invece si verificava, nel sistema precedente, con riguardo all’OPA residuale), ma semplicemente un obbligo di acquisto (che spetta alla Consob disciplinare, nei suoi profili concreti, in base all’art. 108, comma 7). In entrambi i casi, la regola di base per la determinazione del prezzo al quale si realizza l’acquisto dei titoli è la seguente: se la partecipazione è stata raggiunta esclusivamente a seguito di un’OPA totalitaria, il corrispettivo è pari a quello dell’offerta totalitaria precedente, sempreché – se l’offerta era volontaria – l’offerente abbia acquistato titoli che rappresentano non meno del 90% del capitale con diritto di voto compreso nell’offerta. In tutti gli altri casi, il prezzo è determinato della Consob (sulla base dei criteri indicati nell’art. 108, comma 4) 35-36. Se il corrispettivo offerto è pari a quello proposto nell’offerta precedente, l’obbligo può essere adempiuto attraverso la riapertura dei termini della stessa. I due istituti perseguono obiettivi che li differenziano dalle fattispecie contemplate nell’ambito della disciplina dell’OPA obbligatoria. L’obbligo di acquisto non è, infatti, volto ad assicurare parità di trattamento in occasione del trasferimento dei pacchetti di controllo, o comunque di pacchetti “rilevanti”; l’esigenza di regolare il trasferimento del controllo societario non trova riconoscimento nella disciplina dell’obbligo di acquisto il quale, piuttosto, appresta una specifica tutela in due casi (eventualmente sovrapponibili): – la concentrazione dei titoli nelle mani dell’offerente, per una soglia almeno pari al 95% a seguito di un’OPA; – il venir meno delle condizioni che assicurano la liquidità degli strumenti finanziari dell’emittente quotato, ed il regolare funzionamento del relativo mercato di riferimento.

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Si tratta, più precisamente, del prezzo di mercato dell’ultimo semestre o del corrispettivo dell’eventuale offerta precedente. In ogni caso, questi due criteri sono minimali, in quanto la Consob può tener conto anche di parametri ulteriori (cfr. la formulazione dell’art. 108, comma 4). 36 Il comma 5 detta regole particolari nel caso in cui il corrispettivo dell’offerta precedente fosse diverso dal denaro. In tale ipotesi, il corrispettivo assumerà la stessa forma di quello dell’offerta, ma il possessore dei titoli potrà esigere che gli sia corrisposto un corrispettivo in contanti, nella misura determinata dalla Consob in base a criteri generali definiti con Regolamento.

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A tal fine, la legge individua nel 95% o nel 90% la partecipazione rilevante ai fini dell’applicazione dell’istituto; in base all’art. 112 TUF la Consob dispone tuttavia del potere di elevare la soglia per singole società, sentita la società di gestione del mercato. Non è, dunque, qui in gioco la tutela della “minoranza”, genericamente intesa, ma una più precisa e diretta tutela dell’investitore-azionista. Nel primo caso, l’istituto è previsto a favore del socio che non ha aderito all’OPA, quando l’offerente viene a detenere – a seguito dell’offerta – una partecipazione molto elevata del capitale. Nel secondo caso l’istituto (che si ricollega alla precedente figura della c.d. “OPA residuale”) appresta una specifica forma di tutela nel caso in cui non sia più riscontrabile un mercato liquido per i titoli dell’emittente. Si osservi che non è sufficiente che un mercato regolamentato per la negoziazione o per lo scambio dei titoli “esista”: se così fosse, sarebbe sufficiente consentire alla società di mantenere la quotazione degli strumenti finanziari anche quando il flottante è sceso a livelli molto ridotti, inferiori a quelli originariamente previsti in sede di ammissione alla quotazione, evitando di far scattare l’obbligo di acquisto. Ciò che rileva, piuttosto, è la capacità del mercato di svolgere efficientemente le proprie funzioni, esprimendo tanto una effettiva capacità di far incontrare domanda ed offerta, quanto l’idoneità a “formare” prezzi significativi (ossia, tali da riflettere una adeguato numero e volume di transazioni) 37: condizioni che rischiano di non sussistere quando il capitale risulta scarsamente diffuso tra il pubblico. 3.3.1. (Segue): obbligo di acquisto e tutela degli investitori. Il rapporto con la disciplina del recesso e dell’esclusione dalle negoziazioni L’obbligo di acquisto, di cui all’art. 108, comma 2, TUF può agevolmente rapportarsi ad altre norme che, nel codice civile e nel Testo Unico, sono volte a tutelare analoghi interessi. Si tratta, da un lato, del diritto di recesso (art. 2437-quinquies c.c.) e, dall’altro, della disciplina della revoca dalla quotazione degli strumenti finanziari (art. 133 TUF). Ai sensi dell’art. 2437-quinquies del codice civile, gli azionisti dissenzienti dalle deliberazioni che comportano l’esclusione dalla quotazione di borsa, hanno diritto di recedere dalla società 38. In base all’art. 133 TUF, le società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati italiani, previa deliberazione dell’assemblea straordinaria, possono richiedere l’esclusione dalle negoziazio37 Non è dunque un caso che il Regolamento della Borsa Italiana precisi che l’avvio di un’operazione ai sensi dell’art. 108 TUF costituisce “presupposto di revoca dalla quotazione”. 38 NOTARI (1999); RUBINO DE RITIS (2002-IV); PISANI (2002-VI); MEO (2002-III); MORERA-SCHIUTO (2007).

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ni dei propri strumenti finanziari, secondo quanto previsto dal regolamento del mercato, se ottengono l’ammissione su un altro mercato regolamentato italiano o di altro paese dell’Unione Europea, purché sia garantita una tutela equivalente degli investitori, secondo i criteri stabiliti dalla Consob con Regolamento 39. Con riferimento alla prima fattispecie, il riconoscimento agli azionisti assenti o dissenzienti dalle relative delibere assembleari, di un diritto di recesso appare direttamente riconducibile alle medesime finalità cui è ispirata la disciplina dell’obbligo di acquisto: ossia, tutelare gli azionisti a fronte della “perdita” della quotazione degli strumenti finanziari. Il riconoscimento del diritto di recesso nei casi di cui all’art. 2437-quinquies c.c. avvalora così il rilievo – questa volta, in una prospettiva più direttamente endosocietaria di quanto non si realizzi con gli istituti regolati dall’art. 108 TUF – dell’interesse al mantenimento della quotazione dei titoli; sotto tale profilo, l’istituto esprime di per sé una linea di tendenza degna di nota. Il recesso dalle società di capitali è, infatti, stato tradizionalmente considerato uno strumento per controbilanciare il potere della maggioranza, a fronte dell’adozione di deliberazioni di particolare rilievo per l’organizzazione societaria. La ricostruzione in chiave storico-comparatistica dell’istituto mostra come nel corso del tempo, e nei vari ordinamenti, diversi siano stati ampiezza e portata del recesso: tuttavia, al di là delle evoluzioni storiche, per le società di capitali, il recesso è stato essenzialmente visto come strumento di tutela della minoranza a fronte dell’adozione di modifiche statutarie particolarmente rilevanti. A fronte dell’estensione dell’istituto del recesso ai casi di delibere che comportano l’esclusione dalla quotazione si possono dunque assumere due diversi atteggiamenti: il primo è di assimilare tale operazione ad una “rilevante” modifica statutaria, da porre dunque sullo stesso piano delle ipotesi regolate all’art. 2437 c.c. Il secondo atteggiamento conduce, invece, ad un diverso risultato volto, da un lato, a riconoscere al recesso una portata più ampia, non necessariamente legata a modifiche dell’atto costitutivo, ma più in generale a mutamenti radicali negli assetti organizzativi, strategici, di mercato, dell’ente; dall’altro, a ravvisare nella quotazione degli strumenti finanziari un elemento che assume diretto rilievo anche in una prospettiva endosocietaria, e non soltanto, o prevalentemente, di disciplina dei mercati finanziari. Che il primo atteggiamento non sia condivisibile appare di palmare evidenza, e ciò in quanto l’accesso alla quotazione sui mercati regolamentati, così come l’“abbandono” della quotazione non possono considerarsi di per sé modifiche statutarie 40. Ciò non toglie, ovviamente, che la sottoposizione di una società alla speciale disciplina prevista per le società quotate comporti pressoché sempre anche 39 40

V. l’art. 144 del Regolamento n. 11971/1998. V. conforme, NOTARI (1999); v. anche ANNUNZIATA (1999).

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l’adozione di modifiche statutarie, rese necessarie dall’impianto più generale, così come da singole previsioni, del D.Lgs. n. 58/1998: ma un conto sono le conseguenze che derivano dalla richiesta di ammissione alla quotazione, altro è l’ammissione a quotazione in sé considerata. Il secondo approccio, di contro, appare indubbiamente più condivisibile. L’affidamento che viene riposto dagli investitori nella sussistenza di un mercato per gli strumenti finanziari dagli stessi acquisiti viene ora ad essere tutelato in una prospettiva tanto esterna, quanto interna all’organizzazione societaria. La prospettiva esterna è la più tradizionale, e si riflette sull’articolato insieme di regole che disciplinano il funzionamento del mercato finanziario, nel loro complesso e nelle loro varie articolazioni; quella interna attiene, per l’appunto, al particolare atteggiarsi di specifici istituti, quale il recesso, che vengono a svolgere una funzione in parte nuova rispetto a quella tradizionalmente prevista. L’effetto è, per così dire, a doppio senso: il recesso diviene strumento per la tutela di interessi e situazioni diverse da quelli tradizionalmente previste; l’interesse alla quotazione assume una valenza endosocietaria, e ciò nel senso che l’abbandono della quotazione comporta l’avvio di meccanismi di tutela di tipo squisitamente societario. Nella prospettiva di cui sopra, appaiono evidenti i legami, e le reciproche interferenze, che sussistono anche tra la disciplina dell’obbligo di acquisto, il diritto di recesso ex art. 2437-quinquies c.c., e la disciplina formulata dall’art. 133 TUF. Quest’ultima disposizione si pone in una prospettiva analoga a quella che ispira gli altri istituti, in quanto essa non consente affatto alla società di abbandonare volontariamente la quotazione, ma consente unicamente il trasferimento della quotazione su di un altro mercato, che per giunta deve offrire forme di tutela “equivalenti” a quelle previste per le società quotate sui mercati nazionali 41. La quotazione, dunque, ai sensi dell’art. 133 TUF non rappresenta un elemento disponibile per la maggioranza; anzi, essa costituisce un vincolo al quale la maggioranza stessa si sottopone, nell’interesse anche della generalità degli azionisti, e che comporta limitazioni nel ripercorrere la strada, per così dire, in senso inverso, con il “delisting” 42. Analogamente, l’obbligo di acquisto, ed il diritto di recesso ex art. 2437-quinquies, giocano da fattori condizionanti la libertà ed il potere maggioritario, quando si verificano situazioni, o vengono a realizzarsi operazioni, che comportano la perdita di liquidità del titolo.

41 La tesi esposta nel testo non è condivisa da tutti: v. in senso contrario MAVIGLIA (1998). Cfr. sul punto, GALLETTI (2002). 42 Più ampia l’impostazione di MAVIGLIA (1998), secondo il quale l’esclusione dalle negoziazioni rappresenta un diritto disponibile da parte della maggioranza, che dovrebbe poterla decidere anche in mancanza di quotazione su un altro mercato.

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4. Il diritto di acquisto L’accresciuta rilevanza della sussistenza di un mercato liquido per i titoli dell’emittente si riflette, come si è visto, sulla previsione di specifici rimedi volti a tutelare tale particolare profilo e, al contempo, concorre a modificare il “perimetro” dell’interesse comune dei soci. Vi è un ulteriore istituto, che si ricollega a quelli più sopra discussi, e nel quale la tutela di un mercato efficiente riemerge come elemento che colora specifiche opzioni normative: si tratta dell’art. 111 TUF (il c.d. “diritto di acquisto”). La norma stabilisce che l’offerente che venga a detenere, a seguito di un’OPA totalitaria, una partecipazione almeno pari al 95% del capitale rappresentato da titoli in una società italiana quotata, ha diritto di acquistare i titoli residui entro tre mesi dalla scadenza del termine per l’accettazione dell’offerta, se ha dichiarato nel documento di offerta l’intenzione di avvalersi di tale diritto 43. Il prezzo di acquisto e la forma che può assumere sono determinati – per evidenti esigenze di simmetria – in base all’art. 108, commi 3, 4 e 5. Si tratta di un istituto che realizza un vero e proprio caso di cessione “forzosa” delle azioni che residuano dopo il lancio di un’offerta totalitaria 44, il quale si realizza automaticamente dal momento in cui l’offerente comunica all’emittente di aver depositato il prezzo presso una banca, che provvederà alle conseguenti annotazioni nel libro dei soci 45. La rilevanza di tale disciplina – già contenuta nell’originario testo del TUF – anche sotto il profilo sistematico, è stata correttamente posta in luce già dai primi commentatori. Dell’istituto possono essere proposte diverse letture, ivi compresa quella volta ad avvalorare la convinzione che, nel caso di specie, il legislatore intenderebbe porre rimedio a situazioni di forte squilibrio nell’assetto proprietario della società, tali da neutralizzare pressoché del tutto l’influenza della minoranza (e riecheggiando, così, talune suggestioni che provengo43

Nella precedente formulazione, il diritto di acquisto scattava al superamento della soglia del 98%. Il prezzo di acquisto delle azioni era stabilito da un perito, e dunque poteva risultare “disallineato” rispetto a quello della precedente offerta. Con il recepimento della Direttiva l’istituto, pur mantenendo la sua autonomia, viene più correttamente “riallineato” a quello dell’obbligo di acquisto: la soglia corrisponde a quella di cui all’art. 108, comma 1, e il corrispettivo è stabilito secondo le medesime regole. 44 È irrilevante il tipo di offerta lanciata: potrà, dunque, trattarsi sia di un’offerta volontaria, sia di un’offerta obbligatoria ex art. 106 TUF. 45 Stante l’intervenuto regime di dematerializzazione degli strumenti finanziari quotati, il trasferimento coattivo dei titoli si realizzerà, dunque, per via di semplici scritturazioni contabili a cura dell’intermediario incaricato. Su questa questione v. diffusamente CIAN (2002), cui adde WEIGMANN (2002-VI).

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no da istituti esteri non privi di assonanze) 46. Tuttavia, sebbene tale prospettiva non possa del tutto trascurarsi, due dati sembrano significativamente militare nel senso di una diversa ricostruzione dell’istituto: in primo luogo, il fatto che la regola non si applica alle società non quotate; dall’altro, la circostanza che il diritto di acquisto scatta in conseguenza del buon esito di un’operazione che può comportare, dichiaratamente sin dall’origine, il venir meno delle condizioni previste affinché sussista un mercato efficiente degli strumenti finanziari. Una possibile lettura di tale istituto può essere quella che pone l’accento, ancora una volta, sulla perdita di liquidità del titolo, e sul venir meno della quotazione. Il diritto di acquisto consegue ad una dichiarata volontà dell’offerente di realizzare un’operazione che potrebbe condurre all’abbandono della quotazione: volontà che viene resa pubblica e nota ex ante, e che si traduce nell’attribuzione a tale soggetto di un diritto di cui egli può avvalersi al verificarsi di una determinata condizione (il superamento della soglia rilevante). L’affinità dell’istituto con un meccanismo di opzione ex lege è evidente, ed è stata già opportunamente evidenziata in dottrina 47; altrettanto evidenti sono risultati i problemi di inquadramento costituzionale della disciplina, sui quali non mancano articolate riflessioni 48: ciò che preme sottolineare è che l’esercizio del diritto di acquisto scatta soltanto al superamento della soglia del 95% per effetto di un’offerta totalitaria, ossia al verificarsi di una condizione che conferma la sostanziale accettazione, da parte della stragrande maggioranza degli azionisti terzi, dell’operazione proposta dall’offerente, e che comporta il venir meno delle condizioni che presiedono alla sussistenza di un mercato liquido ed efficiente. Sotto tale profilo, si ritrovano, nell’istituto regolato dall’art. 111 TUF, assonanze con l’istituto dell’obbligo di acquisto (art. 108) e con il riconoscimento del diritto di recesso, nei casi di cui all’art. 2437-quinques, e segnatamente: la scomparsa delle condizioni per il funzionamento di un mercato liquido ed efficiente, da un lato, la riconducibilità dell’evento al comportamento o all’operato della “maggioranza”, dall’altro. Sennonché, nella disciplina formulata dall’art. 111 mutano le conseguenze del verificarsi di quegli eventi, o presupposti, e ciò nel senso che la “scomparsa” di un mercato liquido si risolve – in caso di esercizio del diritto da parte 46 V. diffusamente VENTORUZZO (1999-II), passim, ove anche riferimenti a possibili letture dell’istituto in una prospettiva di analisi economica del diritto. 47 VENTORUZZO (1999-II) il quale però giustamente osserva che “l’assimilazione al contratto di opzione ha tuttavia più la funzione di descrivere il meccanismo attraverso il quale la legge disciplina la fattispecie, piuttosto che fornire una qualificazione giuridica del diritto di acquisto”. 48 Diffusamente, in argomento, GUARRACINO (1998); VENTORUZZO (1999).

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dell’offerente – nella fuoriuscita “forzosa” dei soci minoritari dalla società. Orbene, un possibile modo di ricostruire, anche in un’ottica sistematica, la ratio dell’art. 111 (e giustificarne così l’esistenza, oltre che la conformità alle norme costituzionali) consiste proprio nel ravvisarvi un’ulteriore manifestazione della rilevanza che, per la ricostruzione della posizione dell’azionista-investitore, assume (per le società i cui titoli sono negoziati nei mercati regolamentati) l’interesse alla quotazione 49. La previsione dell’art. 111 si colloca in una posizione speculare rispetto agli altri istituti a cui si è fatto cenno: se, infatti, è vero che l’azionista-investitore assume – quale elemento qualificante della sua partecipazione al capitale della società – la sussistenza di un mercato liquido, sul quale negoziare il proprio investimento, il venir meno di tale elemento da un lato giustifica e richiede l’avvio di opportuni rimedi, a protezione dell’investitore stesso; dall’altro, il positivo concludersi di un’operazione volta ab origine a determinare, dichiaratamente, la scomparsa di un mercato liquido (OPA totalitaria) giustifica e richiede che si addivenga al disinvestimento coattivo della partecipazione, e ciò in quanto viene a mancare uno dei presupposti sui quali si fondava l’adesione originaria al contratto da parte del socio-investitore, ovvero – in una diversa prospettiva – si verifica un evento idoneo ad incidere sulla stessa causa originaria del rapporto, determinandone lo scioglimento. La compressione della liquidità del titolo agisce così, ancora una volta, come evento che conduce all’estinzione del rapporto sociale; evento che va ad incidere sugli assetti proprietari della società, in senso analogo – ma “speculare” quanto agli effetti – a quanto si è visto per l’obbligo di acquisto e per il diritto di recesso. In definitiva, l’art. 111 TUF non costituisce affatto una norma che – rompendo con il sistema – pone in discussione un diritto fondamentale dell’azionista (quello, per l’appunto, di restare socio): esso si colloca, piuttosto, nel solco di un sistema che, attraverso una serie di norme e di istituti particolari, assegna rilevanza societaria all’esistenza di un mercato efficiente, in grado di valorizzare adeguatamente i titoli della società, e di offrire un exit adeguato. E il successo dell’offerta totalitaria – dichiaratamente volta alla fuoriuscita dalla quotazione, nell’ambito della quale l’offerente dichiara ex ante di riservarsi il diritto di “forzare” la minoranza residua a cedere le proprie azioni – è coerente con tale impostazione 50.

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Ha qualificato il diritto di acquisto come forma di “esproprio di natura privatistica” il Trib. Milano, 26 marzo 2001, in Società, 2001, p. 1235 ss. 50 Sul delisting v. l’approfondito contributo di POMELLI (2009).

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5. La nozione di acquisto di concerto Con riferimento alla disciplina di cui agli artt. 106 e 108 (offerta totalitaria e obbligo di acquisto) merita di essere segnalata la nozione di “acquisto di concerto” formulata dall’art. 109 TUF 51. La disposizione prevede che sono solidalmente tenuti agli obblighi previsti dagli artt. 106 e 108 coloro che “agiscono di concerto”, quando vengono a detenere – a seguito di acquisti effettuati anche da uno solo di essi – una partecipazione superiore alle percentuali indicate nei predetti articoli. I medesimi obblighi sussistono in capo a soggetti che agiscono di concerto quando, a seguito di maggiorazione, anche a favore di uno solo di essi, dei diritti di voto, vengano a superarsi le soglie di volta in volta rilevanti per il lancio dell’OPA obbligatoria (ad esempio: 25%, 30%, 40%, ecc.). Secondo la definizione contenuta nell’art. 101-bis, comma 4, per “persone che agiscono di concerto” si intendono i soggetti che cooperano tra di loro sulla base di un accordo, espresso o tacito, verbale o scritto, ancorché invalido o inefficace, volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo dell’emittente o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio. Sono, in ogni caso, persone che agiscono di concerto a) gli aderenti a un patto, anche nullo, previsto dall’art. 122, commi 1 e 5, lett. a), b), c) e d), TUF; b) un soggetto, il suo controllante, e le società da esso controllate; c) le società sottoposte a comune controllo; d) una società e i suoi amministratori, componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza, o direttori generali. Alla Consob spetta altresì il compito di individuare, con Regolamento, casi presunti di azione di concerto, superabili con prova contraria (cfr. l’art. 44quater del Regolamento emittenti). La disciplina dell’azione di concerto – presente, negli ordinamenti degli Stati membri, sin dalle prime normative in materia di OPA (in particolare, Regno Unito e Francia) – risponde all’esigenza di imporre il rispetto delle disposizioni in tema di OPA, anche quando più soggetti operano “congiuntamente”, seppur singolarmente titolari di partecipazioni inferiori a quelle rilevanti. Gli obblighi previsti – secondo le regole di volta in volta applicabili – sono posti solidalmente in capo a tutti coloro che agiscono di concerto: ad esempio, tutti i partecipanti ad un patto di sindacato saranno solidalmente tenuti a lanciare l’offerta. Trattandosi di obblighi solidali, l’adempimento da parte di uno dei soggetti tenuti libererà anche tutti gli altri, fatta salva la successiva definizione dei rapporti interni al “gruppo”. 51

MOSCA (2013) e, meno recenti, BIANCHI (1999-II); WEIGMANN (2002-V).

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6. Le sanzioni La violazione della disciplina dell’OPA è assistita da sanzioni specifiche. In particolare, in caso di violazione degli obblighi previsti dalla disciplina dell’OPA, l’art. 110 dispone la sanzione della sospensione del diritto di voto per l’intera partecipazione detenuta dai soggetti interessati 52. Inoltre, le partecipazioni e i titoli eccedenti le percentuali indicate negli artt. 106 e 108 devono essere alienati entro il termine di dodici mesi. Trova altresì applicazione il disposto dell’art. 14, commi 6 e 7, TUF (impugnabilità della delibera assunta con il voto determinante del socio che ha ecceduto la soglia in violazione) e la relativa azione può essere proposta anche dalla Banca d’Italia e dalla Consob. La Consob, in alternativa all’alienazione di cui sopra, può tuttavia imporre la promozione dell’offerta totalitaria, al prezzo da essa stabilito, anche tenendo conto del prezzo di mercato dei titoli. Si applicano, infine, le sanzioni amministrative previste dall’art. 192 TUF 53. Si è molto discusso se, ed in quali limiti, il mancato avvio dell’OPA obbligatoria, nei casi previsti, possa comportare il riconoscimento, a favore dei soci di minoranza, di un diritto al risarcimento del danno (da farsi valere nei confronti, evidentemente, del soggetto tenuto al lancio dell’offerta). In relazione ad una nota vicenda (l’operazione “SAI-FONDIARIA”), la questione è stata sottoposta al vaglio della giurisprudenza di merito, che ha dapprima manifestato orientamenti contrastanti, oscillando dalla tesi della responsabilità contrattuale a quella della responsabilità meramente precontrattuale 54. Della questione si è, poi, occupata la Cassazione con quattro diverse sentenze (da ultimo Cass., 26 settembre 2013, n. 22099): la Suprema Corte ha confermato che, in caso di inadempimento all’obbligo di avvio dell’OPA, gli azionisti ai quali l’offerta avrebbe dovuto essere rivolta l’offerta hanno diritto al risarcimento del danno contrattuale. Dall’inadempimento dell’obbligo di promuovere l’offerta possono, pertanto, scaturire più rimedi, anche in corso tra di loro.

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In argomento cfr. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 165 ss. V. PISANI (2002-VII). 54 Sulla questione segnalata nel testo si vedano TUCCI (2007); COTTINO-DESANA (2010) e, soprattutto, il documentatissimo lavoro di MOSCA (2007). 53

CAPITOLO XVII L’INFORMAZIONE SOCIETARIA. L’INSIDER TRADING E GLI ABUSI DI MERCATO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Informazione societaria: ambito di applicazione e disposizioni generali. – 2.1. (Segue): informazione societaria. La disciplina delle comunicazioni al pubblico. – 2.2. (Segue): informazione societaria. La comunicazione al pubblico. Il ritardo nella diffusione delle informazioni. – 2.3. (Segue): informazione societaria. La comunicazione a terzi delle informazioni privilegiate. I sondaggi di mercato. – 2.4. (Segue): informazione societaria. Le misure di prevenzione. – 2.5. (Segue): informazione societaria. Gli obblighi di informazione previsti ai sensi dell’art. 114, comma 5, TUF. – 2.6. (Segue): informazione societaria. La disciplina dell’art. 115 TUF. – 2.7. (Segue): informazione societaria. La convocazione delle assemblee. – 2.8. Le operazioni con parti correlate. – 3. La repressione dell’abuso di informazioni privilegiate. Le sanzioni penali. – 3.1. (Segue): l’abuso di informazioni privilegiate. Le sanzioni amministrative. – 4. La manipolazione del mercato. – 4.1. Le condotte manipolative. – 4.1.1. Le Linee Guida del CESR. – 4.1.2. Le prassi di mercato ammesse. – 4.2. La disciplina degli studi e delle ricerche. – 4.3. I giornalisti. – 4.4. Le agenzie di rating. – 4.5. Il c.d. “Safe harbour”. – 4.6. Le sanzioni amministrative. – 5. Abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato. Le disposizioni comuni. – 5.1. La segnalazione delle operazioni sospette. – 5.2. Le sanzioni accessorie, l’accertamento degli illeciti e i poteri della Consob. – 5.3. Le sanzioni ex D.Lgs. n. 231/2001: la responsabilità amministrativa dell’ente.

1. Premessa Il buon funzionamento del mercato mobiliare richiede e presuppone la diffusione, in via continuativa, di informazioni complete e attendibili relative agli strumenti finanziari ed agli emittenti quotati, giacché – secondo la teoria dei mercati efficienti – è proprio sulle informazioni disponibili che gli investitori basano le proprie decisioni, ed orientano i propri comportamenti 1. Le società 1 Per una compiuta disamina dei presupposti economici della disciplina dell’informazione societaria, v. AMOROSINO-RABITTI BEDOGNI (2004), p. 292 ss. D’obbligo anche PERRONE (2003); PERRONE (2016).

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che fanno ricorso al pubblico risparmio, o che ottengono l’ammissione degli strumenti finanziari alla negoziazione in mercati ufficiali sono ormai da tempo sottoposte ad un particolare regime in materia di informazione del pubblico, che si aggiunge alla disciplina generalmente prevista in ambito societario relativa, ad esempio, agli obblighi contabili e di bilancio. Il tema è sin troppo noto perché si debba affrontarlo compiutamente in questa sede: basti dire che la stessa istituzione della Consob ha risposto, in primo luogo, all’esigenza di introdurre uno specifico regime di controlli proprio sull’informazione diffusa al pubblico da parte degli emittenti quotati. Il tema dell’informazione societaria per gli emittenti e gli strumenti finanziari si intreccia, indissolubilmente, con quello della repressione del c.d. “insider trading”: ossia di quei comportamenti che si sostanziano nello sfruttamento abusivo di informazioni, da parte di coloro che – in virtù della loro professione, del loro ufficio o del rapporto che, in genere, intrattengono con l’emittente – ne vengono in possesso prima che le informazioni stesse siano rese pubbliche. In tal senso, gli obblighi di informazione, posti in capo agli emittenti quotati, rispondono all’esigenza di mettere prontamente a disposizione del pubblico le informazioni che potrebbero influire significativamente sulla formazione dei prezzi, al fine di ridurre o eliminare il rischio dello “sfruttamento” anticipato delle informazioni stesse. Le sanzioni previste in capo ai soggetti che, in possesso di tali informazioni, le sfruttano a vantaggio proprio o di terzi, svolgono a loro volta una funzione sia preventiva, sia repressiva delle condotte illecite. Nel corso degli ultimi anni la disciplina dell’informazione societaria e dell’insider trading ha formato oggetto di ampi interventi, che ne hanno radicalmente trasformato l’assetto originario, consolidandosi in un articolato corpo normativo volto a reprimere e prevenire i cc.dd. “abusi di mercato”. Si tratta di un insieme di disposizioni che è venuto via via affermandosi (sia a livello interno, sia a livello europeo) a partire essenzialmente dalla fine degli anni ’80, con l’introduzione in vari sistemi delle prime discipline volte a reprimere l’insider trading e che si è poi affinato sino ad abbracciare una più ampia serie di fenomeni e fattispecie, che oggi ricadono sotto la comune denominazione di “manipolazione del mercato” e che, in via di primissima semplificazione, possono riallacciarsi all’originaria materia della repressione del reato di “aggiotaggio”. La disciplina muove da precise scelte “ideologiche” e di metodo; il giudizio di riprovazione nei confronti dell’insider trading, e di altri comportamenti giudicati incompatibili con il buon funzionamento dei mercati presuppone, necessariamente, la preventiva identificazione di un modello di riferimento sul quale, poi, vengono costruite le diverse scelte normative. In tale prospettiva, la posizione da cui muove il legislatore risente inevitabilmente di fattori di carattere storico, del contesto generale di riferimento e degli obiettivi di policy: tuttavia, è generalmente condivisa – quantomeno nei sistemi maggiormente rappresentativi – l’esigenza di porre in essere rimedi volti

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ad assicurare che il funzionamento del mercato non venga alterato da comportamenti “abusivi”: ossia da comportamenti che si risolvono in ciò che potrebbe identificarsi come l’utilizzo “distorto” delle strutture del mercato e dei relativi meccanismi di funzionamento. La diffusione di informazioni non corrette, il compimento di operazioni che falsano il meccanismo di fisiologica formazione dei prezzi, l’utilizzazione di informazioni privilegiate sono soltanto alcuni degli esempi di comportamenti che, per l’appunto, si pongono in contrasto con il modello ideale di funzionamento del mercato mobiliare che ispira le scelte del legislatore 2. Nell’ambito dell’Unione Europea, e di altri sistemi particolarmente rappresentativi (primo fra tutti, quello degli Stati Uniti d’America), è da tempo maturata la convinzione che le libere forze di mercato non sono in grado, da sole, di prevenire i comportamenti abusivi: è piuttosto necessario un diretto – e sempre più pregnante – intervento legislativo. L’evoluzione degli ultimi anni va inequivocabilmente in tale direzione: a partire dal primo nucleo di disciplina in materia di insider trading (cristallizzatosi, a livello comunitario, prima nella Direttiva 89/592/CEE e, poi, nella Direttiva 2003/6/CE), sino alla più recente normativa in materia di abusi di mercato (Regolamento (UE) n. 596/2014), la direzione verso cui si muove il legislatore è tracciata in modo inequivocabile, e si sostanzia nell’elaborazione di pervasive regole (sia di carattere preventivo, sia di natura repressiva) poste per l’appunto a presidio di ciò che si afferma essere il “corretto” funzionamento del mercato. La disciplina europea – ora affidata al Regolamento del 2014, direttamente applicabile negli Stati membri (il c.d. Market Abuse Regulation – “MAR”)– va così ad incidere su due temi, assolutamente centrali nella prospettiva di cui sopra: il primo è rappresentato dalla disciplina delle informazioni privilegiate e dell’insider trading; il secondo è costituito dalla disciplina – che vieta la c.d. “manipolazione di mercato”, espressione che, sinteticamente, riassume e identifica tutti quei comportamenti che, pur atteggiandosi in forme diverse, sono accomunati dall’impiego distorto delle strutture e dei mezzi del mercato mobiliare (contratti, sistemi e piattaforme di negoziazione, circuiti informativi, meccanismi di formazione e pubblicità dei prezzi, ecc.), da parte di coloro che, a vario titolo, vi hanno accesso (emittenti, intermediari, investitori, ecc.).

