La cultura e i luoghi del '68

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Dipartimento di storia dell’Università di Torino

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Dipartimento di Storia dell’Università di Torino La collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino — nato quattro anni fa e che oggi raccoglie un centinaio di docenti e ricercatori con un arco di interessi che va dalla storia antica a quella contemporanea — si propone di pubblicare ogni anno i frutti migliori della ricerca che si svolge all’interno del Dipartimento da parte di tutti gli studiosi che vi afferiscono, inclusi i dottorandi e i ricercatori inseriti in ricerche o convenzioni stipulate dal Dipartimento. Un comitato editoriale, eletto ogni anno dal Consiglio, che si avvale di volta in volta di esperti esterni, esamina ogni lavoro ed esprime il suo parere vincolante. L’obiettivo che si propone la nostra iniziativa è quello di sottolineare, anche con questa collana, la centralità della ricerca scientifica e del suo coordinamento, ad ogni livello, nella sperimentazione dipartimentale. Varata in una situazione legislativa contraddittoria, che crea nuovi organismi senza abolire o riformare i vecchi, l’istituzione dipartimentale ha superato nei primi anni, almeno nella maggior parte dei casi, la prova di un funzionamento amministrativo più rapido e funzionale rispetto alle istituzioni preesistenti, ma non c’è dubbio sul fatto che il destino della sperimentazione si decida sul piano scientifico, che è quello decisivo per dare significato e giustificazione alle leggi di ri-

forma del 1980. Di qui la determinazione e l’impegno a creare strumenti ed occasioni per quel coordinamento della ricerca che è, senza alcun dubbio, l’attribuzione fondamentale del Dipartimento. La collana, come e più di altre iniziative, ad esempio di tipo seminariale, nasce per rispondere a queste esigenze espresse in più di un’occasione dai membri del Dipartimento. Auspichiamo che la collana riesca a diventare un mezzo effettivo di comunicazione tra gli studiosi che lavorano nel Dipartimento e tutti i centri di ricerca storica interessati al nostro lavoro.

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I La cultura e i luoghi del ’68 a cura di Aldo Agosti Luisa Passerini Nicola Tranfaglia

Atti del Convegno di studi organizzato dal Dipartimento di Storia dell’Università di Torino

FrancoAngeli

Copyright © 1991 by FrancoAngeli s.r.l1., Milano, Italy È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo

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INDICE

Premessa, di Aldo Agosti

pag. VII

Parte I - Il contesto culturale e internazionale Il caso italiano e il contesto internazionale, di Gian

Giacomo Migone Le culture del ‘68, di Peppino Ortoleva Trasformazione, crisi e rilancio delle ideologie, di Giorgio Galli Nel ’68: quando l’Oriente era rosso, di Enrica Collotti Pischel

Attraverso le interpretazioni del maggio francese, di Bruno Bongiovanni

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Il movimento studentesco degli Stati Uniti, di A/berto

Martinelli Il movimento studentesco della Germania Occidentale di Roland Eckert

Il movimento del ’68 in Spagna, di Alfonso Botti

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Parte II - Il movimento degli studenti Testimonianza semiseria sul ’68 a Trento, di Diego Leoni Aspetti del movimento del ’68 a Torino, di Giovanni De Luna Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, di Marco Revelli

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Il movimento studentesco di Milano, di Robert Lumley Note storiche sugli studenti estremisti e sulle agitazioni nell’università pisana (1966-1975), di Michele Battini Generazione, politica e violenza. Il °68 a Roma, di Marco Grispigni Lotte universitarie e potere accademico a Napoli nella seconda metà degli anni sessanta, di Francesco Barbagallo

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Parte III - Il ’68 e gli anni settanta in Italia Il ’68 e gli anni settanta nella politica e nella società, di Nicola Tranfaglia Il ’68 e il sistema politico italiano, di Gianfranco Pasquino Il ’68, gli studenti e il movimento operaio, di Bruno. Manghi Il movimento delle donne, di Luisa Passerini Il ’68, il mondo cattolico e la Chiesa, di Guido Verucci

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Parte IV - La scuola, l’università e l’insegnamento della storia La politica scolastica italiana dal centro-sinistra alla contestazione studentesca, di Giuseppe Ricuperati Didattica e ricerca nell'Università: l'esempio della storia medievale, di Paolo Cammarosano

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Didattica e ricerca nell’ Università: l'esempio della storia moderna, di Mario Rosa

Didattica e ricerca nell’Università: l'esempio della storia contemporanea, di Guido Quazza Manualistica e sperimentazione: il ruolo dell’insegnante, di Lidia De Federicis

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Premessa

Nel novembre del 1988 il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino promosse un convegno di studi dal titolo «Università e società italiana. Le culture e i luoghi del ’68»!. I contributi degli studiosi che vi parteciparono sono ora raccolti, nella maggior parte dei casi approfonditi e rielaborati, in questo volume. Il Convegno rappresentava, nel momento in cui si apriva, la prima occasione in cui il °68 era assunto come oggetto di vera e propria riflessione storica. Cadeva verso la fine di un anno in cui i mass media,

sull’onda di quella logica di mercato che sempre presiede agli anniversari, non avevano certo lesinato la loro attenzione per l’avvenimen-

to. Era stata tuttavia un’attenzione che aveva mostrato la corda della fretta e della superficialità, oscillando fra la «spettacolarizzazione» e una tendenza all’appiattimento sul presente anche nel quadro di operazioni politiche strumentali. Quasi del tutto assente restava una prospettiva storica, capace di distinguere gli eventi, di rapportarsi ad essi in maniera problematica e di darne dei giudizi articolati2. E il fatto era indubbiamente singolare, considerato che dal ’68 erano pur sempre trascorsi vent'anni. Per guardare solo a date periodizzanti della storia contemporanea,

e senza

stabilire omologazioni

che avrebbero

poco

senso, la seconda guerra mondiale o, da un punto di vista più specifico, la Resistenza italiana, erano, vent’anni dopo, a tutti-gli effetti, punti di riferimento cospicuo del dibattito storiografico. Per il ‘68 questo non era avvenuto: né può dirsi, a due anni di distanza, che vi siano se-

gnali significativi di superamento del ritardo accumulato. Rossana Rossanda, una delle interpreti del fenomeno da cui si potrà spesso dissentire, ma a cui non si può negare il merito di averlo ripensato in maniera appassionata e approfondita, ha scritto che il °68 è «ancora mate-

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Aldo Agosti

ria conflittuale, non archiviata, non ‘“oggettivata”, bruciante». E ha aggiunto: Se brucia — e questa è già una prima risposta alle domande che ci proponiamo— non era soltanto l’ultima e pittoresca fiammata di un antico incendio. Tutte le braci in capo a meno di vent’anni, diventano fredde. Questa scotta, irrita ancora.

Nessun dubbio che sia così: basterebbero a dimostrarlo gli echi nei mass media e nell’opinione pubblica della vicenda giudiziaria SofriMarino-Calabresi, che si apriva proprio alla vigilia del Convegno e che, al di là di ogni giudizio di merito sui suoi esiti, ha rappresentato in modo emblematico la tendenza di larga parte dei mass media alla «demonizzazione» del ’68. Non c’era negli organizzatori del Convegno nessuna intenzione di sfuggire agli interrogativi dell’impegno civile che una materia così incandescente rimandava. C’era però, e resta alla base di questo volume, se è lecito continuare a servirsi della metafora della Rossanda, l’intenzione di estrarre con le pinze da quella brace alcuni carboni, di farli raffreddare, di guardarli da vicino, anche con la lente di ingrandimento, di riconoscerne la composizione e le fibre.

Non si tratta di un compito facile. Ha scritto di recente molto bene Eric Hobsbawm che quando gli storici affrontano un’epoca di cui sopravvivono testimoni oculari, entrano in gioco e si scontrano (o nel caso migliore si integrano) due visioni storiche molto diverse: quella dello studioso e quella esistenziale; la memoria d’archivio e quella personale. Tutti, infatti, sono storici del proprio vissuto cosciente nella misura in cui cercano di venirne intellettualmente a capo*.

Quest'ultima affermazione sembra particolarmente vera per il ’68, un evento o una trama di eventi storici che sembrano ancora privi di una definizione precisa, che appare difficile ripensare, come osserva nel suo saggio Peppino Ortoleva, «se non in modo parziale, indiretto, impressionistico». Pur nella consapevolezza di tutte queste difficoltà, il Convegno e ora il volume si sono proposti di fornire un contributo vero alla comprensione storica dell’oggetto che hanno affrontato. Per farlo, essi muovono da alcune ipotesi e da alcune scelte, che non pretendono certo di assurgere a categorie interpretative, ma che almeno forniscono un bandolo per disaggrovigliare la matassa, per ritrovarne i capi e riordinarne almeno provvisoriamente i fili. Intanto, abbiamo assunto consapevolmente come punto di partenza il movimento degli studenti delle università italiane, nato in rapporto con le loro contraddizioni: abbiamo cioè voluto insistere sul ruolo di attore importantissimo che quel movimento ebbe nell’innescare una

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Premessa \

crisi profonda che, comunque la si giudichi, non avrebbe più lasciato la società italiana uguale a quella che era. Perciò abbiamo ritenuto utile approfondire, attraverso una serie di case studies, le origini e gli sviluppi di quel movimento in una serie di situazioni significative, mettendo così insieme le prime tessere di un mosaico il cui completamento costituirà comunque condizione imprescindibile di uno studio storico sul ’68 italiano. In secondo luogo, abbiamo inteso mettere nella giusta luce il fatto che, pur presentando forti specificità — che certamente usciranno da questi lavori in tutto il loro rilievo —, il °68 delle università italiane non è stato un fenomeno provinciale o autarchico, bensì parte e momento di un grande rivolgimento politico, sociale e culturale di carattere internazionale: di qui la scelta di richiamare con il debito peso i suoi referenti più generali, fornendo se possibile i primi spunti per un’analisi di tipo comparato. In terzo luogo abbiamo considerato il "68 per ciò che esso sempre più si è rivelato: cioè un’«onda lunga» che, al di là della rottura traumatica che indubbiamente ha rappresentato in qualche caso, e che tale permane nella coscienza di una generazione, ha dispiegato i suoi effetti forse più profondi sulla società a distanza di tempo, interagendo in maniera sensibile anche se non sempre facilmente decifrabile con molti aspetti della sua trasformazione, esercitando un’influenza duratura sugli attori che di questa trasformazione sono stati insieme soggetti e oggetti. Infine, in quanto Dipartimento universitario di Storia (un Dipartimento che raccoglie per così dire sotto lo stesso tetto, in una convivenza che non sempre è facile ma, credo, per tutti utile e stimolante, studiosi dell’età antica, di quella medievale, di

quella moderna e di quella contemporanea) ci siamo posti il problema di quanto quell’«onda lunga» abbia interferito, e in quali modi diversi, con la didattica e la ricerca della nostra disciplina e con la nostra identità professionale di insegnanti e di studiosi. Ne è nato un convegno multipolare e per certi aspetti, forse, leggermente schizofrenico: e ne risulta ora questo volume certamente ambizioso, che in quanto tale rischia — ma è un rischio calcolato — di porre molte domande e di dare risposte insufficienti e parziali. Ma ci ha sorretto la convinzione che fare i conti storicamente con il 68 e la sua eredità sia un impegno non procrastinabile per tutta la cultura italiana; ci ha stimolato l’idea che fosse importante lanciare questa sfida dall’interno dell’università, l’istituzione su cui quel fenomeno ha esercitato 1 suoi effetti più profondi e anche più laceranti, e insieme quella a cui spetta comunque il compito di suscitare e indirizzare la ricerca. Aldo Agosti

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agi quiz as chiavi del ’68. Fine di un’epoca 0 da | festo, 1988, n. 22, supplemento. CR

di un ciclo?», mani

4EJ Hobsbawm, L'età degli imperi 1875-1914, Laterza, Bari,1987, p. 7.

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Parte prima

Il contesto culturale e internazionale



IL CASO ITALIANO E IL CONTESTO INTERNAZIONALE di Gian Giacomo Migone

To so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Jo so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa

o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio «progetto di romanzo» sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre

che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile. Pier Paolo Pasolini, «Che cos’è questo golpe?», Corriere della Sera, 14 nov. 1974.

La lettura dei numerosi libri, opuscoli, articoli pubblicati in occasione del ventennale del 1968 non può che indurre a una riflessione sui compiti della ricostruzione storica. È come se il clamore delle rievocazioni e delle testimonianze avesse messo in evidenza un vero e proprio silenzio storiografico, tanto più grave se si riflette sulla natura drammatica degli ultimi vent’anni di storia del nostro paese. Questo silenzio non può essere spiegato con la consapevole prudenza di chi sente di mancare della necessaria prospettiva per affrontare argomenti così recenti e, quindi, teme di essere prigioniero di passioni che inquinerebbero un vero e proprio sforzo interpretativo. Ci si deve chiedere, piuttosto, perché le emozioni — molla ineliminabile di ogni impegno storiografico — abbiano prodotto soprattutto riflessioni individuali che troppo spesso testimoniano come il disorientamento di una generazione dell’oggi abbia preso il posto delle fragili certezze di ieri. Di fronte a un caso così vistoso di rimozione collettiva lo storico

Gian Giacomo Migone

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viene ricondotto ad alcune sue responsabilità originarie di fronte a cui devono cedere il passo le più recenti e raffinate mode metodologiche. Egli deve misurarsi con le domande elementari che potrebbero porre sia i giovani di oggi, i quali non hanno vissuto ma sentito parlare di quegli anni, sia quegli uditori stranieri che si sforzano di capire le vicende del nostro paese. Forse non è un caso che una delle più du‘rature interpretazioni di una storia recente l’abbia formulata a caldo uno storico che era anche stato protagonista degli avvenimenti e dei problemi che aveva deciso di discutere di fronte a un uditorio straniero. Quando Federico Chabod tenne le sue lezioni di storia dell’Italia

contemporanea alla Sorbona! non poteva dare nulla per scontato: dovette assumersi la responsabilità di ricostruire una sequenza di dati e di avvenimenti, connettendoli in maniera tale da rispondere a quelle elementari domande che erano nella mente dei suoi uditori: che cosa era accaduto e perché? che errori furono commessi e quali insegnamenti ne avete tratto? in che misura si poteva fare diversamente? E tutto ciò con l’apparente semplicità di chi non deve intervenire in un dibattito storiografico — che consente di controbattere, ma anche di appoggiarsi alle argomentazioni altrui — e che, invece, si trova costretto a delineare una sintesi ancora tutta da verificare. Né si può rispondere che Chabod era Chabod. Ciò spiegherebbe solo la qualità delle risposte che egli a suo tempo fornì a quelle domande. L’Italia è ricca di storici intelligenti, ma perché tacciono o parlano solo in maniera così frammentaria? Maria Luisa Pesante ha giustamente osservato che il conflitto di classe fu rappresentato in quegli anni in maniera così rozza e onnicomprensiva da provocare oggi, non raramente proprio nelle stesse persone, un conformismo altrettanto assoluto di segno contrario?. Pochi osano anche solo alludere a conflitti d’interesse e tanto meno impegnarsi in un’urgente ridefinizione di soggetti sociali, trasformati ma non eliminati da mutamenti recenti. In questo senso la storiografia che tace e di cui qui si auspica la ripresa è doppiamente politica: perché dovrebbe affrontare l’interpretazione di un conflitto di potere nel passato e perché si predispone a sostenerlo nel presente, nel momento in cui rompe un silenzio anch’esso politico. Infatti, quello che comunemente viene chiamato il ’68 non segna che l’inizio di una fase storica che si protrae fino alle elezioni politiche del 1976, in cui, per la prima volta dopo il 18 aprile 1948, viene messo radicalmente in discussione un assetto di potere che ha dominato l’Italia per un ventennio. Quella sfida fu raccolta da una classe dirigente incapace di esprimere una politica riformatrice, fortemente

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Il caso italiano e il contesto internazionale

condizionata dal principio della continuità con lo Stato anche fascista, FORRSICESTO atti.

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assai

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nell’individuare,

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all’interno

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schieramento di opposizione, elementi di stabilizzazione del proprio potere: così lo sviluppo del terrorismo, prima nero e poi rosso, ha determinato una domanda di ordine che non si è spinta fino a mettere in discussione

le istituzioni democratiche,

anche

se le ha largamente

condizionate, ma che ha contribuito potentemente a distruggere i movimenti rivendicativi di massa; l’inflazione ha aperto la strada alla deflazione e alla ristrutturazione dei processi produttivi in una fase in cui, non a caso, il partito comunista è stato chiamato a partecipare al-

la maggioranza governativa, ma non al governo. Insomma, si è svolta una gigantesca partita di potere di cui abbiamo sotto gli occhi i risultati, ma che non trova ancora posto nel dibattito storiografico e politico odierno. Di fronte a tutto ciò, gli ipotetici storici del consenso con qualche eccezione preferiscono lasciare il campo a una sbrigativa pubblicistica che equipara la contestazione di un tempo al caos che prelude al terrorismo: una sorta di implosione del movimento protagonista assoluto e isolato in un panorama

senza Stato e senza mercato, da cui

scompaiono gli altri attori. Le inchieste giudiziarie, da quella del 7 aprile al caso Ramelli e, ancor più, quella in atto riguardante l’assassinio del commissario Calabresi, indipendentemente dall’esito giudiziario, nella loro specificità producono una memoria collettiva in cui non solo non vi è soluzione di continuità fra movimento e terrorismo — e l’attenzione rivolta al caso Negri e alle imprese degli autonomi ha rafforzato un necessario anello di congiunzione —, ma che finisce per

individuare nel terrorismo l’unico e inevitabile sbocco di ogni forma di dissenso e di critica manifestata negli anni precedenti. L’insegnamento che ne deriverebbe è una sorta di incompatibilità dell’opposizione e della lotta collettiva che, anche se inizialmente condotta con mezzi pacifici e democratici, condurrebbe di per sé a esiti peggiori dei mali che l’hanno stimolata. Mentre non mancano contributi di economisti e scienziati sociali all’interpretazione della crisi italiana, i contributi storiografici sono rari e in parte dovuti a studiosi stranieri che si sono impegnati su alcuni aspetti significativi ma settoriali. Lo scorso anno hanno avuto luogo a Harvard e al Woodrow Wilson Center di Washington convegni dedicati alla nostra storia recente3. In Italia gli storici che più si sono impegnati nelle formulazioni di ipotesi interpretative di carattere più generale sono Giorgio Galli e Nicola Tranfaglia?. Con queste rare eccezioni la letteratura storica ha

Gian Giacomo Migone

per lo più assunto la forma di una raccolta e un’elaborazione di testimonianze, esclusivamente di militanti e di ex terroristi. Carichi di impliciti significati di ordine generale sono i molti scritti biografici e autobiografici dedicati ai protagonisti del terrorismo. Alcune opere costituiscono montaggi di comodo di interviste condotte senza rigore metodologico, dove i testimoni sono oltretutto condizionati dalla loro posizione di prigionieri e dalla fragilità che essa comporta. Alcuni scritti di Giorgio Bocca (ora raccolti in volume)? sono dei buoni

esempi in questo senso. Altre opere, come quella recente di Diego Novelli e Nicola Tranfaglia”, hanno invece l’indubbio pregio di presentare scritti autobiografici elaborati attraverso un seminario condotto insieme a un gruppo significativo di ex terroristi. L'introduzione di Tranfaglia è giustamente animata dalla preoccupazione di inserire il materiale autobiografico in un contesto storico: sia pure sommariamente vengono delineati gli anni precedenti caratterizzati dalla crisi della formula di governo di centro-sinistra, dalla mancanza di un’alternativa politica e, soprattutto, da uno sviluppo industriale squilibrato che provoca fenomeni migratori interni per i quali mancano servizi adeguati. Tranfaglia affronta anche il ruolo ambiguo giocato da settori devianti degli apparati dello Stato, soprattutto in riferimento agli attentati di marca fascista e ai rischi che ne derivano per la sopravvivenza della democrazia, con conseguenti effetti su coloro che pensavano alla lotta

armata. Non vi è dubbio che all’interno di alcuni settori della nuova sinistra erano presenti analisi e atteggiamenti che, nel clima di emergenza determinato dalla strage di piazza Fontana e da altri attentati, consentivano uno sbocco terroristico. Per quanto il campione dei casi trattati non sia sufficiente per stabilire un nesso tra movimento nel suo complesso e terrorismo, alcune biografie dimostrano che in singoli casi quello sbocco vi fu. Tuttavia, una simile analisi lascia nell’ombra altri aspetti determinanti della questione. In primo luogo, la successiva svolta istituzionale della stessa Lotta Continua e di altre organizzazioni della sinistra extraparlamentare aveva precisamente lo scopo di creare un'opposizione politica alternativa alla militanza terroristica. Non vi è dubbio, a questo proposito, che un prezzo rilevante della politica di unità nazionale fu il venir meno di un’opposizione politica capace di rappresentare democraticamente le tensioni del movimento. In secondo luogo, non deve sfuggire il ruolo determinante di quella che fu opportunamente chiamata la strategia della tensione, come ha sottolineato lo stesso Tranfaglia. La mancanza di una risposta riformatrice, ma soprattutto la tolleranza e, in alcuni casi, il favoreggiamento delle stragi, rafforzava le componenti meno democratiche del movimento che pure

Il caso italiano e il contesto internazionale

furono isolate dallo sviluppo del movimento sindacale che prevalse fin dalla primavera del 1969. Quando si sviluppò il terrorismo di sinistra, ‘in gran parte grazie a una carenza di repressione da parte dello Stato (come ha ampiamente dimostrato Giorgio Galli nella sua Storia del partito armato, 1968-1982), l’esito non poteva che essere stabilizzatore. Ancora una volta, l’analisi è condizionata dall’oggetto specifico della ricerca. L’analisi di Tranfaglia, per quanto attenta a non isolarli da un contesto più ampio, scaturisce dalla biografia dei terroristi. Galli, invece, formula una cronaca minuziosa del terrorismo, ma lo pone in conti-

nuo rapporto con gli effetti che produce nel sistema politico e negli equilibri di potere. Soprattutto, egli pone al centro della sua ricostruzione il soggetto che ritiene più forte: una classe dirigente che, per quanto bersagliata, non perde la capacità di utilizzare per la propria autoconservazione i fenomeni anche più truci, riducendo al ruolo di fero-

ci comprimari i protagonisti rossi e neri della lotta armata. Sono esiti storiografici che risultano irraggiungibili se il pur giusto riconoscimento di un diritto a una propria autobiografia, rivendicato dai più svariati militanti dell’epoca, genera confusione riguardo alla. fondamentale distinzione tra fonti e interpretazioni e, soprattutto, viene

a costituire la base palesemente angusta e distorcente di ricostruzioni di ordine più generale. Il problema non si pone soltanto nei confronti dei protagonisti della lotta armata. Tutt'altro. Con una disponibilità che risulterebbe sospetta, se non ne fossero evidenti gli esiti politici, la grande stampa e, in parte, l’editoria hanno messo a disposizione le loro pagine per raccogliere le testimonianze di militanti del ‘68. Purtroppo questa trappola rievocativa ha imprigionato anche professionisti che, in anni precedenti, hanno saputo mettere in evidenza l’attenzione, ma anche le cautele, che la storia orale merita. Poiché ci tro-

viamo di fronte a una linea di tendenza e a progetti di dimensioni internazionali, vorrei qui ricordare un volume su cui avremo modo di tornare. Ronald Fraser, con l’aiuto di otto storici orali di altri quattro paesi, ha chiamato /968. A Student Generation in Revolt? un libro che avrebbe potuto più utilmente chiamarsi «Voci di una generazione» o qualche cosa di simile. A parte la difficoltà scontata — che pure offre qualche attenuante agli autori — di una panoramica che abbraccia i movimenti di sei paesi, il libro pone un problema immediato e ineludibile. Infatti, anche se corredato da una sommaria bibliografia, il libro utilizza come fonti pressoché esclusive più di duecento interviste non pubblicate (174 stando al List of Contributors) di militanti, da cui scaturisce una storia generale — inevitabilmente, molto generale — dei movimenti nei sei paesi in questione, fondata su ciò che questi ex militanti oggi selet-

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tivamente ricordano o scelgono di ricordare. Ciò che esula dai destini individuali di questi ex militanti e dei movimenti a cui hanno appartenuto è inserito nella ricostruzione storica soltanto nella misura e nella maniera in cui trova spazio nelle loro testimonianze odierne. Con quali risultati è facilmente immaginabile. Ad esempio, nelle poche pagine dedicate all’Italia il gigantesco movimento operaio, sociale e sindacale, che caratterizzò gli anni immediatamente successivi al ‘68 (e che pure vengono trattati) non viene contemplato se non per i problemi che suscitarono nel vissuto di alcuni leader studenteschi e dirigenti extraparlamentari. Anche i bersagli del movimento appaiono soltanto nella ricostruzione delle motivazioni dei militanti intervistati e non come dei protagonisti autonomi, capaci di pensare, agire e anche usare i propri contestatori. È certamente legittimo, anzi necessario, circoscrivere ogni storia al suo oggetto specifico. Ma se anche si trattasse di una storia del solo movimento studentesco (il che non è, né potrebbe essere, nel caso italiano) occorrerà pur ricostruire, al di là delle menzionate fonti orali, tutte di uno stesso ambito, la realtà con cui questo movimento si è confrontato. Per quanto l’argomento sia circoscritto, la ricostruzione storica richiede capacità di distinguere l’importante del secondario, rapportare i soggetti privilegiati dalla ricerca ad altri soggetti; stabilire tra essi rapporti di forza; se di scontro si tratta, interpretarne la natura e gli interessi in gioco. Sta bene, come viene indicato nella prefazione, che la storia sia anche storia del vissuto di alcuni soggetti, ma con la consapevolezza che si tratta di un vissuto odierno rispetto a un certo passato, a condizione che — soprattutto — non si utilizzi quei vissuti come fonte principale per l’interpretazione di quel passato, ben più complesso. Altrimenti, al di là della buona fede e anche delle buone intenzioni dei singoli, restiamo tutti — lettori, storici, giornalisti e tutti coloro che insieme costituiscono una memoria collettiva — prigionieri di un gioco dall’esito scontato. Si rievoca il °68 e non ciò che lo precede e lo segue. In tal modo si opera una prima, fondamentale censura sulle ragioni di una rivolta e sui processi, a mio avviso assai più importanti dei suoi primi protagonisti, che quella rivolta innesca. Ogni storico sa bene che la periodizzazione prescelta in parte cospicua predetermina gli esiti di una ricerca. In secondo luogo, parlano soltanto alcuni soggetti: alcuni leader studenteschi (peraltro non rappresentativi di un movimento assai più ricco e variegato di quanto non si affermi) e, nel caso italiano, alcuni terroristi. Molti di costoro si sono pentiti: alcuni non abbastanza,

altri troppo, ma tutti sono desiderosi di discutere i propri vissuti, anche se non sono responsabili del modo in cui la loro testimonianza viene utilizzata per costruire una storia. Tacciono, invece, i bersagli di quella



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Il caso italiano e il contesto internazionale

rivolta e coloro che in vario modo ad essa si sono opposti e talora l’hanno saputa utilizzare per stabilire il proprio potere? Tacciono perché ci sono altri a tirargli fuori le castagne dal fuoco. Tacciono anche centinaia di individui spesso più influenti di quelli citati, migliaia di protagonisti di infiniti rivoli di conflitti sociali che in diversi modi hanno messo in discussione il precedente assetto di potere: operai, impiegati, sindacalisti, magistrati, giornalisti, medici e an-

che intellettuali. Scompaiono dalla consapevolezza collettiva gli effetti duraturi di un movimento vasto e articolato che ha preteso di realizzare un disegno costituzionale incompiuto, qualche volta consapevolmente, per lo più scambiando una tanto attesa rivoluzione democratica per quella bolscevica. Si trascurano le trasformazioni nei rapporti interpersonali come all’interno delle istituzioni; lo svecchiamento di una cultura troppo spesso astratta e incapace di analizzare i mutamenti della società contemporanea. Il movimento è sconfitto, ma la sinistra in particolare si è sottratta all’ipoteca della vecchia ideologia terzinternazionalista; ha imparato a sue spese a ricercare valori nuovi, modalità non violente nelle forme di mobilitazione. Ha imparato questo e altro, purché sappia conservarne una memoria storica. Per questo è necessario ricostruire oggi una storiografia politica capace di offrire un quadro di riferimento a chi voglia intraprendere ricerche più specifiche. A questo fine, più che le rievocazioni gioveranno modeste ricostruzioni di una cronaca che rischia di andare persa e che, invece, consentirà di individuare connessioni e significati tali da consentire sintesi di più vasto respiro. Non si vuole qui propugnare alcun dogmatismo metodologico. La ripresa di una storiografia sociale attenta ai soggetti silenziosi della storia e sensibile alla concretezza di realtà circoscritte ha dato frutti indiscutibili. Anche la ricerca di fonti nuove, orali e scritte, è certamente servita a sviluppare la comprensione delle dimensioni interpersonali e quotidiane del passato, così illuminanti per rappresentare contraddizioni precedentemente rimosse. Qui si vuole semplicemente affermare che oggi, perché anche queste acquisizioni non risultino effimere, occorre tornare a misurarsi con i grandi conflitti della storia recente.

Una singolare caratteristica comune agli studi e alle rievocazioni del ’68 — le eccezioni sono rarissime e appena accennate — è la mancanza di attenzione per il contesto in cui il fenomeno studiato si colloca. Eppure, anche un rigoroso cultore di microstoria o di storia orale concorderebbe, almeno in linea di principio, che il particolare ha biso-

Gian Giacomo Migone

gno di essere illuminato dal suo rapporto con il generale. Figurarsi poi se l’oggetto studiato è un movimento multiforme, dalle cento teste e dalle mille code, che si sviluppa in maniera pressoché concomitante in

molti paesi. Proprio questa dimensione internazionale del movimento non poteva che attirare l’attenzione di coloro che lo hanno studiato sottolineando l’autonomia rispetto alle storie nazionali precedenti e successive in cui pure, in qualche modo, si colloca.

Peppino Ortoleva e altri studiosi come Ronald Fraser!® hanno opportunamente segnalato come fattori demografici — il baby boom e il suo impatto sulle strutture universitarie in molti paesi occidentali —, gli effetti dello sviluppo dei media e di ogni forma di comunicazione — il global village di Marshall McLuhan —, ma anche una sorta di unificazione morale derivante dalla minaccia atomica e dalla crescente interdipendenza di un gigantesco mercato di consumi, spieghino l’omogeneità e la simultaneità dei comportamenti politici di una generazione di

giovani!!, Eppure, per quanto questo ordine di spiegazioni sia importante (al di là dei miei accenni che non rendono giustizia alle argomentazioni degli autori), a me sembra che esso resti, almeno in parte, confinato all’interno del fenomeno e delle coscienze individuali e collettive di cui era composto. Qual è l’assetto di potere nazionale e sovranazionale con cui questo movimento si misura? Soprattutto, qual è la solidità dei poteri investiti dal movimento, in quello che si potrebbe definire un vero e proprio annus terribilis per i potenti della terra? Solo ponendo questo tipo di domande potremo discutere gli effetti prodotti dal movimento e dai movimenti. Altrimenti è come se avessimo studiato l’ideologia e la circolazione delle idee nei movimenti liberali ottocenteschi,

intervistato i reduci dei moti, registrato i pentimenti degli autori di alcune efferatezze, ma non ci fossimo interrogati sullo stato di salute del-

la Santa Alleanza e sulle reazioni dell’ancien régime a quelle ribellioni, per poi coglierne gli effetti nelle cancellerie e ai tavoli delle conferenze. Solo nell’analisi dello scontro e dei suoi effetti su tutti i versanti è possibile valutare pienamente lo spessore, il significato, ma anche l’effettiva articolazione di un movimento, di cui altrimenti sfugge il peso che ha esercitato sugli eventi in una prospettiva storica. Non mi cimenterò certo a dimostrare l’analogia tra i moti del ’48 e quelli del °68. Come si usa dire, il problema è di metodo. Cosa vi era al di fuori e al di sopra del movimento, nello stesso anno specifico di cui ci stiamo occupando? Se in tal modo volgiamo intorno il nostro sguar-

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Il caso italiano e il contesto internazionale

do, scopriamo che ciò che rende terribilis quell’anno 1968 non è l’occupazione di Palazzo Campana a Torino, ma nemmeno quella della Columbia University, o le barricate al Quartier Latin. Semmai è la loro

concomitanza e, talora, il nesso con alcuni eventi così rilevanti da rendere per la prima volta evidente la vulnerabilità di un assetto di potere che era rimasto incontestato per oltre un ventennio. È all’interno di questo fenomeno che le ribellioni giovanili acquistano la loro più giusta proporzione, ma anche la loro rilevanza, agli occhi dello storico odierno, come anche dal punto di vista del potere cui allora essi si opponevano. Innanzitutto, nel corso del 1968 diventa chiaro che gli Stati Uniti, dopo oltre un secolo e mezzo di ascesa incontrastata, hanno perso una guerra. La sproporzione di forze tra i due contendenti è stata superata da una nuova combinazione di fattori. L’intransigenza vietnamita nella condotta della guerra si è saldata con una crescente opposizione interna, dapprima soprattutto morale e prevalentemente giovanile, successivamente tale da suscitare i riflessi isolazionisti della maggioranza di un elettorato per nulla disposto a sostenere i costi umani ed economici di una politica imperiale. L’offensiva del Tet dimostra che un corpo di spedizione di oltre 500.000 uomini non è sufficiente per vincere la guerra. I risultati delle successive elezioni primarie nel New Hampshire obbligano Lyndon Johnson a ritirarsi dalla competizione elettorale, compiendo un atto che apre la via delle trattative per il ritiro delle truppe americane dal Vietnam. Dopo l’eliminazione fisica di Robert Kennedy, a Johnson succederà Richard Nixon con un doppio mandato: di ristabilire l’ordine interno e di adeguare la politica estera della principale potenza mondiale a un ritrovato senso dei limiti della propria capacità di intervento esterno. Così, gli studenti, gli intellettuali, i religiosi, la minoranza nera, hanno anticipato un movimento che acquisterà

peso politico con il prolungarsi della guerra, l’estendersi della leva (come avvenne in Francia, con la guerra d’Algeria), il moltiplicarsi delle vittime, fino a investire tutta la middle America e, quindi, tutta quella parte della popolazione che esercita il diritto di voto. Il movimento, dapprima marginale, scatena effetti che vanno ben al di là delle sue forze. Radicato nelle università più elitarie, esso divide la stessa classe di-

rigente a cui sono destinati i suoi membri. Alla fine della guerra, Samuel Huntington, politilogo conservatore dell’Università di Harvard, concluderà che gli Stati Uniti devono scegliere tra i loro interessi imperiali e il rispetto rigoroso dei principi democratici e liberali su cui è fondata la loro tradizione!2, È l’ammissione dell’inizio di un declino, drammatizzato dallo scandalo di Watergate e dal ruolo americano nel

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Gian Giacomo Migone

colpo di Stato fascista in Cile, punteggiato da un conflitto di interessi sempre più frequente, ma ancora sotterraneo, all’interno del mondo occidentale. Nel 1971 gli Stati Uniti dovranno rinunciare al ruolo, assunto con

gli accordi di Bretton Woods, di supremo regolatore del sistema monetario mondiale, abbandonando la convertibilità del dollaro. Successivamente, la crisi energetica fornirà l’occasione a Nixon e a Kissinger per indebolire i propri alleati industrializzati, che non sono produttori di petrolio, incoraggiando i principali fornitori ad aumenti di prezzi tali da determinare cospicui deficit nelle loro bilance dei pagamenti. L’ambasciatore a Washington, Egidio Ortona, il 12 febbraio 1974 scrisse nel suo diario: Dico a[ll’ambasciatore di Germania] von Staden tutta la mia preoccupazione per l’irritazione degli americani nei confronti di noi europei. Più tardi egli mi richiama per dirmi di avere parlato con [l'assistente segretario di Stato per gli affari europei] Sonnenfeld: la situazione è esattamente come gliela descrivevo. Gli americani sono molto irritati. Kissinger pensa che nelle condizioni attuali la cosa migliore era provocare una crisi seria che porti gli europei ad un certo ravvedimento. Gli dico anche che gli americani sono al corrente dei commenti dei francesi contro gli Stati Uniti nelle loro visite nei paesi arabi. Staden è preoccupatissimo!>.

Insomma, Washington non si comporta più come capitale del «mondo libero» ma praticamente riconosce di essere portatrice di interessi di parte. Le memorie dell’ambasciatore Ortona, peraltro interprete fedele della politica filoamericana del governo, registra una successione crescente di episodi di conflitti all’interno della Nato, di cui quello legato alla crisi petrolifera non è che il più importante. Dopo la svolta nell’andamento della guerra nel Vietnam e l’inaugurazione della nuova amministrazione repubblicana, sarà tendenza del governo degli Stati Uniti a cercare nell'Unione Sovietica quel punto di appoggio indispensabile per mantenere la disciplina all’interno della propria sfera d’influenza. Tuttavia, nello stesso anno 1968, è proprio il caso di ripetere che, se Sparta piange, Atene non ride. L’intervento dei carri armati sovietici aveva soffocato il tentativo di conciliare un regime comunista con lo sviluppo della democrazia e i diritti di libertà. Ancora una volta, e questa volta in maniera definitiva, Mosca aveva dimostrato che il suo

dominio era fondato soltanto sulla forza e che, per usare un’espressione che, molti anni più tardi, assumerà grande rilievo nel dibattito poli-

tico italiano, la spinta propulsiva della rivoluzione a cui essa si ispirava si era ormai esaurita. Anche a Oriente una grande potenza si era trovata a scegliere tra le ragioni del suo impero e quelle delle sue origini. In Cecoslovacchia dapprima studenti, artisti e letterati, in seguito le

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tecnici e operai, di fronte alle minacce sovietiche un intero popolo, avevano tentato di imboccare una strada diversa, che violava un principio fondamentale di un sistema bipolare che postula l’inconciliabilità tra un sistema democratico e trasformazioni radicali di ispirazione egualitaria. Non

a

caso

l’ambasciatore

Ortona,

nel

suo

osservatorio

di

Washington registrerà di fronte ai carri armati sovietici a Praga, quella stessa «prudenza ed evasività» che sarà scrupolosamente osservata da Mosca, cinque anni più tardi, quando saranno rovesciate le parti in oc-

casione del golpe cileno!4. Ancora una volta forze giovanili e intellettuali avevano innescato una successione di eventi tali da mobilitare forze popolari maggioritarie, fino a condizionare il comportamento delle superpotenze, costrette a

difendere le proprie posizioni di potere con la forza. La consapevolezza di questo ruolo non costituì un patrimonio universale di quella generazione di giovani che pure contestavano radicalmente la legittimità del potere costituito nei propri paesi. Il giudizio del governo cinese, ispirato dalla rivoluzione culturale in atto in quel paese, secondo cui in Cecoslovacchia si era svolta «una lotta tra cani revisionisti», non era lontano dall’atteggiamento prevalente tra le avanguardie dei movimenti studenteschi occidentali. Per quanto sordi ad ogni richiamo di una ragion di Stato di marca sovietica, costoro non rilevavano l’importanza di principi che pure costituivano una condizione importante dello sviluppo della loro lotta. A Praga il leader studentesco Jan Kavan scriveva: Spesso i miei amici in Europa occidentale mi hanno detto che noi lottiamo soltanto per libertà democratiche di marca borghese. Tuttavia, mi è difficile distinguere tra libertà capitalistiche e libertà socialiste. A me pare si tratti semplicemente di fondamentali diritti umani!9.

Non si trattava soltanto di un equivoco, ma anche di un conflitto di valori: ciò che per gli uni poteva solo essere il frutto di una lotta dall’esito incerto, per gli altri era scontato al punto di apparire un inganno privo di sostanza. Su questo terreno si consumò anche la frattura ideale tra la leadership del movimento in Occidente e una parte di una generazione precedente che aveva vissuto la guerra e l’antifascismo. In realtà nulla era assicurato in un’epoca in cui la disciplina bipolare cominciava a mostrare le prime crepe!9. La bipolarità si fondava su una minaccia reciproca di distruzione totale delle due superpotenze. Quella minaccia, politica ma anche fisica, nell’era dell’atomo, per quanto virtuale, era sufficiente per fondare una disciplina. La sua esi-

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Gian Giacomo Migone stenza determinava, innanzitutto, una rigida gerarchia tra ciascuna su-

perpotenza e i suoi alleati e satelliti, in un primo tempo giustificata dalla necessità di ridurre allo stato di impotenza la Germania che per due. volte aveva sconvolto gli equilibri europei. Successivamente il nuovo equilibrio del terrore, alimentato dalla corsa agli armamenti, serviva a legittimare il primato di Washington e di Mosca, che ad un tempo alimentavano e controllavano il potenziale di distruzione di cui erano i principali detentori. Ma le tensioni bipolari erano tali da legittimare una disciplina sociale e politica all’interno dei singoli Stati membri delle due alleanze contrapposte. A Oriente quella disciplina si traduceva in un vero e proprio regime coloniale, in cui i regimi di potere vigenti non erano in grado di sopravvivere per pochi mesi senza la presenza armata della potenza dominante. Quel potere delegato era fragile a tal punto che in più occasioni, dal 1953 al 1968, l'Unione Sovietica

era stata costretta a fare un uso non solo simbolico del principio della sovranità limitata per sostenerli. In Occidente lo sviluppo economico e un sistema politico più elastico, capace di canalizzare e rappresentare l’opposizione, consentivano forme di dominio meno crude, soprattutto nei paesi nord-occidentali in cui la tradizione democratica era più sviluppata e l’identità nazionale storicamente più consolidata. Tuttavia, anche in questi paesi la sfera della sicurezza nazionale, che comprende la diplomazia, le forze armate, la polizia e i servizi segreti, esercitava una sorta di ipoteca transnazionale radicata nell’Alleanza e nella potenza egemone. Anche in Francia, ove la politica di indipendenza nazionale di De Gaulle aveva portato a una rottura con l’organizzazione, ma non con l’Alleanza atlantica, le forze armate facevano sentire il loro peso, in momenti de-

terminanti, come dimostrano le consultazioni di De Gaulle con il generale Massu, prima di effettuare la restaurazione dell’ordine nel corso della breve ma acuta crisi di maggio. Più marcate sono le limitazioni di sovranità — da non confondersi con l’interdipendenza economica che alimenta tutto lo sviluppo dell’Occidente — nei paesi del Mediterraneo che, negli anni successivi, verranno definiti dall’Economist «il ventre molle della Nato». In Portogallo, come nella Spagna formalmente neutrale, vigevano ancora dittature di marca fascista. In altri paesi l’adesione alla democrazia dei responsabili della sicurezza nazionale era certamente più labile che in altri, gli interessi materiali da difendere più esclusivi e più cospicui, e quindi la disponibilità a passare dal ricatto istituzionale alla sua attuazione più pronta, come aveva dimostrato, nel non lontano 1967, il cosiddetto colpo di Stato dei colonnelli. Più di un decennio più tardi,

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Il caso italiano e il contesto internazionale

Andreas Papandreu così ricordò un viaggio a Washington in compagnia di suo padre, poco prima del golpe: Trovandomi di fronte all’amministrazione Johnson, ebbi la sensazione di un uso

molto diretto del potere. Non vi era alcun interesse e il dialogo. Mi sentivo un poco come doveva sentirsi Dubcek, trascinato a Mosca!7.

È stato già detto più volte: l’Italia costituiva una cerniera tra sviluppo e sottosviluppo, ma anche tra vittoriosi e sconfitti nella seconda guerra mondiale, tra i paesi di democrazia consolidata e quelli in cui essa stentava ancora a sviluppare le proprie radici. La guerra di liberazione aveva posto le condizioni per l'approvazione di una costituzione repubblicana, ma non la possibilità concreta di alternanza di governo, attributo supremo di una democrazia matura. La classe diri-

gente costituiva un ibrido composto da eredi dell’epoca prefascista, esponenti di organizzazioni cattoliche, imprenditori e possidenti appena scalfiti dal crollo del regime precedente. La sinistra era divisa e paralizzata dal bisogno di legittimazione del partito comunista di 0sservanza sovietica che riproduceva, nel proprio ambito, la sovranità limitata che caratterizzava i partiti di governo, dipendenti dal sostegno di Oltre Tevere e di Oltre Atlantico. Convivevano con le nuove istituzioni e libertà democratiche le ipoteche determinate dal principio della continuità dello Stato, incubata nel periodo badogliano con l’interessata complicità di Mosca e dei conservatori inglesi. Ciò significava in concreto che alcuni settori dello Stato e dell’economia privata, al di là delle loro scelte partitiche contingenti, conservavano una forte nostalgia per un’epoca in cui i conflitti sociali e politici potevano essere regolati per via autoritaria (del resto il codice Rocco, tuttora vigente, e altre leggi riguardanti l’ordine pubblico, consentivano comportamenti ispirati a questo criterio). Insomma, la vita politica assomigliava a un gioco in cui alcuni partecipanti minacciavano di rovesciare il tavolo, nel caso in cui avessero dovuto sostenere delle

perdite. La sola minaccia bastava a produrre risultati, portando la sinistra a moderare le proprie richieste (il cosiddetto «nennismo»). Il governo Tambroni e il caso Sifar del 1964 stanno a indicare che non si trattava soltanto di vuote parole. Nel 1963 era iniziata una nuova fase della politica italiana — segnata dalla formula di centro-sinistra — che andava per l’appunto esaurendosi alla vigilia della nascita del movimento. La classe dirigente tradizionale, pubblica e privata, non aveva ricevuto consensi sufficienti per attuare una politica di repressione e riforma, sul modello gollista. La contraddittorietà della nuova formula obbligava il partito di maggioranza

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ne

Gian Giacomo Migone relativa a intraprendere un’incerta navigazione in cui la spinta riforma-

trice proveniente dalla sua sinistra avrebbe rischiato di tradursi in una perdita di consensi. Ne conseguiva una politica economica tesa a «blandire gli elettori ora con il puro e semplice clientelismo, ora con successive concessioni di privilegi a varie categorie sociali e gruppi di pressione», senza la possibilità di incidere sul dualismo Nord-Sud e piccola-grande industria, condizionata dalla stagnazione degli investimenti e dall’incapacità dello Stato a far fronte alla spesa pubblica con un’adeguata pressione fiscale. Nel frattempo una crescente migrazione interna, senza la predisposizione di servizi adeguati al Nord, e la compressione dei costi di lavoro rendevano la situazione sociale sempre più esplosiva. Inoltre: i risultati importanti... nel campo previdenziale, sanitario, scolastico, in quello della legislazione del lavoro, nello stesso assetto costituzionale dello Stato non essendo collegati entro un disegno strategico che ne assicurasse la coerenza, finirono per aprire sì alla società civile nuovi spazi di crescita e di partecipazione; ma anche per esercitare effetti destabilizzanti sugli equilibri esistenti, senza predisporre equilibri nuovi e più avanzati!8,

Conclude a sua volta Tranfaglia: «Il movimento di contestazione studentesca trova insomma in Italia una situazione del tutto favorevole

da molti punti di vista»20, Mentre gli studenti di Torino si accingono ad occupare per la prima volta Palazzo Campana, l'ambasciatore d’Italia a Washington, Egidio Ortona, s’intrattiene con il presidente del consiglio Aldo Moro: Mi dice innanzitutto della sua fatica di tenere una posizione minimamente accettabile agli americani in tema di Vietnam. Tempo fa avevamo inventato la «comprensione» egli mi dice. Ora abbiamo dovuto abbandonare tale posizione. Le pressioni dei comunisti sono troppo forti. Si possono capire i risentimenti degli americani che vedono un’ Alleanza atlantica popolata da indifferenti o da nemici sul tema Vietnam. Ma d’altra parte Washington sa anch’essa degli enormi torti che ci vengono fatti in tema soprattutto di non proliferazione. Ci stanno alimentando a grandi passi le forze neutralistiche. Tra cinque anni 1’Alleanza atlantica non avrà più alcun valore e l'Europa sarà a dir poco neutrale, il che vuol dire che farà il gioco della Russia. Mi dà l’impressione di essere torturato dal pensiero dell’alleanza con gli Stati Uniti. Mi dice di essere stato lui a convincere Fanfani a non astenersi sul problema della Cina. Si è dovuto trovare l’espediente della presentazione di una mozione per la creazione di una Commissione Consultiva perché è stato necessario di nuovo placare Nenni. Tenere le fila di una coalizione quale la nostra attuale è un lavoro improbo. Parliamo della visita che egli ha fatto pochi minuti prima all’ Ambasciata di Russia. È stato invitato ad andare in Urss. Il presidente Saragat non vuole andarci. Non può non andare lui. È un continuo dover soggiacere a pressioni, ad abbracci, a insistenze. Quanto a venire in America, cosa si può dire oggi agli americani? Non verrebbe certo se ci astenessimo sulla mozione cinese. Verrebbe comunque se invitato e desiderato. È un colloquio pieno, con un uomo profondo, consapevole, tormentato da un grande peso?0,

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Nelle parole di Moro vi è la chiara percezione dell’insolita debolezza degli Stati Uniti, legata all’isolamento che determina la politica perseguita nel Vietnam. Perciò risultano tanto più fastidiosi gli atti di imperio da parte americana nei confronti di alleati come l’Italia, chiamata a formalizzare il suo stato di subordinazione con la firma del trattato di non proliferazione delle armi nucleari e ad astenersi da un atto ormai scontato come l’ammissione all’Onu della Cina comunista. Soprattutto, l'Alleanza cessa di essere ancoraggio ed elemento di sicurezza della classe dirigente italiana, costretta a barcamenarsi tra le pressioni americane e quelle di coloro che in Italia le riproducono con più zelo — in questo caso il presidente Saragat — e l’opposizione della sinistra, rinforzata dall’andamento della guerra nel Vietnam. Più di ogni altra cosa, pesa sulle spalle del tormentato statista democristiano la vischiosità del quadro politico che non consente di affrontare qualsiasi evenienza, se non attraverso una sfibrante opera di mediazione.

È in questo contesto, italiano e internazionale, che si sviluppano le azioni del movimento studentesco che vengono accolte dalla maggioranza della stampa come un qualsiasi movimento rivendicativo, di carattere settoriale, non privo di alcune sue buone ragioni (i professori universitari non sono mai stati simpatici ai giornalisti). Invece La Stampa di Torino s'impegna in una campagna che ha come scopo la minimizzazione

della sua consistenza, attraverso una distorsione si-

stematica dei dati di cronaca 21, I bersagli diretti della contestazione hanno reazioni ancor meno composte che vale la pena citare per il loro valore paradigmatico. Ad esempio, il professor Mario Allara, rettore dell’Università di Torino, afferma che l’agitazione deriva da «ambienti estranei all’università e si può riallacciare a quanto cinquant’anni fa gli operai tentarono di attuare con l’occupazione delle

fabbriche»22. In generale, i cattedratici che vengono presi di mira, salvo rarissime eccezioni, si mostrano incapaci di rispondere in forma dialettica, assumono atteggiamenti di lesa maestà (secondo l’espressione di Romolo

Gobbi)23 e si limitano a sollecitare l’intervento della polizia, senza in alcun modo preoccuparsi della violazione di antiche tradizioni di extraterritorialità. Soprattutto, essi non sono in grado di rispondere alle istanze di rinnovamento di metodi e contenuti culturali all’interno di una struttura non solo autoritaria, ma per lo più incapace di fornire strumenti di comprensione critica della società contemporanea (come fanno rilevare molti giornali stranieri dell’epoca)?4. In questa università senza

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Freud e senza Keynes, dove lo stesso Marx è sepolto sotto una fitta coltre filologica, il fascino di nuovi metodi e nuove analisi si fa sentire con vigore. Non mancano gli aspetti paradossali: ad esempio, l’esecrazione di tutto ciò che proviene dagli Stati Uniti è quasi assoluta, ma molti degli stimoli metodologici provengono dalle scienze sociali americane. È un peccato che non sia ancora stata fatta un’analisi del linguaggio del ’68. Penso che non sia azzardato affermare che alle fasi iniziali del movimento, in cui più vasta era la partecipazione all’interno dell’università, corrisponda una comunicazione asciutta, legata alle esperienze dirette dei partecipanti, in cui poco è concesso a idiomi e filtri ideologici precostituiti, che invece riaffiorano, nel momento in cui il movi-

mento di massa si trasforma in gruppo d’intervento politico e, inevitabilmente, si apre la diaspora al suo interno. Per un breve periodo la radicalità studentesca esercita un’influenza davanti alle fabbriche — soprattutto a Mirafiori e alla Bicocca — soprattutto tra i giovani operai di linea, per lo più immigrati dal Sud, non raramente di ritorno dall’estero, insofferenti della rigidità dell’organizzazione del lavoro e della gerarchia accentuata in alcune grandi fabbriche italiane, e interessati a rompere gli schemi legati a parametri professionali. Ma, con l’«autunno caldo», il sindacato, guidato dai suoi settori meno dogmatici e più disposti a fare propria una linea rivendicativa improntata a parole d’ordine di carattere egualitario e a forme organizzative più rispondenti alle nuove realtà di base (in cui organizzazioni come la Fim-Cisl non raramente hanno un ruolo di punta), riassorbe la conflittualità e la canalizza in un grande scontro contrattuale. Gli studenti, gli attivisti esterni, i gruppi sono costretti a rincorrerlo con il fiato grosso, inaugurando quella che opportunamente veniva denominata la politica del più uno, in alcuni casi alla ricerca di altre scorciatoie di tipo estremistico (mi riferisco all’assemblea di Rimini, organizzata da Lotta Continua nel-

l’aprile 1972). Come avvertirono Francesco Ciafaloni e Carlo Donolo fin dal luglio del 1969, in un articolo dal titolo significativo «Contro la falsa coscienza rivoluzionaria nel movimento studentesco», opportunamente citato da Nicola Tranfaglia: il movimento non ha provocato mutamenti nella struttura del potere, non ha conquistato potere reale (tanto meno istituzionale) in singole organizzazioni e strutture, né

più in generale ha modificato i rapporti di forza tra le classi sociali. Insomma:

Gli studenti hanno scambiato la situazione di caos e crisi istituzionale, gli effetti superficiali della contestazione, per l'avvicinarsi di una situazione prerivoluzionaria?5,

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Solo il movimento studentesco di Milano, guidato da Mario Capanna, seppe fare diversamente, trincerandosi dentro la Statale, gestendo servizi utili agli studenti, rispondendo colpo per colpo alle torbide iniziative della questura di Milano, ma pagando il prezzo pesante di un’ideologia neostalinista e di un inquadramento militaresco delle

sue schiere?0, Eppure, se il movimento del ’68 italiano fosse stato soltanto questo, se esso si fosse limitato a far saltare i nervi di qualche barone accademico per poi lasciarsi sconfiggere dai quadri sindacali ormai schierati di fronte alle fabbriche, a respingere crumiri ma anche studenti in vena rivoluzionaria, l'onorevole Moro avrebbe potuto proseguire tranquillamente le sue conversazioni con l’ambasciatore Ortona: la complicata equazione politica con cui egli doveva già misurarsi sarebbe cambiata di poco. Perché non fu così? Ancora una volta non saprei dire di meglio di Ciafaloni e Donolo: La nascita del movimento studentesco del °67-68 ha modificato profondamente la situazione politica in Italia. Più esattamente ha imposto la ridefinizione di molti problemi politici, ha posto con urgenza imprevista richieste di soluzione di alcuni problemi sociali e istituzionali, ha messo in crisi o almeno svelato senza equivoci la crisi latente di molte venerande istituzioni, anzi ha introdotto il problema generale della crisi istituzionale, politica, dei valori socio-culturali su cui si basa il si-

stema vigente come problema per la classe dominante e quella politica in particola-

re

Insomma, non erano in gioco soltanto parrucche accademiche, mol-

te delle quali erano anche visibili a Palazzo Madama e a Montecitorio. Qualche decina di migliaia di ragazzi avevano portato autorevoli personaggi dell’amministrazione statale a reagire in maniera scomposta, ora ricorrendo alla demagogia ora preferendo consegnarsi all’intervento della forza (come avrebbe detto il librettista di Gioacchino Rossini). Mai fu più appropriata la citazione del bambino di Andersen che constata la nudità del re per descrivere il ruolo del movimento di fronte alla classe dirigente. Era soltanto un bambino, ma altri avrebbero potuto agire al suo posto. Dal livello governativo, a quello delle autorità giudiziarie e di polizia, di fronte alla contestazione studentesca era man-

cata la capacità di una risposta dialettica, o quantomeno, un efficace abbinamento tra repressione e riforme che contraddistinse l’operato di altri governi, forse più conservatori, ma certamente più forti, in giro per il mondo. Forse ebbe ragione chi lesse il movimento come una ribellione contro l’università, proprio perché non più veicolo privilegiato per diventare classe dirigente nel momento in cui apriva le sue porte alle masse. In realtà quella ribellione pesò sulla classe dirigente perché

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pesta

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ancora entrava nelle sue case, spaccava le famiglie, si traduceva in una

contestazione capillare dell’autorità paterna, della disciplina dei rapporti tra le generazioni e tra i sessi. Agli occhi di molti dirigenti della società e dello Stato essa poteva prefigurare una pericolosissima alleanza tra una parte della loro classe e un avversario tradizionale, s0cialmente assai più cospicuo, ma politicamente e socialmente più isolato e, quindi, meno capace di difendersi da una repressione più spiccia e più brutale, come avevano dimostrato, in anni non lontani, Reggio Emilia e Avola. Insomma, una parte significativa della borghesia si sentì ridicolizzata, ma anche, per la prima volta dalla guerra di liberazione, minacciata dal suo interno.

Quella ribellione, per quanto circoscritta, risultava insolita e, quindi, preoccupante, da un altro punto di vista. Per la sua giovanile intolleranza di ogni incoerenza tra fatti e parole, essa esprimeva una volontà radicale di opposizione che suonava estranea all’antropologia culturale e al costume politico del nostro paese, in cui il trasformismo, la pronta trasformazione di ogni oggetto di contrapposizione in un contentino, solo raramente in un onorevole compromesso, avevano per tanto tempo suonato la nota dominante. Non erano, codesti, atteggiamenti facilmente assimilabili in complicate equazioni di potere, che richiedevano spirito di accomodamento e rassegnazione all’emarginazione, soprattutto se si fossero estesi a categorie sociali, a partiti politici, di peso più cospicuo. Cosa che, come sappiamo, prontamente avvenne. Dunque, anche in Italia il movimento del ’°68 — un movimento di studenti, di intellettuali, di alcune coscienze, laiche e religiose — costi-

tuì l’anticipazione, la scintilla che scatenò eventi più grossi, che chiamarono in campo antagonisti più cospicui. Gli studenti di Praga, che avevano manifestato contro il governo con le torce in mano, al grido «Vogliamo la luce», finirono per trascinare lo stesso partito comunista, compresa la sua base operaia. Quelli americani, tradizionalmente considerati odiosi intellettuali e figli di papà, furono affiancati e sostituiti dalla middle America, sollecitata da

una guerra condotta con intransigenza da un nemico lontano e quasi ignoto. I loro colleghi italiani erano più lontani dai gestori del potere bipolare. In compenso esprimevano un disagio latente in tutta la società che avrebbe, nelle forme più svariate, raccolto e diffuso al proprio interno la loro voglia di opposizione, fino a rendere la governabilità di un paese, periferico ma nello stesso tempo cruciale, anche un problema di ordine internazionale. Negli Stati Uniti la forza e l’elasticità del sistema politico consentivano di reprimere il movimento, mentre ci si preparava a subire una

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pace poco onorevole; di denunciare le prevaricazioni di un presidente e poi sostituirlo. In Cecoslovacchia i governanti sovietici potevano quantomeno contare sulla propria volontà di fare un uso indiscriminato della forza e sulla tacita complicità di un Occidente solo strumentalmente interessato alle libertà in quella parte del mondo. I prezzi erano stati rilevanti, ma sarebbero venuti a maturazione solo nel lungo periodo. In Italia le cose potevano andare diversamente. La classe dirigente era consapevole della propria volontà di conservare il potere, ma anche delle proprie debolezze. I nostri governanti sapevano che, se il morbo dell’opposizione — si badi bene, non della rivoluzione — si fosse esteso a gruppi sociali diversi, essi avrebbero potuto mostrarsi meno disposti a lasciare le cose come stavano e a fuggire per la tangente, come avevano fatto gli studenti. Ronald Fraser individua la principale peculiarità del movimento ita-

liano nella sua durata?8. Ciò è vero, a condizione che si tenga presente il mutare dei suoi protagonisti. Nella prospettiva della storia dell’Italia contemporanea, quello che comunemente viene chiamato il °68 non segna che l’inizio di una fase, che si protrae fino alle elezioni politiche del 1976, in cui, per la prima volta dopo il 18 aprile 1948 (se si prescinde dal sussulto determinato dal tentato assassinio di Togliatti), vie-

ne messo radicalmente in discussione un assetto di potere che ha dominato il paese per un ventennio. I rapporti di potere mutano, innanzitutto, nella società. L’«autunno caldo» del 1969, avviatosi sotto la spinta della ribellione studentesca,

non esprime solo movimento, ma si concretizza nella firma di contratti che portano ai lavoratori più soldi, migliorate condizioni di lavoro e più potere, nei posti di lavoro come nella società. In un paese in cui il sindacato era tradizionalmente debole, nei confronti del padronato ma anche dei partiti, esso diventa protagonista della vita sociale e politi-

ca?9. Per alcuni anni nulla poteva essere deciso in Italia, senza consultare i sindacati. Ciò che mutava i rapporti di forza non era l’eventuale violenza dei picchetti o dei cortei interni, ma l'aumento delle adesioni, la crescita della democrazia sindacale, l’organizzazione capillare all’interno della fabbrica e la sua capacità di contrattare ogni fase dell’organizzazione e delle condizioni di lavoro. Soprattutto, turbava tutti i partiti, senza alcuna esclusione, la tendenza del sindacato, man mano che cresceva la sua forza, a segnare la propria autonomia in tutte le direzioni, ad allentare i legami con i partiti e, qualche volta, a pretendere, addirittura, di rovesciare la tradizionale cinghia di trasmissione. Soprat-

tutto, sotto la spinta dei lavoratori, cresceva un’unità sindacale che non poteva che alimentarsi di un’ideologia formalmente e sostanzialmente

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democratica, espressione della Costituzione e, addirittura, fermamente

collocata all’interno del sindacalismo occidentale, nato in piena guerra fredda. In questi anni matura il distacco della Cgil dalla Federazione dei sindacati mondiali (Fsm), con sede a Praga, e la sua adesione alle organizzazioni di ispirazione occidentale. Si superano, così, nei fatti, steccati ideologici consolidati e che avevano tradizionalmente diviso e,

quindi, indebolito i lavoratori. È vero che questo tipo di spinte vengono successivamente ingabbiate da formule organizzative come la Federazione delle confederazioni sindacali la cui costituzione segna la sconfitta di ogni ipotesi di unità organica. I pregiudizi ideologici finiscono per evaporare anche se sopravvivono per ragioni strumentali; più resistenti sono i timori dei dirigenti di perdere il proprio scanno, all’interno di un sindacato unico. Ma ciò che più importa, dal punto di vista del mutamento dei rapporti di forza, è che viene meno, o si riduce drasticamente, la possibilità per il padronato di giocare un sindacato contro l’altro. Comune agli studenti era la volontà dei lavoratori di contare di più,

di rompere la condizione di passività in cui erano collocati nei luoghi di lavoro rimasti, negli anni precedenti, riservato dominio di un potere proprietario sottratto ad ogni controllo. Si pone così in modo nuovo il problema della democrazia. Lo Statuto dei lavoratori non è altro che l’estensione dei principi sanciti dalla Costituzione ai luoghi di lavoro. Il cittadino non cessa più di essere tale nel momento in cui va a lavorare. Il parlamento approva lo Statuto con l'opposizione del solo Msi, anche se è evidente che la nuova legislazione, lungamente pensata e preparata da uomini come Giugni e Brodolini, non avrebbe visto la luce senza una modifica dei rapporti di forza nella società. La spinta democratica non resta confinata nelle fabbriche, ma investe gli uffici, pubblici e privati, le redazioni dei giornali, le associazioni professionali: tutti ambiti che la classe dirigente era abituata a considerare esenti da ogni controversia e contrattazione. Strumenti essenziali di controllo della società come gli organi d’informazione, in un paese in cui l’esercizio della libertà di stampa era tradizionalmente flebile,

diventano sedi di scontro di una pluralità di poteri, la cui legittimazione è discutibile, ma — ancora una volta — il risultato netto è un indebolimento dell’assetto di potere precedente, nella forma di un flusso informativo meno controllato, più puntuale e più diffuso. All’interno degli ambiti professionali e scientifici più rilevanti nascevano raggruppamenti che, sullo stimolo del movimento studentesco, negavano la neutralità della loro funzione e che trovavano nel sindacato, politicizzato ma ora più libero da condizionamenti automatici da parte

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Il caso italiano e il contesto internazionale

dei partiti politici, il proprio interlocutore privilegiato. Nasceva così Psichiatria democratica, impegnato in un importante lavoro di smantellamento degli ospedali psichiatrici, ben prima che fosse approvata la legge n. 180. Seguivano Medicina democratica, Geologia democratica e così via, vere contraddizioni in termini, secondo la felice espressione di Franco Ferraresi, in una società abituata a considerare oggettivo il ruolo dei tecnici, di fatto solidamente allineati con gli interessi dominanti. Nemmeno i poteri nei settori più nevralgici dello Stato — quella sfera inerente alla sicurezza, più esposta a controlli e interventi transnazionali — furono esenti da questa ondata innovativa. Il malcontento all’interno della polizia che, in un primo tempo, si era espresso in forma aggressiva nei confronti del movimento — a sua volta aggressivamente impolitico nella formulazione di parole d’ordine come PS = SS — finì per prendere strade innovative che condussero alla costituzione di un sindacato di polizia, aggregato alle confederazioni sindacali. Anche nelle forze armate, via via che venivano reclutati giovani militanti, nacque un movimento di contestazione: le motivazioni dei gruppi d’intervento erano spesso ideologicamente pretenziose, soprattutto sotto lo stimolo successivo della rivoluzione dei garofani in atto in Portogallo, ma la prassi era modestamente democratica e garantista, dirompente solo per lo spirito burocratico prima che autoritario dell’istituzione investita. Persino al ministero degli Esteri nacque un’esile Farnesina democratica in cui giovani funzionari dirigenti si ponevano sotto una nuova luce il problema della collocazione internazionale del paese. Di gran lunga più importante fu l’evoluzione del ruolo della magistratura. Quale giustizia era l’emblematico titolo della rivista di Magistratura democratica, la corrente di punta nell’ Associazione nazionale magistrati, costituita proprio nel 1968. Quale giustizia: una domanda, più che superflua, provocatoria agli occhi di una magistratura tradizionale e di una cultura giuridica detentrice di una visione astratta e astorica del diritto. Ricorda Luciano Violante che: Ci fu allora un gruppo di giudici ed avvocati, che insegnavano o comunque avevano rapporti con l’università, che cominciarono a spiegare — specialmente per quanto riguarda il diritto penale — il rapporto che passava tra un certo tipo di relazione tra le classi sociali, un certo sistema politico, e quel tipo di diritto, quel tipo di processo penale.

Alle parole seguirono i fatti: Si pubblicavano le sentenze «diverse»; si denunciavano i soprusi giudiziari; si individuavano gli atti di intimidazione nei confronti della magistratura e dei magistrati democratici.

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Soprattutto il governo, le autorità di polizia, i grandi interessi economici non potevano più contare su una magistratura compattamente compiacente nei confronti dei più forti e severa nei confronti dei soggetti più deboli della società. La polemica nei confronti dei pretori d’assalto, del-

la politicizzazione crescente, qualche volta stimolata da qualche eccesso di protagonismo, nella realtà è suscitata da questa diaspora, fondata su un crescente pluralismo di comportamenti giudiziari il quale viene dato per scontato in paesi di più matura democrazia, soprattutto ove vige la common law. Quella che veniva denunciata dall’opinione conservatrice come conseguenza della strumentalizzazione politica dei giudici, in realtà era frutto dell’attuazione del principio di indipendenza dell’ordine giudiziario e dei singoli giudici, anche rispetto all’ortodossia corporativa, fondamentalmente conservatrice, che proveniva dall’interno dell’or-

dine stesso30, Tutto ciò non poteva che avere effetti esplosivi in un contesto in cui corruzione e malversazione si erano sviluppate sotto la superficie della consapevolezza pubblica e ora emergevano con prepotenza, producendo l’impressione erronea di un drammatico incremento di comportamenti illegali. Naturalmente lo stesso discorso vale per le deviazioni degli apparati statuali, resi visibili da interventi eterodossi della magistratura, tuttavia non ancora in grado di condizionare in maniera determinante il corso degli eventi. Gli sviluppi qui richiamati erano percepibili, da un osservatore attento, anche fuori d’Italia. Certamente lo erano le reazioni e le lagnanze degli interessi lesi, dall’interno del paese. Risale a questo periodo una definizione di Cyrus L. Sulzberger, un influente commentatore del New York Times, sintomatica dello stato d’animo con cui venivano seguiti gli eventi dagli Stati Uniti: «Spaghetti in salsa cilena»3!, Tuttavia, non erano ancora stati verificati gli effetti elettorali dei mutamenti sociali in atto. Ciò che determinava il giudizio finale di un osservatore straniero, specie americano, sulla vicenda italiana non era la qualità del mutamento sociale e politico. Fin dal secondo dopoguerra, molti osservatori americani avevano auspicato almeno alcuni di quegli sviluppi democratici e modernizzanti che stavano prendendo piede in Italia, anche se i mutamenti avvengono sempre in forme in qualche misura imprevedibili e non sempre gradite. Ciò che, invece, avrebbe orientato i responsabili della politica estera americana — ormai guidata da personaggi quali Nixon e Kissinger che seguivano con appassionato interesse tutto ciò che si svolgeva in Europa e nel Mediterraneo — era l’effetto elettorale di questi mutamenti; in particolare, per dirla in parole semplici, se ne fosse risultato un incremento preoccupante di voti del parti-

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Il caso italiano e il contesto internazionale

to comunista. La sfiducia americana nei confronti di quel partito era stata solo scalfita da alcuni episodi recenti, di cui il più importante era il suo sganciamento da Mosca, a seguito dell’invasione della Cecoslovacchia. Anzi, nella raffinata logica bipolare di Kissinger, tale novità costituiva un’aggravante, perché — secondo la dottrina Sonnenfeld da lui direttamente ispirata — un partito comunista italiano più autonomo avrebbe potuto costituire un importante punto di riferimento per le spinte disgregatrici del Patto di Varsavia la cui crisi avrebbe a sua volta sollecitato un’analoga crisi della Nato e il conseguente indebolimento del ruolo direttivo degli Stati Uniti in Europa. Ma, al di là di queste sofisticate considerazioni, il problema si poneva in termini assai più crudi. Se anche la partecipazione del Pci al governo non avesse leso direttamente alcun interesse americano o della Nato, tuttavia sarebbe stato percepito da un congresso e da un’opinione pubblica poco abituati ad andare per il sottile, come uno scacco dell’amministrazione americana in carica, chiamata a rispondere della «perdita» del paese in

questione32,

,

In quest'ottica, non solo americana, ma ampiamente condivisa da una parte della classe dirigente italiana, gli effetti del referendum sul divorzio sono dirompenti. Anche se la vittoria dei «no» avviene su un obiettivo classicamente inerente a una crescita democratica della società civile, in virtù di uno schieramento che non può in alcun modo definirsi di classe, essa costituisce una bruciante sconfitta per il partito di maggioranza relativa e per le autorità ecclesiastiche, stretti in uno scomodo rapporto di alleanza con il partito neofascista. Se qualcuno oltreoceano poteva compiacersi di un risultato che rendeva lo Stato e la società meno lontani dai tradizionali parametri americani, ispirati al principio della separazione tra Stato e Chiesa, suonava come un campanello di allarme alle orecchie di quegli Italian hands, funzionari responsabili della politica nei confronti dell’Italia, che fin dall’epoca della Liberazione avevano fatto della Democrazia cristiana il perno dell’influenza americana nel nostro paese. Ciò che più metteva in pericolo gli equilibri politici vigenti, non era il risultato del referendum ma la diaspora all’interno del cosiddetto mondo cattolico che aveva contribuito a determinarlo. Era come se anni di secolarizzazzione, ma anche

di crescente pluralismo di orientamenti all’interno di organizzazioni tradizionalmente collaterali alla Dc, oltre che nella stessa Chiesa, fossero sboccati nel referendum che sembrava preludere a scelte politiche dell’elettorato cattolico assai diverse da quelle abituali. La politica moderata aveva trovato in passato una maggioranza parlamentare soltanto a condizione che il voto popolare cattolico rispettasse una disciplina re-

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ligiosa, piuttosto che obbedire a un’autonoma coscienza politica o a interessi di classe. Il voto espresso in occasione del referendum non era di buon auspicio neanche a questo proposito. Com'è noto, non furono né i risultati delle elezioni amministrative del 1975, né quelli delle elezioni politiche dell’anno successivo, a rendere inevitabile la costituzione di una maggioranza di unità nazionale. In senso tecnico, fu decisiva la volontà del partito socialista di non partecipare a maggioranze governative di cui non avessero fatto parte anche i comunisti. Dopo il colpo di Stato cileno, Enrico Berlinguer aveva esplicitato il suo disegno strategico di un compromesso storico tra comunisti e democratici cristiani che, in forma graduale, avrebbe consentito la partecipazione del Pci al governo. L'esempio cileno lo aveva convinto che le forze che tradizionalmente dominavano l’Italia non avrebbero consentito la conquista del potere governativo da parte di una coalizione alternativa dominata da un partito comunista ormai troppo forte per restare all’opposizione. Il gradualismo insito nella formula di una grande coalizione avrebbe dovuto rassicurare i tradizionali avversari, pur consentendo al Pci un’ulteriore legittimazione, necessario preludio di ulteriori sviluppi. È appena il caso di aggiungere che il Pci in tal modo eludeva la pur urgente esigenza di una revisione teorica più radicale che avrebbe dovuto portare a compimento il suo distacco dall'Unione Sovietica e dai regimi comunisti storicamente realizzati nel resto del mondo, una scelta di carattere democratico come valore irreversibile, la propria vocazione unitaria a livello sociale e sindacale, nel pieno rispetto dell’autonomia della società civile. La strada del compromesso storico fu anche imboccata dalla convinzione che i favorevoli rapporti di forza economico-sociale, sostenuti negli anni precedenti, erano destinati a durare e rendevano a un tempo obsoleto un ruolo di mera opposizione e prematuro un più compiuto ruolo di go-

verno. Intanto, l'incremento dei voti comunisti nel 1975 segnò profondamente la situazione politica perché era la prova che i mutati rapporti di forza nella società si sarebbero tradotti in un mutamento anche politico. Fu questo il momento di saldatura tra politica e società e anche di maggiore allarme per tutti coloro che erano portati a difendere lo status quo ante. Le stesse elezioni politiche del 1976 non furono che una conferma della tendenza in atto. Anzi, la mancanza di un incremento significativo di voti comunisti stava a dimostrare l’arresto del fenomeno elettorale, tanto più che cominciavano a registrarsi i primi segni di svolta all’interno dell’apparato produttivo.

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I 4

Il caso italiano e il contesto internazionale tizioata. lait

Tutto ciò esula solo apparentemente dalla sfera della politica internazionale, in cui i rapporti di forza non sono determinati dalle scher-

maglie diplomatiche ma dalla solidità delle alleanze e dalla stabilità degli Stati che le compongono. Se l’anno 1968 aveva segnato una svolta negli equilibri internazionali, con i primi sintomi cospicui di un declino del sistema bipolare, il 1975 con maggiore intensità catalizzò l’attenzione degli alleati sul nostro paese. Gli Stati Uniti, stremati dalla crisi

istituzionale e soprattutto dall’ormai consumata sconfitta nel Vietnam, osservavano da qualche tempo con crescente allarme l’evolversi della situazione nel Mediterraneo. Il contesto all’interno del quale si svolgeva la crisi italiana, dal punto di vista di Washington, era preoccupante quanto il suo epicentro. Ho già detto come la crisi petrolifera fosse anche un’occasione per un regolamento di conti degli Stati Uniti nei confronti dei suoi alleati concorrenti all’interno del mondo industrializzato. Alcuni governi europei ripagarono il loro maggiore alleato della stessa moneta, nel corso della guerra arabo-israeliana del 1973, rifiutando agli aerei americani il diritto di scalo. Parimenti, non era un mistero per nessuno che i paesi della Cee perseguissero una politica ormai autonoma in Medio Oriente; una politica volta a conciliare la sicu-

rezza di Israele con un pari diritto di autodeterminazione per il popolo palestinese. Tale politica, di cui Aldo Moro era uno dei principali artefici, era invisa a Washington quasi quanto a Gerusalemme. Ma, al di là di tutto ciò, i segnali di instabilità, la possibilità che la situazione volgesse drasticamente al peggio in quasi tutti i paesi della costa settentrionale del Mediterraneo, non potevano non far riflettere Washington. In Portogallo il regime di Salazar era caduto sotto la pressione di un’insurrezione dal basso e non si intravvedeva ancora nessuna ipotesi di stabilizzazione moderata. La successione a Franco, ormai imminente, costituiva una gigantesca incognita, mentre i più recenti risultati elettorali francesi segnalarono come imminente una presidenza socialista con la partecipazione dei comunisti al governo. La Grecia e la Turchia,

paesi strategicamente assai importanti perché segnano il confine sudorientale della Nato con l’Unione Sovietica, rischiavano la guerra per Cipro. In Medio Oriente, infine, l’isolamento di Israele non era mai stato così evidente, mentre Yasser Arafat si rivolgeva all'assemblea generale dell’Onu. In queste condizioni qualsiasi amministrazione americana, anche meno bersagliata di quella in carica, difficilmente poteva osservare con equanimità l’evolversi della situazione italiana. Occorreva reagire e reagire in fretta. In realtà gli antidoti erano operanti da qualche tempo: si chiamavano deflazione, terrorismo, politica di unità nazionale. Uso voluta-

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RETTE

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mente una parola ambigua — antidoto — per definire gli strumenti che furono messi in opera per avviare un processo di restaurazione degli equilibri politici e sociali tradizionali nel nostro paese. Non credo che la documentazione esistente consenta una ricostruzione storica che distingua ciò che vi fu di voluto e di programmato e ciò che, invece, fu incidentale in un processo politico complesso almeno quanto quello dei rapporti di potere tradizionalmente vigenti. Gli archivi dello Stato italiani si aprono dopo cinquant’anni, quelli del dipartimento di Stato americano dopo un trentennio (e con maggiore cautela di un tempo) e i protagonisti di questa politica sono meno accessibili agli storici orali di quanto non lo siano gli ex leader del ’68. Posso solo affermare, in linea generale, che credo poco alle cospirazioni, ma nemmeno al caso, come motore della storia. Penso anche che il dibat-

tito, la programmazione e persino l’elaborazione teorica possano essere importanti per conquistare potere, mentre esso viene per lo più difeso con una sorta di pragmatismo istintivo. In attesa dell’apertura degli archivi, può, quindi, servire un ragionamento sulla concatenazione degli eventi e una riflessione sugli effetti che producono. Meno urgente è l’individuazione di responsabilità personali e collettive. Penso,

infine, che sia particolarmente

difficile distinguere

linee di

comportamento endogene da quelle di ispirazione e, eventualmente, di esecuzione transnazionale. Per questo mi sono astenuto dall’evocare episodi di interferenze americane più o meno occulte: le ritengo significative, ma non probanti di un intervento decisivo, quindi non tali da dover caratterizzare una sintesi degli avvenimenti di altro respiro. Nello stesso tempo, sarebbe puerile rimanere prigionieri dello schema anche storiografico tradizionale che separa la storia politica interna da quella delle relazioni internazionali. Mai come nella nostra epoca i rapporti di potere locali sono ancorati a reti d’interesse e schieramenti transnazionali che li sostengono, li condizionano e ne subiscono talora le iniziative. La deflazione è uno strumento ormai classico di stabilizzazione anche politica all’interno di un sistema capitalistico più o meno sviluppato. Nel nostro paese è stato utilizzato, con notevole successo, dalla prima guerra mondiale, almeno in tre occasioni: nel 1926-27, nel 1947-48, nel 1963-64. Vi è ogni ragione per sostenere che la politica di deflazione abbia avuto un esito rilevante, anche nella distruzione del movimento che si è sviluppato tra il 1968 e il 1975. Come è

noto, la deflazione non può che essere preceduta dall’inflazione (di cui la stagflazione costituì la variante che caratterizzò l’epoca che stiamo discutendo) che, come pure è noto, ma raramente detto e scrit-

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nt Serna i Ae Il caso italiano e il contesto internazionale

to, non fu principalmente causata dai pur rilevanti incrementi del costo del lavoro. Altri fattori interni e internazionali erano in opera, alcuni di antica data, altri più recenti. Osserva Marcello De Cecco: La crescita del tasso di inflazione statunitense alla fine degli anni ’60, il salto nei tassi di interesse che risultò dalla scelta americana di una politica monetaria che non frenava la fornitura di denaro, risvegliarono bruscamente l’economia italiana

dal suo letargo stagflattivo. Per quasi un secolo, i responsabili dell’economia italiana avevano potuto contare su tassi di interesse strutturalmente più elevati nel loro paese di quelli esteri. Nel 1969 tutto ciò cambiò radicalmente, e la fuga del denaro dall’Italia divenne una fiumana. Fu impossibile proseguire una stagflazione di basso costo. Una stagnazione più profonda si accoppiò a un’inflazione rampante. I costi del lavoro furono squilibrati in maniera duratura. E vi era ancor meno spazio per gli investimenti.

Vale la pena aggiungere che la prassi bancaria, scarsamente amante del rischio, penalizzava da tempo gli investimenti della piccola industria. La spesa pubblica, il finanziamento del settore pubblico, la socializzazione delle perdite del settore privato, il clientelismo nel Sud e non solo nel Sud non conoscevano tregua. L'accordo sulla scala mobile creava, infine, un automatismo inflattivo di rilevante entità che, oltre-

tutto, riduceva drasticamente la forza contrattuale dei consigli di fabbrica. Ma questa non era la fine delle sciagure che si abbattevano sull’Italia in rapida trasformazione. Aggiunge De Cecco: Mentre gli italiani cominciavano ad assimilare tutto ciò, la guerra arabo-israelia-

na cominciò a mettere in evidenza le contraddizioni della posizione economica internazionale dell’Italia. Gli italiani erano riusciti a comprarsi un po’ di respiro facendo ricorso al mercato dei crediti dell’eurodollaro... Con la quadruplicazione del conto petrolifero e l’enorme incremento dei prezzi delle materie prime, fu chiaro che un riequilibrio delle bilance dei pagamenti occidentali non poteva avvenire attraverso un incremento delle esportazioni, ma solo attraverso un aumento dei prezzi dei beni esportati, la riduzione delle importazioni, e importazioni di capitali. L'Italia non aveva la possibilità di attirare capitali esteri a breve. Doveva negoziare all’estero crediti governativi. Conseguentemente non aveva la possibilità di rivalutare la propria valuta. Non avendo alcun controllo sui prezzi delle proprie esportazioni, nemmeno poteva ricorrere a quel meccanismo. Di conseguenza, le autorità italiane potevano solo fare ricorso a una violenta restrizione dei crediti e ad un meccanismo di depositi che avrebbero limitato le importazioni.

Ne conseguiva una perdita di posti di lavoro, il declino del potere contrattuale del sindacato all’interno delle fabbriche, l’inizio della ristrutturazione tecnologica, in una successione di eventi che sarebbe culminata con la prova di forza alla Fiat, nell’autunno 1980. Nel frattempo, il bisogno di crediti governativi almeno nominalmente metteva le redini dell'economia nelle mani di anonimi funzionari del Fondo monetario internazionale, opportuno deus ex machina allorquando si

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trattava di imporre ai sindacati la politica di austerità (ovvero la svolta dell'Eur) per il tramite del partito comunista,

ormai cooptato nella

maggioranza governativa, ma non nel governo, proprio quando, dopo l’inflazione, era maturata la svolta deflattiva.

Anche l’uso politico della tensione derivante dalla presenza di forme violente di conflittualità politica ha radici lontane nella nostra storia. Tuttavia, il terrorismo vero e proprio, inteso come stragi di innocenti o eliminazione fisica o ferimento di bersagli politici costituisce una caratteristica precipua del periodo che stiamo prendendo in esame. L’assassinio di Aldo Moro, per il mistero che tuttora lo circonda e per la personalità della vittima, si colloca in parte, in un trend internazionale di assassinî politici che hanno segnato gli anni sessanta e settanta.

Tutto cominciò con la strage di piazza Fontana che, per usare le parole di Adriano Sofri, «privò il movimento della sua innocenza». Si può naturalmente discutere l’affermazione secondo cui, in quel movimento, tutti fossero innocenti. Francesco Ciafaloni ha argomentato in maniera convincente che, fino a quel momento, e anche oltre, la violenza espressa dal movimento studentesco e da quello operaio era bassissima33. Forme di resistenza non violenta erano in uso in occasione degli sgomberi di facoltà occupate e solo di fronte ad aggressioni poliziesche programmate,

come

a corso Traiano, vi furono scontri a cui

parteciparono una parte esigua dei manifestanti, freddamente provocati dai comandi di polizia. L'eccezione fu Valle Giulia, come ci ricorda la

nota poesia di Pasolini, ma nel complesso, la violenza proveniva dalla parte opposta. Se per innocenti si intende politicamente ingenui, il discorso cambia. Vi era all’interno del movimento chi puntava a un acuirsi del conflitto e che certo mancava di un sistema di valori radicalmente alternativo e, quindi, anche segnato da un pacifismo che non apparteneva alla tradizione della sinistra italiana, ma che, invece, in alcu-

ne fasi cruciali, il movimento americano seppe assumere dal movimento nero per i diritti civili. Soprattutto, era diffusa tra i quadri dirigenti del movimento la paura di un inesistente sbocco riformista delle lotte studentesche. Inesistente, perché uomini politici e autorità accademiche ne erano culturalmente, prima che politicamente, incapaci oltre che, più che disposti, com’erano, a delegare alle autorità di polizia la gestione del conflitto. La direzione di polizia era portata a una linea di condotta almeno di fatto convergente con coloro che, dall’altra parte, miravano alla radicalizzazione e, a differenza da essi, deteneva gli strumenti fisici per attuare il loro proposito. Piazza Fontana, e le successive stragi di marca fascista, furono

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ERICA

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un’altra cosa, non solo per il numero delle vittime. Innanzitutto, assai

presto fu chiaro a qualunque osservatore minimamente obiettivo che la matrice delle stragi era di destra. Contemporaneamente, fu altrettanto chiaro che, all’interno dell’organizzazione statuale, vi erano centri di

potere interessati a nascondere tale matrice e a incrementare il clima di tensione nel paese, sfruttando occasioni come quella della morte, probabilmente accidentale, dell’agente Annarumma. Nacquero anche i primi sospetti, successivamente confermati, che tali centri di potere avessero, se non partecipato all’organizzazione delle stragi, consapevolmente tollerato la loro effettuazione, o almeno, in altri, consentito che i responsabili rimanessero impuniti. Fu chiaro, infine, che vi erano alte autorità

politiche e giudiziarie incapaci o indisposte ad avviare una ricerca autentica della verità, mentre cercavano di utilizzare gli effetti politici delle stragi, secondo un duplice schema: da una parte, «dal caos può nascere una domanda di ordine»; dall’altra, «se non volete che prevalgano le forze oscure della reazione, farete bene ad affidarvi a noi». Gli effetti di questi eventi, ma anche della violenza più minuta di militanti neofascisti, all’interno dei vari gruppi in cui si era frantumato il movimento, fu devastante. Sul piano ideologico si incrementarono e rafforzarono parole d’ordine tese a prefigurare una contrapposizione assoluta e priva di discernimento, in cui le istituzioni e le libertà democratiche venivano assimilate ai settori repressivi e devianti in una indistinta condanna di uno Stato borghese da sopprimere. Si diffuse la convinzione del carattere assoluto e definitivo dello scontro (il comunismo o la

barbarie). Sul piano pratico, in talune organizzazioni della sinistra extraparlamentare si incrementò la spinta verso la costituzione di servizi d’ordine, se non di strutture parallele, addette all’autodifesa e alle schermaglie con i neofascisti, oltre che alla disciplina della manifestazioni.

Con la strage di Brescia è percepibile una sorta di svolta. In questo caso le vittime sono alcuni partecipanti a una manifestazione sindacale. Quando i lavoratori di Brescia, tradizionalmente bianca, accoglie a fischi le supreme autorità dello Stato — il presidente della Repubblica, Leone, e il primo ministro, Rumor — è evidente agli osservatori più at-

tenti che le stragi non sono più politicamente utilizzabili dai governi di cui con sempre maggior frequenza si chiamano in causa le responsabilità o, quantomeno, le negligenze. Forse per caso, questa svolta coincide con un calo netto degli atti di

violenza nera e con l’altrettanto rapido incremento di atti di terrorismo rosso. Il terrorismo rosso, o di sinistra, si dimostrerà assai più efficace

come arma di stabilizzazione. Esso si distingue, fin dalle prime azioni, per la precisione politica con cui sceglie e colpisce le vittime. Il fonda-

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mentale studio di Giorgio Galli documenta attraverso una cronaca minuziosa la vocazione politologica dei gruppi armati di sinistra che, a partire dal rapimento di Sossi fino alla vigilia del referendum sul divorzio, precedettero ogni scadenza elettorale, anche periferica, con un at-

tentato terroristico34. Salvo alcune eccezioni importanti (Galli, Alessandrini, Rossa, Tobagi), le vittime sono dirigenti industriali, giornalisti, professionisti

e magistrati di orientamento conservatore, diri-

genti locali e nazionali della Democrazia cristiana. Un’ormai nutrita documentazione dimostra in maniera inequivocabile ciò che era chiaro dall’inizio (salvo all’interno del partito comunista): che, cioè, il terrorismo rosso, sia nella sua prima generazione vetero-stalinista, sia in quella successiva, per lo più proveniente da qualche forma di militanza in servizi d’ordine di gruppi di sinistra (per lo più Potere Operaio, Lotta Continua, Collettivi Autonomi), costituiscono un fenomeno au-

tentico, proveniente da un’area sociale e politica orientata verso la violenza politica. Costoro non sono agenti segretamente addestrati da qualche potere occulto, ma militanti estremisti, dotati di formazione politica sommaria. Ciò non esclude naturalmente la presenza di infiltrati e, soprattutto, la possibilità di manipolare la repressione per difetto, ampiamente argomentata da Giorgio Galli. In altre parole, le autorità preposte avrebbero lasciato fare, soprattutto in talune fasi, allo scopo di consentire lo sviluppo di un’azione che avrebbe avuto facilmente prevedibili effetti di stabilizzazione del potere costituito ed effetti, parimenti prevedibili, di definitiva liquidazione di ogni forma di lotta democratica e di massa. Mentre è prudente non pronunciarsi sull’organizzazione consapevole di una tale linea di condotta da parte di settori dell’autorità statuale, in mancanza di prove dirette, è impossibile ignorare gli effetti stabilizzatori del terrorismo di sinistra, invece definito dal coro quasi unanime degli organi di informazione per il suo presunto carattere destabilizzante. Innanzitutto, gli attentati terroristici accreditano moralmente e politicamente le parti politiche e sociali a cui appartengono i loro bersagli. In un paese in cui la classe dirigente si è raramente distinta per la propria abnegazione, diventa impossibile accusare di puro attaccamento al potere o al denaro chi, per la posizione che riveste o la parte politica in cui milita, rischia la pelle. In taluni momenti l’azione terroristica determina le condizioni morali per una vera e propria Resistenza della classe dirigente. Tale fenomeno raggiunge il suo apice con la linea del rigore che prelude all’assassinio di Aldo Moro. Per converso, diventa assai più difficile contestare partiti e interessi dominanti, anche in termini soltanto verbali. Anche le più innocue ma-



i:

Il caso italiano e il contesto internazionale

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nifestazioni di piazza ne risultano inibite, per il timore sempre più diffuso che esse possano avere esiti tragici difficilmente controllabili. In altre parole il terrorismo non costituisce il prolungamento delle lotte di massa, ma contribuisce a determinarne la fine. A questo proposito, il risultato a cui giunge lo studio di Sidney Tarrow35 non lascia adito a dubbi. Attraverso una raccolta imponente di dati empirici, opportunamente disaggregati, Tarrow dimostra che la violenza politica non è alimentata dalle manifestazioni e dalle lotte di massa che avevano caratterizzato la prima metà degli anni settanta, ma le

sostituisce e le annulla. In una fase in cui le persistenti tensioni sociali e politiche non trovano sbocco in una politica di opposizione e di alternativa di governo — è in pieno corso la cosiddetta unità nazionale —, ma

nemmeno in lotte sociali coordinate dal sindacato — vige la cosiddetta svolta dell’Eur che teorizza sacrifici senza contro-partite —, le frange

estreme della potestà riempiono il vuoto d’iniziativa con azioni terroristiche. Nella stessa direzione vanno le interpretazioni di Raimondo Catanzaro che con altri studiosi e magistrati ha coordinato la più massiccia inchiesta sul fenomeno, di prossima pubblicazione da parte dell’Istituto Carlo Cattaneo: ...1 materiali su cui abbiamo lavorato ci consentono di mettere a fuoco questo giudizio: il terrorismo non è figlio dei movimenti collettivi ma della loro fine. Non sono stati i movimenti in sé a creare il terrorismo, ma la loro scomparsa, la ritirata, il ri-

flusso e lo scioglimento.

Da questa affermazione deriverebbe una conclusione solo apparentemente paradossale. La responsabilità del movimento e dei partiti di sinistra in merito al terrorismo non consiste nell’averlo indotto, per affinità ideologiche o per radicalità di comportamenti, ma di averlo favorito, per un difetto di rappresentanza politica di un’opposizione sociale comunque presente. Più precisamente, il partito comunista, impegnato nella politica di unità nazionale e fortemente ostile alle formazioni politiche sorte alla sua sinistra, non avrebbe offerto uno sbocco democratico di opposizione alle tensioni esistenti nel paese. Le altre formazioni di sinistra, una volta imboccata la strada della partecipazione elettorale e istituzionale, non avevano la forza e la capacità sufficiente per farlo con efficacia. È come se, di fronte alla sfida del terrorismo, prima di destra e

poi di sinistra, tutte le divisioni, tutte le confusioni di analisi, di valori e di intenzioni fossero diventate dirimenti. Il partito comunista era condizionato dalla cultura politica di dirigenti e militanti legati a una lunga esperienza di monopolio dell’opposizione pagato con l'emarginazione

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Gian Giacomo Migone

dal potere governativo. Il partito socialista, ormai fagocitato dal clientelismo governativo, non era in grado di ritrovare una propria autonomia all’interno di un progetto di opposizione e trasformazione dei rapporti di potere. Altre componenti politiche e sociali più sensibili alle novità emergenti dal movimento non avevano la forza sufficiente per surrogare un’opposizione politica all'altezza delle tensioni sociali. La nuova sinistra era divisa tra istanze modernizzatrici e di partecipazione sociale e da richiami ideologici ancor più vetusti di quelli che ancora dominavano la stessa base comunista. Più di ogni altra cosa mancava una comune chiarezza di convinzioni capace di attrezzare la sinistra intera nella sfida al terrorismo: una scelta di democrazia intesa come valore irreversibile, una sicura collocazione che fondasse la sua autonomia dal bipolarismo delle grandi potenze (pure adombrata da Enrico Berlinguer), il pacifismo come rifiuto di principio (e non solo di fatto) della violenza e come metodo di lotta contro i partiti armati e coloro che ne sfruttavano gli effetti per il proprio tornaconto politico. In questa situazione, anche le pressioni sovranazionali facevano sentire i loro effetti. Le continue minacce di colpi di Stato, alimentate da committenze interne all’Alleanza atlantica e al suo Stato guida, ma soprattutto i condizionamenti del sistema economico internazionale, a cui i deficit commerciali e finanziari rendevano sensibilissimo il paese,

facevano sentire il loro peso. L'emergenza interna si diramava al punto di fare dell’Italia nuovamente uno dei punti caldi della scena mondiale, in cui si misurava la capacità degli Stati Uniti di mantenere l’ordine nella propria sfera d’influenza. Così, in una fase delicatissima della congiuntura internazionale, in cui la crisi del bipolarismo si traduce in una conflittualità sempre più evidente tra gli Stati Uniti e gli altri paesi industrializzati, in cui il-ventre molle mediterraneo della Nato appare sempre più vulnerabile, la situazione italiana si avvia a una svolta. Il movimento studentesco ha ormai compiuto il suo percorso, ma ha innescato una lunga stagione di conflittualità che ha modificato in maniera rilevante gli equilibri di potere prima sociali e poi politici del paese. In questo momento, in cui più rilevanti e concentrati sono gli interessi nazionali e transnazionali per un ritorno alla normalità, alcuni antidoti fanno sentire la loro effi-

cacia: sono in atto i processi restaurativi legati alla deflazione che indebolisce il sindacato e i movimenti di opposizione sociale, alla politica di unità nazionale che priva il paese di un’opposizione istituzionale, allo sviluppo del terrorismo che giustifica il ricorso a una politica di ordine pubblico ispirata dall'emergenza, con qualche sacrificio delle garanzie di libertà individuali e collettive.

34

fe Il caso italiano e il contesto internazionale

Ancora una volta, come in altre fasi cruciali della storia italiana recente, lo sforzo di mutamento degli equilibri di potere ha trovato ostacoli formidabili. Tale sforzo è certamente stato indebolito dalle divisioni all’interno della sinistra, che si esprimevano in un consenso insufficiente intorno a un sistema di valori e alla mancanza di una strategia di mutamento, fondate su un’analisi realistica della fase storica. Nello stesso tempo, sia a livello locale che internazionale, i meccanismi reattivi volti a salvaguardare prima, restaurare poi lo status quo hanno funzionato con sufficiente efficacia. Sul piano generale si può osservare che il caso italiano ha confermato la difficoltà di mutare in maniera significativa e duratura i rapporti di potere in un paese occidentale soggetto ai vincoli dell’interdipendenza economica e di un’alleanza militare. Tuttavia, occorre egualmente constatare che la sconfitta del movimento innescato dagli studenti nel 1968, con gli avvenimenti drammatici che ne hanno prima accompagnato e poi soffocato lo sviluppo, non ha determinato una crisi delle istituzioni democratiche o una menomazione permanente delle libertà civili e politiche. Si può sostenere, al contrario, che questi pur drammatici eventi hanno contribuito al consolidamento della democrazia del paese e che gli stessi prezzi pagati dall’opposizione hanno determinato un chiarimento di valori e di prospettiva politica che potrà dare i suoi frutti nel futuro. Resta, sempre più impellente, l’esigenza di un chiarimento storiografico che assume grande rilevanza civile. È proprio la mancanza di un’adeguata memoria storica che non consente ancora di concludere con le parole della studiosa straniera Iris Onzo che, dopo il 25 aprile 1945, scriveva: La distruzione e la morte ci hanno visitato, ma ora vi è la speranza nell’aria.

È nostro compito, come storici, offrire il nostro limitato ma neces-

sario contributo, perché, in un giorno non troppo lontano, sia possibile farlo.

Note 1 Com'è noto, quelle lezioni furono raccolte in F. Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino, 1961. 2 ML.

Pesante,

«Sessantotto,

un

paese

straniero»,

recensione

a L.

Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze, 1988, in L’Indice, nov. 1988, n. 9, p. 15.

35

Passerini,

e afier the Hot.

Li Work and Bibiana i

18-20, 1988, Center for European Studies, Foneal Using, na de convegno esistono, per il momento, soltanto le fotocopie di relazioni

di M e intervi

Woodrow Wilson Center di Washington ha invece ospitato, dall’1 al 4 febbraio 1988, un convegno dedicato a «Italy: Economic and Social Change since 1945», ma soprattutto centrato sulla storia più recente.

"|

cai ,

4 V., in particolare, G. Galli, Storia del partito armato, 1968-1982, Rizzoli; Milia; 1986; v. anche la recensione di G.G. Migone, «Il terrorismo che stabilizza», L'Indice, ott.

1986, n. 8, pp. 4-5. 5 Sia N. Tiranfaglia, Radici storiche e contraddizioni recenti nella crisi italiana, in G. Guizzardi e S. Sterpi (cur.), La società italiana. Crisi di un sistema, Angeli, Milano, 1981,

pp. 21-38, che N. Tranfaglia, La crisi italiana e il problema storico del terrorismo, in M. Galleni (cur.), Rapporto sul terrorismo, Rizzoli, Milano, 1981, pp. 477-544, anticipano interpretazioni riguardo la storia italiana recente e il terrorismo in particolare, recentemente riprese in N. Tranfaglia, Percorsi del terrorismo. Il 68, i «gruppi» e la crisi degli anni settanta, una delle introduzioni a D. Novelli e N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Garzanti, Milano, 1988, pp. 9-38. 6 G. Bocca, Il terrorismo italiano terroristi, Garzanti, Milano, 1985.

1970-1980, Rizzoli, Milano, 1981, nonché Id., Noi

7 D. Novelli e N. Tranfaglia, Vite sospese, cit. 8N. Tranfaglia, Percorsi del terrorismo, cit. IR Fraser,

1968. A Student Generation in Revolt, Chatto & Windus, London, 1988.

10 p_ Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, con un’antologia di materiali e documenti, Editori Riuniti, Roma, 1988; R. Fraser, /968, cit.

11 p_Ortoleva, Saggio, cit., pp. 30-35; R. Fraser, /968, cit., pp. 2-5. 12 M. Crozier, S. Huntington Milano, 1975. 13 E, Ortona, Anni d'America.

e Y. Watanuki, La crisi della democrazia, La cooperazione:

1967-1975,

Angeli,

Il Mulino, Bologna,

1989, p. 479.

14 Jbid., p. 173. 15 D. Caute, Sixty-Eight. The Year of the Barricades, Hannish Hamilton, London, 1988, p. 170. Per un confronto tra il movimento cecoslovacco e quello occidentale, v. anche S. Spender, The Year of the Young Rebels, Weidenfeld and Nicholson, London,

1969.

16 Vv, a questo proposito, G.G. Migone, The Decline of Bipolarism: an Argument against the Status-quo, in R. Falk e M. Kaldor (eds.), Dealigment, Basil Blackwell, Oxford, 1987. 17, Aa.vv., Disarmo

o sterminio?

L'umanità

al bivio del 2000, Mazzotta, Milano,

1983, p. 95.

18 G. Ruffolo, L'economia, in Aa.vv., Dal ’68 ad oggi. Come eravamo, Laterza, Bari-Roma, p. 16.

1980, pp. 229-230, citato in N. Tranfaglia, Percorsi del terrorismo, cit.,

19 Ibid., pp. 16-17. 20 E, Ortona, Anni d'America, cit., pp. 176-177. 21 V. Ja cronaca cittadina de La Stampa per tutto il mese di dicembre.

36

Il caso italiano e il contesto internazionale —

22 La Gazzetta del Popolo, 9 dic. 1967. 23 R. Gobbi, // "68 alla rovescia, Longanesi, Milano, 1968, p. 33. 24 V., ad esempio, The Economist, 21 dic. 1967.

25 F. Ciafaloni e C. Donolo, «Contro la falsa coscienza del movimento studentesco», Quaderni Piacentini, lug. 1969, n. 38, cit. in N. Tranfaglia, Percorsi del terrorismo, cit.,

pp. 17-18.

26 M. Capanna, Formidabili quegli anni, Rizzoli, Milano, 1988, che ha il pregio di un’interpretazione politica del periodo, per quanto sorvoli quasi interamente sui limiti menzionati dell’iniziativa dell’autore. 27 F. Ciafaloni e C. Donolo, art. cit., in N. Tranfaglia, Percorsi del terrorismo, cit.,

(RARITÀ

28 R. Fraser, /968, cit., p. 204. 29 s. Turone, // sindacato nell’ Italia del benessere, Laterza, Roma-Bari, 1989.

30 R. Canosa e P. Fedenco, La magistratura in Italia dal 1945 a oggi, Il Mulino, Bologna, 1974, e, soprattutto, M. Ramat (cur.), Storia di un magistrato. Materiali per una storia di Magistratura Democratica, Manifestolibri, Roma, 1986; Magistratura democratica, Crisi istituzionale e rinnovamento democratico della giustizia, prefazione di S. Rodotà, introduzione di S. Senesem, Feltrinelli, Milano, 1978.

31 C.L. Sulzberger, An Age of Mediocrity. Memories and Diaries 1963-1972, Macmillan, New York, p. 763.

32 V. l’utile ricostruzione dei rapporti tra Stati Uniti e partito comunista di M. Margiocco, Stati Uniti e Pci. 1943-1980, Laterza, Roma-Bari, 1981. 93.1, Bobbio, F. Ciafaloni, P. Ortoleva, R. Rossanda e R. Solmi, Cinque lezioni sul "68, Rossoscuola, Torino, 1987.

34 G. Galli, Storia del partito armato, cit. 35 S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Laterza, Bari, 1989.

37

LE CULTURE DEL ’68 di Peppino Ortoleva

Cultura e culture

Il tema che mi è stato affidato è di quelli che ben difficilmente si lasciano non dico esaurire, ma neppure adeguatamente accostare. «Le culture del ’68»: viene da dire, «de omni re scibili et de quibusdam aliis». Non solo la parola «cultura» è di per sé, o meglio è divenuta, una delle più vaghe e onnicomprensive dell’intero vocabolario, non solo il fatto di declinarla al plurale sembra invitare a un ulteriore allargamento del campo; ma il fenomeno

’68 presenta, come ho cercato di argomentare

in altre sedi, caratteristiche tali, sul terreno della produzione e circolazione dei testi, dei temi, degli stili, da rendere assai difficile anche solo tracciare una mappa sufficientemente dettagliata, e dotata di senso.

Il rimescolamento dei saperi. Il °68 sembra non dirò superare, ma spontaneamente accantonare, molte delle distinzioni, e delle frontiere,

a cui facciamo abitualmente riferimento quando seguiamo il percorso delle idee, delle forme di comunicazione, delle culture. In primo luogo,

le differenziazioni nazionali: anche se ciò avviene solo in una fase temporalmente limitata, il movimento degli studenti agì con cadenze relativamente simultanee in paesi lontanissimi, e si diede un quadro di riferimenti teorici, di modelli comportamentali, di esempi ispiratori, fortemente unitario sul piano internazionale. In questo senso, si può dire che, nel corso di pochi mesi, tradizioni culturali nazionali e locali assai differenti sembrarono rimescolarsi e riunificarsi, sia pure al prezzo di seri equivoci: l'assunzione del «Terzo Mondo» a metafora che prescindeva da ogni specificità culturale e politica finì con il nascondere le differenze profonde fra aree e paesi differenti; il grande sogno di un su-

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Le culture del ’68

peramento della distinzione Oriente-Occidente sfociò in una nuova fase della storia (tutta occidentale) del consumo dell’esotico. Ma l’ansia di riunificazione culturale che attraversò il 68 non era, in sé, un equi-

voco: semmai, era il segnale che alcune delle tradizionali distinzioni su cui si reggeva l’identità culturale dell'Occidente erano in via di deperimento, e venivano ripensate, o appunto accantonate. Questo non vale solo per la differenziazione fra culture locali e nazionali: il 268 vide anche un grande rimescolamento delle forme di comunicazione, nel senso dell’accostamento e dell’integrazione fra molti e diversissimi media, nel senso dell’integrazione di modi e forme espressive tradizionalmente separati (l’uso «saggistico» del cinema, l’uso di stilemi poetici nella propaganda politica, l'introduzione di tecniche teatrali nella mobilitazione, non sono che tre dei possibili esempi) e anche nel senso del rifiuto (ostentato) di ogni contrapposizione fra cultura «alta» e cultura «bassa». L’accostamento bruciante fra il sapere alto, quasi esoterico, della filosofia e della teoria sociologica (fino al civettare con la dialettica francofortese dei testi di Dutschke e Krahl) e quello diffuso a livello di massa (ma non per questo, almeno in quella fase privo di ambizioni) della musica rock, è forse uno dei tratti che più colpiscono oggi nel leggere i testi e nel guardare i film del ’68; ma è vero più in generale che il gusto per l’ibridazione dei generi e dei livelli fu un tratto essenziale della produzione artistica degli anni sessanta,

della quale il °68 fu per certi versi l’erede. Ancora, si può dire che il movimento degli studenti agì da controtendenza rispetto a quello che era apparso un processo inarrestabile nella cultura occidentale dei decenni precedenti: la frammentazione disciplinare, il progressivo irrigidirsi delle demarcazioni fra campi e tecniche conoscitive, la parcellizzazione della nozione stessa di verità scientifica. La critica allo specialismo, dall’attacco americano contro la

multiversity, allo sferzante sarcasmo di Krahl contro gli «idioti specialisti», fino alla polemica contrapposizione cinese del «rosso» all’«esperto» (quanto meno nel modo in cui venne letta in Occidente) sottolineava il diffuso sospetto che esistesse un nesso fra la specializzazione del sapere e il suo asservimento. Il tentativo di superare concretamente le divisioni tra discipline fu un tratto essenziale,

e comune, di

tutte le esperienze di «autoeducazione» che accompagnarono la protesta universitaria in molti paesi. Anche qui, sarebbe facile notare che la volontà di ritrovare un sapere della totalità al di là di tutte le distinzioni disciplinari si prestò a non pochi equivoci; ed è stato giustamente 0sservato (da G. Viale) che la pretesa ricomposizione dei diversi saperi venne ottenuta solo a prezzo di forzare le capacità esplicative dei para-

39

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:

| Peppino Ortoleva digmi sociologici, per cui la critica di tutte le discipline si riduceva a una schematica analisi sociologica dei meccanismi sociali che si riteneva le condizionassero. Sarebbe facile, dicevamo, sottolineare soprattutto gli equivoci impliciti in quel rimescolamento dei saperi; e rischierebbe tutto sommato di essere sterile: perché la «crisi del °68» di cui oggi abbiamo bisogno non è probabilmente la puntigliosa rilevazione dei fraintendimenti e dei cortocircuiti culturali di cui fu sicuramente intessuta la coscienza di sé dei movimenti studenteschi: su questi temi il ‘68, se non ha bisogno di difensori, ancor meno ha bisogno di accusatori, visto che l’ironia e il sufficiente distacco sono stati i toni dominanti delle celebrazioni del ventennale. La «critica del ’68» di cui si avverte l’esigenza è la comprensione, che ancora ci manca, del senso e dell’effettiva dinamica di

un evento vasto e importante quanto ancora largamente oscuro, anche (e forse soprattutto) a coloro che lo vissero. Di questa «oscurità» del °68 la magmaticità delle idee, dei testi, delle forme di comunicazione, che furono adottati e diffusi dai movimenti studenteschi dei più diversi paesi, è sicuramente uno dei fattori essenziali, anche perché rende assai difficile inserire quell’evento nel continuo di una «storia delle idee» ordinata. Il rifiuto della tradizione, così caratteristico di tutti i movimenti giovanili di quella fase, fu anche rifiuto di qualsiasi corpus ideologico rigoroso, non solo in quanto un corpus avrebbe presupposto l’adozione di un principio di autorità (e di trasmissione dell’autorità) ma anche e forse soprattutto in quanto avrebbe imposto un principio di inclusione/esclusione. Uno slogan del maggio ammoniva: «non ci si deve stupire del caos delle idee; è la condizione per l'emergere delle idee nuove» (il gusto dello slogan, sia detto per inciso, era l’opposto dell’erezione di un corpus di testi: forse autoritario anch'esso, ma generalmente anonimo, lo slogan era orale ed effimero, proverbiale). Proprio l’avvio del processo di formazione, o più precisamente di recupero, di un corpus ideologico (i testi, non più solo il vocabolario, della tradizione marxista) avrebbe in seguito segnato, forse più limpidamente di'ogni altro indizio, la fine della fase giovanile e internazionale dei movimenti di nuova sinistra, e l’inizio di una vicenda almeno parzialmente differente.

Metodi possibili per orientarsi.

Certo è che il leggere il °68 come

un momento di grande e magmatico rimescolamento dei saperi ci pone di fronte a un altro dei tanti paradossi che Lala evento sembra insi-

40

«Le culture del "68

stentemente disseminare sul cammino dello storico: in un movimento (o una costellazione di movimenti) che assegnavano allo scontro sul terreno culturale un’importanza forse senza precedenti nella recente storia politica, i processi specificamente culturali appaiono ben difficili da analizzare con gli strumenti consueti, dalla storia delle idee all’analisi di contenuto dei testi. È 1’ apparente «eclettismo» (su cui si è ancora soffermato di recente N. Tranfaglia) o «sincretismo» del ’68 a rendere la sua cultura o le sue culture un ben difficile oggetto di analisi. Chi ha affrontato questa sfida, ha seguito finora essenzialmente tre vie. Una prima via, relativamente antica in quanto coeva o appena successiva al sorgere del movimento, è quella che nega effettiva rilevanza ai testi del ’68, e alle idee consapevolmente espresse, che ven-

gono confinate a «ideologia» nel senso marxiano del termine, mascheratura mistificante e obsoleta della realtà sociale, questa sì effettivamente nuova, che la rivolta inconsapevolmente esprimeva. È (schematizzo naturalmente moltissimo quella che resta un’interpretazione suggestiva e ancora in parte persuasiva) la via seguita da uno degli studi «classici», quello di Touraine; ma è anche per certi versi il senso co-

mune oggi prevalente, quello per cui il °68 avrebbe contato (e in sostanza vinto) nel «sociale», che pure era solo angolarmente oggetto del suo discorso, mentre avrebbe perso sul terreno politico, sul quale si concentrava

il suo esplicito argomentare,

tutto condizionato,

per

non dire vuotato di senso, a causa dei pesanti vincoli ideologici. Questa distinzione, fra una «cultura del 68» che esprimeva l’ingannevole consapevolezza di sé del movimento (prendendo a prestito il suo vocabolario e la sua concettualizzazione dal passato del movimento operaio e da una mistura di altre tradizioni di pensiero) e un’altra cultura, più profonda e radicata ma meno visibile, che esprimeva il comparire sulla scena della prima generazione «postmaterialista», è stata riproposta di recente, con molta finezza, da B. Bongiovanni: il quale attribuisce alla prima i tempi brucianti, e illusori, dell’ideologia, alla seconda i tempi lunghi, la pazienza, si sarebbe tentato di dire l’astuzia storica, della mentalità in lento mutamento. È uno schema suggestivo e che consente, in effetti, di comprendere alcune delle più sorprendenti sfasature, si potrebbe dire asincronie, che si riscontrano nelle espressioni del movimento giovanile e studentesco in tutto l'Occidente. Ma ci sono due assunti, due presupposti, che Bongiovanni sembra dare per scontati, che credo al contrario occorrerebbe quantomeno sondare, sottoporre a verifica. Il primo è che i «tempi» del cambiamento di mentalità siano necessariamente

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lenti, invisibili, correlati, se non

Peppino Ortoleva

x

È

iaia

TRE ie



indirettamente, con l’istantaneità dell’evento (il quale quindi può assumere al più valore di sintomo, di segnale, mai di causa rilevante). E un problema assai discusso proprio in questi anni, negli studi sulla rivoluzione francese, ma sul quale mi sentirei quantomeno di proporre un interrogativo: e se incominciassimo ad affrontare la storia delle mentalità, in età contemporanea, senza escludere la possibilità di «cri-

si di mentalità», momenti di precipitazione che certo sono collegati a complessi processi di lungo periodo, ma che hanno i tempi brevi, e le brucianti interconnessioni, propri delle crisi economiche e politiche? Questo è ciò che ho tentato di dire in tutta la mia proposta interpretativa sul ’68, questo è ciò che credo si possa e si debba fare per analizzare la dinamica più propriamente «culturale» del movimento studentesco. Il secondo presupposto di Bongiovanni è che i testi del movimento, rilevantissimi per comprenderne l’ideologia, ben poco possono dirci sulla sua reale «mentalità», proprio in quanto l’ideologia faceva schermo ad un'effettiva coscienza di sé e delle proprie reali contraddizioni. Credo che una lettura attenta e senza pregiudizi della documentazione allora prodotta (e basterebbe attraversare, per il caso francese, l’imponente mole di documenti raccolta da Vidal-Naquet e Schnapp) dimostri, in effetti, il contrario: che i materiali, sia scritti che filmici,

prodotti dal movimento sono tuttora fra i documenti più ricchi (e tutto sommato fra i meno esplorati) per comprendere l’evento ’68, proprio per la complessità, la contraddittorietà, la molteplicità di livelli e di significati che gran parte di essi mettono in gioco. Una seconda metodologia è stata molto seguita in questi ultimi anni, e in particolare dagli studi di parte conservatrice. Essa consiste nell’isolare un filone di pensiero come il più caratteristico, o l’unico significativo, del movimento, escludendo di fatto tutti gli altri. È così che Ferry e Renaut in un libro di successo hanno identificato «il pensiero 68» con lo strutturalismo; è così che A. Bloom, in un testo certo meno mediocre e più stimolante, ha tentato di far coincidere l’ondata culturale degli «anni sessanta» con il trionfo del nietzscheanesimo in America. Che poi questa selezione arbitraria finisca con il leggere il 68 alla luce proprio di quei filoni di pensiero che (pur nel magma complessivo) meno vi ebbero cittadinanza, forse è conseguenza non tanto del metodo seguito quanto dei pregiudizi ideologici, che portano gli autori a vedere gli studenti in rivolta come i definitivi affossatori della tradizione liberale e i portatori aggressivi di un sapere disumanizzante elaborato dapprima da ristrette élite. Potrebbe essere affascinante (ma non è questa la sede) inquadrare queste ricostruzioni in una storia più vasta del pregiudizio contro il movimento studentesco, pregiudizio

42

È

Le culture del °68 che spesso travalica le distinzioni classiche tra destra e sinistra, e che

manifesta il timore, forse non casuale in questa fase storica, di una possibile barbarie dei letterati, di un processo di devastazione dell’organizzazione del sapere operato e guidato proprio da coloro che del sapere dovrebbero essere insieme custodi e professionisti. In questo senso, è probabilmente proprio il «caos delle idee» (oggetto di critiche acute, ma simpatetiche, da parte di un Gouldner o di un Touraine) ad essere il vero oggetto del pregiudizio, in quanto sembra minacciare l’avvento di una cultura babelica e indifferenziata: è questo del resto il nodo essenziale della critica, sprezzante e violenta, di un Bloom. Ma è assai indicativo il fatto che proprio questi critici non riescano ad affrontare la magmaticità culturale del ‘68 nella sua complessità, preferendo ricondurla a uno schema facile, e poco fondato, di storia delle idee.

Una terza via è quella consistente nello scomporre la cultura / le culture del °68 nei diversi filoni e «correnti» che ne furono parte, seguendoli singolarmente: in tal modo, il ‘68 può diventare un capitolo della

storia

del dissenso

cattolico,

o della

storia

delle

dissidenze

marxiste, o della vicenda delle avanguardie cinematografiche. È questa, a ben vedere, la via più largamente battuta, poiché è quella che permette di inquadrare il fenomeno all’interno dei paradigmi, e delle delimitazioni disciplinari, propri di molte «storie speciali» contemporanee. È bene dire che questa scelta metodologica, così come, del resto, le altre precedentemente citate, non è di per sé priva di valide ragioni: molti degli incontri e degli incroci che furono caratteristici di quella breve stagione (come è stato notato da B. Bongiovanni) ebbero vita breve, e si assisté sulla distanza a un ricompattarsi e a un nuovo separarsi di filoni culturali che erano allora apparsi immersi in un processo di fusione. È quindi logico, per chi studi la storia del pensiero cattolico, o quella delle avanguardie artistiche, o quella del pensiero marxista vedere il 68 dei cattolici, degli artisti, dei trockisti come una tappa non necessariamente centrale di un processo molteplice, distinto, di lungo periodo.

Il rischio, però, è quello (a voler riprendere un’espressione cara a Lenin) di vedere gli alberi senza vedere la foresta, di ridurre un processo di incontro e rimescolamento, magmatico e confuso ma (anzi proprio per questo) significativo e complesso, a una pura e tutto sommato banale accumulazione di componenti eterogenee. Non varrà la pena, al contrario, interrogarsi sui motivi profondi e sulla forma, sia pure effi-

mera, che assunse quel patrimonio di sapere che, al di là di tutte le differenze, i movimenti studenteschi di diversi paesi occidentali riconobbero come propri.

43

Peppino Ortoleva

Singolare e plurale. Il titolo della relazione parla di «culture» al plurale. È una scelta che può apparire ovvia, quasi necessitata. Sembra renderla tale la consapevolezza della vastità del quadro messo in gioco dal ’68; sembra renderla tale il rifiuto, che appare doveroso in questo momento, e in questa sede, di ogni chiave interpretativa totalizzante; sembra renderla tale, soprattutto, il senso comune odierno, che tende a

risolvere il suo disagio verso le grandi categorie dell’astrazione con la concretezza apparente del plurale. Lo ha fatto notare di recente Pierre Boulez. A Foucault che gli diceva: «Non si può parlare di un rapporto della cultura contemporanea con /a musica, ma di una tolleranza più o

meno benevola verso una pluralità di musiche» il grande compositore ha risposto: «È parlando delle musiche, manifestando un eclettico ecumenismo, che si risolverà il problema? Sembra al contrario che lo si eluda, in linea con i fautori della società liberale avanzata. Tutte le musiche sono belle, tutte le musiche ci stanno bene. Ah! il pluralismo, non c’è miglior rimedio contro l’incomprensione». Bene, se questo è il senso comune oggi prevalente, sarà utile ricordare ora, quantomeno, che non era il senso comune prevalente nel ’68. Che una visione «pluralistica» della sua cultura non può essere provata sulla base della consapevolezza di sé della cultura stessa; che a fronte del «pluralismo» pacificato oggi dominante la cultura del movimento studentesco internazionale era invece caratterizzata da una forte tensione fra la tendenza all’unificazione e quella alla diversificazione dei saperi e delle culture. Che ci troviamo in sostanza davanti a un’altra (una delle tante) di quelle doppiezze che attraversano tutta la storia del ’68, determinandone la complessità e la difficile interpretabilità. In un notevole romanzo recente di Rosellen Brown, Civil! Wars, assistiamo all’incontro casuale di due ex militanti della nuova sinistra,

divenuti l’uno preside di scuola media, l’altro rappresentante di libri scolastici. Riconosciutisi per uno di quegli impercettibili segnali che sono tuttora parte della vita sociale della nostra generazione i due provano a tracciare una lista di libri che bisognerebbe far leggere ai ragazzi di oggi, una lista varia, disordinata, eterogenea, che comincia con Ragazzo negro e finisce con un classico dell’antropologia, Modelli di cultura di Ruth Benedict: «Modelli di cultura— disse Teddy per un soprassalto di memoria — per mostrare loro quanti mondi ci sono». È una citazione doppiamente utile per il percorso che stiamo seguendo: da un lato ci ricorda di nuovo quanto frammentaria, eterogenea e in parte casuale, fosse quella che si potrebbe chiamare la biblioteca del ’68; dall’altro ci ripropone l’insistenza, che fu propria della cultura del periodo, sulla necessità di opporsi all'omologazione culturale imposta dal

44

Le culture del ’68

capitalismo, e di riconoscere e rispettare le diversità, soprattutto quella degli «altri mondi» rispetto all’Occidente: al punto che viene da chiedersi se la popolarità immensa che ebbero allora concetti come «Terzo Mondo» e «Quarto Mondo» non fosse connessa anche con il timore delle implicazioni oppressive, di un’unità del pianeta che appariva sempre più ineluttabile. Il riconoscimento, financo l’esaltazione, della diversità delle culture, proprio nel senso definito dalla letteratura antropologica (e la popolarizzazione della conoscenza antropologica, da Lévi-Strauss, fino alla stessa Benedict, fu uno dei processi più curiosi del mercato editoriale

internazionale degli anni sessanta) è una componente essenziale, e nuova, dell’«antimperialismo» che fu proprio del ’68; e prelude (ponendone le fondamenta ideologiche) a quel processo, che ho cercato di analizzare altrove, di disseminazione in specifici movimenti fondati sull’identità e la differenza, che è un aspetto essenziale della vicenda di

cui discutiamo. Ma l’esaltazione delle diversità fra le culture è solo un aspetto dell’ideologia del movimento studentesco, e forse (almeno in quel pe-

riodo) non il principale. La capacità del capitalismo di assorbire ogni forma di discorso, anche il più radicale, in un generico e indifferenziato

mercato delle idee, quella che Marcuse definì (in un testo che ebbe allora larghissima, e direi meritata, circolazione) come «tolleranza repressiva» fu oggetto, soprattutto da parte del movimento studentesco tedesco, di grande attenzione, e di non banale riflessione teorica. Al pluralismo ingannevole del mercato veniva contrapposta la radicale opposizione fra autorità e liberazione, o se vogliamo fra principio dell’autorità e principio della liberazione: questa contrapposizione permetteva di inquadrare all’interno di uno schema unitario e (abbastanza consapevolmente) tota-

lizzante, tutti i diversi terreni dello scontro, e di stabilire un’apparente omologia fra luoghi ed anche culture diversissimi fra loro. La tensione fra la pluralità tendenzialmente infinita delle identità e delle culture, e il principio unitario che assumeva tutte le istanze (dagli equilibri politici del pianeta alla struttura stessa della personalità individuale) sotto il segno di un unico grande scontro fra autorità e liberazione; la tensione fra l'esigenza di rispettare i tempi, necessariamente lenti, del processo di crescita e di scoperta di sé e del mondo vissuto dal movimento, e quella di «bruciare i tempi» per giungere a un grande scontro frontale fra oppressori e oppressi: sono forse le vere radici del diffondersi del mito (questo sì autenticamente planetario) della «rivolu-

zione culturale». Parlando di rivoluzione culturale, gli studenti occidentali non si rifacevano

solo (un’altra identificazione

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a distanza...)

Peppino Ortoleva

all’esperienza cinese, o almeno a quanto di essa si sapeva o si credeva di comprendere: proponevano, e si proponevano, un modello di rivoluzione radicale sì e antigradualistico, ma in prospettiva interminabile, un modello di rivoluzione che potesse coinvolgere l’intero pianeta ma al tempo stesso radicarsi nelle esigenze di ciascuno.

