La criminalità nel mondo antico
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Saggi 41

Jens-Uwe Krause

La criminalità nel mondo antico

Carocci editore

Traduzione di Lorenzo Argentieri Titolo originale: Kriminalgeschichte der Antike

©copyright 2004 Verlag C. H. Beck o HG, Miinchen r•

edizione italiana, ottobre 2006

©copyright 2006 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nell'ottobre 2006 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN

88-430-3921-0

Riproduzione vietata ai sensi di legge

(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Siamo su Internet: http://www.carocci.it

Indice

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Introduzione

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2.

Perseguimento e punizione dei crimini ad Atene La polizia nell'Atene classica 15 Iniziativa privata 16 Giurisdizione penale 18 Sanzioni penali 21



La criminalità nell'Atene classica Ingiurie e violenza verbale 25 Lesioni personali 26 Omicidi 33 Furto 34 Reati sessuali 38



Perseguimento e punizione dei crimini nell'impero romano La polizia nell'impero romano 43 Iniziativa privata 57 Giurisdizione penale 64 Sanzioni penali 69 Accordi extragiudiziali 76



La criminalità nell'impero romano Ingiurie 81 Delitti di violenza 86 Omicidio e assassinio 113 Furto 124 Bande di briganti 144 Rapimento 159 Reati sessuali 1 62 I criminali 171

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81

43

6.

Conclusione Note

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Bibliografia

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Indice delle fonti citate Indice analitico

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Introduzione

Il tema " violenza e criminalità" non è certo sconosciuto a noi moderni. I mass-media ci mettono di fronte ogni giorno ad attacchi terroristici, omicidi e stupri; i politici (non solo dei partiti di destra) usano a pro­ prio vantaggio in campagna elettorale le paure della popolazione che ne derivano, e nella Repubblica tedesca, così come in quella italiana, diver­ se elezioni sono state vinte o perse sul terreno della sicurezza interna. Quando ci chiediamo come si potrebbe tenere sotto controllo la cri­ minalità che innegabilmente cresce nella nostra società, sarebbe certa­ mente ingenuo pensare che la storia possa offrirei soluzioni valide. Ma forse non soddisferemo solo un interesse antiquario chiedendoci quali forme abbia assunto la criminalità nel passato e come alcuni stati con un apparato di polizia di fatto inesistente abbiano affrontato il problema. Non dimentichiamo che la polizia è solo una recente conquista del moderno processo di formazione statale. N egli stati senza gendarmi e polizia, regnava per forza l'anarchia e valeva il diritto del più forte ? Le pagine seguenti mostreranno che non è così: possono esistere società con una scarsa propensione alla violenza e un basso tasso di criminalità che pure non erano dotate di un grande apparato poliziesco. Se oggi noi tendiamo a chiedere più soldi e personale per la polizia a ogni crimine che faccia scalpore, bisogna ricordare che alcuni stati hanno continuato a esistere anche senza un massiccio apparato di polizia e di giustizia, e malgrado ciò non sono necessariamente sprofondati in una palude di criminalità. Proprio la società greca e quella romana sono molto illuminanti a questo proposito. Sia l'Atene classica sia l'impero romano (e forse Roma in ogni sua epoca) possono essere un esempio di società relativamente pacifiche, che avevano una netta tendenza a risolvere i conflitti non con la violenza ma con mezzi civili. Certo, Atene e Roma non erano un pa­ radiso, e la criminalità e la violenza erano fonte di preoccupazione e paura anche per gli antichi; ma un paragone con altre società preindu9

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N DO ANTICO striali mostra che sia i reati contro la persona sia quelli contro la proprie­ tà erano tenuti efficacemente sotto controllo. Erano i cittadini, le comu­ nità dei villaggi e delle città, a eseguire ciò di cui oggi incarichiamo la polizia. Mentre la storia della criminalità si è sviluppata negli anni settanta del secolo scorso fino a diventare uno degli ambiti più prolifici della sto­ ria sociale del Medioevo e dell'età moderna, lo studio della criminalità nel mondo antico è in una certa misura ancora nella fase embrionale. Certo, esiste un'ampia e inesauribile bibliografia storico-giuridica, ma gli storici antichi si sono dedicati all'argomento solamente negli anni ot­ tanta, e comunque solo in modo eclettico. Particolare attenzione ha ri­ cevuto soprattutto il brigantaggio organizzato nell'impero romano, su cui siamo bene informati grazie a un fondamentale articolo di B. D . Shaw '; lo studio della violenza nell'Atene classica ha fatto grandi pro­ gressi negli anni novanta, e da allora sono usciti anche alcuni studi sui reati contro la proprietà nell'Egitto romano 2 • Ma per quanto riguarda lo studio della microcriminalità quotidiana, c'è ancora molto da fare. Le bande di briganti erano sicuramente un aspetto importante del crimine, che però non lo esauriva completamente. Più avanti cercheremo di pre­ cisare il ruolo del brigantaggio di gruppo nel campo della criminalità antica, senza però trascurare le altre forme di criminalità che sicuramen­ te erano più importanti per molte persone nell'antichità. La definizione di crimine cambia da società a società. I singoli reati o tipi di reati assumono una diversa importanza a seconda delle condi­ zioni sociali ed economiche. Per poter analizzare in modo appropriato la situazione criminale tipica dell'antichità greco-romana, bisogna esa­ minare il maggior numero possibile di settori della criminalità: reati di violenza, delitti contro la proprietà, reati sessuali e anche violenza verba­ le. Chi erano i criminali (provenienza sociale, età e sesso) e le vittime, e quali motivi li spingevano a delinquere (CAPP. 3 e 5 ) ? È inoltre impossi­ bile scrivere una storia del crimine senza studiare anche gli sforzi com­ piuti dallo stato e dalla società per tenere sotto controllo il crimine e il comportamento deviante (CAPP. 2 e 4) : quali attività erano intraprese da parte dello stato per combattere il crimine ? Come si reagiva alla vio­ lenza e al crimine nei villaggi o nelle città ? Quanti criminali venivano portati in tribunale? Ai tribunali statali potevano accedere tutte le classi sociali senza distinzione ? Quale importanza avevano la giustizia privata e gli accordi extragiudiziali ? In quale misura le comunità (villaggi e cit­ tà) risultavano capaci di superare i loro problemi sociali, in questo caso lO

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la violenza e la criminalità ? Quando si preferiva la risoluzione informate dei conflitti e quando il ricorso alla giustizia di stato ? Alcuni reati erano tollerati e i colpevoli protetti dalla popolazione ? Tutte queste domande portano in ultima analisi alla questione della formazione e del consolidamento dell'apparato statale nelle città-stato antiche e nell'impero romano. La storia della criminalità antica ne costi­ tuisce un aspetto niente affatto trascurabile, anzi: ci permette di guarda­ re in modo completamente nuovo alla storia sociale e culturale, attira la nostra attenzione sulle contraddizioni e sui conflitti della società e mo­ stra quali valori giuridici erano considerati più degni di tutela. Nelle pagine seguenti esamineremo soprattutto il contesto sociale della criminalità, la procedura penale quotidiana e il modo in cui lo sta­ to e la società affrontavano i criminali e i reati. Le fonti giuridiche costi­ tuiscono ovviamente un gruppo importante, che però, prese da sole, per il loro carattere molto spesso normativo, sono una base largamente in­ sufficiente per rispondere alle domande sopra formulate. Perciò il nu­ cleo di fonti è stato notevolmente ampliato grazie a un'estesa analisi dei papiri egiziani nonché delle varie fonti letterarie. Soprattutto i testi dei padri della Chiesa tardoantichi, che talvolta nelle loro prediche e lettere affrontano diversi importanti aspetti della questione, contengono infor­ mazioni rilevanti che finora non sono state prese minimamente in con­ siderazione. Nelle vite dei santi il ricorso alla violenza e la criminalità trovano spazio in numerosi episodi, e talvolta ci fanno intuire qualcosa delle cause che hanno condotto al delitto e del retroterra sociale del col­ pevole e della vittima. I papiri egiziani, che contengono petizioni, atti processuali e molti altri documenti, danno informazioni su violenze e reati e sulla punizione dei crimini. Le fonti e i papiri agiografici ci per­ mettono di rispondere chiaramente (e molto meglio dei testi giuridici) alla domanda su come reagisse la popolazione, e non solo le vittime di­ rette, alla violenza e ai crimini. Se si intraprende un ampio esame delle numerose testimonianze delle fonti antiche, la situazione non può essere affatto definita negativa, almeno in rapporto a quanto accade di solito per l'antichità. Certo, que­ sti testi vanno interpretati con una certa cautela, e abbiamo già ricorda­ to la parzialità di quelli giuridici: le fonti letterarie sono fortemente im­ pregnate di retorica, e non si riesce sempre a capire con certezza dove gli autori stiano usando luoghi comuni e dove invece rispecchino le realtà sociali. Come valutare i continui ammonimenti, totalmente stereotipa­ ti, dei predicatori cristiani tardoantichi sul rischio da parte dei fedeli be11

LA C RI M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO nestanti di perdere con un solo furto in una notte tutta la ricchezza ac­ cumulata in lunghi anni ? Il rischio di essere vittima di un'effrazione era davvero così consistente, o queste parole sono pura retorica che da un lato sottolinea il valore effimero dei beni terreni, dall'altro intende risve­ gliare la generosità dei parrocchiani, in modo da guadagnarsi con le opere buone un tesoro nell'aldilà che non corra simili rischi ? Quanto ai papiri, che rispecchiano con chiarezza la vita quotidiana di gruppi socia­ li numerosi come i piccoli contadini e gli operai nei villaggi e nelle città dell'Egitto, essi presentano innanzitutto il vistoso inconveniente di dar­ ci informazioni solo su una regione dell'impero romano, cioè dell'Egit­ to e bisogna chiedersi ogni volta fino a che punto sia lecito generalizzare queste informazioni per tutto l'impero. Ma soprattutto - e forse questo è il problema più grande per chi vuole scrivere una storia della criminalità antica - siamo del tutto privi di ampie raccolte che permettano l'analisi dei singoli reati e del loro contesto sociale in ogni dettaglio; e i papiri documentari, così come le orazioni giudiziarie dell'Atene classica o della Roma tardorepubblicana giunte fino a noi, non possono colmare questa lacuna. Lo storico del­ l' antichità si trova qui in svantaggio rispetto a quello della modernità: si legga ad esempio il magistrale lavoro di Macfarlane (1981) per capire quanto possa essere istruttiva l'analisi di un caso criminale singolo ma ben documentato. Perciò il metodo che verrà impiegato in questo libro sarà necessariamente di tipo diverso: si cercherà, per così dire, di com­ porre un mosaico da tanti riferimenti presenti nelle fonti che, se presi da soli, sarebbero frammentari e insignificanti; vi si troveranno le afferma­ zioni dei giuristi accanto a quelle dei padri della Chiesa antichi, e i papi­ ri egiziani accanto al romanzo picaresco della prima età imperiale. Nu­ triamo la speranza che queste fonti prima focie disparate ed eterogenee si integrino e si correggano reciprocamente, in modo che ne risulti un quadro della criminalità visibile e plausibile almeno per i periodi meglio documentati dell'antichità. Lo stato delle fonti porta a concentrarsi particolarmente sull'Atene classica (v e IV secolo a.C.) e sul mondo romano dal 200 a.C. al 6oo d.C. Per il periodo greco arcaico e la Roma più antica è impossibile scri­ vere una vera storia della criminalità, perché mancano fonti contempo­ ranee sufficientemente eloquenti, anche se negli ultimi anni gli storici del diritto sono approdati a risultati importanti. Molti punti, però, sono ancora in discussione, e nello studio di queste epoche le ipotesi e le spe­ culazioni hanno ancora un ruolo troppo grande. Il fatto che i capitoli 12

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dedicati alla criminalità nell'impero romano (CAPP. 4 e 5 ) siano p i ù det­ tagliati di quelli sulla storia greca ( CAPP. 2 e 3) è dovuto anche e soprat­ tutto alla situazione delle fonti: i capitoli I V e v ricoprono un periodo di circa ottocento anni di storia romana e uno spazio geografico che va dal­ la Britannia alla Siria, dal Reno e dal Danubio al Sahara. Il materiale di­ sponibile è molto variegato e disparato, mentre i riferimenti alla crimi­ nalità nell'Atene classica derivanti dalle orazioni giudiziarie e da accenni sparsi nelle commedie riguardano fondamentalmente solo la fine del v e il IV secolo a.C. La questione dell'importanza della criminalità, del potenziale di violenza e di quanto le società antiche fossero " pacificate" può trovare risposta solo attraverso il confronto con altre società antiche, confronto cui va data grande importanza. Bisogna cercare di applicare al mondo antico gli interrogativi che negli ultimi anni sono stati posti dagli studi storici sulla criminalità nel tardo Medioevo e nell'età moderna. Certo, non possiamo compilare, per nessun periodo e nessuna regione dell'an­ tichità (neanche per l'Egitto ) , statistiche sulla frequenza di singoli reati e sul loro sviluppo in un arco di tempo più lungo; ma alla fine anche gli storici moderni hanno dovuto ammettere che non si può scrivere una storia del crimine puramente quantitativa basata sull'esame degli atti giudiziari. I reati che giungevano in tribunale erano sempre e solo la punta dell'iceberg; e anche l'aumento del numero dei processi non ci dà tanto informazioni sulla frequenza dei crimini, quanto sulla tendenza a portare in giudizio soltanto certi reati. Grazie ai materiali d'archivio, i medievisti e gli storici moderni possono contare su un nucleo di fonti sufficiente; eppure le loro difficoltà nello scrivere una storia della crimi­ nalità non sono affatto minori di quelle dello storico antico.

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Perseguimento e punizione dei crimini ad Atene

La polizia nell'Atene classica Atene non ebbe mai una polizia che potesse svolgere la funzione di in­ dagare sui crimini e cercarne i colpevoli ' . Solo in casi molto rari gli or­ gani statali assunsero funzioni di polizia, come nel 41 5 , in piena guerra del Peloponneso, quando il Consiglio dei Cinquecento, il più impor­ tante organo costituzionale della democrazia ateniese dopo l'assemblea popolare, ordinò arresti di massa in un momento di eccezionale gravità: correva voce che si stesse organizzando l'abbattimento del regime de­ mocratico. Per i casi di ordinaria amministrazione e l'arresto dei piccoli crimi­ nali (kakourgoi) , invece, esisteva il collegio statale degli " Undici " , tra i cui compiti c'era anche la custodia delle prigioni statali; inoltre dirige­ vano le esecuzioni dei kakourgoi colti sul fatto o confessi, così come di quelli che erano stati giudicati da un tribunale. Gli Undici non avevano però alcun ruolo nella prevenzione attiva del crimine, né avevano perso­ nale da mandare di pattuglia per le strade. Questo non spettava neanche al corpo di trecento schiavi statali sci ti alle dipendenze del Consiglio dei Cinquecento, che, essendo dotati di arco, erano chiamati anche toxotai ( '' arcieri " ) . Uno dei loro compiti principali consisteva nel mantenere l'ordine nell'assemblea popolare e nel Consiglio dei Cinquecento, ma non avevano alcun compito esplici­ to di impedire i crimini o, se erano stati commessi, di ricercarne i colpe­ voli. In quanto schiavi, a priori non erano neanche in condizione di esercitare le funzioni che noi moderni, a partire dal X I X secolo, associa­ mo all'idea di " polizia". A partire dal 390 a.C. circa, nelle fonti non tro­ viamo più alcun riferimento agli Sciti. 15

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO Iniziativa privata In mancanza di un corpo di polizia, il compito di identificare i colpevoli e spesso di catturarli ricadeva essenzialmente sui cittadini stessi. D'altra parte in questo caso, cioè l'arresto, gli organi statali fornivano in qual­ che misura la loro assistenza ai cittadini, ma comunque nell'Atene clas­ sica l'iniziativa privata mantenne un ruolo per noi oggi difficilmente immaginabile. Anche se non esisteva alcun organo di polizia, le vittime di un cri­ mine non erano comunque lasciate a se stesse, poiché cercavano e trova­ vano soccorso nei vicini o, se erano per strada, nei passanti. Questo sce­ nario ricorre spesso nelle fonti letterarie. Il protagonista di una comme­ dia di Aristofane, ad esempio, viene aggredito da suo figlio e chiama i parenti, i vicini e i cittadini del suo demos (i demoi erano i distretti in cui era suddivisa l'Attica) perché lo aiutino (Nuv. 1321 ss. ) . Nelle orazioni giudiziarie che riguardano i reati di violenza non è affatto raro trovare riferimenti a questa forma di soccorso tra vicini: ad esempio, quando l'ubriaco Simone si mette in testa di prelevare a forza di notte un ragaz­ zo di cui si è innamorato dalla casa del suo rivale, i passanti accorrono al rumore e alle grida e riescono a tener fuori Simone ( Lys. 3, 6 s . ) ; un cer­ to Apollodoro viene aggredito di notte (almeno così dice) di ritorno dal Pireo presso le cave di pietra da un nemico personale, che sicuramente ve lo avrebbe gettato dentro se i passanti non fossero accorsi alle sue gri­ da e Io avessero aiutato ( Dem. 53, 1 7 ) . I vicini e i passanti, dunque, n o n erano spettatori indifferenti d i fronte a queste zuffe. Poiché n o n c'erano organi istituzionali che inter­ venissero in situazioni di pericolo simili, ci si aspettava che i concittadi­ ni si schierassero attivamente a favore dell'aggredito. È vero, non esiste­ va alcun obbligo legale di soccorso, ma i passanti si sentivano moral­ mente tenuti a intervenire, e forse li spingeva anche il pensiero che un giorno avrebbero potuto trovarsi loro stessi in una situazione in cui avrebbero avuto bisogno dell'aiuto degli altri. Attirare l'attenzione dei passanti e dei vicini era importante anche per un altro motivo: poiché nel diritto processuale attico le altre prove avevano un'importanza relativamente minore, diventava ancora più im­ portante poter chiamare a testimone il maggior numero possibile di cit­ tadini, meglio se stimati, che potessero deporre di fronte alla corte la propria versione dei fatti . I tribunali ateniesi non erano composti di giu­ dici professionisti, ma di giurati che si erano liberati dagli impegni citta16

