La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento

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Biblioteca Universale Laterza 563

ISTITUZIONI DELLO SPETTACOLO

serie diretta da Luigi Allegri e Roberto Alonge

VOLUMI PUBBLICATI

Teatro e avanguardie storiche. Traiettorie dell’eresia di Roberto Tessari Il cinema americano classico di Giaime Alonge e Giulia Carluccio Il cinema europeo di Mariapia Comand e Roy Menarini Metodologie di analisi del film a cura di Paolo Bertetto Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena di Roberto Alonge

Alessandro Pontremoli

La danza Storia, teoria, estetica nel Novecento

Editori Laterza

© 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004 Terza edizione 2006

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2006 Digital Print Service srl Via Torricelli, 9 - 20090 Segrate (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-7372-5

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ai miei genitori, Tina e Federico

Introduzione

Si può essere occidentali, birmani, o qualsiasi altra cosa, ma la consapevolezza del proprio corpo e della sua funzione emerge nella danza, e allora si diventa un danzatore, non più solo un essere umano. Martha Graham

Non è insolito, visitando le grandi città del così detto mondo occidentale, da New York a Los Angeles, da Madrid a Berlino, da Milano a Palermo – poco importa se in zone centrali o periferiche – imbattersi in gruppi di giovani ragazzi, più o meno «palestrati» – per usare la nuova gergalità del corpo, propria del nostro tempo –, vestiti con abiti fuori misura, che si sfidano in performances acrobatiche a bordo di volanti skateboards, volteggiando su veloci rollerblades, o semplicemente scatenandosi nella break-dance con l’intero corpo posto sotto sopra e fatto roteare virtuosisticamente sul perno della testa. Monumenti marmorei, spianate di liscio cemento, piazze periferiche deserte diventano così altrettanti luoghi teatralizzati, scena di una ritualità giovanile che si nutre, tra l’altro, della protesta musicale, propria dei caratteristici successi dei ritmi hip-hop. Altrettanto frequente e per nulla peregrina è oggi la possibilità di trovarsi coinvolti in una festa di «neri», alla periferia di una grande VII

città europea, con musiche «etniche» a tutto volume che accompagnano un cadenzato e molleggiato ballo saltato, dal quale siamo affascinati e attratti, certamente in modo maggiore e con più naturalezza che non magari dal catering africano, allestito per l’occasione, cui i nostri gusti non sono particolarmente avvezzi. Ancora: fenomeno molto diffuso è quello ben noto della discoteca, palcoscenico di una danza convulsa, spesso concentrata in spazi angusti, dove l’agitarsi ritmico delle membra dei giovani frequentatori al martellante suono della musica techno differisce di poco dall’erotismo ostentato dei cubisti di professione. Tre scene metropolitane: due in «esterno giorno», una in «interno notte». Cosa hanno in comune fra loro? In cosa, invece, differiscono? L’ampia fenomenologia delle espressioni della danza ricopre, nel tempo attuale – come del resto anche in epoche passate si è verificato –, un ruolo non secondario all’interno delle diverse culture e società del mondo, oggi non più così distanti fra loro e neppure poi così tanto diverse. Proprio il corpo che danza, per le caratteristiche di esperienza molto diffusa ed eterogenea nelle sue forme di espressione, sembra oggi essere la risposta local all’invasione del global, da parte di culture non facilmente omologabili, che rivendicano il senso di un’appartenenza come condizione di reale dialogo fra le differenze, oggettivamente venute a contatto e conviventi, spesso in termini conflittuali, su un medesimo territorio. Parallelamente, sono proprio le manifestazioni della danza «di appartenenza» a diventare talvolta momenti di autentica condivisione fra realtà culturali spesso molto distanti. Si pensi, ad esempio, a certe feste metropolitane, in cui diverse etnie si incontrano e si confrontano sul terreno della musica, della cucina, dell’abbigliamento e del ballo. Ciò accade perché ogni forma di danza è legittimata, in primo luogo, dal fatto di rappresentare sempre una risposta a una precisa istanza culturale che intenda comunicarsi agli altri; in secondo luogo perché è specchio della società che la produce1. Il corpo che danza, oltre a rivelare se stesso e la persona di cui è incarnazione, nella sua immediatezza si presenta come un corpo sociale2, un corpo, cioè, che ap1

Cfr. G. Calendoli, Storia universale della danza, Mondadori, Milano 1985, pp.

8-10. 2 Cfr. U. Volli, Il corpo della danza. Vent’anni di Oriente Occidente. Oriente Occidente. Incontri internazionali di Rovereto Danza Teatro, Osiride, Rovereto 2001, p. 11.

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partiene a una società ben identificabile, cui deve le sue forme e le sue deformazioni3. Ogni cultura, infatti, in base all’estetica corrente, cura il corpo con determinati cosmetici, lo modella secondo precise tecniche, lo manipola nei più svariati modi, lo ostenta vestito secondo un gusto particolare, per permettere alla persona di parlare di sé, producendo una vera e propria scrittura sul corpo e col corpo. Il compito affidato a tale scrittura è quello di veicolare significati e, per il tramite degli stessi, organizzare il rapporto fra gli individui, e fra essi e la realtà che li circonda. Il corpo sociale si dona, dunque, nella comunicazione, come una scrittura, della quale è possibile, reciprocamente, una lettura: i molteplici sensi di una espressione facciale, di un comportamento e del modo di manifestarlo nel corpo attraverso una particolare forma possono essere compresi dagli altri. E ciò a un punto tale che non è insolito individuare, in una stessa epoca, dei tratti comuni nei volti, negli atteggiamenti e negli abiti di cui i corpi sono rivestiti. La dialettica fra identità e socialità rivela che esiste una stretta relazione fra i soggetti e le idee, le abitudini, i gesti e le posture proprie del tempo e del luogo, nei quali un corpo è storicamente e socialmente collocato. La prima percezione che si ha dell’altro è, dunque, una percezione sociale, se è vero, come afferma Goffman4, che il nostro modo di mostrarci al pubblico dipende da convenzioni, che da un lato ci proteggono, ma dall’altro tendono spesso a ingabbiarci entro gli stretti limiti di una definizione non esauriente. Se usciamo dai confini nei quali siamo in grado di mettere in atto la decodifica delle scritture somatiche, sperimentiamo il disorientamento e la difficoltà a riconoscere l’identità dei corpi con cui entriamo in relazione5. Si

3 Secondo una prospettiva a un tempo antropologica e semiologica, infatti, il corpo è un artefatto, una costruzione progettata in seno a una determinata società e regolata dalla sua cultura estetica. 4 Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969 (ed. or., The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, Garden City, NY, 1959); Id., Espressione e identità. Gioco, ruoli, teatralità, Il Mulino, Bologna 20032 (ed. or., Encounters. Two Studies in the Sociology of Interaction, BobbsMerrill, Indianapolis 1961). 5 L’esteriorità del corpo si organizza per differenze e opposizioni, che insieme all’impatto emotivo costituiscono le condizioni per la lettura di un corpo: il dimorfismo sessuale ne è l’esempio più eclatante. Cfr. U. Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 254-258.

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tratta di uno spaesamento non dissimile da quello che proviamo quando ci troviamo in un paese straniero. La possibilità della finzione – o meglio della menzogna –, all’interno di questa scrittura del corpo, è la riprova che certi comportamenti sociali, inerenti alle espressioni del volto e alle posture, rappresentano uno spazio strategico di manipolazione delle apparenze. È proprio in virtù di questo scarto che l’attore-danzatore (il performer) è in grado, con pochi segni, di far dire al proprio corpo molte cose, di atteggiare il volto secondo un preciso processo di codificazione, specifico di una determinata cultura. Ed è lo stesso meccanismo che, sul versante opposto del pubblico, permette ai significati messi in gioco dalla presenza dell’attore-danzatore di essere compresi. La danza, come presentazione non ingenua di un corpo gestuale in movimento ritmico, in una situazione pubblica, ha a che fare con quello che Ugo Volli chiama fascino: La superficie comunicativa che attrae – la persona – non è incorporea, tutt’altro. Vi si ritrova la parola, innanzi tutto, ma anche il corpo nella sua materialità, la carne. La parola a sua volta non è innocua né astratta: è anche a sua volta elemento somatico, capacità fisica di azione, voce incarnata. Il corpo agisce in quanto scrittura, come iscrizione di un’apparenza che è insieme biologica e sociale, soggetta alla moda e regolata dalle pulsioni profonde della biologia della specie. Il fascino si radica su questa doppia comunicazione, fisica e simbolica6.

Se dal punto di vista genetico il corpo è regolato da un patrimonio di possibilità, caratteri e limiti comuni a tutti gli uomini, che permettono, in buona sostanza, minime differenze fisiche – così come accade anche per un bagaglio di base di espressioni fondamentali, che sono considerate innate e condivise dall’intera umanità e da alcune specie di animali7 –, nella sua avventura sociale, come abbia-

Ivi, p. 266. Cfr. P. Ekman, Darwin and the Facial Expressions: a Century of Research in Review, Academic Press, New York 1973; Volli, Il corpo della danza cit., p. 11. La posizione eretta, i limiti muscolari e delle articolazioni, lo sviluppo possibile di ogni movimento, ecc. sono universali nella specie umana: ad esempio, la testa dell’uomo non può ruotare di 360°. Fatte le debite eccezioni dei contorsionisti, allenati fin dal6 7

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mo visto, esso si presenta sempre mettendo in evidenza le differenze: anzitutto di scrittura del corpo (gesti, espressioni, movimenti, ecc.), ma anche di scrittura sul corpo (depilazione, trucco, piercing, dieta, ecc.). Ciò che varia largamente da un popolo all’altro, inoltre, sono le tecniche del corpo8, quel complesso di modalità di azioni, comportamenti, gesti, legati a diverse funzionalità (queste ultime, invece, universali). Mangiare, dormire, fare l’amore, danzare, ecc. sono esigenze originarie, a cui ogni cultura cerca di far fronte con le proprie tecniche e attraverso la creazione di un universo di oggetti e protesi (le posate, la sedia, il materasso, ecc.), in grado, reciprocamente, di determinare condizionamenti all’espressione, alla comunicazione e all’arte. Accanto a queste tecniche, altri tipi di scelte più personali influenzano una certa modalità di presentazione del corpo e rendono riconoscibili i suoi diversi livelli di appartenenza. Da ciò deriva una infinita e continua attività di lettura e interpretazione del corpo altrui, dei suoi gesti, delle sue posture, delle sue azioni, dei suoi elementi decorativi, anche se non sempre ciò avviene in modo consapevole. L’inevitabile capacità del corpo di significare dipende proprio dal fatto che ciascuno di noi è determinato (anche se in modo involontario e in maniera implicita), nel suo presentarsi agli altri, da un gusto e da una sensibilità acquisiti nel tempo, che sente propri, anche se sono indotti da sistemi educativi e da abitudini. La comprensione di questo fattore è molto importante per capire il significato di una esperienza umana come la danza che, se sul versante teorico presenta molti punti di universalità, nella sua fenomenologia concreta è una realtà sempre socialmente e culturalmente determinata. Tali aspetti culturali e sociali sono anche quelli che stabiliscono le distinzioni e le precisazioni dei generi performativi al-

la tenera età a far assumere al proprio corpo posizioni generalmente improponibili alla maggior parte delle persone, e fatta pure eccezione per gli interventi chirurgici che modificano la struttura fisica del corpo, ogni articolazione ha uno sviluppo prevedibile e misurabile entro dei ranges standard. 8 Cfr. M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965; D. Carpitella, Prefazione, in C. Sachs, Storia della danza, Il Saggiatore, Milano 19802, pp. 7-17 (ed. or., Eine Weltgeschichte des Tanzes, Dietrich Reimer-Ernst Vohsen A.G., Berlin 1933); Volli, Il corpo della danza cit., p. 11.

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l’interno di una determinata comunità9, e che ci mostrano uno spettro di possibilità e di differenze, storicamente e antropologicamente individuabili. La danza si configura allora come una manifestazione, a un tempo, del corpo singolo e di quello collettivo, intreccio complesso di tecniche ed espressioni, intenzionate dalle diverse società, di volta in volta come rito, divertimento ludico, programma festivo, pratica sessuale, evento artistico, ecc. Nella nostra cultura la danza è considerata un linguaggio artistico quando si organizza in un sistema di segni basato su opposizioni, variazioni e ripetizioni, in cui inevitabilmente viene a formalizzarsi ogni tecnica del corpo. Finalizzata o meno alla dizione di un contenuto, come accade nelle forme mimetiche del balletto o della pantomima; astratta e formalistica come nelle geometrie balanchiniane e cunninghamiane; codice organizzato linguisticamente come il Mudra e il Kathakali, la danza è l’evento dell’esposizione del corpo individuale e collettivo, riconosciuto come degno di attenzione e di interesse perché portatore del senso della condizione umana, sempre e comunque entro una specifica determinazione sociale. Come non esiste un corpo universale, non esiste neppure una danza universale. Steccati, confini e distinzioni, che nella nostra cultura separano arti del racconto e del dramma e arti della mimesi, arte musicale e arte del canto o del movimento, sono variabili nel tempo, diversi da un territorio a un altro, addirittura sconosciuti ad alcuni popoli. Ciò che, infatti, una cultura concepisce come arte è molto diverso dai tratti che un’altra attribuisce ad analoga esperienza. Nei corpi individuali che si armonizzano nella danza, trascesi dal processo di manifestazione e comunicazione di un corpo sociale e dei valori che gli appartengono, si verifica concretamente quella sincronizzazione di gesti e movimenti che gli antropologi ritengono la base ontogenetica e la condizione filogenetica inconsce di ogni esperienza di interazione fra le persone, sia che stiano conversando fra loro, sia che stiano svolgendo un’azione comune10. Si tratta di mi9 Afferma Volli, al proposito: «È importante comprendere che, come il corpo, la danza concreta è sempre relativa a una cultura e ne specifica gli interessi e le credenze molto più di essere una specificazione di un genere astratto e universale»; Volli, Il corpo della danza cit., p. 14. 10 Cfr. E.T. Hall, Beyond Culture, Anchor Press, Garden City (NY) 1976 e Volli, Il corpo della danza cit., p. 14.

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crosequenze di azioni della comunicazione quotidiana che sono comprese, interpretate e lette per sinestesia, senza l’ausilio di alcun metalinguaggio né di alcuna narrazione. Questo processo universale, inconscio e segreto, che ha delle caratteristiche peculiari in ogni cultura, viene reso esplicito dalla danza, che di quella particolare modalità comunicativa, dei suoi contenuti e dei suoi tratti distintivi è la manifestazione11. Proprio per tali motivi il corpo che si presenta nella danza è accompagnato da una serie di strumenti che costruiscono gli effetti di senso negli astanti, suscitando reazioni emotive nei partecipanti all’evento. Questi strumenti vanno dall’assunzione di sostanze stupefacenti, come nelle situazioni rituali (si pensi ai riti dei popoli arcaici, ma anche alla riattualizzazione degli stessi nei rave parties metropolitani), all’uso particolare delle luci, della musica, del costume nel teatro occidentale (ci si riferisce in questo caso al balletto, al teatro di prosa, al musical), ecc. Questi elementi costituiscono una sorta di base comune che rende carichi di senso, per i propri spettatori, i propri oggetti culturali e che permette di distinguere, all’interno di questi ultimi, quelli qualitativamente migliori. Se non si appartiene a una determinata cultura è assai difficile cogliere pienamente il senso dei suoi prodotti coreici: è evidente la sensazione di spaesamento di un europeo di fronte ai tempi, ai ritmi e alle cadenze delle miriadi di forme della danza indiana, dalle quali rimane certamente affascinato per quel tanto di comune che ogni comunicazione in presenza comporta (si ricordi la sincronizzazione di cui abbiamo parlato poco sopra), ma delle quali può dare solo una lettura molto parziale; analogamente tutti i risvolti emotivi del nostro balletto accademico o del mimo classico alla Decroux possono del tutto sfuggire alla comprensione da parte di un asiatico. Ogni cultura elabora una sorta di fisiognomica naturale, secondo la quale tutti i membri della comunità condividono un sapere circa il corpo. Gesti, espressioni, colori, modalità di vestire, toni della voce, posture e movimenti vengono messi in relazione con particolari stati d’animo e passioni, con un paradigma di caratteri, di categorie etiche e morali. Sentiti da noi come naturali, essi sono invece gli elementi strutturali di un’enciclopedia venutasi a costruire nel tempo e 11

Cfr. infra, 2.5.

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sempre variabile e adattabile, che ci permette di dare un significato preciso alla varietà dei rapporti fra i modi e le forme del corpo e un complesso di sentimenti e passioni che riteniamo pertinenti nell’organizzazione del nostro modo di essere e per la comprensione dei comportamenti altrui. Se è vero – come abbiamo detto – che il corpo si presenta prima di ogni altra specificazione come un corpo sociale, è importante studiare le sue costanti sempre in stretta relazione con le sue diverse manifestazioni culturali. È questo il compito specifico di una antropologia del performer. Il capostipite degli studi antropologici ed etnologici nel campo della danza è il poligrafo e musicologo tedesco Curt Sachs (18811959), cui si deve una pionieristica Storia della danza12, ancora oggi valida per alcune considerazioni teoriche e per l’impostazione storiografica. Fra i primi a considerare l’esposizione del corpo nella danza come una manifestazione culturale, afferma con un certo vigore che Se la danza vivesse negli uomini, quale retaggio dei loro antenati animali, solo in quanto necessaria espressione motoria e ritmica di un eccesso di energia e della gioia di vivere, potrebbe contare unicamente sull’interesse, scarso, degli antropologi e dei sociologi. Se però risulta che nei singoli gruppi umani la danza si sviluppa per vie molto diverse da una disposizione ereditaria e che per la sua forza e le sue finalità può stare accanto ad altri fenomeni di cultura, la sua storia potrebbe acquistare allora un significato profondo per la conoscenza degli uomini13.

Per tale motivo la ricognizione di Sachs parte dai movimenti, che egli considera dei «fatti di natura puramente fisiologica», da studiare non certamente come elementi discreti utilizzabili secondo schemi combinatori per dar vita alle creazioni coreografiche, ma come parti di un continuum motorio – da lui definito «l’innervazione centrale motoria»14 – quale fattore determinante del movimento di ogni singola parte del corpo. Sachs, Storia della danza cit. Ivi, p. 30. 14 Ibid. Corsivo dell’Autore. 12 13

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Se alcune tipologie presenti nella tassonomia di Sachs sono chiaramente riferibili a un modello riconoscibile di corpo, che è quello occidentale – e penso in particolare alla distinzione fra danze disarmoniche e danze armoniche15 –, altre classificazioni risultano invece più efficaci per la comprensione della maggior parte delle esperienze coreiche. Sebbene ogni cultura scelga, entro un repertorio di motivi essenziali (forme, circolo, ellisse, righe e file, marcia e contromarcia, salti, pestare di piedi, giri su se stessi, ecc.), gli elementi formali e i segni per esprimere le differenze e le opposizioni, la distinzione fra danza non imitativa e danza imitativa – vale a dire fra una danza che riproduce ad esempio il movimento degli animali e un’altra di tipo estatico con finalità magiche – dà comunque conto di una ambiguità radicata nella corporeità umana e di essa costitutiva16, sulla quale avremo modo di tornare più approfonditamente17. Laddove invece Sachs entra nel merito della coreografia, introduce un altro efficace paradigma, che comprende le danze a solo, nelle quali è una singola corporeità a essere presente nell’evento coreografico, e le danze in gruppo, collettive, dal respiro corale, che coinvolgono spesso un numero considerevole di partecipanti nella messa in forma del movimento18. Si tratta di una distinzione utile sia sul piano dell’analisi formale, sia sul piano dell’indagine storica e sociale. Entro la nostra cultura occidentale, ad esempio, ci sono state epoche in cui la società è stata portata a pensare alla danza in termini corali; altre, come fra Ottocento e Novecento, in cui l’assolo è stato considerato il vessillo di una rivoluzione coreica. Nel Novecento avviene una particolare focalizzazione dei problemi relativi alla danza, forse per contrastare la progressiva emarginazione della corporeità dalle sfere dell’estetica, della comunicazione e della relazione, che è direttamente proporzionale alla diffusione invasiva delle tecnologie informatiche19. Si tratta di una esigenza

Ivi, pp. 36-52. Cfr. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 19945. 17 Cfr. infra, 2.3. 18 Sachs, Storia della danza cit., pp. 163-201. 19 Salvo poi fare di queste tecnologie delle protesi per il ritorno alla ritualità di cui oggi siamo testimoni, soprattutto fra i giovani frequentatori di eventi rave dove, come in un rito primitivo, si va alla ricerca di quella che Elisa Vaccarino definisce efficacemente come «un’estasi tecnologicamente assistita»; E. Vaccarino, Il sa15 16

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di fisicità, di una nostalgia della presenza, del desiderio della messa in gioco del sé. La danza come linguaggio di un corpo personale e sociale è stata storicamente utilizzata dall’uomo nelle più diverse situazioni con funzioni particolari; ha assunto e fatto propri contenuti fra loro molto differenti e difficilmente omologabili, per dare a essi una forma e per esprimerli e comunicarli. Altre volte è stata utilizzata come pura presentazione di quella forma che una determinata cultura riteneva essere proponibile solamente nei termini della contemplazione. Alcune di queste esperienze coreiche sono state elevate da certe categorie sociali e in alcuni momenti della storia al rango di manifestazioni artistiche. Per tale motivo la storia della danza, oltre che una storia delle idee sulla danza e delle rappresentazioni di queste stesse idee, è anche storia di un’arte20. Altre volte, invece, l’intenzionalità non è affatto artistica e la danza si fa portavoce di volta in volta di valori religiosi e morali (come nelle danze sacre e liturgiche dell’antichità e del Medioevo), di istanze rituali (come nelle danze di iniziazione delle culture arcaiche), di esigenze pratiche (come nei balli per propiziare la natura e la fertilità); diviene un codice di comportamento (come nel Settecento, quando sapere o meno danzare rappresentava un elemento di forte discriminazione sociale), un ornamento legato alla tradizione (come in ambito folclorico), uno strumento educativo e di comunicazione sociale. Il corpo che danza, dentro o fuori della scena, quando si dona allo sguardo del pubblico non lo fa mai in modo ingenuo o primitivo, neppure nelle sue forme più arcaiche: è un corpo allenato, preparato per rendere efficace la sua presenza e quindi è dotato di un necessario virtuosismo e di una inevitabile artificialità. Di questo corpo allenato e virtuosistico si è occupata l’antropologia teatrale, inaugurata da Eugenio Barba e dall’équipe di studio dell’Ista (International School of Theatre Anthropology), che ha fissato i principi transculturali di un corpo performativo, a partire da una domanda mai pienamente soddisfatta come stimolo continuacro, dal rito al rave, in «Annex», dedicato alla Biennale di Venezia, Settore Danza, a cura di F. Pedroni, 2000, 2, p. 67. 20 Cfr. F. Andreella, Il corpo sospeso. La danza tra codici e simboli all’inizio dell’età moderna, Il Cardo, Venezia 1994, pp. 9-20.

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mente rinnovato: che cosa fa della danza il luogo privilegiato di un’esperienza totalizzante, inizialmente destrutturante e altra nei confronti della realtà quotidiana, ma – a un livello più profondo – forza di integrazione e aggregazione, che si fa progetto sul mondo in grado di promuovere e favorire il cambiamento? L’antropologia teatrale, con una rigorosa teorizzazione, dedica la propria ricerca al corpo del performer, visto come condizione radicale dell’esperienza teatrale. Studia «il comportamento fisiologico e socio-culturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione»21 cercando di individuare quelle tecniche e quei principi che regolano il funzionamento simbolico del corpo dell’attore-danzatore sulla scena e lo rendono polo di attrazione degli sguardi degli spettatori, luogo di una comunicazione estremamente viva, punto da cui si irraggiano i diversi fili della finzione drammatica. Il tentativo della sistemazione dei contenuti nasce dal confronto di esperienze dal vivo e all’interno del laboratorio, dove le teorie e le idee sono strettamente legate alla pratica di scena. Per comprendere cosa definisca radicalmente un corpo in situazione di rappresentazione, è possibile isolare dei principi validi in un’ottica transculturale, dei principi, cioè, tecnici e operativi prima che teorici, su cui convergano tradizioni di spettacolo pur estremamente diverse come quella occidentale, tendente al realismo, e quella orientale, tendente al massimo di codificazione. Le tecniche e i principi che rendono vivo il corpo dell’attore-danzatore sulla scena e ne determinano l’extra-quotidianità, immettendolo in quel minimo o massimo di artificialità necessaria a ogni attività espressiva e a ogni intenzionalità di metafora, non pretendono di assurgere al rango di leggi universali fondanti una presunta scienza del teatro o della danza, ma vengono posti come indicazioni utili alla prassi, ovvero – secondo le osservazioni di Jerzy Grotowski – come «leggi pragmatiche». Si tratta, infatti, di «rappresentazioni perspicue» e non di «spiegazioni scientifiche». Queste ultime, sulla base di verifiche sperimentali, sono dette accettabili o non accettabili, in quanto rispettivamente vere o false, e si situano nel campo della logica, ricercando dei fatti il rapporto causa-effetto; le «rappresen21 E. Barba, s.v. Antropologia teatrale, in Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, a cura di N. Savarese, La Casa Usher, Firenze 1983, p. 13.

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tazioni perspicue», invece, possono essere considerate più o meno soddisfacenti nella misura in cui inducono una maggiore o minore quantità di persuasione. Per tali motivi esse si situano nel campo della retorica e indagano piuttosto su rapporti di coesistenza che non di causa-effetto22. Nella cultura occidentale si constata una mancanza quasi congenita di un repertorio organico di consigli che possano orientare l’attore, il mimo e il danzatore nel loro lavoro. Diventa quindi inevitabile il confronto con le forme altamente codificate del teatro orientale, confronto non certo finalizzato alla conquista di un sincretismo promiscuo e tanto meno nell’ottica di un modo comune di fare teatro. Tanto il performer orientale quanto quello occidentale, una volta saliti sulla scena, manifestano una presenza qualitativamente diversa da quella che si può riscontrare in una persona comune e in un contesto normale. Nelle culture orientali questa particolare presenza scenica dell’attore è qualcosa di cosciente, che viene addirittura a parola in una distinzione terminologica: come, ad esempio, nella danza Orissi, dove il comportamento tipico della gente comune viene definito Lokadharmi, e quello caratteristico dell’uomo nella danza Natyadharmi. Eugenio Barba suggerisce la separazione fra tecniche quotidiane del corpo e tecniche extra-quotidiane. Le prime riguardano l’uomo nelle sue attitudini abituali, che sono contraddistinte dalla inconsapevolezza ma non dalla naturalezza, poiché comunque soggette a condizionamenti culturali e sociali. Le seconde concernono invece l’uomo posto in una situazione di rappresentazione e sono caratterizzate dalla tensione ad allontanarsi dall’agire consueto. Tale tensione è in relazione dialettica col tentativo opposto di ritornare al quotidiano, ma in un modo nuovo e arricchito di altrettanto nuove informazioni (è proprio di queste tecniche mettere in forma il corpo). Altra qualità del corpo performativo è il virtuosismo (tipico, ad esempio, del nostro balletto accademico, dello spettacolo circense o del teatro acrobatico proposto dall’Opera di Pechino), inteso come l’uso di «altre» tecniche, il cui scopo è quello di segnare definitivamente la distanza dell’inaccessibile dal quotidiano; laddove, insomma, si vuole «trans-formare» il corpo per suscitare la meraviglia. 22

Cfr. F. Ruffini, s.v. Scienza e teatro, in Anatomia del teatro cit., p. 193.

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L’attore-danzatore veramente vivo sulla scena mette in atto tecniche extra-quotidiane, che si pongono a un livello pre-espressivo, prima, cioè, dell’intenzionalità espressiva di un’azione23, e hanno la peculiarità di essere collegate a una triade di principi fondamentali, quali la consapevolezza, l’amplificazione, lo spreco di energia. Per consapevolezza si intende la continua presenza dell’attoredanzatore a se stesso nell’esecuzione del gesto extra-quotidiano. Propria delle tecniche quotidiane è, al contrario, una forte determinazione di tipo culturale che, pur avendo le apparenze della naturalezza, rivela, invece, l’automatismo. L’amplificazione riguarda da un lato il semplice esser-ci del performer, dall’altro significa dilatazione di un fenomeno bio-sociologico. La camminata dell’attore nel teatro Nô, ad esempio, altro non è, infatti, che l’amplificazione di qualcosa che nella cultura giapponese si trova già nella gestualità quotidiana. La performance dell’attore-danzatore sulla scena segue, poi, il principio dello spreco di energia, che vede l’artista alle prese con sforzi notevoli e continui, finalizzati o al mantenimento di un «equilibrio di lusso» o all’esplicitazione di una contrapposizione di forze. Accanto a questo dispiegarsi di energia nello spazio (energia cinetica), troviamo anche un altro tipo di energia che ha il suo ambito di azione nella dimensione del tempo. Si tratta della capacità del corpo di sprigionare vita e ciò accade quando il movimento, o anche solo il suo impulso, viene frenato da una forza contraria e altrettanto efficace: l’apparente stasi rivela una lotta in atto. Dall’attrito delle due componenti scaturisce la scintilla del corpo vivente dell’attore-danzatore. Esemplifica questo principio il Tamè del teatro Nô e del teatro Kabuki, atteggiamento secondo il quale l’attore trattiene le energie, «assorbe in un’azione limitata nello spazio le energie necessarie per un’azione più ampia»24. L’antropologia teatrale individua, inoltre, dei principi operativi veri e propri. Basilare è l’alterazione dell’equilibrio. Gli attori-danzatori di tradizione occidentale, ma soprattutto quelli di tradizione orientale, provvedono a modificare nel proprio corpo i rapporti di 23 Nel teatro orientale l’artista fa uso di queste tecniche anche quando è convenzionalmente considerato dal pubblico fuori dell’evento, pur continuando a rimanere ben in vista sulla scena. 24 Anatomia del teatro cit., p. 99.

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equilibrio e i pesi, al fine di creare precise tensioni muscolari che, documentando e rendendo visibile un certo dispendio energetico, sottolineano la presenza materiale del loro corpo. Si pensi alla danza classica o al déséquilibre del mimo, per quanto riguarda l’Occidente, agli equilibri precari di certe posizioni della danza Orissi, per l’Oriente. Un secondo e importante aspetto è quello della ricerca dell’equivalenza. S’intende con questa quel moto fisico e spirituale a un tempo, che spinge l’attore ad allontanarsi dalla realtà del gesto quotidiano per elaborare, attraverso la possibilità dell’omissione, un gesto extra-quotidiano equivalente. Tale principio è riscontrabile anche nella tradizione europea del mimo, il quale spesso dimette la realtà concreta e materiale, ma non la forza e le tensioni a essa connesse, ricreando così l’equivalente attraverso l’unica realtà di cui dispone: il corpo. Ciò che rimane è insomma la concretezza di uno sforzo. Strettamente collegato al principio dell’equivalenza è quello delle opposizioni, secondo il quale, per compiere un’azione sulla scena, l’attore parte dal suo opposto (si confronti al proposito la tecnica elaborata da Étienne Decroux). Si tratta, in altri termini, di una contraddizione delle direzioni dei movimenti o degli impulsi, di una rottura totale degli automatismi del quotidiano. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte a una convenzione, ma a una qualità di presenza a livello pre-espressivo: l’attore-danzatore crea conflittualità di movimenti e di sforzi suggerendo allo spettatore – che dovrebbe avere una percezione pre-interpretativa corrispondente alla pre-espressività del performer, vale a dire una risposta psicologica indipendente dalle culture, dai sentimenti e dal particolare stato d’animo presente nel momento della visione – una conflittualità dell’azione. Una volta che l’attore-danzatore ha messo in atto queste «forze incoerenti», ma comunque equivalenti rispetto alla quotidianità, deve essere anche in grado di mantenerle nel tempo. Solo così l’incoerenza del suo comportamento sarà coerente a se stessa. Torniamo quindi a parlare della artificialità, che viene a denotare il corpo dell’attore-danzatore in situazione di rappresentazione: essa è il dato più interessante ai fini della comprensione del teatro e della danza nel novero delle arti la cui specificità sia quella dell’intenzionalità espressiva. Le tecniche extra-quotidiane possono, infatti, essere lette come precise potenzialità di trasgressione nei conXX

fronti del quotidiano, allo scopo di innescare un processo connotativo di natura simbolica che porti il corpo, e tutto quanto sulla scena a esso si relaziona, a un alto livello di significazione, e a spaccare le barriere del determinato verso l’orizzonte più vasto e mai adeguabile del senso ultimo della realtà25. Proprio perché il teatro e la danza possiedono questa peculiare capacità di ridestare nell’umano la facoltà immaginativa, l’educazione e la formazione di colui che è il primo motore della rappresentazione stessa – l’attore-danzatore col suo corpo – non vengono mai lasciate al caso, ma trovano un’organica sistemazione in un complesso di regole e principi, il cui scopo è principalmente quello di un’attenzione alla totalità della persona. Nella cultura indiana la figura del guru è particolarmente illuminante da questo punto di vista: egli è colui che disperde nel discepolo le ombre dell’ignoranza e lo avvia, prima ancora che sulla strada di una disciplina specifica, sulla via della vita. L’analisi del funzionamento della corporeità coreica, sia dal punto di vista sociale che da quello più propriamente fenomenologico, sarà oggetto di riflessione nei capitoli seguenti e costituirà la guida per un tentativo di ricostruzione dell’ideologia del corpo occidentale attraverso la danza del Novecento, i suoi percorsi estetici, pedagogici e artistici. È proprio nel corso del secolo da poco terminato che la danza viene sottoposta ad attenta e minuziosa indagine e a una radicale revisione rispetto al passato. Seguendo storicamente l’affacciarsi delle nuove idee sull’uomo e sulle sue possibilità di comunicazione e di espressione attraverso il movimento, verremo individuando le caratteristiche e le peculiarità della danza come esperienza sociale e di partecipazione rituale collettiva, come evento artistico e come realtà spettacolare. A tale scopo, il pensiero coreosofico dei padri della danza moderna e contemporanea rappresenta, in questo excursus al contempo storico e teorico, un punto di riferimento imprescindibile, per comprendere quanto il pensiero della danza abbia avuto una dialettica 25 Cfr. Il corpo in scena, a cura di V. Melchiorre e A. Cascetta, Vita e Pensiero, Milano 1983.

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costante e produttiva con le prassi teatrali, le tecniche e le pedagogie del movimento. Come ogni ricognizione, anche la presente è frutto di scelte26, inevitabili, data l’ampiezza della materia, ma necessarie affinché possa essere presentata con chiarezza la prospettiva da cui intendiamo osservare una storia che comincia ancora sul finire del XIX secolo: il corpo dell’uomo, come unità psicofisica in azione, sottoposto a uno sguardo esterno in situazione di movimento ritmico nello spazio e nel tempo. 26 Fra le molte, una scelta – nel caso specifico da considerarsi quasi obbligata – è stata quella di non appesantire la trattazione con eccessivi riferimenti storici e biografici a danzatori, coreografi e pensatori via via affrontati nel testo. Per notizie più specifiche sui singoli personaggi della storia della danza e per maggiori informazioni bibliografiche rimandiamo a strumenti più generali di consultazione, fra i quali ci sia permesso indicare: Enciclopedia tematica aperta. Danza e balletto, coordinatore M. Pasi, dizionario a cura di D. Rigotti e A.V. Turnbull, Jaca Book, Milano 1993; H. Koegler, Dizionario Gremese della danza e del balletto, trad. it. a cura di A. Testa, Gremese, Roma 1995 (ed. or., The Concise Oxford Dictionary of Ballet, Oxford University Press, Oxford 1977, 19822); Dizionario dello spettacolo del ’900, a cura di F. Cappa e P. Gelli, caporedattore M. Mattarozzi, Baldini & Castoldi, Milano 1998; Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, 4 voll., Einaudi, Torino 2001-2003; A. Pontremoli, Storia della danza dal Medioevo ai giorni nostri, Le Lettere, Firenze 2002.

La danza Storia, teoria, estetica nel Novecento

AVVERTENZA Ove non diversamente segnalato, la traduzione delle citazioni in lingua straniera è da attribuire a chi scrive. Per una maggiore comprensione delle problematiche offerte dalla trattazione, mi preme indicare il significato di alcuni termini usati nel testo, ai quali altrove, da altri autori, vengono assegnati campi semantici lievemente diversi: coreografico si riferisce alla coreografia, vale a dire alla scrittura di danza, creata spesso a tavolino, ma la cui compiutezza si produce nel momento stesso del suo accadere spazio-temporale; coreico, dal greco chorós (danza), indica ciò che è relativo alla danza; coreutico, derivato da coreuta (danzatore), indica ciò che ha a che fare, da diversi punti di vista, con l’attività e le caratteristiche del ballerino.

Capitolo primo

La nascita della danza moderna

1.1. Estetica della danza fra Ottocento e Novecento Il passaggio fra il XIX e il XX secolo rappresenta, per lo sviluppo storico della danza e delle sue estetiche, il momento cruciale del tramonto di una certa idea e rappresentazione del corpo e la nascita di una nuova antropologia, di una nuova visione dell’uomo e delle sue potenzialità espressive e comunicative. Le forme aristocratiche del balletto accademico non sono più sentite come universali, perché non sono più in grado di rispondere alle esigenze di una corporeità che si sta progressivamente liberando dei condizionamenti del passato e delle visioni preconcette. Vale la pena osservare più da vicino le conseguenze di quella che potremmo definire una incipiente crisi del soggetto, portatrice di capovolgimenti epocali nel costume, nel pensiero e nell’esperienza artistica. 1.2. Il balletto Non si può parlare di danza se non in presenza dell’azione concreta (nella performance) e attuale (presente, hic et nunc) del suo esecutore, di chi, insomma, la attua in un preciso momento. Essa non ha un’esistenza alternativa o estranea al corpo, a differenza della musica (con la quale per altro ha molti elementi in comune, soprattutto dal punto di vista della temporalità), che può contare su una forma di trascri3

zione grafica relativamente efficace e connessa alla sua esecuzione. Come il teatro di parola, che pure è in grado di conservare nella scrittura del testo almeno le battute della pièce e un progetto drammaturgico indipendente dalla messa in scena1, la danza (e lo vedremo più oltre nel volume) ha avuto sistemi di notazione grafica insufficienti tanto per la sua conservazione nel tempo che per la possibilità di riattualizzarne gli eventi2. Se la danza vive solo nel qui e ora del suo attuarsi fisico, l’apporto storico-estetico dei singoli esecutori, dei danzatori concreti, rappresenta un contributo assolutamente originale, soprattutto nel Novecento, quando ogni forma di tecnica e di lessico vengono azzerati, per permettere un ritorno autentico, sulla scena, del corpo unico e irripetibile del creatore. Con il deperimento fisico e con la morte del danzatore, effettivo depositario dell’opera d’arte coreica, vanno persi, in maniera irrimediabile, i tratti peculiari di una particolare esperienza artistica e umana3. Il linguaggio coreografico che più rappresenta la cultura della danza in Occidente è il balletto classico. Si tratta di un sistema di segni, di una tecnica e di una metodologia di allenamento del corpo venuti elaborandosi, nel corso di oltre quattro secoli, come grammatica del corpo aristocratico e in seguito di quello borghese. A questo tipo di danza è strettamente connessa un’estetica del corpo, soprattutto di quello femminile, il suo dover essere, i suoi rapporti con gli altri corpi. La donna del balletto accademico è una creatura fragile, passiva, soggetta a un universo maschile indifferenziato, pensato come notevole forza fisica di tipo statico. Etereo, sempre in equilibrio precario sulle punte, leggero, espressivo soprattutto nell’uso degli arti periferici, il corpo femminile del balletto è lo schermo, il paravento di un pensiero ambivalente sul femminino romantico: da un lato la paura della donna fatale percepita come un pericolo, dall’altro la condiscendenza paternalistica verso un oggetto di culto considerato incapace di reggersi autonomamente sulle proprie gambe. 1 A. Cascetta, La questione del testo drammatico: linee introduttive, in «Comunicazioni sociali», XIX, 1997, 2, pp. 127-134. 2 Cfr. A. Hutchinson Guest, Dance Notation. The Process of Recording Movement on Paper, Dance Books, London 1984; infra, 2.6. 3 G. Calendoli, Storia universale della danza, Mondadori, Milano 1985, pp. 8-10.

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La danza classica è dunque l’espressione di una certa ideologia del corpo, quella elaborata dall’immaginario maschile aristocratico e alto borghese dell’Ottocento. L’uomo romantico era pronto al sacrificio della propria vita per una figura femminile irreale, eterea, irraggiungibile; oggetto impossibile di un desiderio in realtà tutto narcisistico che lo storico della danza Walter Sorell stigmatizza come «il tentativo di elevare alla sfera dello spirito il proprio orgoglio fallico»4. Balletti come la Sylphide, Giselle, il Lago dei cigni sono lo specchio delle antinomie romantiche, quando contrappongono alla prosaica quotidianità dei rapporti uomo/donna, l’immagine di una femminilità eccezionale, descritta con la metafora della fiamma che consuma se stessa, un simbolo in grado di rivelare perfettamente lo stato interiore del romantico. In quest’epoca, tuttavia, proprio nel momento del maggior splendore di una forma di danza che esalta una precisa e dominante concezione del corpo, additando la ballerina come modello di una femminilità ideale, un’altra e contrapposta ideologia del corpo comincia a farsi strada e proprio nella patria del balletto accademico. I fermenti provocati da una nuova concezione dell’uomo danno vita a un lento ma inesorabile mutamento di mentalità, a uno sguardo nuovo sulle possibilità espressive del corpo. 1.3. L’estetica applicata di François Delsarte François Delsarte5 (1811-1871) nasce e opera in piena epoca romantica, connotata da un’ideologia e da un’estetica che esaltano e divinizzano le figure del cantante, dell’attore e del ballerino, facendo di essi, spesso, gli eroi dell’universo letterario, o, con procedimenti di teatro nel teatro, i protagonisti di drammi, balletti e opere6. L’artista dei tempi di Delsarte si sente investito di una particolare e nuova vocazione estetica: non più creatore di un Bello esteriore che lo annulla nell’opera d’arte, ma opera d’arte egli stesso, corpo lumi4 W. Sorell, Storia della danza. Arte, cultura, società, Il Mulino, Bologna 1994, p. 270 (ed. or., Dance in its Time, Doubleday, New York 1981). 5 V. Melis, François Delsarte: frammenti di un insegnamento, in «Teatro e storia», XII, 1997, 19, pp. 37-65. 6 E. Randi, Il magistero perduto di Delsarte. Dalla Parigi romantica alla Modern Dance, Esedra, Padova 1996, pp. 67-69.

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noso e glorioso di una gnostica resurrezione – per usare le visioni di Théophile Gautier – in grado anzitutto di ri-creare se stesso per diventare potenza divina che incanta e trasforma7. L’attenzione insistente di Delsarte alla crescita personale del singolo artista e alla sua espressività è certamente da mettere in relazione con questa temperie culturale, cui non è neppure estraneo il clima della teatralità, totalmente sbilanciata sul versante visuale, della Parigi dell’epoca, teatralità che privilegia generi spettacolari di massa come il mélodrame ed è portatrice della supremazia del gesto sulla drammaturgia. Delsarte supera l’apparente contraddizione delle diverse anime dello spettacolo coevo e fa della sua storia personale, contraddistinta da «episodi rivelatori» come la morte del giovane fratello o la perdita della voce a causa degli insegnamenti scorretti subiti al Conservatoire, il motore dell’ispirazione del suo sistema estetico e didattico. Egli rappresenta, ancora nel secolo del Romanticismo, un pioniere teorico della riscoperta del corpo espressivo, sorta di primo antropologo ed esteta della danza, ispiratore profetico – soprattutto se si tiene conto della sua nota diffidenza nei confronti del balletto accademico – della danza moderna. Sono gli epigoni del noverriano ballet d’action e la grande arte attoriale di Frédérick Lamaître a insegnare a Delsarte la potenza e la duttilità del gesto e della mimica, che egli ritiene superiori alla voce e alla parola. Senza il gesto i molti significati a quest’ultima legati rischiano di essere annullati e resi vani nel loro potere di comunicazione. La verità dell’espressione è data dalla perfetta corrispondenza fra dimensione emotiva interiore e scelta mimica esteriore. L’osservazione della realtà quotidiana, condotta attraverso lo studio delle posizioni, dei gesti del corpo, delle inflessioni e del volume della voce, che hanno in Delsarte uno scopo puramente estetico e non scientifico, lo portano a una scoperta fondamentale, che diviene il fulcro della sua esthétique appliquée8. Si tratta della «legge di 7 Cfr. ibid. ed E. Randi, Il balletto nel pensiero di Gautier, in «Il castello di Elsinore», XIII, 2000, 38, pp. 14-20. 8 L’estetica applicata di Delsarte rappresenta anzitutto un insegnamento impartito direttamente dal maestro agli allievi e si configura come una trasmissione orale di principi e una testimonianza diretta di prassi artistiche. In questo Delsarte

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corrispondenza» fra lo status interiore e la sua manifestazione esteriore: il grado di intensità emotiva e la vitalità si esprimono con verità attraverso precise posture e atteggiamenti del corpo. Partendo da una prospettiva cristiano-platonica, Delsarte riporta in primo piano il corpo dell’attore (del performer, diciamo noi oggi), corpo fatto a immagine e somiglianza di Dio, ma nel contempo involucro pesante, pitagorico carcere non da eliminare, ma da plasmare e ripulire secondo un procedimento che progressivamente togliendo l’eccesso e il superfluo raggiunge gradatamente l’essenza. Un tale corpo è un corpo organico, fatto di articolazioni più o meno impastate di carne che devono essere via via raffinate, rese agili dalla sottigliezza, per permettere sul palcoscenico la rivelazione della perfezione dell’Idea, la sua messa in scena in forma sensibile. L’arte è lo strumento di mediazione fra il Divino e l’umano, è forma che rivela l’Uno dietro il molteplice, il cosmo dietro il caos. E qual è, in effetti, il principio essenziale dell’arte? Non è forse, tutto insieme, il bello, il vero e il bene? E la sua azione e il suo fine sono forse qualcosa di diverso da una tendenza diretta incessantemente alla realizzazione di questi tre termini? Ora, il bello, il vero e il bene si trovano solo in Dio. Dunque, l’arte è divina nel senso che emana dalle sue divine perfezioni, nel senso che ne costituisce per noi l’idea stessa, e soprattutto nel senso che tende a realizzare [...] questa tripla perfezione che attinge a Dio9.

è coerente con il suo impianto pedagogico, che prevede il contatto diretto fra maestro e discepolo, senza la mediazione della scrittura. Per tale motivo gli scritti di Delsarte hanno per la maggior parte la struttura e l’aspetto di appunti personali, a eccezione dell’unica trattazione sistematica che è la trascrizione e pubblicazione, senza esplicito parere favorevole dell’Autore, di una conferenza del 1865 (F. Delsarte, Esthétique appliquée. Des sourses de l’art, in Conférences de l’Association Philotechnique. Année 1865, Victor Masson et fils, Paris 1866, pp. 89139, parzialmente tradotto in François Delsarte: le leggi del teatro. Il pensiero scenico del precursore della danza moderna, a cura di E. Randi, Bulzoni, Roma 1993, pp. 143-158). Su Delsarte cfr., inoltre, Randi, Il magistero cit.; A. Spallone, L’estetica applicata di François Delsarte e l’arte della danza, tesi di laurea, relatore A. Pontremoli, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, A.A. 2001/2002. 9 Delsarte, Esthétique appliquée cit., parzialmente tradotto dalla Randi in François Delsarte cit., pp. 148-150. Cfr. Randi, Il magistero cit., p. 37.

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Voce, gesto e parola sono per Delsarte dei movimenti, emanazioni del corpo che concorrono contemporaneamente e influenzandosi a vicenda all’espressione artistica del performer. Il gesto, in particolare, è l’agente diretto dell’anima, pura espressione dell’affectus, momento in cui tutto l’essere si concentra e può essere colto nella verità grazie alla simultaneità della visione. Se dalla voce nasce la musica, dal gesto la danza e dalla parola la poesia, tutte le arti sono un’unica arte. L’unità è garantita dal fatto che ogni singola arte, ogni genere spettacolare e ogni tipologia sono il riflesso delle medesime inalterabili leggi universali. Secondo uno dei tanti schemi tripartiti di Delsarte, derivanti da una misterica concezione trinitaria, phoné-mimica-lingua rappresentano un insieme necessitante, che fonda l’originaria unità delle arti. Il tema non è nuovo nel dibattito culturale fra Sette e Ottocento, e certamente gli deriva dalle concezioni estetiche dell’ammirato Gluck; tuttavia mi pare che in questo caso i riferimenti di Delsarte possano essere ancora più antichi, dato che richiamano con un’eco particolarmente suggestiva le parole e i concetti di fondo del trattatista di danza quattrocentesco Guglielmo Ebreo da Pesaro, il quale, nel suo trattato De pratica seu arte tripudii (1463), con topico argomentare, fa derivare la danza direttamente dalla melodia degli strumenti e dal canto: Le qual cose ci mostrano la grande excellenza et suprema dignitate d’essa scienza [la musica], dalla qual l’arte giocunda e ’l dolce effetto del danzare è naturalmente proceduto: la qual virtute del danzare non è altro che una actione demostrativa di fuori di movimenti spiritali, li quali si hanno a concordare colle misurate et perfette consonanze d’essa armonia, che per lo nostro audito alle parti intellective et ai sensi cordiali con diletto descende, dove poi si genera certi dolci commovimenti, i quali, come contra sua natura rinchiusi, si sforzano quanto possano di uscire fuori et farsi in atto manifesti10.

10 Paris, Bibliothèque Nationale, fonds ital. 973, Guglielmo Ebreo da Pesaro, De pratica seu arte tripudii (1463), c. 3v, ed. critica e traduzione inglese a cura di B. Sparti, Clarendon Press, Oxford 1993, p. 88. I principi della Gesamtkunstwerk, vale a dire della fusione di musica, poesia e danza, saranno alla base del programma culturale ed estetico del grande compositore tedesco Richard Wagner. Mentre per

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Più ancora che il Quattrocento, considerato da Delsarte il secolo che apre al devastante soggettivismo della ratio, l’estetologo francese predilige l’epoca medioevale, che subordina l’umano al Divino. Ama, traendo da essi ispirazione, quegli autori che hanno saputo tratteggiare i loro personaggi non come mere individualità, ma come rappresentanti sulla scena teatrale o letteraria di condizioni emotive e psicologiche più generali fra loro in conflitto. Inevitabile, quindi, e conseguente il disprezzo per la contemporanea concezione dell’art pour l’art: l’arte come fine a se stessa è un’arte blasfema, che disconosce il suo scopo estetico precipuo, quello, cioè, di essere portatrice ed espressione del Bene, del Vero e del Bello. Meno biasimabile è, invece, un’arte sociale, che facendosi rivelazione dell’archetipo si proponga come strumento di edificazione morale e insegnamento etico. Delsarte ha la certezza incrollabile che il gesto ha una stretta corrispondenza con la dimensione interiore dell’uomo, secondo leggi immutabili ed eterne che fanno sì che la verità della persona sia raggiunta e comunicata solo quando un determinato sentimento possa correlarsi biunivocamente con un certo segno. Proprio per tale convinzione Delsarte entra in polemica con i principi tradizionali dell’insegnamento delle scuole di declamazione, che ignorano, secondo lui, i codici dell’espressione gestuale e riducono le possibilità dell’animo umano di esprimersi a un infimo repertorio di atti convenzionali stereotipati e per ciò stesso falsi. Non tutti i gesti sono, infatti, frutto di una disposizione sincera: solo il nucleo originario della gestualità – mai raggiungibile con la fallace ragione umana, ma solo grazie alla rivelazione divina che è causa di intuizione e folgorazione – spacca la coltre delle sedimentazioni storiche, delle abitudini sociali e delle variabili dipendenti da moda e arbitrio. Per Delsarte la mimica sincera è cosa diversa dalle azioni superflue, dai movimenti non conseguenti determinati dal lavoro di una ragione senza regola. Mentre in quel che l’istinto suggerisce è il Supremo Artista a disporre e operare in noi, quanto suggerito da una ragione insufficientemente illuminata dalla contemplazione dell’opera divina e fatalmente incoerente, poiché così pretendiamo di sostiDelsarte il sentimento trova espressione prioritaria nel gesto, per Wagner il veicolo principale dell’affectus è la musica.

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tuirci a Dio, e Dio da allora, abbandonandoci a noi stessi, ci consegna a tutti gli effetti discordanti di una concezione inconseguente e vana11.