2 Sono queste le premesse alla base dell’intervento comunitario. V., infatti, il Considerando 7 del MAR: “Abuso di mercato è il concetto che comprende le condotte illecite nei mercati finanziari e ai fini del presente regolamento dovrebbe essere inteso come abuso di informazioni privilegiate, comunicazione illecita di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato. Tali condotte impediscono una piena ed effettiva trasparenza del mercato, che è un requisito fondamentale affinché tutti gli attori economici siano in grado di operare su mercati finanziari integrati”.

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2. Informazione societaria: ambito di applicazione e disposizioni generali Nel Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il Capo I, Parte IV, Titolo III è interamente dedicato alla materia dell’informazione societaria. Il Titolo stesso è rubricato “informazione societaria”: esso disciplina le materie del prospetto di quotazione (art. 113), delle comunicazioni al pubblico e alla Consob (artt. 113-bis e ss.-115-bis), degli obblighi informativi degli emittenti strumenti finanziari diffusi (artt. 116 e 118), nonché taluni aspetti dell’informazione contabile (art. 117). Orbene, il cuore di questa disciplina – rappresentata in particolare da quella che attiene agli obblighi di informazione continua (art. 114 TUF) – è stata, di fatto, sostituita dal Regolamento europeo, in vigore dal luglio del 2016. Le disposizioni che sopravvivono nel TUF in questo ambito sono, di fatto, subordinate a quelle di rango europeo, che, naturalmente, prevalgono (anche in quanto il MAR è di diretta applicazione). Tuttavia, anche dopo il MAR, il legislatore italiano ha inteso mantenere la scelta, già manifestatasi in occasione dell’emanazione del TUF, volta ad applicare le norme in materia di abusi di mercato anche agli emittenti titoli diffusi: soluzione, questa, che, invece, non emerge dal Regolamento europeo. Questa scelta fa sì che sopravvivano nel corpo del TUF talune disposizioni (tra cui anche quella dell’art. 114) che, apparentemente, se riguardate sul piano della loro applicazione nei riguardi degli emittenti quotati, non avrebbero in realtà più molta ragion d’essere: esse, però, assolvono ancora alla funzione (quantomeno) di disegnare la disciplina di cui si tratta per gli emittenti diffusi che, di contro, non sono ricompresi nel Regolamento MAR. Prima di affrontare il contenuto degli obblighi di comunicazione, appare utile accennare alla portata soggettiva della disciplina di cui agli artt. 113 e ss. TUF, che si applica – salve le eccezioni che emergono anche dalla disciplina secondaria 3 – ai soli “emittenti quotati”. Questi ultimi, secondo la definizione di cui all’art. 1, comma 1, lett. w), TUF, comprendono i “soggetti italiani o esteri che emettono strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati italiani” 4. La disciplina dell’informazione ha dunque vocazione ad applicarsi ai soggetti sia italiani, sia esteri, che abbiano strumenti quotati nei mercati regolamentati italiani. Un elemento degno di nota attiene alla circostanza che la disciplina dell’informazione si estende in realtà oltre la sfera degli emittenti quotati nei mercati 3

Cfr. sul punto SFAMENI (1999), p. 712 ss.; COSTI-ENRIQUES (2004), p. 222 ss. Nel caso di ricevute di deposito ammesse alle negoziazioni in un mercato regolamentato, per emittente si intende l’emittente dei valori mobiliari rappresentati, anche qualora tali valori non sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato. 4

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regolamentati, o dei soggetti che sollecitano il pubblico risparmio. L’estensione opera in due direzioni che interessano sia il piano della normativa europea, sia quello interno. Sotto il primo profilo (MAR) la disciplina, infatti si applica agli strumenti finanziari (e ai relativi emittenti) negoziati sia in un mercato regolamento, sia in un MTF, sia in un OTF. Sotto il secondo profilo (disciplina interna), in base all’art. 116 TUF – e fatto salvo quanto previsto dall’art. 118 – gli artt. 114 e 115 si applicano, anche ad emittenti i cui strumenti non sono negoziati su alcun mercato o sistema di negoziazione, ma che abbiano strumenti finanziari “diffusi tra il pubblico in misura rilevante” (criterio, quest’ultimo, che spetta alla Consob definire in sede regolamentare) 5. Appare, dunque, evidente la particolare prospettiva nella quale si colloca la disciplina dell’informazione societaria continua; essa non è circoscritta ai soggetti con strumenti negoziati in mercati ufficiali, o ai soggetti che sollecitano il pubblico risparmio, ma costituisce paradigma più generale dei soggetti che abbiano strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante, o negoziabili in sistemi assimilati ai mercati regolamentati 6. La tutela che appare ispirare la disciplina dell’informazione societaria non risulta dunque ricollegata alla sola quotazione degli strumenti su di un mercato regolamentato, o all’avvio di un’operazione di sollecitazione del risparmio, ma si fonda sulla semplice idoneità di un determinato strumento ad essere oggetto di investimento e di circolazione (recte, negoziazione) presso un “pubblico” sufficientemente ampio. Con il D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 195, e successive modifiche, – recante il recepimento in Italia delle disposizioni rivenienti dalla c.d. “Transparency Directive” (Direttiva 2004/109/CE) – è stato inserito, nel corpo del Testo Unico, l’art. 113-ter, recante “disposizioni generali in materia di informazioni regola5 V. l’art. 2-bis del Regolamento emittenti dove, al fine di identificare tale nozione, si forniscono due definizioni diverse: l’una riferita agli emittenti azioni; l’altra riferita agli emittenti obbligazioni. I criteri utilizzati sono sia di tipo quantitativo (almeno 500 azionisti che rappresentino almeno il 5% del capitale, o almeno 500 obbligazionisti di un emittente che abbia almeno 5 milioni di euro di obbligazioni emesse), sia di tipo qualitativo: questi ultimi servono a verificare che l’emittente abbia fatto effettivo ricorso al mercato dei capitali (ad esempio, promuovendo un’offerta pubblica di vendita o sottoscrizione, oppure attraverso la negoziazione delle azioni su sistemi di scambi organizzati), evitando così generalizzazioni della disciplina. Sul punto v. COSTI-ENRIQUES (2004), p. 220 ss.; BLANDINI (2005). 6 In base all’art. 17, par 1, comma 3, MAR, gli obblighi di comunicazione si applicano agli emittenti che hanno chiesto o autorizzato l’ammissione dei loro strumenti finanziari alla negoziazione su un mercato regolamentato in uno Stato membro o, nel caso di uno strumento negoziato solo su un MTF o su un OTF, agli emittenti che hanno autorizzato la negoziazione dei loro strumenti finanziari su un MTF o su un OTF o che hanno chiesto l’ammissione dei loro strumenti finanziari alla negoziazione su un MTF in uno Stato membro. Pertanto, qualora un emittente veda i propri strumenti finanziari trattati su una trading venue senza il suo consenso, non sarà tenuto a rispettare gli obblighi di comunicazione.

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mentate”. Si tratta di una disposizione generale, volta a recepire alcune regole di fondo, previste dalla Direttiva, e riferite a tutti gli obblighi di informazione previsti dalle disposizioni contenute nel Titolo III, Capo I e Capo II, Sezioni I, I-bis, II e v-bis, e nei relativi Regolamenti di attuazione, ovvero dalle disposizioni previste da Paesi extracomunitari, ritenute equivalenti dalla Consob (tali obblighi sono definiti, appunto, “informazioni regolamentate”). Oltre ad attribuire alla Commissione specifici compiti e poteri (commi 4, 5, 8 e 9), si attribuisce alla Consob il potere di stabilire “modalità e termini di diffusione al pubblico delle informazioni regolamentate, ferma restando la necessità di pubblicazione tramite mezzi di informazione su giornali quotidiani nazionali, tenuto conto della natura di tali informazioni, al fine di assicurarne un accesso rapido, non discriminatorio e ragionevolmente idoneo a garantirne l’effettiva diffusione in tutta la Comunità europea”.

2.1. (Segue): informazione societaria. La disciplina delle comunicazioni al pubblico In base all’art. 17, par. 1, del MAR, l’emittente deve comunicare al pubblico, quanto prima possibile, le informazioni privilegiate che riguardano direttamente detto emittente. L’art. 114 TUF – tutt’ora in vigore – ribadisce quanto sopra, richiedendo agli emittenti quotati di comunicare al pubblico, senza indugio, le informazioni privilegiate di cui all’art. 181, che riguardano direttamente detti emittenti e le società controllate. A parte la (sottile, ma non irrilevante) differenza tra l’espressione “prima possibile” e “senza indugio”, che meriterà di essere approfondita nel tempo sul piano interpretativo, le due disposizioni sono, di fatto, allineate. In realtà, l’entrata in vigore del MAR ha però definitivamente risolto un problema interpretativo che, per lungo tempo, si è presentato. Questa disciplina, introdotta con il TUF nel 1998, oltre ad aver ampliato quanto già disposto in materia dalla precedente normativa (risalente al 1991), aveva anche esteso parte delle regole agli emittenti titoli diffusi ed ampliato il novero degli obblighi di comunicazione nei confronti della Consob (art. 115 TUF). Pur alla luce di un evidente, ampio riordino della materia, permaneva un problema di coordinamento tra la materia degli obblighi di comunicazione al pubblico di informazioni price-sensitive e il divieto di insider trading: l’art. 114 TUF, infatti, nell’identificare le informazioni soggette agli obblighi di comunicazione al pubblico – definite come i “fatti rilevanti” – non faceva diretto rinvio, o riferimento, alla nozione di “informazione privilegiata”, utilizzata nell’ambito della definizione del reato di insider trading 7. La portata delle due nozioni era ri7

V., per una ricostruzione del dibattito, i riferimenti contenuti in CARRIÈRE (2006), p. 338.

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sultata, di fatto, diversa: in particolare, gli obblighi di comunicazione al pubblico ex art. 114 si riteneva – anche in base al consolidato orientamento della Consob – scattassero nel momento in cui un determinato fatto, evento, o una notizia si fossero verificati. Si pensi, ad esempio, ad una notizia, che può essere di notevole interesse per il mercato, e che riguarda un fatto che si forma progressivamente nel tempo (un’operazione straordinaria di un emittente; una fusione; un’acquisizione; una lunga trattativa contrattuale, ecc.). La disciplina che, in Italia, si applicava precedentemente al MAR non richiedeva all’emittente di comunicare al pubblico, sulla base dell’art. 114, anche le fasi intermedie di tale processo: queste fasi intermedie assumevano, certo, rilievo ai fini dei divieti insider trading, ma non facevano di per sé scattare gli obblighi di divulgazione al pubblico di fatti ancora in fieri. Anche con la successiva riformulazione dell’art. 114 TUF (a seguito del recepimento della Direttiva 2003), che pur rinviava alla nozione di informazione privilegiata di cui all’art. 181 TUF, permaneva questa dicotomia, supportata e confermata dall’art. 66 del Regolamento emittenti della Consob. Il nuovo Regolamento sugli abusi di mercato – anche a seguito di una fondamentale pronuncia della Corte di Giustizia UE nel caso Daimler (causa C19/11, sentenza del 28 giugno 2012) – ha definitivamente mutato tale impostazione dicotomica della disciplina. I due ambiti sono ora allineati come confermano sia l’art. 114 TUF, sia l’art. 17 MAR: l’oggetto degli obblighi di comunicazione al pubblico, nell’ambito della disciplina della c.d. “informazione continua”, si allinea all’oggetto della disciplina dell’insider trading (o, meglio, con il “bene” tutelato da quest’ultima disciplina). Permangono, tuttavia, alcune differenze tra le informazioni soggette all’obbligo di comunicazione al pubblico e quelle tutelate dai divieti in materia di insider trading, e ciò in quanto le prime mantengono pur sempre una portata più ristretta. Come avremo modo di osservare, infatti, la nozione di informazione privilegiata che assume rilievo ai fini del divieto di insider trading riguarda – sia nel corpo del TUF, sia nel MAR – le informazioni che concernono l’emittente sia “direttamente”, sia “indirettamente”: rientrano, dunque, in questo ambito, anche le informazioni che – ad esempio – riguardano fatti esterni all’emittente quotato, ma che hanno vocazione ad incidere sul prezzo dei relativi strumenti finanziari. Si pensi, ad esempio, ad un fatto economico generale, o ad un evento esterno all’emittente, che si ripercuote in modo significativo sulla sua attività. Queste informazioni, che incidono indirettamente sull’emittente sono soggette ai divieti di sfruttamento propri della disciplina dell’insider trading, ma l’emittente non è tenuto a comunicarle al pubblico, non essendo, di fatto, informazioni che si trovano nella sua sfera di controllo. Un ulteriore esempio di tale divaricazione riguarda la condotta dei brokers incaricati di dare esecuzione ad un ordine: le dimensioni e/o le caratteristiche di un ordine che affluisce sul mercato di un certo strumento finanziario possono naturalmente incidere in misura significativa sul prezzo di quello strumento. Il broker non

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può, naturalmente, sfruttare a proprio vantaggio, o a vantaggio di terzi, l’informazione relativa al predetto ordine, ma l’emittente quotato non è tenuto a darne comunicazione al mercato. La comunicazione al pubblico deve avvenire secondo precise modalità: l’art. 17, par. 1, comma 2, MAR, stabilisce che l’emittente garantisce che le informazioni privilegiate siano rese pubbliche secondo modalità che consentano un accesso rapido e una valutazione completa, corretta e tempestiva delle informazioni da parte del pubblico e, se del caso, nel meccanismo ufficialmente stabilito di cui all’art. 21 della Direttiva 2004/109/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (i cosiddetti “SDIR – sistemi di diffusione delle informazioni regolamentati”). L’emittente non deve, poi, coniugare la comunicazione di informazioni privilegiate al pubblico con la commercializzazione delle proprie attività, e deve pubblicare e conservare sul proprio sito internet per un periodo di almeno cinque anni tutte le informazioni privilegiate che è tenuto a comunicare al pubblico 8. Ciò detto, si tratta ora di stabilire, più precisamente, in cosa consista una “informazione privilegiata”. Ai sensi dell’art. 7 del MAR – che, per quanto già detto, è ormai la fonte primaria in questa materia – per informazione privilegiata si intende un’informazione avente un carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti o uno o più strumenti finanziari, e che, se resa pubblica, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati 9. Né il Regolamento, né gli standard tecnici, 8 Si vedano inoltre le disposizioni di cui al Regolamento (UE) 29 giugno 2016, n. 2016/1055 per quanto riguarda gli strumenti tecnici per l’adeguata comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate e per ritardare la comunicazione al pubblico delle stesse. 9 Nel contesto dell’art. 7 MAR, ci sono definizioni specifiche per quanto attiene: – ai derivati su merci (“un’informazione avente un carattere preciso, che non è stata comunicata al pubblico, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più di tali strumenti derivati o concernente direttamente il contratto a pronti su merci collegato, e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti derivati o sui contratti a pronti su merci collegati e qualora si tratti di un’informazione che si possa ragionevolmente attendere sia comunicata o che debba essere obbligatoriamente comunicata conformemente alle disposizioni legislative o regolamentari dell’Unione o nazionali, alle regole di mercato, ai contratti, alle prassi o alle consuetudini, convenzionali sui pertinenti mercati degli strumenti derivati su merci o a pronti”); – alle quote di emissioni, e ai prodotti oggetto di asta correlati, di fatto pressoché coincidente (“un’informazione avente un carattere preciso, che non è stata comunicata al pubblico, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più di tali strumenti e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati”); – in merito agli ordini aventi ad oggetto strumenti finanziari (“nel caso di persone incaricate dell’esecuzione di ordini relativi a strumenti finanziari, s’intende anche l’informa-

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forniscono una elencazione specifica, anche solo esemplificativa, delle possibili informazioni rilevanti: esse vanno dunque ricostruite sulla base delle loro caratteristiche generali individuate nel MAR. Eventuali esemplificazioni, rinvenibili nella prassi, o anche in quanto espressione di prassi o indicazioni delle Autorità di vigilanza assumono, dunque, portata essenzialmente indicativa, e non possono considerarsi sostitutive delle previsioni recate dal Regolamento 10. I tre elementi fondamentali, sui quali poggia la definizione, sono dunque rappresentati: – dal carattere preciso dell’informazione; – dal suo carattere non pubblico; – dalla sua idoneità a influire in modo sensibile sul prezzo degli strumenti finanziari. Il MAR – con lo scopo precipuo di ridurre il più possibile gli scarti interpretativi – formula indicazioni precise relative a tutti i tre elementi. Quanto alla precisione, l’art. 7, par. 2, stabilisce che un’informazione ha carattere preciso “se essa fa riferimento a una serie di circostanze esistenti o che si può ragionevolmente ritenere che vengano a prodursi o a un evento che si è verificato o del quale si può ragionevolmente ritenere che si verificherà e se tale informazione è sufficientemente specifica da permettere di trarre conclusioni sul possibile effetto di detto complesso di circostanze o di detto evento sui prezzi degli strumenti finanziari o del relativo strumento finanziario derivato, dei contratti a pronti su merci collegati o dei prodotti oggetto d’asta sulla base delle quote di emissioni. A tal riguardo, nel caso di un processo prolungato che è inteso a concretizzare, o che determina, una particolare circostanza o un particolare evento, tale futura circostanza o futuro evento, nonché le tappe intermedie di detto processo che sono collegate alla concretizzazione o alla determinazione della circostanza o dell’evento futuri, possono essere considerate come informazioni aventi carattere preciso”. Il comma 3 chiarisce che zione trasmessa da un cliente e connessa agli ordini pendenti in strumenti finanziari del cliente, avente un carattere preciso e concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti o uno o più strumenti finanziari e che, se comunicata al pubblico, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari, sul prezzo dei contratti a pronti su merci collegati o sul prezzo di strumenti finanziari derivati collegati”). 10 Si veda, in particolare, il documento denominato “Linee Guida per la gestione delle informazioni privilegiate” pubblicato dalla Consob nell’ottobre 2017, nel quale pur si rinvengono utili esempi di fatti, operazioni, casi, dai quali possono originare informazioni privilegiate. Le Linee Guida si segnalano anche in quanto suggeriscono e indicano i presidi organizzati che, in linea generale, gli emittenti dovrebbero adottare per la gestione delle informazioni privilegiate: profilo, quest’ultimo, particolarmente delicato in particolare là dove le informazioni siano relative ad eventi che maturano in più fasi nel tempo.

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“una tappa intermedia in un processo prolungato è considerata un’informazione privilegiata se risponde ai criteri fissati nel presente articolo riguardo alle informazioni privilegiate”: tale previsione – come già si è detto – deriva dalla celebre sentenza del caso Daimler, nella quale la Corte di Giustizia UE aveva già sancito questa interpretazione in riferimento alla previgente Direttiva 2003/6/UE. Come appare evidente, affinché un’informazione possa effettivamente assumere il carattere di “precisione” richiesto dalla norma è del tutto ininfluente che essa si riferisca ad una decisione formalizzata, o adottata in particolari sedi. Inoltre, il “fatto” da cui origina l’informazione non deve necessariamente essersi compiutamente verificato, essendo sufficiente che possa “ragionevolmente” verificarsi: in tal senso milita il riferimento alle “circostanze”, rispetto ai veri e propri “eventi”. Pertanto, al fine di stabilire se una data informazione assume carattere “preciso”, l’interprete è tenuto a svolgere un’indagine di tipo essenzialmente predittivo, dovendo per l’appunto valutare se la situazione che, in concreto, si è verificata, sia ragionevolmente idonea a dar luogo ad un’informazione privilegiata. Il giudizio di ragionevolezza dovrà poi condursi in base ai criteri propri della diligenza e, salvo casi particolari (stante il fatto che la valutazione del carattere “privilegiato” dell’informazione è generalmente opera degli amministratori dell’emittente quotato), della diligenza qualificata. Una nozione tanto ampia di informazione privilegiata rischia, tuttavia, di attrarre nell’ambito di applicazione della disciplina notizie e informazioni del tutto vaghe, e sprovviste di un sufficiente grado di precisione. Al fine di “correggere” questo aspetto, la disposizione prevede che l’informazione deve comunque essere sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto del complesso di circostanze o dell’evento sui prezzi degli strumenti finanziari. Questa precisazione vale, sostanzialmente, a circoscrivere una soglia minima, al di sotto della quale l’informazione – per il suo carattere ancora impreciso, o di non sufficiente definizione – non è da ritenersi “privilegiata” e, come tale, soggetta agli obblighi di disclosure al pubblico e ai divieti di utilizzazione previsti dalla disciplina dell’insider trading. In sostanza, si tratta di un test volto a sottrarre alla disciplina delle informazioni privilegiate quelle notizie sprovviste di un’effettiva idoneità ad impattare sul prezzo degli strumenti finanziari (in quanto ancora prive di sufficiente concretezza). D’altronde, la diffusione al pubblico di tali informazioni sortirebbe effetti opposti a quelli che la disciplina tende a perseguire, risolvendosi nella comunicazione al mercato di informazioni prive di un’effettiva base di solidità e dunque, potenzialmente, lesive di quella stessa trasparenza che la disciplina in commento vorrebbe tutelare. Il carattere “pubblico” o meno dell’informazione deve, come già detto, misurarsi sul rispetto delle regole che presiedono alla diffusione al mercato delle informazioni privilegiate: ciò nel senso che potranno considerarsi pubbliche tutte le informazioni che siano state comunicate secondo quanto previsto in tale ambito, ed utilizzando i relativi strumenti. Sul punto, giova però osservare come la

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comunicazione al pubblico delle informazioni in base a quanto prevede il MAR non rappresenti l’unico, possibile modo con cui le informazioni privilegiate possono, di fatto, divenire pubbliche: si pensi, ad esempio, ai casi di divulgazione (intenzionale o meno) della notizia ad opera di soggetti che l’hanno legittimamente ricevuta da altri, ovvero al caso in cui la notizia abbia comunque raggiunto il pubblico per altre vie. In queste ipotesi, così come in tutti gli altri casi in cui il pubblico può di fatto essere venuto in possesso di un’informazione privilegiata indipendentemente dalla disclosure fornita di proposito dall’emittente, la pubblicità della notizia non presuppone l’utilizzo dei canali di pubblicazione previsti dalla disciplina di riferimento. In questi casi, si deve però ritenere che resti comunque fermo l’obbligo per l’emittente di procedere alla diffusione al pubblico delle informazioni in questione, secondo i canali istituzionali, fermo restando che il divieto di utilizzazione dell’informazione privilegiata potrebbe, in realtà, esser venuto meno anche prima che l’emittente abbia provveduto in tal senso 11. Quanto al terzo elemento (“price sensitivity”), si è già detto che l’informazione deve risultare idonea ad influire in modo “significativo” sul prezzo degli strumenti finanziari. Questo è uno dei profili più problematici della disciplina dell’insider trading: l’art. 7, par. 4, MAR, ricorre, a tal fine, al c.d. “test dell’investitore ragionevole”. Si dispone, pertanto, che al fine di individuare quando una data informazione potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di strumenti finanziari, deve aversi riguardo alla “informazione che un investitore ragionevole probabilmente utilizzerebbe come uno degli elementi su cui basare le proprie decisioni di investimento” secondo un giudizio che è necessariamente da formularsi ex-ante. Ne deriva che il test di significatività non deve svolgersi sulla base di parametri prevalentemente quantitativi (ad es., possibile variazione percentuale del prezzo degli strumenti), essendo piuttosto volto a valutare l’effettiva rilevanza che, in concreto, l’informazione può rivestire per l’assunzione di una decisione di investimento. In altri termini, al fine di appurare la significatività di una data informazione, l’indagine dovrà preoccuparsi non tanto, o non solo, di quantificare in astratto il possibile impatto che l’informazione può avere sui prezzi, quanto di stabilire la possibile incidenza dell’informazione stessa nel processo di investimento di un investitore “ragionevole”. L’informazione, per tale via, sarà “price-sensitive” se il suo utilizzo risulta determinante nell’assunzione di una scelta di investimento o di disinvestimento, da parte di tale “modello” di investitore (che, tuttavia, la disciplina non definisce, e che spetta dunque al11 Il punto è, tuttavia, controvertibile. Resta, ovviamente, ferma ogni valutazione in merito al carattere legittimo o meno dell’avvenuta diffusione al pubblico della notizia, al di fuori delle regole individuate dal MAR. Si tratta, tuttavia, di due profili distinti: da un lato, infatti, si tratta di valutare se la divulgazione della notizia sia avvenuta o meno legittimamente; dall’altro, se la notizia, così divulgata, possa considerarsi “pubblica” e dunque sottratta ai divieti propri della disciplina dell’insider trading.

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l’interprete individuare). Orbene, in proposito, si deve, innanzitutto, ritenere che il termine “ragionevole” vada necessariamente inteso come rinvio ad un criterio di valutazione di tipo oggettivo (come è ovvio, posto anche che il divieto di utilizzazione delle informazioni configura un illecito penale e amministrativo). Il profilo problematico attiene, tuttavia, alle caratteristiche che tale investitore “ragionevole” dovrebbe presentare: in particolare, si tratta di stabilire se occorra aver riguardo ad un’astratta figura di investitore “medio” o se, piuttosto, ci si debba attestare sulla figura di un investitore “professionale”. È chiaro che, a seconda dell’impostazione che si intenda seguire, il “perimetro” delle informazioni privilegiate viene a modificarsi, anche in modo sensibile. Il processo decisionale che conduce un investitore professionale ad assumere una scelta di investimento dovrebbe infatti (almeno teoricamente) essere caratterizzato da una maggior capacità di selezione delle informazioni, di guisa che qualora – nella ricostruzione dei contorni della nozione di “informazione privilegiata” – si faccia riferimento a tale figura, finisce in realtà anche per restringersi il novero delle informazioni potenzialmente rilevanti, e dunque l’ambito oggettivo di applicazione della disciplina. Al riguardo non sembra possibile formulare, allo stato, indicazioni definitive, posto che il testo del Regolamento non fornisce elementi conclusivi. Deve tuttavia osservarsi che, preferibilmente, il “modello” da assumere a riferimento dovrebbe essere, innanzitutto, quello dell’investitore razionale ossia di un soggetto che è in grado di elaborare correttamente le informazioni disponibili sul mercato, in vista dell’adozione di una scelta di investimento: tale conclusione, che discende dalla filosofia di base che ispira la disciplina comunitaria degli abusi di mercato, basata su modelli di mercato “efficiente”, dovrebbe far propendere maggiormente nel senso della valutazione del carattere “privilegiato” dell’informazione alla stregua del giudizio di un investitore quantomeno “preparato”, o, meglio “professionale” 12. Tuttavia, questo approccio non è privo di profili problematici, e rischia così di produrre vari inconvenienti nell’applicazione della disciplina. Per tale ragione, vi è chi ritiene che sussistano spazi per una ricostruzione più articolata di tale figura, ricorrendo anche ad altri modelli comportamentali propri degli studi di finanza, tra i quali la finanza c.d. “comportamentale” 13. Sempre con riguardo all’impatto che l’informazione può sortire sui prezzi degli strumenti finanziari interessati, va osservato che l’art. 114, comma 12, TUF estende la disciplina del medesimo art. 114 anche ai soggetti italiani o esteri che emettono strumenti finanziari per i quali sia stata presentata una ri12 V SEPE, Nuovi profili della disciplina sugli abusi di mercato, Seminari della Cassa Nazionale Forense, 24 giugno 2004, reperibile su Internet all’indirizzo http://www. cassaforense.it/CassaFor/_Convegni/Anno2004/DirittoEconomia/elencorelazioni.cfm. 13 Ci sia consentito rinviare, per preliminari considerazioni sul punto, a ANNUNZIATA (2017-II).