Eclettismo e sincretismo. È alla luce di queste stesse tensioni che può essere utile provare a rileggere quello che è stato chiamato l’«eclettismo» del movimento. Nell’usare questa espressione, si implica evidentemente che il processo di unificazione al suo interno di tradizioni culturali differenti sia stato una manifestazione di superficie, e che il 68 in quanto fenomeno culturale sia comprensibile solo a prezzo di una scomposizione, di una ricerca che lo riconduca alla varietà delle

sue specifiche componenti, secondo una delle vie di metodo che si sono sinteticamente criticate poco fa. Ma forse, più che di eclettismo, occorrerebbe parlare di «sincretismo»: non un cumulo indifferenziato di idee di diversa provenienza, ma un terreno di incontro, bruciante e privo di mediazioni, fra livelli, linee di pensiero, tradizioni, della cui diversità, e financo incompatibilità, si era tutto sommato consapevoli. La caratteristica più sorprendente del ’68 è forse proprio questa, non tanto la convivenza di filoni diversi, ma l’incontro e la reciproca fecondazione degli opposti: l’esaltazione della violenza con la diffusione (senza precedenti, ed effimera) della teoria e della pratica della non-violenza, l’ateismo militante con un cristianesimo alla ricerca dell’autenticità del messaggio originario di Gesù, l’esaltazione di quella che Godard ha chiamato «un’idea cretina della libertà» («è vietato vietare») con l’idealizzazione dello stalinismo...

Il sincretismo, del resto, è fondante non solo delle pratiche, ma dell’idea stessa di «controcultura». Nel proporsi come alternativa radicale al modo di essere dell’Occidente avanzato, anzi come suo rovescio (contro-cultura), essa cercava sistematicamente risorse in tutte le

culture che l'Occidente aveva respinto come residuo barbarico e irrazionale e in quelle che esso aveva definito come l’altro da sé (da un lato l’attrazione per i culti e i riti degli indio, dall’altro e soprattutto il sogno dell’incontro con l’Oriente). Nel definirsi come contro-cultura, essa assumeva la polivalenza del concetto antropologico di cultura come fondamento di un’identità articolata, capace di fondere insieme espressioni artistiche, stili di vita, consumi.

Parlando di «sincretismo» da un lato, di «rivoluzione culturale» dall’altro (due definizioni, l’una volutamente formale, e esterna, l’altra

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Le culture del ’68

ideologico-programmatica, e interna, della formazione «culturale» del movimento) evidenziamo il carattere processuale, dinamico, di quel «rimescolamento dei saperi» che abbiamo fin dall’inizio ricordato come problema e come sfida per la nostra ricerca; identifichiamo una «via» e un metodo differenti da quelli richiamati sopra: la «cultura del 68» si definirà allora come problema storico in quanto gli storici sapranno leggere i processi di formazione, e poi di dissoluzione, di un «campo» di saperi e di identità che si riconobbe, almeno per un breve periodo, come integrato e relativamente coerente. È dalla scuola di Tartu che ci viene un ammonimento prezioso per la nostra ricerca: l’affermazione (che è tra le Tesi sullo studio semiotico della cultura) secondo cui «da un punto di vista semiotico si può considerare la cultura come una gerarchia di sistemi semiotici particolari, come la somma dei testi e dell’insieme di funzioni ad essi correlato, o, ancora, come un

certo dispositivo che genera tali testi». La nostra proposta è di analizzare la «cultura del ’68» in prima istanza come «gerarchia di sistemi semiotici», o forse più precisamente come luogo di fusione e ridislocazione di sistemi, e di interrogarci sulle motivazioni che producono tale ridislocazione, per poi passare a riflettere sui «dispositivi» di produzione, e di circolazione, degli specifici discorsi che vennero elaborati in quella temperie culturale. Si tratta di due passaggi indispensabili, preliminari, per poter giungere poi a un riesame approfondito dei singoli aspetti, momenti, testi della vicenda che stiamo dibattento. Due passaggi che richiederanno la capacità di guardare alla «cultura del ’68», insieme, dall’interno (per coglierne motivazioni e coscienze di sé) e dall’esterno, per comprenderne la morfologia e l’organizzazione. Se vorremo affrontare la «cultura del ’68» in questo senso ci troveremo a confrontarci molto di più, e più direttamente, con il lavoro degli antropologi, e dei semiotici (quantomeno di quella peculiare specie di semiotici che sono appunto gli studiosi della scuola di Tartu) che non con quello degli storici delle idee.

Per un’interpretazione della «rivoluzione culturale» in Occidente L’antistruttura: scomporre e ricomporre. «Scomposizione della cultura [consolidata] nei suoi fattori costitutivi, e... ricomposizione libera

o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione, per quanto bizzarra»: questi sono, secondo Victor Turner, i caratteri salienti dell’attività culturale propria delle fasi «liminali» della storia. Sono le fasi in cui il pacifico processo di trasmissione del sapere (e del potere)

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Peppino Ortoleva all’interno delle istituzioni consolidate (la «struttura» sociale) si spezza, e fa irruzione l’«antistruttura», la «società come comitatus, comu-

nità o anche comunione non strutturata... e relativamente indifferenzia-

ta di individui eguali». È la struttura, secondo Turner, a generare, in se-

guito al suo ricorrente irrigidirsi e isterilirsi, l'esigenza di un’antistrut. tura: la quale diviene momento di fecondazione e di rinnovamento proprio in quanto, sul terreno sociale come su quello culturale, opera un annullamento (bruciante) delle gerarchie, delle differenze, delle stesse forme di specializzazione funzionale, e propone da un lato l’adozione di linguaggi «altri» rispetto a quelli propri della quotidianità, dall’altro l’emergere di valori «altri» rispetto a quelli consolidati. Esaurito il compito di fecondazione e rinnovamento, l’antistruttura lascerà il posto ad una «struttura rinvigorita» parzialmente rinnovata. È stata soprattutto Frances Fitzgerald a proporre l’applicazione degli schemi di Turner alle vicende della nuova sinistra americana, e a

sperimentarne l’intreccio con le categorie, elaborate da Hofstadter, di interest politics e di status politics su cui dovremo tornare. Ma già Turner aveva dedicato alcune pagine suggestive al problema della controcultura. Ed è difficile non notare le numerose convergenze fra le sue tesi e quelle di Alberoni sullo «stato nascente» e sull’opposizione tra movimento e istituzioni, nate proprio nella temperie del ’68, e riconoscibili tuttora come uno dei pochi significativi contributi della sociologia italiana allo studio della rivolta giovanile. In altra sede ho ampiamente, forse un po’ troppo duramente, criticato questo schema. Ho messo in rilievo la sua fondamentale astoricità, la tendenza a ridurre la storia della civiltà a un succedersi di fasi «strutturate» e di momenti di irrompere dell’«antistruttura», in cui questi ultimi finiscono col presentarsi come sostanzialmente invarianti, sempre eguali a se stessi: fra la controcultura, il movimento francescano, i Vi-

rasaiva indiani, vengono indicati dei nessi che lo stesso Turner ben si guarderebbe dal proporre fra le «strutture» della società americana odierna, dell’Occidente medievale, dell’India castale. Ma questa critica, che continuo a ritenere fondata, non deve farci dimenticare la fecondità sostanziale della tesi di Turner (e di Alberoni): esistono diversi modelli possibili di organizzazione culturale, modelli che possono comparire in fasi differenti nella storia di una stessa civiltà, e contrapporsi gli uni agli altri in modo radicale, o convivere (l’antistruttura come «subcultura» interstiziale rispetto alla cultura dominante); modelli che sono fra loro distinti, prima e più che dalle idee e dagli specifici valori assunti come prevalenti, dall’organizzazione e dalle forme di produzione e di circolazione del sapere.

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SRD

Le culture del ’68

Può valere forse la pena di richiamare una diversa proposta, che presenta interessanti e suggestive convergenze con quelle di Turner e di Alberoni. In un libro del 1988, Lucien Sfez schematizza due modelli di

comunicazione, di trasmissione del sapere: il primo, che definisce «rappresentazione», è fondato su distinzioni rigide, fra emittente, mezzo, destinatario, e su una separazione netta fra «rappresentante» e «rappresentato» (intesi sia nel senso semiologico che in quello giuridico-politico dei due termini); il secondo, che definisce «espressione» è caratterizzato

dalla soppressione, quantomeno apparente, delle mediazioni: «l’espressione è diretta, spontanea... il microcosmo esprime la totalità del macrocosmo. L’oggetto piccolo equivale al grande. Esprime in sé l’universale. Anche la sfasatura temporale che divide i diversi momenti della rappresentazione vi è soppressa». Come Turner, anche Sfez definisce due «stati» della comunicazione e della socialità umana, insieme complementari e soggetti a un ritmo di alternanza ciclica: «rappresentazione» ed «espressione» sono essenziali l’una all’altra, poiché ciascuna delle due, isolata, è condannata alla sterilità o alla dissoluzione. Inoltre, sebbene Turner non abbia dedicato una diretta attenzione alla specificità delle forme di comunicazione implicita in quelle che definisce come «struttura» e «antistruttura» ( o «fase liminale») si può supporre che sarebbe stato d’accordo nel riconoscere il prevalere nella prima di forme di comunicazione «rappresentativa», nella seconda di forme «espressive»: del resto, assai suggestive sono le pagine che dedica al prevalere del linguaggio poetico, e della metafora, nelle fasi «liminali». Come Turner, Sfez non ha dedicato ricerche specifiche ai movimenti del ‘68, ma è evidente dal suo schema (e da alcune

interessanti riflessioni da lui proposte nel corso di recenti convegni) che l’esplosione della controcultura e della rivolta giovanile andrebbe letta come l’irruzione di un’istanza fortemente «espressiva» (e di democrazia diretta) in una società dominata dall’universo ossificato della rappresentazione mediata, e della democrazia rappresentativa. Dove i due schemi si dissociano è nella problematica più propriamente storica (e attuale) elaborata da Sfez: «Rappresentazione e espressione: due visioni del legame sociale, ciascuna con la sua forza, ciascuna con i suoi limiti, che trovano compensazione nell’altra. Ma questo sistema autocorrettore appare oggi inceppato, perché siamo nella fase del “tautismo”, della confusione fra rappresentazione e espressione». Il tautismo, ovvero una fase nuova nella quale «la comunicazione è ormai solo la ripetizione imperturbabile del sempre-uguale (tautologia) nel silenzio di un soggetto morto, o sordomuto, rinchiuso dentro una fortezza interiore (autismo), catturato da un grande tutto che lo ingloba

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e lo frammenta». Ciò che è interessante in questa elaborazione non è tanto l’immagine proposta del mondo odierno, che sembra riecheggiare tesi «apocalittiche» un po’ di maniera, quanto l’ipotesi, tutta da sviluppare ma certo suggestiva, secondo cui si sarebbe venuta a consumare,

nel corso di questi decenni, la rottura di un equilibrio ciclico fra forme e stati del sapere e della comunicazione, e si sarebbe entrati in una fase nuova, dominata dalla compenetrazione fra livelli un tempo complementari ma distinti. Accogliere la sfida proposta dalle tesi di Sfez significherebbe allora chiedersi se la cultura del °68 non possa essere letta in una duplice chiave: come rottura «antistrutturale», «espressiva», di un sistema ordinato preesistente, e come tappa di un processo (questo sì di lungo periodo e molto probabilmente inconsapevole) che porterebbe al sostanziale annullarsi di ogni possibile distinzione tra «forme» e «stati» della cultura. In quest'ottica, il rimescolamento dei saperi che abbiamo visto essere così caratteristico del ‘68 è suscettibile di una lettura «costruttiva», come fase di critica e rifondazione di una cultura che si stava ossificando e insterilendo; e di una «dissolutiva», come tappa di un processo di confusione al cui termine vi può essere la crisi di ogni possibilità di effettiva comunicazione nella società. In questa sede ci soffermiamo solo sul primo corno del dilemma, sulla possibilità di leggere la cultura del ‘68 come processo di riorganizzazione globale (seppure transitorio) del sapere in opposizione alla cultura dominante; ma gli interrogativi proposti da Sfez nel loro estremismo e nella loro voluta schematicità, non possono essere facilmente liquidati da chiunque si proponga di analizzare in termini storici e politici le trasformazioni subite dalla circolazione e dall’organizzazione della cultura negli ultimi decenni.

Il disordine come ordine rovesciato. Se proviamo a riprendere in esame (sia pure in termini generalissimi, che astraggono da tutte le specificità locali) quello che abbiamo chiamato il processo di rimescolamento dei saperi proprio del ’68, ci rendiamo conto di trovarci di fronte a una dinamica molteplice e complessa, nella quale la tensione tra «singolare» e «plurale» che abbiamo definito sopra si articola in una pluralità di posizioni. In primo luogo, va riconosciuta quella che abbiamo definito la tendenza al «sincretismo», la riunificazione, insofferente di ogni mediazione, fra termini tradizionalmente distinti se non contrapposti del sapere tradizionale. Forse, l’aspetto più radicale e più «scandaloso» della cultura del ’68 fu il fatto che essa assumeva all’interno del proprio

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:

Le culture del ’68

universo di discorso, e di azione politica, aree tradizionalmente esclu-

se non solo dalla sfera politica, ma dalla comunicazione pubblica: allargando il proprio discorso alla sessualità, alla vita quotidiana, all’inconscio, il °68 non si limitava a infrangere alcuni tabù del resto incrinati da pressioni e tensioni di ben più lungo respiro; ridefiniva, per riprendere i termini di Lotman, i confini tra «cultura» e «non-cultura», ammettendo fra i temi di possibile elaborazione intellettuale e politica quelle aree che erano state in precedenza ritenute «escluse dalla storia». Vale la pena di ricordare che, in questo modo, i movimenti giovanili potevano apparire intenti a vanificare ogni possibile discriminazione tra natura e cultura e tra civiltà e barbarie, sia quelle fondate su criteri razzial-geografici, sia quelle fondate su distinzioni che passano all’interno della società e dell’individuo. «La cultura del XX secolo [avendo esaurito le proprie potenzialità di espansione nello spazio] ha creato il suo “barbaro” sotto forma di inconscio, ponendo il confine fra cultura e non-cultura all’interno dell’individuo», sostiene Lotman;

ma nell’ideologia propria del ’68 il «barbaro» inconscio veniva assunto come istanza oppressa da liberare, e insieme liberatrice, analogamente ai «barbari» del Terzo Mondo. Se questo è vero, la minaccia per l’ordine costituito rappresentata dal movimento appariva duplice: da un lato quella, propriamente politica, di sovvertirlo, dall’altro quella, propriamente culturale, di svuotarlo di senso, vanificandone i confini, le gerarchie, le differenziazioni. Il timore di quella che abbiamo definito una «barbarie dei letterati» nasceva probabilmente soprattutto da questa seconda minaccia. Ma il sincretismo così inteso è solo un aspetto della «rivoluzione culturale» sessantottesca, il momento, se vogliamo, del disordine celebrato oltre che praticato dal movimento. Ad esso si accompagna (come

si è accennato)

un altro aspetto, complementare

ma

anche, per

molti versi, opposto: la ricerca di criteri discriminanti, anzi di un criterio discriminante, che permettesse di distinguere, in tutti i campi del sapere e dell’esistenza, da che parte stare. Al processo di riunificazione di tutte le aree del sapere, e dell’esistenza umana, si affiancava un

processo di ricerca che, in tutte quelle aree, cercava di definire le istanze oppressive e quelle liberatorie: dal microcosmo della personalità individuale al macrocosmo del pianeta, tutti erano attraversati da un conflitto sostanzialmente sempre eguale, fra autorità repressiva e oppressi in lotta per abbattere l’autorità. Un conflitto che fungeva, come vedremo, da indispensabile bussola in un universo così impetuosamente riunificato; e che contribuiva ulteriormente a riunificarlo, ren-

dendo possibile una concettualizzazione omologa per aree lontanissi-

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Peppino Ortoleva me fra loro dell’esistenza umana: un conflitto che riproponeva un modello di ordine (a partire da una gerarchia di valori potentissima nella sua semplicità, quasi linearità) oltre e attraverso il disordine del sincretismo generalizzato. Può essere interessante notare (ed è una possibile via per dare spessore storico al processo di scomposizione/ricomposizione operata dal °68 nei confronti della cultura dominante) che il modello appena proposto, di un sapere ricomposto fino all’indifferenziazione sul piano dei contenuti, dei filoni, delle collocazioni geografiche e diviso in due schieramenti incompatibili sul piano dei valori, si configuri come diametrale rovesciamento del modello di organizzazione del sapere che appariva proprio dell’apparato universitario-amministrativo-tecnocratico, o almeno dell’immagine di quell’apparato proposta dalla critica elaborata dal movimento, e prima ancora da intellettuali quali Marcuse. A un’organizzazione della cultura fortemente diversificata sul terreno della specializzazione, della divisione dei compiti, ma sostanzialmente indiscriminata sul piano dei valori, anzi incapace di esprimere criteri di giudizio che non fossero la pura e semplice difesa dell’esistente, il movimento degli studenti opponeva insieme il superamento di ogni specializzazione e di ogni divisione del lavoro (e questa, è a ben vedere, una delle radici intime del suo egualitarismo) e l’identificazione di un sistema di valori rigoroso quanto mobilitante. Al doppio processo, di unificazione e di discriminazione, che reggeva la formazione di una cultura del movimento, si affiancava poi un’altra dinamica, più sottile e più difficile da discernere nell’immediato, ma che avrebbe condizionato in modo decisivo gli esiti del movimento: quella che muoveva (in nome della piena espressione di tutte le istanze oppresse) alla ricerca delle specificità e delle identità differenti, individuali, etniche, di classe, e poi di genere; e che avrebbe portato in seguito a una vasta diaspora.

La ricerca di un criterio.

Il principio ordinatore, e discriminante,

che nella cultura del ’68 si profila come l’indispensabile altra faccia di una politica di riunificazione e di sconvolgimento dell’ordine del sapere, merita forse qualche riflessione aggiuntiva. «Il marxismo era tanto uno strumento di razionalizzazione (nel sen-

so psicologico) quanto uno strumento di razionalità; nel vuoto nichilista che aveva minato i valori nazionali e borghesi, svolgeva la funzione di pensiero selvaggio, nel senso lévi-straussiano, separando l’alto dal basso, il crudo dal cotto dal marcio, il giusto dall’ingiusto». In questa

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Le culture del ’68 frase è forse racchiuso il contributo più importante dato da Edgar Morin alla comprensione del ’68: un’intuizione che troppo poco è stata rimeditata e ripresa. Nel pensare in termini di classe, più in generale, nel pensare il mondo in termini di autorità contro liberazione, nell’applicare (al di là di ogni tradizione marxista, anche le più minoritarie ed ereticali) quest’opposizione a tutti i campi del sapere e dell’esistenza, nell’ipotizzare la possibilità di fondare su questa discriminazione-opposizione una critica e una rifondazione della sociologia contemporanea, il movimento

studentesco

internazionale

trovava ben altro che

semplice riferimento teorico, o un patrimonio di conoscenze, più o meno correttamente interpretato. La contrapposizione generalizzata di una parte rivoluzionaria e di una parte conservatrice, impegnata la prima a «nascere» e l’altra a «morire» o a dare la morte, secondo i bei ver-

si di Dylan, era il criterio di base che permetteva, in tutti i campi, la conoscenza e il giudizio. Soffermiamoci un attimo sui due termini. In primo luogo, la cono-

scenza: caratteristica della cultura del ’68 in tutti i paesi, direi dell’esperienza politica di quella generazione, è la convinzione di avere scoperto strumenti di comprensione, di consapevolezza, nuovi e negati a chi si affidasse alla cultura dominante, con tutte le sue pretese di conoscenza certa e oggettiva. È un tema, questo, chiarito con particolare forza da Dutschke (che definisce la possibilità di capire la società come un «privilegio» dello studente ribelle, in quanto studente e in quanto ribelle), ma che si ritrova in documenti di tutti i paesi, e che sottende al

clima di peculiare euforia intellettuale, oltre che politica, ritrovabile nei controcorsi, nelle università critiche, nei tanti progetti di «autoeducazione». La scoperta, o pretesa scoperta, di una nuova capacità di «capire» la società, implica la critica radicale di un sapere dominante che è

accusato di non dissipare, e anzi semmai di esasperare, la fondamentale opacità dell’ordine istituito. Di qui, fra l’altro, la radice di una delle maggiori incomprensioni reciproche tra il movimento degli studenti e gli intellettuali delle generazioni precedenti (inclusi tanti intellettuali politicamente vicini alla nuova sinistra): le espressioni culturali del movimento che apparivano dall’esterno profondamente irrazionali anche, e forse soprattutto, in quanto cancellavano 1 criteri di ordine e differenziazione tradizionalmente accolti (tradizioni marxiste incluse), venivano percepite dall’interno come limpide, anzi capaci di rischiarare la realtà circostante, in quanto consentivano di definire in ogni situazione le parti in conflitto, radicando la conoscenza così ricavata nell’esperienza personale, e ponendo le premesse di un processo di scoperta potenzialmente interminabile.

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Peppino Ortoleva

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In secondo luogo, il giudizio: in ogni situazione, il riconoscere da

che parte stesse l’autorità, da che parte l’istanza di liberazione, dividendo, se necessario, «l’uno in due» secondo una formula maoista, im-

plicava un giudizio morale sicuro: salvo (nell’interminabilità del processo di trasformazione) il procedere sempre a ulteriori giudizi, a ulteriori critiche, a ulteriori divisioni dell’uno in due, fino alla ricerca, che

sarebbe divenuta tormentosa, delle istanze oppressive all’interno della coppia, e poi dell’individuo. Solo comprendendo la centralità del giudizio nei movimenti del ’68, il prevalere dell’esigenza di discriminare e di giudicare su quella di realizzare progetti definiti, è possibile affrontare davvero il problema della loro politicità e apoliticità (ancora due termini apparentemente incompatibili, ma in realtà fusi in un intreccio assolutamente peculiare);

è qui che probabilmente la vecchia distinzione di Hofstadter fra interest politics e status politics può riacquistare interesse, e pregnanza. A differenza delle forme di organizzazione politica miranti alla realizzazione degli interessi di una specifica categoria sociale, imovimenti del ’68 parevano aggregarsi soprattutto attorno a un processo collettivo di scoperta, e in qualche misura di conversione, se non di rinascita. Una rinascita che si radicava in una scelta di campo, fondata su un giu-

dizio morale e/o estetico (non è questa la sede, ma si potrebbe con solidi argomenti sostenere che il °68 è una tappa importante di quel processo di estetizzazione della politica, e politicizzazione dell’estetica, che attraversa l’intero secolo); e che a sua volta fondava il diritto a giu-

dicare, in quegli stessi termini, tutto ciò che avveniva nel mondo. Ma le aggregazioni collettive formatesi attorno all’esperienza di un conflitto morale sperimentarono poi le potenzialità di cambiamento, sociale oltre che personale, insite nell’agire collettivo, e la «felicità pubblica» che accompagna i momenti di scoperta di spazi politici nuovi; e furono loro a denunciare (una denuncia che resta fra le eredità significative di quella stagione) la spoliticizzazione che fatalmente accompagnava il trionfo di una «politica degli interessi» in cui ogni progetto si era dissociato irrevocabilmente dall’utopia. D'altra parte, in questa temperie culturale e sociale, fra azione politica e giudizio morale si stabiliva una circolazione, e una circolarità,

che potevano apparire (ed apparvero) espressione di ingenuità e financo di irresponsabilità agli esponenti di tradizioni politiche più antiche, e non necessariamente meno contestative e radicali. In particolare, quella che veniva allora definita «la logica dello scontro per lo scontro», e che poteva ragionevolmente apparire immotivata, distruttiva, sospetta (di «fare il gioco dell’avversario», di «cadere nelle provoca-

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È

Le culture del ’68

zioni») a chi la giudicasse solo in funzione di una crescita organizzativa del movimento, acquistava un senso nuovo se vista in una prospettiva differente: quella di chi nello scontro e nel conflitto aperto cercasse una conferma della propria collocazione sociale e morale, della propria, sempre dubbia, radicalità e volontà di liberazione. Ed è forse proprio allo smarrimento di quei criteri di giudizio, tanto apparentemente limpidi e certi allora, quanto sostanzialmente inapplicabili, e financo incomprensibili, oggi, che si deve la distanza fra le sicurezze di un tempo e la confusione successiva, da cui è segnata la memoria di tutta una generazione.

Produzione e circolazione della cultura: le politiche della comunicazione Nel paragrafo precedente si è visto che si può leggere il 68 come antistruttura (nei termini di Turner); come principio di disordine che sovverte l’ordine preesistente ma al tempo stesso propone propri criteri di giudizio e quindi propri criteri di ordine; come anticultura (nel senso di Lotman): ovvero come un corpo estraneo che fa irruzione nell’ordinamento culturale consolidato, ed è, non a caso, visto dapprima come espressione di una peculiare barbarie per poi essere progressivamente scomposto e digerito. È una chiave interpretativa (o un insieme di chiavi) sicuramente feconda, e che credo meriti di essere svi-

luppata in ricerche specifiche. Ma è bene evitare di assolutizzarla: essa infatti implica il pericolo di enfatizzare in modo eccessivo l’opposizione radicale fra il ‘68 e la società (e la cultura) in cui esso nacque e

si formò, di vederlo nascere tutto intero (qualcuno aggiungerebbe anche «tutto armato») come Minerva dalla testa di Giove, senza coglier-

ne il processo di formazione, che è necessariamente complesso e frastagliato. Vi è quindi un possibile punto di vista altro, dal quale analizzare la cultura / le culture del ‘68: che lo inserisca nel quadro delle trasformazioni che attraversarono, negli anni sessanta-settanta, 1 modi di produzione e circolazione della cultura. La tesi (che seguirò qui in modo molto sintetico, anche perché l’ho ampiamente illustrata altrove) è che il ‘68 possa, da questo punto di vista, essere letto insieme come conseguenza di processi avviati parecchi anni, in qualche caso diversi decenni, prima del suo esplodere, e come motore di trasformazioni ulteriori; che possa essere letto come uno di quei momenti di passaggio che da un lato costituiscono una rottura nel continuum storico, dall’altro con-

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Peppino Ortoleva

sentono di vedere con esemplare chiarezza alcune continuità profonde, e insospettate. L'alto e il basso. In una delle più acute critiche della produzione culturale del movimento studentesco e della nuova sinistra americani, Alvin Gouldner ha sostenuto che l’incomprensione tra gli studenti in rivolta e i loro maestri nasceva anche dal fatto che i primi consideravano la sociologia «come parte della popular culture»: diremmo noi (ma nella traduzione si perde moltissimo) «come parte della cultura di massa». L'osservazione non vale solo per la sociologia, anche se questa scienza ebbe a quel tempo un ruolo, ed esercitò un fascino, del tutto peculiare. Si può dire, in generale, che i contenuti, e anche il vocabolario, di numerose discipline prima praticate solo all’interno di ambienti professionalmente

definiti, si diffusero e vennero

accolti massiccia-

mente dagli studenti ribelli, per poi divenire patrimonio comune, e banalizzato, del giornalismo: dalla ricerca antropologica, alla linguistica, alla storia sociale. Non staremo qui a ripercorrere le cause di questo mutamento, come la diffusione del paperback, o la crescente perdita di credibilità dei tradizionali criteri gerarchici nel sapere accademico (di cui il ‘68 fu probabilmente solo un’espressione tardiva, e a ciò si deve la sua repentina e inattesa capacità di mettere in ginocchio le strutture universitarie). Certo è che fu proprio l’applicazione al sapere scientifico di modalità di apprendimento e di circolazione riservate in precedenza solo alla cuItura «di massa» a consentire molte delle sperimentazioni più curiose e originali dei movimenti studenteschi, a cominciare dai «controcorsi» e dall’«università critica»; ma si potrebbero anche ricordare le peculiari pratiche di scrittura che si diffusero allora, e che stabilivano un continuum ininterrotto fra l’elaborazione di documenti teorici e la diffusione di testi destinati all’immediato consumo. L’osservazione di Gouldner è vera anche se la si rovescia in tutti i suoi termini: è proprio della cultura del movimento studentesco internazionale anche l’assumere come sapere in senso proprio, alla pari dell’«alta cultura», quella che era generalmente considerata «cultura di massa», in particolare la produzione musicale, grafica, letteraria, specificamente destinata al consumo giovanile. «La letteratura che lascia oggi il segno è la underground literature, sono i discorsi di Malcolm X, gli scritti di Fanon,

le canzoni

di Aretha

Franklin

e dei Rolling

Stones»: in queste parole di Andrew Kopkind riprese da Dutschke proprio al termine di uno dei suoi più impegnativi (anche per il lettore) saggi teorici si legge bene la volontà politica di superare ogni forma di gerarchia tra «livelli» culturali.

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Non è solo di un processo di rimescolamento fra «alta» e «bassa» cultura che si tratta, quindi, ma di una sfida dichiarata a uno dei principali criteri di discriminazione che avevano fondato l’organizzazione (e la coscienza di sé) della cultura occidentale almeno dalla fine dell’Ottocento: la distinzione che opponeva una cultura tout court, capace di elevare, rivolta di fatto a un pubblico ristretto, ma destinata nella sua essenza all’intera umanità in quanto comunità di esseri razionali, e una

«cultura di massa», capace di catturare l’attenzione e di rispondere a esigenze profonde della totalità o quasi totalità di fatto degli esseri umani, ma ritenuta incapace di attingere all’autentica universalità della grande arte e della scienza. Nello sfidare questa distinzione il °68 non fece, probabilmente, che

precipitare una crisi già latente a partire almeno dagli anni trenta, e col dare apparenza sovversiva a un processo i cui esiti ultimi possiamo 0ggi ben leggere come tutt'altro che rivoluzionari. Ma ponendo come problema politico la questione delle gerarchie interne alla cultura, e del loro possibile superamento, i movimenti studenteschi, almeno in quella stagione, esprimevano forse alcune intuizioni feconde: in primo luogo, la consapevolezza delle implicazioni, appunto, politiche delle trasformazioni in corso nel campo della comunicazione e della produzione di cultura, la consapevolezza che nessuna futura battaglia per il potere poteva trascurare questi terreni, sui quali la «vecchia sinistra» (salve alcune importanti eccezioni) aveva invece accolto di fatto i luoghi comuni dominanti; in secondo luogo, il nesso stabilito fra l’accoglimento del linguaggio e degli stili propri della «cultura giovanile» e la sottolineatura dell’esigenza di «liberare» gli aspetti oscuri e repressi della personalità. In questo modo, la cultura di massa veniva individuata come un

terreno di conflitto, anzi uno dei più importanti terreni di conflitto (di qui, fra l’altro, la sua potenziale «politicità») fra un movimento sovversivo mirante a coinvolgere nella propria azione di trasformazione tutti i livelli dell’esistenza, incluso l’inconscio individuale, e un potere mirante ad assoggettare al suo ossessivo bisogno di controllo anche l’interiorità della persona. D’altra parte, va detto che in questo modo i movimenti studenteschi non fecero che raccogliere ed esplicitare potenzialità che si erano manifestate (e che gli osservatori più attenti avevano colto) fin dalle origini della «cultura giovanile», quantomeno fin dagli inizi degli anni sessanta. Quando la rivista Variety scriveva nel 1964 che «la beatlemania è un fenomeno strettamente analogo alle rivolte razziali» (si noti che il riferimento è proprio ai Beatles, spesso e a torto, assunti allora e dopo come simbolo della parte più «moderata», meno eversiva, della cultura

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Peppino Ortoleva

giovanile), metteva in luce una connessione di fatto, un nesso oggettivo, a cui negli anni successivi le rivolte studentesche, la politicizzazione e le nuove, effimere ambizioni artistiche della musica e della grafica

. rock, avrebbero dato espressione soggettiva. La politica dei media: il caso del cinema. Anche sul piano dei mezzi di comunicazione, e del loro utilizzo, è possibile leggere il ‘68, insieme, come momento di rottura dell’ordine dominante, e come sviluppo in qualche misura logico di tendenze già presenti. Sull’ambivalenza della «politica dei media» teorizzata e praticata dal ‘68 mi sono già largamente espresso in altre sedi, e non è probabilmente il caso di tornarvi qui per esteso. Può forse essere più utile soffermarsi su un tema specifico ed esemplare: l’atteggiamento dei movimenti studenteschi verso il cinema. Se è vero (è ancora una tesi di Lotman) che fra i tratti più significativi di una cultura vi è la sua predilezione o la sua ostilità nei confronti di un particolare medium, allora si può dire che l’atteggiamento verso il cinema e verso la televisione può essere uno dei segnali indicativi delle caratteristiche della cultura del ’68. L’attenzione per il mezzo cinematografico (in quanto divertimento e forma di spettacolo privilegiata, e in quanto possibile mezzo di espressione) è uno dei tratti più curiosamente universali del °68, un fenomeno che si ritrova negli Stati Uniti come in Germania, in Italia come in paesi dove il movimento studentesco ebbe manifestazioni (magari solo apparentemente) «minori», come

la Svizzera, la Svezia, la Gran Breta-

gna. Dovunque, spesso a costo di notevoli sforzi finanziari e di apprendimento tecnico, vennero prodotti e diffusi film, che spesso (quasi sempre) si ponevano in relazione con i linguaggi e le innovazioni espressive introdotti dalle avanguardie cinematografiche degli anni immediatamente precedenti. Dovunque, il cinema fu (insieme con la musica rock, ma in modi assai diversi) il mezzo di comunicazione di mas-

sa che godette di maggiore rispetto e di maggiore attenzione all’interno delle esperienze di autoeducazione: nelle università critiche, mentre di giornalismo (e assai più raramente di radio e di televisione) si parlava essenzialmente in termini di «manipolazione delle masse», il cinema

veniva assunto soprattutto come arte potenzialmente sovversiva, o quantomeno critica nei confronti della società stessa che la produceva. D'altronde, l’amore dei movimenti studenteschi per il cinema fu am-

piamente ricambiato: non solo si può notare come la filmografia sul (e del) ‘68 sia infinitamente superiore alla produzione di testi di tipo, ad

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Le culture del ’68

| esempio, letterario o pittorico; ma in diversi paesi le organizzazioni politiche e professionali dei cineasti furono fra le più pronte a raccogliere i temi, e gli inviti alla mobilitazione, degli studenti. La relazione privilegiata fra il °68 e il cinema è, naturalmente, ri-

conducibile ad alcuni importanti precedenti: la «cinefilia» degli ambienti studenteschi, e in particolare degli ambienti studenteschi di sinistra, era già stata notata da acuti osservatori (come Georges Perec) agli inizi del decennio; e d’altra parte in molte città, non solo italiane, sappiamo che uno dei principali luoghi di incubazione della nuova sinistra furono i circoli del cinema, i cineclub universitari, le riviste e rivistine di critica, e simili. Ma l’individuazione di tali elementi di continuità, in sé assai interessante, non spiega i motivi di questa relazione privilegiata: motivi che andranno probabilmente cercati piuttosto nel modo in cui veniva allora percepita la natura e la specificità del mezzo cinematografico. In primo luogo, il cinema era allora, in molti paesi europei, un’arte solo parzialmente riconosciuta come tale: assunta come oggetto di critica estetica ma raramente, e con molta riluttanza, ammessa nelle aule universitarie. Nell’esaltare il cinema come

arte, e insieme nel sovvertire

quasi per principio i criteri di selezione assunti dalla critica «ufficiale», la nuova sinistra lo assumeva come ideale terreno di incontro, e di reciproca fecondazione, fra cultura alta e cultura di massa, via di uscita

dall’alternativa fra l’elitismo letterario e l’appiattimento televisivo che caratterizzava la cultura dominante. In secondo luogo, il cinema si presentava come linguaggio universale, potenzialmente comprensibile al di là delle differenze linguistiche (al pari della musica) e incondizionato, o limitatamente condizionato,

dalle frontiere nazionali (all’opposto della televisione, mezzo di comunicazione per immagini rigorosamente nazionale): esso sembrava quindi incarnare in sé l’esigenza di libera trasmissione delle proprie esperienze a chiunque, nel mondo, potesse condividerle, che è una delle parti essenziali dell’ideologia, ma anche della temperie emotiva, del 68. Non ho parlato a caso di «trasmissione di esperienze»: proprio la doppia natura del cinema, strumento di registrazione e duplicazione del reale «fedele» fino all’illusionismo, e di elaborazione fantastica quasionirica (una doppiezza ben presente ai teorici del cinema più vicini alla nuova sinistra) sembrava consentire la fissazione, e la circolazione, in-

sieme dei fatti e delle emozioni, della verità e della faziosità. Inoltre, è bene ricordare che la differenza più significativa fra il cinema e la televisione (o il libro) è il carattere collettivo della fruizione filmica, carattere che il ’68 tese semmai ad accentuare ulteriormente

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Peppino Ortoleva

con la pratica del dibattito dopo le proiezioni, dibattito che sembrava anche poter superare la potenziale passività spettatoriale nel quale era ravvisato il maggiore vizio politico del medium. AI privilegiamento del cinema corrispondeva il rifiuto (così radicale da giungere alla non-menzione, all’ostentazione di disinteresse) nei confronti della televisione, vista come atomizzante, passivizzante, falsamente obiettiva e quindi per definizione manipolatoria. E (aspetto questo da non dimenticare) brutta. Dall’opposizione fra cinema e televisione possiamo ricavare alcune antinomie molto chiaramente leggibili, che proverò a elencare in forma schematica: partecipatorio/passivizzante, collettivo/individuale, centralizzato/decentrato, soggettivo/«oggettivo» teorizzato, bello/brutto. Sono antinomie che possiamo leggere come contrapposizioni di valori, e che regolano il «sistema dei media», e in parte praticato, dal ‘68. Sono antinomie attorno alle quali si può forse costruire un quadro relativamente ordinato di quell’insieme volutamente dis-ordinato e dis-ordinante che fu la cultura del ’68.

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TRASFORMAZIONE, CRISI E RILANCIO DELLE IDEOLOGIE di Giorgio Galli

Il termine «ideologia» si è caricato di significati controversi dalla valutazione di Marx in poi. L'ipotesi esposta è che nel ’68 sono emersi due filoni principali: un tipo di marxismo diventato esso stesso ideologia, cioè rappresentazione inadeguata della realtà, espressione della coscienza di un gruppo sociale determinato; e un embrione di integrazione del marxismo stesso tradizionalmente inteso (primato della struttura economica) con frammenti di culture alternative antiche e riemergenti, che nel ventennio successivo si sono tradotte in una

concezione che taluni definiscono oggi «ecopacifismo» (non è questa la sede per valutare se possa anch’esso diventare o stia diventan-do «ideologia» come falsa rappresentazione: ovviamente mi auguro di no).

La prevalenza dei due filoni è percepibile sin dall’inizio (nel °67) attraverso i cronisti dell’ostile stampa benpensante che adotta i termini «capelloni» e «cinesi» per classificare i promotori dei disordini. È il prologo di una situazione che possiamo cronologicamente racchiudere in due anni, tra il novembre 1967 (occupazione dell’Università Cattolica a Milano) e il dicembre 1969 (la bomba di piazza Fontana, sempre a Milano).

Prima di valutare la «trasformazione, crisi e rilancio» è utile chiedersi, dopo un anno di «rievocazioni» in stile vario, quanto si domandava all’inizio dell’anno una sinistra collocabile nella sinistra sindacale: «Si deve o non si deve ricordare il movimento del ’68?» (quaderno di Azimut n. 5) e si deve tenere conto di un ragguardevole numero di interpretazioni. La domanda deve porsi in chiave politica: perché tanta eco del ’68, visto che le conseguenze politiche sono state rilevanti (da Johnson a Nixon negli Stati Uniti, da De Gaulle al postgollismo in Francia, l’Ostpolitk di Brandt in Germania), ma comprensibili entro il

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Trasformazione, crisi e rilancio delle ideologie

normale funzionamento di un sistema bipartitico? (In Italia la diversità deriva dal fatto che tale sistema non vi funziona).

La risposta può essere: si deve ricordare perché vi abbiamo le tracce di un domani possibile. Se vi è chi sostiene che il ’68 è stata l’ultima rivoluzione (mini) del ciclo iniziato nell’89 della Bastiglia, si può anche supporre che in esso vi sia in germe un nucleo di prassi (riflessione-comportamento) per altri due secoli. L'Italia può risultare privilegiata (sotto il profilo dell’analisi culturale) perché la diversità della risposta politica e le difficoltà della stabilizzazione hanno ampliato l’eco del movimento. Ma per evitare peccati di provincialismo e superbia, occorre tenere sempre presente il quadro fornito dal Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America di Peppino Ortoleva. Ultima delle rivoluzioni del modello marxista: studiate dai «padri fondatori» in Francia dal 1789 al 1870 (la Comune), attuate dai continuatori nella Russia del 1917 (il Palazzo d’Inverno). Le rivoluzioni nelle aree di decolonizzazione sono altro. Il modello è quello classico dello scontro di classe, con presa di coscienza, crisi del sistema di potere,

scontro che travalica nelle piazze, possibilità della rivoluzione. Sembra che il modello possa funzionare persino negli Stati Uniti, refrattario al marxismo, con le «rivolte» nei ghetti neri. Sembra che la piazza possa portare, a Parigi, Mendes France all’Eliseo, abbandonato da De Gaulle

volato a cercare l’aiuto di Massu. In Italia si parla di 1905, preludio del 1917. Contro l’interpretazione gradualista del marxismo sino all’italomarxismo di Togliatti, si rilancia un’interpretazione rivoluzionaria che risente, nel rilancio stesso, della trasformazione di scuola maoista, il cui

contributo specifico è la rivoluzione di lunga durata (il «Ce n’est que le début, le combat continue» di Parigi diviene l’inno di Lotta Continua: «Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata»). Tutto ciò è ben noto. L'importante è che se ne conservi una memoria storica precisa. Bisogna sfuggire a una doppia deformazione (talvolta alimentata dagli stessi protagonisti e militanti, culturali e operativi, del 68) che fa del «movimento» da un lato un coacervo destinato a

sfociare nella lotta armata quasi inevitabilmente, per il culto della violenza (questa è ovviamente la tesi anche dei moderati, che la privilegiano); o, dall’altro, una sorta di Wwf contestatario ma rifuggente da ogni richiamo alla rivoluzione armata. Il movimento è stato, invece, espressione di una rivolta sociale dif-

fusa che contemplava l’uso normale della violenza come modalità di azione politica (secondo una tradizione che il marxismo ha ripreso dal giacobinismo e che fu caratteristica delle grandi rivoluzioni borghesi, che si diedero un esercito; i loro eroi sono Cromwell e Washington an-

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cora prima dell’89 della Bastiglia). La memoria storica di questa situazione è espressa, anzitutto come documentazione e al di là della valutazione su interpretazioni specifiche, da un libro come L’orda d'oro di Balestrini e Moroni (il cui sottotitolo 1968-1972. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, esprime la pluralità culturale secondo l’analisi di Rossana Rossanda e la presente, ma mette l’accento sulle parole «ondata rivoluzionaria»). Uno dei suoi protagonisti, Adriano Sofri, poco prima dell’arresto, osservò che il fatto che il marxismo sia in crisi dopo cento anni mentre il cattolicesimo resiste da duemila deve far riflettere. E un’osservazione curiosa; il cristianesimo originario, in una fase della storia umana con trasformazioni a tempi lunghi (la famosa «durata» di Braudel),

durò, appunto, anch’esso poco più di un secolo. L’istituzionalizzazione della grande Chiesa di Roma (dopo il II secolo) ha poco a che fare col primitivo movimento della parusia e dell’apocalisse. E un'istituzione certamente di lunga durata, ma come istituzione. Come tale può essere confrontata con altre istituzioni. Sotto questo profilo è durato quasi altrettanto l’islamismo, che ha dato luogo a gerarchie religiose similari. E si pensi alla durata consimile di altre religioni orientali (i bramini, i lama). La Cina come istituzione statale presenta una continuità di oltre duemila anni, attraverso varie fasi, come la Chiesa cattolica. L’istituzione dura trasformandosi (come altre), passa dalla respublica christia-

na alla rassegnazione alla Riforma, dallo Stato della Chiesa alla forzata rinuncia alla territorialità. La Cina passa dall’impero Han alle varie dinastie, ai Ming, ai Manciù, a Mao e a Deng. La Chiesa di Giovanni Paolo II non ha nulla di comune non solo con quella immaginata da Paolo di Tarso (pur molto autoritaria: si pensi all’emarginazione delle donne), ma neanche con quella degli Innocenzo e dei Bonifacio. Sono

cambiati anche i dogmi, da Nicea al Vaticano II. Non sembri una digressione. La distinzione tra movimenti e istituzioni (secondo lo schema di De Felice per il fascismo e dell’ Alberoni

prima maniera per il libro omonimo) è una buona chiave interpretativa, perché permette di distinguere e dovrebbe evitare le confusioni (i cento anni del marxismo e i duemila del cattolicesimo). Il marxismo è una concezione (teoria, ideologia, filosofia della storia) che ha dato luogo a movimenti (il marxismo istituzionalizzato dell’Est, secondo la defini-

zione di Kolakowski, è una conseguenza indiretta), alcuni dei quali, al culmine, hanno portato a rivoluzioni nel primo dopoguerra. Il ’68 è stato uno di questi movimenti. La forma effettiva che ha assunto (l’ondata rivoluzionaria con contestazione sociale diffusa e l’uso della violenza organizzata come fattore specifico di successo) va tenuta presente

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Trasformazione, crisi e rilancio delle ideologie

perché probabilmente in questa forma non sarà più ripetibile nei prossimi decenni, almeno per quanto è possibile prevedere, data la struttura complessa delle società dette avanzate. Ci si può riallacciare all’ultimo Engels (la prefazione al testo di Marx Lotte di classe in Francia, che tra l’altro proponeva il paragone tra movimento, socialismo e cristianesimo delle origini), che prevedeva la fine dell’era delle barricate. Esse sono ricomparse e possono ricomparire, ma sono poco probabili fattori di successo. i La trasformazione-rilancio del marxismo rivoluzionario in termini sessantotteschi è dunque un fenomeno che forse ha avuto la sua ultima manifestazione in quei termini specifici. Conquistò l’egemonia nel composito movimento e ne divenne la cultura prevalente, ma nello stesso tempo questa componente egemone si logorò nei gruppi, secondo un modello che intendeva richiamarsi alle origini (i pochi bolscevichi di Lenin, i venticinque comunisti di Mao), ma che in realtà riproduceva in dimensioni maggiori la diaspora della III Internazionale (bordighisti, trockisti). È importante rilevare che ipromotori della lotta armata (Feltrinelli, Brigate rosse), nei loro primi documenti partivano dall’esaurimento dell’esperienza del ’68. In uno studio posteriore di notevole ampiezza e che ci dà un quadro esteso della cultura del periodo (Cultura e ideologia della nuova sinistra. Materiali per un inventario della cultura politica delle riviste del dissenso marxista negli anni sessanta, con ampia antologia dalle riviste), Giovanni Bechelloni, che

pure «non vuole entrare direttamente in polemica con questa posizione», riprende nella nota introduttiva quanto scriveva Giampiero Mughini in Giovane critica: «le idee contenute in quelle riviste sono state inesorabilmente bocciate il 7 maggio 1972» (elezioni politiche con le sconfitte delle liste a sinistra del Pci).

In realtà quelle idee ebbero una nuova possibilità di diffusione negli anni successivi sino al ’78 di Moro (come dimostra L’orda d’oro); e quindi per questo aspetto il «rilancio» ebbe una durata decennale. Ma

per quanto riguarda la forma specifica (marxismo rivoluzionario con asse la classe operaia e il proletariato urbano e pressioni di massa con uso della violenza in varie forme) la sua riproducibilità (come modello

culturale e come esperienza pratica) è poco probabile. Ma il ’68 fu determinato dalla confluenza del marxismo rivoluzionario di questo tipo tradizionale con un’altra componente, quella variegata poi sfociata nell’«ecopacifismo». Questo diede forza al movimento. L’egemonia prima e la gruppettizzazione poi di quel tipo di marxismo lo portarono al declino. Ora chi non creda, bordighianamente, all’«invarianza» del marxismo, può valutare se il «cracking culturale»

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(espressione di Edgar Morin per la cultura di massa, ma applicabile in altri contesti) prodotto allora non sia invece anticipatorio. Il ‘68, appunto, come ultimo processo della storia di lunga durata dalla Bastiglia alla «contestazione» e come possibile micromodello dello scontro sociale nelle società che marxisticamente vengono definite «capitalismo maturo» e sociologicamente postindustriali o «della comunicazione» (Maffessoli). Per questa ipotesi il micromodello è interessante. La stessa Orda d’oro, di impianto sostanzialmente marxista, dedica un capitolo (l’ottavo, significativamente dopo il settimo: «Lotta armata e autonomia operaia») alla «Rivoluzione del femminismo». E Lotta Continua si scioglie (dopo la delusione del ’76) allorché esplode la contraddizione tra il tipo di marxismo che si è detto (rivoluzione operaia) e la condizione femminile (il dibattito sull’orgasmo e la clitoride). Un altro testo di grande utilità per la comprensione del fenomeno è Il Sessantotto. La stagione dei movimenti (1960-1979), a cura della redazione di Materiali per una nuova sinistra, ove la cultura del ’68 vie-

ne sintetizzata in ben tredici movimenti (dai «ceti medi» ai «nazionali-

tari»), tra i quali di rilievo i «movimenti delle donne», dei «marginali» e «di liberazione sessuale». È questo a mio avviso l’aspetto più significativo del cracking, che va integrato con la componente dei «figli dei fiori» e situazionista, che addirittura precede il ‘68 e che Balestrini e Moroni valutano in termini di «Parco Lambro: la fine dell’ideologia della festa» (cap. 9). In realtà, credo che il mettere in discussione che l’ideologia della festa o (se non si ama il termine «ideologia») della componente festa-gioco, sia finita, è uno dei punti chiave per valutare il cracking culturale di cui si sta parlando e la sua crisi. Il movimento ha toccato l’apice (nella fase assembleare) quando marxismo rivoluzionario tradizionale e il «resto» compartecipavano in quella che sembrava «una grande confusione sotto il cielo (e ciò è bene)», secondo la frase di Mao allora in voga. Poi si disse, dai marxisti

di quel tipo, che la loro egemonia trasformava la confusione in rivoluzione. Non può essere il contrario? Che cioè, sia il cracking la forma anticipatrice e il marxismo tradizionale la forma arretrata? Il marxismo (al di là dell’invarianza, appunto) può coesistere non già col liberalismo (la forma di tutti i revisionismi, da Bernstein in poi), ma con quella che può essere definita la cultura dell’immaginazione, quale il ’68 ha sia pure embrionalmente e superficialmente espressa? Oggi si definisce declino delle ideologie il prevalere in Occidente

(ma è una caratteristica dal Seicento in poi) di una data «ideologia» o rappresentazione della realtà, che è quella della grande rivoluzione cul-

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Trasformazione, crisi e rilancio delle ideologie

turale borghese (Duverger), una grande stagione della storia umana della quale Marx intuì la portata, ma che considerò erroneamente giunta all’apice e ormai conclusa «alla mezzeria dello scorso secolo» (Bordiga). Per il significato e i limiti di questa grande stagione, rimando alla conclusione di Occidente misterioso. In questa sede è importante mettere in luce che il ’68 è stato l’ultimo tentativo (ultimo cronologicamente, e forse ultimo nei termini sopra descritti) di contrastare e battere l’ideologia (liberal-democratica e scientifica) di questa grande stagione utilizzando l’infrastruttura concettuale del marxismo tradizionalmente inteso. Ma agli albori di questo tentativo hanno fatto la loro comparsa, riemergendo dallo stesso passato, frammenti di culture alternative sconfitte (a forte presenza femminile) che non hanno messo teoricamente in discussione il marxismo (come in genere avviene ed è possibile) con gli argomenti classici del «revisionismo» (non sono valide né la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto né quella della pauperizzazione crescente e simili), ma di fatto sono coesistiti con esso (coi suoi rappresentanti) pur esprimendo i loro comportamenti tipici (la festa, la dissacrazione, la contestazione libertaria).

L’iniziale rilancio e poi il fallimento e la crisi di quel tipo di marxismo presentato come strumento della classe operaia quale classe gene-

rale (il proletariato engelsianamente erede della filosofia classica tedesca), ha coinvolto anche la componente che possiamo definire immaginativa o «creativa»

(con termine

anche di allora e che Balestrini e

Moroni riprendono). Oggi questa componente riappare ad alto livello culturale rileggendo anche in questa chiave il '68. Rimando per un’analisi compiuta ai saggi di Attilio Mangano sulla sinistra e l’immaginario (e ai due numeri della nuova serie della rivista C/asse su questo tema), del quale riporto un’interpretazione fondamentale (con l’avvertenza che l’«immaginario politico» di cui parla Mangano come elemento di mediazione negativa, è chiaramente percepibile nella cultura del ’68, col suo tentativo di rilancio del marxismo rivoluzionario classico).

Si vedano prima due brani tipici dell’Orda d’oro: Il punto più difficile è il passaggio all’organizzazione. Gli operai con la lotta permanente a livello di fabbrica, in forme sempre nuove che solo la fantasia intellettuale

del lavoro produttivo riesce a scoprire, sostituiscono il vuoto burocratico di un’organizzazione politica generale [ma] la necessità dell’ ‘organizzazione politicaè legata al nome di Lenin [che] con un colpo magistrale portò Marx a Pietroburgo. Proviamo a fare il cammino inverso, con lo stesso spirito scientifico di avventurosa scoperta politica. Lenin in Inghilterra [per] convincere Marx a ripercorrere «la misteriosa curva della retta di Lenin» (pp. 78-79). Da tutto il mondo giungevano grandi simboli, Martin Luther King, Malcolm X,

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Fidel Castro, Che Guevara, che sintetizza a partire dal «phisique du ròle» il massimo dell'immaginario [che] diverrà un mito collettivo (pag. 103).

Ed ecco la citazione di Mangano: La cultura del "68 non può essere riassunta e sintetizzata nella parola d’ordine dell’immaginazione al potere, fino a porsi come una nuova cultura dell’immaginario. Essa si configura infatti nel suo insieme per una molteplicità di elementi e trova inoltre una parte del suo retroterra nel movimento della controcultura. Basterebbe ricordare l’importanza di alcuni di questi elementi, dalla contestazione dei ruoli alla critica del nesso sapere-potere all’idea di un conflitto permanente e di una trasformazione «globale» per riconoscere che in essa agivano gli elementi di una complessiva critica della politica tradizionale e la ricerca di una nuova dimensione della politica stessa. Per questo avevamo osservato a suo tempo che da un lato il soggetto era riconosciuto finalmente come motore della politica e, dall’altro, nella scoperta di ciò che tradizionalmente è escluso, il corpo, la famiglia, il sapere, la politica «si dilatava» essa stessa riconoscendo come suo proprio terreno quello delle forme di vita, della comunicazione intersoggettiva, del rapporto stesso fra «realizzazione» individuale e comunismo. C’era insomma la possibilità di una saldatura fra i temi «classici» della critica marxiana (merce, plusvalore, lavoro astratto) e il tema della soggettività. Quella saldatura che auspicavamo come possibile e già in atto non c’è stata, la mediazione costituita dall’immaginario politico ha portato al blocco.

La mediazione dell’immaginario solo politico fu dunque insufficiente per il rilancio di un’ideologia (o teoria) di cambiamento che fondesse le due componenti culturali di cui si è detto (marxismo rivoluzionario e immaginazione creativa allo stato embrionale). Occorre — secondo un possibile sviluppo di quanto nel ’68 era in nuce — un immaginario complessivo. E una lettura possibile di quel periodo di trasformazione, rilancio e crisi dell’ideologia, una lettura presente in poche pagine inviate all’inizio dell’anno del ventennale (febbraio 1988) agli «amici» (così inizia il messaggio) di Trento da chi spinse la mediazione dell'immaginario politico sino all’apparente fine della mediazione nella forma della lotta armata. È Renato Curcio che scrive oggi: Il nostro ’68 è stato anzitutto un ghirigoro della fantasia, un innamoramento collettivo, una transe. Come

il trans-ire, da un ordine sociale vissuto con disagio, alla

catarsi di un disordine festoso; da un’omologazione frustrante, ad una deomologazione multiversa e creativa: uno stato di comunicazione esplosa, molto simile a una festa dionisiaca, un attraversamento del «meraviglioso». Tuttavia, non solo questo fu il

nostro 68. Perché, insieme alle speranze liberate, convissero parole d’altri tempi. Un’ambiguità profonda. O, se si preferisce, un’ambivalenza. Questo lo dico, ovviamente, «a posteriori», dopo aver riletto i nostri scritti di allora. Lo dico «a giochi fatti» e non solo per nascondermi il nesso tra le premesse e gli esiti. Lo dico per interrogarmi sui rapporti vissuti e intrecciati in quel magnifico viaggio e non per dissociarmi da essi, come ad altri accade. Di quella esperienza collettiva il ricordo si trasformò in mille sogni. Ognuno diverso. Sogni che nella nuova scena si persero sullo sfondo come lontane stelle. Ci sottraemmo (a molti e consolidati codici) per lanciar-

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stica, ma mori il merito, "agili cultura del ’68, col suo Data ideologico ricavato dal passato ed embrioni di percezione del futuro. Capire il passato senza disprezzo e valutare la sorte degli embrioni —E° (avranno o no futuro?)è il modo più corretto (anche se tradizionale) di tentare un bilancio. ? e.)

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NEL ’68: QUANDO L’ORIENTE ERA ROSSO di Enrica Collotti Pischel

Una drammatica involuzione

Non vi sono dubbi che nella spinta al fenomeno complessivo del 68 la convinzione della fine imminente dell’imperialismo esercitò un peso notevole: la denuncia dell’imperialismo quale elemento essenziale di una società capitalistica percepita come inaccettabile e la speranza — di un prossimo, quasi immediato avvento di un «mondo altro», di un mondo contrapposto — a livello globale, non a livello locale — tanto alla società capitalistica quanto al condominio tra la potenza nucleare degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica, fondato sulla connivenza e la concorrenza,

ma fondamentalmente

sull’immobilismo

e comunque

sulla repressione. Era il tempo in cui i popoli dell’Asia, dell’ Africa e dell’ America latina erano «al centro del movimento ciclonico che investiva il mondo», in

cui si diceva «Vietcong vince perché spara», in cui Che Guevara chiedeva «uno, due, molti Vietnam». Ma il ‘68 fu anche l’anno di Praga, l’anno

in cui gli Stati Uniti accettarono l’invasione della Cecoslovacchia pur di non vedere messa in crisi dall’Urss la loro presenza in Vietnam. Nulla ci dà il senso della distanza dal mondo del ’68 meglio e più che il ricordo del giudizio allora largamente diffuso sull’imperialismo. Su nessun terreno l’involuzione psicologica e culturale è stata tanto marcata: otto anni di amministrazione reaganiana, otto anni di esaltazione delle caratteristiche positive della società e della cultura del capitalismo, vent'anni di adattamento e consolidamento, ma anche di svi-

luppo, delle società capitalistiche metropolitane, contraddizioni nuove e complesse determinate dall’afflusso nelle nostre società di manodopera subalterna ed emarginata proveniente dal Terzo Mondo, e al tempo stesso le incontestabili carenze, contraddizioni, anche le drammati-

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso

che involuzioni del mondo uscito dalla dominazione coloniale, hanno creato una situazione nuova, un modo di percepire il mondo in cui viviamo che sarebbe stato inconcepibile nel ’68. Se si ritiene che l’imperialismo,

o comunque

l’inserimento in condizioni di insuperabile su-

balternanza dei popoli poveri nel mercato capitalistico non porti ad essi ricchezza e felicità, è indispensabile compiere una rilettura in chiave critica del giudizio che allora si dava dell’imperialismo: in chiave critica, non in chiave di «pentimento».

Il tentativo di riabilitazione storica dell’imperialismo... In sostanza oggi ci si dice da ogni parte che non è vero che l’imperialismo sia stato un fenomeno penoso e dannoso per i popoli che sono stati sottoposti ad esso, che esso ha messo in moto un processo di trasformazione che può essere stato doloroso e disgregatore di precedenti equilibri, ma che è stato in definitiva fattore di lancio dello sviluppo, di una maggiore produzione di beni e quindi, anche tenendo conto dell'esportazione di ricchezza verso le metropoli dell’imperialismo, di maggiore benessere per coloro che furono inseriti nel mercato capitalistico. I casi di maggiore e incontestabile povertà devono essere riscontrati oggi non in paesi immessi o mantenuti nel mercato, o se si vuole nel circuito di sfruttamento, del capitalismo bensì in quelli che per qualche ragione, ivi compresa la vittoria nella lotta per una totale indipendenza, sono usciti dal contesto del mercato capitalistico, che ormai — stante il fallimento del tentativo di creare un mercato alternativo di paesi in qualche modo definibili socialisti — è l’unico mercato mondiale. In tutto ciò c’è del vero. Gli esempi più utilizzati per suffragare questa tesi si rifanno ad alcune esperienze sopravvenute negli ultimi anni, in modi e forme assolutamente impensabili nel ‘68: queste esperienze, positive e negative, devono certamente essere ripercorse e analizzate in termini critici e molto più approfonditi di quanto si facesse allora. Quello che qui si vuole comunque notare è l’uso strumentale, banale e superficiale della citazione di questi fenomeni oggi utilizzati per dimostrare l’inutilità e la perniciosità delle esperienze rivoluzionarie, soprattutto del Terzo Mondo, per sostenere la piena validità, l’unicità delle soluzioni proposte dal capitalismo, anche nella sua forma imperialistica, anche nella sua squallida versione «per paesi poveri». Oggi ci si dice in sostanza «guardate come sono felici i sudcoreani che hanno avuto la fortuna di una lunga e penetrante colonizzazione giapponese e poi di una dipendenza totale dal sistema statunitense e

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Enrica Collotti Pischel

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oggi stanno raggiungendo un tenore di vita comparabile se non all’Europa nel suo complesso, almeno a quello dei paesi meno prosperi . dell’ Europa» e contemporaneamente si fa notare quanto siano invece poveri e miseri i vietnamiti che hanno avuto la volontà, la «sfrontatezza», la dissennatezza di vincere e di rompere il legame di subalternanza con la società imperialistica e la sua logica. Lo stesso discorso viene fatto sul Nicaragua. Né manca il ricorso ad altri temi, come il ricordo dei massacri dei khmer rossi, o la denuncia di fenomeni complessi come l’integralismo islamico e la rivoluzione iraniana.

... è l’apparire dei limiti di questo tentativo In effetti l’univocità di questa tematica volta alla riabilitazione storica della funzione dell’imperialismo e del capitalismo nel Terzo Mondo sta incontrando nel periodo più vicino a noi crescenti difficoltà con il delinearsi delle drammatiche conseguenze del debito, soprattutto per quanto riguarda l’America latina: proprio il mito di uno sviluppo facile e certo, secondo le linee del capitalismo e della legittimazione del privilegio di una minoranza di ricchi rispetto alla massa dei poveri, portò le classi dirigenti dei paesi dell’ America latina a indebitare i loro paesi e ad assumere comportamenti di consumo affini a quelli dei loro omologhi dei paesi capitalistici originari e ora le conseguenze della miseria inflitte a milioni di poveri da quella politica organicamente connessa alla logica del capitalismo sono sotto gli occhi di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutti la catastrofe ambientale derivante dall’estensione a tutto il mondo del modello di sviluppo capitalistico e dalla sperequazione dei consumi tra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei poveri, sebbene le società di tipo socialista non si siano affatto dimostrate migliori tutrici dell'ambiente di quanto lo siano le società capitalistiche e anche se i poveri, con i loro «poveri» mezzi, spesso contribuiscono ad aumentare i danni inflitti all'ambiente dalla rapina dei ricchi.

La fine dell’esempio cinese e le nuove contraddizioni Si potrebbe anche aggiungere che la linea seguita da Deng Xiaoping in Cina dal 1978 in poi, con la liquidazione di gran parte delle scelte della strategia di sviluppo tipica del periodo di Mao, aveva certamente contribuito a quell’esaltazione del ruolo storico e della funzione produttiva del mercato capitalistico che è stato uno dei temi cen-

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso | trali della politica reaganiana e una delle cause dell’inversione dei «valori del ’68». Se perfino i dirigenti del partito comunista cinese, con motivazioni non banali e suffragando le loro tesi con prove di successo materiale su un periodo relativamente lungo, mettevano in discussione

il giudizio dato sul fenomeno dell’imperialismo nel ’68, come non sentire la necessità di rivederne le basi? Ma ecco che negli ultimi due anni l’apparire in Cina di contraddizioni drammatiche, che non erano state innestate dalla strategia maoista e che stanno dimostrando in modo forse catastrofico le conseguenze e i pericoli della liquidazione delle scelte del periodo maoista, contribuisce tanto quanto l’analisi del fenomeno del debito internazionale a intaccare la logica della riabilitazione storica dell’imperialismo che ha segnato gli anni ottanta.

La permanente ingiustizia della povertà In questo senso gli eventi più recenti hanno in qualche modo mostrato i limiti di quella «riabilitazione» del ruolo storico svolto dal capitalismo nel mondo che fu colonizzato: indubbiamente oggi è estremamente necessario riprendere in termini rigorosi e non illusori l’analisi del fenomeno imperialistico a livello mondiale, tenendo conto (e questa era una dimensione assolutamente carente nelle analisi condotte al tempo del ’68) del fallimento del «socialismo reale» — o come altro si voglia chiamarlo — nell’offrire un’alternativa effettiva ai danni, allo sfruttamento e alle distorsioni portate dall’imperialismo nel mondo subalterno. Il fallimento del socialismo — almeno di quelle forme che riallacciandosi all’ideale socialista si sono tradotte in istituzioni e in strutture sociali concrete — non può costituire elemento di riabilitazione del ruolo storico dell’imperialismo e anche nella realtà di oggi non deve indurre a ignorare la povertà di massa esistente nel mondo, contrapposta al benessere di quella che a livello globale resta un’esigua minoranza dell’umanità.

Il giusto rifiuto della logica dell’ingiustizia

Quando nelle nostre società si parla di «società dei due terzi» sostanzialmente beneficiati dallo sviluppo e dalle sue ricadute in modo da ridurre solo a un terzo gli esclusi o i non coinvolti, si dice probabilmente cosa vera. Il problema si può porre in termini più complessi in società nelle quali la frazione dei beneficiati si riduce a meno della metà: ma ancora si potrebbe ipotizzare che quella minoranza possa esercitare un

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ruolo trainante sulla maggioranza degli esclusi o degli sfruttati, portando a una graduale estensione del numero di coloro che hanno avuto vantaggio dallo sviluppo di tipo capitalistico, purché la frazione dei non be- | neficiati non divenga una frazione di esclusi o senz'altro di danneggiati. È possibile che in alcuni paesi dell'Asia orientale la prospettiva di uno sviluppo capitalistico che non danneggi una maggioranza e che non aumenti necessariamente la divaricazione tra ricchi e poveri sia realistica,

o almeno che sia stata verificata concretamente; ma in altri

casi, come in Africa e anche nell’ America latina (che pure è costituita in prevalenza da società a livello intermedio di sviluppo e di reddito), la tendenza apparente è piuttosto all’aumento delle dilacerazioni sociali, dello sfruttamento e della povertà e del monopolio di privilegi crescenti da parte di una minoranza sempre più ristretta. Comunque a livello globale non ha senso parlare di una «società dei due terzi» in un mondo nel quale un quinto dell’umanità consuma i tre quarti dei beni prodotti e comunque la quasi totalità di quei beni e servizi che costituiscono effettivi strumenti di potere e di modifica della qualità della vita. In questo senso può essere giusto riandare alle tesi del ‘68 sul problema dell’imperialismo vedendone limiti e carenze, indicando quali fossero gli elementi di superficialità e faciloneria nell’analisi del fenomeno dell’imperialismo: ma non sembra si possa accettare la pretesa di un totale rovesciamento dell’analisi delle condizioni dei poveri del mondo povero sulla quale il 68 fondò la sua denuncia della legittimità morale del sistema capitalistico. Se mai quella che si è rivelata erronea fu la speranza di una concreta possibilità storica di trasformazione rivoluzionaria, intravista o forse solo ipotizzata nel 1968, così come si sono rivelate utopiche e probabilmente dannose le soluzioni che si riteneva potessero essere valide alternative al mondo contestato e rifiutato: non il giudizio sulle drammatiche condizioni create dalla dominazione imperialista nel mondo e da allora ulteriormente aggravate, rese più complesse, più interconnesse, più difficilmente rimuovibili.

AI culmine di un’ondata di ascesa

Nella formulazione dell’ideologia antimperialista del °68 entrarono in gioco componenti complesse che vanno esaminate in modo distinto e che possono essere sommariamente indicate nel movimento di liberazione dei popoli sul piano puramente nazionale, nelle istanze poste dalla rivoluzione culturale e dalla grande epopea della lotta del Vietnam contro l'intervento degli Stati Uniti.

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso

Nell’analizzare i motivi delle «grandi speranze» nutrite allora a proposito delle sorti del Terzo Mondo, è necessario tener conto del fatto che il 68 fu al culmine di un’ondata nella quale sembrava che una staffetta continua di un processo in ascesa vedesse avvicendarsi le forze di popoli protagonisti di spinte liberatrici. In effetti dal 1945 in poi gli episodi di lotte riuscite si erano succeduti con continuità: la catena era iniziata nel 1947 con l’indipendenza dell’India, era poi proseguita con l’indipendenza dell’Indonesia, della Birmania e di Ceylon, mentre nella lotta del Vietnam contro il tentativo di ricolonizzazione francese aveva trovato il suo caso esemplare e, al tempo stesso, il suo superamento con l’innesto della rivoluzione sociale, legata all'esempio della Cina. In sequenza, la nascita del nazionalismo egiziano e poi nell’intero mondo arabo e la rivalutazione della sua civiltà, la rivendicazione di Mossadegh sul diritto dell’Iran a disporre del suo petrolio e poi la lunga, sofferta lotta degli algerini per l’indipendenza, avevano contribuito a dare il senso di un processo di diffusione continua della spinta di emancipazione. Poi, nel 1960,

era venuta in rincalzo la concessione dell’indipendenza a molti paesi africani, mentre la vittoria a Cuba di Castro e Guevara-aprì la prospettiva della lotta rivoluzionaria in America, in un mondo legato alla nostra cultura. E intanto, in una situazione differenziata ma collegata, la Cina di Mao cercava di elaborare una strategia di sviluppo distinta da quella del capitalismo ma anche da quella seguita nell’Urss. La concatenazione dei successi del movimento di liberazione dei popoli era vista nel °68 come una continuazione logica, consequenziale della Resistenza e dei suoi valori. Notevole importanza ebbe a questo proposito la percezione come «valore» positivo e indiscusso da parte del mondo intellettuale e politico della sinistra europea dell’ideologia progressista, moderna e democratica che contraddistingueva a livello ideologico molti dei dirigenti dei movimenti nazionali giunti al successo. Era facile ritrovare i valori della Resistenza nei testi di Nehru e — in altra forma ma con uguale pertinenza — in quelli di Ho Chi Minh: Castro e Guevara poi parlavano un linguaggio che sembrava quasi coincidere con quello della Resistenza.

Il fascino degli ideali del nazionalismo democratico...

In un certo senso il ’68 fu influenzato quindi dagli ideali dei movimenti di liberazione nazionale: dal loro afflato di emancipazione, ma

anche dai loro limiti. L’ottica entro la quale muovevano quei movimenti di liberazione era infatti in larga misura fuorviante perché gli ideali

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proclamati dai movimenti di liberazione coloniale erano gli ideali assunti coscientemente da un’élite intellettuale spesso molto occidentalizzata, ma non necessariamente praticati nell’azione politica concreta da quegli stessi dirigenti intellettuali e comunque raramente e scarsamente fatti propri dalle masse, anche quando queste fossero coinvolte nella lotta, disposte a pagarne il prezzo per raggiungere i loro fini, ma non necessariamente per raggiungerli nei modi e nelle forme invocati dai loro dirigenti intellettuali. L’esempio che viene alla mente nel modo più preciso a questo proposito è quello di Jawaharlal Nehru, il grande primo ministro dell’India indipendente, l’artefice dei concetti del «non allineamento», uno degli

uomini che più contribuirono a dare del mondo colonizzato un’immagine affascinante per la sinistra europea, a far percepire i limiti dell’«eurocentrismo», anche quello del movimento operaio. Ma Nehru era un socialista inglese in India, un antifascista europeo trovatosi a governare un paese asiatico e quindi a servirsi di strumenti asiatici per perseguire i suoi fini, o almeno disposto ad acconciarsi ad alcuni di essi. In altri ter-

mini il distacco tra gli ideali proclamati dall’élite rivoluzionaria rispetto agli atteggiamenti e al livello di coscienza e di motivazione delle masse . può essere ritrovato anche nel caso di movimenti molto più impegnati di quello indiano sul terreno della lotta sociale, come la rivoluzione maoista o quella vietnamita. Tanto Mao quanto Ho Chi Minh ne furono coscienti e i loro testi possono anche venir letti in quella chiave.

... @ il loro carattere elitario

Di fronte ai movimenti di liberazione, il °68 ebbe quindi tendenza a sottovalutare il distacco delle masse che partecipavano alla lotta>dagli ideali proclamati dai suoi dirigenti troppo spesso formulati attraverso un lungo, intrinseco dialogo con il mondo democratico europeo. Quegli ideali riprendevano spesso idee avanzate sviluppatesi in Europa. I dirigenti delle lotte nazionali contro il colonialismo mutuarono dall'Europa molte delle sue scelte positive: mutuarono l’idea di progresso, l’idea di sviluppo modernizzatore, talvolta anche quelle di libertà e di uguaglianza, in qualche caso perfino di democrazia. Ma non mutuarono e non potevano mutuare il contesto concreto nel quale si erano formati il rapporto di quelle idee con i bisogni effettivi di strati popolari e nel quale si erano create le condizioni per l’effettivo sostegno dell’azione di massa agli ideali proposti, in altre parole non potevano mutuare un processo di reale democratizzazione.

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Fu perciò facile — soprattutto ai giovani del ’68 profondamente influenzati dagli ideali della resistenza antifascista democratica — credere che quegli ideali fossero fatti propri da tutto un popoloe non solamente formulati da un’élite che si presentava in quanto popolo. Nei paesi che uscivano dalla colonizzazione, l’élite, come già era avvenuto nella rivoluzione francese, si «poneva come nazione intera», assumeva su di sé la

funzione di rappresentare l’esigenza di tutto il suo popolo e si proponeva come forza destinata a gestire il nuovo potere. Il °68 ebbe tendenza a credere alle parole delle classi dirigenti politiche dei movimenti di liberazione e a identificarsi con un progresso di emancipazione che era molto lontano dalle esperienze di lotta dei giovani universitari o operai europei. La mancata analisi sociale dei movimenti di liberazione e la mutuazione dei loro concetti e dei loro ideali quale base possibile per un movimento globale di contestazione dell’ordine esistente fu un errore della cultura politica del ’68 e creò le basi per successive delusioni, per il successivo «ripudio» delle esperienze concrete compiute nei paesi usciti dalla colonizzazione, per un ritorno all’eurocentrismo. I limiti di quelle esperienze nascevano spesso proprio dal distacco tra le posizioni degli intellettuali dirigenti dei movimenti di liberazione e il livello di partecipazione e di presa di coscienza delle masse. L’aver creduto che l’immagine fornita dagli intellettuali corrispondesse alla realtà sociale dei paesi usciti dalla colonizzazione fu alla radice del successivo rifiuto di accettare gli sviluppi sopravvenuti nelle società divenute indipendenti e in parte impliciti proprio nella distanza tra i movimenti di emancipazione e il livello di presa di coscienza delle masse. Ad esempio il «laico» Nehru, il progressista Nehru fu giustamente sentito vicino dalla sinistra democratica occidentale quando impose con dura lotta le leggi che condannavano le discriminazioni contro gli intoccabili in India e quando si batté perché nel suo paese fosse garantita tolleranza ai musulmani: in realtà il popolo indiano — in parte per gioco strumentale dei privilegiati, in parte per disponibilità ad accettare quella logica da parte di vaste masse — praticava l’intoccabilità e massacrava i musulmani quando si presentava l’occasione. La modernizzazione, l’industrializzazione volute da Nehru non hanno modifica-

to quella situazione, ma hanno combinato le tensioni antiche con quelle nuove. Fu errore della sinistra occidentale idealizzare il «laicismo» della nuova India negli anni sessanta; e fu parimenti errore il ripudiare

l’esperienza storica compiuta dall’India indipendente quando gli indiani si rivelarono lontani dagli ideali posti e propagandati da Nehru.

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Fu comunque ancora più assurdo cercare poi rifugio nelle braccia di una «madre India» irrazionale, fatta di droga, di culti tradizionali e di guru.

Le ingannevoli speranze della modernizzazione In senso più generale il ‘68 sottovalutò l’arretratezza effettiva delle condizioni di vita, ma anche di pensiero e di ideali delle grandi masse del Terzo Mondo. In questa sottovalutazione entrarono in gioco due fattori politici contrapposti: da un lato la tendenza della dirigenza sovietica e anche dei partiti tradizionali della sinistra italiana a mettere in valore le vittorie ottenute dalle prospettive modernizzatrici, laiche, progressiste, democratiche nel Terzo Mondo, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo governati non dai comunisti ma da «forze avanzate». In questa mistificazione entrava anche in gioco la polemica con le tesi dei comunisti cinesi e il tentativo di accreditare l’ipotesi di una trasformazione possibile «per via democratica» e comunque pacifica delle condizioni del Terzo Mondo. i Vi era allora in queste interpretazioni una marcata sottovalutazione delle contraddizioni interne dei paesi del Terzo Mondo e delle complicità di classe delle élite emerse dalla colonizzazione con la logica e i meccanismi del sistema capitalistico. Si fu troppo spesso a rimorchio delle posizioni delle classi dirigenti dei movimenti di liberazione e del loro atteggiamento che — come è tipico dei nazionalisti sia pure democratici di ogni epoca e come fu tipico dello stesso Mazzini — poneva l’unità nazionale al di sopra di distinzioni di classe e copriva con reticenze le difficoltà concrete incontrate dall’opera di trasformazione, per non parlare delle vere e proprie violazioni deliberate dei fini e dei metodi propri della modernizzazione e della democratizzazione perpetrate dai gruppi dirigenti «progressisti» per esigenze di potere o per gioco politico.

Le lunghe reticenze dei comunisti cinesi

Opposta, ma in qualche modo parallela a questa sottovalutazione delle carenze e reticenze politiche dei movimenti di liberazione diretti da nazionalisti, fu l’interpretazione dei comunisti cinesi e di conseguenza di molte delle forze che nel ’68 si riattaccarono — alcune liberamente e in modo creativo, altre con atteggiamento dogmatico e subal-

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terno fino al ridicolo — alla linea generale proposta dai comunisti cinesi fin dall’inizio degli anni sessanta. Per molto tempo i comunisti cinesi — nonostante la loro esperienza storica diretta — sottovalutarono anch'essi le carenze, i limiti e gli opportunismi dei gruppi dirigenti dei paesi emersi dalla colonizzazione. Anzi andarono al di là dei sovietici, spin-

gendo la ragion di Stato e la priorità dei loro interessi nazionali a blandire anche gruppi dirigenti tra i più retrivi del Terzo Mondo, purché si schierassero al loro fianco nel rompere l’assedio degli Stati Uniti o nel contrapporsi, dopo la rottura con l’Urss, alle pressioni anticinesi dei sovietici. Con l’inizio degli anni sessanta, cioè a seguito della formulazione di una strategia generale diversa da quella sovietica e contrapposta ad essa, i cinesi modificarono in parte il loro giudizio sul fenomeno complessivo dei movimenti di liberazione dei paesi un tempo colonizzati (non necessariamente le loro relazioni di Stato con regimi emersi da quel processo, che vennero investite da tensioni soltanto durante la rivoluzione culturale e anche allora per breve periodo) e sulla natura delle società giunte all’indipendenza. In sostanza essi accentuarono le conseguenze sociali sia dell’azione armata di massa sia della direzione della lotta per l’indipendenza da parte di un partito che rappresentasse non un’utopica unità nazionale, ma la spinta di rottura delle classi oppresse sia dalla dominazione coloniale, sia dalle complicità delle classi privilegiate indigene. Il mutato atteggiamento dei cinesi fornì in effetti una chiave per l’interpretazione delle strutture di classe delle società emerse dal colonialismo, anche se le tesi dei cinesi erano troppo sommarie rispetto a situazioni molto diverse da quelle incontrate nella loro propria esperienza rivoluzionaria (ad esempio per le situazioni del mondo arabo, dell’Africa, per non parlare dell’ America

latina).

Le permanenti carenze di analisi sociale Vi erano comunque nelle tesi dei cinesi altre sopravvalutazioni che furono alla radice di molti errori di percezione del ’68: da un lato la sopravvalutazione della possibilità di generalizzare e portare al successo una forma di lotta armata e di mobilitazione di massa che aveva antiche origini nella società cinese (o vietnamita), ma scarse possibilità di essere posta in atto in società sostanzialmente diverse; dall’altro la sopravvalutazione della reale partecipazione delle masse all’elaborazione degli ideali e alle scelte sociali e politiche compiute, anche nel quadro di una lotta armata di massa, dal partito di «avanguardia», ossia in altre

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‘’ Enrica Collosi Pischel parole ancora una volta dall’élite politica, sia pure da un’élite di origini

sociali diverse da quella dei movimenti nazionalisti. Da un lato i comunisti cinesi nella loro polemica degli anni sessanta, che fu matrice non secondaria del ’68, giunsero a vedere chiara-

mente che le classi subalterne dei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell'America latina costituiscono una massa di poveri esclusi dai benefici possibili del sistema capitalistico e quindi contrapposta ad esso (e questa tesi resta vera anche se l’attuale dirigenza del partito comunista cinese è ben lungi dal riconoscersi in essa), dall’altro compirono un errore di giudizio nel ritenere che questi «oppressi» avessero la possibilità di rovesciare il sistema attraverso l’assedio condotto «dalle campagne contro le città», cioè dal mondo degli sfruttati contro il mondo dei privilegiati, e che fossero disposti a farlo presto e capaci di portare la lotta al successo. Infine sopravvalutarono proprio la coscienza rivoluzionaria degli «oppressi», la loro volontà di contrapporsi al sistema, la loro stessa caratterizzazione di classe. In questo senso anche le tesi dei cinesi che pure avevano aperto la strada a una possibile analisi di classe del mondo uscito dalla colonizzazione portavano con sé implicazioni interpretative che rendevano difficile (quando non occultavano . in modo strumentale come

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si è accennato) un’analisi effettiva delle

strutture delle nuove società. In sostanza nel ’68 l’accettazione della tesi per cui le lotte dei movimenti di liberazione nazionale e anticoloniale contribuivano a indebolire il sistema imperialista non riuscì ad andare molto al di là delle tesi avanzate da Lenin al II Congresso dell’Internazionale comunista nel 1920 per delineare le condizioni di unità tra le lotte dei proletari e quelle dei «popoli oppressi» e della più rozza interpretazione che ne aveva dato Stalin quando aveva affermato che l’emiro dell’ Afghanistan,

contrapponendosi all'Inghilterra, esercitava una funzione antimperialista oggettiva più rilevante dei laburisti inglesi. L'analisi delle strutture di classe che stavano dietro alle lotte di liberazione fu e rimase carente. E ciò impedì di affrontare in termini adeguati il problema costituito dal passaggio di molte di queste società a un condizionamento neocolonialistico, cioè a una nuova forma di subalternanza al sistema capitalistico mondiale attraverso la mediazione delle classi dirigenti locali divenute classi economicamente egemoni, spesso attraverso il controllo dei meccanismi dello Stato trasformato dall’applicazione del modello statalista-pianificatore di origine sovietica in detentore degli strumenti di produzione del settore moderno e spesso anche del controllo sulla terra o sulla commercializzazione dei suoi frutti.

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L’incapacità di analizzare le sconfitte

Quale che fosse la sua matrice ideologica, nelle tesi dei sovietici o in quelle dei cinesi, la mancata analisi delle strutture delle società emerse dalla colonizzazione aveva già rivelato nel ’68 e negli anni precedenti uno dei suoi limiti rendendo difficile la comprensione della facilità con la quale venivano messi a segno i colpi di Stato organizzati dagli Stati Uniti contro i gruppi dirigenti più avanzati dei paesi emersi dalla lotta anticoloniale e in particolare contro alcuni capi prestigiosi che avevano incarnato l’ideologia dell’indipendenza e del non allineamento. Si comprendeva facilmente allora la strategia di dominio degli Stati Uniti e la loro decisione di ledere i principi della sovranità nazionale per portare al potere uomini loro subalterni o per abbattere figure disposte a una critica frontale del capitalismo, almeno nella sua forma imperialistica. Il problema non consisteva nell’identificazione o nella denuncia del «nemico», ma nello studio delle cause della propria sconfitta. Se era facile vedere il ruolo nefasto degli interventi statunitensi,

non si riusciva a intendere altrettanto bene perché e come i popoli, che a lungo erano sembrati rappresentati in modo organico da quei dirigenti, non si muovessero per difendere i regimi nazionalisti avanzati.

Quella passività che era già apparsa alla fine degli anni cinquanta e si era ripetuta in molti casi negli anni sessanta fu sottovalutata mentre avrebbe dovuto costituire un segnale di allarme per interrogarsi sulla rispondenza tra gli ideali avanzati di quei regimi e la loro reale base popolare. Cadevano sotto i colpi di Stato organizzati dagli americani i dirigenti del nazionalismo avanzato e le forze di massa che avrebbero dovuto essere la loro base non intervenivano a difenderli: perché quelle forze di massa o di classe non erano state coinvolte nel processo politico che era rimasto limitato a un’élite ristretta. Sotto il gioco di pressioni internazionali e a seguito della formazione di interessi costituiti quell’élite si spaccava e spesso diveniva con una sua parte complice e protagonista dell’abbattimento dei gruppi più avanzati, più disposti a contrapporsi agli interessi globali degli Stati Uniti. Così i molti colpi di Stato che in Africa accantonarono la dirigenza democratica e progressista dei movimenti di liberazione, i colpi assestati in Asia contro le forze neutraliste in Indocina o attorno all’Indocina, non furono analizzati in tutta la loro portata così come non

fu analizzata Ben Bella in aveva gettato cipazione tra

la radice della debolezza Algeria, pur emerso da una in profondità il seme della gli intellettuali e la sinistra

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di un regime come quello di lotta di popolo, una lotta che simpatia per le lotte di emaneuropea, tra l’altro per l’ope-

Enrica Collotti Pischel

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ra appassionata e fervida di quel grande «poeta» dell’anticolonialismo che era stato Franz Fanon. Il tragico silenzio sul massacro in Indonesia

Ma di tutti questi fatti il più grave fu il tenace silenzio che accompagnò il terribile colpo di Stato reazionario che nel 1965 in Indonesia stroncò la rivoluzione anticolonialista di quel paese, abbatté in Sukarno uno dei più espliciti e radicali anticolonialisti e soprattutto portò al massacro di un milione di comunisti indonesiani e di poveri cinesi: uno dei più efferati episodi di repressione di classe del nostro secolo. Quel silenzio convenne a molti: ai sovietici e anche alla sinistra storica italiana perché la logica della coesistenza pacifica impediva di fare di quel massacro un’occasione per denunciare l’inaccettabilità del sistema capitalistico; ai cinesi perché quel massacro era pur sempre seguito a una sconfitta della strategia rivoluzionaria che non si voleva ammettere né analizzare; a quella che cominciava a delinearsi nel mondo come una «nuova sinistra» perché ci si aspettava che la rivoluzione indonesiana rinascesse, in base al principio utopico, ma tragico, per cui «il sangue dei martiri è semenza». Per questo non fu posta la domanda necessaria sui motivi per cui il popolo indonesiano, tra i più segnati dal colonialismo, non seppe resistere alla repressione di un piccolo numero di ufficiali (neppure particolarmente efficienti), assistette senza reagire al massacro dei maestri modernizzatori e progressisti da parte degli studenti smaniosi di integrazione con il mondo capitalistico e allo sterminio del maggior sindacato di braccianti del mondo da parte di bande di musulmani in difesa dell’Islam in un paese tradizionalmente non fanatico né integralista. In effetti quella che apparve in Indonesia allora fu la forza di attrazione dei meccanismi del neocolonialismo su una parte delle società giunte all’indipendenza nazionale e — di contro — la relativa passività delle masse di fronte alla necessità di combattere quell’involuzione. Il silenzio sul massacro indonesiano augurava male sulla capacità delle forze antimperialiste di analizzare il fenomeno del neocolonialismo e di combatterlo.

La vicinanza della rivoluzione cubana

Non si può comprendere tuttavia l’antimperialismo profondo del °68 se non si tiene conto della grande svolta che tra la fine degli anni

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso

cinquanta e poi per tutti gli anni sessanta determinò la rivoluzione cubana: prima del ’68 vennero gli «anni di Cuba». E furono fattore importante perché la rivoluzione dell’ America latina non vedeva protagoniste società arretrate: non c’era dietro 1’ America latina il dramma dell’Africa, non la monolitica ma estranea solidità dell’Islam, non la tradizione, grande ma lontana da noi, dalla quale erano emerse la rivoluzio-

ne cinese o per altro verso la predicazione gandhiana. L'America latina era così simile a noi, da far sentire la sua storia parte della nostra espe-_ rienza: alla nascita dell’ America latina c’era indubbiamente quella terribile lacerazione che era stata la conquista, la coscienza dell’uccisione degli indigeni da parte degli europei, prima onda della marea colonialista. Ma i rivoluzionari latino-americani — Castro e soprattutto Guevara — parlavano il nostro linguaggio, usavano immagini della nostra tradizione (che in parte era anche quella tradizione cristiana che era passata negli ideali della «libertà uguaglianza e fraternità» e poi nel socialismo), avevano i nostri volti, i volti della nostra storia.

E i rivoluzionari cubani (e poi latino-americani) posero in modo pertinente e prioritario il problema del neocolonialismo, il problema della complicità delle classi dirigenti dei paesi subalterni con la dominazione imperialistica: il problema della classe padronale messicana che porta i dollari a Los Angeles, della classe dirigente argentina e brasiliana incerte tra il ritagliarsi uno spazio proprio e il farsi garantire dal potente dominatore del Nord i propri privilegi. In questo senso la tematica ideologica posta dalla rivoluzione cubana e poi dalle lotte latino-americane portò veramente a coscienza globale la problematica dell’imperialismo mettendo in luce la pluralità delle soluzioni che l’imperialismo sapeva trovare per opprimere le masse povere delle società subalterne. Il dibattito dei rivoluzionari latino-americani portò nella pubblicistica di quegli anni il «rapporto metropoli-colonia», il problema del sottosviluppo permanente in società apparentemente sviluppate, la realtà della miseria quale componente interna della società proprio in paesi nei quali l'élite culturale e sociale era o comunque poteva apparire quasi perfettamente omogenea all’élite dei paesi sviluppati. Da questo punto di vista fu grande l’arricchimento di esperienza portato dalla rivoluzione cubana proprio per i legami tra quest'esperienza e -la nostra realtà. Questa implicazione sarebbe divenuta anche maggiore — benché dopo il 68 — con l’esperienza di Allende in Cile. La lotta dell’ America latina influenzò profondamente la formazione dell’ideologia antimperialista del ’68 proprio per queste varie e molteplici affinità: gli echi della contrapposizione fascismo-antifascismo erano presenti e ben radicati nell'America latina, mentre non esistevano in Indonesia, nel mondo arabo,

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neppure in Cina. Uno degli errori dei cinesi nel proporre la loro linea come linea adatta per le forze antimperialiste di tutto il mondo era stato proprio quello di ignorare o sottovalutare il fenomeno del fascismo e la sua rilevanza, a differenza di quanto fece nel complesso il °68. La rivoluzione cinese come nuova spinta propulsiva

Nonostante la rilevanza dell’esperienza latino-americana, quello che nel ’68 era «rosso» era l’Oriente. Era il «vento dell’Est» quello che prevaleva sul «vento dell'Ovest», ed era la Cina rivoluzionaria il centro dell’immaginario collettivo, in particolare la rivoluzione culturale. Per tutti gli anni sessanta, sullo sfondo della polemica con i sovietici era venuta crescendo la percezione della rivoluzione cinese come principale fenomeno rivoluzionario del nostro tempo. Ciò era vero in un certo senso fin dal 1949: la rivoluzione cinese, portata alla vittoria sotto la direzione e con la strategia di Mao mentre in Europa si stavano delineando le chiusure e i vincoli della guerra fredda, aveva rimpiazzato il ruolo storico della rivoluzione d’ottobre, la cui «spinta propulsiva» si stava già attenuando. Mao aveva condotto della realtà sociale cinese un’analisi di classe articolata e approfondita, sostanzialmente originale rispetto a Marx e soprattutto alle tesi sovietiche: Mao seppe individuare la funzione storica dei contadini poveri (e non certo dei contadini intesi genericamente e al di fuori di una visione di classe) come classe rivoluzionaria in

un paese del Terzo Mondo e in questo senso aprì la prospettiva di un rilancio della lotta rivoluzionaria presso quella che Mao riteneva fosse la maggioranza dell’umanità, cioè l'insieme dei contadini poveri dei paesi poveri. E questi contadini poveri dei paesi poveri, insieme a coloro che sono stati cacciati dalla terra e dai villaggi e sono affluiti nelle megalopoli assurde del. Terzo Mondo continuano a costituire la maggioranza dell’umanità, ma appaiono molto più che al tempo di Mao condannati ad essere emarginati non solo dal benessere e dalla storia ma dalla vita stessa.

I contadini poveri: maggioranza dell’umanità

La strategia di sviluppo di Mao, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, aveva cercato di non ridurre la costruzione del socialismo a una semplice industrializzazione forzata, ma di dar luogo a una società

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rurale che trovasse in se stessa un suo equilibrio e una sua possibilità di sviluppo qualitativo e quantitativo, senza eliminare i meccanismi antichi della società di sussistenza: per questo la strategia rurale maoista presentava un’alternativa dalla condizione di emarginazione e di condanna che oggi incombe sulla maggioranza dell’umanità. Per questo aspetto rurale e di classe l’esperienza storica della rivoluzione cinese era incomparabile con quella dei movimenti di emancipazione nazionale, anche se la rivoluzione diretta dai comunisti in Cina aveva costituito anch’essa un movimento di liberazione nazionale, anzi un movimento di liberazione particolarmente rigoroso e radicale. Tra l’altro il fatto che la Cina non fosse stata sottoposta alla dominazione di una singola potenza, bensì al controllo e allo sfruttamento plurimo e indiretto di più potenze imperialistiche agenti in un rapporto di «connivenza e concorrenza» aveva consentito per tempo ai rivoluzionari cinesi di individuare le caratteristiche fondamentali del fenomeno dell’imperialismo senza disperdersi in contrasti singoli con una sola potenza coloniale e i suoi strumenti di dominio. Per questo Mao aveva saputo dare una visione dell’imperialismo come fenomeno globale e al tempo stesso individuare il problema dei contadini poveri dei paesi poveri come problema sociale, di classe, fondamentale nella lotta contro l’imperialismo.

I limiti non percepiti dell’esperienza cinese Detto ciò è tuttavia necessario tenere presente che negli anni attorno al ’68 furono sottovalutati alcuni aspetti che rendevano la rivoluzione cinese sostanzialmente «altra» dalle esperienze storiche compiute dalle forze anticapitalistiche in Europa e dalla stessa esperienza del ’68. Prima di tutto la sostanziale carenza, l’impensabilità dell’esperienza democratica nell’ambito della civiltà cinese. Il ’68 era invece profondamente connesso ad esperienze che avevano nella democrazia il loro elemento caratterizzante: vi erano certamente la polemica contro la «democrazia borghese» e la denuncia dei limiti della democrazia nelle società occidentali, soprattutto nella società italiana, in contrapposizione alla giustificazione della linea di Togliatti. Eppure nel suo svolgimento il °68 mosse da istanze e rivendicazioni di democrazia, in primo luogo la democrazia nella scuola, ed ebbe comunque necessità e occasione di ribadire la priorità della difesa attiva della democrazia di contro alle continue minacce di repressione, di colpo di Stato, di soppressione violenta che accompagnarono il suo corso. Soprattutto nel ’69 la confluenza del movimento studentesco con le lotte operaie comportò

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una riaffermazione degli ideali democratici come prospettiva ideologica assoluta del movimento. Su questo terreno la distanza dalla Cina era enorme, sul piano ideologico, politico e anche esistenziale.

L’élite rivoluzionaria e lo Stato: la Cina lontana dal ’68

Altrettanta distanza si deve rilevare tra i concetti che furono alla base del ’68 e il concetto e la funzione dell’élite nella storia della Cina e anche della rivoluzione cinese. In questo caso la problematica è più complessa: tradizionalmente in Cina gli intellettuali si erano visti legittimare l’esercizio del potere in quanto élite meritocratica dotata degli strumenti culturali di governo e degli strumenti per ottenere e manipolare il consenso. Queste caratteristiche dell’élite tradizionale cinese sono

in qualche modo omologabili a quelle delle élite delle più moderne società capitalistiche reclutate per caratteristiche meritocratiche e funzionali: contro quel tipo di élite la cultura del ’68 si scontrava frontalmente. Il discorso, condotto da Mao contro il trasferimento dalla burocrazia

tradizionale al partito comunista della logica del potere tipica della tradizione cinese, incontrava quindi una rispondenza naturale nei giovani studenti, ribelli alla logica manageriale e ai suoi strumenti selettivi. Ciò che fu allora sottovalutato era invece la continuità sostanziale tra la funzione dell’élite tradizionale e la funzione dell’élite rivoluzionaria in Cina. Gli intellettuali cinesi rivoluzionari che avevano fondato il partito comunista cinese erano per molti aspetti eredi della funzione e di una parte degli ideali della classe dirigente tradizionale dello Stato centrale, ma — di fronte alla crisi dello Stato cinese provocata dall’aggressione imperialista e dalla corruzione delle istituzioni — intrapresero la lotta rivoluzionaria proprio per ricreare — e in seguito governare — in Cina uno Stato sovrano e indipendente, uno Stato nuovo, capace di risolvere i problemi del popolo. Il 68 non poteva comprendere questa funzione di ricostruzione dello Stato che la rivoluzione cinese ebbe, di ripresa della gestione del potere da parte di un’élite legittimata dal possesso degli strumenti ideologici che il partito comunista cinese svolse. Su questo terreno la posizione di Mao fu ambivalente e contraddittoria: da un lato egli fu soprattutto un patriota cinese, se si vuole un «grande imperatore» che pose in primo piano la necessità di consolidare, difendere, governare lo Stato creato dalla rivoluzione, dall’altro egli invocò l’abbattimento, attraverso l’azione dal basso degli esclusi, dei privilegi di ogni élite legittimata all'esercizio del potere dal possesso di strumenti culturali.

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Tradizionalismo e anticonformismo in Mao

Per Mao il problema del potere fu sempre molto importante: un potere nuovo, cioè nato da forze sociali nuove, dotate di capacità nuove,

ma con una funzione antica, se si vuole tradizionale. Più di altri intellet-. tuali divenuti dirigenti rivoluzionari, Mao era legato alla tradizione del popolo cinese: non al banale conformismo tradizionalista dei conservatori, di ogni specie, al quale fece guerra fino all’ultimo giorno della sua vita, ma alla continuità della memoria storica del popolo cinese, del suo lavoro, delle sue lotte e ribellioni, della sua opera nel trasformare la terra e renderla produttiva per gli uomini, molti uomini, nel tempo. Con maggiore intensità dei suoi compagni più cosmopoliti, più presi dal fascino delle idee nuove venute dall’Occidente, Mao credette sempre che il popolo cinese fosse grande e che la sua cultura originaria potesse essere liberata dal pregiudizio passatista, dai condizionamenti frustranti di un costume morale ed esistenziale arretrato, dai limiti alla

creatività e all’iniziativa imposti dalle esigenze degli sfruttatori, cioè potesse essere sostanzialmente modernizzata, ma che non dovesse essere stravolta dall’importazione di una cultura estranea e mercenaria,

legata all’asservimento del popolo cinese ai dominatori stranieri. Ebbe questa convinzione sempre, anche nei confronti del marxismo e della cultura dei sovietici. Accanto a quest’esigenza di difesa della tradizione e dell’identità del popolo cinese, Mao sentì sempre intensamente l’esigenza di rottura e di rinnovamento. Nelle molte contraddizioni e ambivalenze della sua personalità, l’esigenza di rottura fu prevalente. Questa componente del suo pensiero era solo in parte omologabile a quella dei suoi compagni: il suo culto per la ribellione contro l’ingiustizia, per la rivolta istintiva, per la rottura del conformismo e della soggezione entrava in contraddizione con l’esigenza di ricostituire e governare la Cina. Questa componente aveva nella sua personalità anche un’origine cinese, nel ribellismo taoista e dell’antica strategia dialettica, ma aveva la sua radice specifica nel pensiero di Rousseau che fu la prima e più rilevante influenza che Mao ricevette dall’Occidente.

La giustificazione morale della ribellione Da Rousseau Mao accolse, in termini e linguaggio moderni e quindi fuori dalle formulazioni irrazionali del tradizionale ribellismo, la giustificazione della rivoluzione, la legittimazione morale della ribellione.

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Enrica Collotti Pischel Da Rousseau, che non a caso era da lui citato con frequenza negli anni che precedettero la rivoluzione culturale in discorsi significativamente mantenuti inediti dalle autorità del partito, Mao trasse il concetto proclamato durante la rivoluzione culturale «la ribellione è giustificata». Da Rousseau e da Marx, nella misura in cui Marx sarebbe stato impensabile senza Rousseau: proprio l’eredità di Rousseau impedì sempre a Mao di dare del pensiero di Marx una visione mistificata che potesse vedere il movimento storico prescindendo dalla ribellione del popolo contro l’ingiustizia. La legittimazione morale della «ribellione giusta» ebbe molta influenza sui giovani cinesi durante la rivoluzione culturale e costituiva una rottura con l’atteggiamento della tradizionale classe dirigente cinese e quindi anche con le esigenze di continuità mutuate dai comunisti nel loro sforzo di «salvare la Cina». Fu proprio questa giustificazione della rottura e della ribellione, presentata con insistenza da Mao nella fase iniziale della rivoluzione culturale, a costituire il collegamento tra le idee di Mao e quelle del ’68, in quanto consentiva di trasporre la denuncia del ruolo tradizionale della classe dirigente burocratica al ruolo esercitato nelle società capitalistiche dall’ideologia manageriale. Sotto questo aspetto la rivoluzione culturale fu probabilmente uno dei fattori che maggiormente contribuirono al 68. Anche per la forte componente etica che stava alla base dell’appello di Mao ai giovani perché difendessero le conquiste sociali della rivoluzione cinese, il rovesciamento dell’ordine di potere, di prestigio e anche di ricchezza che essa aveva operato, soprattutto nelle campagne, contro quello che Mao considerava — probabilmente non a torto — come un imminente pericolo di restaurazione di privilegi di una minoranza, fosse pure essa costituita dal partito. Mao aveva sempre avuto, forse per le origini non conformiste della sua cultura — tanto cinese quanto occidentale —, una grande capacità di fare appello alla fantasia dei suoi interlocutori, di trascrivere in termini epici i problemi delle contraddizioni di classe, di renderne la dimensione umana, quotidiana in immagini immediatamente accessibili. Ciò gli facilitò il contatto con il mondo dei contadini e dei giovani: e ciò fece di lui l’immagine simbolica del ’68.

Le contraddizioni tra ribellione e potere

Mao diede un grande contributo alla «giustificazione della ribellione» giovanile all’interno di un regime che cominciava a subire l’allentamento della spinta rivoluzionaria impressa dalla lotta armata dei con-

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tadini e che faceva scarso posto alle iniziative, alle capacità e ai diritti dei giovani, per non parlare della loro creatività, della loro libertà e della loro effettiva partecipazione al potere. Questo suo appello provocava grandissime contraddizioni all’interno della gestione del potere del partito del quale Mao era il massimo dirigente. Contraddizione tra l’appello continuo di Mao all’iniziativa spontanea delle masse, alla presa di coscienza — soprattutto da parte della nuova generazione — della propria capacità di rottura e l’elaborazione di strumenti di governo e di gestione del potere da parte di un’élite, che poi corrispondeva al partito comunista. Contraddizione tra le richieste di giustizia e di uguaglianza — inevitabilmente destabilizzanti soprattutto in una società di penuria nella quale i margini di sopravvivenza potevano essere assicurati alla maggioranza solo a prezzo di interventi assistenziali e perequativi dall’alto — rispetto all’assetto dell’autorità e alla marcata gerarchizzazione del potere creato dalla rivoluzione. Contraddizioni che poi incidevano decisamente sullo stesso gioco politico di Mao che era a un tempo capo del partito e dello Stato (un «grande imperatore» come si è detto qui) e capo di una corrente di opposizione, o di molte spinte di corrente, da lui a più riprese giostrate e contrapposte le une alle altre in un processo che finì con l’essere distruttore sia delle forze istituzionali e costituite, sia delle schiere giovanili suscitate, mobilitate, scatenate, strumentalizzate e infine abbandonate e

represse da Mao. Durante tutta la rivoluzione culturale gli sviluppi politici furono pesantemente ipotecati non solo, e non tanto al contrapporsi di fazioni e di cricche a tutti i livelli del potere nel partito, quanto dall’impiego di metodi e di strumenti messi a punto nei periodi più tragici dello stalinismo e in Cina ulteriormente articolati da gruppi dirigenti eredi di una tradizione politica raffinata e cinica.

Gioco di potere ristretto, strumenti perversi Non solo la mancanza di democrazia costituì un’ipoteca mortale per gli ideali dai quali era mossa la rivoluzione culturale, ma l’uso sistematico di strumenti repressivi utilizzati solo in funzione del potere (i servizi segreti multipli, la schedatura degli avversari, la raccolta di informazioni volte alla distruzione morale degli avversari effettivi o potenziali, la costante distruzione morale dei compagni di ieri caduti in disgrazia e l’impiego sistematico della categoria di «tradimento», ancor più delle incarcerazioni arbitrarie di interi gruppi di persone e la totale mancanza di garanzie giuridiche) finì col falsare lo stesso gioco di po-

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tere tra linee differenti, per non parlare della strumentalizzazione della

protesta giovanile in vista di queste lotte di potere in termini estremamente complessi e la finale, tragica repressione dei gruppi giovanili di studenti e operai, affidata alle milizie contadine. Nel rendere drammatici gli sviluppi della rivoluzione culturale e nel determinare poi, per contraccolpo, il generale distacco delle masse giovanili cinesi dagli ideali stessi della rivoluzione contribuì anche il fenomeno dei pesanti, incolmabili privilegi di autorità, di accesso alle informazioni, di inserimento nella rete gerarchica, ma anche di ricchezza, di disponibilità di beni e servizi non solo in funzione professionale, ma anche a scopo di semplice fruizione personale, di libertà di decidere la propria sorte, che accompagnava il livello di potere detenuto dai singoli nel partito. Questi privilegi, anche per la struttura della famiglia cinese e per una certa «separatezza» dei comunisti soprattutto nella società urbana, venivano tramandati senza merito, ereditariamente ed estesi in maniera clientelare quasi con caratteristiche di tipo castale. È vero che Mao e gli uomini della sinistra durante la rivoluzione culturale si levarono contro questa fenomenologia e anzi motivarono la rivoluzione culturale proprio dall’urgenza del combatterla: fu Mao che denunciò la trasformazione del partito in «nuova classe» con la stessa intensità di Djilas e con più ampia argomentazione, con più drammatico avvertimento di un pericolo mortale. Tuttavia gli uomini stessi della rivoluzione culturale fruirono di privilegi materiali evidenti tanto al vertice quanto in tutte le diramazioni del potere, trasformando l’istanza libertaria e ugualitaria della rivoluzione culturale in una lotta per i privilegi connessi al potere. In una certa misura anche i dirigenti dei gruppi «ribelli» giovanili si servirono tra loro e rispetto ai loro sostenitori di strumenti repressivi e autoritari incompatibili con un qualsiasi processo rivoluzionario e godettero di privilegi non accessibili al semplice popolo.

La denuncia del privilegio degli intellettuali Per queste contraddizioni sociali, coloro che detenevano l’autorità,

di fronte a una ribellione giovanile effettiva, effettivamente motivata dal rifiuto di privilegi, di potere e di ricchezza, incompatibili con gli ideali rivoluzionari che legittimavano il regime esistente, avevano colto fin dall’inizio ogni occasione per dirottare contro gli intellettuali,

contro i soli intellettuali, la protesta studentesca e operaia e soprattutto

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso

la violenza dei giovani provenienti dall’ambiente rurale, spesso figli di quei contadini poveri che con la loro partecipazione alla lotta sociale erano divenuti la nuova classe dirigente locale, ma si trovavano esclusi

dall’accesso a funzioni direttive al centro attraverso i meccanismi della selezione scolastica. Era vero che gli intellettuali provenivano in gran parte da quelle che erano state tradizionalmente le classi privilegiate ed era anche vero che nella storia della Cina il privilegio culturale era stato strumento di accesso al potere (oltre che effetto del privilegio economico): per questo era connaturata nell’origine del potere rivoluzionario dalla lotta rurale armata ‘una certa contrapposizione alla funzione sociale degli intellettuali, anche di intellettuali formati nella nuova società. Era anche vero che, in vista della situazione specifica della Cina, Mao nella sua opera aveva condotto una critica generale alla cultura quale strumento di trasmissione del potere attraverso linee precostituite di classe destinate a identificare inevitabilmente la cultura stessa con gli interessi delle classi dominanti.

La critica alla selezione scolastica «meritocratica»

Questa critica alla cultura, e alla scuola come suo strumento di tra-

smissione, soprattutto alle caratteristiche di classe della selezione scolastica e del sistema degli esami (in Cina, cioè nel paese che aveva dato al mondo il modello di reclutamento della burocrazia attraverso esami a concorso) ebbe grande importanza nel ’68: si trattava di una tematica discussa a lungo in Cina già prima della rivoluzione culturale e rimbalzata in Occidente. Molti temi della critica maoista alla selezione meritocratica nella scuola e all’iniqua «giustizia» che l’accompagna erano stati ripresi in Occidente, in Italia soprattutto da don Milani e avevano messo in crisi o almeno in forse la concezione di una selezione meritocratica (contrapposta alla selezione di censo) a lungo sostenuta dalla sinistra tradizionale. Senza quella critica, che interveniva in un momento nel quale nuove classi erano accedute alla scuola secondaria in Italia, non vi sarebbe stato il ’68. Tuttavia nella sua Lettera don Milani, pur riprendendo l’afflato morale della critica di Mao alla trasmissione meritocratica della cultura (non a caso in base a un’esperienza condotta in ambiente rurale), aggiungeva un rilievo critico alle notizie che cominciavano a giungere dalla Cina. Le tesi maoiste gli apparivano come istanza di uguaglianza, ma solo a livello potenziale: «chissà poi se è vero?» concludeva, met-

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Enrica Collotti Pischel tendo in dubbio che effettivi detentori di potere fossero disposti a immettere in meccanismi di selezione equa il complesso di coloro che dal potere sono esclusi.

Il dirottamento della protesta giovanile dagli obiettivi reali E a ragione. Infatti l’aver fatto degli intellettuali l’obiettivo prioritario della rabbia giovanile fu una scelta precisa e fuorviante compiuta dai detentori del potere in Cina. Nella società cinese degli anni sessanta, gli intellettuali detenevano infatti più che altro privilegi residuali, sopravvissuti al lungo esercizio tradizionale del potere e se mai «concessi» dalle autorità per garantire l’utilizzazione subalterna delle loro capacità professionali da parte del regime: essi non erano detentori degli strumenti capaci di precostituire futuri strumenti di potere e di privilegio. L'essere stati fatti oggetto di un attacco in parte strumentale contrappose con la rivoluzione culturale gli intellettuali cinesi al potere del partito comunista, almeno alla linea sostenuta da Mao. Ciò finì con l’indebolire le posizioni maoiste, tanto che, all’indomani della morte di Mao, furono proprio gli intellettuali a costituire il più compatto gruppo di pressione a favore di Deng Xiaoping e di un rovesciamento delle scelte maoiste. Solo con una riabilitazione della cultura quale strumento di governo e di progettazione, i loro figli avrebbero potuto tornare a godere di posizioni di vantaggio nei meccanismi di selezione per entrare all’università e quindi per accedere alla classe dirigente. Almeno così credevano gli intellettuali. In realtà i meccanismi speculativi messi in moto dalla liberalizzazione economica e al tempo stesso l’immutato monopolio del potere da parte del partito comunista hanno escluso ancora una volta gli intellettuali dal novero di coloro che decidono le sorti della Cina riportandoli anche a condizioni di povertà e frustrazione che sono un danno per loro, per la cultura cinese e anche per la vita materiale e morale del popolo cinese. Ma nel ’68 questi eventi apparivano ancora impensabili e del resto tutto il processo reale della rivoluzione culturale e delle sue contraddizioni era poco noto e meno compreso. In particolare quando in Europa, nel ’68, tanti studenti scesero in lotta riprendendo le parole d’ordine che erano state tipiche dei loro compagni cinesi durante la fase iniziale della rivoluzione culturale, le «guardie rosse» costituite da studenti o da operai erano già state vittime di una repressione spesso sanguinosa o erano state inviate in condizioni di emarginazione a lavorare nelle zo-

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ne più inospitali, più povere della Cina: soprattutto le più lontane dal centro del potere. Non fu facile dirlo allora: soprattutto dicendolo non si era creduti

L’analisi cinese delle società socialiste

L'appello cinese a una rivoluzione globale contro il sistema imperialistico, in antitesi alla tesi di Krusciov che accettava la permanenza del potere dell’imperialismo in nome delle esigenze della distensione tra le due maggiori potenze, contro l’interpretazione della coesistenza che — visto il permanente rifiuto statunitense di riconoscere la Repubblica popolare cinese — faceva della coesistenza una coesistenza senza la Cina e quindi inevitabilmente una coesistenza contro la Cina, fu un altro degli elementi del ‘68. La «linea generale del movimento comunista internazionale» proposta dai cinesi nel 1963 e poi continuamente propagandata almeno fino all’inizio della rivoluzione culturale (quando presero il sopravvento i problemi politici e culturali interni della Cina) era solo in parte contigua al fenomeno dell’emancipazione dei popoli e delle lotte per l’indipendenza che avevano messo in crisi i concetti eurocentrici tradizionali: benché in essa avessero un peso prevalente le lotte dei «dannati della terra», cioè dei poveri del mondo povero, la strategia cinese voleva porsi come strategia di lotta a livello mondiale, in modo affine a quanto aveva fatto l'Internazionale comunista negli anni venti. La polemica cinese poneva in primo piano il problema della situazione sociale e politica esistente nei paesi socialisti: proprio la denuncia di ogni fenomeno involutivo che impedisse a quelle società di corrispondere all’ideale del socialismo o almeno di mantenere lo sforzo per avvicinarvisi, fu alla base della rivoluzione culturale intesa come grande mobilitazione sociale per impedire una «restaurazione di classe» o comunque l’emergere del privilegio sociale e del monopolio del potere politico da parte di una minoranza, fosse pure essa corrispondente al partito. Questa scelta, compiuta da Mao nella convinzione che l’Urss avesse cessato di essere un paese socialista, non solo portò al punto di rottura irrimediabile la tensione tra comunisti cinesi e sovietici (destinata a comporsi solo quando in Cina giunse al potere una dirigenza che non poneva più il problema della corrispondenza della politica svolta da un partito comunista all’ideale del socialismo), ma determinò la rottura all’interno del partito comunista ponendo in termini antinomici le scelte di strategia sociale da compiere e rendendo impossibili rinvii o compromessi.

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Le reticenze cinesi sul fenomeno staliniano

Nella loro denuncia della «restaurazione» del privilegio avvenuta in Urss i cinesi non seppero precisare in modo convincente quando il mutamento di caratteristiche sociali sarebbe avvenuto nell’Urss, né se l’Urss fosse stata veramente fino a un certo periodo un paese sostanzialmente socialista e se poi avesse cessato di esserlo, quando e perché: le tesi espresse nella maggioranza dei testi cinesi attribuivano il rovesciamento delle scelte di classe a Krusciov e al XX Congresso, ma nelle opere — significativamente ancora una volta inedite — di Mao l’analisi dell’esperienza storica compiuta nell’Urss di Stalin e di molte tesi teoriche di Stalin era ben lontana da una difesa dello stalinismo come impostazione politica o teorica e dalla sua pratica del potere; Gli spunti di critica di Mao allo stalinismo si trovavano infatti in parte in contrasto con gli strumenti di potere e anche di arbitrio utilizzati dallo stesso Mao nel governare il paese e nel condurre la lotta all’interno del partito: inoltre il giudizio sullo stalinismo apriva certamente violenti e incolmabili dissensi anche all’interno di gruppi e fazioni che invece erano disposti a seguire Mao nello scontro di politica sociale entro il partito. La mancata analisi del fenomeno dello stalinismo o comunque l’impossibilità di elaborare un’interpretazione dello stalinismo capace di raccogliere un consenso largo nella dirigenza del partito comunista cinese e compatibile con i problemi che i comunisti cinesi dovevano affrontare nella loro opera di gestori della società e dell’economia cinese, fu forse una delle cause della rivoluzione culturale.

ultime del fallimento

La tesi cinese sulle società capitalistiche metropolitane

Per questi aspetti il contributo cinese alla discussione sulla natura delle società socialiste prima e durante la rivoluzione culturale fu assai rilevante e intervenne in un dibattito della sinistra europea da anni in pieno svolgimento: le tesi dei cinesi arricchirono quel dibattito anche se vi portarono in una certa misura un elemento mitico e fuorviante, la

convinzione cioè che, se l’Urss aveva fallito, la Cina invece potesse costituire l'esempio di una società socialista più giusta e rigorosa, anche se povera. In una certa misura il medesimo mito prima del ’68 era circolato a proposito di Cuba. Questo tipo di apporti risuscitava V’immagine di una «patria rivoluzionaria» ideale, in scarso rapporto con

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso considerazioni realistiche, con conseguenze

nefaste sull’elaborazione

di prospettive sociali e di lotta nei paesi dell'Occidente capitalistico nei quali il °68 si svolse. La tesi cinese dell’«assedio delle città bianche da parte delle campagne rosse» cioè, della priorità delle lotte del Terzo Mondo rispetto a quelle delle metropoli capitalistiche, poneva in discussione proprio il ruolo della classe operaia, oltre che dello Stato assistenziale, delle conquiste ottenute o da ottenersi «entro il sistema», e in pari tempo apriva anche il problema della funzione e dei limiti della tecnologia e del progresso scientifico: tutti temi che, essi pure, erano da anni al centro di

una discussione aperta nella sinistra dei paesi capitalistici e che avevano avuto varie risposte, determinando filoni di pensiero plurimi, in parte alternativi tra loro, in parte mutuamente compatibili. Le tesi dei cinesi diedero un apporto, mettendo in luce spesso il pericolo di condurre il discorso sulla natura della società capitalistica, le sue articolazioni, le sue contraddizioni e i suoi limiti senza tener conto dei problemi che le scelte compiute entro le società capitalistiche sui singoli problemi ponevano alle altre società, al mondo dei poveri. La tematica dei cinesi apriva uno spiraglio su quei problemi, ma spesso il carattere dogmatico delle prese di posizione cinesi, la limitatezza dell’esperienza dei cinesi sui problemi in discussione, la vera e propria alterità esistenziale delle radici dalle quali le tesi cinesi nascevano fecero sì che il contributo nuovo dato dai cinesi rimanesse inviluppato in formule e schemi che, ripetuti in Europa, non solo non davano un contributo produttivo al dibattito, ma lo isterilivano divenendo motivo di artificiose polariz-

zazioni. La nefasta contesa tra cinesi e sovietici per il consenso La tendenza dei cinesi, soprattutto durante la rivoluzione culturale,

a porre qualsiasi problema come un’alternativa, sulla quale esistevano necessariamente «due linee» inconciliabili, sulle quali era necessario schierarsi, in un mondo — almeno in quel mondo che partecipò alle lotte del ’68 — nel quale l’antitesi con il sistema imperialistico e la necessità di schierarsi contro di esso era sentita in profondità, così come era sentita la necessità di «schierarsi» nel contrasto tra comunisti cinesi e comunisti sovietici, ebbe davvero effetti perversi, soprattutto quando all’interno del vasto e mobile complesso di forze che avevano animato il °68 avvenne una micro-istituzionalizzazione con la formazione di partiti e gruppi la cui linea consisteva spesso nella semplice ripetizione

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delle tesi cinesi e quindi nella rincorsa continua ad avallare l’ultimo allineamento deciso dai cinesi, l’ultima svolta delle lotte politiche interne alla Cina. Da parte loro i sovietici stavano compiendo il medesimo sforzo di egemonizzazione di forze politiche del movimento comunista internazionale, consolidate o di recente formazione. In Italia le conseguenze perverse di questo duplice fenomeno ebbero ripercussioni relativamente limitate, per i margini di autonomia che, già allora, il Pci aveva rispetto ai sovietici (ma quei margini si delinearono soprattutto dopo il 68, dopo Praga, dopo che la vittoria vietnamita apparve evidente) e per l’importanza che raggiunsero anche nella nuova sinistra gruppi che traevano le loro radici da lotte studentesche e operaie e vedevano nella tematica internazionale solo un terreno limitato se non marginale dell’azione e della stessa elaborazione ideologica. Ma altrove questo processo ebbe conseguenze catastrofiche: la gara tra cinesi e sovietici per assicurarsi l'allineamento sulle loro posizioni — o meglio, su un’interpretazione dogmatica e tassativa, totalizzante delle loro posizioni — di gruppi e partiti che stavano ponendo i primi passi spesso sotto i colpi della repressione o in condizioni di grande arretratezza materiale, politica e culturale, ebbe conseguenze disastrose in molti paesi, soprattutto del Terzo Mondo. La tragica vicenda dei khmer rossi, ma anche la guerra civile in Angola, la mancata risposta di molti partiti comunisti latino-americani all’appello rivoluzionario di Guevara, ebbero in questa lotta distruggitrice condotta da cinesi e sovietici per accaparrarsi un allineamento anche formale dei vari gruppi rivoluzionari una componente non secondaria. In questo scontro molte forze rivoluzionarie furono distrutte, facilitando la vittoria dell’imperialismo, l'emergere di nuove forze politiche reazionarie o conservatrici, o comunque disposte a cercare in un inserimento entro il sistema imperialistico la difesa dei propri privilegi, con | una reazione ideologica contro una sinistra divisa e settaria. La polemica tra cinesi e sovietici e il loro sforzo per accaparrarsi l’ossequio dei vari gruppi rivoluzionari del Terzo Mondo accentuò e accelerò quel processo involutivo che già negli anni precedenti aveva segnato i limiti della lotta contro l’imperialismo e aveva fatto registrare pesanti sconfitte, come già accennato. E i vietnamiti rimasero soli: i vietnamiti che fino dall’inizio avevano saputo impostare la lotta sulle loro posizioni e avevano costretto, con genialità e grande sagacia tattica, tanto i cinesi quanto i sovietici a gareggiare per aiutarli, se non altro per impedire che l’avversario potesse gloriarsi da solo del consenso dei vietnamiti vittoriosi: vittoriosi

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Nel ’68: quando l'Oriente era rosso

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ma soli, in un mondo nel quale la grande spinta delle lotte dei popoli era stata fiaccata o sconfitta o monopolizzata dal gioco di élite ristrette. Quella solitudine sarebbe stata una componente della tragica involuzione della situazione vietnamita dopo la vittoria del ’75, della scelta sbagliata di allinearsi sull’Urss contro la Cina, che peraltro allora preferì buttare i vietnamiti in braccio all’Urss che accettare le loro reticenze, le

loro resistenze all’allineamento ideologico.

La grande vittoria del vecchio Vietnam Ma nel ’68 non era facile rendersene conto, perché nel ’68 il Vietnam vinceva: il ‘68 fu l’anno della grande vittoria del Tet. Dal 1960 in poi gli americani avevano continuato ad accumulare forze per l’escalation in Vietnam, per vincere la guerra contro la guerriglia che da parte dei dirigenti statunitensi veniva considerata come una prova generale di altre ribellioni, di altre guerre di liberazione in paesi più direttamente vitali per gli Stati Uniti e al tempo stesso un congegno di innesco di una frana rivoluzionaria generalizzata in tutta 1° Asia orientale. Nel corso di quegli anni pochi militanti della sinistra tradizionale e anche di formazioni meno istituzionalizzate avevano creduto che i vietnamiti potessero vincere: il rapporto di forze a livello globale e il succedersi di sconfitte nel Terzo Mondo induceva molti a pensare che i vietnamiti avrebbero tenuto fede al loro impegno di lotta, ma solo in modo tragico. Sarebbero morti tutti sotto i colpi dell’imperialismo statunitense così come era morto Guevara che aveva lanciato un disperato appello in loro sostegno. Chi conosceva maggiormente le radici specifiche della storia dell’ Asia orientale, chi aveva vissuto in Cina o nel Vietnam non condi-

videva questa visione pessimistica. C’era un «vecchio» Vietnam che stava alle spalle della difesa dell’identità vietnamita contro la massacrante sfida della potenza statunitense, così come una «vecchia» Cina nelle montagne. e nelle campagne della Cina settentrionale aveva sostenuto i comunisti cinesi nella loro resistenza al Giappone e poi al Guomindang portando alla vittoria la strategia di Mao, incredibile rispetto alla logica del mondo moderno. C'erano l’identità e la compattezza del vecchio Vietnam dietro alla lotta di Ho Chi Minh, che quando voleva mobilitare le forze più profonde del suo paese per la resistenza contro il nemico più moderno, si rivolgeva ai vecchi, perché sapessero servirsi degli strumenti e dei valori tradizionali per mobilitare i giovani

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del villaggio alla difesa della sopravvivenza e dell’identità del loro paese.

Il prezzo enorme della vittoria

I vietnamiti riuscirono a resistere, a un prezzo umano che nel ’68 pochi vedevano, pochi erano disposti ad ammettere e che fu pagato dopo la vittoria con le terre distrutte dalla diossina, la disaggregazione della società, lo squilibrio del sistema idrico, l’essiccazione artificiosa e poi l’incendio del grande patrimonio forestale per il quale gli studiosi americani denunciarono il primo caso di «ecocidio». Oggi sappiamo anche che sul sentiero di Ho Chi Minh, cioè sulle piste di terra che nella fore-

sta mettevano in comunicazione il Nord con le aree di guerriglia del Sud si trovano gli scheletri dei portatori contadini ancora avvinti ai loro carichi, a testimonianza dello sforzo immane per far giungere i rifornimenti alla guerriglia attraverso un sistema di trasporto che proprio per essere fuori della logica del mondo moderno non poté mai essere interrotto dagli americani: ma costò un prezzo umano che nessuna società moderna sarebbe disposta a pagare. Uomini morti di fatica, oltre che di bombe, di fame e di malaria.