Delsarte cerca, insomma, di coniugare fra loro, a livello di prassi della scena, i termini della dialettica sensibilità/ragione, oggetto di ampio dibattito nella sua epoca. Egli propone un metodo che si sviluppa in tre fasi. Nella prima l’attore stabilisce ogni particolare del proprio spartito gestuale sulla base di una preliminare analisi minuziosa del testo. Nella seconda si esercita nella ripetizione del testo stesso fino al raggiungimento di una piena autonomia e meccanicità dei movimenti. Nella terza fase, infine, si produce nell’«immedesimazione», in virtù della quale sono possibili anche i gesti involontari12. Quanto più il performer avrà reso la sua interpretazione ossessivamente definita nei minimi particolari e l’avrà appresa con un lavoro di costante ripetizione, tanto più la progressiva immedesimazione, resa possibile dalla meccanizzazione estrema, lascerà spazio all’intervento dei movimenti inconsci e spontanei. La conseguenza di una tale concezione è l’elaborazione di un metodo attoriale assai particolareggiato, basato soprattutto su un’analisi testuale tesa alla ricerca di un fuoco di attenzione, vale a dire una o più parole (o frasi) attorno alle quali costruire per cerchi concentrici l’interpretazione della parte. Delsarte chiama questo procedimento di determinazione di senso delle diverse scene e della pièce nella coerenza della sua totalità, traduction elliptique, costruzione di una sorta di partitura complessa di parole pronunciate e di gesti corrispondenti13. 11 Baton Rouge, LA, Louisiana State University, Hill Memorial Library, Delsarte Collection, box 1, folder 26b, item 7, Mes Épisodes Révélateurs, ou Histoire d’une idée appelée à constituer la base de la science et de l’art, primi due fogli mss. di un’opera incompiuta di Delsarte che continua in box 1, folder OS 36c, item 2, parzialmente tradotto dalla Randi in François Delsarte cit., p. 225. Cfr. Randi, Il magistero cit., p. 109. 12 Randi, Il magistero cit., pp. 115-116. Come non pensare, a questo proposito, all’ultimo Stanislavskij e alla problematica delle «azioni fisiche»? Molto interessante, al proposito, il recente volume di F. Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Laterza, Roma-Bari 2003, in particolare pp. 78-98. 13 «Tanto la forma della phoné quanto quella del movimento sono ottenute applicando alla traduction elliptique le leggi di corrispondenza fra sfera intima e linguaggio fonetico-gestuale, precedentemente studiate; detto in altri termini, il sottotesto è lo strumento, costruito sulla soggettiva interpretazione conferita dall’at-

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Il metodo sancisce così l’avvento di una disciplina attoriale per la costruzione del personaggio e la sua espressione più vera, disciplina che pur rispettando il testo, per Delsarte inalterabile e immodificabile, non dipende da esso, ma dal ruolo concreto dell’attore sulla scena, rivalutato nella sua funzione creativa grazie all’immensa libertà ermeneutica da cui dipende la scelta di suoni e movimenti. L’aspetto più interessante del sistema, per il rapporto che gli allievi di Delsarte cominciarono a stabilire fra la sua estetica applicata e la danza, riguarda la topografia del corpo, proposta dall’estetologo francese secondo uno schema trinitario di derivazione platonica. Delsarte divide il corpo in tre parti, a loro volta ulteriormente suddivisibili fino al raggiungimento del numero nove, considerato il numero dell’armonia14. La testa è legata allo spirito, il tronco alle qualità «animiche» e gli arti alla componente vitale. Questa costituzione statica, che mostra l’uomo in potenza, non è in contraddizione con la possibilità dell’uomo stesso di esprimere in modo dinamico, tramite il gesto, il suo stato presente, il suo essere in atto. La topografia delsartiana non è infatti utilizzata per finalità fisiognomiche, ma per fondare l’arte della mimica, che dia conto, mostrandolo, del significato sotteso a ogni movimento o gesto del corpo. In ambito teatrale questa concezione anatomica permette di costruire la partitura di un determinato personaggio, composta sia da sezioni dinamiche, quelle più propriamente gestuali, sia da sezioni statiche, vale a dire quelle riguardanti le posture e le posizioni del corpo. Per ottenere la massima espressività è necessario scomporre euristicamente il gesto in parti (ma solo in fase di studio, perché il flusso gestuale è un continuum che si produce sulla scena). Forma del gesto e parte anatomica che lo producono sono responsabili, infatti, della sua particolare inflessione. Ne consegue che la natura interiore del gesto è definita da una serie di elementi: anzitutto dal rapporto che si stabilisce fra le diverse componenti organiche – quando ad esempio, nel pronunciare una certa battuta o nel compiere una particolare azione, una parte del corpo ne tocca un’altra –; in secondo luogo dal ritmo, sia della patore, in base a cui viene elaborata la partitura gestuale e vocale del personaggio», Randi, Il magistero cit., p. 138. 14 Non è certo un caso che tale armonia sia esemplificata da Delsarte, proprio in termini musicali, dall’accordo di nona.

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rola che del corpo stesso; in ultima istanza dalla direzione del gesto e dal suo rapporto con lo spazio. Delsarte è un sostenitore della visione olistica del corpo, che gli viene dal concepire l’universo come una realtà regolata da una concordanza profonda di molteplici fattori: psiche e fisico sono coesi, così come accade per ogni parte della complessa architettura anatomica. Per questo il gesto, pur così anatomizzato in fase di studio, è considerato una unità e come tale si rivela nella comunicazione, perché frutto dell’armonizzazione di tutte le parti di cui è composto15. Questa idea di unità consonante come trasparenza dell’interiorità dell’individuo, benché non sia invenzione precipua di Delsarte, è però attraverso di lui che passa alla danza e diviene il cardine e il motore delle rivoluzioni coreiche del Novecento. Come questo passaggio sia avvenuto è comprensibile sia in base a ragioni culturali sia sul piano storico. Tanto dal punto di vista tecnico quanto da quello estetico, il balletto accademico, forma di danza che Delsarte ben conosce ma che poco apprezza, rappresenta l’esatta concezione opposta al suo sistema. Basata sulla moltiplicazione dei fuochi del movimento e incentrata sulla frammentazione anatomica, la tecnica classica, passata idealmente al vaglio dell’estetica delsartiana (dico idealmente perché non esiste uno scritto di Delsarte che ne parli in modo esplicito16) è all’origine di un’arte carente di slancio vitale (si pensi, ad esempio, all’uso ornamentale del pollice addotto, indice per Delsarte della mancanza di vita in un uomo; o alla rigidità del bacino, sede degli organi riproduttori), povera di comunicazione emotiva (prescrive, infatti, una posizione delle spalle forzatamente abbassata, segno di una «bassa temperatura» emozionale). Secondo il pensiero di Delsarte la 15 Sul versante opposto sta invece il movimento della marionetta, frammentato e scomposto perché in essa agiscono più centri di impulso, più fuochi di movimento contemporaneamente. 16 È comunque probabile che Delsarte avesse consultato almeno la trattatistica della danza accademica del Settecento, come risulta da alcuni suoi disegni creati per rappresentare il movimento delle braccia. Si veda, al proposito, il foglio di appunti conservato in Baton Rouge, LA, Louisiana State University, Hill Memorial Library, Delsarte Collection, box 2, folder 42, item 2, nel quale Delsarte annota alcuni port de bras con grafica identica a quella introdotta da Feuillet nel suo trattato di scrittura della danza (R.-A. Feuillet, Chorégraphie, ou l’art de d’écrire la dance, Michel Brunet, Paris 1701, p. 90). Cfr. Spallone, L’estetica applicata cit., pp. 106-110.

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danse d’école ci appare, pertanto, come un movimento ritmico nello spazio privo di vita interiore e in netta contraddizione con la legge della corrispondenza. Si può pensare che Delsarte abbia elaborato la sua teoria in contrapposizione al modello della danza accademica; è tuttavia più probabile che siano stati i pionieri della danza moderna a vedere nelle sue teorie tale contrapposizione al balletto, che nei molti appunti manoscritti del maestro non è riscontrabile, esplicitamente e direttamente, a livello testuale. Quello che storicamente avvenne è sintetizzabile in poche battute: lo statunitense Steele McKaye, allievo diretto dell’estetologo francese, torna in patria portando con sé l’ampio bagaglio culturale dell’estetica applicata, sulla quale interviene creando, di bel nuovo, quel Delsarte System, che tanta parte avrebbe avuto, grazie ai trattati e alle numerose pubblicazioni che ne rendono conto in termini teoricopratici, per la nascita del così detto delsartismo17. Negli Stati Uniti, questo nuovo sistema viene proposto come una tecnica educativa destinata inizialmente ad attori e oratori, ma progressivamente offerta a tutti, finalizzata al raggiungimento di una scioltezza armonica dei movimenti come specchio di un perseguito equilibrio interiore. Tutte le forme di parateatralità legate al delsartismo, come la pantomima o i quadri viventi, rappresentano occasioni di teatro educativo per dilettanti con risvolti terapeutici e sociali. A una ulteriore semplificazione del sistema e banalizzazione dello stesso contribuisce un’altra statunitense, Geneviève Stebbins, allieva di McKaye e di un altro discepolo di Delsarte. Se da un lato il tradimento del verbo delsartiano è evidente nella sua trasformazione in ginnastica per signorine di buona famiglia, il Delsarte System of Espression della Stebbins è un’esperienza di formazione al movimento espressivo che ci proietta in modo ormai irreversibile nel territorio della nascente danza moderna. La Stebbins, con il suo insistere sulla ben nota legge della corrispondenza fra interno ed esterno dell’uomo, riporta l’attenzione sulle problematiche e sullo statuto del corpo, ribadendone la dimensione di plesso unitario. Introducendo il concetto di «fonte del movimento», che ella individuava nel diaframma – punto nevralgico dell’emozione, in grado di trasci17

Spallone, L’estetica applicata cit., pp. 115-145.

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nare nella sua energia la ritmica e la dinamica dell’intero corpo –, pone le basi per tutte le ricerche posteriori. I molti esponenti della danza moderna, dalle sue origini al suo consolidamento, andranno alla ricerca di questo punto nevralgico, nel tentativo di ricostruire, a partire chi dal «plesso solare» (Isadora Duncan), chi dall’«osso pelvico» (Martha Graham), chi da altri fuochi del corpo, il nucleo unitario dell’essere umano, minacciato, fin dalla seconda metà dell’Ottocento – come hanno messo ben in evidenza col loro pensiero Freud, Lacan, Artaud e molti altri –, da un destino di frantumazione dell’io. 1.4. Dal delsartismo alla danza moderna Le vicende che caratterizzano la nascita e l’affermarsi della danza moderna si riflettono nei fermenti e nella rivoluzione estetica che nei primi del Novecento investono l’intero sistema delle arti: si tratta di fenomeni non sempre marcati da una piena consapevolezza, ma certamente portatori di un progetto di rifondazione teorica e di irreversibile riforma delle prassi18. In una rapida ma necessaria carrellata, che parte dalla seconda metà dell’Ottocento – vale a dire quando l’insegnamento di Delsarte ha già raggiunto il suo culmine –, il primo e più significativo incontro è quello con la teoria dell’opera d’arte totale di Wagner, un’utopia di spettacolo immaginato come un armonioso insieme di arti del corpo, della parola, della musica e del canto, dello spazio e del tempo19. Con Adolphe Appia il progetto wagneriano, proiettato nell’avvenire, diventa concretezza attuale di un corpo umano in movimento come medium fra la dimensione spaziale della scena e sua componente temporale20. Nella stessa direzione remano anche artisti e teorici a cavallo fra i due secoli, come, ad esempio, Émile Jaques-Dalcroze, il quale riprende e approfondisce la speculazione estetica circa le possibilità espressive del corpo nella sua relazione con il ritmo musicale. Nella 18 Cfr. La generazione danzante. L’arte del movimento in Europa e nel primo Novecento, a cura di S. Carandini ed E. Vaccarino, Di Giacomo, Roma 1997, p. 5. 19 Cfr. M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 283-284 (ed or., Theories of the Theatre. A Historical and Critical Survey from the Greeks to the Present, Cornell University Press, Ithaca, NY, 1984). 20 Ivi, pp. 325-327.

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scuola di Hellerau elaborerà e trasmetterà i principi dell’euritmica, disciplina di alto valore formativo che influenzerà, fra i poliedrici artisti dell’epoca, anche molti cultori dell’arte della danza21. A essere contaminata dalla sempre più concreta presenza di una corporeità rinnovata nella concezione e nelle modalità di porsi all’interno dell’arte e della società è anzitutto la letteratura, col recupero della fisicità sonora di una parola danzante che comincia a essere considerata tale solo nella sensualità della sua incarnazione, fin quasi alla sua sparizione e al suo annullamento in un corpo in grado da solo di essere pensiero vivente (si pensi, ad esempio, alla poesia di Mallarmé e Valéry); ma, in seconda battuta, vengono investite dalla nuova cultura del corpo anche la pittura e la scultura, arti il cui scopo, in questo frangente storico, sembra proprio essere quello di riuscire a inserire una microscopica trama di tempo nell’ordito spaziale che da sempre le caratterizza statutariamente (si veda, ad esempio, tutta la poetica e l’estetica del Futurismo). Bersaglio del fuoco incrociato delle avanguardie e delle loro estetiche diviene la scena teatrale borghese, cui sarà contrapposto un modello di teatro festivo, luogo ideale per l’espressione di un corpo addestrato, in grado di padroneggiare la rappresentazione tanto sull’asse del tempo quanto su quello dello spazio. Le estetiche del teatro e della danza si incontrano proprio sul terreno di una nuova antropologia, sulla proposta di una nuova e riscoperta corporeità. Già all’inizio del XX secolo, le parole d’ordine delle nascenti pedagogie del corpo sono infatti: liberazione, armonia gestuale, bellezza del nudo, corpo come opera d’arte, ecc. Da questo «cortocircuito fra nuovi linguaggi artistici e ‘valorizzazione’ del corpo»22, secondo la studiosa Silvia Carandini, si sviluppa una nuova cultura della danza che avvia un inarrestabile processo di ripensamento dei canoni estetici della coreografia e della scena, della pedagogia dell’attore-danzatore e, di quest’ultimo, lo statuto umano, artistico e professionale. Due sono le direttrici di pensiero nei primi anni del Novecento, attorno alle quali si dispongono per condivisione o per rifiuto i fer21 E. Casini Ropa, La danza e l’agitprop. I teatri-non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 65-77; cfr. infra, 3.1. 22 La generazione danzante cit., p. 18.

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menti delle avanguardie: da un lato il ritorno alla natura e ai liberi movimenti di un corpo sano, educato all’aria aperta e restituito ai suoi istinti e alle sue pulsioni originarie; dall’altro la piena adesione delle cadenze e delle forme dell’arte al progresso tecnologico, alla meccanica, alla velocità. L’insegnamento di Delsarte si colloca nel primo dei due filoni sopra individuati, perché va incontro alle istanze di novità espressiva di tutti quegli artisti ormai insofferenti dei moduli stantii e logorati del balletto classico, offrendo – come sottolinea la studiosa Silvana Sinisi – una forma «più libera e rispettosa delle leggi del corpo, capace di attivare una poetica di contenuti al di là del livello puramente tecnico della scuola accademica»23. 1.5. Ruth St. Denis e Ted Shawn Riceve un’educazione basata sui principi estetici di Delsarte Ruth St. Denis24 (1879-1968), al secolo Ruthie Dennis, pioniera della danza libera americana il cui nome d’arte, coniato dall’impresario David Belasco25, assurge a emblema della discendenza delsartiana assommando in poche sillabe il riferimento biblico (Ruth) a quello della mistica cristiana (Dionigi)26. Lo spiritualismo che caratterizzerà l’esperienza umana e artistica della St. Denis viene da un’originale educazione religiosa ricevuta dalla madre Emma, donna emancipata del New Jersey che porta la figlia con sé a vivere in una delle tante comunità utopiche sorte alla fine dell’Ottocento, nella quale si pratica parimenti un’educazione del corpo e della mente finalizzata alla formazione morale della persona senza distinzione fra i sessi27. Ruth cresce assimilando progressivamente i valori della castità, dell’esercizio fisico, della liberazione della donna, della modernizzazione dell’abbigliamento femminile e del gusto per la bellezza secondo il dettato delsartiano di Aurilla S. Sinisi, Il gesto e l’anima, in François Delsarte cit., p. 106. J. Sherman, The Drama of Denishawn Dance, Wesleyan University Press, Middletown, Connecticut, 1979; S. Shelton, Divine Dancer: a Biography of Ruth St. Denis, Doubleday, Garden City (NY) 1981. 25 La generazione danzante cit., p. 93. 26 Randi, Il magistero cit., p. 180. 27 E. Casini Ropa, Introduzione alla Parte Prima, in Alle origini della danza moderna, a cura di E. Casini Ropa, Il Mulino, Bologna 1990, p. 17. 23 24

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Concord Poté, una allora molto nota allieva di Steele McKaye, quest’ultimo a sua volta uno dei più attivi divulgatori statunitensi del verbo di Delsarte28. Durante gli studi scolastici pratica, inoltre, la ginnastica armonica, tecnica delsartiana di armonizzazione del corpo in movimento molto diffusa nei centri di formazione e nelle scuole statunitensi, e assiste nel 1892 a una delle performances della Stebbins, che con i suoi quadri viventi definiti statue-posing, talvolta di accattivante sapore esotico, suggerisce alla St. Denis una concezione del movimento che possiamo davvero definire moderna: anzitutto perché il corpo viene considerato nella sua totalità di elementi organici e di vissuto spirituale, in secondo luogo perché viene prodotto un movimento continuo, senza fratture, tecnicamente basato su flessioni graduali, fluidi spostamenti di peso, azioni fisiche a spirale, in un ancoraggio evidente e ben saldo al terreno29. Il percorso estetico della St. Denis parte, come è noto, dalla Chiesa Scientista, dottrina dualistica che considera negativamente il corpo come materia disarmonica ed esalta incondizionatamente lo spirito, visto come l’unico elemento costitutivo dell’esistenza umana30. Il conflitto fra dimensione carnale e dimensione spirituale è vissuto dalla St. Denis in modo particolarmente acuto, se si considera che la sua prima attività come danzatrice si svolge entro una forma di spettacolo grandioso e magniloquente, com’era quello proposto dalla compagnia di Augustin Daly e David Belasco: La danza – scrive la St. Denis –, negli ultimi tempi, è stata avvilita entro i ristretti limiti e il basso livello del professionismo – di una efficienza puramente meccanica – sempre associata con gli aspetti più frivoli ed effimeri del palcoscenico, ma questo periodo sta finendo. Stiamo lentamente superando questo periodo di oscurantismo e di perversione. Stiamo rivolgendo lo sguardo verso l’interno, impariamo a cercare le sorgenti divine della danza, affinché possa rifiorire in nuove e più gloriose forme di bellezza e dignità. Noi danzatori oggi lottiamo, ci sacrifichiamo e lavoriamo affinché in un meraviglioso momento del futuro sia possibile vivere! Di fatto stiamo vivendo adesso. Oltre il velo del nostro quotidiano c’è l’Eterno Presente che cerca di rivelarsi – per gettare la sua luce sulla confusione di questa grave ora. Ma il potere che la danza ha di liberaLa generazione danzante cit., p. 93. Sinisi, Il gesto e l’anima cit., p.107. 30 E. Casini Ropa, Introduzione alla Parte Seconda, in Alle origini cit., p. 124. 28 29

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re l’anima è ancora sepolto sotto il peso del mondo costrittivo e artificiale che ci siamo creati – in cui non c’è tempo per conoscere né spazio per muoversi31.

La soluzione del conflitto viene trovata dalla St. Denis all’interno delle mistiche orientali e delle manifestazioni artistiche a esse ispirate. Come osserva la Randi: «lo scontro trova risoluzione in una triunità, il cui cuore (l’anima) funge da anello di congiunzione tra i due poli in lotta»32. Così si esprime, al proposito, la stessa danzatrice americana, in un testo del 192433: Nei tempi moderni abbiamo usato quasi esclusivamente il linguaggio dell’intelletto – la parola – per esprimere ogni stato e grado di coscienza, e così facendo abbiamo bloccato e mortificato la bellezza fisica ed emotiva del sé, mentre la consapevolezza spirituale ha cercato tutt’altre vie per esprimersi, non sapendo che la danza nelle sue forme più nobili è il vero tempio e la parola stessa dello spirito vivente. È soprattutto da questo errore che è nato il senso di separazione fra corpo e spirito. In realtà, ogni singolo essere crea e regola il proprio organo espressivo, e con esso la sua comunicazione con il mondo. Dobbiamo quindi guardare alla danza fondamentalmente come a una Esperienza di Vita, come al mezzo originario e definitivo di espressione e comunicazione34.

Carne e spirito sono, per la St. Denis, due facce della stessa medaglia, che la danza mostra perfettamente integrate in un corpo espressivo, testimonianza di una esperienza peculiare di esistenza che attraverso di esso si comunica. Durante una breve visita a Parigi la St. Denis viene a contatto con il suo ideale modello coreico: all’esposizione Universale assiste alle esibizioni delle delegazioni giavanesi e siamesi, ma in particolare 31 R. St. Denis, La danza come esperienza di vita, in La generazione danzante cit., p. 98 (ed. or., The Dance as Life Experience, in «Denishawn Magazine», 1924 [o 1925], poi rieditato in The Vision of Modern Dance, a cura di J. Morrison Brown, Dance Books, London 1980). 32 Randi, Il magistero cit., p. 181. 33 La data di pubblicazione dello scritto è incerta fra il 1924 e il 1925, cfr. St. Denis, La danza come esperienza cit., p. 98 nota 53 (la nota è a cura di E. Guzzo Vaccarino). Cfr. E. Vaccarino, Ruth St. Denis, in La generazione danzante cit., pp. 93-97. 34 St. Denis, La danza come esperienza cit., p. 99.

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l’immaginazione della danzatrice viene colpita dalle fantasmagorie illusionistiche di Loie Fuller35 e dell’artista giapponese Sada Yacco. L’incontro con la cultura dell’Oriente spinge la St. Denis, nella sua danza, verso un’elaborazione del movimento che le è certamente ispirata dalle letture sacre del buddismo, ma è soprattutto dipendente da quell’immagine guida che diverrà per lei l’icona della dea Isis, scorta su un cartellone pubblicitario di una nota marca di sigarette36. L’immaginario orientaleggiante della St. Denis è tutto racchiuso in quella suggestione visiva, nella quale ella vedeva comporsi il dissidio fra ideale mistico e ieratico di bellezza e sensualità esotica di un corpo sinuoso e provocante. A partire prima da Egypta, quindi da Radha e dalle successive composizioni coreografiche di sapore indiano, un incedere semplice, flessuoso e leggero alternato al vorticoso roteare del corpo per produrre complessi movimenti a spirale verrà proposto entro una cornice teatrale sontuosa, ricca ed elaborata nella messinscena. Questa danza, intesa come un grande rituale, è spia della sintesi estetica e drammaturgica raggiunta dalla danzatrice, che ha ormai imparato a coniugare con abilità, nel suo armonico movimento, castità e impudicizia37. Nella danza della St. Denis, che percepisce se stessa come un «ritmico e impersonale strumento di rivelazione spirituale»38, «il corpo 35 Cfr. S. Carandini, Loie Fuller, in La generazione danzante cit., pp. 61-69; alcuni interventi recenti sulla Fuller sono antologizzati in Danze di luce. Seminario 3, a cura di E. Guzzo Vaccarino, Skira, Milano 2003. 36 S. Shelton, Lo spettacolo dell’Oriente: Ruth St. Denis, in Alle origini cit., p. 153 (ed. or., Divine Dancer cit., pp. 47-64). 37 «Radha arrivò sulla scena americana negli anni della grande ondata dell’orientalismo. Ricerca intellettuale seria e fenomeno della cultura popolare, l’orientalismo fu una fase della più ampia moda dell’esotismo prevalente sul finire del secolo. Le radici di questo fascino per lo stile, se non per la sostanza, dell’Oriente si potrebbero far risalire fino all’epoca dei commerci e delle spedizioni coloniali, giù attraverso le influenze mistiche orientali sui trascendentalisti americani, fino all’impulso dato dal moltiplicarsi dei contatti tra Oriente e Occidente e rappresentato dai libri di viaggio e dalle fiere universali. Alcuni studiosi pensarono che la propaggine americana dell’orientalismo rappresentasse il rifiuto dell’instabile mondo moderno, un rifugio nelle società sacre dell’Est come porti originari dell’ordine spirituale. Un critico almeno trovò nel danzare della St. Denis ‘un ritmo universale sotto il caos e la frammentazione del nostro mondo moderno industriale, che infonderà nuova gioia e armonia ritmica nella nostra vita quotidiana’»; ivi, p. 160. 38 R. St. Denis, An Unfinished Life. An Autobiography, Harper and Brothers, New York 1939; il passo è riportato da S. Shelton, Ruth St. Denis, University of

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si fa specchio dell’anima» – come afferma molto opportunamente Silvana Sinisi –, si fa, insomma, tramite di un afflato religioso, strumento di comunicazione totale e profonda col divino, secondo quanto già Delsarte predicava, concependo l’arte e la preghiera come due aspetti di un’unica realtà39. Scrive, a questo proposito, la stessa St. Denis: La Danza è moto, che è vita, bellezza, che è amore, proporzione, che è forza. Danzare è vivere la vita nelle sue vibrazioni più sottili e più elevate, vivere in armonia, purezza, controllo. Danzare è sentire se stessi come parte del mondo cosmico, radicati nella realtà interiore dello spirito. La rivelazione della bellezza spirituale in termini di movimento è la progressione naturale e inevitabile della vita e dell’arte, e la parola Danzatore dovrebbe correttamente significare colui che esprime col gesto corporeo la gioia e la potenza del proprio essere40.

La concezione teorica della St. Denis si traduce, nella prassi, in un moto continuo, fluido, privo di scatti e di interruzioni, in linea con quei «movimenti a successione» di cui aveva parlato la Stebbins citando Delsarte, collocandoli in una delle tante triadi delsartiane insieme ai movimenti di opposizione e parallelismo41. Questa estetica del moto rotondo, curvilineo, sinuoso, al cui fascino neppure la Duncan si era sottratta, è risposta alla esigenza di naturalità propria dell’epoca in cui vive e opera la St. Denis: La danza consiste nel movimento ritmico del corpo che è stato a lungo represso o deformato, e il desiderio di danzare sarebbe altrettanto naturale come quello di mangiare, o di correre, o di nuotare, se la nostra civiltà non avesse imposto un divieto [...] a quest’azione istintiva e gioiosa di un essere in armonia con se stesso. La nostra religione formale, le nostre città affollate, i nostri abiti, i nostri mezzi di trasporto, sono grandemente responsabili della massa di umanità inerte che fino a ieri era priTexas Press, Austin 1990, p. 46, tradotto in Sinisi, Il gesto e l’anima cit., p. 112 e ripreso in Randi, Il magistero cit., p. 181. 39 Cfr. Sinisi, Il gesto e l’anima cit., pp. 113-114. 40 St. Denis, La danza come esperienza cit., p. 98. 41 La Shelton sottolinea proprio l’uso, quasi pedissequo nelle esibizioni della St. Denis, di esercizi delsartiani mediati dalla Stebbins, così come sono testimoniati dalle cronache dell’epoca (Shelton, Lo spettacolo dell’Oriente cit., p. 162).

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gioniera di colletti e bustini. Ma stiamo cominciando a emergere, a liberarci, a chiedere uno spazio in cui pensare e danzare42.

Nel 1913 la St. Denis incontra un ex studente di teologia metodista, Ted Shawn (1891-1972), col quale darà inizio a un lungo sodalizio artistico, parallelo e contiguo alla loro relazione sentimentale e in seguito anche matrimoniale. Dal rapporto fra i due artisti, che condividono una forte religiosità e il desiderio di fissare norme, metodi e didattica di una comune idea della danza, nel 1914 nasce, a Los Angeles, la Denishawn, scuola laboratorio per l’educazione al movimento e alla danza – esemplata sul modello delle numerose scuole sorte fra Stati Uniti ed Europa negli anni Dieci – e nel contempo compagnia di danza moderna. All’interno dell’esperienza pedagogica della Denishawn maturano le concezioni estetiche dei due artisti. La St. Denis, stanca di un eclettismo che la portava a mescolare, pur con sapienza teatrale, esercizi delsartiani e gesti della tradizionale e quasi folclorica danza americana della gonna (skirt dance) in un cocktail cui si aggiungevano gli ingredienti personali delle movenze sinuose ed esotiche suggerite dalle suggestioni libresche o da poche e parziali visioni di danza dell’Oriente43, si dedica, dalla fine della guerra, alla elaborazione del sistema da lei intitolato Music Visualisation, dalla stessa St. Denis definito «la traslazione scientifica in azioni corporee del ritmo, della melodia e delle strutture della composizione musicale, senza intenzioni interpretative e rivelazione di nascosti significati da parte del danzatore»44. La nuova visione musicale porta la St. Denis a una maggior sistematicità nell’insegnamento, proprio nel tentativo di riprodurre in termini spaziali l’evento ritmico e sonoro. Un’attenzione capillare a ogni elemento musicale (melodia, insieme armonico, intensità del suono, timbro del singolo strumento, ritmo, ecc.) conduce la danzatrice americana fuori dalle sabbie mobili della sontuosità spettacolare degli orientalismi, verso un tipo di danza più astratta e più connotata dal punto di vista tecnico. St. Denis, La danza come esperienza cit., p. 100. Casini Ropa, Introduzione alla Parte Seconda cit., p. 125. 44 Riportato, senza indicazione della fonte, ivi, p. 126. 42 43

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Il vero motore teorico della Denishawn è, tuttavia, Ted Shawn. Delsartista convinto – studia con Henrietta Hovey (allieva del figlio di Delsarte, Gustave), che sarà proprio chiamata a insegnare il metodo dell’estetica applicata presso la Denishawn45 –, crede nella danza come espressione universale del sentimento religioso dell’uomo. Assertore della necessità di un’arte autenticamente americana, non rifiuta nessuna tecnica e nessuno stile a priori, considerandoli tutti strumenti per un’educazione completa del danzatore, per un affinamento progressivo della sua sensibilità fino alla capacità di elaborazione personale dei materiali acquisiti. A tale scopo nella Denishawn hanno pari dignità tutti gli apporti al movimento: dalla meditazione yoga alle danze etniche, dall’esercizio derivato da Delsarte al lavoro di improvvisazione. Anni di studio accompagnano il cammino pedagogico della prestigiosa scuola californiana. Ted Shawn si accosta direttamente agli appunti degli allievi di Delsarte e consulta gli archivi originali dell’estetologo francese, dedicandosi con risolutezza alla elaborazione di una nuova estetica per la danza moderna americana, a partire da elementi tecnici e formali attinti alla prospettiva antropologica delsartiana, secondo la quale l’uomo è una realtà unitaria nelle sue manifestazioni espressive e il movimento un linguaggio primario e universale46. Due sono le opere alle quali Shawn affida il suo credo teorico, Foundamentals of a Dance Education del 193747 ed Every Little Movement. A Book about François Delsarte del 195448. Attraverso un’attenta disamina del pensiero di Delsarte, Shawn riprende le leggi e i principi dell’estetica applicata operando su di essa quella che lo storico Werner J. Stüber49 definisce «una pragmatizzazione selettiva-complementare», ai fini della creazione di una nuova coreutica. Spallone, L’estetica applicata cit., p. 132. Casini Ropa, Introduzione alla Parte Seconda cit., pp. 129-130. 47 T. Shawn, Fundamentals of a Dance Education, Haldeman-Julius, Girard (Kan.) 1937. 48 T. Shawn, Every Little Movement. A Book about François Delsarte, Eagle Print and Binding Co., Pittsfield (Mass.) 1954, 19632. 49 Cfr. W.J. Stüber, Ted Shawn e la teoria espressiva di François Delsarte, in Alle origini cit., pp. 171-181 (ed. or., Geschichte des Modern Dance. Zur Selbsterfahrung und Körperaneignung in modernen Tenztheater, Henrichshofen, Wilhelmshaven 1984). 45 46

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Riuscito appare infatti il tentativo di fissare i così detti Foundamentals of Movements a partire dalle spesso astratte tripartizioni di Delsarte (intelletto, anima, vita; testa/collo, torso, addome/fianchi; parallelismo, opposizione, successione, ecc.) e dalle nove leggi della teoria dell’espressione. In particolare saranno decisive per gli sviluppi futuri della danza moderna – non dimentichiamo che dalla Denishawn usciranno Martha Graham, Doris Humphrey e Charles Weidman, ai quali si deve la creazione dello stile e della tecnica della modern dance – le «opposizioni», dalle quali Shawn trae i movimenti di shaking (scuotimenti) e di vibrating (vibrazioni), efficaci per esprimere e comunicare forti stati emotivi; e le «successioni», elementi strutturali della coreografia come i movimenti di falling-andrising (caduta e sollevamento) e unfolding-and-folding (spiegare e ripiegare; apertura e chiusura). Analogamente, riprendendo le leggi delsartiane, Shawn individua una serie di gesti, di posture, di concatenazioni funzionali di passi mettendoli in relazione con il significato di una situazione esperienziale immaginaria, che si traduce in spazio, ritmo, tempo. Opera, in tal modo, il superamento della visione duncaniana della danza come portato emozionale di una concreta esperienza e di un vissuto effettivo, ponendo l’accento sulla natura simbolica del movimento, che proprio grazie alla tecnica viene concepito all’interno dell’universo della rappresentazione. Successioni sono definiti tutti i movimenti che passano attraverso il corpo intero, attraverso ogni parte del corpo coinvolgendo ogni muscolo, ogni osso, ogni articolazione. Sono i movimenti fluidi, simili all’onda. Costituiscono l’ordine di movimento principale per esprimere l’emozione. L’immissione di questa scoperta di Delsarte nella danza fu una delle spinte più forti verso il formarsi della danza definita American Modern (e German Modern). Le successioni sono di due tipi principali: successioni vere [...] e successioni opposte [...]. Il Bene, il Vero, il Bello e tutte le espressioni emotive normali usano le successioni; il male, la falsità, l’insincerità, ecc., impiegano le successioni opposte50.

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Shawn, Every Little Movement cit., pp. 34-35, in Randi, Il magistero cit., p.

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La nuova estetica ha trovato la sua sistematizzazione nella nuova prassi coreica di Ted Shawn, che riprendendo l’universo ideale e platonico di Delsarte cerca di ricondurre l’espressione corporea alla sua origine divina dichiarandone quindi la matrice archetipica. L’operazione si presenta come storicamente necessaria, soprattutto nel momento di un totale ripensamento della creatività artistica, e della danza in particolare, come appare questo saliente epocale. Ogni scelta porta con sé inevitabili rinunce e negazioni e in questo caso, secondo Stüber, a essere sacrificato sarebbe stato «il fatto che le espressioni corporee nella loro coniatura non sono grandezze invariabili, ma sottostanno a determinate modificazioni, socialmente, storicamente e culturalmente condizionate»51. 1.6. Isadora Duncan Come abbiamo potuto constatare nell’analisi della figura di Ruth St. Denis e della sua estetica, è nella rivoluzionaria danza americana, sviluppatasi fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, che il pensiero di Delsarte e dei suoi epigoni sembra raccogliere i suoi frutti migliori, proprio perché rispondeva alle esigenze di rinnovamento di coloro che, ormai insofferenti del vecchio balletto accademico e delle sue forme, aspiravano a una espressività libera, naturalmente rispettosa delle leggi del corpo, in grado di dare voce a quei contenuti che l’impostazione unicamente tecnicistica della danse d’école non era stata in grado di esprimere52. Anche Isadora Duncan53 (1877-1927), di soli due anni più vecchia della St. Denis, sembra essere stata influenzata dagli insegnamenti di Delsarte, nonostante nei suoi numerosi scritti, per la mag-

Stüber, Ted Shawn cit., p. 176. Sinisi, Il gesto e l’anima cit., p. 106. 53 Cfr. A. Daly, Done into Dance. Isadora Duncan in America, Indiana University Press, Bloomington 1995; Id., Isadora Duncan e la «distinzione» della danza, in «Teatro e storia», XII, 1997, 19, pp. 11-36; S. Carandini, Isadora Duncan, in La generazione danzante cit., pp. 77-83; Id., Isadora Duncan e Loïe Fuller, simboli di un’arte nuova, in La danza moderna. I Fondatori. Seminario 1, a cura di E. Vaccarino, Skira, Milano 1998, pp. 11-30; E. Vaccarino, Il corpo come arte e come lotta. Seminario 2, Skira, Milano 1999, pp. 16-25; E. Casini Ropa, Loie Fuller e Isadora Duncan: donne nuove per una danza nuova, in Danze di luce cit., pp. 21-28. 51 52

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gior parte di carattere frammentario54, non ci sia mai un esplicito riferimento all’estetologo francese, a eccezione di un’intervista rilasciata nel 189855, nella quale la Duncan si dichiara debitrice nei confronti di Delsarte e del suo pensiero. Quello che è certo è che Isadora cresce in un clima educativo particolare, che se non pare discendere in linea diretta dagli insegnamenti di Delsarte, da questi ultimi è comunque pervaso, soprattutto perché gli anni della formazione della Duncan coincidono proprio con il momento di maggior espansione americana del delsartismo. Mary Duncan, madre di Isadora, irlandese di nascita e quindi originariamente cattolica nella formazione, fa crescere la figlia in un ambiente artistico stimolante, dove la musica e la poesia rappresentano una consuetudine quotidiana. Isadora partecipa al travaglio religioso della madre e la vede aderire al nuovo credo agnostico di Robert Ingersoll che – come precisa la studiosa Eugenia Casini Ropa – «predica un vitalismo edonista e paganeggiante, il ritorno a una sorta di pre-cristianesimo romantico»56. L’estetica della danza che la Duncan viene elaborando attraverso i suoi scritti e la sua intensa attività artistica ha come punto di partenza l’idea, propria della temperie culturale fra Ottocento e Novecento, di un mitico stato originario di armonia naturale, dal quale l’uomo si sarebbe progressivamente allontanato e al quale deve ri-

54 Se si esclude la sua famosa autobiografia, I. Duncan, La mia vita. Autobiografia di una grande pioniera della danza moderna, Prefazione di E. Casini Ropa, Dino Audino Editore, Roma 2003 (ed. or., My Life, Boni and Liveright, New York 1927) e il volume antologico, I. Duncan, Lettere dalla danza, La Casa Usher, Firenze 1980 (ed. or., The Art of the Dance, Theatre Arts, New York 1928, 19692), si tratta soprattutto di brevi interventi su riviste, trascrizioni o appunti di conferenze, quaderni di annotazioni, frammenti manoscritti, ecc. Cfr. Carandini, Isadora Duncan cit., p. 79. 55 Del riconoscimento di un personale debito della Duncan nei confronti del maestro francese parla in modo dettagliato la Sinisi, Il gesto e l’anima cit., pp. 106108 e nota 4; cfr. Randi, Il magistero cit., pp. 182-183 e nota 70. Cfr. A.R. MacDougall, Isadora: a Revolutionary in Art and Love, Thomas Nelson, New York 1960. Gordon Craig, per un certo periodo compagno di Isadora, in un riferimento alla danzatrice parla di un volume di «Del Sarte» [sic] che egli stesso le aveva prestato, cfr. G. Craig, On Movement and Dance, a cura di A. Rood, Dance Books, London 1978, p. 251. 56 Casini Ropa, Introduzione alla Parte Prima cit., p. 17.

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tornare se non intende perdere definitivamente la possibilità di redenzione e salvezza: In natura esiste l’armonia musicale, così come esiste l’armonia dei movimenti. L’armonia musicale non è un’invenzione dell’uomo, si è imposta da sola. Anche l’armonia dei movimenti non può essere inventata, la sua concezione deve scaturire in natura, il ritmo va cercato nel grande ritmo delle acque, dei venti e nella loro azione sulla materia, nei movimenti della terra, nella vita degli animali [...] perfino nei movimenti dell’uomo primitivo. Con la sua prima presa di coscienza, l’uomo ha perso i movimenti naturali; adesso, con l’intelligenza acquisita in migliaia di anni di civilizzazione, deve con la coscienza ritrovare ciò che in modo inconscio aveva perso57.

Per ritrovare questo ideale naturale, questa consonanza del suo essere particolare con la dimensione infinita dell’universo, l’uomo deve spogliarsi di ogni costrizione, di ogni abitudine acquisita, riappropriandosi di quella libertà e di quella bellezza che sono alle origini della sua avventura nella vita. I movimenti naturali del corpo, persi con la prima presa di coscienza di sé, possono essere recuperati proprio a partire da un rifiuto di tutti quegli elementi accessori che la cultura e la società hanno sovrapposto al corpo e in particolare imposto al corpo della donna, e ciò tanto in riferimento alla quotidianità quanto all’arte. La bellezza del corpo umano non può essere affidata al caso, non può cambiare a seconda delle mode. [...] l’ideale del corpo umano resta sempre uguale. La Venere di Milo, al Louvre, sta dritta sul suo piedistallo: costrette e sformate in ridicoli abiti alla moda, le donne passano innanzi a lei. Lei resta dritta sul piedistallo, perché impersona la Bellezza, la Verità, la Luce. La forma umana non può seguire le vicende della moda o del tempo, la Bellezza di quella donna è quindi l’eterna verità. È guida all’uomo nella sua evoluzione, verso il compimento della razza e verso l’ideale sognato di diventare un giorno simile a Dio58. 57 I. Duncan, Dell’arte della danza, in La generazione danzante cit., p. 84 (ed. or., De l’art de la danse, in «L’Oeuvre», 1909, 11). 58 Ibid.

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Questo ideale di grazia e di bellezza incontaminata e pura è per la Duncan quello dell’antica Grecia59, nelle cui forme artistiche è convinta di ritrovare l’ideologia di un corpo sociale concepito libero, rivestito di tuniche impalpabili, offerto al pubblico nell’estasi dionisiaca di una danza, da un lato generata dall’impulso interiore, e dall’altro regolata dal solo ritmo della natura: Sulla sommità dell’Olimpo, vestite di tuniche leggere, la Muse danzano in cerchio attorno ad Apollo: tutti si chiedono dove sia Tersicore, perché non venga a raggiungere le sorelle [...]. Cosa possiamo fare per restituirle il posto fra le Muse? Dobbiamo ritrovare la bellezza della forma e il movimento che l’accompagna. Dalla forma ideale si dovrà ritrovare la naturale plasticità del movimento. Le linee di una forma bella suggeriscono sempre il movimento, anche in stato di riposo; e le linee davvero belle del movimento suggeriscono sempre il riposo, anche nel movimento più rapido. È questa qualità di riposo dentro l’azione che dona al movimento un valore infinito60.

Tale estetica della natura si traduce nelle performances duncaniane in una danza assolutamente libera da schemi e da tecniche: un corpo quasi nudo, scalzo, naturale, si muove armoniosamente, seguendo unicamente la propria spinta interiore, assecondando in un ascolto profondo l’eterno moto del cosmo. Il centro propulsore del movimento viene individuato dalla Duncan nel plesso solare, dove si concentrano, secondo la danzatrice, tutte le emozioni e le passioni, anche suscitate dall’incontro «fatale», quanto inevitabile, con l’arte musicale. Questo centro, caricandosi di energia, irraggia nello spazio intorno, per onde successive, tutti i movimenti naturali del corpo, che si offrono agli sguardi del pubblico come espressione dell’anima del danzatore61.

59 E. Schur, Isadora Duncan: la Grecia, in Alle origini cit., pp. 139-146 (ed. or., Der moderne Tanz, Lammers, München 1910). 60 Duncan, Dell’arte della danza cit., p. 85. 61 Scrive John Martin al proposito: «Procedendo, quindi, il movimento da una fonte interiore, l’ideale per lei era di trovare, per ogni danza, i movimenti ‘chiave’, dai quali altri movimenti sarebbero nati spontaneamente in adempimento dell’impulso iniziale. Qui stava la scoperta della frase motrice e l’intuizione della capacità del movimento di creare forme proprie. Questa idea, e quella ancora più radicale

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Usando immagini di tradizione neoplatonica, che la avvicinano al pensiero e all’estetica di Delsarte, la Duncan afferma che solo il gesto libero e sincero fa sì che «la carne diventi luminosa e trasparente», specchio della divinità che l’attraversa. Per me, la danza non è solo l’arte che attraverso il movimento consente all’anima umana di esprimersi, è anche il fondamento di una concezione più sciolta, armoniosa, naturale della vita. [...] L’unico grande principio su cui mi sento autorizzata a fondare la mia arte è la costante, assoluta, universale unità di forma e contenuto. Unità ritmica che si ritrova in tutte le manifestazioni di natura. Le acque, i venti, i vegetali, gli esseri viventi, le particelle minimali di materia, obbediscono a questo ritmo sovrano, la cui linea caratteristica è l’ondulazione. [...] Cercare le forme più belle in natura e trovare il movimento che esprime l’anima di queste forme: questa è l’arte del danzatore. [...] Mi sono ispirata al movimento degli alberi, delle onde, delle nuvole, al rapporto fra passione e tempesta, mansuetudine e brezza, etc. Cerco sempre, inoltre, di infondere nei miei movimenti un po’ di quella divina continuità che produce bellezza e vita in tutta la natura62.

L’utopia di una danza naturale, come espressione di un uomo che ha ritrovato le sue origini e la sua posizione nell’universo, va di pari passo nella Duncan con l’aspirazione a una unità (guidata wagnerianamente dalla musica) delle arti, all’interno della quale la danza possa recuperare il suo statuto centrale, perso a causa di un dissennato progresso che disumanizza l’uomo. L’architetto, lo scultore, il pittore, il musicista, il poeta, sanno che la forma umana idealizzata e la coscienza della sua divinità, sono la base di qualsiasi arte creata dall’uomo. Un solo artista ha perso questa divinità, anzi l’ignora, lui che per primo dovrebbe esserne sostenitore. Questo artista è il danzatore63.

che la danza poteva creare la propria forma soltanto con questi mezzi, furono fra le prime certezze di Isadora»; J. Martin, Isadora Duncan: la danza, in Alle origini cit., pp. 148-149 (ed. or., Introduction to the Dance, Dance Horizons, New York 1978). 62 I. Duncan, L’arte della danza, in La generazione danzante cit., pp. 86-87 (ed. or., L’art de la danse, in «L’Oeuvre», 1911, 10/11). 63 Duncan, Dell’arte della danza cit., p. 84.

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L’arte del futuro sarà proprio questa unità, alla realizzazione della quale la Duncan si sente fortemente chiamata e che vede possibile solo in un corpo come opera d’arte vivente, in grado di padroneggiare il nuovo linguaggio del movimento e dell’emozione64. Questo ideale, non certo nuovo, sta alla base del progetto pedagogico della Duncan, rivolto in particolare alle fanciulle, nell’animo delle quali ella intende risvegliare l’anelito naturale alla vita, sviluppare l’aspirazione al bello, infondere una religione della danza che si traduce in un’educazione al movimento libero, spontaneo, all’aria aperta, senza alcun addestramento preconcetto o codificato a priori. Conclusioni La nuova danza, che si affaccia alle soglie del Novecento, si diffonde come un fenomeno rivoluzionario, come la proposta di una inaspettata concezione del corpo in netto contrasto con le mode, le rappresentazioni antropologiche e le ideologie del tempo. A una più attenta verifica, però, ci si accorge che nello stesso momento ha luogo una legittimazione culturale di questo fermento artistico, pur fra scandali e disapprovazioni pubbliche più o meno appariscenti (si pensi, ad esempio, allo scalpore suscitato dalle vesti succinte utilizzate dalla Duncan nelle sue esibizioni).

64 John Martin, nel suo fondamentale saggio La modern dance, a cura di N. Giavotto, Di Giacomo, Roma 1991, pp. 4-7 (ed or., The Modern Dance, A.S. Barnes and Co., New York 1933; la prima parte del testo è tradotta e antologizzata anche in Alle origini cit., pp. 27-44), definisce «romantica» l’arte coreica sia della Duncan che della St. Denis, in quanto entrambe adoperavano un gesto rivoluzionario che si era liberato del vocabolario del «classico», limitante nelle sue possibilità di scelta combinatoria, arbitrario e creato artificiosamente. La danza delle due pioniere rifiutava quella che era ritenuta dalle stesse una raccolta di parole senza senso, per arrivare, invece, al senso senza doversi curare delle parole. Questo senso era ricercato nella personale esperienza del singolo danzatore, che proprio perché soggetto umano, con tutta la sua storia intima e la sedimentazione di una determinata cultura, poteva trovare in sé elementi di universalità da tradurre in movimento. Tuttavia, per Martin, lo stretto rapporto fra danza e musica, predicato in particolare dalla Duncan, costituiva un vincolo e una limitazione eccessiva alla libertà di creare una nuova forma, diversa dall’eclettismo delle due americane, caratterizzato da movimenti eterogenei spazianti dalla postura accademica al gesto pantomimico, dalla «posa» mimetica della pittura vascolare greca alla chironomia.

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Come acutamente osservava fin dal 1926 il critico Fritz Böhme65, la nuova danza ha cercato di «rendere in forma simbolica il significato e le ripercussioni della nuova esperienza di vita»66. Specchio di una nuova concezione del mondo, della storia e dell’uomo, la danza libera delle origini non ha creato un nuovo stile, ma ha dato forma artistica alle istanze del tempo, alla società in continua e repentina trasformazione: Il nostro tempo ha ricominciato a vibrare. Conosce di nuovo l’uomo attivo. Ha ritrovato l’entusiasmo per l’attività: spirituale e fisica, da non considerare separate. L’uomo, in quanto corpo, scrutando di nuovo se stesso ha sentito che dal suo intimo, dal movimento di questo apparato in apparenza meccanico, fatto di articolazioni, muscoli, cuore, polmoni, scheletro, scaturiscono esperienze spirituali; ha percepito che c’è vita ed energia che preme verso l’esterno, che chiede di essere libera e di avere forma, anche se nel passato era stata dimenticata e quelle forze erano state volutamente ignorate finché, sotto l’enorme pressione, esse non si scatenarono con violenza sconcertante67.

In una società, che sembra ancora aggrappata ai solidi valori borghesi dell’esteriorità e dell’apparenza, si alzano le «voci» della nascente danza moderna, specchio di un profondo disagio che via via dilaga fino a permeare profondamente le vicende politiche, culturali e artistiche del travagliato Novecento. Il forte richiamo alla riappropriazione del corpo è un monito all’uomo, affinché recuperi il senso della propria umanità: «La vita che sgorga dal fiume originario – afferma ancora Böhme – torna a risuonare nel gesto di chi danza»68. L’esperienza del mondo diviene forma, gioco disciplinato delle membra del corpo nello spazio, azione che dice di sé, ma come ogni produzione simbolica rimanda anche a una dimensione universale creando partecipazione attiva e coinvolgimento. Condividendo il simbolo che la danza rappresenta si condivide altresì il senso profon-

65 F. Böhme, Movimento ed espressione, in Alle origini cit., p. 45 (ed. or., Tanzkunst, C. Dünnhaupt, Dessau 1926). 66 Ibid. 67 Böhme, Movimento cit., pp. 45-46. 68 Ivi, p. 54.

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do della esperienza altrui. Sta in questo il grande valore dell’arte della danza come potente motore sociale: I danzatori dell’epoca nuova hanno il dovere di mettere sotto gli occhi degli uomini questo loro mondo nuovo come simbolo di una nuova essenza, di un cambiamento, e di mostrarlo con tutta chiarezza e grande rigore contro la loro stessa indolenza. Perché si tratta di un cambiamento dell’esperienza del mondo69.

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Ivi, p. 53.

Capitolo secondo

Il corpo in movimento: categorie estetiche e strumenti critici

La danza, tanto nella sua accezione più ampia di esperienza originale e originaria dell’umano, quanto in quella di manifestazione artistica, è definibile come un corpo in movimento ritmico, nello spazio e nel tempo, in situazione di presentazione (o di rappresentazione) di fronte a «un pubblico». La gestualità che identifica quel particolare movimento è «extra-quotidiana», qualitativamente diversa, cioè, da quella che caratterizza il soggetto nella sua vita di ogni giorno. Abbiamo già sottolineato come questo corpo che danza sia, in prima istanza, un corpo sociale, vale a dire lo strumento di comunicazione col quale una determinata cultura presenta la propria ideologia corporea, costituita da un «dover essere» etico ed estetico della persona, nel pubblico e nel privato. Ma è anche il termometro storico del presente, di un particolare saliente epocale del quale è in grado di mostrare le credenze, le speranze, le contraddizioni. La danza è caratterizzata, infatti, da una «doppia relatività»1, perché a vivere l’esperienza dell’incontro fra corporeità in azione e fruitore sono pur sempre due sguardi: quello oggettivo del tempo, del luogo e del genere di 1 «Il corpo presentato dalla danza è infatti anche il corpo di un certo presente, di un qui-e-ora, che conta proprio per la sua capacità di interpretare quel presente, di renderlo concreto ed evidente»; U. Volli, Il corpo della danza. Vent’anni di Oriente Occidente. Oriente Occidente. Incontri internazionali di Rovereto Danza Teatro, Osiride, Rovereto 2001, p. 29.