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chiesta di ammissione alle negoziazioni nei mercati regolamentati italiani. La previsione fa, in sostanza, retroagire l’applicazione della disciplina in tema di comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate al momento di presentazione della domanda di ammissione alle negoziazioni nei mercati regolamentati: tale soluzione è giustificata alla luce dell’esigenza di assicurare che anche durante il delicato processo che conduce all’ammissione alla quotazione in borsa il mercato già operi in condizioni di adeguata trasparenza. Sul punto va peraltro osservato che l’applicazione della disciplina prescinde (giocoforza) dall’esito dell’eventuale iter di ammissione alla quotazione, che potrebbe anche concludersi in senso non favorevole, là dove, ad esempio, la società di gestione del mercato neghi l’accesso degli strumenti finanziari alle negoziazioni: in tal caso, la disciplina cesserà di applicarsi all’atto in cui si sia esaurito l’iter relativo. Nell’ipotesi in cui, peraltro, la domanda di ammissione alla quotazione venga rigettata e si instauri un contenzioso, nell’ambito del quale l’emittente contesti la decisione assunta dalla società di gestione del mercato, ci si può chiedere se la disciplina della comunicazione al pubblico delle informazioni continui ad applicarsi, nelle more del contenzioso: la soluzione preferibile ci sembra in senso positivo, non soltanto perché – sino al passato in giudicato dell’eventuale decisione emessa a seguito del contenzioso così instaurato – l’iter di ammissione alla quotazione non può dirsi, in realtà, definitivamente concluso, ma anche perché la situazione che verrebbe a determinarsi rende ancora più pregnante disporre, per il mercato, di informazioni sull’emittente e sulla sua situazione. Va anche osservato che l’estensione della disciplina agli strumenti finanziari in fase di ammissione alla quotazione non è limitata all’applicazione delle norme di cui all’art. 114 TUF, ossia agli obblighi di comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate: tale estensione riguarda, infatti, anche la disciplina del divieto di abuso di informazioni privilegiate, e le relative sanzioni (tanto sul piano amministrativo, quanto su quello penale), come risulta evidente dalla definizione formulata dall’art. 180, comma 1, lett. a), TUF. Ciò detto, appare evidente che – per gli strumenti finanziari in fase di ammissione alla quotazione – la valutazione del possibile impatto sui prezzi degli strumenti finanziari andrà comunque svolta secondo i criteri sopra esposti, pur non essendovi necessariamente alcun dato di “mercato” a cui riferirsi (si pensi, ad esempio, al caso in cui l’emittente non abbia neppure altri strumenti finanziari già quotati in mercati regolamentati). In questo senso, il “test” dell’investitore ragionevole consente di valutare il carattere “rilevante” dell’informazione anche quando in realtà non sussiste neppure un mercato “organizzato” sul quale gli strumenti finanziari dell’emittente siano già negoziati, e sul quale siano dunque rinvenibili prezzi “ufficiali”. L’ampia “dimensione” della nozione di informazione privilegiata richiede, proprio per le ragioni testé indicate, anche un più attento controllo e monito-

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raggio, da parte degli emittenti interessati, delle dinamiche di formazione, circolazione e comunicazione a terzi di informazioni privilegiate, o anche soltanto di informazioni che potrebbero assumere il carattere di informazioni privilegiate. Il corposo apparato sanzionatorio, che assiste la nuova disciplina degli abusi di mercato (e che può coinvolgere anche direttamente l’emittente, ad esempio nel caso di illeciti che ricadono nell’ambito di applicazione delle norme sulla responsabilità amministrativa degli enti, di cui al D.Lgs. n. 231/2001, come richiamato dall’art. 187-quinquies TUF), rende infatti indispensabile un attento presidio su tutto ciò che, anche in pectore, potrebbe ricadere nell’ambito di applicazione della nuova disciplina.

2.2. (Segue): informazione societaria. La comunicazione al pubblico. Il ritardo nella diffusione delle informazioni Le informazioni privilegiate, al verificarsi dei presupposti previsti, devono essere messe a disposizione del pubblico “quanto prima possibile”. L’adempimento dell’obbligo di informazione del pubblico ha luogo mediante la predisposizione di un comunicato, diffuso con le modalità indicate dalla Consob nel Regolamento emittenti, in conformità alla disciplina europea. Tali modalità prevedono, come già si è accennato, il ricorso ai cc.dd. “Sistemi di diffusione delle informazioni regolamentate – SDIR”, che rappresentano sistemi autorizzati dalla Consob, in grado di collegare i propri utilizzatori ai media di comunicazione 14. Uno dei temi classicamente dibattuti nell’ambito della disciplina degli obblighi di comunicazione al pubblico delle informazioni “price sensitive” attiene alla possibilità per gli emittenti di ritardare, a certe condizioni, la diffusione delle informazioni stesse. La materia è stata interamente ridisciplinata dal MAR, secondo un’impostazione connotata da due criteri di fondo: da un lato, il ritardo viene ad essere un istituto potenzialmente idoneo ad applicarsi più di frequente rispetto al passato, a causa dell’ampliamento della nozione di informazione privilegiata prevista ai fini degli obblighi di comunicazione al pubblico; dall’altro, resta fermo che il ritardo è, comunque, ancorato a presidi e a presupposti ben precisi 15. 14

Alla data di riferimento di questa edizione, risultano tre SDIR autorizzati dalla Consob. V. sul punto il Considerando 49 del MAR: “gli emittenti dovrebbero quindi essere tenuti a comunicare al pubblico quanto prima le informazioni privilegiate. Tuttavia, tale obbligo può, in determinate circostanze particolari, ledere i legittimi interessi dell’emittente. In tali circostanze, dovrebbe essere consentito di ritardare la comunicazione, a condizione che il ritardo non sia suscettibile di fuorviare il pubblico e che l’emittente sia in grado di garantire la riservatezza delle informazioni in questione. L’emittente è tenuto a comunicare informazioni privilegiate solo se ha richiesto o approvato l’ammissione dello strumento finanziario alla negoziazione”. 15

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Il MAR prevede che l’emittente (o, nel caso delle quote di emissioni, il partecipante al relativo mercato), può ritardare, sotto la sua responsabilità, la comunicazione al pubblico di informazioni privilegiate, a condizione che siano soddisfatte tutte le condizioni seguenti: a) la comunicazione immediata pregiudicherebbe probabilmente i legittimi interessi dell’emittente o del partecipante al mercato delle quote di emissioni; b) il ritardo nella comunicazione probabilmente non avrebbe l’effetto di fuorviare il pubblico; c) l’emittente o il partecipante al mercato delle quote di emissioni è in grado di garantire la riservatezza di tali informazioni. Anche, nel caso di un processo prolungato, che si verifichi in fasi e sia volto a concretizzare o che comporti una particolare circostanza o un evento particolare, l’emittente o il partecipante al mercato delle quote di emissioni può, sotto la propria responsabilità, ritardare la comunicazione al pubblico di informazioni privilegiate relative a tale processo, fatti salvi i tre presupposti di cui sopra. Le disposizioni in materia di ritardo nella comunicazione al pubblico sono connotate da una forte rilevanza organizzativa. La condizione secondo cui l’emittente deve essere in grado di garantire la riservatezza delle informazioni oggetto del ritardo presuppone che – come del resto confermato da ESMA 16 – l’emittente abbia messo in atto presidi organizzativi e di processi atti in primis a verificare se l’informazione è da considerarsi privilegiata, e se e per quanto tempo la sua comunicazione possa essere ritardata; ed in secundis atti a garantirne la riservatezza (i.e. chinese wall). Inoltre, alla luce del regime di responsabilità dell’emittente, ovvero considerando che la decisione del ritardo spetta anzitutto all’emittente, gli si richiede di designare, indicandole chiaramente, una o più persone responsabili della scelta e, perciò, dotate di un necessario potere decisionale. Nonostante la decisione di ritardare la comunicazione di determinate informazioni privilegiate sia soggetta al concomitante verificarsi delle condizioni sopra menzionate, il perdurare del ritardo è ammesso fintantoché la riservatezza delle informazioni privilegiate oggetto del ritardo è mantenuta. Da ciò deriva, quindi, la necessità per l’emittente di verificare la tenuta nel tempo della riservatezza delle informazioni oggetto del ritardo, mettendo in atto un’attività di monitoraggio costante. Ad esempio, in presenza di rumour sufficientemente precisi da implicare il sospetto che vi sia una fuga di informazioni privilegiate, ed indipendentemente dall’origine di detta fuga, l’emittente ha l’obbligo di comunicare al pubblico tali informazioni, qualora la loro riservatezza non sia più garantita. Nel corso dei lavori preparatori del MAR si è discusso circa la necessità che l’Autorità di vigilanza (in Italia, la Consob), debba essere preventivamente in-

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V. ESMA/2015/1455, 55 et suiv.

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formata dell’intenzione dell’emittente di ritardare la diffusione dell’informazione. La soluzione riflessasi nel MAR non prevede tale obbligo: si stabilisce, infatti, che – quando ha ritardato la comunicazione di informazioni privilegiate – l’emittente o il partecipante al mercato delle quote di emissioni notifica tale ritardo all’autorità competente e fornisce per iscritto una spiegazione delle modalità con cui sono state soddisfatte le condizioni richieste immediatamente dopo che le informazioni sono state comunicate al pubblico. In alternativa, gli Stati membri possono disporre che una registrazione di tale spiegazione debba essere presentata solo su richiesta dell’autorità competente. Una disciplina particolare è prevista, nel contesto del ritardo, per le istituzioni finanziarie, anche a seguito di una serie di casi verificatisi durante la crisi finanziaria: qui, il problema del ritardo è più complesso, perché la disciplina dell’informazione del mercato deve trovare un punto di equilibrio con le esigenze di stabilità dell’ente finanziario. Pertanto, l’art. 17 MAR prevede che un ente creditizio o un istituto finanziario può ritardare, sotto la sua responsabilità, la comunicazione al pubblico di informazioni privilegiate, comprese le informazioni legate a un problema temporaneo di liquidità e, in particolare, la necessità di ricevere assistenza temporanea di liquidità da una banca centrale o da un prestatore di ultima istanza, a condizione che siano soddisfatte tutte le condizioni seguenti: a) la comunicazione delle informazioni privilegiate comporta il rischio di compromettere la stabilità finanziaria dell’emittente e del sistema finanziario; b) nell’interesse pubblico ritardare la comunicazione; c) è possibile garantire la riservatezza delle informazioni; e d) l’autorità competente specificata a norma del par. 3 ha autorizzato il ritardo sulla base del fatto che le condizioni di cui alle lett. a), b) e c) sono rispettate. In questo caso, dell’intenzione di ritardare la diffusione va informata l’Autorità competente in via preventiva 17.

2.3. (Segue): informazione societaria. La comunicazione a terzi delle informazioni privilegiate. I sondaggi di mercato Sussistono precisi limiti alla (possibile) comunicazione a terzi delle informazioni privilegiate (senza, ovviamente, che ne venga data comunicazione al pubblico nelle forme prescritte). La disciplina europea si pone da sempre, con tutta evidenza, l’obiettivo di limitare i casi di c.d. “selective disclosure” dell’informazione (a favore, cioè, di alcuni soggetti soltanto); ed è tale impostazione a caratterizzare anche la soluzione circa l’ammissibilità della comunicazione a terzi dell’informazione privi-

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In materia di ritardo si vedano anche le Q&A pubblicate dall’ESMA (ESM70-14511) e le Linee Guida Consob dell’ottobre 2017.

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legiata. Pertanto, la comunicazione a terzi di un’informazione privilegiata è di regola vietata, a meno che non sussistano le condizioni di cui all’art. 10 MAR (da ritenersi di stretta interpretazione), e segnatamente quando la comunicazione avviene durante il normale esercizio di un’occupazione, una professione o una funzione. La nozione di “normale esercizio” va intesa con grande cautela: secondo gli orientamenti che emergono anche in sede giurisprudenziale, la comunicazione dell’informazione deve, in realtà, essere necessaria, nel contesto dell’attività professionale o nell’esercizio della funzione, e non semplicemente utile o opportuna 18. Gli effetti che possono conseguire a tale comunicazione selettiva sono però diversi a seconda del caso in cui il terzo sia o meno tenuto ad un obbligo di riservatezza: se, infatti, tale obbligo non sussiste, la norma impone l’immediato ripristino di condizioni di parità informativa con il pubblico, obbligando l’emittente a procedere all’integrale comunicazione dell’informazione stessa secondo le modalità in genere previste per la diffusione delle informazioni privilegiate. In questo caso, pertanto, la disciplina si attesta chiaramente su di una soluzione volta a limitare o, addirittura, a vietare la selective disclosure. Qualora, invece, il terzo sia tenuto a rispettare un obbligo di riservatezza, la contestuale diffusione al pubblico dell’informazione non è richiesta: in questo caso, infatti, è da ritenere che sia mantenuto il carattere “privilegiato”, e dunque non pubblico, dell’informazione, il che consente – appunto – di tollerare un caso di vera e propria comunicazione selettiva. L’emittente dovrà altresì procedere ad informare il pubblico, nel caso in cui l’informazione comunicata al terzo si diffonda, intenzionalmente o meno, presso il pubblico, indipendentemente dall’attività dell’emittente. In proposito, qualche incertezza interpretativa potrebbe derivare dalla formulazione dell’art. 17, par. 8, MAR, là dove più precisamente, viene fatto obbligo all’emittente di procedere alla comunicazione al pubblico dell’informazione “contemporaneamente nel caso di divulgazione intenzionale e tempestivamente in caso di divulgazione non intenzionale”. L’inciso sembra in realtà doversi intendere nel senso che, qualora l’emittente comunichi l’informazione ad un terzo, senza che quest’ultimo sia tenuto ad un obbligo di riservatezza, tale comunicazione deve accompagnarsi alla simultanea diffusione al pubblico dell’informazione medesima, secondo le regole già viste. Di contro, nel caso in cui il terzo sia tenuto ad osservare un obbligo di riservatezza, ma – nonostante ciò – l’informazione venga comunque divulgata su basi non intenzionali (ad esempio, 18 V. la restrittiva lettura data, all’analoga previsione contenuta nella prima Direttiva europea in materia di insider trading, dalla Corte di Giustizia UE nel caso Grongaard, in ANNUNZIATA (2007).

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a causa di una fuga di notizie non controllata) l’emittente è tenuto ad intervenire senza indugio, provvedendo (a sua volta) alla diffusione al pubblico dell’informazione, secondo i canali generalmente prescritti. Un’ulteriore novità introdotta dal legislatore comunitario nel Regolamento MAR è rappresentata dalla disciplina dei sondaggi di mercato, che si identificano nella comunicazione – da parte di partecipanti al mercato (disclosing market participant) 19 – di “informazioni, anteriormente all’annuncio di un’operazione, al fine di valutare l’interesse dei potenziali investitori per una possibile operazione e le relative condizioni, come le dimensioni potenziali o il prezzo”. A ben vedere, anche questa forma di condotta legittima, che ha però, a differenza delle fattispecie previste dall’art. 9 in favore degli intermediari, portata pienamente escludente, non costituisce un’innovazione assoluta. Il mercato, infatti, conosceva già – in particolare, all’indomani della nota vicenda Ehinorn 20 – i rischi connessi alle attività di c.d. pre-sounding (e alle relative procedure di wall-crossing già implementate dagli operatori), ossia a quelle interazioni tra un venditore di strumenti finanziari e uno o più investitori potenziali che hanno luogo prima dell’annuncio di un’operazione, al fine di determinare l’interesse degli investitori potenziali in una possibile operazione 21. Anche tale disciplina, pertanto, potrebbe essere considerata come momento di positivizzazione di una prassi che invale ormai da tempo: recita, infatti, il Considerando 32 del MAR che i sondaggi “possono essere particolarmente utili quando i mercati non suscitano fiducia, sono privi di indici di riferimento (benchmarks) pertinenti o sono volatili. Pertanto, la capacità di svolgere sondaggi di mercato è importante per il corretto funzionamento dei mercati di capitale e tali sondaggi non dovrebbero essere considerati abusi di mercato”. Passando all’analisi della disciplina si osserva come il partecipante, che può essere anche un emittente, “prima di effettuare il sondaggio”, debba registrare per iscritto se e per quale ragione la somministrazione di detto sondaggio comporti il trasferimento di informazioni privilegiate, avendo cura di aggiornare tali registrazioni e di conservarle per un periodo di almeno cinque anni. Inoltre, si fa specifico obbligo, per i “partecipanti” che trasferiscono informazioni privilegiate, a che il contenuto del registro comprenda anche “tutte le informazioni fornite alla persona che riceve il sondaggio di mercato […] e l’identità dei potenziali investitori ai quali le informazioni sono state comunicate 19

Vale la pena ricordare che il testo comunitario identifica il “partecipante al mercato che comunica informazioni” in: un emittente, un offerente sul mercato secondario di uno strumento finanziario, la cui operazione si distingue da quelle normali in termini di quantità o valore, un partecipante al mercato delle quote di emissioni oppure un terzo che agisce in nome o per conto di uno dei predetti soggetti. 20 Cfr. FSA, Press Release, FSA/PN/005/2012, 25 Jan 2012. 21 Per approfondimenti sul tema dei sondaggi di mercato, si veda LOMBARDO, (2016). I sondaggi di mercato: prime riflessioni, in Soc., n. 2, 2016, p. 159 ss.

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comprese, ma non limitatamente, le persone giuridiche e le persone fisiche che agiscono per conto del potenziale investitore, nonché la data e l’ora di ogni comunicazione” 22. In altre parole, la disciplina in analisi istituisce in capo al soggetto che produce il sondaggio il duplice obbligo di informazione nei confronti del clienti, da una parte, e di registrazione dall’altra 23. Il punto maggiormente rilevante risiede, però, nella disposizione secondo cui la comunicazione di informazioni privilegiate per mezzo di un sondaggio di mercato si considera effettuata nel “normale esercizio di un’occupazione, di una professione o di una funzione”, non integrando di conseguenza la fattispecie di comunicazione illecita di informazioni privilegiate, se sono rispettate le condizioni previste dalla norma: obblighi di registrazione ed informazione. Anche in questo caso non è difficile individuare quel leitmotiv di politica regolamentare che concentra l’attenzione sui profili comportamentali e, dunque, organizzativi quali presidi all’ordinata conduzione dell’attività d’impresa, con funzione anche esimente – come nel caso di specie – nei confronti di alcune condotte illecite. In altre parole, l’implementazione di idonee modalità di esecuzione dei sondaggi, in forza di apposite procedure relative alla conservazione delle registrazioni, nonché i sistemi e i modelli di notifica per una comunicazione adeguata delle informazioni al destinatario di un sondaggio, contribuiscono allo strutturarsi di un assetto organizzativo, che mette al riparo l’attività dell’intermediario e dell’emittente dalle pericolose conseguenze scaturenti dalla commissione degli illeciti in esame 24.

22 L’art. 11, par. 5, comma 2 richiama quanto stabilito al comma 1 dello stesso paragrafo per quanto attiene alla informazioni da comunicare al ricevente prima della somministrazione del sondaggio, fra cui si annoverano i) il consenso della persona che riceve il sondaggio di mercato a ricevere informazioni privilegiate; ii) il divieto di abusare di tali informazioni, o tentare di abusarne, nelle diverse connotazioni previste; ed infine iii) la comunicazione che, accettando di ricevere dette informazioni, il ricevente si assume l’obbligo di mantenerle riservate. 23 Per quanto attiene, poi, “alle modalità e procedure e i requisiti relativi alla conservazione delle registrazioni”, così come per “i sistemi e i modelli di notifica”, la normativa europea prevede che l’ESMA concepisca progetti di norme tecniche di regolamentazione e attuazione cui i disclosing market participant si devono uniformare (cfr. Final Report Draft technical standards on the Market Abuse Regulation pubblicato sul sito dell’ESMA). 24 In questa materia trovano applicazione, e sono di particolare importanza, gli standard tecnici che emergono dal Regolamento (UE) n. 2016/960 per quanto riguarda le modalità, le procedure e i sistemi opportuni applicabili ai partecipanti al mercato che comunicano le informazioni quando effettuano sondaggi di mercato.

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2.4. (Segue): informazione societaria. Le misure di prevenzione La repressione del fenomeno dell’insider trading si accompagna a varie forme di prevenzione delle condotte illecite. Tali misure perseguono tre obiettivi principali: quello della più agevole “tracciabilità” delle condotte illecite (il c.d. “registro” o “elenco” delle persone in possesso di informazioni privilegiate), quello della trasparenza delle operazioni effettuate da possibili insider primari (obblighi di comunicazione delle operazioni personali), e quello della riduzione del rischio connesso con la gestione delle informazioni privilegiate (la c.d. “condotta legittima”). Quanto all’elenco, gli emittenti o le persone che agiscono a nome o per conto loro redigono un elenco di tutti coloro che hanno accesso a informazioni privilegiate e con le quali esiste un rapporto di collaborazione professionale, si tratti di un contratto di lavoro dipendente o altro, e che, nello svolgimento di determinati compiti, hanno accesso alle informazioni privilegiate, quali a esempio consulenti, contabili o agenzie di rating del credito (elenco delle persone aventi accesso a informazioni privilegiate). Questo elenco deve essere aggiornato regolarmente, e deve essere inviato all’Autorità di vigilanza in caso di richiesta di quest’ultima (art. 18 MAR). Si richiede che l’iscrizione nell’elenco venga resa nota al relativo soggetto, anche al fine di renderlo edotto che egli soggiace ai divieti in materia di insider trading (art. 18, par. 2). La ratio sottostante l’obbligo di istituzione del registro è sostanzialmente quella di prevedere uno strumento volto a identificare ex-ante le persone che, in relazione ad un determinato emittente o strumento finanziario, sono in possesso di informazioni privilegiate: in definitiva, si tratta di uno strumento che dovrebbe agevolare la fase di accertamento degli illeciti, e, proprio per questo motivo, dovrebbe fungere anche da strumento di prevenzione. Al di là delle disposizioni tecniche che regolano minuziosamente l’istituzione e la gestione del registro, va osservato che la portata della relativa disciplina travalica l’ambito dei soli emittenti direttamente ricondotti nell’alveo degli obblighi in materia di informazione continua: sono, infatti, tenuti all’istituzione del registro anche i soggetti che “agiscono in loro nome o per loro conto” 25. La formulazione è tale da ricomprendere tutti coloro che operano appunto nell’interesse dell’emittente quotato e che, in virtù dell’attività svolta, vengono in possesso di informazioni privilegiate: a puro titolo esemplificativo vi rientrano consulenti (avvocati, commercialisti, notai), revisori contabili, intermediari incaricati dello svolgimento di operazioni per conto dell’emittente quotato (ad esempio, operazioni di finanza straordinaria, offerte pubbliche, acquisizioni, ecc.). Nel registro troveranno poi iscrizione sia soggetti che sono permanentemente in possesso di informazio-

25 Art. 18, par. 5: “Gli emittenti o ogni altra persona che agisce in loro nome o per loro conto conserva l’elenco delle persone che hanno accesso a informazioni privilegiate per un periodo di almeno cinque anni dopo l’elaborazione o l’aggiornamento”.

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ni privilegiati (tipicamente, ad esempio, i vertici aziendali dell’emittente quotato), sia soggetti che vengono in possesso di tali informazioni in via occasionale (ad esempio, il consulente per una determinata operazione o attività, e per il periodo coincidente con lo svolgimento della stessa). Al fine di garantire condizioni uniformi di esecuzione del presente articolo, l’ESMA è tenuto ad elaborare progetti di norme tecniche di attuazione per stabilire il formato preciso degli elenchi delle persone aventi accesso a informazioni privilegiate e il formato per aggiornare gli elenchi di cui al presente articolo 26. Quanto agli obblighi di comunicazione delle operazioni effettuate sui titoli emittenti, si tratta di una soluzione certo non innovativa (un primo nucleo di regole in tal senso era già contenuto nell’art. 1/17 della legge n. 216/1974 e successive modifiche), ma che la disciplina comunitaria elabora ed affina ulteriormente, disponendo anche che i relativi obblighi di comunicazione siano da effettuare sia nei confronti della Consob, sia nei confronti del pubblico. In virtù di quanto disposto dall’art. 19 MAR, è pertanto previsto che determinati soggetti (che, per il ruolo o la posizione ricoperti possono essere più facilmente in possesso di informazioni privilegiate), diano comunicazione delle operazioni, aventi ad oggetto azioni emesse dall’emittente o altri strumenti finanziari ad esse collegati, da loro effettuate, anche per interposta persona, salve le ipotesi di esonero contemplate nel contesto di tale disciplina 27. Con riferimento, infine, ai profili di natura organizzativa il MAR ha introdotto all’art. 9 varie disposizioni ivi rubricate con il titolo “condotta legittima”. Dal semplice fatto che una persona giuridica sia o sia stata in possesso di informazioni privilegiate non si desume che tale persona abbia utilizzato tali informazioni e quindi abbia compiuto abuso di informazioni privilegiate – sulla base di un’acquisizione o di una cessione – qualora tale persona giuridica: a) abbia stabilito, attuato e mantenuto disposizioni e procedure interne adeguate ed efficaci e atte a garantire effettivamente che né la persona fisica che ha preso la decisione per suo conto di acquisire o cedere strumenti finanziari cui le informazioni si riferiscono, né nessuna altra persona fisica che possa aver influenzato tale decisione fossero in possesso delle informazioni privilegiate; e b) non abbia incoraggiato, raccomandato, indotto o altrimenti influenzato la persona fisica che ha acquisito o ceduto per conto della persona giuridica strumenti finanziari cui le informazioni si riferiscono. 26

V. il Regolamento (UE) 10 marzo 2016, n. 2016/347, che stabilisce norme tecniche di attuazione per quanto riguarda il formato preciso degli elenchi delle persone aventi accesso a informazioni privilegiate e il relativo aggiornamento a norma del MAR. 27 V. il Regolamento (UE) 10 marzo 2016, n. 2016/523, che stabilisce norme tecniche di attuazione per quanto riguarda il formato e il modello per la notifica e per la comunicazione al pubblico delle operazioni effettuate da persone che esercitano funzioni di amministrazione, di controllo o di direzione, in conformità al MAR.

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2.5. (Segue): informazione societaria. Gli obblighi di informazione previsti ai sensi dell’art. 114, comma 5, TUF In attuazione di quanto previsto dall’art. 114, comma 5, TUF, gli artt. 70 e ss. del Regolamento emittenti formulano una specifica disciplina regolamentare degli obblighi di informazione relativi a talune specifiche materie, distinguendole tra: – operazioni “straordinarie”; – informazione periodica; – altre informazioni. A differenza della materia dell’informazione continua, si tratta di obblighi informativi che hanno portata episodica e non continuativa, essendo riferiti al compimento di specifiche operazioni, all’adozione di determinate decisioni, o al verificarsi di specifici fatti. a) Le operazioni straordinarie La disciplina in tema di operazioni straordinarie riguarda, segnatamente: fusioni e scissioni, aumenti di capitale mediante conferimenti in natura, patrimoni destinati a uno specifico affare, acquisizioni e cessioni, altre modifiche dell’atto costitutivo ed emissione di obbligazioni, acquisto e alienazione di azioni proprie, provvedimenti ai sensi dell’art. 2446 c.c. In generale, le relative norme si sostanziano nell’obbligo di mettere a disposizione del pubblico, con le modalità di volta in volta previste, uno stock predeterminato di informazioni o documenti. È opportuno sottolineare che il rispetto delle regole specificamente previste per le operazioni straordinarie non influisce sull’applicazione della disciplina dell’informazione del pubblico in relazione alle informazioni privilegiate, la cui portata resta ferma nei termini già esposti, e che potrà eventualmente cumularsi con quella relativa alle operazioni straordinarie stesse. Tale eventuale duplicazione, peraltro, appare alquanto probabile, giacché molte delle operazioni definite “straordinarie” saranno in realtà spesso fonte di (o sussumibili nella categoria delle) “informazioni privilegiate”. In relazione a tali operazioni, tuttavia, la Commissione non ha ritenuto sufficiente la disciplina dell’informazione continua, e ciò in quanto tale ultima disciplina tende, inevitabilmente, a privilegiare la tempestività dell’informativa, rispetto alla completezza della stessa. In relazione ad operazioni complesse, la Consob ha dunque ritenuto opportuno disporre la diffusione di informazioni più analitiche ed articolate, nonché di documenti appositamente redatti, allo scopo di fornire ai destinatari un quadro maggiormente esauriente di quanto altrimenti ricavabile dalla sola applicazione della disciplina dell’informazione continua. Più in dettaglio, per quanto attiene alle fusioni e alle scissioni, l’art. 70, com-

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ma 2 del Regolamento emittenti impone la predisposizione della relazione illustrativa di cui agli artt. 2501-septies e 2506-ter c.c. secondo i criteri stabiliti dalla Consob nell’Allegato 3A. Un confronto, anche soltanto superficiale, tra il contenuto dell’Allegato e gli artt. 2501-septies e 2506-ter c.c. consente di rilevare agevolmente il carattere maggiormente pervasivo dello schema previsto dal Regolamento. Sotto questo profilo, risultano di non agevole valutazione le conseguenze civilistiche di un’eventuale violazione della disciplina regolamentare, in specie per quanto attiene al procedimento di fusione ed ai vizi che possono caratterizzarlo. In particolare, il fatto che l’art. 70, comma 2 incida direttamente su di uno degli atti che caratterizzano l’iter civilistico della fusione potrebbe indurre a sostenere che la violazione del disposto del Regolamento sia idonea a riflettersi anche sulla regolarità del relativo procedimento; la questione, tuttavia, si complica in virtù del fatto che l’art. 70, comma 2, e lo schema Allegato sub 3A, non discendono direttamente da alcuna previsione di legge che riconosca alla Consob il potere di “integrare” il contento minimo obbligatorio delle relazioni previste dal codice civile 28, il che potrebbe indurre a ritenere che il mancato rispetto della disciplina regolamentare assuma rilevanza unicamente ai fini della disciplina dell’informazione societaria (e delle relative sanzioni). Quanto agli aumenti di capitale mediante conferimenti in natura, gli emittenti devono mettere a disposizione del pubblico – tra gli altri documenti – la relazione illustrativa prevista dall’art. 2441, comma 6, c.c., redatta secondo i criteri generali indicati dalla stessa Consob nell’Allegato 3A: anche in questo caso, dunque, la Consob interviene ad “integrare” la disciplina civilistica. Oltre a quanto sopra, nel caso di operazioni di dimensioni significative – da individuarsi secondo criteri determinati dalla Consob – gli emittenti mettono a disposizione del pubblico un apposito documento informativo, redatto in conformità a quanto previsto dallo stesso Regolamento che, in parte, finisce anche per reiterare informazioni già pubblicate alla luce della disciplina civilistica. L’informativa richiesta in occasione di operazioni di fusione e scissione, e di aumenti di capitale in natura, viene così ad articolarsi su di un doppio livello: da un lato, un insieme di informazioni che sono sempre richieste; dall’altro, informazioni che la Consob può richiedere, di volta in volta, qualora l’operazione presenti i requisiti stabiliti in via generale dalla stessa Commissione. Per quanto attiene alle acquisizioni e cessioni, è bene precisare che le operazioni in questione sono quelle aventi ad oggetto l’acquisizione o la cessione di partecipazioni, rami di azienda, o cespiti in genere. Per tali operazioni, la 28 In effetti, la Consob, anziché richiedere di integrare la relazione degli amministratori con gli elementi indicati nel Regolamento, avrebbe potuto richiedere la redazione di una relazione distinta, rilevante unicamente sotto il profilo della disciplina dell’informazione societaria.