Il °68 visse in qualche modo l’esperienza del Vietnam in una luce di festa: il Vietnam vinceva, vinceva per tutti e dava gioia a tutti. In Vietnam non si stava svolgendo una festa: fu Guevara, ancora una volta,

nel suo ultimo appello a denunciare il tono di festa con il quale la sinistra del mondo sviluppato guardava al Vietnam, a paragonare la lotta dei vietnamiti alla lotta dei gladiatori romani, schiavi spinti a morire per la gioia dei liberi. La festa non c’era, ma i vietnamiti potevano vincere,

e infatti vinsero con l’utilizzazione congiunta e sagace di fattori multipli. Nel 1968, alla fine di gennaio, al momento dell’inizio del nuovo anno lunare agricolo (la festa del Tet appunto) i guerriglieri mossero all’attacco delle grandi basi americane e dimostrarono che tutto lo sforzo compiuto dagli Stati Uniti nei tre anni precedenti, l’invio di oltre seicentomila americani e l’impiego di ogni genere di armi, anche le più crudeli e raffinate — come le bombe a biglie di plastica non reperibili radiologicamente nel corpo dei feriti —, non consentivano all’esercito della più grande potenza del mondo di «tenere» il Vietnam. Da allora l’esperienza americana nel Vietnam era destinata a concludersi in una sconfitta: il presidente Johnson dovette ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca e le scelte da compiere nel Vietnam divennero il principale problema degli Stati Uniti in un anno di elezioni presidenziali.

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Nel ’68: quando l’Oriente era rosso La resistenza del Sud e l’aiuto del Nord

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Oggi molti esiliati vietnamiti anticomunisti, o anche partecipanti alla lotta rivoluzionaria separatisi in seguito dai loro compagni perché non disposti a subire l’involuzione stalinista del potere nel Vietnam dopo la vittoria, si affannano a dimostrare che militarmente la battaglia

del Tet fu una sconfitta e che uno dei molti errori politici del ’68 fu proprio quello di averla considerata una vittoria. Da un punto di vista militare questa tesi può essere esatta nel senso che il dispositivo americano nel suo centro non fu intaccato e di conseguenza la potenza strategica degli Stati Uniti nel Vietnam poté essere ristabilita. Su un piano politico generale vi può essere qualche cosa di più: l’offensiva costò perdite terribili alla guerriglia del Sud che fino allora, pur ricevendo aiuti dal Nord, pur necessitando dell’appoggio di truppe regolari del Nord lungo la linea di demarcazione e pur vivendo del gravoso apporto di rifornimenti attraverso la pista di Ho Chi Minh, era costituita soprattutto da rivoluzionari del Sud, contadini e intellettuali, le-

gati alla realtà del Sud che era diversa dalla società del Nord e che in un certo senso era più pluralista, meno dominata da un partito comunista rigoroso ed efficiente ma stalinista, più aperta a una società che era stata profondamente modificata dalla colonizzazione: stravolta, ma an-

che modernizzata. La distruzione della resistenza meridionale, perseguita dopo la battaglia del Tet dagli Stati Uniti e dai loro collaboratori, con la persecuzione mirata dei resistenti, la distruzione dei villaggi, la deportazione della popolazione e soprattutto l’uso degli squadroni della morte per eliminare i quadri politici della resistenza, costituì una grave sconfitta per le forze rivoluzionarie del Vietnam. La gravità dei colpi subiti si sarebbe riscontrata dopo il 1975: perché la vittoria del Vietnam fu raggiunta, ma fu raggiunta con l’intervento massiccio delle forze del Nord. E il Nord rappresentava quel «vecchio» Vietnam, quello delle comuni risicole emerse dall’alba della storia dall’intrico di acqua e terra del delta del Fiume Rosso, che non aveva mai ceduto alle invasioni straniere e aveva resistito quasi immune alla colonizzazione. Un Vietnam antico e intatto, schierato a difesa della propria identità: ma anche un Vietnam arretrato, incapace di rispondere alle sfide più sottili che la dominazione straniera aveva lasciato al paese vittorioso, cioè l’erosione della società contadina nel Sud, la creazione

di centri urbani fondati su un’economia certamente parassitaria e «bordellizzata», ma nondimeno mobile e capace di far circolare ricchezza,

ancorché indegnamente acquisita e ottenuta al prezzo del «tradimento».

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L’unanimismo nazionalista dei comunisti vietnamiti

Il ’68 sottovalutò la gravità di queste contraddizioni, e anche il prezzo umano incolmabile pagato dalla resistenza del Sud. Il ’68 non vide ciò che avrebbe reso più facile l’involuzione politica dopo il 1975: il pesante potere di un partito comunista rivelatosi capace di combattere e sconfiggere due grandi potenze moderne, ma indubbiamente contraddistinto da una forte caratterizzazione stalinista e da una carenza di esperienza economica e di cultura moderna in genere. L'atteggiamento moralistico

e non

politico che, nell’affrontare

i problemi

del Sud,

avrebbe reso difficile il superamento delle contraddizioni reali di una società che aveva subito uno sconvolgimento ignoto nel Nord, nonostante la più accentuata povertà del Nord. Del pari la distruzione della resistenza del Sud accentuò un’erronea interpretazione che accompagnò — e non poteva non accompagnare — tutta la lotta del Vietnam e cioè la tesi per cui la lotta in corso era in sostanza una lotta nazionale e solo nazionale, nella quale i collaboratori degli Stati Uniti svolgevano soltanto il ruolo dei «traditori», traditori della patria, dell’identità, del sacro retaggio del vecchio Vietnam. Invece, soprattutto nel Sud, la lotta fu anche in larga misura una guerra civile, uno scontro sociale di classe nel quale le classi povere combatterono contro i privilegiati del passato e del presente e furono da questi represse, con l’intervento decisivo del «nemico straniero», gli Stati Uniti. Vi erano nel Sud, come vi erano stati nel Nord, proprietari terrieri esosi che affittavano a contadini poveri piccoli appezzamenti a scarsa produttività, ma vi era anche nel delta del Mekong una borghesia agraria legata alla commercializzazione interna e internazionale del riso così come vi erano nelle aree urbane e soprattutto a Saigon categorie diverse di borghesia commerciale e professionale, vietnamita ma anche cinese, profondamente modificata dalla colonizzazione francese;

e infine vi erano le bande di parassiti e mercenari degli Stati Uniti che nel loro complesso costituivano un gruppo sociale importante, se non una classe. La prevalenza entro questo gruppo di appartenenti alla minoranza cattolica e la scelta compiuta dagli americani di reclutare le forze collaborazioniste entro quella minoranza, da un secolo estranea alla cultura tradizionale vietnamita e quindi disposta a rifiutare l’appello alla difesa dell’identità sostenuto dai comunisti, rendeva più complesso il problema. In sostanza la forte caratteristica nazionale del partito comunista vietnamita impedì di condurre un’analisi articolata e differenziata delle forze che si contrapponevano alla resistenza e che avevano proprie mo-

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Nel 68: quando l’Oriente era rosso

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tivazioni di classe nel sostenere la società pur prostituzionale e mercenaria, creata dagli Stati Uniti nel Sud, modello estremo e mistificato

delle società neocolonialiste nel mondo. L’ideale dell’unanimismo nella lotta «contro il nemico straniero e i traditori» rese difficile ravvisare contraddizioni e linee di scontro e quindi ne rese difficile il superamento nel dopoguerra, mentre l’eredità del moralismo politico tradizionale non permise di comprendere che la prostituta al servizio degli americani poteva percepire una lesione per la propria identità infranta, ma trovava pur sempre conveniente continuare a fare la prostituta per uomini venuti da una società ricca, piuttosto che accettare i valori austeri rima-

Sti più intatti nel Nord ed esasperati dalla povertà e dalla lunga esperienza di guerra.

Il significato della vittoria vietnamita Nonostante questi limiti, la cui mancata percezione da parte del 68 e delle forze che lo sostenevano fu causa non secondaria della successiva inadeguata interpretazione della realtà vietnamita e anche del colpevole abbandono dei vietnamiti da parte della sinistra occidentale nel suo complesso dopo la loro vittoria, quando avrebbero avuto maggiormente bisogno di aiuto, la battaglia del Tet fu effettivamente una gran-

de vittoria che contribuì forse come nessun altro fattore a innescare il meccanismo del ’68. A incoraggiare alla lotta contribuì anche ciò che non avrebbe dovuto esserci: ciò che si è definito la «festa del Vietnam», cioè la percezione di ciò che stava avvenendo nel Vietnam come un processo esaltante e gioioso, una vittoria facile e senza ipoteche. Può non essere stata una vittoria militare, ma fu certamente una vittoria politica

senza uguali: l’aver costretto gli Stati Uniti a rinunciare — o almeno a mettere in questione per giungere gradualmente a una totale rinuncia, a un rinnegamento — a un’impresa che era moralmente ingiusta, umanamente efferata e politicamente anacronistica. La battaglia del Tet batté politicamente gli americani, che infatti da allora non sono mai più riusciti a impegnarsi in un intervento armato di lunga durata in un paese che rifiutasse la logica del loro dominio. Altri mezzi vengono ora usati per piegare o condizionare i nemici degli Stati Uniti, ma la battaglia del Tet segnò i «limiti della potenza americana» in un mondo in cui l’ascesa di quella potenza appariva ancora come una linea continua in ascesa. Può darsi che oggi la sfida dello yen al

dollaro e le contraddizioni di una società che vuole continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi e che dà il proprio consenso solo a quei go-

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vernanti che garantiscono di poter continuare a farlo, stia creando ora

per gli Stati Uniti una crisi ben più grave di quella determinata nel ’68 dai resistenti del Vietnam del Sud con i loro cappelli di tela e i fucili cinesi in pugno. Ma quella data segnò una rottura che nessuna esaltazione delle virtù di Rambo e neppure il lungo periodo del potere di Reagan hanno sanato.

In questo senso il ’68 non si sbagliò nell’individuare nella battaglia del Tet una svolta, un segno che mostrava come la vittoria non dovesse necessariamente arridere sempre ai più forti, ai più armati, ai più ricchi. E questo segno fu molto importante per un movimento che aveva ricevuto, come si è cercato di mostrare qui, molteplici apporti di idee e di interpretazioni che tutte — pur con le loro contraddizioni e i loro limiti — coincidevano nell’affermare che l’ordine di potere nel mondo poteva essere rovesciato, poteva essere invertito, poteva essere cancellato e sostituito da un altro ordine. E il °68, forse con speranza o forse confondendo spesso mutamento esistenziale con mutamento strutturale, mutamento delle proprie condizioni private con mutamento delle condizioni dell’umanità, a modificare il mondo ci provò: e — guardando alla realtà di oggi con gli occhi di coloro che videro la triste Italia, la plumbea Europa.degli anni cinquanta — ci riuscì anche, almeno in parte.

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ATTRAVERSO LE INTERPRETAZIONI DEL MAGGIO FRANCESE di Bruno Bongiovanni

C’è chi ha autorevolmente affermato che per conoscere un fenomeno che si dispiega dentro la società, anche strettamente contemporaneo anche non esaurito nella sua intrascendibile dinamica effettuale, occor-

re preliminarmente scriverne la storia. Sembra l’uovo di Colombo. Del maggio francese, tuttavia, esistono già numerose ed esaurienti cronistorie e sono altresì reperibili parecchie e anche ponderose raccolte di documenti,

di cui almeno

una, Journal

de la Commune

étudiante

di

Vidal-Naquet e Schnapp, veramente straordinaria ed eccellente, oltre che eccezionalmente tempestiva. Senza contare i famosi graffiti, la prise anonima e collettiva de la parole, la creatività espressiva materializzatasi sui muri e nelle strade, e i manifesti dell’ Atelier populaire dell’École nationale des beaux-arts in rivolta, venduti malinconicamen-

te all’incanto nel maggio 1988, occasione della talvolta mercantile celebrazione ventennale; anche questi suggestivi e fascinosi documenti, che hanno fondato una nuova estetica e una nuova poetica della secessione sociale, sono stati più e più volte pubblicati e commentati. C’è persino un arduo e vertiginoso studio lessical-politico e linguistico dal titolo Les tracts en mai 1968: in questo testo i volantini vengono analizzati, nelle loro varianti e nelle loro costanti, con la stessa cura che si

potrebbe riservare ai reperti più preziosi della poesia provenzale. A questo punto, ormai compiuto da più parti il doveroso e talora zuccheroso omaggio ai sussulti e agli imperativi della nostalgia, non si tratta solo di ricostruire microstorie scritte e orali, di inventariare, di accumulare, di scavare nell’esuberante e talora narcisisticamente esibita so-

vrabbondanza di testimonianze: si tratta piuttosto di capire, o quantomeno di cercare di capire, sfoderando magari, con tutta l’umile acribia che è necessaria e con tutti i rischi che la cosa comporta, quel-

l’ineludibile fatica del concetto senza la quale difficilmente la seducen-

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te, ma eterogenea frammentarietà delle storie riesce ad assumere l’irrinunciabile silhouette, certo mai presuntuosamente e perentoriamente definitiva, della storia. Il modo migliore per tentare di comprendere il significato storico del maggio francese è prestare la massima attenzione alle interpretazioni che, con sorprendente rapidità, ne sono state date. Edgar Morin, in un articolo del 1986 su Pouvoirs, ha ben messo in evidenza che le interpretazioni si sono spesso presentate nella forma binaria dell’alternativa semplice: il maggio è stato, di volta in volta, un evento deterministicamente necessario, un incidente aleatorio, una crisi di civiltà, una

banale crisi politica un po’ più agitata del consueto: è stato un gioco, una festa, un divertissement, un carnevale, ma anche una faccenda terribilmente seria e per taluni addirittura tragica: è stato infine una rivoluzione e un’irriverente e irresponsabile parodia della rivoluzione. L’enigmaticità del fenomeno non è stata dissolta nel volgere degli anni seguenti, anzi è stata accresciuta dal tracollo clamoroso e forse irrever-

sibile delle teorie onniesplicative e dei grandi, arcigni e rassicuranti racconti ideologici tradizionali. Quel che resta, come residuo insormontabile, è un evidente elemento di sorpresa e di incongruità che si traduce nella diffusa consapevolezza di un’irruzione difficile da spiegare, ma tale da esprimere una vistosa breccia non più cancellabile nel corso del mondo e non solo nel pur tormentato percorso storico francese. Il maggio, così folto, nel tempo breve, di eventi eccezionali, è infatti — tutti lo sanno — l’episodio centrale di un fenomeno per sua natura internazionale: di questo fenomeno, il cosiddetto ’68, è il punto d’arrivo, il culmine estremo e probabilmente

anche l’inizio della parabo-

la discendente. Cercherò poi di rendere conto di quest’ultima affermazione. Veniamo ora alla vicenda delle interpretazioni, formulate in buona parte mentre gli eventi si svolgevano e nei mesi immediatamente successivi. La prima interpretazione, la più ovvia e la più rozza, ma non priva di indiretti corollari che molto fanno pensare, è quella del complotto, e anche della congiura internazionale. Lo stesso De Gaulle dichiarò senza mezzi termini, il 30 maggio, che si voleva costringere la Francia a rassegnarsi a un potere che si sarebbe imposto nella disperazione nazionale: questo potere avrebbe avuto il volto del comunismo totalitario. Nei mesi e negli anni successivi, De Gaulle e Pompidou ripresero questo giudizio, in effetti assai poco chiaro. A chi si alludeva parlando di comunismo totalitario? Alle potenze dell’Est? Al partito comunista? Ai groupuscules rivoluzionari di varia ispirazione? Si può pensare, certo, a una valutazione dettata da una sorta di demagogico

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese î)

opportunismo elettoralistico, ma alcune stranezze permangono. De Gaulle si trovava in Romania nei giorni più caldi dell’ascesa del movimento. E non ritenne opportuno rimandare o ulteriormente accorciare il viaggio. Il Pcf, a sua volta, diede inequivocabili esempi di grande moderazione, e, come si suol dire, di senso di responsabilità. Quanto agli

studenti, essi vennero definiti dal generale con l’epiteto chiendit, un’espressione destinata a rimanere celebre. Tutti, il giorno dopo, sfogliarono febbrilmente i dizionari di lingua francese. Poteva però una carnevalata goliardica, chiassosa e rissosa, mettere in crisi la grandeur della Francia gollista? Dalle evidenti aporie di questa improvvisata interpretazione, cui prestarono fede alcuni arditi specialisti di «storia segreta», un genere letterario, a metà strada tra il melodramma e l’enigmistica, che ha spesso appassionato i francesi, emergono spontaneamente alcune considerazioni. I vertici dell’esecutivo della V Repubblica si erano infatti sentiti talmente al riparo da ogni contestazione da sottovalutare incredibilmente l’avvenimento, ritenendolo evidentemente e seriamente niente più che una fastidiosa e birichina mascherata. Una faccenda cioè che poteva essere risolta dalle sole autorità di polizia. Il primo ministro Pompidou era stato del resto assente, per un viaggio in Afghanistan, dal 2 all’11 maggio: De Gaulle, già lo si è detto, non aveva voluto rinunciare al suo viaggio in Romania dal 14 al 19 maggio. E la sera del suo ritorno, mentre la Francia si stava paralizzando, non aveva trovato di meglio che dichiarare, con la sbrigativa sinteticità che è virtù dei monarchi: «La réforme, oui, la chienlit, non».

Il movimento studentesco, messosi in moto a Nanterre il giovedì 2 maggio, aveva saputo estendersi e irradiarsi in tutti i settori della società civile con sorprendente e incredibile rapidità: questo processo, che aveva avuto il suo momento culminante negli scontri della notte tra il 10 e l’11 maggio e che aveva innescato, proprio dopo la partenza di De Gaulle, un movimento di scioperi nelle fabbriche e negli uffici pubblici e privati, sembrava non avere l’eguale nell’Occidente contemporaneo, eppure si era trovato di fronte un potere visibilmente incredulo,

distratto, soddisfatto di sé, arrogante, ottuso, addirittura assente, anzi presente, senza ulteriori mediazioni politiche, con le sole forze della repressione. La rapidità e la fantasia del movimento studentesco colsero dunque di sorpresa il potere, ma la rigidità assenteista del potere stesso, caratterizzato in quei giorni secondo Castoriadis da una sorta di bétise pompeuse, favorì indubbiamente in Francia l’eccezionale capacità del movimento studentesco di effettuare sorprendenti déplacements, di occupare ardimentosamente lo spazio della società civile, di investire con imprevedibile energia i sentimenti e le ragioni di larghi strati sociali, di

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conquistare infine questi ultimi all’idea della necessità di un ’improvvisa e tenace resistenza contro l’autoritarismo, la burocratizzazione e l’evidente e onnipervadente ottusità pomposa della società politica. La teoria del complotto svela dunque le carenze in fatto d’immaginazione di un potere messo in grave difficoltà da chi sostiene appunto che al potere debba andare proprio l’immaginazione. Sino alla fine del

mese, infatti, l’esecutivo non sembrerà in grado di riaversi dalla sua stupefatta immobilità. Dopo due settimane di affannoso smarrimento reagirà però in modo energico ed efficace: il 29 maggio, com'è noto, il generale effettua il famoso e inquietante viaggio a Baden Baden, dove incontra Massu; il 30 maggio torna a Parigi, proclama la necessità di un’action civique contro il complotto totalitario e. nella serata stessa un’imponente manifestazione gollista di diverse centinaia di migliaia di persone si muove, come un pachiderma che ha ripreso improvvisamente sicurezza nei propri mezzi, da Place de la Concorde all’Etoile. De Gaulle proclama allora, con lodevole sobrietà: «Je reste, je garde Pompidou». Tutti i giornali riporteranno queste cinque significative parole. Il 31 maggio il governo Pompidou subisce un rimaneggiamento, l’assemblea nazionale viene sciolta e nuove elezioni vengono indette per il 23 e il 30 giugno. Non manca chi fa riferimento a un’ennesima epifania del 18 brumaio. Nel lungo week-end di Pentecoste, che va dall’1 al 3 giugno, vengono progressivamente riaperte le stazioni di servizio che distribuiscono

la benzina.

La Francia, lentamente,

rico-

mincia a muoversi: le strade vengono invase da lunghi cortei di automobili unifamiliari che evadono dalle città paralizzate. Il mese di maggio è finito, anche se le prime settimane di giugno saranno tutt'altro che pacifiche e tranquille. E ora interessante notare che quando il potere gollista comincia a destarsi dall’intorpidimento suicida, pur non rinunciando al possibile uso della forza, come sembra suggerire il viaggio a Baden Baden, scende sullo stesso terreno dei propri avversari, non si sottrae al potente incantesimo delle simbologie di massa e organizza, con una rapidità anche questa stupefacente, una ben compatta e intatta Francia di destra. Alla testa del corteo sugli Champs Elysées si nota l’ex compagnon de route dei comunisti, lo scrittore e ministro gollista André Malraux, l’uomo che aveva fatto battere i cuori della generazione più anziana additando gli abissi della «condizione umana». Tutto ciò che era cominciato in un campus periferico, a Nanterre, si conclude al canto della Marsigliese davanti all’ Arc de Triomphe, nel

centro di Parigi. La teoria del complotto, del resto, era stata fatta propria anche dall’Humanité: in un precoce articolo del 3 maggio, Georges Marchais, dopo avere sottolineato la nazionalità tedesca di

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

Cohn-Bendit, aveva infatti fatto presente che «questi falsi rivoluzionari devono essere energicamente smascherati perché, obiettivamente, essi servono gli interessi del potere gollista e dei grandi monopoli capitalistici». Nell’avverbio objectivement, grandioso marchingegno e liturgico passe-partout della vulgata marxista-leninista, è ravvisabile, sul pia-

no formale, l’unica differenza effettiva tra la delatoria lettura del fenomeno offerta da Marchais e la sbigottita denuncia di De Gaulle. Marchais, però, interviene sedici giorni prima. Un’eternità, date le circostanze. A questo punto, però, è bene abbandonare il parossismo del tempo breve e vedere come, nel tempo più lungo, si trasformi la teoria del complotto e come, del pari, si transustanzi in una teoria genealogica degna della massima attenzione e per nulla sottovalutabile. La vicenda del terrorismo e la lunghissima stagione dell’emergenza hanno in parte impedito a questa teoria di proliferare esplicitamente in Italia e anche in Germania. In Francia, per dirla rudemente, si è invece insistito da più parti, con ammiccante e malcelata malignità o con seriosi e sussiegosi sociologismi, sul fatto che il maggio è stato il crogiuolo e il viatico per la formazione di una classe dirigente di tipo nuovo, che è scesa nelle strade nei suoi anni tardo-adolescenziali per farsi strada nella vita e per trovare una rapida scorciatoia, in fatto di carriere, dentro una società assai chiusa e spietatamente egemonizzata dalla generazione emersa nell’immediato dopoguerra, da una generazione che nel ’68 può apparire, mi si scusi l’ossimoro, una gerontocrazia ancora giovane. Il maggio francese è stato il primo termine di quel periodo che Pascal Oru ha definito l’entre-deux-mai: il secondo termine è naturalmente il maggio 1981 che ha dato vita a quelle années Mitterand che tuttora durano. Se si accetta questa partizione, sarebbe però più corretto parlare di punto mediano all’interno di un altro entre-deux-mai, il cui primo termine è identificabile con il 13 maggio 1958 e con l’avvento al potere di De Gaulle. Irrigidendo l’esecutivo e selezionando un personale politico e amministrativo piuttosto ristretto, De Gaulle, insediatosi, va ricordato, in circostanze drammatiche ed eccezionali, ha reso più diffi-

cile il ricambio generazionale. Il maggio ha dato uno scossone a una situazione stagnante, ha rimesso in moto la società francese e ha espresso una nuova élite che si è lentamente e parzialmente affermata nella politica, nel management, nelle professioni e soprattutto nella cultura, nell’università, nell’industria editoriale, nei mass media, nel giornali-

smo. Un pamphlet graffiante, con al centro personaggi come Regis Debray e il direttore di Libération Serge July, è stato scritto nel 1986 da Guy Hocquenghem, lo scrittore stroncato dall’ Aids nell’estate del

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1988: il titolo di questo pamphlet, allegramente dissacratorio, è Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary. In Hocquenghem prevale un’indignatio mordace e rancorosa, ma molti in Francia hanno insistito, e non sempre in modo negativo, sulle promozioni politiche e sociali avvenute nell’apparentemente grigia transizione dalle années de réve alle années de poudre. Sul piano della sociologia politica, è emersa una versione generazionale della teoria delle élite: quando, infatti, la vecchia élite è sorda alle richieste di mutamento, ecco che allora si rende possibile, anche se non necessaria, un’azione di massa pilotata da

una nuova élite, ancora non strutturata come tale, che negli anni a venire potrà raccogliere, certo in modo parziale, i frutti originariamente acerbi della sua azione. Nel tempo breve il suo generoso e utopistico massimalismo viene sconfitto, ma nel tempo lungo (in questo caso un quindicennio) il suo astuto e probabilmente inconscio minimalismo viene largamente soddisfatto. Anche in Italia, pur in minor misura, questo fenomeno ha avuto luogo. Ma se n’è parlato poco. L'attenzione spasmodica di tutti era drammaticamente distratta dalle contorsioni assassine delle variabili impazzite. C’è un’altra variante della teoria delle élite applicata al maggio. Questa variante respinge l’interpretazione del maggio come rito iniziatico di una generazione che si addestra a diventare classe dirigente e introduce direttamente, come beneficiari diretti della caccia ai posti di prestigio, i cosiddetti fratelli di poco maggiori, quelli che in Italia, in tutt'altro contesto e per tutt’altre ragioni, sarebbero stati chiamati i «cattivi maestri»: d’altra parte, in Francia, da Barruel a Bonald sino a Cochin, c’è tutta una robusta tradizione di pensiero controrivoluzionario, in origine royaliste e cattolico, che s'impegna ad addossare, non senza penetrante lucidità, la responsabilità di tutto, secondo uno schema genealogico, a Voltaire, a Rousseau, insomma agli intellettuali, agli eterni manipolatori delle virtù sorgive del buon popolo di Francia. Il maggio, secondo alcuni, sarebbe quindi opera della generazione che nel ’68 aveva tra i trenta e i quarant'anni; assistenti impazienti che volevano diventare professori, intellettuali di secondo rango pronti a cogliere la propria occasione, personaggi frustrati che nulla avevano potuto lucrare dall’ordine e che ora tentavano la carta del disordine. Costoro hanno cavalcato la tigre della rivolta studentesca, hanno in-

fiammato gli animi con brandelli di retorica semplicistica (si pensi alla lettura fornita da Taine del fenomeno giacobino); hanno infine giocato

al rialzo diffondendo freddamente un estremismo cerebrale che è stato accolto con caldo entusiasmo dalla gioventù radicale, che in questo caso fa le veci del sempre ingannato Jacques le Bonhomme. I suscitatori

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

disincantati di incanti hanno poi abbandonato i loro seguaci ipnotizzati e hanno intrapreso un cammino ben diverso. Ora, come si vede, la teoria delle élite, che implica paretianamente una sempiterna circolazione delle élite, si sposa con la teoria del complotto. Nel 1964, del resto, era uscito in Francia un libro destinato ad avere

una notevole fortuna, Les héritiers di Bourdieu e di Passeron. La tesi sostenuta era abbastanza elementare e non del tutto inattesa: un arduo e sofisticato meccanismo esplicativo d’ordine sociologico era esibito al fine di dimostrare che i giovani provenienti dagli ambienti socialmente più agiati godevano di maggiori opportunità nel compimento degli studi superiori. Si appurò poi, con altri studi statisticamente documentati, che la cosa, pur ovvia, non era del tutto vera: i giovani che partivano con il piede giusto, gli héritiers appunto, arrivavano più facilmente agli studi superiori e avevano una sicurezza decisamente maggiore di trovare o ereditare un buon posto dopo tali studi, ma il loro rendimento universitario non era affatto migliore, anzi spesso nettamente mediocre se confrontato con quello di coloro che non erano figli di papà. In ogni caso, l’élite ormai ampia e tendenzialmente policlassistica che nel maggio stava compiendo gli studi superiori, l’élite frutto ormai maturo del baby boom demografico del dopoguerra, sfidò la ristretta élite del potere accademico, politico, amministrativo ed economico-finanziario.

Il potere, in Francia non meno che in Italia, seppe vincere, con non poca fatica, sul piano dell’ordine pubblico e su quello politico, e poi, più o meno consapevolmente, anzi con iniziale visibile malumore, annegò, favorito dalla brutale pressione delle circostanze, la brillantissima e fantasiosa élite allargata del maggio nella voragine sempre più profonda dell’università di massa: allargò cioè ulteriormente la base sociale di coloro che entravano nell’università, slabbrando e rendendo irriconoscibili i già policlassistici confini dell’élite soixante-huitarde, la quale,

come tale, si dissolse soprattutto dopo il ‘73, quando una situazione economica resa difficile dalla recessione, dallo choc petrolifero e dall’inflazione cominciò a impedire un’agevole reperibilità di posti di lavoro adeguati agli studi superiori. Secondo l’interpretazione del maggio come scuola che addestra alla cooptazione nella classe dirigente, o, meglio, come scuola che contribuisce a creare una nuova classe (si pensi alle pur elementari notazioni di Milovan Gilas sul «comunismo»), i più svegli e i più disinvolti tra i membri dell’élite ancora ristretta del maggio utilizzano, più o meno

consapevolmente, il patrimonio d’istruzione acquisito grazie al fatto di avere fatto studi in un’università non ancora massificata e utilizzano inoltre la capacità di movimento, l’allegra sfrontatezza, il feroce e fe-

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Bruno Bongiovanni

condo settarismo, l’etica del lavoro politico fatto in comune, per farsi strada nella vita, per emergere e per dimostrare di essere, da una parte, più brillanti e intellettualmente più moderni degli anziani e, dall’altra, più colti e meno ingenui dei nuovi giovani. Ciò non toglie che nel maggio, e già nel periodo precedente, l’élite allargata, ma anteriore alla massificazione degli anni settanta, si sentisse sinceramente e giustamente perseguitata e bloccata in tutte le sue aspirazioni e nelle sue pulsioni alla creatività e all’innovazione. La giovinezza tornava nuovamente ad essere un mito e la frase forse più citata, anche dai giornali, era quella di Nizan, lo scrittore dell’entre-deux-guerres rilanciato da Sartre: «Javais

vingt ans. Je ne laisserai personne dire que c’est le plus bel àge de la vie». Sembrava a tutti una sciabolata estremamente trasgressiva, era invece profondamente consustanziale con lo straziante romanticismo degli sguardi di Jean Gabin nei film sceneggiati da Jacques Prévert alla fine degli anni trenta e coevi appunto agli scritti di Paul Nizan. Si arriva così a una delle tesi più radicali nell’ambito di questo filone interpretativo, che, come tutti avranno avuto modo di rilevare, contiene non pochi elementi di aspra verità. È la tesi espressa da Gilles Lepovetsky in L’ère du vide. Essai sur l’individualisme contemporain, un libro pubblicato nel 1983 e poi ristampato nel 1988. Il maggio ’68, con tutto il suo avventuroso eudemonismo, il suo nichilistico sensuali-

smo, il suo gusto adolescenziale per lo sberleffo dissacratorio, ha aperto la via all’edonismo individualistico degli anni ottanta. D'altra parte, dopo la celebre frase di Saint-Just, citata nel maggio, «La félicité est une idée nouvelle en Europe», c’era stato il dispiegarsi dei più sfrenati ed egoistici appetiti termidoriani e borghesi. Fra stato però necessario tagliare la testa di Saint-Just, un fautore rigorosissimo, tra l’altro, dell’austerità repubblicana. È una fortuna che la transizione sia stata soft e che non sia stato necessario tagliare la testa di Cohn-Bendit per arrivare ai rendez-vous amorosi con il Minitel, all’arrivismo e all’attivismo degli yuppies, al crescente successo sociale dei funzionari postmoderni (o neobarocchi, poco importa) dell’effimero protezionisticamente amministrato e neppure illeggiadrito (come un tempo accadeva) dal sorriso accattivante della bohème, insomma alla superstizione neoliberista, assai più culturale che economica, di un’epoca rampante segnata forse (forse) dallo spirito del capitalismo, ma certo non dall’etica protestante.

E senz'altro difficile negare che la nuova classe nutrita dai valori individualistici degli anni ottanta abbia attraversato il fiume in piena del ’68: d’altra parte, l’eudemonismo del joli mai, è doveroso aggiungere, si saldava con il solidarismo e con una forte carica idealistica,

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese dna init

antigerarchica e antiautoritaria. Sono semmai altri fenomeni, all’edonismo solo parzialmente contigui, come il tronfio leaderismo enfatizzato e moltiplicato dai mass media, la piccola, ma appagante volontà di potenza che si ricava parlando in un’assemblea gremita, il microcesarismo supponente che emerge inevitabilmente in ogni esperienza pratica di democrazia diretta, l’ineludibile tecnica organizzativa e manipolatoria che si apprende nello sbrigare le incombenze della vita quotidiana in una situazione politicamente fuori del comune, che, in-

contrandosi e scontrandosi con l’urgenza della competizione carrieristica e sociale che è tipica delle società contemporanee (tanto più tipica quanto più queste società si avvicinano al formalismo egualitario e alla disponibilità di opportunità pari per i famosi «due terzi» non 0ssessionati dal bisogno materiale immediato), hanno aperto la strada all’età del vuoto. Un altro libro, ben scritto, ma francamente mediocre, La pensée ‘68 di Ferry e Renaut, ha insistito sull’antiumanismo di alcuni grandi maftres-à-penser che avrebbero insinuato nel movimento i germi di tutto ciò che sarebbe venuto dopo: gli intellettuali a cui qui si fa riferimento sono i teorici della morte del soggetto, i protagonisti della stagione cosiddetta strutturalistica, soprattutto Althusser, Foucault, Lacan, ma an-

che Lévi-Strauss e Barthes. Se l’uomo non esiste più, se il soggetto si rivela una menzogna della moderna ragion pratica, è evidente che l’individuo smarrisce il suo sostanziale ancoraggio etico e si trasforma in un insieme disordinato di strategie, di pulsioni, di intenzionalità autoteliche, di razionalità senza scopo. E siamo così nuovamente all’individualismo, una pianta che attecchisce quando l’individuo perde la propria ontologica dignità. In realtà, come ha sottolineato Castoriadis ancora su Pouvoirs nel 1986, i teorici della morte del soggetto non sono in nessun modo gli ispiratori occulti o palesi del ’68 francese. Rappresentano invece, in modo certamente critico e con vigore intellettuale, qualunque sia il giudizio che di loro si vuol dare, la tendenza che sembrava prevalere negli anni sessanta e che è stata perfettamente descritta, con entomologica

esattezza, in uno

straordinario romanzo

di

Georges Perec uscito nel 1965, Les choses: in questo romanzo due pubblicitari vivono la loro ascesa sociale e tale ascesa, che non ha nulla di prometeicamente e febbrilmente balzachiano, noi la conosciamo non attraverso i loro soggettivi pensieri, ma attraverso il minimalismo delle strategie sociali messe in atto e soprattutto attraverso gli oggetti di cui si circondano. Come si vede, il cosiddetto clima postmoderno e la sudditanza del pensiero che programmaticamente si rende debole di fronte all’onnipotenza abbacinante delle cose erano fenomeni presenti alle co-

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4

SUE RIVE

| Bruno Bongiovanni

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scienze (peraltro critiche) degli anni sessanta. Il maggio, tuttavia, siè posto anche in polemica rovente con questa situazione di fatto e si è nutrito di un anticonsumismo talora prevalentemente ideologico, talora apertamente moralistico, populistico, insopportabilmente e comodamente terzomondistico, ma nondimeno eticamente reale. Le cose (/es choses) non avevano ancora vinto, il pensiero non era ancora dimidiato

e mutilato (aut «debole» aut «forte») e le dotte dissertazioni della cosiddetta Frankfurterschule sulla società eterodiretta avevano ancora piena cittadinanza. Tanto è vero che si è anche parlato del ‘68, non senza qualche ragione, come di una rivoluzione conservatrice e tardoumanistica, vale a dire come di un movimento di resistenza del mondo

giovanile e studentesco all’inserimento nelle responsabilità della civiltà industriale: è un’interpretazione simile, fatte le debite distanze, a quella

che del fascismo e del bolscevismo hanno fornito in Italia due studiosi come Piero Melograni e soprattutto Domenico Settembrini. La società industriale richiede infatti impegno, competizione, etica della responsabilità, insomma un atteggiamento razionalmente adulto e non immaginosamente adolescenziale davanti alla vita. L'unica rivoluzione del mondo moderno è del resto quella industriale: tutti i movimenti che non l’assecondano in toto anche dal punto di vista dei valori professati, sono in realtà controrivoluzionari. Quanto al gollismo, esso è stato, a ben vedere, un ben strano regime. Rigido sul piano istituzionale, autoritario e paternalistico su quello sociale, verbosamente grandiloquente nel suo patriottismo neobonapartistico, esso, nel decennio

1958-68, nel primo entre-deux-mai, ha

fatto fare alla Francia contadina dei vecchi notabilati un balzo in avanti sul terreno economico-sociale che la Francia stessa non aveva mai in precedenza compiuto. Si parlava di tecnocrazia, si effettuava una sorta di programmazione economica, si snelliva e si potenziava la pubblica amministrazione, si tentava un’avventurosa politica monetaria e si praticava un'originale politica estera. Il paesaggio sociale della Francia stava cambiando in profondità, sotto la guida di un anziano generale conservatore, come mai era cambiato in un arco di tempo così breve. Ampi settori della società civile, intellettuali studenti ed operai, spaventati dai mutamenti in atto, delusi nelle speranze a breve termine, sottoposti al potere accademico e soprattutto al blocco dei salari, si ribellarono contro l’avanzata trionfante e apparentemente inarrestabile di una modernità certo reale, ma resa inaffidabile dall’aura ideologica arcaicizzante che circondava la figura di De Gaulle e lo stesso burbanzoso decisionismo istituzionale e presidenziale della V Repubblica. L’inquietante e secolarizzatrice tecnocrazia efficientistica

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

era dunque l’altra e scintillante faccia della bétise pompeuse di cui si è parlato in precedenza. Grazie a quanto si è detto sinora è possibile forse far luce su altre interpretazioni e mostrare come tutte contengano qualcosa di vero e purtuttavia non vadano accolte nella loro insularità perché un evento complesso può essere colto solo da una lettura complessa. La prima e la più ovvia di queste interpretazioni relega all’interno dell’apparentemente asfittica università francese le ragioni dell’esplosione del maggio. Abbiamo infatti davanti a noi, nel secondo dopoguerra, una storia di riforme inefficienti e una popolazione studentesca che è cresciuta dalle 135.000 unità del 1950 alle 587.000 del 1968 e che è quindi quasi quadruplicata in poco più di un quindicennio: abbiamo infine, se si vuole tornare al problema degli ufficiali più anziani della truppa contestatrice, un netto rovesciarsi, in termini abbastanza clamorosi, delle

proporzioni tra professori di serie A e professori di serie B: nell’università francese i professeurs e maîtres de conférences, nel 1956-57, sono il 56% e i maîtres-assistants e assistants sono il 44%, mentre nel

1963-64 i primi, dopo cinque anni di regime gollista, sono appena il 33%, laddove i secondi sono diventati il 67%. Il quinquennio iniziale del gollismo ha infatti visto un reclutamento negli strati inferiori della docenza universitaria di quasi 8.000 unità, una crescita indubbiamente spettacolare. Non va comunque passato sotto silenzio il fatto che il luogo fisico da dove è partita la rivolta universitaria è stata la facoltà di Lettere di Nanterre, sicuramente la più aperta e la più liberale del paese. Un fenomeno, quest’ultimo, che indubbiamente fa riflettere e che è in tutto e per tutto simile a quel che è accaduto negli Stati Uniti. L'ampiezza dunque del movimento e la sua capacità d’investire l’intera società civile difficilmente possono essere spiegate, anche se il tentativo è stato fatto, con la volontà di portare risolutamente a termine, sia pure in modo antiautoritario, la riforma incompiuta dell’università. Ci si avvicina di più al cuore del problema se si prende di petto la galassia studentesca e la si osserva come cassa di risonanza e come avanguardia della nebulosa giovanile. Già nel 1966, un denso e sapido pamphlet dei situazionisti strasburghesi, dal titolo De /a misère dans le milieu étudiant, aveva individuato uno spazio sociale franco, libero da impegni di lavoro, non sottoposto alle durezze e all’ansia del principio di prestazione: questo spazio è quello studentesco e nella società contemporanea, per ragioni demografiche e di turn over, oltre che mercantili e consumistiche, esso viene decisamente allargato ed esteso. In questo modo l’adolescenza, questo febbrile stato intermedio, questa ambigua terra di nessuno che non accetta facilmente imposizioni, ora indif-

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Bruno Bongiovanni

ferente, ora manifestamente accidiosa, ora invece ribelle e prodigiosamente iperattivistica, viene prolungata nel tempo. Gli studenti sono tanti, generalmente ben pasciuti e ora vivono la loro condizione per un periodo assai più lungo che in passato: hanno così il tempo e anche lo spazio per demolire i valori, compresi quelli d’uso e di scambio, su cui si fonda l’assetto sociale. Nutriti dal sistema, sono una bomba ad orologeria inserita nel sistema perché sfuggono o possono sfuggire alle regole e alle norme che devono essere osservate dagli adulti. Si ha così un primo abbozzo di una teoria del detonatore, vale a dire di una teoria del movimento studentesco inteso come miccia destinata a fare esplodere tutto l’organismo sociale. Negli articoli pubblicati su Le Monde tra il 17 e il 21 maggio 1968 e poi raccolti nel volume dal titolo Mai 68. La Brèche suivi de vingt ans après, che contiene anche saggi di Castoriadis e di Lefort, Edgar Morin parlerà di un «1789 socio-giovanile». La gioventù, in un frangente irripetibile che nel 1986 Morin definirà un’estasi della storia, aveva fatto irruzione dando vita a una curiosa «lutte de classes d’àge». Questa irruzione aveva

comportato

un nucleo

«communautaire-libertaire»,

che,

con esiti «anti-hierarchiques, anti-autoritaires et fraternitaires» aveva battuto il panpoliticismo organizzativistico e quei settori dei gruppuscoli che si richiamavano al patrimonio tradizionale della sinistra ortodossa o eretica. Si era dunque verificato ciò che il pamphlet strasburghese aveva predicato due anni prima: la gioventù studentesca aveva sfruttato in modo prodigioso tutte le chance di emancipazione universale che la stessa condizione studentesca suggeriva e favoriva. La «folla solitaria», di cui aveva parlato la sociologia pessimistica degli anni sessanta, è stata ricompattata dal detonatore studentesco e trasformata in «communauté fraternelle». L’atomismo sociale, su cui si fonda la vita civile moderna, è stato improvvisamente investito da un potente processo di risocializzazione messo in atto da chi in genere non produce nulla se non l’attesa di un futuro inserimento nella società. Ma perché tutto questo è avvenuto? Cosa è in realtà accaduto? Raymond Aron, in un’interpretazione tra le più celebri, contenuta in un libro il cui titolo è tutto un programma, La révolution introuvable, ha parlato di un non spiegabile accesso di febbre, di uno psicodramma collettivo, di un immenso défoulement: per un mese la Francia è stata preda di un gioco grandioso e di una maestosa finzione che è stata in grado di mimare nevroticamente il gesto improbabile del fantasma del mondo

contemporaneo,

vale a dire della rivoluzione.

I maestri

cui

Aron fa riferimento sono Gustave Le Bon, con la sua psicologia delle folle, e Vilfredo Pareto, con la sua teoria dell’irrazionalità profonda dei

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

12" FAINOÌ moventi primi dell’azione umana. Il maestro maggiormente presente nell’analisi di Aron è però Tocqueville: il 1968, infatti, è per lui soprattutto un’inopinata ripetizione, un evento che in realtà si fa notare per la sua assenza, esattamente come il 1848 era stato per Tocqueville un pericoloso gioco che aveva cercato di mettere in scena ancora una volta il 1789, un viluppo di circostanze che, a sua volta, per Tocqueville resta intrinsecamente misterioso nella sua effettualità evenemenziale dal momento che il suo senso ultimo è da ricercarsi nella continuità endogena e profonda di un processo che è stato iniziato da Richelieu e dal Re Sole. La rivoluzione, in altre parole, come tale non esiste, è solo un lievitare prepotente e assordante di rumore e di furore: quanto al 1968, esso, per Aron, altro non è che la caricatura di questo tragico vuoto che continua a non avere una scena pur continuando ad avere dei frenetici attori. La stessa interpretazione di Furet della rivoluzione francese, che

tanto ha fatto discutere, deve probabilmente qualcosa alle innegabili suggestioni dell’interpretazione del maggio fornita da Aron. Lo scatto iniziale del processo e il suo rapido estendersi restano, co-

me si vede, abbastanza enigmatici e, per spiegarli, si ricorre a marchingegni concettuali talora fascinosi, ma obbligati a chiedere udienza a moventi irrazionali o non spiegabili razionalmente. Non sono ovviamente mancate le più scontate spiegazioni in chiave psicoanalitica: si è infatti parlato del maggio come pretesto sociale per risolvere il disordine della famiglia contemporanea, come tentativo di sopprimere l’ordine del padre, come esplosione dell’economia libidinale troppo a lungo repressa. Non sono neppure mancate le interpretazioni, spesso epidermiche e superficiali, che hanno insistito sul potere socializzante della strada conquistata dai manifestanti, sulla festa e sul carattere gioiosamente ludico del movimento. A questo proposito, ma sollevando il problema

reale

dell’unanimismo

eclettico,

Jean-Marie

Domenach,

su

Esprit, ha parlato di un caleidoscopio che, come in un gioco in cui tutte le carte alla fine si equivalgono utilizza alla rinfusa Saint-Just e Che Guevara, Rimbaud e la banda Bonnot, Trockij e il surrealismo. Si è naturalmente insistito, da parte di alcuni laici e di non pochi cristiani, su una crisi di valori, su una rivolta spirituale contro una civiltà non più in grado, con tutto il suo edonismo materialistico e mercantile, di offrire

alcunché ai giovani. In un articolo rimasto giustamente famoso, e comparso ancora su Esprit, il grande teorico dell’umanesimo integrale cristiano Jacques Maritain ha sostenuto che la rivolta studentesca, pur non avendolo i giovani stessi compreso, è stata indirizzata contro «le vide, le néant complet de toute valeur absolue et de toute loi en la vérité». I giovani si sono ribellati, secondo Maritain, perché non sono stati anco-

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ra definitivamente colonizzati, perché non sono stati ancora annientati

da quella pratica costante di mentire a se stessi che è il perverso imperativo categorico della presente società: quella dei giovani è stata una giusta collera contro «le mal métaphysique qui se fait sentir dans les profondeurs de l’esprit». André Malraux, a sua volta, pur non avendo la nobiltà di pensiero di Maritain ed esibendo in cambio i toni oracolari di chi intravede i brividi e gli estetizzanti bagliori dell’apocalisse prossima ventura, aveva parlato di «démission de la jeunesse mondiale», di un accecamento causato da una disperazione subita senza reagire. Il maggio ’68, per Malraux, è stato un po’, ma senza risvolti positivi, come la morte di Dio per Nietzsche e il tramonto dell’Occidente per Spengler: una crisi profonda ed epocale di una civiltà. Arriviamo ora al conflitto di classe che si è inserito, a partire almeno dall’imponente manifestazione del 13 maggio, nella rivolta studentesca. Il 14 maggio, del resto, proprio il giorno in cui De Gaulle parte per la Romania, cominciano gli scioperi e le occupazioni dei lavoratori: il movimento sembra partire dalle officine della Sud-Aviation di Nantes. Tutta la Francia progressivamente si ferma. Il lunedì 20 maggio è già estremamente difficile trovare della benzina. Anche i lavoratori della Ortf, la radiotelevisione, entrano in sciopero. Che cosa sta succedendo? Il sociologo americano Ronald Inglehart, in un libro tradotto in italiano con il titolo La rivoluzione silenziosa, ha parlato di

esigenze materialistiche affiancate ad esigenze postmaterialistiche: una parte della società vuole migliori salari, una fetta più ampia del reddito nazionale, migliori condizioni di lavoro, una maggiore sicurezza sociale; una parte, invece, meno incalzata dai bisogni fisici, vuoi perché vive nel limbo studentesco, vuoi perché spesso proviene da situazioni familiari in cui le esigenze materialistiche risultano in parte già soddisfatte, si batte per quel che si comincia a definire una «migliore qualità della vita», il che si traduce nell’allargamento di tutte le libertà e nel rifiuto di ogni assurdo e inutile autoritarismo gerarchico. E, in effetti, rivedendo sul palcoscenico della storia la tanto attesa

forza proletaria, 1 groupuscules gauchistes, inizialmente soprattutto anarchici e trockisti, poi anche maoisti, inviarono le loro delegazioni in entusiastico e devoto pellegrinaggio davanti alle fabbriche; gli operai, pur dimostrando una certa simpatia per gli studenti dell’Unef e pur essendo consapevoli del fatto che la loro azione in qualche modo scaturiva dal detonatore

studentesco,

non

lasciarono

entrare i variopinti e

scalmanati gauchistes nelle fabbriche e non nascosero una certa diffidenza nei loro confronti. La parte materialistica e quella postmaterialistica agirono dunque contemporaneamente, nella seconda metà di mag-

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

gio, ma mai veramente insieme. Gli studenti, con sempre maggiore smarrimento, restarono padroni delle strade, mentre gli operai, fedeli per lo più al loro sindacato, si trincerarono orgogliosamente nel ghetto classista e claustrofobico della fabbrica. Gli studenti, del resto, pur accecati dall’avvento emozionante dell’indomito leone proletario, talvolta avvertirono con malumore la situazione che si era creata. Una frase tracciata nei corridoi del teatro dell’Odéon recitava: «Travailleur, tu as vingt-cinq ans, mais ton syndicat est de l’autre siècle». E in effetti la lotta di classe, pur facendo molta paura ai conservatori, era da questi immediatamente compresa: scioperi, occupazioni, delegazioni sindacali, aspri negoziati, la consueta dialettica tra le richieste e le offerte, e poi, il

27 maggio, gli accordi di Grénelle, la stessa successiva insoddisfazione della base, queste erano le tappe di un processo che i conservatori e il governo erano in grado quantomeno di comprendere e quindi, in qualche modo, di controllare. Per gli studenti, invece, e per l’insieme della società civile in misteriosa e tumultuosa ebollizione, la faccenda non era così semplice: in un discorso tenuto già il 10 maggio, l’allora ancor giovane Jacques Chirac confessava candidamente che era ormai impossibile capire che cosa volessero veramente gli studenti e che comunque le loro agitazioni, che stavano contagiando l’intera società, non avevano

nulla a che fare con gli sbocchi professionali, con gli impieghi e con il mondo del lavoro. Sembrava, d’altra parte, che gli stessi studenti non sapessero che fare del movimento che avevano contribuito, in modo decisivo, a innescare e che ora stava elettrizzando l’intera società civile.

Dovera la Bastiglia? Dov’erano le Tuileries? Les promenades nelle città paralizzate non fornivano risposte esaurienti a queste domande: l’arcaica e ottocentesca metafisica del potere, con le sue empiriche e concretissime legnate, ostacolava del resto i primi e non sempre soddisfacenti passi della microfisica del potere. Il sociologo Alain Touraine, nel libro Le mouvement de mai ou le communisme utopique, ha visto nel conflitto di classe un movimento di tipo nuovo che, riappropriandosi delle origini libertarie e democratiche del movimento operaio, ha condotto una lotta accanita contro la

tecnocrazia e contro le nuove gerarchie e le sofisticate alchimie dell’ordine sociale esistente. Come lo stesso Touraine espliciterà in seguito, con il saggio sulla società postindustriale, dove si riprendono temi già da anni affrontati negli Stati Uniti, anche l'Europa era entrata in una nuova civiltà, dominata dall’elettronica e dall’incremento massiccio dei servizi: il comunismo utopistico del movimento di maggio era, all’alba della nuova civiltà, quel che era stato il socialismo utopistico all’alba della società industriale. Ci si era trovati davanti all’ulti-

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mo conflitto di classe del vecchio mondo e, nello stesso tempo, davanti al primo del nuovo mondo: nel maggio vi era stata prima una rivolta, poi una speranza rivoluzionaria, infine una lotta sindacale. Quest’uItima aveva in definitiva prevalso perché il suo codice era comprensibile da tutti, era scritto in una lingua nota: nel contempo, però, avevano fatto la loro apparizione, nella dimensione nuova del conflitto esistente, le inedite potenzialità di emancipazione insite nella nuova società postindustriale. Non sono naturalmente mancate le interpretazioni che, arrampicandosi un po’ sugli specchi e individuando nel 1967 un anno congiunturalmente meno brillante dei precedenti, hanno creduto di ravvisare nel maggio un conflitto sociale di tipo tradizionale, in tutto e per tutto identico al volto che solitamente assume la lotta operaia. Per Waldeck Rochet, il capo del partito comunista, gli scioperi del maggio non hanno nulla di misterioso, sono una risposta alla politica apertamente filopadronale del governo gollista. Non hanno inoltre nessunissimo rapporto con l’agitazione estremistica degli sfaccendati frequentatori del Quartiere Latino e costituiscono il primo e già importante scontro del periodo dell’accelerazione della concentrazione capitalistica, il primo braccio di ferro tra i lavoratori e il potere dei moderni monopoli. Non ci si deve neppure stupire se, nell’ambito della non smilza pattuglia di quanti hanno visto nel maggio un conflitto tradizionale, non mancano quelli che, con non poche ragioni empiriche, vedono negli avvenimenti soprattutto una crisi politica, o, meglio, un conflitto sociale e culturale che, per la rigidità eccessiva del regime gollista, si è trasformato in una crisi politica generalizzata. Anche Raymond Aron ha sostenuto questa tesi a fianco di quella sulla rivoluzione introvabile. La Costituzione del ’58 e il presidenzialismo, per molti commentatori giuristi e politologi, si sono del resto rivelati clamorosamente inidonei ad effettuare una credibile opera di mediazione davanti all’insorgere dei normali conflitti sociali. Un’altra interpretazione, che ha avuto e ha molto fortuna per il caso italiano e che, negli anni ottanta, si è rive-

lata del tutto falsa in Francia, ha invece posto l’accento sulla pericolosità dell’assenza di una reale alternativa di sinistra: il sistema politico della V Repubblica, definito allora da Mitterand «colpo di Stato permanente», sarebbe stato escogitato per impedire alla sinistra l’ascesa al potere e questo fatto faciliterebbe il ricorso alla piazza onde rendere manifeste le esigenze dell’opposizione. Altre interpretazioni hanno inoltre messo in luce un concatenamento fortuito di circostanze, il potere di moltiplicazione dell’evento esercitato dall’impiego massiccio dei mezzi di comunicazione di massa, il peso preponderante della

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

situazione internazionale che avrebbe trovato in Francia, per ragioni strettamente politiche, il luogo deputato dove scaricare tutte le tensioni. I marxisti rivoluzionari delle varie tendenze, e anche gli anarchici,

hanno cercato, dal canto loro, di fornire un'interpretazione globale che potesse rendere ragione insieme della capacità sovversiva degli studenti e del muscoloso e confortante ingresso del classismo operaio. È nata così la teoria vera e propria del detonatore, ripresa in verità da molti osservatori non «marxisti», che ha individuato negli studenti rivoluzio-

nari una sorta di robusto preludio che è stato indispensabile per scuotere dal suo torpore la classe operaia e dal suo sonno dogmatico il sindacato. I rivoluzionari, in altre parole, avvertivano di essere preda di un’antica e paradossale sindrome: non potevano strutturalmente fare la rivoluzione, potevano però risvegliare la classe che era ontologicamente rivoluzionaria e che però, da sola, la rivoluzione non voleva, non poteva,

non sapeva farla. Naturalmente, la colpa di tutto ciò veniva addebitata al sindacato collaborazionista, agli sclerotizzati e riformistici partiti della sinistra (soprattutto a quello comunista, però, perché quello socialista allora era letteralmente allo sbando), ai burocrati opportunisti, ai rinnegati revisionisti, magari anche ai gruppi rivoluzionari di tendenza diversa e opposta. Alcune considerazioni conclusive a questo punto s’impongono. Innanzitutto, l’emergenza e la rapidità di espansione, nonché la forse irripetibile capacità di coinvolgimento dimostrata dal movimento studentesco, restano fenomeni parzialmente enigmatici. Tutte le interpretazioni che qui, con colpevole schematicità, sono state esposte, possono però aiutarci a fare non pochi passi avanti e soprattutto a pensare con serenità il maggio come evento complesso, polimorfo e polisignificante. È soprattutto indubbio che, nel tempo breve, la teoria del detonatore come causa efficiente, per quanto apparentemente rozza, non può in nessun modo essere messa da parte, anche se la causa finale del mo-

vimento innescato dagli studenti non può essere limitata alla sola classe operaia. Gli studenti si muovono e Parigi, città che tutto accentra e concentra, è uno scenario che favorisce il riprodursi allargato degli eventi: il moto studentesco colpisce a fondo il cuore, il cervello, l’im-

maginazione, i muscoli, i desideri, le speranze e le paure di tutta la società civile, che sembra diventare, essa stessa, per un breve e magico periodo, la classe universale di cui aveva parlato Marx nel gennaio del 1844. La classe universale però non è più veramente classe, è il varie-

gato e pluralistico melting pot di studenti, operai, impiegati, lavoratori immigrati, gente comune, donne e uomini che, per una brevissima sta-

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gione,si sono trovati, più nelle aspettative che nella realtà effettuale,

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miracolosamente solidali. La società civile, abbandonati gli egoismi che la percorrono e lo spirito competitivo che la lacera, si è trovata compatta e unita contro l’autoritarismo improvvisamente intollerabile delle istituzioni politiche del sistema economico e soprattutto dei codici consolidati di comportamento sociale. Il lungo week-end di Pentecoste, con il riapprovvigionamento delle pompe di benzina, ha nuovamente trasformato la prodigiosa «communauté fraternelle» in folla solitaria, in società di atomi centrifughi. Ognuno, come ha ricordato Castoriadis, è fuggito dal caos esaltante, ma faticoso, delle città, ed è partito con la sua automobile, con la sua famiglia, con il suo pesante fardello di irrisolti problemi personali. E bastato poco per spezzare l’incantesimo: questo deve essere ammesso. Qualcosa di irreparabile e di ancora più grave era però accaduto: la ricomparsa in forze della classe operaia aveva rimesso in circolazione il tumultuoso, entusiasmante, ma arcaico e ieratico mito della classe operaia stessa. I giovani rivoluzionari, ma non solo loro, cominciarono a vedere nel maggio, come aveva acutamente diagnosticato Aron, una messianica e redentrice ripetizione del ’93, del ’48, del ’71, del ’17. «La lutte continue» divenne

la parola d’ordine che sostituiva l’originario e più realistico «Ce n’est qu’un début». Marx, del resto, aveva scritto nel /8 Brumaio che il pas-

sato pesa come un incubo sul cervello dei viventi. E proprio il peso eccessivo dell’ideologia che, come una piovra, si è abbarbicata al maggio, è uno dei fattori che ne hanno a lungo reso difficile la comprensione: tutto ciò che sembrava sospingerci verso il futuro veniva dottrinariamente respinto nel passato dai sempre più dogmatici archeologi del classismo mitopoietico. Eppure le mentalità collettive che, non solo in Francia, ma in gran parte del pianeta, sono venute alla luce, hanno irreversibilmente trasformato il nostro modo di pensare la politica e di metterla in rapporto con le esigenze irrinunciabili e concrete della vita di tutti. Le ideologie sopravvissute e rivitalizzate dal mito classista del maggio e le mentalità emergenti si sono scontrate, avviticchiate, compenetrate: ciò che ne è scaturito ha prodotto generose confusioni, astratti furori, qualche furibonda sciocchezza, talvolta angosciose e irreparabili avventure. Le ideologie sembrano in un primo tempo avere avuto la meglio: in seguito, invece, con sollievo di noi tutti, hanno abbandonato il mondo, lasciandolo però desolato e facile preda dei suoi antichi oppressori, del fatuo e levigato nichilismo consumistico di questa fine di secolo. A ben guardare, però, le mentalità collettive, che nel 68 sono forse troppo precocemente e troppo rumorosamente sgorgate dal fiume carsico che

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Attraverso le interpretazioni del maggio francese

in precedenza le occultava, sono ancora lì e operano nel grembo profondo di una società ancora troppo feroce, ma un po’ più matura, un po’ più tollerante, un po’ più liberale e forse solo apparentemente assopita.

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IL MOVIMENTO STUDENTESCO DEGLI STATI UNITI di Alberto Martinelli

Le interpretazioni della protesta studentesca

Nella seconda metà degli anni sessanta, la protesta studentesca interessò paesi a diverso grado di sviluppo economico e sociale e con diverso sistema politico, dagli Stati Uniti all’ America latina, dall’ Europa occidentale alla Polonia e alla Cecoslovacchia, dal Giappone all'Indonesia. Tra le democrazie industriali dell’Occidente gli Stati Uniti furono il primo paese a sperimentare la protesta, che ebbe nel Movimento per la libertà di parola (il Free Speech Movement) dell’Università di California la sua data ufficiale di inizio. In ognuno di questi paesi il movimento degli studenti presentò sia tratti specifici riconducibili alle caratteristiche del sistema politico, al rapporto tra università e società e alla natura più o meno arcaica del sistema di istruzione superiore, sia tratti comuni, riconducibili al mutato clima dei rapporti internazionali tra le grandi potenze, alla cultura giovanile e alla condizione sociale degli studenti nelle università di massa e a fenomeni di imitazione amplificati dai mass media.

Numerose sono state le interpretazioni sociologiche della protesta e dei movimenti studenteschi. Le analisi della protesta europea sono più ideologicizzate e vanno dalle interpretazioni «di destra» come quella di Scheuch che la interpreta come prodotto di minoranze estremiste con una propria distinta subcultura che drammatizza le ambivalenze ideologiche di alcuni settori della borghesia !, alle interpretazioni «di sinistra» come quella di Touraine che, per contro, vede negli studenti i nuovi soggetti rivoluzionari che, trovandosi al cuore del sistema sociale, sono più legati all'apparato di crescita e di cambiamento e più direttamente contrapposti alla dominazione delle grandi organizzazioni po-

litico-economiche 2. 124

Il movimento studentesco degli Stati Uniti i

Negli studi sul movimento studentesco americano, più fondati empiricamente, prevalgono due tendenze interpretative, accanto a una terza tendenza minoritaria. In primo luogo, vi sono le interpretazioni che individuano la principale causa della protesta nelle disfunzioni delle istituzioni accademiche e in particolare della grande università di massa e nell’insoddisfazione degli studenti per le condizioni di studio e i rapporti di autorità esistenti. Sono il modo in cui le università sono gestite e le condizioni di vita e di lavoro all’interno di esse che scatenerebbero la ribellione degli studenti 3. Questo tipo di interpretazioni coglie alcuni elementi di verità, ma è criticabile per vari motivi. In primo luogo, le ricerche sull’attivismo studentesco mostrano in generale che gli studenti non erano particolarmente insoddisfatti della qualità dell’istruzione ricevuta e delle loro condizioni di studio nei campus. Inoltre, il rapporto della Canergie Commission sull’istruzione superiore americana mostra che l’incidenza del grado di soddisfazione nei confronti del proprio college nell’influenzare la protesta era molto minore di quella di altre variabili, prima fra tutte la propensione alla politica 4. E infine, le agitazioni più durature e significative ebbero luogo nelle istituzioni accademiche di maggior prestigio dove esistevano le condizioni migliori quanto a qualità dei docenti, strutture didattiche ed efficienza gestionale. Le variabili endogene concernenti il contesto accademico svolsero dunque un ruolo importante, ma che, come

vedremo,

non è tuttavia circoscrivibile al

grado di insoddisfazione degli studenti. La seconda linea interpretativa, che possiamo definire «culturale», pone invece l’accento sulla crisi di identità della gioventù americana, costretta a vivere in un ambiente impersonale e iperburocratizzato, in un periodo storico di grandi eventi drammatici, a cominciare dalla guerra in Vietnam. Emblematica a questo riguardo la metafora dello studente come «Ibm card» che veniva elaborata da un sistema impersonale su cui egli non era in grado di esercitare alcun controllo, che costituiva una delle metafore più care agli studenti contestatori 5. Anche questa interpretazione coglie una parte di verità, ma pecca di determinismo culturale nel senso che non riesce a cogliere il nesso tra eventi macropolitici, come la guerra in Vietnam e la rivolta nera, la crisi delle istituzioni americane a cominciare dalle grandi università di ricerca, e la protesta degli studenti. Un terzo approccio, minoritario, che risulta in un certo senso complementare ai due precedenti, è quello che sottolinea la dimensione più propriamente politica dell’attivismo degli studenti, nel duplice senso di ricercarne le cause primariamente nella natura del sistema politico e di

125

Alberto Martinelli

esaminarne i contenuti, le tattiche e le forme di mobilitazione del movimento. Queste varie linee interpretative identificano tutte elementi fondamentali di comprensione del fenomeno, ma vanno integrate in uno schema di spiegazione più ampio e articolato che sappia inquadrare la

condizione degli studenti nell’università di massa e gli atteggiamenti e i comportamenti tipici derivanti dalla loro appartenenza a una ben definita cultura generazionale e a una determinata fase del ciclo di vita in un’analisi del contesto prossimo, costituito dalle istituzioni di istruzione superiore, e del contesto sociale più ampio. La mia tesi di fondo è che il movimento e la protesta degli studenti siano stati l’espressione di una crisi delle istituzioni accademiche che era a sua volta il riflesso di contraddizioni e conflitti più generalizzati e profondi della società americana degli anni sesanta. E che proprio la centralità dell’istruzione superiore nel modello di sviluppo e nel sistema di potere americani e lo stretto collegamento tra università e società ha fatto sì che contraddizioni e tensioni generali si manifestassero qui prima che altrove £. Ho sviluppato questo modello interpretativo in una serie di studi culminati nel libro Università e società negli Stati Uniti, cui rinvio per un’analisi più approfondita e per una bibliografia esauriente”. Nei vent’anni che ci separano dal ’68 e dai miei primi studi sull’argomento e nei dieci anni che sono trascorsi dalla pubblicazione di quel libro non ho avuto motivo di modificare la mia interpretazione del movimento degli studenti americani che è scaturita sia dall’analisi scientifica di dati e documenti (dati statistici aggregati, risultati di indagini a campione, interviste in profondità, analisi del contenuto di documenti, ecc.) sia dall’osservazione di comportamenti collettivi nei mezzi di comunicazione di massa, sia dalla partecipazione diretta ad avvenimenti politici del periodo 1966-68 a Berkeley e in altre città americane. Questa relazione si fonda sul modello interpretativo che ho in precedenza elaborato e si propone di esaminare sinteticamente quattro questioni: la prima concerne le cause della protesta degli studenti nordamericani in una prospettiva comparata che colga gli elementi comuni e le diversità rispetto ai movimenti coevi e successivi delle altre democrazie occidentali; la seconda questione riguarda la spiegazione delle specificità più significative della protesta degli studenti nordamericani e cioè il suo carattere morale piuttosto che politico, il suo carattere tendenzialmente anti-ideologico e la sua diffidenza nei confronti dell’organizzazione e di una leadership stabile; la terza questione attiene alle ragioni del rifluire della protesta e della scomparsa del movimento degli studenti come soggetto politico nella società americana contempo-

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Il movimento studentesco degli Stati Uniti

ranea; e infine, l’ultima questione riguarda gli effetti a lungo termine del movimento sulla società e la cultura americana.

Il movimento degli studenti americani in prospettiva comparata La mobilitazione e la protesta degli studenti ha, come tutti i processi collettivi, una matrice complessa, in cui interagiscono fattori specifici legati al particolare contesto nazionale e locale e fattori più generali legati all’epoca storica, alla natura delle istituzioni coinvolte e alle caratteristiche dei soggetti collettivi che ne sono i protagonisti. Vediamo dapprima i fattori causali che il movimento degli studenti nordamericani ha in comune con i movimenti studenteschi degli altri paesi, o comunque con quelli delle altre democrazie occidentali. I tratti comuni sono riassumibili nella condizione specifica di studente in un determinato momento storico, e più precisamente nella condizione di studente in un mondo caratterizzato da un nuovo clima di relazioni internazionali e dall’avvento dell’università di massa. Una delle precondizioni fondamentali per l'emergere della protesta studentesca e la trasformazione delle relazioni internazionali tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta. La coesistenza pacifica o comunque l’attenuarsi della guerra fredda e l’equilibrio del terrore atomico tra le grandi potenze, diminuirono il grado di polarizzazione ideologica e politica tra diversi sistemi economico-politici e favorì la dialettica delle opposizioni all’interno dei due blocchi, riportando in primo piano i conflitti sociali all’interno della società. Nel periodo precedente, la rigida divisione in due blocchi a egemonia americana e sovietica e le conseguenti fratture ideologiche tra «democrazia» e «comunismo» avevano cristallizzato tutte le forze politiche e sociali, canalizzandole in un campo o nell’altro e lasciando poco o nessuno spazio all’espressione politica di esigenze e di idee che non rientrassero in questo schema prestabilito. La fine della guerra fredda e la stabilizzazione delle società uscite dal marasma politico della seconda guerra mondiale crearono il quadro di riferimento all’interno del quale si realizzò la socializzazione politica di una nuova generazione. I giovani che frequentavano le università negli anni sessanta non avevano un’esperienza personale degli effetti devastanti della seconda guerra mondiale (o nel caso degli studenti americani della depressione degli anni trenta), non erano cresciuti tra

privazioni e miserie. Essi avevano acquisito una coscienza politica in un periodo storico contrassegnato dalla crisi di legittimità dell’ordine

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Alberto Martinelli

politico, dal declino delle vecchie ideologie e dall’esplosione dei nuovi conflitti sociali e internazionali, come la guerra in Vietnam. Se la generazione postbellica era stata socializzata politicamente nel contesto delle tensioni tra Est e Ovest, il quadro in cui era cresciuta la generazione degli anni sessanta era costituito, da un lato, dai movimenti di liberazione anticoloniali del Terzo Mondo, e, dall’altro, dalle contraddizioni

e dai conflitti di un processo di crescita economica senza precedenti che aveva prodotto profonde trasformazioni sociali e aveva suscitato una rivoluzione delle aspettative. Negli Stati Uniti degli anni sessanta la fine della guerra fredda accelerò una crisi di legittimità delle istituzioni, permise cioè alle contraddizioni della società americana di essere

percepite, valutate e denunciate da intellettuali e minoranze sottoprivilegiate, senza la minaccia dell’ostracismo ideologico, senza il rischio di essere posti al di fuori della comunità nazionale. Un secondo ordine di fattori comuni riguarda l’aumento senza precedenti degli iscritti all’università che si ebbe nelle democrazie occidentali nel corso degli anni sessanta. Secondo i dati Ocse, tra il 1960 e il 1965 i tassi di incremento variarono dal 4, 2 al 16, 2% annuo nei paesi industrializzati. In alcuni paesi come l’Italia è in quegli anni che si passa dall’università di élite all’università di massa. In altri come gli Stati Uniti, dove un sistema di istruzione superiore di massa già esisteva, si verifica un ulteriore, forte incremento delle iscrizioni al college e all’università dovuto a un complesso di fattori, tra cui i più importanti sono il baby boom degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e il programma di potenziamento delle strutture della ricerca e dell’insegnamento superiore attuato negli Stati Uniti negli anni sessanta dopo il trauma del successo spaziale sovietico. L'aumento della popolazione studentesca aumentò gli elementi oggettivi di scontento di molti studenti che vivevano con disagio la loro condizione di studente nell’università di massa ed erano ansiosi circa le prospettive del loro futuro ruolo sociale, e consentirono agli attivisti di amplificare rapidamente la loro iniziativa e di organizzare con maggiore facilità ampie dimostrazioni e di ricevere un’attenzione particolare da parte dei mass media poiché si trattava di azioni che interessavano direttamente un gran numero di famiglie. Le trasformazioni delle istituzioni di istruzione superiore e dei ruoli sociali al loro interno hanno in tal senso aumentato le potenzialità di protesta e di ribellione, già insite nella condizione di studente. Venivano in particolare criticate la massificazione dell’istruzione e la crescente specializzazione e frammentazione del sapere, che produceva «uomini a una dimensione», come denunciava Marcuse.

128

Il movimento studentesco degli Stati Uniti

Gli studenti hanno svolto, storicamente, in diversi paesi un ruolo

importante nel formare movimenti collettivi di protesta e nel favorire cambiamenti politici. Basti ricordare la partecipazione degli studenti ai moti rivoluzionari del 1848 in Europa, al movimento rivoluzionario russo dell’Ottocento e del 1905, ai movimenti rivoluzionari cinesi e alle lotte di liberazione anticoloniali del XX secolo. L'avvento dell’università di massa ha favorito questa propensione alla critica dell’esistente e alla mobilitazione politica, in quanto componente intellettuale del mondo giovanile. Gli studenti differiscono dagli adulti nei loro atteggiamenti politici per l'accento posto su quella che Weber definisce l’etica della convinzione o dei fini assoluti che è intransigente e postula fini non negoziabili, rispetto all’etica della responsabilità, da cui deriva invece un interesse per le conseguenze dell’azione e il riconoscimento della necessità di eventuali compromessi. In società che presentano una cultura politica polarizzata, come era il caso dell’Italia negli anni cinquanta e sessanta, l’etica dei fini assoluti tende a esprimersi come completa adesione a un’ideologia politica o ai valori di una chiesa e nell’intolleranza per idee e valori contrari o semplicemente diversi. In società dove esiste invece un notevole grado di consenso sui valori di fondo,

come erano la società nordamericana e i paesi del comunismo reale, l’etica dei fini assoluti tende a manifestarsi come critica del divario esistente tra valori e pratica sociale e istituzionale (ad esempio come critica del divario tra gli ideali del marxismo e la pratica del comunismo reale o del divario tra i valori dell’eguaglianza di diritti e della libertà individuale e realtà della discriminazione razziale).

Tra giovani che condividono le stesse esperienze di spersonalizzazione nell’università di massa, in quella particolare età di transizione che è costituita dagli anni dell’università in cui si ha solo una parziale assunzione di ruoli adulti, si manifestano più facilmente le condizioni per lo sviluppo di un movimento collettivo. Si realizzano più facilmente i requisiti per sviluppare una distinta e autonoma identità sociale e una cultura politica totalizzante che entra in conflitto con tutto ciò che è diverso 8, per sviluppare una solidarietà alternativa che si contrappone all’ordine esistente e vivere l’esperienza fondamentale dello «stato na-

scente» 9. A queste cause generali che riguardano il cambiamento delle relazioni internazionali e la condizione dello studente nell’università di massa vanno aggiunti alcuni fattori specifici, caratteristici della situazione degli Stati Uniti negli anni sessanta, e in particolare al rapporto tra università e società. La crescita economica e sociale degli anni sessanta, maturata nel

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clima ideologico e politico della «nuova frontiera» kennediana, accelerò il ritmo del cambiamento della società americana e produsse trasformazioni istituzionali profonde. Favorì nuovi interessi economici, stimolò aspettative crescenti nei gruppi sociali sottoprivilegiati (in primo luogo tra i neri delle grandi aree urbane e in particolare nelle loro élite), mobilitò nuove energie politiche, sviluppò la critica intellettuale e modificò equilibri consolidati nella coalizione sociale dominante. Nella trasformazione sociale in atto e nel programma politico kennediano le università occupavano un posto centrale. Il sistema accademico venne considerato una risorsa fondamentale per lo sviluppo scientifico, economico e sociale e ricevette risorse ingenti;

e un numero cre-

scente di famiglie americane puntò sul college per garantire il benessere dei propri figli. In questa situazione si acutizzarono le contraddizioni caratteristiche del sistema di istruzione superiore, e in particolare la contraddizione tra l’esigenza di sviluppare le forze produttive attraverso la ricerca e la formazione di competenze specialistiche e l’esigenza di riprodurre l’ordine sociale, controllando gli effetti potenzialmente dirompenti di un sistema accademico veramente aperto a tutti i giovani che ne avevano il diritto e le capacità. Nella fase di espansione degli anni sessanta la prima esigenza tendeva a prevalere, suscitando conflitti intensi che derivavano sia dall’ascesa sociale di individui e gruppi appartenenti ai ceti sottoprivilegiati, sia dal contrasto tra innovatori e conservatori nel gruppo sociale dominante, sia dalle ripercussioni nel sistema accademico delle strategie

economiche e politiche elaborate all’esterno di esso. Gli studenti americani degli anni sessanta furono tra i principali protagonisti di questi conflitti. I giovani di quella generazione vissero in una fase cruciale del proprio sviluppo psicologico eventi storici di grande portata sia a livello internazionale (la crisi della guerra fredda, prima, e l’intervento americano in Vietnam, poi), sia a livello interno

(la crescita economica, il potenziamento dell’industria militare, la lotta dei neri e delle altre minoranze etniche). E si trovarono a vivere tali

eventi in istituzioni accademiche, in primo luogo le grandi università di ricerca, che, da un lato, acutizzavano la loro sensibilità e la capacità di comprensione delle contraddizioni della società e, dall’altro, rifletteva-

no queste contraddizioni al proprio interno attraverso le pratiche di discriminazione sociale e i legami con l’industria militare. Contrariamente alla protesta studentesca di paesi come l’Italia e la Francia, caratterizzati da sistemi di istruzione superiore arcaici, che scaturiva dalla percezione della rigidità e dell’inefficienza delle strutture accademiche e della sostanziale irrilevanza e separatezza dell’uni-

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Il movimento studentesco degli Stati Uniti

versità dal mondo del lavoro e dalla società civile, la protesta degli studenti americani venne

alimentata, per contro, dalla critica del ruolo

fondamentale svolto dal sistema di istruzione superiore nella riproduzione di un sistema socio-economico diseguale e discriminatorio e nella conduzione di una politica di guerra e di sfruttamento economico. Gli studenti americani criticavano le istituzioni accademiche in quanto le consideravano componenti funzionali di un sistema di potere che rifiutavano, e la critica era tanto più vivace in quelle istituzioni accade-

miche, come le grandi università di ricerca di maggior prestigio scientifico in cui più forti e dirette erano le ripercussioni di contraddizioni e le tensioni della società. Le università italiane, invece, pur essendo anch’esse parte di un sistema di potere, riflettevano non tanto le contraddizioni quanto piuttosto le disfunzioni della società italiana. Gli studenti americani attaccavano l’università in quanto tale come componente centrale di un sistema che volevano trasformare radicalmente; gli stu-

denti italiani si avvalevano piuttosto delle possibilità di comunicazione e di mobilitazione presenti nell’università come base per un’attività politica da svolgere all’esterno. Il sistema accademico americano svolgeva in modo assai più efficace sia un ruolo di produzione scientifica di prima qualità e di formazione di forza lavoro altamente specializzata, sia un ruolo di formazione generalizzata di un ceto istruito e di riproduzione della gerarchia sociale. La prima funzione provocava opposizione tra gli studenti in quanto comportava ingenti sforzi di ricerca applicati all’industria militare (il celebre military-industrial complex tante volte denunciato dai critici radicali) e il coinvolgimento in una politica di dominio a scapito del miglioramento di altre funzioni dell’università come una ricerca a fini pacifici e una reale educazione della persona. Ma la funzione di istruzione veniva criticata anche perché, attraverso meccanismi di selezione complessi, tendeva a discriminare gli appartenenti ai ceti più deboli e a riprodurre le differenze sociali. Si può osservare che le accuse di complicità delle grandi università con le forze politiche e militari al potere erano in molti casi esagerate e che le prime non potevano sciogliere completamente i loro legami con il potere senza pregiudicare le loro potenzialità di ricerca; e si può rilevare che è difficile concepire un sistema sociale in cui le istituzioni centrali non siano controllate dai gruppi dominanti e in cui l’università non contribuisca a riprodurre la gerarchia sociale esistente anche attraverso «una certa circolazione delle élite». Ma queste argomentazioni sensate e «adulte» non erano convincenti per giovani sensibili all’etica dei «fini assoluti» e diffidente verso ogni compromesso. Il significato

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profondo della protesta degli studenti americani era proprio la denuncia dell’impossibilità di un sistema accademico libero ed egualitario in una società diseguale e in una potenza imperiale e di smascherare quindi l’ipocrisia della ricerca neutrale e dell’autonomia dell’università. Sebbene solo una minoranza di studenti denunciasse il legame tra università e potere politico ed economico, l’opposizione ai simboli del potere militare-industriale, come l’addestramento militare obbligatorio, la propaganda delle forze armate per il reclutamento, la «ricerca classificata» i cui risultati costituivano segreto militare, ecc., era largamente sentita. Molti osservatori europei rimasero sorpresi del fatto che il movimento studentesco americano fosse nato e si fosse sviluppato nell’ambito delle istituzioni più avanzate, dotate dei professori migliori e delle strutture più efficienti, e che leader e militanti fossero spesso giovani con ottimi curricula accademici 10, Essi trascuravano il fatto che quegli studenti, diversamente dai loro compagni dei paesi in via di sviluppo, non reagivano alla frustrazione derivante dalla mancata soddisfazione di aspettative crescenti e dal timore di una società bloccata che non consente mobilità sociale; essi, al contrario, criticavano l’impiego che la società intendeva fare delle conoscenze e delle competenze che venivano loro impartite e rifiutavano la socializzazione a ruoli che ritenevano funzionali e subalterni al sistema di potere. Questo atteggiamento era favorito dal fatto che la loro generazione viveva in una fase di opulenza e che i militanti erano spesso dei «privilegiati» poco vulnerabili alla sindrome del «sogno americano». La sicurezza economica delle loro famiglie e la consapevolezza delle proprie potenzialità ridimensionavano l’ansia di status e la ricerca del successo individualistico a favore della tensione morale verso la coerenza tra principi e realtà e dell’impegno collettivo. L’élite studentesca reagiva al manifestarsi delle contraddizioni della società americana come la guerra in Vietnam e la discriminazione delle minoranze «con la sensibilità dei giovani che ragionano con la violenza di chi è egli stesso al riparo della miseria e dello sfruttamento, e con la libertà di espressione di chi è sicuro che non può facilmente essere licenziato dalla fabbrica o dall’ufficio e che non ha da temere per il proprio bilancio familiare» 11, Questa interpretazione della protesta come «rivolta dei privilegiati» 12 non va tuttavia esagerata. In primo luogo, gli studenti vivevano sulla loro pelle le conseguenze della politica del:governo. Gli studenti delle migliori università non rischiavano di essere arruolati soltanto finché rimanevano in corso e al passo con studi severi e finché non venivano espulsi per la loro attività di protesta. Inoltre, anche chi non rischiava l’arruolamento, aveva amici, conoscenti e coetanei che erano morti o 132

Il movimento studentesco degli Stati Uniti ù

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rischiavano di morire in Asia e nutrivano sensi di colpa per il loro destino di «privilegiati». Per i giovani nordamericani il Vietnam non era una metafora, non era una «causa» che non comportava alcun rischio personale, come per gli studenti europei. La solidarietà con la guerriglia vietkong e con i nordvietnamiti era una scelta ideologica gravida di conseguenze pratiche, la decisione difficile e sofferta di schierarsi

con gli avversari del proprio paese in nome di principi che si ritenevano moralmente ancor prima che politicamente giusti. Va inoltre ricordato che la protesta, nata e sviluppatasi nelle migliori università, come

l’Università di California a Berkeley, Harvard e

Columbia, si estese anche a istituzioni più piccole, periferiche e di minor prestigio e coinvolse settori della popolazione studentesca provenienti da ceti sociali inferiori e dalle minoranze etniche. Per questi studenti la protesta assumeva il significato di una richiesta di piena cittadinanza e derivava dalla percezione di un divario tra il principio dell’eguaglianza delle opportunità e la realtà della discriminazione. Questi studenti tendevano a fare richieste specifiche, come la determi-

nazione di quote garantite di accesso al college per le minoranze, la modifica dei curricula, l'abbassamento degli standard accademici, che

spesso stimolarono riforme e modifiche delle istituzioni accademiche. Altri due ordini di fattori hanno svolto un ruolo importante nel definire tempi e modalità della protesta studentesca americana: la natura del sistema politico e in particolare il rapporto tra forze di governo e forze di opposizione e le politiche dei responsabili del governo accademico. Circa il primo ordine di fattori ho argomentato ampiamente in altra sede che il movimento di protesta degli studenti tende a manifestarsi prima nelle situazioni in cui, come negli Stati Uniti (e nella Germania Federale al tempo della Grosse Koalition), non esiste una forte opposizione all’interno del sistema politico!3. In un paese come gli Stati Uniti, in cui i due partiti egemoni hanno basi sociali largamente sovrapposte e competono elettoralmente sulla base di programmi relativamente simili, il movimento di protesta tende ad essere diretto e controllato da un’unica organizzazione ampia ma fluida come 1’Sds (Students for a Democratic Society) che funge da alternativa funzionale a un partito di opposizione e dà una produzione ideologica relativamente scarsa perché il movimento non deve stabilire la propria identità in contrasto con una tradizione politica consolidata di opposizione di sinistra. Circa il ruolo svolto dalle autorità accademiche questa è una variabile che consente di interpretare le differenze all’interno del sistema di istruzione superiore americano più che le sue differenze con le univer-

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sità di altri paesi. Il sistema accademico americano è infatti assai diversificato e gli atenei americani godono di ampia autonomia e presentano una pluralità di modelli di gestione e di stili di autorità. Le forme e gli esiti delle agitazioni studentesche sono state quindi molto influenzate dal controllo sociale esercitato dai responsabili del governo accademico. Il Free Speech Movement di Berkeley nel 1964 nacque come protesta per affermare i diritti civili e politici degli studenti contro un’amministrazione autoritaria. E, successivamente, il carattere più radicale del-

la protesta della Columbia University rispetto allo sciopero di Berkeley dell’anno precedente va ricondotto anche alla maggiore flessibilità istituzionale di Berkeley e al diverso stile di leadership di Kerr, presidente dell’Università di California rispetto a quello di Kirk, presidente della Columbia!4. Rispetto agli altri paesi, tuttavia, possiamo rilevare che gli atenei americani, proprio in quanto dotati di maggiore autonomia e flessibilità, fecero sì che le forme del controllo sociale del movimento collettivo svolgessero un ruolo ancor più importante nell’influenzare intensità, corso e modalità della protesta.

Tra i fattori che contribuirono alla diffusione della protesta studentesca in generale e di quella americana in particolare va infine ricordato il ruolo che svolsero i mass media, e soprattutto la televisione, nel descrivere, interpretare e drammatizzare gli eventi. Da un lato, la televisione portava in ogni casa americana la quotidiana razione di atrocità della guerra vietnamita; dall’altro, creava un formidabile palcoscenico per i giovani protagonisti della ribellione, amplificava i loro messaggi, con una libertà di critica e un’irriverenza verso le istituzioni che indignava i conservatori.

Le specificità del movimento studentesco americano Il movimento degli studenti americani fu un movimento collettivo di ampia portata. Per la loro età, la loro cultura generazionale, per la

particolarità del loro ruolo che li rendeva meno soggetti alle costrizioni quotidiane del lavoro, del salario e dell’autorità e che dava loro conoscenze migliori, un più accentuato spirito critico e una più forte tensione morale, gli studenti furono il primo gruppo sociale a riflettere il disagio profondo di una parte della società americana nei confronti del divario tra principi e fini dichiarati dalle autorità, dagli educatori e dai leader d’opinione e le politiche effettivamente perseguite. La maggior parte degli studenti non aveva un’esperienza diretta dello sfruttamento, della povertà e del razzismo e tendeva a prendere molto sul serio l’im-

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Il movimento studentesco degli Stati Uniti

magine idealizzata della propria società fornita da genitori e docenti, e, in particolare, i diritti di libertà e di eguaglianza. L'appartenenza di diversi leader e militanti a famiglie di orientamento liberal-progressista e il frequentare liberal arts colleges che offrivano una buona educazione umanistica favorivano questa tensione etical5, La scoperta personale o indiretta di un’altra America attraverso il Movimento per i diritti civili prima, e la lotta contro l’intervento americano in Vietnam poi, fu per molti di loro un autentico trauma e attribuì alla rivolta connotati morali particolarmente intensi. Il Vietnam svolse a questo riguardo un ruolo assai importante nell’immaginario collettivo dei giovani di quella generazione, perché rievocava la lotta per l’indipendenza degli stessi Stati Uniti contro l'Inghilterra nel XVIII secolo e perché alimentava gli atteggiamenti antitecnologici e filoambientalisti di molti giovani (si ricordino, a titolo di esempio, la mitologia del fucile che abbatte il sofisticato jet e la denuncia della distruzione dell’ambiente con le armi chimiche). Il primo stadio della ribellione fu dunque la percezione del divario tra valori e politiche in nome della sopraricordata etica della convinzio-

ne e la denuncia dell’«ipocrisia» degli adulti e della loro irresistibile tendenza al compromesso. «Non fidatevi di nessuno che abbia più di trent'anni» diceva un po’ semplicisticamente uno dei più celebri slogan dell’epoca. Il secondo momento, strettamente connesso al primo, fu la «scoperta» che le istituzioni accademiche non erano cittadelle di libertà e di eguaglianza, votate esclusivamente al culto del sapere, nelle quali gli studenti potevano prepararsi a combattere i mali e gli errori di un mondo lontano, ma erano bensì parte integrante di un sistema economico e politico di cui gli studenti criticavano aspetti di fondo. Il terzo momento fu una presa di coscienza più precisa e meno emotiva delle contraddizioni della società americana di cui i problemi che si manifestavano nelle istituzioni accademiche erano il riflesso. Lungo questo itinerario che solo alcuni studenti percorsero consapevolmente, la protesta divenne più politica, ma mantenne sempre una prevalente connotazione morale. La critica del sistema sociale americano contemporaneo veniva svolta dalla maggioranza dei partecipanti al movimento degli studenti con riferimento ai valori della Costituzione americana. Contrariamente ai loro compagni italiani e francesi che trovavano gruppi di riferimento nell’opposizione politica e ideologica di partiti e sindacati di sinistra e che definivano la propria identità in relazione e in contrapposizione all’ideologia marxista, gli studenti americani facevano riferimento ai valori liberali della cultura nella sua versione progressista e definivano la loro identità in relazione e in contrapposi-

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zione ad essa. Solo alcune minoranze esigue mostrarono un diverso tipo di politicizzazione e di ideologizzazione, criticando l'esistente sulla base di modelli che prefiguravano valori e rapporti sociali radicalmente alternativi. La maggior parte degli studenti contestatori sosteneva, tuttavia, le espressioni più radicali del movimento cui si sentiva legata dalla stessa indignazione morale e da forti vincoli culturali. Il carattere prevalentemente morale della protesta influenzò anche pro che erano state poste in atto nel corso della lotta per i diritti civili nel Sud degli Stati Uniti come il solo modo per resistere ai metodi repressivi dei segregazionisti bianchi che avevano il controllo della polizia e dei tribunali locali, si diffusero nei campus universitari del Nord,

in primo luogo a Berkeley nel ’64 e poi in Europa e in altre parti del mondo. Queste tattiche si rivelarono particolarmente efficaci sia per la loro intrinseca superiorità, rispetto ai tutori dell’ordine costituito, sia per la tradizione, fortemente contraria all’uso della violenza o della forza contro gli studenti, che è storicamente fondata e largamente diffusa in molti paesi. Il carattere etico della rivolta fu più accentuato negli Stati Uniti che non in Italia o in Francia anche per i contenuti più espliciti di educazione morale del sistema scolastico americano che inducono gli studenti a richiedere coerenza tra i principi morali insegnati e i comportamenti concreti degli insegnanti e delle istituzioni. Un secondo tratto distintivo, strettamente connesso al precedente, è costituito dalla scarsa propensione all’ideologia. Il movimento studentesco e la nuova sinistra americana hanno prodotto, da un lato, analisi ben documentate del capitale monopolistico, del complesso militare-industriale, della politica estera americana, della discriminazione razziale e della povertà e, dall’altro, comportamenti individuali e collettivi e pratiche sociali alternative rispetto all’american way of life, come il lavoro comunitario, le comuni, le comunità hippies, ecc. Non produsse tuttavia un’ideologia che collegasse questi due aspetti. Contrariamente agli studenti europei, gli studenti americani preferivano pragmaticamente le analisi fattuali e i comportamenti concreti alle teorizzazioni astratte. Il contributo teorico-ideologico più significativo fu, accanto al tentativo di adattare concetti e metodi del marxismo all’analisi della società americana, il recupero dialettico di alcuni valori della tradizione culturale americana che si manifestò soprattutto nel concetto di «democrazia partecipativa»!9. Questo concetto, formulato per la prima volta dai fondatori dell’Sds nella Dichiarazione del 1962, presenta affinità sia con la concezione di democrazia dei town meeting delle prime comunità di coloni, sia con il concetto europeo di autogestione; ma venne

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sviluppato più nella prassi politica quotidiana che nelle formulazioni teoriche. La scarsa propensione all’ideologia degli studenti americani ha le sue radici nella tradizionale tendenza al pragmatismo della cultura politica americana ed è riconducibile sia alle caratteristiche del sistema politico americano, sia alla natura prevalentemente morale della protesta. La prima è ben esemplificata dal principio «no taxation without representation», un concetto per molti versi più efficace di qualsiasi enunciazione ideologica astratta dei diritti dei cittadini. Anche la tensione morale alla coerenza fra principi e comportamenti concreti che abbiamo appena discusso rendeva gli studenti americani diffidenti nei confronti di programmi ideologici generali non verificabili nell’esperienza quotidiana. Ciò che contava era creare le condizioni per riprendere il controllo sulla propria vita, partecipando alle decisioni che ne influenzavano il corso, non costruire un modello di società ideale. Inoltre, la scarsa penetrazione del marxismo nella vita politica americana non gli ha consentito di svolgere la stessa funzione di discriminante ideologica che ha svolto in altri paesi. Come ha rilevato Morin, il marxismo ha svolto per gli studenti europei una funzione analoga a quella del pensiero selvaggio per i primitivi, offrendo criteri di valutazione del giusto e dell’ingiusto e orientamenti all’azione. Nella sinistra studentesca nordamericana esistevano piccoli gruppi che si richiamavano esplicitamente a diverse varianti del marxismo-leninismo (trockista, maoista, castrista), ma l’assenza di una tradizione marxista consoli-

data nel movimento sindacale o nei partiti di opposizione rendeva difficile la loro opera di proselitismo e impediva alla maggioranza dei militanti il collegamento con un corpo ideologico che sentivano essenzialmente estraneo. Infine, la nuova sinistra americana aveva una posizione sostanzialmente anti-ideologica anche perché non era costretta a stabilire una propria identità autonoma in contrasto con una posizione politicoideologica consolidata dell’opposizione di sinistra. Il suo problema era quello di verificare l’attendibilità dei valori liberali egemoni nella cultura politica americana, di recuperare le potenzialità disattese dei

principi originari della rivoluzione americana e di far emergere valori alternativi dalla propria pratica di vita. Il problema dei movimenti studenteschi europei era invece non solo quello di sfidare i valori della cultura egemone, ma anche l’interpretazione che ne dava l’ideologia dei partiti di opposizione tradizionali, per affermarsi come «vero» e autentico interprete del messaggio originario dell’ideologia marxistaleninista.

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Il terzo tratto distintivo del movimento studentesco americano fu la diffidenza verso l’organizzazione, che esprimeva gli atteggiamenti antiautoritari e antiburocratici della maggior parte degli studenti. La democrazia partecipativa implicava per la maggior parte degli studenti il rifiuto non solo di essere diretti, ma anche di dirigere gli altri e di del movimento americano fu coordinare le iniziative. Una peculiarità il gran numero di commissioni ad hoc, che erano formate molto rapidamente per organizzare un sit-in, uno sciopero, un’assemblea, e che altrettanto rapidamente venivano sciolte una volta raggiunto lo scopo. Un’altra peculiarità fu l’abbondanza di leader espressivi, capaci di interpretare i sentimenti condivisi, di compiere gesti esemplari con forti connotati simbolici, di guidare una manifestazione di massa, e, per converso, la relativa scarsità di leader strumentali, capaci di svolgere un capillare lavoro di propaganda, di mobilitazione e di produzione ideologica. Anche in questo caso, la lodevole tendenza dei giovani americani a prendere sul serio i principi fece sf che i valori antiautoritari, che facevano combattere i professori, i politici, i poliziotti che mostravano atteggiamenti repressivi, si applicassero anche all’interno del movimento, emarginando i gruppuscoli e i singoli individui che volevano imporre la propria ideologia e la propria strategia. Bob Dylan, il cantante più amato dagli studenti radical, cantava: «don't follow leaders, watch the parking meters» e gli studenti erano d’accordo con lui. Il metodo della democrazia partecipativa e la diffidenza verso l’organizzazione e la leadership ebbe tuttavia anche conseguenze negative per lo sviluppo del movimento, perché non fu in grado di soddisfare il bisogno di organizzazione che il movimento, come ogni soggetto politico, nutriva. La tensione tra il desiderio di mantenere la spontaneità di un movimento antiautoritario e la necessità di costruire strutture di coordinamento minimamente stabili ed efficienti si sviluppò gradualmente con il crescere della protesta. All’interno dell’Sds si aprì un dibattito permanente circa la possibilità o meno di conciliare la partecipazione dei singoli membri alle decisioni collettive con la necessità di coordinamento centralizzato e di meno precari modelli organizzativi. La mancanza di organizzazione e di coordinamento a livello nazionale non era solo il riflesso degli atteggiamenti antiburocratici di molti studenti militanti, ma dipendeva anche dalla diversificazione e dal decentramento autonomistico del sistema accademico. Sebbene la proteSta avesse cause comuni, come abbiamo mostrato, e si sviluppasse intorno a temi generali, ben definiti e generalizzati, come la discriminazione dei neri e la guerra in Vietnam, la specificità di istituzioni diffe138

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Il movimento studentesco degli Stati Uniti

renti nelle diverse regioni del paese, accentuava ulteriormente le differenze e rendeva piuttosto difficoltose le relazioni tra i vari campus.

L’estinguersi della protesta Il movimento degli studenti americani fu un movimento collettivo di ampia portata. Per la loro età, la loro cultura generazionale, per la particolarità del loro ruolo che li rendeva meno soggetti alle costrizioni quotidiane del lavoro, del salario e dell’aùtorità e che dava loro conoscenze migliori, un più accentuato spirito critico e una più forte tensione morale, gli studenti furono il primo gruppo sociale a riflettere il disagio profondo di una parte considerevole della società americana. E tuttavia, dopo alcuni anni di intensa mobilitazione, di estensione

progressiva del dissenso e di radicalizzazione della protesta, quasi repentinamente il movimento si spense, con un’ultima ondata di rivolte che seguì l’intervento militare in Cambogia. Le ragioni del riflusso sono molteplici, ma si possono sinteticamente riassumere. Innanzitutto il sistema sociale americano, grazie alla sua elevata flessibilità e capacità di autoriformarsi, riuscì a controllare, risolvere o

neutralizzare le tensioni e i conflitti più esplosivi. La rivolta dei neri venne controllata attraverso la repressione dei gruppi più radicali, come il Black Panther Party, e la cooptazione nel sistema politico di alcuni leader neri, soprattutto nel governo delle grandi città. Inoltre nell’istruzione superiore la discriminazione venne attenuata mediante l’adozione di strumenti che hanno effettivamente ridotto le diseguaglianze razziali, come le politiche di pari opportunità nelle assunzioni del personale docente e non docente e il sistema delle quote di ammissione agli studi proporzionale alla consistenza dei vari gruppi etnici nella popolazione americana. La politica estera di Nixon e Kissinger decise di districare gli Stati Uniti dal labirinto vietnamita e modificò alcuni assunti fondamentali come la strategia del dominio per contenere i paesi comunisti e l’atteggiamento verso la Cina, contribuendo ad alterare un quadro di relazioni internazionali in un modo in cui era più difficile distinguere nettamente

tra buoni e cattivi. A seguito della sconfitta americana in Vietnam, i giovani americani non vennero più reclutati per andare a combattere e morire in Asia. E gli Stati Uniti cessarono di essere una nazione divisa dal trauma della guerra.

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Alberto Martinelli Le contraddizioni della società americana si manifestarono in conflitti interni alla classe dirigente piuttosto che in conflitti tra l’élite del potere e i gruppi sociali di opposizione come negli anni sessanta. Il dissenso venne catalizzato dalla critica della corruzione del potere esecutivo, che raggiunse il suo apice nell’affare Watergate con atteggiamenti che mostravano implicitamente che si voleva emendare il sistema esistente dei suoi vizi e dei suoi errori piuttosto che trasformarlo radicalmente. L’egemonia degli Stati Uniti nel mondo venne ridimensionata. Il processo di crescita tumultuosa degli anni sessanta lascia il posto a tassi di crescita più contenuti, a spinte inflazionistiche e a fasi alterne di espansione e recessione. In questa situazione, le università si preoccuparono più dei problemi finanziari e di adattamento al mercato del lavoro che delle agitazioni studentesche; e gli studenti, in assenza di forze di opposizione politica istituzionalizzate, diedero una risposta individuale anziché collettiva

ai propri problemi, studiando senza discutere e scegliendo le facoltà che offrivano le maggiori opportunità di occupazione. Negli anni settanta, le contraddizioni

si manifestarono

direttamente

all’interno del

blocco sociale dominante e investirono, con l’affare Watergate, le somme istituzioni politiche del paese. Ma, anche prescindendo dai cambiamenti della situazione economi-

ca e politica, il movimento degli studenti americani non poteva durare più a lungo, proprio in quanto movimento non istituzionalizzato. I pregiudizi antiorganizzativi e la diffidenza verso ogni tipo di mediazione ideologica che furono tra i suoi tratti più distintivi contribuiscono a spiegare la sua incapacità di acquisire forme politiche stabili. Inoltre, il carattere morale e culturale della protesta, se da un lato conferiva vivacità intellettuale e calore umano al movimento, dall’altro incanalava la protesta verso subculture isolate e stili di vita estetizzanti. La controcultura produsse l’autoemarginazione, che non diede luogo a progetti alternativi e a un sistema di alleanze. All’inaridirsi del movimento contribuirono poi la solidità e l’adattabilità al mutamento delle istituzioni accademiche. Sistemi universitari rigidi e obsoleti come quello italiano e francese accelerarono la radicalizzazione della protesta e la sua convergenza verso obiettivi esterni; un sistema flessibile e diversificato come quello americano, benché colpito in alcune parti, fu in grado di assorbire in misura molto maggiore le energie dei contestatori e trasformò le rivendicazioni di cambiamenti radicali in limitate modifiche istituzionali di tipo razionalizzante. Infine, il movimento studentesco americano subì le conseguenze della propria incapacità di instaurare alleanze strategiche stabili con al-

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Il movimento studentesco degli Stati Uniti mi.

tri gruppi sociali e movimenti politici. Vennero compiuti svariati tentativi, alcuni anche di esito favorevole, per collegare gli studenti ai gruppi emarginati, ai lavoratori del settore pubblico, a vari gruppi professionali, ma erano una frazione limitata e per lo più il movimento degli studenti rimase concentrato nei campus universitari e nelle comunità circostanti.

Gli effetti del movimento per la società nordamericana Il movimento degli studenti americani ebbe rilevanti effetti sia a breve che a lungo periodo, sia previsti che non previsti dai suoi protagonisti. All’epoca in cui si sviluppò, contribuì a portare alla luce contraddizioni e tensioni profonde della società americana e diede voce,

gesti e parole a un disagio diffuso e largamente inespresso in una parte consistente della popolazione, favorì l'educazione morale e politica di un gran numero di giovani, stimolò cambiamenti istituzionali e riforme modernizzanti nel sistema accademico. La sua influenza fu più morale che politica. Il movimento del maggio francese provocò quasi una crisi di regime, che peraltro venne riassorbita in tempi straordinariamente rapidi. Il movimento degli studenti americani provocò piuttosto una crisi di coscienza in molti giovani, in molti intellettuali e in settori dell’establishment, che ebbe anche indirette conseguenze politiche, ma

non riuscì a realizzare compiutamente un proprio progetto politico. La protesta degli studenti contribuì infatti a creare un clima favorevole a porre fine all’intervento americano nel Sud-est asiatico e a ridurre la discriminazione nei confronti dei neri e di altre minoranze etniche. Ma il movimento non riuscì a realizzare un’efficace politica delle alleanze con altre forze politiche e sociali e rimase sostanzialmente chiuso in alcuni college e università e nelle comunità circostanti. Né, d’altro canto, riuscirono i tentativi, di McCarthy nel 1968 e di McGovern nel 1972, di costruire una coalizione alternativa su scala nazionale, di cui il movimento degli studenti fosse parte integrante. Le conseguenze a più lungo termine furono anch’esse significative. La critica, spesso distruttiva, della politica del governo americano durante la presidenza Johnson, la denuncia degli errori e degli inganni del potere e la rivendicazione costante di moralità nella vita pubblica contribuirono a delegittimare le istituzioni di governo e prepararono il clima che rese possibile l’empeachment del presidente Nixon a seguito dell’affare Watergate. Più in generale, nei vent’anni che ci separano dagli anni della rivolta studentesca, gli effetti di quel movimento colletti

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vo si sono dispiegati soprattutto nell’orientare gli atteggiamenti politici di una generazione di americani, che si è dimostrata molto attenta ai te-

mi delle libertà civili e della moralità delle istituzioni di governo e poco disposta ad accettare il coinvolgimento militare degli Stati Uniti nelle vicende di altri paesi. Molti studenti che vent’anni fa dimostravano contro la guerra in Vietnam e contro l’autoritarismo accademico occupano attualmente posizioni di responsabilità nelle università, nei mezzi di comunicazione di massa, nelle professioni liberali, nell’apparato amministrativo federale e statale, nelle grandi imprese. Pur nel generale clima conservatore di questi anni e nonostante la tendenza dell’età adulta a sostituire l’etica della responsabilità all’etica dei fini assoluti e le pressioni al conformismo delle organizzazioni in cui lavorano, molti di loro hanno concezioni del rapporto tra politica e morale, dei rapporti tra i sessi e tra le razze, della funzione dell’università, delle politiche governative e del ruo-

lo degli Stati Uniti nel mondo piuttosto diverse da quelle delle generazioni precedenti.

Note l E. K. Scheuch,

«Aspetti sociologici dell’agitazione

studentesca»,

Quaderni di

Sociologia, 1969, n. 1-2.

2 A. Touraine, «Ce n'est qu’un début», ivi.

3 Di questa natura sono in genere i rapporti ufficiali sulle agitazioni a Berkeley, come il Byrne Report, e a Columbia, come il Cox Report. Esempi penetranti di questo tipo di analisi si trovano

in D. Riesman

e V. A. Stadtman

(eds.), Academic

Transformation.

Seventeen Institutions under pressure, MeGraw Hill, New York, 1973.

4 Canergie Commission New York, 1972.

on Higher Education, Reform on Campus, McGraw

Hill,

5 V. a titolo di esempio per questo tipo di interpretazioni I. L. Horowitz e W. H. Friedland, The Knowledge Factory, Southern Illinois U.P., Urbana (Ill.), 1970.

© La carenza di un’appropriata analisi del contesto è la critica principale che si può muovere alla maggior parte delle ricostruzioni della protesta degli studenti americani, dai resoconti dei contemporanei al recente R. Fraser, Chatto & Vindus, London, 1988.

7 A. Martinelli,

Cavalli

Università

e società negli Stati Uniti, Einaudi, Torino,

e A. Martinelli, I! campus

Martinelli Martinelli

/968 A Student Generation in Revolt,

diviso, Marsilio,

Padova,

(cur.), Gli studenti americani dopo Berkeley, Einaudi, Torino, e A. Cavalli (cur.), 1 Black Panther Party, Einaudi, Torino, 1971.

8 A. Touraine, La produzione della società, Il Mulino, Bologna, 1975. 9F Alberoni, Movimento e istituzioni, Il Mulino, Bologna, 1977.

142

1978; A.

1971; A Cavalli

e A.

1969;

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12 Hl termine è stato usato da T. Burns nel saggio The Revolt of the Privileged presen- e) tato alla First International Round Table on Student Unrest, PIERO: a Parigi dal Social Science Research Council nel dicembre del 1986. È È

13 A. Martinelli, Università e società negli Stati Uniti, cit., cap. 6. Va i - 14 Per una serie di studi di casi dei principali fenomeni di protesta nei college e nelle ni. università Rupegicane; v. D. Riesman e V. A. Stadtman (eds.), Academic Transformation, » cit. Ù ‘

15 V. le ricerche di K. Keniston, Young Radicals. Notes on Committed Youth,

4

Harcourt Brace, New York, 1986 e di R. Flacks, Youth and Social Change, Markham,

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Chicago, 1971, oltre a A. Cavalli e A. Martinelli, // campus diviso, cit.

7

16 v. a titolo di esempio i saggi di S. Lynd, «The New Radicals and Participatory Democracy», Dissent, 1965 e di T. Hayden, «Community Organizing and the War

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Poverty» Liberation, nov. 1965, e il discorso di G. Calvert a Princeton nel febbraio 1967,

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tr. in A. Cavalli e A. Martinelli, Gli studenti americani dopo Berkeley, cit.

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IL MOVIMENTO STUDENTESCO DELLA GERMANIA OCCIDENTALE

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di Roland Eckert

con la collaborazione di Ralf Altenhof e Toni Loosen

Origini e storia in Germania

All’inizio degli anni sessanta entra nelle università europee e statunitensi una generazione di studenti per la quale il bisogno materiale, la guerra e la ricostruzione non costituiscono più esperienze centrali degli anni giovanili. Essa sviluppa perciò, ben presto, concezioni e valori propri e un proprio modo di intendere la politica e la società. In Germania, Italia e Giappone essa può confrontarsi con il passato nazionalista e fascista del proprio paese senza essere stata coinvolta in prima persona. Centro primo del movimento studentesco gli Stati Uniti, dove già nel 1957 era stato pubblicato On the road di Jack Kerouac, divenuto oggetto di culto da parte dei giovani americani che sognavano di libertà, di liberazione e dell’abbattimento di tutte le convenzioni. Il mo-

vimento per i diritti civili fornì nuove esperienze e forme di azione quali go-in e sit-in. L'impegno militare in Vietnam divenne, infine, il tema dominante della protesta studentesca. Gli avvenimenti americani, le forme di azione e gli scopi di quel movimento studentesco fecero il giro del mondo attraverso gli schermi televisivi. Già negli anni sessanta si svilupparono contatti tra l’associazione americana Students for a Democratic Society (Sds) e l’associazione tedesca degli studenti socialisti (Sds) che, fino al 1961, fu l’associazione studentesca della Spd. La guerra in Vietnam diviene, via, via,

il tema predominante anche dell’azione degli studenti tedeschi. Dall’inizio del 1965 lavora nella sezione Sds di Berlino un gruppo di lavoro «Vietnam del Sud». Nel contempo si inasprisce, nella Repubblica Federale, il dibattito sulla progettata modifica della legge fondamentale in legislazione di

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Il movimento studentesco della Germanica occidentale stato di emergenza. La protesta degli studenti aumenta con la grande coalizione Cdu-Csu ed Spd formata nell’autunno del 1966 e il movimento assume sempre più chiaramente i caratteri di una vera e propria opposizione extraparlamentare (Apo). Accanto ai temi di politica mondiale e di politica interna stanno, al

terzo posto, i temi di politica universitaria. Solo dopo il sit-in del 21 giugno 1966 all’Università Libera di Berlino, un consistente numero di

studenti fa proprie le richieste di un’ampia riforma degli studi che, fino a quel momento, erano state formulate da piccoli gruppi di lavoro della Sds. Verso la fine del 1966 si aggiunge un nuovo tema: membri dell’Azione sovversiva di Berlino fondano la Comune I i cui scopi sono la preparazione al comunismo mediante il rivoluzionamento della vita quotidiana e la distruzione del concetto borghese della proprietà anche nelle relazioni interpersonali. Mentre, prima del 1967, gli studenti socialisti rappresentavano ancora una piccola minoranza «radicale» nelle università, a partire da quell’anno la situazione muta di colpo. Il 2 giugno 1967, durante una dimostrazione contro lo scià di Persia, lo studente Benno Ohnesorg viene ucciso da un agente di polizia. Questo fatto produce una diffusione esplosiva del movimento e una radicalizzazione delle sue rivendicazioni. In molte città tedesche si susseguono dimostrazioni spontanee, nel corso delle quali la dottrina della non violenza viene posta, per la prima volta, in discussione e si proclama un diritto di legittima difesa. Le azioni politiche dei mesi successivi si concentrano a creare una «contro-opinione» con attacchi violenti al «monopolio stampa reazionario» del gruppo Springer. Nel contempo si procede a un indottrinamento teorico intensivo, soprattutto marxista, dei nuovi membri. Il 4 aprile 1968 viene ucciso negli Stati Uniti Martin Luther King, difensore dei diritti dei neri. Ciò provoca in più di cento città americane gravi disordini. Solo sette giorni dopo, 111 aprile, Rudi Dutschke, capo carismatico del movimento studentesco, viene ferito mortalmente a Berlino da tre colpi d’arma da fuoco e l’attentatore confessa poi di essere stato indotto al suo atto dall’assassinio di Martin Luther King. Anche nella Repubblica Federale questo attentato provoca gli scontri sulle strade più seri dall’epoca della Repubblica di Weimar, i disordini della Pasqua ’68. In un volantino Sds, la responsabilità dell’attentato viene attribuita al gruppo Springer con il motto «Anche Bild ha sparato». A Monaco muoiono due persone e vengono feriti numerosi dimostranti e agenti di polizia.

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Ai primi di maggio anche in Francia esplode — sorprendendo molti 2 la protesta studentesca che, a differenza di quanto accadeva negli Stati Uniti e in Germania, riesce a coinvolgere ampi strati del mondo del lavoro: nel maggio 1968 oltre dieci milioni di francesi incrociano le braccia. Molti pensano che in Europa si sia instaurata una situazione rivoluzionaria. Il movimento studentesco tedesco, incoraggiato dai successi dei compagni francesi, oppone una resistenza ancor più decisa alle leggi di emergenza, resistenza che, tuttavia, non modifica la decisione del parlamento federale del 30 maggio. Tuttavia, quando, nell’estate del 1968, il movimento francese cede all’offerta di nuove elezioni e si scioglie e quando, nell’agosto, le truppe degli Stati del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia, prende il sopravvento un diffuso atteggiamento di rassegnazione. Nel contempo si palesano, in modo sempre più chiaro, tensioni interne al movimento. Dopo che, già dal 1967, all’interno della Sds marxisti ortodossi e non violenti si erano battuti per il predominio, si giunge, nel novembre del ’68, dopo una dimostrazione violenta, a scontri sempre più decisi sulla «questione del potere». Sds e Apo si frantumano in varie frazioni. Maoisti, trockisti e leninisti lottano per una strategia adeguata, giovani socialisti e giovani democratici danno inizio alla «lunga marcia attraverso le istituzioni», i non violenti si concentrano sul loro privato e si sviluppano le prime forme di lotta cospirative. Nel marzo del 1970 l'Associazione degli studenti socialisti si scioglie spontaneamente.

Dati empirici Alla fine degli anni sessanta, i mass media parlavano spesso di una «rivolta della gioventù». In effetti, questo stereotipo totalizzante non teneva conto del fatto che nelle azioni di cui si parlava erano coinvolti

principalmente studenti universitari e delle medie superiori e che i circa 300.000 studenti degli istituti superiori di istruzione scientifica rappresentavano appena il 10% della fascia di età dalla quale proveniva il grosso del movimento. Non si può perciò parlare di duri contrasti politici coinvolgenti tutta la gioventù; nel momento della protesta, la «giovane intelligencija» e gli altri giovani, fuori dal mondo accademico, non solidarizzarono (Langguth 1978, pp. 165 ss. e Kaase 1971, p. 161). In modo conseguente, l’interesse politico della gioventù studentesca e di quella non intellettuale era inversamente proporzionale: mentre il

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Il movimento studentesco della Germanica occidentale

56% degli studenti aveva forti o molto forti interessi politici e solo il 9% era debolmente e molto debolmente interessato, soltanto il 25% dei

giovani al di fuori del mondo accademico si dichiarava politicamente interessato, mentre oltre un terzo (34%) dichiarava la propria indifferenza (Kaase 1971, p. 171).

Quanto sopra corrisponde ai risultati di un’inchiesta sulla valutazione delle proprie chance di influenza politica: su una scala da 1 (nessuna possibilità di influenza) a 5 (forti possibilità di influenza), il 71% degli studenti — ma solo il 29% dei non studenti — si attesta su un punteggio tra 4 e 5, esprimendo cioè la propria convinzione di buone possibilità di influenza politica. In questo quadro oltre la metà dei non studenti (51%) giudica molto basse le proprie possibilità di influenza (punti 12); tra gli studenti, questa percentuale è di gran lunga inferiore (8%) (Kaase 1971, p. 172). Fino all’estate del 1968 solo il 5% della gioventù non studentesca

aveva, in effetti, già partecipato a una dimostrazione di contenuto politico. Ad essi si contrapponeva, nel gennaio-febbraio dello stesso anno, il 36% di studenti; nell’estate — dopo l’attentato a Rudi Dutschke — già più della metà degli studenti (53%) aveva partecipato a una dimostrazione politica (Langguth 1978, p. 165; Kaase 1971, p. 174). E all’interno della classe studentesca qual era la situazione? I leader del movimento erano organizzati nella Sds; tuttavia soltanto un terzo di tutti gli studenti simpatizzavano per l’associazione e soltanto il 2% aderivano esplicitamente alla Sds. Il seguito della Sds era quindi nettamente inferiore a quello di gruppi che, pur simpatizzanti, non potevano essere ritenuti altrettanto radicali, quali ad esempio l’Shb (Associazione universitaria socialista) (Allerbeck 1971, p. 48). Riassumendo: non era quindi tutta la gioventù a protestare ma principalmente gli studenti, una

parte considerevole dei quali non partecipava alle dimostrazioni o non mostrava atteggiamento positivo nei confronti della radicale Sds.

Forme organizzative e simboli

L'Associazione tedesca degli studenti socialisti ha avuto grande influenza sul movimento studentesco ma era soltanto una tra molte organizzazioni quali ad esempio l’Associazione universitaria socialista, il movimento studentesco sindacale, parti delle comunità universitarie evangeliche e cattoliche, l'Unione studenti umanisti e 1’ Unione studenti liberali. L'opposizione extraparlamentare non aveva elaborato criteri formali unitari di appartenenza. L'appartenenza al movimento veniva

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espressa attraverso specifiche forme di azione e uno stile comune di autorappresentazione: capelli lunghi, abbigliamento disinvolto e, soprattutto, i jeans divennero il simbolo della rivolta contro la generazione degli integrati. Elementi ascetici (sacco a pelo e materassino) si accompagnarono a nuovi piaceri: «sex and drugs and rock’n roll». Le forme di azione sit-in, go-in e teach-in vennero mutuate dal movimento americano per i diritti civili. Idimostranti della Repubblica Federale portavano anche ritratti di Ho Chi Minh, Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Trockij, Stalin e Che Guevara a simboleggiare sia i legami con la tradizione marxista sia la speranza della vittoria della rivoluzione nel Terzo Mondo.

Temi e utopie

Tema centrale del movimento studentesco e dell’Apo fu «il potere dominante» in tutte le sue forme, nelle quali si facevano rientrare la guerra in Vietnam, il potere dello scià di Persia, l’entrata in vigore delle leggi di emergenza nella Repubblica Federale, i diritti dei docenti universitari, l’autorità educativa dei genitori o anche l’autodisciplina in materia di sesso. In questo contesto il movimento tedesco attribuì, peculiarmente, importanza centrale alla teoria e al dibattito teorico: alle radici la teoria critica della Scuola di Francoforte, cioè Adorno, Horkheimer e Marcuse,

cui seguirono Freud e Wilhelm Reich con vittoria finale di Marx, Lenin e Mao. La scienza venne smascherata come «elemento di consolidamento della prevaricazione» in agguato contro il partito del progresso e del mutamento sociale. Dentro le università si affermò il diritto alla parità di un terzo. E anche fuori dalle università gli aderenti al movimento vedevano dappertutto «strutture autoritarie» legate a filo doppio alla «natura prefascista del capitalismo» che si doveva distruggere. Altrettanto ampia la gamma delle controproposte: in luogo della democrazia parlamentare molti propugnavano un’organizzazione decisionale democratico-assembleare e, in luogo del capitalismo, l’autogestione dei lavoratori. Nuove forme di convivenza collettiva dovevano superare il concetto borghese di famiglia. Eliminazione della divisione dei ruoli tra uomo e donna, educazione non repressiva dei figli, sessualità senza concorrenza, gelosia o pretese di possesso: tutto questo doveva anticipare l’utopia di una società esente da qualsiasi autoritarismo. Dalla lotta di liberazione del Terzo Mondo alla rivoluzione della morale sessuale, tutto era in fondo riconducibile a un solo concetto: la rivolta contro qualsiasi forma di autorità prevaricante.

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Problemi realizzativi e contraddizioni

Proprio questa radicale critica al principio di autorità condusse a una nutrita serie di contraddizioni interne e di problemi realizzativi. Non si poté dare attuazione pratica nemmeno alla basilare esigenza di una formazione discorsiva del consenso: la sola ipotesi che esista una linea giusta esclude infatti, a priori, qualsiasi possibilità di compromesso. Alla fine tutto questo travaglio portò soltanto alla distinzione in diversi gruppi: il consenso interno al gruppo venne salvaguardato con la scissione. Tra i prodotti di questa decomposizione, a cominciare dalla Rote Armee Fraktion, gruppi K e trockisti da un lato e, attraverso i comunisti fedeli a Mosca, fino ai non violenti spontanei e giovani socialisti dall’altro, si innalzarono barriere insuperabili. Spesso nemmeno le strutture interne erano compatibili col principio di lotta contro l’autorità. Personalità carismatiche come Rudi Dutschke, teorici come Bernd Rabehl o Hans Jiirgen Krahl condizionavano largamente i dibattiti. Le posizioni guida erano, praticamente tutte, in mani maschili. La sessualità radicalmente libera fondava un diritto del più forte che, in caso di

dubbio, era il maschio. Anche il carattere spontaneo delle azioni era spesso solo simulato: in genere, nelle assemblee, gruppi ben preparati riuscivano a far prevalere la loro opinione. L’esigenza di eliminare la separatezza tra politico e privato rendeva meno efficiente la parte politica e più faticose le relazioni interpersonali.

Risultati ed effetti

Il movimento studentesco internazionale ha «ottenuto» ben poco, se non gli si vuole attribuire il ritiro degli americani dal Vietnam. La democrazia parlamentare non ha subito danni, la dinamica del capitalismo nemmeno, i professori hanno riaffermato in pieno la loro competenza decisionale all’interno delle istituzioni universitarie. La famiglia rimane indiscusso topos di socializzazione precoce, la promiscuità non è «vivibile» come, alla fine, hanno dichiarato anche gli spontaneisti. Tuttavia con la rivolta antiautoritaria molte cose sono cambiate, anche se è difficile stabilire se il movimento sia stato causa e/o conseguenza di questi mutamenti. La sessualità al di fuori del matrimonio è in genere accettata. L'educazione non privilegia più ubbidienza e diligenza ma tende a una valutazione politica della formazione di una libera volontà e autonomia. Il comportamento nelle università è meno gerarchi-

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co, i diritti di intervento degli studenti e dei collaboratori sono solida-

mente ancorati. Il sistema politico partitico-parlamentare si trova a fronteggiare una sempre più organizzata concorrenza da parte di forme di azione non convenzionali, di iniziative civili e dimostrazioni dei cittadini. I problemi del Terzo Mondo sono entrati nella coscienza pubblica e le strategie delle grandi potenze sono oggetto di crescenti critiche. La rivendicazione di criticare e di contribuire a realizzare condizioni di vita personali e politiche è stata fatta propria da larghi strati della società che l’hanno mutuata, per il tramite degli studenti, appunto dalla rivolta antiautoritaria.

Due differenze rispetto all’Italia

Ho già detto prima che i movimenti studenteschi italiano e tedesco hanno molto in comune e questa constatazione sarà il nostro punto di partenza. Oltre ai fattori citati precedentemente occorre considerare attentamente quanto segue: l’immagine della «gioventù scettica» tracciata da Helmut Schelsky nel 1959 con riferimento alla Repubblica Federale, trovava, pochi anni più tardi (1964), un corrispondente in Italia: la «gioventù 3-M» descritta da Bertoni e Alfassio-Grimaldi. Come la «gioventù scettica», la gioventù 3-M (Mestiere, Macchina, Mo-

glie) è poco impegnata e orientata soprattutto alla stabilizzazione del sistema (Statera 1971, p. 138). Un altro parallelismo risultava dal crescente coinvolgimento dei tradizionali partiti dei lavoratori — Spd e Pci — nel sistema esistente (in Germania la Spd con il «programma di Godesberg» [1959], in Italia il Pci in marcia verso il «compromesso storico» [1968-73]; Fritzsche 1980, pp. 89-104) per cui il movimento di protesta non poteva più trovare in essi adeguato quadro di espressione e si dovette situare alla loro sinistra (Steinert 1984, p. 401 e 471). E

simile è stata, infine, anche la conclusione del movimento studentesco: in entrambi i paesi sono sorti gruppuscoli comunisti — trockisti, leninisti, maoisti, anarchici e altri ancora — in lotta tra loro (Statera 1971, p.

150). Anche il moralismo, apparentemente specificamente tedesco (nel solco della tradizione pietistica), sembrò trovare il suo corrispondente italiano nel fondamentalismo cattolico (Steinert 1984, p. 401).

Dove sono le differenze tra il movimento studentesco tedesco e quello italiano? Escludendo una trattazione del tema del terrorismo — dove troveremmo differenze molto più marcate (Steinert 1984, p. 401)

dobbiamo considerare qui soprattutto due aspetti. In primo luogo in Germania il movimento studentesco non ha avuto

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effetti diretti sul mondo del lavoro, i due gruppi non hanno stabilito rapporti particolari. Il movimento studentesco italiano, al contrario — come era accaduto in Francia —, è stato capace, in misura particolare, di

«crescere in un fenomeno di intenso entusiasmo collettivo» influenzando non solo i lavoratori ma anche i sindacati (Statera 1971, p. 141). Si ebbe così in Italia, nella seconda metà degli anni sessanta, anche un’opposizione radicale di sinistra tra i lavoratori. Intere ondate di scioperi selvaggi (con la partecipazione di studenti) nelle grandi industrie dell’Italia del Nord — che culminarono nel cosiddetto autunno caldo del 1969 — erano dirette non solo contro gli imprenditori o l’amministrazione statale dell’economia ma anche contro l’evoluzione verso il sistema dei grandi partiti dei lavoratori e dei sindacati (Steinert 1984, p. 471).

Furono i gruppuscoli sorti nel 1969 a rivolgersi ai lavoratori. Sullo sfondo dell’imminente scadenza della maggior parte dei contratti nazionali, che poteva produrre un periodo di tensioni, ci si aspettava in generale che ciò avrebbe offerto un’eccellente occasione di radicalizzare la lotta politica mediante la mobilitazione dei lavoratori contro gli stessi sindacati e i partiti riformistici, ivi incluso il partito comunista (Statera 1971, pp. 150-51).