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una manifestazione coreica; e quello dello spettatore, portatore della cultura cui appartiene. Il corpo non ha, tuttavia, solo una valenza sociale, che è quella che balza all’evidenza quando osserviamo un corpo altrui come se fosse un oggetto fra gli oggetti del mondo, collocato entro l’orizzonte definito dal nostro sguardo. Il corpo ha anche, e soprattutto, una valenza personale, secondo un duplice vissuto: quello del «corpo proprio» (in tedesco Leib), che mi fa dire che «io sono un corpo»; e quello del «corpo organico» (in tedesco Körper), in base al quale posso affermare, con altrettanta evidenza e con la sicurezza che viene dall’esperienza, che «io ho un corpo». Lo strumento tutto teatrale della maschera, intesa sia come oggetto scenico sia come espediente drammaturgico del doppio, aiuta a comprendere meglio lo statuto ambiguo della danza, che coincide, come vedremo, con lo statuto stesso della corporeità. La maschera sociale o personale, che indossiamo nel nostro presentarci quotidiano agli altri condividendo con loro le convenzioni sociali e il dettato antropologico che ci accomuna entro una certa cultura, occultano, ma inevitabilmente mostrano, attraverso di esse e secondo una precisa forma, l’autopercezione originale, quella che ciascuno ha di se stesso. E questo vissuto non è solo quello di un corpo organico astratto – quello, per intenderci, che è considerato l’oggetto dell’intervento terapeutico (e a volte estetico) della medicina, dell’anatomia o della chirurgia – e neppure solo quello di una psiche disincarnata, obiettivo – in questo caso – di una psicologia del profondo che trascura ogni elemento della fisicità2. Il corpo è sempre un corpo vivente e si presenta come l’incarnazione unica e irripetibile di una persona, la sua presenza qui e ora come plesso unitario e inscindibile di elementi visibili e di elementi non visibili, di azioni, di percezioni fisiche impresse in una carne, di passioni e sentimenti. Per capire la danza in tutti i suoi aspetti, dobbiamo dunque partire, ancora una volta, dal corpo, che ne è l’elemento costitutivo: è dall’analisi dello statuto del corpo – condotta con l’ausilio del metodo proprio della filosofia fenomenologica – che sarà possibile ricavare le caratteristiche originali e originarie della danza e scoprire che ogni riferimento alla dimensione della corporeità come orizzonte di 2

U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 19945, pp. 11-16, 40-57, 138-155.

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ogni linguaggio e di ogni espressività ci porta a riconsiderare la questione del nesso che si stabilisce fra corpo e verità3. La danza è una manifestazione, una rivelazione dell’essere umano, che è l’unico «animale» a compiere azioni gratuite e prive di una effettiva utilità pratica4. Si dice, è vero, che anche alcuni animali danzino, ma è pur sempre l’uomo a riconoscere come «danza» certi movimenti. La danza riguarda quindi l’uomo, e l’uomo nella sua totalità, in quell’unità ontologica di corpo e mente, ossia di corpo organico e sistema simbolico – per dirla con il filosofo Merleau-Ponty5 – che solo con una forte astrazione possiamo spezzare. In quanto modalità dell’umana esistenza, la danza è anche modalità del pensiero e della coscienza. Non esiste danza se non in presenza di un corpo pensante, che proprio per la sua struttura si pone nel mondo come una prospettiva, come un punto di vista situato in uno spazio e in un tempo, come «il punto zero» – in termini filosofici – di ogni esperienza conoscitiva. 2.1. Friedrich Nietzsche e il dio che danza Alcune importanti suggestioni circa l’interrogativo filosofico sul corpo dell’uomo che danza ci vengono dall’opera di Friedrich Nietzsche6 (1844-1900). Come è noto, il filosofo tedesco si è da subito posto contro la tradizione dualistica occidentale, facente capo in primo luogo a Platone che separava corpo e mente, riportando prepotentemente l’attenzione sul corpo, luogo dell’evidenza della vita e dell’incontro tra uomo ed Essere:

V. Melchiorre, Corpo e persona, Marietti, Genova 1991, p. 38. Vale la pena ricordare che anche il gioco può essere considerato un’attività della stessa pregnanza simbolica della danza. Cfr. J. Huizinga, Homo ludens, Il Saggiatore, Milano 1964 (ed. or., Homo ludens. Proeve eener bepaling van het spel-element der cultuur, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1938). 5 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, 19803 (ed. or., Phénoménologie de la perception, Librarie Gallimard, Paris 1945). 6 Cfr. B. Elia, Nietzsche e una filosofia della danza come sì alla vita, in In cerca di danza. Riflessioni sulla danza moderna, a cura di C. Muscelli, Costa & Nolan, Genova 1999, pp. 81-96. 3 4

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«Corpo io sono e anima» – così parla il fanciullo. E perché non si dovrebbe parlare come i fanciulli? Ma il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. [...] Ciò che il senso sente e lo spirito conosce, non ha mai dentro di sé la propria fine. Ma il senso e lo spirito vorrebbero convincerti che loro sono la fine di tutte le cose: talmente vanitosi sono essi. [...] Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo7.

La nuova umanità postulata dal filosofo tedesco non riconosce nulla che sia posto al di fuori del corpo, affidando a quest’ultimo il compito di farsi portatore del senso della vita. Recuperando l’Essere in seno al corpo Nietzsche attribuisce all’uomo l’incarnazione del divino. Se dunque non c’è più alcuna distanza fra l’Essere e il corpo, l’uomo che danza è un dio creatore, che attinge direttamente all’Essere (ovvero a sé), al di là di ogni mediazione razionale o concettuale, la disponibilità a vivere nel corpo l’accadere stesso della danza. In tal modo Nietzsche invita a pensare in modo nuovo alla vita e al suo rapporto col pensiero per ricucire lo strappo, originatosi a partire dalla filosofia platonica, fra arte e sapere filosofico. L’arte è così ricondotta all’agire di un dio vivente, incarnato. In questa prospettiva la danza appare come la condizione affinché sia possibile la rivelazione della vita e dell’Essere attraverso la manifestazione del corpo vivente dell’uomo. In quanto movimento essa è epifania del principio vitale nel suo continuo ed eterno autorigenerarsi: un corpo che danza incontra la vita in questo perpetuo movimento e incarnandola la rivela e la fa accadere. 2.2. Paul Valéry: la danza come corpo del senso Fra Ottocento e Novecento con autori come Hofmannsthal, Rilke, Mallarmé, lo stesso Nietzsche e in particolare Paul Valéry8 (18717 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-1885), Adelphi, Milano 1968, 200324, p. 33. 8 Cfr. J. Sasportes, Pensare la danza. Da Mallarmé a Cocteau, Il Mulino, Bologna 1989 (ed. or., Pensar a dança. A reflexão estética da Mallarmé a Cocteau, Imprensa Nacional, Lisboa 1983); G.T. Fechner, S. Mallarmé, P. Valéry e W.F. Otto,

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1945), ci imbattiamo nella figura del filosofo-poeta o filosofo-artista, che al sapere della ragione dominante propone di sostituire il sapere dell’anima, ovvero, in una prospettiva unitaria dell’uomo, il sapere del corpo. Il pensiero prodotto dal corpo non si contrappone, tuttavia, al sapere razionale, in quanto il primo è il presupposto del secondo: il corpo pensante viene prima della ragione, la eccede, alla ricerca di altri modi per dirsi. Al filosofo-poeta la danza appare come la più adeguata modalità di dizione dell’essere, è attestazione dell’assoluto, momento originario del pensiero. Paul Valéry espone questa concezione in alcune opere dedicate espressamente alla danza. In L’anima e la danza del 19219, dialogo socratico nel quale i personaggi del Simposio platonico conversano di fronte alla esibizione della ballerina Athiktè, l’autore va alla ricerca del proprium della danza, che viene individuato in una particolare esperienza pre-razionale del corpo, dove si compongono gli opposti. Chi danza viene a coincidere con la danza tout court, senza potersi distinguere da essa, proprio nel momento in cui vive il sentimento della presenza dell’assoluto, un senso dell’essere totalmente gratuito e necessario. Nell’esperienza del danzare, la dimensione fisica, quella psichica e quella spirituale sono solo nomi di un’unica realtà: il corpo che si manifesta nella danza come simbolo, come ciò che – nel senso etimologico del syn-ballein – tiene insieme, rende coese nella diversità tutte le componenti della persona. Così si esprime Valéry al proposito: Un corpo, con la sua semplice forza e con un suo atto, è abbastanza potente per alterare la natura delle cose, più profondo di quanto sia mai toccato allo spirito nelle sue speculazioni e nei suoi sogni10.

Filosofia della danza, a cura di B. Elia, Il Melangolo, Genova 1992; C. Sinibaldi, Il corpo spirituale. Sulle tracce della danza sacra contemporanea, in «Teatro e storia», XII, 1997, 19, pp. 131-159; Id., Paul Valéry e il corpo della danza, in In cerca di danza cit., pp. 157-177. 9 Cfr. Sasportes, Pensare la danza cit., pp. 61-77. 10 P. Valéry, L’anima e la danza, in Id., Tre dialoghi, Einaudi, Torino 1990, p. 35 (ed. or., L’âme et la danse, in Id., Oeuvres, a cura di J. Hytier, vol. II, Gallimard, Paris 1960).

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La danza, evenienza della metamorfosi del corpo, senza scopo ma altamente significativa, è, per Valéry, estasi, intesa come uno spostamento nel presente e non come un’uscita da esso; spostamento da un tempo quotidiano a un altro tempo capace di rendere presente l’eterno. Valéry riprende il tema della danza e la domanda sulla sua essenza in una conferenza del 1936, pubblicata col titolo di Filosofia della danza11. Usando un metodo che coniuga equamente intelligenza e sensibilità, il filosofo-poeta afferma che per comprendere la danza è necessario servirsi di entrambe queste facoltà, che tale arte stimola sia in chi la esegue che in chi la osserva da spettatore. La danza è poesia in azione, evento nel quale chi danza crea un mondo che non comporta alcun «al di fuori»12, è una realtà seria, come dimostra il senso di mistero che sempre suscita il corpo nella sua «organizzazione, le sue risorse, i suoi limiti, le combinazioni di energie e sensibilità che contiene»13. È un’arte fondamentale che dà forma a un nuovo spazio-tempo, diverso da quello della quotidianità, è una modalità della vita interiore: È una poesia generale dell’azione degli esseri viventi: isola e sviluppa i caratteri di questa azione, li distacca, li dispiega e fa del corpo che in quel momento possiede, un oggetto atto alle trasformazioni, alla successione degli aspetti, alla ricerca dei limiti delle potenze istantanee dell’essere14.

Eterno perpetuarsi del movimento, la danza è l’unico modo di incarnarsi del senso dell’essere. In quanto arte mai compiuta e sempre viva, è assoluta, archetipo di tutte le modalità espressive dell’uomo, condizione di possibilità di ogni altra arte, mito vivente dell’essenza dell’uomo e delle sue manifestazioni. Chi danza incarna il senso dell’essere e ne rivela e ricompone tutte le antinomie originarie.

11 P. Valéry, Filosofia della danza, in Fechner et al., Filosofia della danza cit., pp. 67-93 (ed. or., Philosophie de la danse, in Id., Oeuvres, vol. II, cit.). 12 In questo Valéry sembra contraddire quanto affermato nel dialogo socratico L’anima e la danza, dove sosteneva che la danza era la produzione di un’estasi temporale. 13 Valéry, Filosofia della danza cit., p. 68. 14 Ivi, p. 91.

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Si comprende meglio la dinamica del pensiero-sentimento di Valéry a partire dalla sua concezione del corpo, espressa in uno scritto posteriore ai due citati precedentemente, ma fondativo rispetto alle considerazioni là espresse. Si tratta di Réflexions simples sur le corps15 del 1943, in cui il filosofo distingue fra funzione fisica dell’organismo, sempre relazionata a scopi concreti e necessaria alla sopravvivenza dell’uomo, e funzione corporea (o quarto corpo), condizione di possibilità dell’esperienza artistica e della danza come forma compiuta del divenire corpo del senso dell’essere16: Per ognuno di noi esiste un Quarto Corpo, che posso indifferentemente chiamare il Corpo Reale oppure il Corpo Immaginario. [...] la conoscenza tramite lo spirito è una produzione di ciò che questo Quarto Corpo non è. Tutto ciò che è, per noi, maschera necessariamente e irrevocabilmente qualcosa che può essere17.

Chi danza, per Valéry, incarna l’essenza stessa del pensiero, liberato da ogni vincolo di tipo linguistico, dialettico o concettuale. La danza è la forma che assume l’azione pensante per essere, è il pensare nell’atto stesso del suo prodursi. Nel suo svilupparsi come azione inutile, essa mette al mondo il proprio spazio-tempo e dando scacco al tempo, che rinchiude la persona nella finitezza della sua fisicità, apre un varco all’eterno e mostra la tensione dell’uomo all’infinito. 2.3. Corpo e conoscenza: la prospettiva del pensiero fenomenologico Come abbiamo visto, alle soglie del XX secolo prende l’avvio una riflessione sulla danza come materia prima per un ripensamento radicale della struttura ontologica dell’uomo18, proprio nel momento in cui, a partire da Nietzsche, la filosofia, messa in crisi l’identificazio-

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P. Valéry, Réflexions simples sur le corps, in Id., Oeuvres, vol. II, cit., pp. 923-

931. Cfr. Sinibaldi, Paul Valéry cit., p. 169. Valéry, Réflexions cit., p. 930, tradotto in Sinibaldi, Paul Valéry cit., p. 173. 18 Cfr. B. Elia, Danza e filosofia, in Fechner et al., Filosofia della danza cit., pp. 22-27. 16 17

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ne dell’Assoluto con Dio, va alla ricerca di un nuovo centro dove poter collocare il senso dell’essere e la sua ritrovata identità19. La generazione di artisti-pensatori a cavallo fra i due secoli colloca direzione e significato dell’essere nell’uomo stesso, considerato «unico titolare indiscusso di un’urgenza di natura a dir poco divina»20. L’uomo viene così contraddittoriamente a farsi carico di se stesso e del suo desiderio di eternità. L’essere umano si confronta in modo nuovo col proprio esserci, operazione che prevede una totale messa in discussione degli strumenti tradizionali del dire, ancorati all’ipotesi di un Fondamento eterno e immutabile. La discrepanza fra tali inadeguati strumenti e la stessa dicibilità minerebbe alle radici la possibilità di cogliere la pienezza dell’essere, mentre la danza, libero linguaggio originario, sarebbe in grado, per sua natura, di dire dell’essere e della sua pienezza21. Ben sintetizza questo pensiero il filosofo Walter Friedrich Otto, commentando, in una conferenza del 1949, la danza della scuola di Elisabeth Duncan: La danza è una forma originaria dell’esserci umano [...], nel suo arcaico significato cultuale, è la verità e al tempo stesso la giustificazione dell’essere stesso del mondo, la più inconfutabile ed eterna di tutte le teodicee. Non insegna nulla, non discute nulla – incede maestosamente, e con questo incedere maestoso porta alla luce il fondamento di ogni cosa: non volontà e potenza, non angoscia e pena, non tutto ciò che vuole imporsi all’esistenza, ma ciò che è eternamente signore di sé e divino. La danza è la verità di ciò che è, ma nel modo più immediato, la verità di ciò che vive22.

Questa concezione, che pure riporta la questione della danza sull’uomo e sulla sua corporeità, ci appare incompleta: la danza non è colta nella sua valenza originaria e secondo tutti i fattori che la co-

Ivi, pp. 9-10. Ivi, p. 11. 21 Ivi, pp. 11-13. 22 W.F. Otto, Per la danza della scuola di Elisabeth Duncan, in Fechner et al., Filosofia della danza cit., p. 96 (ed. or., Zum Tanz der Elisabeth Duncan Schule, in Id., Das Wort der Antike, a cura di K. von Fritz ed E. Schmalzriedt, 2 voll., Klett, Stuttgart 1962). 19 20

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stituiscono come modalità dell’essere. Con l’aiuto della prospettiva fenomenologica, che è venuta maturando nel corso del Novecento, cercheremo ora di capire perché. L’orizzonte coscienziale è la condizione dell’apparire dell’essere, dell’apparire quindi di ogni cosa visibile nel mondo e di ogni realtà non visibile. Una realtà in sé, totalmente irrelata alla coscienza, non ha senso, è impensabile. Qualunque cosa venga affermata è tale in quanto «è» per la coscienza23, la cui condizione è quella di essere in prospettiva, in situazione; di essere, cioè, posta come un punto di vista sulla realtà. L’asse corporeo dell’uomo è dunque un «geometrale» conoscitivo, è ciò attorno al quale si organizza un mondo secondo un orientamento, rendendo cariche di senso, unicamente in relazione a sé, le espressioni «sopra» e «sotto», «accanto», «lontano», «davanti» e «dietro»24. Tuttavia la coscienza può andare ben oltre la sua situazione e astrarre fino all’universale, anche se questa astrazione non può darsi come radicale: da tutto la coscienza può astrarre fuorché dal suo presupposto esistenziale, quel corpo proteso alla conoscenza, quella «falda unitaria e coerente» che il filosofo Edmund Husserl definisce «il correlato trascendentale dell’esperienza»25. Ogni persona, cioè, sente e vive il corpo come il fondamento dei propri vissuti. Il corpo di cui si parla, pertanto, non è un corpo organico, oggettivo, un corpo fra i corpi (Körper), ma il mio corpo, il corpo vissuto (Leib), del quale è importante chiarire la dinamica26 per rispondere «al problema del costituirsi a senso dello sguardo, del pianto, del sorriso, del gesto, del mimo, della danza, insomma del 23

Cfr. R. Lanfredini, Husserl. La teoria dell’intenzionalità, Laterza, Roma-Bari

1994. 24 Questo non significa che il mondo delle cose sia costituito dalla relazione con il corpo proprio: l’io è consapevole che il mondo esiste al di là della percezione corporea, presente o passata, tuttavia, scrive il filosofo Virgilio Melchiorre, «ciò non toglie che quanto si dà sia colto solo [...] nella disposizione conoscitiva del mio asse corporeo», V. Melchiorre, Corpo e persona, in Id., Corpo e persona, Marietti, Genova 1991, p. 65. 25 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1960, pp. 143 e sgg. (ed. or., Cartesianische Meditationen, Nijhoff, Den Haag 1950, par. 44); cfr. V. Melchiorre, La corporeità come simbolo, in Id., Corpo e persona cit., p. 40. 26 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 137 (ed. or., Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Nijhoff, Den Haag 1959, par. 28).

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corpo come originaria manifestazione o come espressione di un senso d’essere»27. A motivo della sua ambiguità costitutiva, il mio corpo non può mai essere oggettivato nella sua totalità, in quanto, nell’operazione di orientarsi verso se stesso, esso dovrà comunque fare riferimento a un punto di vista, in ultima analisi inoggettivabile. Nell’esempio di una mano che tocca l’altra, suggerito dalla tradizione fenomenologica28, accade che le due mani possano essere alternativamente vissute come quella sentita e quella senziente, in virtù di una inversione «intenzionale» della coscienza, rivelatrice di una stessa identità soggettiva, di un unico io che fa esperienza ora dell’una, ora dell’altra cosa. Non posso mai dire, in modo assoluto, né che io sono il mio corpo, né che ho un corpo nel senso della mera oggettualità: qualcosa di opaco, che sfugge al mio sguardo indagatore, rende questo corpo inesplorabile, mettendo in evidenza la sua funzione di sorgente di una intenzionalità spirituale, che di volta in volta plasma lo sguardo con cui incontriamo gli altri sguardi, la parola con cui comunichiamo, il gesto con cui ci esprimiamo, la danza con la quale ci mostriamo viventi. Nella dinamica della conoscenza, quando, ad esempio, osserviamo un oggetto del mondo, il lato percepito dal nostro punto di visione attesta una presenza, ma nel contempo adombra il nascondimento di altri lati, che possono essere raggiunti dallo sguardo solo mutando la prospettiva di partenza. Nel «trasgredire» via via il nostro punto di vista siamo guidati dalla condizione logica della visione, che fa sì che ciò che viene percepito sia assunto sempre come una parte di una totalità; e una parte è tale solo in riferimento al tutto cui inerisce. A realizzare la successiva integrazione fra le parti dell’oggetto è la facoltà dell’immaginario, che ci permette di fabbricarci, di volta in volta, un’immagine di ciò che abbiamo percepito: si parla, a questo proposito, di rappresentazione. Lo statuto della nostra corporeità, dunque, comporta sempre una prospettiva, che è già un affacciarsi, un protendersi ogni volta verso una nuova direzione, nelMelchiorre, La corporeità cit., p. 40. Il corsivo è mio. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 349 e sgg. (ed. or., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1952); Merleau-Ponty, Fenomenologia cit., p. 143. 27 28

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l’incessante tentativo di comporre a unità i sensi parziali via via acquisiti. In altre parole, il cammino della conoscenza implica un nesso col negativo, un’apertura ad altre prospettive, a lati che rimandano costantemente ad altri lati, nella «trasgressione» prospettica che tutto cerca di connettere. Ma il negativo non può sussistere in sé, perché equivarrebbe ad assumere contraddittoriamente l’incompleto come definitivo e il parziale come assoluto. Poiché l’uomo non è prospettiva assoluta, come vorrebbe invece Nietzsche, il senso gli si impone con evidenza come esigenza di negazione di negazione, che equivale all’asserto di una purezza dell’Essere che tutto connette e attraversa. La prospettiva che orienta lo sguardo di fronte all’oggetto nell’orizzonte conoscitivo è, dunque, continuamente trascesa in una tensione all’universale, raggiunto soltanto, di volta in volta, nel concreto; e ciò mostra come la persona sia sempre costituita dal nesso prospettiva-assoluto29. In questo modo la corporeità dell’uomo è la condizione ontica del manifestarsi del senso, ma non è principio del senso, benché del senso sia partecipe sin dall’origine e del senso rappresenti la rivelazione, la «parola», «il gesto» che lo comunica. L’Essere del Fondamento è un’evidenza originaria: lo si può solo riconoscere e non dimostrare. L’Infinito costituisce il finito, ma non si lascia nominare se non negativamente, e ciò riporta all’ambiguità costitutiva della persona, al suo essere prospettiva corporea, sempre in riferimento all’Essere, non come un’alterità assoluta, ma come una «trascendenza immanente» e una «immanente trascendenza»30. Ne consegue che ogni prospettiva corporea è un punto di vista irripetibile nel suo essere determinato, ma nel contempo è un punto di vista sull’Intero, un concreto apparire del senso31. La prospettiva non può appropriarsi dell’Assoluto proprio in virtù del suo limite di asse prospettico. Sulla via della conoscenza, tutto può essere posto a distanza da me, tranne che il mio corpo, che, se è mezzo indispensabile nella mia avventura percettiva, sfugge, almeno in parte, alla percezione di se stesso. Il punto zero della mia Melchiorre, Corpo e persona cit., p. 73. V. Melchiorre, Introduzione, in Id., Corpo e persona cit., p. XII. 31 Ivi, p. XIII. 29 30

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prospettiva è una certezza che non può mai assicurarsi nella propria verità. Neppure l’oggetto della percezione ci rimanda una conferma della sua verità, tanto che potremmo pensare che sia il prodotto di uno stato di allucinazione: a convalidare il processo conoscitivo, e quindi a permetterci di arrivare alla verità, è solo l’esperienza dell’incontro con un altro sguardo. Se in due osserviamo un oggetto, infatti, giungiamo a un consenso analogico sulla cosa. Nel nostro sguardo, che riconosce nell’altro una fonte di senso, a sua volta riconoscente la nostra soggettività, l’oggetto viene portato a verità. In questo processo, reciprocamente, la verità dell’oggetto attesta la verità dei singoli punti di vista sull’oggetto stesso. Quando, dunque, nell’orizzonte del nostro sguardo cade un altro sguardo, non siamo più solamente entro la dinamica della conoscenza, siamo entrati in una nuova fase dell’esperienza che è quella della relazione interpersonale. Ancora una volta il centro della nostra riflessione è il corpo: il Leib dell’altro mi è dato nella coevidenza originaria del mio e del suo corpo. Tuttavia questa centralità della prospettiva di ognuno è attribuita di volta in volta a una parte diversa del corpo: si tratta di una centralità intenzionale che non si dà mai in termini puramente percettivi, il suo spazio e il suo tempo riguardano sempre un’esperienza. Per tale motivo nella relazione interpersonale, se è certo possibile cogliere per indizi l’identità dell’altro – i suoi desideri e l’intenzionalità che attraversa i suoi gesti si manifestano, infatti, come «lo stile» e la personalità dell’altro –, la sua intimità rimane per noi un mistero invalicabile. L’ambiguità costitutiva dell’essere un corpo e dell’avere un corpo, se rappresenta la condizione di possibilità della relazione interpersonale, è anche alla base della finzione e della rappresentazione del sé. Ciò che presentiamo di noi stessi può disporsi, di volta in volta, più sul versante dell’avere e dell’apparire che dell’essere, mentre il mio centro di senso può ritirarsi da un’altra parte, nascondersi: come l’altro vive se stesso non potrà mai essere raggiunto da me, se non nella distanza della trasposizione analogica della mia stessa esperienza. Nel rapporto di amore o di amicizia sperimentiamo, invece, con maggior evidenza, come lo sguardo dell’altro possa restituirci la verità di noi stessi, riconoscendoci come soggetti, entrambi nell’Essere. Tale esperienza di «sguardo riconoscente» non sarebbe tuttavia possibile senza un riferimento a un’alterità, all’Essere che tutto fa 43

esistere. L’incontro fra due soggettività è dunque, secondo questa chiave di lettura, il manifestarsi di una Verità, che mentre le accomuna le trascende. L’integrare la propria prospettiva con quella degli altri, inoltre, è il tentativo di arrivare a una conoscenza totale: finché io sono una prospettiva unica, per quanto completa, sono solo; lo sguardo dell’altro, che è riferimento all’unica Origine, mi permette, invece, di giungere a verità. I tre piani dei referti fenomenologici: quello della soggettività che si manifesta immanente a ogni vissuto corporeo; quello dell’organicità di una corporeità multiforme come limite di un io debordante i molti modi del corpo stesso; e quello della tematizzazione scientifica del corpo come mera estensione soggetta ai parametri della misurabilità e della manipolabilità non appartengono tutti allo stesso ordine; solo il primo riguarda l’ontologia della persona, mentre gli altri si producono come possibilità esistenziali, come scelte dell’etica. La scissione entro la persona è dunque possibile, ma non come condizione originaria, bensì come una contraddizione: quando il corpo è considerato, o vissuto, in termini assolutamente oggettuali, si entra nel puro non senso. 2.4. La danza come arte del corpo simbolico Le conclusioni cui giunge il pensiero fenomenologico, in virtù della radicalità della ricognizione sul corpo, ci portano a considerare l’esperienza artistica come il tentativo di parlare dell’Essere, come insistente domanda sull’Essere. La danza, in particolare, è portatrice di uno sguardo che cerca di trascendere all’infinito tutte le prospettive. Per questo essa è legata al rito ed è considerata, presso le culture arcaiche, strumento privilegiato per la comunicazione con il divino. L’arte, abbiamo detto, tenta di parlare dell’Essere, utilizzando il linguaggio dell’analogia, della metafora, del simbolo32. E il simbolo è l’oggetto di una comunicazione fortemente motivata, che dice di sé e nel contempo dice anche di altro. L’arte nasce quando l’immagi-

32 Cfr. V. Melchiorre, L’immaginazione simbolica. Saggio di antropologia filosofica, Il Mulino, Bologna 1972; Id., Eticità dell’arte e senso dell’Essere, Vita e Pensiero, Milano 1986.

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nario, ricorrendo all’universo simbolico per comunicare fuori da sé un’immagine mimetica di quella interiore, investe di senso un anàlogon percettivo, una mediazione materiale, come un suono, un colore, una forma. Nel caso particolare della danza l’anàlogon è il corpo stesso, che permette una comunicazione immediata, perché anteriore al linguaggio, originaria rispetto a ogni altra formalizzazione. Veder danzare qualcuno significa porsi in relazione con la sua prospettiva di senso, cioè con la sua esperienza, ed è un incontro che coinvolge tutta la persona dello spettatore. La danza è un’arte bidimensionale, che a differenza delle altre si muove contemporaneamente nello spazio e nel tempo. È un’emanazione ritmica del corpo, slegata completamente da fini utilitaristici, ma fortemente finalizzata alla comunicazione estetica33. La sua fondamentale caratteristica è quella di essere effimera e di non lasciare, pertanto, alcun elemento testuale persistente. È inoltre sostanzialmente visiva e cinetica: crea forme, disegna figure nello spazio coglibili solo con uno sguardo d’insieme, e risignifica ogni volta il luogo del suo accadere. Per una comprensione profonda della danza è necessario «cercare di sentire la danza»34. A partire da questa ipotesi risulta chiaro che non si potrà sapere granché dell’evento fino a quando non si sarà fatta esperienza dell’evento stesso, col sostegno di una filosofia intesa come pensiero preparatorio, che spinge a collocarsi in modo differente all’interno delle pratiche, non più partendo dall’oggetto, ma appunto dall’evento, per arrivare a vedere e a sentire diversamente. Ogni tipo di performance culturale [...] è spiegazione ed esplicazione della vita stessa [...]. Mediante il processo stesso della performance ciò che in condizioni normali è sigillato ermeticamente, inaccessibile all’osservazione e al ragionamento quotidiani, sepolto nelle profondità della vita socioculturale, è tratto alla luce [...]. Un’esperienza vissuta è già in se stessa un processo che preme fuori verso un’espressione che la completi35. 33 C. Sachs, Storia della danza, Il Saggiatore, Milano 19802, pp. 22-23 (ed. or., Eine Weltgeschischte des Tanzes, Dietrich Reimer-Ernst Vohsen A.G., Berlin 1933). 34 F. Andreella, Il corpo sospeso. La danza tra codici e simboli all’inizio dell’età moderna, Il Cardo, Venezia 1994, p. 11. 35 V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, p. 36 (ed. or., From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, Performing Art Journal Publications, New York 1982).

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Comincia allora a emergere un’identità meno sfumata del fenomeno coreico, che può essere accomunato al mito, al sogno, al riso, al gioco. Si tratta di quegli scarti di senso del pensiero tradizionale che presentano una dimensione polisemica e sono gestiti da un corpo ineliminabile che è apertura al mondo, atteggiamento e disposizione dell’essere. La danza del Novecento, in particolare, si è rivelata un potente medium utilizzabile dall’artista per mettere in coreografia una visione del mondo, «opera di un corpo pensante, memore, desiderante, combattivo, opera autonoma da sudditanza ad altre discipline, ma sensibile e contigua a tutte»36. La danza è essenzialmente arte del corpo e la creazione coreica coincide con la dinamica corporea del suo stesso creatore. Un corpo da intendersi – come già abbiamo visto – nella duplice valenza di Leib (corporeità vissuta e in se stessa espressiva) e Körper (il corpo-oggetto, corpo fra i corpi, cosa fra le cose). In questa sua ambiguità costitutiva il corpo si rivela immediatamente come il luogo dell’intenzionalità coscienziale e nel contempo della nostra alterità ontologica dall’Essere. Ma gesto e sguardo, nel loro implicare un centro intenzionale, rimandano a un’unità di senso che in essi non è ultimamente percepibile e pienamente coglibile, se non in un rinvio a una fungenza interiore, necessaria ma nel contempo non tangibile, almeno sul piano della visione corporea37. Nella danza si percepisce la forte valenza comunicativa del corpo, segno pregnante del nostro essere al mondo, strumento della rivelazione del nostro esserci. Ogni espressione, ogni gesto, anche il solo porsi della presenza corporea rivelano un’identità del soggetto, un movimento dello spirito, che sfugge al non senso della contiguità assurda dei giochi del corpo, in virtù di una continua trasgressione prospettica, di un incessante rinvio da un movimento all’altro, anche senza il supporto della parola che nell’unità col corpo porta a presenza l’unità intenzionale dei sensi38. È ciò che della danza fa un racconto, adeguazione di un senso mai assoluta nella sua determinatez36 E. Vaccarino, Altre scene, altre danze. Vent’anni di balletto contemporaneo, Einaudi, Torino 1991, pp. 6-8. 37 Cfr. V. Melchiorre, Parola e icona. Nota introduttiva, in Sipario! 2. Sinergie videoteatrali e rifondazione drammaturgica, a cura di A. Cascetta, Rai/VQPT-Nuova Eri, Roma 1991, p. 10. 38 Ibid.

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za, ma che «si dà soltanto come ricorrenza di un rinvio e, in quanto tale, vale soltanto come simbolo di una comune radice di senso»39. Solo nell’unità ontologica del corpo la persona si ricostituisce. Un tale corpo può parlare, nella danza, dell’Essere e della sua ulteriorità, è testimonianza che istituisce con gli altri corpi uno scambio simbolico rendendo fra loro com-patibili le irripetibili intuizioni coscienziali, che altro non sono che gli stati affettivi vissuti e sentiti nel corpo, dal corpo e col corpo40. La danza sembra poter realizzare il sogno – che abbiamo già visto essere stata la più grande aspirazione di Paul Valéry – dell’affermazione della verità attraverso una conoscenza totalmente corporea, senza mediazione linguistica, pre-espressione spontanea e immediata di una consapevolezza. Il corpo che danza diventa un metacorpo, che mostra, nel gesto coreico, il divenire dello stesso processo espressivo, ma non è ancora espressione, è un darsi alla comunicazione comunicante, che rimane sempre al di qua del comunicato; è l’inizio della significazione, anticipazione in termini originari dell’indicazione e dell’imitazione41, della significazione e della nominazione42. Chi danza mostra un processo di significazione in assenza di referenti e, in virtù della sua ambiguità costitutiva, è parola pura, parola che origina il senso di ogni altro linguaggio, è un pensare/essere al mondo che rivela l’Essere. Il corpo del danzatore è trasparente, un involucro di cristallo attraverso il quale e nel quale poter assistere al processo in atto della donazione di senso al mondo, del porsi come centro intenzionale, nel suo ambivalente dibattersi e oscillare fra soggetto e oggetto. Ivi, p. 11. Michel Henry, analizzando con metodo fenomenologico «l’esperienza dell’altro» a partire dalla quinta meditazione cartesiana di Husserl, afferma che «le leggi del pathos di queste soggettività nella loro co-appartenenza interna al Fondo della vita [...] sono le leggi del desiderio e del compimento, del soffrire e del gioire, del sentimento e del risentimento, dell’amore e dell’odio»; M. Henry, Fenomenologia materiale, a cura di P. D’Oriano, Guerini e Associati, Milano 2001 (ed. or., Phénoménologie matérielle, Presses Universitaires de France, Paris 1990), p. 185. 41 Cfr. C. Muscelli, La danza tra i problemi filosofici, in In cerca di danza cit., pp. 5-12. 42 Cfr. S. Lisi, Il linguaggio della danza, la danza del linguaggio, in In cerca di danza cit., pp. 121-133. 39 40

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2.5. Idee per una semiologia della danza* È un dato ormai culturalmente e scientificamente assodato che in ogni caso il corpo è uno strumento di comunicazione che produce senso. Nella danza, dunque, ci viene dato del senso, sul quale ci si pone inevitabilmente l’interrogativo circa la sua natura: che cosa è, insomma, questo senso che promana dalla danza? È possibile rispondere alla domanda prendendo in considerazione i due assi tipologici lungo i quali, a nostro parere, si dispongono tutte le fenomenologie orchestiche. I cardini del manifestarsi delle molteplici evenienze coreiche sono fondamentalmente due: quello della rappresentazione del corpo, quando cioè si ha una mimesi corporea di una storia nella forma della narrazione; e quello della presentazione del corpo, quando si ha, invece, quella che viene generalmente definita danza pura: esperienza, quest’ultima, di intima seduzione, di grazia e bellezza che originano dal movimento di un corpo che asseconda le regole di una grammatica invisibile ma reale come la forma che produce. Nell’un caso come nell’altro – sebbene secondo modalità, risultati ed effetti assai diversi – non si può non parlare di un qualche processo di narrazione in atto. Nel primo, quello della rappresentazione, si ha una intenzionalità narrativa esplicita, che invita il pubblico a un lavoro di interpretazione, simmetrico a quello di produzione di senso del danzatore, anche senza il supporto di un metalinguaggio come quello di una lingua naturale o di un metatesto esplicativo (un titolo, il libretto con la trama, un programma di sala, ecc.). Nel secondo caso la ricostruzione di un percorso di senso si ha come esito di una danza priva di evidenti rimandi e referenze, ma il cui dispiegarsi come progressivo adeguamento delle regole formali, imposte dalla stessa composizione, si avvicina molto alla sanzione narrativa tipica del processo semiotico di narrativizzazione43. Abbiamo visto come la presentazione di un corpo implichi sempre un riferimento a una vita concreta, quella del performer, che

* Parte delle considerazioni presenti in questo paragrafo sono state da me anticipate nel saggio Per una drammaturgia coreutica, in Drammaturgia della danza. Percorsi coreografici del secondo Novecento, a cura di A. Pontremoli, Euresis, Milano 1997, pp. 15-35. 43 Volli, Il corpo della danza cit., p. 24.

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agendo di fronte agli spettatori cerca a sua volta di influenzarne l’esperienza44. Ogni tentativo di astrazione in senso assoluto si scontra con quel residuo ineliminabile che è il corpo – la cui fenomenologia abbiamo cercato di illustrare nelle pagine precedenti – e quindi col fatto che danzando il corpo genera, secondo la semiologia, una materia dell’espressione percepita dagli spettatori sempre e comunque come l’esperienza attiva di qualcuno e non come un mero oggetto passivo di osservazione. Se nella quotidianità della comunicazione a ogni azione o comportamento umano (ma l’uomo è portato ad attribuire intenzionalità narrativa persino agli animali e agli agenti naturali) è assegnato sempre un carattere narrativo, che è la condizione della sua intelligibilità, a maggior ragione nella danza, anche nel caso del formalismo più estremo, i movimenti vengono investiti di senso proprio a partire da quella intenzionalità, secondo la terminologia di Husserl, o fungenza interiore, secondo la definizione della fenomenologia filosofica più recente, di cui ogni corporeità è rivelazione45. Si tratta certamente di un’attribuzione al soggetto danzante di una consapevolezza, ma anche di una tensione, di un riferimento al mondo: quello condiviso dell’orizzonte della percezione concreta o quello invisibile, ma altrettanto reale, della articolazione della rappresentazione. Il corpo che danza, per lo spettatore che l’osserva, è una macchina potente di produzione di simboli e di narrazione, prima ancora che un organismo meccanico e biologico. Ogni azione, ogni gesto, ogni sequenza di movimenti viene spontaneamente letta dallo spettatore come un programma narrativo, nozione introdotta dalla semantica generativa di Greimas46. Secondo tali indagini il comunicarsi del senso avviene entro un continuum di organizzazione dei contenuti, che va dalla modalità discorsiva (il caso estremo di una formula matematica) alla modalità narrativa (il racconto, il romanzo, la cronaca, ecc.). Fra discorso e narrazione non esiste, tuttavia,

Ivi, p. 6. Cfr. supra, 2.4. 46 A.J. Greimas, Semantica strutturale, Rizzoli, Milano 1968 (ed. or., Sémantique structurale, Larousse, Paris 1966), e cfr. Id., Del senso, Bompiani, Milano 1974 (ed. or., Du sens, Éditions du Seuil, Paris 1970). La semiotica generativa è ripresa proprio in relazione alla danza da U. Volli, Da Aristotele a Pina Bausch, in Id., Per il politeismo. Esercizi di pluralità dei linguaggi, Feltrinelli, Milano 1992, p. 128. 44 45

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un’opposizione reale, perché i due modi si mescolano in proporzioni diverse entro questo continuum, e sono il risultato della combinazione della dimensione fattuale, vale a dire l’evento concreto oggetto della comunicazione, e della dimensione discorsiva, la modalità e il registro con cui esso viene comunicato. In ogni comunicazione viene dato del senso, che secondo la teoria proposta da Greimas viene prodotto attraverso un percorso generativo. All’origine della produzione di senso si suppone la presenza di una struttura profonda di opposizioni semantiche fondamentali, chiamate ruoli attanziali, responsabili di ogni attualizzazione di linguaggio – come ad esempio accade anche nel caso delle lingue naturali, che basano il loro sistema di significazione sull’opposizione di fonemi, le unità minime significanti. Il nucleo originario di opposizioni semantiche proposto da Greimas è quello della coppia soggetto/oggetto, il cui rapporto è considerato alla base di ogni forma e grado di narrazione. Quest’ultima si verifica nel momento in cui tali opposizioni, a un certo punto del percorso, subiscono il processo di narrativizzazione, quando cioè agenti individuali o personaggi si trovano a ricoprire uno o più ruoli attanziali. L’attante che diviene attore è dunque responsabile della generazione del personaggio al livello della superficie narrativa47. Ancora una volta la dialettica fra soggetto e oggetto, che abbiamo visto essere anzitutto legata all’ontologia della corporeità, diviene per la produzione di senso in ambito coreico un interessante elemento per una più chiara comprensione del fenomeno stesso della danza, sempre in qualche modo concepibile entro un modello drammatico. Quest’ultimo è indispensabile per la nostra interpretazione del mondo, in cui siamo soliti dare senso alle nostre e alle altrui vite, nonché alle azioni di cui le vite sono sostanziate. Il mondo drammatico, dove gli atti sono concepiti in una sorta di purezza intenzionale e teleologica, è inscritto nella nostra struttura corporea, ed è evidente anche in tutti i sistemi modellizzanti: sia in quelli primari, come la lingua, basati a ogni livello sulla dialettica della persona (io/tu; soggetto/oggetto)48; sia in quelli secondari, come le molteplici attività culturali dell’uomo. 47 Cfr. K. Elam, Semiotica del teatro, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 130-138 (ed. or., The Semiotics of Theatre and Drama, Methuen, London and New York 1980). 48 Ivi, p. 138.

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Il corpo, insomma, matrice di ogni opposizione significante, non può non comunicare, e lo fa anche al di là di una chiara e distinta consapevolezza: lo abbiamo visto nell’Introduzione, quando abbiamo accennato al problema della sincronizzazione49 dei movimenti che due o più interlocutori mettono in atto, anche inconsciamente, nel corso della loro inter-relazione. La comunicazione è dunque una sorta di danza collettiva, che sempre i corpi eseguono quando sono in presenza uno dell’altro50. Tale meccanismo della sincronizzazione ha valore universale, appartiene alla «natura» dell’uomo a tutte le latitudini, ma le modalità con le quali si manifesta dipendono dalla cultura e dal contesto sociale delle persone coinvolte. In questo modo vengono alla luce, attraverso l’amplificazione cha la danza opera di questo comportamento sociale, gli elementi di contenuto della nostra corporeità con tutto il bagaglio del vissuto personale e il portato dell’appartenenza socio-culturale. La comunicazione di una determinata ideologia del corpo si realizza pertanto a diversi livelli. Anzitutto può avvenire in termini esplicitamente narrativi, in questo caso la danza sfrutta le potenzialità della qualità mimetica che il gesto e il movimento posseggono. Il meccanismo della mimesi agisce, nella nostra cultura, all’interno di tutte le forme che la rappresentazione può assumere: il mimo, la danza, il teatro, il melodramma, ecc. Il livello immediato di questo processo di significazione è quello degli intrinsecally coded acts, teorizzati da Gombrich51 e ripresi da Eco52. Si tratta di tutte quelle azioni fisiche, strettamente legate alla dimensione materiale dell’esistenza corporea (mangiare, bere, amare, combattere, ecc.), che possono essere ripetute senza l’oggetto cui si riferiscono, possono essere imitaCfr. supra, Introduzione. Questa sincronizzazione appare più evidente nello sguardo come sostegno del discorso proprio e dell’interlocutore. Hanno studiato il fenomeno M. Argyle, Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna 1978, pp. 174-183 (ed. or., Bodily Communication, Methuen, London 1975) e D. Morris, L’uomo e i suoi gesti, Mondadori, Milano 1982, pp. 71-76 (ed. or., Manwatching. A Field Guide to Human Behaviour, Cape, London 1977); cfr. L. Diodato, Semiotica del corpo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 14-18. 51 E. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa, Einaudi, Torino 1972 (ed. or., Meditations on a Hobby Horse, Phaidon Press, London 1951). 52 U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, pp. 274-279, 294-297; cfr. Volli, Il corpo della danza cit., p. 19. 49 50

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te da un altro corpo e risultano immediatamente comprensibili, entro il medesimo sistema culturale, anche senza la mediazione di un codice. Non è un caso che la tradizione teatrale-coreica ci abbia consegnato, fra le diverse tipologie di gesto, in primo luogo proprio quello mimico, inteso appunto come un movimento mimetico di una determinata azione. La mimesi iconica avviene in ragione di una certa comunanza di tratti, che tuttavia non può mai essere sovrapposizione perfetta fra gesto teatrale e corrispettivo referente quotidiano, sociale, funzionale, nevrotico, ecc. Componente essenziale di ogni gestualità teatrale/coreografica è la dimensione del come se, che, quanto più tende ad accorciare le distanze fra referente e significante gestuale – mai, in verità, azzerabili –, tanto più viene a configurare questa stessa gestualità come naturalistica53. Questa forma di rappresentazione del corpo è tuttavia piuttosto limitata, benché potente nella sua immediatezza: in quanto si tratta di un sistema iconico, non ci permette di raccontare storie troppo complesse senza l’ausilio di uno strumento semiotico che fornisca la chiave interpretativa della sua struttura grammaticale54. Nel teatro di parola il codice linguistico55 garantisce una semantica alle sequenze mimetiche, ma nella danza è difficile andare oltre la percezione sinestesica del gesto e cogliere la complessità della narrazione, se non ci viene in aiuto una qualche forma di metalinguaggio come un titolo, un riferimento a una vicenda già nota, un supporto linguistico. Vi sono poi delle danze che rifiutano totalmente la qualità iconicomimetica del movimento, presentando il corpo come un agente di scrittura che attinge a un paradigma fissato di gesti arbitrariamente connessi a significati univoci, secondo il meccanismo della codificazione. Si tratta dei Mudra o di altre forme della danza orientale, simili nella struttura al linguaggio dei sordomuti, in origine costituiti, con molta probabilità, da «azioni intrinsecamente codificate» che hanno subito nel temCfr. Pontremoli, Per una drammaturgia cit., p. 29. Cfr. Volli, Il corpo della danza cit., p. 19. 55 È importante ricordare, come suggerisce Simona Lisi, che «ogni forma di linguaggio è una forma specializzata di gestualità corporea (bodily gesture)» e che, pertanto, «la danza è la madre di tutte le lingue, non perché all’origine della storia dell’uomo ci si esprimeva solo attraverso gesti (cosa peraltro possibile), ma perché l’espressione si esprime attraverso quell’unico medium che realmente possiede l’uomo: il suo corpo, involucro di corpo e anima inscritto nei suoi gesti» (Lisi, Il linguaggio della danza cit., p. 130). 53 54

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po un processo di progressiva stilizzazione e, appunto, di codificazione. Ma si tratta anche, entro la nostra tradizione, della pantomima, arte del corpo usata talvolta all’interno del balletto accademico come motore narrativo di facile comprensione da parte del pubblico. Nel caso, quindi, della corrispondenza convenzionalizzata fra un determinato gesto, anche molto stilizzato, e il senso di un’azione reale, abbiamo il così detto gesto pantomimico, che si presenta in una forma fortemente determinata e pertanto poco aperta alla dimensione connotativa. La danza rituale, invece, non è destinata alla visione da parte di un pubblico estraneo all’evento; per nulla ingenua o «spontanea», essa viene partecipata e agita secondo quel processo di sincronizzazione cui abbiamo già fatto riferimento56. Si tratta di espressioni coreiche che possiamo definire festive57: come ad esempio il ballo popolare delle sopravvissute culture periferiche; o la danza sciamanica delle società arcaiche, la quale sfruttando, tra l’altro, il potere della mimesi attribuisce al proprio movimento imitativo la capacità magico-simpatica di intervenire sulle forze che regolano il cosmo; o, ancora, la danza estatica da discoteca e quella orgiastica – in senso più o meno metaforico – del rave party58. Alcune danze sono composte senza riferimento a uno sguardo esterno e non vogliono rappresentare nulla, ma si pongono piuttosto come presentazione pura di un movimento ritmico nella duplice valenza di ostensione di grazia e di seduzione, e di realizzazione di regole grammaticali chiuse che impongono al corpo di essere soddisfatte. Ogni cultura ha le sue danze «astratte», che non intendono dire o raccontare, ma offrono allo spettatore un virtuosismo che orienta il suo sguardo verso il soddisfacimento di una precisa forma stabilita dalla composizione, processo analogo a quello che abbiamo definito più sopra «sanzione narrativa». Queste danze hanno comunque un effetto sulla dimensione emotiva del soggetto, molto simile a quello provocato dalla musica. Si tratta dello stesso meccanismo degli atti intrinsecamente codificati, che qui non agiscono nel senso della rappresentazione, ma sono il portato di un modo di sentire il proprio corCfr. supra, Introduzione. Cfr. A. Pontremoli, Danzare il rito, in «Annex», dedicato alla Biennale di Venezia, Settore Danza, a cura di F. Pedroni, 2000, 2, pp. 51-59. 58 Cfr. E. Vaccarino, Il sacro, dal rito al rave, in «Annex», dedicato alla Biennale di Venezia, Settore Danza, a cura di F. Pedroni, 2000, 2, pp. 61-76. 56 57

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po, che è stato mobilitato dalla visione di un altro corpo in movimento59. È questo propriamente l’ambito in cui si genera il gesto coreico vero e proprio, apparentemente gratuito, asemantico, non convenzionale, aperto60. Critica e storiografia hanno spesso insistito su questa opposizione – fino alla sua assolutizzazione e alla sua conseguente trasformazione in paradigma di giudizi di valore – fra danza pura, esito della combinazione di gesti definiti «astratti» che mostrano grazia, virtuosismo e forma; e danza narrativa o rappresentativa, sostanziata da movimenti che denotano sentimenti o azioni drammatiche. Se è vero che questa «opposizione» è riscontrabile in tutto lo sviluppo storico della danza, intesa sia come esperienza umana sia come evenienza artistica, mi pare altrettanto vero che essa possa essere più proficuamente considerata una «dialettica» feconda, che nel tempo ha avuto grande influsso sulla pratica coreografica. Dialettica, tuttavia, pienamente comprensibile solo se ricondotta per intero entro l’ambito della rappresentazione. Passi astratti o gesti drammatici, virtuosismo o narrazione, danse d’école o pantomima tradizionale fungono tutte da strategie della comunicazione61. Anche nel caso di quella che viene comunemente detta danza pura possiamo parlare di drammaturgia, come l’esito di una combinazione/armonizzazione complessa di piani: quello della qualità preespressiva del gesto del danzatore, che l’antropologia teatrale ci ha abituato a coniugare con l’incarnazione consapevole, da parte del performer, di una tecnica e delle sue regole di movimento; quello delle eventuali immagini, realizzate a livello del singolo corpo o del gruppo, finalizzate alla produzione di senso; quello della costruzione della coreografia; e infine quello delle opposizioni significanti62. Più di ogni altro tipo di danza quella «pura» offre al corpo un canale di presentazione molto efficace, per parlare di sé e per produrCfr. Volli, Il corpo della danza cit., p. 24. Cfr. Pontremoli, Per una drammaturgia cit., p. 29. 61 Cfr. S.L. Foster, Coreografia e narrazione. Corpo, danza e società dalla pantomima a Giselle, Dino Audino Editore, Roma 2003, p. 7, note 6 e 7 (ed. or., Choreography & Narrative. Ballet’s Staging of Story and Desire, Indiana University Press, Bloomington, Indiana, 1996). 62 Cfr. Pontremoli, Per una drammaturgia cit., p. 35; Volli, Il corpo della danza cit., p. 19: lo studioso suggerisce per la danza le coppie sincronia-asincronia, simmetria-asimmetria, ripetizione-variazione. 59 60

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re sugli spettatori, certamente con maggior forza rispetto alla danza dichiaratamente narrativa, un effetto di senso, agendo su chi la osserva in maniera emotiva. Non è quindi possibile pensare la danza se non in termini di comunicazione: anche nella danza rituale, per la quale prevalgono le intenzionalità sacrale e religiosa, o nella danza di pura presenza del corpo, la valenza narrativa emerge sempre, in qualche modo, in ogni forma. La vocazione del corpo è quella di raccontare o di essere letto come un racconto, anche quando questo racconto è volutamente frammentario, sfuggente, enigmatico o ridotto al suo grado zero. A partire da questa considerazione ci si domanda allora in che modo la danza annoveri fra i suoi tratti pertinenti la dimensione drammaturgica, vale a dire come essa, in quanto forma spettacolare, possa raccontare una storia – di quali dimensioni o aspetti importa relativamente – attraverso la dialettica scenica dei suoi personaggi o a partire unicamente dalla gestualità e dal movimento, strumenti che il corpo le mette a disposizione63. È infatti utile, ai fini di una maggior comprensione del fenomeno danza, cercare di individuare il punto di passaggio fra un universo prevalentemente coreico della rappresentazione – che la nostra tradizione etichetta come lo spettacolo «di danza» e che definiamo, in ogni caso, drammatica, anche se il dramma è qui presente nelle forme inconsuete della dialettica di figurazioni, di luci, di corpi in opposizione, di passi generati da numeri random, di azioni improvvisate o indeterminate –, e un universo in cui il gesto abbia con la parola un rapporto privilegiato e descrittivo, comunemente definito spettacolo di «prosa»64. 63 Cfr. Volli, Da Aristotele a Pina Bausch cit., p. 125: l’Autore, citando Paul Watzlawick, afferma che con il corpo è impossibile non comunicare e insiste sull’importanza di una ricerca antropologica che vada alle radici della dimensione preespressiva del linguaggio. Cfr. inoltre Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, a cura di N. Savarese, La Casa Usher, Firenze 1983; U. Volli, Apologia del silenzio imperfetto, Feltrinelli, Milano 1991; E. Barba, La canoa di carta, Il Mulino, Bologna 1993. 64 Afferma al proposito il regista Giorgio Barberio Corsetti: «C’è una legge nel teatro: se il gesto segue la parola diventa enfatico, se si pone sotto la parola, se cioè c’è una coincidenza, diventa descrittivo; se invece c’è uno sfasamento, apre delle possibilità rispetto al linguaggio; crea cioè uno spazio all’immaginazione dello spettatore, crea un’apertura invece che una conferma, una possibilità poetica di rapporto fra il gesto e la parola»; citato in G. Tramontana, Il percorso delle prove, in F.