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Consob richiede – nei casi dalla stessa predeterminati in via generale, o di volta in volta 29 – la predisposizione di un documento informativo redatto in conformità allo schema previsto in allegato al Regolamento. Con riferimento ad altre modifiche dell’atto costitutivo e all’emissione di obbligazioni, l’art. 72 del Regolamento prevede l’obbligo di mettere a disposizione del pubblico, presso la sede dell’emittente e la società di gestione del mercato, un’apposita relazione redatta in conformità allo schema previsto in allegato al Regolamento 30. La relazione tende ad assicurare la disponibilità per il pubblico di informazioni che attengono anche all’effetto dell’operazione sulla situazione economicofinanziaria dell’emittente: sotto questo profilo, il Regolamento muove ulteriormente nella direzione, già tracciata in precedenti interventi della Consob, volta a richiedere la diffusione di informazioni relative non soltanto all’operazione in sé, quanto all’impatto più complessivo della stessa sulla situazione dell’emittente. Completa la disciplina la previsione dell’art. 72, comma 3, che – in relazione ad operazioni di aumento del capitale sociale con esclusione o limitazione del diritto di opzione ai sensi dell’art. 2441, commi 4 e 5 c.c. – prevede l’obbligo di mettere a disposizione del pubblico il parere di congruità della società di revisione, e l’eventuale relazione di stima per i conferimenti in natura. Regole particolari riguardano le operazioni di acquisto e alienazione di azioni proprie, il cui impatto sui prezzi degli strumenti finanziari e sull’andamento del relativo mercato può essere assai rilevante. Tali operazioni vengono dunque assimilate alle operazioni straordinarie, e la loro disciplina ne segue l’impostazione: si prevede, infatti, anche in questo caso la messa a disposizione del pubblico di una relazione illustrativa redatta secondo lo schema allegato al Regolamento; analogamente a ciò che si verifica per l’emissione delle obbligazioni, e per le altre modifiche dell’atto costitutivo la pubblicazione della relazione è sempre dovuta, e non è condizionata ad una specifica richiesta della Consob. Si osservi, peraltro, che le operazioni sulle azioni proprie pongono, a monte, una questione di compatibilità con la disciplina della manipolazione del mercato, ragion per cui – come avremo modo di osservare – la disciplina le sottopone a particolari cautele (v. infra). Anche nel caso dell’adozione di provvedimenti ex art. 2446 c.c., il Regolamento impone la predisposizione e la messa a disposizione del pubblico di una relazione illustrativa redatta secondo gli schemi allegati; analogamente alle altre ipotesi sopra richiamate, la pubblicazione della relazione è sempre richiesta, e non è subordinata ad una specifica richiesta della Consob. La relazione – che è dovuta, ovviamente, anche nei casi di cui all’art. 2447 c.c. – contiene informa29

V. l’art. 71 del Regolamento emittenti. Una disciplina più di dettaglio riguarda gli obblighi informativi previsti in occasione di operazioni di conversione di azioni da una categoria ad un’altra (cfr. art. 72, comma 4). 30

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zioni aggiuntive rispetto a quelle espressamente contemplate dall’art. 2446 c.c.: si vedano, ad esempio, le informazioni relative alla situazione finanziaria netta, alle iniziative che si intendono assumere per il risanamento della gestione, e agli eventuali piani di risanamento approvati, o in corso. Lo schema, di contro, non formula alcuna previsione in merito ai criteri di redazione della situazione patrimoniale e del conto economico ex art. 2446 c.c., limitandosi a disporre che tali documenti devono essere redatti a data recente rispetto alla prevista data dell’assemblea. b) L’informazione periodica La disciplina dell’informazione periodica riguarda, essenzialmente, la relazione finanziaria annuale, semestrale e il resoconto intermedio di gestione. La materia è stata ampiamente rimodellata dalle disposizioni di recepimento della Transparency Directive, come da ultimo modificate, e risulta ora dall’art. 154-ter TUF, al quale rinviamo. c) Le altre informazioni Quanto alle “altre informazioni”, la disciplina dell’informazione del pubblico si chiude con alcune previsioni che riguardano l’esercizio dei diritti sociali (artt. 83-bis, 84), i piani di stock option (art. 84-bis), i verbali assembleari (art. 85), le modifiche del capitale (art. 85-bis), gli strumenti finanziari ex art. 2351, comma 5 c.c. (art. 85-ter), la composizione degli organi sociali (art. 85quater), l’offerta di diritti di opzione (art. 89), e l’adesione ai codici di comportamento (artt. 89-bis e ter). Si tratta di materie con riferimento alle quali la Consob richiede agli emittenti di provvedere a mettere a disposizione del pubblico particolari informazioni, in attuazione di quanto previsto dall’art. 114 TUF. Di particolare rilievo è la disciplina relativa all’esercizio di diritti sociali: si dispone, infatti – in aggiunta a quanto previsto dalla generale disciplina societaria – che gli emittenti strumenti finanziari forniscano al pubblico le informazioni necessarie affinché i portatori dei loro strumenti finanziari possano esercitare i propri diritti, mediante pubblicazione in tempo utile di un avviso in lingua italiana su almeno un quotidiano a diffusione nazionale. Quanto all’informazione circa l’adesione ai codici di comportamento, si tratta di regole introdotte a seguito delle riforme recate dalla legge n. 262/2005, e con le quali si intenderebbero rafforzare gli incentivi a che gli emittenti aderiscano ai codici di comportamento e di autodisciplina. In tale prospettiva, si affida (art. 149 TUF) al collegio sindacale (e al consiglio di sorveglianza e comitato di controllo, nei sistemi non tradizionali) il dovere di vigilare sulle modalità di “concreta attuazione delle regole di governo societario previste dai codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria, cui la società, mediante informativa al pubblico, dichiara di attenersi”. La Consob, a sua volta, è chiamata a vigilare sulla veridicità delle informazioni

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così diffuse (art. 124-ter) 31. Le disposizioni di cui agli artt. 89-bis, e ter danno dunque attuazione a quanto sopra. In relazione agli obblighi di comunicazione che discendono dall’art. 114, comma 5, TUF, è stato mantenuto lo specifico istituto del “reclamo”, che consente ai soggetti obbligati di opporsi alla diffusione delle informazioni stesse qualora da ciò “possa derivare loro grave danno”. A fronte del reclamo, la Consob – entro sette giorni – può escludere parzialmente o temporalmente la comunicazione delle informazioni, sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e circostanze essenziali. Trascorso tale termine, il reclamo si intende accolto.

2.6. (Segue): informazione societaria. La disciplina dell’art. 115 TUF L’art. 115 TUF delinea gli obblighi di comunicazione non già al pubblico, ma alla Consob. Si stabilisce, con norma dall’ampia formulazione, che la Consob può: a) richiedere agli emittenti quotati, agli emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro d’origine 32, ai soggetti che li controllano e alle società dagli stessi controllate, la comunicazione di notizie e documenti, fissandone le relative modalità; b) assumere notizie, anche mediante la loro audizione, dai componenti degli organi sociali, dai direttori generali, dai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili, e dagli altri dirigenti, dai revisori legali e dalle società di revisione legale, dalle società e dai soggetti indicati nella lett. a); c) eseguire ispezioni presso i soggetti indicati nelle lett. a) e b), al fine di controllare i documenti aziendali e di acquisirne copia; c-bis) esercitare gli ulteriori poteri previsti dall’art. 187-octies TUF. Il comma 1 dell’art. 115 individua la finalità dell’esercizio dei suddetti poteri nell’esigenza di “vigilare sulla correttezza delle informazioni fornite al pubblico”. Sotto il profilo del contenuto, l’art. 115 non formula più un elenco, neppure minimale, di informazioni da porre a disposizione dell’Organo di controllo, co31

La falsità nelle comunicazioni circa l’applicazione delle regole previste nei codici di autodisciplina è sanzionata (sul piano amministrativo) dall’art. 192-bis TUF. 32 Il novero dei soggetti sottoposti alla disciplina dell’art. 115 si è ampliato con il recepimento della Transparency Directive, che ha comportato l’aggiunta – nella lett. a) dell’art. 115, comma 1, TUF – del riferimento agli “emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro di origine”. La definizione di questi ultimi soggetti figura all’art. 1, comma 1, lett. wquater), TUF, come modificato con D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 195.

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me precedentemente si rinveniva nell’art. 1/4, legge n. 216/1974 e successive modifiche: spetta dunque alla Consob statuire al riguardo, tanto con richieste singole, quanto con atti di carattere generale (ed infatti, l’art. 115, comma 1, prevede che la Consob possa esercitare il proprio potere “anche in via generale”). Il comma 2 dell’art. 115 stabilisce, inoltre, che i poteri di cui alle lett. a), b) e c) possono essere esercitati anche nei confronti dei soggetti che detengono una partecipazione rilevante ai sensi dell’art. 120 TUF, o che partecipano a un patto di sindacato previsto dall’art. 122. Infine – analogamente a quanto prevedeva l’ormai antico art. 1/4-bis, legge n. 216/1974 – la norma dispone che la Consob può chiedere alle società o agli enti che partecipano direttamente o indirettamente a società con azioni quotate l’indicazione nominativa, in base ai dati disponibili, dei soci, e nel caso di società fiduciarie, dei fiducianti. In ogni caso, le informazioni raccolte dalla Consob ai sensi dell’art. 115 TUF sono coperte dal segreto d’ufficio (cfr. art. 4 TUF). Ferma restando la possibilità per la Consob di formulare richieste ad hoc, il Capo III, Titolo II del Regolamento emittenti dà attuazione all’art. 115 TUF ed è in tale ambito che si rinvengono gran parte degli obblighi di comunicazione alla Commissione precedentemente formulati da varie norme di legge o di regolamento 33.

2.7. (Segue): informazione societaria. La convocazione delle assemblee In dipendenza del recepimento della Direttiva europea sui diritti degli azionisti, sono state riviste le disposizioni – in precedenza affidate in parte al TUF e in parte ad altri provvedimenti, anche di rango secondario – relative alle informazioni che gli emittenti diffondono in occasione della convocazione delle assemblee. Le relative previsioni – tutte consolidate nel TUF – riguardano: – l’avviso di convocazione delle assemblee (art. 125-bis); – l’obbligo di redigere una apposita relazione per le materie all’ordine del giorno (art. 125-ter); – l’uso del sito Internet, in relazione alla tenuta delle assemblee e alla diffusione della relativa informativa (art. 125-quater); – il diritto dei soci di porre domande prima dell’assemblea (art. 127-ter).

33 La “mappa” completa degli obblighi di comunicazione ed informazione posti a capo degli emittenti quotati dovrà, giocoforza, tener conto anche di quanto previsto nel Regolamento della Borsa Italiana S.p.a., quantomeno per i mercati organizzati e gestiti da quest’ultima.

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2.8. Le operazioni con parti correlate L’art. 2391-bis c.c. affida alla Consob il compito di formulare regole volte ad assicurare “la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale” delle operazioni con parti correlate. In attuazione dell’art. 2391-bis, la Consob ha emanato il Regolamento 12 marzo 2010, n. 17221 (subito modificato con Delibera n. 17389/2010), con il quale vengono stabilite le regole alle quali gli emittenti che fanno ricorso al mercato di rischio devono attenersi. Il Regolamento – dal contenuto assai analitico – fissa regole procedurali e norme di trasparenza che, in sostanza, prevedono: – l’obbligo di sottoporre le operazioni con parti correlate al vaglio (vincolante, per le operazioni di dimensioni più significative) di amministratori indipendenti, con l’eventuale ausilio di esperti esterni; – l’obbligo di dare disclosure al pubblico delle operazioni poste in essere (con conseguente abrogazione delle norme già contenute, in tema di operazioni con parti correlate, nel Regolamento emittenti); – il dovere per gli amministratori di approvare procedure volte a regolare quanto sopra. La gestazione del Regolamento – di cui non è possibile dare integralmente conto in questa sede – è stata molto dibattuta, e preceduta da un’intensa fase di consultazione. Le società tenute a rispettare la disciplina sono chiamate ad uno sforzo di identificazione delle parti correlate (da individuarsi sulla base delle definizioni formulate dai principi contabili internazionali), di proceduralizzazione dell’assunzione delle relative delibere, e di disclosure delle operazioni eseguite, che è stato visto, da alcuni, come eccesivo rispetto alle finalità perseguite dalla norma primaria 34. Vi è, tuttavia, da osservare che le operazioni con parti correlate configurano situazioni potenzialmente molto sensibili, per la tutela delle minoranze e degli investitori, in quanto tali da integrare possibili schemi espropriativi a vantaggio dei soci maggioritari. È da questa premessa che muove l’art. 2391-bis c.c. che – come accennato – non è semplicemente norma che attiene all’informazione societaria, essendo tale da incidere sui profili sostanziali e procedurali delle decisioni attinenti le operazioni con parti correlate. Il Regolamento si conforma altresì alle scelte di fondo prevalenti in altri sistemi assumibili come significativi (Francia, Regno Unito, Stati Uniti) come peraltro la Consob ha avuto modo di ricordare nella lunga fase di consultazione che ha preceduto l’adozione del Regolamento.

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V. BAGLIONI-GRASSO (2010); MONTALENTI (2010).

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3. La repressione dell’abuso di informazioni privilegiate. Le sanzioni penali Il dibattito sulle sanzioni in materia di abusi di mercato è andato via via intensificandosi nel tempo, anche per effetto delle scelte, maturate in alcuni Stati membri, di prevedere un apparato sanzionatorio particolarmente severo, cumulando sanzioni amministrative, e penali. La questione ha assunto toni di particolare intensità a seguito della sentenza della Corte CEDU nel noto caso Grande Stevens c/Italia 35. A differenza della maggior opzionalità prevista dalla Direttiva 2003/6/CE, il nuovo regime prevede che gli Stati membri debbano introdurre, oltre a sanzioni amministrative, anche sanzioni penali, e – a tal fine – formula i criteri che dovrebbero presiedere a queste ultime nella Direttiva 2014/57/UE (c.d. Market abuse directive, “MAD”). Il tentativo che la Direttiva compie, anche al fine di disciplinare la spinosa questione del “doppio binario”, è, tendenzialmente, di prevedere le sanzioni penali nei casi “gravi” e allorquando le condotte siano commesse “con dolo” (artt. 3, 4 e 5); il tentativo è svolto anche attraverso una sostanziale riproduzione, nel corpo della Direttiva, delle condotte illecite. La MAD muove, quindi, dal presupposto secondo cui, per talune ipotesi connotate da particolare gravità delle condotte offensive, le sole sanzioni amministrative non siano di per sé sufficienti, così da rendersi necessarie anche sanzioni penali, che – ovviamente – recano con sé una più marcata forma di disapprovazione sociale. In particolare, le sanzioni penali per le persone fisiche devono essere non inferiori a quattro anni di reclusione, ridotti a due per il caso di comunicazione illecita di informazioni privilegiate (cfr. art. 7). Sono poi previste regole in tema di induzione, favoreggiamento, concorso e tentativo di abuso o di comunicazione illecita (art. 6), che costituiscono ulteriori fattispecie di reato, e di responsabilità delle persone giuridiche (art. 8). Quest’ultima, in particolare, si configura quando la carenza di vigilanza o controllo da parte di una delle persone che detengono una posizione apicale abbia reso possibile la commissione, a vantaggio dell’ente, di uno dei reati oggetto della Direttiva, ad opera di una persona sottoposta all’Autorità della persona all’apice. Sul piano sanzionatorio penale, la Direttiva definisce per le persone giuridiche un elenco aperto, vincolando gli Stati membri a ché sottopongano i soggetti responsabili a sanzioni pecuniarie di natura penale e non, effettive, proporzionate e dissuasive, e ad altre sanzioni quali l’interdizione, la liquidazione giudiziaria o la chiusura dei locali (art. 9). 35 Sentenza CEDU del 4 marzo 2014 – Ricorso n. 18640/10 – Grande Stevens e altri c. Italia. Ex multis v. ALESSANDRI (2014); FLICK (2014); FLICK-NAPOLEONI (2014); VENTORUZZO (2014), MONTALENTI (2015-II).

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Per quanto attiene alle sanzioni amministrative il MAR stabilisce che, per le persone fisiche, si applicano le sanzioni amministrative pecuniarie massime di almeno: i) 5 milioni di euro per l’abuso e per la comunicazione illecita di informazioni privilegiate; ii) 1 milione di euro per l’inosservanza degli obblighi derivanti dalla disciplina della segnalazione di operazioni sospette e della comunicazione al pubblico; iii) 500 mila euro per le violazioni concernenti l’insider list e l’insider dealing. Nei confronti, invece, delle persone giuridiche le sanzioni si attestano rispettivamente a i) 15 milioni (o 15% del fatturato): ii) 2,5 milioni (o 2% del fatturato); iii) 1 milione di euro. La Direttiva conferma l’intenzione di rafforzare l’impianto sanzionatorio connesso alla disciplina degli abusi di mercato. Non sembra, tuttavia, che tale obiettivo venga perseguito con la dovuta attenzione, posto che la Direttiva: i) non sembra escludere la facoltà per gli Stati membri di applicare la sanzione penale anche a ipotesi diverse da quelle previste dalla stessa; e ii) non introduce regole chiare per coordinare il piano delle sanzioni amministrative con quello della sanzione penale, lasciando irrisolte le gravi questioni già segnalate all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo, e da qualche tempo all’attenzione anche di altre Corti. In Italia, per ragioni (in parte) insondabili, il processo di allineamento a questi principi non si è ancora realizzato. Al momento in cui scriviamo, è tutt’ora vigente l’art. 184 TUF antecedente al MAR, che punisce con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 20.000 euro a 3.000.000 euro chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio; c) raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni indicate nella lett. a). La medesima pena si applica a chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate a motivo della preparazione o esecuzione di attività delittuose, compie taluna delle azioni di cui sopra: quest’ultima previsione, anch’essa derivante dalle norme europee, si è resa necessaria a causa del crescente rischio del coinvolgimento di organizzazioni criminali e gruppi terroristici in attività di market manipulation, con l’obiettivo di procurarsi mezzi per il finanziamento delle loro attività illecite.

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La disposizione del TUF trova il proprio corrispondente: – nell’art. 8, par. 1, MAR, in base al quale “si ha abuso di informazioni privilegiate quando una persona in possesso di informazioni privilegiate utilizza tali informazioni acquisendo o cedendo, per conto proprio o per conto di terzi, direttamente o indirettamente, gli strumenti finanziari cui tali informazioni si riferiscono”. Si noti, tuttavia, che la disposizione di rango europeo considera abuso di informazioni privilegiate “anche l’uso di dette informazioni tramite annullamento o modifica di un ordine concernente uno strumento finanziario al quale le informazioni si riferiscono quando tale ordine è stato inoltrato prima che la persona interessata entrasse in possesso di dette informazioni privilegiate”; – nell’art. 8, par. 2, MAR, che stabilisce che “si ha raccomandazione che un’altra persona compia abusi di informazioni privilegiate o induzione di un’altra persona a compiere abusi di informazioni privilegiate quando la persona è in possesso di informazioni privilegiate e: a) raccomanda, sulla base di tali informazioni, che un’altra persona acquisisca o ceda strumenti finanziari a cui tali informazioni si riferiscono o induce tale persona a effettuare l’acquisizione o la cessione; ovvero b) raccomanda, sulla base di tali informazioni, a un’altra persona di cancellare o modificare un ordine concernente uno strumento finanziario cui si riferiscono le informazioni o induce tale persona a effettuare la cancellazione o la modifica”. In particolare, il ricorso a raccomandazioni o induzioni di cui al par. 2 è inteso come abuso di informazioni privilegiate quando la persona che ricorre alla raccomandazione o all’induzione sa o dovrebbe sapere che esse si basano su informazioni privilegiate; – nell’art. 10, par. 1, MAR, in base al quale “ai fini del presente regolamento, si ha comunicazione illecita di informazioni privilegiate quando una persona è in possesso di informazioni privilegiate e comunica tali informazioni a un’altra persona, tranne quando la comunicazione avviene durante il normale esercizio di un’occupazione, una professione o una funzione” e nell’art. 10, par. 2, per il quale “la comunicazione a terzi delle raccomandazioni o induzioni di cui all’articolo 8, paragrafo 2, si intende come comunicazione illecita di informazioni privilegiate ai sensi del presente articolo allorché la persona che comunica la raccomandazione o l’induzione sa o dovrebbe sapere che esse si basano su informazioni privilegiate”. In definitiva, le condotte vietate dalla disciplina dell’insider trading sono tre. La prima condotta vietata consiste nell’acquistare, vendere, o comunque compiere operazioni su strumenti finanziari avvalendosi delle informazioni privilegiate. I soggetti destinatari del divieto sono tutti coloro che sono in possesso di un’informazione privilegiata, in funzione del ruolo ricoperto nella società, dell’attività o funzione svolta, o della partecipazione al capitale di una società (i cc.dd. insider primari) 36. L’insider, pertanto, può essere tanto un socio, quan36

V. MAR, art. 8, par. 4: “Il presente articolo si applica a qualsiasi persona che possie-

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to un soggetto che ha acquisito l’informazione in relazione alla sua funzione, o alla carica ricoperta: vi rientrano, ad esempio, non soltanto gli amministratori, i dirigenti, i dipendenti, i sindaci, i revisori, ma anche i consulenti, i professionisti in genere, e anche coloro che sono in possesso delle informazioni in virtù di funzioni “pubbliche” (si pensi, ad esempio, ai dipendenti delle Autorità di vigilanza e di controllo). In base all’art. 8 MAR, i divieti si applicano anche a “qualsiasi persona che possieda informazioni privilegiate per circostanze diverse da quelle di cui al primo comma, quando detta persona sa o dovrebbe sapere che si tratta di informazioni privilegiate”: ad esempio, chi ha ricevuto l’informazione da uno dei soggetti testè indicati (il c.d. insider “secondario”). Si richiede che l’operazione sia stata compiuta “utilizzando” l’informazione: l’inciso vale a porre in luce l’esigenza di dimostrare l’esistenza di un nesso tra il possesso dell’informazione, e l’utilizzo della stessa in vista dell’effettuazione delle operazioni: nesso che, tuttavia, spesso, nella prassi sia della giurisprudenza, sia della Consob, viene ricavato da indici presuntivi 37. La seconda condotta proibita consiste, come già si è visto, nel divieto di comunicare a terzi le informazioni privilegiate di cui si è in possesso, ad eccezione del caso in cui tale comunicazione avvenga “nel normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio” 38. La terza condotta vietata consiste, infine, nel raccomandare o indurre terzi a compiere taluna delle operazioni indicate. In questo caso, la condotta non presuppone necessariamente che l’informazione venga trasmessa al terzo: è sufficiente, infatti, che venga consigliata l’effettuazione di un’operazione, basandosi sul possesso di informazioni privilegiate. Si è già detto che l’elemento centrale dell’intera disciplina è rappresentato dalla nozione di “informazione privilegiata” 39, di cui si sono già esaminati i contorni. Ai fini che qui interessano, giova ribadire il profondo legame che continua a sussistere tra la comunicazione al pubblico delle informazioni “prida informazioni privilegiate per il fatto che: a) è membro di organi amministrativi, di direzione o di controllo dell’emittente o partecipante al mercato delle quote di emissioni; b) (detiene) una partecipazione al capitale dell’emittente o un partecipante al mercato delle quote di emissioni; c) ha accesso a tali informazioni nell’esercizio di un’occupazione, di una professione o di una funzione; oppure d) è coinvolto in attività criminali”. 37 Sul punto v. la sentenza della Corte di Giustizia CE del 23 dicembre 2009, n. 45 (caso Spector Photo Group NV), con la quale la Corte ha precisato i termini della questione, fornendo al contempo l’interpretazione, reputata corretta, dell’art. 2, n. 1 della Direttiva 2003/6. 38 Per un esame della restrittiva posizione adottata, su questo tema, dalla giurisprudenza comunitaria v. ANNUNZIATA (2007). 39 BARTALENA (1999); SEMINARA (2002); GIAVAZZI (2010).

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vilegiate” e la repressione dell’insider trading. L’introduzione di un articolato sistema di obblighi di comunicazione al pubblico delle informazioni price sensitive si pone, infatti, come uno degli strumenti principali per la stessa prevenzione dell’insider trading: è evidente che se le informazioni rilevanti vengono portate immediatamente a conoscenza del mercato, il soggetto che si trova in posizione di “privilegio” perde il proprio vantaggio, e si riduce conseguentemente il rischio che si verifichino comportamenti illeciti. Si tratta, in verità, di un profilo assolutamente centrale della disciplina di cui si discute: l’esperienza non soltanto italiana, ma anche estera, dimostra l’estrema difficoltà di accertare e sanzionare l’insider trading, in specie quando tale condotta assume rilevanza penale: è dunque soltanto un’efficace attività di prevenzione del fenomeno che può contribuire alla risoluzione del problema 40. Da ultimo, si osservi che, in base all’art. 182 TUF, il reato di insider trading è punito secondo la legge italiana, anche se commesso all’estero, quando attiene a strumenti finanziari ammessi o per i quali è stata presentata domanda di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un MTF italiano 41.

3.1. (Segue): l’abuso di informazioni privilegiate. Le sanzioni amministrative La materia dell’abuso di informazioni privilegiate si accompagna a sanzioni amministrative, che hanno vocazione ad aggiungersi a quelle penali. L’introduzione di sanzioni amministrative era già, peraltro, una scelta obbligata in virtù del disposto della Direttiva 2003/6/CE (art. 14), la quale stabiliva anche che le sanzioni avrebbero dovuto essere “efficaci, proporzionate e dissuasive”; di converso, la disciplina comunitaria configurava come facoltà degli Stati membri l’applicazione (anche) di sanzioni penali. Ora, la disciplina introdotta dal MAR, obbliga gli Stati membri a prevedere anche sanzioni penali. Sul piano amministrativo, dunque, l’art. 187-bis TUF prevede l’irrogazione di sanzioni amministrative per le stesse ipotesi che, in base all’art. 184 TUF, configurano il reato di abuso di informazioni privilegiate A differenza delle fattispecie sanzionate sul piano penale, quelle rilevanti sul piano delle sanzioni amministrative contemplano però anche l’ipotesi dell’abuso 40

È dubbio se ed in che limiti la violazione dei divieti previsti dalla disciplina sull’insider trading possa comportare anche obblighi di natura risarcitoria nei confronti degli investitori che abbiano subito danni in dipendenza del non fisiologico andamento del mercato. Per una ricostruzione del problema e analisi di alcuni precedenti giurisprudenziali, tra i quali il caso SCI deciso dalla Corte di Cassazione il 3 luglio 2014, v. PARISI (2014). 41 Per considerazioni più generali sull’utilizzo della sanzione penale nella disciplina posta a tutela del risparmio v. ALESSANDRI (2007), D’ALESSANDRO (2014).

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commesso da chiunque, in possesso di informazioni privilegiate, conoscendo o potendo conoscere in base ad ordinaria diligenza il carattere privilegiato delle stesse, compie taluno dei fatti vietati: in tale categoria rientrano, tipicamente, gli insider cc.dd. “secondari”.

4. La manipolazione del mercato Il secondo filone lungo il quale si snoda la disciplina comunitaria degli abusi di mercato è rappresentato dalla cosiddetta “manipolazione del mercato”. La materia della manipolazione del mercato non era, prima dell’intervento del legislatore comunitario, ignota al sistema italiano, essendo in parte riconducibile al divieto di aggiotaggio 42. La dimensione del concetto di “manipolazione” che emerge dal contesto europeo è, tuttavia, ben più ampia: essa comprende, infatti, comportamenti che in precedenza non erano sussumibili nella nozione di aggiotaggio e, soprattutto, si accompagna all’introduzione di nuovi e complessi strumenti di prevenzione e repressione delle condotte illecite 43.

4.1. Le condotte manipolative L’attuazione della disciplina comunitaria ha seguito, per la manipolazione del mercato, uno schema in parte diverso da quello relativo al divieto di utilizzazione di informazioni privilegiate. Se, infatti, in tema di insider trading, le condotte vietate sul piano amministrativo tendenzialmente coincidono con quelle vietate sul piano penale, in materia di manipolazione le fattispecie non sono coincidenti 44. Anche in tema di manipolazione del mercato trova innanzitutto applicazione l’art. 182 TUF, il quale identifica l’ambito di applicazione della disciplina: i reati e gli illeciti sono pertanto puniti secondo la legge italiana, anche se commessi all’estero, qualora attengano a strumenti finanziari ammessi o per i quali sia stata presentata richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato italiano o in un sistema multilaterale di negoziazione. Ciò detto, sul piano delle condotte sanzionate penalmente, l’art. 185 TUF sanziona la condotta di “chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri 42

Il reato di aggiotaggio, previsto dall’originario art. 181 TUF, è ora contemplato dall’art. 2637 c.c., relativamente agli strumenti non quotati. 43 Cfr. AGNINO (2007). 44 Cfr. per un’analisi complessiva D’ALESSANDRO (2010).