E il «successo» non mancò: si ebbero infatti scioperi selvaggi, uno sciopero generale, assemblee di lavoratori e occupazioni di stabilimenti e fabbriche. Anche nella Repubblica Federale si ebbero scioperi — penso agli scioperi del settembre 1969: i sindacati, in considerazione della recessione del 1967 — quando per la prima volta nella storia economica della Repubblica Federale il prodotto interno lordo ebbe una stasi —, avevano accettato, a beneficio degli imprenditori, contratti nazionali «morbidi». Nel corso dei due anni successivi la situazione economica si ristabilizzò e, nell’estate del 1969, l’economia della Germania occidentale ebbe un periodo di congiuntura altamente positiva. I lavoratori profittarono, comunque, ben poco di questo positivo sviluppo economico: nel 1968 i tassi di crescita del reddito lordo da lavoro dipendente (7,3%) e quelli del reddito lordo da attività imprenditoriale e da patrimonio (19,5%) presentavano ancora differenze notevoli. A ciò andava aggiunto l’accresciuto carico di lavoro per il lievitare degli straordinari. E, fattore non ultimo, i profitti distribuiti ai lavoratori nel primo semestre 1969 indicarono chiaramente che la «simmetria sociale» che la grande coalizione si era data come scopo di primaria importanza non era stata realizzata in nessun modo. Infine il «caso Hoechst» dimostrò

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necessariamente interessati a mantenere la produzione a causa dell’ottima salute del portafoglio ordini (Schumann er al. 1971, pp. 27-30).

Anche gli scioperi illegali dei lavoratori ottennero qualche risultato: gli imprenditori concessero infatti una revisione dei contratti nazionali già in vigore. Tuttavia si potrebbe dire che, in Germania, quasi non esistono rapporti tra la protesta studentesca e quella dei lavoratori. Pochi lavoratori misero in rapporto diretto gli scioperi spontanei e le dimostrazioni studentesche; la parte prevalente di essi considerava gli studenti in modo ambivalente. I disordini del 1969 che ebbero a protagonisti gli studenti non ebbero alcuna influenza sugli orientamenti politici dei lavoratori tedeschi (Schumann et al. 1971, pp. 144-158). La coincidenza temporale e, a tutta prima, l'ampia coincidenza di contenuti tra movimento degli studenti e movimenti dei lavoratori diede alle forze radicali di sinistra in Italia un peso di gran lunga maggiore che in Germania — si pensi soltanto che le Brigate rosse sono discese da connessioni e legami allacciati da studenti con gruppi autonomi di base di fabbriche milanesi; di un siffatto processo di genesi, la tedesca Raf poteva soltanto sognare (Steinert 1984, p. 471). La seconda, importante, differenza rispetto alla Germania è connes-

sa alle reazioni dello Stato al movimento studentesco. Dato che nell’ambito e in conseguenza del movimento studentesco forze politiche di orientamento estremo avevano preso largo piede tra gli universitari, il decreto del presidente del Consiglio del gennaio del 1972 rimanda agli ordinamenti dei funzionari dello Stato vigenti dagli anni cinquanta che fanno obbligo a tutte le persone al servizio della Federazione di attenersi rigorosamente, nel complesso del loro comportamento, alle regole dell’ordinamento democratico: Il funzionario è al servizio di tutto il popolo e non di un partito. Deve assolvere ai suoi compiti in modo imparziale e con senso di equità avendo sempre presente, nell’espletamento del suo ufficio, il bene della comunità. Il complesso del suo com-

portamento deve ispirarsi all’ordinamento democratico di base nel senso della legge fondamentale e operare per la sua conservazione (par. 35 [1] della legge dei funzionari dello Stato, Brrg, cit. in Frisch 1975, p. 114).

La novità era rappresentata dall’introduzione della cosiddetta domanda regolare di tutela costituzionale (che tuttavia, dal 1979, è stata abolita nei Lander a governo social-liberale — esempio più recente lo Schleswig-Holstein, 1988 — e limitata nei Lander governati dall’Unione; Backes e Jesse 1984, pp. 35-39).

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Il movimento studentesco della Germanica occidentale

Il problema del controllo dell’accesso al servizio pubblico non esiste in Italia nella forma nella quale viene visto e trattato nella Repubblica Federale. Il diritto italiano non prevede regolamenti che rendono particolare il rapporto dei funzionari nell’ambito del servizio pubblico configurandolo come un rapporto fiduciario di obblighi in forza del quale il funzionario è tenuto a impegnarsi per lo Stato e per il suo ordinamento libertario-democratico di base di cui la Costituzione è tangibile espressione. Secondo la Costituzione italiana la fedeltà allo Stato e alla Costituzione è dovere generale dei cittadini; i funziona ri dello Stato sono tenuti inoltre all'adempimento secondo coscienza e onestà dei compiti loro affidati (Cassese e Ritterspach 1981, pp. 309-311). Oltre a ciò la Costituzione italiana propugna, in senso diverso dalla legge fondamentale, il concetto di una «democrazia battagliera». Essa, pur essendo «antifascista» — la ricostituzione del partito fascista è proibita — non conosce disposizioni generali tali da rendere possibili, come fa la legge fondamentale, interventi contro partiti politici anticostituzionali per cui anche i comunisti fanno parte del cosiddetto «arco costituzionale», cioè di quell’insieme di partiti che, per principio, affondano le loro radici nel terreno della Costituzione. In Italia, l'appartenenza a questo partito non può perciò costituire motivo di interdizione dell’accesso al servizio pubblico. La legge italiana (art. 98 della Costituzione) può tuttavia limitare il diritto di adesione a partiti politici ai giudici, ai militari di carriera, ai diplomatici del servizio estero e ai

funzionari di polizia, limitazione che, finora, è stata applicata esclusivamente a settori del servizio di polizia (Cassese e Ritterspach 1981, pp. 311). A protezione del servizio pubblico dagli estremisti si considerano sufficienti le disposizioni degli ordinamenti di lavoro e di servizio, penali e disciplinari. Premessa per l’assunzione la «buona condotta» del richiedente, debitamente

certificata. Gli accertamenti

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questione pur essendo ammessi, da un lato non hanno grande importanza e, dall’altro, non possono occuparsi né delle convinzioni né dell’attività o impegno politico del richiedente. Ostacolo principale all’assunzione è considerato un procedimento penale a carico del richiedente (Cassese e Ritterspach 1981, pp. 312-314).

Le teorie dei movimenti sociali La teoria sociologica spiega in tre modi diversi l’insorgenza di rivolgimenti e movimenti sociali. La teoria struttural-funzionalistica ve-

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de questi fenomeni come espressione di tensioni strutturali (Smelser 1972), per esempio di spostamenti nella struttura professionale, nella distribuzione del reddito e di mutamento nella posizione di importanza di determinati gruppi. Un’altra teoria (Gurr 1972) li considera conseguenze di una «deprivazione relativa»: i gruppi, che in confronto ad altri o alle proprie esigenze si sentono svantaggiati, si mettono in movimento. Una terza teoria (Blumer 1969) dichiara che i rivolgimenti e i movimenti sociali vanno intesi come processi di definizione collettiva di problemi sociali. Nel primo caso problemi obiettivamente esistenti vengono indicati come causa del fenomeno, nel secondo il tema diviene la percezione

delle disparità, nel terzo la definizione dei problemi viene prodotta proprio nei e attraverso i rivolgimenti e i movimenti sociali. Queste tre chiavi interpretative non si escludono a vicenda per principio ma hanno, per diversi casi concreti, diversa forza esplicativa. Per esempio i riots in Gran Bretagna sono riconducibili sia a preesistenti tensioni strutturali quali la disoccupazione giovanile, sia a deprivazioni prodotte dal fatto che la seconda generazione degli immigrati di colore confronta la propria posizione con quella dei coetanei locali. Il movimento studentesco, al contrario, agiva, come fanno oggi gli ecologisti e i pacifisti, non su una base di partenza di tensioni strutturali o di deprivazioni relative bensì nel tentativo di politicizzare con azioni spettacolari i problemi che aveva individuato o creduto di individuare. La concezione dello svantaggio o di una tensione strutturale è qui piuttosto il risultato che non la causa del movimento. Possiamo definire ciò «deprivazione secondaria».

Nuovi movimenti sociali e la borghesia colta

In generale, almeno in apparenza, i nuovi movimenti sociali insistono sui temi dei movimenti del XVIII e del XIX secolo: le idee di libertà, uguaglianza e fratel(sorel)lanza sono tornate attive all’interno di

gruppi femministi e pacifisti, la critica della civiltà all’interno di gruppi alternativi o ecologisti, la spiritualità del romanticismo si rinnova nel New Age. Paralleli sorprendenti si possono rilevare non solo rispetto alle idee di illuminismo e di controilluminismo ma anche rispetto al mondo ideale del movimento riformista e giovanile che si ebbe all’inizio di questo secolo. E tutto ciò conduce alla domanda se esistano condizioni comuni di struttura e di sviluppo dell’epoca moderna che conducano a questi fenomeni.

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X Il movimento studentesco della Germanica occidentale

I movimenti sociali si registrano, in genere, quando grandi gruppi della società si emancipano, cioè quando acquistano coscienza di sé e avanzano rivendicazioni politiche e culturali. Può trattarsi di grandi gruppi di nuova formazione, come l’insieme dei lavoratori, o la seconda generazione di immigrati o di grandi gruppi preesistenti che abbiano acquisito coscienza della loro situazione comune di movimenti di emancipazione o di arretramento economici o sociali. Tutte queste condizioni non sembrano tuttavia essere applicabili ai nuovi movimenti sociali che non rappresentano strati chiusi, né classi, né etnie. Si tratta infatti solo di piccoli gruppi che si raccolgono intorno a determinati temi per quanto possano sentirsi all’avanguardia della società. Anche precedenti esperienze di situazioni di svantaggio patite o incombenti hanno in questo contesto portata molto limitata; più frequente è l’atteggiamento di seguire imperativi categorici e di dover agire in rappresentanza di altri. Ciononostante sussistono indicazioni che permettono di localizzare questi movimenti nella struttura della società. Dai movimenti letterari dello Sturm und Drang e del romanticismo, attraverso le Burschenschaften e il movimento riformista e giovanile fino al movimento studentesco, la scuole e l'università hanno costituito da sempre il nucleo di cristallizzazione. In apparenza sembra che le «spinte» di questi movimenti coincidano con le fasi di espansione delle università e delle scuole nelle quali la massa può raggiungere dimensioni critiche tali da innescare determinate reazioni. Infine i movimenti sociali offrono spazi di sperimentazione nei quali giovani entrati nelle scuole e nelle università senza un adeguato retroterra familiare possono assumere stili di vita che li svincolino dalle loro origini. Se queste ipotesi sono esatte, si dovrebbero poter intravvedere temi che in qualche modo hanno a che fare con la situazione di vita dei loro portatori all’interno del sistema scolastico. Ciò ovviamente non in senso piattamente materialistico, secondo il quale le situazioni economiche si traducono linearmente in interessi e ideologie, bensì piuttosto nel senso che idee — per esempio di emancipazione personale, di formazione e istruzione a tutto tondo e di solida-

rietà mondiale — trovino nella situazione di vita di scolari e studenti terreno particolarmente fertile. Proprio per le ragioni di cui sopra tali movimenti diventeranno sempre più significativi: il numero di persone che non hanno risolto i loro problemi vitali semplicemente con il lavoro e il possesso ma che tentano una diversa qualificazione, è aumentato costantemente e, da circa trent'anni, di colpo. Di questa «classe di servizi» — la borghesia colta — è costitutiva una forte capacità di riflessione: gli appartenenti a questa

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classe si sono sentiti ripetere fin da piccoli, e ne hanno fatto esperienza, che dovevano

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vent'anni l’oggetto del loro proprio lavoro (Eckert 1985). I dati di partenza forniti dalla casa paterna, dalla confessione religiosa e dalla professione della generazione dei genitori sono quindi relativamente vaghi; la definizione della propria identità viene quindi assunta, nel corso della vita, in proprio e attivamente. In questo contesto anche i «nuovi» movimenti sociali rivelano la loro forza di connotazione e di contribuzione all’identità (Eckert 1988). Aderendo a idee, le persone si localizzano scientemente nella società e all’interno di una storia intesa come processo. I movimenti offrono contenuti sopraindividuali che divengono vincolanti non per tradizione ma per un atto di libera scelta: la coscienza determina il loro essere. Una rete di comunicazione di portata planetaria provvede a che le idee si diffondano nel mondo e possano diversificarsi sul mercato attraverso i meccanismi della domanda e dell’offerta. I cicli mediante i quali nuovi temi si annunciano e «sfondano» alla comunicazione, divengono routine e infine sedimentano in tradizioni oppure si burocratizzano in enti competenti, troveranno sempre la loro espressione nei movimenti.

Il profilarsi di discorsi moralizzatori Da che cosa sono determinati i loro temi? In apparenza nella società moderna assistiamo al profilarsi di un discorso moralizzatore in contrasto con le specializzazioni scientifiche, economiche, politiche e di potere. La diffusione mondiale dei meccanismi di mercato comporta innanzitutto la tendenza alla neutralizzazione degli aspetti morali delle decisioni e delle scelte. L'espressione «se non lo faccio io, lo fa

un altro», neutralizza qualsiasi ripercussione che i calcoli morali potrebbero avere sulla struttura. Va detto anche che nell’attuale situazione di stretta interdipendenza economica e politica è molto difficile vedere le conseguenze dei propri atti (chi mai pensa alle foreste tropicali quando si fa installare finestre di legno pregiato?). Si può supporre che, a contrasto di questa situazione, i criteri morali si rendano autonomi attraverso un proprio discorso e tentino di influenzare il sistema politico attraverso i mass media. Essi trovano i loro protagonisti nei gruppi sociali sorti nel e attorno al sistema scolastico in espansione. Qui si potrà accumulare un potenziale sociale di riflessione e problematizzazione autonomo, distanziato dalle tensioni strutturali e da ante-

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cedenti deprivazioni che potrà orientarsi verso i temi più diversi. Elemento comune a tutti questi temi è, comunque, l’evidenziazione dell’aspetto «morale», cui nei calcoli economici o politico-autoritari si lascia, apparentemente o effettivamente, troppo poco spazio. Abbiamo a che fare qui con un potenziale conflittuale caratterizzato da chiare evidenze di persistenza.

Riferimenti bibliografici K.R. Allerbeck,

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“vom Bundesminister des Innern, Bd. 4/2, Opladen, pp. 387-603.

158

e

IL MOVIMENTO DEL ’68 IN SPAGNA di Alfonso Botti

Mancano studi specifici sul 268 spagnolo e anche nell’ormai abbondante letteratura sui movimenti giovanili e sociali della fine degli anni sessanta il riferimento alla Spagna è pressoché assente. Eppure non era mancata — e proprio da noi — una. tempestiva messa in guardia contro il «silenzio immotivato» nei riguardi del movimento studentesco spagnolo e contro il pregiudizio di ritenerlo solo un aspetto della più ampia resistenza antifascistal. Una rivista studentesca genovese, poi, nel giugno ’68 aveva scritto: In tutti gli altri paesi del mondo il considerare gli studenti una forza oggettivamente rivoluzionaria è stata una velleità o un'illusione intellettualista. Essi lo diventano solo nel momento in cui si appoggiano alla classe operaia e ad altre forze economicamente subordinate identificando con esse scopi e mezzi di lotta, giacché incon-

testabilmente è il sistema con i rapporti di produzione che gli sono propri, a condizionare la scuola e non certo il contrario. In Spagna no. Gli studenti sono la rivoluzione, gli organizzatori, gli ideologi e gli autori di ogni azione eversiva?.

Un giudizio enfatico dal quale non era lontano chi, riproducendolo, se ne era servito per sostenere che gli universitari spagnoli avevano an-

ticipato i coetanei europei nel far nascere «la democrazia delle assemblee, i collegamenti diretti tra le avanguardie intellettuali e sindacali», nel teorizzare «la sostituzione del mondo studentesco alla classe operaia nel ruolo di avanguardia rivoluzionaria», nonché nel trasferire l’iniziativa «dai gruppi politici tradizionali del regime e dell’opposizione ai groupuscules dell’estrema sinistra, gli anarchici o acratas come si

chiamano a Madrid, ai maoisti, ai guevaristi»3. Ai poli cronologici estremi, quindi a distanza tra loro di circa vent’anni, da prospettive diverse e con minore trionfalismo il secondo, Max Gallo e Stanley G. Payne concordano nell’indicare nella parte finale di

159

sa,

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Alfonso Botti

quel decennio una straordinaria crescita delle lotte e della mobilitazione. Che, d’altra parte, l’impennata subita dal numero delle sentenze emesse dal Tribunale dell’ordine pubblico nel °68 e ’69 conferma ampiamente?. Come spiegare, allora, la mancata estinzione da parte della storio-

grafia spagnola del debito contratto con un oggetto che pure si era precocemente posto come tale? L’isolamento del paese a causa del franchismo, l’abitudine della storiografia spagnola di periodizzare sulle scansioni politiche e il perdurare al di qua dei Pirenei di un atteggiamento che considera la penisola iberica estrema periferia dell’Europa, solo in parte rendono ragione dello stato degli studi. Su di esso, in modo ben altrimenti determinante, ha influito in un

primo tempo l’urgenza politica di avvicinare l’avvento della democrazia anche attraverso la sottolineatura dell’anomalia spagnola nel contesto europeo (per la presenza di una dittatura) e della peculiarità del relativo movimento (ricondotto nell’alveo di un movimento per la democrazia).

Se ne coglie una delle prime e più autorevoli manifestazioni nella posizione che lo storico Tufién de Lara assume nel ’69 su Esprit laddove, ripercorse le fasi della mobilitazione universitaria del suo paese, precisa trattarsi di un fenomeno di opposizione democratica al quale sarebbero estranee, o del tutto marginali, le forti venature gauchistes del maggio francese®. Atteggiamento frutto di una preoccupazione politica immediata indubbiamente più nobile della sua perpetuazione successiva, che ha condotto a leggere i movimenti sociali degli ultimi anni del franchismo nel quadro della storia dell’opposizione e in esclusivo riferimento ad essa’, precludendo in questo modo la possibilità di cogliere nel ’68 spagnolo tutti quegli elementi che peculiari non erano perché collegati alle tematiche del più vasto movimento sul piano internazionale. Per ragioni politiche prima, per la confusione poi tra il sistema politico e la fase di sviluppo socio-economica, si è indebitamente e a lungo insistito sul ritardo e sull’arretratezza del paese. Una diversa prospettiva si apre, invece, collocando la Spagna della fine degli anni sessanta nel posto che realmente occupa: quello di un paese che ha conosciuto nel corso di tutto il decennio un ritmo di crescita dell'economia inferiore nel mondo capitalistico solo a quello del Giappone8, che vede la propria forza lavoro dislocata analogamente a quella dei paesi a più avanzato sviluppo capitalistico, con un forte incremento quindi nell’industria e nei servizi e un calo nell’agricoltura, che è stato percorso da notevoli correnti di migrazione interna in direzione dei poli industriali?. In definitiva: un anello ancora debole, per storia e condizioni di partenza, tra i paesi a forte sviluppo capitalistico, ma pur sempre e pienamente anello di questa catena.

160

Il movimento del ’68 in Spagna

A spianare la strada a tale sviluppo economico ha provveduto con una serie di misure antiautarchiche, di apertura al commercio estero e favorevoli all’industria privata, la nuova classe di tecnocrati vicini o affiliati all’Opus Dei che, com’è noto, diviene nel corso degli anni ses-

santa la «famiglia» più influente del franchismo e, di conseguenza, nel governo. Alla quale si affiancano uomini di differente estrazione che operano per un cauto aggiornamento del regime, primo tra tutti Fraga Iribarne la cui legge sulla stampa (15 marzo 1966) che abolisce la censura preventiva, è giustamente considerata la punta massima della libe-

ralizzazione franchista!0. Ora, è assumendo come dato centrale della storia della Spagna della seconda metà degli anni sessanta non il regime franchista nella corrispondente fase di metamorfosi o di adattazione funzionale, ma l’esi-

stenza di una crescente dicotomia, e quindi di un’insanabile contraddizione, tra la fase di sviluppo capitalistico della società nel suo complesso e un sistema politico arcaico nonostante i tentativi di cosmesi, che si

apre la strada per cogliere la reale peculiarità del caso spagnolo anche a proposito del movimento del ’68. La si potrebbe rintracciare nella dinamica delle lotte operaie e di quartiere, nelle forti tensioni che percorrono la Chiesa cattolica spezzandone finalmente l’antica solidarietà col regime, nei primi vagiti della coscienza femminista e di una nuova consapevolezza democratica in

alcune professioni liberali!!. Come, d’altra parte, potrebbe essere rinvenuta nell’impatto che, complessivamente considerato, il movimento del ’68 ha sulle forze politiche dell’opposizione di sinistra, come rivelano vari processi: quello che sospinge anzitutto l’Eta proprio nell’estate del ’68 sul terreno della lotta armata in precedenza solo predicata; poi quello che investe il Frente de liberaciòn popular (Flp) acuendo i contrasti tra le sue diverse anime fino allo scioglimento di lì a pochi mesi dell’organizzazione; oppure quello che provoca la nascita di nuovi raggruppamenti d’estrema sinistra o la temporanea fortuna dei preesistenti; quello, infine, che ridefinisce l’area socialista con la costitu-

zione del Partido socialista del interior ad opera di Tierno Galvan e con il delinearsi dell’asse basco-andaluso che porterà alla rifondazione del

Psoel2, Se si sceglie il movimento studentesco, con l’aggiunta di qualche cenno al tema dell’organizzazione del sapere e alla ricerca storiografica, come terreni di verifica, è anzitutto per sottolineare che anche in Spagna, come altrove, è nel mondo universitario che prima, con mag-

giore intensità e radicalità, si registra il cortocircuito dei tradizionali assetti del potere e la crisi del sapere ad esso collegato. In secondo luo-

161

»

Alfonso Botti

go perché è proprio nella lotta degli studenti che meglio affiora il tratto specifico del movimento spagnolo nel suo complesso. Se l’intensificarsi e l’estendersi della protesta studentesca in Spagna a partire dalla metà degli anni sessanta è figlia del proprio tempo, essa non di meno affonda le radici nel precedente decennio. Si suole indicarne l’origine nelle manifestazioni madrilene del febbraio del ’5613 — a loro volta precedute di qualche mese da quella occasionata dalla morte di Ortega y Gasset — in favore di un diverso, più libero e rappresentativo, sindacato studentesco; richieste che gettano un certo scompiglio nella compagine governativa provocando la rimozione del ministro dell’Educazione (Joaquîn Ruiz Giménez) e l’allontanamento dei rettori delle Università di Madrid e Salamanca (Laîn Entralgo e Tovar),

ritenuti troppo morbidi nei riguardi delle rivendicazioni studentesche. In un’università ricostruita sull’epurazione dopo la vittoria franchista nella guerra civile, che sulla base della legge universitaria del 43 (ancora in vigore nel 68) subordina l’insegnamento al rispetto del dogma e della morale cattolica nonché al programma del Movimiento e nella quale è reso obbligatorio l’inquadramento nel Sindacato espafiol universitario (Seu), prolungamento del sindacato universitario falangista della II Repubblica, la questione della diversa organizzazione e rappresentanza sindacale riveste un'importanza fondamentale e rivela subitolapropria incompatibilità con il regime. E proprio su questa base che, a partire dal ’56 e scontando un’iniziale fase di ripiegamento, il movimento studentesco cresce e si ramifica nelle varie sedi universitarie approdando con l’aiuto determinante del Pce, del Flip e del Psoe, tra il 61 e il ’62 alla costituzione della Federaci6n universitaria democratica espafiola (Fude) e provocando la crisi irreversibile

del Seu, di cui prende atto lo stesso governo nell’aprile del ’65. All’inizio di quell’anno data l’ulteriore salto di qualità del movimento che fa naufragare in poco tempo il tentativo del governo di sostituire il Seu con delle Asociaciones profesionales de estudiantes (Ape). Si tengono libere e affollate assemblee. Da quella madrilena che vede riuniti circa seimila studenti nel febbraio ’65 esce la richiesta di un sindacato libero, autonomo e rappresentativo; l’amnistia totale per studenti e professori colpiti dalla repressione nelle precedenti mobilitazioni; la libertà d’espressione nell’università nonché una dichiarazione di

solidarietà con le richieste di aumenti salariali degli operai. Le assemblee sfociano spesso in occupazioni, manifestazioni e sit-in a cui, immancabile, segue la repressione.

Nel marzo dell’anno successivo circa cinquecento studenti con numerosi intellettuali e professori si riuniscono clandestinamente nel con-

162

Il movimento del ’68 in Spagna

vento cappuccino di Sarrià (Barcellona). Sorpresi dalla polizia, vengono arrestati e molti professori sospesi dall’insegnamento per due anni. Dall’assemblea, nota col nome di Caputrinada, e dalle manifestazioni di risposta alla repressione che seguono nasce l’embrione di quello che di lì a poco sarà il Sindacato democratico de estudiantes (Sde) che fin dall’inizio intratterrà stretti rapporti con le Comisiones Obreras (Ccoo). Il 27 gennaio ’67 le Ccoo indicono a Madrid una giornata di lotta per gli aumenti salariali e per contribuire all’elaborazione della legge sindacale che è in cantiere. Gli studenti universitari partecipano in massa ai vari cortei e agli scontri con la polizia in cui questi sfociano. La mobilitazione e gli scontri continuano fino al 30. Seguono numerosi arresti e tra questi quello dello studente Rafael Guijarro Moreno, che durante la notte muore in circostanze misteriose e ancora non chiarite nei locali della polizia politica che dichiara essersi trattato di suicidio. Di lì a due anni un altro studente, Enrique Ruano, morirà in circostanze analoghe tuttora avvolte da un fitto mistero. Dopo una riunione preparatoria di coordinamento nazionale che si celebra a Valencia, il 26 aprile si costituisce il Sde dell’ateneo madrileno. Dall’assemblea costituente, alla quale partecipano circa tremila studenti, esce una dichiarazione programmatica in undici punti nella quale si chiede libertà d’associazione, autonomia nell’organizzare un sindacato autenticamente rappresentativo, libertà d’espressione, diritto di riunione, di sciopero e manifestazione, nonché di partecipazione agli organi della cogestione universitaria, indicando come obiettivo fondamentale la riforma democratica dell’università!4. Con l’ateneo madrileno è quello di Barcellona

alla testa del movimento

studentesco,

ma

piattaforme analoghe vengono elaborate nelle università di Valencia, Bilbao, Santiago de Compostela, Siviglia e Valladolid. Alle quali si aggiungeranno, nella mobilitazione e nella protesta, quelle di Oviedo, Saragozza, Salamanca, Malaga e Granada. Nei mesi seguenti, infatti, si moltiplicano le riunioni di coordinamento nazionale, le giornate e settimane di agitazione, le manifestazio-

ni a cui fanno seguito le serrate delle facoltà e di intere università, gli incidenti con la polizia, gli arresti e i processi dei leader, veri o presunti, del sindacato studentesco.

Sicché fin dai primi giorni del ’68, la tensione negli atenei è alta. Lé immatricolazioni nell’anno accademico 1967-68 raggiungono le 115.590 unità, in gran parte concentrate nei distretti universitari di Madrid (36.575) e Barcellona (14.988), dov’è altissimo il numero di af-

163

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Alfonso Botti

ioni ha)

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filiati al Sdel5, L’11 gennaio viene chiusa la facoltà di Scienze politiche dell’ateneo madrileno. Il 28 un provvedimento dell’autorità governativa mette a disposizione del rettore e dei presidi della stessa università uno speciale corpo di polizia che viene fatto stazionare, pronto all’evenienza, nelle varie facoltà!°. Della crescita del Sde come movimento di massa sono testimonianza gli attriti che si creano tra questo e la Fude, che avendo continuato ad operare in forma più clandestina, ri-

tiene ora maturo il momento per spingere la lotta sul piano più nettamente anticapitalistico e rivoluzionario, stigmatizzando l’atteggiamento della direzione del Sde come compromissorio e riformista. Attriti che riflettono la crisi della precedente alleanza tra Pce e Flp, lo spostamento a sinistra di importanti settori di ques’ultimo, nonché l’accresciuta influenza di organizzazioni di nuova sinistra d’orientamento anarchico e trockista. Lo rivela il Manifiesto dell’8 gennaio ’68 nel quale si critica l’economicismo di certe rivendicazioni studentesche e ci si rivolge a un ampio fronte comprendente la base «onesta» del partito comunista per l’unificazione delle avanguardie rivoluzionarie iin un partito operaio a

base sindacale per la presa del potere!7. Del resto la Fude già nel maggio del ’67, contro il presunto naufragio della sinistra tradizionale nello spontaneismo dei nuovi movimenti sindacali democratici e di massa, richiamava la necessità di insistere sulla formazione di quadri e di avanguardie politiche capaci di inalveare e dirigere la lotta. Perché, era scritto nel suo bollettino: Lottare per un salario minimo adeguato è un passo necessario, ma è imprescindibile nel farlo rendersi conto della sua parzialità!

Laddove, sia pure in forma mediata dalla teoria leninista delle avanguardie, i quadri studenteschi si candidavano alla direzione della lotta rivoluzionaria, introducendo nel dibattito politico il tema dell’individuazione dei reali soggetti rivoluzionari destinato a far discutere!9, Con la sostituzione al dicastero dell'Educazione e della Scienza di Manuel Lora Tamayo con Villar Palasi (14 aprile) il regime cerca di avviare innovazioni capaci di far fronte alla forte crescita della popolazione universitaria. Si creano tre nuove università a Madrid, Barcellona e Bilbao; due istituti superiori politecnici a Barcellona e Valencia; nuove facoltà a Santander, San Sebastian e Badajoz (6 giugno). Il sindacato studentesco si autofinanzia raccogliendo quote per organizzare seminari, assegnare contributi di studio, gestire librerie, pubblicare riviste. Si tengono seminari su Lautréamont, sul surrealismo, su

164

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Il movimento del ’68 in Spagna

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Trockij; dibattiti sulla nazionalizzazione delle banche; si organizzano comitati antimperialistici contro la guerra in Vietnam?0, Un testimone racconta: Nel 1967-68 l’università si trasforma in un avamposto. L’avanguardia del movimento studentesco ha la capacità di fare mille cose. E come al Palazzo Nevskij nel "17. S’inizia una campagna antimperialista, riescono grandi manifestazioni, assemblee gigantesche. Allora arriva il maggio francese e per la gente questo è «tutto». La gente vola a Parigi e ci sono detenuti spagnoli a ripetizione. Nell’autunno ’68 la dinamica rivoluzionaria continua. La repressione è amplissima ed è allora che muore Enrique [Ruano]. Si dichiara lo stato d’emergenza e la repressione è incredibile. Cerchiamo di adattare l’organizzazione del movimento alle nuove condizioni, l’attività è un’attività di agitazione politica, di propaganda, di manifestazioni, di comandos in tutta Madrid. Ci sono quattro o cinque comandos al giorno. Io sono un rivoluzionario di professione la mattina, la sera e di notte?!.

Intanto, il 18 maggio, il principale rappresentante della canzone di protesta spagnola, il cantautore catalano Raimfn, tiene un affollatissimo concerto, autorizzato dalle autorità accademiche, nella facoltà di Scienze politiche, economiche e commerciali dell’università madrilena. Conclude com'è solito fare a quei tempi con la canzone Sobre la pau dedicata al Che: un’invettiva contro la falsa idea della pace come paura e rassegnazione?2, Si forma allora un corteo composto di circa seimila studenti che si dirige verso il centro della città e che, caricato

dalla polizia, reagisce costruendo barricate e lanciando bottiglie molo-

tov23, AI 1968 risale un volantino in cui si legge: Non vogliamo un’università al servizio della borghesia. Non vogliamo essere i tecnici, gli economisti, gli ingegneri... che studiano scientificamente il miglior sfruttamento della classe operaia. Non vogliamo convertirci in trafficanti e venditori di una cultura monopolizzata dalla borghesia. Non vogliamo essere medici, scienziati, giuristi... con una funzione sociale al servizio di una classe dominante e di un ingiusto ordine stabilito24,

Saranno poi i mesi di stato d'emergenza decretati il 24 gennaio 1969 unitamente alla frantumazione del movimento studentesco in gruppi fortemente ideologicizzati a provocarne la crisi come soggetto politico. I sommari riferimenti cronologici e i cenni ad alcuni dei principali episodi della contestazione studentesca spagnola non rendono certo ragione della sua complessità e fenomenologia. Sembrano tuttavia sufficienti a dimostrare ai detrattori, agli smemorati e agli gnorri, l’esisten-

za di un ’68 in Spagna e a sconsigliare la scorciatoia di risolverne l’interpretazione nell’angusto ambito dell’anomalia spagnola. Certo, l’ac-

165

Alfonso Botti

cesso all’università non è nella Spagna del °68 un fenomeno di massa (ma non lo è allora neppure in Italia, Francia, Germania, e ancor meno negli Stati Uniti) e la popolazione universitaria è un’élite d’estrazione sociale medio e alto-borghese. Ciò proporziona indubbiamente le dimensioni del movimento. Il duro confronto con il regime con cui esso è costretto a misurarsi condiziona anche l’orizzonte delle rivendicazioni e, almeno in un primo momento, l’ideologia democratica che le ali-

menta. Ciò spiega la centralità del discorso sull’organizzazione sindacale e i limiti degli undici punti costituenti il Sde madrileno sopra ricordati. Ma, come si è visto, compaiono anche episodi e di esso fanno parte anche aspetti che rinviano al radicalismo di una generazione studentesca senza connotazioni nazionali. Un’analisi del tasso di radicalismo degli studenti spagnoli di quegli anni attraverso l’esame di alcune centinaia di pubblicazioni di varia natura è stato tentato da Maravall, nello studio più volte ricordato. Esso, pur riconoscendo una crescita di radicalismo tra il primo (1960-65) e il secondo periodo (1965-69), mettendo in luce come principale costante rivendicativa la richiesta di libertà democratiche, induce a ritenerne modesto il livello. Ma il ragionamento seguito e gli indicatori scelti appaiono poco convincenti, e comunque di valore relativo, se si pensa alla necessità di mediare il messaggio politico a cui la situazione costringeva?5.

Anche nel dibattito sulla riforma universitaria, poi, s’affacciano motivi concernenti la questione dell’organizzazione degli studi e del sapere che vanno abbondantemente oltre l’orizzonte della trasformazione democratica dell’università. Tra quanti intervengono sull’argomento, l’approccio più radicale è senza

dubbio

quello di Manuel

Sacristan,

l’intellettuale

e filosofo

marxista forse più prestigioso e lucido di tutto il dopoguerra spagnolo a cui principalmente si deve la ripresa critica del marxismo nel paese?9, Studioso fra l’altro di Labriola e Gramsci e dei rapporti tra marxismo e neopositivismo, ispiratore e partecipe del movimento studentesco bar-

cellonese?7, Sacristàn si dichiara in Sobre el lugar de la filosofia en los estudios superiores favorevole all’eliminazione del corso di laurea in filosofia, degli esami di filosofia dagli altri corsi di laurea e come materia d’insegnamento negli istituti superiori. Critico della tradizionale impostazione degli studi che sfugge al confronto tra le scienze (anche quelle sociali) e la filosofia, propone una drastica abolizione di

quest’ultima dall’iter scolastico e universitario per recuperarla in una superiore dimensione: quella di un Istituto generale di filosofia nel

166

Il movimento del ’68 in Spagna

quale si coordini l’attività e la riflessione sui rispettivi oggetti e metodologie di scienziati, artisti, storiografi, ecc.28, Di poco successive sono le tre conferenze raccolte in La universidad y la divisibn del trabajo pubblicate a partire dal ’71 in varie sedi e versioni?9. Nell’impossibilità di prestar loro l’attenzione che meriterebbero, basterà ricordare che esse nascono dal confronto e dalla polemica con l’estremismo di quelle avanguardie studentesche che pretendevano distruggere l’università per abolire la divisione del lavoro: una posizione che Sacristàn stigmatizza attraverso una sottile analisi delle funzioni dell’istituzione universitaria nelle varie fasi del capitalismo e nella prospettiva socialista.

Anche per quanto riguarda gli orientamenti della ricerca storiografica, infine, tra il °67 e il ’69 si registra una significativa svolta, in particolare nelle Università di Barcellona e Valencia. Vi è alla base — com’è stato osservato — il recupero del metodo

marxista nell’analisi della formazione sociale spagnola30. Ma vi è soprattutto il dibattito politico sulla transizione al socialismo che, considerata all’ordine del giorno, orienta l’attenzione di una nuova generazione di studiosi, rappresentata soprattutto da Josep Fontana ed Enric Sebastià, sui temi della transizione dal feudalesimo al capitalismo, del-

la rivoluzione borghese e sul particolare modello che esse assumono in Spagna.

Nel 1967 esce Catalanisme i revoluciò burguesa3! di Solé-Tura, dove, pur indicando nella storia del nazionalismo catalano la storia di una rivoluzione borghese frustrata, si individua sotto il franchismo l’esistenza di una «rivoluzione borghese in atto»32 e si riconosce negli anni sessanta l’egemonia della borghesia industriale e finanziaria nel blocco di potere. Da cui deriva la necessità di abbandonare la priorità degli obiettivi antifeudali nella lotta antifranchista per il socialismo. Nel ’68 Ignazio Fernàndez de Castro pubblica presso le edizioni parigine del Ruedo iberico il saggio De las Cortes de Cadiz al Plan de Desarrollo,

1808-196633, nel quale sostiene che la democrazia politica

non costituisce l’obiettivo essenziale della rivoluzione borghese e che è pertanto perfettamente possibile una tappa borghese della rivoluzione (e il caso spagnolo sarebbe al riguardo il più tipico esempio) senza che

si raggiunga la democrazia politica34. Verranno poi i lavori di Fontana e Sebastià, intenti alla fine degli anni sessanta nelle ricerche per la tesi di dottorato, a definire rispettiva-

mente il modello spagnolo della crisi dell’ancien régime3, le fasi della 167

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RE e II

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Alfonso Botti

rivoluzione borghese e dell’affermazione del modo di produzione capitalistico nel paese39. Ricerche la cui analisi esula da queste note, ma indiscutibile testimonianza dell’indirizzo innovativo che assumono gli studi storici in conseguenza del dibattito politico e storiografico dell’ultimo scorcio del decennio. Si possono a questo punto avanzare almeno due considerazioni conclusive di ordine generale. Tra il ’67 e il ’69 il processo di maturazione della società civile spagnola giunge alle pareti di un sistema politico che non riesce più a contenerlo. L’opposizione si socializza, esce alla luce del sole e diviene fenomeno di massa. Lo sguardo collettivo s’appunta sull’Europa come mai era avvenuto sino a quel momento. All’Europa si guarda per via dei sistemi democratici che quasi ovunque ne amministrano le sorti e per le tensioni e le lotte che vi sono esplose. L’isolamento del proprio paese cessa, per la prima volta dopo trent'anni, di essere considerato da parte di larghe masse di spagnoli come destino inesorabile. Le mura maestre del franchismo si crepano allora. Nelle stanze in cui, alcuni anni dopo, si tenterà di protrarre artificialmente l’agonia del suo eroe eponimo crolleranno solo le pareti interne. Di qui — ed è questa la prima considerazione — il valore periodizzante di quegli anni per la storia spagnola del dopoguerra, del franchismo e dell’opposizione ad esso. L’ariete che, azionato dallo sviluppo economico e dalle trasformazioni sociali del precedente decennio, crepa quelle mura è il movimento che da quegli anni prende il nome. Si tratta di un movimento complesso nel quale una componente che per comodità espositiva può chiamarsi democratica per l’orizzonte delle sue rivendicazioni, s’intreccia, si sovrappone e a volte inconsapevolmente convive con una componente più radicale, alimentata dalla ripresa del marxismo, che più in sintonia pare con i motivi del ’68 sul piano internazionale per quanto riguarda la critica dell’esistente capitalistico, dei ruoli sociali codificati, dell’organizzazione della cultura e

gestione del sapere. Di qui l’ambivalenza — questa la seconda considerazione — che del movimento spagnolo costituisce il tratto più tipico. Manca la necessaria prospettiva storica per decifrare la successiva parabola che esso descrive. Si può solo azzardare e affidare alla verifica del tempo l’idea che sarà l'onda lunga di questo movimento a sostenere il cambio politico alla morte del caudillo e la successiva transici6n alla democrazia. Che

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Il movimento del ’68 in Spagna la caduta verticale del radicalismo nel desencanto abbia coinciso con

l’inizio dell’età, a quanto sembra destinata a durare, dell’amministrazione socialista, è invece solo una constatazione.

Note LT

Delogu,

«Quattro

fasi della lotta studentesca

spagnola»,

Critica marxista,

6

(1968), n. 6, p. 246.

2 V. Fall out, (Genova), 7 giu. 1968, n. unico. Il passo è riprodotto in L. Garruccio, Spagna senza miti, Mursia, Milano, 1968, p. 461.

3 Ibid., p. 457. Ulteriori dimostrazioni d’interesse sono G. Marin, «L'opposizione studentesca in Spagna», Mondo Nuovo, 10 (1968), n. 17, p. 21 e F. Rojo (cur.), Spagna rivoluzione, Centro ricerche e documentazione, Roma, 1969; B. Schutze, La Resistenza nelle

università spagnole, Libreria Feltrinelli, Milano,1969. 4 «In quegli anni 1967-68 il potere franchista deve fronteggiare una vera e propria offensiva che, nonostante la repressione, assume ben presto un’ampiezza senza precedenti e i cui principali focolai sono le fabbriche e le università, le province basche e le chiese, dove i giovani preti s’impegnano deliberatamente nell’azione accanto agli operai e agli studenti. Mai dai tempi della guerra civile, si sono viste tante manifestazioni e una simile determinazione» (M. Gallo, Storia della Spagna franchista, Laterza, Bari, 1972, p. 543). L’ispanista statunitense osserva, da parte sua, che «la ultima parte de la década de los sesenta fue una época de crecimiento de la oposici6n y el desorden en las universidades y el norte industrializado» (S. G. Payne, E/ régimen de Franco, Alianza Editorial, Madrid, 1987, p. 538). 5 Le sentenze emesse dal Tribunale dell’ordine pubblico sono, tra condanne e assoluzioni, 221 nel 1968 e 335 nel ’69, contro le 156 del 1967. Il dato del ’69 sarà superato so-

lo a partire dal ’73 (S.G. Payne, E/ régimen, cit., p. 552, che riproduce i dati elaborati da Miguel Cid nella Historia de la Transicibn, Madrid, «Diario 16», p. 126). 6 M. Tufién de Lara, «Le problème universitaire espagnol», Esprit, 37 (1969), n. 381,

pp. 842-855. In precedenza, riflettendo a caldo sugli avvenimenti francesi, avevano insistito sulla peculiarità del caso spagnolo Aranguren, che aveva invitato a non confondere la fase di sviluppo della società francese con quella spagnola, e vari professori universitari (Pedro Laîn Entralgo, Antonio Tovar, Angel Latorre, Alejandro Nieto, Salustiano del Campo, Paulino Garagorri) interpellati da un’inchiesta della Revista de Occidente. Rispettivamente v. J.L.L. Aranguren, «La Revolucién de mayo en Paris, y Espafia», Cuadernos para el Dialogo, (1968), n. 56-58, p. 17; «Encuesta sobre los movimientos

estudiantiles», Revista de Occidente, 6, 2 epoca (1968), n. 68, pp. 172-230. Un capitolo a parte meriterebbero le interpretazioni che in Spagna vengono fatte del maggio francese e lo studio delle ripercussioni che esso ha nel paese. Le principali fonti che possono essere indicate al riguardo sono, oltre ai Cuadernos para el Dialogo e alla Revista de Occidente già segnalati, la rivista cattolica progressista £/ Ciervo (Barcellona), le riviste comuniste

Realidad, Nuestra bandera e Mundo Obrero, il settimanale indipendente d’orientamento democratico Triunfo, la rivista del dissenso comunista che fa capo a Claudin e a Semprun Cuadernos de Ruedo Iberico, nonché il quotidiano Madrid che proprio per la qualità della sua informazione sui moti studenteschi venne sospeso per due mesi dal 31 maggio ’68.

TÈ appena il caso di far notare che è proprio a ridosso del °68-69 che compaiono le prime storie del franchismo e dell’opposizione. Oltre a M. Gallo, Storia, cit., v. S. Vilar,

169

+

Alfonso Botti Contro Franco. I protagonisti dell'opposizione alla dittatura, 1939-1970, Feltrinelli, Milano, 1970; J. Georgel, Il franchismo. Storia e bilancio 1939-1971, Sei, Torino, 1972; G.

Hill,

Spain,

Hale,

London,

1970;

K.

von

Beyme,

Vom

zur

Faschismus

Entwicklungsdiktatur, Piper, Miinchen, 1971.

8 R. Carre J.P. Fusi, La Spagna da Franco a oggi, Laterza, Bari, 1981, p. 65. 9 Prendendo il 1960 e il 1968 come termini di riferimento, il reddito nazionale passa da 609 a 1.846 miliardi di pesetas; il prodotto nazionale lordo da 833 a 1.502 miliardi (al valore del 1964); il reddito pro capite da 30,8 a 57,2 migliaia di pesetas; il reddito pro capite degli individui attivi da 78,9 a 149,8 migliaia (al valore del 1973). La popolazione at tiva impiegata nell’agricoltura passa percentualmente dal 41,7 al 31,2%, nell’industria dal 31,8 al 36,3%, nei servizi dal 26,5 al 32,5%. Per lo stesso periodo si quadruplicano gli in-

vestimenti del capitale privato straniero e le presenze turistiche passano da 6.113.255 a 19.183.973 (i dati, tratti dalle statistiche ufficiali spagnole parzialmente rielaborate, sono

quelli che forniscono J. A. Biescas e M. Tufiòn de Lara, Espania bajo la dictadura franquista, 1939-1975,

Labor,

Barcellona,

2° ed. 1987). Un’utile

e più completa

sinossi

dell’evoluzione economica fornisce R. Tamames, La Republica. La Era de Franco, Alfaguara, Madrid, 10* ed. 1983, pp. 331-437; del quale v. anche il fortunato Estructura economica de Espafia, Alianza, Madrid, 16° ed.s 1985. Infine v. A. Garcia Barbancho, Las migraciones interiores espaiolas en 1961-70, Instituto de Estudios Economicos,

Madrid, 1974; nonché la voce Espafia, in Enciclopedia universal ilustrada europeo-americana, Suplemento anual, 1967-1968, Espasa-Calpe, Madrid, 1973, pp. 681-736.

10 R. Tamames, La Republica, cit., p. 488. Un ottimo inquadramento delle varie fasi del franchismo, e quindi anche di quella qui in esame, nonché del dibattito sulla natura del regime, fornisce, in veste di rassegna storiografica, G. Rovida nella voce Franchismo, in Storia d' Europa, 1, La Nuova Italia, Firenze, 1980, pp. 348-373.

11 Senza alcuna pretesa di completezza, i riferimenti bibliografici essenziali al riguardo delle lotte operaie sono: M. Calamai, La lotta di classe sotto il franchismo. Le Commissioni operaie, De Donato, Bari, 1971, pp. 49-71; Id., Storia del movimento operaio spagnolo dal 1960 al 1975, De Donato, Bari, 1975, pp. 83-101; N. Sartorius, E/ resurgir del movimiento obrero, Laia, Barcelona, 1975; M. Ludevit, E/ movimiento obrero en Catalunia bajo el fran-

quismo, Avance, Barcelona, 1977. Per quanto riguarda la Chiesa e il comportamento politico dei cattolici, v. G. Hermet, Los catolicos en la Espana franquista, Il: Cronica de una dictadura, Centro de investigaciones sociologicas, Madrid, 1986, pp. 334-411 (ed. orig. franc. Presse de la Fondation nationale des sciences politiques, Paris, 1981). Per gli incunaboli del femminismo: C. Alcalde, E/ feminismo iberico, Oikos Tau, Barcelona, 1970; M. A.

Campany, E/ feminismo a Catalunya, Nova Terra, Barcelona, 1973; A. Moreno, Mujeres en lucha, Anagrama, Barcelona, 1977 e soprattutto G. Di Febo, L'altra metà della Spagna. Dalla lotta antifranchista al movimento femminista (1939-1977), Liguori, Napoli, 1980.

12 Aspetti tutti ancora poco studiati in sé e in rapporto al movimento del ’68, per i quali non si va, generalmente, oltre le rapide considerazioni contenute in S. Vilar, Historia del antifranquismo, 1939-1975, Plaza y Janes, Barcelona, 1984. Il quadro migliora di poco nella saggistica e storiografia dedicata ai singoli partiti e movimenti politici. A questo proposito v. G. Jauregui Bereciartu, /deologia y estrategia de Eta. Analisis de su evolucibn entre 1959 y 1969, Siglo XXI, Madrid, 1981; P. Ibarra, La evolucién estrategica de Eta, 1963-1987, Editorial Kriselu, Donostia, 1987; J. Sullivan, E/ nacionalismo vasco radical (1959-1986), Alianza Universidad, Madrid, 1988; P. Unzueta, Los nietos de la ira. Nacionalismo y violencia en el Pais Vasco, El-Pais — Aguilar, Madrid, 1988; V. Alba, E! Partido Comunista en Espafia, Planeta, Barcelona, 1979; G. Moran, Miseria y grandeza del Partito Comunista de Espafia, 1939-1985, Planeta, Barcelona, 1986; R. Arnau [J. Bonet], Marxisme català i questiò nacional catalana, Edicions Catalenes de Paris, Paris, 1974; A. Sala e E. Duran, Critica de la izquierda autoritaria en Cataluria,

170

Il movimento del ’68 in Spagna 1967-1974, Ruedo Iberico, Paris, 1974; O. Alberola e A. Gransac, E/ anarquismo espafiol y la acciòn revolucionaria, 1969-1974, Paris, Ruedo Iberico, 1975; H. Heine, La contri-

bucibn de la «Nueva Izquierda» al resurgir de la democracia espafiola, 1957-1976, in J. Fontana (cur.), Espania bajo el franquismo, Critica, Barcelona, 1986, pp. 142-159. 13 Sul movimento studentesco spagnolo, v.: M. Tufi6n de Lara, «Le problème universitaire espagnol», cit.; A. Pena, Veintecinco afios de luchas estudiantiles, in Aa.vv., Horizonte espafiol 1966, Ruedo Iberico, Paris, 1966, vol. II, pp. 169-212; M. Juan Farga, Universidad y democracia en Espafia, Era, Mexico, 1969; Davira Formenton [P. Lizcano], Universidad, cronaca de siete afios de lucha, in Aa.vv., Horizonte espafiol 1972, Ruedo Iberico, Paris, 1972, vol. II, pp. 181-235; S. Giner, Potere, libertà e trasformazioni sociali nell’ Università spagnola, 1939-75, in P. Preston (cur.), Le basi autoritarie della Spagna democratica, Rosenberg & Sellier, Torino, 1978, pp. 303-346; J. M. Maravall, Dictadura y disentimiento

politico. Obreros y estudiantes bajo el franquismo, Alfaguara, Madrid, 1978; J. M. Colomer, Els estudiants de Barcelona sota el franquisme, Curial, Barcelona, 1978; nonché il più specificamente rivolto ai fatti del 56, P. Lizcano, La generaciòn del ’ 56. La Universidad con-

tra Franco, Grijalbo, Barcelona, 1981. Utili indicazioni forniscono anche i seguenti articoli: «Un afio de lucha estudiantil (febrero 1967-febrero

1968)», Realidad, feb.-mar. 1968; M.

Niedergang, «Difficile combat de l’Université espagnole», Le Monde,

17 feb. 1968; C.

Torres, «Combatividad y madurez», Nuestra Bandera, (1968-69), n. 60, pp. 21-28; «Algunas experiencias del movimiento estudiantil en Madrid», ivi, (1969), n. 61, pp. 27-30; «La crisis universitaria», Mundo Obrero, (1968), n. 6, p. 7; A. Pena, «Diez afios de movimiento universitario», Materiales, mar.-apr. 1977. Per una più esaustiva ricognizione, resta-

no da studiare le pubblicazioni periodiche o più occasionali degli studenti universitari, tra le quali meritano di essere segnalate: Vanguardia (Madrid), Universitat (Barcellona), Lluita (Valencia) e Critica (Saragozza), nonché Comuna organo della Fude madrilena. La più com-

pleta cronologia, infine, del periodo compreso tra il 1° gennaio 1966 e il 15 agosto 1972 compare nel primo volume di Aa.vv., Horizonte espafiol 1972, cit. 14 M. Juan Farga, Universidad y democracia, cit., pp. 108-109.

15 V. Ja voce Espania, in Enciclopedia universal ilustrada, cit., p. 695. Juan Farga scrive che il 3 maggio 1967 risultavano iscritti al Sde di Madrid 27.000 studenti, su una popolazione che complessivamente doveva essere inferiore ai 36.575 studenti (dato del 68; M. Juan Farga, Universidady democracia, cit., p. 110).

16 Jbid., p. 119. 17 Agrupaci6n estudiantil revolucionaria, Manifiesto de Fude, Madrid, gen. 1968, ciclostilato di 4 pp. consultabile presso la Fondazione Feltrinelli di Milano. 18 «Organizaciones de cuadros y organizaciones de masas», mag. 1967, editoriale dell’organo della Fude.

Comuna (Madrid), n. 2,

19 Se ne avverte un’eco anche nell’articolo di J. Aumente, «La toma de conciencia

estudiantil», Cuadernos para el Dialogo, (1968), n. 59-60, pp. 29-30, al quale replica J.L. Borbolla, «Vanguardia revolucionaria», ivi, (1968), n. 63, p. 42.

20 J.M. Maravall, Dictadura y disentimiento politico, cit., p. 175.

21 Ibid., pp. 178-179. 22 Sulla figura del cantautore, v. J. Pomar, Raimén,

Los Juglares, Madrid-Guijon,

1983, al quale si rinvia anche per il testo della canzone dedicata al Che (pp. 155-156). 23 M. Juan Farga, Universidad y democracia, cit., p. 127.

24 J.M. Colomer, La ideologia de l’antifranquisme, Edicions 62, Barcelona, 1985, p. 124, dove peraltro non si precisa la provenienza del documento, né la fonte da cui è tratto.

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25 J.M. Maravall, Dictadura y disentimiento politico, cit., pp. 180-187. 26 Per le posizioni politiche e in materia di riforma universitaria di Sacristàn nel ’6869 sono utili l’intervista e la risposta al questionario che compaiono in S. Vilar, Contro Franco, cit., pp. 224-233 e 462-483. Per la complessa figura di Sacristàn costituiscono un indispensabile per quanto ancora preliminare approccio gli scritti pubblicati nel numero monografico della rivista che fondò e diresse fino alla prematura scomparsa: «Manuel Sacristin Luzon, 1925-1985», Mientras tantos, (1987), n. 30-31, al quale si rimanda an-

che per l’approssimazione bibliografica alla sua opera. Inutile dire che proprio di fronte alla qualità della riflessione del filosofo catalano, si qualifica da sola la perentoria affermazione di Payne secondo cui il marxismo spagnolo dell’epoca non sarebbe altro che rifrittura di idee straniere privo di originalità (S.G. Payne, E/ régimen, cit., pp. 539-540). 27 È opera sua ad esempio il Manifiesto «Por una universidad democratica» comparso in numerose edizioni clandestine e in varie riviste prima di essere raccolto in M. Sacristàn, Intervenciones politicas. Panfletos y materiales III, Icaria, Barcelona, 1985, pp. 50-61. Ma v. anche la «Intervencién en la Asamblea Fundacional del Sindicato Democratico de Estudiantes de la Universidad de Barcelona», 9 mar. 1966, Realidad, (1966), n. 10, pp. 49-50.

28 M. SacristAn, Sobre el lugar de la filosofia en los estudios superiores, Nova Terra, Barcelona, 1968, ora in Id., Papeles de filosofia. Panfletos y materiales II, Icaria, Barcelona, 1984, pp. 356-380.

29 Per riferirsi alla versione definitiva e priva di errori, v. Id., La universidad y la

divisiòn del trabajo, in Intervenciones politicas, cit., pp. 98-152. In precedenza il testo era stato pubblicato anche in traduzione italiana col titolo «Lezioni sull’università e la divisione del lavoro», Critica marxista, 9 (1971), n. 5-6, pp. 149-192. Per una rilettura in chiave attuale delle tre conferenze di Sacristn, v. F. Fernindez Buey, «Sobre la uni-

versidad, desde Ortega y Sacristàn», Mientras tantos, (1988), n. 34, pp. 19-37. 30 J. S. Pérez Garzén, La revolucibn burguesa en Espania: los inicios de un debate cientifico, 1966-1979, in M. Tufion de Lara (cur.), Historiografia espafiola contemporànea, X Coloquio del Centro de Investigaciones

Hispanicas de la Universidad

de Pau,

Siglo XXI de Espafia, Madrid, 1980, p. 107, al quale si rinvia per la disamina più approfondita degli aspetti qui solo accennati. 31]. Solé-Tura, Catalanisme i revoluciò burguesa, Edicions 62, Barcelona,

1967 (tr.

castigliana: Catalanismo y revolucibn burguesa, Edicusa, Madrid, 1970. Ad essa si fa riferimento nella nota successiva).

32 Ibid., p. 17. 33 I. Fernndez de Castro, De las Cortes de Cadiz al Plan de Desarrollo,

1808-1966.

Ensayo de interpretaciòn politica de la Espafia contemporanea, Ruedo Iberico, Paris, 1968.

34 Ibid., p. 63. 35 J. Fontana Lazaro, La quiebra de la monarquia absoluta (1814-1820). La crisis del antiguo régimen en Espafia, Ariel, Barcelona, 1971; Id., Cambio economico y actitudes politicas en la Espana del siglo XIX, Ariel, Barcelona, 1973; Id., Hacienda y Estado en la crisis

final del antiguo régimen espaniol 1823-1833, Instituto de Estudios Fiscales, Madrid, 1973.

36 E, Sebastià Domingo, La transicin de la cuestion sefiorial a la cuestion social, tesi di laurea, Universidad de Valencia, 1971, 3 voll.; Id., La revolucibn burguesa antifeu-

dal, expresion de la realidad historica espafiola. Propuesta para un esquema, Valencia, 1973; Id., Crisis de los factores mediatizantes del régimen feudal. Feudalismo y guerra campesina en la Valencia de 1835, in Aa.vv., La cuestion agraria en la Espafia contemporanea, VI Coloquio de Pau, Edicusa, Madrid, 1976.

172

Parte seconda

Il movimento degli studenti

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TESTIMONIANZA SEMISERIA SUL ’68 A TRENTO di Diego Leoni

Oggi le università sono fradice di primavera Sylvia Plath

Nell’incontro che si è svolto a Trento, nel febbraio scorso, tra gli ex

del movimento studentesco, ad un certo punto prende la parola Mauro Rostagno e dice:

I convegni che si fanno sul ’68 a me ricordano la struttura del miracolo vista dalle ultime file, completamente ininteressante se proprio stanno parlando di un’altra cosa, perché, lasciatemi dire, la qualità sottile, la qualità preziosa non può essere raccontata dalle ultime file, non può essere raccontata dalle file di mezzo, non può essere raccontata neanche dalla prima fila, e quelli che potrebbero raccontarla, cioè quelli che l’hanno vissuta, perché quella è stata la loro vita, guarda caso

non la raccontano, perché ci manca la parola, la parola non c’è per quella cosa lì. Questo tema — quello della parola che manca, del mutismo dei «reduci», di una lingua che è vecchia ora per parlarne, ma era già vecchia nel corso degli avvenimenti — è centrale, e ritorna spesso, nell’intervento di Rostagno, ma su di esso è costruito anche l’intervento epistolare di Renato Curcio: «Non siamo riusciti a costruire una lingua di quella cosa che è successa» — ribadisce Rostagno; e Curcio, nella lettera dal carcere,

sottolinea che il movimento studentesco, che era stato «una sfida alla civiltà della scrittura», configurandosi come «un ghirigoro della fantasia», un grandioso momento di affabulazione, di gestualità, di civiltà orale, di «innamoramento collettivo terrificante», non ha saputo però costruirsi 175

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una lingua nuova (e nemmeno mai — come ricordava in una precedente testimonianza Rostagno — misurarsi con i media), dovendo usare «parole d’altri tempi» (Curcio), «utilizzare delle lingue e delle cose che già. c'erano; e tutto quello che già c’è è cosa che appartiene all’istituzione» (Rostagno). Non è certo casuale che Curcio — ricordando uno degli episodi più clamorosi e celebri del ’68 trentino: il blocco del corteo dell’allora pre- _ sidente della Repubblica Saragat (il «Sommelier»), sotto gli occhi esterrefatti di polizia e popolazione — istituisca un parallelo fra il ritrovarsi degli ex studenti e quello degli ex combattenti. Purtroppo, nella sua lettera, la domanda «che differenza c’è?» rimane senza risposta, ed è un peccato perché, forse, il tema dell’«esilio della parola», della memoria che è incapace di trasformarsi in racconto, della memoria come dolore, poteva in qualche modo spiegare l’incapacità di tutti i «reduci» di costruirsi una lingua che sia in grado di comunicare l’esperienza e di rielaborarla, in un contesto profondamente mutato.

Se chi ha visto fatica a parlare, tanto meno sembra poterlo fare il testimone indiretto. E così, a un evento ancora tanto presente nella storia della città — e del popolo che la abita — corrisponde il silenzio della storiografia, a vent’anni di distanza. Sul movimento studentesco trentino, se si esclude il libro di Aldo Ricci (/ giovani non sono piante), e una tesi di laurea discussa alla fa-

coltà di Sociologia di Urbino, null’altro di rilevante è stato scritto; ed è impresa non facile anche il reperire le fonti dirette, perché tutte ancora custodite negli archivi privati, se non sono andate irrimediabilmente

perdute. (Solo da quest’anno il Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà di Trento ha avviato una raccolta di documenti sulle lotte sociali degli anni sessanta-settanta, intitolando questa sezione dell’archivio a Mauro Rostagno). Mi auguro che questa relazione possa servire a ricucire in parte questo «strappo», che è ormai anche generazionale, e la dedico a colui che,

diffidando delle parole, ha pagato con la vita il prezzo della coerenza.

Poco o nulla, dicevo, è stato scritto, ma la città di Trento (e qui per Trento intendo tutto il Trentino), che «non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano — cito Calvino, Le città invisibili —

scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandie-

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Testimonianza semiseria sul 68 a Trento

re, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole». Trento era, prima di quegli anni, una «città invisibile» che, dai tempi del Concilio o da quelli dolorosi e subiti della Grande Guerra, non sì era mai affacciata al davanzale della storia. Qualsiasi viaggiatore che percorreva la nostra terra, finiva per dire che là era tutto in mano alla Chiesa e alla Democrazia cristiana, in una situazione di sottosviluppo ordinato e remissivo, con gente paziente e avvezza, da sempre a emigrare e a faticare: insomma, lo stereotipo della montagna, con le sue malattie e i suoi tempi dilatati ed eccentrici, e del montanaro. Se il Trentino non era solo «chiese e gozzi» — come apparve nel 68 a Lenz, il protagonista del racconto autobiografico di Peter Schneider — era pur sempre una provincia da cui ogni anno partivano circa 13.000 emigranti; in cui l’industria era ancora poco sviluppata ma la maggioranza delle aziende agricole non superava i due ettari di estensione; che aveva il più alto livello di alfabetizzazione di base — eredità del passato impero — ma che era al penultimo posto in quanto a diplomati e laureati. In questo contesto veniva avviato dall’amministrazione provinciale (dunque, dalla Dc che in essa aveva la maggioranza assoluta) il progetto della prima università italiana di Sociologia: l’intento era quello di fornire alla regione nuovi e qualificati quadri dirigenti, puntando sulla «scienza americana». (Il Pci trentino, con la sua proverbiale perspicacia, votò contro, sostenendo che l’apertura di un’università a Trento

avrebbe tolto agli studenti locali l’unica possibilità di uscire dal clima soffocante della provincia: «Almeno là avrebbero visto le puttane!» commentò allora il suo voto negativo il capogruppo comunista in consiglio provinciale — che era l'avvocato Sandro Canestrini, che poi si schiererà subito a fianco del movimento studentesco...).

Era il 1962. Dovranno passare quattro anni — e la prima occupazione fatta, nel 1966, sotto gli occhi indulgenti della popolazione e quelli ispiratori del presidente provinciale e padrino dell’università, onorevole Kessler — perché la facoltà ottenga il riconoscimento ministeriale quale facoltà di Sociologia. A quel punto, quel piccolo esperimento cominciava a destare l’interesse di molti studenti non trentini, provenienti in gran parte dai licei scientifici e dagli istituti tecnici (era l’unica facoltà umanistica che ne ammetteva l’iscrizione: nell’anno accademico 1968-69, su un totale di 2.813 iscritti, 2.230 provenivano dagli istituti tecnici, 360 dal liceo classico, 223 dal liceo scientifico); e all’apertura dell’anno accademico

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1966-67, le immatricolazioni passarono da 300 a 736, portando il totale i degli iscritti a 1.207 studenti. Sandro: — L'occupazione era molto allegra con uno slogan semplice: «sociologia, sociologia», e la popolazione era con noi. Mamme, lavoratori e pensionati passavano davanti all’università a sentire le nostre storie sborsando biglietti da diecimila — il «deca» democristiano. Non avevano capito il pericolo che c’era sotto, a loro premeva un’università seria. Questa occasione creò una coesione interna ed una disponibilità 7 alla lotta prima sconosciute. Lì si creò il gruppo politico che poi portò avanti il resto. Assemblee che non finivano mai, commissioni e collegamenti tenuti dai famosi guidatori che erano capaci di stare in «cinquecento» per venti ore, Trento/Roma e ritorno. Arrivai a Trento proprio durante l’occupazione; siccome ero senza casa mi ci stabilii... mangiate enormi € donne che portavano pentole di lasagne per cinquanta persone!.

Molti arrivavano a Trento convinti che gli insegnamenti avrebbero dato loro gli strumenti per divenire «operatori del cambiamento sociale», ma si trovarono di fronte una facoltà che intendeva sfornare, invece, «filosofi del ‘re» (Fachidioten, secondo la definizione di H.J. Krahl). Nel 1966 ci fu una seconda occupazione (ottobre, durata 17 giorni), sulla base di una Carta rivendicativa elaborata come «lo stru-

mento per gestire le trasformazioni da apportare agli insegnamenti e ai loro contenuti».

La contrapposizione fra studenti e mondo accademico diveniva forte e si estendeva sulla città. E furono proprio le dimensioni della città — che allora aveva circa 60.000 abitanti — a determinare, attraverso il rifiuto, quell’isolamento che è «la condizione di crescita di ogni movimento collettivo». Non a caso, molti dei protagonisti del movimento studentesco trentino, quando parlano di Trento, parlano di campus. Il modo di vita era diverso da quello di tutte le altre università italiane. La comunità studentesca si era dilatata sull’intera città trasformandola in una specie di campus americano! Cioè un vero e proprio «campo di concentramento» per studenti e professori. Come ogni ghetto, da una parte segrega e dall’altra rinsalda i legami di solidarietà. Ma gli aspetti positivi finivano per prevalere su quelli negativi. La vita si svolgeva in un universo concentrazionale molto ristretto: l’università ad un passo dal Duomo a sua volta ad un passo dal bar. Due passi per arrivare alla questura e quattro ci dividevano dalle fabbriche. Scoprimmo che il personale è politico perché eravamo costretti a stare sempre insieme anche al di fuori dell’università: nelle piazze, nelle strade, nei bar, negli appartamenti comunitari. In certi periodi la facoltà era aperta ventiquattro ore su ventiquattro con gruppi di studio, assemblee, qualcuno ci dormiva anche. Come in ogni ghetto anche qui c’era il rischio di totalizzare tutte le fasi dell’esistenza quotidiana perché si finiva per stare troppo insieme e per abolire ogni forma di privacy. Ogni appartamento era diventato un prolungamento dell’assemblea, oppure l'assemblea il prolungamento della vita in comune che si faceva fuori dall’università”.

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Testimonianza semiseria sul ’68 a Trento

In un contesto urbano, spazialmente e culturalmente ristretto, ci vol-

le poco perché quell’arrivo in massa di studenti da ogni parte d’Italia e di così diversa estrazione entrasse in urto con la popolazione. E la dina‘mica che si mise in moto fu un alternarsi di provocazioni e rifiuti, alla

ricerca — da una parte e dall’altra — di momenti e strumenti per rafforzare l’identità e la coesione di gruppi sociali che si contrapponevano. Paolo Sorbi definisce così la «cultura antiautoritaria» del movimen-

to studentesco trentino: Una cultura che aveva due caratteristiche: la rottura dell’immaginario tradizionale della popolazione trentina attraverso degli choc, dei veri e propri choc psicologici e l’assoluto uso della non violenza nelle azioni.

Tutti conoscevano tutti; ogni azione, ogni spostamento, ogni comportamento era seguito, personalizzato, giudicato. E niente rimase intoccato dalla furia iconoclasta degli studenti. Il linguaggio e l’abbigliamento furono i primi campi di provocazione: Gianni: - Cominciammo ad usare il turpiloquio — oggi lo usano tutti — con cognizione di causa. Si intercalava tutto con la parola cazzo; figa e contorno di bestemmie. I trentini: «Ma che linguaggio violento usano questi sociologi». E noi: «La violenza sta nel mistificare continuamente la realtà, dire che gli operai non hanno voglia di lavorare, questa è violenza! Se tuo padre ti prevarica e ti manda un doppio messaggio, questa è mistificazione, non la parola cazzo».

Gianna: — Durante l'assedio all’università che seguì il controquaresimale, Wilma — una delle trentine che appoggiavano gli studenti — stava dialogando, si fa per dire, con la folla imbestialita che urlava: «Tornate a casa vostra!» e lei rispondeva: «Io sono trentina e voglio che gli studenti rimangano, andate voi a casa vostra!». Allora una vecchia esclamò: «Ela con quei occi lì non l'é de Trent». Questo perché Wilma era truccata! Come poteva essere di Trento una ragazza così truccata?!3,

Poi gli schieramenti politici. In una provincia a maggioranza assoluta democristiana, in cui le contrapposizioni ideologiche erano ancora molto forti, all’interno dell’università le associazioni studentesche

di ispirazione cattolica e comunista (Intesa e Ugi), già nel corso delle prime occupazioni, cominciarono a lasciare spazio a intese più ampie, «e si creò un magma ed una situazione di affermazione politica naturale ed anche umana in cui le esperienze si mescolarono fra loro, per cui non veniva più mantenuta rigidamente la divisione» (M. Boato).

Fino a che i vecchi organismi rappresentativi non si sciolsero nel movimento e i suoi leader non divennero i leader del movimento studentesco. Ma già nel 1967 prendeva corpo l’internazionalismo e l’antim-

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perialismo militante a favore del Vietnam e delle lotte di liberazione nel Terzo Mondo: prima bandiera americana bruciata, prime denunce, primi sit-in; occupazione della facoltà e primo sgombero da parte della polizia. In seguito, gli «psicodrammi», ispirati dal «rifiuto della vecchia identità individuale e la ricerca di una nuova identità collettiva». Gianfranco: — La fusione e la sintesi sono immediate, si comincia a liberarsi dalle frustrazioni della propria preistoria personale, la soggettività si libera intensamente determinando comportamenti conflittuali, drammatici tra studenti e popolazione. Ricordo psicodrammi continui, nelle strade e nei bar. Ettore Camuffo, per esempio, entrò in un bar urlando e fingendo uno svenimento tragico con sussulti epilettici... poi la sua risata disperse la folla. Wilma: — Ettore era il più folle! Scandalizzare/colpire la gente era il suo modo di far politica come quando dal balcone di via Cavour arringava la gente imitando alla perfezione Mussolini. Mauro: — Una volta Ettore venne in un’aula vestito completamente in divisa i piliture e si mise a fissare come un pazzo il professore che rimase come paralizzato”.

Infine, l’«attacco premeditato» a quelli che erano considerati i simboli della cultura tradizionale trentina: la Chiesa, i canti della monta-

gna, la Grande Guerra. Andiamo con ordine. Durante la Pasqua del ’68, Paolo Sorbi, studente cattolico, interrompe in Duomo (quello del Concilio!) l’omelia del quaresimalista e inizia un controquaresimale. Gli studenti vengono espulsi dalla chiesa, si ritirano davanti alla facoltà (che è a due passi) e osservano la folla che monta in numero e in

livore. Allora cominciano a cantare, in segno di scherno, alcune fra le più famose canzoni della montagna (La montanara, Venti giorni sull’Ortigara, La Paganella). E l’inizio dell’assedio che durerà tre giorni — ma anche dello spettacolo, perché spettacolo diventerà — da parte di centinaia di trenti ni, che tentano di sfondare le porte e lanciano contro il palazzo uova e mele (le famose renette del Trentino!), alternando sapientemente la bestemmia

all’accusa di ateismo: «Vegnì fora senzadio, vegnì fora porcodio!». Per la prima, la polizia dovette difendere gli studenti. Sette mesi dopo ripeterà l’exploit, evitando che gli alpini e gli ex combattenti facessero strage di studenti, dopo che avevano interrotto il corteo del presidente della Repubblica in visita a Trento per celebrare il cinquantenario della Vittoria: Ma gli alpini hanno impartito loro quella lezione che meritavano: anche se la presenza della polizia ancora una volta ha evitato al gruppetto degli sbarbatelli e del-

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Testimonianza semiseria sul °68 a Trento

le loro compagne una punizione più pesante di quella, già pesante, che hanno dovuto incassare. Vorremmo che la lezione fosse loro servita, se non altro a tenersi lontano da cose che paro anche non apprezzare, se lo credono, ma che devono egualmente rispettare?

Se, a questo punto, dovessi usare una metafora per descrivere meglio il rapporto che si era venuto a creare fra la città e l’università, sceglierei quella dell’acqua e della spugna: Trento come l’acqua e dentro, immersa come una spugna, Sociologia, ad assorbire e a dare iin un flusso ininterrotto di ondate... Per anni la società trentina visse in questa dialettica di vuoto e pieno: lì dov'era il vuoto fu il pieno, lì dov’era il pieno fu il vuoto. Le aule della facoltà si riempirono di operai (e prese il via una delle esperienze di «sindacalismo unitario e rivoluzionario» più significative di tutto il panorama europeo), di studenti medi e di universitari trentini di altre

sedi che partecipavano alle attività di studio e di organizzazione. Il movimento studentesco restituì la parola a chi, da sempre, era stato abitua-

to a tacere. Parallelamente, si svuotavano le sedi dei partiti, gli oratori, le associazioni giovanili cattoliche, il seminario (nel corso dell’occupazione del ‘68, che durò più di sessanta giorni, nove preti — alcuni dei quali spinti proprio dall’arcivescovo a iscriversi a Sociologia per svolgere lì la pastorale — indirizzarono al consiglio presbiteriale un documento di solidarietà con gli occupanti, dando l’avvio a un serrato e appassionato dibattito sui temi conciliari che ebbe larga eco sul settimanale diocesano Vita Trentina. Qualche settimana dopo questo documento e il controquaresimale, venne avviato nella cappella universitaria, sotto gli auspici dell’arcivescovo, un esperimento di dialogo collettivo sui temi dell’omelia allo scopo di «risolvere la crisi della predicazione»...).

Sempre più la comunità studentesca — e dentro essa quella operaia — andava configurandosi come una città nella città: processo che arrivò a conclusione — sia perché lì ebbe la definitiva sistemazione teorica, sia

perché lì ebbe fine — durante il «governo Alberoni». Francesco Alberoni veniva dall’Università Cattolica di Milano in sostituzione del professor Volpato; arrivò con un gruppo di «fedeli» (Livolsi, Galli e altri), e l'ingresso in università fu un pezzo di teatro

travolgente: L’ingresso dei docenti fu successivo a quello dei discenti o studenti che avevano

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Diego Leoni già stipato tutti i posti disponibili di ogni ordine e grado dell’aula magna. L’ovvio trambusto fu improvvisamente lacerato dall’ingresso dei «nuovi docenti» che in fila per uno con aria casuale e dimessa andarono a disporsi informalmente dietro una lunga cattedra, con piano azzurrino in formica, ai piedi dell’anfiteatro. Rimasero in piedi il tempo necessario per consentire l’entrata di tutti gli altri colleghi. E finalmente, con l’ingresso dell’ultimo, si sedettero. i Aeon Da questo punto in poi inizia la lunga serie di tentativi messi in atto dai diversi docenti per presentarsi e prendere la parola. Dopo alcuni tentativi frustrati, quando sembrava che l’auditorio fosse placato e disposto all’ascolto, si alza Mauro Rostagno che dice: «Scusate un momento... sono appena arrivati due compagni spagnoli, è ; chiaro che la prima parola spetta a loro». Gli spagnoli parlano, naturalmente della Spagna ancora sotto il dominio di Franco, ecc. Quando hanno finito, qualcuno del corpo docente si alza, è lì Îì per aprir bocca, ma viene prevenuto ancora da Rostagno che a nome del movimento legge un lungo discorso sulla non neutralità di una scienza asservita che serve solo ad uccidere | in Vietnam, sul ruolo sociologico negato dagli studenti, ecc. ecc... Aldo: — ... ad un certo punto qualcuno del corpo docente riesce a dire: «Mi permetto di presentarmi...», ma si interrompe subito perché l’assemblea ha girato le spalle (al corpo docente) ed è attratta da un lentissimo strip-tease di Vittorio Tavolato... Mauro: — ... che però non riesce a togliersi le mutande perché è interrotto dal consigliere economico di Moro: il mega-Andreatta, con le staffe proprio perse, si alza di scatto e i compagni si mettono a gridare: «sulla cattedra, sulla cattedra». E allora questo pover uomo che fisicamente è un uovo di pasqua, una volta in piedi sulla cattedra si sente gridare dal coro «ippopotamo, ippopotamo, ippo-po-tamo!»®.

Intervistato da Ricci, Alberoni così spiegava il senso della sua presenza a Trento e il suo tentativo di gestire, assieme alla leadership studentesca, il movimento che sempre più andava radicalizzandosi e sottraendosi ai limiti imposti dall’essere movimento di studenti. D.:-— Tu arrivi nell’autunno mi pare... R.:—... abbastanza tardi, direi a rivoluzione avvenuta, quando ormai si era formulata un’ideologia ed una sintesi cattolico-marxista in cui il primato, l'egemonia culturale era stata assunta dal marxismo rivoluzionario leninista. La componente marxista rivoluzionaria non era però la sola egemonica. All’interno del vortice trentino c'erano le più diverse componenti, come sempre nei processi collettivi rivoluzionari erano tutte nel senso dello stato nascente, ma marxista rivoluzionaria, in senso

tecnico, era soltanto un’esigua minoranza egemone. La mia presenza ha rappresentato una sfida a questa egemonia... non ero un marxista rivoluzionario perché non sono mai stato nemmeno marxista e questo l’ho sempre detto. Anche se capivo la posizione marxista rivoluzionaria, non vedevo nel modo più assoluto la rivoluzione dietro

l'angolo, non credevo neanche nella rivoluzione che avrebbe comunque dato luogo ad altre forme di dittatura. I movimenti collettivi creano istituzioni di libertà ma anche totalitarismi, valori universali ma anche il terrore.

Nacque, allora, l'esperimento dell’università critica (ispirata alla Kritische Universitàt di Berlino. Da sempre Sociologia ebbe rapporti stretti con il mondo tedesco, favoriti anche dalla collocazione geografica e storica della città, che determinarono all’interno nel movimento

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Figo!
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La radicalizzazione giunse puntuale dopo i mandati di cattura contro tredici studenti emessi dalla magistratura torinese il 1° marzo. I gravi fatti in corso creano la sensazione di vivere nell’atmosfera di un colpo di stato. Tredici studenti sono costretti a vivere e a nascondersi come delinquenti, situazione propria di un regime franchista. Questo è l’ultimo di una serie innumerevole di atti repressivi. Prima le autorità accademiche, ora il governo stesso si manifesta nella

sua vera natural4,

I toni plumbei assunti dalla prosa del «giornalino» ci restituiscono intatto il senso della svolta. Nella repressione si disvelava l'essenza

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Aspetti del movimento del ’68 a Torino

violenta dello Stato democratico; ed era in questo senso il potere stesso a indicare nella violenza il terreno obbligato dello scontro. Il corteo del 7 marzo si apriva con un cartello emblematico, Italia=Spagna. La mozione approvata dall’assemblea il 18 aprile affermava: La struttura autoritaria della società contro cui stiamo combattendo rivela la sua natura violenta e aggressiva. Le migliaia di processi istruiti contro gli studenti in tutta Italia, le decine di ordini di cattura eseguiti a Torino e a Pisa, gli arresti continui, le

intimidazioni nelle fabbriche, le minacce di spostamenti e di licenziamenti che in questi giorni accadono alla Fiat, dimostrano che il sistema si difende con tutti i mezzi contro le lotte degli studenti e degli operai.

Questi giudizi appaiono decisivi per definire il modello di violenza che il movimento allora adottava. Era una violenza vissuta come scelta resa ineludibile dall’iniziativa violenta dell’avversario; difensiva; assunta non come fine a se stessa, tale cioè da non esaurire completamente ispirazioni strategiche e valutazioni tattiche del movimento. Nel «giornalino» dell’8 marzo era scritto: Sia chiaro che non idealizziamo lo scontro in quanto tale, che, soprattutto, non lo vediamo come mezzo di formazione e di selezione di eventuali futuri quadri... Non puntiamo a un inasprimento della lotta, assunta come fine, ma piuttosto a un suo allargamento. Non ci interessa lo scontro con la polizia in quanto tale.

Sembrava di riconoscere, quasi nella sua forma più immediatamente autentica, il modello di violenza instauratosi nella tradizione del mo-

vimento operaio italiano, almeno a partire dal 25 aprile 194515. E Italia=Spagna era uno slogan al cui interno si recuperava intatta tutta

l’esperienza dell’antifascismo!9. Fu questa una delle contraddizioni più vistose e significative: un movimento che aveva largamente innovato rispetto alle forme della politica, che aveva infranto molti dei vecchi miti della sinistra, che con lo

stesso antifascismo «ufficiale» aveva avuto subito un rapporto di conflittualità polemica!7, riscopriva su un tema di assoluto rilievo strategico una rigorosa continuità con i riferimenti «militaristici» della Resistenza. Ma è una contraddizione che può essere spiegata, riprendendo una preziosa indicazione di Guido Viale sulla spontanea «naturalità» con cui il ‘68 torinese incontrò la violenza: La violenza il movimento non l’ha inventata, né scoperta. La riceve. E non si interrogherà mai a fondo sulle sue ragioni e sui suoi principi!8,

Ci sono almeno due elementi che suffragano questa interpretazione: l’assoluta mancanza di forze politiche organizzate che potessero far

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confluire nel movimento, dall’esterno, una teoria della violenza (operaisti e marxisti-leninisti, oltre al Pci ovviamente, bollavano allora come piccolo-borghese ogni accenno alla radicalizzazione delle forme di lotta); il modo con cui il discorso sulla violenza interagì con i caratteri originari del movimento, il suo definirsi nella pratica e l’autorappre-

sentazione del suo sviluppo come interminabilità!9. Ci si basò su esem-

pi concreti e non su una scelta teorica: il Che, il Vietnam, le rivolte dei

ghetti neri, la stessa Resistenza, negata come imbalsamazione ufficiale di un accordo tra i partiti, esaltata come lotta spontanea, dal basso. E si contrappose la guerriglia alla guerra, idealizzando la guerriglia proprio per il suo carattere di movimento permanente. Si stabilì con la violenza un nesso comportamentale e non teorico, ripetendo uno schema già operante in un’altra fase di grande mobilita-

zione collettiva, quella del 1943-4520, Per la generazione che scoprì la politica allora, le formazioni partigiane furono ambiti organizzativi privilegiati; la prospettiva insurrezionale, l’unica linea politica vissuta concretamente e attivamente. Non che i militanti comunisti e socialisti non credessero alla linea legalitaria e democratica scelta dai loro gruppi dirigenti; ci credevano in senso ideologico e teorico, mentre sul pia-

no dell’esperienza diretta — l’unica che veramente contava in un processo di politicizzazione così anomalo — il riferimento più pregnante restava quello della lotta armata e dell’insurrezione. Era una strategia per la presa del potere semplificata e francamente riduttiva, ma era la sola ad essere stata praticata e la sola ad essere apparsa concretamente vincente. Il riaffiorare di comportamenti di tipo insurrezionale (dal 14 luglio del 1958 al luglio 1960) in tutte le principali scansioni della nostra storia repubblicana testimonia le loro radici profonde all’interno della tradizione della sinistra italiana dopo la Resistenza. Fino al ’68 in quelle esperienze è riposta l’unica strategia difensiva nei confronti dell’eventualità di un colpo di Stato. E non solo. Nel 1968 la pratica dell’illegalità — dal corteo non autorizzato all’occupazione delle aule — nella sua quotidianità diventa comportamento collettivo, quindi lecito, giusto; la violenza assume dei risvolti in positivo, diventa giustizia, un elemento di legittimazione: Finché il nemico sarà riconoscibile e identificabile, finché esisterà un alto e un basso (o un solo alto e un solo basso) della piramide — e il movimento del ’68 fissa

questi punti cardinali nello spazio sociale — la violenza rivoluzionaria sembra giustificarsi da sé...21,

Ma constatare la continuità del nesso violenza = mobilitazione politica nell’eserienza storica della sinistra italiana in questo dopoguer-

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|_—Aspetti del movimento del ’68 a Torino

ra non basta. Resta ancora da spiegare perché il movimento studentesco «riceva» proprio quel modello di violenza. È un nodo strettamente legato al suo particolarissimo modo di essere a sinistra, all’ancorare la propria identità a due elementi: 1) la sfiducia (e la conseguente totale estraneità) verso il potere; 2) la fiducia nei movi-

menti AI storia zione

dal basso. primo elemento si lega una lettura del ruolo dello Stato e della della sua formazione, anche questa totalmente interna alla tradidi sinistra: lo Stato nazionale esercita il suo potere sempre a sen-

so unico, dall’alto contro il basso, mostrando

come

suo unico volto

quello della sopraffazione e dell’arbitrio. Si recuperavano così molti degli elementi «forti» dell’identità della sinistra italiana: dalla critica gobettiana agli esiti statolatrici del processo risorgimentale alla tesi della continuità dello Stato dal fascismo alla Repubblica. Questo insistere sulla natura autoritaria dello Stato democratico, il diffondersi di slogan del tipo Italia = Spagna possono oggi apparire drammaticamente sbagliati, oltre che ingenui. Resta il fatto che — sempre sul piano dei comportamenti concreti — lo Stato non fece molto per smentire quel tipo di giudizi. Non si capisce la storia della strategia della tensione, le infiltrazioni, le campagne d’ordine, l’assiduo armeggiare dei servizi segreti che, dal 1969 al 1974, organizzano almeno una strage all’anno per attribuirne la responsabilità al movimento (e che proprio nel ’68 si attrezzano per metterle in opera) se non si tiene presente il vero obiettivo dello Stato: che non poteva essere quello di battere sul campo la forza del movimento, ma quello di minarne la legittimità #*.

A questa lettura dello Stato come «apparato della forza» il movimento studentesco non legò soltanto le caratteristiche politiche del suo rapporto con la violenza; da essa anzi scaturirono alcune delle sue proposte strategicamente più interessanti: l’impegno nelle carceri, poi nelle istituzioni più separate, dall’esercito alla magistratura, contro i manicomi e

l’emarginazione della follia conferma come lo «spettro» della repressione non suscitasse soltanto maniacali comportamenti ripetitivi. La «lunga marcia attraverso le istituzioni», forse la più incisiva istanza di trasformazione avanzata allora dagli studenti, si nutriva proprio di un’analisi at-

tenta e lucida dell’operato concreto di quello «spettro» 23. Non è questa la sede per esaminare la portata complessiva di quella proposta. Vale la pena però sottilinearne almento l’aspetto principale, quello che a mio avviso la rendeva unica sia rispetto alle teorizzazioni marxiste-leniniste sul peso dell’avanguardia esterna nell’organizzazione del movimento operaio, sia rispetto a quelle operaiste che contrapponevano lo sfruttamento

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all’autoritarismo e la fabbrica all’università. Era sul piano della «lunga marcia» che secondo Luigi Bobbio e Guido Viale: doveva avvenire l’incontro tra studenti e classe operaia, non sul piano dell’interesse populistico per i lavoratori, e nemmeno su quello della lenta formazione ideologica di ristretti nuclei di operai a opera di studenti che, senza una sufficiente preparazione di classe, si arrogano il ruolo di quadri rivoluzionari, ma su quello del richiamo alla possibilità della lotta contro l’intero sistema sociale che sia gestita e diretta in prima persona dagli operai stessi 24,

L’impatto con i caratteri originari di Torino La «lunga marcia attraverso le istituzioni» fu anche la proposta su cui il movimento, a Torino, riuscì ad aggregare il maggiore consenso sociale. Per definirne le coordinate è però indispensabile fotografarne prima l’impatto con quelli che vengono definiti i «caratteri originari» della città. Sono molte le verità e molti i luoghi comuni che si addensano su questa definizione: Gramsci e Gobetti; un insieme di virtù tipiche — la tenacia, la laboriosità — frammiste a quel misto di bonomia e di cinismo che Norberto Bobbio chiama «il fondo gianduiesco di Torino» (una gioviale, ma sostanziale indifferenza verso le grandi passioni collettive e i grandi tumulti sentimentali); le tradizioni dell’operaio di mestiere unite al dinamismo imprenditoriale e alla razionalità cartesiana,

ecc. 25. Forse l’approccio più efficace risulta perciò quello di partire dalla rappresentazione che di questi caratteri originari dava lo stesso movimento studentesco torinese. Ad essere messa subito in discussione fu così la struttura per compartimenti stagni sulla quale si era modellata in città la coesistenza tra i diversi settori sociali. La Torino del 1968 era, secondo Guido Viale, caratterizzata da «una gestione del territorio ancora in gran parte aziendalistica», con «i proletari meridionali ammassati nei comuni-dormitorio della cintura, nei palazzi fatiscenti del centro storico». In questo scenario in cui «nessuna forma di vita associativa poteva esistere se non in forme compatibili con il rispetto di queste gerarchie», l'occupazione di Palazzo Campana rappresentò la forma di lotta più «alternativa» e più

estrema 20. Nell’occupazione, nel vivere insieme si rompeva ogni isolamento individuale, si disintegrava il principio autoritario del «ciascuno al suo posto», un principio che applicato a Torino aveva sempre consentito di unificare sul terreno ideologico quanto andava separato sul terreno sociale, in un «sistema» compatto, rigidamente consolidato,

nel quale le gerarchie sociali erano fissate una volta per sempre. L’irru-

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Aspetti del movimento del ’68 a Torino

zione della vita quotidiana nella politica sconvolgeva l’atomismo della società torinese, imponeva una dimensione collettiva che ridefiniva ruoli personali e collocazioni politiche. Era la rotta di collisione più diretta con il «gianduismo»; per dirla con Luigi Bobbio, quelle scelte rompevano con l’isolamento individualistico della società borghese, contrapponendo alla parsimonia e all’avarizia la totale dissipazione delle proprie energie intellettuali e di se stessi: Far parte del movimento significava agire in prima persona, impegnarsi direttamente per cambiare le cose; non viene riconosciuto nessun diritto di parola a chi non

è presente, agli apatici, ai disimpegnati 27.

Questa reazione di rigetto è ricostruibile attraverso la nota rubrica di lettere dei lettori ospitata nella cronaca cittadina della Stampa, «Specchio dei tempi». Vi ricorrevano infatti gli elementi salienti di un certo conformismo torinese: l’antifascismo nella sua accezione di perbenismo legalitario: Sono un padre che lavora dieci ore al giorno per far studiare il proprio figlio all’Università... Non credo che ci sia una grande differenza fra la marcia su Roma e l’occupazione dell’Università. Le armi rimangono sempre le stesse: l’intimidazione e il disprezzo per le leggi democratiche;

il senso del dovere come sacrificio fine a se stesso: Nell’anno accademico 1943-44 io mi iscrivevo alla facoltà di Giurisprudenza. La nostra aula era una stanza disadorna. Poche sedie, una stufa, quattro studenti e il professor Allara... Mentre il mondo ci crollava intorno, noi cercavamo di aprirci faticosamente la strada, per il domani di tutti... Cercavamo di fare il nostro dovere... Io chiedo agli studenti di oggi che cosa avrebbero fatto loro al nostro posto... che cosa sia oggi per loro il senso del dovere;

un sistema di valori chiuso intorno al timor di Dio: Ti rivolgo angosciata una domanda: come sarà l’avvenire di questa gioventù violenta, senza Dio e senza scrupoli? Vorrei che tu mi rispondessi per dare pace anche alle persone cresciute sottomesse alle leggi divine e ai buoni cittadini a cui io appartengo 28.

Erano queste «virtù» ad esasperare il conflitto, a sollecitare anche nella Torino di «Specchio dei tempi» il gusto dell’invettiva e dell’imprecazione. Ad essere intollerabile, come scriveva // Cavour, organo della Famija Piemonteisa, era la convinzione degli studenti «di essere ormai padroni del proprio destino, di non dovere niente a nessuno, pretendendo

che tutto sia loro dovuto e di avere acquistata la piena libertà» 29. Veniva sconvolto un percorso di accesso alla maturità che imponeva una serie di

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gradini, un apprendistato che mutava il modello di relazione giovane-anziano direttamente dal mondo del lavoro e dalle tradizioni di fabbrica. L'occupazione di Palazzo Campana inseriva un cortocircuito in quel percorso, i gradini venivano scavalcati a quattro a quattro, i giovani mostravano di essere in grado di gestire tutti gli aspetti della propria vicenda esistenziale. Al centro di questa rotta di collisione stava ovviamente la famiglia: esaltata dagli uni come baluardo di conservazione dei valori autentici, microcosmo di ordine la cui organizzazione poteva ispirare l’intera organizzazione sociale; attaccata dagli altri esattamente per queste sue caratteristiche come luogo strategicamente decisivo per la perpetuazione dell’immobilismo culturale e della subalternità sociale: C’è una ribellione contro la famiglia — ricorda Guido Viale — contro la dipendenza economica, contro la segregazione che essa impone agli studenti. Essa ha un peso decisivo nelle motivazioni di una lotta che è innanzitutto una rivolta di generazione;

e che proprio per questo ha un carattere così radicale.

Il «giornalino» degli studenti pubblicò — in questo senso — una sorta di antologia dei consigli e degli ammonimenti rivolti ai giovani in seno alla famiglia: Ora pensa a studiare e a riuscire bene. Non interessarti di politica, lascia che lo facciano gli altri.

Se vorrai potrai fare la voce grossa quando avrai finito le scuole. Ascolta noi che abbiamo più esperienza di te. Povero illuso credi di cambiare il mondo?

E la risposta era lapidaria: «Sf, lo crediamo!» 39, In questo quadro, per misurare il grado di consenso aggregatosi intorno al movimento studentesco, fuori dall’università, occorre accedere a fonti diverse da quelle legate ai grandi giornali d’opinione. Utilissimo è lo spoglio di alcuni giornali locali della provincia di Torino (La Sentinella del Canavese

di Ivrea, L'Eco del Chisone di Pinerolo; //

Risveglio del Canavese e delle Valli di Lanzo; Cronache chieresi; La Gazzetta di Chivasso e del Canavese; La Valsusa, tutti molto diversi per impostazione politica e per assetti proprietari, ma tutti saldamente ancorati alla comunità territoriale di riferimento.

Dal centro alla periferia. L’aggregazione del consenso

Il modello di relazione tra Torino e il suo hinterland si è tradizionalmente strutturato secondo un percorso autoritario dal centro alla pe200

Aspetti del movimento del »68 a Torino

riferia, con un sistema di valori, di norme imposto dall’alto verso il

basso sia che si trattasse della fedeltà dinastica sia che riguardasse il tifo per le squadre di calcio, da sempre soltanto quelle metropolitane (il Torino e la Juventus). Ebbene, nel 1968 la rigidità di questo modello presentava molte smagliature. Ad esempio, una contrapposizione altrettanto netta di quella aggregatasi intorno alla coppia conformismo/anticonformismo

si verificò, oltre che nel capoluogo, soltanto in

un caso, giustificandosi — in qualche modo — con motivi d’ordine strutturale. /{ Risveglio era infatti diffuso proprio nei comuni (Venaria, Mathi, Nole, Vallo, Robassomero, Varisella, Ciriè) maggiormente interessati all’ubicazione della città universitaria nella zona dove sorgeva la tenuta La Mandria e quindi segnati da un profondo rancore verso gli studenti ritenuti gli affossatori principali di un progetto che tante speranze aveva suscitato nel circondario: «la città universitaria ubicata nella zona nord-ovest di Torino sarà l'elemento motore di tutte le qualificazioni territoriali e nel contempo permetterà di risolvere anche la questione del verde pubblico e delle zone sportive di integrazione», aveva affermato, il 19 gennaio 1968, un Comitato per lo sviluppo e il progresso della bassa Valle di Lanzo, criticando duramente «i goliardi che vogliono insegnare ai professori» 31. Quando fu chiaro che la città universitaria non sarebbe stata più costruita alla Mandria, il giornale si scatenò, riprendendo e amplificando i temi della polemica già apparsi in «Specchio dei tempi». Un sussulto della vecchia morale sessuofobica del perbenismo torinese, adattato in chiave locale ed esasperato dal sentirsi defraudati della città universitaria: In una riunione dei nuovi sinistroidi si può trovare di tutto: ragazzi vestiti da selvaggi, ragazze seminude, uomini barbuti, sporchi, puzzzolenti, beatniks, fumatori di marijuana, omosessuali. Nelle conversazioni con questi adepti della nuova sinistra, si può anche ascoltare di tutto: parolacce, esperienze sessuali di tutti 1 tipi, discorsi osceni:

Questa della zona della Mandria e del Risveglio fu un’eccezione; per il resto prevalse un atteggiamento che può essere schematizzato in tre fasi, quasi in corrispondenza con la periodizzazione adottata per il caso torinese: un diffuso consenso iniziale quando il movimento mo-

strava soprattutto i suoi risvolti interni all’università e restava localizzato a Torino; l'emergere di una prima distinzione tra gli «estremisti» e la «parte sana» in concomitanza con il radicalizzarsi delle forme di lotta del movimento; la critica serrata e una netta presa di distanza quando il movimento coinvolse direttamente e fisicamente la comuntià in cui il giornale era radicato (questo soprattutto dall’autunno del 1968, quando

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le lotte degli studenti medi resero superfluo il riferimento obbligato al) le sedi universitarie). All’inizio, ognuno dei fogli presi in.esame interagiva con le proposte politiche del movimento isolandone quelle più strettamente legate ai valori che ispiravano le diverse filosofie redazionali e ricavandone motivi per un diffuso consenso. Così, ad esempio, l’olivettiana Sentinella del Canavese sottolineò i caratteri modernizzanti del movimento, vedendo negli studenti i portatori di una proposta di complessiva razionalizzazione produttiva, fautori del nuovo («la macchina, la tecnica, il rigore scientifico del processo produttivo») contro il vecchio («la bardatura dell’apparato politico-amministrativo, l’endemica povertà operativa delle pubbliche amministrazioni e la conseguente ina-

deguatezza dei servizi») 33. Lo spirito produttivo ha sconvolto in vent'anni un equilibrio secolare, promuovendo nel paese una rivoluzione di portata storica. Ma abbiamo un apparato burocratico tipico di un paese prevalentemente agricolo, e ciò mentre siamo al 9° posto tra le potenze industriali del mondo 34.

Questo atteggiamento rimase inalterato anche quando ad Ivrea ci furono le prime agitazioni; tutte però ancora riecheggiavano temi non locali, internazionali o nazionali (l’assassinio di Luther King, la so-

spensione del preside del Parini, Mattalia)35. A ridosso delle elezioni politiche del maggio cominciarono ad affiorare le prime cautele, i primi inviti «a non confondere l’estremismo delle minoranze con le concrete rivendicazioni della maggioranza»39: Il pericolo è che la società consumistica alimenti falsi miti, dia alla protesta un sottofondo superficiale e di moda, non riesca, cioè, a dar vita a consistenti e autentici e perciò concreti movimenti di rinnovamento... Combattendo indiscriminatamente contro la cosiddetta società dei consumi, rischia di sottovalutare, ad esempio, il fenomeno meridionale degno di per sé di una nuova battaglia politica e civile; rischia di DRS ì Di margini della vita dei partiti, bisognosi più che mai di energie

TESChERIO

A Pinerolo, il giornale cattolico L'Eco del Chisone riserva invece i

propri entusiasmi iniziali agli slanci solidaristici che segnavano le lotte studentesche: Dotata di una straordinaria percezione degli avvenimenti e delle situazioni contemporanee, questa gioventù getta le sue dimensioni in una società di cui non solo è insoddisfatta ma che senz'altro vuole cambiare... tali mutamenti sono voluti non in virtù di un’ideologia programmata e delimitata, quanto piuttosto in forza di valori che sono talmente universali e umani per cui l’attuazione di tale trasformazione è intesa e voluta in modo immediato. Immediatezza derivante dal rifiuto della

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Aspetti del movimento del ’68 a Torino . mediazione partitica e soprattutto burocratica. Di qui il fatto significativo di costiIIAIORE IR gruppi, nella forma comunitaria più semplice per sensibilizzare l’ambiente>9.

Il giornale ospitava volentieri denunce ispirate a un vago populismo: Mi sono trovato in casa di un professionista che guadagna diversi milioni al mese e ha una casa che è una reggia: Ho provato a parlargli delle necessità dei poveri, e l’ho visto cadere dalle nuvole39.

O a più puntuali motivi di indignazione nei confronti di alcune ingiustizie sociali: la sfiducia nei ma è in buona dire intrinseca operaiDa Cvs palegà

mezzi legali parte dovuta ingiustizia — sono rimasti

non è soltanto il prodotto di un anarchismo incipiente, alla povertà dei contenuti e all’inadeguatezza — per non di certi apparati legislativi. Non è forse vero che gli 80 derubati dei loro diritti e dei loro versamenti per via le-

Nelle sue pagine affioravano i fermenti tipici del mondo cattolico giovanile di allora, l'emergere dei primi gruppi spontanei, un dinamismo politico registrato con un certo compiacimento: all’impegno nei partiti si preferiscono forme nuove, il gruppo spontaneo, il gruppo di interesse, l'assemblea studentesca... Si preferisce una struttura mobile: un dibattito, una ricerca, un'attività assistenziale, un cineforum”!.

Poi, però, seguendo l’implacabile scansione periodizzante del marzo 1968, i giudizi cominciarono a cambiare di segno. Il dissenso dei giovani verso le gerarchie tendeva a diventare un momento organizzato e permanente; le lotte studentesche prendevano a coinvolgere direttamente anche le scuole superiori di Pinerolo (a cominciare dal liceo Porporato). La prima accusa rivolta dall’Eco del Chisone ai giovani cattolici fu quella «di chiedere alla Chiesa le stesse cose che le domandavano i conservatori più retrivi del passato»: Essi vorrebbero che la Chiesa si estraniasse dalla vita pubblica, che rientrasse dentro i portoni dei suoi templi, che non pretendesse di far interferire né Dio né se stessa nella storia umana che deve invece essere costruita solo dall’uomo”2,

Una settimana dopo, la presa di distanza si faceva più marcata e gli studenti venivano esplicitamente invitati ad «abbandonare il velleitarismo e le rivendicazioni astratte, la fase della pura protesta»43. Tra i

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giovani e l’organo della curia vescovile si infittirono i motivi di scontro

e di polemica: una mostra sulla pace, il raduno dei Cavalieri d’Italia, la giostra degli Acaja, una manifestazione folkloristica che si svolgeva nella via Nuova, nel quartiere più povero e disastrato di Pinerolo. Sul giornale si alternavano pareri favorevoli e contrari all’impegno dei giovani cattolici del dissenso in un’atmosfera di vivace confronto politi-

cof4. Poi, a cavallo delle elezioni politiche, anche qui come a Ivrea, i richiami all’ordine prevalsero, si riprese a considerare i partiti come ambiti unici di legittimazione politica («forse i giovani non sanno che tolti i partiti, rimane solo il totalitarismo di destra e di sinistra»)"9, ai tentativi di dialogo e di confronto «sereno» si sostituirono attacchi, critiche e qualche invettiva: Marcuse è un profeta stantio che nelle nuove orge intellettualistiche ha trovato — e certo non lo prevedeva — un posto insperato. I suoi segnali sono i nuoti Catari, banditori di un evangelismo e di un pauperismo utopistico*9.

In autunno ci fu, infine, spazio solo per la contrapposizione più netta. Entrarono in lotta gli studenti medi di Pinerolo, ci furono i primi scontri con la polizia all’Istituto Buniva, le prime denunce all’autorità giudiziaria. Il 31 ottobre, gli studenti andarono a manifestare davanti

alla fabbrica metalmeccanica Beloit47. Cominciava una nuova stagione, segnata da una irreversibile radicalizzazione sociale.

In una certa sintonia con il giornale di Pinerolo appariva anche La Valsusa, organo del seminario di Susa, anche se qui i motivi del consenso iniziale nei confronti del movimento studentesco sembravano più radicati, assunti in un’ottica in cui al solidarismo della tradizione catto-

lica si accompagnava un impegno già più direttamente politico nel sociale: L’ordine ancora, per tanta gente, è far partire e arrivare i treni in orario. L'ordine è portare mogli e figlie a una prima cariche, tra vestiti e gioielli, di centinaia di milioni, senza correre il rischio di un linciaggio di uova marce. L’ordine è poter correre con le fuoriserie nelle strade, senza incontrare cortei di dimostranti. L'ordine è considerare il diritto di sciopero come una teoria da dibattersi oziosamente tra teorici senza invadere le carreggiate48,

Un vasto consenso iniziale intorno ai motivi delle lotte studentesche si registrò anche a Chieri. In questa scelta dell’organo locale (Cronache chieresi) ci fu subito una buona dose di pragmatismo: l’affossamento del progetto di città universitaria alla tenuta La Mandria offriva una ghiotta opportunità al Chierese che «con terreni adatti, ab204

Aspetti del movimento del ’68 a Torino

bondanza di verde, vicinanza relativa al capoluogo» presentò la propria candidatura per una soluzione «alternativa»49. Altri elementi di consenso riprendevano spinte più politiche, anche contraddittorie: gli elogi allo spirito di modernizzazione («il sistema scolastico è vecchio, decrepito e va riveduto sia dall’alto che dal basso»)50 affiancate alle denunce di «una società meccanizzata, che annulla ogni espressione della propria individualità»?!; la lotta contro le ingiustizie («Forse nemmeno noi possiamo impedire alla nostra scuola di essere una scuola in cui si commettono ingiustizie. Ma possiamo ridurre il numero delle ingiustizie»)92, intrecciata alla proposta di creare una Consulta giovanile comunale «che raccolga le voci dei giovani e che permetta loro di parte-

cipare al governo della città»53, La precocità del movimento studentesco chierese nei confronti delle altre situazioni periferiche influenzò Cronache chieresi che non abbandonò — come successe negli altri esempi che abbiamo visto — le sue posizioni di dialogo se non di consenso esplicito. La prima grande assemblea degli studenti di tutti gli istituti superiori di Chieri, svoltasi il 15 maggio 1968 fu salutata dal giornale con molto calore («il vento della rivoluzione

culturale

comincia

a soffiare

anche

a casa

nostra»).

Soprattutto si cercò di fare da cassa di risonanza ad alcune delle istanze più direttamente sociali avanzate dal movimento: il tema dei rapporti con la famiglia fu affrontato con un’inchiesta di grande respiro, con un questionario che ai giovani rivolgeva domande del tipo: «I vostri genitori vi capiscono? Rispettano le vostre idee? Vi danno ampia libertà e fiducia nel periodo del fidanzamento?» I risultati furono pubblicati con un commento che sottolineava l’ «incomprensione totale» che esisteva

tra padri e figli94. Su questo stesso tema si ritornò in una polemica sorta dopo una lezione sull’ateismo voluta dagli studenti del liceo classico: la lettera di un padre («il figlio che mette in dubbio l’esistenza di Dio discute anche le posizioni e le decisioni paterne») provocò una sdegnata risposta degli studenti, pubblicata con il sostanziale consenso

della direzione del giornale?9. Altra iniziativa che tentava di allargare l’area di riferimento dei valori egualitari del movimento fu un'inchiesta sul razzismo. Chieri era stata ancora soltanto marginalmente toccata dalla grande ondata migratoria che seguì l’inizio della produzione negli stabilimenti Fiat di Rivalta. Il suo tessuto produttivo era ancora segnato da una netta prevalenza del settore tessile, peraltro in lento e costante declino. In un contesto quindi socialmente protetto dalle conseguenze più drammatiche che la convivenza con gli immigrati aveva fatto sorgere nel capoluogo, l’inchiesta di Cronache chieresi fu come una provocazione, una sorta di sasso gettato

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nello stagno. Una «vera piemontese» (ventenne, operaia in una tessitura) giunse a scrivere: «Il meridionale, anche se più ignorante, ha la lingua facile e, sia pure nel suo dialetto incomprensibile, diventa come un dittatore». Affiorava — e il giornale era pronto a rilevarlo — la paura per il diverso, il tentativo di esorcizzare le qualità dei meridionali capovolgendole nel loro contrario («i bambini sono più irrequieti e dispettosi dei nostri» «il popolo veneto ha saputo invece meritare pienamente la nostra fiducia, la nostra amicizia»)99. In questo contesto, Cronache chieresi indicava nelle lotte degli studenti — soprattutto quando in autunno tutti i giorni cominciarono a ripetersi nel liceo e negli altri istituti superiori — l’unica risorsa per spazzare via i tradizionali mali di Chieri, «la paura di dire la verità, l’immobilismo, l’assenza di democrazia»??. In un contesto radicalmente diverso, perfino La Gazzetta di Chivasso e del Canavese, organo della destra del Pli, caratterizzata in genere da un approccio piuttosto volgare alle lotte studentesche («dove c’è sommossa, là esiste un tedesco e, grattando, ne esce un nazista ca-

muffato con altri colori»98, aveva scritto a proposito di Daniel Cohn Bendit), giunse a ospitare un elogio di Pier Franco Quaglieni ai contenuti egualitari della predicazione di don Milani, scagliandosi contro «le viete forme di culturismo {[sic!] accademico che spesso mettono in luce solo coloro i quali hanno la memoria facile»9?, L’antiautoritarismo, l'impegno contro le ingiustizie e le sperequazioni di una società cresciuta troppo in fretta, l’egualitarismo: è come se attraverso la stampa locale si riuscisse a selezionare tra i valori agitati dal ‘68 quelli che ebbero l’impatto maggiore anche fuori dallo specifico del mondo studentesco, quelli dai quali partire per inserire compiutamente quel movimento in una delle più vistose trasformazioni attraversate dal nostro paese in un secolo di storia unitaria. I flussi tradizionali centro-periferia qui appaiono orientarsi lungo direzioni diverse. Tra Torino e il suo hinterland c’è più simultaneità e omogeneità che sfasature cronologiche e diversità; la simultaneità che fu uno dei dati più spettacolari del °68 su scala mondiale, si ritrova su scala provinciale e in una dimensione da sempre attraversata dal localismo periferico. Non solo. La larga convergenza registratasi sui contenuti iniziali del movimento, rende difficile considerarlo secondo un’interpretazione parentetica. Il ‘68 si inseriva all’interno di mutamenti profondi e irreversibili, agendo da catalizzatore nei loro confronti, lasciandoli emergere nella loro forma più marcata, tali cioè da passare intatti all’interno dei comportamenti collettivi che hanno segnato la società italiana almeno fino alla svolta normalizzatrice degli anni ottanta.

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Aspetti del movimento del ’68 a Torino

Note 1V.in questo senso il saggio di P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, con un’antologia di materiali e documenti, Editori Riuniti, Roma, 1988 che

parte dalla definizione dei caratteri originari del movimento (le sue dimensioni, la sua na-. tura generazionale, il rapporto con l’istituzione scolastica, quello con la cultura del proprio tempo, con i mezzi di comunicazione di massa, le forme organizzative) per indicare almeno un tratto contenutistico del ’68 che è di grande efficacia interpretativa: la crucialità del conflitto come ambito della propria legittimazione. Il ’68 è considerato così un movimento «permanente», che si autorappresenta come una «lotta continua». Le sue aporie, le sue contraddizioni, possono essere sciolte solo nella sua interminabilità. Questa ten-

sione progettuale, questa sfida al futuro, questo rinviare la definizione della propria identità alla costruzione di un «uomo nuovo» è l’aspetto centrale del 68 su cui Ortoleva ha

giustamente insistito. 2 La mozione approvata dagli studenti il 15 febbraio 1967 è in Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale. Su quell’occupazione v. C. Oliva e A. Rendi, // movimento studentesco e le sue lotte, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 38 ss. 3 Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale, Piattaforma rivendicativa di Architettura. 4 Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale.

5 Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale. Sui criteri della sua elaborazione e per i titoli dei controcorsi e delle commissioni di studio che ne prepararono la stesura definitiva, v.

C. Oliva e A. Rendi, // movimento studentesco, cit., pp. 58 ss.

6 nl «giornalino» redatto esclusivamente dagli studenti di Palazzo Campana, aveva come testata il giorno di pubblicazione. Apparve con cadenza pressoché quotidiana a partire dal 22 gennaio 1968 fino al maggio (l’ultimo numero che ho rintracciato è del 10 maggio). Giunse a «tirare» quasi settemila copie. (L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze, 1988, pp. 104 ss.). 718 marzo 1968, ai 13 mandati di cattura seguirono ben 488 denunce contro altrettanti studenti identificati dalla polizia nel corso delle varie occupazioni di Palazzo Campana. 8 p, Ortoleva, Saggio, cit., pp. 32 ss.

9 Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale. Significativa fu la ricaduta della radicalizzazione anche sui contenuti delle ricerche del movimento su una nuova didattica. L'attività di studio si riorganizzò in commissioni dai «titoli più accentuatamente impegnati verso la politica» (Lotte sociali in Europa, Nato e politica italiana, Programmazione nazionale e potere economico privato, Manipolazione del consenso, Demistificazione delle ideologie, Condizione operaia nelle società del benessere). V. in questo senso L. Passerini, Autoritratto, cit., pp. 124 ss. Particolarmente significativo ci sembra il documento approvato dalla commissione Didattica e repressione: «La lotta contro l’autoritarismo accade-

mico ha un aspetto didattico e uno politico. Tutte le volte che si mette in discussione il potere, anche soltanto quello baronale e feudale, delle nostre strutture universitarie, si ingaggia una battaglia politica. Fare politica significa lottare per la contestazione e la ridistribuzione del potere. Significa sempre e comunque inserire un elemento squilibrante e disfunzionale nel meccanismo di potere del sistema sociale». 10 E Ciafaloni, Gli anni degli operai e degli studenti, in L. Bobbio, F. Ciafaloni, P. Ortoleva, R. Rossanda eR. Solmi, Cinque lezioni sul °68, Rossoscuola, Torino, 1987,

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11 G. Viale, «Contro l’Università», Quaderni piacentini, n. 33, feb. 1968.

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12 Questi dati sono desunti da uno spoglio della cronaca torinese su tre quotidiani lo-l " LEA cali (La Stampa, La Gazzetta del Popolo e l'Unità) compiuto per il periodo novembre | | 1967 - luglio 1968. 13 Sulla caricatura e lo sberleffo come elementi salienti delle prime manifestazioni pubbliche del movimento studentesco torinese e per una loro derivazione «situazionista», v. L.Passerini, Autoritratto, cit., p. 114.

14j questo il testo di un volantino pubblicato sul «giornalino» del 1° marzo. 15 Sul peso della tradizione insurrezionale e sui suoi risvolti politici in questo secondo dopoguerra, v. G. De Luna, L’insurrezione nella Resistenza italiana, in L’insurrezione

in Piemonte, Angeli, Milano, 1987, pp. 60 ss. Da notare come anche nel "68 non ci fosse nessuna demonizzazione del nemico: «I poliziotti sono stati animati da un odio e da un antagonismo di classe nei nostri confronti, consapevoli del fatto che la nostra agitazione era in gran parte il risultato della nostra condizione sociale privilegiata, che aveva come conseguenza nei loro confronti di costringerli a gelide ore di sorveglianza... nonostante ciò, alcuni hanno anche accettato il nostro invito di visitare l’università occupata, ed han-

no passato delle ore intere a discutere di politica» ( G. Viale, «Contro l’Università», cit.). 16 Nell’uso di questo slogan gli studenti torinesi non erano affatto isolati. La loro analisi dei meccanismi repressivi dello Stato era condivisa a grandi linee anche in ambienti più vasti. La rivista Quindici, pubblicò sul suo numero del febbraio 1968, a cura di Furio Colombo, una scelta di documenti prodotti dal movimento

studentesco di Torino,

presentandola con il titolo «Torino come Madrid». Su questi aspetti, v. N. Ajello, Lo scrittore e il potere, Laterza, Bari, 1974, pp. 202 ss.

va questo proposito G. Grosso, «Negli atenei va difesa la libertà del docente», La Stampa, 3 dic. 1967. (Grosso, nel suo articolo, paragonava le intemperanze degli studenti con la «chiassata» dei fascisti contro Ruffini, nel cortile dell’Università, nel 1929). Da

parte degli studenti, bersagli della polemica contro l’antifascismo «ufficiale» furono soprattutto i professori Aldo Garosci e Franco Venturi: «La loro funzione di docenti — scrivevano — è principalmente medica. Non si sa però se il loro intento sia quello di forgiare generazioni di giovani “criticamente democratici” o piuttosto di immunizzarli dai germi della ribellione, inculcando loro i bacilli imbalsamati della Resistenza passata da cui loro sono perfettamente guariti» (Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale, Istituto di storia. Dal

dispotismo illuminato all’ illuminismo dispotico).

18 G. Viale, // sessantotto, Mazzotta, Milano, 1978, p. 42. 19 Per questa definizione, v. P. Ortoleva, Saggio, cit. Anche la dimensione collettiva interagì a fondo con la scoperta della violenza contribuendo ad assumerla in un’accezione completamente interna alle caratteristiche complessive del movimento: «La paura dell’intervento della polizia non era altro che la consapevolezza del nostro reciproco isolamento e del fatto che la forza pubblica, come ogni altro atto di intervento repressivo, era lo strumento attraverso cui si realizza l’atomizzazione e l'oppressione individuale del corpo studentesco, privato della dimensione collettiva della sua prassi» (G. Viale, «Contro l’Università», cit.).

si Sul nesso «comportamentale» con la violenza stabilitosi all’interno del movimento operaio, v. le lucide pagine sull’argomento di G. Galli, / partiti politici in Italia, 18611973, Utet, Torino, 1974, pp. 172 ss. 216. Viale, // sessantotto, cit., p. 42.

22 Ibid., p. 44. Si Sulla lunga marcia attraverso le istituzioni come proposta politica originale ed esclusiva del movimento studentesco torinese, insistono sia Peppino Ortoleva (Saggio,

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cit.) che G. Viale (// sessantotto, cit.). Quest'ultimo — che ne fu il più lucido assertore — ne riprende i temi essenziali alle pp. 112 ss. dandone anche la definizione più esauriente.

24 Problemi del socialismo, n. 32, 1968. 25 Sui caratteri originari di Torino e per una definizione del «gianduismo» attraverso l’esame della contrapposizione Gobetti-Gozzano, v. G. De Luna, intervista a Norberto

Bobbio, Città, n. 1, 14 marzo 1986. 26 G. Viale, /l sessantotto, cit., p. 22; sull'occupazione come rottura dell’isolamento individuale nei confronti della piramide sociale, v. anche L. Passerini, Autoritratto, cit.,

p.90.

27 L. Bobbio, I! movimento del 68 nell'Università, in L. Bobbio, FE. Ciafaloni, P. Ortoleva, R. Rossanda e R. Solmi, Cinque lezioni, cit. p. 19.

28 1e lettere apparvero nella rubrica «Specchio dei tempi»,La Stampa, dic. 1967, 18 gen. e 8 feb. 1968. 29 M. Celio, «I giovani», // Cavour, n. 8, 1° lug. 1968. Nel giornale ricorrevano toni

apocalittici, sempre in riferimento alla contestazione: «Popolo italico, oggi tu sei smarrito nell’abisso, le tue donne e i tuoi uomini, nella loro grande maggioranza, sono tuttavia sani e guardano con stupore e dolore alla minore parte che ha abiurato le leggi della morale, del vivere civile e dell’onore; che ha perduto il senso della dignità umana e dell’amor di

patria» (U. Allioni di Brondello, «Solveijg», /! Cavour, n. 3, 1° mag. 1968).

30 G. Viale, «Sulle nostre famiglie», «giornalino» del 12 feb. 1968. 31 «Un problema di grande interesse», // Risveglio, 19 gen. 1968. Il 28 gennaio il settimanale riferiva di una riunione dei sindaci della zona «nella quale si è ironizzato non poco sui programmatori torinesi che della Mandria hanno visto solo il muro esterno e sembrano convinti che sia costituito da uno splendido e ininterrotto parco naturale, mentre in realtà gli alberi ad alto fusto occupano 1°1% della superficie e altrove sono solo cespugli». Ricordiamo che il consiglio d’amministrazione dell’ Università di Torino aveva deciso per il trasferimento delle facoltà scientifiche nella tenuta dei marchesi Medici del Vascello alla Mandria. Contro questa decisione gli studenti erano entrati in lotta, il 20 novembre

1967, «in difesa dell’unità

delle strutture

amministrative

dell’Università»

(C.

Oliva e A. Rendi, // movimento studentesco, cit., pp. 67 ss). 32 Don M. Canova, «Gli hippies americani e la nuova sinistra», // Risveglio, 8 mar.

1968.

33 «Le prospettive della protesta dei giovani», La Sentinella del Canavese, 8 mar. 1968. Il peso della tradizione olivettiana è evidente in una serie di iniziative assunte ad Ivrea proprio agli esordi della «contestazione»: un convegno su «Problemi e prospettive di una politica della gioventù» che ospitò come relatori Francesco Alberoni (Giovani e cambiamento

sociale), Giuseppe

Tamburrano

(Linee di una politica della gioventù),

Guglielmo Negri (Enti pubblici e politica della gioventù in Italia nel dopoguerra); una conferenza di Francesco Fornari (Psicoanalisi delle istituzioni) e una di Vladimir Mikes (L’avanguardia a Praga); un ciclo di film di Antonioni. Il tutto nel febbraio del

1968. 34 Così si esprimeva il direttore del giornale canavesano F. Ivaldi («L’incognita dei giovani», La Sentinella del Canavese, 22 mar. 1968).

35 La Sentinella del Canavese, 1° mar. 1968, ospitava una lettera firmata da 146 inse-

gnanti e 81 genitori che protestavano con il ministro della Pubblica Istruzione contro la sospensione del preside del Parini e l’«intervento massiccio delle forze di polizia» («le critiche mosse dagli studenti ai sistemi vigenti sono così gravi e, nella maggior parte dei casi, così obiettive, da esigere risposte non repressive, ma costruttive»); il numero del 12

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Giovanni De Luna apr. dava ampio spazio a una fiaccolata in ricordo di Luther King, conclusasi nel duomo con una messa solenne. 36 L. Gallino, recensione a I-J. Servan i Sentinella del Canavese, 29 mar. 1968.

Schreiber,

La sfida americana,

in La z

37 E. Ivaldi, «I giovani e la Resistenza», La Sentinella del Canavese, 26 apr. 1968. 38 A.B., «Il problema dei giovani», L'Eco del Chisone, 11 gen. 1968.

39 A. Carraro, «I delitti del benessere», L'Eco del Chisone, 18 gen. 1968. 40 «L'Università italiana: quale modello?», L'Eco del Chisone, 15 feb. 1968. L'’artico-

lo si riferisce alla vertenza degli operai del Cotonificio Vallesusa, apertasi dopo la bancarotta e la fuga in Libano dell’amministratore delegato Felice Riva.

41 «I gruppi giovanili nel Pinerolese», L'Eco del Chisone, 11 apr. 1968. L'articolo faceva parte di un paginone («I giovani sulle vie del mondo») che ospitava anche un documento dei docenti del locale liceo Porporato, favorevole alle rivendicazioni

scolastiche

del movimento («noi crediamo alla serietà del loro impegno, anche perché gli studenti che partecipano al Movimento si sono sempre distinti nella scuola»).

42 «Gruppi spontanei, movimenti di disubbidienza?», L'Eco del Chisone, 7 mar. 1968; significativa è anche l’accusa agli studenti di «essere servi sciocchi dei comunisti». 43 «La rivolta degli universitari in un articolo di Ricerca, il periodico della Fuci», L'Eco del Chisone, 14 mar. 1968. 44 «Rilievi su una manifestazione di protesta. Due lettere sui problemi della Chiesa pinerolese», L'Eco del Chisone, 16 mag. 1968. I giovani del movimento si dichiararono «interpreti della collera silenziosa e sofferta che proviene da quei ghetti» e il sacerdote don Vittorio Morero rivendicò i suoi rapporti con loro: «il legame con questi giovani esiste, e non me ne vergogno, ma è un legame di sincerità, di amicizia e di lealtà critica». Alla mostra sulla pace, organizzata dal gruppo Azione per la pace del Movimento studenti cattolici, il giornale, nel numero del 3 mag. 1968, rimproverò la mancanza di equità di giudizio con i soli Stati Uniti sul banco degli imputati. Infine, dopo le cariche della polizia che il 17 ottobre 1968 disciolsero la manifestazione degli studenti contro il raduno dei Cavalieri d’Italia, i giovani protestarono con L'Eco del Chisone per l’«esaltazione militaristica» con cui il giornale aveva salutato il raduno. 45-G; Trovati, «La scheda bianca dei giovani scontenti», L'Eco del Chisone, 4 apr.

1968. La polemica si estende all’interno delle famiglie, secondo quanto scrive, sul numero del 28 mar., «un padre»: «Anche se ci possono essere dei genitori che talvolta si mostrano preoccupati più delle pagelle che della maturazione dei figli, l’accusa che rivolgete ai papà e alle mamme di alcuni di voi di essere stati validi alleati della repressione, “giocando sul ricatto degli affetti”, è indebita e offensiva. Come è ingiusta la valutazione da voi insinuata dell’opera dei vostri insegnanti. Il tentativo di fare di voi dei passivi “oggetti di imbottimento e di manipolazione culturale” può essere nella testa accesa di qualcuno che forse vi sta giocando, non certo nelle intenzioni della grande maggioranza dei docenti». Significativi per la vivacità del dibattito politico sono anche: «Un appello del vescovo per l’Università cattolica. Studenti e scuola a Pinerolo» (21 mar. 1968); «Uno spazio nella scuola italiana per maturare responsabilmente» (un articolo di tre giovani del movimento studentesco — Baraldi, Foti, Gottero — apparso sul numero dell’11 apr. 1968); una lettera di don Franco Trombotto («Succede in questa affaticata Chiesa pinerolese») in polemica con il giornale del movimento Venticinquesima ora e con l’invito al vescovo «ad assumere una chiara posizione»; l’omelia del vescovo, Santo Quadri, contro «il diffonder-

si dello spirito di violenza» (6 giu. 1968).