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Cominciamo con l’affermare che la danza è una manifestazione propria dell’umano, della quale la nostra cultura occidentale ha inventariato alcuni tratti specifici e ampiamente condivisi per renderne possibile l’individuazione. Anche se a prima vista teatro e danza sembrerebbero proporre un «fare», in quanto ciò che avviene sulla scena pare rimandare direttamente a sé nei termini della referenza, in realtà l’operazione semiotica che si realizza è quella del «dire», che colloca la danza entro la sfera del discorso e della narrazione. Danzare – ci insegna l’antropologia teatrale – non può essere considerato un puro divenire gestuale del tutto simile al concatenarsi funzionale dei gesti quotidiani. Ciononostante la danza non è una lingua (benché appaia evidente il suo carattere di linguaggio non verbale) e pertanto non è corretto un approccio a essa unicamente di tipo linguistico. Attribuire alla danza le stesse proprietà di una lingua naturale ripropone il problema della metaforicità delle nozioni linguistiche in campo semiotico, e parallelamente mette in evidenza l’ambiguità del termine segno, ormai quasi del tutto accantonato per la perdita del suo valore teorico ed euristico a vantaggio della funzione segnica e del testo65. Se la danza fosse una lingua avrebbe tutte le caratteristiche di un codice, ma sappiamo che questo non si verifica: non esiste una corrispondenza semanticamente stabile e sufficientemente convenzionale fra significante (e che cosa può essere ritagliato come unità minima significante nella danza, premesso che sulla scena tutto subisce un processo di semiotizzazione?) e universo di significato. Non esiste neppure la così detta doppia articolazione, che è invece determinante per l’analisi delle lingue naturali. La danza può, invece, essere considerata un sistema66, all’interno del quale codici diversi sono in azione. In tal caso ci si domanda allora che valore abbia proporre una differenza fra teatro e danza, che, per le comuni caratteristiche di funzionamento semiotico, verrebbero a sovrapporsi. È chiaro quindi che la problematica va focalizzata più propriamente sulla nozione di «testo spettacolare», cui lo spettacolo di danza può a ragione essere riferito. Una danza come fenomeKafka, America. Progetto per una messa in scena di G. Barberio Corsetti, a cura di S. Dalla Palma e A. Ghiglione, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 55-56. 65 M. De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982, p. 93. 66 Cfr. Elam, Semiotica del teatro cit., pp. 55-56.

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no in sé esiste solo in una concezione astratta delle arti. Nella realtà essa non è concepibile se non all’interno di una dinamica comunicativa: abbiamo già affermato che tanto le danze mostrate a un pubblico in un contesto teatrale, nell’unità delle proprie valenze spettacolari, della pluralità dei codici in atto e delle materie dell’espressione afferenti anche a sfere sensoriali differenti; quanto le danze connotate dalle valenze sociali e/o rituali non possono essere studiate al di fuori di una teoria della comunicazione67. A seconda del punto di osservazione, la danza potrà essere considerata un sistema di sistemi, regolati dalle norme di un certo numero di codici che agiscono in un determinato testo; o materia dell’espressione di un testo spettacolare di più ampie proporzioni68. Il grado della qualità drammatica della danza si misura in relazione alla minore o maggior presenza di quella che la semiotica chiama l’informazione drammatica veicolata dal movimento, informazione presente al grado zero quando nella comunicazione coreica viene invece dato rilievo, in virtù della loro materialità, all’ostensione dei veicoli segnici semantizzati, ricchi sul versante connotativo. In questo contesto la produzione di senso si realizzerebbe soltanto al livello della forma e della sostanza dei mezzi espressivi. Non sarebbe tuttavia negata, neppure in tale pretesa totale «astrazione» del gesto orchestico, sostanziato da una determinata temporalità e da una altrettanto precisa organizzazione dello spazio, la possibilità della comunicazione di un senso, se non addirittura del racconto di una storia – tutta interna, in questo caso, alla «necessità» e alla «tenuta» di ogni singolo componente del mondo creato dalla tessitura degli elementi formali. Alla donazione di senso contribuiscono, inoltre, le relazioni prossemiche, che l’uomo, nelle sue attività, istituisce nell’uso dello spa67

F. Ruffini, Semiotica del testo. L’esempio teatro, Bulzoni, Roma 1978, pp. 33-

79. 68 Scrive Mukarovsky, riprendendo il concetto wagneriano di Gesamtkunstswerk: «Il teatro è un intero complesso di arti [...]; immesse nel teatro [...] rinunciano alla loro autonomia, si compenetrano a vicenda, in breve si dissolvono, fondendosi in una nuova arte pienamente unitaria [...]. Ciascuna di esse è sempre potenzialmente presente sulla scena ma al tempo stesso ognuna, entrando in contatto col teatro, perde la propria autonomia e si trasforma sostanzialmente»; J. Mukarovsky, Il significato dell’estetica, Einaudi, Torino 1973, pp. 302-303 (ed. or., Studie z estetiki, Odeon, Praha 1966), citato in Ruffini, Semiotica del testo cit., pp. 86-87.

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zio, relazioni che non sono né casuali né solo funzionali, ma frutto di scelte, personali o operate entro il paradigma sociale, pregnanti dal punto di vista della comunicazione. Parallelamente la cinesica ha messo in luce come il movimento del corpo e la sua gestualità, aspetti costituenti della performance propriamente teatrale/coreutica, siano mezzi comunicativi molto efficaci, nonostante conservino la loro autonomia formale e materiale anche nella più mimetica delle performances69. Perde dunque di rigidità la schematizzazione critica secondo la quale la danza del Novecento oscillerebbe fra la tradizione europea della tensione al racconto (intesa come la possibilità di espressione e narrazione di esperienze attraverso la danza) e quella statunitense dell’aspirazione al distacco dal soggetto per la pura astrazione coreica70. Anche questo preteso astrattismo, che affonda le sue radici nell’intenzionalità non-comunicativa di John Cage, non può rinunciare al soggetto. Gli stessi materiali sonori – per restare in ambito musicale –, anche quando sono generati con un procedimento aleatorio o vengono a coincidere con la concretezza dei rumori o addirittura sono negati nel silenzio, nel loro coagulo formale rimandano comunque a un soggetto intenzionale71. Analogo tentativo di eliminazione del soggetto è quello della composizione poetica realizzata dall’intelligenza artificiale: anche nella più casuale combinazione sintatticamente corretta dei lessemi di una lingua naturale, il fruitore può reperire un’intenzionalità coscienziale come riflesso della propria. La distinzione fra soggetto e oggetto è, infatti, interna all’intenzionalità della coscienza, in quanto la coscienza è sempre coscienza dell’essere e dei modi in cui l’essere si dà alla coscienza. Reciprocamente l’essere si offre solo nell’oElam, Semiotica del teatro cit., p. 82. Cfr. M. Guatterini, La parola alla danza, in La parola alla danza. Cullberg, Linke, Forsythe, Wilson. Incontri, a cura di M. Guatterini, Ubulibri, Milano 1991, pp. 15-17. L’Autrice colloca nella prima di queste tipologie il filo rosso del senso che da Rudolf Laban arriva fino a Pina Bausch e al neoespressionismo di Susanne Linke; nella seconda gli esponenti dell’ideologia della non-comunicazione che dal binomio Merce Cunningham/John Cage, passando per George Balanchine, arrivano fino a Lucinda Childs, William Forsythe e Bob Wilson. 71 Cfr. G. Bettetini, Produzione del senso e messa in scena, Bompiani, Milano 1975, p. 78. 69 70

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rizzonte della comprensione coscienziale e solo nel senso con cui la coscienza lo porta a presenza72. Ogni evento artistico proposto a un pubblico, anche se programmaticamente – o non sarebbe meglio dire intenzionalmente? – non-comunicante, si offre a una coscienza incarnata, che lo sorprende a partire da un punto di vista continuamente trasceso nel movimento di spostamento prospettico. Ciò permette di cogliere l’evento nei suoi diversi aspetti o, come nel caso della musica e della danza, nel suo dispiegarsi temporale. Il suono o il gesto appena trascorsi, che ora non sono più, riposano nell’assenza, ma sono richiamati nel suono o nel gesto che mi sono presenti. Immaginazione e percezione interagiscono in riferimento a un’identità, che nel diverso apparire, anche caotico e sconnesso, perdura73. Bisogna quindi riconoscere un senso che si lascia cogliere nelle diverse prospettive, le connette ed è guida della incessante trasgressione dello stesso processo percettivo74. La danza non è dunque solo sviluppo formale e il teatro solo puro racconto, altrimenti non sarebbe possibile fra essi alcun incontro, come invece la storia dello spettacolo del Novecento ci ha mostrato. Una differenza, se esiste, va individuata in rapporto alla maggiore o minore densità semantica, ai diversi livelli di senso che le varie forme possiedono e che di volta in volta assumono. 2.6. Scrivere la danza La danza, fin dalle origini, si trasmette anzitutto attraverso l’imitazione, che diventa diretta esperienza corporea del movimento percepito nel corpo altrui. Per tale motivo è da sempre considerata una delle arti più effimere. Nel corso della storia questa sua volatilità è stata vissuta, soprattutto da parte di danzatori e coreografi, come un grande svantaggio, al punto da spingere a dar vita in passato a

72 V. Melchiorre, Essere e parola, Vita e Pensiero, Milano 1982, p. 27. Cfr. supra, 2.3. 73 Melchiorre, Essere e parola cit., pp. 28-29. 74 «Quanto si manifesta deve avere un qualche significato: significato appunto come segno che rinvia ad alcunché, come senso che è direzione e ricerca dell’intelligibile [...]. Il presupposto segreto di ogni avvenimento rappresentativo resta in definitiva quello di eliminare la contraddizione del non essere»; ivi, p. 30.

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una letteratura trattatistica che, a partire dal Quattrocento, con complicate descrizioni verbali tenta di fissare per la memoria stile, tecnica, passi e coreografie del repertorio sociale e spettacolare della danza di corte; oppure, su un versante opposto, è stata percepita come un grande vantaggio, da sfruttare quale elemento caratterizzante della propria arte, come accade, ad esempio, alla generazione dei danzatori della post-modern dance, che opera nella frizzante New York degli anni Sessanta. In ogni caso il desiderio di trasmissione e conservazione di una scrittura evanescente come quella dei corpi ha dato origine a molti sistemi simbolici di notazione, a partire dai più antichi, che nella tradizione occidentale risalgono ai testé citati manoscritti coreico-musicali del XV secolo, passando attraverso la conosciutissima Chorégraphie settecentesca di Raoul-Auger Feuillet75 e i meno noti tentativi di scrittura grafica ottocentesca, fino a giungere al Novecento, quando, a partire dalla cinetografia di Rudolf Laban, i sistemi si moltiplicano76. Oggi, la ripresa televisiva, le avanzate tecnologie informatiche di motion capture, nonché l’ampia gamma di software per la digitalizzazione, manipolazione, creazione virtuale ed elaborazione del movimento permettono una analisi e una conservazione delle coreografie senza precedenti, soprattutto perché offrono un grado di approssimazione alla realtà davvero sorprendente77. La cinetografia78 (o Labanotation) inventata da Rudolf Laban (1879-1958) rappresenta, a tutt’oggi, uno dei sistemi più efficaci, nonostante le difficoltà che presenta il suo apprendimento e il grado di complessità che essa comporta nella sua applicazione di registrazio-

75 R.-A. Feuillet, Chorégraphie, ou l’art de d’écrire la dance, Michel Brunet, Paris 1701. 76 A. Hutchinson Guest, Dance Notation. The Process of Recording Movement on Paper, Dance Books, London 1984, pp. 78-120; Traces of Dance. Drawings and Notations of Choreographers, a cura di L. Louppe, Dis Voir, Paris 1994 (ed. or., Danses tracées. Dessins et notation des chorégraphes, a cura di L. Louppe, Dis Voir, Paris 1991). 77 Cfr. infra, 6.4. 78 R. Laban, Principles of Dance Movement Notation (1956), a cura di R. Lange, MacDonald and Evans, London 19752; cfr. A. Hutchinson, Labanotation or Kinetography Laban. The System of Analyzing and Recording Movement, Theatre Art Books and Dance Books, New York-London 19773.

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ne del movimento sulla carta. È utilizzata soprattutto in ambito coreografico, ma viene considerata uno strumento prezioso in molti campi di studio per l’analisi di ogni tipo di movimento umano. Laban elabora un sistema che in parte conserva i principi portanti della notazione Feuillet: stabilisce anzitutto una linea verticale che indica l’asse del corpo e la divisione dello stesso dal punto di vista della lateralità. La linea non indica, invece, come accadeva nel Feuillet, il percorso spaziale, che viene invece segnalato da variazioni grafiche di un numero limitato di simboli univoci, combinabili in relazione all’aggiunta progressiva di ulteriori segni in relazione alle diverse qualità del movimento. Tale linea, divisa orizzontalmente in «battute» come nella notazione musicale mensurale moderna, stabilisce un parallelismo di tipo temporale con l’eventuale musica associata a quella determinata coreografia. Il grado di analiticità del sistema è deciso dal trascrittore, a seconda del livello di standardizzazione della tecnica o del «vocabolario» coreico utilizzato all’interno della composizione. Nella concezione che Laban elabora dello spazio del corpo che danza, le direzioni sono stabilite, non infinite: questo permette al grande teorico di lavorare con un insieme circoscritto di segni, in grado di essere esaustivi nella descrizione del movimento. Su un’analoga direttrice si porrà anche il choroscript elaborato da Alwin Nikolais, che costruisce la propria scrittura sulla base lineare proposta da Laban, introducendo segni grafici direzionali, connotati in termini univoci dal punto di vista della durata temporale, del tutto analoghi alle note musicali.

Capitolo terzo

La danza di un corpo nuovo

Nel corso del Novecento la rivoluzionaria concezione del corpo introdotta da Nietzsche, sviluppata dai filosofi-poeti e sistematizzata in seguito dal pensiero fenomenologico, si diffonde e si radica nel mondo occidentale. Pensatori e danzatori si sintonizzano sulla ricerca di una nuova umanità, caratterizzata da una consapevolezza di sé prima impensabile. La scoperta dell’autosufficienza espressiva di un corpo unitario, incarnazione e rivelazione del principio vitale, porta a concepire la danza come esperienza in grado di trascendere i limiti dello spazio e del tempo, capace di azzerare ogni linguaggio acquisito, per trovare una nuova legittimazione in proprie leggi e propri processi simbolici. Questo movimento rivoluzionario, iniziato quasi inconsapevolmente da Delsarte e nutritosi delle moderne concezioni filosofiche che – abbiamo visto – hanno cercato di riprecisare lo statuto ontologico della persona, se con la Duncan, la St. Denis e Ted Shawn si era incamminato sulla strada dell’intuizione (tradottasi poi in una nuova spettacolarità), con Émile JaquesDalcroze, Rudolf Laban, la sua allieva Mary Wigman e l’americana Doris Humphrey l’intuizione originaria diviene ricerca sistematica. Recuperata la sostanza primaria della danza, vale a dire il movimento di un corpo vivo, il pensiero estetico sulla danza diviene scienza, tecnica, processo di indagine sui nessi causali universali, che mettono in relazione, appunto, il corpo e il movimento1. Nello 1 Cfr. E. Casini Ropa, Introduzione alla Parte Seconda, in Alle origini della danza moderna, a cura di E. Casini Ropa, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 136-138.

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stesso momento viene attivata, all’interno del sistema dello spettacolo, una radicale connessione fra dimensione educativa ed espressione teatrale. È con questi autori che l’utopia pedagogica di una Duncan e di una St. Denis si concretizza in processi formativi consapevoli, tesi alla riattivazione di tutte le risorse dell’uomo e delle sue potenzialità. È quella stessa indagine sulla verità del performer, come esplicitazione di una più profonda verità dell’uomo, che informerà anche, sul versante della ricerca teatrale, le coeve pedagogie di Stanislavskij e di Copeau. 3.1. L’euritmica di Émile Jaques-Dalcroze Viennese di nascita, ma di famiglia svizzera, il musicista, compositore e direttore d’orchestra Émile Jaques-Dalcroze2 (1865-1950) è, nel panorama europeo di inizio Novecento, uno dei più importanti teorici e innovatori della danza. Allievo di Delsarte durante un giovanile soggiorno parigino, conoscitore della teoria della Gesamtkunstwerk wagneriana, Dalcroze si forma nell’ambito musicale e in quello teatrale a Ginevra, dove frequenta contemporaneamente il Conservatorio e il liceo, e dove diviene presto esponente di spicco di un movimento di pensiero che nei primi decenni del Novecento in Europa influenza il costume e la vita dei paesi di lingua e cultura tedesca. In Germania, a partire dai principi della Lebensreform, la riforma che caldeggiava un ritorno alle originarie forze vitali della natura e una rigenerazione dell’uomo e della società attraverso un programma politico – la riforma agraria e la difesa della città-giardino3 – ed etico – l’alimentazione vegetariana, il rifiuto dell’alcolismo, la 2 I. Spector, Rhythm and Life. The Work of Émile Jaques-Dalcroze, Pendragon Press, Stuyvesant (NY) 1990; S. Franco, Armonie del corpo, del gesto e del movimento. Influenza dell’estetica applicata di François Delsarte e del delsartismo nella pedagogia plastico-musicale di Jaques-Dalcroze, in «Biblioteca teatrale», 1995, 34, pp. 5-44; Id., Émile Jaques-Dalcroze, in La generazione danzante. L’arte del movimento in Europa e nel primo Novecento, a cura di S. Carandini ed E. Vaccarino, Di Giacomo, Roma 1997, pp. 303-320. 3 Cfr. G. Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 55; E. Casini Ropa, La cultura del corpo in Germania, in Alle origini cit., pp. 81-82.

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salubrità della vita all’aria aperta –, si sviluppa inizialmente una concezione di esercitazione forzata del corpo con l’affermarsi di tecniche di allenamento finalizzate all’irrobustimento muscolare e alla prestanza fisica. Si tratta del così detto metodo tedesco di ginnastica, più duro e marziale di quello svedese cui, invece, Dalcroze si ispirerà nell’elaborazione del suo sistema ritmico. In un secondo momento, grazie anche all’apporto teorico di Dalcroze, si assiste a una progressiva trasformazione dell’idea di disciplina fisica del corpo in cultura del corpo (Körperkultur). Nuove ginnastiche e nuovi metodi di formazione e ricreazione, basati sullo sviluppo armonico dell’organismo e dello spirito, fanno virare l’ideologia del corpo verso la dimensione estetica ed espressiva. Dalcroze, ponendosi esplicitamente entro la tradizione estetica tedesca che da Schopenhauer arriva fino a Wagner, parte da una concezione olistica del corpo come strumento espressivo completo, in grado di dare voce a quell’unità delle arti, guidata dalla musica, vagheggiata nella visione neoclassica della Grecia antica. Tuttavia tale unità psicofisica è per Dalcroze non un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Quello che egli osserva nella società e nelle arti dello spettacolo della sua epoca è, infatti, uno scollamento fra impulso nervoso e traduzione muscolare dello stesso, che genera nelle persone movimenti disarmonici e scoordinati, definiti aritmia e così spiegati in uno scritto del 1910: Tutti questi difetti risultano sia dall’incapacità del cervello di dare degli ordini sufficientemente rapidi ai muscoli incaricati di eseguire il movimento, sia dall’incapacità del sistema nervoso di trasmettere questi ordini fedelmente e con calma, senza sbagliarsi d’indirizzo, sia ancora dall’incapacità dei muscoli di eseguirli irreprensibilmente. L’aritmia proviene dunque da una mancanza d’armonia e di coordinazione tra la concezione del movimento e la sua realizzazione e dal disordine nervoso che, in certi casi, è la causa di questa disarmonia e in altri ne è la conseguenza4.

4 Sono parole di Dalcroze riportate da C.-L. Dutoit-Carlier, La ritmica di Jaques-Dalcroze, in Alle origini cit., p. 190 (ed. or., Jaques-Dalcroze, créateur de la rythmique, in Émile Jaques-Dalcroze. L’homme, le compositeur, le créateur de la rythmique, La Baconnière, Neuchâtel 1965, pp. 316 e sgg).

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Scopo del metodo pedagogico elaborato da Dalcroze diventa pertanto la rimozione di tutti i possibili ostacoli alla realizzazione di un movimento corporeo armonico, prodotto da una perfetta sintonia fra lo spirito e la carne. Si tratta dello stato eutonico, condizione benefica della persona, data dall’equilibrio fra contrazione e decontrazione, fra azione e riposo. Il pieno possesso del proprio corpo e la piena consapevolezza delle sue possibilità e dei suoi limiti permette al soggetto di spaccare la crosta delle resistenze che impediscono lo sviluppo libero dell’immaginazione e della creatività. Fautore di un movimento che sia generato da uno sforzo proporzionale al bisogno, Dalcroze, col suo pensiero e il suo sistema pedagogico, è nemico di ogni tecnica che tradisca quella che gli psicologi dell’epoca chiamano la legge dell’economia: Sapremo economizzare i nostri voleri e le nostre forze, fissare i rapporti fra le nostre forze e il tempo, fra il tempo e i nostri voleri. Economizzare, equilibrare, questa dev’essere la nostra divisa5.

Per tali motivi Dalcroze è molto critico nei confronti della danza accademica del suo tempo, che egli considera anti-musicale, anti-economica e quindi ai limiti del male oscuro del movimento che è l’aritmia. Sente quindi la necessità di distinguersi dalla danse d’école e di difendere i suoi rythmiciens dall’accusa di dilettantismo coreutico in uno scritto del 1909, Pour répondre à ceux qui confondent les exercices publics de G.R. de mes élèves avec des exercices de danse, nel quale sottolinea l’inadeguatezza e l’improprietà del paragone e della confusione, operati dai suoi detrattori, fra ritmica e danza. Gli sviluppi della polemica sono noti: dopo la pubblicazione nel 1920 del testo Ritmo musica educazione, nel quale Dalcroze stende una lunga lista di accuse al balletto, il critico André Levinson6, paladino degli ideali della danza accademica, si scaglia contro la ritmica, cercando di ridimensionarne la portata e il ruolo. Nella costruzione del suo sistema, Dalcroze era partito da semplici esercizi ritmico-corporei (una specie di solfeggio mimato e animato) per educare le giovani generazioni a un apprendimento corSono parole di Dalcroze riportate ivi, p. 192. A. Levinson, La danse d’aujourd’hui, Duchartre Buggenhaandt, Paris 1929, pp. 445-450; cfr. Franco, Émile Jaques-Dalcroze cit., p. 316. 5 6

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retto e naturale della musica. Già nei primi anni del Novecento appaiono abbozzati gli elementi fondamentali del suo metodo ritmico: una ginnastica basata sulla traduzione corporea di ritmi musicali. Lo scopo è quello di educare il corpo all’ascolto, sviluppando ciò che Dalcroze definisce «il senso muscolare», sorta di canale cinestesico in grado di percepire musicalità e ritmo in termini interiori: Lo studio delle emozioni estetiche e della loro espressione naturale crea [...] la semplicità di spirito ed è grazie a un ritorno volontario alla semplicità della camminata, alla franchezza dell’espressione, all’abbandono di tutto l’essere all’emozione artistica che si svilupperà l’arte plastico-musicale di domani7.

A partire dagli anni Dieci, l’euritmica dalcroziana è già una disciplina consolidata, un sistema pedagogico che permette all’individuo di acquisire attraverso il ritmo e la musica una piena consapevolezza estetica, emotiva e creativa del proprio movimento. Così scrive Dalcroze nel 1921: Certo, sono ancora ben lontano dall’aver raggiunto lo scopo, ma l’importante è che la questione sia stata posta e che la curiosità di un certo numero di pedagoghi e di psicologi sia stata sufficientemente risvegliata perché un movimento comune prenda forma, al fine di cercare nell’educazione di domani i modi più sicuri e più rapidi di stabilire una comunicazione fra le diverse correnti della nostra vita psico-fisica, di permettere ai bambini di acquisire dei corpi interamente impregnati dei loro pensieri e degli spiriti certi di dominare i loro istinti corporei8.

Musicisti, danzatori, pedagogisti di tutta Europa possono accostarsi a questo metodo nel prestigioso Istituto Jaques-Dalcroze presso Hellerau, scuola aperta nel 1911 nei pressi di Dresda, dove la concezione ritmica dello spazio di Adolphe Appia, altro grande pedagogo teatrale del Novecento, concorre alla realizzazione dell’utopia 7 É. Jaques-Dalcroze, In risposta a quanti confondono gli esercizi pubblici di ginnastica ritmica dei miei allievi con degli esercizi di danza, trad. it. di S. Franco in La generazione danzante cit., p. 321 (ed. or., Pour répondre à ceux qui confondent les exercices publics de G.R. de mes élèves avec des exercices de danse, in «Le Rythme», 1909, 7). 8 Sono parole di Dalcroze riportate dalla Dutoit-Carlier, La ritmica cit., p. 191.

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di un teatro fondato sul corpo come possibilità di rappresentazione plastica e spaziale di elementi musicali. La concretizzazione di questo progetto trova espressione, nel giugno del 19139, nel saggio pubblico della scuola, presentato di fronte ai maggiori critici teatrali dell’epoca. Nell’impianto scenico e illumino-tecnico di Appia, Dalcroze seppe «mettere in movimento», attraverso quella che egli definiva la «plastica vivente», la musica dell’Orfeo di Gluck, con una maestria memorabile che fa di questo evento un punto di riferimento nella storia dello spettacolo dell’Europa del Novecento, proprio perché sembra realizzare il sogno di un’opera d’arte totale subordinata in ogni sua parte a un principio ordinatore unitario. 3.2. Rudolf Laban: la danza pensiero-in-movimento Nel panorama novecentesco dei riformatori delle arti dello spettacolo, Rudolf Laban10 rappresenta uno spartiacque altrettanto importante e determinante per il corso della storia della danza contemporanea. Ungherese di nascita e tedesco di adozione, si forma in modo eclettico al teatro, alla poesia, alla musica e più tardi alla danza, giungendo a quest’ultima dopo incursioni nel mondo del ballo folclorico, esotico e antropologico. Sul suo pensiero influiscono tanto le idee di Delsarte, incontrate a Parigi attraverso l’insegnamento di un allievo del maestro di estetica applicata, quanto l’ambiente avanguardistico della Monaco dei primi del Novecento. Nel clima infervorato della Körperkultur viene a contatto con le teorie estetiche di Georg Fuchs, erede diretto di Nietzsche, secondo le quali la danza, come movimento ritmico del corpo nello spazio, è esperienza concreta dell’armonia cosmica che regola l’universo, è arte generata da impulso dionisiaco, abbandono orgiastico all’indistinto originario, possibilità di perdersi nel tutto. Da Fuchs, in par9 R.C. Beacham, Appia, Jaques-Dalcroze e Hellerau: poesia in movimento, in Alle origini cit., pp. 281-300 (ed. or., Appia, Jaques-Dalcroze and Hellerau: Poetry in Motion, in «The Theatre Quarterly», 1985, 3, pp. 242-261). 10 Rudolf Laban. An Introduction to his Work and Influence, a cura di J. Hodgson e V. Preston-Dunlop, Northcote House, Plymouth 1990; Rudolf Laban. Dalla danza libera agli anni Ottanta, a cura di E. Casini Ropa, Comune di Reggio EmiliaI Teatri, Reggio Emilia 1990.

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ticolare, Laban assimila la concezione dell’esperienza performativa come evento estetico e contemporaneamente atto etico, conducendo, negli anni, una seria e approfondita ricerca su due piste parallele. Da un lato l’attenzione all’individuo, che la danza può aiutare a maturare nella propria espressione personale attraverso un movimento del corpo libero e naturale; dall’altro l’interesse per la dimensione comunitaria dell’evento coreico, considerato il momento di incontro di uomini liberati, unione che trascende le singolarità per dar voce alla coralità: Anche nella festa – scrive lo stesso Laban nel 1928 –, nel gioco, nella celebrazione, l’individuo è rappresentante della comunità, che nella stessa conformazione degli individui tende verso la grande opera di una nuova cultura. [...] Noi stiamo lavorando a una nuova forma dell’opera teatrale che sia un simbolo della nostra aspirazione a vivere pari fra pari in una cultura armonica. [...] Specchio dei nostri desideri sociali e ideali può essere solo l’opera corale11.

In modo simmetrico all’esperienza di Dalcroze a Hellerau, il luogo di maturazione del pensiero estetico e pedagogico di Laban diviene, a partire dal 1913, Monte Verità, una località nei pressi di Ascona, sul versante Svizzero del Lago Maggiore, dove il maestro ungherese si insedia con i suoi seguaci incontrando la comunità anarchico-naturista da anni rifugiatasi in quel paradiso naturale per condurre una vita informata ai principi della Lebensreform. A contatto con le bellezze del paesaggio svizzero, conducendo una vita semplice e ritmata dalla natura, Laban e i suoi allievi danno vita alla danza libera, espressione diretta di anime individuali e collettive incarnate in corpi pensanti in movimento. Così leggiamo sul manifesto che pubblicizza la scuola estiva organizzata da Laban a Monte Verità: La Scuola d’arte è diretta secondo i principi pedagogici e didattici di nuovo tipo che R. Laban de Varalja segue da anni nei suoi corsi di insegnamento, nel senso di una rigenerazione delle forze vitali dell’arte. Gli

11 R. Laban, L’opera corale, in La generazione danzante cit., p. 346 (ed. or., Das Chorische Kunstwerk [1928], in H. Müller e P. Stöckemann, «... jeder Mensch ist ein Tänzer». Ausdruckstanz in Deutschland zwischen 1900 und 1945, Anabas Verlag, Griessen 1993).

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allievi vengono introdotti a tutte le forme espressive del genio umano. Egli cerca, in collaborazione con i suoi insegnanti e colleghi, di trovare in tutti i campi dell’attività e dell’espressione le nuove forme di una vita semplice e armonica. Viene risvegliata la comprensione e il piacere di un fare artistico essenzialmente vitale e in tal modo l’allievo viene preservato dall’accrescere il numero dei prodotti artistici privi di valore e di utilità, che sono il triste frutto di un’educazione all’arte unilateralmente specializzante. Le esercitazioni e i lavori si terranno – per quanto è possibile – all’aperto, sul terreno e nei laboratori della cooperativa Individualistica di Monte Verità. La Scuola si propone di introdurre i membri di questa associazione a un vivere artistico. Non è tuttavia necessario essere membri della Cooperativa per poter essere ammessi alla scuola12.

Danza libera per Laban non significa danza anarchica e spontaneista, priva di consapevolezza e sganciata da leggi. Sono questi gli anni in cui Laban viene elaborando una precisa filosofia della danza, alla ricerca delle regole interne al movimento nel tempo e nello spazio. A differenza di Dalcroze, Laban è convinto che la danza non abbia bisogno di appoggiarsi alle altre arti: autonoma anche rispetto alla musica, essa si sviluppa in relazione ai ritmi naturali del corpo e alle motivazioni profonde dello spirito, esigendo dai suoi cultori una perfetta conoscenza di sé: Dopo un momento di esaltato entusiasmo per la danza, siamo passati a un periodo di sviluppo più tranquillo, nel quale una cerchia di persone ristretta, che lavora seriamente, sta preparando un approfondimento dell’arte della danza. Ogni vera opera d’arte deve essere il risultato di un lavoro serio. E dunque anche la creazione della danza. L’improvvisare, il danzare in base all’impulso del momento, non può mai essere considerato «arte» nel senso di valore duraturo. Finora il singolo danzatore ha fatto affidamento sulla propria ispirazione, elaborandola a suo piacimento, finché la cosa funzionava, ma non si è potuto mai confrontare obiettivamente con il suo lavoro, perché lui solo poteva ballare la sua danza o, nel migliore dei casi, farla studiare a qualcun altro. Lo sviluppo del12 Programma originale della Schule für Kunst (Scuola d’Arte) di Monte Verità, riprodotto in Monte Verità. Antropologia locale come contributo alla riscoperta di una topografia sacrale moderna, a cura di H. Szeemann, Armando Dadò-Electa Editrice, Locarno-Milano 1978, p. 130; il documento è tradotto da E. Casini Ropa, La danza e l’agitprop. I teatri-non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 30-31.

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la ricerca nella coreografia implica da questo punto di vista un primo grande cambiamento13.

Le opere giovanili cui Laban affida la sua teoresi sono Die Welt des Tänzers, che risale al 1920 e contiene in nuce l’intero corpus teorico labaniano; e Choreographie del 1926, nella quale l’autore illustra la sua teoria dello spazio e i principi base della cinetografia, il più famoso sistema di notazione del movimento, perfezionato negli anni seguenti e sistematizzato in Schrifttanz del 1928 e in Principles of Dance and Movement Notation, pubblicato in inglese nel 1956. La scienza labaniana della danza si divide in tre branche: la coreosofia, o filosofia della danza, stabilisce di quest’ultima i principi etici ed estetici; la coreologia, disciplina analitica che studia i nessi grammaticali e sintattici del movimento e cerca di individuare le leggi che ne regolano lo sviluppo spazio-temporale; e la coreografia, scienza della scrittura della danza da intendersi sia come il prodursi del movimento in una serie di connessioni, sia come la possibilità di fissare questo sviluppo discorsivo sulla carta per mezzo di un sistema univoco di segni. A partire da questo impianto Laban percorre due piste di indagine, specchio di una evidente ambivalenza del fenomeno coreico. La danza è per Laban un’arte con i propri valori estetici, ma è contemporaneamente un’esperienza di alto valore antropologico e sociale. Nel primo caso egli parla di Tanztheater, ovvero di una disciplina del performer professionista, destinata alla rappresentazione di fronte a un pubblico, della quale egli studia e ricerca i principi e le condizioni di possibilità. Nel secondo caso, con l’idea di Tanztempel, Laban si confronta con le potenzialità sociali, pedagogiche e comunitarie della danza, esperienza di conoscenza di sé nella relazione che è alla portata di ogni uomo; danza corale, o Bewegunhschor, con la quale ognuno può mettersi in contatto con il movimento dell’universo e recuperare un senso di appartenenza14.

13 R. Laban, Coreografia e teatro, in La generazione danzante cit., p. 345 (ed. or., Choreographie und Theater, in «Der Scheinverfer», I, 1928). 14 È sui principi di questa concezione della danza, affini, almeno alla superficie, ai presupposti ideologici e agli obiettivi propagandistici del nazismo, che si baserà l’equivoco del coinvolgimento di Laban col Terzo Reich, alla lunga incrinato dalle insanabili divergenze culminate nella fuga del maestro del 1937, prima in Francia e quindi in Inghilterra, dove nel 1958 troverà la morte; cfr. V. Preston-Dun-

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A questo proposito sono rimasti famosi i tre «cori in movimento» dello spettacolo La festa del sole, ideati da Laban per il Congresso Cooperativo Anazionale della Confraternita degli Illuminati, Ermetici, Ordine del Tempio d’Oriente, nell’estate del 1917. Mentre nel resto d’Europa deflagrava la guerra, un gruppo di allievi di Laban celebrava con una trascinante danza corale, insieme a un pubblico coinvolto e partecipante, un rito collettivo di propiziazione delle forze della natura, in un clima da iniziazione orgiastica15. La danza, per Laban, si realizza all’incontro di due ordini complementari di principi: da un lato il tratto peculiare della danza, che è quello della libertà, intesa come liberazione da ogni condizionamento fisico, da ogni tecnica precostituita, da leggi esterne alla sua autonomia e alla sua fenomenologia; dall’altro la connessione intima di tutte le forme espressive del corpo (la danza, la musica, la poesia), che richiamano, nello slogan labaniano «Tanz-Ton-Wort», gli echi del wagneriano «Wort-Ton-Drama» e rimandano, in un gioco di specchi culturali, agli esperimenti di teatro totale di Dalcroze e Appia a Hellerau. La novità di Laban, rispetto alle ricerche dei contemporanei, consiste nel rivendicare per la danza una totale autonomia e superiorità, come arte dalla quale tutte le altre derivano: è il corpo in movimento a generare il suo ritmo, la sua musica, a emettere un suono articolato o disarticolato, a generare, comunicare e comprendere il senso della parola poetica da esso pronunciata. Uno dei contributi più importanti di Laban all’arte della danza è la sua complessa teoria dello spazio16, espressa in due scritti importanti: il già citato Choreographie del 1926 e il più recente Choreutics, pubblicato a Londra nel 1966. Nelle due opere, pur fra oscillazioni teoriche e terminologiche in parte disorientanti, è possibile ricavare un compendio delle concezioni spaziali della nuova danza secondo due direttrici: quella più propriamente legata alla teoria dello spazio, che Laban definisce coreutica, e quella connessa con la teoria dell’espressione nella danza, ovvero l’eucinetica. lop, Laban and the Nazis, in «Dance Theatre Journal», VI, 1988, 2, pp. 4-7; D. Bertozzi, Rudolf Laban, in La generazione danzante cit., pp. 341-342. 15 Cfr. Casini Ropa, La danza e l’agitprop cit., pp. 23-27. 16 Cfr. V. Maletic, La teoria dello spazio di Rudolf Laban, in Alle origini cit., pp. 196-224 (ed. or., Body, Space, Expression. The Development of Rudolf’s Laban Movement and Dance Concepts, Mouton de Gruyter, Berlin-New York-Amsterdam 1987, pp. 57-73).

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A partire dal concetto di cinesfera, vale a dire dello spazio massimo alla portata del corpo del danzatore e del movimento rotatorio dei suoi arti, Laban esplora i piani spaziali in cui il corpo del danzatore agisce e le direttrici del suo movimento, individuando nella figura solida dell’icosaedro la rappresentazione plastica di tutte le possibili sequenze armoniche. Dalla combinazione delle direttrici spaziali con le possibilità motorie offerte dalle articolazioni del corpo si generano le figure, che Laban concepisce sempre entro un impianto di natura geometrica e mette in relazione con qualità fra loro diverse nella percezione: la linea retta con l’immobilità, quella curva col movimento e l’instabilità, gli archi con la velocità, ecc. Ogni passo di danza, secondo la tradizione che Laban non intende del tutto abbandonare, fa riferimento, infatti, agli elementi base delle forme simboliche: dritto, circolare, ondulato, rispettivamente caratterizzati dalla mono, bi- e tridimensionalità. La concatenazione tra figure e forme genera ritmi spaziali lineari o multipli, a seconda che il corpo utilizzi una o più azioni simultanee. Il passaggio da una generica consapevolezza dello spazio allo studio del movimento in rapporto al centro del corpo e al modificarsi dinamico della cinesfera, avviene per mezzo della coreutica, o armonia dello spazio, che Laban propone come la scienza che analizza le relazioni spaziali del movimento viste come generatrici di simmetria e bilanciamento. Tale complesso linguaggio del corpo non è per Laban mai fine a se stesso, ma sempre funzionale all’espressione. Nel suo testo The Mastery of Movement on the Stage17, pubblicato a Londra nel 1950, il maestro ungherese ribadisce la qualità metacinetica del movimento, che ha in sé tutti gli elementi della propria significazione ed è in grado di trasmetterli utilizzando unicamente la propria materia dell’espressione. Il movimento è qui indicato come lo strumento fondamentale del performer per compiere azioni reali, generate da precisi processi psicofisici, consapevoli e mai lasciati al caso, atti a realizzare sulla scena partiture dinamiche efficaci e produttrici di significazione e comunicazione indipendentemente dalla loro particolare forma, sia essa mimetica, metaforica, simbolica o volutamente astratta. 17 R. Laban, L’arte del movimento, a cura di E. Casini Ropa e A. Andreani, Ephemeria, Macerata 1999 (ed. or., The Mastery of Movement on the Stage, MacDonald and Evans, London 1950).

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3.3. Mary Wigman ovvero dell’assolutezza della danza Fra il 1927 e il 1928, in seguito all’interessamento di Laban e della lega sindacale di danzatori da lui fondata, la Tanzerbund, vengono organizzati due congressi internazionali, durante i quali emergono le divergenze all’interno degli esponenti della danza moderna tedesca, la Ausdruckstanz. In particolare, il secondo di questi incontri, svoltosi a Essen, rivela uno strappo fra la corrente di Laban, favorevole a una sintesi fra tradizione accademica e danza moderna per recuperare a quest’ultima una maggior efficacia espressiva come conseguenza di rigore tecnico, e la corrente della sua allieva Mary Wigman18 (1886-1973), portabandiera delle giovani generazioni di danzatori e sostenitrice della assoluta autosufficienza espressiva e tecnica della danza tedesca. La Wigman, originaria di Hannover, si era diplomata a Hellerau in ritmica, ma insoddisfatta del metodo di Dalcroze – che pure rappresenterà la base sotterranea del suo lavoro per tutta la sua vita artistica –, si era trasferita a Monte Verità divenendo in breve tempo l’allieva prediletta di Laban e la sua assistente didattica. Distaccandosi in parte dagli insegnamenti del suo maestro, fin dagli anni Venti la Wigman elabora un’estetica della danza che si basa su una concezione della corporeità come sintesi di componenti spirituali e fisiche. Il corpo è l’agente immediato, diretto e naturale di un movimento concepito come espressione delle forze oscure, inconsce ma molto potenti che si agitano nel profondo dell’individuo. Solo un corpo allenato con una ginnastica danzante (Tänzerische Gymnastic) può elevarsi al di sopra della tecnica per approdare alla sfera dell’arte trasformando un impulso interiore in un’idea comunicabile e quest’ultima in un gesto carico di significato. A partire dagli anni Trenta la crisi della danza tedesca raggiunge il punto più drammatico. All’orizzonte si profilano i segnali dell’avvento del regime nazista e le difficoltà economiche del paese fanno sentire le loro conseguenze anche fra i danzatori. Al terzo Congresso della danza d’espressione tedesca, svoltosi a Monaco proprio nel 1930, cominciano a farsi strada proposte di adesione ideologica al

18 S.A. Manning, Ecstasy and the Demon. Feminism and Nationalism in the Dances of Mary Wigman, University of California Press, Berkeley 1993.

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nuovo regime, che la stessa Wigman, secondo alcuni storici della danza19, teorizzerebbe a partire da uno scritto composto fra il 1929 e il 1930 dal titolo Il danzatore e il teatro. A nostro parere questo scritto va letto, invece, in stretta connessione con tutto il movimento di riteatralizzazione del teatro che nel corso della prima metà del XX secolo anima il dibattito culturale sulla natura e sul futuro del teatro stesso. Se è vero, infatti, come sottolinea Susanne Franco, che l’idea di un teatro comunitario prefigura pericolosamente, nel pensiero wigmaniano, una comunità come massa guidata da un capo (Führerschaft) nel quale essa è chiamata a identificarsi, altrettanto chiaro appare il riferimento alla originale utopia della «comunità in festa», di feconda matrice labaniana e al vitalismo dionisiaco di ispirazione nietzschiana: E così, invece di dare una risposta oggettiva, riusciamo a esprimere soltanto il nostro desiderio: aspiriamo a un teatro che sia un luogo di elevazione, di immersione, di approfondimento. Desideriamo il teatro come un luogo di celebrazione di festa. Vogliamo condividere le esperienze e le sofferenze, essere trascinati dall’entusiasmo. Non desideriamo uno stimolo nervoso, ma lo scuotimento del nostro essere. Non vogliamo dimenticare la quotidianità nell’elevazione del nostro sentimento vitale che il teatro ci fornisce, ma superarla. Sentiamo la necessità di un teatro come di un riconoscimento dell’esistenza dell’uomo, rappresentato e offerto nel linguaggio simbolico della sua forma artistica20.

3.4. Doris Humphrey: la danza come «arco fra due morti» Un esplicito riferimento alla filosofia nietzschiana si trova nell’opera teorico-estetica e nella produzione artistica di una delle madri fondatrici della modern dance, Doris Humphrey21 (1895-1958). Originaria di un sobborgo di Chicago, la danzatrice cresce in una famiglia di musicisti e si accosta giovanissima alla danza accademica. L’inCfr. S. Franco, Mary Wigman, in La generazione danzante cit., pp. 335-344. M. Wigman, Il danzatore e il teatro, in La generazione danzante cit., p. 368 (ed. or., Der Tänzer und das Theater, in Deutsche Tanzkunst, Karl Ressen, Dresden 1935). 21 E. Stodelle, La tecnica di danza di Doris Humphrey ed il suo potenziale creativo, Di Giacomo, Roma 1987 (ed. or., The Dance Technique of Doris Humphrey and its Creative Potential, Princeton Book Company, Princeton (NJ) 1978). 19 20

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contro con la Denishawn avviene nel 1917 in California e rappresenta per la Humphrey l’occasione di completare la sua formazione, caratterizzata da una totale padronanza della tecnica classica e nel contempo dalla libertà creativa della nascente danza moderna. Dopo una consistente esperienza maturata all’interno della Compagnia della St. Denis, mette a frutto un’autonoma concezione del movimento22, che diviene insegnamento strutturato di una tecnica originale e feconda quanto quella più nota della sua quasi coetanea Martha Graham. Il pensiero della Humphrey è affidato a una serie di scritti e di appunti – oggi conservati nella Dance Collection della New York Public Library –, in parte rifluiti in una pubblicazione postuma, The Art of Making Dance (1959). Nella sua ricerca, la Humphrey, guidata dalla convinzione che l’arte sia una continua e incessante rivelazione della vita, si interroga sulle motivazioni profonde dell’agire umano e del rapporto dell’uomo con il suo ambiente. Scrive in alcuni appunti: Se noi comprendiamo i vari modi in cui la forza agisce nei nostri corpi e le varie sequenze che questa mette in moto, sappiamo qualcosa su noi stessi, perché noi tutti, come organismo, seguiamo le stesse leggi23. La storia della mia tecnica è molto semplice. Sono risalita al corpo e alla sua inclinazione per il movimento, e ho cercato di separarlo da ogni sorta di reazione emotiva – cosa farà il corpo abbandonato a se stesso? 22 Secondo Francesca Colonnello, la Humphrey è determinata a dar vita a una tecnica di danza nuova e originale proprio perché, essendo nata, cresciuta e vissuta nel clima culturale dell’America fra Ottocento e Novecento, è influenzata dal trascendentalismo emersoniano che predicava la self-reliance, «combinazione di individualismo morale, fiducia in sé e riconoscimento del valore dell’auto-espressione»; F. Colonnello, L’arco tra due epoche: Doris Humphrey a cavallo del secolo, in In cerca di danza. Riflessioni sulla danza moderna, a cura di C. Muscelli, Costa & Nolan, Genova 1999, p. 65. L’impronta del filosofo americano, molto presente nei metodi pedagogici della scuola frequentata dalla Humphrey fino al 1913 – la Francis W. Parker School – e nei suoi insegnanti, è evidente soprattutto nella produzione coreografica della Humphrey, ispirata ai concetti emersoniani di ricerca di un’identità culturale americana, di scoperta dello spirito universale che attraversa micro e macrocosmo, di rapporto fra uomo e natura, di evoluzione e progresso come graduale miglioramento delle forme naturali e dei sistemi umani (ivi, pp. 62-74). 23 New York, Public Library, Doris Humphrey Collection, Folder M-66, tradotto in Stodelle, La tecnica di danza cit., p. 19.

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Che attitudine ha all’equilibrio? Cosa succede quando si muove? Come si sposta per mantenere l’equilibrio?24

Ispirandosi a La nascita della tragedia di Nietzsche, la coreografa americana individua nell’opposizione fra il principio apollineo e il dionisiaco i fondamenti della sua teoria sul moto. Apollo rappresenta la raggiunta perfezione della stabilità e della razionalità, mentre Dioniso è l’attrazione del pericolo, il desiderio dell’oblio della soggettività. Riferiti all’equilibrio del corpo i due principi vengono interpretati dalla Humphrey rispettivamente come la «morte statica», ovvero l’equilibrio simmetrico del movimento che porta il corpo alla stasi, e la «morte dinamica», vale a dire un disequilibrio spinto alle estreme conseguenze e quindi non più recuperabile ma destinato alla dissoluzione: Il desiderio di muoversi spinge la materia organica a uscire dal suo centro di equilibrio. Ma il desiderio di conservare la vita induce a un ritorno all’equilibrio o a un altro spostamento di materia sufficiente a bilanciare il primo, e così a salvare l’organismo dalla distruzione. [...] Quindi, il ritmo risulta dalle oscillazioni della materia organica che si allontana e si avvicina al suo punto di equilibrio. Alla fine di entrambi i movimenti c’è morte – la morte statica o equilibrio costante, o la morte dinamica in un movimento troppo spinto, lontano dall’equilibrio25.

In mezzo a queste due «morti» si sviluppa il moto, ritmico oscillare della «materia organica», simbolica rappresentazione della lotta dell’uomo per la sopravvivenza, contrappunto fra differenti atteggiamenti e condizioni psicologiche connesse alla dialettica fondamentale enunciata dalla Humphrey come «caduta e recupero»: Caduta e recupero sono la sostanza pura del movimento, il flusso costante che scorre in ogni corpo vivente, in tutte le sue parti più minuscole, in ogni movimento. Né questo è tutto, poiché il processo ha anche un significato psicologico. Riconobbi molto presto queste implicazioni emotive, e risposi istintivamente con molta forza al pericolo eccitante della caduta, e alla compostezza e alla pace del recupero26. Ivi, p. 25. Ivi, p. 20. 26 Ivi, p. 21. 24 25

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Le coppie di opposizioni costantemente presenti nel pensiero della Humphrey rivelano la sua convinzione che la danza sia attraversata da una sorta di drammaturgia naturale, strettamente connessa all’arco di movimento fra posizione eretta e posizione distesa del corpo, entro il quale sono possibili tutte le azioni fisiche e tutte le condizioni emotive correlate. Perennemente opposti ed entrambi esistenti nell’uomo come singolo e come gruppo, l’Apollineo e il Dionisiaco sono da una parte simboli della battaglia dell’uomo per il progresso, dall’altra del suo desiderio di stabilità. Queste non sono solo, come Nietzsche sottolineò, le basi della Tragedia Greca, ma di tutti i movimenti drammatici, in particolare della danza27.