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artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari 45”. La disposizione ruota attorno a due poli: la diffusione di informazioni false, e il compimento di “operazioni simulate, o altri artifizi”. Emergono così i due tratti caratteristici delle pratiche manipolative, rispettivamente rappresentati dalla manipolazione “informativa” (ossia, quella che si realizza senza il materiale compimento di operazioni sul mercato, ma con la diffusione di informazioni al mercato stesso), e la manipolazione derivante dal compimento di “operazioni o altri artifizi”. Come avremo modo di illustrare, le due dimensioni si ritrovano anche negli illeciti amministrativi, ma vengono poi declinati, in tale ambito, in modo più analitico. In secondo luogo, le condotte penalmente rilevanti richiedono un elemento che non si riscontra nella definizione delle condotte che possono assumere rilievo sul piano amministrativo: esse, infatti, devono essere “concretamente” idonee a provocare “una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari”. Le condotte che si collocano al di sotto di questa soglia (che dovrà essere di volta in volta identificata) non assumono, pertanto, rilevanza ai fini di un’eventuale incriminazione del soggetto sul piano penale. Ben più “frastagliata” risulta, di contro, la definizione di manipolazione del mercato rilevante sul piano amministrativo, contenuta nell’art. 187-ter TUF, e direttamente ricavata dai testi comunitari, ai quali è opportuno riferirsi in quanto, come già detto, di diretta applicazione, e sovraordinati, alle norme interne. Analogamente all’abuso di informazioni privilegiate, il Regolamento europeo reca, innanzitutto, un divieto specifico: l’art. 15 prevede, infatti, che “non è consentito effettuare manipolazioni di mercato o tentare di effettuare manipolazioni di mercato”. Con l’espressione “manipolazione del mercato” ci si riferisce ad un insieme di comportamenti (variamenti configurati) che si sostanziano per o determinano una perturbazione nelle condizioni di fisiologico funzionamento del mercato mobiliare. Il tratto comune delle varie condotte illecite è rappresentato dall’utilizzo distorto (“manipolazione”) dei meccanismi su cui poggia il funzionamento del mercato: a titolo esemplificativo potrà trattarsi, di volta in volta, della diffusione di informazioni false, idonee ad influenzare il comportamento degli investitori; del compimento di operazioni il cui effetto è di perturbare la regolare dinamica del mercato; del compimento di operazioni fittizie, poste in essere al fine di fornire l’apparenza di condizioni altrimenti non presenti sul mercato (prezzi, quantitativi scambiati, ecc.), o di altre condotte aventi contenuti o effetti consimili. Il MAR riprende – fin dal livello definitorio – le previgenti disposizioni del-

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La sanzione prevista dall’art. 185 TUF è la reclusione da uno a sei mesi e la multa da 20.000 euro a 5 milioni di euro.

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la Direttiva 2003/6/CE. Configurano, così, esempi di manipolazione del mercato le seguenti condotte: a) l’effettuazione di operazioni o ordini di compravendita che hanno l’effetto di fornire indicazioni false o fuorvianti circa la situazione di mercato (i.e. domanda e offerta, e prezzo) di un determinato strumento, o che consentano di fissare il prezzo di strumenti finanziari ad un livello anormale o artificiale; b) l’effettuazione di operazioni o ordini in grado di incidere sul prezzo di un strumento, utilizzando “artifizi o ogni altro tipo di inganno o espediente”; c) la diffusione di informazioni che forniscano segnali falsi e fuorvianti in merito alla situazione di mercato di strumenti finanziari o che consentano di fissare un prezzo di mercato ad un livello anormale o artificiale. La nozione di condotta manipolativa, recata dall’art. 12 MAR, consolida dunque indicazioni e orientamenti derivanti dal sistema previgente, aggiungendo però una quarta categoria, che costituisce un ibrido rispetto alle precedenti e che amplia il novero degli oggetti delle condotte manipolative: si tratta segnatamente della diffusione di informazioni e dati falsi e fuorvianti in merito ad un indice di riferimento, ovvero qualsiasi altra condotta che ne manipola il calcolo. Tale fattispecie nasce come risposta allo scandalo Libor-Euribor del 2012 che ha mostrato tutta la vulnerabilità del processo di determinazione degli indici ai tentativi di manipolazione e che ha prodotto una cascata di riforme di portata internazionale, ben al di là dell’ambito d’origine dello scandalo 46. La definizione delle condotte che possono rientrare nella nozione di “manipolazione del mercato” non è priva di aspetti problematici. Stabilire il confine tra l’attività speculativa che si svolge sui mercati (di per sé lecita) e i comportamenti che, di contro, dovrebbero essere censurati, richiede e presuppone non soltanto una chiara identificazione delle condotte vietate, ma anche una valutazione a monte del modello “ideale” di buon funzionamento del mercato mobiliare stesso, e dei comportamenti che si ritiene di dover censurare. La disciplina della manipolazione del mercato – tanto comunitaria, quanto di altri 46 Il meccanismo di determinazione del Libor prevede che un gruppo di banche presenti sulla piazza di Londra comunichi a Thomson Reuters (che agisce in qualità di agente della British Bankers’Association) i tassi di interesse ai quali queste sono disposte a prendere a prestito fondi sul mercato interbancario. La falla di tale meccanismo risiede nel fatto che i tassi comunicati, oltre ad essere scarsamente contestabili, non sono necessariamente pari a quelli effettivamente in uso sul mercato, e quindi (in teoria) determinati dall’interazione domanda-offerta, ma possono rispecchiare stime effettuate dalle banche stesse. L’abuso si è, dunque, configurato quando i tassi comunicati non rispecchiavano i tassi che le banche sarebbero state disposte ad accettare in pratica. Riguardo all’Euribor, invece, il rischio – per quanto insito nello stesso meccanismo di definizione del tasso – è smorzato dal fatto che le banche che partecipano alla determinazione del tasso sono un numero molto maggiore rispetto a quelle del Libor.

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Paesi extra-UE, primi fra tutti gli Stati Uniti d’America – poggia solidamente sull’analisi economica, e sulle teorizzazioni che, pur con diversi approcci, descrivono i meccanismi di funzionamento dei mercati mobiliari. Il substrato della disciplina della manipolazione, pertanto, non risiede soltanto nei concetti e nei divieti (giuridici) della frode, del dolo, dell’abuso, ma – diremmo innanzitutto – nelle teorie economiche sul funzionamento dei mercati mobiliari e, in tale ambito, soprattutto in quelle dei cc.dd. “mercati efficienti”: per tale motivo, si tratta di una materia che richiede un approccio del tutto nuovo, nel quale analisi economica e profili giuridici sono inscindibilmente connessi. L’identificazione delle pratiche manipolative, a questo livello, è lungi dall’offrire elementi, di per sé, conclusivi, e idonei ad individuare inequivocabilmente le condotte manipolative: le nozioni di “livello anomalo”, “artifizio”, “inganno”, ecc. richiedono necessariamente ulteriore specificazione, da svolgersi anche alla luce dello schema di riferimento del mercato mobiliare che si assume a fondamento della disciplina degli abusi di mercato (teoria dei mercati efficienti, ecc.). La soluzione offerta dal MAR è essenzialmente la stessa già proposta con la Direttiva previgente. La disciplina in commento prevede, infatti, da una parte, un elenco di condotte che configurano senz’altro la fattispecie di manipolazione del mercato e, dall’altra, un elenco non tassativo degli indicatori – né esaustivi, né conclusivi – cui i partecipanti al mercato e le autorità competenti devono rifarsi nell’esame delle operazioni o degli ordini di compravendita. Per quanto al primo catalogo – esposto al par. 2, dell’art. 12 MAR – si annoverano ora: a) la condotta di una o più persone che agiscono in collaborazione per acquisire una posizione dominante sull’offerta o sulla domanda di uno strumento finanziario, che abbia, o è probabile che abbia, l’effetto di fissare, direttamente o indirettamente, i prezzi di acquisto o di vendita o ponga in atto, o è probabile che lo faccia, altre condizioni commerciali non corrette; b) l’acquisto o la vendita di strumenti finanziari all’apertura o alla chiusura del mercato, con l’effetto o il probabile effetto di fuorviare gli investitori che agiscono sulla base dei prezzi esposti, compresi i prezzi di apertura e di chiusura; c) l’inoltro di ordini in una sede di negoziazione, comprese le relative cancellazioni o modifiche, con ogni mezzo disponibile di negoziazione, anche attraverso mezzi elettronici, come le strategie di negoziazione algoritmiche e ad alta frequenza, e che esercita uno degli effetti di cui alle lett. a) o b), in quanto: i) interrompe o ritarda, o è probabile che interrompa o ritardi, il funzionamento del sistema di negoziazione della sede di negoziazione; ii) rende più difficile per gli altri gestori individuare gli ordini autentici sul sistema di negoziazione della sede di negoziazione, o è probabile che lo fac-

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cia, anche emettendo ordini che risultino in un sovraccarico o in una destabilizzazione del book di negoziazione (order book) degli ordini; oppure iii) crea, o è probabile che crei, un segnale falso o fuorviante in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di uno strumento finanziario, in particolare emettendo ordini per avviare o intensificare una tendenza; d) trarre vantaggio da un accesso occasionale o regolare ai mezzi di informazione tradizionali o elettronici diffondendo una valutazione su uno strumento finanziario, un contratto a pronti su merci collegato o un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni (o indirettamente sul suo emittente) dopo aver precedentemente preso delle posizioni su tale strumento finanziario, contratto a pronti su merci collegato o prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni, beneficiando successivamente dell’impatto della valutazione diffusa sul prezzo di detto strumento, contratto a pronti su merci collegato o prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni, senza aver contemporaneamente comunicato al pubblico, in modo corretto ed efficace, l’esistenza di tale conflitto di interessi; e) l’acquisto o la vendita sul mercato secondario, in anticipo sull’asta tenuta ai sensi del Regolamento UE n. 1031/2010, di quote di emissioni o dei relativi strumenti derivati, con l’effetto di fissare il prezzo di aggiudicazione dell’asta a un livello anormale o artificiale o di indurre in errore gli altri partecipanti all’asta. Si deve osservare che, nonostante le condotte sopra riportate costituiscano in una certa misura esempi certi di manipolazione di mercato, permangono in realtà talune caratteristiche soggette ad interpretazione: ciò è particolarmente vero giacché ci si trovi a dover stabilire quando un prezzo si attesta su di una condizione “non corretta”, o quando un comportamento ha un effetto “fuorviante” per gli investitori. Per quanto, poi, agli indicatori che non devono essere necessariamente considerati una manipolazione di mercato e fatti salvi i tipi di condotta sopra menzionati, il MAR presenta all’Allegato I due elenchi di indici da considerare al fine di stabilire a) la sussistenza di un’eventuale pratica manipolativa, ovvero connessi a segnali falsi o fuorvianti e alla fissazione dei prezzi, e b) un elenco non tassativo di indicatori connessi all’utilizzo di artifici o di qualsiasi altra forma di inganno o espediente. Fra i primi si contano: a) la misura in cui ordini di compravendita inoltrati o operazioni avviate rappresentano una quota significativa del volume giornaliero di scambi nello strumento finanziario pertinente, nel contratto a pronti su merci collegato, o prodotti oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni, in particolare quando tali attività determinano una significativa variazione dei prezzi; b) la misura in cui ordini di compravendita inoltrati o operazioni avviate da

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persone con un’importante posizione di acquisto o di vendita in uno strumento finanziario, in un contratto a pronti su merci collegato, o in un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni, determinano significative variazioni nel prezzo di quello strumento finanziario, del contratto a pronti su merci collegato o del prodotto oggetto d’asta sulla base quote di emissioni; c) se le operazioni avviate non portano a modificare la titolarità economica di uno strumento finanziario, di un contratto a pronti su merci collegato o di un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni; d) la misura in cui gli ordini di compravendita inoltrati o le operazioni avviate o gli ordini annullati prevedono inversioni di posizione nel breve periodo e rappresentano una quota significativa del volume giornaliero di scambi nel relativo strumento finanziario, in un contratto su merci a pronti collegato o in un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni, e possono essere associati a significative variazioni del prezzo di uno strumento finanziario, un contratto su merci a pronti collegato o un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni; e) la misura in cui gli ordini di compravendita inoltrati o le operazioni avviate sono concentrati in un breve lasso di tempo nel corso della sessione di negoziazione e determinano una variazione del prezzo che successivamente si inverte; f) la misura in cui gli ordini di compravendita inoltrati modificano la rappresentazione dei migliori prezzi delle proposte in denaro o lettera di uno strumento finanziario, di un contratto su merci a pronti collegato o di un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni o, più in generale, la rappresentazione del book di negoziazione (order book) a disposizione dei partecipanti al mercato, e sono revocati prima della loro esecuzione; e g) la misura in cui vengono inoltrati gli ordini di compravendita o vengono avviate le operazioni nel momento in cui vengono calcolati i prezzi di riferimento, i prezzi di regolamento e le valutazioni, determinando variazioni nei prezzi che hanno effetti su detti prezzi e valutazioni. Per quanto, invece, ai secondi, ovvero agli indicatori di manipolazioni consistenti nell’utilizzazione di altri tipi di inganno o espediente, si considera: a) se gli ordini di compravendita inoltrati o le operazioni avviate da determinate persone sono preceduti o seguiti dalla diffusione di informazioni false o fuorvianti da parte delle stesse persone o da persone a esse collegate; e b) se vengono inoltrati ordini di compravendita o avviate operazioni da parte di determinate persone, prima o dopo che le stesse persone o persone a esse collegate abbiano elaborato o diffuso raccomandazioni di investimento che sono errate o tendenziose o manifestamente influenzate da interessi determinanti. Ulteriori elementi, utili al fine di meglio specificare quanto emerge dall’Al-

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legato I al MAR, risultano dall’Allegato II al Regolamento (UE) 17 dicembre 2015, n. 2016/522. I vari “indici” sono di volta in volta caratterizzati da elementi diversi: il tratto distintivo è tuttavia rappresentato dal carattere “anormale” dell’operazione, che di volta in volta può essere costituito dalle sue dimensioni, dal momento di esecuzione, dal suo impatto sul mercato, dalla sua concomitanza con la diffusione di informazioni fuorvianti ecc.: la manipolazione, cioè, distorce il funzionamento del mercato mediante il compimento di operazioni, ordini, o mediante la tenuta di comportamenti non conformi a canoni di trasparenza ed efficienza. Ciò detto, e con specifico riferimento all’art. 187-ter TUF, questa disposizione sanziona sul piano amministrativo la manipolazione del mercato identificandola in cinque condotte: i) la diffusione di informazioni, voci o notizie false o fuorvianti, che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari (art. 187-ter, comma 1); ii) il compimento di operazioni o ordini di compravendita che forniscano o siano idonei a fornire indicazioni false o fuorvianti in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di strumenti finanziari (comma 3, lett. a); iii) il compimento di operazioni od ordini di compravendita che consentono, tramite l’azione di una o più persone che agiscono di concerto, di fissare il prezzo di mercato di uno o più strumenti finanziari ad un livello anomalo o artificiale (comma 3, lett. b); iv) il compimento di operazioni o ordini di compravendita che utilizzano artifizi od ogni altro tipo di inganno o espediente (comma 3, lett. c); v) altri artifizi idonei a fornire indicazioni false o fuorvianti in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di strumenti finanziari (comma 3, lett. d). 4.1.1. Le Linee Guida del CESR L’identificazione dei “confini” della manipolazione del mercato non è un compito a cui i regolatori possono rinunciare. L’esigenza di reprimere le condotte che distorcono il regolare funzionamento dei mercati mobiliari non può, infatti, andare a scapito della certezza della regolamentazione, e dell’esigenza di tracciare con la maggior chiarezza possibile il confine tra le pratiche illecite e quelle, invece, consentite (in quanto espressione di una fisiologica attività speculativa sul mercato). A tal fine, il CESR ha individuato, nelle proprie Linee Guida, una nutrita serie di “esemplificazioni” di pratiche manipolative 47. Si tratta di 47

V. CESR/04-505b, Market Abuse Directive. Level 3 – First set of guidance and infor-

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indicazioni che assumono un peso assolutamente determinante nella valutazione di presunti comportamenti manipolativi: le fattispecie sanzionatorie, individuate dalla normativa primaria e secondaria, lasciano infatti – come si è visto – notevoli margini di interpretazione, che inevitabilmente saranno “colmati” facendo riferimento, innanzitutto, al documento elaborato dal CESR 48. Con riguardo alle esemplificazioni fornite dal Comitato 49 si possono formation on the common operation of the Directive, seguito da un secondo (CESR 06/562) e da un terzo gruppo di Linee Guida (CESR/09-220. Queste Linee Guida – che sono state fatte proprie dall’ESMA – sono state adottate in Italia anche dalla Consob. 48 L’osservazione è tanto più condivisibile là dove si osservi che la Consob fa – come le altre Autorità di vigilanza comunitarie – parte dell’ESMA, e che l’irrogazione delle sanzioni amministrative per i casi di manipolazione del mercato è rimessa alla stessa Commissione. 49 Nel testo, in lingua italiana, contenuto nella Comunicazione Consob (di cui si riporta la versione riferita alle prime Linee Guida emanate) le esemplificazioni sono riferite direttamente alle varie fattispecie individuate dall’art. 187-ter, e segnatamente: 1. Esempi riferiti all’art. 187-ter, comma 3, lett. a), del Testo Unico, c.d. “False/Misleading Transactions” (Operazioni false o fuorvianti). a) Wash trades (Operazioni fittizie). Questo comportamento consiste nell’effettuare operazioni di acquisto o di vendita di uno strumento finanziario senza che si determini alcuna variazione negli interessi o nei diritti o nei rischi di mercato del beneficiario delle operazioni o dei beneficiari che agiscono di concerto o in modo collusivo. (Le operazioni di riporto o di prestito titoli o le altre operazioni che prevedono il trasferimento di strumenti finanziari in garanzia non costituiscono di per sé manipolazione del mercato). b) Painting the tape (Artefare il quadro delle operazioni). Questo comportamento consiste nell’effettuare un’operazione o una serie di operazioni che vengono mostrate al pubblico, anche su strutture telematiche o elettroniche, per fornire l’apparenza di una attività o di un movimento dei prezzi di uno strumento finanziario. c) Improper matched orders (Ordini abbinati in modo improprio). Operazioni che derivano da ordini di acquisto e di vendita immessi da soggetti che agiscono di concerto contemporaneamente ovvero quasi allo stesso momento, aventi gli stessi prezzi e gli stessi quantitativi; salvo che questi ordini siano legittimi ed effettuati in conformità alle regole del mercato (ad esempio, cross orders). d) Placing orders with no intention of executing them (Inserimenti di ordini nel mercato senza l’intenzione di eseguirli). Questo comportamento implica l’inserimento di ordini, specie nei mercati telematici, a prezzi più alti (bassi) di quelli delle proposte presenti dal lato degli acquisti (vendite). L’intenzione sottostante agli ordini non è quella di eseguirli ma di fornire indicazioni fuorvianti dell’esistenza di una domanda (offerta) sullo strumento finanziario a tali prezzi più elevati (bassi). (Una variante di questo comportamento consiste nell’inserimento di un ordine per quantitativi minimi in modo da muovere il prezzo delle migliori proposte in acquisto o in vendita sullo strumento finanziario con l’intenzione di non eseguirlo, ma rimanendo eventualmente disponibili all’esecuzione qualora non si riesca a ritirarlo in tempo). 2. Esempi riferiti all’art. 187-ter, comma 3, lett. b), del Testo Unico, c.d. “Price Positioning” (Operazioni che fissano i prezzi a livelli anomali o artificiali). a) Marking the close (Segnare il prezzo in chiusura). Questo comportamento consiste nell’acquistare o nel vendere intenzionalmente strumenti finanziari o contratti derivati ver-

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mulareatalune considerazioni più generali. Un primo elemento attiene, nuoso la fine delle negoziazioni in modo da alterare il prezzo finale dello strumento finanziario o del contratto derivato. Questo comportamento può essere posto in essere in qualsiasi giorno di negoziazione, ma è spesso associato ai giorni in cui scadono contratti derivati o ai giorni in cui vengono calcolate, annualmente o trimestralmente, le commissioni su portafogli gestiti o su fondi comuni o ai giorni in cui vengono valutati o indicizzati contratti o obbligazioni. b) Colluding in the after market of an Initial Public Offer (Colludere sul mercato secondario dopo un collocamento effettuato nell’ambito di un’offerta al pubblico). Questo comportamento è di solito associato alle operazioni che si effettuano sul mercato secondario appena terminano i collocamenti. I soggetti che hanno acquisito strumenti finanziari nel mercato primario acquistano di concerto ulteriori quantitativi sul mercato secondario in modo da spingere il prezzo verso livelli artificiali e da generare l’interesse da parte di altri investitori così da vendere loro i quantitativi che detenevano in portafoglio. c) Abusive squeeze (Comprimere in modo abusivo il mercato). Questo comportamento prevede che i soggetti che hanno una significativa influenza sulla domanda o sull’offerta o sulla consegna di uno strumento finanziario o di un prodotto sottostante a uno strumento finanziario derivato abusano della posizione dominante in modo da distorcere significativamente il prezzo al quale altri operatori sono obbligati, per l’assolvimento dei loro impegni, a consegnare o ricevere o rinviare la consegna dello strumento finanziario o del prodotto sottostante. (Si deve tenere presente che: 1) la regolare interazione della domanda e dell’offerta può condurre, e spesso conduce, a rigidità nel mercato, ma questo fatto non implica di per sé una manipolazione del mercato; 2) disporre di una significativa influenza sulla domanda o sull’offerta o sulla consegna di uno strumento finanziario o di un prodotto sottostante non costituisce di per sé una manipolazione del mercato.) d) Creation of a floor in the price pattern (Costituzione di una soglia minima al corso dei prezzi). Questo comportamento è di solito posto in essere dalle società emittenti o dai soggetti che le controllano. Si concludono operazioni o si inseriscono ordini in modo tale da evitare che i prezzi di mercato scendano al disotto di un certo livello, principalmente per sottrarsi alle conseguenze negative derivanti dal connesso peggioramento del rating degli strumenti finanziari emessi. Questo comportamento deve essere tenuto distinto dalla conclusione di operazioni rientranti nei programmi di acquisto di azioni proprie o nella stabilizzazione degli strumenti finanziari previsti dalla normativa. e) Excessive bid-ask spread (Eccessive quotazioni “denaro-lettera”). Questo comportamento è di solito posto in essere da intermediari – quali gli specialisti o i market makers che operano di concerto – che abusando del loro potere di mercato posizionano e/o mantengono intenzionalmente il bid-ask spread su livelli artificiali e/o lontani dal fair value. f) Trading on one market to improperly position the price of a financial instrument on a related market (Operazioni effettuate in un mercato per influenzare impropriamente i prezzi di uno strumento finanziario in un mercato correlato). Questo comportamento prevede la conclusione di operazioni in un mercato su uno strumento finanziario con la finalità di influenzare impropriamente il prezzo dello stesso strumento finanziario o di altri strumenti finanziari collegati negoziati sullo stesso o su altri mercati. Ad esempio, concludere operazioni su azioni per fissare il prezzo del relativo strumento finanziario derivato negoziato su un altro mercato a livelli anomali, oppure effettuare operazioni sul prodotto sottostante a uno strumento finanziario derivato per alterare il prezzo dei relativi contratti derivati. (Le operazioni di arbitraggio non costituiscono di per sé manipolazione del mercato. 3. Esempi riferiti all’art. 187-ter, comma 3, lett. c), del Testo Unico, c.d. “Transactions

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involving fictitious devices / deception” (Operazioni che utilizzano artifizi, inganni o espedienti). a) Concealing ownership (Celare la proprietà). Questo comportamento prevede la conclusione di un’operazione o di una serie di operazioni per nascondere quale sia la vera proprietà su uno strumento finanziario, tramite la comunicazione al pubblico – in violazione alle norme che regolano la trasparenza degli assetti proprietari – della proprietà di strumenti finanziari a nome di altri soggetti collusi. La comunicazione al pubblico risulta fuorviante rispetto alla vera proprietà degli strumenti finanziari. (Questo comportamento non riguarda i casi in cui esistono motivi legittimi che consentono l’intestazione degli strumenti finanziari in nome di un soggetto diverso dal proprietario. Inoltre, una scorretta comunicazione di una partecipazione rilevante non implica necessariamente una manipolazione del mercato. b) Dissemination of false or misleading market information through media, including the Internet, or by any other means (Diffusione di informazioni di mercato false o fuorvianti tramite mezzi di comunicazione, compreso Internet, o tramite qualsiasi altro mezzo). Questo comportamento è effettuato con l’intenzione di muovere il prezzo di un titolo, di un contratto derivato o di un’attività sottostante verso una direzione che favorisce la posizione aperta su tali strumenti finanziari o attività o favorisce un’operazione già pianificata dal soggetto che diffonde l’informazione. c) Pump and dump (Gonfiare e scaricare). Questo comportamento consiste nell’aprire una posizione lunga su uno strumento finanziario e quindi nell’effettuare ulteriori acquisti e/o diffondere fuorvianti informazioni positive sullo strumento finanziario in modo da aumentarne il prezzo. Gli altri partecipanti al mercato vengono quindi ingannati dal risultante effetto sul prezzo e sono indotti ad effettuare ulteriori acquisti. Il manipolatore vende così gli strumenti finanziari a prezzi più elevati. d) Trash and cash (Screditare e incassare). Questo comportamento è esattamente l’opposto del “pump and dump”. Un soggetto prende una posizione ribassista su uno strumento finanziario ed effettua un’ulteriore attività di vendita e/o diffonde fuorvianti informazioni negative sullo strumento finanziario in modo da ridurne il prezzo. Il manipolatore chiude così la posizione dopo la caduta del prezzo. e) Opening a position and closing it immediately after its public disclosure (Aprire una posizione e chiuderla immediatamente dopo che è stata resa nota al pubblico). Questo comportamento è di solito posto in essere da grandi investitori o da gestori di patrimoni le cui scelte di investimento sono considerate dagli altri partecipanti al mercato come indicazioni rilevanti per la stima del futuro andamento dei prezzi. Tipicamente la condotta consiste nell’aprire una posizione e, quindi, nel chiuderla immediatamente dopo aver comunicato al pubblico di averla aperta, enfatizzando l’obiettivo di lungo periodo dell’investimento. Comunque, il comunicato al pubblico non assume di per sé alcun connotato manipolativo se è richiesto esplicitamente dalla disciplina o se è dalla stessa permesso. 4. Esempi riferiti all’art. 187-ter, comma 1, del Testo Unico, c.d. “Dissemination of false and misleading information” (Diffusione di informazioni false o fuorvianti). Questo tipo di manipolazione del mercato implica la diffusione di informazioni false o fuorvianti senza richiedere necessariamente la presenza di operazioni sul mercato. Questo tipo di manipolazione del mercato comprende anche i casi in cui la creazione dell’indicazione fuorviante deriva da un mancato rispetto della disciplina in materia di comunicazione di informazioni rilevanti soggette a obblighi di comunicazione da parte dell’emittente o di altri soggetti obbligati. Per esempio, quando un emittente omette di diffondere adegua-

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vamente, all’impostazione adottata. Anche in questo caso – come già si è visto con riferimento alle disposizioni legislative e regolamentari – permangono pur sempre spazi, più o meno ampi, di interpretazione. Un ulteriore elemento degno di nota è rappresentato dalla necessità o meno di provare la sussistenza dell’intento manipolativo o del dolo specifico in capo all’agente. Le esemplificazioni, spesso, sembrano presupporre la necessità di dimostrare la presenza di tale elemento in capo all’agente: tuttavia, va osservato che l’art. 187-ter TUF e, più a monte, le Direttive non vi fanno esplicito riferimento: non sembra, pertanto, necessario, al fine di integrare gli estremi della manipolazione del mercato, che venga sempre fornita la prova di tale elemento psicologico. Infine, un ultimo profilo attiene al contenuto delle esemplificazioni: in molti casi, si tratta di esempi ormai ampiamente consolidati, tratti dall’esperienza e dalla letteratura internazionale in materia di market abuse, (ad esempio i cc.dd. “wash trades”; la trasmissione di ordini senza intenzione di eseguirli; l’operatività in fase di chiusura del mercato; il “comprimere in modo abusivo” il mercato, ecc.). Ciò, ovviamente, finisce per rafforzare ulteriormente la valenza delle esemplificazioni. Di certo, lo sforzo compiuto per introdurre, anche nei sistemi europei, una regolamentazione uniforme degli abusi di mercato, accompagnata da misure deterrenti e sanzionatorie efficaci (v. infra) appare imponente. Al contempo, non si può mancare di avvertire, di fronte alla regolamentazione sin qui emanata, anche un senso di incompiutezza, che probabilmente soltanto la stratificazione, nel tempo, di precedenti di vario genere potrà colmare. Molti elementi delle varie fattispecie restano, infatti – nonostante il poderoso sforzo regolamentare – caratterizzati da non esigui margini di incertezza interpretativa; le esemplificazioni introdotte a vari livelli non assumono mai carattere esaustivo, e dunque lasciano aperta la strada a valutazioni ulteriori, inevitabilmente rimesse all’Autamente un’informazione privilegiata, come definita dall’art. 114, comma 1, e il risultato è che il pubblico venga plausibilmente fuorviato. a) Spreading false/misleading information through the media (Diffusione di informazioni false o fuorvianti tramite mezzi di comunicazione). Questo comportamento comprende l’inserimento di informazioni su Internet o la diffusione di un comunicato stampa che contengono affermazioni false o fuorvianti su una società emittente. Il soggetto che diffonde l’informazione è consapevole che essa è falsa o fuorviante e che è diffusa al fine di creare una falsa o fuorviante apparenza. La diffusione di informazioni false o fuorvianti tramite canali ufficiali di comunicazione è particolarmente grave in quanto i partecipanti al mercato tendono a fidarsi delle informazioni diffuse tramite tali canali. b) Other behaviour designed to spread false/misleading information (Altri comportamenti preordinati alla diffusione di informazioni false o fuorvianti). Questo tipo di manipolazione del mercato comprende le condotte progettate per fornire indicazioni false o fuorvianti tramite canali diversi dai mezzi di comunicazione di massa. Ad esempio, il movimento fisico di merci che crea un’apparenza fuorviante sulla domanda o sull’offerta di una merce o sulla consegna per un contratto future su merci.