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d i n i e s i facevano impressionare molto dal numero, ma soprattutto dalla rispettabilità, dei testimoni citati 2 • N o n solo in caso di aggressione o furto ci si doveva difendere da sé dal criminale e al massimo si poteva cercare aiuto da vicini o passanti e non da un organo di polizia; se il colpevole era ignoto, le vittime dove­ vano anche indossare i panni del detective. Chi era stato rapinato di notte, al mattino successivo si recava al mercato per rintracciare i sospet­ ti (Athen. 6, 227d-228 b ) . Questa informazione è tratta da una comme­ dia, ma il caso seguente è autentico: un giovane benestante di Mitilene di nome Eussiteo e l'ateniese Erode andarono in nave da Mitilene, nel­ l'isola di Lesbo, a Eno, in Tracia, ma una tempesta costrinse la loro nave, così come altre, a cercare riparo in una cala nel nord dell'isola, vi­ cino a Metimna. Quella notte su una delle navi si svolse un banchetto; Erode si ubriacò e cadde dalla nave, ma i suoi parenti, venuti a cono­ scenza dell'accaduto, subodorarono una macchinazione criminale e so­ spettarono Eussiteo dell'omicidio. Perciò, appena la nave su cui era sta­ to visto Erode per l'ultima volta raggiunse Mitilene, intrapresero le in­ dagini di propria iniziativa: trovarono tracce di sangue e comprarono uno schiavo che si trovava a bordo quella notte per interrogarlo sotto tortura sui fatti. Lo schiavo ammise di aver aiutato nell'omicidio Eussi­ teo: questi aveva colpito Erode alla testa con una pietra, e insieme lo avevano caricato su una barca e lo avevano gettato in mare al largo. Venne fuori anche un appunto scritto di Eussiteo che costituì una prova a suo carico; perciò fu arrestato e messo in carcere ad Atene, dove dovet­ te discolparsi di fronte al tribunale. Non sappiamo se fu condannato o no (Antiph. 5, 21 ss. ) . Anche l'arresto d i cittadini resisi colpevoli, l a cosiddetta apagoge, era un atto di iniziativa privata 3• Naturalmente era sottoposto a restrizioni, ed era ammesso solo per tre categorie di criminali: quelli comuni (ka­ kourgoi) colti in flagrante (ep 'autophoro ), gli omicidi che si aggiravano in determinati luoghi, e gli atimoi, cioè quelli che erano stati dichiarati " privi di onore" e cercavano comunque di conservare i pieni diritti civi­ li. Una variante dell'apagoge era la endeixis, in cui il responsabile prima veniva denunciato all'autorità; in questo caso, all'accusatore poteva es­ sere concesso il diritto di arrestare il colpevole. Comunque, sia nell'apa­ goge sia nell'endeixis era il privato cittadino a eseguire l'arresto. Infine c'era la ephegesis, in cui l'arresto era compiuto da pubblici uf­ ficiali. Anche in questo caso, tuttavia, era richiesta l'iniziativa del priva­ to, in quanto la vittima del crimine portava gli ufficiali giudiziari dalla 17

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO persona da arrestare: i magistrati non si attivavano da sé. La procedura utilizzata nel singolo caso cambiava a seconda delle circostanze, come indica chiaramente un'affermazione di Demostene (22, 26) : chi è forte applicherà l'apagoge, chi è debole farà arrestare un ladro per mezzo della

ephegesis. Nella procedura dell'apagoge c'è una forte componente di giustizia privata, regolata però dagli organi statali e dalla dimensione pubblica. La pubblicità era una condizione necessaria affinché l'apagoge potesse avvenire, e ciò deriva dal fatto che poteva essere eseguita solo per crimi­ nali colti in flagrante. I passanti e i vicini che assistevano esercitavano una forma di controllo in una simile situazione. Un cittadino non pote­ va praticare l'apagoge in modo puramente arbitrario, ma doveva giustifi­ carsi con i propri vicini e con i passanti ancor prima di poter consegnare il presunto colpevole all'ufficio degli Undici.

Giurisdizione penale

Tipi di cause È impossibile descrivere in questa sede il diritto processuale attico in ogni dettaglio. In questo capitolo e nel successivo, dedicato alle sanzioni penali, ci limiteremo ad alcuni cenni che vogliono dare solo un'idea ge­ nerale del modo in cui nell'Atene classica i delitti venivano perseguiti penalmente e puniti. Il nucleo del sistema penale ateniese era l'azione di parte civile. A chiunque avesse subito l'illegalità spettava istruire personalmente il pro­ cesso; in greco la causa era chiamata dike (plurale dikai) . Un grande progresso nel diritto ateniese fu l'introduzione della causa di interesse pubblico (graphe, plurale graphai) , che nelle fonti antiche viene ricon­ dotta al grande legislatore ateniese Solone ( 594 a.C. ) ; contrariamente alla dike, la graphe poteva essere promossa da qualsiasi cittadino, non solo dalla vittima del crimine 4• Entrambe le cause, dikai e graphai, avevano però in comune il fatto di essere in tentate da privati e non da organi statali , e di poter essere an­ che ritirate in base al puro arbitrio personale. Mentre in un sistema mo­ derno una persona vittima di un crimine grave non può fermare il per­ seguimento del crimine una volta avviato, ad Atene questo era senz' altro possibile, anche nel caso di un reato come l'omicidio. Se qualcuno che 18

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era stato ferito a morte sopravviveva ancora abbastanza a lungo da per­ donare il colpevole, i suoi parenti non avevano più l'obbligo di promuo­ vere il perseguimento del crimine, anzi era loro proibito. La differenza fra dike e graphe non corrisponde esattamente a quella nostra fra causa civile e causa penale. Il fatto che questo o quel reato ri­ chiedesse una graphe o una dike era regolato dalla legge o da una decisio­ ne popolare, anche se per alcuni reati, ad esempio il furto, era possibile sia la graphe sia la dike. In generale le pene cui andava incontro chi fosse stato riconosciuto colpevole in una graphe erano più severe, ma i rischi erano più grossi anche per l'accusatore: se non riusciva a convincere al­ meno un quinto dei giurati della sua tesi, andava incontro a una multa. Si potrebbe quindi essere portati a pensare che la causa pubblica, la gra­ phe, fosse riservata ai reati più gravi, ma di fatto non era sempre così : ad esempio, non sappiamo affatto se esistesse la graphe per omicidio. Per­ ciò, se proprio bisogna dare una regola, possiamo dire senza rischio che le graphai esistevano essenzialmente per due categorie di reati: protegge­ vano persone come orfani, ereditiere e genitori anziani che non erano più in grado di difendere personalmente i propri interessi, e allora en­ travano in gioco i cittadini e prendevano le loro difese; e perseguivano i delitti contro la comunità come l'alto tradimento, la viltà in battaglia e anche l'adulterio, tutti reati, insomma, che la cittadinanza aveva interes­ se a perseguire e per cui ognuno poteva perciò intentare causa. Non bi­ sogna però aspettarsi una coerenza assoluta: le graphai e le dikai furono in vigore per molto tempo, e molto dipendeva dal fatto che il popolo, in quanto legislatore, preferisse la dike ('' causa privata" ) o la graphe ( " causa pubblica " ) in un determinato periodo e per un determinato reato. C'era insomma una varietà disorientante di possibilità giudiziarie. In un arco di diversi secoli le leggi si aggiunsero l'una all'altra senza che si arrivasse a una codificazione e unificazione sistematica del diritto pro­ cessuale, situazione da cui nacquero talvolta contraddizioni e incoeren­ ze. L'accusatore poteva anche trarre vantaggio da questo stato di cose, perché aveva diverse possibilità di reagire a un crimine. Ad esempio, nel caso di lesioni personali poteva decidere per una graphe hybreos, che ri­ guardava i casi più gravi, o per una semplice dike aikeias (" causa per le­ sioni personali " ) , e la scelta era basata sullo stato delle prove e su quanto si sentisse sicuro di portare dalla sua parte i giurati . Il numero dei mezzi legali a disposizione dell'accusatore in caso di furto era notevole. Demostene lodava i legislatori proprio a questo ri­ guardo, mentre noi oggi vorremmo forse esortarli alla semplificazione:

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO chi si sente forte può applicare la apagoge, cioè portare da sé il colpevole davanti agli ufficiali giudiziari; se uno è debole, userà la ephegesis, in modo che siano gli ufficiali a eseguire l'arresto; se qualcuno non ne ha il coraggio, può ricorrere alla graphe; se è povero e teme la sanzione pecu­ niaria in caso di sconfitta in tribunale, può far intervenire un arbitro evitando così ogni rischio ( Dem. 22, 25 ss. ) . La vittima di un furto aveva dunque diverse possibilità di farsi valere in tribunale. La forma scelta dalla parte lesa dipendeva dalle circostanze, come la sua forza fisica, il sostegno di cui godeva nella comunità, la sua competenza giuridica e anche l'entità della pena che voleva far comminare. Tutto ciò può sembrare alquanto strano all'osservatore moderno, cui sembra auspicabile che a un crimine segua una pena ben definita e che perciò potrebbe vedere nel diritto processuale attico un sistema ina­ deguato e imperfetto. Ma gli Ateniesi la pensavano diversamente: dal loro punto di vista l'accusatore aveva la possibilità di cercare la risposta più adatta al suo status e alle sue capacità 5•

Iniziativa Che cosa spingeva gli Ateniesi ad andare in tribunale ? Nelle dikai, le cause private su cui potevano fare affidamento le vittime di un crimine, la risposta è semplice: ottenere giustizia per il torto subito. Nelle gra­ phai, le cause pubbliche, la cosa è più complicata. Sarebbe ingenuo ipo­ tizzare che ogni accusatore volesse soltanto rappresentare l'interesse del­ la cittadinanza. Se non riusciva a ottenere almeno un quinto dei voti dei giurati, doveva pagare un'ammenda di 1 . 000 dracme, e per di più si era fatto inevitabilmente un nemico, l'accusato. D'altra parte, per incorag­ giare gli Ateniesi a intentare la causa, erano previste in parte ricompen­ se, con cui talvolta furono intentate anche cause vessatorie e in malafe­ de. Molti accusatori quasi professionisti, i cosiddetti sicofanti, cercava­ no di trarre guadagno dalle accuse o incalzavano le vittime con la mi­ naccia di intentar loro causa; perciò spesso in tribunale gli accusati de­ nunciavano gli accusatori come sicofanti. Al contrario, per spazzare via il sospetto di aver presentato l'accusa soltanto per bieca avidità, gli accusatori cercavano di dimostrare che avevano motivi strettamente personali, e spesso rimandavano a un'ini­ micizia ormai di lunga data con l'accusato. Gli Ateniesi non si facevano il minimo scrupolo ad ammettere la loro ostilità o il loro odio contro 20

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l'imputato; l e inimicizie si tramandavano spesso di padre in figlio, e così capitava molto spesso che come motivo di un'accusa fosse addotta la vendetta. L'inimicizia personale era il motivo dominante delle cause pubbliche (graphai) ; spesso gli accusatori stessi in passato erano stati ci­ tati in giudizio dall'accusato. Come si vede, l'importante non era di­ chiarare la verità davanti ai giudici e aiutare la giustizia a trionfare: più spesso, il processo era uno strumento per vendicarsi e portare alla rovina un nemico. Tutto ciò non è gradevole, ma per la società sarebbe sicura­ mente stata molto peggiore l'alternativa, cioè estinguere le antipatie per­ sonali con lo spargimento di sangue 6 .

Procedimento arbitrale Una frequente alternativa all'apertura di un procedimento giudiziario regolare era il ricorso al procedimento arbitrale 7 • Non più tardi dell'ini­ zio del I V secolo lo stato ne riconobbe il carattere vincolante, e a quel punto, a quanto pare, non fu più possibile portare un caso in tribunale se prima ci si era accordati con l'avversario su un procedimento extra­ giudiziale. Probabilmente nelle nostre fonti (che sono per la maggior parte orazioni giudiziarie) gli accordi informali sono sottorappresentati, perché in tribunale finivano solo i casi in cui le parti non erano riuscite ad accordarsi sul ricorso all'arbitrato. L'importanza dell'arbitrato priva­ to, dunque, doveva essere certo maggiore di quanto facciano vedere le fonti. S oprattutto i più poveri preferivano spesso coinvolgere un arbitro piuttosto che far procedere la causa, la quale comportava il rischio (al­ meno nel caso della graphe) di un'ammenda salata in caso di sconfitta. Sanzioni penali Così come non c'era un diritto penale codificato, anche nelle pene che venivano comminate è impossibile riconoscere una sistematicità. Per al­ cuni reati la pena era stabilita dalla legge (dikai atimetoi) , mentre per al­ tri i giurati dovevano decidere, con una seconda votazione dopo quella del verdetto, fra la pena proposta dalla difesa e quella proposta dall'ac­ cusa (dikai timetoi) . Questa procedura poteva portare a situazioni che ai nostri occhi risultano assurde, come quando nel 399 a.C. Socrate dovet­ te presentarsi in tribunale per empietà. Dopo il verdetto di colpevolezza espresso alla prima votazione, si arrivò a comminare la pena di morte 21

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N DO ANTICO proposta dall'accusa solo perché Socrate nel suo secondo discorso aveva urtato i giurati proponendo un'ammenda talmente bassa da risultare ri­ dicola. I giurati non avevano alcuna possibilità di stabilire l'entità della pena di propria iniziativa, ma erano legati nel loro giudizio alle proposte dell'accusa e della difesa. La gamma delle pene a disposizione era limitata 8, e tra queste non c'era la detenzione. Le misure di custodia si riducevano alla custodia cautelare (per i criminali arrestati con l'apagoge in attesa di processo) e alla detenzione prima dell'esecuzione. Non conosciamo alcun caso in cui un litigante abbia subito il carcere come pena. Anche l'idea di con­ dannare i criminali ai lavori forzati non venne mai in mente agli Atenie­ si, diversamente dai Romani . Talvolta si parla di esilio, ma non è chiaro se si trattasse di una vera e propria pena o della commutazione della pena di morte (vedi più avanti) . I ladri potevano essere condannati a passare cinque giorni e cinque notti alla gogna (in greco podokakke) 9• Tra le pene pecuniarie c'era l'ammenda o la confisca dei beni. Que­ st'ultima era spesso una pena aggiuntiva associata a quella principale (pena di morte o atimia); le ammende erano più frequenti, e l'importo era suddiviso in parti diverse fra l'accusatore, le casse statali o il denun­ ciatore. Poiché lo stato ateniese non disponeva di pubblici ministeri che perseguissero i crimini nell'interesse della collettività, era necessario for­ nire incentivi agli accusatori privati. La parola atimia indica la " perdita dell'onore " (time, " onore " ) , e chi aveva perso la sua time era indicato come atimos. Questa pena di solito era comminata per reati che consistevano nel trascurare i doveri civici. L'atimos godeva in una certa misura della protezione della legge; nessu­ no poteva impedirgli di continuare a vivere ad Atene. D'altra parte le li­ mitazioni a cui era sottoposto erano talmente pesanti (apagoge con ri­ schio di pena capitale) che molti atimoi probabilmente preferivano la­ sciare Atene e andare in esilio volontario 10• La pena di morte era probabilmente la pena corporale comminata più di frequente. Gli Undici avevano il potere di mandare a morte una speciale categoria di criminali indicati come kakourgoi, tra cui c'erano fra l'altro i ladri colti in flagrante, purché gli accusati fossero stati portati davanti a loro tramite apagoge e ci fosse la confessione; perciò molti cri­ minali ovviamente cercavano di non presentarsi davanti al giudizio po­ polare in queste condizioni ! Le orazioni giunte fino a noi e pronunciate davanti alle corti di giu­ rati, all'Areopago e agli altri tribunali di sangue ci trasmettono un'im22

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P E R S E G U I M E N T O E P U N I Z I O N E D E I C R I M I N I AD ATE N E

magine parziale della procedura penale: in questi casi gli imputati, che normalmente non erano sottoposti alla custodia cautelare, spesso pote­ vano lasciare in fretta Atene sottraendosi così alla morte. In un processo per omicidio, ad esempio, l'imputato aveva il diritto di andare in esilio dopo la prima coppia di discorsi (accusatore e accusato) , e nessuno po­ teva impedirglielo o costringerlo ad aspettare la fine del procedimento. Questo espediente era utilizzato da persone che avevano mezzi finanzia­ ri sufficienti a rifarsi una vita al di fuori dell'Attica, ma per chi apparte­ neva a una classe più umile l'esilio volontario significava vivere nella mi­ seria e nel bisogno all'estero. La decisione di andare in un esilio autoin­ flitto, dunque, non poteva essere presa a cuor leggero da parte dell'im­ putato. Spesso era assolutamente impossibile prevedere se i giurati si sa­ rebbero pronunciati per l'assoluzione; ma una volta che si decideva di andare in esilio, il gesto equivaleva a un'ammissione di colpa e il ritorno in patria diventava impossibile. Comunque, se un imputato per omici­ dio o per i crimini di violenza più gravi aveva la possibilità di andare in esilio, nel diritto ateniese i violenti e gli omicidi (almeno quelli di ceto elevato) erano in una posizione migliore dei criminali comuni colti sul fatto. In epoca più antica i condannati a morte venivano gettati nel ba­ rathron, un burrone; ma non è chiaro se in questo caso si tratti di una forma di uccisione o piuttosto dello " smaltimento " del cadavere del condannato. Nel I V secolo erano impiegati due tipi di esecuzione: l'apo­ tympanismos ( una pratica simile alla crocifissione) e la somministrazione della cicuta. La cicuta rappresentava la morte più piacevole; l'altra for­ ma di esecuzione per criminali comuni era l'apotympanismos. I delin­ quenti venivano fissati con staffe di ferro a un palo di legno e abbando­ nati a una morte lunga dovuta alla sete e allo spossamento, e potevano volerei diversi giorni, perché i condannati non subivano alcuna lesione, diversamente da coloro che erano crocifissi, cui venivano inchiodati i piedi e le mani " . Perché gli Ateniesi praticarono questa crudele forma d i punizione ? N o n è soddisfacente la motivazione che non si doveva spargere sangue in alcun modo (perché in questo caso sarebbe stata possibile anche la morte per strangolamento) né che si volesse abbandonare il corpo del delinquente alla furia della natura delegandole così la punizione. Sem­ bra piuttosto che si ricercasse intenzionalmente una morte lunga e dolo­ rosa, oltre alla dimensione pubblica dell'esecuzione e all'umiliazione che ne derivava. 23

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO Le vittime di questa procedura spietata erano soprattutto i cittadini più poveri. Un piccolo artigiano o un operaio vittima del rampollo ubriaco di una famiglia importante difficilmente si azzardava ad affron­ tare una causa (graphe) per hybris ( uso di violenza con l'intenzione di mortificare e colpire la vittima nel suo onore), perché in caso di sconfit­ ta non sarebbe stato in grado di pagare l'eventuale ammenda che ne sa­ rebbe conseguita. Se poi non intentava affatto causa, al più poteva pre­ sentare una dike aikeias (cioè solo per lesioni personali) , che in caso di verdetto di colpevolezza comportava solo un'ammenda, una pena che non impensieriva più di tanto i ricchi. Se un ricco si rendeva colpevole di omicidio, aveva la possibilità di andarsene comodamente in esilio. La criminalità dei poveri, invece, consisteva innanzitutto in reati contro la proprietà, e in quanto kakour­ goi (" criminali comun i " ) potevano essere sottoposti ad apagoge, e in un procedimento per direttissima davanti agli Undici, se confessi, rischia­ vano la pena di morte, che veniva eseguita con il crudele apotympani­ smos. È possibile che la maggior parte dei ladri colti in flagrante fossero condannati con questo procedimento; perciò i poveri non finivano qua­ si mai di fronte ai tribunali popolari, ma erano sottoposti a una specie di giustizia poliziesca. A quanto pare, anche nella democratica Atene vige­ va una giustizia di classe. Si direbbe insomma che alla base delle leggi ateniesi ci fosse l'idea di punire più severamente soprattutto i reati motivati dalla povertà. Il di­ ritto penale ateniese, dunque, non può essere definito particolarmente clemente o umano né rispetto ad altri stati greci né rispetto a Roma o al­ tre società preindustriali. Gli Ateniesi stessi erano consapevoli della sua severità. Ne è una prova la discussione nell'assemblea popolare sulla pu­ nizione degli abitanti di Mitilene che si resero colpevoli di defezione du­ rante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C. ) : secondo la testimonian­ za di Tucidide (3, 45 ) , Diodoro si espresse contro la condanna a morte dei colpevoli. La pena di morte ha mostrato anche in altri contesti di non avere il potere dissuasivo che alcuni le attribuiscono; essa è prevista per un numero sempre maggiore di reati, anche minori, senza che ciò dissuada i criminali, tra cui, anche in questo caso, i poveri sono la mag­ gior parte.