Ogni azione naturale dell’uomo è la manifestazione della eterna lotta tra forze opposte, del dramma umano quotidiano della sopravvivenza in un ambiente fisico dominato da realtà spesso ostili e spinte fra loro contrarie. Il movimento, in particolare, che la Humphrey analizza secondo le sue componenti fondamentali – respirare, stare in piedi, camminare, correre, saltare, spostare il peso, cadere e sollevarsi – e i suoi principi primi – ritmo, dinamica (o qualità del moto) e design – è rivelatore permanente della convivenza non sempre pacifica dell’uomo con la gravità. Come lei stessa precisa, «la vita oscilla tra la resistenza e la resa alla gravità»28. La tecnica di Doris Humphrey è dunque il risultato di una continua esplorazione del movimento in termini fisiologici e psicologici, a partire dalla constatazione che la gravità è per l’uomo una condizione ineliminabile. Ogni elemento della tecnica è pertanto basato su questa coesistenza drammatica e studiato sia come esperienza motoria elementare, sia come evento coreico. Secondo una rivoluzionaria pedagogia della creatività – che le viene dagli insegnamenti della sua maestra di danza Mary Wood Hinman, secondo la quale la danza, all’incrocio fra etica ed estetica, era uno strumento di forte integrazione sociale e un mezzo per la comprensione degli aspetti for-

Ivi, p. 22. D. Humphrey, The Art of Making Dances, Rinehart, New York 1959, p. 106; cfr. Stodelle, La tecnica di danza cit., p. 23. 27 28

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mali e qualitativi dell’esperienza29 –, la Humphrey non propone i suoi insegnamenti come esercizi decontestualizzati secondo la tradizionale forma di training, che in genere prevede la gradualità delle proposte dalla più semplice alla più complessa, ma lavora su intere sequenze di movimento offerte come sviluppo in parte già formalizzato (design) di un tema coreico. Con questi piccoli «studi» coreografici raggiunge contemporaneamente almeno tre obiettivi fondamentali: comunicare il potenziale coreografico della sua tecnica; sviluppare le qualità del corpo del danzatore; stimolare quest’ultimo all’uso creativo dei principi del movimento. La tecnica di Doris Humphrey, intrinsecamente teatrale e dinamica, dotata di molteplici sfaccettature e possibilità, diviene in breve tempo, accanto al sistema elaborato da Martha Graham, uno dei punti di riferimento imprescindibili per la formazione del danzatore contemporaneo. Conclusioni Appare chiaro, dalla ricognizione compiuta, che la concezione del corpo, che emerge dal pensiero sulla danza dei filosofi-artisti e dalla danza pensante dei danzatori-filosofi di inizio Novecento, è certamente rivoluzionaria e feconda. Quale tipo di esperienza sia la danza e cosa comporti in termini esistenziali, oltre che artistici ed estetici, diviene progressivamente patrimonio comune delle generazioni di danzatori e coreografi degli anni a venire, terreno condiviso per la sperimentazione e l’innovazione dell’arte del corpo in movimento. D’ora in poi la danza dovrà fare i conti con una nuova visione dell’uomo, concepito come una corporeità non più unicamente regolata da strutture biologiche, ma come incarnazione dell’ordine del linguaggio. Tale unità costitutiva di corpo organico e sistema simbolico si sperimenta nella vita affettiva in maniera armonica e nell’arte in modo tensionale30: nel corpo che danza, in particolare, viene a espres-

Colonnello, L’arco tra due epoche cit., p. 68. Cfr. A. Vergote, Il corpo. Pensiero contemporaneo e categorie bibliche, in «Comunicazioni sociali», II, 1980, 3-4, pp. 4-18; V. Melchiorre, La metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, pp. 7-27. 29 30

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sione la comunione di fisico e spirituale che precede la divisione soggetto-oggetto, io-mondo. Nella danza si può forse cogliere l’intenzionalità originaria che dà vita all’espressione linguistica, non come linguaggio verbale strutturato, ma come atto fondativo della comunicazione significante; gesto, movimento primordiale che rompe la tenebra relazionale e il suo silenzio. Nell’azione coreutica riecheggia, insomma, il movimento intenzionale di una coscienza incarnata e si esprime l’essenza emozionale degli oggetti che a essa si rivelano31. Per questa sua radicalità originaria possiamo, con Merleau-Ponty, cominciare a parlare del corpo come di un’opera d’arte: Il nostro corpo non è solamente uno spazio espressivo fra tutti gli altri, [...] è invece l’origine di tutti gli altri, il movimento stesso d’espressione, ciò che proietta all’esterno i significati assegnando a essi un luogo, ciò grazie a cui questi significati si mettono a esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi32. 31 Cfr. E. Bucli, Corporeità e conoscenza. Note sulla posizione della filosofia fenomenologica, in «Comunicazioni sociali», II, 1980, 3-4, pp. 62-79. 32 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, 19803, p. 202 (ed. or., Phénoménologie de la perception, Librarie Gallimard, Paris 1945).

Capitolo quarto

La danza nel secondo Novecento

La storia dello spettacolo del Novecento, su un percorso che ora muove dal teatro verso la danza, ora dalla danza al teatro, mostra il tentativo di ricucire definitivamente, all’interno della cultura occidentale, l’antica ferita che in nome di un’attribuzione assoluta di valore al logos aveva separato nettamente un’arte del corpo, la danza, da un teatro inteso unicamente come arte della messa in scena di un testo drammatico. Il lavoro artistico, ma anche e soprattutto il pensiero estetico di alcuni coreografi del secolo appena trascorso, grandi interpreti del loro tempo che sono andati alla radice della presentazione e della rappresentazione del corpo mettendone in evidenza ora una maggiore, ora una minore vocazione all’«astrattismo», è alla base di una trasformazione del fare danza che coincide, in ultima istanza, con un ritorno alle origini, perché la danza è sempre danza delle origini. Si tratta di autori che hanno cercato di ritrovare una matrice comune alle diverse fenomenologie del movimento1.

1 «Il teatro non comprende tanto la danza come elemento compositivo separato, ma piuttosto come elemento organizzativo interno del suo insieme. Il ‘livello danza del teatro’, ossia l’autosufficienza espressiva del corpo del performer (attore o danzatore o cantante non importa), può essere così portato alla luce come autonomo, per meglio evidenziarne i caratteri e le interazioni profonde», E. Casini Ropa, Premessa, in Alle origini della danza moderna, a cura di E. Casini Ropa, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 8-9. Cfr. U. Volli, Da Aristotele a Pina Bausch, in Id., Per il

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Dopo la danza delle emozioni e degli archetipi collettivi di Martha Graham (che attraversa gran parte del Novecento), il formalismo di Merce Cunningham, la motion dance di Alwin Nikolais e il post-modern dagli anni Sessanta ai Settanta riportano l’accento sulle qualità proprie del movimento, come materia prima della danza. Una più esplicita concezione narrativa ritorna in auge negli anni Ottanta e non solo con l’affermarsi sulla scena internazionale del Tanztheater di Pina Bausch: ciò che in questa fase storica accomuna artisti contemporanei fra loro anche molto diversi e che rende sim-patiche – in senso etimologico – le loro esperienze espressive è, da un lato, il recupero alla danza della sua connaturata narratività, non decorativa e non ancillare; dall’altro, l’uso del corpo non solo come strumento di virtuosismo, ma soprattutto come «organo di senso» e insieme «medium artistico»2. Non è un caso che nella direzione convergente della riconversione degli strumenti della comunicazione teatrale (sacrificio della parola, affidamento della narrazione/micro narrazione all’azione corporea, immediatezza dell’immagine) siano andate anche molte delle esperienze più strettamente teatrali del nostro tempo3. Prima di affrontare da vicino le singole estetiche della danza che maturano soprattutto nel corso della seconda metà del Novecento, è importante indicare come vengano definendosi alcuni aspetti fondanti l’esperienza coreica nella sua connotazione artistica. A partire in particolare dalle elaborazioni teoriche e dalla concretezza della prassi introdotte da Martha Graham con il suo lavoro di interprete e di coreografa, si precisa il concetto di tecnica della danza. Scrive al proposito la madre della modern dance:

politeismo. Esercizi di pluralità dei linguaggi, Feltrinelli, Milano 1992, p. 126: «Una ricerca di questo tipo ha il merito di poter servire a capire quale possa essere la teatralità dentro la danza»; cfr. inoltre, dello stesso Autore, La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 29-38: «L’artificio tecnico è dunque sempre un prezzo dovuto alla sua [della danza] drammaticità, alla sua capacità di suscitare attenzione e interesse su di sé», p. 31. 2 G. Dorfles, Introduzione, in La parola alla danza. Cullberg, Linke, Forsythe, Wilson. Incontri, a cura di M. Guatterini, Ubulibri, Milano 1991, pp. 9-12. Questa volontà narrativa era già presente in bodyartisti come Gina Pane, Marina Abramovicˇ e altri. 3 Ivi, p. 11.

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Le tecniche non sono poi così diverse tra loro come emozione e potenza. E quella potenza si usa tanto nel balletto che nella danza contemporanea. La mia è una tecnica essenziale e non l’ho mai definita la tecnica Martha Graham. Mai. È un modo di fare le cose diversamente da chiunque altro. È un determinato uso del corpo. È libertà del corpo e amore per il corpo. È Amore per il teatro, inteso come mezzo che consente a un danzatore di esprimersi4.

Messa in crisi definitivamente l’egemonia della danse d’école, da un lato si va verso una relativizzazione progressiva della nozione di tecnica, soprattutto dal punto di vista culturale ed estetico; dall’altro si tende ad ancorare le nuove proposte a una serie di principi fisici, biologici e psicologici inerenti il corpo e il movimento, che hanno lo scopo di legittimarle sul piano «scientifico». Una tecnica, in linea generale, può essere definita come l’insieme organico, scientificamente ed esteticamente fondato, di almeno due elementi: in prima istanza un training specifico e originale, che prepara il corpo all’esecuzione di movimenti, finalizzati a ottenere dal corpo stesso certi risultati formali; in secondo luogo un paradigma di azioni fisiche che permette la realizzazione di quei medesimi movimenti. In questa nuova prospettiva di consapevolezza, la forma è il fine estetico da perseguire, la tecnica lo strumento col quale raggiungerlo e il movimento del corpo la materia concreta dell’espressione coreica. Appare evidente che ogni tecnica, al di là delle caratteristiche condivise con tutte le altre – proprio in virtù del comune riferimento fisiologico alla corporeità –, sviluppa sia un’impronta particolare, come segno di un’appartenenza socio-culturale precisa; sia uno stile riconoscibile, come connotato di uno specifico esito formale del movimento. Impronta e stile divengono quindi gli elementi caratterizzanti di un particolare linguaggio coreografico – ma sarebbe meglio parlare, in questo caso, di idioletto –, da intendersi come il conseguente sviluppo di ogni tecnica: l’organizzazione della forma in un repertorio

4 M. Graham, Memorie di sangue. Un’autobiografia, Garzanti, Milano 1982, p. 229 (ed. or., Blood Memory, Doubleday, New York 1991).

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di gesti, azioni e movimenti fra loro combinabili in sequenze dà origine a un sistema di opposizioni (spesso chiamato impropriamente vocabolario), che abbiamo visto essere alla base – secondo una certa prospettiva semiotica – di ogni produzione di senso anche in assenza di un preciso funzionamento codico. Tuttavia lo stile è anche e soprattutto da intendersi come quella particolare interpretazione «fisica» che un danzatore o un coreografo offrono della medesima tecnica: è noto che la modern dance è rappresentata da una pluralità di tecniche, laddove la danza accademica è un’unica tecnica in cui sono possibili molteplici stili. La stabilizzazione di una determinata tecnica e l’utilizzo sistematico della stessa nell’ambito della formazione del danzatore fanno di essa un metodo, altrimenti detto scuola, vale a dire una pedagogia del movimento strutturata in modo più o meno definitivo in fasi di lavoro fra loro concatenate, in strategie di insegnamento, in esercizi graduati nella difficoltà, in strumenti di verifica degli apprendimenti, ecc. Esistono altresì metodi che non si riferiscono a una specifica tecnica – è il caso, ad esempio, di quella che in modo impreciso, appunto, viene chiamata tecnica Nikolais –, o meglio: esistono metodologie della pedagogia del performer, che puntando piuttosto sulle qualità intrinseche del movimento, coniugate con le concrete possibilità esecutive dei danzatori, sono finalizzate a una formazione trasversale, che fa del corpo allenato del ballerino un duttile strumento in grado affrontare molti e diversificati paradigmi coreici. È pertanto indispensabile prendere in considerazione i principali sistemi estetici o coretiche (neologismo che mi piace introdurre, coniandolo sul termine poetiche, per definire le concezioni della danza di un particolare coreuta contemporaneo o di una corrente di pensiero) dei grandi coreografi del secondo Novecento e dei nuovi «movimenti» artistici, che hanno orientato, con le loro tecniche, i metodi e gli stili – o, in qualche caso, con il rifiuto di tecniche, metodi e stili – tutta la prassi coreografica, coreica e coreutica del nostro tempo, rivelando le infinite possibilità di cui il corpo della danza è entrato in possesso nel tempo, proprio a partire dalla sua liberazione.

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4.1. Martha Graham Martha Graham5 è, nella prospettiva di una ipotetica storia della danza universale, una delle artiste in assoluto più note e citate di tutti i tempi. Nata nel 1894 negli Stati Uniti, con la sua opera coreutica e coreografica attraversa quasi un secolo di storia – muore infatti nel 1991, circa un mese prima del suo novantasettesimo compleanno – può essere a buon diritto considerata fra gli esponenti più rappresentativi della cultura del Novecento. In molti anni di attività la Graham è stata danzatrice, coreografa, creatrice di una tecnica nuova di danza, divenuta nel tempo un metodo quasi universale, fondamentale per la formazione del danzatore. Col suo teatro di danza rivoluzionario, composto da circa duecento balletti, per lei elemento in perenne dialettica con la sua tecnica in costante evoluzione, è stata la madre indiscussa di quella che il critico John Martin6 fin dagli anni Trenta definisce la modern dance, espressione che marchia col fuoco il destino culturale di un’intera generazione di artisti. Nonostante l’indiscussa diffusione del metodo Graham nel mondo e l’appartenenza delle sue coreografie più famose all’immaginario collettivo, non si può certo dire che l’ultima parola sul pensiero estetico della madre della danza moderna sia ancora stata scritta. La problematica, riportata alla ribalta giornalistica, in questi anni, dalla vertenza giudiziaria7 che contrappone gli ultimi esponenti della Martha Graham Dance Company a Ronald Protas, stretto collaboratore della Graham dagli anni Sessanta ed erede ufficiale della sua opera coreografica, della compagnia e della scuola, nonché del nome dell’artista, da tempo divenuto una sorta di marchio di qualità sfruttabile in termini commerciali, richiama prepotentemente all’attenzione una serie di questioni irrisolte, come ad esempio la problematica della proprietà intellettuale di una determinata creazione co-

5 Il contributo più recente su Martha Graham è quello di S. Franco, Martha Graham, L’Epos, Palermo 2003, che alle pp. 237-242 pubblica un’aggiornata bibliografia sulla danzatrice americana. 6 J. Martin, La modern dance, a cura di N. Giavotto, Di Giacomo, Roma 1991, pp. 4-7 (ed or., The Modern Dance, A.S. Barnes and Co., New York 1933). 7 Franco, Martha Graham cit., pp. 181-193.

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reografica e di un metodo coreutico legato a un preciso pensiero estetico. La Graham non affidò mai a uno scritto specifico e strutturato la sua coretica, che tuttavia è possibile ricostruire, oltre che con l’analisi della sua opera coreografica, anche attraverso le tracce da lei lasciate nelle interviste, in due testi di carattere prevalentemente teorico, Affirmations 1926-37 e Graham 1937 (pubblicati nella prima monografia a lei dedicata da Merle Armitage8), e nella sua autobiografia Memorie di sangue del 19919. Una fonte da considerare separatamente sono, invece, i numerosi taccuini sui quali la Graham annotò nel corso della vita i suoi percorsi mentali e i processi creativi legati al suo teatro di danza. Solo una parte di essi viene pubblicata nel 1973 col titolo di Notebooks10. L’origine della tecnica di Martha Graham è legata, a detta della stessa coreografa, a una serie di fatti contingenti. Dopo aver studiato nella Denishawn e quasi subito militato nella omonima compagnia dal 1916 al 1923, la Graham si trasferisce a New York per ballare nelle Greenwich Village Follies, una delle più importanti compagnie statunitensi di vaudevilles. Nella grande metropoli comincia a impartire lezioni di danza in modo autonomo e secondo una tecnica originale, poiché non era in grado a quell’epoca di pagare la tassa che era stata stabilita dalla St. Denis per insegnare secondo i dettami dalla Denishawn. L’elaborazione del suo metodo comincia quindi quasi per caso, in seguito a una necessità trasformata in virtù secondo un destino che nella vita dell’artista si ripeterà costantemente. Scrive a proposito di questa casualità creativa in riferimento alle sue prime esperienze pedagogiche: La prima mattina che arrivai in classe pensai «non voglio insegnare nulla di quello che so» [...]. Correggendo quello che risultava falso, cominciai presto a creare. Volevo dei movimenti significativi. Non volevo 8 M. Graham, Affirmations 1926-37 e Graham 1937, in Martha Graham, a cura di M. Armitage, Dance Horizons, New York 1966, rispettivamente alle pp. 96-110 e pp. 83-88 (prima ed., M. Armitage, Los Angeles 1937); Graham 1937 è tradotto in Donna è ballo, a cura di D. Bertozzi, Savelli, Milano 1980, pp. 67-74. 9 Graham, Memorie di sangue cit. 10 The Notebooks of Martha Graham, con una Introduzione di N. Wilson Ross, Brace, Jovanovich, New York, Harcourt, 1973.

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che fossero belli o fluidi. Volevo perdere quella qualità facile. Volevo che fossero pregni di significato interiore, di eccitazione e di slancio. Non volevo che venissero fuori di getto, così mi concentrai in un piccolo spazio. Gradualmente, mentre riuscivo a scacciare il vecchio, delle piccole cose nuove cominciavano a crescere11.

Le novità che la Graham vedeva crescere nel suo lavoro quotidiano con gli allievi non erano altro che lo sviluppo cosciente e sistematico di quella liberazione cui il corpo era stato sottoposto fin dai tempi delle evoluzioni romantiche della Duncan o delle fantasmagorie di luce della Fuller, non dissimili, nella sostanza, dagli esotismi fantastici di Ruth St. Denis. Come i suoi predecessori anche la Graham partiva dalla concretezza della sua corporeità, ma non per dare libero sfogo, attraverso slanci spontaneistici e movimenti non controllati, a sentimenti e passioni, ma per dare vita a un nuovo linguaggio che fosse la messa in forma di una nuova corporeità: L’esponente della danza moderna deve combattere contro due cose. Una è la convinzione che essa significhi semplicemente esprimere se stessi, e l’altra che non necessiti di alcuna tecnica. La danza ha due facce, una è la scienza del movimento, la tecnica che è una fredda scienza esatta e deve essere imparata molto accuratamente, e l’altra è la distorsione di questi principi, l’uso di questa tecnica costretta da un’emozione12.

La danza della Graham scaturiva dai ritmi binari vitali della respirazione, del battito cardiaco, dalla sequenza di contrazione e distensione muscolare. Libera da schematismi e da rigidezze era in grado di visualizzare e di dare espressione alle più profonde spinte emotive dell’essere umano. Si trattava di una danza anti-descrittiva, che metteva al bando la pantomima (ma anche ogni sorta di sentimentalismo romantico) e che era ricondotta alla sua matrice di espressione più sincera della vita.

11 Sono parole della Graham citate in M. Lloyd, Martha Graham, in The Borzoy Book of Modern Dance, Knopf, New York 1949, e tradotte in Franco, Martha Graham cit., p. 35. 12 Graham, Affirmations cit., p. 104, traduzione in Franco, Martha Graham cit., p. 30.

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Qualche volta, quando sono nello studio, rifletto sull’importanza del movimento [...]. Vedo come si comporta il corpo durante la respirazione. Quando si inspira vi è una contrazione (contraction), quando si espira una estensione (release), uno sfogo. Inspirare, espirare, dentro fuori. La mia tecnica si basa sulla respirazione. Ho costruito tutto quello che ho fatto sul pulsare della vita, che per me corrisponde al pulsare del respiro13.

Era una danza che rivoluzionava, dal punto di vista del valore culturale e sociale, l’accostamento di corpo/emozione alla sfera del femminile e mente/ragione alla sfera del maschile, proponendo nuovi percorsi semantici come quelli che mettono in relazione la danza moderna con gli attributi di autenticità e virilità e la danza accademica con i termini effeminato e innaturale. Non è un caso, da questa prospettiva, che il teatro di danza della Graham, almeno fino agli anni Quaranta caratterizzato dalle tematiche di protesta sociale e di ricerca delle radici autenticamente americane della sua arte, sia stato considerato come un motore per la costruzione dell’identità nazionale. Curioso è tuttavia che questo ribaltamento dei valori sociali avvenga a partire da una danza originata proprio da un corpo femminile – vale la pena ricordare che almeno fino al 1938 la compagnia di Martha Graham è composta da sole donne. Il movimento è per la Graham generato dalla zona pelvica ed è strettamente connesso alla struttura anatomica della donna, la quale racchiude in sé il mistero della generazione e della vita. È una danza fortemente sessuata, che non esclude il corpo maschile, ma gli attribuisce un ruolo decisamente secondario, benché complementare. Per molti ero un’eretica. Un’eretica è una donna di cui tutti approfittano, una donna spaventata. Deve battersi continuamente contro i colpi di coloro a cui si oppone. Può essere eretica dal punto di vista religioso o rispetto alle convenzioni sociali, e io sapevo di esserlo. Mi ero posta fuori dal mondo delle donne, non danzavo come le altre, utilizzavo una tecnica che definivo «contrazione ed estensione» (contraction and release), usavo il pavimento, mostravo la fatica, ero a piedi nudi. In molti modi mostravo sul palcoscenico proprio ciò che il pubblico voleva evitare di vedere venendo a teatro14.

13 14

Graham, Memorie di sangue cit., p. 46. Ivi, p. 112.

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All’immagine universale del corpo femminile delle prime coreografie, che sulla scena incarnano l’intera umanità nella sua sofferenza, a partire dal 1938 si sostituisce la dialettica fra i sessi, che inaugura una prassi drammaturgica nuova nel teatro di danza della Graham. La presenza della corporeità maschile, presentata come emblema della virilità, della forza, quando non addirittura del potere soverchiante e della violenza, esalta, per contrasto, la statura delle eroine femminili, mostrate dalla Graham nel momento cruciale della loro vita, che in tal modo assurgono a simbolo dell’intera condizione femminile. L’ideologia del corpo, nella concezione della coreografa americana, evolve da una ricerca dei valori individuali del movimento, inteso in prima istanza come pura elaborazione formale del corpo, alla possibilità di qualificare quello stesso movimento come espressivo, a partire da un corpo, in questo caso, pensato come uno strumento per «oggettivare e rendere visibile quello che tutti noi sentiamo»15. La danza diviene così, nel pensiero della Graham, la messa in forma, contemporaneamente di una voce personale e di una voce collettiva: La cosa più importante, qui come sempre, è l’assoluta unicità dell’individuo; se tale unicità non si realizza qualcosa va perduto [...] l’ineluttabile necessità di esprimersi è tutto [...]. È a questo punto che il flusso della vita raggiunge l’artista e, mentre l’individuo acquista grandezza, quanto vi è di personale si fa sempre meno personale16.

L’influsso dell’ambiente familiare, e in particolare la professione di «alienista» del padre, segnano profondamente il pensiero estetico della Graham, che si è nutrito, negli anni della Denishawn, della vulgata delsartiana, e, in seguito, della forte ventata psicoanalitica di impostazione junghiana che percorre gli Stati Uniti a partire dagli anni Quaranta. «Il movimento non mente mai – afferma nella sua autobiografia. È come un barometro capace di rivelare, a chi lo sa leggere, la temperatura dell’anima»17. Per la Graham ogni storia individuale reca 15 Graham, Affirmations cit., p. 109, traduzione in Franco, Martha Graham cit., p. 103. 16 Graham, Memorie di sangue cit., p. 8. 17 Ibid.

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sempre le tracce della memoria dell’umanità intera e gli stessi ricordi, anche quando sembrano essere quanto di più intimo, personale e unico il soggetto possieda, non sono solo il risultato dell’esperienza vissuta, ma soprattutto il riaffiorare del patrimonio mitopoietico della stirpe umana. Per tutti noi, ma in particolare per un danzatore, data l’intensità con cui percepisce la vita e il proprio corpo, vi è una memoria del sangue che ci parla. Il nostro sangue ci viene dai genitori, e attraverso il loro sangue ci viene quello dei loro genitori e dei genitori dei genitori, e così via, indietro nel tempo. In noi scorre un sangue millenario, con i suoi ricordi. Come spiegare altrimenti quei gesti e pensieri istintivi che ci giungono non preparati né attesi? Forse provengono da qualche remoto ricordo di un’epoca in cui regnava il caos, un tempo in cui, come dice la Bibbia, il mondo non era. Poi come se lentamente si fosse aperta una porta, la luce fu. Rivelò cose meravigliose, rivelò cose terrificanti. Ma luce fu18.

Ogni manifestazione dell’uomo, artistica, scientifica, filosofica, ecc. è pensata dalla Graham come una produzione di simboli, nella selva dei quali ci si addentra per conoscere meglio se stessi e gli altri. Entro tale concezione la danza in quanto arte del corpo, vale a dire del luogo in cui si è stratificato l’orizzonte simbolico archetipico di intere generazioni, è un’arte privilegiata e il suo artista, il danzatore, un eroe che non può sottrarsi all’arduo compito di attraversare, sondandoli, i labirinti della propria psiche, per approdare al cambiamento di sé, alla comprensione del senso della vita e a una comunicazione profonda con lo spettatore, accomunato all’artista dalle strutture simboliche profonde fondamentali e originarie. La danza, infatti, viene dalle profondità della natura dell’uomo, dall’inconscio dove abita la memoria [...] ed è diretta verso l’esperienza dell’uomo, dello spettatore, per risvegliare in lui analogie e ricordi. L’arte è evocazione dell’intima natura dell’uomo. Attraverso l’arte, che trova le sue radici nell’inconscio – nella memoria del nostro genere – è la storia e la psiche del genere umano che viene messa a fuoco19. Ivi, p. 13. Sono parole della Graham citate in Donna è ballo cit., p. 59; cfr. A. Pontremoli, Mito greco e senso del tragico in alcuni momenti della danza del ’900, in «Comunicazioni sociali», XX, 1998, 1, pp. 34-46. 18 19

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Dal dopoguerra il teatro di danza di Martha Graham si incammina sulla strada della rivisitazione del mito proprio a partire da questa nuova concezione del corpo, in particolare con le coreografie generalmente inscritte dalla critica nel così detto ciclo greco20. La Graham si rivolge pertanto a suggestioni letterarie, alla ricerca del personaggio emblematico di una determinata condizione esistenziale o di un particolare stato psicologico. Le figure dell’immaginario biblico, della leggenda, della tradizione storica e, in particolare, della tragedia e del mito greci, proprio perché già note al pubblico, senza che ci sia più la necessità di introdurle con espedienti di linearità narrativa, sono le più adatte a esprimere le motivazioni profonde dell’agire umano, in una sorta di analisi interiore21. Grazie a un corpo che danza amplificando le vibrazioni delle corde del personaggio e lo rende essenziale fino a presentarlo come un modello esemplare, lo spettatore è messo in grado di cogliere l’intimo del danzatore e del suo ruolo drammatico, con il quale può identificarsi proprio perché ne riconosce i tratti di universalità22. I movimenti prodotti dalla tecnica Graham (scatti, asimmetrie, torsioni, sospensioni, opposizioni, spasmi, ecc.), che sono intrinsecamente drammatici, agiscono sullo spettatore come visualizzazioni delle profonde ferite e dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo, preso nel vortice di correnti che lo sospingono da una parte e dall’altra, privandolo di stabilità e ancoraggio. Il corpo, junghianamente inteso come il depositario della memoria della specie, diventa perciò lo strumento privilegiato con il quale coinvolgere il pubblico in un efficace processo catartico. Figlia ribelle del suo e del nostro tempo razionale e scientifico, la Graham mostrò l’insofferenza per un destino di solo progresso e benessere, promesso dall’avvento dell’era tecnologica (non dimentichiamo che la Graham nasce nel 1894 e muore quasi un secolo do20 Con tale denominazione ci si riferisce a una serie di coreografie sui miti dell’antica Grecia che la Graham crea e interpreta come danzatrice dal 1946 al 1967. 21 «I miti sono sempre presenti – mi portano a cercare dentro me stessa l’espressione della passione umana – e io sono giunta del tutto naturalmente a ispirarmi alla loro ammirabile semplicità»; sono parole della Graham riportate nel numero monografico, a lei dedicato, di «Ballet danse. L’Avant scène», 1982, 9, p. 48. 22 «I miti appartengono a tutti i tempi indistintamente, perché l’uomo è sempre lo stesso. In qualsiasi epoca il Bene e il Male si affrontano sempre dentro di lui»; ivi, p. 41.

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po), non volle rinunciare, in qualche modo, alla dimensione trascendente e non accettò la solitudine dell’assurdo. Non le bastò la conoscenza del mondo, intese esplorare l’inconscio e le sue forze apparentemente incontrastabili. Col suo teatro e con la sua danza propose, quindi, un’estrema possibilità di riferimento spirituale per l’uomo moderno, che in essi poteva vedere rispecchiata la propria tensione verso la conoscenza e verso la realizzazione di sé. 4.2. La «modern dance» secondo John Martin e Louis Horst Nel 1933, a ridosso delle esperienze artistiche dei fondatori della danza moderna, il critico di danza del «New York Times», John Martin (1893-1985), pubblica un saggio di grande importanza per la storia della danza e delle sue estetiche, La modern dance, rielaborazione di una serie di conferenze tenute dallo stesso Martin alla New School of Social Research di New York fra il 1931 e il 1932. Il testo, che rappresenta la prima sistematizzazione estetico-critica di tutto il movimento del modern statunitense, è molto importante per la visione globale che offre del fenomeno culturale della danza moderna, del quale non trascura i contemporanei sviluppi europei, conosciuti proprio a partire dal 1931 quando Hanya Holm, allieva e assistente di Mary Wigman, si trasferisce nel nuovo continente per aprire la sede americana della scuola della sua maestra tedesca. Martin dà, anzitutto, una valutazione positiva dell’operato artistico delle pioniere della danza moderna, in particolare di Isadora Duncan e di Ruth St. Denis, che intendevano liberarsi del vocabolario arbitrario e limitante della danza accademica per arrivare al senso senza curarsi delle parole23. Questo senso, a suo parere, viene ricercato, dalle due danzatrici, nella loro personale esperienza: ogni soggetto, pur con tutta la sua umanità e col peso della sua storia particolare, è anche il risultato della sedimentazione di una cultura e può, pertanto, trovare in sé elementi di universalità da tradurre in movimento. Non è un caso che le prime coreografie della danza libera di inizio Novecento, e certamente ancora almeno fino agli anni Quaranta, siano in prevalenza assoli e, soprattutto, assoli di danzatrici. La 23

Martin, La modern dance cit., p. 13.

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danza è una manifestazione originaria dell’umano e sia dal punto di vista antropologico che dal punto di vista storico il disporsi delle sue forme avviene da sempre lungo due assi, molto difficili da ordinare secondo una mai del tutto accertata priorità di antecedenti: da un lato quello dell’esibizione di un singolo danzatore, il così detto assolo, nel quale la creazione coreica coincide, nella maggior parte dei casi, con la dinamica corporea del suo stesso creatore; dall’altro il dispiegarsi del movimento collettivo, sia come sommatoria di singole esibizioni concomitanti, sia come unisono di gesti e azioni concordate nel gruppo o regolate da una autorialità creatrice24. Dal punto di vista storico l’insistenza sulla forma solistica rappresenta l’affermazione di una particolare visione del mondo, incarnata attraverso la proposta di una particolare qualità del movimento propria del corpo femminile, che porta all’attenzione una nuova immagine della donna, non più asservita ai modelli culturali maschili, ma un individuo libero, autonomo, creatore della propria arte e costruttore di una cultura nuova25. L’assolo rappresenta, inoltre, l’enunciazione del principio fondante della danza moderna, secondo il quale ogni uomo (o donna) per il fatto stesso di vivere e di possedere una corporeità è un danzatore. Questa visione individualistica della realizzazione personale dell’uomo è in dialettica, negli stessi anni, con una tensione alla costituzione di una comunità utopica in cui prevalgano i principi della convivenza collettiva, testimoniata in modo lampante dall’esperienza, già ricordata26, di Monte Verità. Portatori di questo pensiero nella danza sono soprattutto uomini, teorici e artisti che abbiamo già incontrato nel nostro excursus, come Jaques-Dalcroze fautore della pedagogia dell’euritmica collettiva, o Laban, grande manovratore di cori in movimento e teorizzatore dell’eucinetica delle masse lavoratrici. 24 Cfr. la sezione Danza Danza Danza Danza!, in «Il castello di Elsinore», XVI, 2003, 47, pp. 5-77, che riporta gli interventi più significativi di due convegni di studio, organizzati al DAMS di Bologna e a quello di Torino, rispettivamente sulle problematiche della forma solistica e di quella corale nella danza del Novecento. In particolare: E. Casini Ropa, Il solo di danza nel XX secolo: tra proposta ideologica e strategia di sopravvivenza, pp. 9-19; A. Pontremoli, L’assolo di danza, ovvero scrivere col corpo il proprio essere al mondo, pp. 21-24; S. Sinisi, In principio era il solo, pp. 33-48. 25 Casini Ropa, Il solo di danza cit., p. 11. 26 Cfr. supra, 3.2.

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Secondo Martin, la danza delle pioniere, che egli definisce romantica, benché rappresenti una svolta significativa nel panorama culturale del Novecento, evidenzia i suoi punti deboli anzitutto nel suo rapporto troppo convenzionale con la musica di cui si avvaleva, e in seconda istanza nell’eclettismo tecnico e stilistico, che spaziava dal passo classico al gesto pantomimico, dalla postura statuaria a pseudo orientalismi di maniera. La modern dance nasce come compimento degli ideali della danza libera e romantica, soprattutto perché riscopre il movimento del corpo come materia prima dell’espressione: il medium cinetico, insomma, inteso come sostanza della danza, necessario per esprimere la dimensione interiore dell’uomo in una precisa forma vitale, laddove, invece, la tecnica accademica usava il movimento come un accidente di passaggio da una posa statica a un’altra, nella costruzione di una forma basata unicamente sul principio della combinazione significante di elementi in sé singolarmente non significanti. Per gli esponenti della modern dance il movimento, che è l’esperienza fisica più elementare della vita umana, è generato da ogni vissuto intellettivo ed emozionale ed è il risultato dell’incontro fra un corpo, come presenza di un soggetto nel mondo, e il senso del mistero. Per questa generazione di danzatori e coreografi il mistero non è più la natura dei primitivi, che atterrisce e spaventa, ma è la mente dell’uomo, con tutte le sue zone d’ombra, le sue pulsioni irrazionali e i suoi vissuti non più adeguatamente esprimibili solo nei termini dei linguaggi tradizionali e convenzionali. Se la danza è, anche nel pensiero di Louis Horst (1884-1964) – altro grande teorico della modern dance –, la possibilità di coniugare la funzione psicologica dell’introspezione con quella cerebrale dell’astrazione (ben sintetizzabile nel mito della macchina27 preconizzato già dalla danza futurista fin dagli anni Dieci28), il movimento subisce un processo di oggettivazione e di formalizzazione allo scopo di «esprimere in forma estetica – sono parole di Horst – i mo-

27 Cfr. M. Franko, Dancing Modernism/Performing Politics, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1995, pp. 42-43. 28 Cfr. S. Sinisi, Spazio figurativo e spazio scenico. La riforma teatrale in Italia: 1915-1930, in Artisti scenografi italiani: 1915-1930, catalogo della mostra, Roma, 13 maggio-14 giugno 1981, De Luca, Roma 1981, pp. 5-22; L. Bentivoglio, Danza e Futurismo in Italia 1913-1933, in «La danza italiana», 1984, 1, pp. 61-82.

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tori, i desideri e le reazioni dell’essere umano»29. Esiste infatti un livello di «astrazione» nel modern (che ha spinto alcuni critici a paragonare la danza di Martha Graham alla pittura degli espressionisti astratti), che agisce per progressiva stilizzazione e alterazione dei movimenti naturali del corpo, astraendo, appunto, dalla situazione particolare del soggetto per comunicare un significato universale. Da questo punto di vista per Horst ciò che conta veramente nell’esperienza artistica è soprattutto la «motivazione», ancora prima del disegno coreografico, della dinamica e del ritmo; motivazione che è in grado di realizzare una forma espressiva a prescindere dall’emozione vissuta dal singolo interprete. A partire da questa apparente riproposizione del dualismo corporeo e della dicotomia contenuto/ forma, nascono tuttavia capolavori realmente modernisti come Lamentation (1930)30 di Martha Graham, assolo in cui la forma, il disegno, la tensione muscolare e la materialità degli elementi coreografici sono scrittura del dolore prima ancora che effetti del dolore sul corpo31, pur coniugati con una espressività del volto che ha tratti inequivocabilmente emotivi32. A mettere in relazione il danzatore con lo spettatore non è più, dunque, solo la condivisione di un codice e dei suoi segni, ma quel meccanismo che Martin definisce simpatia cinetica o metacinesi e che ben spiega l’estetica della ricezione che la modern dance persegue con i suoi esponenti più significativi: 29 L. Horst, Dance Forms in Relation to the Other Modern Arts, Impulse Publications, San Francisco 1961, p. 19. 30 Si tratta di un assolo durante il quale la Graham, avviluppata in un costrittivo costume deformante, si agita su una panca con movimenti angolosi, spasmodici e fortemente drammatici. Scrive, al proposito, la stessa danzatrice nella sua autobiografia: «Lamentation, il mio balletto del 1930, è un assolo in cui indosso un costume che è un lungo, attillato tubo di stoffa, per sottolineare la tragedia che ossessiona il corpo, la sua capacità di tendersi entro i propri limiti per verificare e testimoniare i confini del dolore universale. Ero in camerino, e stavo togliendomi il costume e levandomi il trucco, quando bussarono alla porta. Entrò una donna; era chiaro che aveva pianto molto. Mi disse: ‘Lei non saprà mai cosa ha fatto per me questa sera. Grazie’ [...]. Quello che ho imparato quella notte è che c’è sempre almeno una persona tra il pubblico a cui giunge il nostro messaggio»; Graham, Memorie di sangue cit., p. 116. 31 Franko, Dancing Modernism cit., p. 46. 32 Cfr. R. Mazzaglia, La ricerca dell’effimero. La sperimentazione del Judson Dance Theater, 1962-1964, tesi di dottorato, relatori E. Casini Ropa e J.-M. Pradier, Università degli Studi di Bologna e Université de Paris 8 - Saint-Denis, 2004, p. 71.

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Il movimento è quindi di per se stesso un mezzo per trasferire un messaggio estetico ed emozionale dalla coscienza di un individuo a quella di un altro [...]. Cinesi [o cinetica] è il nome che [i filosofi metafisici] diedero al movimento fisico [...], correlato a questa cinesi, c’è un presunto accompagnamento psichico chiamato metacinesi [o metacinetica], dove la correlazione deriva dalla teoria che il fisico e lo psichico sono manifestazioni di una stessa realtà33.

Per Martin, la danza moderna è la sintesi reale, viva, carnale di questa unità di mente e corpo; è l’esito artistico consapevole della metacinesi, vale a dire della stretta relazione fra movimento, aspetto corporeo, esperienza personale, temperamento, ecc. Ne consegue che non è più possibile una didattica standardizzata, che pretenda da tutti i danzatori l’esecuzione dello stesso identico movimento: «L’insegnamento ideale della danza, quindi – afferma con profetiche parole il critico americano –, è quello che educa l’allievo a scoprire il proprio tipo di movimento»34. La danza moderna non è, infatti, un sistema standard, ma la proposta di molti punti di vista sul movimento, ognuno in qualche modo legittimato dalla ricerca di una verità del gesto e dell’espressione, che hanno la loro fonte nella vita – molto evidente, in questa concezione, appare l’influsso delle teorie e del pensiero di Delsarte – e cercano di dare forma estetica al vissuto personale dell’artista. Per questo, per Martin, la bellezza è l’efficacia della forma, non come qualità dell’oggetto, ma come la sintesi del soggetto che l’osserva e sente soddisfatte in esso tutte le sue esigenze formali. La danza creata da Martha Graham e dai suoi contemporanei sembra rispondere, pertanto, a tutti i requisiti della vera arte del corpo, esperienza estetica della percezione di qualcosa mai percepito prima d’allora, movimento nello spazio e nel tempo che si rivolge a tutti i sensi, ma non soltanto a essi, e li sfrutta come canali per rendere comunicabile una dimensione interiore, grazie a quella che Martin chiama distorsione (dei codici, degli schemi e delle logiche) e che ritiene il motore del funzionamento simbolico e universalizzante dell’azione coreica.

33 34

Martin, La modern dance cit., p. 12. Ivi, pp. 13-14.

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4.3. Merce Cunningham: la danza come «mandala» Merce Cunningham (1919) e John Cage (1912-1992) rappresentano, in qualche modo, sulla scena estetica, quello che Einstein, la fisica quantistica e la nascente informatica con le loro teorie hanno rappresentato in ambito scientifico, anche se per i due artisti i riferimenti teoretici arrivano a posteriori rispetto alla loro originale creatività35. Coreografo e musicista si interrogano anzitutto sui materiali costitutivi delle loro arti e vengono elaborando nel tempo estetiche fra loro complementari, che sono dettate da esigenze culturali profonde, sia in termini di genio personale, sia in termini di risposta artistica ai pressanti cambiamenti in atto nel mondo a partire dal secondo dopoguerra. Cunningham inizia a danzare studiando il tip-tap e si forma in gioventù alla professione attoriale iscrivendosi, nel 1937, alla Cornish School of Performing Art di Seattle, che frequenta fino al 1939. È in questa scuola che incontra il compositore John Cage, con il quale stabilirà quel sodalizio artistico che sarà alla base di una delle più importanti rivoluzioni coreiche del Novecento. In quegli anni frequenta, inoltre, le lezioni di danza dei docenti della Bennington School of Dance, fra i quali insegna anche Martha Graham, la quale – affascinata dal giovane danzatore – lo prenderà presto in compagnia. Tuttavia, non soddisfatto pienamente del modern, Merce Cunningham contemporaneamente si dedica anche all’apprendimento della tecnica classica presso l’American Ballet e coltiva la passione per la coreografia, che troverà la sua prima espressione nei sei «a solo» del 1944 su musica di Cage. Partendo da un evidente rifiuto degli psicologismi della modern dance, all’interno della quale pure aveva ricevuto la sua prima formazione, dal punto di vista tecnico Cunningham si riavvicina alle linee pure e astratte della danse d’école, che a partire dagli anni Trenta George Balanchine – uno degli ultimi coreografi e fra i più geniali dei Balletti Russi –, in corrispondenza del suo trasferimento in America, sviluppa come movimento antiemotivo e antinarrativo, puro dinamismo nello spazio, al di là di ogni motivazione emozionale. 35 Cfr. M. Porzio, Merce Cunningham ovvero danzare sull’acqua, in Merce Cunningham Dance Company, programma di sala, Teatro Regio di Torino, Torino 1999, p. 27.

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Il rifiuto della dimensione interiore come motore drammaturgico e delle emozioni come esito della narrazione porta a concepire la danza come arte del rigore formale, arte dell’astrazione, libera da qualsiasi condizionamento ideologico, senza pretese didascaliche o intenti descrittivi. La terna concettuale attorno alla quale muove tutta la ricerca del coreografo americano, vale a dire spazio, tempo, immobilità, nasce come corrispettivo della speculazione artistico-teorica dell’amico e compagno Cage, che ripensa negli stessi anni gli elementi costitutivi dell’arte musicale: suono, tempo, silenzio36. Spazio e tempo sono per Cunningham un’unica prospettiva, che è compresa appieno solo quando la danza viene a coincidere con l’immobilità: Nella danza, per fortuna lo spazio e il tempo sono inseparabili. Un corpo che rimane fermo occupa esattamente lo stesso spazio e lo stesso tempo di un corpo che si muove. Il risultato è che né l’una né l’altra cosa – muoversi o rimanere fermi – sono più o meno importanti, se non per il piacere di vedere un danzatore in movimento. Ma il movimento si chiarisce meglio se lo spazio e il tempo circostanti si identificano in uno dei suoi opposti – l’immobilità37.

Si tratta di un paradosso che Cunningham utilizza, analogamente a quanto Cage affermava del silenzio, per aprire la prospettiva del movimento verso orizzonti fino a quel momento impensati e non compresi entro l’universo della danza: la danza come spazio-tempo aperto alla vita e al mondo nella sua totalità, in cui «qualsiasi cosa può accadere secondo qualsiasi sequenza di eventi in movimento, e in cui qualsiasi durata temporale può avere luogo nell’immobilità»38: Danzare è una vivace attività umana, che grazie alla sua vera natura è parte di tutti noi, spettatori e performers allo stesso modo. Non è discus-

Ivi, p. 25. Ivi, p. 26. 38 M. Cunningham, Space, Time and Dance, in Merce Cunningham, a cura di R. Kostelanetz, Cappella Books, Pennington (NJ) 1992, p. 39, tradotto in Porzio, Merce Cunningham cit., p. 26. 36 37

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sione di qualcosa, è il fare e il vedere di qualsiasi tipo [...]. Danzare è un immediato e gradevole atto di vita39.

Cunningham intende ripensare la danza, il corpo e la sua relazione con la scena in una prospettiva non comunicativa: la danza non è latrice di messaggi, né può fornire (perché non intende farlo) visioni precise della realtà. Questa matrice dell’evento coreografico non esclude, per Cunningham, che lo spettatore possa avere reazioni, idee e sensazioni. Lo spettatore, non costretto da alcuna prescrittività narrativa o comunicativa, è libero di chiudere il senso di una composizione coreica e di attribuire a essa una autonoma atmosfera emotiva. In questa direzione, la forma del movimento e del corpo è sostanza della danza e mezzo e messaggio vengono a sovrapporsi secondo una ortodossa concezione olistica della corporeità: la natura della danza è data dal processo col quale la materia del corpo viene lavorata e dalla modalità con la quale tale materia è percepita40. Parallelamente, nella nuova arte di Cunningham e Cage, si fa strada una apertura semantica analoga ai combine paintings o ai white paintings dell’amico pittore Robert Rauschenberg, nei quali la struttura è tutto, e tutto può entrarvi: si tratta della riscoperta della dimensione materiale dell’arte che ha come conseguenza un’attenzione alla concretezza del fare artistico, per emarginare il più possibile la dimensione del significato a vantaggio del significante in tutte le sue qualità di per se stesse espressive: «La forma – sono parole di Cage – è il contenuto espressivo, la morfologia della continuità»41. Svincolati da qualsiasi costrizione tematica, Cage e Cunningham si pongono programmaticamente sulle orme di Erik Satie e di Marcel Duchamp, mostrando inoltre una particolare predilezione per la struttura temporale della creazione artistica. Il silenzio, elemento musicale privo delle caratteristiche peculiari del suono, e l’immobilità, come assenza di specifiche qualità del movimento, hanno in comune la durata e si offrono come spazi vuoti da riempire. A partire da questa prospettiva, per minare alla radice ogni presupposto emo39 M. Cunningham, The Impermanent Art, in Merce Cunningham: Fifty Years, a cura di M. Harris, Aperture, New York 1997, pp. 86-87. 40 Non è difficile ravvisare in questa concezione della danza lo slogan mcluhaniano: «il mezzo è il messaggio», poi divenuto «il mezzo è il massaggio». 41 J. Cage, Silence, Wesleyan University Press, Middletown 1961, p. 36.

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tivo al movimento, i due artisti creano separatamente le loro composizioni musicale e coreutica conservando come unico parametro comune la durata, e le assemblano all’ultimo momento, spesso solamente in occasione dell’esecuzione performativa pubblica. Influiscono certamente su questa visione alcuni fermenti presenti nella società nord americana degli anni Cinquanta, come ad esempio una graduale de-occidentalizzazione della cultura, che porta progressivamente a sostituire una logica di tipo teleologico con una sempre maggiore esaltazione della componente effimera dell’arte. Secondo i dettami del buddismo Zen, cui i due artisti si accostano nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, ogni opera, persona od oggetto della realtà sono caratterizzati da unicità, in un fluire continuo di eventi presenti, che è la vita in divenire. L’opera, insomma, è già nel mondo, si tratta solo di lasciare, heideggerianamente, che essa sia. Per tale motivo Cage compone 4’33’’, performance di puro silenzio della durata (appunto) di quattro minuti e trentatré secondi, durante i quali la musica udibile è quella che nell’apparente silenzio esalta la materialità dei suoni e dei rumori della vita. In un universo che, per il pensiero orientale, non è il procedere di eventi concatenati da rapporti di causa/effetto, ma un fluire di hic et nunc e di realtà fra loro interconnesse, tutte ugualmente importanti e centrali, la danza di Cunningham ha lo stesso valore di «galassia di eventi in cui tutto interagisce»42. Le coreografie, infatti, seguono una logica accumulativa che moltiplicando i punti di vista non mira a una riproduzione della realtà, ma a una sua rivelazione per analogia, secondo una chiara estetica dell’immanenza, che mentre svela la vita mostra nel contempo i processi casuali e anarchici di questa stessa operazione di svelamento. Per tali motivi entrambi gli artisti si affidano alle tecniche aleatorie di composizione, che contribuiscono alla oggettivazione del processo creativo. Tuttavia per la danza di Cunningham non può mai darsi una totale assenza dell’io creatore, se non altro per lo spazio decisionale che il coreografo si riserva sempre al momento dello spettacolo, per evitare quegli inconvenienti che derivano dalla presenza

42 Sono parole di Cunningham citate in R. Kostelanetz, Metamorphosis in Modern Dance, in «Dance Scope», V, 1970, 1, p. 12; cfr. Mazzaglia, La ricerca dell’effimero cit., p. 88.

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sulla scena di corpi viventi e concreti. E proprio questa concretezza del corpo è l’esito più evidente dell’estetica di Cunningham, che in parte si differenzia da quella dell’amico Cage: il corpo che danza è inevitabilmente soggetto a un addestramento e quindi all’utilizzo di una tecnica. Per Cunningham, tuttavia, la tecnica non rende il corpo uno strumento dell’espressione, ma è parte integrante dello stesso corpo vivente concepito come luogo della creazione, in se stesso espressivo: «Ogni cosa che un uomo fa è espressiva in qualche modo di quell’uomo»43. Questa espressività intrinseca del corpo è slegata in Cunningham da ogni intenzionalità comunicativa, anche quando il coreografo introduce esplicitamente gesti quotidiani nella sua opera. Laddove sono presenti, tali incursioni nel quotidiano servono a creare un esplicito contrasto con l’azione propriamente danzata – sempre fondata su una tecnica rigorosa di disarticolazione del corpo –, che è l’esito di un montaggio in una drammaturgia di eventi e di azioni simultanee, mai però fra loro associabili in termini di logica tradizionale. La danza di Cunningham è, per usare le parole dello stesso coreografo, come l’acqua: «Tutti sanno cosa sia l’acqua e che cosa sia la danza, tuttavia questa fluidità le rende inafferrabili. Non sto parlando della qualità della danza, ma della sua stessa natura»44. Come un mandala tibetano la danza di Cunningham è un insieme di tracce assai complesse che il danzatore disegna al suo passaggio, ma immediatamente è invitato a cancellare disperdendole nell’oscura immanenza dello spazio-tempo. Il valore e il senso attribuiti al movimento e al corpo dallo sguardo dell’osservatore esterno sono possibili proprio per il carattere di esaustività della forma, che fa sì che ogni cosa sia quello che è, e proprio per questo motivo possa anche essere, simbolicamente, ogni altra cosa: Ogni atto della vita può essere la sua propria storia: passato, presente e futuro, e in questo modo può essere considerato come qualcosa che

43 M. Cunningham, Excerpts from Lecture-Demonstration Given at Ann Halprin’s Dance Deck (13 july 1957), in Merce Cunningham: Fifty Years cit., p. 100. 44 M. Cunningham, Il danzatore e la danza. Colloqui con Jacqueline Lesschaeve, EDT, Torino 1990, p. 11 (ed. or., Le danseur et la danse, Pierre Belfond, Paris 1988).

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rompe le catene che troppo spesso si attorcigliano intorno ai piedi dei danzatori45.

4.4. Spazio, tempo, movimento. Alwin Nikolais e la «motion» Un altro grande padre della coreografia contemporanea occidentale e fautore di una danza come «arte visuale del movimento qualificato (motion)» è Alwin Nikolais46, americano di origini russo-tedesche nato nel 1910 e morto nel 1993. Si forma inizialmente come musicista e solo a partire dal 1933 si accosta alla danza, dopo aver assistito a una performance di Mary Wigman. Influisce, inoltre, sulla sua estetica, la pratica dell’animazione delle marionette fra il 1935 e il 1937, quando assume la direzione del teatro di figura di Hartford. Comincia a studiare danza proprio nel 1937 alla Bennington School of Dance con i maestri della modern dance, fra i quali Martha Graham e Hanya Holm, e dà vita, quasi contemporaneamente, a un’autonoma formazione di ballerini, coi quali realizza le sue prime creazioni coreografiche. Fautore di una danza antipsicologica47, dopo l’incontro con Murray Louis, il suo più prezioso e fedele collaboratore, Nikolais assume la direzione della Henry Street Playhouse di New York, dove mette a punto un sistema didattico molto efficace, ispirato alla sua particolare estetica del movimento, che il coreografo affida a una serie di interventi pubblicati fra il 1938 e il 1985, ma soprattutto a uno scritto inedito in due volumi redatto insieme a Louis dal titolo The Unique Gesture48. La pratica del teatro di figura suggerisce a Nikolais la ricerca della «trascendentalità del movimento» (Transcendance), vale a dire di uno spostamento del corpo nel tempo e nello spazio che risponda alle caratteristiche di assolutezza e trasparenza già preconizzate da Heinrich von Kleist e da Edward Gordon Craig. La marionetta, pri-

Cunningham, The Impermanent Art, cit., p. 86. F. Pedroni, Alwin Nikolais, Prefazione di M. Louis, L’Epos, Palermo 2000. 47 Cfr. F. Pedroni, Drammaturgia dell’astratto: un percorso del ’900 da Alwin Nikolais ai Sosta Palmizi, in Drammaturgia della danza. Percorsi coreografici del secondo Novecento, a cura di A. Pontremoli, Euresis, Milano 1997, pp. 51-73. 48 A. Nikolais e M. Louis, The Unique Gesture, testo inedito; cfr. F. Pedroni, Alwin Nikolais: l’umanista dell’astratto, in Torinodanza. Focus 3. Corpi virtuosi, programma di sala, Torinodanza, Torino 2004, pp. 50-54. 45 46

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va di coinvolgimento emotivo, si muove con una meccanica perfetta, data dall’inevitabile adattamento alla forza di gravità. Ogni gesto è caratterizzato sempre da un diverso baricentro, verso il quale tutte le articolazioni convergono in un continuo spostamento del fuoco e del centro dell’azione cinetica. Nonostante ciò, la forma di tale tipo di movimento non appare altrettanto disarticolata, ma piuttosto di una evidente purezza, in grado di suscitare sensazioni e sentimenti. In contraddizione con i principi della danza libera, Nikolais nega ogni ipostatizzazione di un centro come origine del moto corporeo e ribalta, nel loro nucleo portante, anche le affermazioni dei teorici della modern dance sostenendo che non è l’emozione a generare il movimento, bensì il contrario. Nikolais ribadisce che è la motion a essere fonte di emotion, nella convinzione – che sarà poi importante acquisizione dell’antropologia teatrale – che sia il fare e il come viene fatto a decidere cosa uno esprima49. In questo modo, unicamente in virtù della qualità del movimento il danzatore smette di rappresentare un personaggio, di mettere in scena l’eterno conflitto aneddotico del rapporto maschile/femminile, di rivelare al mondo le verità acquisite, e comincia ad agire sulla scena quella decentralizzazione psichica che gli permette, grazie a una continua metamorfosi, di trasformarsi metaforicamente in qualsiasi essere animato o inanimato. Secondo un procedimento molto simile al metodo mimesico del grande regista e pedagogo italiano Orazio Costa50, che nel proporre una «disumanizzazione» del corpo dell’attore intendeva rivelare nel suo teatro la comunione d’essere che attraversa tutti gli enti che l’attore può incarnare, analogamente Nikolais mutua da Ortega y Gasset una disumanizzazione del danzatore, affinché questi, attraverso l’analisi minuta della qualità del movimento di ogni essere, possa trasformarsi in esso divenendo altro da sé e portare così, nello spazio ristretto della scena, l’universo intero. Danza trascendente, dunque, generata attorno a un nucleo originario, quello della motion, appun49 E. Barba e N. Savarese, L’arte segreta dell’attore, Argo, Lecce 1996, p. 174 (ed. or., The Secret Art of the Performer, Routledge, London-NewYork 1990). 50 Cfr. M. Boggio, Il corpo creativo. La parola e il gesto in Orazio Costa, Bulzoni, Roma 2001; Orazio Costa Giovangigli. Linee di ricerca, a cura di A. Ghiglione e G. Tramontana, numero monografico di «Comunicazioni sociali», XX, 1998, 3.