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torità di controllo, o al giudice; infine, anche taluni elementi “di vertice” (in particolare, la necessità o meno della presenza dell’elemento psicologico del dolo o dell’intento manipolativo, nelle diverse fattispecie) non sono chiaramente definiti. 4.1.2. Le prassi di mercato ammesse La disciplina europea della manipolazione di mercato ha inteso attribuire diretta rilevanza, al fine dell’identificazione degli illeciti, alle operazioni effettuate secondo gli standard osservati nei relativi mercati. Il Considerando 42 del MAR è chiaro a riguardo: “Fatte salve la finalità del presente regolamento e le sue disposizioni direttamente applicabili, una persona che compie operazioni o inoltra ordini di compravendita che possano essere configurati come manipolazione del mercato può essere in grado di dimostrare che le sue motivazioni per compiere tali operazioni o inoltrare tali ordini erano legittime, e che dette operazioni e ordini erano conformi alle prassi ammesse sul mercato in questione. Una prassi di mercato ammessa può essere determinata solo dall’autorità competente responsabile della sorveglianza degli abusi di mercato per il mercato interessato. Una prassi ammessa in un determinato mercato non può essere considerata applicabile ad altri mercati, a meno che le autorità competenti di tali altri mercati non abbiano ufficialmente accettato tale prassi. Si può tuttavia reputare che si sia verificata una violazione qualora l’autorità competente stabilisca l’esistenza di un’altra motivazione, illegittima, alla base delle operazioni o degli ordini”. La ratio sottostante a tale impostazione è, evidentemente, fare in modo che le regole introdotte riflettano il più possibile il modus operandi prevalente sui mercati di riferimento e che, pertanto, prassi e comportamenti che sono considerati legittimi e che vengono normalmente adottati dagli operatori non ricadano nei divieti e nelle conseguenti sanzioni. Tale soluzione, tuttavia, non è stata estesa a tutte le condotte potenzialmente manipolative: essa, infatti, riguarda soltanto quelle contemplate dall’art. 12, par. 1, lett. a), MAR, ossia l’avvio di un’operazione, l’inoltro di un ordine di compravendita o qualsiasi altra condotta che: i) invii, o è probabile che invii, segnali falsi o fuorvianti in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di uno strumento finanziario, di un contratto a pronti su merci collegato o di un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni; oppure: ii) consenta, o è probabile che consenta, di fissare il prezzo di mercato di uno o più strumenti finanziari, di un contratto a pronti su merci collegato o di un prodotto oggetto d’asta sulla base di quote di emissioni a un livello anormale o artificiale. Pertanto, non possono beneficiare dell’esenzione le operazioni od ordini che utilizzano artifizi, inganni o espedienti, o quelle che si sostanziano nella diffusione di informazioni, voci o notizie false o fuorvianti. La ragione di tale

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limitazione è intuitiva, giacché le condotte ora citate presentano evidenti caratteri manipolativi, tali da non poter trovare riscontro in alcuna “prassi” legittima di mercato. L’identificazione di una “prassi di mercato”, rilevante ai fini del riconoscimento dell’esenzione, è subordinata al suo “riconoscimento” da parte dell’Autorità di vigilanza: esso consiste in una sorta di processo di “omologazione” che, in linea di principio (e salvo quanto diremo appresso) è necessario venga espletato perché la prassi di mercato possa assumere a elemento qualificante l’esenzione dai divieti. Il relativo iter, e le condizioni per il riconoscimento, sono formulate dall’art. 13 MAR, e sono chiaramente volte a individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza di reprimere, da un lato, gli abusi di mercato e dall’altro, di consentire comunque ai mercati di operare secondo schemi non del tutto conformi agli standard della disciplina ma, ciò nonostante, accettabili. Vengono, in tale contesto, in rilievo elementi quali il grado di trasparenza della prassi rispetto all’intero mercato; la necessità di salvaguardare il regolare funzionamento del mercato e la regolare interazione fra la domanda e l’offerta; il livello di impatto della prassi sulla liquidità e sull’efficienza del mercato; il grado in cui la prassi tiene conto dei meccanismi di negoziazione dei mercati interessati e permette ai partecipanti al mercato di reagire prontamente e adeguatamente alla nuova situazione creata dalla prassi stessa; il rischio inerente alla prassi per l’integrità dei mercati direttamente o indirettamente connessi, regolamentati o no, su cui è negoziato lo stesso strumento finanziario in tutta la Comunità; l’esito di eventuali indagini sulla prassi di mercato, con particolare riguardo alle ipotesi in cui la prassi abbia violato norme e regole dirette a prevenire gli abusi di mercato, ovvero codici di condotta, sul relativo mercato o su mercati direttamente o indirettamente connessi nella Comunità; le caratteristiche strutturali del mercato interessato, ivi compresa la circostanza che trattasi di mercato regolamentato o no, il tipo di strumenti finanziari negoziati e il tipo di operatori, con particolare riguardo alla quota di partecipazione al mercato degli investitori al dettaglio 50.

4.2. La disciplina degli studi e delle ricerche Il ruolo giocato dagli analisti finanziari, nel determinare le scelte di investimento di coloro che operano sul mercato, è stato ampiamente discusso, dapprima negli Stati Uniti d’America, poi anche in Europa, soprattutto in concomitanza con lo scoppio dei gravi scandali finanziari degli ultimi anni e nel contesto 50 Ulteriori indicazioni sul processo di “omologazione” di una prassi di mercato emergono dal Regolamento (UE) n. 2016/908 che reca le relative norme tecniche di regolamentazione.

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della crisi finanziaria. In molte delle vicende più clamorose degli ultimi anni il ruolo giocato dagli analisti finanziari è stato tutt’altro che secondario: attraverso la diffusione di raccomandazioni di investimento, di studi e ricerche, in taluni casi essi hanno contribuito a sostenere attivamente i titoli di emittenti ormai decotti, prima dell’inevitabile dichiarazione di dissesto, celando informazioni rilevanti in loro possesso, o non comunicando adeguatamente al mercato i conflitti di interessi di cui, in realtà, erano portatori. Il dibattito che ne è scaturito aveva già investito i lavori preparatori della Direttiva europea sugli abusi di mercato proprio nel momento in cui quest’ultima stava prendendo corpo e ne aveva, inevitabilmente, influenzato i contenuti. La Direttiva 2003/6/CE assegnava dunque alla disciplina in argomento una rilevanza centrale, ponendola – di fatto – su di un piano comparabile con quello dell’abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato. Il MAR recepisce tali soluzioni all’art. 20, ove si dispone che i soggetti che producono o diffondono raccomandazioni in materia di investimenti o altre informazioni che raccomandano o consigliano una strategia di investimento, devono ragionevolmente provvedere affinché tali informazioni siano presentate in maniera corretta e devono comunicare i propri interessi o segnalare eventuali conflitti di interesse relativi agli strumenti finanziari ai quali tali informazioni si riferiscono. Anche le istituzioni pubbliche che divulgano statistiche o previsioni che possono avere un impatto significativo sui mercati finanziari procedono alla loro diffusione in maniera corretta e trasparente. Dettagliate norme tecniche – che riprendono molti dei concetti già elaborati nel contesto della Direttiva del 2003 – sono contenute negli standard elaborati a valle del MAR 51.

4.3. I giornalisti La disciplina comunitaria ha previsto disposizioni riferite anche all’attività dei giornalisti, la cui attività può avere effetti rilevanti sul prezzo degli strumenti finanziari di un emittente e sul funzionamento del relativo mercato. La disciplina, in questo caso, tenta di trovare un punto di equilibrio tra il principio della libertà di stampa, e la corretta informazione del mercato. L’art. 21 MAR dispone che qualora siano comunicate o diffuse informazioni e qualora siano elaborate o diffuse raccomandazioni ai fini dell’attività giornalistica o di altre forme di espressione nei mezzi d’informazione, la comunicazione o la diffusione 51

V. il Regolamento (UE) 9 marzo 2016, n. 2016/958, che stabilisce le norme tecniche di regolamentazione per la corretta presentazione delle raccomandazioni in materia di investimenti o altre informazioni che raccomandano o consigliano una strategia di investimento e per la comunicazione di interessi particolari o la segnalazione di conflitti di interesse. V. anche le Linee guida diffuse dalla Consob nell’ottobre del 2017.

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delle informazioni è valutata tenendo conto delle norme che disciplinano la libertà di stampa e la libertà di espressione in altri mezzi d’informazione, nonché delle norme o dei codici che disciplinano la professione di giornalista. Fa eccezione a tale regola il caso in cui: a) e persone interessate o le persone a loro strettamente associate ricavino, direttamente o indirettamente, un vantaggio o un guadagno dalla comunicazione o dalla diffusione delle informazioni in questione; oppure: b) a comunicazione o la diffusione siano effettuate con l’intenzione di fuorviare il mercato per quanto concerne l’offerta, la domanda o il prezzo di strumenti finanziari.

4.4. Le agenzie di rating Dopo essere state oggetto più volte di feroci critiche per il loro operato, ed essere riuscite a scampare a più tentativi di sottoposizione a regole e controlli, le agenzie di rating sono state finalmente oggetto di una precisa disciplina, tradottasi nel Regolamento europeo n. 1060/2009, e successive modifiche (reso operativo in Italia con un D.P.R. approvato il 10 giugno 2010) 52. Il Regolamento definisce “agenzia di rating del credito” una persona giuridica tra le cui occupazioni rientra l’emissione di rating a titolo professionale; il “rating” è invece “un parere relativo al merito di credito di un’entità, di un debito o di un’obbligazione finanziaria, di titoli di debito, di azioni privilegiate e strumenti finanziari analoghi, o di un emittente di tale debito o di tali strumenti finanziari, emesso utilizzando un sistema di classificazione in categorie di rating stabilito e definito”. Per garantire un livello elevato di fiducia degli investitori e dei consumatori nel mercato interno, il Regolamento impone alle agenzie che emettono rating nella Comunità un obbligo di registrazione, fissando altresì le condizioni e la procedura per la concessione, la sospensione e la revoca di tale registrazione. Il Regolamento prevede l’introduzione di un unico “entry point” per la presentazione delle domande di registrazione. L’ESMA è il soggetto incaricato di ricevere le domande di registrazione ed informare effettivamente le autorità competenti in tutti gli Stati membri. La stessa ESMA deve anche fornire consulenza in merito alla completezza della domanda, ma l’esame della domanda viene ad essere realizzato a livello nazionale dall’autorità competente dello Stato membro interessato (in Italia, la Consob). In base al Regolamento, le agenzie di rating del credito sono tenute ad adottare le misure necessarie per garantire che l’emissione di un rating non sia influenzata da alcun conflitto di interesse, esistente o potenziale, o relazione d’affari riguar-

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V. PICARDI (2009); PARMEGGIANI (2010).

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dante l’agenzia, i suoi manager, i suoi analisti di rating, i suoi dipendenti o qualsiasi persona direttamente o indirettamente collegata ad essa da un legame di controllo. A tal fine, il Regolamento definisce gli obblighi cui devono sottostare, prevedendo norme meno stringenti per le agenzie di minori dimensioni. In tale prospettiva, le agenzie sono tenute a stabilire un meccanismo di rotazione graduale appropriato riguardo agli analisti di rating e alle persone che approvano i rating. Inoltre, la retribuzione e la valutazione del rendimento degli analisti di rating e delle persone che approvano i rating non possono dipendere “dall’entità del fatturato che l’agenzia di rating del credito deriva dalle entità valutate o da terzi collegati”. Almeno un terzo, ma non meno di due, dei membri del consiglio di amministrazione o di sorveglianza delle agenzie devono essere indipendenti e la loro retribuzione non deve dipendere dai risultati economici dell’agenzia. Sono poi previsti ulteriori requisiti organizzativi. Per rispondere ai timori secondo cui lo stabilimento al di fuori della Comunità potrebbe costituire un serio impedimento a un’efficace vigilanza, il Regolamento introduce un sistema di omologazione per le agenzie di rating del credito che sono affiliate o lavorano in stretta collaborazione con agenzie di rating del credito con sede nella Comunità. Per rendere possibile una vigilanza efficace delle loro attività nella Comunità e un utilizzo efficace del sistema di omologazione e di equivalenza, le agenzie di rating del credito con sede extra-UE sono tenute a costituire una controllata nella Comunità, soggetta a regole di integrità analoghe a quelle applicabili alle agenzie comunitarie. Il Regolamento affida, infine, Stati membri il compito di stabilire norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni del Regolamento, e garantirne l’attuazione.

4.5. Il c.d. “Safe harbour” I divieti recati dalla disciplina dell’abuso di mercato rischiano di rendere del tutto irrealizzabili talune operazioni che, di contro, possono rispondere ad esigenze legittime e risultare del tutto compatibili con il regolare funzionamento dei mercati di capitali. Il problema si pone, soprattutto, per le operazioni di acquisto di azioni proprie, da parte degli emittenti quotati, e per le cc.dd. operazioni di stabilizzazione (ossia, le operazioni di compravendita degli strumenti finanziari svolte in concomitanza con l’ammissione alla quotazione degli strumenti stessi nei mercati regolamentati, con lo scopo di rendere più agevole la relativa operazione) 53. Entrambe le operazioni, infatti, possono influire sulla formazione

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V. il Considerando 33 alla Direttiva 2003/6/CE: “In particolari circostanze, la stabi-

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dei prezzi sul mercato, ed avere, dunque, almeno potenzialmente un effetto manipolativo; allo stesso tempo, se svolte nel rispetto di determinati limiti, possono in realtà rispondere ad esigenze del tutto legittime, che sarebbero di contro frustrate dall’applicazione della disciplina sugli abusi di mercato. A tal fine – ancora una volta riprendendo quanto già disposto dalla Direttiva 2003/6/CE e dal Regolamento comunitario 22 dicembre 2003, n. 2273/2003 – i divieti di abuso non si applicano alle operazioni di acquisto di azioni proprie e alle operazioni di stabilizzazione di strumenti finanziari effettuate in conformità dall’art. 5 MAR e dalle disposizioni di cui al Regolamento delegato UE n. 2016/1052. Fra i requisiti definiti dalla norma per quanto alla negoziazione di azioni proprie nei programmi di riacquisto di azioni proprie, si applica l’esenzione se: a) tutti i dettagli del programma sono comunicati prima dell’inizio delle contrattazioni; b) le operazioni di compravendita sono comunicate all’autorità competente del luogo della sede di negoziazione a norma del par. 3 come parte del programma di riacquisto di azioni proprie e successivamente comunicate al pubblico; c) sono rispettati limiti adeguati in ordine al prezzo e al quantitativo; e d) è effettuata secondo le condizioni riportate sopra e nelle norme tecniche di regolamentazione, nonché conformemente ai seguenti obiettivi: i) ridurre il capitale dell’emittente; ii) soddisfare gli obblighi derivanti da strumenti di debito che siano convertibili in strumenti azionari; o iii) adempiere agli obblighi derivanti da programmi di opzioni su azioni o altre assegnazioni di azioni ai dipendenti o ai membri degli organi di amministrazione o di controllo dell’emittente o di una società collegata. Per quanto infine alla negoziazione di valori mobiliari o strumenti collegati a fini di stabilizzazione, l’esenzione dai divieti di abuso e comunicazione di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato opera qualora: a) la stabilizzazione è effettuata per un periodo limitato; b) sono comunicate e notificate le pertinenti informazioni in merito alla stabilizzazione all’autorità competente del luogo della sede di negoziazione a norma del par. 5; c) sono rispettati limiti adeguati in merito al prezzo; e d) tale negoziazione è conforme alle condizioni di stabilizzazione previste dal-

lizzazione degli strumenti finanziari o il commercio in azioni proprie o in programmi di riacquisto possono ritenersi legittimi sotto il profilo economico e non dovrebbero pertanto essere considerati di per sé come abusi di mercato. Dovrebbero essere elaborate norme comuni che siano di orientamento pratico”.

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le norme tecniche di regolamentazione a norma del Regolamento delegato UE n. 2016/1052. In entrambi i casi, ovvero tanto nel caso di operazioni relative a programmi di acquisto di azioni proprie quanto in quelle di stabilizzazione, sorge in capo all’emittente l’obbligo di comunicazione all’Autorità competente del luogo della sede di negoziazione di tutte le operazioni che rientrano nei programmi di riacquisto o fra le misure di stabilizzazione. Più precisamente, per quanto ai soli programmi di riacquisto il legislatore dispone che l’obbligo di informare l’Autorità competente rilevi sotto il profilo stesso dell’esenzione, che di conseguenza non si applica in assenza di tale notifica. La concreta portata del c.d. “safe harbour” va intesa nel senso che le operazioni che rispettano tutte le limitazioni previste dal Regolamento sono da considerare legittime, e dunque sottratte ai divieti disposti dalla disciplina in tema di abusi di mercato. Le operazioni che, invece, esulano dal “safe harbour” sono da valutare caso per caso: esse, cioè, non sono di per sé illecite, dovendosene piuttosto considerare, di volta in volta, le caratteristiche, in applicazione dei criteri generali dettati dalla disciplina di riferimento. Va, infine, osservato che il MAR (art. 6) – analogamente alla Direttiva 2003/6/CE – prevede altri casi in cui i divieti in tema di abuso di mercato non si applicano: oltre alla “classica” esenzione prevista per le operazioni compiute dallo Stato e altri Enti pubblici, si tratta di ipotesi che si pongono su di un piano diverso rispetto a quelli disciplinati dal Regolamento sopra richiamati, in quanto attengono essenzialmente a casi che esulano dalle fattispecie, piuttosto che a veri e propri casi di esenzione 54.

4.6. Le sanzioni amministrative Le sanzioni amministrative previste per la violazione dei divieti in tema di manipolazione di mercato vanno da un minimo di 20.000 euro ad un massimo di 5.000.000 euro: le sanzioni sono le medesime per tutte le ipotesi di manipolazione. Le sanzioni sono aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito quando, per le qualità personali del colpevole, per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dall’illecito ovvero per gli effetti prodotti sul mercato, esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo.

54 Anche nelle materie coperte dal “safe harbour” il quadro tracciato dalle disposizioni del MAR va completato con le norme tecniche di regolamentazione, stabilite nel Regolamento (UE) 8 marzo 2016, n. 2016/1052.

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5. Abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato. Le disposizioni comuni La disciplina degli abusi di mercato, come novellata per effetto del recepimento delle Direttive comunitarie, prevede varie disposizioni che si applicano sia alla materia dell’abuso di informazioni privilegiate, sia a quella della manipolazione di mercato. Essenzialmente, si tratta di disposizioni che riguardano la prevenzione degli illeciti, e i profili sanzionatori (incluso l’accertamento delle violazioni e i rimedi giurisdizionali).

5.1. La segnalazione delle operazioni sospette Nell’ambito delle disposizioni volte a stabilire forme di prevenzione degli abusi di mercato, il MAR (confermando quanto già disposto dalla Direttiva del 2003) prevede disposizioni volte ad imporre agli intermediari abilitati, e ad altri soggetti che operano professionalmente sul mercato, precisi obblighi di segnalazione delle operazioni “sospette”: per tali intendendosi le operazioni che potrebbero integrare un illecito in tema di abuso di informazioni privilegiate o di manipolazione del mercato. L’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette risponde all’obiettivo di coinvolgere direttamente i soggetti che operano professionalmente sul mercato dei capitali nell’attività di prevenzione delle condotte illecite: la soluzione non è, peraltro, estranea alla più generale disciplina del mercato finanziario, giacché una disciplina ispirata ad analoghi principi esiste ormai da molti anni nell’ambito della lotta al riciclaggio del denaro proveniente da attività illecite. In base all’art. 16 MAR, i gestori del mercato e le imprese di investimento che gestiscono una sede di negoziazione istituiscono e mantengono dispositivi, sistemi e procedure efficaci al fine di prevenire e individuare abusi di informazioni privilegiate, manipolazioni del mercato e tentativi di abuso di informazioni privilegiate e manipolazioni del mercato. Tali soggetti devono segnalare immediatamente all’autorità competente del luogo della sede di negoziazione gli ordini e le operazioni, compresa qualsiasi cancellazione o modifica degli stessi, che potrebbero costituire abuso di informazioni privilegiate, manipolazione di mercato o un tentativo di manipolazione di mercato o di abuso di informazioni privilegiate. Analogo obbligo è posto in capo agli intermediari: chiunque predisponga o esegua a titolo professionale operazioni deve stabilire e mantenere dispositivi, sistemi e procedure efficaci per individuare e segnalare ordini e operazioni sospette. Qualora sussista il ragionevole sospetto che un ordine o un’operazione su qualsiasi strumento finanziario, inoltrato o eseguito presso o al di fuori di una sede di negoziazione, possa costituire abuso di informazioni privilegiate,

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manipolazione di mercato o un tentativo di abuso di informazioni privilegiate o di effettuare una manipolazione di mercato, è dovuta immediatamente la comunicazione all’autorità competente (per l’Italia, la Consob) 55. Da sempre, uno dei nodi della disciplina della segnalazione delle operazioni sospette è, però, rappresentato dal rapporto che sussiste tra la segnalazione dell’anomalia e l’obbligo di esecuzione degli ordini. In sostanza, il problema che si pone è se – in presenza di un ordine che presenti indici di “anomalia” – l’intermediario incaricato della relativa esecuzione debba limitarsi a darvi esecuzione, pur segnalando l’operazione come sospetta, ovvero se l’intermediario debba (anche) astenersi dall’eseguirla. La soluzione della questione non appare agevole, soprattutto sul piano pratico. Infatti, da un lato l’esecuzione dell’operazione risponde a precisi doveri ed obblighi di comportamento che l’intermediario assume nella prestazione dei servizi: obblighi che discendono già dai principi generali in tema di mandato e che la disciplina di settore qualifica ulteriormente in termini di diligenza e professionalità dell’agire. Dall’altro, l’esecuzione dell’operazione (in mancanza di una norma esimente da responsabilità) espone l’intermediario al possibile rimprovero di aver concorso nella commissione dell’illecito (tanto sul piano penale, quanto su quello amministrativo). Tale rilievo è particolarmente evidente alla luce dei criteri di identificazione delle operazioni che possono configurare abusi di mercato Il problema non si risolve neppure là dove si osservi che, nell’ambito, tipicamente, della prestazione di servizi di investimento per conto terzi, l’intermediario può sempre rifiutare l’esecuzione dell’ordine, dandone immediata comunicazione all’investitore: è, infatti, da ritenere che il rifiuto debba essere motivato 56. Tuttavia, l’obbligo di motivazione entra in rotta di collisione con il dovere di riservatezza che connota questa delicata materia. L’eventuale rifiuto di eseguire l’ordine rischia pertanto o di essere illegittimo (in quanto non adeguatamente motivato), o (se motivato correttamente, facendo cioè riferimento alla natura “sospetta” dell’operazione) di porre un problema di conflitto con l’obbligo di riservatezza.

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Si vedano, per ulteriori profili, le disposizioni di cui alla Direttiva di esecuzione (UE) 17 dicembre 2015, n. 2015/2392, nonché quelle del Regolamento (UE) n. 2016/597 recanti le norme tecniche di regolamentazione sui dispositivi, sistemi e procedure adeguati e sui modelli di notifica da utilizzare per prevenire, individuare e segnalare le pratiche abusive e gli ordini o le operazioni sospette. 56 Tale conclusione deve ritenersi espressione di un principio generale, che discende dall’applicazione del principio di trasparenza e di buona fede nell’esecuzione del contratto.

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5.2. Le sanzioni accessorie, l’accertamento degli illeciti e i poteri della Consob Oltre al poderoso apparato sanzionatorio previsto le diverse ipotesi di violazione, gli ulteriori tratti distintivi della disciplina: – dalla previsione di sanzioni accessorie, irrogate nel caso di accertamento di condotte illecite; – dall’attribuzione alla Consob di ampi e incisivi poteri di indagine e di verifica; – dall’attribuzione, alla stessa Consob, del potere di irrogare direttamente le sanzioni amministrative. Quanto alle sanzioni accessorie, la legge ne prevede l’irrogazione sia in ipotesi di illeciti rilevanti sul piano penale, sia nel caso di illeciti amministrativi. Nel primo caso, l’art. 186 TUF dispone che la condanna per uno dei reati contemplati, comporta l’applicazione delle pene accessorie previste dagli artt. 28, 30, 32-bis e 32-ter c.p., per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni. È disposta inoltre la pubblicazione della sentenza, e la confisca (eventualmente per equivalente) del prodotto o del profitto conseguito dal reato, e dei beni utilizzati (art. 187). Nel caso, invece, si concretizzino illeciti rilevanti sul piano delle sanzioni amministrative, l’art. 187-quater prevede l’irrogazione di sanzioni accessorie che si sostanziano, di volta in volta, nella perdita dei requisiti di professionalità richiesti dalla disciplina del TUF o nell’interdizione allo svolgimento dell’attività a carico dell’autore della violazione. Anche in questa ipotesi, inoltre, è disposta la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito, e dei beni utilizzati per commetterlo (art. 187-sexies). Una specifica menzione merita l’art. 187-quinquies il quale prevede che anche l’ente, nel cui interesse o vantaggio è stato commesso l’illecito, è responsabile del pagamento di una somma pari all’importo della sanzione amministrativa irrogata per gli illeciti commessi. Tale previsione determina la diretta ricomprensione della materia degli abusi di mercato nel perimetro di applicazione del D.Lgs. n. 231/2001, con il quale è stato introdotto anche in Italia il principio della responsabilità amministrativa degli enti: conformemente all’impostazione di tale disciplina, il comma 3 prevede che la responsabilità dell’ente non sussiste se si dimostra che i soggetti che hanno commesso l’illecito hanno agito esclusivamente nell’interesse proprio o di terzi; come noto, tale ultima previsione comporta l’esigenza, per i soggetti interessati, di dotarsi di appositi “modelli” organizzativi interni, con l’obiettivo di prevenire la commissione degli illeciti: a tal fine vengono richiamati gli artt. 6, 7, 8 e 12 del D.Lgs. n. 231. La disciplina tende ad assicurare che la compresenza di due procedimenti non si risolva in un ostacolo all’accertamento delle responsabilità: è dunque stabilito che i procedimenti amministrativi non possono essere sospesi per la

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pendenza del procedimento penale avente ad oggetto medesimi fatti, o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione (art. 187-duodecies). L’eventuale cumulo tra sanzioni penali e amministrative è, invece, regolato dall’art. 187-terdecies, limitatamente, però, alla sola fase di esecuzione: la norma prevede che – quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 187-septies – l’esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente dal reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa. Si osservi che, in base alla legge, l’effetto del cumulo è evitato soltanto per la parte di sanzioni, irrogate a seguito di condanna in sede penale, che rientra nel limite dell’importo riscosso 57 dall’Autorità amministrativa: se dunque le sanzioni penali eccedono quelle amministrative, le stesse dovranno essere corrisposte (per la parte eccedente). Tali previsioni, tuttavia, non sono risultate sufficienti ad evitare la pesante condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la fondamentale sentenza del 4 marzo 2014, nel caso Grande Stevens c/Italia 58. La Corte ha, infatti, accertato la violazione, da parte dello Stato italiano, dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (rubricato “Diritto di non essere giudicato o punito due volte”) che pone il divieto del cosiddetto bis in idem in materia di sanzioni penali. La Corte, dopo aver attribuito alle sanzioni irrogabili dalla Consob per abusi di mercato, natura di sanzione penale (tenuto conto del loro grado di afflittività e delle limitazioni che ne conseguono, soprattutto sul piano delle interdizioni), ha così un divieto assoluto all’operatività del cumulo sancito dal TUF, operante nel caso in cui una medesima condotta venga sanzionata sia dalla Consob, sia in sede penale. Tuttavia, il dibattito sul tema è ancora aperto, essendo discussa la diretta applicazione delle decisioni della CEDU negli ordinamenti nazionali, ed essendo in corso il recepimento della nuova disciplina europea sugli abusi, nella parte relativa alle sanzioni. Oltre al profilo sanzionatorio, un’efficace repressione dei fenomeni di abuso di mercato richiede che le Autorità competenti all’accertamento degli illeciti siano dotate di ampi e pervasivi poteri di indagine e di accertamento, in difetto dei quali anche le sanzioni più elevate rischiano di risultare poco efficaci. A tal fine, il legislatore italiano è andato anche al di là di quanto sarebbe stato necessario per assicurare il recepimento delle disposizioni comunitarie, e ha 57 Il riferimento all’importo “riscosso” – se inteso alla lettera – dovrebbe intendersi non già come importo “irrogato”, ma come importo effettivamente introitato dall’Autorità amministrativa per effetto dell’applicazione del provvedimento sanzionatorio. Ovviamente, in funzione delle qualità personali dell’agente, i due importi possono variare anche considerevolmente, ma la questione è dubbia. 58 V. VENTORUZZO (2014).