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La criminalità nell'Atene classica

Ingiurie e violenza verbale Numerose ricerche sulla criminalità nel Medioevo e nella prima età mo­ derna hanno mostrato quanto spesso la violenza psicologica si sia espres­ sa nello scambio reciproco di ingiurie. Anche le persone umili tenevano a mantenere il proprio onore, e le risse che spesso erano provocate da un insulto avevano per i contadini o gli artigiani la stessa funzione che aveva il duello per i nobili. Questa constatazione ci induce a esaminare in que­ sta sede la violenza verbale in Grecia e nella Roma antica: anche qui, come nei villaggi e nelle città del Medioevo e della prima età moderna, le risse, le lesioni e i diversi tipi di omicidio erano la conseguenza di con­ tese verbali che degeneravano ? Sembra proprio che anche ad Atene esi­ stesse una simile connessione. Stando all'oratore Demostene ( 54, 17 ss. ) , l a causa per ingiurie (dike kakegorias) era stata inclusa nel diritto ateniese proprio perché dalle intemperanze verbali non derivassero risse con le­ sioni. Spesso all'origine degli scontri violenti nell'Atene classica su cui siamo meglio informati c'era stato uno scambio di ingiurie. Per poter procedere legalmente per ingiurie esisteva dunque una cau­ sa apposita, la dike kakegorias ('' causa per diffamazione " ) 1• Ci resta sola­ mente un'orazione relativa a un processo per ingiurie, che perciò è una base altamente insufficiente per capire la frequenza di questo genere di cause: un certo Teomnesto aveva incolpato l'oratore di essersi reso re­ sponsabile della morte di suo padre durante il regime del terrore dei " Trenta Tiranni" (404/403 a.C., circa venti anni prima del processo) . La legge riportava solo una serie di espressioni con cui era proibito apostrofa­ re gli altri; ad esempio era considerata ingiuria dire che il proprio avversa­ rio era un assassino, che aveva picchiato il padre e la madre o che aveva gettato via lo scudo in battaglia; inoltre era considerata un'ingiuria puni­ bile screditare il lavoro di un ateniese sull'agorà (la piazza del mercato) , cioè davanti a tutti ( Lys. 10, 6 ss. ) . L'oggetto del processo, in ultima anali-

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO si, era stabilire se le espressioni citate dalla legge andassero intese in modo letterale o se vi rientrassero anche i sinonimi. In caso di condanna, come sappiamo anche da altre fonti, si rischiava una multa di 500 dracme, una somma decisamente considerevole, se si pensa che nel IV secolo un lavo­ ratore a giornata guadagnava solo 2-2, 5 dracme al giorno.

Lesioni personali

Situazione giuridica La situazione legislativa per la punizione degli atti violenti non era sem­ plice nell'Atene classica. La forma più comune di procedimento in caso di lesioni personali era la dike aikeias; se la causa sfociava in una condan­ na, bisognava pagare alla vittima un'ammenda 2 • Un caso più grave rap­ presentava il ferimento intenzionale (trauma ek pronoias) , che a quanto pare nella legge non era chiaramente distinto dalle lesioni personali (ai­ keia); perciò i contendenti potevano assumere posizioni molto diver­ genti su che cosa si dovesse intendere esattamente con " ferimento in­ tenzionale" . Un imputato che si trovò in tribunale per questo crimine argomentò ad esempio che quella causa in realtà mirava al tentato omi­ cidio, un crimine che nessuno poteva imputargli; ma l'interessato cerca­ va ovviamente di sottrarsi alla condanna, e quindi le sue parole non pos­ sono essere considerate un commento imparziale sulla legge ( Lys. 3, 40 ss. ) . Invece un gesto più visibile, come il lancio una pietra o l'utilizzo di un'arma o anche di un frammento di ceramica, poteva essere considera­ to " ferimento intenzionale" ; ciò significherebbe che invece la dike ai­ keias, cioè la " causa per lesioni personali " , era riservata essenzialmente ai colpi inferti a mani nude. Comunque, gli Ateniesi prendevano molto seriamente il delitto di " ferimento intenzionale" : come l'omicidio, esso era giudicato dall'Areopago, una corte cui spettava il giudizio sui fatti di sangue; e non solo la vittima, ma anche quelli che non erano coinvolti potevano portare questo reato in tribunale per mezzo di una graphe. Per le lesioni personali esisteva poi la causa per hybris (graphe hybreos) , introdotta nel 594 a.C. dal legislatore ateniese Solone 3 • Anche i n questa legge, evidentemente, i termini non erano definiti con esattezza; di conse­ guenza capitava spesso che in un caso non fosse affatto facile decidere se il crimine di cui si incolpava I' accusato andasse indicato come hybris o no. Spettava così all'accusatore convincere i giurati, i quali nei tribunali ate-

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LA C R I M I NALITÀ NELL'ATENE CLASS I CA

niesi non erano giuristi di professione ma cittadini estratti a sorte, che il comportamento incriminato ricadeva davvero nell'ambito della hybris. Di conseguenza venivano indicate come hybris situazioni molto di­ verse tra loro: percosse, offese verbali, molestie sessuali ecc. In generale, comunque, si può dire che la hybris conteneva sempre un attacco all'o­ nore della vittima, ed era spesso (anche se non necessariamente) unita all'uso della violenza. Perciò molte volte la vittima aveva come alternati­ va alla graphe hybreos la denuncia per lesioni personali, cioè la già citata dike aikeias. Il punto discriminante per la fattispecie della hybris era l'in­ tenzione da parte di chi l'aveva commessa di infliggere disonore e igno­ minia alla vittima e di umiliarla. Se qualcuno perdeva il controllo di sé e picchiava, era semplice aikeia; ma se colpiva la vittima in modo disono­ revole, era hybris. Aristotele illustra così la distinzione quando scrive (Rhet. 1, 1 3 , 1374a 13-1 5 ) : > (trad. M. Dorati) . Gli oratori giudiziari non lasciano alcun dubbio sul fatto che lo scandalo non è l'uso della violenza in sé (bastonate o percosse) , ma l'umiliazione dell'avversario che spesso è unita alla violenza. Questo accadeva per esempio quando si derubava l'altro del vestito, quando si continuava a colpire chi era già per terra o quando ci si mostrava tronfi della propria vittoria, come fece Conone, che in una situazione analoga imitò un gal­ lo vittorioso (Dem. 54, 8 s . ) . Dunque l a graphe hybreos aveva u n o status autonomo d i causa a sé. La hybris era considerata un reato molto grave, come si capisce bene dal fatto che la graphe hybreos, al contrario della dike aikeias, poteva essere presentata da " chiunque lo volesse" (ho boulomenos) e non solo dalla vittima. Questo significa che la graphe hybreos era una causa pubblica per cui la comunità aveva interesse a perseguire il reato. Nel caso peg­ giore, il colpevole subiva la pena di morte, anche se la vittima non otte­ neva ( diversamente dalla causa per lesioni personali) nessun indennizzo per danni morali o materiali. Tuttavia abbiamo notizia solo di poche cause per hybris. È vero che rispetto alle lesioni personali questo reato era ritenuto più grave e che le pene, come si è visto, erano decisamente più severe, ma nella prassi le 27

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO vittime preferivano spesso la dike aikeias a una graphe hybreos. I motivi determinanti in questo senso possono essere stati molti . lnnanzitutto era relativamente più facile provare di essere stato colpito, mentre era più difficile addurre la prova che l'avversario aveva intenzione di inflig­ gere un'umiliazione o di vantarsi della propria superiorità. In secondo luogo, molte vittime cercavano una compensazione finanziaria che non avrebbero ottenuto con una graphe hybreos, mentre l'ammenda inflitta al colpevole in una dike aikeias finiva in tasca all'accusatore. Inoltre, il fatto che l'accusatore che aveva presentato una graphe, come abbiamo già ricordato, rischiasse una multa salata in caso di insuccesso, cioè quando non era riuscito a guadagnarsi i voti di almeno un quinto dei giurati, doveva avere il suo peso nel momento in cui la vittima di una violenza doveva scegliere quale forma di causa avviare; lo stesso vale per il rapporto di forza tra i partecipanti al processo. Un oratore, un uomo di nome Aristone, descrive le sue riflessioni in questo modo: in base alla gravità del torto subito aveva voluto presenta­ re una graphe hybreos, ma i parenti e gli amici gli avevano consigliato , ricordandogli in primo luogo la sua età. Perciò si era accontentato di una causa per lesio­ ni personali, anche se desiderava la morte del suo avversario Conone. Ciò non toglie che i fatti fossero ben chiari: Aristone era stato pestato una sera da Conone, aiutato dal figlio e da altri compagni di bevute, che gli avevano anche rubato il mantello, e Conone aveva imitato un gallo vittorioso in un combattimento sopra Aristone che giaceva a terra. Que­ sto comportamento provava la fattispecie della hybris: Conone aveva vo­ luto umiliare il suo avversario . Il fatto che Aristone, malmenato ed evi­ dentemente umiliato, abbia comunque scelto la dike aikeias invece della graphe hybreos si spiega in modo semplice: in una causa per hybris non avrebbe ottenuto alcun risarcimento pecuniario, e malgrado la chiarezza delle circostanze correva un rischio notevole a causa della sua inespe­ rienza, perché l'avversario era abbastanza potente e influente da fargli sembrare incerto l'esito del processo (Dem . 54, 1; 8 s . ) .

La violenza nella società ateniese Lo scarso numero di casi attestati può far sembrare inopportuno espri­ mersi quantitativamente sui crimini di violenza nell'Atene classica. Tut­ tavia, grazie ad approfondite ricerche degli ultimi anni, oggi ci risulta 28

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LA C R I M I NALITÀ N ELL'AT E N E C LASS I CA

chiaro quale ruolo avesse la violenza nella società ateniese 4• Alcune for­ me di violenza, strettamente legate allo stile di vita dei ricchi, erano quotidiane; i luoghi di queste manifestazioni erano soprattutto i ginnasi e i simposi, e le cause il consumo dell'alcol e le rivalità sessuali . Stando alle parole del poeta comico Eubulo, solamente le prime tre coppe svuo­ tate appartenevano al simposio morigerato, mentre già il consumo della quarta era sottomesso alla hybris (Athen . 2, 36b-c) . I simposi dei ricchi, con il loro consumo di alcol talvolta eccessivo, contribuivano non poco alla violenza di strada. In una commedia di Aristofane uno schiavo de­ scrive il comportamento sfrenato del suo vecchio padrone, che durante i simposi si ubriaca, perde il controllo, offende gli altri e tornando a casa colpisce i passanti a caso. Questi erano eccessi su cui si poteva sorvolare finché erano commessi da giovani, ma non quando l'autore era un pa­ dre di famiglia in età matura ( Vespe 1 299 ss. ) . I simposi e i komoi con cui s i concludevano, cioè i cortei degli ubria­ chi attraverso la città, erano un importante segno distintivo della cultu­ ra aristocratica in età arcaica, e anche in età classica non persero mini­ mamente importanza. Ancora nel IV secolo i banchetti, i cortei per le vie che li seguivano e le rivalità amorose erano lo spazio in cui si veniva frequentemente alle mani. Il politico Eschine poteva spiegare pubblica­ mente, senza dover temere per la sua reputazione, di aver bazzicato i ginnasi, di aver sedotto adolescenti e anche di non aver disdegnato gli scontri con i rivali, frequenti in questo genere di storie d'amore. Le vio­ lenze cui Eschine allude con queste parole si svolgevano a un livello più basso ed erano per lo più prive di conseguenze serie (Eschine 1 , 135 s . ) . N o n s i teneva neanche in considerazione l'ipotesi che potessero avere come conseguenza gravi sanzioni penali. La hybris, dunque, era strettamente legata alla cultura dei simposi, e Aristotele la attribuisce soprattutto ai ricchi e ai giovani, che in questo modo credevano di dare prova della loro superiorità 5 . Aristotele distin­ gue essenzialmente due tipi di ingiustizia: kakourgia, cioè reati di micro­ criminalità compiuti per lo più dai poveri, e appunto hybris, che va mes­ sa in conto ai benestanti, e ne conclude che è meglio appartenere alla classe media (Pol. 4, 1295b 1-25 ) . Ma la hybris non era solo violenza compiuta tra i fumi dell'alcol: era piuttosto una parte della cultura del­ l'aristocrazia e, in età classica, della élite economica in generale; con il loro comportamento improntato a hybris queste classi si distinguevano da tutti quelli che non appartenevano alla loro cerchia, cioè che non sta­ vano tutto il giorno nei ginnasi e non passavano le sere e le notti nei 29

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTI CO simposi . Mentre oggi tendiamo a vedere nella criminalità urbana so­ prattutto un fenomeno specifico delle classi umili, nell'Atene classica per lo più la violenza andava ascritta proprio ai benestanti. Aristotele attribuiva la violenza soprattutto ai giovani. La frequenza di questo loro comportamento è mostrata dal caso seguente: Archippo e Tiside avevano litigato in palestra e nella furia del litigio erano volate of­ fese e contumelie da ambo le parti. Pitea, amante e tutore di Tiside, gli consigliò di starsene tranquillo per un po' e di aspettare il momento giu­ sto per vendicarsi. Questo non tardò molto a venire: durante una festa Tiside invitò Archippo a un banchetto notturno, e quando Archippo la sera si presentò da lui, Tiside e i suoi lo legarono a una colonna e lo fru­ starono. Poi Tiside lo rinchiuse in una stanza, ma non era ancora con­ tento di quel che gli aveva fatto: «nell'intento di emulare i peggiori gio­ vinastri>> , al mattino ordinò ai suoi schiavi di frustarlo nuovamente ( Lys., fr. 17; trad. E. Medda ) . Il rapporto fra età giovanile e hybris è espresso anche nella g i à ricor­ data accusa contro Conone: nessuno può restare impunito per la hybris compiuta, ma se qualcuno può essere in qualche modo scusato, sono i giovani. Chi però ha più di cinquant'anni come Conone e non ha trat­ tenuto i più giovani, neanche il proprio figlio, ma anzi è stato la loro guida nel commettere violenza, non ha una pena sufficiente neanche nella morte (Dem. 54, 21 s . ) . I giovani delle famiglie agiate s i riunivano in cricche, s i davano no­ mignoli e frequentavano cortigiane per le quali spesso litigavano, e na­ turalmente anche in questo caso non mancava la violenza; ma tutto ciò veniva liquidato come un passatempo generazionale tipico di quella jeu­ nesse dorée. E così la strategia difensiva di Conone consisteva nel soste­ nere che l'accusatore apparteneva proprio a questo ambiente di giovani dediti all'alcol e alla violenza; se non che ora, probabilmente perché in­ capace di perdere, aveva portato in tribunale le burle del suo rivale (Dem. 54, 13 s . ) . Naturalmente la violenza n o n era confinata nell'ambito dei giovani ricchi. Poiché mancava del tutto un apparato poliziesco e giudiziario, nel sistema legale attico spettava ai partecipanti al processo spostare il verdetto nell'ambito dell'iniziativa privata: lo stato non aveva ufficiali giudiziari che eseguissero le sentenze. Era quindi inevitabile che anche in questo caso si arrivasse all'uso della violenza. Un trierarca, cioè un cittadino ateniese benestante cui spettava per un anno l'incarico (la co­ siddetta " liturgia") di curare a sue spese l'allestimento e il funziona30

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mento di una trireme (una nave da guerra ) , aveva accusato il suo pre­ decessore in questo ruolo, un certo Teofemo, di aver allestito la sua tri­ reme in modo insufficiente. Fu l'accusatore stesso che dovette eseguire il verdetto emesso contro Teofemo, e quando entrò in casa sua per ri­ cevere un pegno, scoppiò un acceso diverbio, a seguito del quale en­ trambi i litiganti si accusarono di lesioni personali. Teofemo ebbe la meglio, e gli fu assegnato un risarcimento di 1 . 100 dracme. Anche sta­ volta toccò a Teofemo far valere le proprie ragioni, e anche stavolta lo fece con la violenza: insieme ad alcuni amici piombò nella casa di cam­ pagna del suo avversario, dove si trovavano la moglie e i figli, e si im­ possessò del mobilio. Una vecchia nutrice che viveva in casa e oppose resistenza venne picchiata tanto duramente che morì poco dopo (Dem. 47, 18 ss. ; 49 ss. ) . I n campagna i litigi per l a proprietà d i terreni venivano portati avanti allo stesso modo: con la violenza. I due fratelli Tudippo ed Euti­ crate entrarono in lite per la divisione dei terreni ereditati ed Euticrate morì per le conseguenze delle percosse che Tudippo gli aveva inferto ( Iseo 9, 16 s . ) . In un altro caso l'ostilità fra vicini portò a distruggere di notte le vigne e gli alberi dell'avversario (Dem . 53, 15 s . ) . Tutte queste sono forme di violenza che si ritrovano quasi in ogni società agricola (anche nell'impero romano, come si vedrà) e che perciò non possono essere prese semplicemente come una prova che i proprietari terrieri del­ l'Attica fossero particolarmente inclini alla violenza. Insomma, in un certo senso la violenza ad Atene era un fatto quoti­ diano, ma per lo più non portava a spargimento di sangue, anche perché gli Ateniesi di regola non portavano con sé armi come spade. Lo storico Tucidide ( 1 , 5 s.) considera una caratteristica della civiltà greca del suo tempo proprio il fatto che gli uomini avevano smesso di girare armati al di fuori del tempo di guerra. In questo Atene era stata la prima, e soltan­ to in alcune zone arretrate della Grecia centrale, in cui il pericolo per strada era maggiore, si continuavano a portare armi in giro. Perciò le due parti in lotta nelle liti violente dovevano temere più che altro le pie­ tre, i randelli e anche i già ricordati pezzi di ceramica. Se ci si trovava per strada e ci si doveva difendere da un'aggressione, ci si difendeva con pie­ tre o simili, ma come abbiamo detto non con una spada (Dem. 54, 1 8 ) . Leggendo l e orazioni giudiziarie risulta chiara un'altra cosa. Per quanto ci si sentisse feriti nell'onore, non era considerato adeguato rea­ gire a ogni provocazione con la violenza. La virtù dell'autocontrollo, la sophrosyne, era tenuta in alta considerazione 6 . Aristone, che durante il 31