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to, sorta di forza generatrice, potere pre-espressivo del gesto, unica realtà con la quale il danzatore ha a che fare nell’esercizio della sua arte. A questo proposito Murray Louis sostiene che se è vero che «tutte le creature, umane e non, si muovono [...]; colui che è in grado di applicare il proprio apparato sensitivo alla percezione della motion, che traspare attraverso il suo movimento, costui danza»51. Nel processo creativo Nikolais privilegia la forma «astratta», che ritiene governata dalla necessità della comunicazione e che definisce – come apprendiamo da una intervista del 1950 – «somma matematica delle dinamiche impiegate»52. E le dinamiche di cui si parla sono le caratteristiche fondamentali della motion, ovvero le qualità primarie del gesto che operano sulla coscienza del tempo, sullo spazio e sulla forma. Il «movimento qualificato» è dunque essenza e significato ultimo dell’esperienza coreica e le leggi che lo regolano sono la sostanza della danza come arte nel contempo cinetica e visuale. Dall’estetica della motion Nikolais e Louis sviluppano una pedagogia del danzatore fra le più interessanti del Novecento. Se nel suo insegnamento il coreografo americano trasferisca effettivamente una tecnica di movimento, il dibattito culturale in corso non l’ha ancora stabilito. Quello che però appare assodato, e non solo in ambito storico-critico, ma soprattutto entro l’alveo delle prassi che dall’insegnamento nikolaisiano sono scaturite, è il valore di una metodologia di insegnamento fondato sulla trasmissione non tanto di passi e di sequenze, quanto piuttosto di principi, come base che permetta al danzatore di sviluppare una danza del tutto autonoma e personale. Il corpo di Nikolais è un corpo sezionabile in molte parti, tutte fra loro unite da articolazioni multiple che possono diventare in ogni momento fuoco di un nuovo movimento o di un’azione. I movimenti delle singole parti del corpo o del corpo nella sua totalità, a loro volta possono essere di tre specie: periferici, rotatori, locomotori; e si compiono nella motion in base a scelte spaziali, temporali e dinamiche: Le energie motivazionali del danzatore attivano le energie fisiche che portano il corpo in azione. Egli combina queste energie motivazionali con

M. Louis, Inside Dance, St Martin’s Press, New York 1980, p. 139. Sono parole di Nikolais citate in M. Coleman, On the Teaching of Choreography, in «Dance Observer», dicembre 1959, pp. 148-150. 51 52

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le energie del tempo e dello spazio, con la gravità e con gli altri fenomeni che governano le leggi della motion53.

Un corpo allenato alle qualità del movimento è un corpo che è in grado di danzare secondo tutti gli stili e i «vocabolari» possibili, perché è un corpo tecnico, nel senso che Nikolais dà a questa parola, vale a dire un corpo che possiede «l’insieme dei mezzi usati per giungere al fine desiderato»54. La danza di Alwin Nikolais, generata da un corpo privo di emozione, spersonalizzato, ridotto alle sue caratteristiche fisiche di massa, peso, volume, è un corpo che non racconta nulla, non deve esprimere nulla di soggettivo e di personale, è unicamente motion, qualità e forma del moto corporeo nello spazio. Alla maniera di Oskar Schlemmer, che nel Balletto triadico con voluminosi costumi geometrici e volumetrici faceva muovere i ballerini come automi, Nikolais trasforma i corpi con protesi sceniche abnormi o li dissimula all’interno di strutture plastiche e di stoffe avvolgenti. Autore demiurgo, che tutto controlla, dal gesto alla scenografia, dal costume alla musica, il coreografo russo-americano insegue, sulla scena, il mito di un «neoteatro totale», dove la sottomissione del particolare all’insieme complessivo dell’opera realizza l’ideale della perdita di confini del singolo nell’ampiezza della dimensione universale. Con le sue opere Nikolais dà vita a un teatro dell’illusione e del sogno, caratterizzato da un caleidoscopio di forme colorate e cangianti, che devono soddisfare soprattutto la visione, spesso deformata da strumenti tecnologici. L’eredità di Nikolais è oggi portata avanti da Murray Louis (1926), per tanti anni collaboratore didattico e ballerino della compagnia: le sue particolari doti fisiche insieme all’alta capacità di controllo delle singole parti del corpo e delle diverse fasi di un movimento hanno fatto di questo danzatore l’incarnazione perfetta del metodo della decentralizzazione del movimento. A questo tipo di mimica non mimetica, carica di humour e di leggerezza, si ispira il teatro delle forme ludiche astratte del Pilobolus

53 Nikolais e Louis, The Unique Gesture cit., capitolo dedicato alla Dynamics, riportato in Pedroni, Alwin Nikolais cit., p. 113. 54 Sono parole di Nikolais riportate in Pedroni, Alwin Nikolais cit., p. 117.

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Dance Theatre, un gruppo americano, diretto da Moses Pendleton (1949), che opera negli Stati Uniti e in Europa a partire dagli anni Settanta. Sulla scorta di questo teatro, a metà strada fra la clownerie e la pratica sportiva, Pendleton fonda, negli anni Ottanta, i Momix, formazione originale di danzatori, conosciuta in tutto il mondo, che basa le proprie performances sulla spersonalizzazione del corpo e sulle sue metamorfosi55. Da una costola di Nikolais nasce anche il «teatro della soggettività» di Carolyn Carlson (1947), coreografa americana di origine finlandese che fu una delle ballerine del Nikolais Dance Theatre dal 1964 al 1971. A partire dai primi anni Settanta, la Carlson sperimenta una via personale alla coreografia e al movimento, caratterizzata da un’assoluta valorizzazione della dimensione intima e soggettiva dell’esistenza. Per la Carlson, influenzata dalle filosofie orientali alla ricerca di una dimensione più intima del sé, la vita è in stretta connessione con il mondo dell’arte e il rapporto dell’uomo con l’universo si realizza solo a partire dal soggetto e dalla sua emozionalità. Scrive al proposito: «Non ci sono frontiere tra la coreografia, il fatto di danzare e quello di vivere. Il gesto è bello soltanto se motivato dalla verità interiore»56. 55 Cfr. L. Bentivoglio, La danza contemporanea, Longanesi, Milano 1985, p. 145; M. Pendleton, Salto di gravità. Conversazioni con il creatore dei Momix, a cura di E. Sgarbi e P. Holland, Olivares, Milano 1999. 56 Sono parole della Carlson, riportate in O.J. Lemaître, Carolyn Carlson ou les mystères de l’inspiration, in «Pour la danse», giugno-luglio 1978, p. 16, e tradotte in Pedroni, Drammaturgia dell’astratto cit., p. 68.

Capitolo quinto

Le etichette critiche

Critici e studiosi della danza hanno coniato formule, slogan, etichette con lo scopo di identificare immediatamente un certo filone storico-estetico, una certa scuola o una determinata tecnica. Spesso però queste etichette possono diventare «pericolose», soprattutto quando la parola «cane» comincia a mordere, come ha ben messo in evidenza, con una metafora efficace, Silvana Natoli: La parola «cane» morde (grazie anche ai mass-media), le definizioni contribuiscono a perpetuare i fenomeni, dotandoli di una sorta di forza inerziale. Ma se le categorie interpretative si applicano a identificare una tendenza, la ricerca ne apre altre e altrettanto possibili, deviando [...] dai confini tracciati e liberandosi dal terrorismo del tempo [...]. Pare tenersi pronta al tradimento, sapendo che l’imbroglio è stabilizzare1.

Affrontando dunque il rischio di una eccessiva stabilizzazione di fenomeni ancora in divenire, vale comunque la pena di prendere in considerazione alcune di queste categorie interpretative, per il loro importante valore euristico e descrittivo. Cominciamo col dire che a seconda che davanti all’aggettivo proposto da una determinata etichetta si ponga il termine balletto o il sostantivo danza, il significato dell’espressione varia spesso notevol-

1 S. Natoli, Introduzione, in Tanztheater. Dalla danza espressionista a Pina Bausch, a cura di L. Bentivoglio, Di Giacomo, Roma 1982, p. 14.

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mente. A creare ulteriore scompiglio interviene a volte il vezzo2 della critica di citare l’aggettivo in termini assoluti (il classico, il moderno, il contemporaneo); come si è visto neppure chi scrive si è potuto sottrarre a tale vezzo nel corso della trattazione. Inoltre la stessa etichetta varia di senso se è espressa in una lingua piuttosto che in un’altra: ad esempio, la modern dance non coincide sempre e in tutto con la danza moderna, così come la post-modern dance ha a che fare solo parzialmente con la post-modernità, e via discorrendo. Si cercherà comunque di offrire una panoramica sintetica delle principali categorie interpretative nella consapevolezza della loro precarietà e del loro prevalente valore d’uso. 5.1. La danza classica e il balletto Partiamo da quella che è comunemente ritenuta una categoria acquisita, usata generalmente come pietra di paragone per tutti i fenomeni coreici occidentali, la danza classica. Quando si parla di classico (o di danza accademica) ci si riferisce alla tecnica della danse d’école, stabilizzatasi fra XVIII e XIX secolo con le caratteristiche estetico-grammaticali che ancora oggi possiamo ammirare nell’insegnamento delle scuole della tradizione accademica italiana, francese, russa e anglosassone, e nella ripresa, da parte di compagnie storiche, dei balletti del repertorio. L’ideologia proposta entro questo ambito formale, al di là delle differenze di stile dei diversi esecutori, è ancora quella di un corpo come opera d’arte, espressione delle convenzioni estetiche ed erotiche, non meno che dei rapporti sociali e di potere, dell’Europa dell’Ottocento3. I contenuti di questa ideologia sono riconoscibili soprattutto nella presentazione della figura femminile, fragile, aerea e in equilibrio sempre precario (come ben mette in evidenza l’uso delle punte), contrapposta a una mascolinità di supporto, posta generalmente in secondo piano nelle costruzioni drammaturgiche. Danza dall’espressività tutta concentrata nel movimento delle braccia e nel vol2 Fra i vezzi della critica si può anche annoverare l’uso, ormai generalizzato ma assolutamente scorretto dal punto di vista strettamente grammaticale – sentito invece come politicamente corretto, in virtù di non si sa quale principio –, del cognome di artista femminile non preceduto dall’articolo determinativo che, nella lingua italiana, serve proprio a indicare il genere femminile nei cognomi. 3 Cfr. supra, 1.2.; M. Guatterini, L’Abc del balletto. La storia, i passi, i capolavori, Arnoldo Mondadori, Milano 1998.

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to, per comunicare fondamentalmente una posizione di sottomissione e remissività, di impotenza e di passività, che fanno della danzatrice un oggetto grazioso, un gingillo nelle mani dell’uomo, entro un potere che è prevalentemente concordato al genere maschile e classificato come borghese4. 5.2. La danza moderna In Italia «danza moderna» è un’espressione generica, usata spesso per indicare tutte le tecniche diverse dal classico, ma che in particolare designa, soprattutto nel gergo delle scuole di danza, un insieme di generi sentiti fra loro affini e separati da confini labili, come ad esempio la così detta danza jazz, l’hip-hop, la break-dance, ecc. L’origine di queste fenomenologie è molto antica e si intreccia con la storia particolare dei neri d’America e con le loro forme di espressione musicale e coreica, progressivamente istituzionalizzatesi in seguito all’assunzione di modelli integrati con le manifestazioni artistiche della tradizione occidentale. Forme vernacolari libere e senza particolari regole, manifestazione di una corporeità come espressione di forme di lotta e di liberazione divengono nel tempo pezzi di grande virtuosismo professionale, apprezzati dal vasto pubblico dei minstrel show e del vaudeville – come, ad esempio, la danza delle clacquettes o tip-tap, divulgata presso il grande pubblico cinematografico dalla coppia Fred Astaire e Ginger Rogers – e influenzano, insieme alle musiche che li accompagnano, anche lo sviluppo della danza sociale negli anni Dieci e Venti, quando impazzano fox-trot, shimmy, rag, charleston, black bottom, ecc. Nel momento in cui la tradizione coreica legata alle minoranze etniche o ai gruppi di protesta, nelle loro manifestazioni ormai istituzionalizzate e socialmente integrate, incontra la modern dance, si perfezionano stili e tecniche che divengono il linguaggio proprio di forme di spettacolo molto popolari, come il musical e le sue derivazioni più recenti del balletto televisivo. Personaggi ormai storici come Matt Mattox o il mitico Luigi (Eugene Louis Facciuto, ribattezzato familiarmente Luigi da Gene Kelly) 4 Cfr. M. Pasi, La danza e il balletto. Guida storica dalle origini a Béjart, Ricordi-Giunti Martello, Milano 1983, pp. 63-88; U. Volli, Il corpo della danza. Vent’anni di Oriente Occidente. Oriente Occidente. Incontri internazionali di Rovereto Danza Teatro, Osiride, Rovereto 2001, p. 33.

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fissano processi di apprendimento e tecniche di esecuzione che ancora oggi vengono insegnate accanto ai linguaggi più colti. Le fenomenologie della danza di strada odierna (hip-hop, funky, break, ecc.) cercano di perpetuare l’originario ingrediente di protesta sociale e razziale, che ha dato vita a queste danze, come elemento di coesione «gruppale» nella giungla delle megalopoli post-moderne. Tuttavia, spesso non ci si avvede che le forme con le quali tali manifestazioni apparentemente a carattere locale vengono divulgate e comunicate non sono più solo quelle della condivisione corporea originaria, ma quelle proprie dell’universo mediatico, che costantemente trasforma e riplasma fenomeni di costume in spettacolarizzazione globalizzata e diffusione di omologati modelli di comportamento urbano. In Europa la definizione di danza moderna viene riferita anche a tutto il movimento della danza d’espressione tedesca che precede la Seconda guerra mondiale e, in seguito, a Laban e ai suoi allievi, che operano nel secondo dopoguerra e vengono spesso definiti neoespressionisti. Quando, invece, si parla di balletto moderno5 ci si riferisce a un utilizzo libero della tecnica accademica, più o meno manipolata dal punto di vista estetico ed esecutivo, più o meno contaminata con altri linguaggi e tecniche strutturati, in contesti spettacolari e teatrali attuali. Il riferimento è soprattutto a Béjart e alla sua produzione eclettica, sempre in bilico fra spettacolarità d’evasione e impegno sociale e filosofico. Rientrano, inoltre, sotto questa etichetta anche autori più spesso catalogati come contemporanei (nel senso di appartenenti al filone del balletto contemporaneo): si tratta di un gruppo di coreografi, alcuni dei quali legati alla figura del grande John Cranko, quali John Neumeier6, William Forsythe7 e Mats Ek8, che hanno reinventato il balletto secondo una nuova estetica, minando alla radice le strutture del racconto, per presentare sulla scena situazio5 Cfr. S. Au, Balletto e danza moderna, Skira-Rizzoli, Milano 2003 (ed. or., Ballet and Modern Dance, Thames and Hudson, London 1988, 20022). 6 John Neumeier. Neoclassico e contemporaneo, programma di sala, Fondazione Teatro Massimo, Palermo 2001. 7 Cfr. E. Vaccarino, Altre scene altre danze. Vent’anni di balletto contemporaneo, Einaudi, Torino 1991, pp. 149-157 e pp. 176-207; M. Guatterini, Incontro con William Forsythe. With a Spider Inside (Con un ragno dentro). Riflessioni di un coreografo, in La parola alla danza. Cullberg, Linke, Forsythe, Wilson. Incontri, a cura di M. Guatterini, Ubulibri, Milano 1991, pp. 49-62. 8 A. D’Adamo, Mats Ek, L’Epos, Palermo 2002.

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ni nuove, legate al sentire del tempo, in qualche caso di forte impatto emotivo, in altri di grande rigore formale, ma sempre entro l’alveo di una tecnica del corpo sostanzialmente riconducibile al classico. Per questi è forse più efficace utilizzare la categoria di post-classicismo, coniata da Elisa Vaccarino, in particolare per William Forsythe, fautore di uno stile coreografico basato sulla danse d’école, utilizzata, però, in maniera del tutto nuova e decontestualizzata. Il «vocabolario» di Forsythe è infatti quello del balletto, riprodotto, tuttavia, in termini che potremmo definire unicamente «grammaticali», e teso a mettere in discussione il corpo del danzatore dal punto di vista dell’equilibrio e della percezione. È un procedere stroboscopico e velocissimo, corrispettivo coreico dei principi della dromologia, scienza della velocità, teorizzata da Paul Virilio9, che studia il sistema di relazioni fra politica, territorio e potere, nel contesto di una realtà spazio-temporale come quella odierna, caratterizzata dalla velocità degli spostamenti e delle comunicazioni. L’impatto audio-visuale dei lavori di Forsythe è duro, tagliente, martellante di ritmi sonori e visivi, entro i quali i danzatori percorrono con estrema rapidità uno spazio non gerarchizzato, facendo di ogni parte del loro corpo il perno per l’esecuzione di passi sempre al limite fisico dell’equilibrio. L’attitudine all’accumulo di frammenti non esclude una tensione al racconto, fatto soprattutto di simboli, di citazioni di oggetti, di lacerti di senso, ricomposti in una costruzione coreografica di grande tenuta, nonostante il tratto evidente di incompiutezza, proprio di un artista che rifiuta il feticismo dell’oggetto finito e immutabile. I montaggi degli spettacoli non sono mai definitivi e mantengono l’aura del work in progress, nonostante l’apparenza di meccanismo perfetto. Coreografo di vasta cultura che conosce alla perfezione gli stili di danza più vari e li mescola senza preoccupazioni puriste, Forsythe mette in coreografia le sue riflessioni metalinguistiche sulla danza, evidenziandone tanto i limiti quanto la potenza. È, inoltre, molto sensibile alle nuove tecnologie, delle quali fa uso sia per la formazione dei suoi ballerini, affidata al CD-Rom Improvisation Technology, sia nei suoi spettacoli, come elementi formali e di contenuto10. 9 Cfr. P. Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina, Milano 2000 (ed. or., La bombe informatique, Éditions Galilée, Paris 1998). 10 Cfr. infra, 6.4.3.; E. Vaccarino, La musa dello schermo freddo. Videodanza, computer, robot, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 131-132 e 140-142.

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Oltre ai fenomeni moderni americani e tedeschi esiste, sebbene non da tutti riconosciuta, anche una danza moderna italiana. In principio era... il Futurismo11: nonostante non abbia avuto un grande seguito, la ventata di novità introdotta dalle sue forme artistiche investe anche la danza, che nel Manifesto della danza futurista (1917) viene definita arte dinamica, sintesi fisica di spazio e di tempo. Dopo i Balli plastici di Fortunato Depero del 1918, il mito della marionetta meccanica, mutuato da Gordon Craig, ritorna negli anni Venti con Ballo meccanico e con Anihccam 3000, nel segno della meccanizzazione dell’uomo. Le due pantomime tentano di visualizzare, attraverso il movimento dei mimi e dei danzatori nascosti entro costumi robotici e tubolari, il rumore delle macchine. È ravvisabile, in questi esperimenti, un’analogia con il Costruttivismo, parallelamente teso, in quegli anni, a rinnovare la danza e la costumistica sul modello del culto della macchina. Nella fase epigonale degli anni Trenta l’avanguardia nostrana lancia sulla scena culturale la giovane ballerina Giannina Censi, che, sedicenne, esegue le danze Oppio e Grottesco nel 1930, ballando al ritmo dei versi del comasco Escodamè e del «parolibero» Gioia. Scoperta da Marinetti nel 1931, la Censi viene ingaggiata per realizzare il sogno marinettiano della Danza dell’aviatrice, preconizzata dal fondatore del Futurismo nel già citato manifesto del 1917. Nel novembre del 1931 la Censi si produce nelle aerodanze, sui ritmi paroliberi di Marinetti, che recita A mille metri su Adrianopoli bombardata e Serie di seconde parti di immagini aviatorie. Giannina Censi è portatrice di un linguaggio coreografico teso a tradurre mimeticamente non tanto il movimento esteriore di un aereo in volo, quanto piuttosto, secondo il credo futurista, a riprodurre lo spirito stesso della macchina12. L’esperienza della danza futurista si chiude, sempre nello stesso anno, con la tournée di Simultanina, «divertimento in sedici sintesi» su testo di Filippo Tommaso Marinetti, musiche di Carmine Guarino e scene di Benedetta Cappa, realizzazione scenica dei principi di simultaneità e di sintesi, propri dell’estetica futurista.

11 Giannina Censi. Danzare il Futurismo, catalogo della mostra, a cura di E. Vaccarino, Electa, Milano 1998. 12 Cfr. S. Sinisi, La danza futurista, in La danza moderna. I Fondatori. Seminario 1, a cura di E. Vaccarino, Skira, Milano 1999, pp. 73-89.

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Più o meno negli stessi anni Bella Hutter, di origine russa, divulga in Italia, a partire da Torino, il verbo coreico della danza libera duncaniana, compendiato con la danza d’espressione centro europea di derivazione labaniana e dalcroziana13. In una Torino in grande fermento14, grazie al mecenatismo di Riccardo Gualino e della moglie Cesarina, Bella e la sorella Raja aprono una scuola importante presso il teatrino privato di casa Gualino, mentre il vecchio teatro Scribe, ribattezzato Teatro di Torino, viene ristrutturato e diverrà, durante gli anni dal 1925 al 1935, il crocevia di molti artisti di portata mondiale come i coniugi Sakharov, Kurt Jooss, Mary Wigman. Le due artiste russe usavano la danza per l’educazione delle giovinette della buona società torinese, cercando di infondere nelle fanciulle la gentilezza e l’espressione dei sentimenti, attraverso l’armonia dei movimenti, nel rispetto delle leggi naturali del corpo, così da rendere la danza non solo un valido strumento educativo, ma anche un utile esercizio per il mantenimento della salute fisica. Alla scuola di Bella Hutter si forma Sara Acquarone15 (1914), grande coreografa moderna, operante in modo più continuativo a partire dagli anni Cinquanta, quando fonda il suo Gruppo di Danza di Torino, denominato anche Teatro di Movimento. La Acquarone, riscoperta dalla critica purtroppo solo in anni recenti16, fece della propria formazione eclettica una cifra stilistica rintracciabile in una produzione spettacolare di grande visionarietà e originalità, paragonabile, per alcuni aspetti, al teatro di danza di Alwin Nikolais. Fu, inoltre, fra le prime insegnanti in Italia a maturare la consapevolezza della valenza sociale, terapeutica ed educativa della danza, preconizzando, con anticipo rispetto ai tempi, le concezioni delle attuali artiterapie, fra le quali la danzaterapia occupa un posto non certo marginale. Di questo aspetto Sara Acquarone si occuperà in modo sistematico, soprattutto nella sua prassi di insegnamento, mentre sul versante teo13

V. Doglio e E. Vaccarino, L’Italia in ballo, Di Giacomo, Roma 1993, pp. 36-

37. 14 A. d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino 2000, pp. 196-239. 15 S. Acquarone, Invito alla coreografia, Promolibri, Torino 1991; Doglio e Vaccarino, L’Italia in ballo cit., pp. 23, 108-109. 16 Cfr. S. Pollifrone, Sara Acquarone e la danza moderna in Italia, tesi di laurea, relatore A. Pontremoli, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, A.A. 1998-1999, passim.

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rico tenterà di fissare alcuni punti della sua visione pedagogica in un intervento al Convegno La danza nella formazione della personalità, tenuto il 22 e il 23 marzo del 1969 al Conservatorio Musicale di Piacenza, nel quale sottolinea la concezione dell’individuo come unità vivente di corpo, mente e psiche, elementi della persona che collaborano allo sviluppo completo e armonico della personalità17. Altrettanto importante è la figura di Anna Sagna18 (1928), pittrice, ballerina, coreografa, anch’essa grande maestra della danza moderna italiana, insegnante di più generazioni di danzatori. Negli anni Settanta fonda il gruppo di danza contemporanea intitolato a Bella Hutter e sviluppa una pedagogia del movimento originale, affidata a uno scritto inedito19 di grande interesse, elaborato fra il 1976 e il 1977 con lo storico del teatro Gian Renzo Morteo. Fin dalle prime righe del dattiloscritto vengono tracciate con chiarezza le linee fondamentali di una metodologia di insegnamento che rivela idee di evidente modernità: Il metodo di espressione corporea che proponiamo si prefigge lo scopo di assicurare al movimento il massimo di espressività. Pertanto esso non mira a insegnare figure, bensì a sollecitare processi espressivi: in altre parole esso vuole aiutare a trovare le forze e i movimenti che di volta in volta meglio rispecchiano lo status del soggetto e il discorso che esso intende sviluppare20.

Secondo la Sagna non esiste danza se non come «risultante di un atteggiamento interiore potenziato mediante la concentrazione e

17 S. Acquarone Bertone, La danza come mezzo educativo, in La danza nella formazione della personalità, a cura di D. Rabitti, atti del convegno, Piacenza 22-23 marzo 1969, p. 53; cfr. S. Pollifrone, La danza come pedagogia secondo Sara Acquarone Bertone, in Ai confini della danza, a cura di A. Pontremoli, numero monografico di «Comunicazioni sociali», XXI, 1999, 4, pp. 479-482. 18 Doglio e Vaccarino, L’Italia in ballo cit., p. 75. 19 A. Sagna e G.R. Morteo, Introduzione [alla] analisi dei processi espressivi ricupero dell’io coscienza del corpo analisi del movimento ricupero delle disponibilità mentali ecc., testo inedito dattiloscritto, ora riprodotto in E.A. Zo, Il teatro di danza e il metodo pedagogico di Anna Sagna, tesi di laurea, relatore A. Pontremoli, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, A.A. 2002-2003, pp. 198 e sgg. 20 Sagna e Morteo, Introduzione cit., p. 3 [numerazione del dattiloscritto].

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espresso corporalmente con la fedeltà consentita da un perfetto addestramento tecnico e fisico»21. Solo in tal modo ogni movimento, che è inscindibile dal suo movente, sarà percepito come necessario e non «velleitario». Il metodo pedagogico della Sagna vuole superare nella prassi la contraddizione fra libertà espressiva e apprendimento tecnico, nel tentativo di annullare, o quanto meno di ridurre al minimo, i condizionamenti, che pure sembrano essere inevitabili in ogni insegnamento di tipo strutturato. Attraverso l’improvvisazione guidata da stimoli intende sollecitare un rapporto di verità fra il danzatore e il suo movimento, prevedendo l’accostamento del soggetto alle componenti cinetiche fondamentali di forza, tempo e spazio22. 5.3. La danza contemporanea Al di là di tutti gli equivoci che l’espressione ha provocato dal punto di vista critico, «contemporaneo» è aggettivo concordato più spesso con danza, che non con il sostantivo balletto, per indicare una fase dell’arte del Novecento (storicamente collocabile dal secondo dopoguerra in poi), che ha come spartiacque Merce Cunningham negli Stati Uniti e il Tanztheater in Europa. Il termine teatrodanza è la traduzione del tedesco Tanztheater, forma storica di spettacolo fatta conoscere in Italia dalla coreografa e danzatrice Pina Bausch23 (1940), che rappresenta una fra le rivelazioni artistiche più geniali degli anni Settanta e Ottanta. Nonostante sia stato eccessivamente inflazionato e spesso usato a sproposito, Ibid. Zo, Il teatro di danza cit., p. 38. Sugli stessi principi del movimento, che sono poi quelli della speculazione labaniana, imposta tutta la sua opera pedagogica, artistica e coreosofica anche Aurel Milloss (1906-1988), coreografo di origine ungherese naturalizzato italiano, che nel secondo dopoguerra risolleva le sorti del balletto italiano lavorando presso i più importanti teatri e centri di produzione coreografica della penisola; cfr. P. Veroli, Milloss. Un maestro della coreografia tra espressionismo e classicità, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1996. I principali scritti teorici di Milloss sono pubblicati ora in A. Milloss, Coreosofia. Scritti sulla danza, a cura di S. Tomassini, Olschki, Firenze 2002. 23 L. Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, Ubulibri, Milano 1985, 19912; Pina Bausch. Teatro dell’esperienza, danza della vita, atti del convegno, a cura di E. Vaccarino, Costa & Nolan, 1993; Sulle tracce di Pina Bausch, a cura di F. Quadri, Ubulibri, Milano 2002, pp. 79-156. 21 22

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teatrodanza è un neologismo efficace, che ha subito in poco tempo una curiosa oscillazione ortografica: in tempi meno recenti è stato considerato come una parola composta dai termini «teatro» e «danza», fra i quali compariva originariamente un distintivo trattino; la facilità con cui oggi viene scritto per intero rivela l’acquisizione quasi universale della sua valenza di categoria interpretativa di una serie di fenomeni all’interno dello spettacolo coreografico della seconda metà del Novecento. Il Tanztheater24 è, prima ancora che un’etichetta critica, un fenomeno storico preciso, circoscrivibile a un’area geografica e culturale determinata. Il motivo per cui esso sia poi divenuto un paradigma estetico e sia stato esteso ad altre realtà è legato alla forza degli slogan lanciati dagli addetti ai lavori sui mass-media, slogan che acquistano col tempo una risonanza tale da non poter più essere poi facilmente scalzabili, almeno dal repertorio delle categorie stereotipate del senso comune, entro cui entrano di diritto come elementari strumenti conoscitivi. Bisogna risalire alla Germania dei primi anni del Novecento, a prima cioè del secondo conflitto mondiale, quando si verifica quella drastica cesura che fortunatamente non interrompe il flusso di creatività artistica del XX secolo. Le radici di Pina Bausch affondano nel fertile terreno della Ausdruckstanz (danza d’espressione), sviluppatasi negli anni Venti e Trenta nel clima dei fermenti di rivolta artistica giovanile (Jugendstil) e delle avanguardie storiche. Il teatrodanza tedesco degli anni Settanta muove proprio da questo retroterra, senza lasciarsi, tuttavia, ingabbiare dalla definizione di neoespressionismo, vivendo in osmosi col clima culturale di generale ridefinizione dei linguaggi artistici proprio della nuova Germania e vincendo con le sue forme decisamente rivoluzionarie il conformismo degli anni Cinquanta, durante i quali la stessa cultura tedesca rifiuta l’antica pretesa dei padri della danza libera di creare una nuova koinè coreica e insegue modelli europei o d’oltreoceano. Se i temi del Tanztheater degli anni Settanta e Ottanta sono ancora espressionisti (investitura simbolica della materia; rivolta del-

24 S. Schlicher, L’avventura del Tanz Theater. Storia, spettacoli, protagonisti, Costa & Nolan, Genova 1989, pp. 3-37 (ed. or., TanzTheater, Rowohlt Taschenbuch, Reinbeck bei Hamburg 1987); Tanztheater. Dalla danza espressionista cit.

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l’individuo; denuncia sociale contro il mondo ostile; disagio esistenziale, ecc.), i modi e le forme sono quelli del nuovo teatro: delle avanguardie statunitensi, dell’happening, del Living Theater, del teatro laboratorio di Grotowski, delle nuove frontiere percettive di Bob Wilson e di Meredith Monk. Ciò che fa dunque del Tanztheater qualcosa di evidentemente dirompente sulla scena degli anni Ottanta è anzitutto la riscoperta del linguaggio del corpo, ma anche la ripresa dell’antico mito dell’arte totale, la riaffermazione del teatro come del luogo dello spettacolo/accadimento, all’interno del quale non esistono più confini di genere. Mettere in gioco il corpo, in termini di ripensamento esistenziale e antropologico, libera il teatro dalle delimitazioni delle diverse tradizioni culturali e si pone come un superamento degli steccati25. C’è teatrodanza se sulla scena viene posto questo corpo pregnante che, nel suo dispiegarsi come un «geometrale», come il «punto zero» di una prospettiva continuamente trascesa nell’incessante moto della trasgressione conoscitiva, manifesta la sua ambiguità in rapporto all’essere che mentre viene attestato, contemporaneamente è nascosto. Questa ambiguità costitutiva è propria del simbolo, che mentre mostra un senso primario è a un tempo portatore di un significato più profondo e, in ultima analisi, è parola dell’Essere26. Negli Stati Uniti il post-Cunningham è rappresentato dalla corrente fortemente innovativa della post-modern dance27, fenomeno di ripensamento globale del medium danza, della figura del coreografo e del danzatore, nonché momento di rifondazione di un’estetica della contemporaneità, adeguata ai grandi mutamenti degli anni che vanno dal 1960 alla fine degli anni Settanta. Il termine post-modern dance viene introdotto dalla performer Yvonne Rainer per definire l’esperienza artistica della generazione di danzatori posteriore alla modern dance e per distinguere il lavoro Cfr. R. Tian, Editoriale, in «Teatro in Europa», 1990, 7, p. 7. Cfr. supra, 2.4. 27 D. McDonagh, The Rise and Fall and Rise of Modern Dance, A Cappella Books, Chicago 1970, 19902, pp. 33 e sgg.; S. Banes, Tersicore in scarpe da tennis. La postmodern dance, Ephemeria, Macerata 1993 (ed. or., Terpsichore in Sneakers [1977], Wesleyan University Press, Middletown, Connecticut, 19874); R. Mazzaglia, La ricerca dell’effimero. La sperimentazione del Judson Dance Theater, 1962-1964, tesi di dottorato, relatori E. Casini Ropa e J.-M. Pradier, Università degli Studi di Bologna e Université de Paris 8 - Saint-Denis, 2004, pp. 15-99. 25 26

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dei coreografi che operavano all’interno della Judson Church, lo spazio laboratoriale di Washington Square a New York, dalle altre manifestazioni coreiche contemporanee. I componenti del gruppo, fra i quali Simone Forti, Steve Paxton, la stessa Yvonne Rainer, Trisha Brown, David Gordon, Deborah Hay, nel 1962 si raccolgono intorno al compositore e allievo di John Cage, Robert Dunn, all’interno di un laboratorio da lui organizzato nello studio di Merce Cunningham. Questa prima fase della post-modern dance è una delle stagioni più fertili e innovative della storia della danza contemporanea: il collettivo di coreografi che assume il nome di Judson Dance Theater produce circa duecento danze in più o meno di una ventina di «concerti». Nel corso dei due anni del laboratorio vengono proposte molteplici esperienze artistiche ed estetiche che fanno del Judson Dance Theater un continuum di sperimentazioni artistiche piuttosto che un movimento esteticamente coerente. L’attività creativa è collettiva e la fruizione dei processi e dei prodotti avviene all’interno di una comunità eterogenea di artisti, che nel medesimo spazio del Village newyorkese condivide quel particolare momento storico. I principi che regolano il lavoro di questi coreografi sono legati ai fermenti avanguardistici contemporanei, che mettendo in discussione tutti i canoni tradizionali propongono l’arte come una possibilità offerta a tutti i soggetti indistintamente, nella prospettiva della più totale libertà espressiva. Le caratteristiche rivoluzionarie delle performances dei danzatori post-modern spingono all’esplorazione di luoghi alternativi al teatro: in questi anni, la danza esce all’aperto, occupa le strade delle città, usa alberi e grattacieli come base d’appoggio e invade le gallerie d’arte, che ormai accolgono anche forme artistiche dall’oggetto effimero, come la Pop Art o la Body Art. La danza che si sperimenta, basata sulla dialettica fra totale indeterminazione e improvvisazione guidata, viene affidata a esecutori che «mettono in scena» un corpo idealizzato come naturale e rilassato. Abbiamo visto, tuttavia, che un corpo che danza non può mai essere totalmente privo di tensione: essere in situazione di danza significa porre il corpo in una condizione di inevitabile preparazione, se non altro intesa come disciplina che predispone all’ascolto, all’attenzione e alla prontezza di risposta agli stimoli interiori ed esteriori dell’agire performativo. Ogni gesto e azione fisica diventano oggetto di analisi e vengono riproposti nella nuova dimensione di 117

movimenti coreici minimi, soggetti a scomposizione e a ricomposizione, nella costante trasparenza del processo creativo, spesso mostrato e banalizzato nel suo farsi durante la performance – come accade, ad esempio, nelle task dances in cui le istruzioni coreografiche sono enunciate al momento della messa in scena e spesso determinate con meccanismi di generazione casuale che mettono lo spettatore nella condizione, assai benefica per l’arte tutta, di una continua sorpresa percettiva. Afferma Simone Forti a proposito di questi procedimenti di lavoro: Io penso che questa generazione si sia realmente tenuta distante dall’espressione del sé, ma poiché non c’era differenza fra il sé e il movimento, esso si rivelava comunque. È come quando vai nell’oceano e l’onda ti afferra, e tu vai su e giù con l’acqua. Non stiamo esprimendo come sarebbe se fossimo nell’oceano, si è nell’oceano e basta. Così, non è il tuo sé che è messo in evidenza dal movimento, tu ti stai solo muovendo, ma allo stesso tempo, il tuo sé nella totalità è coinvolto nel movimento, tu stai vivendo quel momento28.

Con un approccio che agli inizi è soprattutto estetico e formale, e solo a partire dalla metà degli anni Sessanta anche ideologico e politicizzato, i componenti del Judson Theater portano alle estreme conseguenze l’«anything goes» di Cage, che neppure Cunningham aveva condiviso nella sua totalità: non potendo rinunciare, nella sua coreografia, a un minimo di potere di controllo sul prodotto estetico finale. Il riportare il fuoco dell’attenzione compositiva sull’esperienza come «embodied experience» colma la distanza fra soggetto e medium artistico e origina una danza come dialogo del danzatore col proprio corpo. In tal modo non si ha più un corpo virtuosistico, secondo la vecchia concezione, ma un corpo allenato nella conoscenza di sé, in grado di agire sulla scena secondo il metodo dell’improvvisazione in cui azione e reazione coesistono. La danza, dunque, diviene il luogo privilegiato della liberazione del corpo dall’alienazione che esso subisce in una società regolata unicamente dalla competizione economica: dall’estetica all’ideologia il passo è breve. Fra 28 Simone Forti: intervista, 6 ottobre 2002, in Mazzaglia, La ricerca dell’effimero cit., p. 265.

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la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, l’attenzione si concentra infatti sui temi politici: sono gli anni del femminismo, del pacifismo, della rivolta studentesca e dell’emancipazione delle minoranze. I sempre più numerosi gruppi ricorrono massicciamente al teatro per esprimere le proprie idee e per proporsi sullo scenario sociale. La performance si trasferisce sulle strade, dove spesso si confonde col corteo di protesta, per generare un coinvolgimento diretto del pubblico, fisicamente inglobato nell’azione scenica. Gli spettacoli diventano più «didascalici», come ad esempio alcuni lavori della Rainer e di Paxton fra il 1968 e il 1971, e affrontano tematiche scottanti come la guerra, la censura, le responsabilità civili, la liberazione sessuale. Nascono nuovi collettivi di sperimentazione, come l’importante The Grand Union, nel quale confluiscono, oltre ad alcuni esponenti del Judson Dance Theater, anche il gruppo femminista Natural History of American Dancer e il Contact Improvisation Group di Steve Paxton, che faceva dello studio sull’improvvisazione gestuale, la caduta e il contatto fisico una filosofia di vita, uno strumento per l’esplorazione della comunicazione e della percezione anche con forti implicazioni sociali e terapeutiche. In questi anni, gli esperimenti performativi degli anni Sessanta vengono rivisti alla luce delle nuove acquisizioni e ripresi in modo analitico da esponenti vecchi e nuovi della post-modern dance: poiché le principali questioni riguardanti lo statuto della danza sono ormai state poste e le tematiche in gran parte sviscerate, si tratta ora di portare alla luce uno stile più riconoscibile. Nei lavori creati a partire dal 1973 si possono, infatti, individuare motivi ricorrenti, come la ripetizione, la negazione, la geometrizzazione, il confronto e il contrasto, l’attenzione scrupolosa per ogni minimo movimento del corpo. Si prosegue, tuttavia, nell’opera di ridefinizione del medium, mettendo soprattutto in evidenza la struttura coreografica delle rappresentazioni e ponendo attenzione sempre al movimento in sé contro ogni forma di teatralizzazione della danza: No allo spettacolo no al virtuosismo no alle trasformazioni sia della magia sia della finzione no al glamour e alla trascendenza dell’immagine stellare no all’eroico o all’anti-eroico no all’immaginario trash no al coinvolgimento di performer e spettatore no allo stile no al kitsch no alla seduzione dello spettatore attraverso l’uso da parte del performer dei mez119

zucci del mestiere no all’eccentricità, no al commuovere o all’essere commossi29.

5.4. Le nuove danze Come dimostrano ormai quasi trent’anni di critica, la categoria del teatrodanza è stata estesa a molti fenomeni sia a partire dalla danza sia a partire dal teatro, spesso in modo improprio e affrettato. Per questo motivo, nel corso degli anni Novanta si sono fatte strada distinzioni e doverose precisazioni che hanno portato gli studiosi a definire meglio questo passepartout interpretativo. Ad esempio è stata introdotta molto efficacemente la nozione di danza d’autore30 per rendere ragione di una nuova tendenza coreografica contemporanea presente in molti paesi europei. Questa espressione descrive infatti un nuovo territorio della danza in cui autori molto diversi fra loro nella cifra stilistica rigettano parimenti il codice classico e quello del modern proponendo una originale costruzione di segni che è il portato di una nuova estetica della danza, spesso sintesi e rielaborazione di molte delle tendenze che l’hanno preceduta. Secondo tale definizione il teatrodanza è sempre danza d’autore, non necessariamente il contrario. In molti paesi europei si è cominciato a parlare di nuove danze, fenomeni sviluppatisi soprattutto fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, spesso neppure legati a una tradizione nazionale. I numerosi gruppi che costituiscono il panorama della danza contemporanea europea sono delle filiazioni più o meno dirette dei grandi nomi del teatrodanza centro europeo o del formalismo d’oltreoceano. Quando questa dipendenza non si verifica ci troviamo di fronte purtroppo a una forma di danza ibrida che, nonostante gli intenti programmatici innovativi, spesso non riesce ad abbandonare schemi e moduli tradizionali. Se l’esperienza è invece più originale, come nel caso della compagnia Sosta Palmizi (nata dopo la formazio-

29

Y. Rainer, Work 1961-1973, New York University Press, New York 1974,

p. 51. 30

L. Bentivoglio, Teatrodanza, in «Teatro in Europa», 1990, 7, pp. 18-30.

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ne di alcuni ballerini italiani con Carolyn Carlson, durante la sua collaborazione col Teatro Malibran e La Fenice di Venezia dal 1980 al 1984), paradossalmente il passaggio attraverso una tradizione che non appartiene al gruppo dà origine a un’espressione nuova e personale, in grado di rivitalizzare la cifra «espressiva» propria della cultura europea. Il contenuto ineffabile della modern e della postmodern dance diventa qui un «vissuto» verbalizzabile, ben amalgamato a una forma che, valendosi dell’apporto di tecniche gestuali diverse e di un’elaborazione collettiva della coreografia, mostra ancora in atto la ricerca di un principio unificante. Per queste nuove numerose esperienze europee è arduo tentare una sintesi delle molteplici tendenze, spesso siglate da espliciti richiami all’olimpo della danza contemporanea, tuttavia si possono abbozzare delle conclusioni provvisorie. Le nuove danze sembrano collocarsi, sul piano formale, nel punto di intersezione fra la corrente americana e la tradizione neo-espressionista. Il «danzautore» crea infatti non a partire da un corpo astratto dalle illimitate potenzialità, né avvertendo questo corpo come strumento docile unicamente al proprio inconscio. Il suo movimento nasce da una realistica constatazione dei limiti e delle possibilità di un corpo situato e concreto. Se da un lato ciò rende originale la ricerca, dall’altro la lega strettamente al proprio autore rischiando di trasformarsi talvolta in un linguaggio concluso e autoreferenziale. Tre sono le linee estetiche su cui poter collocare le esperienze delle nuove danze europee. In prima istanza assistiamo a un esplicito ritorno ai valori propri della coreografia, che rivendica alla danza una completa autonomia. In questo caso predomina una costruzione formale del movimento, privato degli orpelli della macchineria teatrale, nuovo linguaggio che non vuole avere debiti con nessun’altra modalità espressiva che non sia la propria. Ne sono autorevoli esempi il formalismo sciamanico di Virgilio Sieni31 in Italia, il lirismo analitico di Angelin Preljocaj32 in Francia, il minimalismo

31 Cfr. Anatomia della fiaba. Virgilio Sieni tra teatro e danza, a cura di A. Nanni, Ubulibri, Milano 2002. 32 J. Bollack, I. Kadaré e B. Paulino-Neto, Angelin Preljocaj, Armand Colin, Bagnolet 1992.

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filomusicale del periodo post-teatrodanza di Anne Teresa De Keersmaeker33 in Belgio. Una seconda tendenza mostra che il luogo e il tempo di molti eventi coreici coincidono oggi con quelli del teatro, apparentemente adeguandosi a esso nel tentativo di trovare un proprio pubblico e un proprio spazio di esistenza, ma in realtà mettendo in discussione dall’interno, con rinnovata vitalità, questo modello costituito, come accade con la prima ventata della Nouvelle danse34 francese, che ha un carattere fortemente teatrale (Régine Chopinot, Jean-Claude Gallotta, François Verret). La terza via è quella di un teatrodanza «povero», in cui l’attoredanzatore non si fa mediatore di un contenuto estraneo, ma recupera all’interno di se stesso dimensioni che gli sono proprie e si impongono nel contempo come universali. Il vissuto personale torna a vivere nel corpo danzante, si storicizza e viene riconosciuto dalla collettività come vero in sé in quanto originario. Si giunge a queste realizzazioni coreografiche attraverso il metodo dell’improvvisazione e un duro e costante lavoro da parte di ciascun danzatore. Il risultato è una forma di espressione pre-verbale, un nuovo teatro in cui anche la parola è vissuta per il suo valore gestuale non puramente sonoro. Questa prospettiva estetica si traduce in un «teatrodanza» caratterizzato da forti istanze di rinnovamento. È il caso, in Italia, del corpo esistenziale di Raffaella Giordano o del corpo neo-narrativo di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni; dell’ironia metafisica di Giorgio Rossi o delle trasgressioni hard di Enzo Cosimi35; in Inghilterra delle ossessioni gender dei DV8; in Francia del sensualismo neo-barocco di Karine Saporta36 o del beckettismo di Josef Nadj37; in Belgio della «crudeltà» poetica di Alain Platel.

33 A. Senatore, Il teatro di danza di Anne Teresa De Keersmaeker: pluralità dei linguaggi e minima eloquentia, in Ai confini della danza cit., pp. 421-453. 34 M.L. Buzzi, La nuova danza francese: contaminazioni e ritorno, in Ai confini della danza cit., pp. 454-477. 35 S. Tomassini, Enzo Cosimi, Zona, Arezzo 2002. 36 H. Cixous, D. Dobbels e B. Reynaud, Karine Saporta, Armand Colin, Bagnolet 1990. 37 Buzzi, La nuova danza francese cit., pp. 460-461; M. Bloedé, Josef Nadj: topografia di un immaginario, in Torinodanza. Focus 2. Omaggio a Nadj, programma di sala, Torinodanza, Torino 2003, pp. 7-19.

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5.5. Le estetiche della transizione La danza come arte della nostra più recente contemporaneità vive un profondo disagio: manifestazione storicamente elitaria dalle molteplici facce, si trova oggi in una condizione che potremmo collocare sull’asse di una duplice schizofrenia di estremismi. Da un lato l’entusiasmo con la rivalutazione, da parte di un certo mondo giovanile, delle sue forme più facili ed edonistiche; dall’altro la disillusione con la rinuncia, da parte degli artisti e degli operatori, alle sue possibilità di comunicazione. Le strade che si profilano all’orizzonte, a partire da questo primo livello di polarità, sembrano rendere esponenziali le dicotomie: o la nostalgia estetizzante di una forma coreica come il balletto classico, che ormai sta assumendo sempre di più i tratti di un reperto museale, o l’ermetica chiusura delle nuove generazioni di coreografi della danza contemporanea che si ritagliano pubblici molto circoscritti e settoriali. A partire dall’osservatorio sociale, soprattutto se si pone attenzione alla moda del ballo nelle sue valenze più propriamente comunitarie, la domanda di danza come espressione singolare del proprio corpo e della propria personalità, o come manifestazione di appartenenza a un gruppo determinato da specifica identità, è ingente e crescente. La ritualità della discoteca, ad esempio, vive oggi un rinnovato e massivo ritorno dopo il boom degli anni Ottanta. In altri ambiti sociali, parallelamente, i più eterogenei gruppi di aggregazione gestiscono, per un pubblico sempre più vasto, un’offerta di corsi che va dalla danza popolare alla danza storica, dalla danzaterapia al ballo da sala, favoriti dalla localizzazione del territorio e dalla rivalutazione dei piccoli centri, esito, tra l’altro, del progressivo decentramento culturale. La drammaturgia coreica occidentale, inoltre, in questi anni fra la fine dello scorso millennio e l’inizio dell’attuale, rivela un particolare interesse per la dimensione del sacro, che rifluisce, soprattutto in termini di ispirazione tematica, all’interno delle produzioni artistiche di alcuni coreografi. Si tratta, con molta probabilità, di un fenomeno analogo a quello verificatosi fra XIX e XX secolo, quando i pionieri della danza moderna, sia negli Stati Uniti sia in Europa, cercarono, nel recupero della religiosità naturale e del mito, una risposta alla domanda di senso che si riaffacciava prepotentemente nell’arte dei tempi nuovi. 123

La sfida che viene lanciata alla danza è, pertanto, grande e impegnativa: le si chiede di ritrovare la propria vocazione originaria di evento sociale, rituale, sacro; di ripercorrere, anche nell’ambito delle proprie manifestazioni artistiche, la strada della riaffermazione, sul piano corporeo, della centralità del soggetto umano, proprio nel momento in cui il pensiero, anche e soprattutto sul piano filosofico, si attesta su istanze deboliste. Per comprendere la danza di oggi è necessario avventurarsi in un territorio di confine, esplorando quella zona di frontiera dove Tersicore sembra perdere i suoi tratti distintivi e la sua identità. Questa impresa acquista senso in particolare in un tempo e in una cultura che hanno di nuovo posto al centro, anche se a volte in una prospettiva negativa, la corporeità umana, spesso per frantumarla, per negarne la centralità trascendentale di coscienza incarnata, per umiliarne la necessità e l’ineliminabilità come «geometrale conoscitivo», percettivo, unica effettiva possibilità di essere al mondo come persone. Negli ultimi anni i protagonisti della scena coreica contemporanea hanno, infatti, cercato di porre in luce le caratteristiche della propria arte a partire da una messa in questione del suo statuto e del suo linguaggio. La danza deve essere sorpresa, insomma, laddove vengono negate le sue peculiarità, dove, costretta a fare i conti con la sua vocazione, deve rifondarsi e rigenerarsi dalle sue stesse ceneri, quando proprio magari il recupero di un tratto originario, che sembrava obliterato, la illumina nella sua essenza. Gli studiosi e la critica sono pertanto chiamati a ridefinire il campo della disciplina e a rivederne senza pregiudizi o anacronistici ancoraggi i canoni estetici, pure così ampiamente messi in discussione già nel corso del Novecento. Tutto continua a cambiare, persino gli stessi luoghi che ospitano la danza sono l’esito di un magma artistico che non intende ancora, o forse non intende più, farsi assoggettare dalle definizioni38. Su questa china è fin troppo facile annunciare l’avvento di un’era della non-danza: ciò che si offre oggi agli occhi degli spettatori è la forza performativa di un corpo che rifiuta ogni tipo di regola, a ec-

38 Cfr. G. Cristoforetti, Al cuore della danza, in Torinodanza 2003-2004, Torinodanza, Torino 2003, pp. 7-11.

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cezione di quelle imposte talvolta da un intellettualismo talmente esasperato da rasentare il manierismo39. È tramontata l’epoca in cui la danza era l’elemento sovvertitore che attraversava le arti performative e i linguaggi nati da vecchie e nuove tecnologie mediatiche, sorta di catalizzatore di tutte le reazioni alchemiche dell’arte. Oggi la danza stenta a trovare una propria dimensione e sembra desiderare un nuovo azzeramento per ricominciare proprio da dove, come vedremo meglio nell’ultimo capitolo, è stata messa in crisi nella sua identità. Il corpo della transizione ha abbandonato ogni forma di virtuosismo coreografico, per collocarsi alla periferia del teatro, in una zona d’ombra e in una condizione meno assertiva. È un corpo che vuole ridisegnare i propri confini sulla scena e all’interno della rappresentazione. Una nuova generazione di iconoclasti si fa avanti con il rifiuto dell’ordine e dell’insegnamento, mentre la quotidianità entra in punta di piedi dentro il prodotto coreografico, ma non come ai tempi della post-modern dance, quando si aveva ancora bisogno di un esito tutto sommato «artistico»: il mondo reale è ora presentato, più che messo in scena, con le sue sbavature, la sua insensata complessità, le mediocrità, le brutture, le sue diversità e opacità. Si tratta dello stesso mondo in cui è immerso lo spettatore e di un corpo danzante che 39 Molto eloquente, da questo punto di vista, è stata la vetrina di Torinodanza 2003, rassegna storica riorganizzata, a partire dalla direzione artistica di Gigi Cristoforetti, per fuochi di attenzione tematica: il Focus 1, intitolato appunto Danze indisciplinate, ha presentato esperienze al limite delle poetiche considerate tradizionalmente accettabili nell’ambito della coreografia. Interessante, inoltre, constatare come il termine ‘indisciplinato’, lanciato inizialmente come provocazione, stia assumendo il valore di etichetta critica. Presentando il volume-catalogo, che documenta il lavoro di un gruppo di artisti ospitati al Link di Bologna nel 2001 in una rassegna di danza contemporanea organizzata da Xing, scrive la curatrice Silvia Fanti: «Nuovi equilibri si disegnano anche all’interno di questo libro, nella sua concezione e nelle prospettive che indica aldilà dello specifico campo della coreografia. È un libro dal contenuto indisciplinato, che può aprire squarci verso altri ambiti (la musica, le arti visive, il comportamento, e uscendo dalla creazione, l’antropologia...) e che corrisponde a un modo diverso di fare critica, nostro, e di molti dei protagonisti del libro. Non si tratta solo di programmare, dare ‘forma viva’, ma anche di ‘leggere’, con categorie miste e altrettanto indisciplinate i fenomeni in una fluidità che impedisce di fissare per sempre le categorie, le abitudini, le forme e i linguaggi» (i corsivi sono miei); S. Fanti, Introduzione, in Corpo sottile. Uno sguardo sulla nuova coreografia europea, a cura di S. Fanti/Xing, Ubulibri, Milano 2003, p. 10.