46 «Marcuse, profeta stantio», L'Eco del Chisone, 27 giu. 1968.

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Aspetti del movimento del ’68 a Torino

47 Sull’incontro tra gli studenti e gli operai della Beloit, v. L’Eco del Chisone, 7 e 21 nov. 1968.

48 La Valsusa, 14 dic. 1968. 49 «Perché Chieri diventi città universitaria», Cronache chieresi, 16 feb. 1968. SOG, Roccati, «Studenti a Chieri», Cronache chieresi, 9 feb. 1968. «Di questo — ag-

giunge l’articolo — devono rendersene conto tutti, sia gli insegnanti che gli allievi; nessuno escluso, neanche quelli chieresi... senza paura di urtare i miti, i conformismi e i sensazionalismi che regolano la vita della nostra città».

51 «I giovani e la rivoluzione», Cronache chieresi, 19 gen. 1968. 52 Cronache chieresi, 1° mar. La frase sull’ingiustizia è ripresa da una risposta di Cesare Roccati alla lettera della professoressa Marina Maspoli Bodrato, insegnante di educazione civica nella locale scuola media, che lamentava le discriminazioni verso gli al-

lievi più poveri in occasione delle scelte delle mete per le gite scolastiche.

53 C. R., «Scuola e società», Cronache chieresi, 31 mag. 1968. 54 1’inchiesta fu pubblicata sul numero del 29 mar. 1968. Il 12 apr., lo stesso giornale ospitava i commenti indignati alla denuncia dei carabinieri contro una coppia di giovani che si baciava in pubblico «con troppa passione».

55 Cronache chieresi,7 giu. 1968. 56 «I piemontesi sono razzisti?», Cronache chieresi, 18 ott. 1968. 57 v. il paginone «Che cosa vogliono gli studenti chieresi», Cronache chieresi, 29

nov. 1968, con un occhiello che affermava: «a colloquio con i contestatori nella città dei cardi e della bagna cauda». 58 «Pinzillacchere», La Gazzetta di Chivasso e del Canavese, 31 mag. 1968.

59 PF Quaglieni, «Parliamo di esami», La Gazzetta di Chivasso e del Canavese, 19 lug. 1968.

IL ’68 A TORINO. GLI ESORDI: LA COMUNITA STUDENTESCA DI PALAZZO CAMPANA di Marco Revelli

«L'Università ha bisogno che si discuta di meno e si concluda di più»!: così, il 6 novembre 1967, il Rettore Magnifico Mario Allara termi-

nava la prolusione inaugurale del 564° anno accademico dell’Università di Torino. Parole quasi identiche userà, il giorno successivo, il rettore del Politecnico, professor Capetti, augurandosi «che gli studenti non tradiscano il significato letterale di quella loro qualifica e ricordino che non si sono iscritti al Politecnico per discuterne programmi e strutture, ma per imparare». In apertura della cerimonia era stato commemorato Vittorio Valletta, che il Politecnico considerava «appartenente alla propria famiglia» perché ingegnere honoris causa. Era stato anche ricordato che nell’anno accademico 1966-67 il Politecnico di Torino aveva laureato 398 giovani, un numero quasi doppio rispetto ai 204 del 1958-59, meno di un decennio prima. Nello stesso periodo gli iscritti all’ateneo torinese erano passati da 11.889 a 19.601, con un incremento del 65%, e con punte particolarmente evidenti nelle facoltà che presto sarebbero diventate l’epicentro della rivolta: Lettere, Magistero, Scienze3. Un dato indubbiamente preoccupante, tenuto conto che il numero dei docenti era aumentato appena di 37 unità, passando da 115 a 152. D'altra parte che qualcosa fosse nell’aria, e che dall’interno del «mondo della scuola» stesse maturando una qualche «rottura», è testimoniato anche dalle inquietudini emergenti sul quotidiano cittadino, La Stampa -— in quella fase ancora dichiarato indicatore dello stato d’animo prevalente nell’establishment locale, con la sua esplicita vocazione predicatoria e la non mascherata volontà di orientamento e di censura sul piano ideologico come su quello del costume —: Da anni — recitava un corsivo del 19 novembre— la scuola, strumento indispensabile per formarei cittadini e i quadri dirigenti di domani, si dibatte in una profonda

D'6g‘a Torino crisi... Tutti sono d’accordo sulla necessità che la scuola si rinnovi: ma bisogna che la trasformazione avvenga con ponderata cautela e senza brusche scosse. Detto questo — si aggiungeva poi, quasi ad anticipare ed esorcizzare timori futuri — nella più ampia e attenta comprensione degli studenti, si affaccia il dubbio che una parte dei giovani inquieti in aula e facili alle dimostrazioni nelle vie, siano di volta in volta manovrati da gente che ha poco da condividere con le loro ansie di rinnovamento.

Il corsivo appariva in pagina locale — in qualche modo ingiustificato dato che a Torino non si era fino ad allora registrata, dopo l’estate, alcuna agitazione studentesca, né si erano viste «dimostrazioni nelle vie». Ma in cronaca nazionale, proprio lo stesso giorno, si dava notizia dell’occupazione, a Milano, della Cattolica («Da un gruppo di 50 studenti che protestano contro le tasse scolastiche», diceva il titolo). Ed è evidente il timore di un possibile contagio, da parte di un ceto dirigente locale ancora fortemente attento, fin nei dettagli, all’ordine cittadino,

ed evidentemente persuaso di doverne e poterne anticipare, prevenire e controllare dinamiche e sfide. Sedici giorni dopo la preoccupata e per certi versi arrogante cerimonia accademica, ad appena due giorni dall’inquieto allarme della Stampa, il 22 novembre, alcune centinaia di studenti assediano il retto-

rato dove il consiglio di amministrazione dell’Università stava deliberando sulla contestatissima localizzazione della città universitaria nella zona della Mandria4, sostenuta dal rettore Allara e dalla Fiat, ma a cui si erano dichiarati contrari il Consiglio comunale, l’Istituto di urbanistica, il Comitato regionale per la programmazione, Italia nostra,

l'Associazione dei docenti incaricati e quella degli assistenti?. Chiedono di partecipare alla discussione in quanto diretti interessati. Lanciano un ultimatum: «O ci lasciate entrare o sfondiamo la porta». Con un megafono imitano i tre squilli della carica, poi, a spallate, sfondano l’uscio e invadono l’aula. Solo dopo due ore, in seguito all’intervento di polizia e carabinieri, la seduta del consiglio potrà riprendere a porte chiuse, concludendosi con l’approvazione della proposta del ret-

tore con 12 voti favorevoli e 2 contrari’: Cinque giorni più tardi, in una rapida radicalizzazione e massificazione”, gli studenti delle facoltà umanistiche riuniti in assemblea nell’aula magna di Giurisprudenza, proclamano con circa 600 voti fa-

vorevoli e pochissimi contrari l'occupazione di Palazzo Campana. «30 studenti occupano l’Università», titolerà La Stampa in cronaca cittadina, taglio basso a sinistra, aggiungendo in occhiello «I giovani vogliono opporsi all’autorità della scuola»8. Accanto, la notizia dell’esordio di Dario Fo al Carignano, con La signora è da buttare; in cronaca della provincia, l'annuncio di «incidenti a Ivrea per lo sciopero degli attrez-

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Marco Revelli

zisti Olivetti»; in terza, un lungo articolo di Alberto Ronkey: «Si placa la febbre dell’oro» (stabilizzatosi a 35 $ all’oncia), e un reportage da Mosca: «In Cina nuovi sanguinosi tumulti», mentre la prima pagina è interamente dominata dal veto francese all’ingresso della Gran Bretagna nel Mec. «Si sono dichiarati a favore — recitava l’articolo — i rappresentanti Ugi (sinistra), Goliardi

indipendenti

(liberali), Intesa

(cattolici); contrari il gruppo Viva Verdi (monarchici) e gli studenti di medicina». E proseguiva optando, fin da subito, per una linea esplicitamente ostile all’azione degli studenti e tesa a ridimensionarne ragioni, ampiezza e portata. Atteggiamento rispetto al quale costituirà un’ostentata alternativa — in un clima per molti versi da «piazza del villaggio», in cui ogni evento manifestatosi nei «luoghi deputati» finisce per divenire oggetto di accanite discussioni e contrasti — la posizione della Gazzetta del Popolo, l’altro giornale cittadino, legato alla sinistra democristiana: Anche TV Sette — si legge in cronaca locale il 29 novembre — ha ripreso ieri gli studenti che occupano Palazzo Campana durante un’affollatissima assemblea svoltasi nell’aula magna. La televisione potrà così documentare che l’occupazione non è voluta da poche decine di studenti esagitati, ma da centinaia di giovani responsabili che desiderano l’effettivo rinnovamento delle strutture universitarie, rivelatesi ormai

logore e inadeguate ai tempi. Se vogliamo esser fedeli ai fatti — aggiungerà il giorno successivo un anonimo corsivista, in ancor più esplicita polemica con La Stampa — non si può parlare di una trentina di scalmanati che occupano Palazzo Campana, quando alle assemblee partecipano sei o settecento studenti (né sono molti di più quelli che partecipano alle lezioni) che per la quasi totalità si dichiarano favorevoli all’agitazione?.

I caratteri di novità del dicembre torinese

E tuttavia, nonostante l’analitica attenzione prestata ai fatti, quello che in buona parte era sfuggito agli osservatori esterni era il carattere di svolta degli eventi; la constatazione che quella che stava iniziando nella sede delle facoltà umanistiche di Torino era, per molti versi, un’esperienza unica; certamente inedita rispetto alla vicenda studentesca to-

rinese e italiana. Una novità di cui, invece, i protagonisti si mostravano pienamente consapevoli: «Per la prima volta all’Università di Torino è stata impostata un’agitazione con dei programmi di lavoro a lungo termine elaborati in seno alle assemblee di facoltà»!0. Contrariamente . a tutte le volte precedenti, l'occupazione non intendeva infatti esprimere la protesta contingente degli studenti su singoli fatti, esercitando forme di pressione occasionale sui livelli istituzionali della struttura di potere,

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ma proporsi come evento destinato a durare; come struttura permanente e finalizzata a un proprio programma di lavoro. Era una dichiarazione esplicita di autonomia del movimento studentesco, che veniva a costituirsi così, attraverso la programmatica permanenza delle sue forme di mobilitazione, come soggetto collettivo indipendente all’interno della struttura universitaria, di cui si candidava ad essere elemento di conte-

stazione permanente. Nella mozione approvata dall’assemblea «l’acquisto dell’area della Mandria... e la presentazione alla Camera del progetto di legge 2314», i due casus belli che avevano innescato la mobilitazione, erano considerati «soltanto due esempi dell’autoritarismo

dei docenti e delle strutture accademiche»!l, Il vero obiettivo era indicato nei contenuti e nei metodi dell’insegnamento accademico!2; Lottare solo in occasione di singoli episodi — precisava il documento distribuito contestualmente — è inutile e costituisce un’azione votata alla sconfitta. Bisogna pia-

nificare la nostra lotta!3.

E aggiungeva, alla voce Come lottare contro l’ autoritarismo accademico: Vogliamo sceglierci noi studenti gli argomenti di cui intendiamo occuparci, il tipo di formazione che vogliamo darci, i metodi didattici che vogliamo seguire. I professori non devono essere i nostri padroni, ma devono partecipare ai seminari e alle ricerche su un piano di parità!4.

Particolarmente significativo è poi, a questo proposito, il testo della convocazione, il 5 dicembre, dell’assemblea di facoltà di Giurisprudenza, frequentata da una massa studentesca notoriamente moderata: L’attuale occupazione — afferma — è radicalmente nuova. In essa la «protesta» è solo un elemento marginale. Si occupa discutendo insieme, elaborando insieme critiche e proposte sul modo con cui ci viene oggi insegnato dalla facoltà il diritto!9,

Inoltre, a differenza dalle volte precedenti, ora era fin da subito e direttamente l’assemblea generale degli studenti, senza più alcuna mediazione da parte degli organismi rappresentativi istituzionali (Interfacoltà), a gestire e decidere tempi e modi dell’agitazione. E vero che la mozione del 27 novembre a favore dell’occupazione era ancora firmata da Ugi, Intesa e Goliardi indipendenti, secondo gli schemi tradizionali

della rappresentanza studentesca. Ma si trattava di un aspetto più formale che sostanziale. Di fatto, e fin dal primo giorno, le vecchie organizzazioni che avevano dominato dibattito e scena politica all’interno

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dell’università, si «scioglievano», per così dire, nel movimento ricono-

scendo nell’assemblea non solo l’organo di decisione sovrano, ma la rappresentazione concreta, materiale, corporea del movimento stesso, in contrapposizione al precedente principio di rappresentanza . Uno stato di fatto che otterrà una sanzione anche formale il 15 dicembre quando il Comitato di agitazione che aveva guidato la primissima fase dell’agitazione presenterà le proprie dimissioni «al fine di permettere un rapporto più organico tra gli studenti e i loro rappresentanti nella successiva fase», trasferendo tutto il potere alle commissioni di studio, | impegnate nell’elaborazione della Carta rivendicativa e nell’analisicontestazione della didattica tradizionale. Ogni commissione avrebbe eletto un proprio rappresentante, revocabile in ogni momento a insindacabile giudizio della commissione stessa; l'insieme dei rappresentanti avrebbe costituito il nuovo Comitato di agitazione, unico organo legittimato a rappresentare il movimento nelle eventuali trattative col «corpo accademico», revocabile in toto dall’assemblea. Certo la nuova dimensione esponeva pericolosamente il movimento sul fronte della legittimazione, che cessava di essere generale e formale (come nel caso

di una rappresentanza istituzionale eletta a suffragio esteso all’intero corpo studentesco) per diventare specifica e partecipata (decide «chi c’è», chi è accreditato cioè dalla propria presenza fisica a compiere scelte consapevoli). E infatti tanto le autorità accademiche quanto La Stampa non cesseranno di contestare la legittimità e la rappresentatività delle decisioni assunte, chiamando in causa, contro la «minoranza» presente, la «maggioranza» assente («L'atto di forza deciso ieri mattina in un’assemblea di 500 universitari mentre gli iscritti in totale sono 19.500» — 28 novembre; «L’occupazione, decisa da un’assemblea di 500 persone è disapprovata dalla massa dei giovani» — 29 novembre; «Gli iscritti all’università sono 19.500, la maggioranza è contro le azioni di forza» — 30 novembre). Ma una tale linea verrà in buona parte va-

nificata — o da parte del oltranza ed un’«elezione

quantomeno indebolita — dalla scelta, abile e intelligente, movimento studentesco, di non arroccarsi su una difesa a esclusiva dell’assemblearismo, e di indire fin da subito libera», a scrutinio segreto e aperta a tutti gli iscritti alle

facoltà presenti a Palazzo Campana!9, Il 30 novembre, dalle ore 11,30 alle 24, rimase aperto un seggio all’interno del palazzo occupato . Parteciparono al voto 1.524 studenti, col seguente esito: 815 favorevoli all’occupazione, 428 contrari, 7 schede bianche, 4 nulle. «Il numero dei votanti — affermerà il comunicato emesso a conclusione dagli occupanti — è stato percentualmente pari al numero dei votanti registrato ‘ nelle ultime elezioni dell’Interfacoltà che hanno una durata di tre giorni

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e non di 12 ore». «Un’eccezionale affluenza ha sottolineato il successo del referendum indetto per decidere democraticamente se continuare o no l’occupazione»; commenterà per parte sua la Gazzetta del Popolo del 1° dicembre. A ciò si aggiunga, infine — e il fatto non è secondario nel determinare il carattere di novità assunto dall’agitazione torinese —, che gli studenti che occupano il 27 novembre non saranno costretti a scontrarsi immediatamente con la risposta repressiva delle autorità accademiche e della polizia: potranno, esattamente per un mese, grazie all’indecisione e alle contraddizioni apertesi all’interno del corpo accademico, godere di una sorta di «tempo sospeso», di uno spazio libero entro cui elaborare autonomamente la propria crescita collettiva. E strutturare, soprattutto, una propria dimensione organizzativa permanente, ricalcata sui contenuti dell’elaborazione culturale e didattica. Le assemblee di facoltà possono articolarsi fin da subito in commissioni: Lettere, Filosofia, Analisi sociale, Pedagogia, Geologia, Facoltà scientifiche. Ogni commissione, a sua volta, in sottogruppi: Il Vietnam, L'America latina, La

pedagogia del dissenso, Psicoanalisi e repressione, La filosofia della scienza (da cui poi nascerà Sociologia della scienza), I rapporti tra filosofia e cultura

(su Marcuse),

Scuola

e società, Cinema

e società,

Giovani e protesta, Gruppi minoritari, Sviluppo capitalistico in Italia dopo il 1960, Divisione del lavoro, Vari indirizzi del diritto (5 gruppi) e ruolo sociale del giurista, Contenuto e metodi delle facoltà umanistiche. Nascono i «controcorsi», esperienza centrale, come si vedrà più oltre. E si consolida quella fitta rete di relazioni interpersonali, di rapporti e solidarietà fondati sulla durata di un’esperienza collettiva «eccezionale» e condivisa, che costituisce il tratto caratteristico della dimensione «comunitaria» assunta dal movimento in questa fase: secondo un sondaggio casuale, fatto esponendo un registro per le firme dei presenti, si calcola che giornalmente partecipino ai lavori delle commissioni e ai controcorsi circa 700 studenti!”, un numero cioè pari se non superiore a quello che in tempi normali frequentava le lezioni. Contemporaneamente, il palazzo occupato potrà essere utilizzato come «strumento» di comunicazione politica e sociale, al fine di «rompere l’accerchiamento» e stabilire rapporti con un ampio ventaglio di forze politiche e culturali: già la sera del 2 dicembre (un sabato), si svolge nell’università occupata un dibattito pubblico sul ruolo della scuola, con la partecipazione di Berlinguer, del segretario della Camera del lavoro torinese Sergio Garavini, e con i professori Massucco Costa, Viola, Barone e Della Gatta. Nel mese successivo Palazzo Campana sarà meta di intellettuali, registi, giornalisti, sindacalisti, politici, oltre

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Marco Revelli

naturalmente di operai!8 e studenti di altre città. Era nato quello che allora si era soliti definire — secondo il gergo creato nel corso dell’occupazione di Architettura, alcuni mesi prima — uno «spazio strutturale»: un territorio autonomo e indipendente su cui il movimento poteva rea-

lizzare la propria sovranità!?.

Quale sia la ragione per cui le autorità accademiche abbiano permesso agli occupanti di godere del vantaggio di una tale tregua, è difficile stabilire. Gli studenti non esitarono ad attribuirlo alla paura d’innescare quella spirale tra repressione e allargamento della base di massa del movimento che, per molti versi, aveva caratterizzato le più recenti agitazioni, in cui appunto l’intervento poliziesco aveva finito per compattare intorno alle posizioni più radicali un fronte studentesco sostanzialmente diviso:«il mancato intervento della polizia — affermava un documento del 9 dicembre — è dovuto alla “memoria di quanto accaduto un anno fa: abbiamo occupato in ottanta, siamo diventati più di mille”’»20. E che, d’altra parte, abbia prevalso, almeno per una certa fase, l’illusione che, in assenza di una risposta frontale, l’agitazione finisse per esaurirsi da sola, per mancanza di contenuti e per l'emergere di contraddizioni interne, è testimoniato dal commento all’incontro del 16 dicembre, tra il rettore Allara e il prefetto di Torino, comparso su La Stampa: «Far sgombrare con la forza l’edificio — si affermava — potrebbe essere un “favore” agli occupanti, ormai stanchi e divisi da polemiche interne»?! . Ma un ruolo di rilievo deve averlo giocato anche la significativa spaccatura generata all’interno del mondo accademico dall’agitazione in corso. E in particolare l’impossibilità — di per sé inedita nella vicenda torinese — di giungere a decisioni unanimi in seno al Senato accademico, dopo che il consiglio di facoltà di Magistero, con una deliberazione clamorosa, aveva rotto il fronte votando unanimemente, fin dal 28 novembre, una mozione in cui si dava mandato al preside (professor Quazza) perché, «proseguendo nella linea già da lui adottata, proponga di usare tutti i mezzi al fine di evitare comunque il ricorso a soluzioni di forza da parte delle autorità accademiche, soluzioni che oltre a tutto risulterebbero controproducenti»?2. Tutto ciò contribuirà a costituire i tratti di novità di quella nuova fa-

se23 — ad attribuirle iconnotati specifici del ‘68, appunto. E a influire non solo sullo «stile» con cui sarà gestita l’agitazione, ma anche su una

serie di nodi cruciali nel dibattito politico interno al movimento studentesco — dall’annosa questione degli ambiti decisionali e del rapporto tra democrazia diretta e democrazia delegata, all’atteggiamento nei confronti delle componenti riformiste del corpo accademico, dal nesso tra 218

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didattica e forme organizzative del movimento al carattere della «politicizzazione» realizzata nella lotta —, trasformandone, direi in modo irreversibile, senso e contesto. Sarà sufficiente confrontare, sia pur som-

mariamente, la nuova esperienza con quella immediatamente precedente — con l’occupazione del febbraio 1967 —, per coglierne appieno la distanza.

L’occupazione del febbraio ’67 e il ruolo dei «gruppi» Appena nove mesi prima dell’occupazione di novembre l’Università di Torino — ancora Palazzo Campana — era stata terreno di un importante processo conflittuale di rilievo nazionale24. L’8 febbraio, nell’ambito della più generale protesta indetta contro il progetto di riforma dell’università dall’Unuri (allora presieduta da Nuccio Fava sulla base di una coalizione tra Intesa e Ugi), l’organizzazione degli studenti di sinistra aveva proposto all’assemblea convocata dall’Interfacoltà l’occupazione dell’università. Con l’opposizione dell’Intesa (che la sera prima aveva rotto con l’Ugi, rendendone dimissionario l’Esecutivo torinese) e degli altri gruppi, che ritenevano prematura l’iniziativa e che negavano all’assemblea il diritto di decidere su una questione così importante, la proposta dell’Ugi era comunque passata a maggioranza. L'intervento della polizia, chiamata dal rettore la sera stessa, e la successiva serrata di Palazzo Campana,

avevano

però ri-

compattato il fronte studentesco: in un’assemblea tenuta alla Camera del lavoro anche i rappresentanti di Intesa, Goliardi indipendenti (liberali progressisti) e Viva Verdi (monarchici) si erano dichiarati favorevoli a riprendere l’occupazione con la richiesta delle dimissioni del rettore25. Era iniziata così una lunga serie di manifestazioni: occupazione dell’Istituto di Fisica con successivo sgombero forzato, poi di Fisiologia, infine, dopo la riapertura, il 13 febbraio, nuova occupazione di Palazzo Campana, con l’accordo tra tutte le componenti. Ma il dissidio di fondo sugli ambiti decisionali non era cessato: Intesa e Goliardi indipendenti avevano insistito per far ratificare nel pomeriggio stesso del 13 l'occupazione dall’Interfacoltà, che aveva anche-deciso la costi-

tuzione di un Comitato di agitazione composto da un rappresentante per ogni gruppo aderente all’occupazione e integrato da tre persone elette dagli studenti occupanti; l’Ugi, contraria, aveva invece proposto un Comitato di agitazione interamente nominato dall’assemblea generale convocata per le 21 dello stesso giorno. Si erano formati così due diversi organismi dirigenti, legittimati in base a due principi contrappo-

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sti: quello rappresentativo e delegato dell’Interfacoltà (rispondente alla volontà generica ma generale dell’intero corpo studentesco) e quello diretto e partecipato dell’assemblea (rispondente alla volontà specifica ma parziale degli studenti in lotta). Strutturati in assemblee di facoltà gli occupanti avevano poi elaborato le proprie rivendicazioni: immissione immediata con voto consultivo dei rappresentanti degli studenti negli organismi dirigenti l’università; parere favorevole dei consigli di facoltà e del Senato accademico sul voto deliberativo dei rappresentanti degli studenti negli organismi dirigenti 1’ Ateneo; parere favorevole del Senato accademico su una modifica radicale

del sistema di elezione del rettore. Elezione che si deve attuare con la partecipazione deliberante di tutte le componenti universitarie.

La mozione contenente tali rivendicazioni, approvata dall’assemblea generale del 15 febbraio, precisava che «qualora queste richieste siano accolte, gli studenti abbandoneranno l’occupazione», ed esprimeva una valutazione estremamente positiva sul fatto che «una parte dei professori di ruolo, insieme alle altre componenti del mondo universitario, hanno formalmente approvato l’azione degli studenti, riconoscendo la legittimità dei motivi politici che hanno portato all’occupa-

zione di Palazzo Campana?6. Si trattava dei professori Viola, Viano, Lore Terracini, De Bartolomeis,

Abbagnano,

Chiodi, Bobbio, Quaz-

za?7, Massucco Costa, Bonfantini, Mazzantini, Castagnoli, Mottura, Passerin d’Entrèves e Firpo, i cui nomi figureranno anche in calce della

mozione finale con cui, dopo una fase di lento esaurimento?8, il 27 febbraio, era stata decisa la sospensione dell’occupazione, proponendo, nel contempo, di costituire un comitato permanente composto dai rappresentanti delle associazioni e dei professori sottoscritti, onde proseguire l'esame del problema della riforma universitaria nazionale, lo studio delle possibilità concrete di realizzazione e sperimenta-

zione di riforme in sede locale, e proporre le forme di agitazione atte ad impedire la realizzazione di provvedimenti che possano pregiudicare un effettivo ed efficace rinnovamento dell’ Università??.

La «rivoluzione linguistica» di novembre

Ora, se si confronta il linguaggio di questi reperti d’archivio con quello dei documenti dell’occupazione del novembre-dicembre dello stesso anno, si può percepire, misurandola sulla profondità della «rottura linguistica», tutta la distanza che separa i due momenti:

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l’68a Torino I professori aperti — si legge nel documento L'atteggiamento del corpo accademico verso la nostra occupazione, distribuito nelle prime settimane di agitazione — sono disposti a venirci incontro nelle «loro materie», ma non hanno alcuna volontà di premere sugli altri professori perché facciano altrettanto... La prima e fondamentale regola della convivenza accademica è l’omertà; nessuno può interferire nelle faccende di un altro, come del resto è logico in una struttura in cui ogni professore ha il potere assoluto sul proprio feudo39. I docenti in genere — aggiunge il documento «Didattica e repressione», redatto a dicembre e diffuso alla metà di gennaio — se ne infischiano dell’Università, e considerano le loro cattedre e i loro incarichi come un posto e uno stipendio sicuro che permette loro affari privati. C'è chi fa il sindaco (Giuseppe Grosso), chi il deputato (Mussa Ivaldi), chi fa il dirigente industriale (Ricossa), chi fa il principe del foro (Gallo), chi fa il pianificatore (Lombardini) e chi non fa assolutamente nulla (Nicola Abbagnano); c’è infine chi riesce ad accumulare un tale numero di stipendi e di incarichi da essere continuamente impegnato (Gullini)3!,

Scomparso ogni timore reverenziale, scomparsa anche ogni distinzione “«di schieramento» tra professori avanzati e professori reazionari, il corpo accademico è attaccato in blocco e frontalmente. Se nelle agitazioni precedenti — ricorda uno dei primissimi documenti dell’agitazione, datato 9 dicembre 1967 — una parte dei docenti aveva potuto condividere «in linea di principio» le posizioni degli studenti, ora ciò non è più possibile, perché questa volta abbiamo aggredito direttamente e senza mediazione la loro università, il potere che essi esercitano su di noi, abbiamo messo in discussione la loro li-

bertà di imporci quello che vogliono attraverso le lezioni cattedratiche e gli esami. Abbiamo fatto questo — continua il documento — perché l’unica riforma che conta è lo scardinamento dell’attuale struttura di potere dell’Università, l’abolizione di ogni for-

ma di dominio e la ricostruzione di un’Università basata sulla parità e la discussione. Ci interessa poco essere inseriti in una facoltà o in un dipartimento, se poi in entrambi dovremo sempre imparare meccanicamente quello che loro hanno deciso di imporci.

Negli stessi termini, diretti e trancianti, venivano liquidate le aperture dei docenti più disponibili («Non ci interessa che una ventina di studenti possano mettere in discussione i temi ed i metodi di studio del seminario “pilota” di dialettologia — come ha di recente proposto il professor Grassi — , quando trecento studenti continuano a dover assistere passivamente alle lezioni del professor Getto. Non ci interessa l’isola felice di filosofia del diritto — come ci hanno proposto Bobbio e d’Entrèves —,

quando Grosso e Allara continuano a imporre cose inutili a mille studenti ricattandoli con le firme»32), in nome di una logica del confronto globalizzante, che puntava all’unificazione orizzontale di tutti gli studenti e al conflitto verticale con l’intero corpo accademico. Con una radicale schematizzazione, l’intera struttura universitaria era ricondotta alla polarità «alto/basso», «dominante/dominato»: «L'attuale struttura

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dell’università — si affermava fin dal 5 dicembre, sotto il significativo titolo: Come si diventa cattedratici, anticipazione di molti temi successi-

vamente sviluppati — è un’organizzazione baronale, in cui ciascun docente è signore e padrone del proprio corso, degli allievi che lo frequentano, dell’Istituto ad esso collegato e dei fondi destinati a questo»33. E ancora: «L'organizzazione baronale dell’università fa sì che al suo interno il docente sia il signore e lo studente il suddito»34. Nello stesso contesto, si insisteva in modo quasi ossessivo sulla crucialità dell’unità dell’intera componente studentesca («per gli studenti l’esistenza stessa di un piano di studi significa la frantumazione, la disgregazione e la predeterminazione autoritaria della propria formazione»); e si concludeva definendo l’occupazione «l’unico strumento che abbiamo in mano per mantenere l’unità e la coesione degli studenti»35. Non c’è, qui, solo una radicalizzazione del discorso e dell’azione (anche se la radicalizzazione, tenuto conto della brevità del periodo intercor-

So, è impressionante)36. C’è una vera e propria metamorfosi linguistica. Il linguaggio si fa di colpo diretto, immediato, concreto. Non astrattizza, personalizza. Non accentua, generalizzando, la distanza dai problemi, come il tradizionale gergo politico, ma la riduce smisuratamente fin quasi a farla scomparire, attraverso il continuo riferimento all’esperienza

vissuta, al particolare biografico, all’aneddoto. I nomi degli studenti più attivi, in questa prima fase del «movimento», non sono molto diversi da quelli che si trovano, pochi mesi prima, negli organigrammi dei

gruppi37: Laura Derossi e Luigi Bobbio, Andrea Mottura e Roberto Weigmann, Mirco Vaglio, Massimo Negarville, Alberto Friedmann, Giancarlo Jocteau dell’Ugi; Alberto Perron Cabus, Mauro Barrera, Carlo Donat-Cattin, Antonio Chirillo, Pier Giorgio Maggiorotti, Luciano Bosio dell'Intesa; Diego Marconi e Maurizio Vaudagna dei Goliardi indipendenti, mescolati ora, però, in questa fase statu nascenti, senza precise distinzioni di appartenenza. Uno dei pochi nomi nuovi, nel Comitato di agitazione: Guido Viale, l’unica variabile indipendente, per così dire, dalla storia più recente del vecchio movimento, e forse proprio per

questo particolarmente cruciale nella determinazione della svolta38. Né, d’altra parte, molto diverso è l’impianto analitico, il quadro concettuale cui fanno riferimento. Esso sembra coincidere, grosso modo,

con le analisi che la sinistra Ugi era andata sviluppando nell’ultimo biennio sulla scorta delle categorie elaborate dai Quaderni Rossi e di un marxismo fortemente impregnato di seduzioni francofortesi, le quali individuavano nel passaggio alla fase di sviluppo neocapitalistica, e nella corrispondente tendenza alla «sussunzione reale» di ogni forma di lavoro, compreso quello intellettuale, a un capitale pianificato e ra-

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Il ’68 a Torino

zionalizzato, il fulcro di una contraddizione che attraversava l’intera

società, compresa naturalmente la stessa università. Un quadro che portava a cogliere nell’istituzione scolastica lo strumento attraverso il quale «la forza lavoro in formazione è resa disponibile ad accettare il proprio ruolo subordinato all’interno del piano capitalistico», e nel «potere studentesco» il mezzo con cui riaffermare «il controllo sulla propria forma-

zione»39, Eppure, nonostante siano, per così dire, sempre gli stessi, e usino i medesimi strumenti analitici, divenuti in qualche modo universalmente

condivisi40, quegli studenti parlano ora un linguaggio strutturalmente differente. Alla terza persona impersonale del gergo politico tradizionale, e dei precedenti documenti, hanno sostituito la prima persona plurale («“On” a été la grande victime de la révolution de mai», osserverà

Pierre Vidal-Naquet)!; alla distanza abissale delle controparti precedenti (il «capitale», le «forze economiche», il «quadro politico»), la

percepibilità immediata, direttamente afferrabile, delle controparti dirette, chiamate per nome e cognome; all’ideologizzazione del linguaggio politico, la concretezza del linguaggio quotidiano. Il che sembrerebbe confermare l’acuta osservazione di Bruno Bongiovanni, secondo cui il ‘68 sarebbe il risultato di «una bruciante collisione... tra la men-

talità e l’ideologia»42, con il prevalere, ovviamente, della prima sulla seconda. L’ideologia — scriverà Guido Viale dieci anni più tardi, riflettendo su quell’esperienza — non incontra mai il proprio nemico. Entrambi vivono in una «realtà separata». Per questo ha continuamente bisogno di simboli: per rappresentare se stessa come per individuare l’avversario. La lotta antiautoritaria [invece] non si erige a siste-

ma—-onon lo fa al suo inizio — ma non le viene mai meno qualcosa o qualcuno contro cui combattere nella concretezza della vita quotidiana43.

E in effetti, la concretezza del linguaggio, la sua adesione quasi fisica all’esperienza vissuta dai singoli studenti, è il tratto caratteristico di tutta questa prima fase, spinto fino all’estremo44. Fino al limite del rifiuto e della negazione dell’intero patrimonio categoriale e lessicale condiviso fino ad allora da quegli stessi studenti di sinistra che pur erano e restavano la dirigenza dell’agitazione. Un esempio significativo è lo scontro avvenuto tra il Comitato d’agitazione e una delegazione romana del Psiup (la corrente politica più vicina per impostazione e per ragioni «biografiche» al movimento, quella che aveva fornito ad esso più quadri), la quale sollecitava una più precisa attenzione agli aspetti anticapitalistici della lotta, alla sua collocazione nel contesto internazionale e nel più generale discorso antimperialistico: «Anche

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questa presunta politicizzazione — preciseranno gli studenti — è stata lasciata da parte dagli occupanti. Perché? Perché si trattava di una dimensione che non era propria all’agitazione, che non avrebbe avuto nessuna funzione mobilitante, né poteva porre alcun obiettivo di lotta concreta» 45. D'altra parte, se si considerano gli obiettivi che vengono abbozzati a Palazzo Campana, nella discussione preparatoria della Carta rivendicativa, non può non balzare agli occhi il carattere di estrema concretezza, di immediatezza, e di stretta correlazione con la quotidianità vissuta dagli studenti. Saranno forse irrealistici, dati i rapporti di potere, ma non certo astratti, o avulsi dall’ambito di controllo della comunità studentesca: essi vanno dalla piena liberalizzazione dei piani di studio, con possibilità di sostenere esami in facoltà diverse dalla propria, all’obbligo per i docenti di fornire le dispense dei corsi monografici sui quali intendono interrogare, dal diritto di intervento degli studenti nel corso delle lezioni all’abolizione delle sottotesi, dal-

l’obbligo per i docenti di discutere collettivamente il voto con tutti gli studenti presenti all’esame all’abolizione dei controlli burocratici delle frequenze, dal diritto di «inchiesta» degli studenti sulla distribuzione dei fondi, sull’assegnazione di incarichi e di borse, sulle chiamate, ecc., all’obbligo per i docenti di ruolo che facciano parte di commissioni concorsuali di «sottoporre alla comune discussione la linea cui si

atterranno»49, Politica e quotidianità: la fondazione della «comunità studentesca» La metamorfosi linguistica che segna la fine del ’67 aveva in realtà, alla propria base, una vera e propria «rivoluzione copernicana» per quanto riguarda la concezione della politica. E quello che Viale defi-

nirà «l’irruzione della vita quotidiana nella lotta politica»47. E che assume l'aspetto di un improvviso, drastico ravvicinamento del piano generale dell’azione politica e del piano particolare della vita individuale. Il raggio, fino ad allora irreparabilmente ampio, della problematica politica viene bruscamente ridotto allo spazio di controllo dei singoli nella loro vita di ogni giorno. Il territorio della politica, fino ad allora coincidente con i confini dello Stato nazionale, viene d’improvviso ricondotto al territorio della comunità di studio (o di lavoro) entro cui muove l’esistenza quotidiana, in un gigantesco processo di «snazionalizzazione delle masse». Forse sta proprio qui il «segreto» della linea politica nuova — e per molti versi specificamente torinese — incentrata sull’«antiautoritarismo»; l’origine di quel senso di «intensità» con cui

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ogni atto era vissuto: in questa capacità di «offrire agli studenti — come annoterà Luigi Bobbio — un terreno vivo e immediato in cui identificarsi e su cui impostare un’azione collettiva»48; di definire e delimitare un territorio ristretto, immediatamente controllabile, coincidente perfettamente col proprio ambito di vita quotidiana, e di farne, in qualche modo, un mondo. Anzi, per certi aspetti, il mondo («Praticamente osserveranno alcuni dei protagonisti — noi ci siamo isolati all’interno di Palazzo Campana e abbiamo portato avanti la nostra agitazione come

se il resto del mondo non esistesse»)19. Ciò permetteva la riduzione e proiezione, come in un unico punto focale, dell’articolazione generale — e quindi inafferrabile — del potere sociale nelle figure concrete che di volta in volta ci si trova di fronte, siano esse (come avvenne a Palazzo

Campana) gli accademici, o (come avverrà alla Fiat) i capi, o (come nelle istituzioni totali) i medici, i superiori gerarchici, i carcerieri. E la riconsegna nelle mani dei singoli protagonisti dei mezzi per modificare direttamente la propria condizione: Lo strumento di controllo maggiore nelle mani dei professori, quello che dà valore a tutti gli altri e la vera base politica del loro potere accademico; è la collaborazione degli studenti — si affermerà nel primo «Documento per le agitazioni» — . Senza collaborazione degli studenti un professore, se non è anche un dirigente d’ azienda (o) un ministro (cosa non poi tanto rara) non è più nulla90,

Nasceva la Commune étudiante 3), Non è un fenomeno nuovo, questo, nella storia dei movimenti di contestazione —

è stato a ragione osservato —. La comunità che si autoisola, che prende le distanze dalla società, che si contrappone infine alla società in quanto all’interno di questa i rapporti sono regolati dal diritto astratto o dall’egoismo mercantile, è una costante che attraversa la storia delle utopie, che si inserisce periodicamente in diverse esperienze religiose, politiche e sociali.

E si è evocata, come qualificante dell’intera esperienza del ’68 assunto nella sua globalità, la distinzione ormai classica, tra Gemeinschaft e Gesellschaft, tra comunità e società: nella prima — aggiunge infatti Bongiovanni — il sentimento di appartenenza è avvertito da ogni membro come immediato e concreto e ognuno ha la sensazione di essere parte di un organismo in cui il tutto e le parti s’identificano. Nella Gesellschaft (società), invece, la coesistenza tra i membri è resa possibile dalla comune accettazione di norme esterne, le quali appaiono necessariamente estranee al singolo?2.

Anche Zbignew Bauman, d’altra parte, uno dei protagonisti del ‘68

polacco, parlerà di «Gemeinschaft studentesca»53, a proposito delle C25

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forme di aggregazione create dal movimento. E tuttavia, questa che si

costituisce dentro il palazzo occupato, al centro simbolico e fisico?4

della città eppure da essa separata da una barriera di trasgressione e di alterità, è una ben strana comunità, identificata dalla pienezza della libertà e dal mito dell’eguaglianza, dalla rottura verticale col passato e dal rifiuto di ogni tradizione. Nel suo tentativo programmatico di inventare, su un territorio «liberato» da ogni residuo dell’ordine prece-

dente, relazioni umane integralmente nuove, emancipate da ogni ruolo stabile e stabilito, sembra collocarsi esattamente agli antipodi rispetto alla Gemeinschaft tònnesiana, e avvicinarsi piuttosto assai di più alla communitas tematizzata da Victor Turner55. A quella dimensione collettiva spesso coincidente con la fase liminare che nello schema triadico del «rito di passaggio», segue la separazione e precede l’incorporazione. E che possiede tutte le caratteristiche della fondazione di un gruppo coeso di iniziati e di un procedimento radicale di conoscenza alternativa attraverso il rovesciamento dei ruoli e delle norme. Quando gli studenti di Palazzo Campana parlano dei «legami di carattere personale molto forti che sono stati la motivazione principale dell’adesione all’occupazione per tutta una serie di persone»; quando affermano che «in una città come Torino, in cui per determinate ragioni sociali c’è un grande isolamento, e una assoluta mancanza di comunicatività, l’occupazione per molta gente è stata una rivelazione», e descrivono il «senso di liberazione per la mancanza assoluta dell’autorità che dava agli studenti un'enorme soddisfazione»59, difendendo gelosamente la propria «separatezza» e differenza rispetto a ciò che «sta fuori», sembrano in effetti alludere a quel «campo misterioso», interno alla «zona di segregazione», in cui appunto, secondo Turner, le normali consuetudini dei rapporti di parentela, dell’ambiente di residenza, delle leggi e dei costumi della tribù vengono accantonati... e dove, mediante lo scioglimento delle connessioni fra elementi abitualmente legati l’uno all’altro in determinate combinazioni..., i novizi sono indotti a riflettere, e a riflettere seriamente, su espe-

rienze culturali che fino ad ora avevano date per scontate9?,

Dove, soprattutto, può nascere una communitas spontanea, descritta qui come un confronto diretto, immediato e totale fra identità ymane differenti, un genere più

profondo che intenso di interazione tra gli individui? [che] ha in sé qualcosa di magico... La sensazione di un infinito potere?9,

O forse la gioia tranquilla che caratterizzò le prime settimane di occupazione, quel senso di intimità, intensità e totalità che coinvolse e

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unì i «ribelli» di Palazzo Campana, trova una più adeguata sintesi nel concetto arendtiano di «felicità pubblica»90, opportunamente richiamato da Peppino Ortoleva nel suo insostituibile Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America 81, e colto, come caratteristica in qualche modo universale del movimento, anche da un osservatore pur critico e

a volte impietoso del ‘68, come Raymond Aron. Il quale aveva, immediatamente dopo il maggio, previsto che gli studenti e gli operai avrebbero conservato un ricordo radioso di questi giorni di sciopero, di festa, di cortei, di discussioni senza fine, d’emozioni, come se la noia della vita quotidiana, il senso di soffocamento prodotto dalla razionalizzazione tecnica o burocratica, esigessero, di tanto in tanto, un

improvviso sfogo... La partecipazione — concludeva Aron —, parola vaga, ma ideaforza, esprime l’aspirazione a una vita comunitaria che la nostra società gerarchizzata e segmentata, giustapposizione di privilegi, non offre che nei brevi istanti dell’illusione lirica®“.

Il risultato sarà il rovesciamento radicale delle tradizionali forme e categorie della politica. E in primo luogo la perdita della dimensione intermedia tra il terreno universale, planetario, dello scontro di valori e

il terreno particolare, locale, della microcomunità di riferimento. La dissoluzione, cioè, della dimensione tradizionale dell’azione politica. Con l’assolutizzazione della propria comunità di appartenenza come ambito «totale» di dispiegamento del rapporto di potere, svaniva infatti la dimensione dello Stato nazionale, che gli studenti di Palazzo Campana ritroveranno solo più tardi, in quella che abbiamo definito la «seconda fase» della loro agitazione, attraverso la mediazione della repressione poliziesca e la ricostruzione «per vie interne» di un reticolo di «solidarietà» trasversali con le altre università in lotta (la cartina

d’Italia comparsa sul giornale degli studenti a fine febbraio, costellata dei nomi delle facoltà occupate e dei conflitti con la polizia, è emblematica in questo senso). E che poi il maggio francese riproporrà drammaticamente. Si cancellava, così, d’un colpo, tutto il patrimonio di elaborazione categoriale, lessicale, tecnica, organizzativa, che aveva accompagnato la dimensione del «politico» per buona parte dell’età moderna (forme di rappresentanza e procedure giuridiche, tecniche di se-

parazione tra pubblico e privato e partiti politici)93. E si «azzerava», per buona parte, la stessa cultura politica delle «avanguardie» del movimento, in una sorta di palingenesi integrale che tutti eguagliava e collocava in una posizione di «nuovo inizio». Ma si guadagnava, nel contempo, attraverso la concentrazione di tutti gli sforzi in un punto solo, in intensità e in efficacia. E in rapidità dei processi di trasformazione

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individuale. Sono questi ora che costituiscono il metro di misura della validità dell’azione politica, la cui efficacia è considerata prioritariamente in termini di trasformazione delle coscienze, del proprio modo di vivere e di pensare, della propria autonomia. Se è vero che la differenza tra il rivoluzionario e il religioso sta nel fatto che il primo opera al fine della trasformazione radicale delle strutture, il secondo delle persone e delle coscienze, non v’è dubbio che il °68 abbia segnato una

brusca commistione tra queste due figure, con un’accentuazione della seconda sulla prima. Non è più né il rafforzamento del partito di appartenenza al fine di accrescerne le chance di conquista del potere, né l’incidenza sulle strutture impersonali delle diverse istituzioni, l’obiettivo perseguito collettivamente dagli studenti, ma la trasformazione di se stessi attraverso un processo di autodeterminazione del proprio agire e della formazione del proprio pensiero. È questa in fondo la tematica che ritorna, incalzantemente, nei documenti di Palazzo Campana, la sede dove forse con maggior intensità questa dimensione fu tematizzata e vissuta: L’obiettivo principale delle lotte — recita un documento interno della primavera, stilato a bilancio della prima fase dell’agitazione — non consisteva nel cambiare qualcosa nell’Università (dopo di che sarebbe venuta meno la necessità di lottare), ma

nell’organizzare gli studenti, nel garantire loro una sede per il dibattito politico, nel metterli in grado di rendersi autonomi ed indipendenti, nell’organizzare la non collaborazione con i docenti, che è l’unico vero modo di combattere contro il ruolo che l’Università svolge nel contesto sociale... perché l’Università è, in un certo modo, il

luogo di lavoro degli studenti, la struttura sociale con cui devono in primo luogo dimostrare di sapersi confrontare e di saper combattere, se vogliono recuperare la capacità di essere persone autonome, capaci di esprimere delle proprie scelte.

Intorno a questa intransigente riaffermazione dell’autonomia dell’individuo e della cultura, come principio centrale, e a questa oscura, inquieta sensazione della necessità di resistere a processi di sradicamento dell’identità, di spersonalizzazione e di omologazione con una lotta per molti versi «estrema», capace di mobilitare le energie collettive a sostegno di un’identità individuale sfidata, ruota un po” tutta l’esperienza della «prima fase». A cominciare dall’elaborazione dei gruppi di lavoro costituiti nel palazzo occupato. La ricchissima, sistematica, spesso assai raffinata produzione di materiali e di analisi sul ruolo sociale delle diverse figure professionali formate dall’università, testimonia dell’acutezza con cui era sentito, in forma più o meno cosciente, spesso tradotto in termini «morali», il problema della trasformazione del ruolo dell’intellettuale, e della dissoluzione dei suoi margini di autonomia nel quadro di una sua crescente connotazione in senso «tecni-

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H26ga Tora co» («La nostra preparazione professionale — è scritto in un altro documento del dicembre — è un capitale sociale che non ci appartiene, perché può soltanto venire utilizzato in un’organizzazione aziendale-burocratica che non siamo politicamente e professionalmente preparati a controllare»)04, Esistono documenti pressoché su tutti i ruoli professionali, da quello dell’operatore del diritto95 a quello dell’ingegnere66, da quello dell’economista e dello scienziato sociale97, a quello dell’architetto98, del geologo99, del naturalista70, naturalmente del medico, oltre, s'intende, al ruolo dell’insegnante, del «trasmettitore del sapere», che attraversa trasversalmente la riflessione di tutti i settori7?!. E in tutti ritorna con insistenza la medesima sensazione di pericolo di fronte alla burocratizzazione e alla spersonalizzazione del lavoro intellettuale. La disperata volontà di resistenza di fronte alla tendenza alla scomposizione della tradizionale figura dell’«intellettuale» complessivo nelle figure parziali e parcellizzate del «tecnico», eterodiretto e acritico, parte della machine burocratico-industriale, integrato nell’«apparato». È significativo, in questa direzione, che la punta di diamante dell’occupazione fossero proprio gli studenti di filosofia, quelli che, a detta degli stessi protagonisti, erano ancora legati a un’idea tradizionale e, per così dire, «arcaica» del lavoro intellettuale, estranea e ostile ai processi di modernizzazione e tecnicizzazione,

sia sul piano dei valori condivisi che su quello del progetto esistenziale: Gli studenti che si iscrivono a filosofia — si legge infatti nella «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino» — sono i più frustrati, quelli che veramente hanno fatto la scelta di non inserirsi, di rifiutare qualsiasi tipo di valore che il neocapitalismo propone, di accettare invece dei vecchi valori del paleocapitalismo, della tradizione culturale feudale, ecc., pur di non diventare delle persone integrate: sia perché non hanno la capacità di diventarlo, sia perché non accettano i valori dell’integrazione”2,

In questo contesto è evidente che i temi destinati a focalizzare maggiormente l’attenzione in questa primissima fase, e a subire le più radicali innovazioni, saranno proprio quelli in cui più strettamente questione dell’organizzazione e questione dei contenuti si saldano intorno al progetto di realizzare in concreto, e rendere permanente, l'autonomia collettiva e individuale, politica e culturale, degli studenti: il problema, cioè, delle forme di rappresentanza — il ruolo, quindi, dell’assemblea in rapporto al nuovo tipo di mobilitazione e di democrazia integrale realizzato nell’occupazione —, e la concezione-strutturazione della didattica. Esaminiamoli separatamente. 229

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Democrazia diretta e nuova identità collettiva

Per quanto riguarda la questione della rappresentanza, essa aveva costituito oggetto di un estenuante dibattito all’interno delle vecchie associazioni studentesche, assumendo la forma, per molti versi tradi-

zionale, dell’alternativa «democrazia diretta/democrazia rappresentativa» o «delegata». E su ciò la spaccatura era stata profonda. Da una parte l’Ugi era andata teorizzando con sempre maggior forza la necessità del trasferimento di tutto il potere decisionale alle assemblee, nel con-

testo del più generale discorso sul «sindacato degli studenti». Le forme assembleari — si affermava in un articolo del 1967 — richiedono al movimento studentesco un atteggiamento «sindacale» contestativo rispetto ai processi decisionali, e si reggono sulla contrapposizione di gruppi non necessariamente stabili raccolti, volta a volta, attorno a mozioni presentate nelle assemblee di facoltà... Gli studenti — si aggiungeva — non sono visti come corpo elettorale indifferenziato che con l’elezione di un parlamentino riproduce il meccanismo della politica a livello nazionale, ma come categoria dagli interessi ben determinabili, inserita in un contesto

di potere’?.

Coerentemente con queste premesse generali, e sottolineando la crucialità della partecipazione attiva e della conoscenza diretta dei problemi in discussione, l’Ugi proponeva un meccanismo elettorale che affidava interamente alle assemblee la nomina di «esecutivi di facoltà». Dall'altra parte l’Intesa, più vicina a un modello di azione politica fondato sul confronto tra opinioni generali e sostanzialmente ricalcate sulle grandi culture politiche nazionali, richiedeva una più ampia legittimazione delle rappresentanze studentesche, garantita dalla formalità e segretezza del voto, proponendo di affiancare al suffragio assembleare forme tradizionali di voto a disposizione di coloro che non volessero o non potessero partecipare alle assemblee. I Goliardi indipendenti, infine, tendevano ad attribuire all’ambito assembleare l’elaborazione dei problemi tecnici e la nomina dei relativi organismi, riservando invece al meccanismo tradizionale di voto l’elezione degli organismi politici (Interfacoltà).

Ora, di tutta questa problematica, che aveva impegnato le organizzazioni studentesche negli anni precedenti, sembra non esservi più traccia nel ’68. In fondo l’ultimo omaggio ai tradizionali principi di democrazia formale come strumento di legittimazione era stato costituito dal referendum del 30 novembre. Ma anche allora si era trattato di un riconoscimento solo apparente, come appare evidente se si analizzano con più attenzione il meccanismo concreto con cui questo era stato in-

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"detto, e le motivazioni che il movimento ne aveva dato. La decisione di giungere a un’elezione a scrutinio segreto mediante l’apertura di un seggio per un periodo di tempo sufficientemente ampio da permettere l’espressione anche ai non partecipanti all'assemblea, era stata raggiunta, infatti, dopo una fase di scontri fisici tra occupanti e studenti di

estrema destra, sulla base di una deliberazione dell’assemblea stessa. Subordinando, cioè, il principio democratico-rappresentativo a quello assembleare, dotato, per così dire, di potere costituente. In assemblea generale si erano confrontate due mozioni. L’una, presentata e illustrata

dallo studente moderato Riccardo Lala, prendeva atto «dei gravi problemi dell’Università italiana e del fatto che il d.d.1. 2314 non risponde compiutamente a tali esigenze», ma riteneva che «le richieste che vengono portate avanti più o meno concordemente da tutti i gruppi studenteschi non siano formulate con sufficiente chiarezza», e proponeva di trattare con le autorità accademiche al fine di ottenere l’abolizione dell’obbligo di frequenza e la possibilità di preparare gli esami su testi liberamente scelti. L'altra, firmata da Viale, Donat-Cattin e Vaudagna,

così recitava: L’assemblea generale degli studenti riconferma la sua adesione all’occupazione di Palazzo Campana sulle indicazioni e le rivendicazioni proposte dalle assemblee delle singole facoltà. Individua nelle assemblee degli studenti, sia generali che di facoltà, una vera espressione di democrazia di base e lo strumento fondamentale di organizzazione del movimento. Riconosce nelle commissioni di studio in cui le assemblee di facoltà si articolano lo strumento fondamentale di contestazione della didattica tradizionale e dell’autoritarismo accademico. Decide comunque che venga data a tutti gli studenti la possibilità di votare pro o contro l’occupazione, anche a quelli che non partecipano alle assemblee, per dimostrare alle autorità accademiche e all’opinione pubblica che anche da parte degli studenti che non partecipano direttamente ad essa non esiste una sostanziale opposizione a questa forma di agitazione.

La formulazione è particolarmente interessante, perché permette di separare nettamente l’ambito dei principi da quello della tattica, riaffermando pienamente, anche in questa circostanza, la sovranità dell’assemblea in qualunque campo e rispetto a qualunque decisione — riconfermando quindi nell’assemblea stessa la fonte esclusiva della propria legittimazione — e ribadendo la propria scelta per la democrazia diretta («democrazia di base») contro la democrazia rappresentativa. L’indizione di una «libera elezione» aperta anche ai non partecipanti, figura così come una concessione tattica dell’organo sovrano, da cui non viene fatta dipendere la legittimità del proprio operare, ma solo la dimostrazione della verità o falsità delle critiche dell’avversario. E alla quale potrebbe forse anche seguire (è però un’illazione, non essendosi ve-

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rificata l’ipotesi), in caso di sconfitta, una soluzione per così dire «bol-

scevica», intesa a far prevalere la giustezza «di principio» dell’avanguardia minoritaria sulla maggioranza inconsapevole. Dopo di allora la «questione elettorale», chiamiamola così, non si era più posta, non solo nei documenti studenteschi, ma nelle prese di posizione delle stesse residue associazioni studentesche. «Il Movimento studentesco — reciterà ad esempio un documento del Direttivo torinese dell’Intesa del dicembre 67 — abbandonando la struttura rappresentativa, si individua nelle assemblee, intese come somma di gruppi di studio

aventi interessi culturali e professionali comuni»?4. Solo gli esponenti del gruppo monarchico Viva Verdi continueranno a contestare la legittimità delle decisioni del movimento, appellandosi all’Interfacoltà. Per il resto l’assemblea diventa, secondo un processo per così dire «naturale», la struttura portante del movimento. Il luogo fisico della costituzione della sua identità. In un certo senso il movimento, nella forma nuova che si è dato, è l'assemblea. Ed è in qualche modo inevitabile che sia

così. Nel momento, infatti, in cui il macrocosmo della politica cessa di vivere in una dimensione separata e tende a identificarsi col microcosmo della comunità studentesca, con l’ambito locale e determinato dell’azione quotidiana, viene meno anche il problema della legittimazione di un’élite separata e selezionata in base alla consonanza di «opi-

nione». La separazione tra rappresentante e rappresentato smette di possedere una sua oggettiva necessità; e l’assenza diviene direttamente au-

toesclusione. L'universo significativo, ora che la politica vive del quotidiano, è quello che concretamente si muove, partecipa, trasforma. Una sorta di nuova polis, ricavata ritagliando dall’universalità indeterminata e sconfinata — impersonale e sconosciuta — del mondo esterno un territorio delimitato e ristretto — concreto e noto — ed elevandolo ad assoluto. A unico ambito significativo di riferimento, governabile, appunto, con l’aureo metodo della «democrazia degli antichi» — la «democrazia diretta» — che non conosce rappresentanza ma solo partecipazione. Parallelamente il ruolo stesso dell’assemblea muta: essa non è più il «luogo» entro il quale si prendono decisioni — si operano «scelte» tra alternative razionalmente motivate —, ma piuttosto lo strumento attraverso cui realizzare la propria trasformazione collettiva. È in un certo senso l’incarnazione vivente dell’unità degli studenti, della loro costituzione in organismo collettivo; unica condizione in cui la soggettività individuale sfidata da un potere sociale opprimente, e da giganteschi

processi di sradicamento e omologazione, può tentare di resistere potenziandosi, confermandosi, e modificandosi attraverso il rapporto con gli altri. Se «il potere delle autorità accademiche e scolastiche è uno 202

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strumento per frantumare, dividere e isolare il corpo studentesco in quanto collettività»75, l'assemblea, specularmente, deve essere il mez-

zo di ricomposizione in unità. Su questo tema insisterà, in modo per certi versi inquietante, Viale nel notissimo saggio «Contro l’Università», pubblicato nella primavera del 1968 sui Quaderni Piacentini. In esso, tra l’altro, si negava che l’assemblea realizzi la propria libertà attraverso la scelta tra alternative («In una società basata sull’oppressione, la libertà non si realizza nell’esercizio della scelta»), indicandone invece la funzione essenziale nell’individuazione di quei percorsi conflittuali che, soli, le permettano di sussistere come organismo collettivo, nella sua organicità e coesione: In una società basata sull’atomizzazione e sull’isolamento dei suoi membri — scriveva Viale — l’assemblea, che ricostruisce il momento collettivo della decisione

politica, non può esistere come organismo di ordinaria amministrazione (in tal caso si sfalderebbe nella somma dei suoi membri), ma solo come strumento di lotta che

cerca di sottrarsi al controllo istituzionale che grava su ciascuno dei suoi membri70.,

Un’affermazione, questa, che è costata al suo autore l’accusa di attualismo”7, ma che in realtà, a mio parere, esprime invece, sintetica-

mente, il modo originale con cui il ‘68 pensò (0, se si preferisce, s’illuse) di coniugare, in forma inedita, la coppia antitetica «individuale/collettivo», nella fiducia che solo attraverso un processo collettivo di liberazione l’individuo può affermarsi integralmente come tale; l’io «danneggiato» e sfidato può ricomporsi nella sua autonomia. Certo, questa fiducia e quest’illusione si inserivano in quel contesto di ambivalenza e di sostanziale equilibrio — di fragile coincidentia oppositorum, si potrebbe dire — tra positività e negatività, tra «bene» e «male», di cui parla ampiamente Luisa Passerini nel suo Autoritratto

di gruppo,

facendone

in qualche modo

un carattere strutturale del

6878. E contenevano in sé tanto i germi della democrazia integrale propria dello statu nascenti quanto quelli dell’autoritarismo plebiscitario e del mito del leader carismatico emersi negli anni successivi. Né il movimento ignorava la difficoltà di costruire un modello organizzativo capace di saldare eguaglianza, crescita individuale e permanenza dell’organismo collettivo — dimensioni e aspirazioni contrastanti — in una prospettiva di lunga durata; al di fuori cioè dell’eccezionalità dei momenti «caldi». Tutta l’intricata e accidentata vicenda degli «organismi

dirigenti»79 nella prima fase dell’occupazione testimonia di questo travaglio e di queste difficoltà: dalla constatazione dei limiti del Comitato di agitazione eletto il 27 novembre, troppo ristretto e incapace di recepire tutte le esigenze dei partecipanti all’occupazione, alla costituzione

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del cosiddetto «comitato allargato», frutto dell’apertura delle riunioni del CdA a tutti coloro che lo desiderassero, la cui eccessiva ampiezza aveva però fatto nascere surrettiziamente una serie di comitati ristretti (il cosiddetto «comitato di prevaricazione» e quello «dei saggi»), chia‘mati a prendere decisioni «riservate», fino alla «crisi» di metà novembre e al trasferimento, come si è visto, di tutto il potere alle commissioni. Il quale, tuttavia, non aveva risolto definitivamente il problema, che sarebbe tornato a riproporsi a ogni nuova svolta dell’agitazione. Quello che però preme qui sottolineare, è come l’«assemblearismo» di Palazzo Campana — la crucialità assunta dallo strumento dell’assemblea come unità esistenziale e politica e come luogo di costituzione materiale del movimento in soggetto permanente — fosse a tutti gli effetti consustanziale ai contenuti specifici e nuovi del movimento stesso; alla sua inedita identità non di «movimento rivendicativo» quanto piuttosto — lo ha ricordato Luigi Bobbio in un recente intervento — di «movimento di contestazione, di critica, di azione diretta», fondato sull’idea che «far

parte del movimento significa agire in prima persona, impegnarsi direttamente per cambiare le cose», e sul principio in base al quale «non viene riconosciuto nessun diritto di parola a chi non è presente, agli

apatici, ai disimpegnati»80, Didattica della liberazione

Non stupisce, sulla base di queste premesse, che l'assemblea abbia costituito anche la struttura portante, il fulcro, del modello di didattica elaborato nel corso dell’occupazione: sia della didattica alternativa praticata direttamente dagli studenti nei «controcorsi», sia di quella proposta nella Carta rivendicativa alle autorità accademiche. Non appena

proclamata l’occupazione, le assemblee di facoltà, come si è visto, si erano suddivise in commissioni e queste in sottogruppi (i controcorsi, appunto), caratterizzati per argomenti. Erano questi, in realtà, il vero cuore dell’università occupata, in questo primo mese di agitazione, rappresentando una felice sintesi tra esigenze organizzative e contenuti strategici del movimento. Strumenti di aggregazione e di decisione politica essi funzionavano, insieme, come ambito di lavoro in cui, attraverso l’elaborazione critica dei contenuti dell’università, il movimento

studentesco si costituiva in istanza permanente di contestazione dei suoi livelli di potere. L’idea guida era quella di un’università che funzionasse secondo criteri esattamente speculari rispetto a quelli «normali». La costruzione di una sorta di «mondo culturale alla rovescia», in

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cui ogni particolare fosse collocato al suo preciso opposto, ogni rapporto fosse mutato di segno: il rapporto tra docenti e discenti, in primo luogo; ma anche, nell’ambito di questi, il rapporto tra primi e ultimi, tra chi già sapeva e chi voleva sapere; e all’interno del sapere il rapporto tra metodo e contenuto, tra didattica e funzione sociale. L'università immaginata nell’utopia di Palazzo Campana avrebbe dovuto avere al centro, come referente principale, non più il potere, le competenze e la carriera del corpo docente, ma gli interessi e le istanze degli studenti. Avrebbe dovuto essere ridisegnata interamente sulle esigenze dei suoi utenti: L'impostazione della nostra attività didattica — recitava un documento interno dedicato al funzionamento dei controcorsi — minaccia il potere dei docenti perché implica che il fulcro dell’attività didattica diventi l’assemblea di facoltà degli studenti, permanente, riconvocata, e non la carriera del docente.

Ma «partire dagli studenti», fare dei loro interessi il fulcro della nuova Universitas studiorum, significava «partire dai problemi». Porre al centro di ogni attività culturale i problemi che collettivamente gli studenti vivevano e si ponevano:

la struttura, sommersa ma indubbia-

mente consolidata, di una «sfera pubblica» inedita e antagonistica. E i controcorsi aderivano perfettamente a una tale esigenza e a quella «struttura», ne rivelavano il reticolo tematico e la carica culturalmente

eversiva. Forma adeguata alle esigenze di «costruzione» di un’alternativa culturale e organizzativa credibile, essi erano in grado di esprimere, con la stessa efficacia, le istanze conflittuali del corpo studentesco

finalmente «unificato». Di produrre e gestire la dimensione dello scontro con l’«altro»; il momento della «scissione» rispetto alla struttura di potere dell’università, che pur continuava a esistere intorno agli studenti, e a costituirne il principale polo di attenzione e di attrazione. Se la vera innovazione, sul piano dell’analisi, è la constatazione che «l’Università funzioni come strumento di manipolazione ideologica e politica teso ad instillare [negli studenti] uno spirito di subordinazione rispetto al potere (qualsiasi esso sia) ed a cancellare nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano completamente competitivi»8!, allora il mezzo principale, per rompere una tale «macchina istituzionale» per vanificare un tale disegno, non poteva che consistere nell’auto-organizzazione. Nell’autonoma gestione della propria educazione: «Autoeducarci alla libera discussione, sottrarci alla soggezione culturale nei confronti dei docenti ed imparare ad autogestire il nostro movimento e la nostra agitazione

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con la partecipazione di tutti e senza delegare i problemi di direzione, sia politica che di elaborazione, ad un gruppo ristretto più o meno burocratico»82: questo diventava il compito teorico e pratico dei controcorsi. La didattica, da strumento tradizionale di oppressione degli studenti da parte dei docenti diventava, per questa via, il mezzo della loro liberazione. Grazie a questo equilibrio tra soluzione organizzativa e contenuto, tra politica e sapere, essi riscossero un successo insperato, fino a polarizzare e monopolizzare l’intera attività nell’ateneo occupato: Dal momento in cui le commissioni hanno incominciato più o meno a funzionare — constatarono a caldo alcuni dei promotori più attivi dell’occupazione — hanno preso talmente le persone che si sono dimenticate del resto. Il resto era soprattutto il fatto che i docenti avevano ripreso a far lezione fuori, e bisognava fare un certo lavoro di propaganda nei confronti degli studenti che continuavano ad andare a lezione: si è tentato di farlo i primi giorni, poi non si è più avuta la forza, perché la gente veniva soltanto per le commissioni e non partecipava più alle altre attività dell’agitazione.

Ma posero anche problemi imprevisti di gestione e di organizzazione. Rifondare l’università sulle esigenze degli studenti, strutturarla intorno a «problemi», significava anche rovesciare radicalmente il modo

di affrontare i problemi, di produrre e trasmettere sapere. Soprattutto, inventare un’università antiautoritaria — o perlomeno non autoritaria — implicava organizzare un approccio allo studio radicalmente egualitario, fondato sulla discussione paritaria come metodo esclusivo. Generalmente era condiviso il principio secondo cui le esigenze fondamentali erano quelle di coloro che i problemi se li ponevano e non quelle di chi i problemi li sapeva risolvere, [cosicché] il criterio direttivo della organizzazione del gruppo di studio doveva essere quello che valevano le persone più ignoranti nel gruppo stesso®?,

Allo stesso modo, identificando nella dimensione

individualistica

una delle caratteristiche strutturali della didattica tradizionale, si ricercava, nella maggior parte dei controcorsi, una forma collettiva di acquisizione culturale. Il che implicava un ripiegamento preliminare sulle procedure, sul «metodo» («Lo scopo prioritario delle commissioni non era quello di imparare subito delle cose, ma di imparare a impostare un lavoro e una comunicazione di gruppo»84), il quale doveva essere interamente ripensato a partire dalla specificità dei problemi posti in discussione e dalle esigenze di un apprendimento collettivo ed egualitario. L'attività si strutturava generalmente nella discussione preliminare sulla metodologia didattica di ciascun gruppo, la quale doveva costitui236

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re la saldatura, cruciale nel discorso «riformatore» del movimento, tra

ricerca e insegnamento. Successivamente venivano raccolte bibliografie, distribuite a tutti imembri del gruppo tramite ciclostile, e si procedeva a letture comuni. Le cose non capite — annota un documento interno — vengono spiegate. Si procede lentamente. Mancano i competenti: solo 25 assistenti hanno aderito ai lavori... Vogliamo che i docenti vengano a discutere i nostri metodi didattici. Vorremmo che venissero ad aiutarci con la loro preparazione scientifica.

Ogni relazione individuale o collettiva veniva ciclostilata e distribuita all’interno del gruppo di pari. Contemporaneamente si procedeva a relazioni quotidiane sull’attività dei gruppi in assemblee più ampie. In alcuni gruppi — in particolare in quello, decisamente attivo, su «Scuola e società» dal quale erano stati prodotti alcuni dei documenti più importanti — erano state votate mozioni che vietavano l’uso dei libri. In altri casi questi «venivano digeriti, “rifatti” in schede bibliografiche, frutto non solo della lettura, ma anche della discussione colletti-

va, poi venivano ciclostilati, cioè “stampati”, e distribuiti»85. Oppure si avevano letture collettive all’interno di gruppi organizzati secondo procedure estremamente democratiche — vera e propria applicazione del modello greco dell’«isonomia» —, le quali prevedevano una rigorosa rotazione dei «direttori» della discussione o addirittura l’abolizione di questi, e l’uso di «esperti», utilizzati per le competenze specifiche che potevano portare ma trattati su un piede di assoluta parità. Non esisteva un modello uniforme di controcorso. E certamente, anche per quanto riguarda questa esperienza, dovette manifestarsi quel dualismo tra impostazione moderata (o riformatrice), e impostazione radicale (0 «rivoluzionaria», ma il termine non soddisfa) — tra componenti che privilegiavano tendenzialmente il momento della trattativa e dell’acquisizione di elementi di riforma e componenti che privilegiavano all’inverso il momento della lotta e la liberazione di energie che questa determinava —, che attraverserà tutta l’esperienza torinese, senza tuttavia determina-

re, in questa prima fase, contrapposizioni aperte o scissioni, ma costituendo, piuttosto, un elemento di forza del movimento. Se infatti vi furono controcorsi che applicarono globalmente questo modello di controcultura, attenti più al momento della «critica» radicale alle strutture dell’università e alla produzione di coscienza antagonistica che non ai risultati per così dire «scientifici» del proprio lavoro (la commissione su «Psicoanalisi e repressione» è emblematica in questa direzione), non mancarono gruppi di lavoro che scelsero forme tutto sommato tradizionali, come quello di Giurisprudenza, più ancorato a una dimensione 237

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«tecnica» dei problemi toccati e per questo assai criticato. Ciò non toglie, comunque,

che l’occupazione abbia mantenuto, in questa fase,

una dimensione sostanzialmente unitaria. E che si possano individuare alcuni criteri didattici comuni all’intera esperienza, i quali mi sembra possano essere sintetizzati in poche parole chiave: partire dal concreto per giungere al generale, cioè partire dai problemi per giungere agli strumenti scientifici adeguati; cultura critica e pratica della discussione come fondamento di ogni operazione didattica; finalizzazione del sapere alla formazione di una personalità autonoma e critica e non di uno strumento funzionale all’uso produttivo; unità, quindi, della dimensione professionale e di quella culturale, e superamento del carattere separato dei saperi speciali attraverso l’interdisciplinarità; priorità dei fini sociali ed etici del sapere su quelli utilitaristicamente individuali, e quindi primato della politica nell’individuare gli oggetti di studio. Il che comportava uno scardinamento radicale di tutta l’organizzazione della didattica tradizionale, strutturata per corsi indipendenti e separati: L’unitarietà della preparazione professionale e culturale — recita ancora il documento del 5 dicembre ’67, che anticipa contenuti elaborati più sistematicamente oltre — non può venir garantita da un’organizzazione per corsi paralleli, ma solo dalla convergenza tra le diverse competenze scientifiche coagulate intorno ad un problema. Solo così può venir garantita un’autentica interdisciplinarità e una democraticità dell’apprendimento. La formazione dello studente deve tornare ad essere il centro attorno al quale si organizzano le strutture didattiche dell’Università.

Sullo sfondo, sembra di intravvedere, in qualche modo, una certa nostalgia per la figura, per alcuni aspetti «sacrale», dell’intellettuale umanistico ottocentesco, padrone di un sapere integrale e autonomo (l’intellettuale centrale nel modello huboldtiano di università, per usare

un'espressione usata da Valitutti), indubbiamente dissolto, nella sua dimensione individuale, dai processi di massificazione e di socializzazione della produzione, ma riproducibile, forse, attraverso un disperato processo collettivo di resistenza e trasformazione; attraverso la leva della politica, intesa come sfera del conflitto e del primato degli ambiti problematici collettivi. Gli studenti che hanno occupato Palazzo Campana — si legge, con felice sintesi, nel documento «Didattica e repressione» — hanno voluto riaffermare e cominciare a costruire la propria autonomia culturale e politica. Scegliere i contenuti dei controcorsi, imparare a discutere (la scuola e

l’Università ci hanno fatto disimparare a discutere), studiare collettivamente e non in

modo individuale, vedere l’incidenza politica e sociale di quello che si studia, impa-

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rare a parlare e pensare autonomamente e non su comando, imparare a stabilire dei rapporti egualitari e di parità tra chi è preparato e chi non lo è, non considerare più il sapere come un privilegio e una fonte di prestigio... queste sono le direttive e i presupposti della nuova didattica che attraverso l’occupazione vogliamo imporre alle autorità accademiche86,

A questi stessi criteri si ispirava la Carta rivendicativa, con un’evidente prevalenza delle posizioni radicali nella premessa, contenente le affermazioni di principio, e di quelle riformatrici nel resto del testo, contenente le vere e proprie richieste. Nella prima, infatti, si affermava l’esigenza che l’università possa fornire «a chi la frequenta, al tempo stesso una formazione professionale adeguata [istanza riformatrice e modernizzante] e degli strumenti di critica rispetto al ruolo professionale [istanza radicale]»; si definiva la struttura dipartimentale «una condizione necessaria e non sufficiente rispetto allo scopo» affermando la necessità di «andare al di là, e trasformare non solo la struttura del piano di studi, ma la scelta degli argomenti specifici di studio al suo interno e i metodi di studio», in funzione di una preparazione che non risponda «solo allo scopo dell’efficienza professionale, ma a quello di un'analisi critica della professione nel suo contesto sociale» (elemento che era stato alla radice dell’esperienza dei controcorsi). Soprattutto si proclamava l’autonomia organizzativa e politica del movimento studentesco come componente permanente e antagonistica dell’università; il principio effettivamente sovversivo, che faceva dipendere dal permanere della forza materiale del movimento anziché dal contenuto di qualsiasi trattativa e «patto», la capacità di affermare i propri contenuti e di conservare il proprio ruolo all’interno dell’apparato accademico: poiché «la struttura formale, che verrà delineata più specificamente nella Carta rivendicativa, non garantisce di per sé il conseguimento degli scopi che abbiamo enunciati»87, si affermava infatti, «è necessa-

ria l’organizzazione del movimento studentesco su basi autonome»; è necessario cioè «che il suo potere non dipenda unicamente dal ruolo che gli è riconosciuto da tale struttura formale». Nella parte generale, poi, si ipotizzava un’articolazione dell’università ricalcata sull’esperienza «didattica» posta in essere nel mese di occupazione, incentrata cioè sulle assemblee, sulle loro articolazioni in base a «comuni interessi culturali e professionali, indipendentemente dalla facoltà a cui gli studenti sono iscritti» e sui «gruppi di studio», definiti come «la sede più idonea per soddisfare anche le fondamentali esigenze di una preparazione istituzionale, secondo un metodo di studio attivo e critico». Il voto, si aggiungeva, avrebbe dovuto essere determinato in base all’effettiva partecipazione al lavoro di gruppo, e «assegnato dopo una di-

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scussione cui partecipino tutti imembri [del gruppo stesso], compresi

gli esaminati, e tutti gli esperti»88. Alla vigilia di Natale (18 dicembre) l’elaborazione della parte generale della Carta rivendicativa era completata, e si sarebbe dovuto iniziare il tentativo di precisazione degli specifici punti relativi alle singole facoltà. Il confronto diretto con il corpo accademico sembrava imminente.

La svolta di Natale: dalla «rivolta» alla «guerriglia culturale» Il 27 novembre, alle 20,30, la polizia interviene in forze sgombran-

do Palazzo Campana e chiudendo i locali («C’è ancora un picchetto — commenterà maligna La Stampa — ma di carabinieri»). Il 29 un piccolo gruppo di studenti rioccupa, con un espediente, l’università presidiata dalla polizia, ma viene sgombrato dopo appena tre ore. Interpellato circa l’opportunità di ricevere i rappresentanti degli studenti, il rettore Allara risponde: «Io non so chi siano questi agitatori. Non ci è stata presentata nessuna richiesta, hanno occupato l’università e non si sapeva che cosa volessero. Posso accettare di incontrarmi soltanto con i legittimi rappresentanti degli studenti: quelli dell’Interfacoltà»8?. Il 4 gennaio 1968 è annunciato che il Senato accademico ha deciso duri provvedimenti disciplinari e la denuncia degli occupanti per «invasione di edificio» e «turbativa violenta del possesso di cose immobili». E la svolta. Non si può dire che essa rappresenti un vero e proprio «passaggio di fase», perché ancora per tutti i mesi di gennaio e febbraio l’università rimarrà l’ambito esclusivo di riferimento del movimento, e il potere accademico (di cui polizia e La Stampa sono considerate appendici non autonome) praticamente l’unica controparte individuata dagli studenti. Ma segna indubbiamente un cambio di ritmo, all’interno della «prima fase». Annuncia l’irruzione di una serie incalzante di avvenimenti su uno scenario fino ad allora «statico». Se nel primo mese di occupazione, infatti, il movimento aveva potuto crescere su se stesso per così dire «per linee interne», attraverso un processo massiccio ma invisibile all’esterno — lo dimostra la cronaca «rarefatta» e relativamente scarna sui giornali — senza praticamente mai incontrare la propria controparte antagonistica, ora la comparsa sulla scena del «nemico», la discesa in campo dell’autorità accademica col proprio seguito di repressione e di sanzioni, pone bruscamente in movimento il quadro. Produce, nella logica della «botta e risposta», un affollamento di «fatti» e «notizie». È in realtà solo a questo punto— in questo cheè

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stato a ragione definito come il passaggio dalla «rivolta» alla «guerri-

‘glia culturale»? — che si innesta quel meccanismo tipico del "68, che sembra presentarsi come invariante a Berkeley come alla Sorbona, a Varsavia come a Berlino, e che Vidal-Naquet ha così schematizzato: all’inizio «una gaffe dell’amministrazione universitaria o statale, talvolta spontanea, talvolta deliberatamente provocata dal movimento studentesco desideroso di disvelare pienamente il carattere implicitamente repressivo dell’autorità accademica», seguita da forme di mobilitazione «improntate sia alla tradizione del movimento rivoluzionario del XIX . secolo, sia a differenti forme di azione non violenta»; tutte, comunque,

caratterizzate dalla comune volontà di «trovare forme di organizzazione che permettano allo stesso tempo di agire e di lasciare la parola, il free speech, esprimersi totalmente», e da «un’atmosfera di festa e di gioia» intrecciata all’angoscia e talvolta alla disperazione; infine una nuova, più dura repressione, che incattivisce la lotta e la spinge ad allargarsi al

di fuori della scuola, all’intera società?!, Che la decisione repressiva del Senato accademico avesse tutti i caratteri della gaffe, è difficile da negare. Se si escludono i commenti, inevitabilmente favorevoli, della Stampa, le reazioni generali delle forze politiche e degli organi d’informazione sono generalmente improntati a critica o a cauti inviti alla prudenza e alla mediazione. Viene giudicata eccessivamente severa, e per molti versi arbitraria, la sospensione di 60 studenti per sei mesi dagli esami; illegittime appaiono la decisione (di cui circola voce non confermata) di sospendere dallo stipen-

dio un assistente di ruolo e la cacciata dall’università di un assistente volontario. Si teme la radicalizzazione degli studenti, e la chiusura delle possibilità di dialogo e di trattativa. Isolato all’esterno, il Senato accademico incappa anche in un clamoroso incidente che ne rivela la spaccatura interna. L’annunciata unanimità della decisione del 4 gennaio viene infatti smentita duramente dal preside di Magistero, professor Guido Quazza, con una lettera di dissociazione alla stampa, in cui si afferma che l’unanimità [del Senato accademico] è stata esclusivamente unanimità dei presenti [dal momento che] il sottoscritto, membro del Senato accademico in quanto preside di Magistero, non era presente alla seduta, per la quale non aveva ricevuto comunicazione di convocazione, [aggiungendo che] in ogni modo, se fosse stato presente, non avrebbe derogato dall’atteggiamento assunto fin dalla seduta del 27 novembre 1967, tenuta immediatamente dopo l’inizio della prima occupazione (e confermato nelle successive sedute fino al 23 dicembre anche per espresso incarico del Consiglio di facoltà di Magistero unanime), atteggiamento inteso a rivolgere agli studenti occupanti un invito formale a presentare le loro richieste, escludendo qualsiasi ricorso a soluzioni di forza, e pertanto non avrebbe potuto votare in favore delle sanzioni di-

sciplinari92,

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Per parte loro gli studenti moltiplicano le iniziative di mobilitazione. Si svolgono riunioni in tutte le principali città del Piemonte93, per prendere contatto con gli studenti «fuori sede» e coinvolgerli nell’agitazione. Vengono distribuiti volantini davanti alle scuole medie. «Gli studenti di Palazzo Campana non colpiti dai provvedimenti disciplinari reagiscono [si ricalca, senza saperlo, uno schema già usato a Berkeley] consegnando i tesserini e chiedendo di essere giudicati anch'essi, pari-

tariamente, come responsabili»94. Per il 10 gennaio è convocata un’as-

semblea: si presentano oltre 1.000 studenti, che votano a grande maggioranza per l’occupazione a oltranza. Immediato l’intervento della polizia, a cui in 295 si oppongono con la resistenza passiva . Ma è soprattutto la decisione del «blocco delle lezioni» quella che determina

il carattere nuovo,

più radicale, dinamico

e massificato,

dell’agitazione dopo la svolta di fine dicembre. Che introduce il secondo elemento «strutturale» indicato da Vidal-Naquet. Con l’inizio del confronto verbale diretto, nelle aule di Palazzo Campana gli studenti incontrano per la prima volta il «nemico». Cercano e trovano il confronto; soprattutto, lo vincono, nella maggior parte dei casi, sul piano dialettico. Scoprono vuoti e debolezze, dietro la facciata austera del potere accademico. E ne traggono conferma delle proprie ragioni. Nata quasi per caso, come ripiego di fronte all’impossibilità di ritentare immediatamente l’occupazione, e come mezzo per realizzare il coinvolgimento di quegli strati studenteschi che non avevano partecipato attivamente all’agitazione, la nuova forma di intervento — l’«occupazione bianca», come fu subito battezzata — si rivela ben presto uno strumento di mobilitazione culturale e politica di grande efficacia. Gli studenti entrano nelle aule, provocano i docenti al contraddittorio, invitano alla discussione, altrimenti sabotano con ogni mezzo espressivo la lezione. Fin dai primi interventi, viene richiesta la presenza della ‘ polizia nelle aule — fatto inaudito —, ed il clima si fa rovente, si moltiplicano gli episodi di conflitto, a volte grotteschi, altre decisamente ridicoli?5. Le aule si trasformano in palcoscenici. Nasce lo spettacolo, l'espressività libera e trasgressiva, per certi versi goliardica, spesso impietosa. A poco a poco, la dimensione di festa s’insinua e occupa lo scenario. E cominciata così una seconda fase della lotta contro l’autoritarismo accademico — ricordano alcuni protagonisti —. Invece di analizzare il potere manipolatorio delle autorità accademiche sugli studenti in astratto, si è passati direttamente alla prassi cercando di liberarsi completamente dalla soggezione rispetto alle autorità accademiche. Si è entrati nelle aule, si è reagito di fronte ai professori, si è rifiutato di mostrar loro i tesserini, contestando anche politicamente il loro operato e la loro mancanza di

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nere

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posizioni, e così via. I professori si sono dimostrati delle persone talmente squalificate sul piano politico e culturale, assolutamente incapaci come erano di dare delle risposte, che l’azione si è trasformata in una specie di farsa, tanto che la tensione politica si è un po’ allentata, e l'occupazione è diventata una festa99. E ancora: L'elemento principale di quei giorni era lo spettacolo. Si potrebbe citare un mucchio di esempi e di reazioni: dalla frase di Passerin d’Entrèves «La lezione è un fatto naturale, come l’ostrica produce la perla il professore fa lezioni», ai soliti rimproveri di essere nazisti, ecc. (varianti: «io sono stato a Dachau», «ho fatto il partigiano», «ho

pagato di persona», «non cedo», o «cedo alla violenza»...). Oppure il «professore democratico» che tenta di rifarsi una verginità dicendo agli allievi: «ma voi non sapete cosa Allara pensa di me!»; risposta degli studenti: «noi sappiamo che cosa noi pensiamo di lei». E ancora: «io sono un pubblico ufficiale e devo far lezione»; «se mi togliete la ricerca io sparo»; fino alla gran battuta finale del rettore Allara: «il controspionaggio mi aveva avvertito, degli agenti russi si sono infiltrati tra voi»97,

Un divario incolmabile d’intensità nell’impegno — una distanza abissale fin anche nel lessico — rende impossibile ogni dialogo; cancella la pur minima possibilità di comprensione delle ragioni reciproche. Agli studenti radicalizzati su un modello e un’idea d’impegno totale e immediato — impegno sociale, pubblico, etico, in cui finivano di confluire tutte le grandi questioni aperte su scala planetaria, dal Vietnam all’ America latina alla questione atomica al razzismo — la pacata quotidianità del discorso di alcuni docenti, limitato al quieto mondo della ricerca e degli studi, appare scandalosa. Alla maggior parte dei docenti, quegli studenti — insubordinati e incontrollabili - non appaiono più riconoscibili. Mancano le parole stesse per un dialogo. Nel piccolo teatro accademico, i ruoli ormai sono scritti, e non possono essere più modificati da alcuno. È il momento forse più difficile di tutta l’agitazione nel rapporto tra studenti e docenti; quello che mette a dura prova anche i più disponibili e «aperti». E che crea fratture incomponibili. Quello in cui gli studenti si sono spinti più lontano dal loro linguaggio e dalla loro cultura politica d’origine — linguaggio e cultura tutto sommato ancora interni alla tradizione radical-democratica e antifascista —, attingen-

do a uno strumentario espressivo in cui si intrecciavano caoticamente goliardia, situazionismo, ritualità popolar-carnevalesca- e dimensione demenzial-cabarettistica della nascente cultura di massa radiotelevisiva. È anche un momento di relativo scollamento — per certi versi di incomprensione — tra direzione politica dell’agitazione e base studentesca. Lo stesso Comitato d’agitazione sembra guardare con inquietudine quello scatenamento che non ha provocato (sono numerose le testimonianze circa l’inizio «spontaneo» della nuova forma di agitazione), e

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gente da recuperare, almeno fino a che non fossero finiti gli esami e fino a che le facoltà scientifiche non avessero ripreso le loro attività»99. L’agitazione tuttavia andò ancora avanti in quella forma per l’intera settimana successiva, in un crescendo impetuoso di mobilitazione: dall’arresto di Luigi Bobbio e di Marinucci, il 16 gennaio, avvenuto in

un’università tenuta sotto stretto controllo polizesco!0%, all'assemblea di massa del 17, al corteo del 18, sfociato in due grandi assemblee a Palazzo Campana, le quali proclamarono la sospensione della «guerriglia culturale» ottenendo in cambio la sospensione dell’attività didattica e una disponibilità concreta al confronto. Ed è assai probabile che il successo ottenuto dal movimento nel confronto diretto col corpo accademico del 20 gennaio, sia in termini di partecipazione che di consenso politico, sarebbe nelle sue dimensioni e modalità inspiegabile senza quelle due settimane di «guerriglia culturale». Il grande dibattito tra autorità accademiche e movimento studentesco, tenuto all’interno di Palazzo Campana di fronte a oltre 2.000 studenti assiepati nell’aula magna e nei corridoi, rappresenta per molti aspetti il punto più alto di tutta l'agitazione. La partecipazione estesissima, senza precedenti, dimostra che dopo quasi due mesi di occupazione e di scontri, il movimento studentesco non solo ha saputo salvaguardare la propria unità, ma è cresciuto coinvolgendo parte degli studenti spoliticizzati e soprattutto le matricole. Il modo spregiudicato, talvolta sprezzante, sempre sicuro, con cui gli esponenti del movimento gestiscono l'assemblea, sgombrando il terreno da ogni illusione d’un possibile compromesso, eliminando ogni residuo di ambiguità, attesta, per altro verso, di una durezza nuova, acquisita nel recente «corpo a corpo» dialettico. Alle deboli argomentazioni malamente recitate dal rettore, arruffato e inconcludente, fa riscontro la fredda esposizione di Guido Viale, portatore della posizione ufficiale degli studenti, esplicita, indisponente, attenta a escludere ogni tono che possa sembrare anche lontanamente accondiscendente, tutta incentrata sulla salvaguardia del livello di forza accumulata: «Arriveremo a una trattativa, arriveremo, forse, a un compromesso — dice —, ma deve restare ben chiaro che quello che noi vogliamo è il potere». Dichiara l’indisponibilità del movimento a smontare l'agitazione e disperdere le forze. «Possiamo accettare di arrivare a trattative — aggiunge — soltanto se oltre a rinunciare al

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ricatto dei provvedimenti disciplinari si riconosce la necessità da parte nostra di organizzarci all’interno dell’Università, di lottare e di impedire il funzionamento “normale” dell’Università, perché non possiamo ritenere normale il funzionamento che l’Università ha assunto in questi

anni»!0!, Conclude ponendo come condizioni per l’inizio delle trattative la revoca immediata dei provvedimenti disciplinari, il riconoscimento della rappresentatività dell’assemblea e la sospensione dell’attività didattica per tutto il periodo delle trattative stesse. L'intervento del preside di Magistero — «Sono lieto di trattare finalmente non con un’ombra come l’Interfacoltà, ma con l’autentico Movimento studentesco» — sanzionerà la liquidazione definitiva della linea sin lì seguita dalle autorità accademiche; il fallimento di una politica di cieca contrapposizione e di radicale incomprensione del carattere nuovo dell’azione studentesca dentro un’università mutata. Il potere accademico si rivela all’intera platea — per usare un termine allora diffuso — una «tigre di carta». Paradossalmente, tuttavia, proprio nel momento in cui vede dissol-

versi politicamente l’autorità che aveva fin allora contrastato e coglie la sua prima sostanziale vittoria politica, il movimento, anziché raffor-

zarsi, inizia la propria parabola discendente, in qualche modo ingoiato dal vuoto di potere che si trova di fronte. Disorientato dal vacillare della struttura che, sia pur come referente negativo, l’aveva in qualche modo aggregato e motivato, finisce per smarrirsi. La decisione di occupare due giorni dopo, il 22 gennaio — assunta sull’onda dell’entusiasmo per il successo del 20 e in risposta al rifiuto opposto dal rettore alla delegazione inviata per negoziare l’inizio della trattativa —, si rivela un errore. Allo sgombero immediato segue la chiusura di Palazzo Campana a tempo indeterminato. Privo del proprio luogo naturale di aggregazione, il movimento torna «negli scantinati della Camera del lavoro», messi a disposizione degli studenti per le loro riunioni. E rivela per intero fragilità e contraddizioni che la fase montante della mobilitazione precedente avevano mascherato. Interamente perduti il discorso politico-contenutistico e la funzione organizzativa dei controcorsi, la partecipazione si allenta mentre emergono crepe e difficoltà nel rapporto tra «base» e «vertice», con «alcuni pochi che parlano e la “massa” che ascolta»!02, Né le cose migliorano quando, dopo 22 giorni di serrata e un estenuante stillicidio di promesse e trattative, Palazzo Campana viene riaperto per permettere lo svolgimento della sessione d’esami invernale. L'intervento di controllo sugli esami, su cui il movimento aveva puntato per ricostituire un saldo rapporto di massa, si rivela tutto sommato sterile. La stessa presenza critica alle poche lezioni che — in violazione dell’accordo raggiunto

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col Senato accademico — si svolgono, soprattutto nella facoltà di Lettere, non riproduce più il clima effervescente di prima, e finisce per risolversi in spiacevoli battibecchi. In fondo, la distruzione dell’immagi-

ne «sacrale» del sapere accademico e dei suoi «sacerdoti» — che bene o male ogni studente si era portato dietro —, consumata in quella settimana selvaggia di «occupazione bianca», e poi nel gran rito finale del «processo al corpo accademico» del 20, finisce per rivelarsi un boomerang. Per degradare il luogo stesso dell’azione, e la trasgressione che vi si celebrava, a banalità quotidiana, eliminando quell’«aura» che bene o male aveva comunque caratterizzato la fase precedente. L'università si rivela ora un guscio vuoto, e per molti versi inerte. Tradotto in termini

politici, è lo stesso concetto che si ritrova in un documento successivo — non datato, ma probabilmente del giugno 1968 — in cui si propone una lucida analisi retrospettiva: Il Movimento studentesco ha individuato come primo obiettivo da battere il potere accademico, e questa battaglia si può considerare conclusa e vinta il 20 gennaio, col processo politico ai professori, quando il corpo accademico si è rivelato di fronte a 2.000 studenti, privo di una propria linea politica e di una capacità di iniziativa. Un errore — si aggiunge — il Movimento studentesco l’ha compiuto continuando ad accanirsi, dopo il 20 gennaio, contro un potere accademico ormai esautorato, senza sapere generalizzare e radicalizzare la propria azione contro le forze politiche che ormai costituivano la sua effettiva controparte. ..!

L’uscita dall’università. Era questa una delle alternative che si ponevano al movimento. In particolare a un movimento — come fu quello di Palazzo Campana e in buona parte come fu il °68 — che s’immaginava votato a una crescita indefinita fondata sulla moltiplicazione lineare dei punti di rottura. Che affidava la propria identità alla continuità dell’azione istantanea, all’«interminabilità della rivolta»!04, Per una concezione secondo cui «l’unico obiettivo del movimento è la crescita del movimento stesso»; per un gruppo dirigente convinto che «il movimento studentesco de[bba] accettare questa sua posizione, per quanto contraddittoria e proiettata nel vuoto» per la sua stessa logica interna, «perché in questa direzione lo spinge la maturazione della sua base; ed è quindi artificiosa la sua “autolimitazione” e il suo non buttarsi in

avanti»!05 — così si autodefinirà, con notevole lucidità la «sinistra del movimento» —, la lotta all’interno dell’università non aveva effettivamente più nulla da offrire. Incominciava ad apparire come una palude infida, in cui il rischio dell’«integrazione» e del sindacalismo studentesco spicciolo avrebbe finito per prevalere, stravolgendo totalmente la natura del movimento. E soprattutto abbandonandolo, col rallentare della lotta — coll’attenuarsi dell’unico strumento riconosciuto di difesa

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e di aggregazione:il conflitto — all’inevitabile ritorno dell’autoritarismo e dell’oppressione. L’altra alternativa avrebbe potuto consistere nella costruzione di un contropotere «istituzionale» all’interno dell’università. Nell’affermazione della permanenza del movimento nell’unica altra forma possibile rispetto a quella della lotta continua: la sua pur parziale «istituzionalizzazione» mediante la formalizzazione di alcune conquiste. Era, questa, la posizione di quella componente che si potrebbe definire di «centro minoritario», e che puntava tutte le proprie carte sulla possibilità di trovare sbocchi concreti alla trattativa. Un documento diffuso proprio

all’inizio di febbraio 1968106 — quando con più evidenza emerse la divaricazione d’ipotesi e di prospettive tra la componente radicale e quella riformatrice — ben ne sintetizza la linea: Si può a questo punto — affermavano i firmatari, indicando l’alternativa maggioritaria da essi rifiutata — generalizzare la tematica dell’agitazione, superando gli obiettivi di prefigurazione e attuazione di strutture didattiche alternative a quelle esistenti, e far compiere al movimento una fuga in avanti, impegnandolo su temi che, prescindendo dalla situazione universitaria, non tengono conto delle effettive possibilità di contestazione del movimento stesso. E questa la via che assumono coloro che attribuiscono al MS un ruolo di avanguardia di organizzazione della contestazione al sistema sociale esistente in forme protestatarie... Noi riteniamo invece — aggiungeva, precisando la propria alternativa — che il MS debba, approfondendo l’analisi del suo ruolo di contestazione delle strutture accademiche, ribadire anche la sua

volontà di operare come componente politica dell’Università e pertanto non solo accettare, ma anzi autorevolmente richiedere, a ben precise condizioni, la contrattazio-

ne con le autorità accademiche, proprio per reperire nell’ Università quello spazio di organizzazione e di critica che attualmente gli viene negato. Nel momento in cui il MS - proseguiva ancora il documento — ottiene il conseguimento di certi risultati, anche parziali, non perciò esso rischia di esaurire la propria carica contestativa. Organizzandosi in forma autonoma all’interno delle stesse strutture didattiche che è riuscito a creare, il MS dà vita a organismi di controllo, quali le assemblee dipartimentali o di indirizzo (v. Carta rivendicativa) capaci di trasformarsi in ogni momento in strumenti politici di mobilitazione in vista del superamento dei risultati stessi conseguiti, ogniqualvolta essi debbano essere ritenuti inadeguati.

In altre parole, si «prendeva sul serio» la Carta rivendicativa, rifiu-

tando di farne un uso solamente agitatorio e di utilizzarla in mera funzione tattica (per offrire materia al conflitto). E si proponeva di fare della sua applicazione il terreno di consolidamento del movimento all’interno dell’università. Precisate, concettualmente, le due alternative non si confrontarono

però mai, con chiarezza, in un dibattito approfondito all’interno movimento. Si espressero piuttosto nella spesso sterile, e comunque lusiva, contrapposizione sulle «condizioni» poste alla trattativa, con esponenti della prima posizione impegnati ad «alzare il prezzo»

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chiesta di trattative integralmente pubbliche, di sospensione dell’attività didattica nel corso della trattativa, dichiarazioni preventive tese a

deresponsabilizzare il movimento rispetto ai patti eventualmente siglati, ecc.), e con quelli della seconda attestati su posizioni «possibiliste». Cosicché la risposta del Senato accademico del 27 febbraio alle propo-

ste dell’assemblea del 21 febbraio!07, rigidamente negativa, finì per to-

gliere dall’impasse un movimento per molti versi ormai paralizzato, e per risolvere con un colpo d’accetta il dualismo tra le differenti compo-

nenti studentesche!08, La stessa forma di lotta scelta per reagire alla chiusura braio — Palazzo sposti a

delle autorità accademiche, l'occupazione «dura» del 29 febl’«occupazione delle barricate», come fu denominata, con Campana sbarrato da cataste di suppellettili e gli studenti diresistere attivamente allo sgombero —, era più un espediente,

dettato dalla necessità di non cadere nella ripetitività inerte dell’azione,

che non il sintomo di una reale disponibilità alla radicalizzazione della

lotta all’interno dell’università!09, Nasceva paradossalmente dalla constatazione più o meno consapevole che gli strumenti fin lì utilizzati per aggregare e mobilitare si erano deteriorati; che il territorio su cui ci si era attestati, e che ora ci si apprestava a difendere con la forza, era in

realtà ormai desolato e inerte!!0, Ancora una volta, l’evocazione della violenza — una violenza più espressiva che fisica, dal momento che non vi fu neppure un ferito — era chiamata a supplire a un vuoto di proposta. A presenziare a un nuovo «rito di passaggio»: dal «dentro» al «fuori»; dalla comunità chiusa alla società aperta, alla ricerca di un nuovo «cerchio magico», di un inedito «spazio strutturale». Si annunciava la «seconda fase».

Note 1 La Stampa, 7 nov. 1967. Alla cerimonia partecipò anche un rappresentante degli studenti, del cui intervento — l’unico in cui compare un riferimento alle future agitazioni contro il piano Gui — fa però cenno solo /’Unità: «Il rappresentante degli studenti Giachino — vi si legge —, ha rivendicato l’autonomia dell’università da ingerenze politiche ed economiche ed il controllo studentesco sulla propria formazione, annunciando, tra gli applausi dei molti studenti che affollavano l’aula magna, per il prossimo futuro, la ripresa delle agitazioni in vista della discussione sulla 2314 che avrà luogo in parlamento» («Cauto Allara sulle sedi universitarie», 7 nov. 1967, p. 6).

2 Ibid. 3 A Lettere si era passati da 1.042 studenti nel 1960-61 a 2.011 nel 1966-67, con un aumento superiore al 100%; a Scienze da 1.644 a 3.438; a Magistero addirittura da 1.445

a 3.683! Mentre a Giurisprudenza la crescita era stata minima (da 1.793 a 1.976), per le

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Il ’68 a Torino altre facoltà si rimane nella media: da 2.742 a 4.166 ad Economia e commercio; da 2.592 a 3.660 a Medicina; da 2.688 a 4.358 ad Ingegneria. Unica facoltà in declino Farmacia, passata dai 394 studenti nel ’60-61 ai 268 del ’66-67. 4 Decisivo deve essere stato, nella decisione di mobilitazione contro la scelta della

Mandria e di intervento al consiglio di amministrazione, il ruolo degli studenti di Architettura, come sottolineeranno — con un’esplicita presa di distanza dall’episodio 0, comunque, con un netto ridimensionamento della sua importanza — alcuni dirigenti studenteschi durante l’occupazione di Palazzo Campana: «La lotta è nata sulla questione della Mandria... a cui erano interessati prevalentemente gli studenti di Architettura, che erano stati in agitazione per sei mesi durante l’anno scorso. Motivi tutto sommato abbastanza squalificati, motivi di politica urbanistica e grosso modo partitici, di committenze, di clan di architetti e simili. Ma siccome gli architetti erano organizzati in gruppi solidi, hanno potuto esercitare una forte pressione su di noi, e ci hanno trascinati a fare un’assemblea, ad andare in rettorato per protestare contro questa decisione, ci hanno praticamente sfondato una porta del rettorato e ci hanno portato dentro. Ed effettivamente ci hanno messo di fronte alle nostre autorità accademiche per la prima volta» («Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», Quaderni Piacentini, 1968, n. 33, p. 29). «Questo scritto — è

annotato in calce — e ricavato da una conversazione registrata con alcuni studenti che hanno partecipato all’occupazione di Palazzo Campana».

5 Contro l’insediamento della città universitaria alla Mandria militavano sia ragioni tecniche che politiche. Si trattava in realtà di un’area infelicemente collocata rispetto alle direttrici di afflusso dalla regione, in quanto gli studenti provenienti dalle province di Asti, Alessandria e Cuneo avrebbero comunque dovuto attraversare il centro metropolita-

no torinese, con aggravio del traffico. Ed è questa la ragione per cui il Comitato regionale per la programmazione aveva opposto parere contrario. Inoltre l’insediamento universitario avrebbe danneggiato un patrimonio naturale di grande interesse paesaggistico e di notevole importanza ecologica, come fece notare Italia nostra. Sul carattere speculativo dell’operazione, poi, insistette con forza il partito comunista: sotto il titolo «Una speculazione di 58 miliardi sotto l’alibi dell’Università», ! Unità del 26 novembre affermava che,

con la decisione del consiglio di amministrazione di acquisto della Mandria «si dà il via alla più colossale speculazione sulle aree mai registrata nella nostra regione, e che è solo paragonabile a quanto avvenuto in Sicilia a Palermo o allo spaventoso crollo di Agrigento. Alla Mandria — aggiungeva l’organo comunista — i 1.700 ettari oggi vincolati dal Piano regolatore intercomunale e sui quali la battaglia è ancora tutta da condurre, diventerebbero aree cosparse di villaggi residenziali. Così l’unico sfogo di verde e di ossigeno per la nostra città sarebbe per sempre distrutto». Si temeva, in particolare, che la destinazione dei 300 ettari all’università, costituisse, in qualche modo, un precedente utile per legittimare, in seguito, la lottizzazione degli interi 3.000 ettari della tenuta, proprietà del marchese Luigi Medici del Vascello, su cui gravavano significativi interessi della Fiat,

che già vi era stata autorizzata a costruire una pista di prova. Una preoccupazione condivisa anche dal periodico cattolico Sette giorni, il quale aveva avanzato l’ipotesi che i 300 ettari dell’università «sarebbero la punta di diamante che traccia sul vetro della tenuta quanto è sufficiente per romperlo e per far approvare la completa lottizzazione». Le associazioni universitarie, infine, tanto quella dei professori incaricati quanto quella degli assistenti, sottolineavano la necessità di definire la politica edilizia universitaria in stretto rapporto con i contenuti della riforma, sostenendo l’assurdità di una decisione assunta prima di una esaustiva discussione sulla struttura della didattica e della ricerca («non si può discutere

della casa senza sapere cosa mettervi dentro»). In particolare — il concetto sarà espresso con chiarezza dall’architetto Alberto Magnaghi, nel corso di un pubblico dibattito il 6 novembre — la soluzione della Mandria appariva funzionale alla lettura più conservatrice del progetto di riforma Gui, con «la concentrazione dei livelli più qualificati dell’università (lauree e dottorato di ricerca) nell’area metropolitana del capoluogo, e decentramento dell’università di massa (primi livelli di laurea ed istituti aggregati)» (v.«Anche Astengo

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contro la scelta della Mandria», l'Unità, 8 nov. 1967, p. 6). Gli studenti, per parte loro, consideravano la periferizzazione dell’università un grave attacco alla loro presenza politica all’interno della città, e un tentativo di separazione del corpo studentesco dalle altre componenti sociali cittadine. 6 A favore si espresse anche il professor Firpo, presente in consiglio di amministrazione in qualità di rappresentante del Consiglio comunale, il quale tuttavia aveva espresso a stragrande maggioranza parere contrario alla localizzazione della città universitaria alla Mandria. Per questo motivo il gruppo consigliare comunista chiese le dimissioni del professor Firpo, «per evidente incompatibilità tra l’atteggiamento da lui tenuto... e la posizione che su questo delicatissimo argomento è stata assunta dal Consiglio comunale» («Il consiglio d’amministrazione approva l’acquisto di 300 ettari della Mandria», l'Unità, 23 nov. 1967, p. 6).

T Già il 23 novembre si era tenuta una serie di assemblee di facoltà, in cui era stato

deciso l’inasprimento dell’agitazione. Era stato eletto un «comitato di coordinamento», rappresentativo di tutte le situazioni e delle varie correnti, con il «fine esplicito» di organizzare l'occupazione programmata per il 27 novembre. (P. Ortoleva, Introduzione alla sezione su Torino [facoltà umanistiche] di Movimento studentesco (cur.), Documenti della rivolta universitaria, Laterza, Bari, 1968, p. 225). 8 La Stampa, 28 nov. 1967.

9 Anche l'Unità reagirà polemicamente alla linea della Stampa, facendo propria nella sostanza la posizione e l’analisi degli studenti: «La campagna denigratoria che porta avanti il quotidiano della Fiat nei confronti degli studenti e delle loro agitazioni, dando spazio alle intolleranze dei fascisti e dei monarchici, presentati come i “difensori” della democrazia e del diritto allo studio — scrive infatti Sesa Tatò — fa parte di un preciso disegno: la Fiat vuole tutta l’Università al suo servizio e garantirsi la formazione dei quadri sulla base di un tradizionale indirizzo che poggi sulle gerarchie, l’autoritarismo e l’immobilismo dell’organizzazione universitaria» («Profonde riforme universitarie chiedono gli studenti

di Torino», l'Unità”, 1° dic. 1967, p. 5). 10 «Documenti per le agitazioni», n. 1: /n merito all'occupazione, s.d., ma distribuito il 27 nov. 1967; corsivo mio.

11 «Occupate le aule a Palazzo Campana», Gazzetta del Popolo, 28 nov. 1967. 12 «L'assemblea degli studenti torinesi, riunita il 27-11-1867 — recita tra l’altro la mozione di occupazione — individua nella contestazione dei metodi didattici dell’insegnamento accademico, che dietro la maschera della neutralità della scienza e della cultura instilla negli studenti la mentalità autoritaria propria delle autorità accademiche, il principale obiettivo della lotta degli studenti» (P. Ortoleva, Introduzione, cit., p. 228).

13 In merito all’occupazione, cit., p. 1.

14 Tbid., p. 3. 15 Archivio Fondazione Vera Nocentini, Fondo Rieser, 1968; corsivo mio.

16 Un giudizio diverso, fortemente negativo, è invece espresso, a caldo, dal già citato gruppo di studenti occupanti intervistati su Quaderni Piacentini, residuo, in qualche modo, di un estremismo fine a se stesso e, nel contempo, espressione di quella fase di radicalizzazione delle avanguardie che sta tra la «prima» e la «seconda fase»: «Tipico errore è stato quello del referendum — affermano fra l’altro —: si pensava che solo proponendo un referendum si riuscisse a conquistare una base non convinta dell’opportunità di occupare, mentre questo non era assblutamente il caso. Al momento in cui si è svolto il referendum — aggiungono — sì era assolutamente convinti che lo si sarebbe perso, mentre invece la vittoria è stata clamorosa». Però alla fine ammettono che «a partire dai risultati del referen-

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dum, la situazione si è appianata, ed è stato riconosciuto il nostro diritto di restare dentro Palazzo Campana» («Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., DAI32): Anche P. Ortoleva, sia pur in toni meno drastici, esprime una valutazione non entusiastica

sul referendum, giudicato «demagogico»: «il metodo del referendum — scrive — è accettato solo per demagogia: esso, come tutti imetodi di “democrazia” indiretta, è in linea teorica respinto come non-rappresentativo» (Introduzione, cit., p. 229). Più ragionata la ricostruzione di Maria Teresa Fenoglio, indicativa del residuo senso di sfiducia della cosiddetta

«avanguardia» nei confronti della massa studentesca, e della sorpresa prodotta dalla scoperta della massificazione dello spirito di rivolta come carattere specifico della nuova fase che si era aperta: «Io — ricorda — ero assolutamente convinta che fossimo dei minoritari prepotenti, invece ho scoperto che non era così. Tutti noi abbiamo scoperto che non era così. Avevamo una cattiva coscienza, perché dicevamo che eravamo democratici, ma era-

vamo molto autoritari, anche nelle assemblee. C'era in noi il massimo disprezzo per quelli che erano la famosa maggioranza silenziosa, le pecore — pensa al manifesto del maggio con le pecore che tornano alla normalità — tanto che davamo per scontato che avrebbero votato contro» (L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze, 1988, p. 93). I7Le firme raccolte il 12 dicembre furono 662 («750 universitari “frequentano” l’ateneo occupato», l’Unità, 13 dic. 1967). Nella «Cronaca dell’occupazione dell’Università di

Torino», cit., p. 32, si parla di circa quattrocento persone che «partecipavano attivamente». 18 Significativo l’incontro avvenuto il 5 dicembre tra gli studenti occupanti e delegazioni di operai della Riv, Emanuel, Michelin, e Ferriere Fiat; e il commento di un operaio,

riportato dall'Unità, indicativo, pur nella sua didascalicità un po” di maniera, di quanto i contenuti critici elaborati nel corso dell’agitazione fossero suscettibili d’immediata percezione e contagio: «Capisco — avrebbe a un certo punto esclamato — perché certi ingegneri, dopo essersi abituati in questa scuola a subire passivamente l’autorità dei professori pre-

tendano poi in fabbrica di esercitare la stessa autorità indiscriminata su noi operai» («Operai e studenti si sono incontrati a Palazzo Campana», l'Unità 6 dic. 1967, p. 6). Il solito gruppo cui è ascrivibile la «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., irriderà a queste esperienze, facendosi portatore nella forma più estrema, e per certi aspetti irritante, della diffusa diffidenza provata dagli occupanti nei confronti della politica tradizionale e dei partiti politici — a cominciare da quelli di sinistra —, e della tendenza istintiva all’autodifesa della propria comunità chiusa nei confronti di qualunque «sfida» politica proveniente dal suo esterno, quasi questa potesse pregiudicare il magico senso di unità e coesione raggiunto: «Ingrao voleva un colloquio per derivarne proposte in parlamento — vantano —: non abbiamo ricevuto Ingrao, abbiamo respinto Berlinguer, e poi Giorgina Levi che era venuta a proporci un incontro con gli operai comunisti, ecc. Una volta comunque, un gruppetto di operai comunisti è stato portato dentro, ripetutamente fotografato, sperduto e spaventato, da quelli dell'Unità. Si è trattato comunque di episodi marginali» (p. 37). Ciò non toglie che sulla massa degli studenti, l’attenzione esterna sia

stata vissuta con compiacimento e abbia operato, aldilà del verbalismo, come forma significativa di legittimazione pubblica. 19 Sulla crucialità anche simbolica del concetto di spazio nella problematica del movimento, e sulla sua connotazione prevalente come «spazio comunicativo» osservazioni di grande interesse sono state proposte da L. Passerini, Autoritratto, cit., p. 103: «Era — scrive — uno spazio fisico, uno spazio strutturale, uno spazio didattico, tutti termini che si ritrovano nei documenti del movimento studentesco. Ma era soprattutto libertà di muoversi della parola, spazio discorsivo e spazio comunicativo, degli studenti tra loro e col mondo esterno».

20 Il riferimento è all’occupazione del febbraio 1967, per la quale si rinvia al paragrafo successivo di questo stesso saggio. 21 La Stampa, 17 dic. 1967.

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22 Verbale della seduta del Consiglio di facoltà di Magistero, 27 nov.1967, tenuta dall 3} le ore 18 alle ore 19,30 nei locali dell’Istituto di Lingua e letteratura spagnola della facoltà | di Magistero. La notizia comparve solo sulla Gazzetta del Popolo, 29 nov., mentre fu ignorata da La Stampa. 23 Già nella ricostruzione fattane da P. Ortoleva nell’Introduzione, cit., p. 226, è presente con straordinaria chiarezza la consapevolezza del carattere di novità dell’esperienza appena vissuta: «In realtà già allora [nei giorni immediatamente successivi alla protesta per la Mandria e immediatamente precedenti l'occupazione del 27 novembre] ci si rendeva ben conto della maggiore larghezza, e della lunga scadenza della lotta... Da un lato veniva affermata, in maniera perentoria, la sovranità dell’assemblea, venivano cioè poste,

per così dire, le basi “costituzionali” del periodo di occupazione; inoltre, sia con i volantinaggi, sia con i discorsi e le mozioni (anche se non vanno nascoste le sbavature demagogiche), si ponevano le basi ideologiche per una lotta ad ampia partecipazione, come fu quella che seguì». 24 Per una cronologia dettagliata di tutta l’agitazione v. «Cronaca di dieci giorni di occupazione», Ateneo, apr. 1967, n. 2 e, per una ricostruzione ragionata, A.Bobbio e P. Montalenti, «Cronaca dell’occupazione all’Università di Torino» — come si è giunti alla serrata», Bollettino di informazione, a cura dell’ Associazione studenti del Politecnico, 8,

mar. 1967, n. 3, pp. 3-8. Cenni anche in P. Ortoleva, Introduzione, cit. Per un commento

politico organico v. L. Bobbio, «Le lotte nell’università. L'esempio di Torino», Quaderni Piacentini, 1967, n. 30. In esso era individuato un duplice carattere di novità dell’agitazio-

ne del febbraio 1967 rispetto a tutte le precedenti esperienze di lotte studentesche: lo«spontaneismo» e la dimensione di massa: «E stato — scrive Bobbio — un movimento carico di spontaneismo, che ha investito quasi tutte le sedi universitarie del nord e del sud... e che è ricorso dappertutto allo strumento più duro di lotta, cioè all’occupazione. L’agitazione poi — aggiunge — non è stata mai un fatto di élite, ma è stata ovunque sostenuta da una vasta partecipazione degli studenti, anche in quelle sedi in cui il movimento studentesco era stato tradizionalmente carente» (p. 54). E significativo — e testimonia, per molti versi; del carattere ambivalente di quell’esperienza, in parte anticipazione del nuovo avan-

zante, in parte espressione del vecchio in fase di superamento — che meno di un anno più tardi, ritornando sull’argomento per trarne un bilancio dopo la nuova fase di agitazioni del novembre ’67-giugno ’68, un altro militante del movimento studentesco, Ortoleva, trascuri completamente questi elementi di novità segnalati da Bobbio, e sottolinei invece esclusivamente i caratteri «superati» della «rivoluzione [arretrata] di febbraio». Le differenze tra essa e la fase apertasi col novembre sono definite «notevolissime», innanzitutto perché

«alle proteste del febbraio 67 partecipavano in prima persona le organizzazioni tradizionali», ciascuna delle quali «si muoveva su una linea di piena coerenza con le sue premesse partitiche e col suo piano elettorale». In secondo luogo perché «la lotta non si ricono-

sceva alcun obiettivo nell’università, ma si poneva già al suo nascere come più larga». Infine perché «la mancata identificazione di una controparte all’interno dell’università... portava necessariamente ad una ricerca, in buona parte prematura, di collegamento con la classe operaia, e all’arretrata parola d’ordine del sindacalismo studentesco» (P. Ortoleva, Introduzione, cit., p. 222). In realtà l’articolo di Bobbio conteneva una durissima critica ai

«gruppi» goliardici e agli organismi rappresentativi («Parlare del movimento studentesco italiano — vi si legge — significa innanzitutto fare i conti con questa struttura verticistica, abbastanza consolidata, che non ha e non può avere alcun reale collegamento con la condizione della massa studentesca», p. 54). Critica che quindi era già presente nell’agitazione di febbraio e nel gruppo che l’aveva diretta, in particolare nella sinistra Ugi. Ma evidentemente la comunità formatasi dopo la «rivoluzione di novembre» sentiva fortemente il bisogno di affermare un’identitità forte attraverso la rottura, anche forzata, con ogni passato, anche il proprio più immediato.

25 Lo svolgimento successivo dell’agitazione porterà poi anche queste componenti,

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inizialmente contrarie, ad attribuire all’occupazione significato e valore più generali rispetto al semplice obiettivo delle dimissioni del rettore e alla mera reazione antirepressiva, riconoscendone l’indubbio successo sul piano dell’ampiezza della mobilitazione e del livello politico raggiunto. In un lungo articolo che apriva il numero unico preparato nell’aprile 1967 dall’Intesa in vista delle elezioni universitarie, si rivendicherà, infatti, il

carattere per molti aspetti strategico dell’occupazione, in una logica insieme di riforma e antiautoritaria: «... il Movimento studentesco — vi si affermava —, nell’attuale ordinamen-

to autoritario, non ha alcuna possibilità di condizionare le scelte degli organi accademici. Ecco perché è stata necessaria l’occupazione: essa è oggi l’unico strumento che gli studenti hanno in mano per portare avanti la proposta di riforma. L'occupazione — aggiungeva l’articolo — iniziata come naturale reazione di tutto il Movimento studentesco a un atto autoritario del Rettore nei confronti di alcuni studenti dell’Ugi, che, sulla base di alcune

semplicistiche parole d’ordine, avevano ritenuto di occupare Palazzo Campana, è stata un importante strumento con il quale il Movimento studentesco ha riproposto, sulla base delle proposte elaborate, il problema della riforma a tutte le componenti del nostro Ateneo... Per la prima volta — concludeva poi, cogliendo il dato nuovo che caratterizzerà tutta la fase successiva — le assemblee di facoltà hanno registrato un’ampia partecipazione e ciò a riprova di una rinnovata sensibilità di tutti gli studenti al problema universitario» («Un impegno concreto», Intesa, n. unico, 5,6,7 apr. 1967). Che questa più ampia disponibilità studentesca alla partecipazione, o, se si preferisce, la massificazione della lotta studentesca, costituisse effettivamente il carattere di novità della fase apertasi col 1967, è confer-

mato, per differenza, da un documento dell’anno precedente: una lettera circolare della segreteria nazionale della Federazione giovanile del Psiup «ai compagni Agosti, Bobbio Andrea, Bobbio Luigi, Bolis, Bonfiglio, Campione, Caponetto, Carlini, Costa, Crescimanno, Di Marco, Felici, Festa, Goldschmied, Impegno, Onnis, Papi, Romizi, Sciotto, Trulli», in data 7 novembre 1966, in cui, pur esprimendosi un giudizio cautamen-

te positivo sulla collaborazione con l’Intesa in giunta dell’Unuri («E certamente vero che l’Unuri ha saputo consolidare la sua autonomia, come è vero che è riuscita a dare un rilie-

vo politico nazionale alla lotta di opposizione al piano Gui»), si lamentava che questa non fosse stata ancora in grado di «rompere lo stato di isolamento in cui si trova la rappresentanza rispetto al corpo studentesco, rispetto al quale rimane “testa politica”, ma non ancora centro motore di una battaglia di massa degli studenti capace di far assumere a essi un ruolo rilevante nella lotta politica italiana». 26 V. la mozione approvata dall’aassemblea degli studenti occupanti Palazzo Campana mercoledì 15-2-1967, ore 23 a firma: Il Comitato di agitazione. Il riferimento è all’incontro avvenuto quel giorno stesso, mercoledì 15 febbraio, tra gli studenti e le altre componenti universitarie disponibili a una battaglia contro l’impostazione del progetto governativo di riforma, e al documento elaborato a conclusione e sottoscritto dall’ assemblea degli studenti, l'Associazione torinese professori incaricati dell’Università e del Politecnico, l'Associazione torinese assistenti dell’Università e del Politecnico, e da un numero significativo di professori di ruolo. «Preso atto della positività e della legittimità delle agitazioni in corso attualmente nell’ Ateneo torinese — recitava il testo — e constatato il notevole grado di maturità mostrato dal movimento studentesco nella contestazione puntuale delle riforme proposte in sede governativa; constatata l’adesione di parte del Corpo Accademico alle richieste avanzate di collaborazione e di dialogo; [i firmatari] rilevano la necessità di una contestazione più ampia e più articolata del progetto di riforma dell’Università, tale da involgere un dialogo costruttivo fra le componenti del mondo universitario realmente interessate ad una riforma non meramente corporativa e priva di contenuto; decidono di costituire un comitato permanente composto dai rappresentanti delle associazioni e dai Professori sottoscritti, onde proseguire l’esame del problema della riforma universitaria nazionale, lo studio delle possibilità concre-

te di realizzazione e sperimentazione di riforme in sede locale, e proporre le forme di agitazione atte ad impedire la realizzazione di provvedimenti che possono pregiudicare

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Marco Revelli un effettivo ed efficace rinnovamento dell’Università. I firmatari di questo documento — si aggiungeva — chiedono che il Senato Accademico, riconosciuta la legittimità dell’agitazione studentesca (che è diretta a dibattere problemi globali e non settoriali dell’Università) si impegni ad indire, in accordo con le Associazioni dei Professori Incaricati, degli Assistenti, degli studenti, ed entro il termine concordato con le Associazioni, una

riunione cui partecipino in modo paritetico tutte le categorie di universitari: tale riunione deve essere intesa come atto iniziale ed unico legittimo per costituire degli organismi di incontro, capaci di dibattere problemi globali della riforma, dibattito che deve essere un momento fondamentale dell’attività dell’Università» («Cronaca di dieci giorni d’occupazione», cit., p. 2). 27n particolare i professori Viano, Quazza, Ciaffi, Massucco Costa e De Bartolomeis,

avevano richiesto la convocazione in «via straordinaria e con procedura d’urgenza» del consiglio di facoltà di Magistero per il giorno 14 febbraio 1967 per discutere della «situazione creatasi nell’Università di Torino in seguito all’occupazione della sede di Palazzo Campana da parte degli studenti e alla chiamata della forza pubblica deliberata dal rettore». «I suddetti professori — recita il verbale della seduta — sottolineano la necessità che i titolari di cattedra affrontino i problemi dell’Università nel quadro di una visione globale, che faccia il giusto posto alle altre componenti della vita universitaria — incaricati, assistenti, studenti — e anche questi mantengano con queste un franco colloquio... Deplorano che questo colloquio non sia stato aperto in passato dagli organi dirigenti dell’Università torinese, ma, anzi, sia stato reso di fatto impossibile da prese di posizione tali da instaurare un clima di diffidenza propizio all’inasprimento delle agitazioni degli studenti e, anche, degli incaricati e degli assistenti. Nei giorni scorsi poi — continua il verbale — ci si è intromessi con metodi repressivi in un’agitazione che aveva di mira il Piano Gui e non le autorità accademiche locali e si è commesso quindi un grave errore, che non era comunque giustificato da reali esigenze di difesa della libertà di insegnamento, poiché questa non è stata sostanzialmente impedita. La chiamata della polizia ha impedito essa stessa lo svolgimento dell’usuale attività didattica e ha offeso l’autonomia universitaria». Il preside Piero Pieri (quasi alla fine del suo mandato) aveva creduto di dover spendere parole di difesa dell’operato del rettore (di cui aveva ricordato i meriti di

«difensore tenace della facoltà di Magistero, facoltà Cenerentola»), e alcuni do-

centi si erano associati. Tuttavia, a conclusione, era stata votata all’unanimità la seguente mozione, di diplomatica ma inequivocabile critica all’operato delle autorità accademiche: «Il Consiglio dei professori della facoltà di Magistero di Torino, riunitosi per esaminare l’incresciosa situazione creatasi negli scorsi giorni per la chiamata della forza pubblica seguita all’occupazione dell’Università da parte degli studenti; riconosciuta la validità dell’agitazione universitaria; invita il Preside a rappresentare al rettore l’opportunità della ripresa di un dialogo franco e aperto tra professori e studenti, così da favorire il rinnovamento democratico della vita universitaria e l’attuazione pronta e sollecita delle indispensabili riforme di struttura». Non allo stesso modo si era conclusa invece la riunione del consiglio di facoltà di Magistero tenuta in data 20-21 febbraio 1967, convocata su esplicito invito del Senato accademico «per l’esame delle richieste di gruppi di studenti, nonché del problema più generale della riforma universitaria e del dialogo professori studenti», dopo il secondo intervento poliziesco e la chiusura di Palazzo Campana. Allora, dopo una discussione assai aspra, nel corso della quale il preside e i professori Capello, Giuffrida, Bertini e Pischedda si erano schierati a favore dell’operato del Senato accademico mentre Quazza, Viano, Bonora, Mazzantini

i professori Ciaffi, Bonfantini, De Bartolomeis, e Massucco Costa avevano mosso dure critiche, si

erano confrontate due mozioni contrapposte. La prima, presentata dal professor Ciaffi e firmata

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Mazzantini,

Bonfantini,

Massucco,

De

Bartolomeis,

Quazza, Viano e Bonora recitava: «Il Consiglio dei professori della facoltà di Magistero, di fronte alla decisione del Senato accademico di chiudere a tempo indeterminato l’Università e di demandare l’esecuzione di questa decisione ad autorità estranee

254

Il ’68 a Torino alla vita universitaria, ritiene che con tale atto il S.A. e il Rettore non abbiano difeso i principi di autonomia su cui si fonda la vita universitaria e non abbiano rispettato i diritti e i doveri dei singoli docenti, pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni. Pertanto disapprova la condotta degli attuali organi di governo dell’Università di Torino, che con la loro deliberazione hanno reso estremamente difficile ogni soluzione della crisi che travaglia la nostra Università...». La seconda, presentata dal professor Bertini e sottoscritta anche dai professori Pieri, Giuffrida e Capello, prendeva atto «che la decisione improvvisa di gruppi di studenti di occupare l’Università, mentre il Senato accademico, accogliendo la loro richiesta, aveva incaricato i singoli Presidi di convocare i rispettivi Consigli di facoltà per sentire i loro desideri, ha provocato un riacutizzarsi dell’incresciosa situazione, e che di conseguenza il S.A., dopo matura riflessione, al fine di evitare un degenerare delle agitazioni per il formarsi di gruppi contrastanti, ha deciso, con dolorosa soluzione provvisoria, la chiusura dell’Università», e auspicava

«che

quanto prima si possano ristabilire attivi contatti con gli organi rappresentativi di tutte le componenti della vita universitaria, e sia ripreso il regolare svolgimento di questa». Vinse la prima mozione con 8 voti a favore contro 6. 28 Il rettore aveva posto come condizione per prendere in esame le richieste formulate dagli studenti nella mozione del 15 febbraio la cessazione dell’occupazione entro le ore 13 di giovedì 16, prorogando poi il termine fino alle ore 19. L'assemblea generale, convocata nell’aula magna di Giurisprudenza nel pomeriggio del 16 aveva accettato di sospendere l’occupazione per 48 ore, in attesa di una risposta dei consigli di facoltà e del Senato accademico ma, di fronte a una posizione sostanzialmente elusiva da parte di quest’ultimo, dichiaratosi incompetente a trattare le questioni generali proposte dagli studenti, si era giunti, sabato 18 febbraio, alla rioccupazione di Palazzo Campana. Immediato lo sgombero da parte della polizia e la chiusura a tempo indeterminato di Palazzo Campana decisa dal Senato accademico «per evitare — come recita la motivazione — i pericoli di incidenti derivanti dai disordini provocati da una minoranza faziosa, che si rifiuta ad ogni discorso logico». Alla riapertura del Palazzo, il 27 febbraio, dopo una breve occupazione simbolica, l’assemblea generale nominerà un Comitato d’agitazione composto da 5 membri dell’Ugi e da 1 dell’Intesa, con l’impegno di riprendere l’iniziativa nei tempi e nelle forme che si riterranno più opportuni. 29 «La mozione unitaria delle associazioni degli Studenti, Assistenti e Professori incaricati — Le firme dei professori di ruolo che l’hanno appoggiata», Bollettino di informazione, a cura dell’ Associazione studenti del Politecnico, 8, mar. 1967, n. 3, p. 3. Come si vede, anche in questa mozione finale è ripreso testualmente il documento stilato il 15 feb-

braio — data della vera e propria costituzione del Comitato permanente —, che deve essere

quindi considerato come uno dei fatti politicamente centrali di quell’agitazione e di quella specifica fase di maturazione del movimento studentesco, ancora in equilibrio tra una posizione di contestazione radicale all’interno dell’università e la ricerca delle più ampie alleanze — in una dimensione «verticale» — con le altre componenti accademiche, con un’attenzione particolare all’ambito dei professori di ruolo. 30 Riprodotto parzialmente in P. Ortoleva, Introduzione, cit., pp. 234-236. In realtà l’accusa di «omertà» era ingiusta, almeno per alcuni professori. Rispondendo a una domanda posta dalla redazione del Bollettino di informazione degli studenti del Politecnico, relativa proprio all’«integralismo della classe accademica» e alle dure critiche che erano state mosse ai pochi docenti che nell’agitazione di febbraio si erano schierati con gli studenti, il professor Quazza si era espresso, pochi mesi prima, in termini assai duri proprio nei confronti dell’«omertà accademica»: «considero assurda — oltre che sostanzialmente ingenua — la pretesa di imporre una sorta di omertà accademica ai singoli, obbligati a tacere 0 a sottostare a decisioni di consiglio su problemi non direttamente operativi. Non mi meraviglia, anche se la disapprovo, la “condanna” di chi ha trasgredito la legge del grup-

po» («I professori e le agitazioni. Primo bilancio», Bollettino di informazione, 8, mar.