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO servizio militare era stato più volte aggredito e colpito dai figli di Cono­ ne, ammette che c'erano state inimicizie fra loro, ma non aveva mai vo­ luto portare in tribunale i suoi aggressori. La sua intenzione era stata piuttosto di guardarsi da loro in futuro ad Atene e di evitare qualsiasi contatto con gente simile (Dem . 54, 5 s . ) . Anche l'oratore del Contro Si­ mone di Lisia sostiene di essere stato ripetutamente ingiuriato dal suo avversario, ma di aver evitato di reagire affinché i cittadini non lo consi­ derassero ( Lys. 3, 5 ss. ) . Gli oratori giudiziari danno molto risalto al fatto d i aver rinunciato alla violenza quando aggrediti e di aver preferito portare il caso in tribu­ nale. In altre società antiche, al contrario, alle ingiurie e alla violenza si reagisce subito e quasi naturalmente con altra violenza, conferendo così al proprio onore un valore assoluto. Anche nell'Atene classica l'onore aveva il suo peso, ma un Ateniese, quando veniva aggredito o provoca­ to, manteneva un certo autocontrollo e cercava di punire l'aggressore e di vendicarsi in tribunale. La vendetta spontanea, le faide cruente e i duelli avevano ormai perso la loro legittimità nell'Atene del v secolo. Come più tardi nell'impero romano, la faida di sangue non è attestata, e la sua assenza conferisce a queste società un carattere relativamente paci­ fico anche quando capitavano episodi di violenza. Si capisce così perché Euticrate sul letto di morte abbia incaricato i suoi parenti soltanto di non lasciar avvicinare alla sua tomba suo fratello Tudippo, colpevole della sua morte, e i suoi discendenti, rinunciando così a una vendetta senza fine. E Astifilo, figlio di Euticrate, si accontentò di non scambiare più una parola con Conone, figlio di Tudippo (Iseo 9, 19 s . ) . Anche il procedimento giudiziario prometteva " vendetta" (timoria) e poteva restaurare l'onore della parte lesa, o almeno così credevano gli Ateniesi. Scegliendo di andare in tribunale, gli Ateniesi non rinunciava­ no affatto al proprio onore; piuttosto attuavano un'alternativa all'appli­ cazione della violenza spontanea, alternativa che manca in molte altre società antiche, in cui alla salvaguardia dell'onore personale viene dato un valore altissimo. Il diritto all'autodifesa, che nei casi estremi giustificava anche l'ucci­ sione dell'aggressore, non era posto in dubbio, ma la società si aspettava che le persone evitassero di far degenerare la violenza e che portassero il caso in tribunale. Questo funzionava per vari motivi : i cittadini, come abbiamo detto, avevano la sensazione di essere in parte vendicati e di ve­ dere ripristinato il proprio onore uscendo vincitori da un processo. Inoltre, riportando una vittoria, potevano ottenere anche altri vantaggi, 32

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soprattutto di natura finanziaria, per mezzo di risarcimenti e multe. Così ad Atene un senso dell'onore molto spiccato si legava con metodi assolutamente civili di risoluzione dei contrasti.

Omicidi Nel diritto ateniese l'omicidio era trattato in un certo senso come una questione di famiglia 7 • Il perseguimento di questo reato spettava ai pa­ renti dell'ucciso, che erano obbligati, almeno dal punto vista morale, a portare in tribunale il fatto (per mezzo della dike phonou, " causa per omicidio " ) . Che una causa per omicidio fosse intentata da un estraneo era quantomeno insolito; sappiamo di cause promosse da figli, padri, fratelli; se l'ucciso era uno schiavo, di solito l'iniziativa spettava al pro­ prietario. Gli studiosi discutono se esistesse anche una graphe phonou, cioè una causa pubblica intentabile da qualunque cittadino. In partico­ lari condizioni, tuttavia, gli assassini potevano essere sottoposti ad apa­ goge, almeno quando venivano sorpresi in luoghi pubblici , potevano cioè essere arrestati e portati di fronte alla commissione degli Undici da qualunque cittadino; seguiva quindi il processo davanti al tribunale po­ polare. Almeno in questo caso era possibile portare in tribunale l' omici­ da anche quando i parenti avevano mancato di avviare il procedimento legale. Le cause per omicidio erano presentate a uno dei nove magistrati supremi ateniesi, i cosiddetti " arconti " , in particolare all'arconte basi­ leus, che intimava all'imputato di tenersi lontano da determinati luoghi, cioè i templi, il mercato e le corti giudiziarie oltre che dai riti sacri, fin­ ché il processo era pendente. Lo scopo di questa ordinanza era impedire che chi si era macchiato di un reato di sangue contaminasse ritualmente altri Ateniesi attraverso il contatto. Il tribunale di sangue più importante ad Atene era il già ricordato Areopago, dove si discutevano le cause per omicidio volontario, cioè premeditato. Quello involontario era materia del Palladio , che si occu­ pava anche dell'uccisione di schiavi, meteci (gli stranieri residenti ad Atene o in Attica) e xenoi (stranieri che si trovavano sul territorio attico solo da poco tempo) . La corte che si riuniva al Delfinio, un tempio degli dèi Apollo e Artemide, decideva per i casi in cui l'imputato non negasse il fatto ma sostenesse che era conforme alla legge: un'uccisione giustifi­ cata era quella dell'adultero colto sul fatto o quella avvenuta inconsape33

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N DO ANTICO volmente in guerra o in un incidente sportivo. Entrambe le parti in cau­ sa parlavano due volte prima che il verdetto fosse emesso. Il colpevole, come abbiamo già visto, aveva il diritto di andare in esilio volontario prima del secondo giro di arringhe, sottraendosi così alla sentenza capi­ tale. Spesso vittima e colpevole erano parenti naturali o acquisiti . Ad esempio, un certo Diocle fu accusato di aver derubato la sua sorellastra per parte di madre dell'eredità, di aver fatto uccidere da uno schiavo il marito della seconda sorellastra e di aver fatto ricadere il sospetto dell'o­ micidio su sua sorella ( Iseo 8 , 41 ) . Sembra comunque che ad Atene, una società basata sulla schiavitù, non fosse frequente servirsi dell'aiuto di schiavi in attività criminali, e più in generale la criminalità degli schiavi non aveva neanche lontanamente la stessa importanza che ebbe nell'im­ pero romano. A Roma la schiavitù aveva più che raddoppiato le proprie dimensioni rispetto ad Atene: le grandi famiglie urbane avevano al loro servizio un centinaio di schiavi, mentre anche nelle più ricche famiglie ateniesi il numero di schiavi arrivava al massimo a dieci-venti. Così come le nostre fonti sono in generale troppo scarse per potere servire da base per determinare quantitativamente il tasso di criminalità nella Grecia antica, altrettanto poco sappiamo sui poco più di dieci omicidi a noi noti per poter stabilire il tasso di omicidi o dire qualcosa di preciso sulla provenienza sociale dei colpevoli. È comunque chiaro che in molti casi non ci fu premeditazione, e spesso fu un colpo sfortu­ nato assestato durante una rissa a provocare la morte. A causa delle scar­ se conoscenze mediche ad Atene (ma anche a Roma e in generale in tut­ te le società antiche ) , per le conseguenze delle ferite potevano morire molte persone che oggi si salverebbero senza problemi . Ma anche se fos­ simo in grado di determinare il tasso di omicidi, le cifre non sarebbero paragonabili con quelle di un stato industriale moderno.

Furto

Situazione giuridica Non ci è giunto nessun discorso pronunciato in un processo per furto. Poiché di solito questo reato era giudicato per direttissima dagli Undici e i litiganti volevano o potevano servirsi di scrittori professionisti meno spesso che per i processi per eredità, sebbene alcuni delitti contro la pro34

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prietà fossero giudicati dai tribunali di giurati, le fonti a nostra disposi­ zione non ci dicono nulla sulla frequenza di questo crimine. Se i ladri erano colti sul fatto o in possesso del bene sottratto, spesso venivano portati dalle vittime stesse per mezzo dell'apagoge davanti agli ufficiali competenti, cioè gli Undici, e se l'accusato rilasciava loro una confessione, poteva essere giustiziato subito. Questo però nel caso che si trattasse di un furto " grave" : il bene rubato doveva avere un valore supe­ riore alle cinquanta dracme oppure il furto doveva essere stato compiu­ to di notte (indipendentemente dal valore del bene sottratto) o in un luogo pubblico, ad esempio i ginnasi principali o i porti. Se l'accusato negava, aveva diritto a un regolare processo; ma se la colpa era evidente, probabilmente molti colpevoli rinunciavano alla difesa, e forse gli Un­ dici prendevano l'evidenza della colpa per un'ammissione di colpa 8• Un'alternativa al procedimento dell'apagoge, che era molesto e pote­ va essere pericoloso, era l'accusa davanti al tribunale popolare per mezzo della cosiddetta graphe klopes, " causa (pubblica) per furto " ; anche qui il risultato poteva (ma non doveva) essere la pena di morte. Come anche in altre graphai, i giurati dovevano decidere, una volta raggiunto il ver­ detto, fra la proposta di pena dell'accusa e quella della difesa. C'era poi la causa " privata" , la dike klopes, che diversamente dalla graphe poteva essere presentata esclusivamente dalla vittima; in caso di condanna, in­ combeva un risarcimento dei danni doppio. La dike klopes era l'unica forma a disposizione delle vittime di furti leggeri, cioè quelli commessi di giorno o non in un luogo pubblico per un valore inferiore alle cin­ quanta dracme. Ma a parte questo caso, risulta impossibile ricollegare fattispecie ben precise alle diverse forme di accusa. Spesso l'accusatore doveva decidere quale procedimento ritenesse opportuno: doveva avvia­ re la causa privata (dike klopes) e accontentarsi di un risarcimento mate­ riale (più multa) o voleva che il colpevole ci rimettesse la pelle con una apagoge o graphe? La maggior parte delle pene comminate per furto portavano con sé un'umiliazione pubblica. Ciò vale per la pena di morte, in particolare l'apotympanismos (p. 23) ma anche per la pena aggiuntiva della gogna pubblica (podokakke) . Anche l'apagoge era umiliante per i delinquenti, perché era eseguita pubblicamente dagli Undici, e possiamo immagina­ re che in questo caso i passanti non restassero indifferenti . Lo stato prendeva molto seriamente il furto: la minaccia della pena di morte e di altre pene che ferivano il colpevole nell'onore doveva fungere da deter­ rente. Non è possibile precisare quante cause per furto furono presenta35

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO te, quale fosse la percentuale delle condanne e quanti ladri furono giu­ stiziati; ma è chiaro che gli Ateniesi sentivano di non poter tenere sotto controllo il crimine contro la proprietà se non con questo sistema pena­ le così rigido.

Ilforto nella società ateniese Ad Atene, dunque, si dava grande importanza alla salvaguardia della pro­ prietà privata. È significativo anche il fatto che l'arconte eponimo (colui che fra i nove arconti dava il suo nome all'anno) doveva giurare che allo scadere del suo mandato ognuno avrebbe posseduto ciò che possedeva al momento del suo insediamento. Anche se talvolta gli autori di quel perio­ do parlano di un legame fra povertà e crimine contro la proprietà, non si può comunque notare nelle loro opere alcuna tendenza a giustificare o anche solo capire la criminalità. Nella commedia (Aristofane) la parola " ladro " è spesso usata come insulto; e secondo Platone il tipo umano che lui chiama " tirannico " tende al furto: ha sempre bisogno di denaro, e dopo aver dissipato la sua eredità in banchetti diventa un ladro, irrompe nelle case o di notte deruba i passanti dei vestiti, e non si vergogna nean­ che di rubare nei templi (Rep. 9, 574d). Non diverso il giudizio di Aristo­ tele: fra gli avidi (le persone che sono " sfrenate nel prendere" ) elenca gli attori, i ladri di vestiti e i rapinatori; per guadagnare sono anche pronti ad affrontare pericoli e disonore (Etica nicomachea 4, 1, 1121b 31-1122a 1 2 ) . Tutti questi autori concordano nello spiegare il comportamento del ladro con l'avidità; i ladri non godono di alcuna compassione e devono essere puniti duramente. In tribunale si ricorda spesso ai giurati che, se nei casi di furto motivati dal bisogno e dalla povertà non provano alcuna pietà, devono quindi condannare con la stessa durezza anche i ricchi (Dem. 21, 182; 24, 1 23 ) . A questo punto non stupisce più la durezza della punizione dei piccoli criminali (kakourgoi) , che potevano essere giustiziati senza in­ dugi dopo un processo per direttissima. Il diritto penale ateniese rimase inflessibile anche nel periodo della democrazia, soprattutto nei confronti degli strati più umili della popolazione: nella società ateniese non si mo­ strava la minima simpatia verso i ladri. Gli scrittori dell'epoca operano, come abbiamo già visto, con sche­ mi esplicativi molto semplici. Spesso considerano la povertà l'humus su cui cresce il comportamento criminale, inclusi i delitti contro la pro­ prietà 9 • Aristotele distingue due motivazioni per commettere crimini:

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LA CRI M I NALITÀ N E LL'ATE N E CLASS I CA

l'ambizione (philotimia) e il desiderio di possesso, l'avidità (philochre­ matia) . Nel caso dei criminali, si tratta nel primo caso dei ricchi o degli appartenenti alla élite politica, nel secondo per lo più di piccoli crimina­ li (kakourgoi, mikroponeroi) 1 0 • La distinzione fra criminalità dovuta alla povertà e criminalità moti­ vata dalla hybris dei ricchi e potenti era comune fra gli autori greci. In una delle commedie di Aristofane, le Ecclesiazuse (655 ss. ) , si svolge un dibattito fra Prassagora e Blepiro sulla proposta delle donne di abolire la proprietà privata e di introdurre la comunanza dei beni. Blepiro do­ manda come faranno i violenti, cioè gli ubriaconi che tra i fumi dell'al­ col hanno picchiato gli altri cittadini, a pagare le multe; Prassagora ri­ sponde che invece del denaro possono pagare in natura. I ladri, inclusi quelli di vestiti, non esisteranno più, perché tutto apparterrà agli altri; nessuno sarà spinto a rubare dalla necessità. Anche qui, insomma, si di­ stinguono i reati dei ricchi, che sono legati ai festini alcolici, da quelli dei poveri, che mirano alla proprietà. Alcuni rubavano per poter soddisfare i loro bisogni elementari di cibo e vestiti. Tra la refurtiva, i capi d'abbigliamento e i tessuti avevano un posto d'onore. Quando nelle fonti si parla di " poveri " che commet­ tono furti, però, dobbiamo liberarci dell'idea moderna di povertà. Come diceva un commediografo, quelli che di notte venivano aggrediti e restavano privi dei vestiti, il mattino dopo aspettavano al mercato vici­ no alle bancarelle di pesce: se vedevano un giovane povero comprare del pesce costoso, lo portavano subito in galera, cioè per mezzo dell'apagoge (Athen. 6, 227d-228b) . Con i presunti ladri, dunque, si faceva un processo breve; erano so­ prattutto i giovani a essere sospettati del furto. Per quanto i colpevoli fossero definiti " poveri " , il fatto che al mercato comprassero cibi raffi­ nati e non pane o verdure di poco prezzo mostra che il furto non era sta­ to commesso per sfuggire alla fame: il delinquente voleva piuttosto go­ dere di un certo tenore di vita che vedeva esibito dai suoi concittadini ricchi con lusso ostentato. In generale gli scrittori antichi chiamano " povere" non tanto le persone completamente indigenti, quanto tutti quelli che non sono in grado vivere una vita di agi e comodità con la rendita dei loro beni. A questo tipo di " poveri " , però, apparteneva la maggioranza della popolazione! I poveri non erano un gruppo sociale marginale, e la criminalità dovuta al bisogno non può quindi essere messa in rapporto con una " sottocultura criminale". Fino a che punto, allora, dobbiamo parlare dell'esistenza di una cri37

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO minalità contro la proprietà praticata in modo professionale? Atene e il Pireo, il florido porto della città, si trasformarono nel v e IV secolo nei centri commerciali di gran lunga più grandi di tutta la Grecia. Molti stra­ nieri si trasferirono ad Atene, e soprattutto al Pireo c'erano molte locan­ de, bordelli e locali analoghi difficili da tenere sotto controllo. Sembra però che non ci fosse troppa paura del crimine. Certo, poteva accadere di essere aggrediti di notte, o da attaccabrighe ubriachi o da rapinatori di strada. Citiamo un esempio tratto dalla commedia: Evelpide, invitato a una festa di famiglia, beve in città, vi dorme un po' e la mattina dopo si avvia verso casa, ma mentre cammina fuori città è colpito con una mazza da un «ladro di mantelli>> e gli viene rubato il mantello (Aristofane, Uccelli 493 ss. ) . Ma tutto sommato ad Atene si poteva camminare per strada sen­ za dover temere troppo di restare vittima di agguati a scopo di rapina. La maggior parte dei furti di cui sappiamo fu compiuta da ladri sin­ goli. Ci sono poche testimonianze dell'esistenza di bande di criminali, in particolare in campagna e soprattutto nella regione montuosa del Parnete, al confine fra Megara e la Beozia, ma non costituivano alcun pericolo per la sicurezza interna. Con la sua intensa economia rurale, l'Attica non presentava condizioni vantaggiose per la costituzione di bande di briganti: dominava la piccola conduzione agricola, e la mag­ gior parte delle regioni montuose era inglobata nell'organizzazione dei demoi (" distretti " ) . Gli schiavi fuggitivi di cui erano in gran parte com­ poste le bande di briganti dell'impero romano non trovavano alcun ap­ poggio nella campagna, e di solito cercavano di passare il confine. La so­ cietà ateniese del v e IV secolo era stabile, e l'individuo era legato a una stretta rete di rapporti familiari e territoriali; non esistevano punti d'ap­ poggio per la nascita di una sottocultura criminale 1 1 • Anche il poco che sappiamo dei ricettatori, che secondo il diritto ateniese erano puniti con la stessa severità dei ladri ( Lys. 29, n ) , non fa supporre l'esistenza di una fitta rete di criminalità organizzata.