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ha talvolta le stesse caratteristiche di non virtuosismo e di non tecnicismo. Il corpo odierno, anticipato negli anni fra gli Ottanta e i Novanta da artisti come Bob Wilson40, Jan Fabre41, da gruppi come la Fura Dels Baus, la Societas Raffaello Sanzio, è il corpo che oggi «nondanza» sulle scene caotiche ma di grande poesia di Alain Platel; oppure è il corpo immobile e orizzontale di Myriam Gourfink; è il nudo griffato di Jérôme Bel, il corpo critico dell’ironia in opera dei Kinkaleri o quello destabilizzato degli MK; è la metamorfosi in «battiscopa» di Xavier Le Roy, così commentata dallo stesso coreografo: Il corpo umano non è un sistema stabile o un’organizzazione centralizzata né a livello biologico né storico, psicologico o culturale. Qualunque immagine del corpo è un processo continuo di produzione e trasformazione. A partire da queste considerazioni, una prospettiva di lavoro nel campo della danza potrebbe essere quella di cambiare l’organizzazione predeterminata del corpo per modificare la forma della performance e della rappresentazione. Io sono alla ricerca delle modalità che esplorino la presentazione del corpo umano e non umano in un processo di trasformazione e mediazione. Questa ricerca si basa sull’idea del corpo come multicentrico, capace di essere tutti e nessuno, restando all’interno delle diverse forme in cui appare42.

L’orizzonte della danza sembra oggi decisamente difficile da individuare: confini sempre più labili non ci permettono ulteriori tentativi di definizione per rendere ragione dell’esistente molteplice. Il corpo è, una volta di più, una topografia mobile, un universo ancora tutto da indagare, e in questa fase di inarrestabili trasformazioni sembra acquisire un senso quando viene aggettivato in qualche modo.

40 M. Guatterini, Incontro con Robert Wilson, 17 marzo 1989. Lo spazio della mente, in La parola alla danza cit., pp. 63-79. 41 E. Hrvåtin, Jan Fabre. La discipline du chaos, le chaos de la discipline, Armand Colin, Bagnolet 1994; Jan Fabre. Arti & insetti & teatri, a cura di G. Celant, Costa & Nolan, Genova 1994; E. Hrvåtin, Ripetizione, follia, disciplina. L’opera teatrale di Jan Fabre, Infinto Ltd, Torino 2001 (ed. or., Ponavljane, Norost, Disciplina: celostna umetnina Fabre, E. Hrvåtin, Den Haag 1993). 42 X. Le Roy, Un prodotto delle circostanze, in Corpo sottile cit., p. 78; cfr. E. Grosz, Volatile Bodies: Towards a Corporeal Feminism, Allen & Unwin, St. Leonards (NSW, Australia) 1994.

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Capitolo sesto

Videodanza, danza digitale, «environment dance»

La danza – come abbiamo avuto modo di constatare ampiamente – è l’arte del movimento formale del corpo nello spazio e nel tempo. Proprio per queste sue caratteristiche particolari è stata, storicamente, un’interlocutrice privilegiata per le tecnologie della visione: il cinema prima, la televisione poi, i media informatici oggi si sono messi quasi naturalmente in relazione con le peculiarità costitutive della danza, che sono il dinamismo, la velocità, il ritmo. L’immagine, infatti, fra i fattori strutturali della cultura contemporanea, rappresenta uno dei veicoli privilegiati per la comunicazione e in particolare per quella del corpo danzante1. 1 La nostra abitudine a relazionarci con l’immagine e a utilizzarla nella comunicazione e nella ricezione quotidiana di messaggi è tale che neppure più ci accorgiamo di quanto essa sia invasiva e pervada ogni spazio della nostra esistenza (televisione, cinema, Internet, pubblicità urbana, telefonini di nuova generazione, ecc.). Tuttavia, a parziale attenuazione dell’affermazione, quasi apodittica, della prevalenza dell’immagine nella nostra cultura panmediatica vale la pena prendere in considerazione alcuni fenomeni propri della comunicazione del nostro tempo. L’interattività informatica in tempo reale, ad esempio (chat-rooms su canali IRC, MUD, posta elettronica), riporta paradossalmente in primo piano la priorità della scrittura nella nostra civiltà come momento imprescindibile di quello che McLuhan aveva preconizzato come il superamento della mediazione spazio-temporale nella comunicazione, per un nuovo senso della comunità. Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967 (ed. or., Understanding Media. The Extensions of Man, McGraw-Hill Book Co., New York 1964); C. Bernardi, Salvare il corpo, in Id., Corpus hominis. Riti di violenza, teatri di pace, Euresis, Milano 1996, pp. 131-135; F. Carlini, Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione in

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All’interno dello stesso universo mass-mediatico, parlare di danza in video (più precisamente di videodanza) e di danza digitale significa fare riferimento a ordini di cose differenti, disposte – tra l’altro anche in termini cronologici – a partire dal fenomeno più storico, la videodanza, a quelli più attuali: l’ambiente coreografico interattivo, la web-dance, l’interfaccia-mondo2 della realtà virtuale. Il video di danza, come prodotto chiuso, come testo audiovisivo esperibile e decodificabile attraverso la visione e l’ascolto, permessi dai normali e più tradizionali mezzi di riproduzione (videoregistratore, lettore Dvd, ecc.), ripropone una fruizione di tipo frontale e passivo, per certi aspetti in apparenza della stessa natura dell’arte coreica tradizionale, in realtà assai distante dalla presa diretta sul mondo. Quando la danza è parte integrante dell’ambiente di un evento performativo, nel quale interagiscono immagini video, realtà virtuale, suoni sintetizzati, rielaborazioni digitali del movimento, in differita o in tempo reale, ci troviamo all’interno di un’esperienza percettiva, che mette in gioco più direttamente la corporeità: se non quella del performer, almeno quella di uno spettatore certamente più attivo, che in tali contesti ambientali diviene a sua volta protagonista di un’azione ed è parte in causa e motore del processo artistico e creativo. Al di là del ritorno del corpo percettivo del fruitore nell’esperienza dell’environment, è importante sottolineare alcune conseguenze teoriche di questo percorso storico della danza. Se la videodanza, infatti, ha proposto, e continua a proporre, una nuova creatività nell’ambito della ricerca coreografica, il computer ha contribuito a una ulteriore smaterializzazione della danza e del danzatore. Nel primo caso si coglie ancora la presenza, per quanto differita nel passato, di un corpo sottoposto a ripresa ed eventualmente a post-produzione deformante, ma pur sempre di una corporeità reale transcodificata nell’informazione audiovisiva; nel caso, invece, di una danza frutto unicamente di un processo digitale di simulazione (come nel caso del-

rete, Einaudi, Torino 1999, pp. 27-45; A. Roversi, Chat line, Il Mulino, Bologna 2001. 2 Cfr. E. Quinz, Interface-world. Mutazioni della scena: dal testo all’ambiente, in La scena digitale. Nuovi media per la danza, a cura di A. Menicacci ed E. Quinz, Marsilio, Venezia 2001, pp. 330-334.

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la web-dance3, ad esempio), la presenza diviene virtuale e il corpo non è più quello di un essere al mondo esistenzialmente situato, di una realtà biografica e biologica identificabile e incontrabile: nella migliore delle ipotesi, quello che lo spettatore intercetta è un insieme proteiforme di sistemi e protesi, che possono ricondurre a un centro intenzionale, portatore di senso, solo se, «attaccata» a queste protesi, si trova una corporeità vivente4. In una tale situazione in continua mutazione, la danza partecipa del mutamento in atto, proprio attraverso il contatto, spesso molto creativo e stimolante, con le nuove tecnologie. Parallelamente alla nascita di nuovi prodotti della visione o della partecipazione ambientale, esistono delle ibridazioni di linguaggi5. Assistiamo a una riorganizzazione del sensorio dell’uomo e della sua percezione del mondo, che permette la fruizione di questi stessi nuovi prodotti linguistici in una continua ridefinizione delle convenzioni comunicative e percettive e dei confini fra realtà, virtualità ed esperienza6. Danza e video hanno, dunque, storicamente instaurato un rapporto prevedibile e inevitabile: l’arte del corpo in movimento nello spazio e nel tempo, come tale, fin dalle origini del cinema, è oggetto privilegiato dello sguardo della macchina da presa e, a partire dall’invenzione della televisione, anche dell’obiettivo della telecamera. Sul versante della produzione coreografica e della sua conservazione, gli artisti hanno cominciato a capire che gli strumenti più adatti per la persistenza nel tempo delle loro effimere evolu-

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R. Lord, I nomi di una rosa... i come e i perché di ‘Web Dances’, ivi, pp. 237-

345. 4 Vale la pena ricordare che Stelarc, cyber-artista del corpo tecnologico, ribalta la concezione mcluhaniana della tecnologia come protesi dell’uomo, affermando che è il corpo a rappresentare per la tecnologia la possibilità di un’estensione biologica; cfr. Stelarc, Da strategie psicologiche a cyberstrategie: prostetica, robotica ed esistenza remota, in Il corpo tecnologico. L’influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, a cura di P.L. Capucci, Baskerville, Bologna 1994, pp. 61-76; Id., L’Involontario, l’Alieno e l’Automatizzato: coreografie per corpi, robot e fantasmi, in La scena digitale cit., pp. 261-270. 5 Cfr. A. Ferraro e G. Montagano, La scena immateriale, in La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, a cura di A. Ferraro e G. Montagano, Costa & Nolan, Genova 1994, pp. 9-34. 6 Cfr. D. de Kerckhove, Remapping sensoriale nella realtà virtuale e nelle altre tecnologie cibernetiche, in Il corpo tecnologico cit., pp. 45-60.

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zioni performative, e per la divulgazione delle stesse come oggetto d’arte, erano proprio il cinema, la televisione e il video. Televisione e video non sono, tuttavia, lo stesso medium. La prima è un flusso di informazioni continuo ed eterogeneo, una sorta di contenitore che non è certo indifferente al suo contenuto, ma inglobandolo lo rimodella nei termini della produzione di un discorso. Non tutti i formati video sono ugualmente adatti alla trasmissione televisiva, proprio perché la chiusura di senso dei prodotti dell’industria culturale (sia quelli di provenienza «indipendente» – e quindi connotati da una etichetta marcatamente artistica – che quelli finalizzati al mercato) dipende anche da un certo tipo di fruizione rispetto a un altro. La «lettura» di un video di danza nel contesto di una proiezione domestica (con l’uso personale dei mezzi di riproduzione) è certamente diversa da quella della programmazione televisiva entro un determinato network: nel primo caso il prodotto è consumato nella consapevolezza dei punti di vista sulla realtà e delle visioni del mondo che esso mette in gioco, nel secondo le regole aziendali e politiche della committenza, cui i messaggi fanno riferimento, sono dissimulate dall’apparente pluralità ed eterogeneità del flusso informativo, sempre presentato come autorevole e oggettivo, in realtà per nulla ingenuo e neutrale7. È interessante, pertanto, cercare di individuare le caratteristiche dei prodotti risultanti dall’incontro fra danza e televisione e fra danza e video. Si tratta di incontri diversi, come abbiamo accennato, in quanto il mezzo non si è limitato, nel corso del tempo, a essere uno strumento di diffusione e di amplificazione, ma è diventato per la danza un elemento a essa strettamente connesso secondo varie modalità. 6.1. Danza e televisione Cosa accade quando il medium televisivo incontra la danza? Se la danza è il luogo di concorso di molteplici sistemi di significazione, che realizzano il fine della loro vicenda comunicativa nella «messa in scena» di fronte a un gruppo di recettori, la specificità dell’evento spettacolare sta dunque proprio nella sua «messa in sce7

Cfr. G. Bettetini, Scritture di massa, Rusconi, Milano 1981, pp. 25-29.

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na»8. La fruizione dal vivo e la fruizione televisiva sono perciò molto diverse. La situazione performativa è un accadimento ritagliato nello spazio e nel tempo, crea una nuova unità di spazio e di tempo e implica un atto volontario; la danza alla televisione, invece, non ha alcuna caratteristica di evento e si contestualizza in un flusso continuo di immagini e di informazioni, talvolta anche contemporanee, grazie alle tecnologie che permettono di vedere più trasmissioni nello stesso momento. Tale tipo di fruizione è feriale (lo spettatore è nella sua poltrona a casa sua), perché pone l’atto della visione sul piano di tutte le altre azioni quotidiane. Mentre il pubblico live può intervenire con una risposta implicita o esplicita a quanto vede rappresentato, provocando una modificazione sul palcoscenico, analogamente a quanto accade nella comunicazione interpersonale; nel caso della televisione il flusso comunicativo è inalterabile dallo spettatore sia dal punto di vista del tempo che della significazione. Tanto la televisione quanto il teatro di danza sono processi produttivi di senso che si estrinsecano in testi comunicativi, tuttavia quando la TV media un testo coreografico produce un nuovo testo, diverso da quello di partenza. Non esiste l’innocenza tecnica e la ripresa modifica inevitabilmente il testo spettacolare. Nell’incontro i due mezzi non risultano più distinti e perdono la loro identità9. Tuttavia è possibile costruire un rapporto reciprocamente rispettoso fra televisione e danza10. Quando la prima svolge attività infor-

8 Cfr. G. Bettetini, Produzione del senso e messa in scena, Bompiani, Milano 1975, pp. 103-108 e 111-129. 9 Ogni testo (audiovisivo, letterario, di messa in scena teatrale) contiene un progetto conversazionale, che mette in gioco il simulacro del soggetto dell’enunciazione e la protesi simbolica dello spettatore e orienta quest’ultimo nella fruizione del testo stesso (cfr. G. Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi dell’enunciazione filmica e televisiva, Bompiani, Milano 1984). Si può quindi paragonare il problema della trasposizione televisiva o la ripresa documentaria di un evento coreico (si esclude, per ovvi motivi, il prodotto originale di videodanza) a quello della traduzione. Tenendo presente che siamo di fronte al passaggio da un sistema pluricodico a un altro sistema pluricodico, andrebbe verificato se è possibile conservare o per lo meno approssimare il progetto conversazionale del testo di partenza. Quando riprende la danza o il teatro, la televisione compie inevitabilmente, nei confronti di questi ultimi, un’operazione di modifica spesso radicale. 10 P. La Rocca e A. Pontremoli, Dal rito al video: la danza in televisione, in Sipario! 2. Sinergie videoteatrali e rifondazione drammaturgica, a cura di A. Cascetta, Rai/VQPT-Nuova Eri, Roma 1991, pp. 199-203.

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mativa e di diffusione culturale nei confronti della seconda, anche con la messa in onda di opere di videodanza, la relazione fra i due media diventa proficua, nonostante i codici del teatro e della danza siano difficili ed elitari. In questo caso la televisione parla di danza, senza rinunciare alle proprie caratteristiche. In Italia, l’esempio più significativo, da questo punto di vista, è quello di Maratona d’estate, storico programma ideato e condotto da Vittoria Ottolenghi, nato nel 1978 e proseguito con numerose edizioni fino agli anni Novanta11. Altrettanto noto è il caso della televisione del Regno Unito che ha avuto un ruolo fondamentale nei confronti della danza (britannica e non solo), al servizio della quale svolge ormai da molti anni un’opera capillare di divulgazione, documentazione, informazione ed educazione del gusto. Quando l’incontro fra apparato televisivo e arte della danza rimane entro gli obiettivi testé indicati produce una tipologia che si dispone lungo l’asse del tempo. Possiamo parlare anzitutto di videomemoria, vale a dire della possibilità che il mezzo televisivo ha di documentare e conservare gli eventi importanti della danza, mantenendo in vita, anche per le generazioni future, le tracce di alcuni particolari momenti creativi. In secondo luogo, se dal passato passiamo al presente, incontriamo un tipo di ripresa televisiva gergalmente definita in diretta, che media la realtà di un particolare evento coreico in tempo reale. Il flusso discorsivo e significante è, in questo caso, originato nel momento stesso della messa in onda e si costruisce progressivamente attraverso le scelte della regia televisiva. Quando la diretta viene integrata con riprese particolari, montate a completamento del materiale originale, per realizzare correzioni e sistemazioni di errori causati dall’imponderabilità della diretta, l’esito è un prodotto che pensa al futuro, che ipotizza una fruizione differita dei suoi contenuti e viene quindi strutturandosi, per le scelte post-produttive, come un’opera alquanto vicina alla videodanza. 6.2. La videodanza La parola videodanza, introdotta per la prima volta negli Stati Uniti negli anni Settanta, definisce oggi un preciso genere di produzione 11 Cfr. V. Ottolenghi, Danza e televisione, in Il balletto nel Novecento, ERI, Torino 1983, pp. 189-226.

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artistica, un’opera audiovisiva a sé stante, entro la quale vengono presentati dei materiali coreografici, creati esplicitamente per il mezzo video o già esistenti e riadattati per la ripresa. Si tratta di un lavoro sull’immagine a partire dalla danza o, reciprocamente, di un lavoro sulla coreografia a partire dalle peculiarità del mezzo che lavora sull’immagine12. La videodanza13, in quanto prodotto originale che mette in sce14 na , fra gli altri elementi, anche la danza, porta la riflessione e l’analisi in un ambito di ricerca del tutto particolare, che presuppone strumenti critico-teorici molto diversi da quelli utilizzabili generalmente solo in ambito teatrale, e ciò soprattutto, come abbiamo visto, per il fatto che la fruizione audiovisiva è virtuale e feriale, di contro a quella teatrale, festiva e dal vivo15. Il danzatore e il suo movimento, fissati sulla banda magnetica o masterizzati nelle informazioni digitali di un CD-Rom o Dvd, sono riproducibili all’infinito. L’immagine virtuale, fruibile su uno schermo, è un’ombra che rinvia a una persona viva16, a una corporeità della quale è il riflesso, la traccia lasciata dal suo passaggio davanti alle videocamere. E questa traccia, pur nel suo inevitabile quanto ovvio tradimento dell’esperienza live, costituisce una fondamentale alternativa al destino di morte e di oblio che attraversa ogni performance del corpo in situazione di rappresentazione. 12 La maggior parte delle informazioni di questo paragrafo sono tratte dal fondamentale volume di E. Vaccarino, La musa dello schermo freddo. Videodanza, computer, robot, Costa & Nolan, Genova 1996. 13 Elisa Vaccarino afferma che la videodanza «ricrea liberamente, a uso del mezzo e delle sue peculiarità linguistiche di scarsa definizione, di appiattimento della tridimensionalità, di freddezza emotiva, di discontinuità ritmica, di temporalizzazione dello spazio, di pseudo-racconto, di simulazione, una coreografia o l’habitat, il retroterra espressivo e gestuale, che l’ha ispirata»; E. Vaccarino, Video e danza, in La nuova scena elettronica. Il video e la ricerca teatrale in Italia, a cura di A. Balzola e F. Prono, Rosenberg & Sellier, Torino 1994, p. 235. Il testo più recente sull’argomento è il già citato Vaccarino, La musa dello schermo cit., nel quale l’Autrice parla della videodanza come di «un’arte corporale-tecnologica [...] tipica di quell’ibridazione di scienza, arte, vita, che siamo soliti definire postmoderna, ma che sarebbe ora di considerare soltanto come ‘naturalmente’ contemporanea», p. 7. 14 Sul concetto di «messa in scena», cfr. Bettetini, Produzione del senso cit., pp. 109-111. 15 Cfr. Sipario! 1. Storia e modelli del teatro televisivo in Italia, a cura di G. Bettetini, RAI VQPT/ERI, Roma 1989; Sipario! 2. cit., passim. 16 R. Alonge, Prefazione, in La nuova scena elettronica cit., pp. 7-10.

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È importante, tuttavia, ricordare che, se per lo studioso dello spettacolo le analisi di un video teatrale o di un prodotto di videodanza, di un testo drammaturgico o di un documento storico possono essere poste sullo stesso piano ed essere quindi considerate, senza priorità di valore o gerarchie preconcette, dei monumenti di valenza testimoniale – per quanto frammentari o mutili –, lo stesso non può dirsi per la fruizione diretta dell’arte, che ha a che fare con la conoscenza esperienziale17. Le grandi illusioni della persistenza e della realtà, non dimentichiamolo, non sono date solo dalle nuove tecnologie, ma rimangono un residuo ineliminabile della ricerca storica tout court, legata strutturalmente alla dimensione della possibilità. Non si dà, infatti, reale conoscenza, se non in presenza di quell’orizzonte ultimo della coscienza che è la corporeità vivente, esperiente e in relazione18. Se la danza è comunque un evento teatrale, anche quando lascia traccia di sé in un testo scritto o audiovisivo, non può essere certo detta accadimento persistente o arte durevole da porre sullo stesso piano, ad esempio, dell’icona pittorica. Vale inoltre la pena aggiungere, a quest’ultimo proposito, che anche l’arte figurativa del Novecento si è progressivamente avviata sulla strada della comunicazione effimera, divenendo, in molte sue manifestazioni – quali la Body Art, la Land Art, la performance artistica, ecc. – cancellazione di residui permanenti, evento godibile solo all’atto del suo accadere19. Nell’analizzare e valutare un prodotto di videodanza, non è importante porsi il problema del medium, vale a dire domandarsi se nella videodanza la danza sia un messaggio e il video il mezzo; e, ancora, se cambiando il medium cambi anche il messaggio. Se è vero 17 Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1982; V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 35-45 (ed. or., From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, Performing Art Journal Publications, New York 1982). 18 Cfr. supra, 2.3. 19 Cfr. M. Di Giovanni, Il corpo nel linguaggio artistico. Rassegna di esperienze della “Body Art”, in «Comunicazioni sociali», II, 1980, 3-4, pp. 148-163; T. Macrì, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della performance, Costa & Nolan, Genova 1996; F. Alfano Miglietti (FAM), Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa & Nolan, Genova 1997. Nelle forme più estreme di contaminazione corporeo-tecnologica la persistenza assume il macabro aspetto della conservazione del materiale organico risultante dallo sconciamento volontario del corpo dell’artista.

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l’adagio mcluhaniano che il mezzo è il messaggio, la danza in video non è un contenuto, ma è parte integrante di una nuova testualità, un elemento costitutivo di un nuovo linguaggio. È certamente vero, invece, che l’avvento di una comunicazione mediale avanzata, nella quale l’audiovisivo è al centro degli scambi comunicativi (per non parlare oggi dell’invasione della sfera della percezione corporea personale da parte delle tecnologie), ha influenzato enormemente la modalità di concepire anche la performance coreica dal vivo. I parametri della velocità, del ritmo convulso e della simultaneità, propri delle estetiche del videoclip o di certo cinema contemporaneo sono divenuti elementi stilistici anche della danza del nostro tempo, come testimoniano i lavori di William Forsythe, Enzo Cosimi, Molissa Fenley, Karole Armitage e di altri. La videodanza, che può essere considerata una forma particolare della videoarte, nasce verso la fine degli anni Settanta come possibilità di produzione creativa individuale, attiva e democratica, contro la fruizione passiva della comunicazione di massa e contro il tipo di produzione dirigistica propria dei grandi network radio-televisivi. Nel corso degli anni, una sempre maggior diffusione degli strumenti tecnici per la creazione di video personali incrementa l’uso libero, immediato e non manipolabile da terzi della videocamera. La sostituzione più recente della tecnologia analogica con quella digitale, sia del suono che dell’immagine, ha allargato enormemente le possibilità di intervento artistico sulla ripresa video e sulla post-produzione, spesso integrate con la computer graphic e con le tecniche avanzate di animazione e simulazione. L’opera simbolo, che può a ragione essere considerata il manifesto della videodanza, è Merce by Merce by Paik di Nam June Paik e Merce Cunningham del 1978, nella quale vengono composti artisticamente elementi di una coreografia espressamente creata per la telecamera insieme ad altri materiali video anche preesistenti. L’uso di alcuni espedienti tipicamente videografici, come l’incrostazione, lo sdoppiamento, la moltiplicazione dei corpi sullo schermo, la loro decentralizzazione, procedimenti analoghi a quelli che Cunningham sfrutta coreograficamente sulla scena, creano i presupposti per una composizione in cui la danza informa l’opera d’arte nella sua totalità, facendone un prodotto particolare di videoarte, appunto uno dei primi e più significativi esemplari di videodanza. 135

Tale fenomeno è stato anticipato e forse accompagnato nel suo nascere da un clima socio-culturale particolare, nel quale sono cresciuti i danzatori e i coreografi della generazione degli anni Ottanta. In Francia, gli esponenti della Nouvelle danse sono figli delle correnti del nuovo cinema francese, sono cinefili alimentatisi del flusso delle immagini che caratterizza il nostro attuale approccio alla realtà, fatto di frequenti, rapide e massive informazioni sensoriali che hanno da tempo riorganizzato il nostro modo di sentire il mondo. Questi autori hanno inizialmente trasferito i ritmi e i modi dell’immagine cinematografica e videografica sul palcoscenico, con spettacoli di danza caratterizzati dall’enfasi della commistione di codici, linguaggi e ingranaggi mediatici. In un secondo momento hanno portato la danza all’interno della produzione video, a volte divenendo registi (o meglio videomakers) delle loro stesse opere. Interessante, a questo proposito, il lavoro di Angelin Preljocaj, che si muove senza soluzione di continuità fra lo spazio scenico tradizionale e il video, passando senza difficoltà dalla produzione specifica per la telecamera, in una sinergia creativa con il regista Cyril Collard (Les raboteurs, 1988), alla rielaborazione per il video o alla prosecuzione ideale in video di opere già realizzate per la scena, come nel caso rispettivamente di Un trait d’union (1992), che riprende e rielabora un originario duetto maschile teatrale, o di Le postier (1991) e Idées noires (1991), continuazione ideale del balletto Amer America. Il genere che più ha influenzato la videodanza è certamente il videoclip musicale (o videomusic); nato inizialmente come promo di un altro prodotto dell’industria culturale, il disco, è divenuto un genere a sé, caratterizzato da una commistione fra elementi musicali e visionarietà post-moderna, resa possibile dal progresso della computer graphic. Non bisogna dimenticare, poi, l’influenza che su entrambe queste forme ha esercitato lo spot pubblicitario, forma basata sulla brevità e sull’alta concentrazione di senso finalizzata alla comunicazione di un preciso messaggio commerciale. Negli anni Ottanta non è difficile sorprendere intrecci fra queste tre forme videoartistiche, soprattutto quando alcuni coreografi vengono coinvolti nella realizzazione di spot pubblicitari. Si tratta, come afferma Elisa Vaccarino, di «un cortocircuito di creatività, che passa agilmente da un settore all’altro»20.

20

Vaccarino, La musa dello schermo cit., p. 60.

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Non è pertanto sorprendente che la videodanza abbia trovato naturale seguire, in molti casi, i modi e le forme della videomusic e del videospot, entro i quali la danza è stata, fin dall’inizio, coinvolta come elemento strutturale. Non va, infatti, dimenticata la genesi di questo coinvolgimento, che può essere rintracciata nel forte recupero, da parte delle giovani generazioni degli anni Settanta e Ottanta, della dimensione del corpo in movimento, fenomeno che è ben testimoniato dall’ondata di film musicali o incentrati sul tema della danza di quegli anni: Saturday night fever, Grease, Footloose, Due vite, una svolta, All that jazz, ecc. Si pensi, inoltre, a Michael Jackson, a Madonna (che si vale della collaborazione, fra l’altro, di Karole Armitage) e ai loro videoclips; oppure a coreografi come Daniel Ezralow, che ha lavorato per Sting, e Philippe Decouflé che ha collaborato con i New Order. Alcuni prodotti di videodanza si avvicinano addirittura a videoclips di grande qualità, come ad esempio i «corti» di Régine Chopinot: Le defilé (1987), KoK (1988); o di Philippe Decouflé: Caramba (1986) e il capolavoro Le p’tit bal (1994). Anche in Italia gli Ottanta sono gli anni delle intersezioni fra video, danza, teatro, videoarte: alcune figure, come gli esponenti del gruppo i Magazzini di Tiezzi e Lombardi, di Falso Movimento di Mario Martone, di Studio Azzurro nel periodo della collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti, cominciano a lavorare sul concetto di «ambiente» producendo ibridazioni artistico-comunicative che trasmigrano disinvoltamente da un linguaggio all’altro (teatro, danza, installazione artistica, ecc.) e si organizzano intorno all’interazione fra performer e scena tecnologica, tra corpo reale e tecnologie del suono e dell’immagine. È molto difficile stabilire parametri sicuri per poter catalogare con certezza un’opera audiovisiva come un prodotto, appunto, di videodanza. Sono tuttavia utili allo scopo i criteri scelti da alcune giurie di concorsi internazionali, per valutare e classificare i molti video di danza realizzati da un numero sempre crescente di coreografi e compagnie21.

21 Elisa Vaccarino propone di seguire le categorie concorsuali di Dance Screen, organizzato dal Centro Internazionale della Musica (IMZ); ivi, p. 27.

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Con stage/studio recording si fa riferimento a opere di videodanza realizzate con materiale girato sia su un palcoscenico, sia in uno studio televisivo allestito per la ripresa. Camera re-work si riferisce, invece, alla rielaborazione per la «camera» di una coreografia già esistente. Con l’espressione screen choreography si identifica propriamente un prodotto coreografico esplicitamente nato per lo schermo e non fruibile se non in quella versione. Il termine documentary si spiega da solo e viene a coincidere con la funzione documentaria che accomuna video e televisione. A queste categorie tipologiche si possono aggiungere, poi, il video a camera fissa, prodotto, in genere, dalle stesse compagnie e girato direttamente dai coreografi per documentare e conservare il proprio lavoro, e il promovideo, spesso artisticamente molto valido, confezionato da un videomaker anche con materiale di repertorio, allo scopo di promuovere la compagnia presso teatri, produttori, critici. La danza da video non può essere analizzata nello stesso modo della danza dal vivo, perché l’incontro col mezzo determina nuove condizioni creative al coreografo, ma anche inaspettati condizionamenti e limiti. Gli strumenti di analisi propri della videodanza22 non sono diversi, invece, da quelli del video tout court, se non per il fatto che nella videodanza le telecamere si occupano soprattutto di corpi in movimento. Anzitutto il mezzo video ha come elemento strutturale e formale l’inquadratura, che è costruita a partire da una serie di variabili peculiari, come la scala dei piani e le diverse angolazioni di ripresa; i movimenti della macchina; la disposizione degli elementi visuali sul piano spaziale dell’inquadratura stessa; i tagli e i passaggi da un’inquadratura all’altra. Entro l’inquadratura si dispone poi l’universo pro-filmico dato dalla posizione, dal movimento e dall’azione dei corpi e degli oggetti in relazione agli spostamenti della macchina da presa: è in questo punto di incontro fra le due realtà (quella di un corpo reale in movimento e dello strumento che ne fisserà le informazioni audiovisive analogiche o digitali sul supporto riproducibile) che si gioca la partita del particolare prodotto audiovisivo che è la videodanza. Il montaggio, terzo elemento tecni-

22 Ivi, pp. 36-46; G. Bettetini, L’audiovisivo. Dal cinema ai nuovi media, Bompiani, Milano 1996.

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co-strutturale, pur comune a tutta la produzione audiovisiva, nella videodanza assume un particolare significato, in quanto è produttore di ritmo, non sempre in totale autonomia, ma in relazione, confronto e scontro con quello del movimento dei corpi nello spazio e degli elementi sonori e musicali compresenti. La chiusura di senso del discorso, generato dal montaggio, a sua volta basato spesso sulla discontinuità delle immagini, dalle immagini stesse e dal sonoro che l’accompagna (in una transensorialità percettiva), è sempre e comunque opera del fruitore, che tanto più si avvicinerà all’intenzionalità comunicativa prevista, quanto più sarà stato in grado di leggere i codici utilizzati nel prodotto audiovisivo. Cosa accade alla percezione della danza dal vivo nell’era della fruizione generalizzata della danza in video?23 All’inizio, quando ancora il rapporto si giocava fra immagine filmica e danza, la relazione era condotta sul comune terreno della modernità, vale a dire sul condiviso intento di trovare nuovi strumenti per nuove modalità espressive. Ma danza teatrale e danza cinematografica hanno imboccato sempre strade differenti, raramente influenzandosi a vicenda. Del tutto diverso l’impatto dei modi del video sui modi della danza. Il connubio diviene possibile perché legato all’istanza, comune tanto alla sensibilità audiovisiva contemporanea che alle ultime generazioni di coreografi, di superamento dei limiti del palcoscenico verso nuove modalità di manipolazione dello spazio-tempo, in qualche caso entrando in competizione con il fascino irresistibile del video, che permette manipolazioni infinite e un estremo virtuosismo. A questo proposito diviene familiare l’uso in scena del ralenti, del repeat, del rewind, come è ben ravvisabile ad esempio nelle opere di Carolyn Carlson (Solo del 1983, poi divenuto video attraverso un processo di rielaborazione teatrale) o di quelle di Johann Kresnik e di Reinhild Hoffmann. Il montaggio, imprescindibile componente tecnico-artistica del video, diviene importante elemento compositivo della danza contemporanea, come in Pina Bausch, dove assume la fisionomia di un tratto stilistico forte del suo Tanztheater: la grande musa tedesca del 23

Vaccarino, La musa dello schermo cit., pp. 30-35.

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teatrodanza sembra, sin dai primi lavori per la scena, operare con le procedure tipiche del video-collage. La francese Karine Saporta costruisce addirittura nuove pièce a partire dagli scarti coreografici del materiale di altri interventi video o filmici. La princesse de Milan, ad esempio, è uno spettacolo nato dalla ripresa e dalla riorganizzazione dei movimenti coreografici già realizzati per Prospero’s Book (L’ultima tempesta) di Peter Greenaway. L’esito visivo è quello di un affastellamento barocco di oggetti e arredi, che produce sulla scena un effetto di iperrealismo videoartistico. Anche le performances del gruppo canadese dei La La La, come, ad esempio, Infante c’est Destroy, sono dei videoclips live, che utilizzano la luminosità particolare del video, la velocità del montaggio, il ritmo frenetico del linguaggio audiovisivo, coniugato con il virtuosismo fisico, direttamente nello spettacolo dal vivo. Seguendo le indicazioni di Elisa Vaccarino24, nel già citato testo La musa dello schermo freddo, fondamentale per lo studio della videodanza, è possibile ricostruire una mappa delle videodanze nazionali alla ricerca di cifre stilistiche particolari entro una consolidata koinè artistica. Fra i pionieri bisogna rubricare senz’altro gli Americani. La videoarte incontra la danza negli anni Settanta negli Stati Uniti, dove lavorano in modo sperimentale autori come Maja Deren e Alwin Nikolais. La prima, benché operasse nell’immediato dopoguerra e, dati i tempi, ancora con pellicola, può essere annoverata fra i videoartisti ante litteram proprio per la sua scelta programmatica di creare danza unicamente per lo schermo. I suoi film «di ricerca», nei quali coinvolse anche John Cage, sono l’esito di una sapiente composizione dell’immagine, nella quale forme, figure plastiche e danzatori si inseguono in un flusso di visione profetico per i tempi (Ritual in Transfigured Time, 1945-1946, coreografie di Frank Westbrook; The Very Eye of Night, 1959). 24 Oltre al più volte citato testo della Vaccarino, utili per questa ricognizione sono stati i cataloghi annuali dei vari festival e concorsi nazionali e internazionali: Danza video (Milano), Teatri90 Danza (Milano), Il coreografo elettronico (Napoli), Dance Screen (Vienna), Grand Prix Vidéo Danse (Parigi), Dance Film and Video Guide (Princeton).

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Nel 1964 Alwin Nikolais25 realizza su pellicola Totem, the World of Alwin Nikolais, pionieristico film di danza, in cui gli esecutori su sfondo monocromatico sembrano fluttuare in uno spazio illusorio senza gravità. Lo stesso tipo di visione è ripresa da Nikolais nel 1968 in Limbo (in collaborazione con il Columbia Broadcasting System), nel quale alle figure dei danzatori vengono sovraimpresse immagini di pesci colorati. Relay, prodotto da WNET/13 e dalla Bbc nel 1970, è già un’opera di videodanza a tutti gli effetti, realizzata con l’uso di strumenti tecnologici più avanzati, che permettono a Nikolais di concretizzare in immagini fantastiche tutto il suo universo visionario. In questo lavoro di grande importanza storica, il corpo danzante si smaterializza progressivamente divenendo una particella infinitesimale della vastità infinita dell’universo26. La prima vera e propria videoartista americana è comunque Doris Chase, per la quale già nel 1977 il critico Peter Grossman utilizzava esplicitamente il termine di videodance. Dopo Moving Forms del 1974, composizione astratta di forme in movimento, grazie alla collaborazione con danzatori delle più importanti compagnie di balletto (Joffrey Ballet, New York City Ballet, Merce Cunningham Dance Company) realizza i suoi lavori più significativi, tutti intitolati Dance, cui segue a ogni nuova creazione un numero progressivo. In questi video la Chase dimostra una predilezione per il corpo del danzatore solista, colto nei particolari e nei dettagli di movimento. Si sono cimentati con il film e la videodanza anche alcuni esponenti della post-modern dance, artisti sensibili ai fermenti di cambiamento della loro epoca e disponibili a un dialogo fecondo con le innovazioni tecnologiche: la poliedrica Meredith Monk in Quarry, 1978, rievoca la tragedia dell’Olocausto; Trisha Brown in Set and Reset, 1985, video che ha anche una versione teatrale, realizza un’abile composizione di materiali artistici fra loro autonomi: le musiche di Laurie Anderson, le scene, i costumi e le visioni filmiche di Robert Rauschenberg; Anna Halprin esplora il rapporto fra corpo e natura nel suggestivo Embracing Earth: Dances with Nature del 1995, vincitore a New York del concorso Dance on Camera nello stesso anno. 25 F. Pedroni, Alwin Nikolais: l’umanista dell’astratto, in Torinodanza. Focus 3. Corpi virtuosi, programma di sala, Torinodanza, Torino 2004, pp. 140-141 e 146148. 26 Ivi, p. 147.

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John Sanborn e Mary Perillo incontrano, invece, la danza a partire da una prospettiva non coreografica ma unicamente videoartistica, avvalendosi della collaborazione di danzatori come Molissa Fenley per Geography and Metabolism del 1987 e Bill T. Jones per Untitled del 1989, nel quale il coreografo di colore ricorda in modo struggente il suo compagno Arnie Zane morto di Aids. In Gran Bretagna, dove la televisione ha svolto – fin dal periodo delle trasmissioni sperimentali fra le due guerre, soprattutto documentando la danza dal vivo – un ruolo fondamentale per lo sviluppo, la diffusione, la promozione e la produzione della danza prima e della videodanza poi, con intenti educativi, divulgativi e di informazione, è difficile distinguere fra televisione e videodanza, dato che il fenomeno di broadcasting e quello creativo videoartistico sono due sistemi integrati, anche dal punto di vista economico. Nei paesi anglosassoni esiste infatti un modo particolare e originale di produrre danza in video, un metodo molto fedele agli allestimenti live e ai suoi valori propriamente coreografici, come nel caso della ripresa di uno spettacolo esistente: un esempio eclatante di questa peculiarità è l’ottima realizzazione video del lavoro Eight Jelly Rolls di Trisha Brown da parte di Dereck Bailey. Qualunque sia la tipologia e la destinazione del prodotto audiovisivo incentrato sulla danza, si tratta sempre, a detta degli operatori e dei critici27 di dance for the camera, slogan che negli anni Novanta diventa anche il titolo di un progetto produttivo che si dipana per più edizioni e permette la realizzazione di nuovi ed eclettici lavori di danza in video. Negli anni Ottanta, in concomitanza con il boom della danza nel mondo occidentale, le produzioni si intensificano e coinvolgono anche le nuove generazioni di coreografi inglesi come Richard Alston, Karol Armitage, l’italiana Adriana Borriello, i provocatori DV8 (Never Again; Dead Dreams of Monochrome Men del 1989), l’atletico Mark Murphy (Two Falling Too Far), la politicizzata Rosemary Butcher (Body as Sight). Negli anni Novanta, sotto l’egida del già citato progetto dance for the camera, vengono prodotti alcuni brevi video molto diversi fra loro, fra i quali vale la pena ricordare Never Say Die di Nigel Charnock, Dwell Time di Siobhan Davies, entrambi del 1995. Fra le produzioni indipendenti e fra quelle ibride, un capolavoro è Enter Achilles, 27

Vaccarino, La musa dello schermo cit., p. 73.

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dall’omonimo lavoro teatrale coreografato da Lloyd Newson, del 1996, preceduto nel 1992 da Strange Fish. La cifra visionaria degli esponenti del gruppo dei DV8 oscilla fra proiezione onirica e desiderio, in una carrellata di personaggi di grande energia, ma anche di forte impatto visivo, in qualche caso ai limiti dell’erotismo da soft porno. Fra le realizzazioni inglesi più recenti, presentate alla rassegna milanese Teatri90 nell’edizione del 2000, il bel video The Reunion del 1997 con la coreografia di Ian Spink è incentrato sul nuovo incontro ricco di emozioni fra un uomo e una donna; sempre del 1997, Exit (coreografia di Jamie Walton) racconta con ritmi martellanti il viaggio nella memoria di cinque danzatori nel Greenwich Foot Tunnel che passa sotto il Tamigi. Nel recente The Link28 (2000), il performance artist Glyn Davies Marshall traccia il breve ritratto di un proprio antenato morto cinquant’anni prima in circostanze misteriose. La videodanse in Francia, grazie a una sapiente politica di sostegno da parte del governo, è divenuta, soprattutto nel corso degli anni Ottanta, una produzione artistica di grande rilievo. La creazione di video e lo spettacolo dal vivo sono, per la generazione della nouvelle danse29, percorsi paralleli e allo stesso tempo convergenti, strettamente connessi entro l’attività di alcuni coreografi nati e cresciuti in un clima culturale di massiccio consumo di immagini. Si tratta di una videografia che è debitrice al cinema di un certo isterismo convulso dei corpi (Jean-Luc Godard) e di una frammentarietà del gesto, che si riflette anche nella performance dal vivo, dove espedienti come la pausa, la ripetizione o l’accostamento casuale non sono, in questo caso, frutto di un sapiente montaggio elettronico, ma la traduzione corporea di un sentire comune. La caratteristica saliente della videodanse è comunque quella di essere una videografia d’autore molto riconoscibile nello stile, che nasce inequivocabilmente dall’incontro fra una visione registica e una visione coreografica, marcate dalla contaminazione con i mate-

28 Teatri90 danza. Cantiere della nuova coreografia italiana (edizione 2000), catalogo della rassegna, ideazione e cura di A. Calbi, T90edizioni, Milano 2000, p. 109. 29 M.L. Buzzi, La nuova danza francese: contaminazioni e ritorno, in Ai confini della danza, a cura di A. Pontremoli, numero monografico di «Comunicazioni sociali», XXI, 1999, 4, pp. 454-477.

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riali artistici e i linguaggi più vari. A questo proposito la Vaccarino parla di parassitismo del video nei confronti delle arti sorelle, come la letteratura, l’architettura, la fotografia, il cinema, ecc.30. Fra le moltissime opere che si potrebbero citare, vale la pena ricordare alcune per il loro carattere emblematico. Nella prima fase della produzione, quella della stretta collaborazione fra un videomaker e un coreografo, abbiamo lavori caratterizzati dalla brevità e dalla incisività del segno visuale, come La voix des legumes (1982) girato da Marc Guérini con Philippe Decouflé, o come Incandescence (1985), dello stesso regista, per Karine Saporta. Dal sodalizio artistico fra Claude Mourieras e Jean-Claude Gallotta nascono invece video di respiro più ampio, anche perché tratti, talvolta, dalla rielaborazione di lavori per il palcoscenico, come ad esempio Daphnis et Chloé, les bergers qui s’attrappent (1983) o Montalvo et l’enfant (1988). Un’operazione interessante dal punto di vista produttivo è quella attuata dal Musée d’Orsay nella seconda metà degli anni Ottanta, quando vengono commissionati ad alcune coppie di artisti, formate sempre da un regista e da un coreografo, dei «corti», dedicati ciascuno a un’opera d’arte figurativa. Da questa iniziativa nascono lavori molto interessanti come Gustave di Cyril Collard e Régine Chopinot, il già citato Le raboteurs di Collard e Preljocaj, Le cirque di Jean Rabaté e di Karine Saporta. Verso la fine degli anni Ottanta entriamo nella seconda fase della videodanse, segnata dal passaggio dietro la videocamera degli stessi coreografi, che, anche da registi, intendono produrre opere dalla tenuta artistica molto forte, proprio a motivo di questa sovrapposizione e concomitanza nella stessa persona dei due ruoli. Fra le opere più interessanti, nel 1990 Angelin Preljocaj rielabora per la videocamera la sua ripresa delle Noces di Stravinskij e nel 1993 vince il Grand Prix Video Danse di Parigi con il bellissimo Un trait d’union, transcodificazione videografica dell’omonimo duo creato nel 1989 per la scena. Jean-Claude Gallotta passa addirittura a una produzione compiutamente cinematografica con Rei Dom del 1990 e L’amour en deux del 1991, nei quali la dimensione narrativa è mediata da gesti che risentono della vocazione coreografica dell’artista francese. 30

Vaccarino, La musa dello schermo cit., p. 86.

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In Belgio, la videodanza nasce intorno alla nuova danza fiamminga ed è caratterizzata da una ricerca analitica quasi ossessiva del movimento. Accanto alla acribia da entomologo di un Jan Fabre31, che della ripetizione, dell’attenzione al particolare e dell’osservazione della realtà come organismo fa la sua cifra stilistica (What a Pleasent Madness, 1988; Tivoli, 1993; Questa pazzia è fantastica: paysages fabriens, 1993), Anne Teresa de Keersmaeker, fondatrice del gruppo Rosas, mette in video la sua danza minimale, ripetitiva e caparbiamente coniugata alla dimensione temporale della musica nel film Achterland del 1994 (da un balletto del 1990) e nei molti video che rielaborano per la telecamera i suoi lavori teatrali. Meno astratte e più emotivamente oniriche le produzioni anche fictional dei Belgi di lingua francese. In Scelsi Suites (1990) della coreografa Nicole Mossoux, una coppia, che danza e vive nello stesso spazio, affronta l’esperienza della solitudine e dell’impossibilità dell’incontro. Face à face (1988) di Michèle Anne De Mey (già del gruppo Rosas), racconta, una volta di più, una storia di coppia attraverso una sapiente combinazione di movimenti del corpo e un uso espressivo degli strumenti tecnici della ripresa. In Olanda, accanto alla produzione video-filmica ufficiale, legata alle creazioni del Nederlands Dans Theater di Jirˇí Kylián e all’Het Nationale Ballet, le produzioni indipendenti, sostenute da iniziative nazionali che obbligano la divulgazione dei «corti» nelle grandi sale cinematografiche, hanno dato origine a piccoli capolavori videoartistici di grande sintesi fictional, come ad esempio i tre lavori di Janneque Draisma: Bela II del 1983, storia strampalata di una spazzina; Research del 1989, sulla figura di una fotomodella; Skipping’ sore del 1990, su una coppia che agisce solo se sollecitata da stimoli esterni. Fra (1999) dei coreografi Emio Greco e Pieter C. Scholten abbandona invece del tutto la traccia della narrazione a vantaggio di una scrittura coreografica quasi di stampo saggistico, per trattare in termini visuali il difficile tema del rapporto/conflitto fra mente e corpo32. 31 E. Hrvåtin, Ripetizione, follia, disciplina. L’opera teatrale di Jan Fabre, Infinto Ltd, Torino 2001 (ed. or., Ponavljane, Norost, Disciplina: celostna umetnina Fabre, E. Hrvåtin, Den Haag 1993). 32 Teatri90 danza. Cantiere della nuova coreografia italiana (edizione 2001), catalogo della rassegna, ideazione e cura di A. Calbi, T90edizioni, Milano 2001, pp. 108-109.