255

Marco Revelli

1967, n. 3, p. 7; nello stesso contesto figuravano le risposte, assai più prudenti, dei professori Mottura e Conso)., Ateneo, 1968, n. 1, p. 6 (n. speciale sull’occupazione del gennaio 1968 intitolato «Documenti dell’occupazione»). 31 «Didattica e repressione»

32 Ibid. 33 Le commissioni di studio come strumento di contestazione del potere accademico, 5 dic. 1967, Fondazione Vera Nocentini, Fondo Rieser, 1968.

34 Ibid. 35 Corsivo mio.

36 Un ruolo di rilievo nel determinare le nuove parole d’ordine e la nuova impostazione politica dell’agitazione, facendo compiere un vero e proprio «salto di qualità» rispetto all’esperienza di febbraio, deve averlo avuto la lunga occupazione della facoltà di Architettura, iniziata nell’aprile del 1967 e durata oltre due mesi. Lì era stato verificato . sul campo il principio del «potere d’assemblea», il quale era stato recepito anche nell’accordo finale tra le parti (il cosiddetto «documento Floridi», dal nome dell’inviato mini-

steriale che aveva svolto la mediazione), vera e propria «carta costituzionale» della nuova università, fondata sul dualismo di potere tra corpo accademico e corpo studentesco. Lì per la prima volta l'occupazione era stata usata come strumento «oltre che di mobilitazione, di lavoro, e pertanto di presa di coscienza» . Lì, infine, pur con rischi di «corpo-

rativismo» e di «isolamento», si erano avuti i primi tentativi di passare da un discorso generale sulla riforma dell’università, a un impegno specifico e puntuale di «contestazione delle strutture universitarie» (P. Ortoleva, Introduzione, cit., p. 224). Un riconosci-

mento del debito degli occupanti di Palazzo Campana nei confronti degli architetti, soprattutto per quanto riguarda i concetti di «spazio strutturale» e di «contestazione culturale» è anche contenuto in «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 30. 37 I nomi sono tratti dalle liste presentate alle elezioni per l’Interfacoltà della primavera del 1967; la lista è quindi puramente esemplificativa e non aspira all’esaustività. 38 Emblematica la descrizione fattane da P. Ortoleva: «[Guido Viale] era leggendario anche perché era nato a Tokyo ma, rimasto orfano, viveva in una soffitta. Ma la cosa più importante era l’intransigenza del modo di ragionare oltre che del modo d’essere, che ti affascinava. Era la personificazione dell’antiautoritarismo» (L. Passerini, Autoritratto cit.; p. 116; corsivo mio). Il testo contiene anche un’autorappresentazione di Viale è del proprio ruolo: «L’insistenza sulla quotidianità della vita dentro le istituzioni (andare a sviscerare nei più minuti particolari le forme di oppressione in cui si concretizzava il rapporto tra il discente e la cultura) era un’attività collettiva. Non è che tutte queste cose le avessi pensate prima: l’attenzione per la quotidianità era una cosa precedente, ma i contenuti no...» (ibid., p. 117). Sul ruolo e la figura di Viale si veda, comunque, l’intero par. «Un leader» nel cap. 4, «Un ’68», del libro della Passerini.

39 V. la mozione per il congresso dell’Ugi presentata nel 1967 da L. Bobbio, R. Plantamura, M. Negarville, L. Derossi, E. Piperno, F. Maggiora, A. Bobbio. V. anche «Lotta e potere studentesco», Foglio volante Ugi: «Per le elezioni universitarie», apr.1967. Nell'ambito del «Dibattito sulla funzione del movimento studentesco. Le posizioni dei gruppi», pubblicato sul già citato numero di Ateneo dell’aprile 1967, l’Ugi aveva incentrato il proprio intervento proprio sulla tematica della massificazione dell’università e della sua subordinazione ai centri di potere economico-produttivo, neocapitalistici: «L'università — si legge nello spazio riservato all’organizzazione studentesca di sinistra — subisce un processo di socializzazione: cessa di avere la funzione di ricambio della classe dirigente, diventa fenomeno di massa. Nella fase attuale lo studente, all’interno dell’uni-

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I e Il ’68 a Torino versità, non è altro che forza lavoro in formazione. Ed il ruolo tipico del laureato nella società neocapitalista è quello del tecnico... L’Ugi — concludeva l’intervento, su una nota decisamente anticipatrice dell’impostazione assunta dall’agitazione l’anno successivo — abbandonando lo sterile parlamentarismo tradizionale, pone come obiettivo centrale il controllo da parte degli studenti sulla propria formazione: cioè il rifiuto della forza lavoro in formazione alle scelte ad esse imposte dal piano capitalistico». Ma temi analoghi si colgono anche nelle posizioni espresse dall’Intesa, sia pur esposti nel lessico del cattolicesimo sociale anziché in quello del marxismo radicale: «L'istituto universitario — si affermava nell’intervento del gruppo cattolico nel medesimo contesto — deve sapersi porre come centro autonomo di trasmissione e rielaborazione dei valori sociali, e non come elemento passivamente condizionato da centri di potere esterni, politici ed economici». 40 In un documento del Direttivo torinese dell’Intesa, del dicembre 1967, si traccia,

significativamente, un’analisi del ruolo della scuola e del suo rapporto con la società assai omogeneo se non nel lessico, nei contenuti, con le analisi formulate pochi mesi addietro dall’Ugi: in esso si stigmatizza il passaggio al «neocapitalismo» inteso come forma sociale caratterizzato dall’aumento del controllo sulle figure sociali e sui ruoli e dalla diminuzione della partecipazione; si indica nell’università uno dei luoghi cruciali di tale processo, delegato a trasformare gli studenti in «ingranaggi del sistema»; si rifiuta la contrattazione delegata e ci si pronuncia a favore di forme di «democrazia partecipata» che garantiscono una «presenza critica permanente... nella didattica e nella ricerca» . 41 p Vidal-Naquet, Esquisse d'une révolution, saggio introduttivo a A. Schnapp e P. Vidal-Naquet, Journal de la Commune étudiante. Textes et documents. Novembre 1967juin 1968, Seuil, Paris, 1988, p. 8. «On», il «si» della terza persona singolare impersonale,

stava a incarnare, secondo Vidal-Naquet, l’equivalente dell’«uomo dell’organizzazione» di W.H. Whyte, il nemico contro cui si era battuto il movimento di maggio e che contro il movimento di maggio aveva combattuto, ma che, in ultimo, aveva finito per ritrovarsi an-

che

«dentro il movimento, malgrado i timori così acuti del recupero [della reintegrazio-

ne]» (ibid., p. 9).

42 B. Bongiovanni, Società di massa, mondo giovanile e crisi di valori. La contestazione del ’68, in La storia, diretta da M. Firpo e N. Tranfaglia, VII/2, Utet, Torino, 1988,

p. 676. 43 G. Viale, Il Sessantotto tra rivolitzione e restaurazione, Mazzotta, Milano, 1978,

p. 30.

44 «Arrivavano gli studenti in assemblea — ricorderà Guido Viale in una recente intervista — e raccontavano fatti quotidiani, di come erano stronzi i docenti. La gente si liberava e diceva la sua, e viveva in una maniera diversa la quotidianità. Le cose più belle erano i confronti con i professori: questi studenti che dicevano in faccia al professore quello che pensavano di lui, guardandolo negli occhi» (L.Passerini, Autoritratto, cit., p. 102). 45 «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 37; corsivo mio. Il

discorso «generale» l’analisi critica del capitalismo e l’individuazione delle ragioni per combatterlo, sarà ricuperato più avanti, nella fase successiva — quella, se si vuole, della riscoperta della politica come attività generale — ma trasformato e, per così dire, «rigenerato» sulla base di un vero e proprio capovolgimento nel tradizionale rapporto tra teoria e prassi, che faceva della realtà concreta individualmente esperita — del «vissuto», si potreb-

be dire — non più un semplice ambito di verifica e conferma dell’analisi, ma il luogo concreto di formazione e di produzione di questa; il fulcro dell’intero processo di elaborazione teorica e di pratica conflittuale, concepite ora come contemporanee e consustanziali:

«La parola d’ordine della lotta contro l’autoritarismo — si affermerà nella Lettera degli studenti torinesi al convegno nazionale del movimento studentesco tenutosi a Milano l’11 e 12 marzo 1968, che può essere a buona ragione considerata il bilancio politico dell’ intera fase precedente —, l’individuazione nei professori (qualunque ne sia l’ideologia) dei ne-

257

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Marco Revelli mici di classe in quanto gestori del potere sociale più direttamente a contatto con gli studenti, ha fornito una giusta indicazione delle possibilità di analizzare il capitalismo (cioè un sistema sociale fondato sul consenso) a partire dalle possibilità reali di una prassi eversiva e delle esigenze effettive sentite dalla massa di coloro che si vogliono mobilitare» (Archivio Centro Gobetti, Fondo Vitale, D2, C1). 46 v. Proposte di rivendicazione, doc. cicl, s.d, ma dicembre 1967.

47 G. Viale, Il Sessantotto, cit., p. 28. 43°

Bobbio,

Appunti

inediti, in Archivio

Fondazione

Vera

Nocentini,

Fondo

Bobbio, 1968.

49 «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 38. 50 In merito all’ occupazione, cit., p. 2; sottolineato nel testo. 51 1 termine figura fin dal titolo nel già citato A. Schnapp e Vidal-Nacquet, Journal de la Commune étudiante, e viene ripreso nella lucida prefazione di P. Sorlin all’edizione del 1988, Er déjà l’histoire::

«A l’Université, durant un mois, les étudiants ont mis en

oeuvre une sorte de Commune», p. VII. La Commune étudiante è anche il titolo di una serie di articoli pubblicati su Le Monde tra il 17 e il 21 maggio 1968 da Edgar Morin, un altro dei più fecondi interpreti del ’68 come fenomeno globale. Si veda anche J.M. Coudray, C. Lefort, E. Morin (cur.), Mai ’68: la brèche, Paris, 1968. 52 B. Bongovanni, Società di massa, cit., p. 674. 53 7, Bauman, Introduzione a Contestazione a Varsavia, Bompiani, Milano, 1969.

54 Sulla centralità simbolica di Palazzo Campana rispetto al territorio urbano e sociale circostante, che ne fece uno «spazio comunicativo privilegiato», v. L. Passerini, Autoritratto, cit., p. 100: «Avrebbero forse potuto avere una funzione simile altre sedi di

facoltà — scrive Luisa Passerini — ma interveniva come importante considerazione logistica la collocazione della sede delle facoltà umanistiche, in pieno centro della città e now sui grandi viali di scorrimento o lungo il Po, come erano il Politecnico e molte facoltà scientifiche. Si arrivava così quasi insensibilmente al piano simbolico: e su questo non meno che su quello reale Palazzo Campana divenne sede di uno spazio comunicativo privilegiato». 55 Vv. Tumer, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986. La liminarità, che Turner ritiene presente in ogni episodio rivoluzionario, consiste, nella sua essenza, «nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra». Essa, nel modello mutuato da Van Gennep, segue la separazione, la quale «delimita nettamente lo spazio e il tempo sacri da quelli profani o secolari» e «implica un comportamento simbolico... che rappresenta il distacco dei soggetti rituali (novizi, aspiranti, neofiti o “iniziandi”) dal loro precedente status sociale» (ibid., p. 55). E precede l’«incorporazione», o «aggregazione», che rappresenta «il raggiungimento da parte dei soggetti della loro nuova posizione, relativamente stabile e ben definita, nel complesso della società» (ibid.). Una

dilatazione delle categorie turneriane e del modello del «rito di passaggio» come strumento di interpretazione dell’intero fenomeno del ’68, concepito quasi esclusivamente come «festa», è stata tentata da R. Gobbi, // ’68 alla rovescia, Longanesi, Milano,

1988. Un

cenno ai concetti di «iniziazione» e di «rito di passaggio», anche in L. Passerini, Autoritratto, cit., p. 107. Comunque per un’ampia rassegna e discussione sull’intero argomento v. il cap. 5 di P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, con un’antologia di materiali

e documenti, Editori Riuniti, Roma, 1988.

56 «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 34; i corsivi sono

miei.

258

Il ’68 a Torino

ST Ibid., p. 82. 58 Ibid., p. 92. 59 Ibid. Di questa intensità nel rapporto interpersonale, spinta fin quasi al trapasso dall’identità individuale a una sorta di Io collettivo, offre una testimonianza particolarmente efficace Laura Derossi:

«La sera — ricorda —, se stavi nella facoltà occupata, si fa-

cevano i turni per andare a mangiare e c’erano i posti dove sapevi che c’era la gente. Non ci perdevamo mai, ecco... L'individuo era sparito, io non avevo una vita individuale, non facevo più niente da sola, non andavo al cinema da sola, non leggevo un libro, io vivevo

in questo branco. Con Luigi stavamo sempre insieme, sempre però in mezzo a cinquecento persone» (L. Passerini, Autoritratto, cit., p. 126). Alla dimensione collettiva e festosa

che accompagnò la «lunga occupazione» di dicembre fa riferimento, d’altra parte, nel medesimo contesto, lo stesso Diego Marconi — già vicepresidente nazionale dell’ Agi e allora membro del Comitato di agitazione — di solito estremamente sorvegliato e non di rado critico nei confronti di quell’esperienza:

«Mi ricordo una sera — testimonia —, in cui c’era il

comitato di agitazione, coincideva con la cena e allora si doveva apparecchiare la tavola lì, in un’aula. Si è apparecchiata la tavola e qualcuno si è messo a cantare: Nostra patria è il mondo intero, e intanto preparavano le cose, scodellavano la pasta ed era un momento molto bello» (ibid., p. 103).

60 Em un'intervista rilasciata nel 1970, dedicata in buona parte proprio al movimento degli studenti, cercando di individuare il tratto distintivo, su scala mondiale, della nuova

esperienza collettiva dei tardi anni sessanta — quello suscettibile di «distinguere realmente questa generazione in tutti i paesi dalle generazioni precedenti» — Hannah Arendt lo indicava proprio nella «sua determinazione ad agire, la sua gioia nell’azione, la sicurezza di essere capaci di cambiare le cose grazie ai propri sforzi» (Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in H. Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, Milano, 1985, p. 255). E aggiungeva: «Un'altra esperienza nuova per il nostro tempo è entrata nel gioco politico: ci si è accorti che agire è divertente. Questa generazione ha scoperto quella che il diciottesimo secolo aveva chiamato la “felicità pubblica”, il che vuol dire che quando l’uomo partecipa alla vita pubblica, apre a se stesso una dimensione di esperienza umana che altrimenti gli rimane preclusa, e che in qualche modo rappresenta parte di una “felicità” completa» (p. 257). 61 p. Ortoleva, Saggio, cit., p. 115: «A partire dal concetto di ‘felicità pubblica” — scrive Ortoleva — è forse possibile comprendere meglio la vita interna del movimento nella sua fase culminante. Alcune scelte, infatti, che possono apparire incomprensibili o addirittura puerili dal punto di vista strettamente organizzativo, sono spiegabili in quanto frutto, appunto, di una scoperta, la scoperta della possibilità stessa dell’agire politico, della possibilità di dare espressione “pubblica” (cioè “collettiva” ma anche, nel senso di H. Arendt, finalizzata alla costruzione di un. modo comune) a sentimenti, problemi, esperien-

ze che fino ad allora erano rimasti confinati alla sfera individuale, al massimo allo scambio interno di piccoli gruppi di persone».

62 Le Figaro, 5 giu. 1968. Riprodotto in P. Vidal-Naquet, Esquisse d'une révolution, cit., p. 21; corsivo mio. Lo stesso Edgar Morin confessa «lo straordinario senso di benessere fisico che mi ha preso durante la comune studentesca» («Pour une sociologie de la crise»,

Communications,

12, 1968; ora in E. Morin, Sociologia del presente, Ed. Lavoro,

Roma, 1987, col titolo /968: sociologia critica e sociologia criticata |autointerrogazione della sociologia]).

63 «Era un universo totalizzante, in cui il privato e il pubblico si mescolavano — ricorda Luigi Bobbio —. Noi la cosa che odiavamo di più in quel periodo era la politica come mestiere, il politico di professione, che ha le ore del pubblico e le ore del privato. Il nostro obiettivo era di mettere tutto insieme e questo faceva scomparire il privato. Ma il pubblico era gravido di privato: perché io metto in gioco me stesso interamente, quando faccio

259



un’azione pubblica, cioè il pubblico è espressione della mia soggetti

A

Ci

Si

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essere me stesso» (L. Passerini, Autoritratto, cit., p. 126).

64 Le commissioni di studio come strumento di contestazione del potere accademico. 65 V., tra gli altri, il documento La repressione dello Stato contro il movimento studentesco, relativamente tardo (3 giu. 1968), ma contenente, ai paragrafi «Giudici e polizia sono la stessa cosa» e «La funzione dei giudici» parte del patrimonio di analisi sul ruolo dell’operatore del diritto accumulato in dicembre. 66 v, L'altro Politecnico, a cura di «un gruppo di studenti», ciclostilato, come si afferma in copertina, in 1.000 copie, contenente fra l’altro gli Appunti per la commissione «Scuola e società». «Il buon ingegnere — vi si afferma tra l’altro — dovrà porsi il problema di distribuire le attrezzature nella fabbrica, di tagliare i tempi, di aumentare i ritmi, in base al principio del minimo costo e quindi del massimo profitto contrabbandato come esigenza tecnologica. L'impostazione di fondo che viene data ai corsi al Politecnico — continua il documento — è che il progresso della società si realizza diminuendo i costi di produzione: l’ingegnere è colui che deve svolgere questo lavoro. Il suo impegno sarà quindi solo quello, nell’interesse di tutti, di diminuire al massimo i costi, passando sopra al lato sociale, economico e umano che questo comporta. Il problema della diminuzione dei costi è visto unicamente dal punto di vista tecnico». Una clamorosa conferma di questo tipo di analisi, sembrava essere offerta dagli Appunti per una conversazione sulle esigenze dell'industria nei confronti degli ingegneri neo-laureati, presso il Politecnico di Torino, venerdì 9 febbraio 1968, dall’ingegner Tamagno, alto dirigente Riv, che il movimento studentesco intercetterà e pubblicherà con rilievo: «Come cliente — recitava la premessa — faccio una specie di “capitolato” della “merce“, d’altronde preziosa, che acquistiamo dal Politecnico. Darò un elenco di doti, di conoscenze e di capacità che l’industria

desidera siano possedute dai giovani ingegneri. Le prime sono tutte innate, e perfettibili in parte per auto-azione, parte per azione di terzi (Scuola). Le seconde e le terze sono impartite dalla Scuola e in parte perfettibili durante il tirocinio e poi durante la vita professionale... L'ingegnere — aggiungeva ancora la premessa — serve all’industria per: a) risparmiare tempo e quattrini; 5) organizzarsi; c) evolversi» . Tra le doti «innate», l’ing. Tamagno elencava lo «slancio», l’«energia», un «saldo equilibrio psichico», lo «spirito di sacrificio», lo «spirito d’ordine (nelle idee, nelle cose)», una «mano felice (caccia agli errori; i capi servono ad evitarli e a risolvere le grane)»; tra quelle «perfettibili nel tirocinio sul lavoro» il «senso della decisione (meglio sbagliare — poco! — decidendo subito, che decidere tardi o mai)», l’«arte di organizzare il proprio lavoro» l’«arte di coordinare il lavoro altrui», l’«arte di controllare il lavoro altrui», l’«arte di ottenere»; doti di comando, ascen-

dente (su collaboratori, pari, superiori), l’«arte di giudicare e di scegliere gli uomini» .-Tali

«appunti» verranno analiticamente discussi in un successivo documento del movimento studentesco, del settembre 1968: L'insegnamento al Politecnico in rapporto all’ organizzazione della produzione capitalistica: «L'ingegnere — vi si affermava — deve convalidare i suoi scopi con la mistificazione dell’obiettività neutrale della tecnica, deve accettare la

struttura sociale esistente come un dato, a cui applicare la propria capacità tecnica per razionalizzarne il funzionamento. E allora, siccome la società attuale è composta di oppressori e di oppressi, di una classe che decide e di una classe che non ha potere, l’ingegnere deve anche diventare il cane dà guardia di quest’ultima. Il laureato, nell’industria — continuava il documento — svolge, più spesso che mansioni di progettista e di ricercatore, mansioni di controllo (di come l’operaio eroga la sua forza lavoro) e di oppressione (costringerlo o condizionarlo a erogarla come vuole il padrone): capo officina, ufficio tempi, ufficio produzione, ecc. Ma è un laureato, un tecnico — deve sentirsi membro della classe

dirigente, non sorvegliante di schiavi: tocca alla scuola condizionarlo psicologicamente, convincerlo della validità scientifica oggettiva di quello che dovrà fare e renderlo quindi disponibile».

67 Si veda al proposito l'allegato al documento della Commissione didattica Su! ruo-

260

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Il'68'a Torino

lo dell’economista e dello scienziato sociale, figure definite «emblematiche della trasfor-

mazione del ruolo dell’intellettuale umanista». Dell’economista si sottolineava «il coinvolgimento nelle funzioni di programmazione economica» e di consulenza alle industrie private. Dei sociologi, invece — la sociologia era definita «l’autocoscienza del cretino industrializzato» — si denunciava, sul piano internazionale, la «funzione imperialistica» in qualità di esperti del ministero degli Esteri e della Difesa (in particolare negli Stati Uniti) e la responsabilizzazione nelle politiche locali e regionali (in realtà questo ruolo sarà assunto soprattutto dai politologi), mentre sul piano locale se ne sottolineava la funzione di «integratori a medio livello» o di «ingegneri di anime» e il ruolo di «vaselina» nell’industria. Inevitabile, a questo proposito, il riferimento al libro di L. Baritz, / servi del potere, Bompiani, Milano, 1963, che ebbe un ruolo fondamentale nella formazione del senso

comune sociologico del movimento. In merito alla funzione ambivalente giocata dalla sociologia nella cultura del ’68, in parte oggetto di critica, in parte strumento di critica, la più acuta osservazione è stata formulata da Edgar Morin, il quale ha constatato come «dopo la costituzione del movimento enragé, le scienze umane e soprattutto la sociologia sono contemporaneamente fonte di contestazione e contestate alla fonte [corsivo mio]. Gli studenti rivoluzionari — aggiunge Morin, e il fatto è comune a Nanterre come a Torino o Trento — si rivolgono alla sociologia che critica contemporaneamente la società e la sociologia ufficiali, vale a dire alle opere di Wright Mills, Riesmann, Marcuse, Lefebvre e, in profondità, assistiamo a un’altra rinascita della fenice marxista, che si afferma come “vera» sociologia” (/968: sociologia critica e sociologia criticata, cit., p. 131). 68 Si veda la ricca documentazione prodotta dalla facoltà di Architettura durante la lunga e vincente occupazione di aprile-giugno 1967. i 69 Il documento Per una linea politica nelle facoltà scientifiche. Situazione attuale della geologia e del geologo in Italia, lamentava che «il geologo non venga mai utilizzato in maniera globale: l’utilizzazione viene infatti prevalentemente limitata a ricerche di carattere minerario, mentre l’utilizzazione per lavori di sistematizzazione generale del paese è generalmente molto limitata... L'utilizzo del geologo — aggiungeva — avviene secondo direttive di produttività, per cui il geologo viene utilizzato soltanto là dove la creazione di valore è più evidente. Negli altri campi, ignorando completamente quali potranno essere i costi sociali e umani successivi, il geologo, catalogato come improduttivo, viene accantonato e ignorato».

70v, il documento Ruolo sociale del naturalista, in cui si denuncia l’impostazione acritica e autoritaria dell’insegnamento scientifico («mai chiedersi a cosa serva una scienza, ma solo tramandarla»), e — con un’anticipazione significativa dei temi ecologici — l’as-

senza di ogni risvolto «sociale» dalla preparazione professionale, la quale ignora completamente i grandi problemi quali «l'inquinamento dell’acqua e dell’aria, la rottura degli equilibri biologici, il depauperamento delle riserve naturali, le malattie da ambiente». T1 Decisivo appare, a questo proposito, l’influsso dello straordinario messaggio della Scuola di Barbiana e don Milani. I temi di Lettera a una professoressa, e anche il suo stile asciutto, diretto e essenziale, sono presenti con forza nei documenti di dicembre e gennaio, in particolare in // movimento studentesco nella scuola, in cui si definivano le tre

funzioni «latenti» della scuola — integrazione, selezione, subordinazione —, tali da spiegarne i reali meccanismi di funzionamento assai più della funzione «manifesta» della preparazione professionale; e nel notissimo e diffusissimo documento Diritto allo studio. 72 Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 31. 73 U. Colombino,«Il problema della rappresentanza», Ateneo, apr. 1967, n. 2, p. 3. 74 V, doc. cit. 15@; Viale, «Contro l’Università», Quaderni Piacentini, 1968, n. 33.

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VE O FERR o Revelli Marc

76 Ibid., p. 450. 77 E. Ciafaloni, Gli anni degli operai e degli studenti, in L. Bobbio, F. Ciafaloni, P. Ortoleva, R. Rossanda e R. Solmi, Cinque lezioni sul '68, Rossoscuola, Torino 1987. Ti volume è corredato da un’utile cronologia degli avvenimenti 1966-69 a cura di C. Pianciola e R. Solmi. 78 «La conseguenza — scrive Passerini — è comunque duplicità, contraddizione, ambivalenza e spesso polivalenza. Di qui un fenomeno frequente nel ’68: il raggiungimento di equilibri tra gli opposti che appaiono quasi miracolosi, ma che sono passeggeri perché già contengono i germi del proprio contrario. È il caso del rapporto tra libertarismo e autoritarismo interno al movimento, tra la nuova possibilità di parlare per tutti e il diverso peso della parola di alcuni. Così la democrazia poteva sfociare — e lo avrebbe fatto nei decenni successivi — in democraticismo, pretesa della parità senza riconoscimento delle disparità» (Autoritratto, cit., p. 94). 79 Documentata sia in P. Ortoleva, Introduzione, cit., che in «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit.

80 I. Bobbio, // movimento del 1968 nell'università, in L. Bobbio, F. Ciafoloni, P. Ortoleva, R. Rossanda e R. Solmi, Cinque lezioni, cit., p. 17.

81 Ibid. 82 Ibid., p. 442. 83 «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 33.

84 Ibid., p. 33. 85 P. Ortoleva, Introduzione, cit., p. 230. 86 «Didattica e repressione», cit., p. 9. 87 Corsivo mio. 88 La Carta rivendicativa è stata pubblicata nel già citato «Documenti dell’occupazione», speciale di Ateneo, gen. 1968, n. 1.

89 Gazzetta del Popolo, 29 dic. 1967. Comunque, meno di un mese più tardi, anche i rapporti interni all’Interfacoltà saranno «regolati» dal movimento studentesco. L’assemblea dell’Interfacoltà, riunita la sera del 24 gennaio 1968, dopo aver costretto alle dimissioni con una mozione di sfiducia il presidente in carica Luigi Rossi di Montelera del gruppo monarchico Viva Verdi, eleggerà presidente Carlo Donat-Cattin; vicepresidenti Roberto Weigmann e Maurizio Vaudagna; segretario generale Andrea Mottura. L’Interfacoltà voterà «a maggioranza assoluta» una mozione del seguente tenore: «Essendo stata l'elaborazione della linea politica della lotta che il movimento studentesco torinese sta portando avanti e la sua conduzione in questi mesi gestita dall’assemblea generale degli studenti, e dalle sue emanazioni esecutive, ogni eventuale contatto in funzione alle decisioni inerenti allo sviluppo dell’agitazione deve svolgersi tra l'assemblea generale degli studenti, le sue emanazioni e la controparte». «Con questa delibera dell’Interfacoltà — commenterà il “giornalino” del 25 gennaio — le obiezioni ipocrite che i professori avevano fatto sulla necessità di trattare con l’Interfacoltà stessa, cadono automatica-

mente: soltanto l'assemblea degli studenti e il Comitato di agitazione rappresentano effettivamente la volontà degli studenti in lotta» .

90 P. Ortoleva, Introduzione, cit. 9 p Vidal-Naquet, Esquisse d'une révolution, cit., pp. 19-22.

262

Il °68a Torino

92 Gazzetta del Popolo, 5 gen. 1968; corsivo mio. 93 Si svolgono incontri a Cuneo, Vercelli, Asti, Alessandria, Pinerolo, Biella, Ivrea,

Aosta. Si tengono anche riunioni con i rappresentanti di alcune università occupate o in procinto di esserlo: «Con alcuni si è trovato un accordo quasi completo; altri invece, i più politicizzati, ci sono sembrati ancora legati ad un tipo di analisi in termini tradizionali del capitalismo, per cui occorre vedere la collocazione dello studente in quanto lavoratore-salariato, forza lavoro che produce valore ecc. e la sua collocazione (cioè necessità di sua presa di posizione) in campo internazionale» («Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 39). 94 p, Ortoleva, Introduzione, cit., p. 237.

95 Nella giornata di venerdì 12 gennaio, nel corso della lezione di Istituzioni di diritto privato, il professor Allara chiede l’intervento della polizia perché gli studenti che erano entrati per chiedere il contraddittorio, vedendoselo negato, avevano incominciato a sotto-

lineare con applausi le frasi del docente. Il 13, seconda richiesta di intervento della polizia, ancora da parte di Allara, perché gli studenti durante la lezione, rifiutavano di toglier-

si il cappello: «La polizia è stata lì per mezz’ora a chiedere invano di toglierci il cappello — ricorderanno i protagonisti —, poi ci ha portati via» («Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 41). In molti casi le lezioni vengono riservate ai soli iscritti al corso, e il docente impone agli studenti di mostrare il tesserino universitario. Per parte loro gli studenti contestano la legittimità del provvedimento, appellandosi al carattere «pubblico» della lezione universitaria — carattere che sarà peraltro affermato dalla magistratura quando incriminerà gli studenti per interruzione di «pubblico servizio». 96 «Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino», cit., p. 40; corsivo mio. 37 Ibid., p. 41; corsivo mio.

98 Significativo il commento di Diego Marconi, allora membro del Comitato di agitazione: «Queste cose che si dicevano e si facevano contro i professori di solito non facevano ridere affatto. Erano forme di aggressione verbale e grafica da parte di gente che di senso dell’umorismo ne aveva ben poco» (L. Passerini, Autoritratto, cit., p. 111). «Tuttavia la ri-

presa di quel tono beffardo — commenta Passerini — è indicativa, proprio per la sua scioccaggine, per la risata un po’ grezza. Ripropone in pubblico gli scherzi di bassa lega che gli studenti han sempre fatto a proposito dei loro professori, le battute sussurrate, i bigliettini passati da un banco all’altro. Quel riso, proprio perché elementare, azzera, livella, riporta al punto di partenza. Patrimonio di generazioni di studenti frustrati, ne mantiene la risatina e il divertimento, infantili e per questo pungenti, irritanti, capaci di infastidire davvero i professori. // passaggio alla sfera pubblica, attraverso la parola scritta e orale, instaura un senso di liberazione, di alleviamento, di potenza» (ibid.; corsivo mio). Nello stesso contesto si ve-

da la testimonianza di Laura Derossi: «I professori democratici l’hanno vissuto in modo traumatico, arrivando addirittura a dire cose molto pesanti, cioè: queste cose le facevano i fascisti, questo è l’intervento della politica nella cultura, classico del sistema fascista. Perché effettivamente c’era molta violenza, noi c’eravamo scatenati» (ibid., p. 112).

99 Ibid. 100 Bobbio fu assalito da un gruppo di carabinieri e trascinato fuori dall’aula in cui si teneva una lezione, perché aveva affermato che non si può far lezione in un’università trasformata in caserma. 101 Riprodotto nel primo numero del «giornalino» dell’agitazione, intestato «Palazzo Campana. Lunedì 22 Gennaio, a cura di un gruppo di lavoro del Comitato di Agitazione». «Non possiamo permetterci — aveva aggiunto Viale — di fermarci nella nostra lotta. Se noi fermiamo la lotta per un solo momento, in quel momento ricadiamo sotto il potere autoritario delle strutture accademiche: si impadroniranno di noi e ci impediranno nuovamente

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Marco Revelli di muoverci. Possiamo spezzare queste strutture: non abbiamo nessuna intenzione di la- * sciarle ricrescere». Il «giornalino» si proponeva di divenire organo permanente di informazione democratica e di organizzazione. «Tutti gli studenti devono prendere posizione di fronte ai problemi della lotta in corso — si affermava in una sorta di editoriale programmatico —. Per questo è necessario che tutti abbiano gli strumenti di informazione per esprimere un giudizio. Questo è il primo “giornale dell’agitazione”, cui seguiranno altri. Esso contiene: citazioni da interventi di studenti nel dibattito di sabato 20, che rappresentano

un utile compendio delle posizioni politiche dell’agitazione. L'anti-Stampa: ovvero cosa La Stampa avrebbe dovuto scrivere sul dibattito di sabato. Attività del movimento studentesco». Questa struttura del giornale, diretta ad assicurare la massima trasparenza di ogni attività e decisione e a polemizzare con La Stampa, assumerà carattere fisso. 102 p Ortoleva, Introduzione, cit., p. 238. 103 Documento

senza

intestazione

e senza data, probabilmente

steso da Vittorio

Rieser, figura divenuta sempre più centrale nella definizione della linea a partire da questa fase dell’agitazione, e propugnatore della proiezione del movimento verso l’esterno dell’università (Archivio Fondazione Vera Nocentini).

104 Va questo proposito l’analisi di P. Ortoleva, Saggio, cit., e in particolare il capitolo «Più a sinistra», in cui la volontà contraddittoria di prolungare nel tempo — rendere permanente — l’«esaltazione dell’istante», la carica liberatoria dell’azione immediata e diretta, è indicato come uno dei caratteri strutturali del 68.

105 Documento del compagno Vittorio Rieser dell’ Università di Torino, senza indicazione di data. 1061] documento portava le firme di Nicola Negri, Giancarlo Jocteau, Sergio Piazza, Diego Marconi, Giorgio Bertoldi, Marco Bertinetto, Giuliano Nozzoli, Federico Careja, Federico Beck Peccoz, Betty Benenati, Ettore Altea, Maurizio Vaudagna, Roberto

Weigmann, Michelguglielmo Torri. Uno schieramento che tagliava orizzontalmente le vecchie formazioni studentesche, contenendo nomi tanto di ex esponenti dell’Ugi che dei

Goliardi indipendenti, che dell’Intesa, frammisti a nomi di studenti che non avevano fatto parte di nessun gruppo goliardico, a dimostrazione di quale rimescolamento di carte aveva determinato l’agitazione.

107 N 21 febbraio il Senato accademico aveva approvato la seguente delibera: «Premesso che gli studenti hanno ufficialmente dichiarato che si impegnano, a partire da oggi, a non disturbare in alcun modo, stante quanto segue, l’attività didattica delle facoltà umanistiche, e preso atto delle dichiarazioni del preside della facoltà di Lettere e filosofia che alle suddette condizioni esami e lezioni della facoltà riprendano regolarmente, il Senato accademico decide all’unanimità: 1. che si addivenga sollecitamente alla formazione di una commissione composta di tre professori di ruolo, di tre assistenti ordinari e di tre studenti per ciascuna delle facoltà di Giurisprudenza, Lettere e filosofia e Magistero, coll’incarico di studiare e di proporre agli organi competenti un rinnovamento attraverso sostanziali integrazioni e, ove possibile, trasformazioni, delle attuali forme didattiche. 2. Al fine di accelerare e agevolare il lavoro della commissione, il Senato accademico deli-

bera di sospendere le lezioni nella settimana tra il 3 e il 10 marzo nelle suddette facoltà». La delegazione degli studenti in agitazione aveva «preso atto della deliberazione del Senato accademico in merito alla ripresa degli esami e delle lezioni nella facoltà di Lettere e filosofia [la cui sospensione era stata oggetto di una lunga diatriba tra studenti e autorità accademiche], e alla sospensione delle lezioni nella settimana dal 3 al 10»; aveva

dichiarato che «eventuali lezioni non saranno disturbate a partire da oggi», precisando tuttavia che «nel caso che le trattative nel corso della settimana suddetta non diano alcun esito, gli studenti riprenderanno la loro libertà d’azione»; e aveva sottoposto la questione alla discussione dell’assemblea generale, convocata per il pomeriggio alle ore 16. Un’assemblea affollata (oltre 500 persone) e vivacissima (durò oltre 4 ore) in cui si affrontarono

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le posizioni di chi subordinava comunque le condizioni della trattativa all’obiettivo primario di affermare autonomia e continuità del movimento, e riteneva che solo il manteni-

mento della libertà d’azione e della lotta aperta potessero garantire l’esistenza stessa del movimento («Dobbiamo avere chiaro fin d’ora che la nostra lotta continuerà qualunque sia l’esito delle trattative, perché solo un movimento studentesco forte e organizzato può garantire che gli studenti non debbano mai più tornare nella condizione di senza potere all’interno dell’università»), e chi riteneva invece che solo un buon esito della trattativa avrebbe potuto costituire il terreno per il rilancio e la permanenza dell’azione studentesca («L'accordo di oggi rappresenta una grossa vittoria, anche e soprattutto perché garantisce agli studenti di dare gli esami, e elimina un grosso ostacolo per il movimento studentesco»): mentre i primi s’irrigidivano sulle condizioni poste per l’inizio stesso della trattativa, in particolare sulla «pubblicità» («la pubblicità della trattativa significa una partecipazione continua di tutto il movimento, e una sua possibilità di intervenire in ogni momento e di controllare l’operato dei suoi rappresentanti»), e sulla composizione della delegazione («La revocabilità dei nostri delegati e il rifiuto di una rappresentanza “per facoltà” rientrano nel diritto della nostra assemblea a decidere autonomamente le modalità di scelta dei nostri rappresentanti: e corrispondono anche all’esigenza di evitare una deformazione “tecnica” della trattativa»), i secondi ritenevano che «esse non devono essere rigide: nel caso di una loro non completa accettazione, non per questo l’accordo salta». L'assemblea si era comunque conclusa — a conferma della relativa reticenza di entrambe le componenti a confrontarsi a fondo — con l’approvazione di una mozione comune, che così recitava: «L'assemblea degli studenti approva l'accordo raggiunto oggi col Senato accademico, con le seguenti precisazioni: 1) che sia esclusa una delegazione autonoma degli assistenti, e che la commissione sia formata esclusivamente dai delegati delle due parti in conflitto, autorità accademiche e assemblea; 2) che le riunioni della commissione siano pubbliche,

nel senso che tutti abbiano diritto di assistervi senza diritto di parola e che i verbali siano pubblicati subito dopo. Infine l'assemblea si riserva di revocare i propri membri in qualunque momento. L'assemblea deciderà autonomamente quale dovrà essere la ripartizione per facoltà della sua delegazione» («giornalino» del 22 feb. 1967). 108 ]1 27 febbraio il Senato accademico aveva risposto con una posizione negativa su tutta la linea: no a trattative pubbliche e alla pubblicazione dei verbali; rifiuto di riconoscere rappresentanti eletti dall’assemblea generale, e richiesta che questi fossero delegati da assemblee delle singole facoltà; rifiuto della revocabilità dei rappresentanti degli studenti ( «imponendo il criterio della rappresentatività rispetto a quello della non-delega», commenteranno gli studenti); richiesta che gli assistenti partecipino alla trattativa come categoria. La risposta degli studenti è un’immediata radicalizzazione: «1. Le trattative — scriverà il “giornalino” — non esauriscono assolutamente i compiti del movimento studentesco. Oltre alla contestazione del potere accademico abbiamo altri compiti politici ben più importanti da portare avanti (politicizzazione degli studenti, battaglia per il diritto allo studio, contestazione dell’autoritarismo nella società, etc.). 2. Le trattative si fanno se ci

offrono qualche garanzia di sottrarre ai docenti alcuni degli strumenti attraverso cui si esercita il controllo politico sugli studenti (come per esempio l’abolizione degli esami), cosa che si può fare solo contrapponendosi come forza politica organizzata al corpo docente, e non andando a discutere con essi su problemi tecnicistici in posizione di debolezza o addirittura in uno spirito di collaborazione» («Cerchiamo di dare una valutazione politica degli atteggiamenti delle autorità accademiche», 28 feb. 1967). Come si vede, la chiusura totale dell’autorità accademica ha finito per sottrarre terreno alla posizione più radicale, ormai proiettata decisamente verso l’esterno: «Ormai non siamo più soli — termina l’articolo del “giornalino” —: la nostra battaglia è la stessa di quella di migliaia di studenti in tutta Italia. Se le autorità accademiche hanno dietro le spalle la volontà conservatrice del governo e la forza della polizia, noi abbiamo dietro di noi la forza di un movimento politico che comincia adesso a muovere i primi passi» (ibid). La «comunità» di Palazzo Campana esplode. Inizia una nuova fase di «nazionalizzazione» del movimento.

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febbraio è ben messo in Her Tal Bobbio, verso la fine di febbraio — scrive Bobbio —mentre es

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sgombero, iinvece di aspettarla pazientemente per farci portare via di peso. io avevamo

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portone d’ingresso e lungo lo scalone, trascinando giù un numero impressionante di mobili, cattedre, banchi e armadi e fissandoli gli uni agli altri con chiodi e fil di ferro. Quando la polizia entrò in piena notte, facendosi largo faticosamente tra quegli ostacoli, e portò via l’esiguo numero di studenti che erano rimasti lì a “rappresentare” il movimento, il vecchio palazzo sembrava un campo di battaglia (senza che ci fosse stata alcuna battaglia), con aule svuotate e vetri rotti. La cosa si risolse con una nottata passata in questura e un articolo sulla Stampa (con tanto di foto) sul vandalismo degli studenti. Ma quella furia insensata contro le cose mostrava che qualche sicurezza si stava ormai incrinando», (L. Bobbio, «Prima di Lotta Continua. Da Palazzo Campana il salto nella società senza centro», il manifesto, 26 ott. 1988, supplemento: «1968. Dal movimento ai gruppi», p. 19). 110 Significativo il testo dell’editoriale del «giornalino» del 29 febbraio, intitolato . «Nelle università italiane si è aperto un vuoto di potere dobbiamo occuparlo noi!», vero e proprio De profundis elevato alla figura sacrale del docente universitario, dissolta dalla meccanizzazione dell'università massificata: «Fino a 50 anni fa — si diceva — il professore era una persona che godeva di largo consenso scientifico, la cui funzione autoritaria e oppressiva era mascherata da un benevolo paternalismo. La cultura che i professori producevano aveva una funzione conservatrice, ma rispondente alle esigenze della società. Dalle università nascevano e si propagavano le grandi correnti di pensiero, le scuole filosofiche... Ma poi è venuta l’università di massa. L’autoritarismo è diventato più brutale e più esplicito. Il professore ha dovuto gettare la maschera paternalistica e si è mostrato a tutti come gestore burocratico di una cultura mummificata. Le lezioni sono diventate dei comizi, gli esami una catena di montaggio. L’autoritarismo che prima aveva una precisa funzione sociale è diventato sempre più gratuito e brutale. Il divario tra cultura accademica e realtà si è andato sempre più allargando».

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IL MOVIMENTO STUDENTESCO DI MILANO di Robert Lumley

Invece di cercare di dare un quadro generale del movimento studentesco di Milano nel 1968, vorrei concentrarmi su un caso particolare: cioè il movimento studentesco dell’Università Cattolica. Avrei voluto parlare anche del movimento delle scuole medie superiori che a Milano ha avuto maggior seguito che in altre città, oltre ad essere stato il primo, ma per ragioni di tempo punterò l’attenzione sul movimento studentesco dell’Università Cattolica, nella speranza che questo mi permetta di far luce su alcuni aspetti caratteristici del movimento studentesco di Milano. I motivi di questa scelta sono semplici: l’occupazione della Cattolica del novembre 1967 è considerata in genere l’antesignana di quell’ondata di occupazioni studentesche che ha investito l’Italia nei primi mesi del ’68. È vero che il movimento dell’Università Statale si pose presto a guida di tutto il movimento all’interno della città nel periodo culminante della rivolta, ma sotto molti punti di vista è meno interessante. Il movimento della Cattolica ebbe un’importanza veramente nazionale a causa del rapporto speciale esistente tra l’Università, la Chiesa e la Democrazia cristiana. Il suo carattere nazionale derivava anche dal fatto che gli studenti della Cattolica provenivano da ogni parte d’Italia, in contrasto con la Statale i cui studenti invece provenivano per lo più dalle città lombarde. Inoltre nell’anno accademico 1966-67 erano iscritti all’Università Cattolica circa 14.000 studenti, in confronto ai 9.300 della Statale, i 5.800 del Politecnico e i 5.000 della Bocconi. Ma l’aspetto più interessante del movimento studentesco della Cattolica, aspetto che è stato spesso trascurato, sta nel fatto che, essen-

do la prima grande mobilitazione studentesca, esso passò attraverso vari stadi di evoluzione che in gran parte furono saltati in altre università in cui esisteva una forte tradizione di sinistra. Gli studenti della 267

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. Roberto Lumley

Cattolica avevano avuto poca esperienza politica. Di conseguenza la loro iniziazione a una politica di massa presenta una certa ingenuità e questa ingenuità del primo periodo del movimento non è stata generalmente presa in considerazione. Di conseguenza voglio concentrarmi sul periodo iniziale dei movimenti milanesi piuttosto che sullo sviluppo che ebbero in seguito. E infatti mi soffermerò sul ’67, piuttosto che sul ’68. Comunque, prima di esaminare il movimento studentesco bisogna ricordare che potrebbe essere utile fare qualche breve osservazione sulla città in cui si sviluppò. Un libro scritto dal geografo francese Dalmasso, pubblicato nel 1971 porta il titolo Milan: capital économique d'Italie, e questo titolo incapsula l’importanza di Milano. Sul piano economico Milano era il centro più importante d’Italia alla fine degli anni sessanta; aveva un vasto settore industriale, il 40% del

quale formato da industrie meccaniche, comprese quelle automobilistiche con 32.000 dipendenti. A differenza di Torino, però, il settore non era dominato da un’unica azienda, e prevalevano invece le industrie di media dimensione. Inoltre stava crescendo il terziario, e Milano era la sede principale di molte banche e multinazionali. Di conseguenza se da una parte esisteva una grande classe operaia, dall’altra la composizione sociale della città era mista e complessa. Anche sul piano culturale Milano predominava, soprattutto con la presenza di case editrici di grande rilievo come

Rizzoli, Mondadori,

Feltrinelli e Garzanti, e di quotidiani come // Corriere della Sera e Il Giorno. La Rai aveva la sua sede in corso Sempione ed Ettore Sottsass aveva creato il suo centro di design Memphis. Sul piano politico il comune di Milano aveva una giunta di centro-sinistra con un sindaco socialista, Aldo Aniasi. C’era una forte presenza del partito comunista e della Cgil, ma anche, almeno dalla metà degli anni sessanta, di un sindacalismo cattolico sempre più indipendente e battagliero costituito dalle Acli e dai metalmeccanici della Fim. In questo periodo la città di Milano era la quintessenza del miracolo economico simboleggiato dal grattacielo Pirelli di Giò Ponti: una città cosmopolita, sicura di sé e ottimista. Ma subiva anche le conseguenze

del suo sviluppo rapido e disordinato, come la carenza di alloggi, il problema degli immigrati, e i rapporti industriali caratterizzati dal dispotismo dei capireparto, nonostante le dichiarazioni progressiste dei dirigenti della Pirelli. Questo è pertanto l’ambiente di cui facevano parte le varie scuole e le università e che sulle scuole e le università influiva, anche se non direttamente. Alla fine degli anni sessanta era un ambiente che, sotto mol-

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Il movimento studentesco di Milano

ti aspetti, allargava le possibilità a disposizione di movimenti sociali come quello studentesco. In primo luogo i movimenti milanesi si sentivano importanti e si consideravano al centro dell’attenzione nazionale. Si trattava di una specie di patriottismo milanese che sarebbe stato benvisto da Carlo Cattaneo. In secondo luogo il movimento studentesco operò sempre in un contesto in cui una politica di opposizione voleva dire una politica di sinistra e della classe operaia organizzata. In terzo luogo la presenza dei mass media, specialmente quella del Corriere, servì a rendere il movimento ben conscio dell’importanza dei mezzi di comunicazione di massa. Se da un lato questo significava nemici contro cui combattere, dall’altro forniva un’area di consenso specialmente da parte degli editori di sinistra e dei giornalisti di libero pensiero. In quarto luogo il vantaggio che Milano aveva nel possedere così tanti centri d’istruzione creò un campo d’azione in cui i protagonisti potevano passare da un centro all’altro. Per esempio gli studenti espulsi dalla Cattolica potevano iscriversi alla Statale, e in aggiunta Milano divenne la meta verso la quale si sarebbe diretta in seguito la migrazione politica proveniente da altri centri minori, come l’Università di Trento. Dopo questa digressione torniamo ora al nostro caso: il movimento studentesco della Cattolica. Alla Cattolica la contestazione studentesca si incentrò sulla questione dell’aumento delle tasse di oltre il 50% stabilito dal consiglio d’amministrazione. Questo provvedimento se fosse stato messo in pratica, l’avrebbe resa l’università più cara di tutta Italia. Tuttavia la protesta non era rivolta contro l’aumento per le conseguenze pratiche che esso avrebbe avuto per la maggioranza degli studenti. La controversia assunse invece grande importanza perché sollevava questioni di principio di più ampia portata sul diritto allo studio e sullo stesso processo decisionale. La reazione degli studenti fu una reazione di indignazione morale per l’ingiustizia, indignazione nel senso inteso da Barrington Moore nel suo libro intitolato /njustice. Ad infiammare gli animi degli studenti non erano le conseguenze economiche su di loro e sulle loro famiglie, dato che essi provenivano in gran parte dalla borghesia media o medio-inferiore, ma soprattutto le conseguenze che tale aumento avrebbe avuto sugli elementi più disagiati della comunità. Occorre tuttavia esaminare con attenzione il modo in cui questo senso di indignazione riuscì ad esprimersi chiaramente e a spingere

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Roberto Lumley

duemila studenti ad agire. Ben presto, con l’allargarsi della contestazione, la prontezza ad agire sarebbe stata data per scontata, ma, dato

l’ambiente relativamente apolitico della Cattolica nel 1967, questo richiede una spiegazione dettagliata. Nelle prime fasi della mobilitazione un’indicazione chiave per poter comprendere la forma che il movimento assunse viene fornita dall’atteggiamento delle autorità. Si potrebbe sostenere che se le autorità si fossero comportate in modo differente forse il movimento alla Cattolica non si sarebbe mai realizzato, e la stessa cosa vale per altre situazioni verificatesi nel 1967. Invece le disparità, le incoerenze e le contraddizioni tra le dichiarazioni ufficiali e gli ideali della Cattolica da una parte, e il comportamento effettivo delle autorità dall’altra, fornirono il quadro di riferimento della protesta iniziale. Gli studenti non avevano a disposizione delle ideologie di opposizione coerenti su cui basarsi, e infatti col crescere del movimento, essi si rivolsero ai leader studenteschi di altri istituti, come per esempio quelli della facoltà di Architettura del Politecnico, che avevano già alle spalle una certa espe-

rienza di contestazione. Si rendevano conto, tuttavia, che la Cattolica aveva mancato di tener fede alle sue promesse, alla sua missione, tra

cui l’impegno a realizzare la giustizia sociale e ad aiutare i poveri. Interpretarono le belle parole alla lettera, invece di considerarle abbellimenti retorici. Il consiglio d’amministrazione venne accusato di fariseismo. Aumentando le tasse la Cattolica sembrava andare contro l’idea che

l’istruzione fosse un diritto universale, in quanto discriminava, in pratica, quelli che non potevano permettersele. Per di più la decisione di mettere a disposizione un maggior numero di borse di studio, invece di costituire un’attenuante, aggravò il problema: dare borse di studio era come dare l’elemosina e ammettere l’esistenza di un trattamento discriminatorio che essi a parole negavano. Grande importanza assunse anche il modo in cui fu annunciata la decisione di aumentare le tasse, cioè come un fait accompli: un provvedimento che era stato preso senza la minima consultazione con gli studenti stessi e senza previa discussione pubblica dei suoi risvolti che interessavano vari settori del mondo cattolico. In poche parole ci troviamo davanti a un consiglio d’amministrazione il quale, trovandosi in ristrettezze finanziarie dovute a un’eccessiva larghezza nella spesa e a una diminuzione dei contributi da parte dei fedeli, prende dei provvedimenti drastici senza nemmeno cercare di spiegare prima la situazione. Quando poi si trovarono a dover fronteggiare l’occupazione dell’università che contestava le autorità e a dare l’avvio a quel dibatti270

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Il movimento studentesco di Milano

to che avevano voluto evitare di fare, la reazione del consiglio d’amministrazione e del rettore Franceschini fu quella di far intervenire i carabinieri. Gli studenti si sentirono di nuovo indignati, questa volta perché a una protesta pacifica e democratica si era ritenuto opportuno rispondere con la forza. Per di più il ricorso alle forze dell’ordine era in contraddizione con il principio dell’autonomia universitaria, autonomia particolarmente importante nel caso della Cattolica dal momento che non era un'università statale. Questa era la prima volta che i carabinieri erano chiamati a intervenire alla Cattolica. Lo scontro fu caratterizzato da una certa ingenuità da ambo le parti: il rettore Franceschini oscillava tra provvedimenti di natura autoritaria e concessioni agli studenti. Da una parte l’intervento dei carabinieri, la

sospensione degli studenti dalle sessioni d’esame, la minaccia di chiudere i corsi serali, la censura di Dialoghi, il giornale studentesco, e, alla

fine, l'espulsione degli studenti dall’università; dall’altra l'accettazione del principio della pubblicazione dei bilanci, l’istituzione di una commissione paritetica, il ritiro dei provvedimenti disciplinari. Era chiaro che non era abituato a considerare il dibattito pubblico e il conflitto aperto come una cosa salutare e positiva, ma allo stesso tempo gli mancava la coerenza e l’intransingenza di un vero reazionario. Pertanto il comportamento ambiguo del rettore intensificò l’impressione di contraddizioni e disparità che erano di natura più strutturale, e cioè il divario tra la promessa egualitaria insita allora nell’idea stessa dell’istruzione (vista come un diritto e un mezzo per superare le ineguaglianze sociali) e la pratica completamente discriminatoria che gli istituti preposti all’istruzione esercitavano in realtà. Gli studenti, da parte loro, erano trascinati dal clima morale e culturale di un mondo cattolico che era in fermento dopo il Concilio Vaticano II e «le cui maggiori novità erano il pluralismo e l’apertura verso altre forze sociali e ideologiche, l’identificazione con la povertà e la liberazione, e l’abbandono del latino nella liturgia» (Allum). Predominava l’idealismo, piuttosto che il realismo. Era un periodo in cui c’erano

studenti della Cattolica che passavano le vacanze a lavorare per aiutare i poveri del Mezzogiorno, e in cui i missionari di ritorno dall’ America latina diffondevano in Italia la teologia della liberazione. Un’analisi dei manifestini e delle pubblicazioni relative al periodo iniziale del movimento mette in luce un lessico e un sistema di riferimento imbevuti di pensiero cattolico. Allo stesso tempo è possibile individuare una certa evoluzione verso un maggior uso del linguaggio politico della sinistra. L’inglese presenta una distinzione molto utile a questo proposito, cioè la distinzione tra conscience, coscienza intesa in senso etico e consciou-

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Roberto Lumley

sness, coscienza intesa in senso politico. Nel caso del movimento studentesco della Cattolica prima venne la coscienza etica, che poi lasciò un’impronta sullo sviluppo della coscienza politica. Agli inizi, soprattutto, si nota un continuo appello ai migliori sentimenti morali delle autorità, e le azioni (resistenza passiva e sciopero della fame) si propone-

vano di far vergognare coloro che usavano la forza e di allargare al massimo l’area del consenso. Una delle prime manifestazioni a cui parteciparono più di mille persone ebbe come meta l’arcivescovado. Il movimento studentesco della Cattolica aveva un carattere peculiare, ma allo stesso tempo fece parte di un fenomeno di maggiori proporzioni. Vorrei ora cercare di individuare che cosa lo rendeva particolare e che cosa lo rendeva parte di qualcosa di più grande. La sua particolarità gli veniva dalla natura e dalle tradizioni dell’Università: un istituto cattolico creato per formare un’élite, da cui erano usciti Fanfani e altre figure democristiane politiche e non politiche di primo piano; un ente che sentiva le ripercussioni degli eventi e dei processi politici, come le faide interne della Democrazia cristiana e gli scandali che investivano il governo di questo partito. Il movimento studentesco era un’arena in cui il dibattito era sotto molti aspetti una continuazione dei dibattiti che si svolgevano all’interno del mondo cattolico (sulla necessità di discutere, su questioni teologiche, ecc.), tanto che, quando a un’assemblea generale nel marzo

1969 fu sollevata la

questione della violenza, questa venne giustificata facendo ricorso al Vangelo. La richiesta di indipendenza dell’Università sia dall’interferenza del Vaticano che del governo era all’unisono con simili richieste di autonomia da parte del sindacato cattolico. Anche il rifiuto di permettere che studenti estranei alla Cattolica partecipassero alle riunioni era un segno di spirito di corpo e di voler tenere le distanze dalla politica studentesca dominante del 1968. Dal punto di vista del suo carattere generale, ci sono due considerazioni che vale la pena di fare. In primo luogo l’indignazione morale per l’aumento delle tasse alla Cattolica corrispondeva all’opposizione del movimento studentesco in generale alla legge Gui, soprattutto all’articolo che proponeva il numero chiuso. Una questione di principio, il diritto allo studio, e il rifiuto di accettare qualsiasi operazione discriminatoria all’interno del sistema educativo erano i temi in comune. È pure pertinente ricordare a questo punto che la denuncia del criterio classista delle scuole italiane che ebbe maggior risonanza fu quella di un prete cattolico, cioè don Milani. In secondo luogo il movimento della

Cattolica fu realmente nelle sue fasi iniziali un movimento della maggioranza degli studenti. L'assemblea generale fu l’espressione di que-

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Il movimento studentesco di Milano

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sto grande desiderio di partecipazione e il primo passo verso un ripensamento dell’idea stessa di democrazia. La mobilitazione generale della Cattolica, le forme democratiche che essa generò e l’indignazione che espresse contro l’ingiustizia le diedero una risonanza nazionale che andò molto al di là dei confini del mondo cattolico. Il fatto che la protesta giungesse così inaspettata rese più forte l’impatto. In termini di dimensioni non era molto notevole, vista in un contesto dominato dalla guerra in Vietnam, ma indicava tut-

tavia che le nuove idee erano penetrate perfino in istituzioni e settori della società italiana che erano associati al tradizionalismo e a una struttura gerarchica. Tuttavia il movimento della Cattolica non è soltanto interessante per i suoi inizi gloriosi. Si tratta anche di un movimento che fu decisamente sconfitto nei due anni che seguirono, e la sua sconfitta è istruttiva. La crisi del movimento, e questo vale in senso generale, può essere spiegata in termini di due sviluppi collegati tra loro: per prima cosa la spirale di violenza che si sviluppò dagli scontri tra i carabinieri e gli studenti; come seconda cosa la frattura all’interno del gruppo tra attivisti (la cosiddetta «avanguardia») e la maggioranza degli studenti. Si parla spesso della battaglia di Valle Giulia come del momento di maggior rilievo nella storia del movimento studentesco visto nella sua interezza, ma secondo un’analisi alternativa lo si potrebbe considerare un

disastro. Se si prende in considerazione lo scontro di largo Gemelli nel marzo del ’68, si vede che esso rappresenta una continuazione logica del processo iniziato a Valle Giulia cinque giorni prima. In largo Gemelli gli studenti della Cattolica affrontarono le forze dell’ordine che occupavano l’università. Come risultato furono picchiati a sangue dai carabinieri che erano decisi a vendicare i fatti di Roma. Ma prima di arrivare a questo punto una minoranza di studenti provocò apertamente i carabinieri (Capanna dichiarò: «Vi diamo cinque minuti per sgomberare») e sollecitò lo scontro, vedendo in esso un mezzo per svegliare le coscienze. Ma invece di far crescere il livello di partecipazione degli studenti, con la politicizzazione forzata del movimento, che ora dichiarava guerra allo Stato, si era entrati in un vicolo cieco e la maggioranza degli studenti, sia alla Cattolica che altrove, non seguì i capi su questa via. Pertanto quando le autorità esercitarono la repressione, questa raggiunse il suo scopo. Lo raggiunse o perché annientò il movimento (e con esso ogni segno di opposizione e dissenso), come successe all’Università Cattolica in cui circa sessanta studenti furono espulsi in un periodo di due anni, oppure perché la repressione produsse una politica studentesca difensiva e negativa.

273

Roberto Lumley

Per concludere: il movimento studentesco sorse nel 1966-67 nella profonda convinzione che si potesse migliorare la società per mezzo dell’istruzione. Si trattava di aprire le porte degli istituti di istruzione, di metterli in rapporto più stretto con la società civile e di spezzare i lacci che li tenevano legati alle istituzioni dominanti, sia che si trattasse

del Vaticano, o dello Stato e dei partiti politici. Il movimento fu caratterizzato inizialmente da una partecipazione di massa e da metodi e obiettivi democratici — da un profondo spirito di riforma. Nella primavera del ’68 il movimento considerava ormai le università e le scuole come una propaggine dello Stato e pertanto dovevano essere sovvertite. Solo cambiando la società si potevano cambiare le scuole. Una grossa e rara opportunità di effettuare grandi riforme andò perduta. Questa possibilità è evidente agli inizi del movimento quando, per lo meno nel contesto di Milano, la mobilitazione dell’opinione pubblica portò all’isolamento e al discredito delle forze reazionarie e repressive. Non basta pertanto spiegare il fallimento in termini di intransigenza del governo, di repressione attuata dalle forze dell’ordine, di ambivalenza del partito comunista, del piccolo numero di insegnanti progressisti ecc., come

spesso si fa. Tutti questi furono senz’altro dei fattori

importanti, ma divennero fattori decisivi nella misura in cui il movimento studentesco permise che lo diventassero: respingendo le riforme che sapevano di «riformismo» e osteggiando il partito comunista si impedì ogni possibilità di interazione tra il movimento stesso e i suoi interlocutori parlamentari; sottoponendo il processo educativo a richieste strettamente politiche, il movimento si alienò dei settori di consenso tra gli insegnanti; e infine, sfidando i carabinieri sul loro campo, cioè con lo scontro fisico, il movimento abbandonò la sua posizione di forza morale, perse il sostegno dell’opinione pubblica e imboccò una spirale che non poteva sperare di controllare. La cosiddetta «avanguardia», la leadership politica, ebbe un ruolo cruciale in questo processo. Il 1968 è spesso considerato il momento più bello della nuova sinistra, ma rappresentò anche la sua occasione perduta.

274

NOTE STORICHE SUGLI STUDENTI ESTREMISTI E SULLE AGITAZIONI NELL'UNIVERSITÀ PISANA (1966-1975) di Michele Battini

1. La dimensione complessa e pluralistica del movimento studentesco pisano è iscritta innanzitutto negli eventi. Nel biennio 1967-68 ma anche negli anni successivi, almeno sino al biennio 1975-76, si verificarono azioni collettive degli studenti caratterizzate da un semplice conflitto interno al sistema universitario e all’organizzazione sociale, ma anche movimenti proiettati oltre il limite dello scontro di interessi tra gruppi studenteschi, docenti e direzione amministrativa universitaria. Dalla vicenda degli eventi pisani emerge un intreccio non facilmente schematizzabile di azioni e di movimenti differenziati: lotte di pressione per migliorare condizioni di studio e di vita; azioni di influenza volte a condizionare i processi decisionali nei centri di direzione dell’università oppure volte a creare correnti di opinione pubblica favorevole agli studenti in agitazione o in lotta; rivendicazioni generali per un equilibrio nuovo dei meccanismi di funzionamento del sistema universitario; infine veri e propri tentativi di agganciare l’azione studentesca ai conflitti esterni all’università, alle lotte per l’approvazione e il controllo della produzione sociale, anche al di fuori dello schema consueto dell’opposizione normativamente regolata tra sindacati e imprenditori. Lo sviluppo di una pluralità complessa di movimenti è documentato dalle cronologie degli eventi che ho ricostruito attraverso gli archivi dei giornali locali, e da alcune raccolte di cronache e documentazione fotografica elaborate oltre un decennio dopo da giornalisti e fotografi attivi all’epoca. Più in particolare, il grande rilievo che ebbero le iniziative di repressione delle agitazioni da parte degli organi di polizia, della magistratura e, soprattutto, della procura generale di Firenze, è documentato dai fascicoli processuali giacenti negli studi professionali degli avvocati più attivi nella difesa legale degli studenti.

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2. Un primo ciclo delle agitazioni si può far iniziare nel novembre 1963, con l'occupazione della facoltà di Chimica contro l'aumento delle tasse scolastiche e per l’introduzione di rappresentanti studenteschi nel consiglio di facoltà. Un’agitazione analoga si produsse contemporaneamente dentro la Scuola Normale Superiore e la facoltà di Medicina. Le risposte del Senato accademico furono da subito assolutamente negative circa la possibilità di partecipazione degli studenti ai consigli di facoltà e agli organismi di governo delle facoltà. Successivamente, nel gennaio 1964, iniziarono a muoversi gli studenti delle facoltà di Lingue e di Economia. Nel febbraio dello stesso 1964, il parlamento degli studenti, l’Oriup, decretò l'occupazione del Palazzo della Sapie-

nza con gli obiettivi: a) dell’inserimento dei rappresentanti studenteschi nel consiglio di amministrazione dell’Università; 6) della formazione di commissioni paritetiche per l’organizzazione della didattica e dei corsi di studi; c) della pubblicità dei bilanci di gestione degli istituti.

Apparve in questa occasione la prima reazione repressiva delle autorità accademiche con la sospensione degli studenti dagli esami. E, nel contempo, si sviluppò per la prima volta il ciclo parallelo delle solidarietà orizzontale e verticale, la prima attraverso l’Unuri, il parlamento

nazionale degli atenei (in cui le principali sedi universitarie solidarizzarono con Pisa), la seconda attraverso le associazioni di professori incaricati e di assistenti (Anpur e Unau).

Mi sembra che il dato sociale più importante sia che, nell’occupa-

zione della Sapienza nel 1964 e nei modi in cui essa terminò, si espresse per la prima volta il dualismo tra l'assemblea e l’alleanza tra le componenti politiche studentesche tradizionali che esprimeva l’organismo di governo del parlamento studentesco, la cosiddetta giunta Oriup, a maggioranza Intesa (l’associazione cattolica) e Ugi (laici, socialisti e comunisti). A Pisa il dualismo tra rappresentanza parlamentare tradizionale e autorappresentanza assembleare tese a radicalizzarsi, anche in ragione della propensione delle giunte Oriup a mediare tra le linee della politica universitaria dei governi di centro-sinistra e le proposte riformatrici dei comunisti. Nel 1965 infatti questa maggioranza Ugi-Intesa vide assottigliarsi i propri margini di manovra in ragione della nascita dei consensi alle liste dell’Agi, l'associazione liberaldemocratica, e all’estrema destra universitaria. Fu infatti nell’aprile 1965 che un’assemblea di ateneo proclamò la seconda occupazione della Sapienza, orientata verso un obiettivo generale: il piano di riforma Gui.

276

Studenti estremisti e agitazioni nell’università pisana

3. Il piano di riforma del sistema universitario promosso da Luigi Gui (disegno di legge n. 2314) razionalizzava una tendenza già chiara dal 1958. Nel clima di gestazione culturale delle nuove esperienze governative che saranno caratterizzate, nei successivi decenni di storia repubblicana, dalla collaborazione tra i partiti politici cattolici repubblicani e socialisti, la politica scolastica subisce un’inversione rispetto al

tradizionale asse democristiano di privilegiamento della scuola privata, orientandosi — grazie agli interventi di pedagogisti come Pedrazzi, Gozzer, Codignola, Borghi — verso una nuova funzionalità della scuola pubblica alla domanda di nuovi quadri tecnici e di una nuova struttura professionale da parte dell’industria in espansione. L'obiettivo del piano Gui era quello di «pianificare» gli interventi di ricerca, didattica, edilizia e programmazione in ambito universitario e in accordo con le linee programmatiche in ambito educativo generale (con particolare riguardo all’istruzione professionale), in funzione della dinamica evolutiva del lavoro qualificato studiata da Antonio Giolitti e poi riproposta nel piano Pieraccini, secondo la quale si prevedeva, per il periodo 1962-76, la necessità di triplicare l’offerta di laureati. Il piano, prima di incontrare l’opposizione studentesca, registrò nel corso del proprio iter parlamentare, quelle ostilità corporative che ne avrebbero determinato il fallimento: soprattutto ostilità — provenienti dai settori conservatori democristiani e dalle corporazioni accademiche capeggiate da Valitutti — alla tripartizione dei titoli di studio universitari in funzione della modifica della docenza, alla liberalizzazione progressiva dell’accesso

all’università,

all’istituzione

del dipartimento

(che

non modificava in realtà la gerarchia effettiva del potere accademico nelle forme scelte per la rappresentanza). Alcuni elementi positivi del

piano Gui sarebbero stati raccolti nel testo di legge n. 612 (proposte come il docente unico oppure il ruolo di ricercatore), nell’ambito di una politica di maggior attenzione anche all’opposizione comunista da parte dei ministeri Sullo, Ferrari Aggradi, Misasi, ministeri tutti successivi all’esplosione dei movimenti studenteschi e liceali del 1967-69. Furono infatti le tensioni studentesche a fare emergere l’inadeguatezza del progetto Gui e la totale sopravvalutazione del fabbisogno di forza lavoro qualificata a livello tecnico, di ricerca e di dirigenza, rispetto ai parametri proposti da studi come il celebre Progetto Ottanta. Tra 1967 e inizi del 1969 una pluralità di agitazioni dal basso, prive di sostanziali coordinamenti nazionali e caratterizzate anche da profonde differenze di elaborazione progettuale, segnarono notoriamente le università italiane. Esse determinarono la crisi dei vecchi organismi di rappresentanza e la crescita di una forte opposizione studentesca di ba-

277



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Michele Battini

se alla 2314, rivendicando soprattutto attraverso le occupazioni di fa-

coltà, i controcorsi e i seminari di ricerca politica autogestiti dagli stuil diritto a discutere senso e funzione delle attività didattiche e denti, | all’apertura dell’università alla società e alle questioni sociali decisive. ‘Tale dinamica condusse movimenti decisivi, come quelli di Torino e di Trento, a un’«uscita» dalle facoltà, interessata e tesa a costituire forti

connessioni tra le finalità studentesche e le lotte sociali nelle grandi aziende, soprattutto attorno alla prospettiva di un’auto-organizzazione dal basso dei movimenti della società civile in strutture di tipo consiliare ed assembleare, nell’ambito di un progetto di rifondazione della cultura come capacità collettiva di elaborazione delle contraddizioni sociali. Al percorso che condusse gli studenti italiani di quella generazione a concepire i conflitti con le autorità accademiche e la politica scolastica governativa come forme di critica radicale e di lotta sociale per la redistribuzione democratica del potere nell’ambito delle istituzioni civili, delle scuole, delle società, 1’ Università di Pisa dette un contributo decisivo.

4. Appare necessario ritornare alla dinamica del movimento pisano nel punto dove l’abbiamo lasciata: il 1966. L’occasione delle lotte contro i progetti del ministro Gui permise la formazione di una dialettica politica tra l'università e la città, sia attraverso la promozione di manifestazioni politiche contro gli orientamenti internazionali e di alleanza militare dei governi (azioni contro la base

Nato di Camp Darby) sia attraverso l’inserimento di alcuni membri della dirigenza dell’Ugi nelle liste socialproletarie al Comune. E ancora, per tutto il 1966 le agitazioni degli studenti posero al centro il tema della rappresentanza dell’assemblea e della presenza studentesca negli organismi di governo di facoltà e d’università. Una svolta si ebbe solo nel gennaio 1967: l’Ugi abbandonò il parlamento Oriup e riconobbe definitivamente la sovranità delle assemblee di facoltà e il consiglio dei delegati da queste espresso. Lo spostamento a sinistra (anche in campo nazionale) dell’Ugi e le occupazioni del gennaio e febbraio 1967 sancirono la crisi definitiva delle forme tradizionali di rappresentanza e innescarono uno stato di endemica conflittualità con l’autorità accademica di Pisa sui temi del riconoscimento dell’autorità delle assemblee, della partecipazione dei delegati di assemblea

agli organi di governo

dell’università

e, infine, della

riforma dell’organizzazione degli studi e dei diritti sociali degli studenti.

278

Studenti estremisti e agitazioni nell’università pisana L’occupazione del febbraio 1967, in coincidenza con la Conferenza

nazionale dei rettori, svoltasi a Pisa, e l’elaborazione delle Tesi della Sapienza segnarono la conclusione di questo primo ciclo: le Tesi (che tra l’altro non vennero approvate come piattaforma di sinistra al Convegno nazionale dell’Ugi dell’aprile 1967), assunsero un significato duplice: gli studenti esprimevano una direzione politica e rivendicavano — sulla base della loro identità sociale — un ruolo specifico nella situazione universitaria, nell’individuazione delle sue politiche, nel rapporto tra università, mercato del lavoro e società. Nel novembre 1967 i movimenti studenteschi apparivano dunque articolati in tre distinte componenti, spesso conflittuali al loro interno: quella delle assemblee, sostenuta dall’Ugi pisana sulle posizioni delle Tesi della Sapienza; quella moderata, che si riconosceva nel parlamento Oriup e che esprimeva una nuova maggioranza di governo a componente liberaldemocratica (Agi), cattolica (Intesa) e Agap (socialisti, co-

munisti moderati che si riconoscono nell’Ugi nazionale); infine il movimento studentesco di estrema destra che agitava presso alcune fa| coltà (Lingue, Medicina, Agraria) temi della politica sociale della tradizione corporativa e organizzava, in più occasioni, manifestazioni aggressive presso la sede del parlamento Oriup (una in particolare, presso la Casa dello Studente, finalizzata alla propaganda della dittatura militare greca, provocò la prima grave battaglia di piazza tra studenti nella città di Pisa). Si può affermare che all’inizio del 1968 la contrapposizione tra giunta Oriup, moderata, e direzione del movimento delle assemblee divenne endemica, provocando un significativo spostamento di alcuni settori cattolici dell'Intesa verso il movimento. Ciò non prescinde dal fatto che le occupazioni del gennaio 1968 avevano provocato, per la prima volta, l’iniziativa autonoma dell’autorità giudiziaria attraverso il procuratore generale presso la corte d’appello di Firenze, il quale ritenne necessario intervenire direttamente di fronte a quelle che egli riteneva le incertezze degli organismi di governo universitario. Si pervenne

così alla radicalizzazione

delle occupazioni

di febbraio, nelle

facoltà di Lettere e di Fisica, ed al contemporaneo inasprimento delle posizioni del Senato accademico (chiusura della facoltà di Lettere) e dell’autorità di polizia, con l’invio di numerose denunce agli occupanti della Sapienza. La radicalizzazione delle tensioni produsse però un primo riconoscimento ufficiale della fondatezza dei motivi di insoddisfazione degli studenti nelle attuali strutture, da parte del Congresso nazionale dei docenti dell’ Anpur, che si tenne a Pisa nel febbraio dello stesso anno.

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Michele Battini. A marzo il conflitto tra movimento delle assemblee e movimento moderato che si riconosceva nel parlamento Oriup produsse alcuni episodi di scontro tra gruppi opposti di studenti; in seguito agli arresti di alcuni dirigenti studenteschi si ebbe un dilagare degli scioperi a Ingegneria, Lettere, Medicina, Fisica; infine la manifestazione studentesca

conclusa con il blocco della stazione ferroviaria centrale si trasformò in una seria battaglia di piazza segnata da numerosi nuovi arresti € provvedimenti giudiziari. È dall’aprile e dal maggio 1968 che si può datare un terzo ciclo di agitazioni studentesche prolungabile sino alle rivendicazioni dei primi anni settanta (almeno fino all’anno accademico 1974-75). Questo ciclo -

si caratterizzò: 1) per l’estensione dei contenuti delle agitazioni ai liceali ed agli studenti delle scuole medie, tecniche e professionali; 2) per il coinvolgimento in più occasioni degli assistenti, dei professori incaricati, dei dipendenti dell’università, cioè di categorie presso le quali nacque per la prima volta un sindacalismo autentico (seppur minoritario), sollecitato e stimolato non solo dal generico «esempio» stu-

dentesco ma dal trapasso di contenuti (analisi della figura sociale del salariato del terziario) e di modelli organizzativi (i consigli e l’organizzazione autonoma della base).

Nel contempo tra gli studenti si elaborò un più completo rifiuto dell’assetto vigente nella didattica: critica degli orari di laboratorio, ri-

fiuto delle firme di frequenza, richiesta di appelli di esame mensili, abolizione delle lezioni, sviluppo dei seminari collettivi. Tali contenuti si estesero a facoltà sino ad allora non investite (Ingegneria) e si omogeneizzarono nelle occupazioni dell’autunno 1968. Nei licei gli studenti riuscirono a dotarsi di una rete di comitati fortemente organizzati e centralizzati, che riuscirono, dopo mesi di agitazione per l'assemblea e per i diritti sociali, ad ottenere il riconoscimento ministeriale delle assemblee attraverso la circolare Sullo. I contenuti del settore radicale di sinistra del movimento studentesco furono affermati in una manifestazione nazionale dell’11 maggio, alla quale parteciparono Lussu e Basso, oltre che numerosi registi cinematografici, intellettuali e docenti. Essi oramai si riassumevano in due indicazioni «lette» come traduzioni, nell’istituzione scuola, dei contenuti del conflitto sociale per il controllo della produzione e del valore: la gratuità dell’istruzione sino al diciottesimo anno di età e la generalizzazione del salario studentesco. Attraverso la sinistra Ugi erano cioè circolate oramai largamente le tematiche di quel movimento culturale legato alla diffusione della rivista Classe Operaia, ma soprattutto del giornale pisano e massese // Potere Operaio, che riprendevano le indicazioni elaborate da Panzieri dalle te-

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Studenti estremisti e agitazioni nell’università pisana

si sul controllo operaio (1957) sino ai testi dei Quaderni Rossi (dopo una conferenza tenuta da Panzieri presso la Scuola Normale Superiore nel 1962, circoli dei Quaderni Rossi si erano infatti costituiti nei centri industriali della Toscana litoranea).

Fu nell’estate 1968 che le agitazioni studentesche si intrecciarono, per la prima volta in forma di presenze e di circolazione di contenuti, con i conflitti nelle industrie metalmeccaniche del comprensorio di Pisa, Marina di Pisa, Pontedera; dei lavoratori dei servizi e degli operai

tessili; dei vetrai contro la deindustrializzazione dell’economia cittadina; infine con le prime lotte sociali per il diritto alla casa. Questa novità assoluta determinò un’osmosi di contenuti dei diversi movimenti, per esempio tra contenuti di matrice teorica operaista, e gli obiettivi della

base

operaia

(spesso

fuori

dell’organizzazione

sindacale)

e

l’obiettivo del salario studentesco. E, soprattutto, i rapporti tra operai, intellettuali e studenti (talvolta anche conflittuali) determinarono una radicalizzazione di tali lotte contro la deindustrializzazione dell’economia cittadina, sia nel giugno 1968, in occasione della chiusura della Marzotto, lo stabilimento tessile con 850 unità, sia nel settembre-ottobre, in occasione dei 300 licenziamenti alla St. Gobain, stabilimento

dell’industria del vetro con 1.850 unità. Ma, per comprendere appieno il significato di una radicalizzazione politica che si fondò non astrattamente, ma nel corso di un’esperienza sociale rapida e intensa bisogna osservare che una divaricazione era intervenuta ormai, a fine 1968, tra la linea delle confederazioni sindacali,

favorevole all’intervento dei pubblici poteri a difesa dell’economia cittadina da parte della municipalità (il sindaco Bosco giunse a «requisire» l’azienda della Marzotto), e quella del nuovo sindacalismo di base, teso a far crescere il controllo democratico sulla gestione delle lotte, at-

traverso i comitati e i loro collegamenti nella città di Pisa. In realtà i comitati decaddero a ciclo di lotte concluso, lasciando in vita gruppi più ristretti di operai ormai critici verso i sindacati, che avrebbero ripreso forza in occasione delle lotte contrattuali, non solamente nelle aziende ma anche nei servizi del terziario, contendendo alle confederazioni la gestione dei nuovi istituti del sindacato — i consigli di fabbrica — tra 1972 e 1973. La rete dei comitati studenteschi riuscì invece ad avere una certa vita politica almeno sino al 1974, grazie alla loro capacità di investire la politica cittadina soprattutto nel suo nesso con quella universitaria, attraverso la programmazione edilizia, e riattivandosi in

relazione alla creazione degli organi di partecipazione democratica e di gestione collegiale della scuola con l’occasione dei decreti delegati del 1974.

281

5. Ma quale tipo di università, quali condizioni di studio e di vita, quale organizzazione della didattica, quali rapporti con la città e con l’economia regionale produssero questo ciclo delle agitazioni tra 1967 e ’68? Credo sia importante ricordare che le due università di Pisa, l’ateneo e la Scuola Normale Superiore, erano e sono rispettivamente un’università tra le più qualificate in Italia rispetto ai parametri delle attrezzature didattiche, dei laboratori, del rapporto docenti-allievi,

e una del-

le più prestigiose istituzioni di formazione alla ricerca. Per tale natura, esse costituivano e costituiscono, ovviamente assieme all’ateneo fiorentino, il nucleo fondamentale per la formazione superiore della popolazione della regione economica della Toscana industriale, cioè per la regione geografica collocata sull’asse Lucca-Pisa-Pistoia-Prato-Firenze e lungo il litorale tirrenico. Tradizionalmente, soprattutto per quanto attiene alle facoltà di Scienze e di Ingegneria, essa rispondeva anche a una domanda specifica di studenti meridionali e stranieri. Nel 1968 l’ateneo arruolava circa 840 professori ufficiali, 1.200 assistenti e 1.500 dipendenti amministrativi, tecnici, bibliotecari, conser-

vatori, curatori, operai. Si trattava di un corpo strutturato attorno alla dinamica della variabile indipendente dei docenti di ruolo e senza alcun rapporto, nelle varie facoltà, con le variazioni della popolazione studentesca. In relazione alla sindacalizzazione, mentre oltre metà del personale dipendente risultava privo di qualsiasi iscrizione (il resto si suddivideva pressoché equamente tra Cgil e Cisapuni), nell’ambito dei docenti il rapporto tra Adrup e Cgil era schiacciante (4 a 1). La Cgil risultava inoltre marginalizzata nelle facoltà di Lettere e di Scienze che furono anche — è importante notarlo — le sedi principali del movimento studentesco. Gli immatricolati dell’anno accademico 1968-69 assommavano a 17.839, poiché dal 1960 l’ateneo registrava infatti un incremento annuo del 10%, con un ritmo di crescita leggermente inferiore a quello nazionale, dovuto essenzialmente al concorso della fascia litoranea della Liguria e della Toscana industriale (54%), e all’afflusso dal Sud

(18,5%). Popolazione che, nel 1968, si dirigeva soprattutto nelle facoltà a sbocco pressoché esclusivamente professionale (19,9% a Ingegneria, 9,7% a Medicina, 7,1% a Giurisprudenza, 35,1% a Economia): cioè le facoltà che furono toccate dalle agitazioni in misura

assai minore, che registrarono tendenze ad esprimere movimenti moderati e capaci di scelte rappresentative di tipo politico tradizionale. I movimenti studenteschi più radicali provenivano invece da facoltà puntualmente orientate all'insegnamento e alla ricerca: Lettere (10% degli

282

Studenti estremisti e agitazioni nell’università pisana

iscritti) e Scienze (15%), facoltà in più stretto rapporto (attraverso do-

centi e studenti) con le due classi della Scuola Normale Superiore. Se ne può concludere che i movimenti pisani si svilupparono nelle facoltà che in definitiva meno caratterizzavano l’ateneo per rispetto ai suoi nessi con l’industria regionale e locale (l’edilizia, il tessile, la

Piaggio) e il mondo delle professioni. Se però si rileva il fatto che le università pisane costituivano un corpo rilevante entro una città di dimensioni piccole (100.000 abitanti) si comprende la natura del rilievo assunto, anche a livello nazionale, dalle agitazioni: l’importanza delle

agitazioni non fu quindi tanto relativa alle loro capacità di coinvolgere i ruoli e le gerarchie dei settori decisivi dell’ateneo, e al loro potere di condizionamento sulla politica cittadina (soprattutto edilizia). I movimenti furono importanti perché incrementarono la radicalizzazione politica di alcuni conflitti sociali interni ed esterni all’università ben oltre l’ambito delle linee sindacali. Sulla conflittualità sociale e sulla radicalizzazione delle lotte studentesche influirono sia ragioni sociali (l'origine sociale degli studenti, le loro condizioni di vita e i loro sbocchi professionali) che ragioni istituzionali (l’organizzazione della didattica e della ricerca, la dinamica

dei respinti agli esami). Per le cause sociali bisogna osservare che, nel 1968, la scolarità aveva investito pienamente, nell’università pisana, i

ceti impiegatizi, commercianti, artigiani e insegnanti; il 50% degli studenti proveniva infatti da questi ceti, e solo in piccola parte, il 25% (rispetto alla quota percentuale nella popolazione globale) dagli addetti all’industria. Si può dire che sussisteva dunque una discriminazione sociale operante a monte dell’istituzione e soprattutto nella scelta della facoltà: gli studenti provenienti dai ceti intermedi si indirizzavano verso le facoltà più dequalificate per la prospettiva professionale (con l’eccezione solamente di Scienze: una fascia di figli di operai pervenne al 40% degli iscritti nel 1970). Ma è indicativo che il 25%, costituito dai figli di imprenditori o di professionisti, venisse indirizzato soprattutto verso le tradizionali facoltà di tipo professionale. Tra i motivi fondamentali del disagio studentesco infine bisogna annoverare essenzialmente la pendolarità: un fenomeno che riguardava e riguarda la maggioranza degli studenti non cittadini (oppure non provenienti da zone esterne alla regione). Le gravi carenze di servizi funzionali in un centro urbano estremamente ridotto privavano di qualsiasi alloggio oltre il 35% degli studenti: per tale quota la possibilità di frequenza era ridotta a nulla e, di contro, ne risultava incrementato al massimo il rischio selettivo. Su oltre 17.000 iscritti, più di 10.000, nel 1968, erano pendolari, di cui 3.400 distanti da Pisa più di un’ora di

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|. Michele Battini viaggio per ferrovia e 1.400 più di un’ora e mezza. Con soli 200 posti letto disponibili presso i collegi universitari (e 550 presso istituti privati religiosi), i 4.000 studenti fuori sede dovevano spartirsi 1.238 camere presso privati o locande (con la media di oltre due studenti per camera, al costo medio di 18-19.000 lire mensili), nelle condizioni ambientali estremamente disagevoli del fatiscente centro storico. Il servizio mensa era estremamente carente, fornendo solamente 6.500 pasti giornalieri, insufficienti rispetto a una domanda calcolata, allora, in 15.000. Ma il dato decisivo delle condizioni sociali risultava infine l’esiguità del numero di presalari concessi: nel 1968 solamente 2.310 su circa 4.000 domande di studenti aventi diritto sulla base dei parametri di reddito previsti. Di fronte alla crescita della popolazione studentesca, la risposta di servizi sociali fu quindi, con tutta evidenza, del tutto inadeguata. Dal canto suo, la risposta istituzionale cercò di coniugare una relativa mo-

dernizzazione (nella direzione di un più stretto intreccio degli indirizzi didattici delle facoltà più professionali con le istanze dell’industria e dell’innovazione tecnologica) con una selezione della popolazione studentesca operata attraverso l’incremento del numero dei respinti. Dall’anno accademico 1961-62 all’anno 1966-67, il rapporto tra respinti e esami sostenuti passò a Economia da 1/6 a 1/5, a Scienze da 1/6 a 1/4,

a Ingegneria da 1/7 a 1/4, riducendosi solamente a Legge e a Medicina. È interessante osservare che la punta massima nella curva dei respinti venne toccata proprio nell’anno accademico precedente alle agitazioni,

il 1966-67. Nel campo delle politiche istituzionali si può affermare, sinteticamente, che il settore decisivo dell’ateneo (Medicina, Ingegneria, Eco-

nomia, Legge) cercò di praticare orientamenti didattici e di ricerca in più stretto e razionale collegamento con la domanda proveniente da settori industriali e tecnologici regionali (la Piaggio, l’industria aeronautica, l’edilizia civile) e dal mondo professionale; e, nel comparto di Scienze, da quello nazionale attraverso il progetto di creazione, realizzatosi nel 1971, della prima facoltà italiana di Informatica. Gli organismi decisionali, in quest'ambito, furono da una parte il Rettorato e il Senato accademico, dall’altra il consiglio di amministrazione aperto al contributo della Camera di Commercio, ma non bisogna dimenticare la presenza dello stesso rettore e di docenti di rilievo nello stesso consiglio comunale della città. La direzione universitaria riuscì infatti attraverso tali organismi a promuovere e realizzare, in un arco di tempo tra la metà degli anni sessanta sino alla fine dei settanta, numerosi progetti di sviluppo e di insediamento edilizio: il nuovo Policlinico, una nuova

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Studenti estremisti e agitazioni nell’università pisana sede per la facoltà di Economia, il Palazzo dei Congressi, un insediamento di Scienze extraurbano a Tombolo, una politica di espansione nel

centro storico, evitando però scelte radicali come lo spostamento di tutto l’ospedale nella sede del nuovo Policlinico, quelle scelte che avrebbero favorito la popolazione studentesca liberando nuovi spazi per la didattica e gli alloggi. Gli organismi di gestione si dimostrarono più attenti non solamente — agli interessi dei vari gruppi accademici e delle cliniche, ma anche a quelli socialmente più estesi dei numerosi gruppi di percettori della rendita differenziale costituita dagli affitti per alloggi privati. Le scelte di politica universitaria furono, negli anni in questione, scelte importanti per alcuni settori dell’economia regionale e cittadina, in particolare per l’edilizia (in relazione anche al peso assunto a partire dalla ricostruzione dal settore delle costruzioni edili civili e delle costruzioni stradali, dall’industria dei manufatti cementizi e della carpenteria metallica). Con tali scelte si ebbe insomma un nuovo sviluppo di tale settore, vincolato in larga parte alla programmazione dell’amministrazione universitaria, condotta da gruppi dirigenti omogenei, presenti rispettivamente negli organismi di gestione delle singole facoltà, del Comune e del consiglio di amministrazione universitario. Le lotte studentesche più radicali sui diritti sociali (caro-alloggi e trasporti) non modificarono sostanzialmente tale situazione, nonostante il cambiamento di governo nell’amministrazione comunale verificatosi nel 1971, ma certamente influirono notevolmente almeno sui conflitti

sociali esterni all’istituzione universitaria, saldandosi piuttosto ai movimenti sociali contro la deindustrializzazione della città. Nel giugno 1968 culminò infatti quella crisi del settore tessile pisano iniziata già nel 1957 con la chiusura della Cotoniera Mediterranea e del Cotonificio dell’ Acqua: la chiusura della Marzotto significò la perdita di oltre 1.500 addetti, mai recuperata dallo sviluppo contemporaneo dei settori delle confezioni e delle calzature. Pochi mesi dopo, una nuova e forte riduzione della manodopera si verificò alla St. Gobain, aggravando la crisi dell’industria vetraria pisana, un’industria storica di origine ottocentesca (crisi iniziata con l’integrazione di alcuni anni prima della Vis): essa poi avrebbe investito, negli anni successivi, le altre componenti dell’industria vetraria, gli stabilimenti Kimble e le Cristallerie Generali. Il movimento degli studenti dal canto suo cercò di rafforzare le lotte industriali a difesa degli insediamenti tradizionali innescando sull’azione dei sindacati per l’intervento dei «pubblici poteri» il modello radicale dell’autogestione della lotta sperimentato nelle facoltà e nelle scuole.

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Michele Battini

6. La sconfitta di questa prospettiva, ma, più in generale, la sconfitta anche delle scelte sindacali in tali occasioni (fatta eccezione per le i metalmeccanici), possono essere ricercate anche lotte contrattualdei

nell’eccezionalità della congiuntura negativa dell’economia pisana nel 1968 rispetto all’economia regionale. La crisi industriale pisana fu insomma un elemento abbastanza isolato nel quadro di una congiuntura economica attraversata dal sistema centrale di industrializzazione (1’asse Livorno-Lucca-Pisa-Pistoia-Prato-Firenze), una congiuntura che la

relazione 1968 sulla situazione economica regionale presentata all’Unione delle Camere di Commercio definì sostanzialmente positiva. Il tessuto produttivo regionale, caratterizzato notoriamente da una miriade di piccole imprese e da poche grandi e medie (e considerato per questo tradizionalmente debole), aveva dimostrato, già in occasione della recessione del 1964 (e dell’alluvione del 1966), una capacità notevole di ripresa e un’apprezzabile progressione nell’innovazione tecnologica. La crisi pisana fu quindi la crisi di aziende rigide e di grandi dimensioni, in condizioni produttive tecnologicamente antiquate, e segnate da tempo da politiche di investimenti modesti sostanzialmente dipendenti da iniziative finanziarie di provenienza extraregionale. Sopra una quota di oltre 300 impianti di industria manufatturiera, chimica e delle costruzioni, solamente 7, dopo il 1971, avrebbero superato la quota dei 200 addetti, confermando inequivocabilmente la struttura caratterizzata dalla piccola dimensione (ma non sempre tale struttura significò necessariamente una bassa intensità di capitale, poiché essa si sarebbe anzi dimostrata, verso la fine degli anni settanta, il punto di forza di un nuovo sviluppo innovativo).

Se si tiene conto di queste osservazioni, la centralità economica della

questione del piano edilizio universitario rimase ovviamente una costante dei documenti politici studenteschi, almeno sino al 1975. In una relazione approvata all'assemblea di ateneo dell’11 ottobre 1968, la critica della politica restrittiva (definita del «numero chiuso») del rettorato Faedo, delle linee direttive del consiglio di amministrazione e della conferenza dei rettori del febbraio 1967, era già coerentemente saldata con la critica del programma edilizio universitario. Negli anni successivi l'incremento della sfera per la ricerca e i più stretti rapporti tra ricerca e industria (Informatica e Ingegneria nucleare) da una parte, e la preoccu-

pazione della direzione accademica per il cosiddetto «aumento indiscriminato degli iscritti», dall’altra, si sarebbero tradotte nel freno alla spesa edilizia per alloggi, aule e attrezzature didattiche. Ma allora, nel 196768, il movimento studentesco rivendicava una spesa socialmente orientata verso il sostegno della didattica e del diritto allo studio.

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Studenti estremisti e agitazioni nell’università pisana

In occasione della seduta del corpo accademico del 10 ottobre 1968 per l’elezione del rettore, il movimento che si riconosceva nell’assemblea presentò una carta di rivendicazioni che può essere considerata la sintesi delle agitazioni sui motivi della didattica protrattasi dal marzo 1967 a tutto il 1969. Prendendo atto che l’anno accademico 1966-67 aveva registrato nei fatti la più alta quota di respinti agli esami, dalla riapertura dell’università dopo la guerra, gli studenti presentarono i seguenti obiettivi di riforma della didattica: 1) eliminazione della votazione di respinto;

2) eliminazione delle firme di frequenza come forma di selezione della maggioranza degli studenti pendolari; 3) programmi di esame precisi e integrati con dispense ed esami mensili;

4) orari delle lezioni concordate in commissioni paritetiche e apertura continuata degli istituti, con arricchimento delle rispettive biblioteche; 5) libertà di riunione, associazione e discussione.

La carta rivendicativa dell’ottobre °68 conteneva anche la proposta dell’esame di gruppo che, più che un obiettivo generale, fu interpretato (come documenta uno Schema di discussione sul significato politico dell'intervento nelle facoltà umanistiche del febbraio ’68) come forma di critica pratica della cosiddetta meritocrazia e della formazione individualistica, e, soprattutto, come forma di organizzazione permanente e

dal basso degli studenti, sulla base di una serie di controcorsi permanenti (vi erano qui echi evidenti di tematiche berlinesi e trentine). Come formulava la Dichiarazione politica, tali richieste intendevano esprimere una critica radicale dell’asse cultura - specializzazione funzionale attorno a cui sembrava ruotare la «tecnicizzazione» dell’università: il rovescio del fine istituzionale dell’università (la formazione

dello specialista tecnico) appariva il conformismo diffuso come comportamento sociale dell’individuo massificato. La filosofia di una partecipazione più ricca e consapevole di ogni soggetto ai processi decisivi della formazione appare riflettersi non solamente nella richiesta studentesca di partecipazione agli organismi direttivi, ma anche nella forma di auto-organizzazione democratica diretta, tendenzialmente funzionale alla partecipazione di tutti e all’utilizza-

zione di tutte le energie intellettuali; soprattutto essa era funzionale alla critica radicale di ogni separazione tra gruppi dirigenti e massa dei partecipanti al movimento. Tale struttura prevedeva un'articolazione in assemblee, comitati di base e consigli dei delegati. (Il progetto più compiuto apparve infine all'assemblea del 4 marzo 1969, e fu pubblicato

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N. Tranfaglia, «Evoluzione dei mass media e peculiarità del sistem;

nel Italia repubblicana», Studi storici, n. 1, 1988, pp. 43 ss.

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IL ’68 E IL SISTEMA POLITICO ITALIANO di Gianfranco Pasquino

Sono numerose le prospettive dalle quali analizzare il problema dei rapporti fra il °68 e il sistema politico italiano. Infatti, da un lato, la sostanziale ambiguità del ‘68, anche su questo

terreno, richiede un’approfondita attenzione anche ai dettagli e non solo una focalizzazione su grandi bipartizioni (ad esempio, movimentoistituzioni). Dall’altro, il °68 si situa tra la fine di una fase politica e l’inizio di un’altra fase. Anzi, è il ’68 stesso a segnalare questo passaggio. Ma,

proprio per questo, è impregnato di antico tanto quanto è gravido di nuovo, cosicché non è facile individuare con precisione le tematiche

proprie del ’68 rispetto a tendenze più generali, e quindi, in seguito, a valutare quali siano stati e rimangano i suoi lasciti nell’attuale sistema politico e nel modo contemporaneo di fare politica. Infine, sarebbe forse utile procedere con una comparazione che delinei le caratteristiche fondamentali del sistema politico italiano nel 1968 e quelle del 1988. Tuttavia, da un lato, è più opportuno che questa comparazione rimanga implicita, per non diventare pedante; dall’altro, è assolutamente indispensabile evitare l’errore di attribuire tutte le variazioni al ’68 (0, di converso, di negare che qualsiasi varia-

zione sia attribuibile al ’68: le due versioni del ’68 magmatico che ha cambiato il sistema senza che né il ’68 né il sistema se ne accorgessero e del ’68 tradito, dalle potenzialità ancora intatte o comunque inutilizzate).

Una comparazione di questo tipo richiederebbe, probabilmente, anche una periodizzazione. La strada qui prescelta, seppure con non poca perplessità e cautela, mira invece ad affrontare per grandi linee alcune tematiche essenziali e su di esse verificare l'incidenza del ’68 e il suo lascito, positivo e negativo che sia.

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Il ’68 e il sistema politico italiano

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I confini della politica

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Keynesismo e Stato sociale avevano già ampliato, e di molto, i con-

fini della politica 0, quantomeno, gli ambiti dell’intervento dello Stato. Ma, come è noto, non tutta la politica coincide con quanto fa lo Stato, e non tutta l’attività dello Stato è necessariamente politica (può, infatti,

essere amministrazione). La teoria liberale aveva comunque disegnato una sua sfera politica appropriata nella quale, a grandi linee, istituzioni, partiti (e sindacati), e società civile si confrontavano e interagivano en-

tro spazi abbastanza ben definiti e con regole abbastanza ben osservate. Proprio la teoria liberale si trovava dunque a fare i conti con la novità della transizione da uno Stato liberale classico o quasi a uno Stato sociale interventista in economia e a tutte le novità politiche pratiche e teoriche che ciò comportava. Il ‘68 irrompe nel momento in cui i processi di fondo sono già andati abbastanza avanti, ma la loro valutazione, in termini di conseguenze complessive sulla sfera politica, sicuramente inadeguata. Le posizioni che si esprimono sono molte e sufficientemente differenziate da meritare notevole, seppur schematica, attenzione. Vi è chi, come

Habermas,

sostiene l’obliterazione dei confini fra

Stato e società civile. Il venir meno della sfera dell’opinione pubblica, come separata da quella dello Stato e delle sue istituzioni (venir meno che può essere variamente declinato ma che segnala comunque la definitiva chiusura della fase «liberale» della politica caratterizzata dalla distinzione delle sfere e l’inizio di una possibile manipolazione da parte del potere). Vi è chi, sul versante di un recupero e di un rilancio della teoria politica democratica, sostiene che è necessario che la politica penetri all’interno di molte più sfere e ambiti che non la semplice concorrenza fra partiti o l’altrettanto semplice funzionamento delle istituzioni. È questa la teoria della congruenza che (forse anche per reazione contro i teorici del crollo della democrazia nelle società di massa) afferma la necessità che rapporti di natura democratica penetrino la società, anzi la innervino a partire dalla famiglia e dalla scuola fino ai luoghi di lavoro (e che questo, naturalmente, è l'antidoto più forte.alle tendenze e alle pulsioni autoritarie). In questa versione, comprensibilmente, la politica ha esteso i suoi confini ad aree che i teorici liberali classici avevano invece considerato per l’appunto off-limits. C'è da notare che questa estensione teorica avviene in una fase che in parte accompagna in parte segue l’estensione pratica dei confini della politica operata dall’intervento dello Stato (e allora, forse, il quesito da porsi, e che ci si

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Gianfranco Pasquino

porrà in seguito, riguarda la natura dell’intervento dello Stato, in particolare la democratizzazione dell'economia da un lato, e la gestione dello Stato sociale dall’altro, con le sue degenerazioni paternalistiche e clientelari).

Che la politica potesse, anzi dovesse, essere al primo posto, al posto di comando, diventa comunque, sull’onda della rivoluzione culturale, la vera parola d’ordine del ’68, a prescindere da qualsiasi presa di distanza, una parola d’ordine maggioritaria. Ma, come spesso accade, sono l’interpretazione e la declinazione di quella parola d’ordine che si prestano ad accurate e importanti distinzioni. E impossibile ricominciare da Mao, dalla sua famosa e malcitata affermazione: «Il potere esce dalla canna del fucile... ma è il partito che comanda al fucile». Sembrerebbe, nella prima frase un’esaltazione del controllo politico sull’esercito, oltre che una esemplificazione del primato della politica. Comunque, nel ’68 vi furono anche coloro che credettero alla sola prima frase e che seguirono la strada tracciata dal potere del fucile (e anche se, certamente, come molte ricerche mettono in luce, quello fu il

percorso che seguì alla dissoluzione dei movimenti, alcune premesse, nel non rifiuto della violenza, dell’esercizio della forza bruta, armata, militare, possono trovarsi nel cuore del movimento).

Fra quelli che credettero anche alla seconda parte della frase, al primato della politica, emersero tuttavia alcune differenziazioni. In particolare, si manifestò un’interpretazione della politica come partecipazione intesa in prima persona: la politicizzazione spinta fino a penetrare non solo la sfera della famiglia, della scuola, dei rapporti di lavoro, ma del privato (quello slogan complesso e ambiguo, leggibile in molti modi: «il privato [o il personale] è politico»), come coinvolgimento ineluttabile (al quale poteva fare da contrappeso il distacco totale). Emerse altresì un’interpretazione, solo apparentemente contrapposta, quella dell’immersione nel sociale (solo apparentemente contrapposta poiché, spesso, richiedeva altrettanto impegno della politicizzazione più intensa). Infine, rimase come costante una visione della politica co-

me attività anti-partitica, anti-istituzionale, anti-burocratica, contro il potere organizzato: una politica di rapporti e non di potere. In una qualsiasi di queste contrapposizioni sarebbe facile rilevare le ambiguità e quindi le contraddizioni irrisolte. E forse è giusto, a questo punto, tentare di farlo, non senza concludere questa sezione con alcune affermazioni di sintesi. Il ‘68 entra in campo nel momento in cui i confini della politica si stanno, da un lato estendendo, dall’altro ridefinendo, vengono comunque attraversati e sono alla ricerca di una collocazione, teori-

ca e pratica, stabile e convincente. Il 68 è influenzato da questa ricer-

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Il ’68 e il sistema politico italiano ca, ad essa contribuisce, ma la ridefinizione dei confini (e forse dei li-

miti) della politica è tuttora in corso. Poiché è possibile ritenere che anche la ventata neoconservatrice abbia avuto di mira la ridefinizione (forse la restrizione) di questi confini, il bilancio deve essere rinviato alle conclusioni.

Le grandi contrapposizioni

Per quanto la sfera politica stesse cambiando, e forse anche in maniera accelerata, la registrazione di questi cambiamenti non era in alcun modo avvenuta (né in Italia, il nostro referente, né nel resto delle demo-

crazie occidentali: questa è probabilmente la ragione per la quale; al di là degli eventuali effetti di imitazione, il movimento del ’68 è analizzabile in prospettiva comparata, poiché almeno su alcune grandi tematiche le similarità e le differenze sono attribuibili a fenomeni, per l’appunto, comparabili). Anzi, si potrebbe affermare che la sfera politica si andava aprendo

a una

società

culturalmente,

socialmente, economicamente

cambiata senza avere approntato gli strumenti che rendessero questa apertura efficace e vivificante, che la accomodassero produttivamente e democraticamente, in termini di influenza. Di qui, il problema. Emerge qui la prima grande contrapposizione, quella fra movimenti e istituzioni. Interpretata come una sorta di scontro mortale fra l’effervescenza collettiva, fra la vitalità della società e la stagnazione della politi-

ca, la ripetizione di stanchi riti, questa contrapposizione si rivelò naturalmente improduttiva. Ciò che conta, però, è da un lato affermare che,

almeno per una prima lunga fase, lo spazio politico per i movimenti rimase grande, e dall’altro che il problema del rapporto fra movimenti e istituzioni rimane tuttora aperto. Quanto allo spazio per i movimenti, va rilevato che uno strumento apposito venne approntato per garantire espressione ai movimenti: il referendum (seppure nella sua forma più debole, abrogativa; ma, nella prospettiva di uno scontro movimenti-istituzioni, è proprio il referendum abrogativo che consente di mobilitare la società civile contro parlamento e governo) e che, a tutt'oggi, anche se il referendum non costituì lo specifico della politica del ’68, le sue caratteristiche di istituto di democrazia diretta lo rendono da un lato espressione di una fase in cui molti credettero alla possibilità della democrazia diretta, dall’altro che le sue potenzialità non sono esaurite e la gamma dei referendum (e degli istituti di democrazia diretta) può essere ulteriormente ampliata (e la loro concreta utilizzazione e applicazione migliorate).

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La contrapposizione movimento-istituzione, però, assunse, durante il '68, e sembra conservare oggi, caratteristiche specifiche che meritano, alla luce del problema — l’impatto del ’68 sul sistema politico — un’ulteriore precisazione. Infatti, oltre a desiderare lo scontro per svelare il vero volto delle istituzioni, la spina dorsale autoritaria di regimi democratici solo formali (per l’appunto, la democrazia autoritaria e il suo metodo di tolleranza repressiva à la Marcuse), i movimenti ripudiavano qualsiasi forma di istituzionalizzazione, come

un tradimento

delle genuine, molteplici, durature, spontanee pulsioni del movimento stesso. Per quanto non sia affatto il caso di entrare nelle discussioni su che cosa significhi davvero istituzionalizzazione, il rifiuto del movi-

mento di perseguire questa strada ha avuto due conseguenze negative di visibile rilievo. La prima può essere espressa provocatoriamente in modo molto semplice: l’interfaccia dell’istituzionalizzazione è la dissoluzione (deliberata e consapevole oppure frutto di fenomeni fuori del controllo dei movimenti) che, per l'appunto, ha marcato non poche organizzazioni, da Potere Operaio a Lotta Continua. La seconda è segnata congiuntamente dall’incapacità (e dalla non volontà: non solo la volpe e l’uva, dunque) di consolidare i guadagni, di segnare dei punti di non ritorno, e dall’impossibilità di preservare e arricchire un patrimonio di memorie collettive (cosicché il ‘77 non è affatto la prosecuzione del ‘68 con altri mezzi), e di conquiste collettive. Alla strada «riformista» dell’istituzionalizzazione, spesso il movi-

mento contrappose la visione «rivoluzionaria» (per i suoi critici «palingenetica») della trasformazione globale perseguita tenendo alto il tiro e senza accettare tappe intermedie. E, tuttavia, a riprova della sostanziale ambiguità del movimento, in non pochi ambiti, sicuramente in quello sindacale, non sempre criticato dal movimento, veniva fatta valere nello stesso periodo la cosiddetta pratica dell’obiettivo. Tradotta nel linguaggio dell’istituzionalizzazione, questa pratica significa consolidare le acquisizioni di volta in volta ottenute e ripartire da ciascuna di esse. Istituzionalizzazione vuole dire anche darsi, e osservare, delle regole di comportamento, di azione, di relazione. Tipicamente, il 768 volle essere e fu un movimento di trasgressione delle regole formali, delle pratiche burocratiche, dei riti e dei miti. Ma, altrettanto tipicamente, si trovò a dover fare i conti con la costruzione di nuove regole, di nuove

pratiche, di nuovi riti e miti. Posta la contrapposizione democrazia-burocrazia, e individuate come burocratiche soprattutto le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, il ‘68 cercò di evitare tutte quelle procedure di discussione e di decisione proprie dei partiti e dei sindacati. Di qui, almeno in linea di principio, la rivendicazione del potere,

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_—ditutto il potere decisionale all'assemblea (quindi la critica dei rappreE sentanti e delle forme di democrazia rappresentativa che si ricollega, seppur parzialmente, al favore manifestato verso le forme di democrazia referendaria). D'altronde, nell’assemblea e nei suoi processi deci-

sionali si riscontrano modalità chiarissime di espressione referendaria (seppure con un corpo decisionale soggetto a imprevedibili e incontrollabili fluttuazioni). «Tutto il potere all'assemblea» è uno slogan la cui valenza critica risulta forte, ma la cui capacità di ristrutturazione democratica è, nel migliore dei casi, dubbia e controversa, nel peggiore, nulla è controproducente. Per di più, si instaura nel clima dell’assemblea non un processo di partecipazione capillare e influente, quanto piuttosto un processo di delega, più o meno consapevole, preceduta e accompagnata da una vera e propria manipolazione, spesso alquanto consapevole e deliberata, da parte dei leader dell’assemblea (prima o poi leader del movimento stesso). Vero è che l’espropriazione delle assemblee partitiche e sindacali era comunque già avvenuta secondo linee ben descritte da Michels. Ma, il ricorso alle regole formali poteva, in quelle organizzazioni, suscitare lo scandalo e raddrizzare, entro certi limiti, le procedure. Nelle assemblee del movimento,

invece, oltre alla delega manipolata, si af-

ferma un altro processo, quello dell’investitura plebiscitaria dei leader. Non sufficientemente studiato in tutti i suoi aspetti (e solo marginalmente criticato, allora e oggi), il processo di investitura plebiscitaria risponde a molte esigenze operative e affettive (allora come oggi). Rompendo, o cercando di rompere, con le pratiche burocratiche, criticando le formule democratiche, come formali, di pura facciata, il

movimento si trova inevitabilmente esposto alle tentazioni plebiscitario-carismatiche (facilmente comprensibili e analizzabili utilizzando gli strumenti della sociologia politica di Max Weber). E il rapporto leaderassemblea finisce per essere il prodotto inevitabile delle critiche al passato mentre l’alternativa del futuro rimane senza strutture e senza procedure. Se il movimento voleva davvero costruire una democrazia diretta, e in parte questa ingenuità fu condivisa e diffusa, fu apprendista stregone. Quel che conta, però, è che le tendenze alla personalizzazione della politica, fino ad allora se non assenti certo circoscritte (paradossalmente in special modo nell’ambito della sinistra, che ne sarà poi, in larga misura, il critico più severo: la sacralità del segretario del partito comunista è forse il fenomeno più significativo), vennero esaltate. Il °68 è intessuto dei nomi dei vari leader delle sedi locali, dei movimenti nazionali così come delle sedi straniere anche le più lontane. Personalizzazione della politica, leaderismo, forzatura delle regole o loro pu-

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Gianfranco Pasquino

ro e semplice abbandono: è difficile dire quanto di questo si sia prodotto nel sistema politico italiano nell’ultimo decennio; è facile però rilevare che molto di questo ha radici in quelle spinte, quelle tendenze, quelle propensioni che il °68 non solo non combatté, ma nutrì, talvolta con vero compiacimento. Naturalmente, se le regole formali vanno rifiutate, se le organizzazioni intermedie debbono essere spazzate via, se il potere deve andare all’assemblea e di lì risalire fino al leader, se bisogna creare organizzazioni di contropotere, allora rispetto all’altra grande contrapposizione accentramento-decentramento, le posizioni del ‘68 contennero sempre una notevole ambiguità. Infatti, a un potere forte non si possono contrapporre comunità frammentate (anche se l’idea di comunità sganciate dal controllo nazionale fu sempre intrattenuta, la linea di pensiero e di azione non era quella del decentramento politico-funzionale, di poteri, risorse, responsabilità, quanto piuttosto quella della dissoluzione del rapporto, dell’autonomia in quanto separatezza) e la direttiva di marcia nella pratica si indirizzò verso nuove forme di concentrazione del potere (e non poteva che essere il leader il destinatario e depositario di questo potere). Laddove, però, il processo di separatezza fallisse e il leader non acquisisse il contropotere, allora la conseguenza non poteva essere che una sorta di accettazione del centralismo (che, d’altra parte, avrebbe reso più facile la conquista del potere centrale con l’assalto al Palazzo d'Inverno). Se lasciamo da parte, ma forse non dovremmo, la contrapposizione personale-politico, poiché sussunta nell’interpretazione avanzata relativamente all’espansione dei confini della politica (nella consapevolezza, peraltro, che il personale diventa politico nella misura in cui non solo allarga i confini della politica, ma trasforma le modalità stesse del fare politica, e allora anche questo discorso andrà ripreso in sede di conclusioni), l’ultima importante contrapposizione riguarda il rapporto fra autenticità e spettacolo. Sia nel personale che nel politico, questo difficile, controverso, complesso rapporto trova una sua esplicitazione netta, se non limpida, talvolta trasgressiva, persino oltraggiosa nei comportamenti e nei fenomeni del ‘68. Ma, per l’appunto, se l’autenticità è, in politica come nel personale, un’esigenza da soddisfare e un criterio per valutare, lo spettacolo sembra uno strumento per provocare e un modo di comunicare. Spesso, però, fin dal ’68 stesso, la provocazione e la comunicazione prendono il sopravvento sull’esigenza e sul criterio: lo spettacolo diventa fine a se stesso o prodromo di altri spettacoli fintantoché, comunque, lo show must go on, come nella migliore

tradizione teatrale, anche di fronte ai lutti, e la finzione prende definitivamente il posto della realtà.

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Il ’68 e il sistema politico italiano

In questo modo, però, il vero volto della politica come mero esercizio di un potere che si riproduce, della democrazia come maschera formale di un regime autoritario, dei partiti e dei sindacati come organizzazioni burocratiche, non può essere smascherato. Anzi, il ’68 collabo-

ra all’ideazione di altre maschere che poi, tutte o quasi tutte, troveranno il loro referente sulla scena della politica. L'aumento del numero degli attori cambierà di poco la sostanza della rappresentazione; il copione manterrà molti dei suoi caratteri originali. In estrema sintesi, arrivato a cavallo di un’antica politica che aveva trovato la sua impasse e di una nuova politica che stentava a sfondare, il 68 è esso stesso parte del vecchio e parte del nuovo e compartecipe di tutte le contraddizioni di entrambi i mondi. La sua politica dell’antipolitica si esprime in contrapposizioni, grandi ma irrisolte. Imovimenti non distruggono le istituzioni e non vogliono e non riescono a farsi istituzioni essi stessi. La democrazia diretta o di base non rimpiazza la democrazia rappresentativa e non spazza via la burocrazia e le sue vecchie regole. L'assemblea diventa luogo di partecipazione simbolica e di delega inconsapevole al leader, il quale, da parte sua, sfugge ad ogni controllo e anticipa forme di condotta plebiscitarie e, forse, carismatiche. Gli imperativi della politica esigono l’accentramento del potere, mentre le pulsioni romantiche spingono verso le piccole comunità che si autogestiscono. Infine, la ricerca di un’audience ampia e disponibile fa sì che lo spettacolo, degno di essere ripreso dai media, abbia la meglio sulle esigenze di autenticità. Il °68 è, vuole essere e rimanere, diventa newsworthy, e anche la violenza allora può essere molto utile a «catturare» l’attenzione distratta e il tempo prezioso dei mass media.

Le piccole trasformazioni

Analizzando il ’68 come movimento epocale si rischia, da un lato, di perdere di vista tutte quelle trasformazioni da lui indotte ma che epocali non sono; dall’altro, di rinviare l’analisi alla presunta emersio-

ne di un fenomeno «carsico», prima o poi destinato a ritornare alla superficie. La via intermedia, invece, consiste nel coglierne potenzialità e attualità, in tutte le loro contraddizioni, e misurarle e compararle con quanto è avvenuto nel sistema politico italiano. Tuttavia, valutare appieno la portata di alcune trasformazioni e il loro rapporto con il ’68 è operazione resa complicata ma non impossibile che, pertanto, va tentata con chiarezza d’intenti e di contenuti. Le trasformazioni sono state piccole in un duplice significato del-

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l’aggettivo. In primo luogo perché hanno attinto nel migliore dei casi i sottosistemi; in secondo luogo perché sono state ben al di sotto della sfida che il °68 intendeva portare, anzi sembrò agli attori e agli astanti che portasse. Fra i sottosistemi che furono maggiormente colpiti da questa sfida, comunque, v’è proprio il sistema politico. In particolare, è possibile sostenere che, anche se non è cambiato quel rapporto complessivo che lega i partiti fra di loro e che attiene alla sfera partiticoistituzionale, sono decisamente cambiati i modi di fare politica dei cittadini e di molti dirigenti di partito (e di non poche organizzazioni che si confrontano con la politica). Tecnicamente, si deve sostenere che si è ampliato e differenziato il repertorio degli strumenti di partecipazione politica e di comunicazione politica. Dalla politica convenzionale, che si dipanava quasi tutta dentro le istituzioni e in rapporti interorganizzativi, si è passati a una politica che è talvolta extra-istituzionale, talvolta anti-istituzionale, ma soprattutto che fa ricorso a forme di espressione eterodosse (che non significa necessariamente violente) e a forme di

comunicazione che saltano spessissimo la mediazione partitica e sindacale. Da una distinzione abbastanza precisa di ruoli tra gli iscritti alle organizzazioni partitiche e sindacali e i non iscritti si è passati a una minore accentuazione del ruolo dell’iscritto, a una maggiore fluttuazione degli stessi iscritti, a una loro diminuzione, ad una comparsa di numerosi organismi poco istituzionalizzati che si attivano in occasione di alcune scadenze, che ricorrono a inusitate forme di lotte, che frammenta-

no la rappresentanza e che si riappropriano della decisione, che producono, riproducono e cambiano leadership, la cui area di incontro è costituita dall'assemblea, spesso spontanea, e il cui strumento di comunicazione è la forma di lotta prescelta. Non si vuole sostenere, naturalmente, che l’identikit del Cobas sia la fotografia del 68 vent’anni dopo. Il punto è, invece, che molte delle innovazioni introdotte dal ’68 hanno fatto breccia e sono state variamente, anche contraddittoriamen-

te recepite in ambiti nei quali, forse, il °68 in quanto valori non era presente e non sarebbe mai potuto penetrare. Forse la più importante delle piccole trasformazioni è costituita dall’avvenuta presa di coscienza che la politica è una sfera degna di grande, ma non esclusiva attenzione, capace di condizionare ma non di determinare i destini personali, luogo di partecipazione significativa ma non totalizzante, nella quale si può entrare e dalla quale si può uscire, rispetto alla quale si possono calibrare l'impegno e il disimpegno. A fronte della rivendicazione del posto di comando per la politica e della totale immersione del personale nel politico e viceversa, questo potreb-

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Il ’68 e il sistema politico italiano be apparire come un esito deludente. A fronte, invece, dei fenomeni di riflusso, il disimpegno sobrio e consapevole che si può tradurre, e in effetti si traduce, in impegno altalenante su problematiche concrete, di singoli e gruppi che non sono sempre gli stessi, implica davvero un’espansione dei confini della politica nel suo senso più pregnante: più persone disponibili in più momenti della loro vita su più problematiche. Infine, probabilmente in modo paradossale per un movimento che sotto molti punti di vista rappresentò l’ultima esplosione ideologica, di un condensato di ideologie e non da ultimo dell’ideologia del rifiuto delle ideologie, è possibile cogliere fra le piccole trasformazioni anche una minore propensione all’ideologizzazione dei problemi, una maggiore inclinazione a praticare davvero l’obiettivo in termini di programma e di strumenti con il quale perseguirlo. Anche se non mancano gli irriducibili dell’ideologia (fra le file di Comunione e Liberazione, per esempio, come in alcuni gruppi di fondamentalisti di sinistra), il fastidio per l’ideologizzazione dei problemi è oggi anche il prodotto della visione trasgressiva del °68 e della sua capacità di ridicolizzare l’ufficialità, il rito e il mito.