Reati sessuali

Adulterio L'elemento fondante della società ateniese era lo oikos (plurale oikoi) , letteralmente la " casa" , cioè il nucleo familiare. Il suo capo, il kyrios, aveva una posizione molto forte, perché era l'unico a disporre dei beni

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familiari. Le donne, così come i minorenni, non avevano diritti politici; i loro interessi all'esterno erano rappresentati dal capo famiglia. In que­ sto modo il kyrios costituiva il collegamento tra il nucleo familiare e la comunità. La donna, finché viveva, era sottoposta alla kyrieia ( " signoria") di un parente stretto di sesso maschile; il kyrios della donna sposata era il marito. Di norma il kyrios era il capo del nucleo familiare in cui viveva la donna in questione; ogni cambio di oikos comportava quindi anche un cambio di kyrios. La dipendenza della donna da un kyrios maschile si manifesta anche nella tipica abitudine di non chiamare una donna in pubblico con il suo nome: nelle orazioni giudiziarie le donne sono nor­ malmente designate con perifrasi del tipo " moglie di X " , " sorella di Y" o " figlia di Z " . I l capo del nucleo familiare aveva il diritto d i uccidere chiunque si fosse unito con sua moglie o in rapporto extraconiugale con un'altra donna della famiglia, quindi anche con una figlia o una concubina. Re­ stava quindi impunita l'uccisione di qualunque uomo avesse compro­ messo con la seduzione l'onore di un membro femminile della casa e perciò dello stesso padrone di casa; l'idea di base era che la salvaguardia dell'integrità dell'oikos, della " casa " , fosse della massima importanza. Come sostengono i filosofi del IV secolo, era in gioco indirettamente an­ che la salvaguardia dello stato: secondo Aristotele la polis nasce dall'u­ nione di più oikoi, che ne costituiscono l'unità sociale fondante (Pol. 1 252a 25 ss. ) . I cittadini non avevano un loro posto nella polis come indi­ vidui, ma si definivano attraverso l'appartenenza a un oikos. L'onore di un uomo dipendeva anche dal retto comportamento dei membri della sua famiglia, e in questo erano soprattutto le donne a esse­ re tenute d'occhio. Che fossero sposate o no, ad Atene ci si aspettava da loro una condotta riservata, soprattutto nei contatti con gli uomini. Al­ l'uomo spettava proteggere l'integrità sessuale dei membri femminili della sua famiglia: l'onore della donna dipendeva dal saper badare alla propria castità, quello dell'uomo dal saper allontanare da un comporta­ mento sessuale sbagliato le donne affidategli. Delle donne si temeva la sessualità sfrenata, e si credeva che fosse possibile tenerla a bada solo nel­ la famiglia. L'adulterio 1 2 era considerato il crimine che più di ogni altro mette­ va a rischio l'integrità dell'oikos, perché in questo caso non era chiaro se il figlio partorito dalla donna, che un giorno avrebbe potuto continuare l'oikos, fosse un discendente e un erede legittimo del padrone di casa. I 39

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO figli legittimi potevano essere concepiti solo all'interno del matrimonio: questo era il vero fine dell'unione coniugale, e si capisce perché si desse tanta importanza alla pudicizia della donna. L'adulterio non riguardava solo il marito: salvaguardare la purezza della famiglia era una faccenda pubblica. Perciò l'adulterio era un delitto capitale. Il marito tradito poteva, come abbiamo detto, uccidere impunemente l'adultero colto sul fatto, imprigionarlo privatamente finché non fosse pronto a pagargli un ri­ scatto o maltrattarlo e umiliarlo in altro modo. Gli adulteri erano in un certo senso kakourgoi, cioè criminali comuni, e se colti in flagrante pote­ vano essere sottoposti alla apagoge e a un processo per direttissima da­ vanti alla commissione degli Un dici, che poteva anche condannarli a morte. Se il seduttore non era stato colto in flagrante, la causa poteva es­ sere istruita come graphe moicheias ( '' causa per adulterio " ) , che poteva ugualmente concludersi con una sentenza di condanna a morte. Per gli Ateniesi l'adultero era il principale colpevole, mentre la moglie infedele era punita meno duramente. Ma anche per lei l'adulterio non era privo di conseguenze, perché era cacciata di casa ed esclusa da tutte le cerimo­ nie religiose; una sanzione pesantissima che la trasformava in un'estra­ nea alla società ateniese. Invece un marito che aveva rapporti sessuali con una donna estra­ nea alla famiglia non era considerato un adultero, a meno che la sua amante non fosse anch'essa sposata. Questo rientrava nella logica alla base dell'intero sistema, per cui solo l'adulterio commesso da una don­ na sposata poteva far sorgere problemi riguardo alla legittimità dei figli. Gli uomini avevano rapporti con le loro schiave, e senza la minima re­ mora morale frequentavano i molti bordelli della città o avevano rap­ porti con le etère. Dall'uomo ci si aspettava solo un minimo di rispetto verso sua moglie, cioè non doveva portare in casa nessuna concubina o prostituta. Se è vero che la maggior parte dei doveri della donna riguardava la conduzione domestica, le donne non erano tuttavia una sorta di prigio­ niere della casa, come si è spesso supposto negli studi meno recenti ' 3 : all'interno del loro spazio agivano in modo largamente autonomo, e in esso di norma entravano in contatto con uomini estranei. Negli strati più umili della popolazione, dove si viveva in case piccole in stretto con­ tatto reciproco e la divisione ideale del lavoro (l'uomo a occuparsi degli affari esterni, la donna della conduzione della casa) non si realizzava 40

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troppo distintamente, dovevano esistere ancora più possibilità di stabili­ re contatti con uomini estranei. Soprattutto in queste occasioni nasceva la paura dell'adulterio tanto chiaramente descritta dagli autori del tempo, tra i quali Aristofane: il marito guarda sotto al letto alla ricerca di un adultero e vuole sapere da sua moglie dove è stata ( Tesmoforiazuse 397; 414 ss. ) . La descrizione di Aristofane, con tutte le esagerazioni comiche fìn troppo evidenti, non va considerata troppo realistica, ma è chiaro che nella società ateniese si faceva molta attenzione al reato di adulterio. Ciò risulta chiaro quando si riflette sulle strutture demografiche del­ l'Atene classica. I giovani dovevano aspettare parecchio tempo - spesso fìno ai trent'anni - prima di sposarsi; ma poiché le ragazze andavano spose già in età molto giovane, le donne sposate e le vedove erano quasi le uniche donne con cui si potesse avere una relazione, se non ci si vole­ va rivolgere alle prostitute. Ma per le giovani che dovevano vivere con un uomo considerevolmente più vecchio, l'adulterio era forse l'unica possibilità di conoscere la piena felicità amorosa.

Stupro Un altro delitto di ambito sessuale era lo stupro. Non sappiamo però con certezza come venisse perseguito. Non sembra che esistesse alcuna causa riservata a questo crimine, anche se lo si poteva perseguire nella forma di dike biaion, una causa che poteva essere intentata contro ogni tipo di comportamento violento. La punizione era sicuramente un'am­ menda in denaro, la cui entità era stabilita da una corte di giurati; il de­ naro andava al marito della donna violentata oppure, se la vittima non era sposata, a chi ne era padrone (kyrios) . Come si vede, ad Atene lo stu­ pro era perseguito meno severamente dell'adulterio, anche se non è pos­ sibile escludere del tutto che si potesse portare uno stupro in tribunale come hybris. In questo caso l'accusatore poteva arrivare a richiedere la pena di morte ' 4 .

Omosessualità L'omosessualità non era punibile in sé nella società ateniese, ma ciò non vuoi dire che fosse tollerata sempre e comunque o addirittura incorag­ giata ' 5 • Lo stupro di uomini o ragazzi liberi era sottoposto alle stesse 41

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO pene applicabili nel caso di una donna libera. Per proteggere i ragazzi dalla seduzione, inoltre, le scuole e gli edifici sportivi per ragazzi poteva­ no restare aperti solo nelle ore diurne. Anche la norma che il corego ('' maestro " ) di un coro di ragazzi dovesse avere più di quarant'anni na­ sceva dalla preoccupazione di proteggere i minorenni dai contatti ses­ suali indesiderati. La prostituzione maschile di cittadini ateniesi era proibita in quanto non compatibile con lo status di libero cittadino. Un'altra legge proibiva per principio il lenocinio, in modo da protegge­ re ogni ragazzo e donna di libera condizione. Un ateniese che si prosti­ tuiva o si era prostituito perdeva il diritto di partecipare alla politica at­ tiva; non poteva rivestire alcuna carica sacerdotale o politica e non gli era neanche permesso prendere parola nell'assemblea popolare o nel consiglio. Se si comportava diversamente (ma solo in questo caso) pote­ va essere portato in tribunale con una graphe hetaireseos e rischiava la pena di morte. Se qualcuno faceva prostituire il proprio fìglio, il fratello minore, il nipote o il pupillo, poteva subire la stessa denuncia, e lo stes­ so rischiava chi aveva pagato per andare con il ragazzo; nel caso peggiore l'autore poteva subire la pena di morte. Tanto erano severe le misure contro questo crimine, tanto sono rare le occasioni in cui il reato fu an­ che solo denunciato. Tuttavia, come mostra la legislazione, in alcuni casi le relazioni omosessuali erano considerate un pericolo per la polis, in particolare quando si cercava di sedurre ragazzi che assumevano regolar­ mente ruolo passivo in una relazione omosessuale - il che era considera­ to disonorevole - e comunque quando a prostituirsi e quindi a disono­ rarsi erano cittadini ateniesi.

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Perseguimento e punizione dei crimini nell'impero romano

La polizia nell'impero romano

Organi di polizia Nel I I e I secolo a.C. Roma era diventata una città di centinaia di mi­ gliaia di abitanti, il che aveva reso il mantenimento della tranquillità e dell'ordine un problema di dimensioni ben più ampie che nell'Atene del v e IV secolo 1 • I magistrati dotati di imperium, cioè i consoli e i pre­ tori, avevano ai loro ordini un certo numero di littori (ufficiali giudizia­ ri) , ma questo numero era ristretto e se qualcuno opponeva resistenza potevano non essere sufficienti. Perciò chi era incaricato della sicurezza, se voleva imporsi, non aveva altra scelta che fare ricorso a forze private: Cicerone, ad esempio, quando fu console nel 63 a.C. dovette fare largo uso di guardie proprie per debellare la congiura di Catilina. Nella Roma repubblicana agli Undici ateniesi corrispondevano grosso modo i tresviri capita/es. Questa carica fu introdotta all'incirca nel 290-287 a.C. , e nel corso del I I I secolo una !ex Papiria la trasformò in una carica elettiva. I tresviri soprintendevano alle prigioni statali e alle esecuzioni capitali; di notte controllavano soltanto che non divampasse­ ro incendi (compito per cui avevano a disposizione schiavi pubblici che funzionavano come un primitivo corpo di pompieri) ma tenevano d' oc­ chio anche i ladri e gli schiavi fuggitivi . Gli schiavi che si aggiravano in città di notte correvano il rischio di essere presi dai tresviri, frustati e in­ fine riportati ai loro proprietari, e la stessa pena corporale poteva capita­ re ai ladri . I tresviri dovevano insomma badare alla sicurezza della vita e della proprietà dei cittadini, ma non potevano contare sui mezzi di un moderno apparato di polizia. In periodi di crisi i loro compiti aumenta­ vano: nel 186 a.C., durante lo scandalo dei Baccanali, quando sotto la 43

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO copertura di cerimonie religiose furono organizzati o eseguiti molti cri­ mini comuni, ebbero il compito di disporre sentinelle in tutta la città che impedissero riunioni notturne e incendi. Un incarico simile si rese necessario nel 63 a.C. , quando Catilina e i suoi congiurati pianificarono l'eliminazione a Roma dei " magistrati minori " , tra cui forse rientravano anche i tresviri. Ma queste erano situazioni eccezionali: nulla prova che i tresviri potessero procedere contro criminali senza una denuncia, dato che non avevano una squadra di collaboratori che attuassero una pre­ venzione attiva del crimine. In età imperiale le condizioni ambientali per la lotta alla criminalità da parte dello stato cambiarono alquanto, e il risultato fu la graduale co­ struzione dell'amministrazione statale. Questo riguardò anche i compiti che oggi attribuiremmo alla polizia. Certo, nell'organizzare un corpo di polizia l'impero si fermò alla fase embrionale, se lo si misura in termini moderni 2 ; ma a Roma, per esempio, c'era un presidio stabile di truppe che assumevano anche funzioni di polizia. Queste truppe erano i vigiles (7 coorti) creati da Augusto nel 6 d.C., il cui compito principale era la prevenzione degli incendi. Ognuna delle sette coorti aveva la responsa­ bilità di due delle quattordici regioni in cui era suddivisa Roma; a capo del corpo c'era il praefectus vigilum, proveniente dalla classe dei cavalie­ ri. Ben presto i vigili furono reclutati fra gli strati più umili della popo­ lazione, per lo più fra gli schiavi liberati; al più tardi all'inizio del I I I se­ colo, tuttavia, i vigiles furono equiparati a normali soldati . A Roma il praefectus vigilum decideva su incendi, ladri, rapinatori e ricettatori, a meno che non si dovesse consegnare il colpevole al prefetto urbano per la gravità del crimine (Dig. 1, 1 5 , 3, 1 s . ) . Tra i compiti del praefectus vigi­ lum c'era anche la caccia agli schiavi fuggitivi . Ma il responsabile della repressione del crimine era soprattutto il prefetto urbano, a Roma e in un raggio di cento miglia, oltre il quale subentrava il prefetto del pretorio. Perciò le tre cohortes urbanae e i pre­ toriani alle dipendenze del prefetto urbano, la più alta carica civile a Roma, assumevano anche compiti di polizia, anche se la lotta contro la microcriminalità non era il loro primo e più importante compito. Le co­ hortes urbanae furono insediare a Roma da Augusto attorno al 13 a.C. ; in seguito se ne ebbe anche una a Lione e una a Cartagine. Anche la guar­ dia del corpo imperiale fu creata da Augusto, nel 27 o 26 a.C. , dapprima con nove coorti da cinquecento o mille uomini, ed era alle dipendenze di uno o due prefetti del pretorio. A partire da Tiberio (14-37 d.C.) i 44

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PERSEG U I M E NTO E P U N I Z I O N E N E L L ' I M P ERO ROMANO

pretoriani stazionavano in città sull'Esquilino; nei primi due secoli di vita il numero delle coorti oscillò. Costantino sciolse il corpo dei pretoriani dopo la battaglia di Ponte Milvio (312); alcuni decenni dopo lo stesso accadde alle cohortes urba­ nae, al posto delle quali fu istituito il corpo dei cosiddetti contuberna­ les 3 • Nella tarda antichità i compiti di polizia potevano essere assolti an­ che dagli officiales agli ordini del prefetto urbano. Anche le cohortes vigi­ lum smisero di esistere prima del 384 d.C., e a quel punto la prevenzione degli incendi e i compiti di polizia notturna furono assunti, a Roma e a Costantinopoli, dai collegiati o corporati, reclutati tra diversi corpi urba­ ni. Anche i corporati in periodi di crisi erano incaricati del ripristino del­ l'ordine pubblico: ad esempio, quando nel marzo 419 Eulalia, uno dei due candidati alla carica di vescovo di Roma, si rifiutò di eseguire l'ordi­ ne di lasciare la basilica Laterana e la città, il prefetto urbano Simmaco inviò non solo i suoi officiales, cioè i funzionari del suo o.lficium (" uffi­ cio " ) , ma anche i corporati. Ovviamente questo non implica che a Roma i corporati assumessero regolarmente incarichi di polizia. N o n siamo informati sul loro numero; forse era simile a quello di Costanti­ nopoli, dove erano circa 560. Anche se si considera che la popolazione di Roma calò fortemente dall'inizio del v secolo in poi, la differenza fra i settemila vigiles all'inizio e all'acme dell'impero e le centinaia di corpora­ ti tra IV e v secolo resta comunque eccessiva. Si potrebbe perciò essere tentati di ipotizzare che in seguito allo scioglimento della guardia pretoriana e delle coorti urbane a Roma re­ gnasse l'insicurezza per le strade. Ma non sembra proprio che le cose an­ dassero così: i pretoriani, infatti, non avevano incarichi di polizia nean­ che all'inizio dell'impero, perché avevano il compito di sedare i disordi­ ni di natura politica nella capitale e non di prevenire il crimine o dare la caccia ai criminali comuni. I Romani dovevano badare da sé a protegge­ re la propria persona e i propri beni da agguati criminali e a far arrestare i colpevoli, e da questo punto di vista non ci fu alcuna differenza tra i primi secoli dell'impero e quelli successivi. Poiché anche fuori Roma lo stato non si preoccupò mai di organiz­ zare un corpo di polizia, l'esercito assunse almeno in parte questo com­ pito. In Italia gli imperatori Augusto e Tiberio stabilirono le postazioni militari (stationes) che si occupavano dell'ordine pubblico nelle campa­ gne; nelle province questo compito rientrava nelle competenze del go­ vernatore e del suo personale. Stando alle parole del giurista Ulpiano, era dovere del buon governatore cacciare i criminali, i rapinatori, i ladri 45

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO e i rapitori e punirli nel modo opportuno. Sembrerebbe dunque che gli organi statali avessero un ruolo attivo nello scoprire i delitti, il che sa­ rebbe ben diverso dal semplice reagire alla denuncia di una vittima (Dig. 1, 18, 13, pr. ) , ma non ci si illuda: almeno nelle province interne dell'impero, i governatori non potevano contare su un personale suffi­ ciente. Plinio il Giovane, in qualità di governatore della provincia della Bitinia (Asia Minore) sotto Traiano (98-117), cercò di insediare un cen­ turione con compiti di polizia nella città di Giuliopoli, ma l'imperatore rifiutò, perché avrebbe creato un precedente e le altre città della provin­ cia gli avrebbero sottoposto la stessa richiesta. Anche il numero di mili­ tari assegnati dallo stato al mantenimento dell'ordine era molto limita­ to, e le città dovevano ricorrere in gran parte alle proprie forze ( Plinio, Epist. 10, 77 s . ) . Malgrado il catalogo di doveri sopra citato, nella lotta alla criminalità il governatore e i suoi dipendenti potevano avere solo un ruolo molto limitato. Tra i soldati assegnati a compiti di polizia dobbiamo citare in primo luogo gli stationarii, poliziotti militari collocati in punti strategici della provincia, che dipendevano dal governatore. I soldati che prestavano servizio in una statio di solito avevano il grado di sottufficiali, in qualità di cosiddetti beneficiarii. Paragonabili agli stationarii erano i burgarii, soldati di stanza in burgi fortificati (mentre le stationes non erano neces­ sariamente fortificate) 4• Nell'ambito delle competenze degli stationarii o beneficiarii c'era anche la lotta al crimine, ma fino a un certo punto. Tra il II e il I I I seco­ lo lo scrittore cristiano T ertulliano afferma che in tutte le province sono di stanza soldati (militaris statio) per dare caccia ai rapinatori (Apologeti­ co 2, 8 ) ; dallo stesso autore sappiamo che gli organi statali, tra cui i bene­ fìciarii, redigevano liste di individui pericolosi e sospetti in modo da rendere più veloci gli arresti, all'occorrenza, dei cristiani, dei ladri da ba­ gni pubblici, dei giocatori d'azzardo e dei ruffiani (De foga 13, 3 ) . Du­ rante le persecuzioni dei cristiani del I I I secolo spesso erano proprio i soldati che arrestavano i cristiani, li interrogavano e soprintendevano alla loro esecuzione. I compiti degli stationarii erano però molto disparati e non poteva­ no ridursi alla lotta contro la criminalità e contro la piaga dei briganti. L'ipotesi diffusa nella bibliografia precedente, per cui dalla seconda me­ tà del II secolo il compito principale dei beneficiarii sarebbe stato con­ trastare il presunto aumento della criminalità di strada e di quella in bande, è contraddetta fra l'altro dal fatto che gran parte delle stazioni di