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introdotto nuove disposizioni tese a rafforzare significativamente i poteri della Consob nella materia di cui si discute 59. Tale rafforzamento, peraltro, si pone in stretta relazione con l’attribuzione, alla medesima Autorità, del potere di irrogare direttamente le sanzioni amministrative previste per i casi di violazione della disciplina in tema di abusi di mercato. L’art. 187-octies del TUF costituisce il nucleo centrale delle nuove disposizioni in materia. Alla Consob viene attribuito il potere di: a) richiedere notizie, dati o documenti sotto qualsiasi forma stabilendo il termine per la relativa comunicazione; b) richiedere le registrazioni telefoniche esistenti stabilendo il termine per la relativa comunicazione; c) procedere ad audizione personale; d) procedere al sequestro dei beni che possono formare oggetto di confisca ai sensi dell’art. 187-sexies 60; e) procedere ad ispezioni; f) procedere a perquisizioni nei modi previsti dall’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dall’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Inoltre, la Commissione può avvalersi della collaborazione di altre pubbliche amministrazioni (compresa l’anagrafe tributaria), può richiedere la comunicazione di dati personali anche in deroga alle disposizioni in tema di privacy e può acquisire dati relativi al traffico telefonico dei soggetti sottoposti ad indagine. Di particolare rilievo appare, altresì, la possibilità per la Consob di accedere all’anagrafe dei conti e dei depositi di cui alla legge n. 413/1991 e, soprattutto, di accedere direttamente alla Centrale dei rischi della Banca d’Italia: potere, quest’ultimo, che la Consob potrà esercitare al fine di accertare, ad esempio, la veridicità dei dati e delle informazioni comunicate al pubblico da parte degli emittenti, in merito alla loro situazione patrimoniale e finanziaria 61. Per l’esercizio di alcuni dei citati poteri – fino ad ora tipici dell’azione penale – è comunque previsto che la Consob debba farsi autorizzare dal pro-

59 La legge comunitaria 2004, con la quale è stata recepita la Direttiva 2003/6/CE ha anche disposto l’incremento del personale della Consob, rispondendo così – anche sul piano pratico – alle nuove esigenze connesse con l’applicazione della nuova disciplina. 60 Avverso il sequestro, è ammessa opposizione alla stessa Consob, nei termini di cui ai commi 9 e 10. Il comma 11 stabilisce, invece, i casi in cui i valori sequestrati devono essere restituiti agli aventi diritto. 61 La possibilità di accedere alla Centrale dei rischi della Banca d’Italia appare, con tutta evidenza, frutto di quanto verificatosi nel caso Parmalat: una delle anomalie emerse successivamente al default della società era proprio rappresentata dalla non coincidenza tra i dati sull’indebitamento comunicati al pubblico e quelli risultanti dalle comunicazioni pervenute alla Centrale dei rischi.

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curatore della Repubblica 62. Altrettanto degna di nota risulta la facoltà, attribuita alla Consob, di avvalersi della collaborazione della Guardia di finanza, che in tal caso agisce utilizzando gli incisivi poteri ad essa attribuiti in tema di accertamenti tributari. Ulteriori attribuzioni derivano alla Consob dall’interazione tra procedimento penale e procedimento amministrativo. L’art. 187-decies prevede che, quando il pubblico ministero ha notizia di uno dei reati previsti dalla disciplina in tema di abuso di mercato, è tenuto a informarne senza ritardo il Presidente della Consob; a sua volta, quest’ultimo trasmette al pubblico ministero la documentazione raccolta nello svolgimento di accertamenti da cui possa presumersi l’esistenza di un reato. Il principio di collaborazione tra autorità giudiziarie e Consob (essenziale per garantire l’efficace funzionamento del nuovo apparato sanzionatorio) è ora espressamente regolato, ed esteso anche all’ipotesi in cui le violazioni non costituiscano reato. Degne di nota risultano anche le previsioni che regolano le facoltà della Consob nel procedimento penale: innanzitutto, la Commissione esercita i diritti e le facoltà attribuiti dal codice di procedura penale agli enti e alle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato. Inoltre, la Consob (come ormai da tempo possono fare le omologhe Autorità straniere) può costituirsi parte civile nel procedimento penale, e conseguentemente richiedere una somma determinata dal giudice secondo i criteri stabiliti dall’art. 187-undecies, comma 2, per i danni subiti in dipendenza delle condotte manipolative 63.

5.3. Le sanzioni ex D.Lgs. n. 231/2001: la responsabilità amministrativa dell’ente Le fattispecie di abuso di mercato rientrano anche tra i reati presupposto di applicazione delle regole sancite dal D.Lgs. n. 231/2001, in tema di responsabilità amministrativa degli enti (art 25-sexies del Decreto). Secondo quanto stabilito dal Decreto, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: 62

Cfr. art. 187-octies, comma 5. Il primo di tanti casi che hanno visto il riconoscimento a favore della Consob del risarcimento al danno è stato deciso dal Tribunale di Milano il 27 marzo 2006 (decisione confermata da App. Milano, Sez. II, 12 aprile 2007): decisione pubblicata in Riv. dir. soc., n. 1, 2007, p. 96 ss., con nota di DI LAZZARO e SPEDICATI. Si rinvia al testo della decisione per la disamina dei criteri di quantificazione del danno lamentato dalla Consob, in quanto Autorità lesa dalla violazione del principio di integrità del mercato, conseguente al compimento di operazioni manipolative. Per gli ulteriori sviluppi ed un quadro aggiornato v. BRUNO (2010). Sul tema della tutela civile in rapporto alle regole sugli abusi di mercato v. ALVISI (2007). 63

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a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lett. a). La responsabilità dell’ente può essere esclusa se le persone hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, ovvero se l’ente prova di aver adottato un “modello” di organizzazione e gestione, idoneo (in base ai criteri previsti dall’art. 6) a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Anche in base all’art. 187-quinquies TUF (che rende applicabili agli illeciti amministrativi le disposizioni del D.Lgs. n. 231/2001), l’ente è responsabile del pagamento di una somma pari all’importo della sanzione amministrativa irrogata per gli illeciti in tema di abusi di mercato 64.

64

Cfr. ASTROLOGO (2010).

CAPITOLO XVIII DISCIPLINA DEGLI EMITTENTI E DISCIPLINA DEL MERCATO MOBILIARE SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le regole in materia di assetti proprietari. – 2.1. (Segue): le partecipazioni rilevanti. – 2.2. (Segue): i patti parasociali. – 3. I diritti dei soci. – 4. Le deleghe di voto. – 5. Le azioni di risparmio. – 6. Organi di amministrazione nelle società quotate. – 7. Collegio sindacale e revisione contabile negli emittenti quotati. – 8. L’informazione finanziaria. – 9. Emittenti quotati e emittenti titoli diffusi.

1. Premessa La prospettiva nella quale si è collocato, all’atto della sua emanazione, il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 si coglie pienamente nella disciplina delle società quotate, in quanto il TUF viene ad incidere sulle regole che attengono agli intermediari e ai mercati, da un lato, e agli emittenti, dall’altro: i due elementi sono tra di loro profondamente connessi, poiché il perseguimento di condizioni di efficienza del mercato finanziario presuppone non soltanto che le strutture del mercato stesso operino in modo adeguato a soddisfare gli interessi di operatori ed investitori in genere, ma anche che i soggetti che al mercato accedono per le proprie esigenze di finanziamento siano strutturati in modo da agevolare il raggiungimento di tali obiettivi. La legge 6 febbraio 1996, n. 52, nel delegare al Governo l’emanazione del Testo Unico, colse appieno il profondo rapporto che sussiste tra disciplina dei mercati, e degli intermediari, da un lato, e disciplina degli emittenti, dall’altro, ponendo così le basi per la realizzazione delle riforme realizzate dal legislatore delegato 1. Vennero in tal modo a saldarsi, quantomeno sotto il profilo in questione, le norme relative al funzionamento del mercato, con quelle attinenti alla struttura e al funzionamento degli emittenti, in una prospettiva di reciproca integrazione, nella quale profili di diritto delle società e di diritto dei mercati 1

V. per i profili generali MARCHETTI (1998).

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finanziari trovano continui punti di contatto e di osmosi, rafforzandosi a vicenda. All’inizio della Parte IV del TUF (disciplina degli emittenti) il legislatore individua – quali obiettivi dell’esercizio dei poteri della Consob – la tutela degli investitori, l’efficienza e la trasparenza del controllo societario e del mercato dei capitali (art. 91). Si tratta, in realtà, di un più generale “manifesto” degli obiettivi che la disciplina stessa degli emittenti persegue, e che, non a caso, presenta forti analogie con gli obiettivi che l’art. 5 TUF enuncia con riguardo alle finalità generali della vigilanza sugli intermediari, individuate, anche in quel caso, nella tutela degli investitori, nonché nella stabilità, nella competitività e nel buon funzionamento del mercato finanziario. Il nesso tra i due elementi emerge così direttamente a livello dell’individuazione degli obiettivi delle rispettive discipline. Gli interventi che il legislatore realizza con il Testo Unico in materia societaria consistono tanto nell’introduzione di istituti del tutto nuovi, quanto nella modifica di norme di diritto comune. La disciplina delle società quotate viene così a caratterizzarsi fortemente rispetto a quella delle società non quotate, sebbene – come già abbiamo avuto modo di osservare – tale impostazione non si spinga sino al punto di rendere le società quotate un vero e proprio “tipo” societario distinto dalle società azionarie non quotate. Di certo, il TUF ha inevitabilmente posto il problema della revisione più generale del diritto societario in Italia. La differenziazione di disciplina (e, dunque, di tutela degli azionisti, e dei terzi in genere), che venne a realizzarsi con il TUF, tra società quotate, e società non quotate, creò un evidente discrimine, che poteva anche produrre effetti controproducenti, ad esempio disincentivando il ricorso al mercato mobiliare da parte delle imprese. E, infatti, nel momento in cui l’accesso alla quotazione si caratterizza e comporta la sottoposizione a regole eccessivamente onerose per l’emittente, in quanto – tra l’altro – fortemente derogatrici delle norme generalmente applicabili alle società azionarie non quotate, ciò può risolversi in un disincentivo all’accesso al mercato, così compromettendo, almeno in parte, il raggiungimento degli obiettivi che il legislatore si era posto con la predisposizione del Testo Unico. La riforma delle società quotate, quale originariamente introdotta dal TUF, ha così aperto la strada per una più generale riforma del diritto societario, culminata nel decreto legislativo approvato il 10 gennaio 2003, ed emanato in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366, con il quale è stata attuata una complessiva ed organica riforma della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative. Dalle riforme della disciplina del mercato mobiliare sono così scaturiti interventi più ampi e strutturali, destinati ad incidere durevolmente sugli assetti delle società – quotate e non – in Italia 2. 2

V. FLICK (2000) e i documenti pubblicati nella Riv. soc., 2000, p. 14 ss.; GAMBINO (1998).

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Sulla materia ha poi ulteriormente inciso la legge n. 262/2005 sulla tutela del risparmio, che ha modificato vari istituti del TUF, e introdotto nuove regole 3. Ulteriori interventi sono stati introdotti a seguito del recepimento delle più recenti Direttive europee: il quadro, ad oggi, si presenta complesso, e molto articolato. In questa sede, procederemo innanzitutto all’esame delle norme previste per le società quotate dal TUF, concentrandoci, peraltro solo sugli aspetti che più mostrano legami con la disciplina degli intermediari e dei mercati: non procederemo, pertanto, né ad un compiuto esame dei singoli istituti, né ad una ricognizione generale della disciplina delle società quotate, quale risultante dal TUF. A tal fine, tratteremo distintamente la disciplina degli assetti proprietari, e quella dei “diritti dei soci”. Accenneremo anche alle disposizioni previste dal codice civile in relazione alle società quotate, limitandoci, anche in relazione a tale aspetto, a qualche spunto sommario.

2. Le regole in materia di assetti proprietari Sotto la rubrica “assetti proprietari” trovano collocazione norme relative alle partecipazioni rilevanti, e ai patti parasociali. Ambedue questi temi mostrano forti interrelazioni con le altre sezioni del TUF. Per quanto attiene alla disciplina delle partecipazioni rilevanti, l’interrelazione si coglie nel rafforzamento dei profili di trasparenza che tale disciplina persegue; trasparenza riferita agli assetti proprietari degli emittenti quotati che, a sua volta, costituisce uno degli elementi più significativi di informazione per il mercato e gli investitori in genere. Analogo obiettivo è perseguito dalla disciplina dei patti parasociali, per i quali il TUF introduce norme volte ad assicurarne la pubblicità, con soluzioni fortemente innovative rispetto al passato. In entrambi i casi, poi, la disciplina formula regole volte a stimolare l’efficienza del mercato del controllo societario: si vedano, ad esempio, le norme sulle partecipazioni reciproche, e quelle che attengono alla durata dei patti parasociali. Sotto questi profili le regole formulate dal TUF in materia di assetti proprietari consentono di cogliere appieno il legame tra riforma del mercato, e riforma degli emittenti che si è detto caratterizzare l’intera impostazione del Testo Unico. Ma vediamo, più in dettaglio, le linee generali della disciplina di cui si discute.

3

ABBADESSA (2005).

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2.1. (Segue): le partecipazioni rilevanti a) Una disciplina delle partecipazioni rilevanti si rinveniva già anteriormente al Testo Unico, essendo formulata dagli artt. 5 e ss., legge n. 216/1974, e succ. modd., che davano anche attuazione alle originarie disposizioni comunitarie in materia. La disciplina è stata da ultimo modificata, a seguito del recepimento della Transparency Directive, intervenuto con il D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 195. Lo scopo principale delle relative previsioni è, come già detto, quello di assicurare la trasparenza degli assetti proprietari delle società quotate: a tal fine sono previsti obblighi di comunicazione all’Organo di controllo, e al mercato, delle partecipazioni superiori a determinate soglie percentuali. Ovviamente, la trasparenza degli assetti proprietari – oltre ad assumere valore in sé, per il pregnante rilievo informativo che assume per il mercato e per gli investitori in genere – è presupposto di applicazione di altre regole formulate dal TUF, prime fra tutte quelle in materia di OPA. Ai sensi del nuovo art. 120, comma 2, TUF, coloro che partecipano in un emittente azioni quotate avente l’Italia come Stato membro d’origine 4 in misura superiore al 3% del capitale sono tenuti a darne comunicazione alla società partecipata e alla Consob 5; solo nel caso in cui l’emittente sia una piccola e media impresa (PMI), tale soglia è elevata al 5%. Spetta alla Consob, tenuto anche conto delle caratteristiche degli investitori, stabilire con regolamento: a) le variazioni delle partecipazioni che comportano obbligo di comunicazione; b) i criteri per il calcolo delle partecipazioni, avendo riguardo anche alle partecipazioni indirettamente detenute e alle ipotesi in cui il diritto di voto spetta o è attribuito a soggetto diverso dal socio; c) il contenuto e le modalità delle comunicazioni e dell’informazione del pubblico, nonché le eventuali deroghe per quest’ultima; d) i termini per la comunicazione e per l’informazione del pubblico 6; e) i casi in cui le comunicazioni sono dovute dai possessori di strumenti finanziari dotati dei diritti previsti dall’art. 2351, ultimo comma, c.c.; f ) i casi in cui la detenzione di strumenti derivati determina obblighi di comunicazione; g) le ipotesi di esenzione dall’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 120 TUF. 4

La definizione deriva dalla Direttiva comunitaria (cfr. art. 1, comma 1, lett. w), TUF). V. GIANNELLI (1999); DONATIVI (1999); CAMPOBASSO (2002-V); MEO (2002-III). 6 V. gli artt. 117 ss. del Regolamento emittenti. 5

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Come si vede, il legislatore ha imposto obblighi di comunicazione relativi non soltanto al superamento iniziale della soglia partecipativa, ma anche alle eventuali variazioni, demandando alla Consob il compito di stabilire le relative soglie 7. Quanto alle modalità da osservare per l’effettuazione delle comunicazioni, il superamento delle soglie rilevanti (e le successive variazioni) deve essere comunicato, da un lato, alla società partecipata e, dall’altro, alla Consob; quest’ultima provvede a sua volta a darne informazione al mercato, raggiungendo per tale via quel risultato di rafforzamento della trasparenza al quale è ispirata l’intera disciplina di cui si discute. Più precisamente, la Consob pubblica le informazioni ricevute “entro i tre giorni di mercato aperto successivi al ricevimento della comunicazione”. In caso di omissione delle comunicazioni, il diritto di voto per le relative azioni non può essere esercitato. Trovano anche applicazione – similarmente a quanto si è visto in materia di OPA – il nuovo art. 14, comma 7, TUF, ai sensi del quale l’impugnazione della delibera comunque approvata può essere proposta anche dalla Banca d’Italia e dalla Consob entro centottanta giorni dalla data della deliberazione ovvero, se questa è soggetta a iscrizione nel registro delle imprese, entro centottanta giorni dall’iscrizione o, se è soggetta solo a deposito presso l’ufficio del registro delle imprese, entro centottanta giorni dalla data di questo. b) Già la disciplina previgente ricollegava, alla materia degli obblighi di comunicazione di partecipazioni rilevanti, specifiche previsioni relative alle partecipazioni reciproche 8. Lo scopo di tali previsioni è, sostanzialmente, quello di ridurre il rischio che le partecipazioni reciproche vengano utilizzate come strumento di rafforzamento del controllo dei gruppi di comando: a tal fine vengono previsti precisi limiti quantitativi agli incroci azionari. Sotto questo profilo, si può ritenere che la disciplina risponda, da un lato, ad esigenze di tutela del corretto funzionamento delle assemblee; dall’altro, e forse più significativamente, all’esigenza di favorire l’efficienza del mercato del controllo societario e la circolazione dei diritti proprietari 9. La disciplina è formulata dall’art. 121 TUF: fuori dai casi previsti dall’art. 2359-bis c.c., in caso di partecipazioni reciproche eccedenti i limiti indicati nell’art. 120, comma 2, la società che ha superato il limite successivamente non può esercitare il diritto di voto inerente alle azioni o quote eccedenti e deve alienarle 7

Cfr. l’art. 117 del Regolamento emittenti. SPOLIDORO (1998); SANTAGATA (2002-IV); MEO (2002-III). Per i rapporti con la disciplina dell’OPA, v. MEO (1998). Per un commento della norma GIANNELLI (1999-II). 9 Per un sintetico raffronto tra la disciplina italiana e quella di altri Paesi v. BIANCHI e STADERINI (1998). 8

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entro dodici mesi dalla data in cui ha superato il limite. In caso di mancata alienazione entro il termine previsto, la sospensione del diritto di voto si estende all’intera partecipazione. Se non è possibile accertare quale delle due società ha superato il limite successivamente, la sospensione del diritto di voto e l’obbligo di alienazione si applicano a entrambe, salvo loro diverso accordo. Tra le numerose particolarità della disciplina – che soltanto in parte può ricondursi a modelli già consolidati nella legislazione antecedente al TUF – è opportuno quantomeno segnalare i seguenti profili: i) la portata della disciplina risulta estesa anche al “gruppo” di appartenenza delle società interessate. In particolare, qualora un soggetto che controlla almeno una società quotata detenga una partecipazione rilevante al capitale di un’altra società quotata, appartenente a un altro gruppo, il soggetto che controlla tale ultimo gruppo non può a sua volta detenere una partecipazione rilevante in società quotate appartenenti al primo gruppo; ii) il limite richiamato nell’art. 120, comma 1 è elevato al 5%, ovvero, nei casi previsti dall’art. 120, comma 2, secondo periodo, al 10% abbia luogo a seguito di un accordo preventivamente autorizzato dall’assemblea ordinaria delle società interessate. Si tratta di una previsione che prende atto del fatto che le partecipazioni reciproche possono rispondere (anche) ad uno specifico interesse delle società, ad esempio in quanto strumento per difendersi da possibili “attacchi” esterni, o, ancora, per rafforzare rapporti industriali con altri soggetti 10. La valutazione dell’“incrocio” da parte dell’assemblea contribuisce, sotto questo profilo, a ridurre il rischio che le partecipazioni reciproche non rispondano ad un effettivo interesse sociale; iii) la disciplina non trova applicazione qualora tra le società interessate sussistano rapporti di controllo, nel qual caso trovano soltanto applicazione le regole di diritto comune (art. 2359-bis c.c.); iv) le limitazioni alle partecipazioni reciproche non si applicano quando le soglie rilevanti vengono superate a seguito di un’offerta pubblica di acquisto o scambio diretta a conseguire almeno il 60% delle azioni ordinarie della società-bersaglio. Pertanto, se una società è partecipata da un’altra in misura superiore ai limiti previsti, essa potrà a sua volta acquisire una partecipazione rilevante nel capitale della prima, senza che trovino applicazione i limiti previsti per le partecipazioni reciproche, purché l’acquisto venga realizzato per il tramite di un’offerta pubblica. La ratio di tale esonero è innanzitutto riconduci10

Si segnala, peraltro, che i limiti posti dal TUF alle partecipazioni reciproche appaiono generalmente più stringenti rispetto a quanto si rinviene in altri ordinamenti dell’Unione Europea. Sotto questo profilo, la possibilità di elevare il limite generalmente previsto risponde anche all’esigenza di non mantenere una disciplina eccessivamente rigorista, rispetto a quanto rinvenibile altrove: COSTI (2010).

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bile al fatto che, nel caso di specie, il superamento delle soglie ha luogo in dipendenza di un’operazione svolta sul mercato, in condizioni di piena trasparenza. Ma, soprattutto, il venir meno delle limitazioni si giustifica in virtù del fatto che, in caso contrario, qualora un soggetto avesse acquistato più del 2% del capitale di una società quotata, quest’ultima non avrebbe più potuto acquistare partecipazioni superiori alla soglia-limite al capitale del soggetto acquirente. In altri termini, la disciplina delle partecipazioni reciproche finiva per essere uno strumento di difesa dalle scalate ostili: bastava, infatti, acquisire una partecipazione rilevante al capitale di una società, per impedirle di acquisire a sua volta una partecipazione di rilievo nel capitale della prima. Si può dunque a giusto titolo ribadire che, anche sotto questo profilo, la disciplina delle partecipazioni reciproche tende a favorire la circolazione della proprietà delle imprese quotate 11.

2.2. (Segue): i patti parasociali Il dibattito circa i limiti e le condizioni di validità dei patti parasociali, sia nelle società quotate, sia in quelle non quotate, è assai risalente, ed ha visto – nel corso degli anni – un continuo alternarsi di posizioni, sia in dottrina, sia in giurisprudenza 12. L’impatto che i patti parasociali possono avere sul funzionamento della società, e le interferenze che essi possono dunque produrre sull’ordinamento societario pongono, in realtà, complessi problemi, di cui il Testo Unico, però, non si fa direttamente carico, limitandosi a introdurre regole che attengono alla disclosure dei patti, ed alla sorte degli stessi in caso di OPA. L’ambito di applicazione della disciplina è alquanto esteso. Essa si riferisce, infatti, non soltanto ai patti – in qualunque forma stipulati – aventi per oggetto l’esercizio del diritto di voto, ma anche ai patti: a) che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano (c.d. patti di consultazione); b) che pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse (c.d. sindacati di blocco); 11

COSTI (2006). Successivamente al TUF v. PICCIAU (1999); CARIELLO (1999); PINTO (1999); PINNARÒ (1999); CARBONETTI (1998); CHIAPPETTA (1998); Santoni (2002-IV); MEO (2002-III). Per ulteriori riferimenti bibliografici ATELLI (1998). 12

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c) che prevedono l’acquisto concertato delle azioni o degli strumenti finanziari previsti dalla lett. b). Questi accordi impegnano gli aderenti ad assumere o incrementare la propria partecipazione in una data società, al fine di apportarle successivamente al sindacato; d) aventi per oggetto o per effetto l’esercizio, anche congiunto, di un’influenza dominante su tali società d-bis) volti a favorire o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio, ivi inclusi gli impegni a non aderire ad un’offerta. La disciplina – formulata agli artt. 122 ss. TUF – persegue, come già detto, essenzialmente due ordini di finalità. Un primo obiettivo riguarda la pubblicità dei patti parasociali: si tratta, dunque, di un profilo che attiene nuovamente al rafforzamento della trasparenza del mercato. Il TUF prescrive, in tale ottica, obblighi di comunicazione e di trasparenza dei patti stessi, al fine di renderli noti al mercato. Un secondo obiettivo attiene all’esigenza di assicurare che i patti parasociali non contrastino con le esigenze di efficienza del mercato del controllo societario (cfr. anche l’art. 91 TUF). Sotto il primo profilo, l’art. 122, comma 1 stabilisce che i patti, in qualunque forma stipulati, aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano, devono essere: a) comunicati alla Consob entro cinque giorni dalla stipulazione 13; b) pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana; c) depositati presso il registro delle imprese del luogo ove la società ha la sede legale; d) comunicati alla società quotata. Spetta alla Consob stabilire con Regolamento le modalità e i contenuti della comunicazione e dell’estratto. In caso di inosservanza degli obblighi di comunicazione, i patti sono colpiti con la sanzione della nullità. Inoltre, il diritto di voto inerente alle azioni quotate per le quali non sono stati adempiuti gli obblighi previsti dal comma 1 non può essere esercitato. Inoltre, si applica l’art. 14, comma 6: la delibera assunta con il voto determinante delle azioni interessate è impugnabile, e l’impugnazione può essere proposta anche dalla Banca d’Italia e dalla Consob entro il termine indicato nell’art. 14, comma 7. Per quanto attiene alle interferenze che i patti parasociali possono avere con le regole che mirano ad assicurare l’efficienza del mercato del controllo societario, l’art. 123 TUF persegue l’obiettivo di limitare nel tempo la durata 13 Non sono chiare le conseguenze di un’eventuale comunicazione tardiva alla Consob, o di un tardivo inadempimento degli altri obblighi pubblicitari. Gli Autori oscillano tra la tesi della nullità del patto, e tesi volte a confermare comunque la validità dell’accordo: v. per una sintesi delle diverse posizioni ATELLI (1998).

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dei patti, e comunque di renderne caduchi gli effetti in caso di lancio di un’offerta pubblica di acquisto. Il comma 1 stabilisce dunque che i patti parasociali, se a tempo determinato, non possono avere durata superiore a tre anni, e si intendono stipulati per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore. I patti sono tuttavia rinnovabili alla scadenza 14. Se i patti sono stipulati a tempo indeterminato, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di sei mesi. La regola della libera adesione all’offerta pubblica è invece formulata dal comma 3: gli azionisti che intendono aderire a un’offerta pubblica di acquisto o di scambio promossa ai sensi degli artt. 106 o 107 TUF possono recedere senza preavviso dai patti parasociali 15. Poiché il recesso è in tal caso finalizzato all’adesione all’offerta, si precisa che la dichiarazione di recesso non produce effetto se non si perfeziona il trasferimento delle azioni: tale evenienza può prodursi, ad esempio, nel caso in cui l’efficacia dell’offerta sia stata condizionata al raggiungimento di un quantitativo minimo di titoli, che non viene raggiunto al termine dell’operazione. In definitiva, si vuol fare in modo che l’azionista che ha aderito ad un patto di sindacato recuperi, nel caso di lancio di un’OPA, la propria autonomia, eventualmente decidendo di aderire all’offerta pubblica di acquisto promossa sui titoli della società, indipendentemente dagli obblighi assunti con il patto stesso. L’interesse alla contendibilità del controllo societario prevale, così, su quello degli aderenti al patto ad assicurare la stabilità e la coesione nel tempo degli assetti proprietari.

3. I diritti dei soci Sotto la denominazione “diritti dei soci” si collocano diverse previsioni del TUF, volte essenzialmente a introdurre, o a rafforzare, specifici meccanismi di tutela delle minoranze azionarie, incidendo soprattutto sulla portata di istituti propri del diritto generale delle società 16. La direzione lungo la quale muove il legislatore è essenzialmente la rimodellazione delle regole di funzionamento della società per azioni quotata, al fine di agevolare l’intervento dei soci e di rafforzarne la protezione. Rispetto alla versione originaria del TUF, i successivi interventi di riforma e di modifica 14

Nel senso che alla scadenza il patto debba essere espressamente rinnovato, non essendo consentite forme “tacite” di rinnovo dell’accordo v. COSTI (2006). 15 Il diritto di recesso deve ritenersi applicabile non soltanto in caso di avvio di un’offerta preventiva ex art. 107 Tuf, ma anche di un’offerta preventiva totalitaria, promossa volontariamente ai sensi dell’art. 102. V. al riguardo COSTI (2000). 16 V. per una ricostruzione generale SANTORO (1999).

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del Testo Unico hanno determinato l’abrogazione di alcune disposizioni, e l’aggiunta di nuove; alcune previsioni già contenute nel TUF risultano ora direttamente dalla disciplina codicistica. Al fine di non estendere troppo il campo di indagine, ci limitiamo a segnalare le disposizioni ad oggi contenute nel Testo Unico, e che figurano nella Sezione II, Capo II, Titolo III, dedicata ai “diritti dei soci” 17. Rientrano in tale ambito: – l’art. 125-bis, che regola, in uno con l’art. 126, la convocazione dell’assemblea; – l’art. 125-ter, che richiede la predisposizione di una relazione sulle materie all’ordine del giorno delle assemblee; – l’art. 125-quater, che disciplina gli obblighi di pubblicazione sul sito Internet dei documenti e delle altre informazioni in relazione alla convocazione delle assemblee; – l’art. 126-bis, che disciplina la facoltà per i soci di richiedere integrazioni all’ordine del giorno delle assemblee; – l’art. 127, che tratta del voto per corrispondenza o in via elettronica; – l’art. 127-ter, che disciplina il diritto di porre domande prima dell’assemblea; – l’art. 127-quater, che consente di emettere azioni alle quali spetta un dividendo maggiorato; – l’art. 127-quinquies, nel quale si prevede che gli statuti possono disporre che sia attribuito voto maggiorato, fino a un massimo di due voti, per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un periodo continuativo non inferiore a ventiquattro mesi a decorrere dalla data di iscrizione nell’elenco predisposto dalla società; – l’art. 127-sexies, che in deroga all’art. 2351 c.c. stabilisce che le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti, anche successivamente alla quotazione. Con riferimento agli istituti cui sopra il legislatore si muove comunque in una prospettiva di tutela di tipo collettivo: non si interviene, infatti, con istituti o strumenti affidati all’iniziativa del singolo socio, quanto con regole che comunque si applicano a minoranze “qualificate” o, quantomeno, “organizzate”. E, sotto questo specifico profilo, si intuisce il possibile ruolo che potrebbe essere svolto dagli investitori istituzionali (ad esempio i fondi comuni), in quanto possibili detentori di non trascurabili partecipazioni al capitale delle società quotate. 17

L’originaria rubrica “Tutela delle minoranze” è stata sostituita con l’espressione “Diritti dei soci” dal D.Lgs. n. 27/2010.