Protesta e riforma

A cavallo tra le piccole trasformazioni, nei repertori dell’azione collettiva, pure destinate a lasciare tracce durature, e le grandi trasforma-

zioni, nella politica e nelle istituzioni, ancora fondamentalmente di là da venire, si collocano le trasformazioni nelle politiche, nelle policies. Va, tuttavia, immediatamente sottolineato che furono proprio queste le trasformazioni che il 68, ripetutamente e in special modo per ciò che riguarda il sistema educativo, rifiutò come primo passo sul percorso non voluto dell’istituzionalizzazione. D'altronde, sarebbe alquanto riduttivo vedere nel 68 soltanto un fenomeno di protesta per il conseguimento di policies adeguate (come, peraltro, è stato fatto, anche in modo egregio). Ma, senza aderire al riduttivismo delle policies e quindi di un rapporto, tutto ancora da provare, «protesta-riforma», bisogna sollevare l’interrogativo se il °68 abbia portato a trasformazioni nella quantità, nella qualità, nei contenuti e nelle modalità delle politiche pubbliche. In assenza di dettagliate ricerche che prendano le mosse proprio da questo preciso interrogativo, non è né possibile né auspicabile avanzare una risposta soddisfacente. Infatti, almeno fino ad oggi, la ricerca si è

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concentrata maggiormente, se non quasi esclusivamente, sul versante dell’input, delle domande politiche e dei movimenti, a scapito del ver-

sante dell’output, delle risposte politiche e delle istituzioni. E questo squilibrio non può essere colmato con le poche notazioni e riflessioni che pure è necessario presentare. Fra l’altro, la stessa possibilità di intraprendere un'analisi approfondita in termini di policies è stata resa più difficile dagli studiosi dei movimenti, preoccupati di definire le modalità di richiesta e riconoscimento delle identità collettive e dell’espressione di domande non negoziabili, tipicamente quindi nonpolicies. In termini molto generali, comunque, è possibile affermare che lo iato tra protesta e riforma, per molteplici ragioni, non da ultimo per la scarsa disponibilità del °68 a negoziare, è rimasto molto grande. Si è addirittura ampliato; e laddove questo estraniamento non si è prodotto, ciò è stato dovuto più ad autonome decisioni delle autorità preposte all’output che alle pressioni del movimento. Si potrebbe addirittura sostenere che sul versante delle riforme la situazione del 1988 si presenta considerevolmente peggiore rispetto a quella del 1968. Tuttavia, il peggioramento non appare attribuibile direttamente e forse neppure indirettamente al ‘68. Proprio come, per quanto riguarda la sfera politica, il ‘68 si situò all’incrocio fra la vecchia politica che agonizzava, ma non moriva, e la nuova politica, dai contorni indefiniti e dai vagiti flebili, per

quanto riguarda la sfera economica si stava consumando la spinta propulsiva del keynesismo senza che né allora né oggi sia emersa un’alternativa praticabile (cosicché molto giustamente John Goldthorpe può definire l’attuale fase di impasse keynesiana) e, per quanto riguarda la sfera sociale, emergevano tutte le difficoltà di finanziamento e di amministrazione dello Stato sociale. Se la «protesta» del ‘68 può essere definita come la richiesta di una cittadinanza piena, la fine di ogni autoritarismo nella scuola, nei luoghi di lavoro, nella società e nella politica, allora la «riforma» dovrebbe

consistere nell’estensione, nella tutela, nella promozione di forme più ampie, più diversificate, più mirate, ma comunque globali, di cittadinanza (nella versione più attraente e meglio motivata di Michael Walzer e, solo in parte, in quella di Ralf Dahrendorf). Naturalmente, la

«controriforma» deve essere invece vista in tutte quelle spinte neoconservatrici e populiste che hanno solcato le democrazie occidentali e si sono insediate al potere nei paesi anglosassoni. Neanche in questo caso, comunque, se ne può inferire un rapporto di causa ed effetto — fermo restando che le «rivoluzioni» incompiute generano contraccolpi, backlashes.

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Il ’68 eil sistema politico italiano

Allora, gli apporti del °68 al sistema politico e i cambiamenti da esso eventualmente introdottivi debbono essere visti e analizzati, come affermato in apertura di questo intervento, sotto diverse specie. Si potrebbe riprendere le mosse dalla triade classica nel sistema politico italiano — partiti, istituzioni, società — ed esaminare se e in quale direzione si siano prodotti cambiamenti in ciascuno di questi attori, in qualche misura tutti sfidati dal 268. Ma si potrebbe e dovrebbe altresì analizzare e valutare alcuni cambiamenti, forse più profondi, sicuramente più impalpabili ma non meno reali, nei confini della politica, nella cultura politica, nel modo di fare politica. Infatti, partiti, istituzioni, società potrebbero essere cambiati di poco nei loro assetti e nei loro volti visibili. Ma potrebbero essere cambiati di molto nel loro ambito di attività, nel

loro modo di agire, nelle loro motivazioni e nei loro valori. Si apre così un terreno di ricerca solo molto parzialmente esplorato nel quale è necessario entrare con estrema cautela. Nell’autunno del 1968 si ebbe una crisi di governo della coalizione di centro-sinistra, riceomposta prima con un monocolore democristiano, poi con la formazione di un altro governo di centro-sinistra a guida naturalmente democristiana. Nell’autunno del 1988, la coalizione di governo è un pentapartito a guida democristiana. Gli effetti del °68 sul sistema politico, almeno dal punto di vista delle coalizioni di governo, raggiunsero il loro punto più elevato con le elezioni del 1976 e con la formazione dei governi di solidarietà nazionale (che, certo, non rispon-

devano appieno alle aspettative e alle preferenze del movimento, ma che registravano alcuni importanti cambiamenti politico-elettorali). Quanto ai partiti, alcuni di essi, in particolare il Pci, furono in una

prima fase vivificati dall’apporto di numerose frange del movimento, altri sfruttarono la spinta del movimento. Ma strutturalmente i partiti sono rimasti organismi altamente burocratizzati e culturalmente hanno cambiato di poco il loro modo di fare politica (e, se e quando lo hanno fatto, come nel caso del partito socialista, hanno assorbito proprio quelle tendenze a una politica sregolata, all’assemblearismo e alla supremazia del leader che le stesse riflessioni degli esponenti del °68 individuano come negative). Politicamente, la riduzione dello spazio dei partiti, della loro presenza di occupazione e di lottizzazione non è avvenuta che in piccolissima misura e non necessariamente a favore della società civile (quanto, piuttosto, di grandi concentrazioni di potere o di minoranze strategicamente collocate). Il ’68 da un lato si disinteressò delle istituzioni, dall’altro le sfidò frontalmente. Ma non si può dire che ebbe una cultura delle istituzioni, nel senso di apprezzare il valore delle regole, delle procedure, delle

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Gianfranco Pasquino

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strutture come depositarie di risorse e di memorie collettive. Cosicché alla rottura dei vecchi riti burocratici non si accompagnò nessun tentativo di ricostruzione — fermo restando che l’intero dibattito sulla riforma delle istituzioni e della Costituzione si svolgerà tutto dopo e fuori dell’orizzonte del ’68. Infatti, il movimento sembra credere molto di più alla possibilità e all’opportunità di strappare potere ai partiti e di conferirlo alla società che si organizzi piuttosto che alle istituzioni giustamente considerate preda dei partiti, ma ingiustamente sottovalutate nel loro potenziale. Gli spazi di libertà comunque aperti dal centro-sinistra furono ampiamente sfruttati dal 68. Ma è dubbio che la fase di espansione dei diritti civili e della cittadinanza che si produsse almeno fino al 1976 sia stata plasmata dal ’68 e sia da attribuire ai suoi sforzi consapevoli. Anche in questo caso, la tendenza a sottovalutare l’istituzionalizzazione, sotto forma di riconoscimento di diritti e emanazione di leggi, ha

impedito l’attuazione di un’operazione di sostegno alla dinamica sociale e ha quindi aperto la strada alle contro-operazioni di ripiegamento. E, quel che oggi si muove nella società ha segni molto contraddittori: di ricerca di spazi di libertà e di luoghi di cittadinanza, ma anche di frammentazione e di corporativizzazione; di interessi generali e trasversali, ma anche di interessi particolari e localistici (e rifà capolino la sostanziale ambiguità del ‘68 che molte di queste contraddizioni conteneva in nuce e alimentava).

Questa comparazione, affrettata e superficiale, rischia di perdere proprio lo «specifico» del ’68, vale a dire la sua ambizione a scavare nuovi solchi per la politica, a cambiarla di segno, a destrutturarla e ristrutturarla, a depotenziarla e affinarla, insomma a ridefinirla in modo sostanziale e complessivo: dalla vecchia alla nuova politica. Di quanto lo slogan è rimasto al di sopra della realtà che è venuta affermandosi nel ventennio trascorso?

Un rito di passaggio

Chi accetta l’interpretazione ciclica della politica può considerare il °68 come un ciclo alto di coinvolgimento, di partecipazione, di influenza politica. Se si volta indietro può attribuire simile carattere di alto coinvolgimento al periodo 1944-48 e se guarda avanti, come fece Alberoni in un articolo sul Corriere della Sera può addirittura cercare di prevedere un movimento dell’88 (o del ’98). La realtà sembra essere un pochino più complicata e non facilmente riconducibile né all’inter-

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Il ’68 e il sistema politico italiano

pretazione ciclica né all’integrazione di un’onda lunga né all’interpretazione di un processo progressivo, senza fine. Cosicché, se la chiave di lettura è quella dei confini della politica, si deve sostenere al tempo stesso che il °68 fu un grande movimento di espansione dei confini della politica e che, attualmente, stiamo assistendo a un processo congiun-

to di restrizione dei confini della politica e di loro ridefinizione. Probabilmente, in questa prospettiva, l’esito più significativo del ’68 è costituito dall’esistenza di un vasto pool potenziale di coinvolgimento politico, che si attiva di volta in volta su tematiche determinate (ambiente, pace, droga), ma che rifiuta un coinvolgimento collettivo, iperpolitico, totalizzante. L’area di questa disponibilità è più ampia che in passato e meno incline a una mobilitazione subalterna, più convinta che il personale è politico e forse proprio per questo più decisa a mantenere spazi di privacy rispetto ai partiti, ai sindacati, ai movimenti e alle stesse istituzioni. Dunque: né espansione né restrizione dei confini della politica, ma loro accresciuta flessibilità da un lato, e propensione a un attraversamento frequente, in entrambi i sensi da parte degli attori, dall’altro. Anche questo esito era possibile, nelle proposte del ’68, seppur non maggioritariamente condiviso. Il discorso sulla cultura politica è di gran lunga più difficoltoso. Per quanto convincente, l'impostazione di Ronald Inglehart e la sua distinzione fra valori materialisti e valori postmaterialisti colgono solo parte del problema. Non solo la tendenza all’affermazione dei valori postmaterialisti può arrestarsi, ma le spinte all’autorealizzazione personale possono coesistere con elementi di materialismo (legge, ordine e un'economia produttiva), salvo poi essere ridefinite in momenti successivi. Comunque sia, il 68 è sia il prodotto dell’emergere di questi valori postmaterialisti che l’attore che cerca di plasmarli, di diffonderli, di tradurli in pratiche concrete. Ancora una volta, probabilmente, il modo migliore di valutare quanto è davvero successo consiste nel riconoscere che valori postmaterialisti sono effettivamente più presenti nella cultura politica italiana, ma che non tutta la loro presenza, non tutta la loro diffusione, non tutta la loro (eventuale) influenza sono attribuibili al ’68. Anzi, che in parte la nuova cultura politica si è ridefinita in contrasto con alcune tendenze del 68: un impegno politico eccessivamente gravoso, una certa accettazione della violenza, una visione globalizzante e senza smagliature della realtà politica nazionale e internazionale (s’intende, nonostante le differenze di

lettura, di analisi e di interpretazione dei vari gruppi). Per quanto faticosamente, sembra emergere nel sistema politico italiano una cultura politica della differenza che può essere ricondotta al ‘68 soltanto in quanto reazione contro una cultura politica della totalità.

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Infine, per ciò che riguarda il modo di fare politica, è probabile che elementi di tipo plebiscitario, forzature decisioniste, accentuazioni spettacolari siano riconducibili al °68. Ma, allora, il loro segno era trasgressivo e il loro bersaglio era la politica burocratica. Oggi, il segno non è più trasgressivo e quelle forme politiche si inseriscono a pieno titolo, anzi quasi fanno parte integrante del modo partitico e burocratico di fare politica. Ciò è naturalmente dovuto anche all’incapacità della nuova politica del ’68 di spazzare via la vecchia politica; è dovuto alla sopravvivenza delle vecchie istituzioni, seppure indebolite; è dovuto alla caduta di tensione complessiva della società civile e alla sua indisponibilità a mobilitarsi per obiettivi generali, oltreché alla capacità dei dirigenti di partito a sfruttare l’onda favorevole alla simbiosi ad essi gradita.

In estrema sintesi, è possibile sostenere che, quanto ai suoi rapporti con e alla sua influenza sul sistema politico italiano, il 68 costituì essenzialmente una fase di rottura che giungeva alla fine di un processo e che poteva aprirne un altro. Il nuovo processo fu aperto, però, solo molto parzialmente. Le sue punte più innovative vennero riassorbite. La rottura rimase in non pochi ambiti politici, come quello della sfida alle organizzazioni burocratizzate, senza ricostruzione. Nel migliore dei casi, il ‘68 prefigurò un futuro di destrutturazione della sfera politica, un futuro che sarebbe potuto venire. Oppure, è già venuto, e non è affatto gradevole né gradito.

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IL ’68, GLI STUDENTI E IL MOVIMENTO OPERAIO

agi

di Bruno Manghi

1. Quello del nostro tema è il tipico caso in cui una massa di ricordi, testimonianze, saggi e ricerche affolla un argomento senza costituire

ancora una spiegazione. Disponiamo di indagini (in primis quelle coordinate dal Pizzorno) e di ipotesi teoriche che sfiorano la questione (dall’analisi di F. Alberoni su classi e generazioni ai lavori di Melucci sui movimenti collettivi); possiamo soprattutto contare su contributi singoli e frammenti tali da costituire una vasta potenziale bibliografia, oltre alle memorie personali e ai documenti che ancora non sono stati consultati. In quanto amateur anziché studioso di professione della materia, intendo proporre al consenso o dissenso alcune affermazioni di partenza e tentare successivamente di argomentarle.

2. Nel vasto movimento collettivo, a forte dominanza giovanile e studentesca che interessò quasi contemporaneamente decine di paesi, il caso italiano spicca per l’assoluta importanza che rapidamente assunsero la questione operaia e il conflitto industriale, per l’attenzione rivolta al mondo del lavoro, alle problematiche di classe e alle lotte sociali. Tutto congiurò per beneficiare le organizzazioni sindacali, accentuandone oltremodo i poteri, le prerogative, il carisma. Il sindacalismo italiano poté incanalare al proprio interno grandissima parte del movimento che si manifestò tra gli operai, ma altresì nel mondo impiegatizio, in quello contadino, nei ceti popolari genericamente intesi, lungo un arco che va dall’inverno 1967 al 1973 per giungere fino al grande accordo del 1975-76 su pensioni, contingenza e cassa integrazione, accordo pressoché unico nella vicenda sindacale europea. Rispetto alla Francia la novità italiana sta nell’insediamento capilla-

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11'68, gli studentî e il movimento operaio | re del sindacato in tutti i medi o grandi luoghi di lavoro, sull’onda sia della negoziazione sia della legislazione d’appoggio. Occorre rifarsi. agli accordi Matignon, al Wagner Act, al primo dopoguerra tedesco per rinvenire fenomeni di così vasta portata. Ciò è stato reso possibile anche dal convergere sulle tematiche sindacali, del lavoro e del conflitto

operaio, delle grandi energie che autonomamente si erano manifestate nelle scuole e nelle università. Una singolare sintonia tra i due mondi attraversa tumultuosamente

gli anni iniziali, certo fino alla stagione contrattuale 1973. Tale sintonia non solo, come è ovvio, caratterizzò il percorso del movimento studentesco, ma ebbe considerevoli influenze sulla stagione sindacale. Il fatto che «avanguardie» studentesche si siano poste, fin dai primi momenti, in polemica col sindacato non inficia la tesi della sintonia. Ciò che importa è il prevalere graduale anche tra gli studenti dell’attenzione verso i conflitti sociali e di lavoro esterni al loro ambiente immediato. Se queste affermazioni sono accettabili, si tratta di capire perché tutto ciò si è verificato.

3. Mi sembra anzitutto sensato sostenere che il passato sindacale e quello studentesco «precedente» il movimento collettivo preparavano da tempo il possibile incontro. Uno tra i fattori di rilievo è stata la lunga stagione di animazione culturale che caratterizzò sia l’area cattolica sia quella della sinistra laica dalla fine degli anni cinquanta al periodo considerato. Dopo il 1964-65 nella fase dei circoli, dei gruppi spontanei e delle riviste, si assistette a un’ampia diffusione degli esempi francesi (Jean Moulin, Toqueville). Da un lato la sinistra democristiana e i cattolici inquieti, dall’altro i prodotti meno standard della cultura comunista, le iniziative critiche, il vaTio e controverso mondo socialista di allora. Troppo facile citare fermandosi ai grandi episodi (don Milani), alle esperienze giustamente più note

(Quaderni

Rossi),

o ancora

ai «maestri»

non

accademici,

da

Mazzolari a Capitini a Dolci. È tuttavia probabile che questa prolungata stagione abbia agito formativamente sulle élite delle organizzazioni universitarie e insieme sulla generazione che si accingeva a competere per il primato nelle tre confederazioni partendo dal rinascente sindacalismo industriale. Élite piccole ma diffuse che finivano con il frequentarsi nelle stesse sale di conferenza della provincia o della grande città e che si ispiravano a un’attività culturale tanto più fascinosa in quanto volutamente non accademica.

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Bruno Manghi

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Nell’ambiente studentesco tali influenze interessarono anzitutto i militanti delle organizzazioni universitarie (Intesa, Ugi, Agi) il cui contributo agli esordi del movimento è stato ampiamente documentato, senza contare ovviamente i giovani ancora non direttamente impegnati che pure si erano formati nelle associazioni giovanili cattoliche, negli oratori più vivi, o negli ambienti della sinistra di opposizione. Se infatti, quando il movimento è già affermato, è evidente un sentimento di opposizione verso le generazioni precedenti, sulle prime i fermenti appaiono invece di natura prevalentemente ambientale.

4. La disponibilità operaia e sindacale a incontrare il movimento degli studenti poggia su parecchi fattori. Uno che chiamerei anagrafico: il risveglio sindacale a partire dal 1959-60 coincide con l’afflusso nel sistema industriale di giovani ex studenti, giovani alfabeti, giovani non estranei del tutto al mondo della scuola. I quadri di base di quel risveglio sono quasi tutti meno che trentenni e d’altra parte nelle fabbriche di allora il quindicenne e il sedicenne era una presenza tipica e diffusa. Un secondo fattore concerne la fase dell’evoluzione politica delle tre centrali: è l’epoca innovativa di Novella che apre la strada ai revisionisti Cgil; la Cisl industriale con Macario e Carniti lancia la sfida al-

la gestione di Storti che, a sua volta, concede alla minoranza spazi di crescita senza repressione; dai meccanici Uil muove i primi passi il gruppo guidato da Giorgio Benvenuto. Niente di così lineare sta accadendo nei partiti, malgrado la tensione che accompagna il centro-sinistra, malgrado gli effetti che i grandi eventi della distensione internazionale e del Concilio producono nell’immaginario politico. Un terzo fattore è l’attenzione tipica del sindacalismo italiano per gli studi e le elaborazioni culturali. Ovvio il richiamo al percorso originale della Cisl (Università Cattolica, Scuola di Firenze), ma ciò vale anche per Cgil e Uil almeno in singoli importanti episodi. Manca quindi una pregiudiziale operaista classica. Ciò si nota anche nell’attenzione al lavoro non manuale e nella presenza significativa degli impiegati sia nelle commissioni interne sia nelle organizzazioni: i secondi anni sessanta furono certamente i più attenti alla diversificazione del lavoro e all'ampliamento delle aree impiegatizie. In sintesi pare abbia giocato a favore dell’«incontro» una specificità del mondo operaio e sindacale italiano: la sua lunga storia ha visto, a

fianco del classico filone unionista, insorgenze soreliane, motivi populisti, influenze leniniste. Ha visto meno di quanto sia avvenuto altrove motivi schiettamente operaisti, di quelli che maturano in comunità ope362

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Il ’68, gli studenti e il movimento operaio

raie di lunga durata, sia pure con le dovute eccezioni (aree tessili, aree siderurgiche, l’area Bergamo-Brescia, ecc.). Studi recenti sulla condizione operaia come condizione transitoria aiutano a capire perché.

S. L’attrazione esercitata sugli studenti dal sindacato e dalle lotte industriali non fu totale e immediata: a Torino, a Trento e più tardi nel movimento studentesco milanese ricordiamo il travaglio di chi voleva mantenere il conflitto all’interno delle istituzioni del sapere. Tuttavia essa prevalse in breve tempo e anche quando — ancor prima dell’interesse del movimento per i «gruppi», dalla Pirelli alla Marzotto alla Fiat — nuclei di studenti svilupparono un atteggiamento critico nei confronti del sindacato, il fare sindacato, in che modo e a che scopo, restò il motivo prevalente del contatto tra i due mondi. Lo stesso vale per gran parte delle attività di quartiere dove appunto il soggetto operaio continuava a essere evocato come figura ideale. L’attrazione era facilitata da una contingenza politica, in cui il sindacato si presentava progressivamente unito e più o meno esplicitamente contrapponeva il proprio lavoro sociale all’azione dei partiti, sembrava prossimo a occupare gli spazi fino ad allora destinati al gioco politico classico.

Il fascino dell’immediatezza,

dell’azione

diretta o

quasi, dei tempi brevi in cui si svolgevano le contese, tutto ciò suggeriva un percorso rapido e senza troppi indugi verso le questioni del «potere». A facilitare ancora il contatto fu quel grande terreno neutro, né operaio né studentesco, delle tensioni internazionali con le sue adunate, i suoi colori, le sue invettive. Una scena vastissima che annichiliva il particolare, che riduceva le differenze. Il rapporto, anche conflittuale, con il sindacato e con i lavoratori faceva parte di un tragitto emotivo: «Andare al popolo», quasi a pagare un prezzo dovuto, o ad apprendere, o a negare uno stato sociale d’origine ritenuto colpevole o debole. I casi di entrata in fabbrica non furono numerosissimi e in qualche modo assimilabili all’esperienza dei preti operai, ma molto se ne parlò, senza contare le scelte di quanti, diplomati o altro, meno clamorosamente scelsero l’attività manuale invece di proseguire la normale carriera. La questione della divisione del lavoro, del lavoro manuale e intellettuale, di quello necessario e non, fu vissuta emo-

tivamente ed intellettivamente. Fu argomento di saggi volutamente utopici (Beccalli e Salvati sui Quaderni Piacentini) ma altresì invito a uniformare modi di vestirsi, di alimentarsi, di divertirsi, di vivere. L’effetto macroscopico di queste esperienze fu la loro diffusione in ambienti tecnici, scientifici e professionali: avvocati, medici, biologi,

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WIE Bruno Manghi

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magistrati, giornalisti, ingegneri per non parlare di economisti e sociologi sperimentarono forme associative orientate ai problemi operai e popolari. Gli argomenti di studio e ricerca risentirono intensamente di tutto ciò. Forse fu unì modo per recuperare nelle istituzioni quel rifiuto dell’accademia e del sapere organizzato che aveva caratterizzato le prime ribellioni universitarie. Ma una volta avvenuto l’incontro, mentre il mondo del lavoro organizzato (pur recando segni vistosi di quanto era avvenuto) proseguì un suo specifico tratto di strada, l’esperienza della lotta studentesca si articolò in varie direzioni, verso la politica classica, verso i gruppi, verso il lavoro intellettuale, verso nuovi movimenti. In parte confluì nel movimento sindacale, talvolta fornendo al sindacato quadri dirigenti o uo-

mini di staff, più spesso portando nel mondo del lavoro persone che, almeno in un primo tempo, erano positivamente sensibili ai motivi di conflitto. Se l’incontro con le lotte del mondo del lavoro abbia in qualche modo indebolito la tensione dei giovani a rivedere i percorsi dello studio e quelli della condizione giovanile resta un quesito a cui è difficile dare una risposta fondata.

6. Quanto all’esperienza sindacale, il contatto con il movimento degli studenti mi pare abbia avuto riflessi notevoli e ancora da valutare. Intanto la scoperta di «alleati» inusuali, dopo un primo momento di dubbio, si accompagnò a un senso di orgoglio e di soddisfazione (v. l’intervento di Rinaldo Scheda al X Congresso Cgil di Livorno). La sintonia con gli studenti fu il primo e massimo sintomo di quell’alone favorevole che accompagnò per almeno otto anni le lotte sindacali. Rafforzò indubbiamente una serie di illusioni (che peraltro sono tipiche di qualsiasi storia sindacale): la sottostima della politica, l’esaltazione della dimensione sociale pura, l’ossessione pedagogico-politica, la tematizzazione schematica del potere (si veda lo slogan del Congresso Cisl del 1968, «Potere contro potere»). Il che si rivestì di forme ancor più radicali, grazie all’imporsi di un lessico marxista ipersemplificato e di una ritualità imponente. Ritengo invece che la dimensione di violenza, peraltro assai contenuta fino al °73 (gli anni del consenso quasi universale), poté trarre dai giovani qualche elemento formale ma aveva radici, motivi e tradizioni indipendenti da essi. C'è tuttavia un altro versante di influenze, che va dalla forte riscoperta sindacale della scolarizzazione (le 150 ore, malgrado il carico di attese politiche sovrapposte ad esse), alla valorizzazione dell’espressi-

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Il 68, gli studenti e il movimento operaio

vità, della comunicazione, della ricerca, dello studio, indipendentemen-

‘te dalla qualità assai eterogenea di quanto si produsse. C’è l’esperienza, oggi dimenticata, del conflitto sindacale moderno tra gli impiegati dell’industria (vertenze di Genova e Milano già nello stesso 1968, e i

fermenti a partire dal ‘70 nel settore pubblico e tra gli insegnanti). Si alimentò oltremisura una retorica antifascista, ma il sindacato fu stimo-

lato ad assumersi, in momenti diversi e senza remore il compito di contribuire all’ordine costituzionale (funerali dopo la strage di piazza Fontana).

Il rapporto con gli studenti rafforzò quindi la vocazione civile del sindacalismo italiano ad essere qualcosa di più di un grande gruppo di pressione operaio. Rafforzò nel contempo le sue preclusioni a fare i conti col sistema politico, quando già la sua esperienza di esclusione lo induceva a una competizione illusoria con il sistema politico e istituzionale. Parallelamente il dominio troppo incontrastato del riferimento di classe ridusse, come sappiamo, la consapevolezza delle diversità, del necessario pluralismo, facendo intravvedere una risposta troppo semplice a quell’ansia di unità che pure è tipica di qualsiasi movimento sindacale. Alla lunga tuttavia possiamo ritenere che il cuore del mestiere sindacale (la negoziazione) non solo non venne meno, e basterebbe un in-

ventario dei risultati civili conseguiti a dimostrarlo, ma si espanse nei rapporti sociali assai oltre i confini delle vertenze dell’industria a tal punto che oggi il rapporto negoziale risulta così esteso nelle relazioni sociali da produrre un certo smarrimento e qualche domanda ulteriore.

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IL MOVIMENTO DELLE DONNE* di Luisa Passerini

La complessità del tema è accentuata dallo stato degli studi. Da un lato non esiste ancora in Italia una storia del movimento delle donne negli ultimi vent’anni, come ne esistono per altri paesi; sul caso italiano si danno molti lavori parziali, inframmezzati quindi da lacune vistose. Questa situazione è collegata con un privilegiamento di altre discipline, rispetto alla storia, nei dibattiti culturali del movimento femminista italiano; indubbiamente la filosofia, la linguistica, la psicoanalisi e la psicologia hanno offerto più direttamente materiali e strumenti atti a sostenere posizioni politiche. Le storiche italiane, che pure hanno prodotto lavori di grande interesse sul piano sia metodologico sia contenutistico, non hanno applicato le loro competenze alla storia del loro stesso movimento e soprattutto non ne hanno fatto un mezzo di lotta politica. Di qui vengono aspetti positivi e negativi, in un quadro che forse subirà qualche mutamento per varie iniziative in corso (costituzione della Società italiana delle storiche, proposte di centri dentro e fuori le istituzioni universitarie — e talvolta in collegamento tra dentro e fuori — per studi delle donne). Dall'altro lato la storia delle donne incontra sempre un equivoco nel settore delle discipline storico-sociali: deve riempire il vuoto lasciato dalle storie generali sulle donne. Negli ultimi anni si è venuto affermando l’assunto, almeno nella prassi della ricerca, secondo il quale si lascia tranquillamente diritto di cittadinanza alla storia delle donne (almeno nei convegni e su alcune riviste) come campo specialistico, mentre le donne non compaiono affatto in tutte le trattazioni che

si definiscono come «generali». Credo che ciò dipenda dalla mancata assunzione da parte degli storici della categoria di genere, che implicherebbe sia una critica ai punti di vista finora ritenuti universali sia l’applicazione, nelle discipline storico-sociali, del genere anche allo

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Il movimento delle donne

studio degli uomini, nonché del rapporto tra donne e uomini e della sua storicità. Con questi limiti, tenterò di individuare alcune linee emergenti dalle ricerche finora compiute e nello stesso tempo le connesse prospettive di ricerca.

Le radici sociali negli anni cinquanta e sessanta Le generazioni di donne che daranno vita al o saranno coinvolte dal movimento inteso in senso stretto nascono tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni cinquanta. Per analizzare la loro formazione sarebbe dunque necessario prendere in esame la storia culturale e sociale dell’Italia dagli ultimi anni del dominio fascista in poi. Questo approccio richiederebbe anche una prospettiva dinamica sui cambiamenti della struttura di classe negli ultimi cinquant’anni, per controbattere il

frettoloso luogo comune che il movimento delle donne sia prevalentemente composto di appartenenti ai ceti medi; questa etichetta nasconde in realtà una notevole eterogeneità di derivazioni sociali, su cui varrebbe la pena fare qualche ricerca. Gli studi esistenti hanno messo in luce due processi fondamentali che coinvolgono quelle generazioni di donne. Il primo è composto da fenomeni di profondo mutamento nei comportamenti quotidiani, che si manifestano negli anni cinquanta, e che potremmo definire complessivamente movimenti emancipatori informali. Essi comprendono l’assunzione di nuove abitudini in primo luogo nei consumi — e questo riguarda in qualche modo larghissime masse di donne in movimento, an-

che attraverso l’emigrazione; basti ricordare l’esempio del corredo fatto a suo tempo da Alberoni — consumi che hanno a che fare col corpo, con la casa, con i modi di spostarsi. Comprendone in secondo luogo i piccoli scarti quotidiani nel modo di atteggiarsi e di vivere: uscire, camminare per strada, viaggiare, fumare; fino all’inquietudine, ancora in parte non agita, sui comportamenti sessuali, su quel vago insieme di costumi cui alludeva un’espressione diffusa alla fine degli anni cinquanta: «libertà d’amore». A questo grande processo se ne affianca un altro, che è stato definito di marginalizzazione politica delle donne, rispetto agli anni della Resistenza e al periodo della Repubblica. Alcuni elementi di questo secondo processo erano l’espulsione della manodopera femminile dalle fabbriche, la diminuzione delle rappresentanti politiche nel parlamento, la stasi delle iniziative di legge favorevoli alle donne. Simonetta

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Luisa Passerini

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Piccone Stella ha notato che contemporaneamente a questi fenomeni si dava il paradosso di campagne per l’educazione della donna moderna che mettevano l’Italia allo stesso livello di altri paesi occidentali. L’insieme accentuava la mancanza di canali di rappresentazione e lasciava alle singole l’iniziativa per trovare modi di incidere nella realtà. Negli anni sessanta, mentre si sviluppano e si modificano le tendenze su accennate, si possono già intravvedere aspetti che rappresentano in modo più specifico assunzioni di responsabilità sul piano del genere. Il più delle volte ciò è del tutto implicito: tali possono apparire a ritroso certe pratiche all’interno dell’associazionismo cattolico (discussioni in comune che somigliano a prese di coscienza, esperienze di dirigenza e di lavoro sociale); come mostra la memoria autobiografica di donne e uomini, quelle pratiche contenevano disagi ed euforie legate a percezioni della differenza di genere. Così era stato implicito il mondo di solidarietà e di conflitti nelle relazioni tra pari, costretti a difendersi dall’oppressione della comunità adulta. Ma qualche comportamento esplicito affiorava. Si pensi all’accidentata storia de // secondo sesso di Simone de Beauvoir, pubblicato in Francia nel 1949, messo all’indice dalla Chiesa cattolica, tradotto in Italia nel 1961. La lettura di quel libro, le discussioni informali cui dava luogo, rappresentavano tappe di mutamento per alcune donne. È soprattutto intorno al 1965-66 che letture come quella sembrano coagularsi in nuove sensibilità; penso anche a testi assai diversi tra loro come quello di Giovanni Cesareo, La condizione femminile, uscito nel 1963,

e naturalmente all’importantissimo libro di Betty Friedan, La mistica della femminilità, la cui prima edizione italiana è del 1964. Quel libro esprime bene il clima dell’epoca: unisce la critica della famiglia americana alla dedica che l’autrice ne fa alla sua stessa famiglia: «A Carl Friedan e ai nostri figli Daniel, Jonathan e Emily»; accoppia la denuncia dell’integrazione nel sistema con un suggerimento fondamentale: l’istruzione, e per le donne che l’hanno già avuta, ma non l’hanno mai presa troppo sul serio, «come prima cosa riimergersi intensamente negli studi umanistici». La dimensione culturale è quella in cui si possono capire i fermenti delle donne in questa fase, come primo orientamento a scoperte e affermazioni di soggettività. Porta questo segno anche quello che è diventato consuetudine considerare l’antesignano dei movimenti delle donne in Italia (ma qui il campo è aperto alla ricerca): quel gruppo di Demistificazione dell’autoritarismo (Demau), che appunto intorno al 1966 avvia una critica all’emancipazione propria delle organizzazioni femminili come l’Udi e discute dell’oppressione che poi definirà patriarcale. Di questa espe-

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renza sl possono ricordare tre elementi, rispetto agli scopi della mia relazione: che opera una critica interna alla cultura (come poi farà, ha notato Maria Luisa Boccia, anche Rivolta femminile: cioè un primo passo — consono allo spirito che sarà del °68 — è quello di confutare la cultura dominante grazie al confronto con se stessa: Hegel con Hegel o Freud con Freud); che pone al centro il tema dell’autoritarismo in senso lato, e quindi sarà spontaneamente «in concorrenza» col ’68; che è per certi periodi un gruppo misto. Sollevo quest’ultimo punto perché mi pare rilevante cominciare a porre sul piano storiografico, anche in Italia, la questione del ruolo di alcuni uomini rispetto al movimento delle donne. Quest'ultimo ha in genere trattato del tema sul piano simbolico, quindi in senso assai dilatato (lo sguardo maschile presente nelle donne anche quando si incontrano tra loro). Sarebbe interessante invece studiarlo da un punto di vista storico e antropologico. Ci sono molte indicazioni in questo senso: alcune figure maschili hanno avuto un ruolo importante nel primo periodo del movimento delle donne, che praticava il separatismo in modo parziale: il Demau prevedeva anche l’emancipazione degli uomini; ancora nel 1972 uno dei testi importanti del movimento delle donne in Italia, La coscienza di sfruttata, sarà firmato da quattro donne e un uomo. Riprenderò questo tema più avanti, a proposito del movimento già costituito.

Il ’68 Ho argomentato altrove un’interpretazione del ’68 come emergenza della soggettività, processo di lungo periodo nel corso del quale si intreccia la presa di parola di soggetti individuali con la prassi di soggetti collettivi. All’interno di quell’interpretazione si situa una prima ipotesi sul rapporto tra il 68 e il femminile: che il. 68 rappresenti per certi versi una femminilizzazione nella storia della nostra civiltà, una fase in

cui vengono apprezzati aspetti tradizionalmente relegati dalla nostra cultura nel suo lato oscuro e debole, che include l’immaginale, l’emotivo, il singolare, l’empirico. L’attenzione dei movimenti del ’68, o almeno di quelle loro parti che ritengo costituire la vera novità storica, verso la condizione dei soggetti reali, la disponibilità ad alleanze con altri soggetti del cambiamento sociale solo sulla base delle proprie lotte, la critica alla cultura paludata, sono tutti elementi che vanno nella direzione del lato oscuro. Il modo in cui vengono messi in atto accentua l’importanza del momento emozionale (l’innamoramento collettivo di cui parlano tante testimonianze).

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Questo è un primo piano di discorso, che non può essere tradotto bruscamente sul piano empirico, ma che vale in senso generale, in una storia delle culture attenta ai fenomeni dell’immaginario e dell’inconscio. Le determinazioni che in essa si presentano non sono ovviamente universali ed eterne: ciò che una o più epoche definiscono pertinente al femminile non è tale in modo assoluto. Una delle caratteristiche del °68 che confermano nel breve periodo tale interpretazione di lunga durata è quella androginia che si manifestò nella predilezione per alcune immagini (esempio significativo il protagonista del film Della conoscenza di Alessandra Bocchetti). È ovvio che 1’androginia, quale si configura nelle relazioni in cui non avvenga una precisa assunzione della differenza di genere, risulti espressa in immagini maschili; tuttavia queste non hanno il segno della virilità tracotante e onnipotente, al contrario contengono quasi una nostalgia del femminile, in una convergenza tra immagine del giovane maschio e immagine della donna che è propria di una cultura patriarcale. La specifica complessità del °68 è che questa insorgenza di caratteri femminili sul piano generale avviene in concomitanza con il rifiuto sul piano empirico, da parte di molti, singoli e in gruppo, di concrete figure femminili, in particolare quelle materne e in genere quelle delle generazioni immediatamente precedenti. Si impiantano così conflitti di grande potenza che verranno a maturazione soltanto nei decenni succCeSssivi. A tutto ciò si accompagna, nella sfera politica — è essenziale la distinzione delle sfere del reale per afferrare l’intreccio dei processi — una partecipazione delle donne al movimento degli studenti di qualità e quantità inedita, se collocata in prospettiva storica. Emergono nuove immagini di dirigenti e di quadri intermedi, a loro volta origine di conflitti tra le donne, ma che pongono in modo inequivocabile la questione non solo delle differenze, ma delle gerarchie tra le donne. Il portato di questo non poteva essere riconosciuto all’epoca, a causa dell’imperante ideologia dell’eguaglianza (rimando per questo nodo alle relazioni di Cesare Pianciola e Franco Sbàrberi da un lato e mia dall’altro, tenute al Centro Gobetti nella primavera 1988).

La politica si intreccia nel °68 con nuove forme di socialità (occupazioni, lavori in piccole commissioni, gestione dei collegi, vita in comune) che sono molto importanti per le donne, come esperienza di uscita, con tutte le sue durezze, dal destino della famiglia. Nella nuova

sfera pubblica che si viene instaurando, sia pure per un breve periodo, le donne si sperimentano parzialmente, implicitamente, come soggetti o come potenziali soggetti, in alcuni casi, anche degli antagonismi tra

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loro. Dopo il ’68 il disagio delle donne non potrà recedere dal dichiararsi, o almeno dall’affrontare sofferenze sempre più acute. Perché è vero che in quel clima di grande innovazione le donne, alcune più di altre, vissero insieme momenti di euforia e di umiliazione, di autoriconoscimento e di smarrimento, con un avvio di trasformazio-

ni profonde. Ma in modo simile viveva contraddizioni rimandate al futuro l’individuo, che nelle circostanze di movimento avvertiva insieme esaltate e negate le sue potenzialità e i suoi diritti. L’alternarsi di democrazia e autoritarismo nella stessa prassi del movimento alimentava tensioni e contrasti tra gruppi, tra singoli, all’interno dei singoli. In Italia tutto ciò si articola anche sulla base della sua molteplicità municipale. Spero che le relazioni della sessione sulle città mettano in luce anche le diversità di esperienze delle donne e dei rapporti tra donne e uomini nelle varie situazioni. Uno dei casi che mi pare più interessante è quello di Trento, dove esistono fermenti di riflessione e coesione delle donne prima del ’68 (Collegio delle dame di Sion); si vive poi un periodo di «parità» (anche qui figure interessanti di dirigenti: «Marianella Sclavi era come Mauro Rostagno», dice la testimonianza di una donna, sebbene la testimonianza di Marianella per certi versi smentisca); e infine si approda a uno dei più rilevanti e tormentati filoni del femminismo italiano, tra femminismo radicale, freudismo e marxismo.

Non è irrilevante che questo gruppo, Cerchio spezzato, diventi uno di quelli germinali nella Milano dei primissimi anni settanta, crogiuolo del movimento nazionale. L’esperienza di Trento parla di un intreccio tra nascente ispirazione femminista e movimento degli studenti, di presa di coscienza (si noti il termine, preferito in quella situazione ad «autocoscienza») e di vita in comunità gestite da donne ma quotidianamente miste, che si riflette anche nella politica (commissioni sulla condizione della donna). Ma siamo ormai nell’inverno 1968-69. La fase di androginia, sia pure nella sua versione maschile, è finita, le sorti stanno per separarsi. Un’ultima

notazione: il carattere di gruppo di pari, così forte a Trento e a Torino, per fare due esempi principali, è, secondo alcune testimonianze, meno accentuato a Milano e Roma, città dove il movimento è definito più maschilista: si tratta solo di scherzi della memoria? Complessivamente, con questo rapido excursus ho voluto dare qualche elemento della forza e della significatività della presenza nel ’68 delle donne e del femminile (sottolineo ancora, se ce ne fosse bisogno, che i due termini non coincidono) per le donne stesse, per il movimen-

to, per i rapporti tra donne e uomini. Rispetto a quella forza e significatività, la storia e i mezzi di comunicazione di massa sono stati straordi-

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nariamente carenti. Le donne sono state enormemente più presenti nel 1968 di quanto siano state nelle celebrazioni del 1988: come soggetti e come oggetti. Su questo punto avviserei i giovani di esercitare un’acribia particolarmente acuta: le cose non sono aridate come sembrerebbe da molti resoconti; in questi ultimi si riproduce la cancellazione delle donne che Joan Scott ha rilevato in tutta la storia politica, «tradizionale

roccaforte della storiografia più ufficiale» (Ferrante et al. 1988). Si potrebbe concludere osservando che non solo le donne sono espunte da resoconti e storie del ’68, ma in generale i corpi, scarsamente restituiti dalle immagini fotografiche senza la loro piena assunzione nella problematica storiografica. Eppure la politicità stette anche in questo: nel movimento dei corpi e nel muoversi dei significati dei loro gesti e azioni. Mentre si riproducevano su questo piano antiche forme di relazioni, si spostavano anche immense barriere, venivano a galla inquietudini e comportamenti che nel decennio precedente avevano abitato gli interstizi della società. Basta pensare al campo che per un verso è giusto chiamare mercato del sesso, dove si barattavano, come sempre, ma in contesto nuovo, amore, prestigio, sicurezza, e dall’altro era luogo di conoscenza, di sperimentazione di sé e dell’altro, di apertura a temi affrontati in modo proprio solo dai movimenti delle donne e degli omosessuali.

Il movimento delle donne

Il rapporto tra movimento del ‘68 e movimento delle donne è articolato e polivalente. Bisogna ricordare in primo luogo la dimensione internazionale, che complica le cose: ad esempio nel 1969 si formano in Italia gruppi di donne che discutono prendendo spunto da documenti del movimento statunitense; le donne che li avevano stesi provenivano sia dai movimenti per i diritti civili e in generale della nuova sinistra americana sia dal filone detto radical-borghese (tra i gruppi che utilizzano quei documenti si possono ricordare quello di Milano che poi diventerà l’Anabasi, Cerchio spezzato di Trento, il Collettivo delle com-

pagne del gruppo Comunicazioni rivoluzionarie di Torino). Inoltre esiste un’altra dimensione essenziale, non geografica e geopolitica, ma storica, di cui tener conto: i movimenti delle donne esistiti fin dal secolo scorso e ingiustamente relegati nel mero emancipazionismo (a questa polemica si deve anche il rifiuto del termine «femminismo» da parte dei movimenti delle donne in Italia e in Francia nei primi anni settanta, ora riaccettato; v. Marcuzzo e Rossi Doria 1987).

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Sebbene la memoria storica fosse stata il più delle volte ridicolizzata (come sul suffragismo), il peso degli antecedenti non era del tutto irrilevante. Per quanto riguarda l’Italia, direi che il retaggio dell’Udi ebbe qualche ruolo o come obiettivo polemico da cui distanziarsi o come trasmissione di pratiche politiche (testimonianza di Maria Teresa Fenoglio sull’occupazione del Collegio femminile di Torino, resa nel corso del seminario di metodologia della ricerca storica, anno accademico 1987-88; testimonianze e documenti della ricerca su «La storia delle donne in Emilia-Romagna»). Si confondono dunque due linee: una di derivazione più antica e autonoma, di insorgenza delle donne in luoghi e tempi diversi dal ’68; un’altra, legata ai movimenti del ’68, su cui vorrei fare due ampliamenti rispetto al significato in cui ho usato finora il termine, da me assunto nella sua specificità riferita agli studenti — perché sono il punto di partenza e la pietra dello scandalo dei processi più ampi avviatisi in concomitanza o in conseguenza. La vera novità storica è proprio che siano gli studenti a ribellarsi, e in modi «da studenti». Tuttavia, per il

movimento delle donne, sono particolarmente rilevanti due aspetti che ampliano il significato di «°68»: i movimenti che si scatenano nelle fabbriche, negli uffici, sul territorio; gli effetti del ‘68 su quelli che non

Vi parteciparono in prima persona, ma ne vissero le conseguenze sociali. In questo senso il °68 è forse ancor più rilevante rispetto al movimento delle donne che in quello ristretto secondo cui «le ragazze del 68» sarebbero prima o poi approdate al femminismo (a volte mai). Nel senso più lato si può cioè accettare la tesi che un grande esempio di presa di parola, sia pure con aspetti dissennati e prevaricatori, inclini molti, molte in questo caso, a ritenere possibile qualcosa non solo di simile, ma di meglio. Al di là delle continuità esplicite, ci sono affinità in-

negabili col °68, soprattutto in quest'altra gigantesca invenzione di parola che è il movimento delle donne, nel suo modo di pervenire all’universale attraverso l’ostinazione sul particolare, nel suo uso dell’irrisione e della violenza verbale. La difficoltà, come in tutti i fenomeni collegati con la soggettività nella storia, è di riuscire a pensare insieme continuità e discontinuità. Il movimento delle donne ha insistito soprattutto su quest’ultima, sottolineando il distacco dal movimento degli studenti o dei giovani, nonostante la consapevolezza delle possibili alleanze contro il sistema patriarcale: ... man mano che si arrivava alla maturazione del cosiddetto 1968 era sempre più difficile la comunicazione tra noi. Ci sono stati molti scontri con quelle che successivamente sono rientrate nel femminismo autonomo... una parte del gruppo è svanita perché era molto attratta dal fare politica nel movimento studentesco... molte se ne

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sono andate perché «volevano «far politica» ( una donna del Demau, in Calabrò e x Grasso [cur.] 1985, p. 215). > ... nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale... Ma senza la presenza del suo alleato storico, la donna, l’esperienza anarchica del giovane è velleitaria, ed egli cede al richiamo della lotta organizzata di massa... Il giovane è oppresso dal sistema patriarcale, ma pone nel tempo la sua candidatura a oppressore; lo scoppio di intolleranza dei giovani ha questo carattere di interna ambiguità (Lonzi 1970, pp. 11 e 22).

Queste citazioni pongono già tutti i problemi dei rapporti tra movimento degli studenti e movimenti operai, nonché ideologie marxiste. Ma qui dobbiamo tralasciare tali problemi, per concentrarci sui rapporti tra movimenti del ‘68 e movimenti delle donne. Si potrebbe riassumere così una tesi che necessita di ulteriori ricerche: il secondo vive rispetto al primo momenti fondamentali di discontinuità radicale, essendo più antico e vertendo su una contraddizione più antica; tuttavia gli è debitore in quanto il ’68 propone su scala allargata un movimento di libertà che parte dalle proprie condizioni di vita. Senza quello «scossone» (Frabotta [cur.] 1973) delle coscienze, il neofemminismo sarebbe

stato diverso. La sua storia riceve contributi dagli innesti del °68, nonché dalla sua atmosfera, soprattutto nella capacità di vedere la politicità

dei ruoli, delle conoscenze, dei rapporti !. Il tono di rancore e di concorrenza presente in parte nel movimento delle donne verso «studenti» e «giovani» è da intendersi nella condizione storica specifica dei primi anni settanta, nella convivenza amara, e questa sì davvero competitiva, con i gruppi politici che nel °68 hanno una delle loro origini, ma che ne sono spesso lontanissimi, sia nello spirito sia nella lettera. Eppure anch’essi a modo loro sono luogo di coltura di altre femministe: esemplare è la vicenda di Lotta Continua, che sfocerà negli scontri del dicembre 1975 a Roma e nel Convegno di Rimini dell’anno successivo, nonché nel processo di discussione, destrutturazione, ricomposizione informale che ne seguirà, soprattutto da parte delle donne, ma anche di alcuni uomini. Ciò avverrà ormai nel corso di una seconda ondata del femminismo italiano, esaurita la spinta del periodo dei primi anni settanta (rispetto a cui potremmo considerare la fase 1966-69 una sorta di preludio o preistoria, o di ripresa all’interno di una storia più lunga). Nella prima fase si erano consumati cambiamenti profondissimi, che per un paradosso storico avevano avuto come sede case private e sedi di piccoli gruppi. Eppure quanto si era avviato in quei luoghi era tale da imprimere una svolta decisiva alle relazioni e agli atteggiamenti. In seguito le cose non sarebbero più state le stesse, nonostante l’apparenza (apparenza che uccide, in senso marxiano).

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Il movimento delle donne

Ma che cosa esattamente era accaduto? Anche qui, come per il ’68, riscontriamo una discrepanza tra eventi specifici e mutamenti nella storia della soggettività. Ma qui è ancora più accentuata, più clamorosa, più beffarda rispetto alla storiografia fattualistica. Attraverso comportamenti quotidiani alcune donne, in molti luoghi, avevano cominciato a considerarsi soggetti le une verso le altre e a trattarsi come tali; a studiare, a parlare, a pensare in questa prospettiva. Formalizzavano e portava‘no a coscienza antiche forme di coesione e conflitto tra le donne, accet-

tavano di contare e di piacere a se stesse e ad altre, in modo più esplicito di quanto fosse accaduto nella maggior parte dei casi del passato. Avviavano così una critica pratica e teorica della cultura occidentale. Ma contemporaneamente esponevano se stesse e le persone più amate a cambiamenti straordinari. Tra questi anche mutamenti nella famiglia, nelle coppie, nei rapporti tra generazioni. Altri, più difficili da cogliere, erano gli spostamenti tra maschile e femminile, o meglio tra le loro versioni storiche. Le donne accettavano anche, con una varietà di scelte più o meno consapevoli, di rinunciare a rivendicare certe forme di potere, prima fra tutte quello della maternità. È ancora da valutare fino a che punto e in che modo la svalutazione (o sottovalutazione o critica) della maternità nel femminismo dei primi anni settanta abbia pesato sulle sue protagoniste e sul costume. Certo ha inciso fortemente su destini individuali, modificando o legittimando cicli di vita, dilazionando o negando la produzione di figli, nonché instaurando rapporti diversi tra madri e figli. Rientrava in quel grande sommovimento anche una negazione, da parte delle donne, di certi aspetti del femminile tradizionale e delle sue immagini. Prezzo non indifferente pagato alla ricerca di come essere veramente se stesse e quindi veramente donne, fu anche questo: escludere per certi versi gli uomini, e quindi soppiantarli, giacché nulla si può annientare senza qualche compensazione, più o meno consapevole. Ma il rimosso ricompariva non solo sul piano del movimento in senso stretto, anzi piuttosto di quello più diffuso e informale che è stato definito «la rivolta delle donne» (Albistur e Armogathe 1977). Prima di dedicargli una sia pur brevissima attenzione, vorrei tornare

un attimo a un tema accennato in precedenza: quello degli uomini del femminismo (forse anche perché mi pare un piccolo indizio del nuovo universalismo delle donne che nelle loro analisi compaiano gli uomini, mentre accade di rado il viceversa). Alcuni uomini in carne e ossa eb-

bero un ruolo rilevante per il movimento delle donne nella sua prima fase: stabilirono contatti, portarono documenti, trasmisero idee. Insomma si fecero mediatori di relazioni e di risorse, che è quello che spesso

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ruolo è in genere connesso anche il compito di manipolazione dei rapporti, nonché di oggetto d’amore conteso, di confidente segreto, di figura di sostegno e di sfogo. Non credo che si trattasse di semplice rovesciamento dei ruoli tra gli uomini e le donne più vicini al movimento ma di una tappa delle grandi trasformazioni nelle relazioni di genere e nella ridefinizione di maschile e femminile. Comunque, un capitolo non ancora scritto della storia del movimento delle donne in una certa fase. Per concludere, il movimento delle donne nei primi anni settanta mostra la crescita di numerosissimi piccoli gruppi, in varie città, spesso con nessun’altra denominazione che quella della strada in cui è situata la sede o la casa privata che serve come luogo di incontro?. I temi che sono trattati nelle riunioni di autocoscienza così come nelle discussioni di vario genere sono molteplici: quello del corpo, con la rivendicazione di una diversa sessualità sia tra donne sia tra donne e uomini (è la ri-

sposta all’illusione di libera sessualità mista degli anni intorno al ’68), ma anche con i gruppi di autovisita e in seguito i consultori; quello del lavoro domestico, con la critica ai ruoli, all’economia politica di deri-

vazione marxista, con le proposte di salario alle casalinghe da parte soprattutto di Lotta femminista (ma alcune delle riflessioni sul rapporto tra donne e lavoro verranno riprese molto più avanti e modificate grazie all’impegno politico di natura sindacale); quello della differenza, in connessione con l’identità, e sulla base di una critica alla psicoanalisi in cui furono importanti, a diverso titolo, le posizioni del gruppo Politique et psychanalyse e un’opera di Juliet Mitchell. E essenziale avvertire che nella periodizzazione da me proposta prevalgono le linee di tendenza come determinanti, e che quindi dovrà essere articolata in una cronologia differenziata. In zone diverse, che

hanno rapporti con luoghi in cui si sono sviluppati forti poli di attrazione, si avranno

notevoli divari cronologici.

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fluenza su città della stessa regione, l'Emilia-Romagna, da parte di gruppi diversi, come da un lato Lotta femminista e dall’altro quello che diventerà il gruppo della Libreria delle donne di Milano. Oppure al diverso ordine d’arrivo nel femminismo,

per così dire, dei collettivi di

studentesse, una storia che si dipana dal 1969 a tutti gli anni settanta e oltre. AI di là delle indicazioni e periodizzazioni di tendenza, è essenziale proporre costruzioni storiche precise organizzate per luoghi o per rapporti o per temi; ad esempio sarebbe molto rilevante una ricostruzione precisa delle varie posizioni sull’aborto da parte di ali e gruppi diversi nel movimento delle donne.

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Il movimento delle donne

La «rivolta delle donne»

Anche quest’espressione, come intifada, mi appare intraducibile, così carica com’è di novità rispetto ad altre rivolte, da richiedere un richiamo continuo al contesto e alle caratteristiche. Con tale termine intendo riferirmi ai cambiamenti di diritto e di fatto operati dalla società in seguito ai mutati comportamenti di donne singole o consociate, intorno e al di là del movimento inteso in senso stretto. Nel corso degli anni settanta ci sono stati alcuni segni di tali mutamenti, che hanno comunque cercato di rispondere al DA che le donne venivano esprimendo in mille modi. Penso ad aspetti come il cambiamento del diritto di famiglia, o al diritto di aborto, alle conquiste di parità sui luoghi di lavoro, alla crescente presenza delle donne nelle professioni. Penso anche ad aspetti che preferiremmo ignorare, nel processo di affermazione di presenza delle donne in pubblico, quali la loro numerosa partecipazione al fenomeno terroristico nell’Italia degli anni settanta (Guidetti Serra 1988), tragico momento di equiparazione all’interno del dominio esistente. Questo ripropone ancora una volta la questione del rapporto continuitàdiscontinuità (non mi sembra un caso che sia stato anche il nodo di una

grande controversia intorno al fascismo e all’antifascismo). Per molti dei processi che prendono il via dal °68 e si estendono sugli anni settanta bisogna indicare due tipi di continuità possibili: quella nelle idee, negli atteggiamenti, nelle politiche (di cui ho messo in luce alcuni esempi tra ‘68 e femminismo) e quella biografica nelle traiettorie dei singoli e delle singole che passano attraverso varie vicende e varie organizzazioni. Accanto a queste è tuttavia indispensabile tenere conto delle discontinuità, che si possono anche presentare come incrociate rispetto a quelle: un individuo passa dal 68 a un gruppo politico al femminismo (o al terrorismo), per esempio. Dal primo al secondo può esserci discontinuità netta, come sulla questione del partito, e continuità su altri; e così tra il primo e il terzo o tra il secondo e il terzo. Mi sembra fondamentale riconoscere innanzitutto che l’unità biografica del soggetto individuale non è incompatibile con il cambiamento radicale di fase e di valenza politica dall'una all’altra delle tappe. Può viceversa accadere che, nonostante la continuità del permanere in una certa posizione politica, il singolo viva ribaltamenti e rovesci nella sua biografia personale. Si tratterà dunque, come già per il fascismo, di studiare nei dettagli le forme di continuità e di discontinuità, sia rispetto al significato complessivo delle fasi storiche sia rispetto ai corsi di vita dei singoli.

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Luisa Passerini

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Per quanto riguarda i larghi strati di donne che non hanno partecipato in prima persona a movimenti, gruppi e organizzazioni di vario genere, è tuttavia evidente negli anni settanta un ampio cambiamento di

mentalità, di atteggiamenti, di comportamenti. Basti pensare al nuovo modo di muoversi e di pensarsi delle donne molto giovani o delle don-

ne anziane, due poli della solitudine femminile; o al diverso modo in

cui vengono compiute le prestazioni da sempre offerte nella famiglia, oltre a quelle nuove, di carattere burocratico (Balbo 1976). Comples-

sivamente si può dire che avviene nei rapporti tra le donne e il mondo un cambiamento «dalla natura alla cultura»: ciò che prima sembrava naturalmente dovuto, comincia'a essere fatto per scelta, anche dove apparentemente nulla è cambiato o si è tornati a com’era prima della «rivolta». Si tratta ancora una volta di una presa di parola: cose che prima non erano dette o erano dette a mezza voce, cominciano a essere dichiarate,

| nei rapporti tra donne e uomini, tra donne e ambiente. Tra donne e donne la seconda metà degli anni settanta porta avanti processi che sfoceranno negli anni ottanta: la ripresa del tema del lavoro, dentro e fuori la casa (che porteranno alle pari opportunità, alle azioni positive). Un’altra vicenda di quel quinquennio, la crisi individuale e collettiva delle militanze, costituisce una critica profonda a tutta la fase precedente e proietta la sua ombra di smarrimento, devastazione, suicidio anche sul

nostro decennio. Tuttavia anch’essa contiene elementi di rinascita e di promessa per il futuro. Ma anche questo dovrà essere storicizzato. Per vedere gli anni settanta compiutamente in prospettiva storica sarà necessario tenere in conto le novità in corso di attuazione negli anni ottanta, che sostituisco-

no alla pratica dei piccoli gruppi aggregazioni di donne (centri di documentazione e ricerca, librerie, gruppi di studio) impegnate nel campo della cultura oppure, sotto forma di associazioni, consorzi, organismi anche interni alle istituzioni, attive nella rivendicazione di spazi professionali. Le forme di internazionalismo degli anni settanta, per affinità, vengono sostituite da nuove tendenze, ancora incerte, ma più basate sulla diversità. Tutto questo sembra andare al di là dei piccoli gruppi, verso quello che Raffaella Lamberti ha definito una politica «da popolo delle donne», capace di non negare né il piccolo gruppo né ia singola. Gli anni settanta contengono, per contrasto, l’accentuazione di questi ultimi due elementi e in essa insieme la continuità e la discontinuità rispetto al 68. Portano lo stesso segno, eroico, di rinnovamento radicale, almeno fino alla prima metà; poi subentrano istanze di riflessione individuale, talvolta hanno la meglio tendenze distruttive già presenti

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Il movimento delle donne

nel primo quinquennio, ma controllate da forze contrarie di coesione e positività, che permettevano, pur nelle contrapposizioni ideologiche e in contrasti emozionalmente violenti, una grande pluralità di sperimentazioni e di idee, compresa quella pratica di vita tra donne che riprendeva l’utopia di una sfera alternativa rispetto a tutto l’esistente, con la forte carica critica che ne conseguiva. Mi pare che oggi siano ormai comparsi elementi che consentono una storicizzazione di quegli anni; tra essi ricorderei da un lato l’affiorare di un’esigenza di tolleranza e democrazia delle donne (nelle loro forme associative, ma anche come contributo alla società nel suo com-

plesso), dall’altro la nuova capacità di riconoscere le proprie madri, sia simboliche sia concrete, e il duplice rapporto di derivazione-innovazione nei loro confronti.

Note: * Questa relazione tiene conto di ricerche in corso: quella del Centro di documentazione, ricerca e iniziativa delle donne di Bologna su «La storia delle donne in EmiliaRomagna», una parte della mia ricerca su «La generazione del 68» per il ministero della Pubblica Istruzione (60%), nonché una parte di un’altra ricerca da me diretta su «Fonti scritte e fonti orali per la storia recente» per il Cnr. 1 Mi sembra rilevante a questo proposito un rinvio alle ricerche sugli Stati Uniti (per esempio Evans 1979) e sulla Francia. V. per quest’ultima Albistur e Armogathe 1977, che alla p. 665 della loro opera in due volumi sulla storia del femminismo francese dal medioevo ai nostri giorni scrivono: «la période la plus actuelle du féminisme est née de la révolte idéologique de 1968. S’il n'y a pas eu de révolution dans les faits, du moins un changement s’est-il opéré dans les structures mentales. Et plus que les autres peut-étre, le mouvement féministe a recueilli l’esprit qui a animé cette période: une volonté absolue de changement, un “rien ne sera plus comme avant”’».

2 Alla fine del 1974 Effe ne elenca più di cento in più di sessanta città.

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IL ’68, IL MONDO CATTOLICO ITALIANO ELA CHIESA di Guido Verucci

Porre il problema di un rapporto fra il 68 e il mondo cattolico e la Chiesa significa verificare contestualmente se e in quale misura i fermenti e le inquietudini che agitavano il mondo cattolico italiano negli anni sessanta abbiano contribuito a creare il clima del ’68, abbiano

avuto influenza sulle idee, sui valori, sulle utopie del ’68; che cosa abbia rappresentato il 68 per il mondo cattolico, quali ripercussioni, quali conseguenze in questo mondo abbia prodotto, specie in una parte di esso, nelle manifestazioni di contestazione dell’istituzione ecclesiastica, e quali reazioni abbia provocato da parte del magistero!. Significa insomma porre al centro della considerazione la crisi nel cattolicesimo e nella Chiesa manifestatasi, o meglio approfonditasi, nei paesi europei, e in una certa misura anche in Italia, negli anni sessanta, crisi provocata dai radicali processi di secolarizzazione, nella cultura e nella società: processi che hanno portato all’emergere a livello di massa di conoscenze e ideali diversi e contrastanti con quelli religiosi tradizionali, e prodotto una diminuzione d’influenza e di peso sociale dei valori, delle dottrine e delle istituzioni religiose. Crisi a cui in vario modo il pontificato di Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e per parte loro, dopo il Concilio, correnti e tendenze del mondo cattolico, si sono sforzati di dare risposta, elaborando nuove espressioni di pensare e vivere la fede religiosa, modalità nuove di rapporto fra la Chiesa e il mondo?. Insofferenze e critiche di vario genere verso un troppo massiccio intervento della Chiesa nella vita politica e un suo impegno a favore di soluzioni politiche conservatrici, e tendenze a una riaffermazione di più autentici valori cristiani, affiorano nel mondo cattolico italiano, in organizzazioni come l’ Azione cattolica e la Fuci, fin dalla metà circa degli anni cinquanta, durante l’ultimo periodo del pontificato di Pio XII, quando comincia ad apparire chiaro il fallimento del grande dise381

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Guido Verucci

gno di riconquista cristiana della società e dello Stato perseguito dal cattolicesimo italiano nel secondo dopoguerra, e mentre la crisi dell’egemonia del partito cattolico spinge alcuni gruppi giovanili di questo partito a proporre aperture a sinistra. In un molto sommario panorama di questi anni gli elementi più significativi, più densi di sviluppi futuri, anche se minoritari e spesso isolati, appaiono l’opera di don Primo Mazzolari e della rivista Adesso nelle sue critiche al mondo occidentale borghese, nell’affermazione dell’obiezione di coscienza dei cristiani contro la guerra, nella spinta egualitaria, nella tensione verso una «rivoluzione cristiana»; la rivista // Gallo, nelle sue precoci aperture al «dialogo» anche con i marxisti, nelle sue aspirazioni a una «rivoluzione morale», nei suoi spunti favorevoli alla pluralità di scelte politiche dei cattolici, spunti tradotti in aperta polemica anti-integrista e rivolti al superamento del principio dell’unità politica dei cattolici teorizzata specialmente in due riviste sorte entrambe nel 1958, Questitalia e Testimonianze; le iniziative di La Pira a favore di un con-

fronto fra personalità di diverse culture e orientamenti in funzione della pace, e la sua partecipazione all’occupazione operaia della Pignone; e, soprattutto, le prese di posizione di don Lorenzo Milani contro la scuola pubblica classista, per l’obiezione di coscienza, per un radicamento nuovo del cristianesimo nella comunità dei poveri. Negli stessi anni giunge in Italia l’eco dell’esperienza della congregazione dei Piccoli Fratelli di Gesù del padre de Foucauld, che propone un modello di vita cristiana immerso nella realtà quotidiana dei poveri e degli emarginati3. Elementi, specie alcuni di questi, rivelatori di uno sforzo di individuare modalità di presenza cristiana nella società diversi da quelli del passato. Elementi tuttavia che, anche per quel che riguarda i settori non conformisti, s'inseriscono in una prospettiva caratterizzata generalmente sul piano politico da una grande fiducia nel riformismo del centro-sinistra, nell’incontro considerato storico fra cattolici e socialisti; sul piano culturale, come è stato osservato da Ristuccia4, da un confronto con la cultura moderna ispirato dall’antico procedimento di rifiutare dapprima, poi depotenziare, in seguito assimilare, basato sul diffuso, ingenuo convincimento, di origine maritainiana, che gran parte di essa fosse costituita da «idee cristiane impazzite», che dunque non doveva-costar troppa fatica ricuperare; sul piano religioso dal persistente riconoscimento alla gerarchia ecclesiastica di un assoluto dirittodovere di guida nel campo dottrinale e dalla naturale autoesclusione dei laici da ogni reale partecipazione a una verifica in questo campo. Una prospettiva che alle soglie del Concilio, e ancora nei primissimi anni sessanta, appare abbastanza povera di risultati concreti.

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Il ’68, il mondo cattolico e la Chiesa

Il pontificato giovanneo, le cui grandi novità — la netta riproposizione dei principi evangelici e il superamento di un atteggiamento di condanna verso il mondo — furono comunque percepite lentamente e certo non adeguatamente valorizzate dalla gerarchia ecclesiastica, e il Concilio, le sue discussioni e i suoi anche aspri contrasti, dettero una scossa anche al mondo cattolico italiano. È vero che il Concilio, nelle sue conclusioni e nelle sue elaborazioni, ha rappresentato un compromesso fra diverse tendenze, ha giustapposto concetti e orientamenti nuovi a quelli vecchi, non ha modificato profondamente il vecchio modello del cattolicesimo formato dalla Controriforma, dall’intransigentismo ottocentesco e dall’assolutismo papale. È vero che fin dall’epoca del Concilio e poi via via in modo sempre più rapido e programmato il pontificato di Paolo VI ha mirato a raccordare strettamente l’opera del Concilio con il patrimonio dottrinale e organizzativo tradizionale, attenuandone e di-

rottandone la carica di rinnovamento. È vero che da parte della maggioranza dei vescovi italiani si verificò una notevole resistenza alle novità conciliari e all’applicazione delle riforme previste. Ma è vero anche che pure in Italia il Concilio ha avuto un effetto di decompressione e di liberazione, è sembrato legittimare esigenze e rivendicazioni, idee e aspirazioni le più varie e diverse; attraverso le porte da esso schiuse o socchiuse nei confronti del mondo contemporaneo, hanno fatto irruzione idee e tendenze di questo mondo, le esigenze di libertà e di democrazia, le dimensioni di laicità, di relativismo, di razionalismo, di evoluzione e di storia, in cui questo mondo, o almeno la parte più industrializzata di esso, vive. È vero che in Italia giungono gli echi di orientamenti e di interpretazioni teologiche manifestatisi in altri paesi, europei ed extraeuropei, che considerano il Concilio solo un punto di partenza per un’opera di grande rinnovamento religioso. Si avvertono cioè, anche nel campo dell’editoria religiosa, quei fenomeni di accentuata internazionalizzazione della circolazione delle idee, di diffusione di nuovi, più agili mezzi di comunicazione culturale, come i libri tascabili ed economici, di tendenza al superamento della divisione fra cultura di massa e cultura di élite, che sono stati indicati come caratteristici degli anni sessanta, come preparatori del ’685. É vero so-

prattutto che le sfumature, le brecce, le incrinature introdotte dal Concilio nel patrimonio ecclesiastico tradizionale se non hanno veramente mutato hanno tuttavia in qualche misura offuscato l’antica identità della Chiesa. Tutte queste ragioni spiegano come per una parte del mondo cattolico anche italiano gli anni del post-Concilio possano apparire come una fase di passaggio del guado, di abbandono più o meno consistente

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Guido Verucci dell’antica identità, e di ricerca di una nuova, più complessa e difficile,

ma anche più esaltante, identità. Una ricerca ispirata, sostenuta, stimolata da un insieme di motivi sia più interni, per così dire, sia più esterni al mondo cattolico. Pesa su questo itinerario il dialogo che, fin dall’indomani dell’enciclica giovannea Pacem in terris, si avvia, anche in Italia, fra alcuni gruppi cristiani e cattolici e ambienti marxisti e comunisti, allo scopo di verificare la possibilità di un confronto sul piano teorico e soprattutto di una collaborazione sul piano operativo per affrontare alcuni grandi problemi, in particolare quello della pace: dialogo che con l’andar degli anni si sarebbe peraltro andato smorzando. Pesano le speranze e le delusioni suscitate dal Concilio e dal post-Concilio, ma anche, sul piano politico, le speranze e le delusioni provocate dal centro-sinistra, con la recessione economica e le lotte operaie della metà

degli anni sessanta; l’eco che hanno nel mondo giovanile le lotte antimperialistiche nel Vietnam e quelle contro i regimi conservatori e dittatoriali in alcuni paesi dell’ America latina, dove gruppi di preti e di laici cattolici s'impegnavano a difesa delle masse contadine e sottoproletarie, schierandosi a fianco dei movimenti di sinistra, accettando il marxismo come strumento rivoluzionario e perfino la necessità della violenza: nel febbraio 1966 il prete Camilo Torres muore combattendo

con i guerriglieri in Colombia?. Tale ricerca si traduce in comportamenti religiosi, in elaborazioni culturali, in posizioni nei confronti del clero e della Chiesa, in atteggiamenti verso i problemi morali e sociali, che, muovendo da modifiche introdotte dal Concilio o da interpretazioni di tali modifichè, andranno

rapidamente, attraverso un processo quasi naturale e spontaneo, ben oltre i limiti previsti e consentiti dalla gerarchia ecclesiastica. Si traduce in particolare nei «gruppi spontanei» di matrice religiosa che s’inseriscono in un fenomeno più generale sorto, o accentuatosi alla metà degli anni sessanta, come reazione a quella che viene avvertita come una crisi dei canali istituzionali di partecipazione politica, sociale e religiosa e come tentativo di trovarne di nuovi. In quelli d’ispirazione religiosa emergono posizioni al tempo stesso di contestazione ecclesiastica e civile-politica, di critica all’insabbiamento del Concilio e al mancato rinnovamento della Chiesa soprattutto nel senso di una «Chiesa dei poveri», di polemica contro l’unità politica dei cattolici e il dominio politico della Democrazia cristiana”. La ricerca di una nuova identità porta in molti casi all’abbandono dell’istituzione ecclesiastica e della stessa fede: anche in Italia si manifesta, sia pure in dimensioni più limitate che in altri paesi, il fenomeno dell’allontanamento dal sacerdozio da parte di molti preti.

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Il ’68, il mondo cattolico e la Chiesa

La contestazione studentesca e giovanile a partire dalla fine del 1967, il movimento collettivo del 68, rappresentano un momento di grande accelerazione e di rottura per quella parte del mondo cattolico italiano impegnata nell’elaborazione di modi nuovi di rapporto fra la tradizione religiosa e la realtà del mondo contemporaneo. Nel movimento del ’68 è senza dubbio identificabile una presenza cattolica, anche se non so se si possa parlare, da questo punto di vista, di un carattere specifico del ’68 italiano rispetto a quello di altri paesi, come è stato fatto in alcune recenti rievocazioni del movimento stesso. Non si tratta naturalmente solo di verificare una presenza anagrafica, so-

ciologica, la formazione e la provenienza di molti dei protagonisti del 768 dalle varie associazioni cattoliche — Azione cattolica, Fuci, Acli,

movimento scout — e dalla stessa Democrazia cristiana, individuando anche tempi e modi di tale appartenenza: per un certo numero di essi queste associazioni possono essere state solo una realtà di partenza, e il precedente dibattito al loro interno su temi religiosi ed ecclesiastici un momento necessario di rottura e di fuoruscita dal mondo cattolico organizzato. Si tratta anche e soprattutto di verificare una presenza ideale — cioè di spinte, di motivazioni — cattolica, o cristiana, termine

quest’ultimo riferibile sia a una presenza anche protestante, sia a derivazioni evangeliche, piuttosto che a precisi apporti istituzionali © confessionali; di verificare, come si accennava sopra, quanto questa presenza sia entrata nel complesso magma della cultura sessantottesca8. Di una cultura che si presenta come «una sorta di enciclopedia, immensa e incoerente, del sapere occidentale degli anni sessanta», ma all’interno della quale il principio unificante era costituito da tutti gli elementi che potevano convergere in una istanza liberato-

ria?. In questa cultura sono verosimilmente presenti le suggestioni egualitarie, pacifiste, pauperistiche di matrice evangelica vive nelle minoranze cattoliche preconciliari ed emerse poi nel Concilio; la sia pur parziale e contraddittoria messa in causa da questo compiuta della tradizionale struttura gerarchica della Chiesa; l’allentamento del legame un tempo assai stretto della Chiesa con la civiltà occidentale e l’attenzione portata ad altre culture; una considerazione nuova per la dimensione storica; la tendenza a stabilire un contatto meno antagonistico e

conflittuale con il mondo; i riflessi psicologici che la riforma liturgica, con la parziale introduzione della lingua volgare nei riti — cioè un modo diverso di comunicazione col sacro — ha forse sulla critica dei mez-

zi tradizionali di comunicazione del sapere nell’università!0, Vi entrano probabilmente una carica antistatale che viene da lontano, dall’in-

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transigentismo cattolico di fronte alla rivoluzione francese e allo Stato laico; e una spinta utopica, tesa alla continuazione del regno di Dio, che viene invece piuttosto, ancora un volta, da un’ispirazione evangelica. In particolare, è documentata la diffusione nel movimento studentesco di un libro come la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana diretta da don Lorenzo Milani, con la sua rivendicazione dell’eguaglianza nell’accesso al sapere come condizione di liberazione umana, e frequenti sono i riferimenti a questo testo negli scritti elaborati dallo stesso movimento; documentati sono pure i riferimenti ai movimenti rivoluzionari nei paesi dell’ America latina e al prete Camilo Torres, alla legittimazione della rivoluzione e della violenza da un punto di vista cristiano da lui avanzata, ma anche ai non violenti Gandhi e

Martin Luther King!!. È d’altra parte noto che nel 1968, nello scontrarsi all’interno del movimento di diverse linee, quella sostenuta dagli studenti dell’Università di Trento, cioè dell’Istituto universitario di scienze sociali, era definita «trentina» o «cattolica»!?,

Ma al tempo stesso, e più fortemente, anche se il movimento del ’68 era nei suoi aspetti culturali e antropologici essenzialmente laico, la carica vigorosamente libertaria, egualitaria, anti-istituzionale e antiautoritaria in esso insita, sembra aver investito la religione e la Chiesa, essersi tradotta in una contestazione profonda delle loro strutture, creando una situazione per cui le stesse soluzioni e prospettive avanzate nel Concilio, o negli anni a esso successivi, apparivano spiazzate e quasi 1 travolte dagli avvenimenti. Nel 1968, ristampando la sua celebre opera Vraie et fausse réforme dans l’Eglise, pubblicata per la prima volta nel 1950, il teologo Yves Congar, in una prefazione datata Natale 1967, sosteneva che i rapporti fra la Chiesa e il mondo moderno che la nuova situazione del mondo imponeva, erano radicalmente mutati rispetto a un pur recente

passato: Le questioni sono d’adattamento, ma divenute più radicali non soltanto perché più dure, più acute e più urgenti, ma per il fatto che oggi toccano le radici stesse della Chiesa e della Fede. Mentre nel 1947-50 noi operavamo nell’ambito di un cattolicesimo che ci assicurava ancora uno spazio d’azione, oggi siamo, intellettualmente e culturalmente, strappati dal quadro del cattolicesimo, anzi dal quadro religioso, e proiettati in un mondo che, per la sua densità di vita e d’evidenza, ci impone i suoi

problemi... mentre le evidenze della scienza, della tecnica, dell’organizzazione razionale e puramente umana della vita, eliminano praticamente in interi settori la questione di Dio, talvolta senza neppure metterla in discussione... In questo caso non si tratta più di adattare il cattolicesimo e la Chiesa a una società moderna sorta al di fuori delle forme culturali di questo cattolicesimo. Si tratta di ripensare e di riformulare le realtà cristiane, in risposta alla contestazione che ne fa un mondo puramente mondo, del quale l’uomo si sente il centro e il signore!3,

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Il ’68, il mondo cattolico e la Chiesa

Mi sembra molto significativo, sia pure collocato nella realtà francese, che Congar aggiungesse nel luglio, dopo gli avvenimenti che avevano segnato il vero e proprio esplodere della contestazione, una postfazione in cui scriveva: Alla situazione postconciliare della Chiesa, già difficile, quegli avvenimenti hanno aggiunto le incertezze di un clima rivoluzionario e di una contestazione universale e permanente. In un clima del genere, le cose ieri ancora solide e sicure appaiono di colpo superate o almeno prive d’interesse... L’ondata di contestazione raggiunge evidentemente la-Chiesa, poiché la Chiesa non è costituita da un Popoli diverso da quello che in parte ha innalzato le barricate e occupato le fabbriche!4,

Era un modo di sottolineare in sostanza come la contestazione rivelasse definitivamente i livelli e le caratteristiche della secolarizzazione della società contemporanea; come essa mettesse radicalmente in crisi, sul piano culturale, sociale e politico, l’antico modello ierocratico del cattolicesimo, l’idea di una cristianità fondata su una stretta alleanza fra Chiesta e Stato, su una sacralizzazione in senso cristiano delle strutture temporali, sull’assimilazione della cultura greco-romana al cristianesimol!5; era un modo, anche se Congar poneva da parte sua dei punti fermi di fronte alla contestazione, di mostrare la necessità non più soltanto di un adattamento inteso in modo più o meno tradizionale, ma di rifondazione, a partire dalla nuova realtà, di «naturalizzazione» e di ve-

rifica delle istanze religiose in questa realtà. Ed effettivamente, per una parte del mondo cattolico italiano, il movimento del ‘68 sembra essere venuto a colmare un grande vuoto, a offrire o le condizioni di una riformulazione della realtà religiosa, della

ricerca di una nuova identità — costituendo per ciò stesso un salto rispetto alle istanze riformiste preconciliari — o anche, in molti casi, le ragioni di un abbandono definitivo di ogni dimensione religiosa. Si può dire che, dopo il pontificato giovanneo e il Concilio, il ‘68 rappresenta una terza e più forte ondata che porta le avanguardie cattoliche fuori della cittadella fortificata della rigida ortodossia religiosa e politica, della frontale contrapposizione al mondo, che accentua il loro processo di deconfessionalizzazione e perfino, paradossalmente, di decattoliciz-

zazione. Il mondo cattolico italiano, più lento a muoversi rispetto a quello di altri paesi, negli anni del post-Concilio, anche per le resistenze incontrate nella curia romana e nella gerarchia ecclesiastica, conosce invece fenomeni e caratteri di contestazione ecclesiale altrettanto radicale, che con il °68 si denominano e si configurano come aperto dissenso. La contestazione infatti non si manifesta semplicemente in un ac-

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“Guido Verucci centuarsi delle insofferenze e delle critiche verso i ritardi con cui si operano le riforme previste dal Concilio, verso quello che viene avver-

tito come il peso soffocante dell’apparato istituzionale o finanziario sulle aspirazioni alla libertà e alla purezza delle manifestazioni religiose, o verso una Chiesa che è vista troppo spesso alleata con un potere politico conservatore, col capitalismo o col colonialismo. I «gruppi spontanei» di matrice religiosa fra il 1967 e il 1968 mostrano, non solo nei nomi cui molti di essi si intitolano, che sono quelli di Camilo Torres, di Fidel Castro, di Che Guevara, un orientamento sempre più marcatamente politico, una spinta che si pone come rivoluzionaria anche in polemica con il criticato riformismo dei partiti di sinistra, e che tende alla costituzione di una «nuova sinistra». Dalle riunioni e dai convegni di questi gruppi, fra i quali quello di Bologna del 25 febbraio 1968, dedicato appunto al tema «Credenti e non credenti per una nuova sinistra in Italia» escono documenti in cui questa sorta di primato del politico è di fatto affermata senza ulteriori giustificazioni di carattere religioso, unitamente a un atteggiamento anticlericale, di denunzia cioè degli interventi del clero sul piano elettorale a favore dell’unità politica

dei cattolici, e a rivendicazioni nell’ambito dei diritti civili, fra i quali

l’obiezione di coscienza e il divorzio!9, Col ’68, i gruppi cattolici che partecipano alle lotte studentesche assumono sempre di più posizioni caratterizzate da una scelta di classe, da un’adesione alle rivendicazioni del movimento operaio, dall’assunzione come essenziale punto di riferimento culturale del marxismo!7, di un marxismo talora interpretato ingenuamente e acriticamente. Terminata l’esperienza dei «gruppi spontanei», queste posizioni portano tali gruppi alla militanza nei partiti e nelle formazioni della sinistra, e una parte di essi al pratico dissolvimento nel movimento del ’68 e degli anni seguenti. Ma un’altra parte di essi approda, attraverso un itinerario per vari aspetti analogo, ma che conserva un posto prevalente alla dimensione religiosa, al movimento delle cosiddette «comunità di base», prima fra tutte quella dell’Isolotto con don Mazzi, che si diffonderanno a macchia d’olio in tutta Italia, e a manifestazioni e gruppi che ad esse si richiamano!8. Nelle comunità di base si tende a realizzare un tipo di Chiesa che sviluppando unilateralmente le acquisizioni conciliari sul carattere mistico-spirituale della Chiesa, sul ruolo in essa svolto dai laici, a svantaggio del suo pur persistente carattere gerarchico-istituzionale, interpretando insomma in modo radicale la visione della Chiesa «popolo di Dio», si carica delle valenze libertarie, egualitarie, soggettivistiche del ‘68. È un tipo di Chiesa in cui si traduce in parte quel «dissesto delle identità e del sistema delle correlazioni che le sorreggeva»

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Il "68, il mondo cattolico e la Chiesa

in cui Ernesto Balducci ha visto una delle caratteristiche del ’6819: in particolare, il dissesto delle identità e delle correlazioni prete-laico, credente-non credente, sacro-profano, correlazioni, dicotomie che ven-

gono superate. | AI di sotto di queste dicotomie, la separazione primaria che si tende a superare è quella storica, tradizionale, fra la Chiesa e il mondo, fra la Chiesa e il popolo. La leva per operare questo superamento è la «presa della parola», aspetto essenziale del ’68. «Presa della parola» da parte di soggetti che prima non si erano espressi, non avevano detto o avevano detto a mezza voce, e che ora dichiaravano e proclamavano: nella comunità religiosa, semplici preti e laici, uomini e donne, credenti ma anche non credenti. «Presa della parola» che ha un valore liberatorio in contrapposizione ai principi di autorità e gerarchia ancora largamente prevalenti nella Chiesa, in modo analogo a quel che ha di liberatorio, in alcune elaborazioni postconciliari, il ricupero della «parola di Cristo» come elemento centrale della proclamazione della salvezza e dunque del cristianesimo, rispetto alle espressioni teologiche.e istituzionali in cui storicamente si è tradotto. Molto vasta è la documentazione di questo tipo. Così, solo per fare qualche esempio, per i membri della comunità dell’Isolotto la Chiesa è una «comunità di fratelli» cui, come la vicenda del contrasto con la curia fiorentina e con quella romana mostra, si tende ad attribuire in ultima analisi l’effettiva autorità, un ruolo di effettiva fonte di ispirazione20, nella pratica prospettiva di fare di tale comunità, dell'assemblea ecclesiale, rompendo con l’organizzazione parrocchiale e la struttura gerarchica, la nuova struttura della Chiesa, diversa e di fatto alternativa rispetto a quella vigente. È una Chiesa che non può essere soggetta ad autorità che non abbiano credenziali assolutamente evangeliche, come suonano i documenti dei gruppi cattolici che nel settembre 1968 occupano il duomo di Parma2!; o, come scrive don Luigi Rosadoni nell’ottobre 1968, «è un accadimento, non più una struttura», è «un happening», come dicono alcuni gruppi di cattolici americani?2. E una Chiesa cui si applica un’analisi di classe: una Chiesa dei poveri, dalla parte dei poveri, contro i ricchi, contro «la religione dei ricchi»; che non può «ammettere indiscriminatamente alla mensa eucaristica sfruttati e sfruttatori senza denunciare efficacemente questa degradante situazione», come si esprime una lettera degli isolottiani agli

occupanti del duomo di Parma del settembre 196823; che si assume anzi naturalmente la funzione di svolgere una critica continua nei confronti della realtà sociale e politica. Nella Chiesa il prete è il servitore di una comunità di fratelli, è uno dei fedeli che li coordina e li aiuta, è

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Guido Verucci

insomma più un ministro che svolge una funzione che una persona «consacrata», in grado perciò di aspirare a una condizione simile o uguale a quella dei laici, mettendo fine a una separazione di origine assai remota, rivendicando come loro la libertà, il diritto di svolgere un lavoro, di contrarre matrimonio, d’impegnarsi sul piano politico e so-

ciale; è la premessa di una spinta verso la «declericalizzazione» del sacerdozio, anzi della Chiesa. È, ancora, una Chiesa che realizza quella

Chiesa di libera scelta, opposta alla Chiesa di nascita, che era stato un sogno dei gruppi evangelici più radicali del Cinquecento, e nella quale sono talora presenti accanto ai credenti, anche non credenti, uniti ai primi da un comune bisogno di ricerca. Perché infatti la concezione della Chiesa attraverso vari tratti delineata dalle comunità di base comporta e include una concezione della fede cristiana in parte diversa da quella proposta e organizzata tradizionalmente dal magistero ecclesiastico, anch'essa prodotto di uno sviluppo unilaterale del concetto cosiddetto kherygmatico della fede affermato dal Concilio, a svantaggio, come si è già detto, delle sue espressioni teologiche e istituzionali. Come appare dai documenti di queste comunità, è una fede intesa piuttosto come ricerca che come possesso. Secondo quanto scrivono dei minori francescani in una lettera della primavera del 1968, Se parliamo di «fede», è della fede di chi parte verso un paese che non conosce... «Religiosi atei?» Sì, e volentieri se è nel senso che vogliamo cessare di essere i professionisti o i possessori di Dio=*.

È una fede che, in polemica con le teologie speculative, si pone soprattutto in termini esistenziali, antropologici, mistici; in cui l’idea di Dio non è tanto legata, come tradizionalmente, alle possibilità di comprensione razionale e di spiegazione cosmogonica, quanto, con indubbie influenze della teologia barthiana e di altre, alla considerazione del «totalmente altro». E una fede in cui il messaggio cristiano è assai meno rivolto, come per esempio nel catechismo dell’Isolotto, alla liberazione dell’uomo dal peccato, che a una liberazione totale, che è soprattutto e prioritariamente liberazione dall’ingiustizia, dalla povertà e dal-

l’oppressione?5, E evidente l’influenza esercitata su quest’ultima prospettiva da teologi che si sforzavano di conciliare cristianesimo e marxismo o che in America latina, proprio a partire dal 1968, cominciavano a elaborare teologie della liberazione in cui, come in Gutiérrez, si rompeva l’antica distinzione di ordini e livelli, di storia profana e di storia sacra, per sottolineare l’unicità della salvezza cristiana. Nella comunità dell’Isolotto,

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in particolare, sono nel 1968 personalità note come il teologo spagnolo José Maria Gonzales Ruiz, impegnato sul piano del confronto del cristianesimo con il marxismo e la rivoluzione, e l’arcivescovo di Recife, in Brasile, Helder Camara, impegnato fin dal Concilio a favore di una

Chiesa povera. Il riferimento all’ America latina, e in generale al Terzo Mondo, da parte dei gruppi della contestazione e del dissenso cattolico,

sembra omologo a quello del movimento del ’6826, come apparirà chiaramente nelle vicende successive di quei gruppi: popolazioni e ambienti profondamente diversi da quelli della civiltà occidentale, da questa esclusi, dominati, sfruttati, e nei quali può pertanto sperare di sorgere una nuova Chiesa, una nuova teologia, un nuovo cristianesimo, sulla

spinta rigeneratrice dei poveri e degli oppressi. Nelle comunità di base si esprimeva insomma un orientamento verso un’altra Chiesa, o una Chiesa diversa?7; verso, così sembra, un su-

peramento di fatto del cattolicesimo storico. Questi esiti estremi non sono comuni a tutto il movimento, non sono riferibili a piattaforme o programmi compiuti e organici. Si tratta piuttosto di.spunti, di indicazioni che emergono magari in un contesto di confermata fedeltà alla Chiesa cattolica, di fedeltà soprattutto al Concilio, considerato non tanto come un insieme di formulazioni e di norme da attuare, un punto di arrivo, quanto come un punto di partenza o, come diceva il teologo Rahner, «l’inizio di un inizio». Sono spunti e indicazioni che si elaborano già nel post-Concilio, ma a cui il ‘68, la particolare atmosfera di quell’anno, dà una nuova spinta: la spinta a una sorta di azzeramento, di rifondazione ab imis; la tendenza a liquidare la diversità e la contrapposizione, a entrare, a farsi assimilare nel movimento;

a mutuarne

l’intolleranza verso tutti i divieti legalistici, anche nel campo della morale individuale, l’aspirazione alla felicità, come prodotto di una riconquistata autonomia morale, di una riaffermata capacità del singolo individuo di partecipare e contare nella vita religiosa come in quella politica e sociale; l’insofferenza per l’aggettivo cattolico, unito ai vari sostantivi, partito, sindacato, cultura, scuola ecc., e per ogni conseguente integralismo, e la nuova valorizzazione del termine cristiano, ma limitato all’ambito religioso; l’aspirazione a tradurre il cristianesimo nelle lotte del movimento operaio, in quelle di liberazione nazionale e per il socialismo. Insomma, in complesso, l’idea di una naturalizzazione dei cristiani nelle nuove realtà; non a caso è a partire dal ‘68 che si ha in Italia la prima concreta ripresa dell’esperienza che negli anni quaranta

e cinquanta era stata la più radicale in questo senso, quella dei preti operai francesi. Il dissenso cattolico si manifesta negli anni successivi anche in mo-

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vimenti come quello del 7novembre 1971, nato in polemica col sino- | do dei vescovi chiusosi il giorno prima, movimento di aperta denunzia del carattere antievangelico della Chiesa istituzionale, di lotta per la liberazione cristiana dei poveri e degli oppressi, di adesione alla causa della classe operaia e delle sue formazioni politiche; e come quello dei Cristiani per il socialismo, movimento che nasce in Italia nel 1973, a Bologna, sulla scia del movimento sorto l’anno prima a Santiago del Cile, e a cui danno un grande contributo due religiosi salesiani, Gérard Lutte e soprattutto Giulio Girardi, con l’attenzione per l’ America latina e per la teologia della liberazione, con la visione di Girardi di una necessaria «unità dialettica» fra marxismo e cristianesimo. In quest’ultimo movimento si manifestano forse con maggiore chiarezza e acutezza le difficoltà e anche le contraddizioni in cui si imbatte il dissenso cattolico, che si rivelarono nei contrasti insorti già al Congresso di Napoli del 1974 del movimento stesso. Contrasti fra quanti vedevano nell’attuale impegno socialista la conseguenza necessaria dell’adesione al messaggio evangelico e quanti, come per esempio Raniero La Valle, mettevano in guardia contro un integralismo rovesciato, contro un’interpretazione di fatto temporalistica dello stesso messaggio evangelico. Contraddizioni fra il rifiuto di quello che appariva un rischio di «privatizzazione della fede», e il rifiuto di attribuire una specificità al contributo dei cristiani alla lotta per il socialismo, pur assegnando loro il compito di riproporre la «questione cattolica» ai partiti e movimenti

della sinistra?8. Ma il vento della contestazione ha investito in quell’anno, e nei successivi, anche le organizzazioni tradizionali, religiose, sindacali, politiche del mondo cattolico — la Fuci e l’Azione cattolica, le Acli, la Cisl e la stessa Democrazia cristiana —, portando alla ribalta i rispettivi gruppi di sinistra, favorendo l’affermazione, magari temporanea, di orientamenti originali sul piano religioso e politico, preparando sbocchi diversi, che hanno fra l’altro accentuato il fenomeno di diaspora del mondo

cattolico. Così fra l’altro l’Azione cattolica, che con la presidenza Bachelet, a partire dal 1963, aveva già imboccato la strada della cosiddetta «scelta religiosa», con il nuovo statuto del 1969 ridimensionava i grandiosi obiettivi di conquista perseguiti nel dopoguerra e subiva gli effetti della spinta anti-istituzionale e del manifestarsi di nuove spontanee esperienze associative, con una drastica, progressiva riduzione del numero degli iscritti. Così la Fuci perdeva con la contestazione studentesca gran parte della sua base universitaria e si sforzava di ricuperare un rapporto con essa attraverso il Congresso di Verona del 1969, che chiedeva

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dell’ integralismo, il pluralismo delle scelte politiche e financo l'aboli: zione del regime concordatario?9, Così le Acli, che già in occasione delle elezioni politiche del 1968 avevano giustificato il voto a favore della Democrazia cristiana con motivazioni tattiche e contingenti, riflettevano nettamente la spinta del movimento sessantottesco e poi dell’«autunno caldo» del 1969 con le scelte dei Congressi di Torino (giugno 1969) e soprattutto di Vallombrosa (agosto 1970). Torino sancisce la fine del cosiddetto collateralismo con la Democrazia cristiana e con qualsiasi altra forza politica,

e il principio del voto libero degli aclisti; sua conseguenza è la fondazione da parte del presidente Labor di un’associazione di cultura politica, lAcpol, che raccoglie aderenti fra aclisti, sindacalisti Cisl, demo-

cristiani della corrente di Forze Nuove, studenti, intellettuali, ecc. A Vallombrosa viene sancita la cosiddetta ipotesi socialista delle Acli, si

afferma fortemente una scelta anticapitalista e classista, superando il principio tradizionale dell’interclassismo proprio delle associazioni cattoliche. Le Acli rivendicano una piena autonomia nei riguardi della gerarchia ecclesiastica e di fatto abbandonano le originarie finalità di formazione religiosa. Così il 68 spinge ad analoghi impegni nelle lotte operaie e nella scelta socialista i quadri metalmeccanici della Fim-Cisl, che tentarono di dar vita a un movimento politico di lavoratori (Mpl) in alternativa

alla Democrazia

cristiana,

i democristiani

di sinistra in-

fluenzati dalla rivista Sette Giorni, altri gruppi e periodici30, Molte di queste spinte, di questi movimenti e gruppi saranno riassorbiti, molte di queste esperienze non saranno in grado di generalizzarsi, di radicarsi, e si spegneranno, molte delle idee e degli orienta-

menti allora affermatisi urteranno e si spezzeranno contro le realtà politiche e religiose istituzionalizzate. Resteranno peraltro tracce impresse, solchi scavati difficilmente cancellabili, a delineare 1 tratti di una presenza diversa di alcune minoranze, di un certo numero di cattolici, 0 di cristiani, nella Chiesa cattolica, o di fatto al di fuori della Chiesa cat-

tolica, di una loro presenza diversa nella vita e nelle lotte politiche, sociali e civili. Certo, la contestazione religiosa della metà degli anni sessanta, del 68 ha accelerato il movimento di reazione dell’istituzione ecclesiastica, del papato, ai fermenti nuovi, alle espressioni e interpretazioni avanzate sorte nel post-Concilio; con il ’68, ha osservato il teologo Kiing, si delinea una netta polarizzazione fra tendenze innovative e tendenze più moderate o conservatrici; al salto in avanti delle avanguardie cattoliche fa riscontro l’affermarsi di tendenze che vedono nella contestazione religiosa l’effetto dello stesso Concilio, e accusano il

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Concilio di aver introdotto nel cattolicesimo principi a esso estranei, innescando in esso una grave crisi. È proprio in questi anni, è proprio attorno al 1968, che il magistero | ‘papale di Paolo VI, in riferimento al clima generale esistente in tutto il mondo cattolico, sviluppa con maggiore decisione, e sia pure attraverso un grande sforzo di mediazione e di attenzione alle novità emerse con il Concilio, un’interpretazione di esso che esclude che il Concilio

abbia autorizzato un «facile conformismo alla mentalità del nostro tempo», riaffermando comunque il ruolo determinante del papato nella sua interpretazione e applicazione. Fin dal 1965 Paolo VI faceva riferimento a una situazione in cui il cattolicesimo era piombato in uno stato di marasma, in cui tutto sembrava messo in discussione, in cui il dub-

bio investiva i «canoni della verità e dell’autorità». In modo particolare, dopo gli episodi di contestazione religiosa verificatisi in Italia e altrove, stigmatizzava, il 18 settembre 1968, una curiosa paura di certi cattolici d’essere in ritardo nel movimento delle idee, che li fa volentieri allineare con lo spirito del mondo, adottare con favore le idee più nuove e più opposte alla tradizione cattolica consueta

e sottolineava, il 3 aprile 1969, che la Chiesaè oggi così spesso e così gravemente corrosa dalla contestazione e dall’oblio della sua struttura gerarchica, contraffatta nel suo divino e indispensabile carisma costitutivo, che è l’autorità pastorale... un fermento praticamente scismatico la divide, la suddivide, la spezza in gruppi più che altro gelosi d’arbitraria e in fondo egoistica autonomia, mascherata di pluralismo cristiano o di libertà di coscienza.

Contro la contestazione

si indirizzavano soprattutto le accuse di

«orizzontalismo», di concezione «orizzontale», temporale, umana, del-

la religione cristiana, e di applicazione alla costituzione della Chiesa di

teorie democratiche3!, Così in questi anni Paolo VI procedeva a una riaffermazione netta delle posizioni della Chiesa cattolica sul piano dogmatico come su quello etico, su quello disciplinare come su quello sociale. A ricordare solo la serie di atti più significativi di questo periodo, vanno in tale direzione l’enciclica Sacerdotalis coelibatus, del 24 giugno 1967, che riaffermava tutte le ragioni del celibato sacerdotale e la concezione sacrale del sacerdozio stesso; l’enciclica Humanae vitae, del 25 luglio 1968, che ribadiva la dottrina tradizionale della Chiesa sul problema della regolazione della natalità; i discorsi dell’agosto 1968 a Bogotà, in cui si riprendevano alcuni temi della Populorum progressio dell’anno prima, ma abbassando il tono della denunzia dei problemi sociali e al394

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zando invece quello della denunzia e condanna delle tendenze alla violenza e alla rivoluzione che si manifestavano anche in nome del cristianesimo con le teologie della liberazione. Va in tale direzione il cosiddetto «Credo dell’immortale Tradizione della santa Chiesa di Dio»,

pronunciato dal papa il 30 giugno 1968, che costituiva un riepilogo generale, una riproposizione di tutte le verità di fede formulate dalla Chiesa e dal magistero papale nel corso dei secoli, dal Concilio di Nicea fino al Concilio Vaticano II e agli interventi dottrinali di Paolo VI fra Concilio e post-Concilio sull’infallibilità papale, sulla questione eucaristica e su quella mariana. Si può dire che tutti questi interventi configuravano una risposta organica alle idee e ai fenomeni di contestazione e di dissenso diffusi nel mondo cattolico, alla spinta anti-istituzionale e antiautoritaria che con il °68 aveva fatto irruzione in esso. In particolare in Italia le diverse forme e manifestazioni di contestazione sul piano religioso e politico si scontrano con le riprovazioni e le censure, ora più ora meno forti, della gerarchia ecclesiastica e degli organi ufficiali della Santa Sede. In una serie fitta di interventi si collocano fra gli altri: il giudizio molto duro sui «gruppi spontanei» per una «nuova sinistra», accusati in particolare di una forma di «laicismo cattolico» e di odium theologicum contro la gerarchia, e di separare netta-

mente la fede religiosa dall’impegno nella vita pubblica32; l’intervento dell’arcivescovo di Firenze cardinale Florit contro don Mazzi e il suo divieto all’adozione del cosiddetto catechismo dell’Isolotto nell’arcidiocesi di Firenze perché in esso «è stato dimenticato il nucleo fondamentale del cristianesimo»33; il «ritiro del consenso» dei vescovi, con il ritiro dell’assistente ecclesiastico, alle Acli, e la dura sconfessione dell’as-

sociazione da parte di Paolo VI nel giugno 1971; le crescenti riserve espresse dall’episcopato negli anni successivi verso la «scelta religiosa» dell’ Azione cattolica; le riprovazioni ai cattolici che proprio nel 1968 si candidano come indipendenti nelle liste del Pci compiendo una scelta che appariva alla Civiltà Cattolica in evidente contrasto con la coscienza cristiana; la ribadita necessità da parte dei vescovi, in occasione delle elezioni del maggio 1968, dell’unità politica dei cattolici, del diritto-dovere dei vescovi d’intervenire nelle questioni temporali quando siano in gioco questioni di fede e di morale o quando si tratti del bene della Chiesa, e del dovere dei cattolici di tenerne conto. La gerarchia ecclesiastica italiana sembrava particolarmente preoccupata di quest’ultimo ordine di problemi. In proposito La Civiltà Cattolica sosteneva che i cattolici non aspirano a uno Stato cristiano che imponga e difenda con le leggi la fede e la morale cristiana, ma devono far pesare la propria fede nella legislazione e nella vita dello Stato; il cristiano che si sottragga

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a questo obbligo commette un «peccato di omissione»; la molteplicità delle opzioni temporali fra i cattolici ammessa dal Concilio non deve

essere considerata regola generale, e l’unità politica dei cattolici se non è una necessità teologica può essere invece una necessità storica. La rivista dei gesuiti stigmatizzava l’atteggiamento di quei cattolici che contestavano l’intervento dei vescovi in questo campo e dichiaravano di non sentirsi obbligati a seguirne le direttive, scrivendo:

Ciò è contro la natura della Chiesa, che non è democratica, ma gerarchica, cioè fondata da Cristo stesso sul papa e sul collegio episcopale: chi è cattolico e vuole continuare a dirsi tale non può porsi nei riguardi della gerarchia in un atteggiamento di contestazione e di rifiuto... Non si può, insomma, essere dei cattolici «dissenzienti» dalla gerarchia, senza correre il rischio di trovarsi «dissenzienti» da Cristo stesso34.

Tutte queste reazioni confermano come il ’68 e gli anni successivi siano stati, anche per l’episcopato italiano, momenti e occasioni di rilancio forte delle ragioni dell’istituzione, del suo interesse preminente, in una situazione del mondo cattolico italiano, peraltro, che era stata prima e sarebbe stata ancora poi particolarmente e fortemente condizionata in questo senso. E tuttavia sembra che anche su queste ragioni il 68 abbia lasciato qualche segno; se non altro, sulla possibilità di una loro secca riproposizione, e soprattutto sulla loro capacità, probabilmente ridotta, d’incidere nel mondo cattolico e specialmente nella società, di avere spazi paragonabili a quelli che l’istituzione ecclesiastica si era illusa di poter avere, per esempio, negli anni del dopoguerra.

Note l Nell’approntare per la pubblicazione questa relazione, le ho mantenuto il carattere di sintesi molto rapida su un momento nodale della storia contemporanea del mondo cattolico italiano, momento sul quale evidentemente molto c’è ancora da indagare e da capire; si tratta di una sintesi in cui sono stati indicati particolarmente certi aspetti, sottolineati particolarmente certi sviluppi; ho cercato anche di rendere sintetici i rinvii alle fonti e alla

bibliografia.

2 Su questo insieme di fatti e di problemi, che sono sullo sfondo dell’intera trattazione, v. G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea. Dal primo dopoguerra al Concilio Vaticano II, Laterza, Roma-Bari, 1988, parte dei capp. V, VI e VII. 3 Sul non conformismo cattolico di questi anni il bilancio più accurato e approfondito è costituito dai saggi raccolti in S. Ristuccia (cur.), Intellettuali cattolici tra riformismo e dissenso. Polemiche sull’integrismo, obbedienza e fine dell’ unità politica, rifiuto dell’istituzione nelle riviste degli anni sessanta, Comunità, Milano, 1975: v. innanzitutto l’introduzione dello stesso Ristuccia, Per un profilo degli intellettuali cattolici, pp. 7-57.

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cattolico e la Chiesa

4 Ibid. 5 V.in proposito le acute osservazioni di P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, con un’antologia di materiali e documenti, Editori Riuniti, Roma,

1988, pp. 86 ss. Un punto da studiare è il ruolo svolto negli anni del post-Concilio da certe case editrici di orientamento più o meno cattolico (come Cittadella di Assisi, Queriniana e Paideia di Brescia, P. Gribaudi di Torino, Edizioni Dehoniane di Bologna, e altre), o di orientamento protestante, come la Claudiana di Torino.

6 Su questa fase del mondo cattolico italiano v. fra gli altri, oltre a S. Ristuccia (cur.), Intellettuali, cit., L. Accattoli, L'età del dialogo (1963-1968), in Aa.vv., I cristiani nella sinistra. Dalla Resistenza a oggi, Coines, Roma, 1976, pp. 128-143, G. Verucci, «Re-

ligione e scelte politiche negli studi storici del secondo dopoguerra», Belfagor, 33, 1978, pp. 343-356, e soprattutto la prima parte di M. Cuminetti, // dissenso cattolico in Italia, 1965-1980, Rizzoli, Milano, 1983, scritto per così dire dall’interno del movimento, ma ricco di fatti e di problemi. 7 Sui «gruppi spontanei» v. F. Rositi (cur.), La politica dei gruppi. Aspetti dell’ associazionismo politico di base in Italia dal 1967 al 1969, pres. di S. Ristuccia, Comunità, Milano, 1970, specie pp. 23 ss., 51 ss., 58 ss., 112-113, 130 ss., 203 ss., e N. Fabro, / cat-

tolici e la contestazione in Italia, Esperienze, Fossano, 1970, pp. 43 ss.

8 Su questa presenza v. in particolare i numerosi interventi raccolti nel n. 4, 28 feb. 1988, del quindicinale Com Nuovi Tempi, dedicato a «I cristiani e il 68 tra fede e utopia»; F. Gentiloni, «Fuori delle mura cattoliche. I cristiani e l’incontro col movimento operaio», il manifesto, n. 76, 30 mar. 1980, supplemento; F. Gentiloni, «All’ombra del campanile. La presenza cattolica nel movimento studentesco» e L. Menapace, «Fine del /atinorum.

La stagione che prepara il ‘68 cattolico», il manifesto, giu. 1988, supplemento. Sulla presenza protestante cfr. due contributi, uno di M. Rostan, l’altro senza firma, in Com Nuovi Tempi, n. 4, 28 feb. 1988. Ma non mi sembra sia stata ancora compiuta un’analisi estesa e

puntuale degli spunti e suggestioni di matrice cattolica o cristiana, rinvenibili nell’immensa documentazione del movimento studentesco. 9 P. Ortoleva, Saggio, cit., p. 85, e Id., Le culture del ’68, in questo volume. 10 pr Menapace, «Fine del /atinorum», cit.

!l Della diffusione di Lettera a una professoressa parlava R. Rossanda (L'anno degli studenti, De Donato, Bari, 1968, p. 45), fin dal giugno 1968. Per quanto riguarda il movimento studentesco romano, riferimenti al libro sono per esempio nel numero unico Tesi / dello stesso movimento, s.a. [1968] e in una Lettera al movimento studentesco, Roma, apr. 1968; nel primo sono anche riferimenti a Camilo Torres, con citazioni tratte da G. Guzman, Cattolicesimo e rivoluzione in America Latina. Vita di Camilo Torres, Laterza, Bari, 1968,

nel secondo riferimenti a papa Giovanni, Gandhi, Martin Luther King. Diverse indicazioni sul rapporto di don Lorenzo Milani con la cultura del ’68 sono in alcuni contributi raccolti in Aa.vv., Don Lorenzo Milani, Atti del convegno di studi, Comune di Firenze, 1981; M.

Revelli («Il discorso sull’eguaglianza», /l Contemporaneo: «Per capire il °68», supplemento a Rinascita, 12 mar. 1988) definisce Lettera a una professoressa il «manifesto del °68

italiano» e sottolinea il carattere originale del tipo di eguaglianza in essa proposta, che accosta per certi versi a quello degli illuministi settecenteschi. 12 v, per esempio il numero unico Valle Giulia, Roma, 15 mar. 1968.

13y Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano, 1972, pp. 11-12.

14 Ibid., p. 437. 15 v, specificamente in questo senso M.D. Chenu, La fin de l’ère constantinienne (1961), in La Parole de Dieu, vol. Il: L’Evangile dans le temps, Cerf, Paris, 1964, pp. 17-36.

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AIA >, mentre si imponeva a tutti il discorso del rinnovamento qualitativo, ma anche quantitativo dell’istruzione.

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La politica scolatica italiana

Programmazione e ruolo di previsioni «sbagliate» Chi legge l’Introduzione al piano della scuola a firma del ministro

Giuseppe Medici36, che nel 1959 aveva sostituito Aldo Moro alla Pubblica Istruzione, non può non essere colpito dal profondo mutamento non solo del tono del linguaggio, ma anche delle prospettive. Il piano per lo sviluppo della scuola nel decennio dal 1959 al 1969 che tale Introduzione illustrava era stato in realtà un fiore all’occhiello del

governo Fanfani37, che, riprendendo modelli di programmazione già applicati in altri settori, fin dal 22 luglio 1958 aveva nominato un comitato di ministri per individuare un incremento di finanziamenti per la scuola per un totale nel decennio di oltre 1.380 miliardi. Il piano era stato elaborato in poche settimane, per essere presentato il 22 settembre 1958 al Senato. Pochi mesi dopo il governo Fanfani era caduto ed era stato sostituito da quello presieduto da Antonio Segni, con ministro della Pubblica Istruzione, come si è detto, Giuseppe Medici. Questo spiega il complesso iter del piano, elaborato di fatto da Fanfani-Moro, ma portato in parlamento, propagandato e difeso da Giuseppe Medici, che, ministro della Pubblica Istruzione anche con Tambroni, ne sarebbe

stato responsabile fino al 26 luglio 1960. In realtà un filo di continuità tenace esisteva ed era rappresentato da Gozzer38, cui Aldo Moro aveva affidato tale elaborazione e che vi aveva portato — al di là dei condizionamenti di un più ambiguo contesto politico — la sua attenzione ai confronti europei, ai progetti di programmazione e anche una volontà di previsione non solo dello sviluppo scolastico, che precedeva quello —

ormai famoso — della Svimez del 196139. Anzi fu proprio il ministro Medici ad affidare alla Svimez — per rendere più concreta la politica di piano — quella ricerca sulle strutture formative al 1975 che tanta rilevanza era destinata ad avere nel dibattito e nella stessa politica scolastica del decennio. Schematizzando molto si può dire che i mutamenti della struttura professionale previsti dalla Svimez mettevano duramente sotto accusa la scuola così come si era sviluppata in Italia. Le previsioni infatti parlavano di un’esigenza di laureati e tecnici superiori di oltre 1.200.000 unità al ’75, contro i 500.000 presenti nel 1959. Era un traguardo difficile da realizzare senza una profonda trasformazione delle strutture universitarie, capaci di laureare solo 20.000 persone all’anno e fra l’altro in maggioranza in settori poco significativi per l’industria. Altrettanto drammatica appariva l’esigenza di tecnici intermedi (da 4 a 5 milioni) contro i poco meno che 1.800.000 esistenti. Bisognava poi pensare a 11 milioni di capi subalterni e personale qualificato, mentre nel 1959 era ancora prevalente la manodopera generica.

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Giuseppe Ricuperati

L’analisi della Svimez — del resto perfettamente simmetrica a tutte le previsioni europee — non solo si basava su un calcolo del tasso di sviluppo molto più alto di quello effettivamente realizzatosi nel decennio successivo, ma anche sulla profonda convinzione che se nel quindicennio a venire non si fossero preparati in più gli oltre 700.000 laureati occorrenti, i quasi 3 milioni di tecnici intermedi, oltre 6 milioni di tecnici

subalterni e personale qualificato, lo sviluppo economico si sarebbe bloccato o comunque ne sarebbe stato danneggiato irreparabilmente. La scuola e il suo rinnovamento diventavano così un terreno essenziale per misurarsi all’interno dell'Europa del Mercato comune. Questo mutava l’ordine dei problemi. Se nel decennio precedente il grande riferimento era stato l’inchiesta sulla disoccupazione del 195149 e la scoperta di uno zoccolo del 12,8% di analfabeti fra uomini e donne (oltre 5.400.000 persone) cui si aggiungevano un 46% di alfabeti privi di titolo elementare e un altro 30% circa solo con la quinta elementare, a

questo punto l’ottica si spostava verso il futuro nella volontà di forzare il sistema scolastico ad essere qualitativamente più produttivo e quantitativamente più efficiente. Si sgombrarono alcuni ostacoli che per esempio erano stati inventati dalla riforma Gentile per impedire l’accesso all’università dei diplomati. La cosiddetta «piccola liberalizza-

zione» (per distinguerla da quella del 1969)?! rese possibile il passaggio dal diploma al corrispondente universitario della specializzazione tecnica conseguita. Ma soprattutto, anche in relazione alla discussione del piano decennale, e proprio mentre gli studiosi più avvertiti di programmazione scolastica mettevano in guardia da proiezioni troppo lunghe e quindi spericolate, non mancarono i tentativi di azzardare ipotesi ad ancor più lunga scadenza. I liberali — che il centro-sinistra allo stato nascente avrebbe emarginato — in un convegno a Padova del 28-29 aprile 196242 avevano presentato un piano trentennale, le cui tappe avrebbero dovuto essere: 1966, scolarizzazione completa fino a 14 anni; 1972, prolungamento dell’obbligo fino a 16 anni, da realizzare entro il 1980; al 1990 si prevedeva lo spostamento della scolarizzazione di massa al 19° anno.

Le prime scelte del centro-sinistra: stralcio, obbligo e Commissione d’indagine In realtà l’incontro fra socialisti e cattolici, che avrebbe portato a

una nuova e più complessa esperienza di centro-sinistra si concretò,

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La politica scolatica italiana

per quanto riguarda la scuola, su tre punti qualificanti: il ritiro del piano decennale e la sua sostituzione con uno stralcio triennale, la realizzazione della scuola dell’obbligo43, la creazione di una Commissione d’indagine44, formata non solo da deputati e senatori, ma anche da

esperti della scuola ed economisti. Per quanto riguarda il primo punto la vicenda è stata narrata con efficacia e ampiezza dallo stesso protagonista della polemica, Tristano Codignola, in un libro dal titolo significativo, Nascita e morte di un pia-

no, uscito nel 196245, che delineava con coraggio e consapevolezza le luci e le ombre dell’incontro fra cattolici e socialisti. Vi si può leggere non solo l’intransigenza di una polemica contro un piano che rischiava di essere una cornice finanziaria senza riforme, di non chiarire la sua

natura se di programma aggiuntivo o sostitutivo del bilancio normale (e nel secondo caso si rischiava di restare al di sotto dell’espansione naturale delle spese pubbliche prevedibili), ma anche la grande speranza riformatrice che l’incontro poteva creare non solo nel settore specifico. La scuola dell’obbligo nel dicembre 1962 fu il primo grande risultato. Per quanto riguarda la Commissione d’indagine era stato lo stesso Ugo La Malfa, in uno dei primi incontri ad illustrazione del piano decennale

(Bologna,

29-30 novembre

1958),46 a denunciare

non

solo

l’assenza di un corrispettivo piano di sviluppo economico, cui commisurare quello della scuola, ma anche di una soddisfacente conoscenza dello stato dell’istruzione italiana. In parte aveva ovviato nel 1959 quell’/Introduzione al piano della scuola di cui si è detto, dovuta a Gozzer. Ma la creazione di una Commissione d’indagine voleva essere una scelta più complessa, che implicasse non solo i due rami del parlamento in una vera e propria propedeutica delle riforme, ma sapesse coinvolgere sia il Consiglio superiore dell’istruzione sia il Consiglio nazionale dell’economia e lavoro. Se si esamina la composizione della Commissione, formata da 31 persone (Giuseppe Ermini, ex ministro Pubblica Istruzione, presidente, 8 senatori, 7 deputati, 8 esperti in materia scolastica, 7 in discipline economiche e sociali) si può notare la sapiente dosatura non solo dei partiti, ma anche dei riferimenti ad esperienze associative. I comunisti potevano contare, fra i senatori, su Ambrogio Donini, il grande storico delle religioni, e fra i deputati su Raffaele Sciorrilli Borrelli, per anni uomo di punta della sinistra nel Sindacato nazionale scuola media, e su Alessandro Natta. I socialisti, oltre al senatore Piero Caleffi e al deputato Codignola, erano molto presenti fra gli esperti con uomini come Aldo Visalberghi e Antonio Santoni Rugiu. Il gruppo più numeroso e compatto era quello dei democristiani, 14 a partire dal senatore Ermini. Non

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Giuseppe Ricuperati

mancavano fra gli esperti uomini emersi nel dibattito precedente, come

Luigi Pedrazzi, o l'ingegnere Gino Martinoli47, che aveva coordinato l’in-

chiesta Svimez sulla struttura professionale, mentre Giuseppe Glisenti e Claudio Salmoni erano stati reclutati per rappresentare la cultura del mondo industriale. Fra i politici vale la pena di ricordare, oltre il repubblicano Giuseppe Tramarollo, destinato a schierarsi spesso con il gruppo socialista,

il liberale

Salvatore

Valitutti,

futuro

ministro

della

Pubblica

Istruzione, ma allora famoso per essere stato il più conseguente e preparato avversario della media unica. Compiti essenziali di tale Commissione (art. 56 della legge n. 1073 del 24 luglio 1962) dovevano essere: 1. individuare le linee di sviluppo della pubblica istruzione sia in rapporto alla popolazione in età scolare sia in rapporto ai fabbisogni della società italiana... connessi allo sviluppo economico e al progresso sociale, con riguardo anche all’intensificarsi ed estendersi delle relazioni internazionali e alla partecipazione dell’Italia agli organismi comunitari europei; 2. individuare il fabbisogno finanziario e le modifiche di ordinamento necessari per lo sviluppo della scuola italiana#8.

Nella faticosa, ma calcolata prosa ministeriale, questo significava in pratica non solo trarre le conseguenze delle ipotesi Svimez e cogliere alcune fondamentali modifiche degli ordinamenti da proporre, ma anche intervenire in alcuni settori dove le carenze erano drammatiche e mancavano sia dati analitici, sia proiezioni attendibili, come l’edilizia scolastica, le attrezzature didattiche e scientifiche, l’inadempienza dell’obbligo, l’assistenza, l’istruzione professionale, l'aggiornamento del personale della scuola. La Commissione si organizzò in otto gruppi di studio: università e ricerca scientifica, presieduto da Ermini; preparazione, scelta e aggiornamento del personale, coordinata da Santoni Rugiu; istruzione professionale, sotto l’on. Raffaele Leone; adempimento dell’obbligo e assistenza (Vinicio Baldelli); edilizia scolastica (on. Codignola); scuola non statale (Emilio Zanini) strutture e ordinamenti (Salvatore Valitutti);

calcoli e fabbisogno finanziario (Bernardo Colombo). Ciascun gruppo lavorò con competenti esterni e con un fitto calendario di sedute: 78 per l’università; 49 per l’aggiornamento insegnanti; 48 per l’istruzione professionale; 35 sull’adempimento dell’obbligo e assistenza scolasti-

ca; 29 sull’edilizia. A queste si aggiunsero 38 sedute plenarie. Fu co-

sì possibile, fra 1'8 ottobre 1962 e il 24 luglio 1963, data in cui Ermini consegnò al ministro Gui i due ponderosi tomi della Relazione, elaborare una serie di proposte che avrebbero dovuto stare alla base delle riforme in quasi tutti i settori del sistema scolastico.