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beneficiarii rinvenute si trova su strade di grande comunicazione o nelle loro vicinanze, ma non sembra di poter discernere né una distribuzione regolare in base alla rete stradale né una collocazione sistematica sugli snodi stradali 5 • Inoltre le stazioni di sorveglianza, le stationes, erano oc­ cupate in modo insufficiente, spesso da un solo beneficiarius, cosicché nella lotta alle bande di briganti non potevano essere di alcuna utilità; il loro personale, poi, cambiava di frequente, cosicché i singoli beneficiarii non potevano arrivare a conoscere bene la regione in cui stazionavano. Le stationes, dunque, non erano paragonabili né alla polizia stradale né ai carabinieri, e probabilmente, più che contrastare fisicamente le bande di criminali, si limitavano a ricevere le denunce. Il numero di fonti a nostra disposizione per l'Egitto è relativamente buono. I beneficiarii o i centurioni, gli ufficiali dell'esercito romano che avevano compiti simili ai beneficiarii, ricevevano le denunce e forse eser­ citavano anche una giurisdizione poliziesca di base 6• Non si può perciò dire che i militari di stanza in questa regione avessero assunto l'intera gamma di compiti che in uno stato moderno spettano alla polizia. Tut­ tavia i beneficiarii compivano funzioni importanti. Le percentuali delle richieste indirizzate loro sono illuminanti : circa metà riguardano delitti, un quarto soprusi di soldati o comportamenti illegali di funzionari; i de­ litti contro la proprietà ammontano a un terzo dei casi, e tra questi i fur­ ti costituiscono il 15o/o. La natura dei crimini denunciati è dunque deci­ samente variegata; lo stesso vale per l'estrazione sociale di coloro che chiedevano aiuto (petentes) , dato che il ricorso ai centurioni e ai benefi­ ciarii non era affatto limitato alle persone di alto rango sociale. Sarebbe dunque sbagliato applicare indiscriminatamente modelli moderni al­ l'antichità. La popolazione locale poteva certo preferire risolvere i con­ trasti con vie informali, ma non c'era alcuna remora a coinvolgere gli organi statali già nella fase iniziale della lite. Il conflitto normativa fra cultura statale e cultura locale, che si verifica spesso in altre società, si ri­ trova raramente nella cultura romana. I soldati con incarichi polizieschi nel senso più ampio del termine avevano una funzione importante al­ l'interno del sistema governativo romano, perché costituivano il legame fra popolazione e stato. La fonti talmudiche e i papiri recentemente pubblicati dell'Appadana, la regione siriana a metà del corso dell'Eufra­ te, mostrano che si può immaginare la stessa situazione anche in altre regioni, almeno nelle province di confine e nelle zone meno popolate dell'impero, in cui l'esercito aveva compiti che in quelle più urbanizzate erano eseguiti dai magistrati urbani 7 • 47

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO Nella tarda antichità le possibilità di combattere la criminalità mi­ gliorarono ancora nel complesso. Le province furono notevolmente ri­ dotte di dimensioni, e così i governatori poterono provvedere meglio alla quiete e all'ordine con il personale a loro disposizione (ojficiales o apparitores) su un territorio più piccolo. Ora le fonti parlano più spesso dell'impiego di " soldati " in ambito poliziesco, generalmente intenden­ do con questa parola non militari comuni appartenenti all'esercito ma officiales alle dipendenze del governatore. Certo, secondo i parametri moderni l'impero romano risulta amministrato in modo insufficiente anche nella tarda antichità, ma nel complesso i governatori riuscirono meglio nel compito di mantenere la quiete pubblica nelle province con i loro officiales e stationarii in collegamento con gli organi statali. Solo in situazioni eccezionali si fece ricorso per la lotta alla criminalità comune a soldati regolari, che nella tarda antichità stazionavano in numero mol­ to maggiore che nei primi secoli dell'impero anche nelle province in­ terne. Poiché l'organico a disposizione del governatore per compiti di po­ lizia era comunque limitato - il che resta vero per la tarda antichità come per i primi secoli dell'impero -, il perseguimento dei crimini ri­ mase in gran parte affidato alle autorità urbane per tutta l'età imperiale. Le leggi prevedevano la loro collaborazione nel ricevere le denunce e nel dare la caccia ai colpevoli, e ci si aspettava soprattutto un certo impegno da parte degli ufficiali urbani e dei membri dei collegi urbani, i decurio­ ni o i curiali. Sappiamo che i compiti di polizia erano affidati a molti tipi di uffi­ ciali urbani, che qui non possono essere descritti tutti nel dettaglio. La carica di irenarca, attestata solo nelle province orientali dell'impero, di regola durava un anno; nei primi secoli dell'impero nella provincia del­ l'Asia gli irenarchi erano nominati dopo aver consultato il governatore. Uno dei loro compiti era dare la caccia ai rapinatori, il che comportava non pochi pericoli; se gli irenarchi prendevano un criminale, ad esem­ pio un rapinatore, conducevano un'inchiesta e interrogavano il prigio­ niero su complici e conniventi per poter arrivare a prendere anche que­ sti. Gli arrestati dovevano essere consegnati al governatore provinciale (Dig. 48 , 3, 6 ) . In un romanzo di età imperiale troviamo un esempio: in Cilicia (sud-est dell'Asia Minore) una banda di briganti viene assalita dall'irenarca e dai suoi uomini; la maggior parte degli arrestati è uccisa, mentre i sopravvissuti (a parte il capo che scappa) sono portati a Tarso dall'irenarca, che li mette personalmente in prigione per n uove indagini

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(Senofonte Efesio 2 , 13). Dagli irenarchi dipendevano miliziani armati alla leggera, reclutati soprattutto fra gli abitanti più giovani della città e che spesso avevano il titolo di " diogmiti " . Almeno per l'Egitto cono­ sciamo anche altri tipi di ufficiali attivi in compiti di polizia a livello lo­ cale 8• Tutti questi ufficiali erano accomunati dal fatto di prestare servizio senza remunerazione (come " liturgia") e per un periodo limitato di tempo, spesso per un anno. Provenivano dalla classe più alta (honoratio­ res) delle città o dei villaggi, e assumere questa funzione, così come altre, era un servizio obbligatorio da espletare per la comunità, da cui si pote­ va essere dispensati solo adducendo motivi molto fondati. Gli ufficiali dunque non erano affatto professionisti il cui obiettivo nella vita fosse la lotta al crimine, né avevano tempo di diventare esperti nel loro compi­ to, perché erano sostituiti già dopo un anno. Tutto ciò non aiutava a professionalizzare la lotta al crimine. Poiché gli ufficiali in carica appar­ tenevano alla classe abbiente della popolazione, non possiamo neanche escludere che trattassero gli abitanti più poveri dei villaggi e delle città peggio di quelli ricchi. Sono ben attestati anche gli abusi e la corruzione degli organi di po­ lizia nei villaggi e nelle città. All'inizio del v secolo il malcostume era di­ ventato tanto intollerabile che Teodosio I I (408-450) ritenne necessario abolire del tutto la carica di irenarca nelle province orientali dell'impe­ ro; al suo posto, i cittadini più ricchi dovevano provvedere tutti insieme alla quiete pubblica nel territorio cittadino ( Cod. Theod. 12, 14, 1 ) . Affi­ dare ai ricchi la lotta alla criminalità senza riservarle alcuno spazio istitu­ zionale era ovviamente una soluzione insostenibile; perciò non sorpren­ de leggere nelle fonti che già qualche anno dopo la carica di irenarca fu ripristinata.

Ricerca dei criminali Come dobbiamo valutare i risultati ottenuti dalle amministrazioni cit­ tadine e da quella statale nella lotta alla criminalità ? Il giudizio non do­ vrebbe essere del tutto negativo. Giovanni Crisostomo in una predica descrive la situazione nella tarda antichità: le locande sulle vie di grande comunicazione servono alla sicurezza dei viaggiatori, cui contribuisce anche un gran numero di persone sempre presenti per le strade. Ci sono anche le milizie locali, e i governanti (l'autore intende i curiali) delle 49

LA CRI M I NALITÀ NEL M O N DO ANTI CO singole città scelgono persone particolarmente forti il cui compito è ba­ dare alla sicurezza nelle strade. Regolarmente ogni miglio ci sono posti di sorveglianza che di notte sono occupati da sentinelle; i viaggiatori vi trovano protezione dagli agguati dei briganti (Ad Stagirium 2, 6 ) . Anche s e è ammissibile u n certo scetticismo vero u n quadro tanto idilliaco, durante l'impero si può constatare un progresso rispetto ad al­ tre epoche, come la repubblica o la Grecia classica, almeno da un punto di vista: gli organi statali, urbani o locali ora prestano molto più aiuto alle vittime nella cattura dei colpevoli. Nelle province la caccia ai crimi­ nali fuggitivi spettava al governatore, che fondamentalmente la affidava in gran parte alle autorità cittadine. Era severamente proibito processare in contumacia qualcuno che fosse accusato di un delitto capitale, e il go­ vernatore doveva pubblicamente dichiarare ricercati gli accusati; a que­ sti si intimava per mezzo di un editto di comparire di fronte al giudice e gli ufficiali cittadini erano portati a conoscenza per via epistolare dei nomi dei ricercati. Se dopo un anno l'accusato non si era presentato spontaneamente in tribunale, i suoi beni potevano essere confiscati 9 • Le competenze dei governatori, naturalmente, erano confinate alla loro provincia. I criminali cercavano di approfittarne: potevano infatti passare da una provincia all'altra senza grande difficoltà, mentre i go­ vernatori non avevano facoltà di operare al di fuori della propria giuri­ sdizione. Era perciò importante che collaborassero in armonia fra loro, ma non sempre era così. Giustiniano ( 527-565) affrontò più volte que­ sto problema nella sua legislazione: se un colpevole fuggiva in un'altra provincia, il governatore doveva scrivere al collega della provincia in cui il ricercato si era nascosto che lo doveva catturare e consegnare a lui. In caso di negligenza il governatore e il suo ufficio rischiavano una multa di un chilo e mezzo di oro. Se il governatore era riconosciuto colpevole di corruzione, cioè se aveva preso soldi dall'accusato per non catturarlo o non consegnarlo alla provincia in cui aveva commesso il crimine, doveva essere rimosso dall'incarico e mandato in esilio (Nov. !ust. 134, 5 ) . Malgrado tutti gli sforzi d i organizzare la caccia a i colpevoli anche al di là dei confini delle province, probabilmente la fuga in un'altra pro­ vincia per sottrarsi alla punizione spesso doveva avere successo. In parti­ colare i criminali provenienti alle classi abbienti non avevano alcuna dif­ ficoltà a finanziare la propria fuga e a stabilirsi in un altro luogo. Un cer­ to Dinamio, che aveva dovuto fuggire da Bordeaux, sua città d'origine, con l'accusa di adulterio, si stabilì nella città spagnola di Hilerda ( Leri-

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da) dove visse sotto falso nome, si risposò e si guadagnò da vivere come professore di retorica; più tardi tornò nella sua città senza essere mini­ mamente disturbato per l'adulterio. Spesso doveva solo passare un po' di tempo perché ci si dimenticasse della cosa e i colpevoli potessero tor­ nare a casa senza dover temere più un processo per il futuro (Ausonio, Comm. prof Burdig. 23, 3 ss. ) . Questo non fu u n caso isolato. Dopo che nel 391 ad Alessandria scoppiarono disordini violenti fra pagani e cristiani con numerosi morti e feriti, molti pagani fuggirono da Alessandria e cercarono rifugio in al­ tre città. Fra loro c'erano anche i grammatici Elladio e Ammonio, con cui aveva studiato a Costantinopoli lo storico della Chiesa Socrate. Dopo che si allontanarono da Alessandria e la situazione si calmò, sicu­ ramente non dovettero più temere alcuna sanzione e anzi fecero carriera nella loro professione (Socr., Hist. ecc!. 5, 1 6 ). È istruttivo anche questo caso: l'eunuco Eutropio, che ebbe grande influenza durante il primo anno di regno di Arcadia (395-408 ) , voleva eliminare il generale Ti masio e si servì a questo scopo dell'opera di Bar­ go, originario di Laodicea. Questi, essendo stato riconosciuto colpevole nella sua città di alcuni delitti, era fuggito a Sardi, dove Timasio lo notò, lo fece entrare nella propria cerchia, gli affidò un incarico militare e lo portò con sé a Costantinopoli. Ma in precedenza a Bargo era stato proibito di soggiornare anche a Costantinopoli per alcuni delitti e, seb­ bene le autorità disapprovassero il suo ritorno nella capitale, non pote­ rono farci nulla per la protezione di cui godeva. E anche se Bargo si era fatto condannare sia a Laodicea sia a Costantinopoli, era riuscito senza grandi difficoltà a fuggire da Laodicea a Sardi e dove si rifece un'esisten­ za, nonché a tornare più tardi a Costantinopoli (Zos. 5, 1 9 , 1 s . ) Ma n o n dobbiamo essere ingiusti e parlare solo dei difetti. Tutto sommato, nell'impero romano le autorità non avevano i mezzi tecnolo­ gici che oggi facilitano il lavoro alla polizia (impronte digitali, foto se­ gnaletiche e molto altro ) . Ciò che stupisce non è tanto che alcuni delin­ quenti riuscirono a sottrarsi al controllo degli organi statali, quanto che lo stato si impegnò totalmente nella caccia ai criminali e non lasciò più tutte le incombenze all'iniziativa privata delle vittime. Questo impegno dello stato era particolarmente evidente nella cac­ cia agli schiavi fuggitivi: agli ufficiali cittadini erano comunicati il nome e soprattutto i segni distintivi degli schiavi fuggiti, poi si diffondevano volantini segnaletici che venivano appesi ai muri degli edifici pubblici. Se qualcuno trovava uno schiavo fuggitivo, era obbligato a consegnarlo 51

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO alle autorità cittadine, che però avevano anche il compito di trovarli da sé, tenerli in custodia e sorvegliarli con cura, cioè metterli in catene (Dig. 11, 4, 1, 1 ss. ; 6 ss. ) . Naturalmente il proprietario poteva prendere l'iniziativa che gli sembrava più opportuna per riprendere il fuggiasco, ma le autorità come i soldati con compiti di polizia (gli stationarii) aiu­ tavano sempre più spesso i proprietari nella ricerca. Anche se c'era biso­ gno di setacciare un terreno o una casa altrui, le vittime ora si facevano assistere dagli organi statali, e si metteva a loro disposizione un servitore o uno schiavo statale, un servus publicus (Dig. 11, 4, 3 ) . Si possono fare l e stesse osservazioni riguardo alla ricerca dei crimi­ nali in generale. Durante l'impero, per esempio, le autorità statali, citta­ dine o locali erano chiamate, se necessario, a eseguire una perquisizione in modo completamente diverso da quanto avveniva nell'Atene classica, dove un privato per far valere i propri diritti si introduceva senz'altro in casa altrui con la violenza. In una storia inventata ma probabilmente re­ alistica, un giardiniere, che rischia la pena di morte per essersi scontrato con un soldato, cerca riparo da un amico per due o tre giorni per sot­ trarsi al processo. Prima i soldati, commilitoni della vittima, lo cercano di propria iniziativa; ma quando un vicino denuncia il latitante e il suo complice, vengono coinvolti i funzionari cittadini con la preghiera di catturare il ricercato. I funzionari fanno perquisire la casa dai loro uomi­ ni e dai littori. Come si vede, qui si uniscono l'iniziativa privata della vittima e la collaborazione degli organi cittadini nella ricerca e soprat­ tutto nella cattura (Apul . , Met. 9, 40, 5 s . ; 41, 1 s . ) . Non si sottolineerà mai abbastanza il significato di questa novità. Nella Grecia classica, come pure nell'impero romano, molte violenze nascevano proprio dal tentativo di far valere i propri diritti da sé, e fino alla tarda antichità l'ambito in cui si incoraggiava l'iniziativa privata della vittima era molto ampio. Ma in seguito questo ambito si ridusse sempre di più, e di conse­ guenza gli organi statali divennero sempre più attivi nell'aiutare i citta­ dini a soddisfare le loro richieste di giustizia. Le forze dell'ordine, almeno a livello cittadino e locale, erano per lo più costituite da dilettanti, cioè da cittadini che ricoprivano l'incarico per un tempo limitato e a titolo gratuito e che per di più non potevano contare su nessun rinforzo se non qualche agente o schiavo pubblico; è naturale dunque che non si mostrassero sempre all'altezza dei loro com­ piti. Spesso non avevano l'autorità necessaria per condurre le indagini, come vediamo in alcuni papiri egiziani: quando un certo H orion, nel cui villaggio è stato compiuto un furto di notte, si mette alla ricerca del