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4. Le deleghe di voto Sulla scorta di quanto realizzato in alcune significative esperienze straniere il TUF aveva introdotto anche in Italia una articolata disciplina della sollecitazione e della raccolta delle deleghe di voto 18. La materia è stata poi riformulata in dipendenza del recepimento in Italia della Shareholders’Rights Directive (artt. 135-novies ss. TUF). L’art. 135-novies tratta della rappresentanza in assemblea stabilendo, quale principio generale, che è ammessa l’indicazione di un unico rappresentante per ciascuna assemblea. Se la delega prevede la relativa facoltà, il delegato può peraltro farsi sostituire da un soggetto di propria scelta, nel rispetto di quanto previsto dal comma 4. Nel caso di conflitto di interessi del rappresentante (o dei sostituiti), l’art. 135-decies stabilisce alcune cautele minimali: disclosure del conflitto, e conferimento di istruzioni di voto specifiche, statuendo infine la non applicabilità dell’art. 1711, comma 2, c.c. È poi prevista la possibilità che le società con azioni quotate designino, per ciascuna assemblea, un soggetto al quale i soci possono conferire – entro i termini previsti – una delega con istruzioni di voto sulle materia all’ordine del giorno (art. 135-undecies). La sollecitazione delle deleghe è regolata dagli artt. 136 ss. Si tratta di una disciplina riferibile ad un fenomeno particolarmente diffuso nei sistemi nordamericani, che si pone come strumento di rafforzamento della trasparenza e della governance delle assemblee delle società quotate. Si pensi, a mero titolo di esempio, al ruolo che in tale ambito possono svolgere associazioni rappresentative degli interessi di particolari categorie di azionisti, come ad esempio i dipendenti della società, in grado di convogliare, per conto di numerosi soggetti, un numero di voti che, altrimenti, rischierebbe di restare inespresso. La legge deve però assicurare che la raccolta e la sollecitazione delle deleghe si svolga con modalità tali da assicurare trasparenza, e sotto appositi controlli: ove così non fosse, ciò che potrebbe essere strumento di “democrazia azionaria” potrebbe invece essere fonte di abusi 19. Dopo aver definito la sollecitazione come “la richiesta di conferimento di deleghe di voto rivolta a più di duecento azionisti su specifiche proposte di voto ovvero accompagnata da raccomandazioni, dichiarazioni o altre indicazioni idonee a influenzare il voto”, il Testo Unico rende applicabili le disposizioni in tema di rappresentanza e di conflitto di interessi regolate dagli artt. 135-novies e decies. 18

GHEZZI (1999), BALP (1999); CANEPARI (1999); SFAMENI (1999); CARDARELLI (1999); FAZZUTTI (1999); PALMIERI (2002); LAMANDINI (2002-II); PISANI (2002-VII); MEO (2002-III). 19 Per un più articolato esame della disciplina delle deleghe di voto, ed anche per raffronti con la disciplina statunitense, v. PAGNONI e PROVIDENTI (1998).

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La sollecitazione è effettuata dal promotore mediante la diffusione di un prospetto e di un modulo di delega. Lo svolgimento della sollecitazione è disciplinato dalla Consob, nel rispetto dei criteri stabiliti dall’art. 144 TUF; è comunque previsto che le informazioni contenute nel prospetto o nel modulo di delega, e quelle eventualmente diffuse nel corso della sollecitazione, siano idonee consentire all’azionista di assumere una decisione consapevole (art. 143). Il promotore è responsabile della relativa idoneità, oltre che della completezza delle informazioni diffuse nel corso della sollecitazione (commi 2, 3). Non costituisce, infine, sollecitazione l’attività svolta da associazioni di azionisti costituite nel rispetto dell’art. 141 TUF. Ad oggi, il ricorso alla sollecitazione delle deleghe ha avuto, in Italia, diffusione limitata.

5. Le azioni di risparmio Le azioni di risparmio furono introdotte, nell’ordinamento italiano, con la legge 7 giugno 1974, n. 216. Esse rispondevano all’esigenza di prevedere la partecipazione al capitale della società di azionisti-investitori, interessati al risultato economico della partecipazione, piuttosto che all’esercizio del voto. L’esperienza maturata negli anni di applicazione della legge n. 216/1974 si è però rivelata in gran parte insoddisfacente. I privilegi economici riconosciuti alle azioni di risparmio non hanno rappresentato un sufficiente incentivo alla diffusione di tale forma di partecipazione azionaria, di cui è stata criticata la rigidità, e l’inidoneità ad esprimere un’effettiva correlazione tra valore dell’investimento e remunerazione dello stesso (ad esempio, in quanto il dividendo minimo privilegiato era dalla legge commisurato non già al prezzo di emissione delle azioni, ma al loro valore nominale) 20. La nuova disciplina delle azioni di risparmio esprime una chiara tendenza alla “liberalizzazione” dell’istituto. La riforma si è orientata nel senso di lasciare ampia libertà e autonomia alle società emittenti per quanto attiene alla definizione delle caratteristiche delle azioni di risparmio, e dei relativi diritti e privilegi: spetta, infatti, allo statuto definire le caratteristiche delle azioni stesse. L’impostazione adottata appare coerente con il perseguimento degli obiettivi di efficienza e competitività del mercato finanziario, che più in generale ispirano il TUF; il rinvio all’autonomia statutaria per la definizione delle caratteristiche delle azioni di risparmio comporta l’accentuarsi della concorrenza 20 Con riferimento alla disciplina introdotta dal TUF si vedano SEPE (1998); NOTARI (1999), DE VITIS (1999); GALLETTI (1999); SANTAGATA (2002-V); COSTA-NUZZO (2002); MEO (2002-III).

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tra gli emittenti in fase di raccolta dei capitali, risolvendosi in un fattore di “selezione” tra le diverse emissioni o titoli, a vantaggio della competitività dei diversi strumenti presenti sul mercato dei capitali. L’impostazione liberale seguita dal legislatore in sede di redazione del TUF risulta particolarmente accentuata: ai sensi dell’art. 145, commi 1 e 2, TUF, l’emissione delle azioni viene riservata non soltanto alle società italiane con azioni quotate in mercati italiani, ma si estende anche alle società italiane con azioni quotate in mercati di altri paesi dell’Unione Europea. Spetta all’atto costitutivo determinare il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le modalità e i termini per il suo esercizio, nonché i diritti spettanti agli azionisti di risparmio in caso di esclusione dalle negoziazioni delle azioni ordinarie o di risparmio. Si osservi, però, che il rinvio all’autonomia statutaria incontra comunque un limite nel rispetto delle norme poste dagli artt. 145-147-bis TUF, che si pongono quali elementi “caratterizzanti” le azioni di risparmio rispetto ad altre tipologie di azioni. Inoltre, l’emissione delle azioni di risparmio è comunque riservata alle sole società che abbiano azioni ordinarie quotate; di contro, non è più richiesto che anche le azioni di risparmio siano ammesse alla quotazione. Tra le regole caratterizzanti (ed inderogabili) della disciplina delle azioni di risparmio – che spesso riprendono soluzioni già previste nella disciplina antecedente – si segnala: i) l’obbligo di prevedere un valore nominale delle azioni di risparmio, uguale a quello delle azioni ordinarie; ii) l’obbligo di riportare sui relativi certificati l’indicazione dei privilegi che spettano, e di rendere le azioni nominative quando esse non sono interamente liberate, o appartengono agli amministratori, sindaci e direttori generali della società; iii) l’ammontare massimo complessivo delle azioni di risparmio che, in concorso con quello di altre azioni a voto limitato, non può superare la metà del capitale sociale (art. 2351, comma 2, c.c.); iv) l’esistenza e l’organizzazione di un’assemblea “speciale” degli azionisti di risparmio (art. 146) che è chiamata, tra l’altro, ad approvare le deliberazioni dell’assemblea della società che pregiudicano i diritti della categoria (è richiesto il voto favorevole di tanti azionisti di risparmio che rappresentino almeno il 20% delle azioni della categoria) 21; v) la previsione di un rappresentante comune degli azionisti di risparmio, che provvede a curare gli interessi della categoria, secondo uno schema analogo a quanto si rinviene in materia di obbligazioni (v. artt. 2417 e 2418 c.c.) 22.

21 22

AUTUORI (1999). V. da ultimo in argomento COSTA (2002).

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6. Organi di amministrazione nelle società quotate L’art. 147-ter TUF introdotto dall’art. 1 legge n. 262/2005 e succ. modd., richiede che gli statuti delle società quotate prevedano sistemi di nomina del consiglio di amministrazione basati sul c.d. “voto di lista” 23: viene così estesa anche ai componenti dell’organo amministrativo la regola già introdotta, nel 1998, con riferimento alla nomina dei componenti il Collegio sindacale, e tesa ad assicurare (almeno a livello teorico) 24 una più equilibrata composizione del Consiglio, che sia espressione anche delle cc.dd. “minoranze”. Le regole per la presentazione delle liste sono rimesse all’autonomia statutaria: lo statuto, pertanto, resta libero di fissare tempi e luoghi di pubblicazione delle liste e di fissare anche i requisiti di legittimazione dei soci. La legge, tuttavia, stabilisce un limite (pari al 2,5% del capitale) quale soglia massima di partecipazione che lo statuto può richiedere per la presentazione delle liste: il limite può essere modificato dalla Consob con regolamento, tenendo conto della capitalizzazione, del flottante e degli assetti proprietari delle società quotate. Quanto ai risultati della deliberazione, l’art. 147-ter precisa che (salvo l’art. 2409-septiesdecies c.c.) almeno un componente del Consiglio di amministrazione deve essere espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata, in alcun modo, neppure indirettamente, con la lista risultata prima per numero di voti. Quanto alla composizione del Consiglio di amministrazione, l’art. 147-ter, comma 4 prevede che – se esso è composto da più di 7 componenti – almeno uno di essi deve possedere i requisiti di indipendenza previsti dal TUF per i sindaci, nonché – se lo statuto lo prevede – gli ulteriori requisiti previsti dai codici di comportamento 25. Nel caso del consiglio di gestione, quando questo è composto da più di 4 membri, almeno uno di essi deve possedere i requisiti di indipendenza di cui sopra. Si tratta di disposizioni che istituzionalizzano la figura del c.d. “amministratore indipendente”, in precedenza prevista soltanto dai codici di autodisciplina delle società quotate. Vengono altresì previsti requisiti di onorabilità per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione e direzione nelle società quotate (art. 147-quinquies). 23

Per un primo commento v. VATTERMOLI (2007). Infatti, il meccanismo del voto di lista assicura la rappresentanza in seno all’organo di amministrazione della minoranza soltanto nel caso in cui vengano presentate più liste. Qualora ciò non accada, o qualora non venga presentata alcuna lista, tale obiettivo non viene ovviamente raggiunto. 25 Il riferimento è ai requisiti stabiliti dall’art. 148, comma 3, TUF. 24

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Con una recente modifica – e sulla scorta di quanto già sperimentato in più avanzate esperienze europee – è stato infine introdotto un nuovo regime teso ad assicurare una adeguata presenza, negli organi degli emittenti quotati, di persone di sesso femminile (cfr. artt. 147-ter, comma 1-ter e 148 TUF).

7. Collegio sindacale e revisione contabile negli emittenti quotati La riforma del collegio sindacale, e della disciplina della società di revisione, è stato uno degli elementi portanti della riforma del diritto societario realizzata con il Testo Unico, in molti aspetti anticipatrice delle successive riforme 26. Il miglioramento delle regole disciplinanti il funzionamento delle società quotate, che costituisce – come si è visto – uno dei tasselli della più generale riforma dei mercati finanziari, passava, necessariamente, attraverso la ridefinizione dei meccanismi di controllo interno delle società, con particolare riferimento al collegio sindacale, al quale la stessa legge-delega per l’emanazione del TUF si riferisce espressamente 27. Sotto questo specifico profilo, il Testo Unico coglieva, peraltro, l’occasione per intervenire in una materia ormai da tempo controversa, essendosi ormai ampiamente sottolineate le insufficienze e le incongruenze della disciplina societaria, quale formulata nel codice civile, relativamente al collegio sindacale 28, e – per le società quotate – le altrettanto incongrue sovrapposizioni con l’intervento della società di revisione. Con riferimento al collegio sindacale, i principi-guida che reggono la materia consistono essenzialmente: – nella separazione, per le società quotate, tra funzioni di controllo contabile, e compiti di controllo sulla gestione dell’impresa: le prime, affidate ai soggetti incaricati della revisione; i secondi, al collegio sindacale; – nella ridefinizione delle regole relative alla composizione del collegio sindacale, con particolare riferimento alla previsione di meccanismi tali da assicurare la nomina di sindaci da parte della minoranza 29; – nel riconoscimento, a favore dei sindaci di società quotate, di poteri nuovi, volti a rafforzare il controllo sulla gestione dell’impresa, tra cui quello di 26

V. per una disamina della nuova disciplina MARCHETTI-MAGNANI (1999); MAGNANI (1999); PARRELLA (1998); VALENSISE (1998-III); SALAFIA (1998); CAVALLI (2002); COLOMBO (2002); MEO (2002-III). 27 V. l’art. 21, legge 6 febbraio 1996, n. 52. 28 MARCHETTI (1995). 29 RABITTI BEDOGNI (1998-V); AMOROSINI (1999); CAVALLI (2002).

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convocare gli organi sociali, nei casi previsti, e la possibilità di presentare denuncia al tribunale nel caso di fondato sospetto di gravi irregolarità 30. In virtù di quanto sopra, i compiti spettanti al collegio sindacale di società quotate sono individuati dall’art. 149 TUF, il quale stabilisce che i sindaci vigilano: a) sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; b) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione; c) sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativocontabile, nonché sull’affidabilità di quest’ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione; d) sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario previste da codici di comportamento cui la società deve attenersi; e) sull’adeguatezza delle disposizioni impartite dalla società alle società controllate ai sensi dell’art. 114, comma 2 31. Vengono dunque espunti dagli obblighi del collegio sindacale quelli attinenti alla verifica della tenuta della contabilità, e della redazione del bilancio 32 – in quanto attribuiti ai revisori – sebbene i sindaci mantengano il compito di controllare il “sistema amministrativo contabile”, e l’affidabilità di quest’ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione. Lo svolgimento dei compiti del collegio sindacale passa attraverso una ridefinizione anche dei diritti e dei poteri ad essi spettanti. In particolare: – gli amministratori devono riferire tempestivamente, secondo le modalità stabilite dall’atto costitutivo e con periodicità almeno trimestrale, al collegio sindacale sull’attività svolta e sulle operazioni di maggior rilievo economico, finanziario e patrimoniale, effettuate dalla società o dalle società controllate; in particolare, riferiscono sulle operazioni in potenziale conflitto di interesse (art. 150, comma 1); – il collegio sindacale e i revisori legali devono scambiarsi i dati e le informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti (art. 150, comma 3); – coloro che sono preposti al controllo interno riferiscono anche al collegio sindacale di propria iniziativa o su richiesta anche di uno solo dei sindaci (art. 150, comma 4); 30

V. gli artt. 151-153 TUF. In argomento PARRELLA (1998-II); RABITTI BEDOGNI (1998-

VI). 31

Cfr. l’art. 2403 c.c. L’art. 154 TUF dichiara quindi inapplicabili al collegio sindacale delle società con azioni quotate gli artt. 2397, 2398, 2399, 2403, 2403-bis, 2405, 2426, nn. 5 e 6, 2429 e 2441, comma 6, c.c. 32

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– i sindaci possono, anche individualmente, chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari nonché procedere in qualsiasi momento ad atti d’ispezione e di controllo anche direttamente nei confronti di società controllate (art. 151, comma 1); – il collegio sindacale può, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, convocare l’assemblea dei soci, il consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo e avvalersi di dipendenti della società per l’espletamento delle proprie funzioni. I poteri di convocazione e di richiesta di collaborazione possono essere esercitati individualmente, tranne la convocazione dell’assemblea che deve essere esercitata da almeno due membri del collegio (art. 151, comma 2); – al fine di valutare l’adeguatezza e l’affidabilità del sistema amministrativocontabile, i sindaci, sotto la propria responsabilità e a proprie spese, possono avvalersi, anche individualmente, di propri dipendenti e ausiliari che non si trovino in una delle condizioni previste dall’art. 148 TUF. La società può però rifiutare agli ausiliari l’accesso a informazioni riservate (art. 151, comma 3). Con norma che deriva direttamente dalla disciplina degli intermediari, l’art. 149, comma 3 estende, infine, al collegio sindacale di società quotate l’obbligo di comunicare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza, e di trasmettere i relativi verbali delle riunioni e degli accertamenti svolti e ogni altra utile documentazione. Sotto il profilo della composizione del collegio sindacale, l’art. 148, comma 2, TUF, come modificato a seguito della legge sulla tutela del risparmio, affida alla Consob il compito di stabilire le modalità “per l’elezione di un membro effettivo del collegio sindacale da parte dei soci di minoranza che non siano collegati, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti” 33. La previsione viene a sostituirsi a quella precedentemente adottata, in base alla quale l’atto costitutivo delle società quotate doveva contenere le clausole necessarie ad assicurare che un membro effettivo del collegio sindacale fosse eletto dalla minoranza (e che, se il collegio fosse stato composto da più di 3 componenti, gli eletti dalla minoranza dovevano essere almeno 2). In sostanza, l’innovazione risiede nell’aver affidato direttamente alla Consob il potere di stabilire le regole da seguire per la nomina del “sindaco di minoranza”, e ciò al fine di rendere maggiormente pregnanti le disposizioni in materia, In ogni caso (e con una previsione all’epoca della sua introduzione dal carattere fortemente innovativo) il nuovo comma 2-bis dell’art. 148 TUF dispone che “il presidente del collegio sindacale è nominato dall’assemblea tra i sindaci eletti dalla minoranza” 34. 33 34

Per un primo commento v. VATTERMOLI (2007-II). Le disposizioni in materia di nomina del Consiglio di amministrazione e del Collegio

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La legge n. 262/2005 ha modificato il Testo Unico, nella materia di cui si discute, ridefinendo anche i requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza dei soggetti che svolgono funzioni di controllo nelle società quotate e nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 148, commi 3 e 4; art. 148-bis), ed introducendo disposizioni volte a limitare il cumulo degli incarichi in capo ai membri degli organi di controllo di emittenti quotati e emittenti titoli diffusi 35. Solo un cenno merita, in questa sede, la disciplina della revisione contabile: tale disciplina dapprima consolidatasi nel TUF è ora riformulata nel D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39. Nel TUF sono rimaste alcune previsioni relative: – all’obbligo dei revisori di informare la Consob e l’organo di controllo dei fatti censurabili (art. 155), nonché nei casi di giudizio “non positivo” sul bilancio (cfr. l’art. 156); – agli effetti dei giudizi sui bilanci. In base all’art. 157, la deliberazione che approva il bilancio d’ esercizio può essere impugnata, per mancata conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione, da tanti soci che rappresentano almeno il 5% del capitale sociale. Tanti soci che rappresentano la medesima quota di capitale della società con azioni quotate possono richiedere al tribunale di accertare la conformità del bilancio consolidato alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione. La Consob può esercitare in ogni caso le azioni di impugnativa entro sei mesi dalla data di deposito del bilancio d’esercizio e del bilancio consolidato presso l’ufficio del registro delle imprese.

8. L’informazione finanziaria Gli artt. 154-bis e 154-ter TUF risultano, in parte, dalle novità introdotte nel corpo del TUF dalla legge n. 262/2005 e, in parte, dal recepimento della Transparency Directive.

sindacale si riflettono, ovviamente, sui criteri di nomina degli organi di amministrazione nei sistemi alternativi di amministrazione e controllo, che risultano conseguentemente adattate al nuovo sistema. 35 Il nuovo art. 148-bis TUF affida alla Consob il potere di stabilire, con regolamento, “limiti al cumulo degli incarichi di amministrazione e controllo che i componenti degli organi di controllo delle società di cui al presente capo, nonché delle società emittenti strumenti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116, possono assumere presso tutte le società di cui al libro V, titolo V, capi V, VI e VII, del codice civile”: v. gli artt. 144-duodecies ss. del Regolamento emittenti.

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L’art. 154-bis disciplina la figura del “dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari” 36: gli emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro di origine devono nominare un dirigente al quale è affidato lo svolgimento di particolari compiti inerenti la redazione dei documenti contabili della società. Le modalità di nomina del dirigente sono rimesse allo statuto (art. 154-bis), fermo restando che il soggetto deve essere collocato nei più alti livelli della scala gerarchica, e dotato di autonomia di direzione (cfr. gli artt. 2094 e 2095 c.c.). Il dirigente è investito di una serie di compiti che riguardano, essenzialmente, l’assetto amministrativo e contabile della società, ed il rilascio di una lunga serie di “attestazioni” attinenti il bilancio, le scritture contabili, e – in genere – l’“affidabilità” delle informazioni ivi contenute (cfr. art. 154-bis, comma 5). In generale, la figura del Dirigente appare caratterizzata da una forte impronta “di garanzia” nei confronti dei terzi. A tale ruolo fa riscontro un preciso regime di responsabilità: l’art. 154-bis, comma 6, TUF, equipara infatti la responsabilità del Dirigente (con riferimento ai compiti allo stesso attribuiti) a quella prevista per gli amministratori. Resta inoltre ferma l’esperibilità, nei confronti del dirigente, delle azioni che trovano la loro origine nel rapporto di lavoro che intercorre con la società. Inoltre, la riforma introduce in varie norme del codice penale e del codice civile il riferimento a questa figura, ponendolo così su di un piano assimilabile a quello degli amministratori, in particolare sotto il profilo degli illeciti penali 37. Quanto alle “relazioni finanziarie”, il nuovo art. 154-ter (introdotto in sede di recepimento della Direttiva Transparency) prevede una serie di scadenze annuali e infrannuali per la pubblicazione – da parte degli emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro di origine – del bilancio di esercizio, del bilancio semestrale abbreviato (già relazione semestrale), e del resoconto intermedio di gestione (già relazione trimestrale).

9. Emittenti quotati e emittenti titoli diffusi La riforma della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative – attuata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ed in vigore dal 1° gennaio 2004 – formula varie previsioni riferite alle società con azioni quotate nei mercati regolamentati, confermando così la “specialità” della disciplina 38 degli emittenti quotati rispetto alle società non quotate. 36

V. GENTILI (2007); RORDORF (2007). V. MICHELETTI (2007). 38 Diffusamente, in argomento, MONTALENTI (2004). 37

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Per comprendere appieno l’impatto che la riforma ha avuto sugli emittenti quotati bisognerebbe, in realtà, procedere ad un esame generale della nuova disciplina societaria. Le società quotate restano, infatti, disciplinate dalle stesse norme che si applicano alle società non quotate; esse, tuttavia, si discostano dal modello comune sotto vari profili. Tuttavia, svolgere una tale indagine è del tutto incompatibile con l’obiettivo delle presenti note. Ai fini che qui interessano, dunque, ci limiteremo a segnalare talune delle previsioni più significative nelle quali il legislatore ha formulato regole specifiche riferite agli emittenti quotati, o ha comunque ritenuto di “differenziare” le società quotate dalle altre confermando, così, la “specialità” della relativa disciplina. A tal riguardo, va innanzitutto richiamato l’art. 2325-bis c.c., il quale introduce la definizione di “società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio”, stabilendo che tale espressione comprende “le società emittenti di azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante”. La norma, che abbiamo già avuto occasione di richiamare (v. supra, Cap. XVII) merita di essere segnalata in quanto, come già osservato, conferma la tendenza alla progressiva assimilazione, al regime proprio degli emittenti quotati, degli emittenti titoli diffusi, avviata dal TUF. Sempre il medesimo art. 2325-bis c.c. affronta poi il problema dei rapporti tra la nuova disciplina e le disposizioni speciali – tra cui quelle del TUF – stabilendo che “le norme di questo capo si applicano alle società emittenti di azioni quotate in mercati regolamentati in quanto non sia diversamente disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali”. Dunque il rapporto tra la disciplina generale delle società di capitali, e quella (speciale) degli emittenti quotati prevista dal TUF, dovrebbe ricostruirsi assegnando prevalenza alle disposizioni del Testo Unico là dove esse confliggano con quelle generali. Orbene, le disposizioni che – nella nuova disciplina – si riferiscono specificamente alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio sono numerose, con il che si realizza una vera e propria “sovrapposizione” tra disciplina generale e TUF. Da ciò consegue che, per effetto della riforma, le società quotate sono: i) soggette alla disciplina generale prevista per tutte le società, salvo quanto espressamente previsto; ii) soggette altresì alla disciplina speciale del TUF, per quanto non previsto dalla disciplina generale; iii) in caso di contrasto tra disciplina generale e TUF, prevalgono le disposizioni del TUF. Ciò detto, le principali disposizioni che prevedono una “differenziazione” della società che fa ricorso al capitale di rischio rispetto alla disciplina generale sono le seguenti:

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i) art. 2341-ter c.c., ove il legislatore torna (nuovamente) ad occuparsi della materia dei patti parasociali. In base a questa disposizione, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i patti parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea. La dichiarazione deve essere trascritta nel verbale e questo deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. In caso di mancanza della dichiarazione prevista i possessori delle azioni cui si riferisce il patto parasociale non possono esercitare il diritto di voto e le deliberazioni assembleari adottate con il loro voto determinante sono impugnabili a norma dell’art. 2377. È del tutto evidente che la nuova disposizione conferma la tendenza – già resa evidente dal TUF – di assoggettare i patti parasociali a proprie regole di trasparenza 39; ii) art. 2351, comma 3, c.c., in materia di diritto di voto, ed in base al quale solo lo statuto può altresì prevedere che, in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne scaglionamenti; iii) art. 2366 c.c., che disciplina le modalità di convocazione delle assemblee per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, diverse dalle cooperative; iv) artt. 2368, 2369, 2370 e 2372 c.c. che prevedono maggioranze specifiche per le delibere delle assemblee delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, nonché regole particolari per quanto attiene al diritto di intervento e alla rappresentanza in assemblea; v) art. 2377 c.c., in base al quale le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale. L’impugnazione può essere proposta dai soci quando possiedono tante azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il 5% nelle altre; lo statuto può ridurre o escludere questo requisito; vi) art. 2379-ter c.c., in base al quale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio l’invalidità della deliberazione di aumento del capitale non può essere pronunciata dopo che, a norma dell’art. 2444, sia stata iscritta nel registro delle imprese l’attestazione che l’aumento è stato anche parzialmente eseguito; l’invalidità della deliberazione di riduzione del capitale ai sensi dell’art. 2445 o della deliberazione di emissione delle obbligazioni non può essere pronunciata dopo che la deliberazione sia stata anche parzialmente eseguita; 39

Si osservi che, in base all’art. 122, comma 5-bis, TUF, ai patti relativi a emittenti quotati, ai quali si applica l’art. 122 TUF, non si applicano gli artt. 2341-bis e ter c.c.

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vii) art. 2393 c.c., che prevede regole particolari per quanto attiene alla rinuncia all’azione sociale di responsabilità per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio; viii) art. 2393-bis c.c., in base al quale l’azione sociale di responsabilità può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, l’azione può essere esercitata dai soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale o la minore misura prevista nello statuto; ix) art. 2408 c.c., in base al quale ogni socio può denunziare i fatti che ritiene censurabili al collegio sindacale, il quale deve tener conto della denunzia nella relazione all’assemblea. Se la denunzia è fatta da tanti soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale o un cinquantesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il collegio sindacale deve indagare senza ritardo sui fatti denunziati e presentare le sue conclusioni ed eventuali proposte all’assemblea; x) art. 2409 c.c., in base al quale se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il ventesimo del capitale sociale possono denunziare i fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società. Lo statuto può prevedere percentuali minori di partecipazione; xi) art. 2409-octiesdecies c.c., in base al quale, salvo diversa disposizione dello statuto, la determinazione del numero e la nomina dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione spetta al consiglio di amministrazione. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio il numero dei componenti del comitato non può essere inferiore a tre; xii) art. 2412 c.c., in base al quale i limiti generalmente previsti per l’emissione di obbligazioni non si applicano all’emissione di obbligazioni effettuata da società le cui azioni siano quotate in mercati regolamentati, limitatamente alle obbligazioni quotate negli stessi o in altri mercati regolamentati; xiii) art. 2437 c.c., in base al quale soltanto lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso; xiv) art. 2437-quinquies c.c., il quale dispone che, se le azioni sono quotate sui mercati regolamentati, hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso alla deliberazione che comporta l’esclusione dalla quotazione; xv) art. 2437-ter c.c., che detta criteri particolari per il calcolo del valore di liquidazione in caso di recesso, nel caso di azioni quotate nei mercati regolamentati; xvi) art. 2441 c.c., che formula regole particolari in materia di aumenti di capitale, con esclusione o limitazione del diritto di opzione;

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xvii) art. 2497-quater c.c., in base al quale il socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento può recedere all’inizio ed alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, quando non si tratta di una società con azioni quotate in mercati regolamentati e ne deriva un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto. L’elenco di cui sopra vuole offrire soltanto un “primo inventario”, necessariamente incompleto, delle norme più direttamente riferite, nella nuova disciplina, alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Molte di queste norme si collocano nel solco di quanto già tracciato dal TUF, e si basano sulla medesima ratio; altre hanno una portata diversa (v. ad esempio l’art. 2497-quater c.c.). In generale, un dato ormai “acquisito” dal sistema attiene alla tendenziale, anche se incompleta, “equiparazione” che viene a realizzarsi – nelle disposizioni citate – tra emittenti quotati e emittenti titoli diffusi: fenomeno, come già detto, avviato dal Testo Unico del 1998, e che, negli anni successivi, ha assunto una portata considerevolmente più ampia.

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Indicazioni bibliografiche

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Indicazioni bibliografiche

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