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4

La politica scolatica italiana

. L'accordo fu completo per quanto riguarda l’università e la ricerca scientifica. Anche qui i dati della Svimez da una parte e una più generale volontà di adeguarsi al contesto internazionale in maniera non subalterna, furono gli stimoli di partenza. Nessuno voleva che un paese come l’Italia restasse tagliato fuori dalla ricerca scientifica e da un moderno sviluppo. Si partiva quindi dal dato che i dirigenti erano nel 1961 il 3,2% della forza lavoro occupata e si prevedeva che la modernizzazione avrebbe favorito un incremento al 6% e oltre: quasi tutto auspicabilmente personale laureato. Si trattava quindi di triplicare almeno il numero dei laureati nell’arco di un quindicennio passando da una media di circa 20.000 a 60.0000 annui. Così ancora la Commissione auspicava che tutti i licenziati da scuole secondarie superiori potessero aver accesso all’università, con l’istituzione di corsi integrativi e propedeutici per magistrali e istituti professionali. Notevoli erano i mutamenti previsti per quanto riguardava sia i titoli conseguibili, sia l’attività didattica. Contro la tradizione italiana, che

prevedeva soltanto la laurea, affiorava l’ipotesi di un’articolazione più complessa: diploma, laurea, dottorato di ricerca?0, Il primo titolo disegnava professioni dove occorrevano tecnici superiori come bibliotecari, archivisti, assistenti sociali, corrispondenti in lingue estere ecc., per

le facoltà umanistiche; paramedici per la facoltà di Medicina e chirurgia; personale di musei, tecnici forestali, rilevatori geologici ecc., per Scienze; tecnici di laboratorio e affini per Ingegneria e Politecnici; pro-

gettisti e direttori di lavoro in campo edile o insegnanti di disegno per Architettura, e così via per altre facoltà, da Agraria a Scienze politiche, per la quale si proponeva la trasformazione in Scienze politiche e sociali, con aggregate le scuole di servizio sociale. L'innovazione più significativa e destinata a restare un suggerimento irrealizzato per oltre un quindicennio era quella del dottorato di ricerca, titolo che avrebbe dovuto sostituire la libera docenza, ritenuta unanimEmente anacronistica e inquinata dall’abuso che se ne era fatto nelle professioni private, per ottenere parcelle più rilevanti. Il dottorato (del resto ricavato da modelli anglosassoni)?! doveva essere rigorosamente distinto dai corsi di specializzazione. Questi ultimi erano infatti orientati ad approfondimenti professionali, mentre il primo doveva valere solo per la ricerca e la carriera universitaria. Un altro terreno d’accordo riguardava l’abolizione della tradizionale distinzione fra discipline fondamentali e complementari, da sostituire con quella fra insegnamenti propedeutici e specialistici. La differenza era notevole perché tendeva a collocare tutte le discipline su un piano di sostanziale uguaglianza, ponendo la distinzione solo in funzione della didattica e delle opportunità per il di-

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scente. Si proponeva la riduzione del numero di esami e di materie per corso di laurea per favorire un approfondimento, la creazione di moduli più brevi (dai trimestri ai semestri), l’individuazione di una nuova figura di docente, da collocarsi fra gli assistenti e gli ordinari, cioè il professore aggregato. Il progetto della Commissione manteneva le facoltà, rafforzando però i corsi di laurea, ma soprattutto individuava come sede della didattica e della ricerca una nuova istituzione, il dipartimento, ispirato

chiaramente dal modello anglosassone. Era infatti pensato con una duplice funzione: didattica (formulazione dei piani di studio, orientamento degli studenti, organizzazione dei corsi); scientifica (collaborazione di specialisti affini e scambio con altre istituzioni). Si prevedeva la creazione di istituti annessi alle facoltà e ai dipartimenti per organizzare meglio i corsi di diploma. Affiorava — ormai necessario — il discorso del tempo pieno, che la Commissione definiva ancora pieno impiego e la distinzione fra due possibilità di scelta (fu// time e part time). Gravi erano poi le carenze denunciate unanimemente a proposito del personale non docente, del tutto inadeguato sul piano numerico ad attività di ricerca che volessero confrontarsi con i parametri americani e anche dei più avanzati paesi europei°3. La mancanza di un personale specializzato veniva per la prima volta individuata come un ostacolo significativo per la ricerca. Constatata così l’inesistenza di servizi bibliotecari e le carenze di tecnici, oltre che di amministrativi, la Commissione prevedeva la necessità di quintuplicare in tempi brevi gli addetti al 1961 (circa 3.000), per decuplicarli entro il 1975. Un capitolo importante, dopo quello dell’edilizia universitaria, riguardava la distribuzione delle sedi nella prospettiva di un più complesso sviluppo economico e sociale. Si suggeriva così di ovviare al gigantismo già delineatosi in alcune sedi con una distribuzione più razionale, che partisse dalle regioni ancora prive di università. Si raccomandava la scelta di un unico centro, contro la dispersione delle facoltà in diversi luoghi all’interno di una regione, un intervento qualitativo a favore di facoltà o sottorappresentate, come Ingegneria, o superaffollate, come Economia, o corrispondenti a nuove esigenze, differenziando per esempio i nuovi centri sia per specializzazione, sia per offerta di studio (accentuando il carattere residenziale, prevedendo una selezione degli ammessi ecc.). Era il discorso

che preparava la realtà (e le illusioni) di Arcavacata94. Per quanto riguarda i dottorati, si proponeva una specializzazione differenziata, in modo da rafforzare i poli di una ricerca non generica. Largo spazio era dato ancora alla cooperazione con altri enti di ricerca, pubblici e privati, e agli scambi internazionali, con la creazione della figura del professore

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a contratto95. Anche il discorso dell’autonomia era affrontato in termini nuovi, con la proposta di un Consiglio nazionale universitario99. | Come si può vedere, la Commissione, per quanto riguarda l’università, in una fase di espansione economica (che stava però per finire)°7 e di grandi attese dalla cooperazione europea, che facevano prefigurare un nuovo mercato del lavoro internazionale e una nuova divisione del lavoro intellettuale, aveva delineato un’ipotesi di modernizzazione che contiene tutte o quasi le innovazioni realizzate senza riforma con la

382 tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta98. Meno determinanti, anche se ricchi di proposte di un certo interesse, erano i risultati dell’indagine sui processi di reclutamento e aggiornamento degli

insegnanti a tutti i livelli99, Per quanto riguarda un tema scottante, quello della scuola materna, che il centro-sinistra si stava preparando a varare come scuola di Stato, ma vincendo la resistenza di autorevoli democristiani, come fra gli altri Antonio Segni90, la Commissione si era divisa fra chi voleva una scuo-

la magistrale di cinque anni, la maggioranza, e quanti, la minoranza, che avrebbero preferito spostare la formazione professionale a un diploma universitario appositamente individuato, dopo una qualsiasi scuola superiore. Per i maestri la gran maggioranza era per una formazione universitaria, con diploma biennale, ma alcuni avrebbero voluto

mantenere una scuola secondaria caratterizzata come preparatrice dei maestri9!. Drammatico si presentava il problema della formazione degli insegnanti secondari, non solo scarsi, data l'espansione della scuola, ma anche scarsamente preparati in termini pedagogico-didattici92, La Commissione si poneva tre obiettivi: come aumentare l'afflusso degli aspiranti; come integrare la preparazione culturale con una formazione professionale; come modificare gli insoddisfacenti meccanismi di abilitazione e concorso. Per quanto riguarda il primo punto, si riteneva indispensabile e indilazionabile il miglioramento delle condizioni retributive, rendendole competitive sul mercato del lavoro. Per il secondo

si pensava alla trasformazione dei Magisteri in scuole per la preparazione professionale degli insegnanti. Per il terzo si individuava la necessità di una politica di continua riqualificazione del personale docente e direttivo. Oltre alla trasformazione di Magistero nel luogo per la formazione didattica di tutti gli insegnanti, compresi quelli delle materie scientifiche, la Commissione proponeva a tempi brevi la creazione di un comitato per la formazione aggiornamento e perfezionamento de-

gli insegnanti93 con compiti vastissimi, quali l’organizzazione di corsi speciali per la formazione dei docenti di scuola media (per i quali si deliberava per la prima volta la proposta di una laurea abilitante di tre

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anni + un tirocinio + concorso), il controllo della cultura specifica in

vista dell’insegnamento prescelto, l’individuazione di un curriculum pedagogico, psicologico e didattico, in attesa che tali compiti diventassero specifici delle nuove scuole di Magistero. Per quanto riguarda la secondaria, largo spazio era dato soprattutto all’istruzione professionale non a caso messa prima (ed era una scelta significativa e contraria ai modelli ministeriali) rispetto a quella liceale. La Commissione anche in questo caso assorbiva contenuti e ipotesi della classificazione delle categorie professionali utilizzata dalla Svimez: a) personale generico; b) personale qualificativo; c) capi subalterni; d) addetti al coordinamento; e) tecnici; f) dirigenti94. Il personale generico andava drasticamente ridotto. Si calcolava infatti che anche realizzando fino al 1975 il pieno obbligo scolastico e . una qualificazione successiva per tutte le leve uscite dalla media unica,

sarebbe restata un’eccedenza di 3,7 milioni di lavoratori non qualificati. Gli istituti professionali avrebbero potuto coprire bene il fabbisogno del personale qualificato e dei capi subalterni, per ora in maggioranza di formazione extrascolastica, mentre sarebbe stato opportuno che la scuola rispondesse attraverso il rinnovamento degli istituti tecnici alla domanda di addetti al coordinamento e tecnici intermedi. La Commissione rilevava l’inadeguatezza del sistema in vigore in particolare per due sfasature: a) un salto troppo grande tra la nessuna preparazione professionale di tutti i tipi di scuole e quella che si otteneva negli istituti professionali; b) un altro salto eccessivo tra la preparazione data dagli istituti tecnici, e perciò dei diplomati, e quella data dalle facoltà d’Ingegneria e dai Politecnici, e perciò dei laureati. Carente alla base, il sistema d’istruzione italiano lo era anche ai vertici dove «una notevole parte dei laureati delle facoltà tecniche era destinata a coprire mansioni per le quali la cultura generale ricevuta dall’università appariva eccessiva e nel tempo stesso inadeguata0»?. Vagliando infine il ruolo delle regioni (ancora da istituire)99, che se-

condo il dettato costituzionale avrebbero dovuto occuparsi di istruzione professionale, la Commissione, pur riconoscendo la maggior flessibilità a più specifici mercati del lavoro di una soluzione decentrata, riteneva però che non dovesse mancare un orientamento generale, per evitare su questo terreno processi troppo difformi soprattutto dal momento che il paese era attraversato da continui processi migratori, che imponevano soluzioni formative spendibili in sedi diverse e non prevedibili all’inizio. In realtà su questo punto gli esponenti comunisti avevano criticato la soluzione della maggioranza, chiedendo maggiore impegno della scuola di Stato nella formazione professionale, un ruolo più signi-

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ficativo delle regioni, come nodi essenziali di una programmazione democratica e antimonopolistica, infine una maggior presenza dello Stato e delle organizzazioni sindacali nelle attività di formazione, aggiornamento e riqualificazione. Rilevante e molto ricco di indicazioni nuove (anche se aveva dovù-

to lavorare per campionature) era il discorso della Commissione nel settore dell’edilizia scolastica9?, che non si era limitato a una raccolta di dati, ma aveva anche cercato di stabilire, con l’aiuto di alcuni grandi esperti esterni, come l’ing. Isabella, autore di una fondamentale ricerca

in questo settore, i mezzi e i modi e i tempi per intervenire. Per quanto riguardava il terreno minato della scuola non statale, la

Commissione era in grado di offrire unitariamente solo i dati statistici, ma non aveva visto nascere nessuna vera maggioranza in quanto il documento favorevole al finanziamento della scuola non statale aveva avuto i soli 14 voti dei democristiani, mentre le tre mozioni con-

trarie con sfumature diverse (da quella socialista e repubblicana, a quella comunista, a quella liberale, a quella, ancora più sfumata e possibilista dei tecnici della programmazione) avevano realizzato 13 voti complessivamente®8. C’erano stati 4 astenuti. Per quanto riguarda l’istruzione secondaria superiore, la proposta della Commissione traeva le file da quanto si è già osservato. Proponeva un modello tripartito (un liceo a sua volta diviso in tre settori, classico, scientifico e moderno, quest’ultimo con forte insegnamento delle lingue parlate), un istituto tecnico a più settori e un istituto professionale ancora più ricco di specializzazioni e teso a individuare le professionalità più ri-

chieste dal mondo industriale99, C’era poi un quarto ramo, un po” esterno, che era quello dell’educazione artistica. Molti sono gli aspetti che meriterebbero approfondimento, come il problema delle classi speciali e l’istituzione di équipe psico-pedagogiche d’appoggio”0, o, in senso più generale, le proposte per democratizzare la scuola rendendola più funzionale, decentrata e coinvolgente per gli stessi utenti e le loro famiglie”!. Riesaminando complessivamente questo documento, è possibile notare che i punti di forza erano almeno tre, del resto strettamente connessi a quella che può essere considerata l’ideologia unificante, il discorso Svimez sulle necessità delle strutture pro-

fessionali al 1975 e quindi la percezione di un possibile collasso del sistema produttivo, se non si dava una risposta adeguata: il rinnovamento

dell’università e della ricerca scientifica, l’istruzione profes-

sionale e l’edilizia scolastica. Più in ombra — come un tema da riprendere e sviluppare — restava quello del riordinamento della secondaria superiore.

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All’ombra della congiuntura: dalla relazione Gui alla 2314

. Come è noto, il 31 marzo 1964 il ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui, ricevuti i pareri del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, presentava, come era previsto dalla legge, una sua Relazione sullo stato della pubblica istruzione e linee direttive del piano di sviluppo pluriennale

per il periodo successivo al 30 giugno 196572, anch’essa in due volumi.

Tale elaborato non era soltanto un riassunto fedele dei lavori della Commissione d’indagine, sia perché teneva conto dei pareri e delle eventuali riserve dei due Consigli, sia anche perché il nuovo testo fin dalle premesse si collocava più in un contesto di continuità con gli anni dello schema Vanoni, che di recezione del nuovo, con l’inizio della politica di programmazione resa possibile e più concreta dall’ingresso dei socialisti. Questo non stupisce, perché Gui73, come del resto preceden-

temente Giacinto Bosco74, e come tutti i ministri della Pubblica Istruzione del centro-sinistra, ad eccezione di Aldo Moro”?, le cui alchimie erano più complesse, ma talvolta anche più misteriose, era stato scelto — nel sapiente dosaggio delle correnti — perché era uomo che assicurava efficienza, ma anche più continuità che non adesione al nuovo che poteva nascere. In ogni caso nel testo del ministro non mancava il riferimento alla creazione di un Ufficio studi documentazione e programmazione presso il ministero, con la creazione di una rete periferica di sezioni in tutti i provveditorati, al formarsi di una Commissione per

la programmazione scolastica, presieduta dall’on. Maria Badaloni76 e composta dai dirigenti più alti e dai responsabili dei vari servizi. Il vero fatto nuovo era però qualcosa di esterno alla Pubblica Istruzione e che però ormai la coinvolgeva sia pure non senza resistenze e contraddizioni: la decisione del Consiglio dei ministri di presentare il programma economico, redatto dalla Commissione per la programmazione presieduta dal senatore Saraceno, entro il luglio 196477, Era quello che, elaborato sotto il ministro del Bilancio Antonio Giolitti, sarà conosciuto piuttosto con il nome del successore, come piano Pieraccini. Già la relazione Gui rivelava gli scollamenti e le difficili relazioni fra il piano generale e queste linee direttive specifiche, che avrebbero dato origine a una programmazione specifica quadriennale, fino al 1970. Cifra di tutta questa relazione potrebbe essere una frase dello stesso ministro nelle premesse. Dopo aver detto che «oggi non si cade più nell’errore di considerare improduttive le spese effettuate a favore della scuola, né si pensa di poterle pensare soltanto come una parte dei consumi e della domanda sociale»78, questi infatti scriveva:

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La politica scolatica italiana avendo riguardo all’importanza del lavoro e della produzione della società contemporanea, nonché al posto che l’istruzione e la scienza hanno nella vita economica dei popoli e addirittura negli equilibri internazionali, si può ben dire che la scuola, l’istruzione e la scienza sono entrate a pieno titolo a far parte degli elementi fondamentali delle comunità moderne?9.

Ma aggiungeva ancora: Entro certi limiti può forse turbare che il giudizio sulla scuola, istituto sociale più d’ogni altro legato alle grandi categorie del vero, del bene, del bello si profili oggi anche sotto il segno dell’utile: che alla realtà, squisitamente umana, dei rapporti educativi, si unisca un aspetto che attiene all’elevazione sociale e al benessere. Ma non si tratta certo di negare i valori tradizionali connessi all’idea della scuola; si tratta piuttosto di assicurarne una dilatazione, un proseguimento in forme storiche nuove, adeguate, per interno e vitale rapporto, alla realtà dei tempi nostri80.

Era una frase abbastanza emblematica dei limiti e delle ambiguità che si trovano molto più scoperte nel volume Testimonianze sulla scuo-

la del 197481 e in quello successivo Nuove testimonianze sulla scuola del 198182, Il professore padovano, con la sua radice culturale neotomista e i suoi legami con l’Università Cattolica, era — come del resto prima

di lui Giacinto Bosco — una garanzia che la Dc del dialogo con i socialisti offriva ai propri ambienti più conservatori. In questo senso nonostan-

te la fedeltà ai valori della Resistenza, che era profondamente sincera83 e un certo efficientismo, che aveva rivelato lavorando come sottosegre-

tario dell’ Agricoltura84 nel settore della riforma agraria, Luigi Gui restava l’autore di uno dei testi più polemici contro la scuola di Stato pubblicato su Civitas nel 1956 con il titolo significativo di «Famiglia e scuola» ma reinserito nel 1974 all’interno degli scritti che dovevano offrire la sua «testimonianza» di impegno nel settore85. In questo saggio non solo aveva sostenuto che il finanziamento delle scuole non statali era legittimo, nonostante

il famoso

«senza oneri per lo Stato», se si

estendeva l’analisi dell’articolo 30 sul diritto e dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, ma aveva affermato anche che sotto il fascismo la scuola non statale aveva avuto, grazie a Gentile e al Concordato, più possibilità di sviluppo che non nello Stato liberale. Il governo autoritario del duce aveva rivelato comunque «un minor disprezzo per le concezioni educative della maggioranza delle famiglie italiane»86. Ma soprattutto il futuro ministro poteva aggiungere: Dopo la Liberazione questa trasformazione si accentuò fino al punto che oggi, pur fermo restando il suo innaturale distacco dalla famiglia, la scuola italiana ha rinunciato ad imporre una sua educazione ai giovani: è divenuta del tutto neutra, agno-

stica, almeno nelle disposizioni ufficiali87.

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Giuseppe Ricuperati E l’attacco proseguiva implacabile e definitivo: Molto probabilmente la scuola pubblica italiana è responsabile per buona parte della fiacchezza e della superficialità della nostra cultura e della stessa letteratura: ma è certamente causa principale del vuoto ideale e morale che tanto più affligge molti dei nostri giovani quante più scuole han frequentato...88,

Si capisce che il compito di Tristano Codignola, il vero protagonista della politica scolastica del centro-sinistra, o perlomeno di tutti gli aspetti più significativi ed avanzati, fosse estremamente difficile e complesso e che egli spesso dovette provare quella che — in una com-

mossa rievocazione di Beniamino Placido89, segretario della Commissione Istruzione della Camera fra il 1968 e il 1972 — avrebbe definito la tristezza del riformista.

Il fallimento della 2314 fra corporativismo e contestazione La vicenda della legge universitaria, celebre come 2314, presentata in una prima stesura il 4 maggio 1965, è in un certo senso esemplare per misurare tutte le ambiguità del centro-sinistra. Nata come lettura fortemente riduttiva delle ipotesi della Commissione d’indagine, fin dal suo apparire era destinata a suscitare forti opposizioni convergenti, cioè da destra e da sinistra. I primi echi si ebbero nel convegno stesso

del Comitato cattolico dei docenti universitari99, preparato precedentemente, ma svoltosi nelle settimane successive alla presentazione del disegno legge. Infatti la relazione del giurista Luigi Almirante, dedicata ai problemi dell’autonomia, conteneva i primi rilievi critici sugli organi di rappresentanza?!, Nel complesso da questo convegno a ridosso della prima presentazione del testo emerge una profonda lacerazione fra una maggioranza, tesa a difendere la pienezza del potere dei profes-

sori di ruolo e la voce di chi, come Nuccio Fava?2, riportava le proposte dell’Unuri e degli organismi studenteschi. Lo stesso ministro Gui, costretto a un intervento difensivo, coinvolgeva nell’elaborazione del testo il governo e più in generale la maggioranza che lo sosteneva. Era un po’ un modo di dire che tale disegno di legge era il frutto di una complessa e difficile mediazione che a questo punto andava difesa a

tutti i costi?3, E però noto che l’approvazione dei socialisti era stata

soltanto di massima e che essi pensavano a una politica di emendamenti tale da modificare completamente il progetto. In questo senso le linee della maggioranza — da quanto emerge nel

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dibattito parlamentare — si presentavano molto meno composte di quan-

to non vorrebbe far pensare il Libro bianco sull’ università?4, pubblicato dallo stesso Gui a riepilogo e autodifesa alla fine di questo iter. La stessa Democrazia cristiana appare profondamente divisa. Da una parte c’era il ferreo blocco Gui-Ermini, dietro il quale si schierò la parte più conservatrice del partito, dall’altra c’era il responsabile della scuola Dc, on. Rosati e con lui i deputati della sinistra democristiana, tesi a trovare un accordo non strumentale con i socialisti su almeno due punti qualificanti del progetto: il ruolo dei dipartimenti e il problema del tempo

pieno?5. Come si è già detto per la Commissione d’indagine, in questa fase socialisti e repubblicani si trovavano quasi sempre d’accordo nel forzare in senso progressivo il disegno in questione. Salvatore Valitutti99, a nome dei liberali, era invece il più accanito avversario della proposta, offrendo la sua elegante e colta competenza — che non mancava di irritare Gui — a un’opposizione ben più vasta del suo partito, la quale finiva per raccogliere le simpatie dei professori di ruolo, una sorta di superpartito nel parlamento. Più complessa era l’opposizione dei comunisti, per i quali fin dall’inizio era stato chiaro che la 2314 era difficilmente trasformabile nella sostanza, ma che poi, dopo aver presentato il

progetto che aveva come primo firmatario Luigi Berlinguer?7, si batteranno con tenacia e determinazione, fra la fine del 1967 e gli inizi del 1968, perché la 2314 modificata dalla Commissione parlamentare e poi dal gioco degli emendamenti contenesse almeno parte delle loro scelte qualificanti. A questo punto vale la pena di entrare nel merito e distinguere fra le elaborazioni. Il primo disegno di legge, quello presentato nel 1965, rivelava la sua volontà di contenere — svuotandole — tutte le innovazioni emerse dalle proposte della Commissione d’indagine. Era infatti accettato solo ciò che poteva essere controllato da parte del blocco di potere da sempre dominante nell’università italiana. Si possono fare alcuni esempi significativi. Il disegno legge, se accettava 1 tre titoli di studio e il dipartimento, non solo demandava la realizzazione di quest’ultimo a un’eventuale volontà della facoltà, ma ne smorzava tutta la carica innovativa facendone un'istituzione per la ricerca, confinando quindi il suo

ruolo didattico alla sola preparazione dei dottorati?8. Sul problema delle rappresentanze il disegno legge era tutto costruito per evitare reali mutamenti di potere, anche quando recepiva la necessità di passare dall’arcaico modello dell’istituto monocattedra a forme più articolate. Nonostante le resistenze di Gui e di Ermini (quest’ultimo, rispetto all’arcigna durezza del ministro, era l’uomo della mediazione e della

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conflittualità morbida e sempre diplomatizzata) il disegno legge uscito codalla Commissione della Camera per la discussione era già un’altra sa. E un’altra cosa ancora era certamente il disegno legge di cui fra la fine del 1967 e i primi mesi del 1968 erano stati approvati i primi otto articoli. Basta seguire nell’itinerario complesso e tormentato quelli che riguardano gli istituti scientifici e i dipartimenti. La stesura iniziale li collocava entrambi nell’articolo 5, prevalentemente dedicato a individuare i primi (gli istituti) e che si concludeva

così: «possono essere inoltre istituiti dipartimenti»99. L'articolo 6 del testo originale specificava i compiti degli istituti, senza vietare esplicitamente che potessero essere ancora monocattedra, mentre il 7 precisava i compiti del dipartimento. Nato per coordinare l’attività di più istituti e anche di singole cattedre appartenenti a diverse facoltà, di materie affini «interessate allo studio di comuni settori di ricerca»!90, il di-

partimento doveva curare l’attrezzatura scientifica d’uso comune e coordinare — come si è detto — i piani di lavoro del dottorato. Già la Commissione della Camera aveva fatto sparire l’evidente sproporzione fra gli istituti e i dipartimenti, aggiungendo però che non si potevano dare istituti monocattedra, tranne in casi eccezionali e precisati dalla legge. Inoltre nel nuovo articolo 8 il dipartimento diventava già «la struttura universitaria che comprende cattedre d’insegnamento di materie affini, anche appartenenti a facoltà diverse allo scopo di coordinare

l’attività di ricerca scientifica»!01, L'innovazione si fermava qui, perché anche per la Commissione della Camera il dipartimento, che non era più un optional, restava però ancorato a ricerca e organizzazione dei dottorati. Abbastanza diverso era l’articolo 8 approvato dalla Camera ai primi del 1968: Il dipartimento è la struttura universitaria che comprende insegnamenti di materie affini o comunque attinenti ad un comune settore scientifico, appartenenti ad una o più facoltà, allo scopo di coordinare l’attività di ricerca scientifica e, in collegamento con la facoltà interessata, l’attività didattica!02,

Come si vede, il nuovo testo recepiva almeno in parte la volontà dei comunisti di fare del dipartimento il vero centro dell’innovazione.

La scuola e la crisi strisciante del centro-sinistra Considerando il tratto 1963-68 come una fase non soltanto del cen-

tro-sinistra, segnata dal lungo ministero Gui per quanto riguarda l’istruzione, ma anche della vicenda economica e della società italiana, in cui

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il «miracolo» e lo sviluppo precedenti appaiono incrinati pesantemente dalla recessione e i processi di ristrutturazione del mercato del lavoro nuovamente caratterizzati da forte sfruttamento e riduzione della mano-

dopera più fragile e meno qualificata!03, si può dire che il bilancio del quinquennio per quanto riguarda la Pubblica Istruzione, firmato, come quello precedente, dal ministro Gui, non era affatto esaltante per realizzazioni!04, L'unica legge significativa era stata l’istituzione della scuola

materna statale, ai margini della legislatura (1968)!05 e con pesanti condizionamenti clericali, come rivela non solo il persistere dell’etichetta,

ma anche la scelta esclusivamente femminile del personale impiegato. Per il resto il ministro poteva vantare il lavoro della Commissione d’indagine e la faticosa azione di assorbimento in strutture sempre meno credibili di un’espansione scolastica dai ritmi così accelerati da precedere quelli delle previsioni più ottimistiche. Se si poteva considerare sistemata — almeno provvisoriamente, ma

Codignola non era di questo parere106 — la scuola dell’obbligo, resta del tutto aperto il discorso della secondaria superiore. In questo campo, ad aprire una nuova fase rispetto alle stesse ipotesi della Commissione d’indagine, era stata piuttosto l’opposizione comunista che, fin dal 1964, aveva presentato un progetto di scuola secondaria basato su una scelta non più a tre rami (come appunto la Commissione) ma a due!07, istruzione umanistico-scientifica da una parte e tecnica dall’altra. La tesi di fondo di questo progetto era che la formazione professionale dovesse essere oggetto di corsi successivi alla scuola. Questa per principio non poteva più consegnare una formazione che per il suo carattere strumentale e dimidiato non era una cultura, ma una pratica funzionale alle attività di lavoro e quindi più facilmente acquisibile in corsi brevi successivi. Diverso era il caso della tecnica, che poteva trasformarsi in una cultura autentica e in grado di offrire strumenti per dominare la realtà. Nel 1968 — mentre l’agitazione studentesca stava raggiungendo anche i licei!08 — Giuseppe Chiarante, responsabile per la scuola del Pci, espose per la prima volta un progetto di scuola superiore unitaria!09, Era l’archetipo della proposta presentata alla fine della quinta legislatura e poi nel giugno del 1972 nella sesta. Primo firmatario e relatore sarebbe stato Marino Raicich, uno dei più lucidi e aristocratici ingegni del Pci, forse il solo capace di dare sostanza e vita a quella difficile e affascinante scommessa implicita in questo progetto: come creare una

scuola superiore insieme di massa e qualificata!!0. Anche in questo campo come per la media unica, la presenza di un discorso comunista scatenava la volontà progettuale del nucleo più riformatore del centrosinistra aggregatosi intorno al Centro europeo dell’educazione di Fra-

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scati e soprattutto nell’Ufficio studi e programmazione, che raccoglie-

va tecnici della programmazione e pedagogisti di area cattolica, socia-

lista e repubblicana!!!. Il Convegno di Frascati del 4-8 maggio 1970!!2, dove affiorò il più complesso discorso sulla deprofessionalizzazione della scuola superio-

re e sull’unitarietà, oltre che sui nuovi contenuti culturali e quindi sul-

l’aggiornamento necessario agli insegnanti, fu il punto di partenza del-

la Commissione Biasini!!3, che avrebbe esposto i propri risultati alla fine del 1971. Erano risultati problematici, anche se di grande interesse. La Commissione infatti, pur accettando la sostanziale unitarietà, ac-

costava al modello onnicomprensivo (derivato dalla comprehensive school anglosassone), strutture pluricomprensive che rassicuravano chi voleva veder rispuntare dalla riforma le antiche divisioni o chi ne voleva delle nuove e più raffinate.

L’università e l’ultima fase del centro-sinistra

Anche per l’università questo scorcio ultimo del centro-sinistra (ministri Sullo, la cui responsabilità fu troppo breve per prestarsi a un giudizio, Ferrari Aggradi, forse uno dei più competenti, Misasi, il più abile a fruttare le innovazioni che gli venivano proposte dai tecnici della

scuola)!!4 doveva rivelarsi insieme significativo e drammaticamente inconcludente. Caduta con la sesta legislatura la 2314, Tristano Codignola, dopo aver fatto approvare la legge nota come liberalizzazione degli accessi (una legge che era soltanto la parte destruens di un di-

scorso che non fu poi mai realizzato)!!5, si impegnò strenuamente perché la Commissione del Senato, partendo dai relitti del progetto prece-

dente e dalla nuova proposta comunista del 1969116, arrivasse a una soluzione accettabile da quanti percepivano l’urgenza di una riforma dal profilo alto, anche come risposta non meramente repressiva alle sconvolgenti tensioni studentesche. E indubbio che la 612, approvata dal Senato e quindi arrivata ad ol-

tre metà del suo iter!!7, sia stato il testo più avanzato nella storia della politica scolastica italiana per quanto riguarda l’università. Essa faceva veramente del dipartimento il centro reale della didattica e della ricerca, eliminando la facoltà, trasferendo parte di suoi compiti al corso di

laurea, istituendo il docente unico, cui si accedeva per concorso dopo un periodo di formazione nel dipartimento, prima conseguendo il dottorato, che era uno dei compiti del dipartimento, poi nel ruolo di nuova istituzione del ricercatore.

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La politica scolatica italiana

Tristano Codignola, presentando su Scuola e città del 1971 quella che può essere definita la sua creatura, era in grado di offrire anche un bilancio non trionfalistico, ma certamente soddisfatto e positivo di

quanto era riuscito ad imporre non solo all’opposizione, ma anche alla sua stessa maggioranza. Il disegno legge aveva infatti largamente recepito le proposte dei comunisti, che erano stati molto attivi nella fase di elaborazione. Non a caso la stessa loro proposta del 1969 era stata pubblicata da Scuola e città. Secondo Codignola si era tenuto conto, fin quando era stato possibile, dei rilievi critici dei repubblicani e dei liberali, ostili al docente unico e al carattere troppo democratico degli organi di rappresentanza, ma non si era accettata la logica di un compromesso che avrebbe stravolto il progetto iniziale. A questo punto, tenendo conto delle resistenze del Comitato nazionale universitario, e preve-

dendo la forza delle opposizioni corporative (destinate ad esprimersi in quella che fu pittorescamente definita la «carica dei Seicento» dal nu-

mero dei docenti firmatari)!!8, Codignola chiedeva apertamente l’appoggio delle confederazioni, dal momento che la legge sarebbe stata ancora osteggiata «da forze potenti, politiche, accademiche, corporative»119. Egli era consapevole che il progetto era stato varato «nell’assenza degli studenti, che lentamente riprenderanno interesse alla riforma nei limiti in cui il potere politico la recherà in porto e i docenti sapranno attuarla con decisione e senza disarmante spirito di scetticismo»!20. Dietro questo breve inciso non ci sono soltanto implicite le difficili condizioni in cui egli dovette svolgere il suo lavoro di ingegneria intellettuale e quindi la tristezza e la solitudine del riformista, che in

questo caso era nel senso più alto del termine un riformatore, in un momento in cui sembravano così mutare i modelli di comportamento politico e il dialogo fra generazioni diventava così dolorosamente problematico e quasi impossibile. C’è forse implicito anche un problema più vasto: quale sia stata cioè l’incidenza reale della «contestazione studentesca» sulla politica scolastica. Confesso di essere tornato su questi temi non solo con una forte resistenza, ma anche con un preciso pregiudizio, che era rimasto vivo an-

che dopo la lettura del bel libro di Peppino Ortoleva!2!, pur legato a una simpatia generazionale per il soggetto che io non riésco ad avere e ad una capacità di ricostruzione complessiva che sono lungi dal dominare nello stesso modo. Si tratta dell’idea che la contestazione, dimi-

nuendo fortemente l’ipotesi di trasformare la società attraverso le riforme, sia stata, almeno per un tratto, ma anche per forze che successivamente sono tornate su questo terreno, una delle ragioni della caduta 0ggettiva delle tensioni riformatrici che avrebbero potuto darci — nel set-

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Giuseppe Ricuperati

tore specifico — una nuova scuola secondaria e una nuova università. Si tratta di un discorso che resta vero di fondo, ma rischia non solo di sovraccaricare di responsabilità il movimento studentesco, mettendo in ombra quelle ben più reali delle resistenze conservatrici. Queste, nel

caso dell’università in particolare — ma il discorso potrebbe essere fatto anche per la scuola secondaria —, erano spesso più di tipo corporativo € anacronistico che di tipo neocapitalistico, come si amava dire invece nelle analisi sempre più schematiche che leggevano la scuola come funzione del sistema. Ma a sovraccaricare di responsabilità il movimento degli studenti c’è anche il rischio di non cogliere oggi — un tempo in cui la distanza ci ha restituito una certa serenità di storici e non siamo più i testimoni oculari e parziali che vedono le vicende dal loro punto di vista nel campo di battaglia — come la contestazione, smascherando certi limiti del riformismo, lo costringesse ad elaborazioni più complesse. È difficile chiudere in una sola cifra un movimento complesso, che da paese a paese si scontra con realtà sociali e risposte politiche molto differenziate. Forse l’unica cosa unificante — almeno per paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania Federale, l'Inghilterra e l’Italia — era il fatto macroscopico che le strutture scolastiche avevano del tutto sopravanzato con la loro offerta — ai diversi livelli di diplomati e laureati — le capacità di assorbimento del mercato del lavoro. Il tratto comune era forse questa volontà — amplificata e resa oggettiva dai mass media — di contrapporre una «felicità pubblica» scoperta con il potere dell’immaginazione, alle frustrazioni di una condizione in cui la disoccupazione intellettuale diventava sempre più concreta. In questo senso venivano al pettine gli autentici nodi delle contraddizioni del centro-sinistra e forse anche dell’opposizione di sinistra. Tutta la politica scolastica si era basata su ipotesi che la realtà avrebbe clamorosamente smentito non solo in Italia, ma anche in altri paesi.

Le previsioni della Svimez e della Commissione d’indagine sulle strutture formative al ‘75 erano state largamente superate in quanto a titoli di studio, ma avevano del tutto scavalcato le offerte del mercato del lavoro. Affiorava un’interpretazione più complessa, che è quella dell’indipendenza e anzi di una tendenziale contraddittorietà della scolarizzazione rispetto al sistema produttivo. La sfasatura fra i «valori» della scuola, le capacità potenziali e i valori d’uso e le possibilità di

utilizzazione nell’industria diventavano sempre più rilevanti e potevano essere da una parte una disfunzione, dall’altra però anche il punto di partenza per un progetto di trasformazione del mercato del lavoro e

delle sue divisioni meccaniche!22, Se nel ’68 si comprende, oltre all’in426

La politica scolatica italiana

gresso alla politica di nuovi soggetti, anche la fine o perlomeno la crisi per una lunga fase di corporativismi falsamente neutrali, l’avvicinamento degli insegnanti ai sindacati confederali, il nuovo interesse delle

confederazioni unite per la scuola, la minore esternità del Pci alle politiche riformatrici, non si può non cogliere, nell’estrema, difficile fase del centro-sinistra, il maturare di volontà di trasformazione che, se rea-

lizzate, avrebbero dato un volto diverso alla scuola italiana. Mi riferi-

sco non solo agli ambiziosi ed eleganti disegni del Progetto Ottanta!23 o alle Proposte per il nuovo piano della scuola!24, ma soprattutto alla 612 e ai discorsi sulla riforma della secondaria, destinati a incagliarsi e poi a frantumarsi con la fine del centro-sinistra. C’è da chiedersi come mai queste proposte e in particolare la 612 non si realizzarono. Una spiegazione «minimalista» potrebbe essere legata proprio alla loro natura di grandi disegni di ingegneria intellettuale, che volevano calarsi come una scatola perfettamente confezionata su un contesto che non accettava di farsi imprigionare neppure da un progetto ragionevole e avanzato. Resta il fatto che non si realizzarono. Non a caso il ministero Andreotti,

che aveva

affidato

la Pubblica

Istruzione

a Oscar

Scalfaro!25, iniziò licenziando bruscamente i responsabili dell'Ufficio studi e programmazione, che avevano tentato — sempre con maggiori difficoltà e forse solitudine — di adeguare i meccanismi scolastici alla programmazione economica. Una nuova fase politica stava nascendo con segni ambigui e ancora non facili da decifrare nella misura in cui ne siamo troppo poco distanti. Non bisogna però dimenticare che il governo che si trovò a gestire, attraverso i decreti delegati, gli accordi del maggio 1972 con le confederazioni!26, che erano entrate per la prima volta in campo direttamente per la scuola, era ormai un governo di centro-destra che non solo tendeva a cancellare tutti gli strumenti che avevano resa articolata e complessa l’esperienza di riforma maturata con la Commissione d’indagine, ma sceglieva astutamente la politica di accarezzare i vizi segreti del corporativismo e dello svuotamento di fatto delle istanze democratiche. Gli organi collegiali e la loro democrazia

sempre più di forma!27, l’ircocervo impotente degli Irrsae, i provvedimenti urgenti per l’università ne erano i frutti calcolati!?8. Cominciava — per i protagonisti della politica scolastica del centrosinistra — quell’avventura del ripensamento che avrebbe portato, fra i

cattolici, Luigi Pedrazzi e Paolo Prodi!29 a un lucido, polemico e distaccato tentativo di ricostruzione del decennio, Giovanni Gozzer verso un doloroso e aristocratico pessimismo, fino a incontrarsi con un altro

elegante «ministeriale», Salvatore Valitutti!30, nelle denunce di una riforma ormai assurda, cioè quella della secondaria superiore; fra i lai-

ci,pinne Puttane Codignola!31 il"dn forse. pi

co — diffidare precocemente delle pieghe possibili nel compromesso e a continuare a sognare le sue riforme piuttosto da mrdiari disi

nistra.

Note l E. Garin, La cultura nella società italiana, Einaudi, Torino, 1960, p. 7 (un frammento di questo discorso col titolo significativo, «Crisi d’impotenza e di paura», fu pubblicato in Riforma della scuola, 1960, n. 8-9, pp. 5-6; l’editoriale di tale numero era di A. Natta, «Non disarmare»).

2 Ibid., p.9. 3 Ibid., p. 18. 4 Ibid., p. 15. SV. frai più acuti tentativi di analisi dall’interno C. Corghi, Una testimonianza sul luglio 1960, in Aa.vv., Aldo Moro: cattolicesimo e democrazia nell'Italia repubblicana, Quaderno n. 11, Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Alessandria, 1983,

pp. 165-200. Per una ricostruzione di questa fase v. G. Mammarella, L'Italia contemporanea (1943-1985), Il Mulino, Bologna, 1985, e ora P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988,2 voll., Einaudi, Torino, 1989, in particolare

vol. II: Dal «miracolo economico» agli anni *80, cap. 8, pp. 345-403, dedicato alla ricostruzione del centro-sinistra. Di grande interesse sono le pagine dedicate rispettivamente ai comportamenti e ai modelli di Moro e Fanfani. Questo bellissimo e stimolante volume, uscito dopo la stesura definitiva di questo saggio, avrebbe offerto molti spunti anche al nostro discorso, nonostante che il problema dell’istruzione sia — anche bibliograficamente — poco rilevato. 6 D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Editori Riuniti, Roma, 1958; R. Fornaca, / problemi della scuola italiana dal 1943 alla Costituente,

Armando, Roma, 1972; T. Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica, Editori Riuniti, Roma, 1976; G. Canestri e G. Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Loescher, Torino, 1976; T. Tomasi, Scuola e pedagogia in Italia (19481960), Editori Riuniti, Roma, 1977; G. Quazza (cur.), Scuola e politica dall’ Unità ad 0ggi, Stampatori, Torino, 1977; L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1982; M. Gattullo e A. Visalberghi (cur.), La scuola italiana dal 1945 al 1983, La Nuova Italia, Firenze, 1986; L. Ambrosoli, La scuola alla Costituente,

Paideia, Brescia, 1987. Non è un caso che questa storiografia, con poche, autorevoli eccezioni, come quella della Bertoni Jovine, si richiami non tanto ad un marxismo ortodosso sub specie gramsciana, quanto soprattutto alla tradizione socialista, democratica, liberta-

ria, in senso lato «azionista». V. ancora S.S. Macchietti (cur.), Questioni di storia della

scuola italiana, Quaderni dell’Istituto di pedagogia, Università di Siena, e ora D. Palomba, Scuola e società in Italia nel secondo dopoguerra. Analisi di una progressiva convergenza, Ateneo, Roma, 1988, in particolare pp. 48-54, che analizzano lo stesso nostro tratto per la scuola inferiore e l’università. T Aa.vv., Chiesa e progetto educativo nell'Italia del secondo dopoguerra, La Scuola, Brescia, 1988. Si può cogliere una certa differenza fra quanto scrive G. Chiosso, / cattolici e la scuola dalla riforma Gonella al piano decennale, ibid., pp. 303-339 e quanto, più

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| criticamente, scrive L. SPA FOIS e scuola tra ricostruzione e sviluppo (19461958), ibid., pp. 495-544. V. anche dello stesso Chiosso, / cattolici e la scuola dalla Costituente al centro-sinistra, La Scuola, Brescia, 1988, dove in realtà la stesura più distesa corregge le rigidezze dell’articolo citato. 8;

Gonella, Cinque anni al ministero della Pubblica Istruzione, 3 voll., Giuffré,

Milano, 1984.

9 Ibid., 1, pp. 232 ss. 10 Jbid., p. 144. Ma Hessen, Struttura e contenuto della scuola moderna, Avio, Roma, 1950; Id., Pedagogia e mondo economico, Avio, Roma, 1951. V. anche A. Agazzi, Le prospettive

della riforma democratica e di quella pedagogica della scuola italiana dopo il 1945, in S.S. Macchietti (cur.), Questioni di storia della scuola, cit., pp. 11-32. 12 A. Acerbi, // problema dei giovani nella pastorale dei vescovi durante il secondo dopoguerra (1945-1958). Orientamenti e contributi nell'Italia settentrionale, in Aa.vv., Chiesa e progetto educativo, cit. pp. 37-74; F. Malgeri, I! problema dei giovani nella pastorale dei vescovi durante il secondo dopoguerra (1945-1958). Orientamenti e contributi dell’episcopato nell'Italia centromeridionale, ibid., pp. 75-94. 136. Chiosso, / cattolici e la scuola dalla Costituente al centro-sinistra, cit.

14 L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit. Ì SL, Pedrazzi, La politica scolastica del centro-sinistra, Il Mulino, Bologna, 1973; v. anche M. Gattullo e A. Visalberghi (cur.), La scuola italiana dal 1945 al 1983, cit.

16 p. Sassoon, L'Italia contemporanea. I partiti le politiche la società dal 1945 a 0ggi, Editori Riuniti, Roma, 1988.

17 Vin particolare L. Pedrazzi (cur.), Iniziative di governo e problemi della scuola secondaria, Il Mulino, Bologna, 1959. V. anche il precedente Aa.vv., Incontro tra la scuola e il mondo della produzione, Il Mulino, Bologna, 1958. 18 G. Chiosso, / cattolici e la scuola dalla riforma Gonella al piano decennale, cit.,

pp. 327 ss. V. anche Id., / cattolici e la scuola dalla Costituente al centro-sinistra, cit. pp. 150-161.

19 Jbid. 20 v. Sinistrero, La scuola cattolica. Diritti e cifre, Sei, Torino, 1961.

21 V. anche dello stesso Sinistrero, La politica scolastica 1945-1965 e la scuola cattolica, Quaderno Fidae, Roma, 1967. 22 G. Gozzer, / cattolici e la scuola, Vallecchi, Firenze, 1964.

23 C. Marchesi, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1959. 24 A. Banfi, Scuola e società, Editori Riuniti, Roma 1958. 25 Sul pensiero pedagogico di Gramsci mi limito a citare A. Broccoli, Antonio Gramsci e l'educazione come egemonia, La Nuova Italia, Firenze, 1972 e la splendida antologia, G. Urbani (cur.), A. Gramsci, La formazione dell’uomo, Editori Riuniti, Roma, 1967. 26 Un bilancio del ruolo di D. Bertoni Jovine, autrice non soltanto del volume già ci-

tato sulla scuola italiana dal 1870, ma di numerosi saggi di storia della scuola e della pedagogia è in A. Semeraro, Dina Bertoni Jovine e la storiografia pedagogica del dopoguerra, Lacaita, Manduria, 1979.

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Riforma dellasc uola. » Lucio Lombardo Radice fu ilprimo direttoreESLIVIO di 29 A. Donini, «Le proposte dei comunisti per la scuola dell'abbligne mis ISy1Py209: 30 A, Natta, «Problemi della scuola negli scritti di Gramsci», Società, 1957, n. 4, pp.

685-708; Id., «Attualità e urgenza della riforma scolastica», Rinascita, 15, 1959. Per il ruolo di A. Natta nella Commissione d’indagine v. le pagine che seguono. 31 Cc. Luporini, «Convergenze per un umanesimo moderno», Società, 1957, n. 1, pp. 3-17.

32 V. La riforma della scuola media al Senato, a cura del gruppo comunista del Senato, Roma, 1962. Il disegno di legge, primi firmatari A. Donini e C. Luporini, era il n. 359 del 1959. Per un’analisi v. G. Canestri e G. Ricuperati, La fed in Italia, cit., ppi 262-264.

33 G. Tamburrano, Pietro Nenni, Laterza, Bari, 1986.

34 T. Codignola, Scritti politici (1943-1981), 2 voll., a cura di N. Tranfaglia e T. Borgogni, La Nuova Italia, Firenze, 1987; v. anche T. Codignola, Per una scuola di libertà. Scritti di politica educativa (1947-1981), a cura di M. Corda Costa, R. Laporta, G.

Luzzatto, G. Martinez, G. Rescalli, A. Santoni Rugiu e A. Visalberghi, La Nuova Italia, Firenze, 1987. 35 V. ora R. Sani, /! «Mondo» Brescia, 1986.

e la questione scolastica (1949-1966), La Scuola,

36 Su G. Medici v. L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 86-90. 37 A. Fanfani, Centrosinistra 62, Garzanti, Milano, 1963.

38 G. Chiosso, / cattolici e la scuola dalla Costituente al centro-sinistra, cit., pp. 181-

183. 39 Svimez, Mutamento della struttura professionale e ruolo della scuola, Giuffré, Roma, 1961.

40 G. Canestri e G. Ricuperati, La scuola in Italia, cit., pp. 247 ss. #1; Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 183. 42 G. Gozzer (cur.), Scuola e programmazione, Palombi, Roma, 1962, p. 23.

43 L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 109 ss.

44 rpid., pp. 159 ss. 45 T, Codignola, Nascita e morte di un piano, La Nuova Italia, Firenze, 1963.

46 L. Pedrazzi (cur.), [Iniziative di governo e problemi della scuola secondaria, Il Mulino, Bologna, 1959, in particolare l’intervento di U. La Malfa, pp. 89-93. 47 G. Martinoli, L'università come impresa, pref. di A. Visalberghi, La Nuova Italia, Firenze, 1967.

48 Ministero Pubblica Istruzione, Relazione della Commissione d’ indagine sullo stato e sullo sviluppo della pubblica istruzione in Italia, 2 voll., Palombi, Roma, 1963.

49 Ibid., I, Presentazione al Ministro della P.I. L. Gui, pp. 10-12.

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50 1bid., pp.27-32. 51 Ibid., pp. 31 ss. 92 Ibid., pp. 81 ss. 53 Ibid., pp. 83 ss. 54 Ibid., pp. 95. V. anche T. Codignola, Per una scuola di libertà, cit., «Quale università in Calabria?», pp. 369-373. 55 Ministero Pubblica Istruzione, Relazione, cit., I, pp. 113 ss.

56 Ibid., pp. 126 ss. ST p. Sassoon, L'Italia contemporanea, cit., che non a caso intitola il capitolo 3dedicato all’economia, «Dal miracolo alla crisi 1963-1969», pp. 77-100. V. ora P. Ginsborg, Storia d'Italia, cit., II, che periodizza più analiticamente i diversi tempi dell’economia, della società, della politica, costruendo un capitolo sul «miracolo economico» (1958-63,

cap. 8), un altro sul centro-sinistra (1958-1968, cap. 9), individuando il tratto fra il 1968 e il 1973 come l’epoca dell’azione collettiva (cap. 10), mentre colloca sotto il segno della

crisi, del compromesso e degli anni di piombo il tratto fra il 1973 e il 1980. Ma sul governo Andreotti nato dalle elezioni del maggio 1972 v. le pp. 454-455 e, più ampiamente, sulla svolta a destra del 1972-1973, pp. 453 ss. 58 Mi riferisco in particolare alla legge n. 382 dell’11 febbraio 1980, Riordinamento della docenza universitaria..., su cui v. L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra

ad oggi, cit., pp. 441 ss.

59 Ministero Pubblica Istruzione, Relazione, cit., I, pp. 131 ss. 60 L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 90, dove si cita un'intervista dell’allora presidente del Consiglio Antonio Segni a L'Espresso il 20 marzo 1960, in cui l’autorevole esponente Dc dichiarava che «questo tipo di scuola non c’è mai stato in Italia e finché noi cattolici saremo al potere non ci sarà mai. Come si possono affidare i bambini di tre, quattro anni a giovani insegnanti spesso anticlericali? Sarebbe il principio della scristianizzazione dell’infanzia». Ambrosoli trae tale citazione da G. Genovesi, L'educazione prescolastica, in Aa.vv., L'istruzione di base in Italia (18591977), Vallecchi, Firenze, 1978, p. 54, che a sua volta rinvia a L'Espresso, 20 mar. 1960.

61 Ministero Pubblica Istruzione, Relazione, cit., I, pp. 136 ss.82 Jbid., p. 136.

63 64 65 66 67

Ibid., Ibid., Ibid., Ipid.,

pp. 144 ss. pp. 177 ss. p. 190. pp. 190-191. Ibid., p. 245. V. anche F. Isabella, L'edilizia scolastica in Italia. Precedenti e pro-

spettive, La Nuova Italia, Firenze, 1965. 68 Ministero Pubblica Istruzione, Relazione, cit., I, pp. 289 ss.

69 Ibid., pp. 337 ss. 70 Ibid., p. 344. 71 Ibid., p. 351. 72 Relazione sullo stato della pubblica istruzione in Italia e linee direttive del piano di sviluppo pluriennale della scuola per il periodo successivo al 30 giugno 1965, presentata dal ministro della P.I. L. Gui, 2 voll., Tipografia della Camera dei deputati, Roma, 1964.

431

fon da dai mc Bosco, Discorsi sulla scuo. i

i

mi Si A. Moro e la politica Séolastica” a paia os Ila scuola alla Costituente, in Aa.vv., Moro, la democrazia e la n | Cinque Lune, Roma, 1979, pp. 49-60. Con rilievi più critici v. G. Canestri, Aldo nistro della Publica Istruzione, in Aa.vv., Aldo Moro: cattolicesimo e fece

76

|

did

— nell'Italia repubblicana, cit., pp. 115-128.

(L. Gui), Relazione, cit., I, p. 10. 71 Ibid., p.11.

78 Ibid., p. 13. 79 Ibid. 80 Jpid. 81 L. Gui, Testimonianze sulla scuola, cit.

82 Id., Nuove testimonianze sulla scuola, Società editricePenesp

Napoli, 1981.

83 1a. Testimonianze sulla scuola, cit., pp. 9 ss. 8414, La riforma agraria in Italia, Ministero Agricoltura e foreste, Roma, 1953. 85 Id., Testimonianze sulla scuola, cit., pp. 177-186.

86 Ibid., p. 184.

87 Ibid. 88 /bid., p. 195. 89 R. Placido, in G. Luzzatto (cur.), Tristano Codignola e la politica scolastica italia-

na, 1947-1981, Editori Riuniti, Roma, 1984, pp. 95-106. 90 Comitato cattolico docenti universitari, L'Università oggi, Il Mulino, Bologna, 1965.

91 Jbid., relazione L. Almirante sull’autonomia, passim.

92 Ibid., pp. 140 ss. 93 Ibid., intervento L. Gui.

94 (L. Gui), Libro bianco sull’università, Abete, Roma, 1973. 95 Ibid., pp. 260-263, che riassume l’intervento nella seduta dell’11 gen. 1968. V. anche F. Froio,

Università

e classe politica, Comunità,

Milano,

1968, pp.

132-144

e

144-145.

96 (L. Gui), Libro bianco, cit., pp. 264 ss. V. la risposta di Gui ai liberali e a Valitutti in particolare (pp. 292-293).

97 Ibid., pp. 166 ss. Si tratta della proposta di legge 2650, Riforma dell’ ordinamento universitario. 98 (L. Gui), Libro bianco, cit., pp. 363 ss., dove si riporta il testo presentato dal governo, quello approvato dalla Commissione per l’istruzione e quello approvato dall’assemblea (primi 8 art.).

99 Ibid., p. 373. 1007p;d., p. 374. 101 ypid., p. 375.

432

2102 Sa

i

in particolare pp. 251 ss.

Se PTT %

ua _Rgre —re

pia,p.376.

103 m. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna, Io

id

104 Ministero Pubblica Istruzione, L'istruzione pubblica in Italia. Bilancio di legislatura 1963-1968, Roma, 1968.

n:

106 7, Codignola, Per una scuola di libertà, cit., pp. 187 ss.

Lori S

107 G. Canestri e G. Ricuperati, La scuola in Italia, cit., pp. 382 ss. Ma v. anche «Per un rinnovamento dell’istruzione professionale», Riforma della scuola, 1964, n. 6-7; v. an-

che «Bozza di proposta sull’istruzione tecnico-professionale», Riforma della scuola, 1964, n. 12 e «L’istruzione secondaria superiore», Riforma della scuola, 1967, n. 5-6.

108 Sul rapporto fra istituzioni scolastiche e agitazioni studentesche in Italia v. F. Catalano, / movimenti studenteschi e la scuola in Italia (1938-1968), Il Saggiatore, Milano, 1969; G. Ricuperati, La scuola e il movimento degli studenti, in Aa.vv. L'Italia contemporanea 1945-1975, Einaudi, Torino, 1976, pp. 435-460; L. Ambrosoli, La scuola

italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 231-246. 109 G. Canestri e G. Ricuperati, La scuola in Italia, cit., pp. 382 ss.

110 M. Raicich, La riforma della scuola media superiore, Editori Riuniti, Roma, 1973. La prima bozza di questa legge in Id., «Unitaria nella struttura e nel carattere», Riforma della scuola, 1969, n. 3, pp. 5 ss.

111 G. Canestri e G. Ricuperati, La scuola in Italia, cit., pp. 373 ss

112 Jbid., pp. 373 ss. 113 Jbid., p. 376; v. O. Biasini, Scuola secondaria superiore. Ipotesi di riforma, Edizioni della Voce, Roma,

1972. V. anche G. Chiarante, «Unificare o moltiplicare: ab-

bandonato il discorso Gui», Riforma della scuola, 1971, n. 8-9, pp. 4 ss. 114 G. Canestri e G. Ricuperati, La scuola in Italia, cit., pp. 274 ss.

115 Si tratta della legge n. 910 dell’11 dicembre 1969. 16 v. il disegno di legge 707, comunicato alla presidenza del Senato Pri giugno 1969, primo firmatario l’on. Giuseppe Sotgiu. Lo si veda in Scuola e città, 1969,

n. 7-8. Codignola,

«La riforma

universitaria»,

Scuola

e città, 1971, n. 5-6, pp.

220-247.

y

118 Jbid., p. 220. 119 Jbid. 120 Jbid., p. 221. 121 G. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, con un’antologia di materiali

SS da

105 L. Ambrosoli, La scuola in Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 189- 206.

IL:

I

e documenti, Editori Riuniti, Roma,

1988. V. ora P. Ginsborg, Storia

d'Italia, cit., Il, pp. 404 ss. 122 M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali, cit., p. 255.

123 L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 313-334. 124 Ministero della Pubblica Istruzione, Comitato tecnico per la programmazione scolastica, Proposte per il nuovo piano della scuola, Roma, 1971; v. L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 325.

433

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126 (E, Valle EP. Coluesi e A. Natoli, La scuola

i HA ai decreti delegati, Mazzotta, Milano, 1975, pp. 182- 209; LE

Ricuperati, Lascuola in Italia, cit., pp. 334-373; L. Ambrosoli,Lascuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 344-359.

127 Ibid., p. 346, e la bibliografia citata, fra cui R. Rizzi, La scuola dopoi decreti delegati, Editori Riuniti, Roma, 1975, di parte comunista; V. Cervone, La scuola e la società, Cinque Lune, Roma, 1975, che riporta il punto di vista dei democristiani; A. |

Visalberghi (cur.), La gestione democratica della scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1975;

| S. Valitutti, Comunità educativa e cultura. Premessa per un discorso sugli organi collegiali, Armando, Roma, 1975. Per contro, v. G. Cavallini (cur.), Sui decreti delegati, ta) Milano, 1975, nel quale si individuano tutti i nodi critici della sinistra. Per una valutazione in questa direzione G. Canestri, L'ombra della Minerva. Appunti sulla gestione

della scuola negli ultimi quarant'anni, in M. Gattullo e A. Visalberghi (cur.), La scuola italiana dal 1945 al 1983, cit., pp. 257-293. 128 L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 433 ss.

| 129 V.il bilancio di L. Pedrazzi, La politica scolastica del centro-sinistra, cit. Per P. Prodi, v. l'intervento già citato in G. Luzzatto (cur.), Tristano Codignola e la politica scolastica italiana, cit.

130 G. Gozzer e S. Valitutti, La riforma assurda, Armando, Roma, 1978.

131 T. Codignola, Scritti politici, cit., e in particolare l'introduzione di N. Tranfaglia, Un socialista scomodo, pp. VIILXXII.

434

DIDATTICA E RICERCA NELL’UNIVERSITÀ: L’ESEMPIO DELLA STORIA MEDIEVALE di Paolo Cammarosano

Quando nei documenti degli anni 1967-69, espressi dai movimenti degli studenti, si incontrano giudizi sui contenuti degli insegnamenti di storia, i riferimenti al medioevo sono di una rarità disperante per chi debba affrontare l’argomento che mi è stato affidato. Va da sé che non vi è mai un cenno in positivo: il medioevo non era in cima ai pensieri dei militanti di quegli anni. Se per vicende e orientamenti del tutto individuali uno studente di sinistra nutriva interesse a quella fase storica, suscitava presso i compagni un moto di sorpresa al quale facevano seguito — da parte degli animi gentili — osservazioni di condiscendenza quali: «Beh, non erano poi solo ombre», oppure «sarebbe in effetti bene strappare il medioevo al monopolio dei cattolici»; ma erano più normali ripulse perentorie del genere: «Fino al 1789 è stato tutto sbagliato»!. C’era a volte la consapevolezza che almeno uno dei padri fondatori della storiografia più moderna era stato un medievista, e soprattutto c’era la cognizione che quella stessa modernizzazione storiografica passava attraverso un giudizio di indifferenza per i contenuti, privilegiando invece il momento del metodo di ricerca e dell’analisi. Ma le conseguenze che se ne traevano, per chi cercasse di coniugare un interesse politico immediato a un campo di ricerca storica, andavano piuttosto nel senso di legittimare lo studio della storia contemporanea, sottraendola al disdegno accademico e alle sue motivazioni pseudoscientifiche: del resto quello stesso medievista e padre fondatore le aveva liquidate nelle pagine della famosa Apologie pour

l’ histoire, vademecum del bravo studente di storia nell’università de-

gli anni sessanta?. È anche raro trovare nei testi del °68 e dintorni accenni in negativo alla storia medievale come materia di insegnamento, se non in funzione di circostanze molto determinate e in maniera assai parentetica. Co-

435

he?

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sì, ad esempio un’ampia relazione sulla facoltà di Lettere di Torino del 17 marzo 1969 contestava l’inserimento della storia medievale (come. del latino, della storia romana, dell’italiano) tra gli esami fondamentali, ed elencava un argomento medievistico in una sorta di crescendo di temi futili che venivano inflitti quell’anno agli studenti: Che qualche erudito passi la sua vita a studiare Virgilio, o le origini dell’impero romano, o Giambattista Marino, o le abbazie piemontesi del XII secolo, ci va bene,

come ci pare possibile, con qualche sforzo, che qualche studente coltivi l’amore per queste cose. Quello che è assurdo è che tutti gli studenti debbano comprare e studiarsi dispense, manuali, testi, su questi argomenti>.

Anche al livello di esemplificazioni polemiche di questo tipo, non erano i temi medievistici il bersaglio preferito. Nel medesimo testo torinese, la più ampia critica intorno al manuale, all’insegnamento universitario della storia e alla sua funzionalità per la preparazione professionale traeva materia, dopo una generale espressione di rifiuto del manuale, da un’altra situazione: Tutti sanno cos’è un manuale: la cristallizzazione di un sapere conformistico, se-

lezionato e consacrato da secoli di tradizione, nel quale ciò che un tempo era cultura viva — arma di difesa e di offesa, strumento e intervento nella realtà — è reso morto e insignificante, sformato, asettico, senza mordente. Accanto ai manuali ci sono corsi e seminari su argomenti specifici che se non servono a soddisfare il bisogno di specializzazione, non danno neanche strumenti adatti ad insegnare, né dal punto di vista del contenuto né da quello del metodo. Per esempio per storia si studia l’eterno Spini e in più si ha il corso del prof. Venturi su Antonio Genovesi. Questo corso consiste nella ripetizione pedante delle ricerche minute svolte dal detto prof., le quali vengono ammannite allo studente che saprà poi la storia generale a livello di Bignami con l’aggiunta di un enorme Bignami su Antonio Genovesi. Quando farà l'insegnante evidentemente il Genovesi non gli servirà a nulla e tutto consisterà nel ripetere e nel fare ripetere eternamente lo Spini4.

Se il documento torinese prospettava alternative su un piano culturale generale (la necessità di analizzare prima il presente e poi vederne la genesi, quindi l’importanza — nel riportarsi all'esempio del Genovesi — di studiare «l’economia politica del presente» e solo in un secondo tempo gli antecedenti settecenteschi), un testo pisano pressoché contemporaneo insisteva sull'importanza per i gruppi di studio studenteschi di analizzare i «problemi teorici e politici» di attuale interesse, e in questo contesto inseriva a scherno, in maniera egualmente occasionale,

l’accenno a un tema medievistico offerto in quell’anno 1968-69 agli studenti: ... Oggi, ad esempio, in Spagna, il rincrudimento del fascismo sta provocando una si-

tuazione di fortissima tensione; in Pakistan stanno avvenendo

436

lotte studentesche di

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L'esempio della storia medievale vasta portata ecc. Sono tutte situazioni di cui noi non sappiamo quasi niente (mentre magari, in questa facoltà, abbiamo imparato tutto sull’arcivescovo Guido da Velate del sec. XI)...9.

Il carattere marginale di riferimenti di questo tipo discende, banalmente, da una posizione marginale che gli studi sul medioevo avevano ‘nei curricula sia scolastici che universitari rispetto al altre discipline: rispetto all’italiano

(nella scuola e nell’università,

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è noto, Dante e

Petrarca sono «italiano», non «storia medievale») e soprattutto rispetto alle materie classicistiche e antichistiche, a cominciare dal latino; ber-

saglio preferenziale delle lotte sui contenuti dell’insegnamento promosse da studenti medi e da studenti universitari. Se dunque si può impostare un discorso sull’incidenza che i fatti del 1968 ebbero sulla didattica e la ricerca di ambito storico a partire dall’erosione imposta al campo delle discipline antichistiche o dall’incremento che invece ebbero la storia contemporanea e le scienze sociali, sembra invece difficile dare spessore a una riflessione analoga ancorata al segmento degli studi medievali. A meno di inserirla in una valutazione più ampia del nesso didattica-ricerca quale fu impostato allora: è quello che cercherò di fare, salvo a tornare poi nel recinto medievistico. La forte rivendicazione del nesso tra didattica e ricerca, congiunta

alla denunzia del sistema di insegnamento universitario come di un sistema nel quale quel nesso era sostanzialmente disatteso, si trova in numerosi testi di quegli anni. Una formulazione perentoria ed estesa è nel documento che fu elaborato tra il 7 e 111 febbraio del 1967 dagli occu-

panti la sede centrale dell’ateneo di Pisa, la «Sapienza». È uno scritto assai noto, divulgato poi come Tesi della Sapienza, molto contestato da altri movimenti studenteschi, analizzato a lungo in un fortunato libro di Rossana Rossanda come espressione di una tendenza a rimandare «la condizione universitaria... a un’analisi politica globale», contrapposta in ciò alla tendenza poi prevalente nel corso del 1967-68 che si sarebbe imperniata invece sull’ «immediatezza della denuncia della condizione

studentesca»?. Gli indubbi connotati di «politicizzazione» e di «astrazione» delle Tesi pisane andavano tuttavia congiunti a un forte peso attribuito alle istituzioni scolastiche e universitarie in quanto tali, con rivendicazioni dell’obbligatorietà della scuola (addirittura di una «scuola pre-elementare pubblica, gratuita e obbligatoria», nonché di un’obbligatoria scuola media superiore «articolata per gruppi opzionali di materie») e con una progettualità complessiva sull’università che si imperniava sul diparti-

437

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a Mi Paolo Cammarosano

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mento e al suo interno impostava in termini di «co-ricerca» il nesso tra ricerca e didattica: I gruppi di ricerca costituiti da ricercatori e da discenti-ricercatori sviluppano il programma del dipartimento; i gruppi di co-ricerca, costituiti da docenti e discenti attuano la formazione culturale del discente. E essenziale che il ricercatore sia un ricercatore-docente... Il ricercatore non solo comunica i risultati ultimissimi della ricerca, ma anche indirizza il discente secondo i canali della genesi del risultato stesso... La didattica non è un sottoprodotto della ricerca, ma la ricerca è il prodotto di una cor-

retta didattica...7.

Impostazioni del genere appaiono ancora lontane dalla tematica più radicalmente contestativa, «contro l’università», che si sarebbe poi sviluppata nel corso del 1968, e si spiegano certo con un radicamento forte nelle tematiche del movimento operaio e dei suoi partiti e delle organizzazioni tradizionali degli studenti. Sotto un altro punto di vista, la proposizione di una didattica fondata su gruppi di ricerca docenti-studenti come di una norma generale dell’università di massa, il rifiuto di pratiche selettive (alimentato dall’opposizione al piano Gui con le ventilate introduzioni dei livelli differenziati del titolo di studio culminanti nel dottorato di ricerca), segnavano la distanza dalle esperienze didattiche seminariali, peraltro limitate, che si realizzavano nell’università di

quegli anni. Nell'ambito degli studi storici, esperienze del genere erano confinate a ristretti gruppi di laureandi, oppure a situazioni privilegiate come quella della Scuola Normale Superiore di Pisa, tra i cui allievi — insofferenti del loro privilegio elitario — si reclutarono numerosi protagonisti dell’occupazione del febbraio 1967 e poi delle lotte studentesche dei due anni successivi. Rari docenti della Scuola, per la verità, prospettavano da tempo la didattica seminariale come didattica «ordinaria» degli studi universitari, anche se questa ordinarietà si sapeva in realtà offerta soltanto «a una piccola schiera di gente scelta, attraverso esami non facili, per capacità di lavoro intellettuale e volontà di studiare un po’ più e un po’ meglio di altri». Queste parole erano state pronunziate nel settembre del 1963, in

un contesto di celebrazione solenne, dal più eminente storico della Scuola, Delio Cantimori, insuperato animatore del seminario concepito come unità collettiva di ricerca nella quale ogni fase — dall’individuazione del problema storico al reperimento delle fonti, all’elaborazione della bibliografia e dei vari percorsi analitici — era demandata al lavoro della collettività stessa. Di quel discorso celebrativo è anche interessante ricordare la rivendicazione dell’inscindibilità della fase di ricerca universitaria dalla fase di formazione degli insegnanti di scuola:

438

L'esempio della storia medievale Questo contrasto fra la tendenza alla specializzazione, alla filologia più rigorosa, alla preparazione esclusivamente critico-scientifica, o come altro si voglia dire, universitaria o accademica o di pura ricerca, e la tendenza alla preparazione e formazione di un corpo insegnante omogeneo per le scuole di tipo liceale o di tipo tecnico o di tipo magistrale, come ha aduggiato le Facoltà filosofiche e letterarie, così pure ha infastidito spesso la classe di lettere e filosofia della Scuola Normale... Eppure, si può ben dire che nella Scuola Normale... è rimasto saldo nella classe di Lettere il grande principio per il quale non si posson comunicare, insegnando e spiegando ai giovani in via di formazione, i risultati della ricerca pura o specializzata o scientifica o critica o disinteressata che dir si voglia, qualora non si sia fatta esperienza diretta e attiva di tale ricerca; in parole semplici, si è sempre saputo che il pane della scienza è tale, che chi non lo sa fare, non lo sa spezzare come si deve ai giovani8.

Lo spirito elitario di cui si è detto e il solenne contesto accademico di questo discorso lo rendono irriducibile alla contestativa proposta della co-ricerca del febbraio pisano del 1967, e ancor più alle istanze e alle pratiche dei gruppi di studio autogestiti, dei controcorsi, dei teach-in ecc. che si diffusero nelle università nel corso del 1968 e del 1969. Si sa d’altronde che le tematiche del dipartimento e del seminario e ogni altra imperniata su un progetto complessivo degli studi universitari furono in quegli anni travolte, e rifiutate anche dalla gran parte dei loro promotori iniziali: sia per l’individuazione di un momento trasformistico ed elusivo nel loro parziale accoglimento entro nuovi progetti governativi di riforma e nelle sperimentazioni che alcune facoltà e professori accetta‘Tono 0 promossero, sia per una percezione lucida di un’inevitabile riproposizione in termini elitari della didattica seminariale. Vennero così accentuate sempre di più le istanze legate alla condizione materiale e immediata degli studenti, la problematica degli studenti-lavoratori e dei fuori sede, le rivendicazioni quali l’abolizione del «respinto», l’istituzione degli appelli mensili, poi il «voto di gruppo» inteso non già come il naturale riconoscimento di un carattere effettivamente collettivo del lavoro di studio e ricerca bensì come garanzia politica contro la selettività dei meccanismi universitari. Resta che ancora nel 1969 erano presenti insieme a queste tendenze elementi di critica dell’impostazione tradizionale degli studi in quanto tale, e della situazione di alterità e subalternanza secondo cui si configurava il rapporto università-scuola. Si è citata la critica che maturò nella facoltà di Lettere di Torino contro il manuale e il corso monografico, con il giudizio sull’inutilità di tali strumenti ai fini di una formazione professionale degli insegnanti. Dello stesso periodo (primi mesi del 1969) è un’interessante Bozza di schema sul ruolo degli studi umanistici elaborata a Pisa, dove si esprimeva con incisività lo iato tra università e scuola e la sua funzione autoritaria:

439

Paolo Cammarosano

In effetti il momento propriamente tecnico delle cosiddette «scienze umanistiche» si è sempre delineato in modo burocratico. Con una gerarchia di questo tipo:

nell’università «si fa la cultura» (professori) e la si riceve (studenti); questi ultimi sa-

ranno poi in quanto insegnanti le cinghie della trasmissione culturale per le scuole di grado inferiore. In questo schema veniva naturalmente previsto un certo depauperamento indicato dallo stacco tra «ricerca» — che si fa nell’università — e «didattica» che concerne le scuole medie.

Il tempo che ci separa da quegli anni (breve storicamente, ma lungo nella biografia) attenua forse la distanza tra le auliche parole di Delio Cantimori del 1963 e la dura espressione della militante pisana della Bozza di sei anni dopo: nel senso che ad ambedue appare sotteso un problema di impostazione della didattica universitaria come inscindibilmente legato all’impostazione di un nesso tra università e scuola, ricerca e insegnamento. Se comunque può essere oggetto di discussione l’entità e la natura della distanza fra l’una e l’altra visione delle cose, sembra invece difficile dubitare della distanza che separa ambedue dalla fase in cui operiamo adesso. Fase contrassegnata dall’avviarsi a compimento di una vasta operazione conservatrice: che attraverso istituzioni quali il dipartimento e la sua distinzione dal corso di laurea, il

dottorato di ricerca, l’istituzione del ruolo dei ricercatori universitari, l’assegnazione dell’università e della scuola a istanze separate dell’amministrazione centrale dello Stato, il sancito scarto retributivo e normativo tra docenti dell’università e docenti della scuola, il potenziamento degli istituti di istruzione speciale e postuniversitaria, tende nella sostanza a scorporare il momento della ricerca da quello dell’insegnamento. Tutto ciò mentre la gerarchizzazione di cui si parlava nella Bozza pisana del 1969 si viene arricchendo di nuove, informali intermediazioni, tra l'università come sede della ricerca e la scuola come sua ricezione e trasmissione: figure cioè di «operatori didattici», promotori — talora al di fuori di ogni effettiva esperienza di ricerca propria — di ampie manualistiche e di proposizioni tecnicistiche della didattica. L'operazione conservatrice in questione non è andata esente, naturalmente, da smagliature. E soprattutto, come ogni operazione conservatrice che si rispetti, ha avuto come condizioni di successo e di consenso l’accoglimento di alcune istanze di ammodernamento e l’incanalamento di altre in un quadro di generale compatibilità. La liberalizzazione dei piani di studio e degli accessi all’università — innovazioni di particolare peso nelle facoltà umanistiche — disinnescarono molti motivi della protesta degli anni 1967-69: fra l’altro detronizzando alcuni ambiti disciplinari tradizionali quali il latino e il greco, ridimen-

440

L’esempio della storia medievale

sionando in genere le materie antichistiche e filologico-glottologiche, dando ampio spazio — in buona misura grazie all’istituzione dei corsi di laurea in storia — alle discipline storiche modernistiche e soprattutto contemporaneistiche. Con alcune inclinazioni nuove rispetto al quadro presessantottesco e sessantottesco. Nell'ambito delle scienze dell’antichità il ridimensionamento del settore filologico-letterario è stato compensato da una vasta espansione di storie specialistiche e di archeologie — qui non senza alcune ideologiche valutazioni della «cultura materiale», delle testimonianze «non scritte» ecc. come portatrici di

una carica «democratica». Nell'ambito degli studi contemporaneistici, dei quali — come degli antichistici — non tocca a me parlare, mi permetterò comunque di rilevare come l’espandersi degli insegnamenti universitari non sembri avere quei connotati immediati di attualismo e di politica rilevanza rivendicati nei testi della contestazione del 196869: se, come mi appare dal poco che conosco, la Spagna e il Pakistan di cui si auspicava lo studio in un ciclostilato dell’epoca citato sopra (la prima adesso non più fascista, il secondo ancora teatro di violenti affrontamenti sociali e politici) non sono realtà facilmente attingibili oggi attraverso un curriculum universitario. Fra gli amici degli anni di cui parliamo, uno che ebbe poi un ruolo importante nei movimenti di tendenza rivoluzionaria mi diceva, forse per attenuarmi quell’imbarazzo ad occuparmi di cose medievali al quale ho alluso, che di fronte ai problemi dell’oggi «Gramsci e Bordiga sono medioevo». Era un’espressione certo occasionale ed eccessiva. Constatiamo comunque come un dato di fatto, senza trarne giudizi, che nell’attuale università lo

sweeziano «presente come storia» sembra aver fatto il suo tempo, e che hanno ripreso il dovuto spazio Gramsci e Bordiga, e naturalmente anche il medioevo. Un nuovo impulso degli studi medievistici è stato in effetti tra i risultati della liberalizzazione dei piani di studio, dell’incremento delle discipline storiche per rapporto a quelle filologiche e letterarie, di una limitata erosione delle storie dell’età antica, più in generale di un vasto incremento del corpo docente delle università e di un parallelo welfare di cui sono segno il proliferare delle pubblicazioni e la miriade dei convegni di studio. Entro questi limiti, può sembrare plausibile il nesso positivo che troviamo istituito tra ’68 e medievistica in una sede insospettabile, la redazione dell’importante rassegna bibliografica Medioevo latino che dal 1980 affianca il più illustre periodico accademico del medievismo italiano, gli Studi medievali editi dal Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto. Nella prefazione al primo volume di Medioevo latino Claudio Leonardi scrive:

441

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Paolo Cammarosano Gli studi sul Medioevo sono un po” la cenerentola delle scienze filologiche e storiografiche. Di fronte agli studiosi dell’età classica e dell’età moderno-contemporanea, i medievisti sono i parenti poveri... Più d’uno ha avuto così l'impressione dell’insignificanza dei nostri studi. Ma sarebbe questo un giudizio affrettato ed erroneo... Gli avvenimenti del Sessantotto hanno portato a una consapevolezza che ora — sulla soglia degli Ottanta — sembra a tutti comune, anche se non sempre esplicitamente: la consapevolezza che l’antica gloriosa civiltà classica ha esaurito la sua funzione immediatamente attiva nella nostra storia, e non può più essere presa a punto di riferimento intellettuale e pratico; e la consapevolezza, per altro, che gli strumenti dell’ideologia contemporanea si sono spuntati di fronte al compito di costruire o almeno di desiderare una civiltà diversa. L’insignificanza degli studi sul Medioevo, rispetto agli ideali culturali e civili che il nostro tempo può esprimere, è diventata l’insignificanza degli studi su ogni epoca storica!0,

Quest’approccio in fondo lucidamente pessimistico alla ripresa recente degli studi medievali è da preferire al nuovo «medievalismo» che legittima revival e ricerca nella vita e nella cultura medievale positivi messaggi. Resta che le considerazioni di Leonardi non sembrano condivisibili se non in limiti assai stretti. Non persuade anzitutto la presentazione degli studi medievistici in termini di cenerentola, soprattutto se riferita ad una fase pre ’68. Se cenerentola c’era, era a quei tempi la storia contemporanea, la storia dei fatti recenti, che una tradizione inveterata — anche se da tempo irrisa da maestri come Marc Bloch o Delio Cantimori — respingeva dai curricula accademici in nome di una presunta impossibilità di cognizione scientifica. Il medioevo era un campo consolidato di erudizione, strumentazione di alto livello, analisi accademica e produzione storiografica di vasta risonanza. Una posizione marginale si rinveniva certo, come abbiamo ricordato, da un lato nel cerchio degli interessi degli studiosi «laici» o «di sinistra», dall’altro lato — cosa più importante — negli ordinamenti di studio della scuola e dell’università. Sotto questo profilo soltanto mi sembra che si possa dire che il medioevo abbia beneficiato di una sorta di redistribuzione accademica e scolare. Quanto allo «spuntarsi» degli «strumenti dell’ideologia contemporanea», può darsi che esso abbia favorito («in negativo», come dice in altro luogo la nota redazionale di Leonardi) una ri-

presa di studi medievali. Ma se si tratta dunque di una ripresa nel segno dell’indifferentismo delle ideologie, allora ne ricondurremo la fase di avvio non agli anni 1967-69 ma alla fase di stabilizzazione degli anni 1975-80, fase segnata sul piano istituzionale dall’espansione dei corsi di laurea in storia e dalla riforma universitaria, sul piano culturale dalla strana mistura fra l'accettazione dell’«insignificanza degli studi su ogni epoca storica» (come scrive Leonardi) e le perentorie divulgazioni del-

la «nuova storia» e del nesso storia-scienze sociali come di una nuova normativa e una nuova manualistica degli studi scolastici.

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rota L'esempio della storia medievale

Possiamo comunque accettare serenamente il riconoscimento dell’indifferenza degli oggetti di studio della storia rispetto ai metodi, ed essere francamente lieti che nessuno contesti la scelta di un campo di studi, come cosa del tutto autonoma rispetto a collocazioni ideologi-

che. Meno serenamente assisteremo al progressivo distacco istituzionale tra ricerca e didattica. È vero che l’ operazione conservatrice degli ‘. anni settanta e ottanta si è accompagnata all’apertura di spazi larghi per chi tenti di offrire alla generalità degli studenti, non a un’élite, l’opportunità di un’effettiva esperienza di ricerca lungo tutto l’arco degli studi: liberalizzazione dei piani di studio da un lato, e in tante sedi un grande miglioramento del rapporto numerico tra docenti e studenti, consentono a chi lo voglia il perseguimento di metodi realmente seminariali, la produzione di lavori scientifici elaborati con gli studenti stessi, insom-

ma una didattica che non si riduca alla visione «dal buco della serratura» denunziata in un testo del 1969 citato sopra. Molti medievisti dell’università italiana percorrono adesso queste vie, anche se non ho gli strumenti per darne qui una rassegna che faccia a tutti giustizia. Resta tuttavia che la tendenza a una riproposizione elitaria e selettiva delle esperienze seminariali sussiste, e in certa misura è favorita da elementi visti a suo tempo come liberalizzanti, ma che negli ultimi anni manifestano una loro contraddittorietà con un’impostazione egualitaria dell’offerta di insegnamento. Per fare l'esempio più semplice, solo gli studenti che sanno un poco di latino possono mettersi rapidamente in grado di seguire una didattica effettivamente seminariale e non scissa dalla ricerca, in ambito medievistico. L’esaltazione retorica del latino

che fu tanto a lungo presente nell’università e nella scuola, il rifiuto a considerarlo per quello che era — cioè una lingua tra le altre e uno strumento di studio tra gli altri, inutile dunque per tanti campi di studio ma per altri indispensabile — condusse per contraccolpo a una disalfabetizzazione che è oggi abbastanza estesa da porre in difficoltà il docente universitario che imposti in termini di inscindibilità tra ricerca e didattica il suo lavoro. Quello del latino è il più palese e immediato, non il più grosso dei problemi. Conoscenze di base altrettanto essenziali ma di più complesso apprendimento (un minimo di economia, un minimo di diritto, un approccio non manualistico alle scienze sociali) erano e restano ai margini della formazione con cui la scuola consegna all’università gli studenti, ed erano e restano ai margini di gran parte dei curricula universitari di storia. In un contesto del genere, guarderemo con sospetto — nel proliferare degli interessi medievistici dentro e fuori l’università — a una certa progressione di tematiche di democratica apparenza (la vita quotidiana, la cultura materiale), che sono in sé di

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a svalutazioni della «cu | grande rilievo ma che. se o, scritta» e delle culture letterarie e giuridiche sono suscettibili—al dilà di ogni migliore intenzione— di inclinare ancora un poco il piano verso : una cultura scolastica fatta di evasione e mistificazione.

Note l Eviterò quie altrove l’attribuzione individuale di tutto ciò che non sia opera a stampa. Dietro le frasi, come dietro i ciclostilati che citerò in qualche punto (formalmente prodotto collettivo, in realtà elaborati di norma da questo o quel militante), sono in genere persone a me molto care che per ovvia discrezione non coinvolgerò in questo modesto contributo. 2 «Certuni — ritenendo che i fatti più vicini a noi siano ribelli, per la loro stessa prossimità, a ogni studio veramente sereno — vorrebbero evitare alla casta Clio contatti troppo appassionati... In verità, colui che, al tavolo di lavoro, non ha la forza di sottrarre il proprio cervello ai virus del momento, sarà capacissimo di lasciarne filtrare le tossine persino in un commento dell’//liade o del Ramayana» (M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1950, p. 47). 3 La facoltà di Lettere e Filosofia, ciclostilato, Torino, 17 mar. 1969, p. 8. Cito questo e altri documenti dall’esemplare nel piccolo archivio che mia moglie Simonetta Ortaggi ed io conserviamo di testi e giornali di quegli anni. Non ho fatto una ricerca su eventuali riprese a stampa nella congerie di libri e opuscoli sul movimento studentesco e sul ’68.

4 Jbid., p. 3. 5 Schema di discussione sul significato politico dell’attuale tipo di intervento nella Facoltà di Lettere da parte del movimento studentesco, ciclostilato, (Pisa), s.d., ultima pagina. 6 R. Rossanda, L'anno degli studenti, De Donato, Bari, 1968, p. 73.

7 Progetto di tesi del sindacato studentesco elaborate collettivamente dagli occupanti la Sapienza di Pisa, ciclostilato, Pisa, 7-11 feb. 1967, sez. «Il dipartimento», p. 2. Sulle

varie redazioni riprodotte a stampa delle Tesi pisane, v. R. Rossanda, L’anno, cit., p. 67, nota 15. 8 D. Cantimori, C. onferenza celebrativa per la classe di Lettere e Filosofia, in Scuola Normale Superiore di Pisa, Celebrazione del 150° anniversario di fondazione. 1813-1963, 28 set. 1963, pp. 28-29. 9 Bozza di schema sul ruolo degli studi umanistici, ciclostilato.

10 c. Leonardi, «La latinità medievale: strumenti di lavoro e condizioni storiografiche», in Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea dal secolo VI al

XIII, I (1980), pp. XI-XII.

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. DIDATTICA E RICERCA NELL’UNIVERSITÀ: L’ESEMPIO DELLA STORIA MODERNA di Mario Rosa

Per una puntualizzazione sommaria di quel che il ’68 ha significato, in riferimento alla ricerca e alla didattica universitaria, nel settore della storia moderna, converrà partire come termine a quo da quel bilancio ventennale di lavoro che, presentato dalla Società degli storici italiani nel I Congresso della Società stessa tenutosi a Perugia nel 1967, è raccolto nei due volumi di Vent'anni di storiografia italiana (1970). E, come termine ad quem, percorrendo l’arco di un intero decennio, con-

verrà giungere al 1976-77, che sembra disegnare un altro discrimine, se non a caso, proprio nel 1977, Arnaldo Momigliano pubblicava sulla Rivista storica italiana le sue «Linee per una valutazione della storiografia italiana del quindicennio 1961-1976». A sostegno di quanto si dirà si è largamente utilizzata la Bibliografia storica nazionale; e ciò non al fine di riproporre, in questa sede, secondo i canoni accademici di una pretesa completezza, un ennesimo bilancio storiografico, per un decennio che è stato fondamentale nella vita non soltanto culturale del nostro paese, ma nell’intento di rendere meno superficiale e impressionistica, per quanto è possibile, l’individuazione degli orientamenti e delle scelte che in quel decennio furono operate. Ad una lettura con gli occhi di allora e ad una rilettura con quelli di oggi, il bilancio storiografico del 1967, nella constatazione di un indubbio sviluppo e di un altrettanto indubbio arricchimento della storiografia italiana intorno ad alcuni nodi fondamentali comuni alla storiografia europea ed extraeuropea, appare improntato da una forte carica di positività e di ottimismo. Eppure qua e là, negli stessi settori accademici della ricerca storica che il bilancio rispecchiava, si avvertiva come in sostanza si fosse giunti a un punto di arrivo e come in pari tempo ci si trovasse problematicamente di fronte ad altri approdi e proposte ed elementi nuovi di richiamo e di discussione.

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Mario Rosa

questi stessi anni, la nascita di nuove riviste (ad esempio, la Rivista di

storia e letteratura religiosa nel 1965 o i Quaderni storici delle Marche nel 1966, divenuti nel 1971 Quaderni storici) e taluni interventi che di là dall’occasione danno la misura delle diverse inquietudini intellettuali e culturali che andavano intanto ridefinendosi, come, sempre ad esempio, la presa di posizione di Alberto Caracciolo sull’acculturazione e alcuni nuovi indirizzi di ricerca, a proposito dell’opera di Dupront, e quella di Sabino Cassese sulla storiografia giuridica, entrambe apparse su Quaderni storici delle Marche del 1966, mentre in altro settore storiografico contermine Ovidio Capitani si poneva la domanda più generale «Dove va la storiografia medievistica italiana?» in un lungo saggio pubblicato in Studi medievali del 1967. Era evidente in quel momento, e doveva rivelarsi sempre più evidente in prosieguo di tempo, la forte tensione per un allargamento del campo dell’indagine storica allora prevalente (politica e politico-sociale), in nome del comparativismo e dell’interdisciplinarietà. E ora che prendono a discutersi in generale i rapporti tra la storia e la sociologia, in specie quelli con la sociologia religiosa, in riferimento all’insegnamento di Gabriel Le Bras, soprattutto ad opera di studiosi cattolici come Gabriele De Rosa; ed è ora che si precisano i rapporti tra l’indagine storica e la ricerca antropologica soprattutto in riferimento all’opera di Lévi-Strauss. Punto di riferimento cardine appare però adesso comunque la storiografia francese delle Annales, da Bloch a Febvre, i cui Studi su Riforma e Rinascimento vengono tradotti e pubblicati non a caso nel 1966, a Braudel, agli orientamenti più recenti che Carmelo Trasselli proporrà nel suo articolo «Studi sul clima e storia economica», in Economia e Storia del 1967, mentre Les paysans de Languedoc di Le Roy Ladurie (tradotti nel 1966), una delle grandi monografie «provinciali» francesi, insieme alle analoghe ricerche di Goubert, di Vilar e di altri, sono destinati a fornire un modello e un insieme largo di proposte interpretative per il non facile avvio, in Italia, di indagini di storia regionale. E sintomatico che le nuove suggestioni siano avvertibili ora non soltanto nel primo cospicuo lavoro di un giovane storico, Carlo Ginzburg, I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinque e Seicento (1966), dove è assai sollecitante l’intreccio tra storia e antro-

pologia, ma nella ricerca di uno studioso già noto quale Rosario Villari, la cui Rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647) del 1967 mostra visibilmente, entro l'impianto marxista, tanto l’influenza delle Annales (dalle pagine sui rituali collettivi agli spunti di storia della mentalità) quanto (nelle pagine sul mob urbano e sul banditismo) la presenza di quel particolare marxismo inglese di cui E. Hobsbawm si

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L’esempio della storia moderna

era fatto interprete negli anni sessanta con le sue analisi sulle forme primitive di rivolta sociale. Il richiamo al nome di Hobsbawm come a quelli di altri storici inglesi (Hill, Stone, e su altro piano poi Elliot e Trevor-Roper) non deve farci dimenticare come, accanto al modello imponente della storiografia francese delle Annales, l’attenzione della cultura storica italiana si rivolga anche, con notevole ricettività, verso la

storiografia inglese non solo attraverso le opere di singoli storici, ma attraverso un significativo lavoro di traduzione di opere generali, come — per la storia moderna i volumi I e II (dedicati al Rinascimento e alla Riforma) della New Cambridge Modern History, apparsi nella Storia del mondo moderno dell’editore Garzanti nel 1967, quasi parallelamente ai volumi I e VI della New Cambridge Economic History of Europe sulla vita agraria nel medioevo e sulla rivoluzione industriale pubblicati nel 1965 e 1966. Quale sia stato il peso di tali e di altre simili iniziative (come la traduzione della Fischer-Weltgeschichte presso Feltrinelli o della Propylien-Weltgeschichte presso Mondadori), è fuor di dubbio che esse concorrevano a slargare il quadro storico tradizionale e a porsi in qualche modo nel vivo di quei dibattiti ben più articolati che, alle soglie del ’68, scaturiscono intorno alla traduzione delle opere di Alexander Gerschenkron,

// problema

storico dell’arretratezza

economica,

e di

Paul Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, entrambe presentate con prefazione di Ruggiero Romano rispettivamente nel 1965 e nel

1967,

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alle ricerche

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l’agricoltura in Europa nell’età preindustriale, un intervento del quale appare su Quaderni storici delle Marche nel 1966, aprendo quel filone di interesse che si esprimerà conseguentemente nella traduzione italiana della sua opera nel 1972. Temi, tutti questi, ripresi nell’ambito del dibattito sul marxismo, intensificatosi dagli inizi degli anni sessanta e sintetizzato, sotto questo profilo, nell’importante numero speciale di Studi storici del 1968 dedicato ad «Agricoltura e sviluppo del capitalismo», che vede un ampio ventaglio di posizioni a confronto, tra le altre di Sereni, Zangheri, Ventura, Giorgetti, Romano,

Jones, Kula, Gere-

mek, portavoce, questi due ultimi, di un peculiare «revisionismo» marxista polacco. E non è un caso che nello stesso 1968, grazie alla traduzione di Crisi in Europa 1560-1660. Saggi da Past and Present, l’attenzione si appunti sul nodo della «crisi generale del Seicento», nell’ambito del dibattito più generale sulle fasi di sviluppo contrastato nell’età moderna. Come non è un caso, per quanto attiene all’organizzazione concreta della ricerca, che vada contemporaneamente maturando un’esigenza più comprensiva di raffronti e di intrecci, di cui è

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Mario Rosa

espressione sintomatica il progetto di un Atlante storico italiano — sotto il patrocinio della Società degli storici italiani e con il finanziamento del Cnr, collaudato in un convegno tenutosi a Gargnano nel 1968 — realizzato solo in parte attraverso una serie di Quaderni, che avrebbe dovuto accogliere carte generali politico-amministrative, ecclesiastiche, economiche ecc., oltre che carte campione di fenomeni storici più specifici, dall’età antica all’età contemporanea. La novità degli anni che seguono immediatamente il ’68, con i difficili problemi che esso aprì ad ogni livello nella società italiana, consiste soprattutto non tanto nell’ampiezza e articolazione del dibattito generale, che prosegue con particolare, se non con maggiore intensità, quanto nel fatto che, come avvertirà Arnaldo Momigliano nella citata rassegna, lo scarto tra teoria e pratica storiografica assume aspetti nuovi, il più cospicuo dei quali sembrava essere «la sproporzione fra la discussione teorica sul marxismo e le sue conseguenze nella ricerca storiografica». Nel movimento in atto nella società italiana, e non soltanto nelle sue componenti politico-culturali, nelle sue strutture di ricerca 0 nelle istituzioni universitarie, il punto di riferimento maggiore sembra essere in questo momento il Kula del Sottosviluppo economico in una prospettiva storica (1969), della Teoria economica del sistema feudale. Proposta di un modello (1970) e dei Problemi e metodi di storia economica (1972), largamente discussi su Quaderni storici, e più in particolare su Studi storici e su Critica marxista, in quel clima di «crisi» del marxismo fortemente caratteristico nel crinale degli anni sessanta-settanta. Ma, se R. Sylla e G. Toniolo sui Quaderni storici delle Marche del 1969 si interrogavano sui metodi, gli obiettivi e i limiti della new economic history in riferimento alla «cliometria» d’oltreoceano, nello

stesso anno con prefazione di Zangheri veniva riproposta la lettura classica del Dobb dei Problemi di storia del capitalismo. Nel contesto di queste connotazioni dalla marcata concorrenza ideologica, proiettate sulle grandi fasi dello sviluppo e del sottosviluppo economico, non di rado tradotte con valenza immediatamente politica piuttosto che mediatamente storica in riferimento a tematiche terzomondiste, incomincia ad acquistare tono diverso, nel passaggio tra gli anni sessanta e gli anni settanta, la storia politica o, per essere più precisi, la storia politico-amministrativa degli antichi Stati italiani o dell’Italia preunitaria, sollecitata da una nuova attenzione ai nodi politici e alla dinamica concreta della gestione del potere, che prende a differenziarla abbastanza rapidamente dalle ricerche sino ad allora condotte nel quadro della Fisa (Fondazione italiana per la storia amministrativa). Va comunque precisato che, se già un interesse in questa dire-

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zione si era manifestato intorno alle ricerche per le carte politico-amministrative dell’ Atlante storico italiano — e per tutte si ricordano quelle di Elena Fasano Guarini per la Toscana medicea —, e se un gruppo di giovani studiosi (G. Chittolini, C. Capra, G. Politi, per non citare altri) avviano ora, per impulso di Marino Berengo, le loro ricerche in area

lombarda dalla prima età moderna all’età spagnola alle riforme teresiano-giuseppine, destinate a svilupparsi sino ad anni a noi più vicini, inizialmente lo scavo della storia politico-amministrativa sembra esser affidato non già agli storici «politici» quanto agli storici del diritto e delle istituzioni o a quelli dell'economia. È U. Petronio a studiare // Senato di Milano (1969) rivolto soprattutto, come suona il sottotitolo, alle Istituzioni giuridiche ed esercizio del potere nel ducato di Milano

da Carlo V a Giuseppe II; è G. Costamagna a dedicarsi ai Notai a Genova tra prestigio e potere (1970), è Pierangelo Schiera a proporre la lettura di Otto Brunner, Per una nuova storia costituzionale e socia-

le (1970), mentre da parte sua Giorgio Borelli affronterà in generale «Il problema della nobiltà» in un saggio su Economia e Storia del 1970 e più analiticamente il problema dei patriziati cittadini italiani con le ricerche su quello veronese in un volume del 1974. Sintomo di questo stato di cose, cioè che lo studio degli antichi Stati italiani sia ancora legato ad una prevalente preoccupazione istituzionale-giuridica, è che, a livello di corsi universitari, sia attivo a Torino nel 1970 — ma non è

l’unico caso — un insegnamento di «Ordinamenti degli antichi Stati italiani», più tardi affiancato e/o sostituito da insegnamenti di «Storia de-

gli antichi Stati italiani», una volta che fu reso operante nel corso degli anni settanta, in varie università italiane, il corso di laurea in storia.

Parallelamente, nel crinale tra gli anni sessanta-settanta, per quanto attiene alla storia religiosa dell’età moderna, un mutamento di quadro dal percorso forse più frastagliato e difficile è dato d’incontrare negli studi sulla riforma cattolica e la Controriforma. Lo sviluppo delle analisi strutturali socio-economiche, l’attenzione rivolta alle istituzioni politico-amministrative e un ripensamento complessivo dei modelli interpretativi legati a una valutazione puramente «interna» della storia della Chiesa, suggerirono in questi anni a chi scrive — sia consentito qui un richiamo personale — di ridiscutere la lezione di Jedin in riferimento alla centralità del Concilio tridentino e delle sue conseguenze a livello locale. Verrà formulato un progetto che, proposto inizialmente per l’Atlante storico italiano riguardo alla realtà ecclesiastica e religiosa del Mezzogiorno moderno, assunse presto una configurazione più generale, esterna all’interna realtà italiana (v. M. Rosa, «Geografia e storia religiosa per l'Atlante storico italiano», Nuova rivista storica, 1969, e «Per la

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storia della vita religiosa e della Chiesa in Italia tra il Cinquecento e il Seicento. Studi recenti e questioni di metodo», Quaderni storici, 1970).

Con esso si intese passare dalle indagini sulle applicazioni del Tridentino in questa o quella diocesi italiana a un’analisi più comprensiva del rapporto tra le istituzioni ecclesiastiche nel loro complesso (secolari e regolari), e quelle ad esse legate (confraternite, enti assistenziali), e la

storia non solo religiosa, ma politica ed economico-sociale, riarticolando la tradizionale «separatezza» della storia della Chiesa, spesso sostenuta nella cultura cattolica da premesse teologiche e apologetiche, nel quadro di processi storici complessivi. Pressoché nello stesso arco di tempo, uno studioso cattolico già ricordato, Gabriele De Rosa, pur tenendo ferme la centralità dell’azione vescovile nel quadro delle diverse realtà diocesane, e quindi la categoria della pastoralità, mirò anch’egli a slargare il discorso interpretativo in riferimento soprattutto all’area veneta e a quella del Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento — con ricerche personali e di gruppo spesso pubblicate poi in Ricerche di storia sociale e religiosa a partire dal 1972 — coniugando alle sollecitazioni di sociologia religiosa derivate da Le Bras e da altri studiosi francesi di storia socio-religiosa (Poulat, Julia, ecc.) la lezione delle Annales sui te-

mi del territorio, della demografia e del quotidiano religioso vissuto. In questa diversa scansione degli studi una voce sua propria mantiene, anzi sviluppa, la storia propriamente politica e della cultura e della circolazione delle idee politiche, connessa soprattutto al contesto delle riforme settecentesche, dal volume di Furio Diaz su Francesco Maria Gianni (1966) al primo fondamentale volume del Settecento riformatore (1969) di Franco Venturi, non senza qualche decisa reazione — da

parte di Diaz ad esempio — nei confronti degli eccessi di certa storiografia quantitativa delle Annales, come appare dal saggio «Le stanchezze di Clio», apparso sulla Rivista storica italiana del 1972. Ma in un clima politico fortemente reattivo, all’indomani della rottura operata dal ’68, non è tanto la storiografia «politica» o la concreta ricerca storica del «politico» a prevalere, quanto la riflessione teorica sul «politico» attraverso una lettura o una rilettura della tradizione rivoluzionaria,

radicale, anarchica, libertaria, marxista, utopista. E sarebbe qui troppo lungo elencare — ma è opportuno qui quanto meno richiamare — le traduzioni e le scelte antologiche e documentarie, arricchite di prefazioni e di commenti, dei testi di Babeuf e di Rousseau, di Pisacane e di Bakunin, di Marx, di Engels e della Luxemburg, di Fourier e di Owen, di Miintzer, che appaiono in questo breve giro di anni. In realtà, all'indomani del ’68 e nei primissimi anni settanta, nonostante lo scarto tra dibattito teorico e pratica storiografica, segnalato da

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L’esempio della storia moderna

Momigliano — che sembra riferirsi specificamente al marxismo —, l’attenzione maggiore continua ad essere rivolta, sul piano concreto della ricerca, alle tendenze di lungo periodo dell’economia agraria (è questo il periodo d’oro, per così dire, degli studi sulle aziende agrarie, come può agevolmente desumersi solo sfogliando la Bibliografia storica nazionale), alla storia del commercio, grazie agli studi di Aymard, Trasselli,.Cancila per la Sicilia, di Grohmann e di Macry per il Mezzogiorno continentale, all'andamento demografico con le ricerche di Villani, Livi Bacci, Levi, Bellettini, Delille, e il lavoro di promozione

del Comitato italiano per le fonti di demografia storica; linee di indagine queste, soprattutto nel settore della demografia storica, che assumono in questi anni, con maggiore o minore determinazione, una vera e propria funzione di rottura nei confronti del quadro storiografico tradizionale. Entro il nuovo contesto in cui si muovono le ricerche, più nettamente sembrano configurarsi ora due filoni d’indagine, l’uno specificamente rivolto alla rivoluzione industriale e alla classe operaia in Inghilterra (Ambrosoli, Grendi), l’altro ai gruppi oppressi e/o minoritari all’interno delle civiltà più avanzate:

donne, bambini, eretici, contadini, cui

Momigliano aggiunge, tenendo presenti i temi che andava allora acquisendo la storiografia internazionale nel suo insieme, anche gli schiavi e gli uomini di colore. Soprattutto però in riferimento al secondo filone occorre fare qualche rapida precisazione, per misurare gli elementi di continuità da un lato, e di novità e di rottura dall’altro, che vengono accelerati dallo strappo operato dal ’68 e dalla prepotente riscoperta di un «sociale sommerso», con la conseguente modifica di alcuni precedenti statuti della ricerca. Nel difficile contesto italiano degli anni settanta,

parallelamente alle battaglie politiche e sociali sul divorzio e sull’aborto, è tutt'altro che folgorante l’avvio delle ricerche sulla donna, inizial-

mente legate alla storia della questione femminile tra Otto e Novecento con le indagini di Silvia Franchini (in Movimento operaio e socialista,

1971-72) e con quelle di Franca Pieroni Bertolotti, se solo a partire dal 1973-74, con la maturazione di una svolta i cui segnali sono le traduzioni della Storia della donna di Maurice Bardèche (Mursia) e de L’emancipazione della donna di Mechthild Merfeld (Feltrinelli), si configura una linea di dibattiti e di ricerche che porterà — ma addirittura nel 1981 — alla pubblicazione della rivista Memoria. È significativo d’altro canto che le ricerche sull’infanzia non nascano da un contesto peculiare, che pure poteva avere un modello nell’opera di Philippe Ariès (Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, 1968), ma si sviluppino dalle indagini più generali di demografia storica o di storia

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La

sociale dell’assistenza, in collegamento con la storia della famiglia e dell’assistenza agli esposti, come traspare con chiarezza da una parte dalle ricerche di Corsini per la Toscana («Materiali per lo studio della famiglia in Toscana nei secoli XVII-XIX: gli esposti», Quaderni storici, 1976) e dall’altra da quelle organizzate da Franco Della Peruta per l’area lombarda, pubblicate tra l’altro su Società e Storia a partire dal 1978. Più lungo discorso meriterebbe la riscoperta della marginalità e della devianza nelle sue varie forme ed espressioni (vagabondi, criminali, folli, ecc.). Qui basterà sottolineare che, se inizialmente es-

se si muovono nel quadro tradizionale della storia delle strutture assistenziali, caritative e ospedaliere, presto prendono a riferirsi agli studi di Geremek sulla popolazione marginale nell’età moderna (1968 e 1970) e al contributo dello stesso Geremek sul pauperismo nell’età preindustriale apparso (1973) nella Storia d’Italia (Einaudi), mentre nello specifico settore delle indagini sulla follia solo nel corso degli anni settanta, come conseguenza degli spazi aperti dalle nuove proposte legislative e dalla riforma delle istituzioni manicomiali, acquista peso e interesse, e diviene punto essenziale di riferimento, l’opera di Foucault, che pure era stata tradotta, ma senza suscitare consistenti ri-

percussioni, nel lontano 1961. L'attenzione alla marginalità acquista però, in questi anni, soprattutto in alcuni studiosi una connotazione sua particolare, come ad esempio in P. Camporesi (da // libro dei vagabondi ad altri lavori successivi), nel quale può cogliersi persino la tensione verso una società alternativa, anche se in generale (ad esempio in Grendi e Scarabello) è più visibile l'accento posto, attraverso lo studio delle linee normative e repressive della legislazione di alcuni Stati italiani di antico regime (Genova, Venezia), sul forte controllo

sociale espresso dalle istituzioni politiche riguardo ad ogni forma di marginalità e di devianza. Aspetti, questi, che ritroviamo in vario modo a fondamento anche degli studi sulla stregoneria, che si rinnovano grazie alle ricerche di Carlo Ginzburg basate su una più penetrante analisi storico-antropologica delle fonti processuali, e degli studi sulle tendenze eterodosse, i cui nuclei tematici, se si aprono da un lato sulla linea dell’ultimo Cantimori delle Nuove prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento all’indagine delle correnti più sfumate del Cinquecento religioso italiano (evangelismo, valdesianesimo, ecc.), mostrano dall’altro una sempre più spiccata preferenza (Rotondò, Ginzburg, Firpo, Prosperi, ecc.) verso i meccanismi censori e inquisitoriali e il loro funzionamento, rientrando nell’ambito più vasto dell’interesse intanto maturato verso le diverse forme di controllo e di disciplinamento sociale messe in opera tanto dalla Chiesa della Con-

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L’esempio della storia moderna

troriforma (censura, catechismi, missioni, condanne) quanto dallo Sta-

to assoluto o «moderno». Sull'onda di tensioni politiche e culturali, ora che, tra il 70 e il ’73,

il panorama

storiografico degli anni sessanta

appare non

di rado

profondamente mutato, è ancora il modello della storiografia francese

ad essere padrone del campo; e si prende a parlare-ora, non senza qualche enfasi, di «frontiere dello storico» (Le Roy Ladurie) e di «nuova storia» (Le Goff), di cui pure si segnalano gli ascendenti lontani più illustri, mentre una rivista come Quaderni storici, probabilmente la più sensibile e attenta tra le riviste storiche italiane di questi anni, promuo-

ve una serie di numeri monografici sul dibattito interdisciplinare in atto, e persino la più accademica Società degli storici italiani si rende partecipe di questo clima dedicando il II Congresso (Salerno, 1972) significativamente ai «Nuovi metodi della ricerca storica». Quel che però è più rilevante, non già sotto il profilo della ricerca, ma sotto quello didattico, è l’apparizione e il proliferare rapidissimo di molteplici collane di «Letture storiche» presso un gran numero di editori (Zanichelli, Sansoni, Loescher, Mursia, ecc., che raccolgono in antologie più

o meno articolate e relativamente agili i risultati più recenti della ricerca storica, accentuando peraltro un già evidente processo di specializzazione e settorializzazione delle ricerche, per venire incontro a una scuola secondaria e a un’università divenute ormai, con le pur parziali modifiche

intervenute

negli ordinamenti

dei nostri studi, di massa.

Strumenti «alternativi», come si diceva allora, nei confronti dei vecchi manuali istituzionali di storia, la cui incidenza sul piano didattico è an-

cora tutta da definire, ma ai quali si affiancheranno presto nuovi manuali, a partire da quello di R. Villari (1971), in un insieme di spinte e controspinte che solleciteranno non a caso un intervento di Giuseppe Ricuperati, «Tra didattica e politica: appunti sull’insegnamento della storia», sulla Rivista di storia contemporanea del 1972.

Singolare è che nello stesso anno appaia il primo volume della einaudiana Storia d'Italia, quel peculiare prodotto storiografico della prima metà degli anni settanta, tra Marx (e Gramsci) e le Annales, come

venne definita nel corso degli innumerevoli dibattiti suscitati dalla sua apparizione, «chiaro, ma non del tutto coerente esempio di collaborazione italo-francese», per usare le parole di Momigliano: una proposta di sintesi sui generis, controcorrente, in anni in cui semmai sempre più accentuato, nonostante tutto, nel bene e nel male, era il fenomeno di specializzazione, se non di frantumazione della ricerca, particolarmente

avvertibile nel settore della storia contemporanea, soprattutto dopo che, nel corso degli anni settanta venne varato, in varie università, il corso

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di laurea in storia. Un fenomeno, questo, cui ha dedicato un’attenta analisi M. Scardozzi, («Gli insegnamenti di storia nell’ Università ita-

liana (1951-1983): tra immobilismo e frammentazione», Quaderni storici, 1983). Il fenomeno più rilevante tuttavia è che, per quanto stimolata all’interno dell’università dai finanziamenti del Cnr o da quelli del ministero

della Pubblica Istruzione, dai primi anni settanta la ricerca storica ten-

de sempre più ad uscire dalla sede ad essa tradizionalmente deputata, cioè dalla stessa università. Quale sia stato il momento particolare attraversato dalle istituzioni universitarie, tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta, nel loro incontro-scontro con la società nel suo complesso; quale sia stata poi la mancata riforma delle strutture e degli insegnamenti, di là da un aumento quantitativo, non v’è dubbio che sollecitazioni più continue e prospettive progettuali più coinvolgenti derivino alla ricerca storica in generale (non soltanto nel settore della storia moderna) di fatto da strutture extrauniversitarie, che quantunque gestite e alimentate spesso da docenti e ricercatori universitari presentano fisionomia, statuti e intenti loro propri: si tratti dell’Istituto italo-germanico di Trento, del Centro per l'Europa delle corti di Ferrara o di molti altri centri e istituti di ricerca. La stessa industria editoriale, da parte sua, con le sue proposte e iniziative di collane e di traduzioni, o con la pubblicazione di volumi programmati in collaborazione fra più autori, è forte elemento catalizzatore di una trasformazione assai evidente all’indomani del °68, ma i cui prodromi furono avvertiti con acutezza da Cantimori sin dall’inizio degli anni sessanta. Infine — ma più rilevanti delle precedenti — sollecitazioni esterne all’università, occasionali con l’inizio degli anni settanta ma via via destinate a configurarsi come un fenomeno che ha assunto forme macroscopiche e quasi ossessive in questi ultimi anni, derivano da convegni e da congressi patrocinati da istituzioni pubbliche o private, da enti locali, provinciali, nazionali e via dicendo. Un fenomeno, questo, che va considerato non solo sotto il profilo della quantità, ma come elemento di modificazione della qualità stessa delle ricerche, che spesso non nascono da uno sviluppo coerente delle indagini, ma obbediscono a contingenze particolari più o meno degne (centenari, bicentenari ecc.), se non a mode ben

più effimere e discutibili. E basterà osservare, a conferma del salto avvenuto in questa direzione, come una voce specifica e autonoma riferentesi a convegni e congressi (dapprima menzionati nelle singole sezioni cronologiche riguardanti la storia antica, medievale, ecc.) figuri nella Bibliografia storica nazionale proprio a partire dal 1971-72, e come essa si allarghi rapidamente dalle 110 segnalazioni di quell’anno al-

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L’esempio della storia moderna le 176 del 1973-74 alle 219 del 1975-76. Sembra cioè che nel graduale attenuarsi di una sua condensazione interna la ricerca storica avesse incominciato ad avvertire da allora ed abbia sempre più bisogno oggi di sostegni e occasioni esterne, di essere cioè eterodiretta, mentre gli addetti ai lavori in un crescente clima di incertezza e di disorientamento,

nonostante il loro numero, vogliano sempre più incontrarsi e contarsi. Con la metà degli anni settanta, accanto ai più significativi mutamenti «esterni», per così dire, che si sono segnalati, si va in effetti deli- |

neando nettamente la caduta delle tensioni nate dal ’68, col passaggio dal «politico» al «privato», in un generale clima di riflusso, come è stato definito, che non ha mancato di avere significative ripercussioni sul piano della ricerca: per la sua insistenza sui temi della famiglia, del corpo, della donna, e per le sue analisi su aspetti particolari di ripiegamento individuale, se, per fare un solo esempio in riferimento alla storia religiosa del Cinquecento, l’interesse per il «nicodemismo» nella riflessione storica di studiosi quali Ginzburg, Albano Biondi e Alessandro Pastore, pressoché nello stesso torno di tempo, deve considerarsi come Qualcosa di più di un’attenzione casuale verso un tema ad essi derivato dalla comune ascendenza cantimoriana. Più in generale, come

motivo di fondo ispiratore di taluni settori della ricerca, prende ora a teorizzarsi l’impossibilità di attingere il processo storico nel suo complesso, cioè una «ragione generale» del divenire storico. Dire quel che resta dell’eredità del ‘68 oggi, alla conclusione degli anni ottanta, nel settore della storia moderna, ci porterebbe troppo lontano. In una fase di ricomposizione della ricerca, ma anche di scomparsa di talune linee di indagini un tempo assai vivaci (come ad esempio

quelle riguardanti le aziende agrarie), di disgregazione delle prospettive più organiche e coese degli anni sessanta-settanta, in un momento di esaurimento della fase apertasi ora è un ventennio, quel che si è guadagnato in ampliamento di orizzonte, in perizia tecnica, in qualità di specializzazione si è perduto, mi sembra, come capacità di dibattito, come slancio problematico e come tendenza alla riflessione generale. O1tretutto, in un clima comune di lungo assestamento, il settore della sto-

ria moderna più di altri sembra essersi attestato su una tranquilla routine, sviluppando percorsi già noti (istituzioni politico-amministrative ed ecclesiastiche, famiglia, fenomeni di marginalità e criminalità, ecc.). Semmai in esso andrebbe segnalata una novità per così dire negativa, nel senso che, come conseguenza diretta o indiretta del travaglio culturale del ’68, la storia moderna, simile alla Polonia settecentesca dopo la sua prima spartizione, appare decurtata di qualche suo antico territorio. Da un lato la prima età moderna sembra essere sempre di più ap-

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pannaggio ora della sua più potente vicina, la storia medievale, e di un insegnamento specialistico come la storia del Rinascimento; dall’altro, caduta definitivamente la vecchia linea interpretativa delle «origini» settecentesche del Risorgimento, e riassorbito in gran parte sul piano accademico l’insegnamento specifico di storia del Risorgimento nel contesto degli insegnamenti contemporaneistici, l’Ottocento appare quale larga fascia «smilitarizzata» dagli incerti confini tra il settore di storia moderna e quello di storia contemporanea. Se ci limitiamo qui a queste brevi considerazioni sulle attuali condizioni del settore modernistico, augurandoci che una svolta nei nostri studi smentisca un giudizio che altri potranno giudicare forse non im| prontato da ottimismo, quel che invece qui va fatto — anche se purtroppo il discorso per ragioni soggettive e obiettive di informazione non potrà essere che molto ridotto — è almeno il tentativo di individuare in che modo il livello delle ricerche e il loro mutamento quantitativo e qualitativo si siano collegati al piano della didattica universitaria. Va subito detto che non molto si è riflettuto — per quanto so — sulla didattica all’interno dell’università, a parte il dibattito promosso da Quaderni storici (n. 41, 1979 ss.), dopo un intervento di Grendi, mentre, dopo un

lungo silenzio, è solo del novembre ’88 un convegno su «Didattica e ricerca» nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università «La Sapienza» di Roma, di cui speriamo di conoscere presto i risultati. In genere, non ci si può sottrarre all’impressione di un progressivo impoverimento di proposte e di situazioni, laddove per quanto attiene specificamente al settore di storia moderna occorre distinguere due piani di analisi, l’uno formale, l’altro contenutistico. Nel piano formale non è dato riscontrare elementi di originalità, in quanto le innovazioni introdotte nella didattica dietro richiesta e pressione degli studenti (seminari autogestiti, ricerche di gruppo, spesso accompagnate da tesine scritte, ecc.) si riscontrano in tutti i settori dell’insegnamento umanisti-

co. Peraltro, alcune esperienze di incontro tra realtà universitaria e realtà del territorio (le 150 ore) non hanno lasciato risultati durevoli.

Più estesamente va notato che dal punto di vista delle tecniche didattiche l’università, a differenza di altri ordini di scuole come la media dell’obbligo (in minor misura le medie superiori), è rimasta sostanzialmente refrattaria ad ogni rinnovamento sia a livello particolare (ad esempio al ricorso agli audiovisivi, ecc.) sia a livello più complessivo per quanto riguarda l’organizzazione dei corsi di laurea, salvo la cosiddetta «liberalizzazione» dei piani di studio o una maggiore articolazione nelle scelte da parte degli studenti. Ma questo è un discorso che ci porterebbe ad affrontare quello della mancata riforma dell’università

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nel suo insieme. Sul piano dei contenuti, non v’è dubbio che il settore della storia moderna sia stato investito da una forte domanda di rinnovamento da parte degli studenti, un rinnovamento che desse risposta alla nuova richiesta di orientamento e di informazione sulla storia contemporanea, provocata dall’impegno politico più avvertito negli anni intorno e immediatamente dopo il ’68. Nel quadro delle trasformazioni più rilevanti, è particolarmente significativo che il rapporto tra la storia moderna e la storia contemporanea, per il moltiplicarsi degli insegnamenti in questo secondo settore (triplicati su scala nazionale nel decennio 1961-71, stando alla ricordata ricerca della Scardozzi), si sia nettamente capovolto, tenendo conto delle materie affini, negli ultimi

vent’anni a favore della storia contemporanea. Ma, anche sul piano didattico e dell’interesse che le discipline storiche, e segnatamente la storia moderna e quella contemporanea, suscitano a livello di chi si forma all’interno dell’università, cioè degli studenti, la forte richiesta scaturita col ’68 si è praticamente esaurita intorno al 1975-77. Ne è conferma il caso della facoltà di Lettere e filosofia e di quella di Magistero della Sapienza di Roma, un caso che ovviamente non può essere generalizzato, ma che mi pare indicativo di una situazione complessiva e della parabola politico-culturale percorsa dalla fine degli anni sessanta alla metà degli anni ottanta, in un contesto che pure fu, sotto vari aspetti, uno dei punti nevralgici dell’esperienza del ’68. Stando ad una ricerca di Marina Formica, La domanda di storia all’ Università di Roma, apparsa nel primo numero (1988) di Dimensioni e problemi della ricerca storica, rivista del dipartimento di Studi storici dal medioevo all’età contemporanea della stessa Sapienza, che analizzato le tesi discusse nelle due facoltà nel decennio 1972/73-1982/83 si ricava che in questo arco di tempo decrescono le opzioni degli studenti per le discipline storiche nel loro complesso (dall’età antica all’età contemporanea), calando le tesi relative, nella facoltà di Lettere, dal 19,64% del totale delle tesi discusse nel 1972-73 al 14,73% del 1982-83

e, nella facoltà di Magistero, dal 7,49% al 3,34%. Quel che però maggiormente richiama la nostra attenzione, esaminando le nude cifre piuttosto che le percentuali, è il fatto che il calo delle tesi di storia moderna

sia progressivo e oscillante, passando dalle 47 tesi discusse nella facoltà di Lettere nel 1972-73 alle 35 del 1982-83 e dalle 10 alle 2 tesi discusse nello stesso arco di tempo nella facoltà di Magistero, mentre ben più traumatico è parallelamente il calo delle tesi di storia contemporanea. In questo secondo caso si passa di colpo dalle oltre 130 tesi discusse annualmente sino al 1976-77 nella facoltà di Lettere alle 72 del 1977-78,

per scendere con qualche increspatura alle 56 del 1982-83; parallela-

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‘ DIDATTICA E RICERCA NELL’UNIVERSITÀ: L’ESEMPIO DELLA STORIA CONTEMPORANEA di Guido Quazza

Se si allarga il discorso sui temi: la didattica nel suo rapporto con la ricerca; la verifica di questo rapporto nelle pochissime sedi universitarie (fra queste in primis Torino) nelle quali questo modulo ebbe sviluppo e successo per essere stato applicato a un’intera facoltà e, in questa, specialmente alle discipline storiche; l’attenzione specifica alle vicende scientifiche e politico-civili data dai cultori della storia contemporanea impegnati a fondo anche nell’insegnamento, e si affronta il rapporto fra società e scuola nella più vasta vicenda della Repubblica, e di conseguenza si scava di più nei nessi di interdipendenza fra didattica e ricerca, sembra opportuno, a rendere più chiari i termini dell’analisi qui condotta, fare almeno quattro premesse. La prima: la didattica non è intesa come «arte» individuale, per quanto questa resti da sempre essenziale nella realtà profonda del confronto quotidiano fra insegnante e discente. Lo sguardo è rivolto a un’accezione meno individuale, più documentabile e perciò anche più misurabile: didattica come concezione e metodologia dell’insegnamento costantemente riscontrate con l’applicazione nei contenuti, la documentabilità stabilita dentro i programmi riconosciuti da organismi universitari responsabili e accettati esplicitamente da docenti singoli o in gruppo sia nei corsi ufficiali e negli esami legali, sia negli strumenti usati per realizzarli. Non, perciò, la ricerca come storia della storiografia, ma come suggestione di problemi da questa studiati o visti come ipotesi di lavoro per affrontarli secondo un iter che ripercorra, sia pure su un altro piano, i metodi degli storici per collaudarli in discussioni preliminari e riprenderli ad esempio e stimolo dei percorsi degli studenti. Una didattica di iniziativa in continuo rinnovo che si muove partendo da una discussione di gruppo per camminare con un processo coerente verso la socializzazione tra i membri, perseguita come metodo effettivamente realizzato in contrapposto al

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metodo tradizionale della lezione ex cathedra e del seminario guidato esclusivamente dall’alto secondo compiti affidati di volta in volta per l’esecuzione al singolo senza confronto diretto e contestuale con gli altri membri. Su questa prima premessa il saggio ricostruisce i riferimenti che l’autore considera fondamentali, i soli meritevoli di citazione, escludendo storici universitari scientificamente importanti ma didatticamente tanto più indifferenti o addirittura scostanti quanto maggiore e, fino alla derisione, era da sempre negli atenei italiani il distacco fra il culto della ricerca e la pratica della didattica. E riducendo all’indispensabile il richiamo a quegli scrittori politici pur di alta qualità, massimo fra tutti Gramsci, i quali erano bensì diventati indubbiamente maestri di forte stimolo a studenti così come a larghe masse di lettori, ma restavano fuori dall’università, al meglio oggetti di studio, senza però diventare soggetti di azione nel concreto della didattica attiva. Ecco perché il nesso fra didattica e ricerca è, nelle pagine che seguono, considerato indissolubile nell’esercizio del lavoro docente nell’università (e non solo in esso) e re-

sta per tutto il saggio il solo «binario» valido a scegliere dati di informazione e a tentare giudizi di valore. Una seconda premessa è legata all’esigenza, ritenuta insopprimibile, dell’impegno pubblico dell’intellettuale e in particolare dello storico, la cui funzione, già al primo posto nel Settecento, nel Risorgimento e nei primi decenni dell’Unità, rimane, pur nella varietà e variabilità dei mutamenti nel rapporto fra società e Stato, la figura guida dell’educazione all’etica del governo e dell’autogoverno. Da queste premesse il lettore vedrà nascere anche la particolare attenzione data alla storia contemporanea, preferita alle altre storie sebbene nel campo teorico e metodologico non sia stata né sia nel corso della vita repubblicana italiana alla testa delle meditazioni e applicazioni della storiografia. Una terza premessa deve essere segnalata: la politicità assunta dal tema scuola nel quarantesimo della Costituzione ha obbligato l’autore a porre come passaggio centrale di tutto il discorso la «cesura del 68» perché evento dotato di imperiosa forza dilagante dal campo dell’università, per non dire dell’intero sistema scolastico, a quello dell’insieme della vita italiana attraverso il fitto e tormentato dibattito sul rapporto fra politica e cultura. Potentemente stimolato, già nel primo decennio dopo la Liberazione, dalla crisi di coscienza di un paese passato dal 1922 al 1945 attraverso il potere fascista, quel dibattito costringeva a darsi una nuova koiné, nello sforzo di animare il diverso assetto costituzionale e politico e, in particolare, di interrogare l’istituzione universitaria sui suoi doveri di un’autonomia etico-culturale-civile liberata dalla servitù alla politica intesa nel suo significato più basso.

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. Una quarta premessa consegue subito alla terza: l’alta cultura doveva riacquistare la sua funzione di guida nel luogo stesso del suo esercizio quotidiano. Era il porro unum necessarium per poter collegare la memoria del passato con gli imperativi d’azione nel presente. Sia come centro del contatto più diretto e attivo fra generazioni diverse, ben più stimolante a un colloquio globale nei due sensi di quanto non fossero — e siano — i mezzi di comunicazione di massa, inevitabilmente destinati a operare a senso unico dall’alto al basso, l’università è la sede primaria e fondamentale del collegamento dell’intera scuola in ogni suo ordine e grado perché terreno pressoché esclusivo sul quale si formano gli insegnanti come a loro volta formatori dei ragazzi e dei giovani d’ogni strato di età. Ecco perché chi scrive ritiene l’università il punto chiave nel quale rompere il cerchio fra società e scuola e dal quale partire per l’unico tentativo serio di avviare una «riforma». E ciò tanto più da quando, nei primi anni sessanta, ha inizio in Italia il cammino sempre più veloce verso la società «complessa» e, dentro di essa, verso un’accelerata socializzazione di massa della scuola. Sono con-

vinto — in altre parole — che sia meglio cercar di rompere il blocco fra società e Stato partendo dall’università e con essa dalla scuola anziché dall’ingovernabilità del rapporto fra quelle due realtà profondamente squilibrate.

Quindici anni di battaglie per strappare la prima cattedra di storia contemporanea

La quasi nulla presenza negli atenei di incarichi di storia contemporanea dalla seconda metà degli anni quaranta a tutti gli anni cinquanta e la loro natura «complementare», cioè non obbligatoria, era il primo e più evidente segno della diffidenza verso le operazioni trasformistiche dei docenti promotori e fruitori: un ordinario di storia moderna divenuto al Cesare Alfieri di Firenze incaricato di storia contemporanea, Carlo Morandi, era storico di prestigio per l’acume e la finezza, ma era stato fra gli ultimi a lasciare il campo fascista. Ciò non poteva non ricordare in modo troppo bruciante lo sfruttamento inferto dal potere sull’oggi nella recente dittatura, mentre convergeva col riconquistato confronto fra idee e programmi diversi a rendere solide le remore a introdurre lo studio dei fatti recenti. Ecco perché, non esistendo di fatto nella scuola secondaria, la storia contemporanea avrà la prima cattedra nell’«organico»

universitario soltanto nel 1961. L’ultima «storia», la

più vicina nell’oggetto, restava la storia del Risorgimento, cresciuta pur

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essa, in verità, per lungo tempo fuori dagli atenei, poi introdotta, ma con fatica e in posizione subordinata alla vulgata culturale del regime

durante il ventennio, non senza essere considerata dagli storici «veri» poco scientifica. Intesa come insegnamento di materie novecentesche inserite ufficialmente nei programmi, la storia contemporanea era apparsa sotto il dominio mussoliniano in forme spurie e con mentite spoglie e con altro nome: le pagine del tempo leggibili nei manuali erano diventate, fin dal «libro di Stato» imposto alle elementari, tutte laudatorie del duce fascista, considerato il termine finale, quasi il monopolizzatore dell’intera storia italiana insegnabile nelle scuole. All’università esisteva come

storia militare

e come

dottrina del fascismo, con

qualche rara variante di denominazione. Anche nel mondo ufficiale della ricerca ad alto livello, era una presenza puramente nominale. Era stato bensì creato, sotto spinta di Gioacchino Volpe, un Istituto storico per l’età moderna e contemporanea (1927), ma allora, e del re-

sto ancor oggi, esso si occupava propriamente, in tutta la sua attività, di storia moderna. Soltanto l’Ispi (Istituto di studi di politica internazionale) toccava le vicende contemporanee, ma sotto forma di dati e riflessioni sull’oggi «corrente». Quando si occupava di storia, risaliva al medioevo tardo e al Cinque-Settecento (ad esempio con la collana sulla «diplomazia gonzaghesca», sulla «diplomazia sabauda», ecc.) ed era storia, appunto, diplomatica e, nei casi migliori, di politica estera. Di fatto, ancora nei primi due-tre decenni dell’età repubblicana, nelle scuole medie e secondarie non si parlava se non, e a fatica, della prima guerra mondiale. Del resto, per parlare del duce non occorreva né venire ai tempi odierni né periodizzare: bastavano alcuni illustri storici di Roma, oppure storici della letteratura, a collocare Mussolini fra i grandi italiani a partire da Dante e con un crescendo da Alfieri in poi. Dopo la fine dei regimi nazifascisti, la vecchia prudenza, il timore e sospetto per gli eventi troppo vicini e perciò troppo coinvolgenti, lo schifo (0 nausea) per il fascismo e la ritrosia a scriverne la storia (si ricordi l’esempio crociano) si congiungeranno strettamente, e quasi sempre senza possibili o volute distinzioni nella pratica, all’abuso propagandistico, fatto dal regime, della tesi del fascismo e di Mussolini come traguardo definitivo di tutta la storia non solo italiana ma anche mondiale («Roma o Mosca», la «Roma dei Cesari» che torna nella sede della «Roma dei papi» come ultimo stadio della civiltà). Anche gli storici antifascisti, dell’antifascismo politico militante del ventennio o almeno del 1942-43 e del 1943-45, erano perplessi. Chi per

la preoccupazione di non riuscire a fare storia contemporanea sine ira ac

studio, chi per la difficoltà di documentare, chi per entrambe le ragioni.

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