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ladro con alcuni poliziotti locali, un abitante di cui H orion sospetta non li fa entrare a casa sua (SB I I I , 685 2 ); in un altro caso, un uomo vittima di un furto si mette a cercare la refurtiva con il capo del villaggio e quan­ do vanno a casa del sospettato si arriva addirittura alle mani (P. Mich. v , 230 ) . La presenza di pubblici ufficiali, dunque, non sempre impediva che si arrivasse alla violenza; possiamo comunque ipotizzare che senza di loro le risse e le violenze si sarebbero verificate molto più spesso. I problemi nascevano soprattutto quando gli ufficiali competenti uscivano dalla loro giurisdizione, come vediamo nel caso seguente. Un uomo a cui erano stati rubati due asini parte da Karanis con l'archepho­ dos, un poliziotto di villaggio, alla ricerca del ladro, le cui tracce li porta­ no nella località vicina di Bakchias; qui però i due vengono non solo catturati e tenuti prigionieri, ma anche picchiati e derubati dagli ufficia­ li del luogo (P. Mich. V I , 421 ) . L'arrivo dell'archephodos da Karanis nel territorio di Bakchias, forse, fu visto dai colleghi locali come un'invasio­ ne del loro territorio. In caso di dubbio, la solidarietà degli abitanti del villaggio andava più ai compaesani che alla vittima del furto, e gli organi di polizia cittadini e locali, se uscivano dalla loro ristretta giurisdizione, non avevano alcun mezzo di coercizione per imporsi. Probabilmente, quindi, non era sempre facile trovare candidati adatti per gli incarichi assunti a turno come liturgia dagli honoratiores dei villaggi e delle città. Si può capire quanto queste funzioni potessero essere gravose dalla petizione di due ufficiali di polizia di Ossirinco (Egitto) nel I V secolo, a cui è chiesto di arrestare dei ricercati: poiché non hanno aiutanti, sono abbandonati a se stessi e hanno rischiato spes­ so la vita; perciò aspettano che si mandino loro rinforzi o che li si sollevi dalla sorveglianza della città e dall'arresto dei ricercati (P. Oxy. V I I , 103J). Tuttavia, come abbiamo già ricordato, non bisogna osservare sol­ tanto i difetti e le mancanze, anzi: sebbene in età imperiale l'iniziativa privata, come vedremo anche più avanti, fosse ancora notevolmente in­ coraggiata quando si doveva indagare su un reato o catturare un crimi­ nale, in questo periodo si nota, rispetto alle città-stato greche o alla Roma repubblicana, un grandissimo impegno da parte degli organi sta­ tali. Con quale speranza di successo potevano sottrarsi al processo legale i criminali o le persone che erano state riconosciute colpevoli di un de­ litto ? Di sicuro, come abbiamo già visto, gli appartenenti alla classe pri­ vilegiata, se veramente potevano aspettarsi un processo, avevano la pos53

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO sibilità di cambiare sede e ricostruirsi una vita da qualche altra parte. Gli Antiocheni delle classi più umili perseguitati dalle autorità fuggivano spesso nelle zone montuose circostanti dove avevano sede anche le ban­ de di briganti, che forse in parte reclutavano proprio le persone che fug­ givano dalla giustizia; altri criminali cercavano di scomparire nelle gran­ di città o si rifugiavano in un monastero, soluzione spesso adottata nella tarda antichità. Malgrado ciò, non bisogna sottovalutare i successi della giustizia penale. Nello scoprire i crimini e nel perseguire i colpevoli la giustizia si ba­ sava in gran parte sulle delazioni e sulle denunce dei privati, una proce­ dura cui non si può negare una certa efficacia. Ognuno sapeva di essere osservato dai suoi concittadini e regolava di conseguenza le sue azioni comportandosi conformemente al senso civico. Se poi veniva commesso un crimine, non era difficile individuare il colpevole negli ambiti più ri­ stretti, come i villaggi e le piccole città, senza che ci fosse bisogno di un apparato di polizia imponente. Le società contadine sono piccole realtà foce to foce in cui tutti conoscono tutti, e da questo punto di vista nei villaggi e nelle cittadine non c'è differenza fra l'ambito mediterraneo moderno, il Medioevo europeo o la prima età moderna e l'antichità. Il comportamento del singolo si regola costantemente sullo sguardo del vicino, del compaesano o del concittadino. Neanche le grandi città erano " anonime " . Le chiacchiere e i pette­ golezzi si diffondevano molto rapidamente anche a Roma, Antiochia e Alessandria. I bagni, le botteghe dei medici e le officine degli artigiani erano luoghi dove ci si incontrava e si scambiavano le novità, cioè i pet­ tegolezzi; lo stesso vale per le taverne e le locande, che avevano sempre numerosi clienti. A diffonderli erano soprattutto gli schiavi, che erano informati al meglio su tutti i segreti di famiglia e talvolta erano accusati di vendicarsi delle botte prese sparlando dei padroni ( I uv. 9, 102- 1 1 9 ) . L e donne avevano un circuito tutto loro ed erano altrettanto famose per la pratica del pettegolezzo: nessuno che avesse una relazione extraconiu­ gale, ad esempio, poteva essere sicuro di sottrarsi alle loro chiacchiere ( I uv. 6, 402 ss. ) . Nella società romana questo controllo sociale informa­ le aveva un'importanza difficilmente immaginabile per noi, e forse è per questo che la percentuale di crimini scoperti non era poi così bassa mal­ grado la mancanza di un vero corpo di polizia. È sicuramente vero che gli schiavi fuggitivi e altre figure losche pre­ ferivano dirigersi verso le metropoli, ma non bisogna illudersi troppo sulle possibilità di sparire al loro interno: se persino gli abitanti di 54

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Antiochia su cui pendeva un processo fuggivano nei recessi delle monta­ gne, evidentemente pensavano di non essere al riparo dall'occhio delle autorità statali o cittadine anche in una metropoli come Antiochia. La grande importanza data alla suddivisione in quartieri delle città più grandi dell'impero faceva sì che nessuno potesse scomparire in una folla anonima. Gli abitanti dei quartieri e delle strade si conoscevano : e come poteva sperare di restare nascosto un cittadino ricercato per un crimine o uno straniero rifugiatosi lì ? Si capisce dunque perché lo stato romano potesse sopravvivere con un apparato di polizia risibile anche in città con centinaia di migliaia di abitanti come Roma o Costantinopoli, sen­ za che la violenza e la criminalità crescessero in modo incontrollabile. Anche nelle metropoli la caccia ai criminali comuni era probabilmente più efficiente di quanto si potrebbe immaginare di primo acchito. A Costantinopoli, per esempio, la caccia aveva sempre successo, come si capisce da accenni sparsi nelle fonti letterarie, quando era condotta con la dovuta precisione; e probabilmente lo stesso accadeva anche nelle al­ tre grandi città ( Proc., Are. 9, 35 ss. ) . S e anche nelle grandi città come Roma, Antiochia o Costantinopoli era impossibile restare anonimi, è facile immaginare la situazione nelle città più piccole e nei villaggi. Un criminale doveva sempre aspettarsi denunce dall'ambito sociale attorno a lui (vicini, schiavi) . Perciò a man­ tenere l'ordine pubblico nei territori dell'impero non era solo e soprat­ tutto l'apparato statale, ma specialmente l'ordinamento interno dei vil­ laggi e delle cittadine. Molti dovevano rinunciare fin dall'inizio a com­ mettere reati per la sensazione che i vicini esercitassero un controllo co­ stante del loro comportamento, e per di più questo controllo faceva sì che i criminali fossero portati in tribunale molto rapidamente. Ben po­ chi abitanti delle città e cittadine antiche avevano rapporti tanto buoni con i vicini da sentirsi al riparo da delazioni o denunce da parte loro. I padroni dovevano guardarsi soprattutto dagli schiavi, che rappre­ sentavano un rischio per chiunque avesse problemi con la giustizia. È vero che le denunce degli schiavi contro i loro padroni di solito non erano accolte e che non potevano essere interrogati contro di loro, ma questa norma di base era trascurata molto spesso. Spesso la cattura e l'interroga­ torio sotto tortura degli schiavi fornivano le informazioni necessarie: ad esempio in Apuleio gli ufficiali cittadini fanno imprigionare come com­ plice uno schiavo, il cui padrone è sospettato di un reato (la rapina e l'o­ micidio di colui che lo ha ospitato) , per sottoporlo il giorno dopo alla tor­ tura e all'interrogatorio contro il suo padrone (Met. 7, 2, 2 ) . 55

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N DO ANTICO Naturalmente si praticava l'interrogatorio anche di criminali già catturati per individuare complici e conniventi. La caccia ai colpevoli si basava in gran parte sulle rivelazioni di criminali già incarcerati e talvol­ ta già condannati 10 : ad esempio, secondo un decreto imperiale del 389 i sospettati di magia dovevano essere consegnati alle autorità pubbliche affinché fossero interrogati e potessero rivelare i nomi dei complici ( Cod. Theod. 9, 16, u ) . I criminali che confessavano e denunciavano i loro complici potevano sicuramente sperare in una pena più mite.

Persecuzione penale e controllo sociale: un risultato intermedio Ad Atene e in generale nelle poleis ( " città-stato " ) greche e anche nella Roma repubblicana vigeva il principio dell'iniziativa privata. Spesso era­ no le vittime a dover trovare i colpevoli, catturarli e consegnarli alle au­ torità. Ma poiché si doveva avviare un procedimento giudiziario, si cer­ cava di porre un freno a una giustizia privata incontrollata. Gli sviluppi di epoca imperiale sono più interessanti. Come funzionavano la lotta alla criminalità e la caccia ai colpevoli in un impero di grandi dimensio­ ni in cui regnava una vivace mobilità regionale ? Quello che vediamo è un complesso intreccio di organismi polizie­ schi statali, cittadini e locali . Se in molte società arcaiche esisteva una di­ cotomia fra dimensione statale e dimensione locale (lo stato aveva diffi­ coltà a far valere la propria autorità nei villaggi; la popolazione rurale considerava gli organi statali come intrusi e nemici e non era disposta a collaborare con loro ) , in età imperiale la situazione sembra essere stata diversa. Gli " ufficiali di polizia" cittadini erano soprattutto honoratiores locali che avevano possedimenti terrieri in campagna, e gran parte della popolazione rurale era legata a loro da rapporti di clientela; questo faci­ litava la caccia ai criminali. D'altra parte anche i villaggi avevano i loro organismi che sapevano affrontare un tasso " normale" di violenza e cri­ minalità. Soltanto per le situazioni più gravi, come la criminalità di gruppo, dovevano intervenire le autorità statali. Questa compresenza di organismi statali, cittadini e locali garantiva un tasso relativamente alto di sicurezza interna; comunque, i successi delle polizie statali e cittadine non devono essere stati pochi. Se si riusciva a risolvere un buon numero di delitti, evidentemente il controllo sociale dei vicini doveva avere un ruolo importante nella solu­ zione. N elle societàfoce tofoce antiche i delinquenti non avevano alcuna

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probabilità di operare a lungo senza essere notati dagli altri. Ciò riduce­ va la tendenza a commettere crimini e aumentava le probabilità di sco­ prire quelli già commessi. Il tasso di criminalità delle realtà locali anti­ che non può essere paragonato con quello delle metropoli moderne (probabilmente era più basso) , e la percentuale dei casi chiariti non era tanto basso quanto potremmo dedurre in un primo momento dalla mancanza di un grande apparato di polizia. Sicuramente non esisteva una prevenzione sistematica del crimine. La violenza e i delitti erano considerati in parte impossibili da sradicare, e la lotta contro le diverse forme di illegalità non era certo considerata il primo compito dello stato. Ma appena la criminalità oltrepassava certi limiti, lo stato dispiegava i suoi mezzi con grande durezza. Quando nei primi secoli dell'impero per la prima volta furono mandate unità arma­ te nelle campagne che fungevano da nascondiglio alle bande di briganti, i malviventi non poterono resistere ( I uv. 3, 320 ss. ) . Lo scrittore cristia­ no Giovanni Crisostomo in una predica paragona i demoni con i capi delle masnade; così come questi cadono subito nel terrore appena vedo­ no le armi imperiali anche solo da lontano, i demoni hanno paura quando vedono i corpi dei martiri e si danno alla fuga (De Maccabaeis 1 , 1 ) . Insomma, alla criminalità s i reagiva con u n sistema integrato: perse­ guire la maggior parte dei criminali spettava alla parte lesa, che all' oc­ correnza si faceva aiutare dagli organi di polizia del villaggio o della cit­ tà. Anche la lotta contro la criminalità organizzata delle bande di bri­ ganti era per lo più appannaggio degli organi cittadini, e appena questi non si mostravano in grado di condurla, giungeva il rinforzo degli orga­ ni statali (militari) . Perciò, se da un lato l'impero romano può essere ri­ tenuto amministrato in modo inadeguato secondo parametri moderni, dall'altro non bisogna osservarne solo i difetti, anzi: si può dire che il si­ stema poliziesco romano era estremamente versatile e che era piena­ mente in grado di condurre la lotta alla criminalità nel modo in cui gli antichi lo ritenevano giusto e necessario .

Iniziativa privata E così, anche se l'impero romano non può assolutamente essere definito uno " stato di polizia", in età imperiale esisteva tuttavia una rete relativa­ mente fitta di " organi di polizia" a livello statale, cittadino e locale. L'i­ niziativa e la giustizia privata mantenevano comunque la loro importan57

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO za, come abbiamo già fatto notare; e come nell'Atene classica, la lotta al crimine era ancora affidata in gran parte all'iniziativa privata. La mag­ gior parte dei processi penali richiedeva una denuncia da parte della vit­ tima o dei parenti più stretti, e anche quando si trattava di arrestare il colpevole o anche solo di trovarlo, spesso le vittime dovevano contare su se stesse. Vedremo però che all'iniziativa dei privati furono posti nel corso dell'età imperiale dei limiti che nell'Atene classica o anche nella Roma repubblicana non si erano mai visti, un netto passo in avanti ver­ so l'istituzione di un monopolio statale della forza. Ma nella repubblica non si era ancora arrivati a tanto; il sistema del­ l'iniziativa privata che abbiamo visto in forma analoga nell'Atene classi­ ca non era ancora in discussione. In uno stato che non aveva alcun siste­ ma di polizia l'iniziativa comunitaria era del tutto in usuale 1 1 • Secondo il diritto romano arcaico, era consentito uccidere impunemente un ladro colto in flagrante di notte, mentre di giorno o quando il ladro si difen­ deva con le armi la vittima doveva chiedere aiuto ai vicini (endoplorare) . La richiesta ai vicini (quiritatio) per ottenere aiuto e soccorso è un moti­ vo ricorrente nella commedia romana, soprattutto in Plauto ( I I secolo a.C. ) . L'usanza rimase anche nella tarda repubblica. Cicerone afferma in un'orazione giudiziaria del 54 a.C. che la scellerata Clodia ha voluto atti­ rare in trappola un emissario del suo assistito, Celio, facendogli scivolare in tasca un veleno e chiamando poi i vicini per mettere in cattiva luce Celio (Cic. , Pro Caelio 6 5 ) . E quando il rapace governatore Verre invia un gruppo di schiavi armati per sottrarre con la forza alla città di Agri­ gento di notte una statua di Ercole, i custodi del tempio chiamano gli Agrigentini che scacciano a sassate gli schiavi di Verre. Più tardi gli uo­ mini di Verre compiono lo stesso assalto contro un altro tempio; stavol­ ta i guardiani danno un segnale con la tromba, al che la gente accorre dai campi e scaccia la masnada (Cic. , In Verrem, actio secunda 4, 93 ss. ) . Anche i n età imperiale non c'era alcuna possibilità d i chiamare i " poliziotti " se un criminale, ad esempio un ladro, veniva colto in fla­ grante: ci si aspettava che prima di tutti fosse la vittima stessa a prendere il delinquente. Se ne trovano n umerosissimi indizi nelle fonti letterarie e giuridiche. Basterà un esempio tratto da un romanzo di età imperiale: il protagonista Clitofonte, che sospetta Tersandro di adulterio, è ma­ scherato come la moglie di Tersandro e cerca di lasciare le sue stanze, ma viene preso dall'uomo e portato per il mercato tra gli insulti ( " adul­ tero " , " ladro " ) fino al carcere cittadino, dove viene messo in ceppi (Achille Tazio 6, 5 ) . La faccenda non resta solo fra il presunto criminale

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e la sua vittima: i sonori insulti di Tersandro fanno sì che tutta la popo­ lazione accorra. Possiamo immaginare che gli spettatori di una scena si­ mile non rimanessero imparziali ma che si schierassero; perciò l'iniziati­ va privata, con la sua ostentata pubblicità, conteneva anche un elemen­ to di giustizia popolare. Anche presso i Romani invocare i vicini quando per esempio un la­ dro entrava in casa serviva innanzi tutto ad avere testimoni in vista di un eventuale procedimento giudiziario. Ma da loro ci si aspettava anche un sostegno attivo, cosa che accadde fino alla tarda antichità. In una fonte cristiana leggiamo il caso di un vecchio eremita che fu attaccato dai bri­ ganti e chiamò aiuto; i vicini ebbero la meglio sui ladri che furono por­ tati davanti al governatore della città e incarcerati (Apophthegmata pa­ trum, Poimen 90 [ 46] ) . Costantino il Grande (306-337) minacciò di pene severe le vergini che si facevano rapire per ottenere il matrimonio. Persino se venivano rapite con la forza avevano la loro parte di punizione, perché avrebbero potuto difendersi e farsi notare con urla ( Cod. Theod. 9, 24, 1, 2 ) . Nelle città e nei villaggi le case erano poste fittamente vicine, perciò si poteva facilmente chiedere aiuto in caso di bisogno; certo, non c'era alcun ob­ bligo legale di soccorso, perciò spesso i vicini si tiravano indietro se c'era un vero pericolo di morte, come si lamentano alcuni autori dei primi se­ coli dopo Cristo (Apul. , Met. 4, 10, 4) . Forse questa forma di soccorso fra vicini perse importanza in età imperiale anche per un altro motivo: nelle case dei ricchi e anche dei meno ricchi c'era un gran numero di schiavi, perciò proprio le persone che avevano qualcosa da perdere era­ no in grado di proteggere i propri averi dai criminali provenienti dall'e­ sterno. Spesso la prima cosa da fare per individuare il colpevole era il lavoro di indagine, perché lo stato non si sentiva chiamato ad agire in questa fase. I derubati che non erano riusciti a fermare il ladro prendevano tut­ te le misure immaginabili per riavere i loro beni. Si promettevano per mezzo di araldi ricompense per la cattura del malvivente; e se non ave­ vano successo, le vittime disperate si servivano anche di pratiche magi­ che per riuscire a scovare il ladro, né si tralasciava di consultare gli ora­ coli. In questi casi i ciarlatani e gli imbroglioni avevano la possibilità di arricchirsi: ad esempio il falso profeta Alessandro nel I I secolo fondò un oracolo in Paflagonia (Asia Minore) e fece annunciare fin nei paesi più lontani che l'oracolo ( Luciano, Alessandro 24) .