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In Germania, se si esclude la pellicola di Pina Bausch, Der Klage der Kaiserin, e le molte riprese per la telecamera di balletti e produzioni di teatrodanza, la videodanza originale, come prodotto artistico autonomo, è un fenomeno soprattutto degli anni Novanta e si dibatte fra la concentrazione narrativa di Lutz Gregor (Angelus novus, 1991; Kontakt Triptychon, 1992) e la sperimentazione di Tamara Stuart Ewing (Mile “0”33, 2000, sul tema della gravità e della caduta). Se la videodanza spagnola è l’ultima in ordine di tempo a comparire sugli schermi con una ricca produzione che si adegua a quella che la Vaccarino definisce la nuova koinè videoartistica europea (caratterizzata dalla «necessità di uscire dai teatri alla ricerca di luoghi altri, al ricorso a una quotidianità che diventa arte, all’espressività di un corpo che si fa protagonista dello sguardo, proprio e altrui, uno sguardo che ci guarda dallo schermo»34), la videodanza italiana è neonata. Nel 1994 a Dance Screen scorrevano solo tre video italiani (fra i quali il bel Guardiano di coccodrilli di Corte Sconta, per la regia di Kiko Stella) e al Gran Prix Video Danse solamente quattro. Tuttavia le manifestazioni nazionali e i vari concorsi, nati sul finire degli anni Novanta (fra i quali spicca Il Coreografo Elettronico di Napoli e il Premio Riccione TTV), hanno nel tempo incrementato la produzione di opere indipendenti di buon valore artistico. Nella selezione di Short Video dell’edizione 2001 di Teatri9035 sono presenti interessanti opere di Claudio Prati con coreografia di Ariella Vidach, di Lino Greco e Monica Francia, di Davide Pepe e Anna De Manicor. Di quest’ultima videoartista, che afferma: «Non credo nell’utilità di istituire il genere (senza scopo e senza pubblico) di “videodanza”», ma ritiene però importante «imbastire la narrazione e la figurazione cinematografica con le azioni fisiche asciugate e “muscolari” della danza»36, Scankrèr o la famiglia dell’artista (1998) è un piccolo capolavoro di 25’ tratto dall’omonimo spettacolo dell’Impasto di Alessandro Berti e Michela Lucenti. In esso si racconta, in tono grottesco e – una volta tanto – ironico, grazie soprattutto all’esilarante dialogo vernacolare e alla plasticità del «movimento cantato» Teatri90 danza (edizione 2001) cit., p. 108. Vaccarino, La musa dello schermo cit., p. 107. 35 Teatri90 danza (edizione 2001) cit., p. 109. 36 Teatri90 danza (edizione 2000) cit., p. 110. 33 34

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della compagnia, la travagliata storia di un ballerino maledèt, nato in una surreale famiglia padana, dove padre e madre mettono in atto ogni sorta di azione per stroncarne la vocazione coreutica37. 6.3. Nuove tecnologie, nuovi spettacoli All’inizio del nuovo millennio, l’esplosione e la planetaria diffusione delle nuove tecnologie digitali38 hanno creato la possibilità di inusitate esplorazioni nei territori della creazione artistica. Si tratta, in qualche caso, di mutazioni radicali e non solo di moltiplicazione di dispositivi di superficie; di cambiamenti profondi che coinvolgono la stessa nozione di soggetto e di oggetto artistico39 e che rimettono in discussione l’intero universo della comunicazione, della relazione e dell’organizzazione del sensorio. Nel nostro tempo i mezzi di comunicazione e gli apparati di calcolo sono divenuti fra loro complementari: la digitalizzazione dei media analogici porta alla creazione di un unico grande medium: immagine, suono, grafica, forme, spazi, testi, generazione di sensazioni artificiali tramite stimolatori meccanici, guanto o tuta della realtà virtuale e quant’altro da noi immaginato e immaginabile entro questo ambito di ricerca, sono trasformati in dati numerici, diventano oggetti calcolabili, un insieme di dati informatici facilmente manipolabili e, in un secondo momento, di nuovo restituibili alla loro fruizione analogica. La struttura frattale che caratterizza questi nuovi media, vale a dire la presenza di una stessa struttura a livelli di scala differenti, offre una grande possibilità di modularità, anche nelle procedure di programmazione. Se uniamo questa peculiarità a quella che permette agli oggetti dei nuovi media di essere descrivibili in termini formali come funzioni matematiche, constatiamo la possibilità degli algoritmi di realizzare all’interno del processo creativo un crescente automatismo, che limita progressivamente l’intenzionalità umana. I nuo-

Ivi, p. 111. L. Manovich, Nuovi media: istruzioni per l’uso. Come i media sono divenuti nuovi, in La scena digitale cit., pp. 23-36. 39 Cfr. M. Maffesoli, L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato, in La scena immateriale cit., pp. 139-150. 37 38

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vi media, infatti, non esistono più come oggetti materiali, ma nella forma di dati che viaggiano nello spazio alla velocità della luce, condizione che permette la realizzazione del sogno novecentesco dell’unità delle arti, della loro conversione una nell’altra e della loro combinazione secondo nuove e imprevedibili modularità. L’arte è sempre meno legata all’idea di produzione di un oggetto/testo, da incontrare in una fruizione passiva e contemplativa, e sempre più definibile come un’esperienza, un evento40, un processo che si dispiega a partire da un progetto, a sua volta considerato, nella storia della cultura e delle arti, come l’elemento più immateriale – oggi diremmo appunto virtuale – di un determinato percorso artistico. È dunque chiaro che all’oggetto viene oggi a sostituirsi l’ambiente41 (environment) e alla fruizione contemplativa la partecipazione diretta dello spettatore al farsi concreto (che può essere, nei risultati, quanto di meno concreto possibile) della stessa creazione artistica42. Appaiono sempre più labili i confini fra un’arte concepita in termini tradizionali, e che potremmo definire museale o archivistica, e un’arte pan-performativa. Le nuove tecnologie, nel loro funzionamento simulativo43, sono centri di creazione di environment, il più delle volte virtuali, che tuttavia richiamano fortemente la presenza di un corpo che interattivamente viene a occupare il nuovo habitat, spesso contribuendo, con 40 Per Antonio Pizzo i media digitali e il teatro sono accomunati dalla nozione di evento: «All’interno di questa polarità dei media (cinema, audiovisivi, teatro, digitale) – divisi secondo la rappresentazione della distanza dall’oggetto preesistente (lì e altrove dell’immagine riprodotta) e l’assenza di tale distanza (assoluto qui e ora della propria semiosi) – la realtà virtuale, la computer graphic e le altre rappresentazioni digitali appartengono a quest’ultimo lato del polo, insieme [...] al teatro e, in termini più generali, alla performance»; A. Pizzo, Teatro e mondo digitale. Attori, scena, pubblico, Marsilio, Venezia 2003, p. 23; cfr. Tanz und Technologie. Auf dem Weg zu medialen Inszenierungen, a cura di S. Dinkla e M. Leeker, Alexander Verlag, Berlin 2002; Le pratiche del video, a cura di V. Valentini, Bulzoni, Roma 2003; Le storie del video, a cura di V. Valentini, Bulzoni, Roma 2003; M. Borelli e N. Savarese, Teatri nella rete. Arti e tecniche dello spettacolo nell’era dei nuovi media, Carocci, Roma 2004. 41 Cfr. Quinz, Interface-World cit., pp. 317-334. 42 F. Popper, Art, action et partecipation. L’artiste e la créativité aujourd’hui (1975), Klincksieck, Paris 1985, p. 13. 43 Cfr. G. Bettetini, La simulazione visiva. Inganno, finzione, poesia, computer graphics, Bompiani, Milano 1991.

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la sua pesante e ingombrante fisicità, alla modificazione dinamica e al divenire processuale dell’esperienza artistico-performativa. Il sogno fantascientifico della robotica, inaugurato nel 1920 dalle visioni di Karel Cˇapek, sembra oggi essersi realizzato: la naturalità biologica del corpo è messa in discussione da una serie di fenomeni artistici (Body Art, Cyborg Culture, ecc.), dove i corpi, invasi da innesti artificiali, da connessioni interfacciali elettroniche, da tecnologie mediche, o manipolati dall’ingegneria genetica, sembrano diventati essi stessi protesi umane di media intelligenti44, piuttosto che nostri prolungamenti entro il vecchio ambiente. Terminata l’era della mediazione fra uomo e mondo, siamo ormai nella realtà di un corpo mondo che può connettersi direttamente alle macchine, tramite microchip interfacciati al nostro sistema nervoso centrale45. Cosa accade al corpo, alla scena, alla percezione, alla concezione delle coordinate proprie della danza (spazio e tempo), nella relazione che si stabilisce fra la materialità del corpo danzante hic et nunc e l’immaterialità informatico-elettronica, o meglio la nuova materialità? Cosa accade a questo corpo nel rapporto anche percettivo con l’interfaccia della realtà virtuale (ad esempio il casco, il guanto e la tuta «sensibili»)? Diventato quasi un apparato semiartificiale, biotecnologico, il corpo si confronta momento per momento con un mondo altro crea-

44 Cfr. A. Ferraro e G. Montagano, Introduzione, in La scena immateriale cit., p. 6; R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. La nuova arte contemporanea, che richiama sempre di più una presenza pregnante del corpo, è soprattutto incentrata sull’identità della «carne», sulle possibilità di una sua esplorazione in tutte le direzioni (interna, esterna, percettiva, emotiva, intellettiva, performativa, ecc.). Basti solo accennare, per esemplificare, alla variegata fenomenologia della Body Art estrema o di altre forme artistiche della contaminazione, come le protesi cibernetiche di Stelarc, gli interventi di chirurgia estetica live della Orlan, le performances arcaico-tecnologiche dell’originaria Fura Dels Baus di Marcel.lí Antúnez Roca. L’arte sembra porre l’accento sulla profonda mutazione in cui l’uomo incorre nell’incontro ravvicinato con le nuove tecnologie, che lo attraversano e lo prolungano nel tempo e nello spazio. Cfr. P. Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina, Milano 2000 (ed. or., La bombe informatique, Éditions Galilée, Paris 1998), pp. 41-54; L. Vergine, Body art e storie simili (1974), Skira, Milano 2000; Macrì, Il corpo postorganico cit.; Alfano Miglietti (FAM), Identità mutanti, cit. 45 Cfr. Vaccarino, La musa dello schermo cit., pp. 147-151.

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to dal computer. Un mondo fatto di simulazioni in grado di visualizzare in termini di possibilità ogni nostro capriccio inventivo, di originare mondi le cui regole sfuggono a quelle della nostra realtà concreta, mondi perfettamente abitabili anche dalla pesante e obsoleta corporeità umana, ormai definita comunemente una wet technology46. Il corpo è al centro di uno spazio nuovo da costruire nella dimensione intermedia fra arte e tecnologia. La danza è, tra l’altro, l’arte che investe radicalmente sul corpo. Anche on line gli internauti hanno sempre una interazione che implica la dimensione corporea. È quindi possibile una scrittura poetica comune, perché l’esperienza fisica della corporeità è un tratto condiviso dell’umano: senza l’esperienza reale non c’è neppure reale sperimentazione nell’ambito delle nuove tecnologie. Nella danza, il corpo, col suo ambivalente dibattersi e oscillare fra soggetto e oggetto, è portatore dell’invisibile, è ciò che rivela il processo in atto della donazione di senso al mondo. La danza, insomma, trasforma e trasfigura il corpo47. L’arte è, infatti, la possibilità di rendere sensibile una realtà immateriale, e le nuove tecnologie sembrano portare alle estreme conseguenze il potere, che la coreografia offre al corpo, di essere qui e altrove, di decostruire il tempo e lo spazio per ristrutturarli in modo nuovo e diverso. Il corpo tecnologico è un corpo esteso, connettivo, dotato di nuova e potenziata sensibilità. In campo artistico, la performance è diventata la strategia di movimento che può attivare, nella relazione tecnologica, la produzione mediata di suoni e immagini in tempo reale. In questo modo il danzatore-attore può dar vita sulla scena o nell’ambiente performativo dell’installazione a una interattività sempre più originale e creativa48.

46 E non si tratta di uno scenario futuribile: non dimentichiamo che siamo sempre interfacciati, quotidianamente, con apparati e dispositivi digitali che hanno una specificità linguistica, una potenza di rappresentazione numerica della realtà con cui da anni siamo abituati a fare i conti, anche solo quando ci mettiamo ad ascoltare musica da un CD o quando visioniamo un film da un Dvd. 47 Cfr. A. Pontremoli, Corpo e danza, in Ai confini della danza cit., pp. 373-380; J.-M. Matos, Danza con tecnologia: il corpo di un’utopia o il corpo di un conflitto?, in La scena digitale cit., p. 210. 48 Cfr. Pizzo, Teatro e mondo digitale cit., pp. 9-12.

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L’ambiente è dunque lo spazio della nuova arte, spazio che contiene sia lo spettatore che il performer. Non si tratta di uno spazio che circonda l’oggetto artistico da contemplare o fruire, ma della globalità delle condizioni fisiche e relazionali dentro le quali il soggetto agisce e si rapporta, anzitutto con altri soggetti. Nell’ambiente-interfaccia vengono messi in inter-attività due sistemi, attraverso la soglia interfacciale, sorta di limen trasparente che permette la dialettica di azione/reazione propria di soggettività interattive. In questo contesto ambientale, il soggetto è in grado di dislocarsi, di espandersi attraverso le reti, compiendo un viaggio proiettivo al di là di frontiere invisibili generate dalla stessa interfaccia, che ha la possibilità di separare e unire a un tempo realtà anche molto distanti fra loro. Nell’ambiente-mondo, quello della realtà virtuale, il soggetto è posto con la sua corporeità in una struttura che viene progressivamente costruita dall’interazione del soggetto con informazioni visuali, sonore, cinestetiche, tattili, ecc. prodotte da un computer. In questo caso, in apparenza, non si tratta più della comunicazione fra sistemi diversi (come in un ambiente-interfaccia), ma dell’immersione del soggetto entro l’esperienza di un mondo49. Nonostante la distinzione fra i due tipi di ambiente abbia certamente un potente valore euristico, la comunicazione fra uomo e sistema informatico è nei due casi della stessa natura. Prendiamo, ad esempio, un’operazione chirurgica condotta in ambiente virtuale o una simulazione di volo: la differenza fra l’uso del mouse (che implica un grado maggiore di simbolizzazione e quindi di distanza dall’oggetto virtuale manipolato) e l’uso di un bisturi o di una cloche virtuali sta solo nel maggiore o minore grado di coinvolgimento sensoriale. Tuttavia, quella del soggetto è sempre un’azione che genera, nel sistema, una reazione, a sua volta prevedibile entro il grado di predittività dell’algoritmo impiegato, che porta il sistema a ristrutturarsi, a partire dall’azione del soggetto e quindi a generare un’azione virtuale che spinge a un’ulteriore reazione. Ancora una volta si tratta di catene di reazioni50. Quinz, Interface-World cit., pp. 330-334. Le nuove forme artistiche si fondano sulla integrazione tra l’ambiente reale in cui è immersa la persona e l’immagine elettronica, per favorire nuove forme di partecipazione creativa dello spettatore. Lo scopo è quello di integrare entro le 49 50

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6.4. Forme della danza tecnologica Le forme attraverso le quali si dispiega il rapporto fra danza e nuove tecnologie è vasto e complesso e presenta molte sfaccettature. Per tale motivo non si può render conto, in questa sede, di tutte le possibilità e le sperimentazioni che sono in corso e che offrono, nella maggior parte dei casi, la fisionomia di un inquietante e continuo work in progress51. È, tuttavia, possibile cercare di tracciare un percorso, per individuare le principali problematiche suscitate, appunto, dai numerosi esperimenti. Lo proponiamo di seguito in termini interlocutori e se-

odierne istanze «poietiche» i nuovi media, frutto dello sviluppo incessante delle nuove tecnologie, che, come abbiamo visto, sono ormai già perfettamente integrate nel nostro sistema percettivo e sensoriale. L’integrazione di cui si parla è un fatto culturale, ma anche un fatto legato alla fisiologia umana: l’immagine elettronica è trasmissione di energia elettromagnetica trasformata in energia luminosa; tale immagine è caratterizzata dal movimento, come parte del suo essere fisico. L’immagine è dunque puro movimento nello spazio-tempo, nato dallo spostamento di elettroni sulla superficie dello schermo; movimento caratterizzato da una velocità esponenziale. Paul Virilio, il filosofo della dromologia, è molto critico nei confronti della svolta culturale del nostro tempo che, constatata l’impossibilità di evadere dall’orizzonte terrestre – territorio ormai esaurito dal punto di vista dell’esplorazione e del viaggio e in esaurimento dal punto di vista fisico –, per rispondere al desiderio di superamento della gravità, della miseria umana e della morte, distoglie l’attenzione dallo spazio fisico (l’esterno) per concentrarsi su quello mentale (interno). Ciò comporta considerare l’immateriale come luogo privilegiato dell’esperienza, limite estremo col quale l’arte è chiamata a misurarsi. Per Virilio il potere oggi è nelle mani di chi governa le tecniche di spostamento e di comunicazione più veloci: l’unità di misura del potere è l’accelerazione, fattore tipico dei nuovi media tecnologici. L’accelerazione, riassorbendo la dimensione dello spazio entro quella del tempo derealizza sempre di più l’esperienza: dopo aver divorato il territorio, perché ormai tutto è stato visto, senza più distanze di spazio e di tempo lo sguardo andrà in cerca di nuovi orizzonti, quelli della simulazione. A differenza delle bombe nucleari, che sono distruttive nei confronti del territorio, la bomba informatica di Virilio opera mediante la sua sparizione e mediante la sua sostituzione con simulacri digitali (cfr. Virilio, La bomba informatica cit.; C. Formenti, Postfazione, ivi, pp. 137-150). L’idea di flusso, connessa all’immagine elettronica, è la stessa che può essere applicata al funzionamento del nostro cervello, che dà un senso ai molti segnali luminosi che ci giungono dal mondo esterno (cfr. C. Infante, Imparare giocando. Interattività fra teatro e ipermedia, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 57). L’attività onirica è, inoltre, il modello più pertinente, della videoarte prima e delle esperienze artistiche ambientali poi (cfr. A. Amaducci, Segnali Video, Gs, Santhià 2000). 51 Cfr. Risorse Internet, CD-Rom, dispositivi interattivi e software per la danza, in La scena digitale cit., pp. 385-430.

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guendo un’analoga traccia tipologica, individuata dagli studiosi Armando Menicacci ed Emanuele Quinz52. 6.4.1. Video décor Alcuni spettacoli live, inaugurati in Italia negli anni Ottanta da Studio Azzurro53, presentano sulla scena monitor in funzione scenografica e drammaturgica. Le corporeità dei performer (anche di quelli dietro le quinte, dove è allestito un set televisivo in cui le azioni sono riprese in contemporanea allo spettacolo e trasmesse in tempo reale) interagiscono con i contenuti del video e con la loro presenza concreta. Spesso il corpo diventa protagonista della visione stessa offerta dai monitor impilati uno sull’altro, che, in questo caso, nella ricostruzione di immagini a segmenti, diventano scatole, acquari, contenitori claustrofobici per i personaggi della pièce. In altri casi, come ad esempio i lavori, anche molto diversi fra loro, del coreografo Roberto Castello (Il fuoco, l’acqua, l’ombra, in collaborazione con Studio Azzurro, 1998; Le avventure del sig. Quixana, con Paolo Atzori, 1999), la compresenza di danza dal vivo e videoproiezioni è la costante che contribuisce alla creazione di un ambiente di fruizione spettacolare nuovo dal punto di vista estetico, ma consueto nelle forme, proprio per l’assenza di una vera e propria interattività. La dureté temporale obbligata dalla sincronizzazione dei materiali sonori e visuali riporta questi ultimi esperimenti nell’ambito di una produzione strutturalmente tradizionale. Si tratta, insomma, di una situazione ibrida, a cavallo fra scenografia della contemporaneità ed environment, di una ricerca teatrale o coreografica ancora fortemente legata alla presenza del corpo. 6.4.2. Interattività Lo sviluppo dei sistemi di sonorizzazione corporea e di interazione/creazione ambientale a partire dal movimento, catturato in tempo reale e rielaborato per proiezioni in contemporanea alla rappresentazione, dà vita, a partire dalla fine degli anni Ottanta, a una serie di performances che vanno da un uso prevalentemente scenografico dell’immagine/sfondo alla messa in opera di sofisticati stages interattivi.

La scena digitale cit., passim. Cfr. Studio Azzurri e G. Barberio Corsetti, La camera astratta. Tre spettacoli tra teatro e video, a cura di V. Valentini, Ubulibri, Milano 1988. 52 53

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Appartengono al primo dei due estremi di sperimentazione, le opere della coreografa Ariella Vidach e dell’artista multimediale Claudio Prati, che valendosi del Mandala System attivano, in un lavoro come eXp Interactive Dance Performance (1996-1997) una serie di suggestioni, grazie alla relazione che sulla scena viene a instaurarsi fra il corpo live e la sua immagine video, rielaborata in real time e rimandata su uno schermo fondale, allo scopo di alterare la percezione dello spettatore. EyesWeb54 è, sul versante opposto, un sistema basato sulla intelligenza artificiale, in grado di entrare in contatto interattivo con un utente, ad esempio un danzatore in scena, di riconoscere in termini gestaltici movimento e suono e di produrre a sua volta suoni a partire dalla individuazione e dalla rielaborazione attiva delle caratteristiche della motion55 del danzatore. Ad esempio, il sistema, in concomitanza con un movimento molto marcato e ritmico, provocherà suoni di tipo percussivo. Sviluppato all’interno del Laboratorio DIST di Informatica Musicale dell’Università di Genova, EyesWeb è stato utilizzato, fra gli altri, da Luciano Berio e dalla Compagnia di Danza Virgilio Sieni. Nel caso di EyesWeb la tecnologia rivoluziona con evidenza i processi di creazione all’interno dell’arte. 6.4.3. Sistemi analitici Una delle ricerche più interessanti per il rapporto fra danza e nuove tecnologie è quella legata ai sistemi di Motion Capture, basati sull’acquisizione, per mezzo di varie tecniche, del movimento umano e sulla sua elaborazione digitale, per poterne analizzare la struttura. La Motion Capture permette inoltre di ricreare il movimento in modo virtuale per animare figure diverse da quelle antropomorfe. Una delle applicazioni artisticamente più affascinanti della Motion Capture è proprio quella che viene utilizzata per lo spettacolo di danza Biped, uno dei recenti capolavori di Merce Cunningham basato su questo sistema, che rende vive le proiezioni interagenti sul palco con la live performance: linee e punti sullo schermo, che hanno un’origine corporea, si umanizzano nella riproduzione visiva di un movimento virtuale. Questo tipo di tecnica serve a visua-

54 Cfr. A. Camurri, Il progetto EyesWeb per musica, danza e teatro, in La scena digitale cit., pp. 67-82. 55 Cfr. supra, 4.4.

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lizzare e a ricreare lo spazio mentale del coreografo, il suo processo creativo che è quello di un corpo nello spazio che crea spazio. Altrettanto interessante è l’ideazione coreografica al computer, possibile grazie a un software rivoluzionario, Life Form, sviluppato da Thecla Schiphorst a partire dall’inizio degli anni Novanta56. Questo programma inaugura l’era dell’assimilazione dell’invenzione coreografica alla sua scrittura e alla sua memorizzazione. Creato per facilitare il compito del coreografo, il sistema è istruito sui principi fisici del movimento umano e questo gli permette di automatizzare alcune procedure inventive con l’integrazione di determinati passaggi coreografici da un movimento all’altro. Grazie a tale strumento prodigioso, utile fra l’altro anche per la didattica della danza57, sempre Merce Cunningham è stato il primo nel 1991 a presentare una coreografia direttamente al computer, Trackers, per insegnarla solo in un secondo momento alla compagnia. Fra i sistemi analitici per la didattica è opportuno annoverare anche il già ricordato CD-Rom Improvisation Technology, realizzato da Volker Kuchelmeister e Christian Ziegler per il coreografo William Forsythe e pubblicato nel 1999 dopo un lungo periodo di studio e di sviluppo. Si tratta di uno strumento utilizzato dal coreografo per l’istruzione di base dei danzatori della sua compagnia, che vengono iniziati in modo ipertestuale e multimediale ai principi del movimento e alla concezione coreografica di Forsythe. 6.4.4. Realtà aumentata I sistemi di realtà aumentata sono tecnologie che non intendono sostituire il corpo del performer con un suo doppio virtuale, ma tentano di ampliare la gamma di possibilità espressive dell’artista. Il Palco IVE di Flavia Sparacino58, ad esem56 Cfr. T. Schiphorst, LifeForms: Design Tools for Choreography, in Dance and Technology I. Moving Toward the Future, Proceedings of the First Annual Conference, University of Wisconsin, Madison, 28 February-1 March 1992, a cura di A.W. Smith, Fullhause, Westerville (Ohio) 1993, pp. 46-51; T. Schiphorst, Il movimento assistito al computer. Merce Cunningham e Life Forms, in La scena digitale cit., pp. 163-181. 57 A. Menicacci, Il digitale nell’insegnamento della danza, in La scena digitale cit., pp. 361-369. 58 F. Sparacino, DirectIVE. Choreographing Media for Interactive Virtual Environments, MS Thesis, MIT Media Lab, ottobre 1996; cfr. Id., La realtà aumentata nella danza e nel teatro, in La scena digitale cit., pp. 101-130.

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pio, permette ai soggetti coinvolti una partecipazione esperienziale a rappresentazioni immersive e interattive, senza l’uso di tute, caschi o guanti, ma unicamente per mezzo dell’interazione con oggetti virtuali, animazioni, immagini, suoni. L’interattività riporta inoltre in primo piano la problematica dell’improvvisazione, che è una delle caratteristiche della odierna pratica di danza contemporanea. I Performance Systems59 del gruppo Palindrome – gruppo di ricerca fra i più validi nel campo della danza tecnologica – permettono ai nuovi mezzi di controllare in tempo reale musica, suoni, immagini, luci, che vengono in tal modo a dipendere dal movimento del danzatore sulla scena. In questi ambienti interattivi la tecnologia estende le percezioni umane, potenzia l’immaginario (se è vero, come afferma Bachelard, che l’immaginazione è la deformazione delle immagini della percezione), e aiuta lo sguardo a compiere una lettura più profonda della creazione coreografica riportando l’attenzione sull’arte nella sua complessità, che oggi combina immateriale e tecnologia con la materialità degli strumenti tradizionali. 6.4.5. «Digital dance» Internet si configura come il mezzo principale attraverso il quale, sempre di più negli anni a venire, verranno distribuite al pubblico l’arte e la creazione. Tuttavia rimane la domanda sul tipo di esperienza che la fruizione della danza in Internet può rappresentare per l’uomo: quanto dovrà essere larga la banda per poter veicolare appieno la rappresentazione digitale del corpo nell’esercizio della danza virtuosistica? Nel mondo attuale, nel quale la comunicazione è dominata dai media, la danza (e lo spettacolo in generale) per mantenersi il più possibile vitali, vanno sempre di più verso una fisicità accentuata, che entra in competizione con la stessa tendenza al rischio fisico propria di certi sport al limite del suicidio (il Base Jump, ad esempio) o di certi esperimenti bodyartistici esasperati (Stelarc, Franko B, ecc.). Elisabeth Streb con la sua danza estrema, il gruppo argentino De La Guarda con le sospensioni antigravitazionali dei suoi componenti, i già citati catalani della Fura Dels Baus con il loro teatro orgiastico, crea-

59 Cfr. R. Wechsler, Danza interattiva: dilemmi dell’arte nell’era dei computer, in La scena digitale cit., pp. 191-200.

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no spettacoli che esplorano i limiti di forza, di resistenza e di esistenza del corpo. Anche i già menzionati canadesi del gruppo La La La presentano performances dal vivo, nelle quali tendono a trasformare la loro prestazione spettacolare in maxivideoclip ambientali in cui propongono una nuova fruizione polisensoriale e multidimensionale dello spettacolo dal vivo. Le forme di ibridazione sono poi quelle che, combinando la performance estrema con la tecnologia attivata dal corpo vivo, danno origine a percorsi spettacolari di grande energia, all’interno dei quali l’amplificazione protesica del corpo, il suo riflettersi su schermi e altri dispositivi della visione, il completarlo interfacciandolo con sistemi di produzione sonora, grafica, illuminotecnica e quant’altro, sembrano trasferire ai freddi mezzi tecnologici il calore e la concretezza della corporeità. Abbiamo visto come questo sia possibile in alcuni eventi realizzati con la Motion Capture. Dello stesso tipo è anche l’attività di Mark Coniglio60, in cui la tecnologia sembra rivestirsi di (e assumere) un corpo, proprio per la forte fisicità che viene messa in scena. Sul versante opposto esistono esperimenti di un utilizzo totale dei media, da parte di chi evita sistematicamente la performance dal vivo. La web-dance ne è un esempio, che, però, a mio parere, può essere definita dance solo in termini metaforici: se certamente il lavoro preventivo sul corpo e sulla coreografia finalizzata alla trasposizione sul web obbliga a un ripensamento della forma della danza per essere in qualche modo passata al setaccio digitale, è certo che gli esperimenti finora condotti mostrano l’estrema astrazione del concetto di danza, quando questa è mediata dallo schermo del computer ed è distribuita attraverso la rete. Infatti, l’energia fisica del corpo in movimento è ridotta a sapienti giochi audiovisivi interattivi, che hanno più affinità con la computer graphic e l’animazione che con la danza. Fra le opere di web-dance vale la pena citare gli esperimenti di Richard Lord, come Progressive 2 del 1996, e Burnt Cinders del 199961. Anche alla prova della compromissione emotiva dello spettatore o fruitore, questi esperimenti segnano il passo, a meno che, sul60 M. Coniglio, Verso il terzo millennio. Lo spartiacque digitale della danza, in La scena digitale cit., pp. 217-224. 61 Lord, I nomi di una rosa cit., pp. 237-245.

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la scorta dei videogiochi – punta avanzata della relazione fra interfaccia grafica 3D ed essere umano – non si crei una danza in cui l’energia del corpo sia la stessa di personaggi immaginario-virtuali come Lara Croft di Tomb Raider, che proprio in virtù della costruzione drammaturgica in cui sono inseriti e per la possibilità di immersione totale e multiprospettica nel mondo virtuale, mettono in moto processi di identificazione altamente significativi. Conclusioni Sarà possibile, un giorno, una completa digitalizzazione della danza? Se per digitalizzazione intendiamo la presenza figurativa del corpo nel cyberspazio, ci troviamo di fronte a una situazione in cui le informazioni digitalizzate sono poche rispetto a quelle che si ricavano dall’esperienza in carne e ossa di un corpo in presenza. Sono di questa natura, ad esempio, gli esperimenti di danza interattiva su video del CD-Rom La Morsure di Andrea Davidson62. L’interattività è fornita dal mouse sensibile, che ricrea l’effetto della resistenza, della massa e della gravità del corpo in una sorta di visione tattile. In questo rapporto fra spettatore e danza si produce un’eco del movimento sullo schermo e una percezione interiore dello stesso da parte dello spettatore, che è inoltre anche agente e motore della composizione coreografica proposta sul video. Analoga è la danza in telepresenza di Ghost and Astronauts di Susan Kozel63, performance in simultanea in due luoghi distanti di Londra, collegati fra loro grazie a sistemi di teleconferenza. L’imprecisione della trasmissione, attraversata dal rumore del sistema scelto (non a banda larga, ma del tipo CU-SeeMee in ISDN) crea una interazione fra le postazioni che può essere ricondotta al movimento in assenza di gravità. Come ben sappiamo per diretta sperimentazione quotidiana, non crea altrettanti problemi la digitalizzazione della musica, che avviene attraverso la compressione, in uno spazio numerico relativamente

62 A. Davidson, «La Morsure»: una coreografia interattiva digitale, in La scena digitale cit., pp. 247-260. 63 S. Kozel, Exiles, Ghost and Astronauts. Interventi fisici nella critica della cultura virtuale, in La scena digitale cit., pp. 271-283.

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contenuto, di tutte le informazioni necessarie per una ri-produzione analogica dell’esperienza uditiva il più possibile affine a quella della fonte sonora originaria. Una reale digitalizzazione del corpo, per essere altrettanto efficace, dovrebbe, quindi, riprodurre almeno un’immagine ologrammatica in movimento, a colori e a grandezza naturale, per avvicinare la visione di questa immagine a quella di un corpo che danza dal vivo in presenza. Ma tale tipo di riproduzione tecnologica non mi pare sia ancora stata sperimentata con successo64. Le prospettive più interessanti vanno comunque verso una maggiore integrazione della corporeità con le tecnologie, come esito di una interazione fisica del corpo con la realtà virtuale. In questo senso si potrebbero sperimentare nuove possibilità di movimento, che dipenderebbero dalla percezione reale suscitata da media sensibili e induttori di sensazioni fisiche artificiali. Non è forse una prefigurazione di una danza di questo tipo quella che compie Tom Cruise nel film Minority Report, mentre utilizza un sistema di data processing in realtà virtuale? Che tipo di danza e di movimento possiamo ipotizzare in una situazione totalmente immersiva sia per il danzatore che per lo spettatore, a contatto e in interazione coreografica con i simulacri digitali dei partecipanti, per nulla distinguibili dalle icone delle simulazioni in 3D? Le domande rimangono e, allo stato attuale delle ricerche, le risposte sono ancora lontane. Esperimenti del tipo di quelli ipotizzati poco sopra sembrerebbero andare nella direzione tracciata da Hubert Godard65, che parla di danza non tanto come di un’attività, quanto piuttosto di uno stato particolare di sensibilità del corpo, di una sua relazione al sensibile che è movimento in rapporto alla percezione interiore e alla percezione del mondo in una prospettiva fictional. 64 Una performance con proiezioni ologrammatiche mi è stata segnalata da Emanuele Quinz, che ringrazio per l’indicazione. Si tratta di Pôles, un progetto del gruppo 4D ART di Montreal, diretto da Michel Lemieux e Victor Pilon. Nel corso dello spettacolo, nato dalla collaborazione con i coreografi Pierre-Paul Savoie e Jeff Hall, vengono utilizzati proiezioni e ologrammi in relazione con gli attori sulla scena (cfr. http://www.4dart.com/4Dart.html/en/pole.html). Altri esperimenti sono commentati in Pizzo, Teatro e mondo digitale cit., passim. 65 Cfr. A. Menicacci ed E. Quinz, Conversazione con Hubert Godard, in La scena digitale cit., pp. 371-381.

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Una volta di più la condizione di possibilità della danza è, inequivocabilmente, da ricondurre alla carne, al corpo che si muove e che vive. La danza è connessa alla vita, ne è, in qualche modo, la sua più chiara e visibile esplicitazione: pare proprio che non si possa fare a meno del nostro orizzonte trascendentale di esistenza, quel corpo, secondo alcuni obsoleto e ingombrante, che tutti gli esperimenti virtualizzanti non solo non possono eludere, ma devono prendere in seria considerazione, pena l’annullamento della stessa possibilità di ogni nuova esperienza artistica.

Indici

Indice dei nomi

Abbondanza, Michele, 122. Abramovicˇ, Marina, 81n. Acquarone Bertone, Sara, 112 e n, 113n. Alfano Miglietti, Francesca (FAM), 134n, 149n. Alonge, Roberto, XXIIn, 133n. Alston, Richard, 142. Amaducci, Alessandro, 152n. Anderson, Laurie, 141. Andreani, Antonello, 72n. Andreella, Fabrizio, XVIn, 45n. Antúnez Roca, Marcel.lí, 149n. Appia, Adolphe, 14, 66-67, 71. Argyle, Michael, 51n. Armitage, Karole, 135, 137, 142. Armitage, Merle, 85 e n. Artaud, Antonin, 14. Astaire, Fred, 108. Athiktè, 36. Atzori, Paolo, 153. Au, Susan, 109n. Bachelard, Gaston, 156. Bailey, Dereck, 142. Balanchine, George, 58n, 96. Balzola, Andrea, 133n. Banes, Sally, 116n.

Barba, Eugenio, XVI, XVIIn, XVIII, 55n, 102n. Barberio Corsetti, Giorgio, 55n, 137, 153n. Bausch, Pina, 58n, 81, 114-15, 139, 146. Beacham, Richard C., 67n. Béjart, Maurice, 109. Bel, Jérôme, 126. Belasco, David, 16-17. Bentivoglio, Leonetta, 93n, 105n, 106n, 114n, 120n. Berio, Luciano, 154. Bernardi, Claudio, 127n. Berti, Alessandro, 146. Bertoni, Antonella, 122. Bertozzi, Donatella, 71n, 85n. Bettetini, Gianfranco, 58n, 130n, 131n, 133n, 138n, 148n. Bloedé, Myriam, 122n. Boggio, Maricla, 102n. Böhme, Fritz, 30 e n. Bollack, Jean, 121n. Borelli, Maia, 148n. Boriello, Adriana, 142. Brown, Trisha, 117, 141-42. Bucli, Enrichetta, 79n. Butcher, Rosemary, 142.

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e n, 98 e n, 99 e n, 100 e n, 101n, 114, 116-18, 135, 154-55.

Buzzi, Maria Luisa, 122n, 143n. Cage, John, 58 e n, 96-97, 98 e n, 99100, 117-18, 140. Calbi, Antonio, 143n, 145n. Calendoli, Giovanni, VIIIn, 4n. Camurri, Antonio, 154n. Cˇapek, Karel, 149. Cappa, Benedetta, 111. Cappa, Felice, XXIIn. Capucci, Pier Luigi, 129n. Carandini, Silvia, 14n, 15, 19n, 24n, 25n, 63n. Carlini, Franco, 127n. Carlson, Carolyn, 105 e n, 121, 139. Carlson, Marvin, 14n. Carpitella, Diego, XIn. Cascetta, Annamaria, XXIn, 4n, 46n, 131n. Casini Ropa, Eugenia, 15n, 16n, 17n, 21n, 24n, 25 e n, 62n, 63n, 67n, 69n, 71n, 72n, 80n, 92n, 94n, 116n. Castello, Roberto, 153. Celant, Germano, 126n. Censi, Giannina, 111. Charnock, Nigel, 142. Chase, Doris, 141. Childs, Lucinda, 58n. Chopinot, Régine, 122, 144. Cixous, Hélène, 122n. Coleman, Martha, 103n. Collard, Cyril, 136, 144. Colonnello, Francesca, 75n, 78n. Concord Poté, Aurilla, 16-17. Coniglio, Mark, 157 e n. Copeau, Jacques, 63. Cosimi, Enzo, 122, 135. Costa, Orazio, 102. Craig, Edward Gordon, 25n, 101, 111. Cranko, John, 109. Cristoforetti, Gigi, 124n, 125n. Croft, Lara, 158. Cruise, Tom, 159. Cunningham, Merce, 58n, 81, 96, 97

D’Adamo, Ada, 109n. Dalcroze, Émile, vedi Jaques-Dalcroze, Émile. Dalla Palma, Sisto, 56n. Daly, Ann, 24n. Daly, Augustin, 17. Davico Bonino, Guido, XXIIn. Davidson, Andrea, 158 e n. Davies, Siobhan, 142. Davies Marshall, Glyn, 143. Decouflé, Philippe, 137, 144. Decroux, Étienne, XIII, XX. De Keersmaeker, Anne Teresa, 122, 145. de Kerckhove, Derrick, 129n. Delsarte, François, 5, 6 e n, 7 e n, 8, 9 e n, 10 e n, 11 e n, 12 e n, 13-14, 16-17, 20, 22-24, 25 e n, 28, 62-63, 67, 95. Delsarte, Gustave, 22. De Manicor, Anna, 146. De Marinis, Marco, 56n. De Mey, Michèle Anne, 145. Dennis, Ruthie, vedi St. Denis, Ruth. Depero, Fortunato, 111. Deren, Maja, 140. Di Giovanni, Marilisa, 134n. Dilthey, Wilhelm, 134n. Dinkla, Söke, 148n. Diodato, Luciana, 51n. Dionigi, santo, 16. Dobbels, Daniel, 122n. Doglio, Vittoria, 112n, 113n. Dorfles, Gillo, 81n. D’Oriano, Pietro, 47n. d’Orsi, Angelo, 112n. Draisma, Janneque, 145. Duchamp, Marcel, 98. Duncan, Elisabeth, 39. Duncan, Isadora, 14, 20, 24, 25 e n, 26n, 27 e n, 28 e n, 29 e n, 62-63, 86, 91. Duncan, Mary, 25.

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Dunn, Robert, 117. Dutoit-Carlier, Claire-Lise, 64n, 66n. Eco, Umberto, 51 e n. Einstein, Albert, 96. Ek, Mats, 109. Ekman, Paul, Xn. Elam, Keir, 50n, 56n, 58n. Elia, Barbara, 34n, 36n, 38n. Escodamè, 111. Ezralow, Daniel, 137. Fabre, Jan, 126, 145. Facciuto, Eugene Louis, 108. Fanti, Silvia, 125n. Fechner, Gustav Theodor, 35n, 37n, 38n, 39n. Fenley, Molissa, 135, 142. Ferraro, Angela, 129n, 149n. Feuillet, Raoul-Auger, 12n, 60 e n, 61. Formenti, Carlo, 152n. Forsythe, William, 58n, 109-10, 135, 155. Forti, Simone, 117. Foster, Susan Leigh, 54n. Francia, Monica, 146. Franco, Susanne, 63n, 65n, 66n, 74 e n, 84n, 86n, 88n. Franko, Mark, 93n, 94n. Franko B, 156. Freud, Sigmund, 14. Fritz, Kurt von, 39n. Fuchs, Georg, 67. Fuller, Loie, 19 e n, 86. Galimberti, Umberto, XV, 33n. Gallotta, Jean-Claude, 122, 144. Gautier, Théophile, 6. Gelli, Piero, XXIIn. Ghiglione, Alessandra, 56n, 102n. Giavotto, Nicoletta, 29n, 84n. Gioia, 111. Giordano, Raffaella, 122. Gluck, Christoph Willibald, 8, 67. Godard, Hubert, 159. Godard, Jean-Luc, 143.

Goffman, Erving, IX e n. Gombrich, Ernst, 51 e n. Gordon, David, 117. Gourfink, Myriam, 126. Graham, Martha, VII, 14, 23, 75, 78, 81, 82 e n, 84 e n, 85 e n, 86 e n, 87 e n, 88 e n, 89 e n, 90 e n, 94 e n, 9596, 101. Greco, Emio, 145. Greco, Lino, 146. Greenaway, Peter, 140. Gregor, Lutz, 146. Greimas, Algirdas Julien, 49 e n, 50. Grossman, Peter, 141. Grosz, Elizabeth, 126n. Grotowski, Jerzy, XVII, 116. Gualino, famiglia, 112. Gualino, Cesarina, 112. Gualino, Riccardo, 112. Guarino, Carmine, 111. Guatterini, Marinella, 58n, 81n, 107n, 109n. Guérini, Marc, 144. Guglielmo Ebreo da Pesaro, 8 e n. Guzzo Vaccarino, Elisa, vedi Vaccarino, Elisa. Hall, Edward Twitchell, XIIn. Hall, Jeff, 159n. Halprin, Anna, 141. Harris, Melissa, 98n. Hay, Deborah, 117. Henry, Michel, 47n. Hinman, Mary Wood, 77. Hodgson, John, 67n. Hoffmann, Reinhild, 139. Hofmannsthal, Hugo von, 35. Holland, Phil, 105n. Holm, Hanya, 91, 101. Horst, Louis, 93, 94 e n. Hovey, Henrietta, 22. Hrvåtin, Emil, 126n, 145n. Huizinga, Johan, 34n. Humphrey, Doris, 23, 62, 74, 75 e n, 76, 77 e n, 78.

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Husserl, Edmund, 40 e n, 41n, 47n, 48. Hutchinson Guest, Ann, 4n, 60n. Hutter, Bella, 112-13. Hytier, Jean, 36n. Infante, Carlo, 152n. Ingersoll, Robert, 25. Jackson, Michael, 137. Jaques-Dalcroze, Émile, 14, 62-63, 64 e n, 65 e n, 66 e n, 67-69, 71, 73, 92. Jones, Bill T., 142. Jooss, Kurt, 112. Kadaré, Ismail, 121n. Kafka, Franz, 56n. Kelly, Gene, 108. Kleist, Heinrich von, 101. Koegler, Horst, XXIIn. Kostelanetz, Richard, 97n, 99n. Kozel, Susan, 158 e n. Kresnik, Johann, 139. Kuchelmeister, Volker, 155. Kylián, Jirˇ í, 145. Laban, Rudolf von, 58n, 60 e n, 6162, 67, 68 e n, 69, 70 e n, 71, 72 e n, 73, 92, 109. Lacan, Jacques, 14. Lamaître, Frédérick, 6. Lanfredini, Roberta, 40n. Lange, Roderyk, 60n. La Rocca, Patrizia, 131n. Leeker, Martina, 148n. Lemaître, Odon Jérôme, 105n. Lemieux, Michel, 159n. Le Roy, Xavier, 126 e n. Levinson, André, 65 e n. Linke, Susanne, 58n. Lisi, Simona, 47n, 52n. Lloyd, Margaret, 86n. Lombardi, Sandro, 137. Lord, Richard, 129n, 157 e n. Louis, Murray, 101 e n, 103 e n, 104 e n.

Louppe, Laurence, 60n. Lucenti, Michela, 146. Luigi, vedi Facciuto, Eugene Louis. MacDougall, Allan Ross, 25n. Macrì, Teresa, 134n, 149n. Madonna, 137. Maffesoli, Michel, 147n. Maletic, Vera, 71n. Mallarmé, Stéphane, 15, 35 e n. Manning, Susan A., 73n. Manovich, Lev, 147n. Marchesini, Roberto, 149n. Marinetti, Filippo Tommaso, 111. Markman, Raja, 112. Martin, John, 27n, 28n, 29n, 84 e n, 91 e n, 93-94, 95 e n. Martone, Mario, 137. Massoux, Nicole, 145. Matos, Jean-Marc, 150n. Mattarozzi, Marco, XXIIn. Mattox, Matt, 108. Mauss, Marcel, XIn. Mazzaglia, Rossella, 94n, 99n, 116n, 118n. McDonagh, Don, 116n. McKaye, Steele, 13, 17. McLuhan, Marshall, 127n. Melchiorre, Virgilio, XXIn, 34n, 40n, 41n, 42n, 44n, 46n, 58n, 78n. Melis, Veronica, 5. Menicacci, Armando, 128n, 153n, 155n, 159n. Merleau-Ponty, Maurice, 34 e n, 41n, 79 e n. Milloss, Aurel, 114n. Monk, Meredith, 116, 141. Montagano, Gabriele, 129n, 149n. Morris, Desmond, 51n. Morrison Brown, Jean, 18n. Morteo, Gian Renzo, 113 e n. Mosse, George, 63n. Mourieras, Claude, 144. Mukarovsky, Jan, 57n. Müller, Hedwig, 68n.

166

Murphy, Mark, 142. Muscelli, Cristian, 34n, 47n, 75n.

Quadri, Franco, 114n. Quinz, Emanuele, 128n, 148n, 150n, 153, 159n.

Nadj, Josef, 122. Nanni, Andrea, 121n. Natoli, Silvana, 106 e n. Neumeier, John, 109. Newson, Lloyd, 143. Nietzsche, Friedrich, 34, 35 e n, 38, 42, 62, 67, 76-77. Nikolais, Alwin, 61, 81, 83, 101 e n, 102, 103 e n, 104 e n, 105, 112, 14041. Orlan, 149n. Ortega y Gasset, José, 102. Otto, Walter Friedrich, 35n, 39 e n. Ottolenghi, Vittoria, 132 e n. Paik, Nam June, 135. Pane, Gina, 81n. Parker, Francis W., 75n. Pasi, Mario, XXIIn, 108n. Paulino-Neto, Brigitte, 121n. Paxton, Steve, 117, 119. Pedroni, Francesca, XVIn, 53n, 101n, 104n, 105n, 141n. Pendleton, Moses, 105 e n. Pepe, Davide, 146. Perillo, Mary, 142. Pilon, Victor, 159n. Pizzo, Antonio, 148n, 150n, 159n. Platel, Alain, 122, 126. Platone, 34. Pollifrone, Sabrina, 112n, 113n. Pontremoli, Alessandro, XXIIn, 7n, 48n, 52n, 53n, 54n, 89n, 92n, 101n, 112n, 113n, 131n, 143n, 150n. Popper, Frank, 148n. Porzio, Michele, 96n, 97n. Pradier, Jean-Marie, 94n, 116n. Prati, Claudio, 146, 154. Preljocaj, Angelin, 121, 136, 144. Preston-Dunlop, Valerie, 67n, 70n. Prono, Franco, 133n. Protas, Ronald, 84.

Rabaté, Jean, 144. Rabitti, D., 113. Rainer, Yvonne, 116-17, 119, 120n. Randi, Elena, 5n, 6n, 7n, 10n, 11n, 16n, 18 e n, 20n, 23n, 25n. Rauschenberg, Robert, 98, 141. Reynaud, Bérénice, 122n. Rigotti, Domenico, XXIIn. Rilke, Rainer Maria, 35. Rogers, Ginger, 108. Rood, Arnold, 25n. Rossi, Giorgio, 122. Roversi, Antonio, 128n. Ruffini, Franco, XVIII, 10n, 57n. Ruth, 16. Sacharov, coniugi, 112. Sachs, Curt, XIn, XIV e n, XV e n, 45n. Sada Yacco, vedi Yacco, Sada. Sagna, Anna, 113 e n, 114. Sanborn, John, 142. Saporta, Karine, 122, 140, 144. Sasportes, José, 35n, 36n. Satie, Erik, 98. Savarese, Nicola, XVIIn, 55n, 102n, 148n. Savoie, Pierre-Paul, 159n. Schiphorst, Thecla, 155 e n. Schlemmer, Oskar, 104. Schlicher, Susanne, 115n. Schmalzriedt, Egidius, 39n. Scholten, Pieter C., 145. Schopenauer, Arthur, 64. Schur, Ernst, 27n. Senatore, Ambra, 122n. Sgarbi, Elisabetta, 105n. Shawn, Ted, 21, 22 e n, 23 e n, 24, 62. Shelton, Suzanne, 16n, 19n, 20n. Sherman, J., 16n. Sieni, Virgilio, 121, 154. Sinibaldi, Clara, 36n, 38n.

167

Sinisi, Silvana, 16 e n, 17n, 20 e n, 24n, 25n, 92n, 93n, 111n. Smith, A. William, 155n. Sorell, Walter, 5 e n. Spallone, Amelia, 7n, 12n, 13n. Sparacino, Flavia, 155 e n. Sparti, Barbara, 8n. Spector, Irwin, 63n. Spink, Ian, 143. Stanislavskij, Konstantin Sergeevicˇ, 10n, 63. St. Denis, Ruth, 16-17, 18 e n, 19 e n, 20 e n, 21 e n, 24, 29n, 62-63, 75, 85-86, 91. Stebbins, Geneviève, 13, 17, 20 e n. Stelarc, 129n, 149n, 156. Stella, Kiko, 146. Sting, 137. Stöckemann, Patricia, 68n. Stodelle, Ernestine, 74n, 75n, 77n. Stravinskij, Igor, 144. Streb, Elisabeth, 156. Stuart Ewing, Tamara, 146. Stüber, Werner Jacob, 22 e n, 24 e n. Szeemann, Harald, 69n. Testa, Alberto, XXIIn. Tian, Renzo, 116n. Tiezzi, Federico, 137. Tomassini, Stefano, 114n, 122n. Tramontana, Gaetano, 55n, 102n. Turnbull, Ann Veronica, XXIIn. Turner, Victor, 45n, 134n.

Vaccarino, Elisa, XVn, 14n, 18n, 19n, 24n, 46n, 53n, 63n, 109n, 110 e n, 111n, 112n, 113n, 114n, 133n, 136 e n, 137n, 139n, 140 e n, 142, 144 e n, 146 e n, 149n. Valentini, Valentina, 148n, 153n. Valéry, Paul, 15, 35 e n, 36 e n, 37 e n, 38 e n, 47. Vergine, Lea, 149n. Vergote, Antoine, 78n. Veroli, Patrizia, 114n. Verret, François, 122. Vidach, Ariella, 146, 154. Virilio, Paul, 110 e n, 149n, 152n. Volli, Ugo, VIIIn, IXn, XIn, XIIn, 32n, 48n, 49n, 51n, 52n, 54n, 55n, 80n, 108n. Wagner, Richard, 8n, 9n, 14, 64. Walton, Jamie, 143. Watzlawick, Paul, 55n. Wechsler, Robert, 156n. Weidman, Charles, 23. Westbrook, Frank, 140. Wigman, Mary, 62, 73, 74 e n, 91, 101, 112. Wilson, Robert (Bob), 58n, 116, 126. Wilson Ross, Nancy, 85n. Yacco, Sada, 19. Zane, Arnie, 142. Ziegler, Christian, 155. Zo, Elena Alessandra, 113n, 114n.

Indice del volume

Introduzione

VII

1. La nascita della danza moderna

3

1.1. Estetica della danza fra Ottocento e Novecento, p. 3 - 1.2. Il balletto, p. 3 - 1.3. L’estetica applicata di François Delsarte, p. 5 - 1.4. Dal delsartismo alla danza moderna, p. 14 - 1.5. Ruth St. Denis e Ted Shawn, p. 16 - 1.6. Isadora Duncan, p. 24 - Conclusioni, p. 29

2. Il corpo in movimento: categorie estetiche e strumenti critici

32

2.1. Friedrich Nietzsche e il dio che danza, p. 34 - 2.2. Paul Valéry: la danza come corpo del senso, p. 35 - 2.3. Corpo e conoscenza: la prospettiva del pensiero fenomenologico, p. 38 - 2.4. La danza come arte del corpo simbolico, p. 44 - 2.5. Idee per una semiologia della danza, p. 48 - 2.6. Scrivere la danza, p. 59

3. La danza di un corpo nuovo

62

3.1. L’euritmica di Émile Jaques-Dalcroze, p. 63 - 3.2. Rudolf Laban: la danza pensiero-in-movimento, p. 67 - 3.3. Mary Wigman ovvero dell’assolutezza della danza, p. 73 - 3.4. Doris Humphrey: la danza come «arco fra due morti», p. 74 - Conclusioni, p. 78

4. La danza nel secondo Novecento 4.1. Martha Graham, p. 84 - 4.2. La «modern dance» secondo John Martin e Louis Horst, p. 91 - 4.3. Merce Cunningham: la danza come

169

80

«mandala», p. 96 - 4.4. Spazio, tempo, movimento. Alwin Nikolais e la «motion», p. 101

5. Le etichette critiche

106

5.1. La danza classica e il balletto, p. 107 - 5.2. La danza moderna, p. 108 - 5.3. La danza contemporanea, p. 114 - 5.4. Le nuove danze, p. 120 - 5.5. Le estetiche della transizione, p. 123

6. Videodanza, danza digitale, «environment dance»

127

6.1. Danza e televisione, p. 130 - 6.2. La videodanza, p. 132 - 6.3. Nuove tecnologie, nuovi spettacoli, p. 147 - 6.4. Forme della danza tecnologica, p. 152 - Conclusioni, p. 158

Indice dei nomi

163