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LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO Naturalmente gli indovini, gli interpreti di sogni e gli astrologi non potevano sostituire un corpo di polizia, e probabilmente nella maggior parte dei casi si limitavano a indicare come colpevoli persone di cui ave­ vano saputo, magari parlando con la vittima, che i rapporti con la parte lesa erano tesi già in precedenza. Spesso venivano accusate persone che non c'entravano niente, e a quel punto era necessario impedire aberra­ zioni: se gli astrologi o altri indovini avevano indicato come ladro un in­ nocente, secondo il parere del giurista Ulpiano potevano essere portati in tribunale (Dig. 47, 10, 15, 13). Tuttavia, poiché molte vittime avevano a disposizione mezzi limitati per cercare ladri o altri criminali, non stu­ pisce che la magia in situazioni simili venisse usata ancora nella tarda antichità cristiana persino da chierici e vescovi: ad esempio il vescovo Sofronio di T ella (v secolo d.C. ) , deposto per le sue convinzioni nesto­ riane, fu accusato fra l'altro di aver dato la caccia a un ladro con pratiche divinatorie pagane 1 2 • I difetti del sistema dell'iniziativa privata sono visibili. Un uomo fa­ coltoso poteva intraprendere una caccia al criminale in grande stile, mentre un cittadino povero non poteva. Conosciamo molto bene le ini­ ziative dispiegate dai ricchi quando un loro schiavo fuggiva: coinvolge­ vano amici e magistrati in province anche lontane che potessero dare una mano nelle ricerche, ingaggiavano cacciatori di schiavi professioni­ sti (fogitivarii) , insomma non lasciavano nulla di intentato per rimette­ re le mani sui propri schiavi 13, mentre tutte queste possibilità erano pre­ cluse ai meno abbienti. Ciò vale anche per la ricerca dei criminali: un ricco poteva offrire ricompense, mentre un povero spesso poteva solo farsi fare per qualche moneta una tavoletta di piombo in cui si maledi­ ceva il ladro e si invocava l'aiuto degli dei. Di regola gli organi statali non si attivavano da soli neanche per i de­ litti più gravi come l'omicidio. Spettava in primo luogo ai familiari della vittima organizzare le indagini. Cicerone descrive molto chiaramente in un'orazione giudiziaria un caso avvenuto a Roma negli anni settanta del 1 secolo a.C. : Asuvio, un giovane benestante di Larino, si trovava sotto l'influenza negativa di Avilio, un delinquente incallito. Oppianico, un altro che aveva sulla coscienza una lunga lista di crimini, si mise in com­ butta con Avilio e fece uccidere Asuvio a Roma, dopo essersi nominato suo erede falsificandone il testamento. Ben presto Asuvio risultò disper­ so, e in questa situazione furono i suoi liberti e alcuni amici di Larino che organizzarono le ricerche. Risultò che Asuvio, nell'ultimo giorno in cui era stato visto vivo, era stato insieme ad Avilio, che perciò, a quanto 6o

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pare, fu portato a forza dagli uomini di Asuvio davanti al triumvir capi­ talis competente, un uomo di nome Quinto Manlio, dove rilasciò una confessione, sebbene, come nota Cicerone, non esistessero indizi chiari : evidentemente Avilio aveva subito delle intimidazioni. S ubito dopo la confessione di Avilio le autorità presero l'iniziativa: Manlio convocò in tribunale anche il secondo sospettato principale, Oppianico (Pro Cluen­ tio 36 ss. ) . Perciò i familiari o gli amici dell'ucciso non dovevano solo compiere gli accertamenti e le indagini preliminari, ma anche portare in tribunale il sospettato. Chi apparteneva agli strati più poveri e deboli della società, ovviamente, era nettamente svantaggiato: come poteva an­ che solo pensare di portare in tribunale un potenziale assassino che pote­ va costituire un pericolo per lui anche in futuro ? Anche in età imperiale erano innanzitutto i familiari della vittima che dovevano affrontare il lavoro d'indagine necessario a chiarire un omicidio, come nel caso di un cavaliere che sparì durante un viaggio in Italia, per cui il figlio dovette condurre le indagini (Plin., Epist. 6, 25) . Secondo i l diritto romano gli eredi e i parenti stretti erano esplicitamen­ te obbligati a indagare sul fatto e quindi anche a far luce sul colpevole, altrimenti perdevano il diritto all'eredità. Le indagini erano comunque facilitate dal fatto che nei villaggi e nelle cittadine tutti conoscevano tut­ ti, perciò si individuavano i sospetti molto velocemente anche in assen­ za di testimoni oculari. Quello che si richiedeva alle vittime di un crimine, cioè la cattura del colpevole o la sua ricerca, non era sempre privo di pericoli. Alcuni omicidi si verificavano perché i criminali, essendo stati colti sul fatto, cercavano di sottrarsi alla cattura e al rischio del processo che ne conse­ guiva ricorrendo alla violenza. Anche le iniziative destinate alla cattura, fossero esse condotte dai singoli o da gruppi di soldati, avevano una cer­ ta dose di rischio. Una parte non piccola degli scontri violenti verificati­ si nei villaggi egiziani nacque dalle richieste di restituzione della refurti­ va; e se in questi casi ci si scambiavano solo percosse, è pur vero che si trattava di ladri non professionisti ma di vicini dei derubati, cioè perso­ ne che loro conoscevano direttamente. Ancora più pericoloso era andare a caccia di briganti o ladri di bestiame organizzati in bande armate. L'a­ strologo Firmico Materno ( I v secolo), ad esempio, prevede per quelli nati sotto certe costellazioni una carriera criminale, distinguendo fra il «brigante di campagna, che si sporcherà di sangue la mano rapace in re­ cessi isolati>> , i > (trad. E. Barelli ) . Dunque nelle strade di città s i correvano i pericoli p i ù seri per l a vita, e n o n sappiamo fi n o a che punto l'illuminazione notturna e le sen­ tinelle fossero in grado di contrastarli. Le guardie notturne di città in­ tervenivano comunque in modo drastico, spesso sulla base di semplici sospetti: in una fonte ebraica leggiamo della cattura di un forestiero che era giunto di notte in una città della Palestina ed era stato aggredito dal­ le guardie notturne, che lo volevano gettare in carcere ' 3 • Oltre a ciò, l'abuso di alcol era in un certo senso un problema tipico delle classi più basse. Le case offrivano spesso poche attrattive; le taverne e le osterie, il cui numero era notevole nelle città di età imperiale, funge­ vano da centri di comunicazione '4• Qui si incontravano soprattutto persone dedite all'alcol, e per la plebs urbana questi posti erano luoghi di 93

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N DO ANTI CO socialità e avevano perciò una funzione importante. Gli scrittori di età imperiale, che per lo più provengono dai ceti alti, mostrano ovviamente poca simpatia per i frequentatori delle taverne, che per loro sono nulla­ facenti che ammazzano il tempo (Sen . , Prov. 5, 4) . Ovvio: dopo aver sperperato tutti i loro averi, è inevitabile che poi si diano a varie attività criminali (Aug., De catechizandis rudibus 16, 25, 7 ss. ) . Questi erano i pregiudizi dei colti e dei ricchi, che avevano scarsa comprensione per le forme della socialità delle classi umili. Resta comunque vero che nelle taverne si litigava e ci si azzuffava molto. I clienti, spesso ubriachi, erano pronti a tuffarsi in una rissa per un nonnulla. Nel romanzo di Petronio (I secolo d.C.) viene descritta una zuffa di questo tipo: il taverniere ac­ cusa gli ospiti di non voler pagare il conto, e scoppia subito un tafferu­ glio generale cui prendono parte anche gli altri clienti (Petronio 95 s . ) . L e bettole, dunque, erano luoghi d a cui le persone perbene s i tenevano lontane; i proprietari avevano una cattiva fama, e fra il I I e I I I secolo in alcune città finirono persino nelle liste delle persone indesiderate accan­ to a ladri, ruffiani e giocatori d'azzardo (Tert . , De fuga 1 3 , 3 ) . L e locande erano u n ambiente in cui l a violenza e l a criminalità tro­ vavano terreno fertile. Un prefetto urbano del IV secolo d.C. stabilì ora­ ri di apertura per le taverne a Roma, il che sollevò molte proteste; inol­ tre la loro frequentazione doveva essere tassativamente proibita alle clas­ si elevate (Amm. 28, 4, 3 ss. ) . Forse questa misura aveva anche uno sco­ po poliziesco: evitare che le violenze e i reati commessi tra i fumi dell'al­ col sfuggissero al controllo. Sembra comunque che nelle città della Pale­ stina nel I I I -IV secolo d.C. la distribuzione di alcol nelle taverne fosse proibita per questo motivo dopo l'orario di chiusura '5; è invece dubbio se anche le misure di alcuni imperatori del I secolo che prevedevano il divieto di vendere cibi cotti nelle osterie avessero lo stesso scopo. In questo caso, sarebbe stato certamente più sensato il controllo della me­ scita dell'alcol '6• Alla cattiva fama delle taverne contribuiva il fatto che spesso gli av­ ventori ingannassero il tempo con il gioco d'azzardo. Le autorità cerca­ rono di porre un freno a questo fenomeno ormai fuori controllo, e il motivo furono probabilmente le violenze che spesso lo accompagnava­ no (Dig. 1 1 , 5, 1; 1 1 , 5, 2 ) . Ma le misure repressive non posero alcun freno al gusto di molti cittadini per il gioco d'azzardo: nella tarda antichità gli autori cristiani si scagliano spesso contro l'entusiasmo con cui gran par­ te dei parrocchiani si dedica ai dadi; e persino un gran numero di chieri94

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO ci, come sappiamo tra l'altro da una legge dell'imperatore Giustiniano, indulgeva a questo passatempo (Nov. Iust. 123, 10, 1 ) . Non stupisce che l e bettole fossero frequentate anche d a criminali di professione. Nelle taverne della città di Roma, se dobbiamo credere al poeta Giovenale (r secolo d.C. ) , si incontrava gentaglia come marinai, assassini, ladri e schiavi fuggitivi . Quando nei romanzi di età imperiale, il cui tema preferito accanto alle storie d'amore sono le bande di brigan­ ti, i capibanda riuniscono i loro uomini, li trovano sempre nelle taverne e nei bordelli 17• Forse si tratta di un cliché letterario, perché i romanzi antichi non volevano rispecchiare la realtà; ma nella Siria tardoantica la caccia ai briganti e ai loro complici prendeva di mira anche persone che avevano alzato il gomito nelle caverne e nelle locande con i briganti ( Lib . , Or. 45, 6). Ovviamente non è possibile determinare quante caver­ ne si fossero specializzate in questa losca clientela. Anche se nelle osterie si incontravano soprattutto persone semplici e talvolta anche criminali di professione e briganti, non sembra che questi luoghi siano stati co­ m unque il fulcro di una sottocultura criminale come lo furono spesso all'inizio dell'età moderna nelle città d'Europa. La loro clientela rappre­ sentava piuttosto uno spaccato di diversi strati della popolazione, benin­ teso tranne le classi alte, a meno che non fossero in cerca di un diverti­ mento a buon mercato. In molte locande e osterie si potevano anche comprare i favori delle prostitute, e la differenza fra questi luoghi e i bordelli spesso era molto tenue. I Romani avevano accolto molti aspetti dalla cultura greca, fra cui i simposi, frequentati soprattutto dai giovanotti, in cui si incontra­ vano anche prostitute, e proprio le rivalità fra i giovani per ottenere i loro favori sfociavano in liti violente a causa degli eccessi alcolici . La ge­ losia che porta a picchiare la persona amata, a strapparle i vestiti e a ti­ rade i capelli è un tema ricorrente dell'elegia romana d'amore; e se non si è accolti in casa, si sfondano le porte 18• Questi non sono solo luoghi comuni della commedia o dell'elegia d'amore. Durante la repubblica, ad esempio, un edile portò in tribunale una prostituta perché lei lo ave­ va colpito con una pietra: recatosi a casa di lei di notte dopo un ban­ chetto e avendo chiesto di entrare, quando lei lo aveva respinto lui aveva cercato di entrare con la violenza, al che la donna si era difesa con una pietra. Il comportamento dell'edile corrisponde con sufficiente precisio­ ne a quello dei ricchi Ateniesi, come abbiamo visto in precedenza (Cel­ lio 4, 14) . 95

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO In età imperiale il giurista Ulpiano discute il caso di un innamorato che era entrato con la forza in casa di una prostituta. Essendo i ladri riu­ sciti a entrare dopo di lui per la porta aperta e avendo derubato la pro­ stituta, non si poteva sporgere accusa di furto contro l'uomo, se non era in combutta con i ladri (Dig. 47, 2, 39) . Anche nell'ambito della prostituzione, dunque, nasceva la violenza, provocata soprattutto dalla gelosia e spesso in concomitanza con un ec­ cessivo consumo di alcol. Il legame fra prostituzione e criminalità è però diverso da quello delle nostre metropoli: poiché non esistevano restri­ zioni legislative alla prostituzione e la visita al bordello non suscitava al­ cuna critica moralistica (a parte nella tarda antichità cristiana), non c'era neanche motivo di criminalizzare l'intero ambiente. Fra prostitu­ zione e criminalità organizzata non c'era alcun legame, o se c'era, era molto indiretto. Abbiamo così conosciuto in generale il contesto in cui trovavano luogo molti scontri violenti nelle città dell'impero romano. Da un certo punto di vista la violenza era qualcosa di quotidiano, ma a differenza che nelle nostre metropoli essa non si concentrava in luoghi marginali, ma accadeva anche e soprattutto nel centro della città (mercato, grandi strade, bagni e terme) . Nulla fa pensare che fosse limitata ai cittadini poveri, anzi era un comportamento che riguardava anche i membri del­ le classi agiate, come il cavaliere citato in precedenza che aveva picchiato il visitatore di un bagno pubblico . Gli scrittori antichi consideravano la plebs irrequieta e manesca, in­ teressata solo al teatro e al circo e a passare tutto il giorno nelle taverne, pronta ad andare per strada al minimo pretesto. Particolarmente violen­ ti erano considerati gli abitanti delle grandi città, Roma, Alessandria, Antiochia e nella tarda antichità anche Costantinopoli. Ma bisogna prendere queste affermazioni con cautela, perché gli scrittori antichi, provenienti per lo più dal ceto agiato, non avevano la minima compren­ sione per i problemi dei semplici cittadini, e nelle loro descrizioni della vita della plebs preferivano farsi guidare più dagli stereotipi letterari che dall'osservazione diretta. Ad Alessandria sono attestate non oltre venti esplosioni di violenza collettiva in più di duecentocinquanta anni (30 a.C.-235 d.C. ) , e in questi casi la violenza non fu mai strutturale, ma do­ vuta alla situazione contingente e sempre spiegabile con occasioni preci­ se 19• Le cose stavano in modo molto simile nelle altre metropoli. Con poche eccezioni, le rivolte della plebs urbana non comportarono spargi­ mento di sangue, e di solito le dimostrazioni finivano la sera del giorno

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO in cui erano iniziate, trascinandosi solo di rado per un periodo di tempo più lungo. Nel complesso non abbiamo l'impressione che la popolazione urba­ na più umile fosse particolarmente propensa alla violenza. Creava disor­ dini quando si trattava di difendere ciò cui credeva di avere diritto, so­ prattutto un approvvigionamento di cereali regolamentato. In confron­ to al popolino delle altre città dei secoli passati, come Parigi o Londra al­ l'inizio dell'età moderna, la popolazione delle città dell'impero romano non può dunque essere definita particolarmente propensa alla violenza.

Violenza rurale Le società contadine dei secoli passati sono di solito considerate piutto­ sto inclini alla violenza. Negli studi socioantropologici e neostorici sulla violenza rurale vengono spesso sottolineati alcuni aspetti: i contadini sviluppano una forte resistenza a ogni forma di autorità statale; i tribu­ nali vengono chiamati in causa di rado e per lo più solo a uno stadio molto avanzato del conflitto; la maggior parte dei delitti in ambito rura­ le resta impunita; la società contadina si contrappone al diritto e agli uf­ ficiali dello stato; nei villaggi l'amministrazione centrale è assente; prima di cercare aiuto presso la giustizia, si pratica largamente l'illegalità. Una delle caratteristiche più tipiche delle società contadine è il con­ trasto ricorrente fra cultura della comunità locale e regole e norme del resto della società e dello stato. Questo contrasto, legato alla frattura fra città e campagna, fra contadini da un lato e possidenti ed élite che risie­ dono in città dall'altro, porta a un'altra netta opposizione: quella degli abitanti dei villaggi contro i rappresentanti del diritto statale. In effetti le tensioni all'interno di un villaggio, come pure tra gli stessi paesani, sono talvolta molto forti. Le faide familiari e le vendette, che a volte durano per più generazioni, capitano molto spesso, perché nelle società in cui i legami familiari sono forti e la giustizia statale debo­ le, la punizione di un'ingiustizia subita è dovuta in gran parte all'inizia­ tiva della famiglia. In molte società contadine, poi, sono caratteristici gli scontri violenti e cruenti fra i contadini e i rappresentanti dei padroni. Inoltre in aperta campagna le bande di briganti rendono pericolose le strade. Che cosa significhi questa violenza è indicato dagli studi sulla Si­ cilia rurale del X I X e xx secolo, dove la violenza era onnipresente: fra il 1916 e il 1966 in un villaggio di 2 .000-2. 500 abitanti sono attestati 93 97

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO omicidi, e in un altro centro di circa 1 . 500 abitanti fra il 1918 e il 1956 gli omicidi sono stati 49 20• Ma questo modello di base caratteristico di altre società contadine è valido anche per l'impero romano ? Partiamo dal presupposto che anche nei villaggi antichi la violenza fosse un modo per regolare i conflitti. Ma i conflitti fra vicini si trascinavano per più generazioni in modo violento o veniva preso in considerazione il ricorso ai tribunali statali o ad arbi­ tri ? Si può constatare la stessa distanza fra società contadina e norme statali che si nota in altre società agrarie ?

Conflitti all'interno dei villaggi Nei villaggi come pure nelle città del­ l'impero romano gli scontri si verificavano soprattutto fra persone che avevano i contatti sociali più stretti, ad esempio fra vicini. Certo, nei vil­ laggi si era indotti a collaborare reciprocamente, ma poiché le risorse economiche della campagna erano alquanto limitate, ne conseguiva che anche qui le tensioni erano forti, e le tensioni rimaste irrisolte troppo a lungo generavano violenza. Spesso si cercava di colpire il vicino con cui si era in conflitto nelle sue fonti di sussistenza: il raccolto e il bestiame. Ne troviamo esempi nei contesti più disparati. Ad esempio, a un povero contadino di un villaggio tardoantico di notte fu distrutto il raccolto, e l'uomo rischiò di finire in miseria; ma il monaco Simeone riuscì a sco­ prire i colpevoli, tre uomini che evidentemente risiedevano nel villaggio ( Vita Symeonis Stylitis 39 [sir. ] ) . Atti violenti come quelli descritti nella storia citata si riflettono non solo nelle opere agiografiche, che a causa delle loro finalità narrative vanno prese con cautela, ma anche nelle fon­ ti giuridiche. Secondo il volere di Diocleziano, con la !ex Aquilia (legge che regolava il risarcimento danni in caso di lesioni fisiche e danneggia­ mento dei beni) un possessore di bestiame può richiedere un risarci­ mento doppio se le sue pecore sono state rinchiuse a forza e sono morte di fame o sono state uccise. Evidentemente in questo caso si voleva dan­ neggiare un nemico nella sua proprietà, perché la punizione scattava per il danneggiamento dei beni, non del furto di bestiame ( Cod. Iust. 3, 35, 5 ) ; allo stesso modo, spesso di notte si abbattevano gli alberi da frutto o si distruggevano le vigne del contadino nemico ( Pau! . , Sent. 5, 20, 6; Virgilio, Ecloghe 3, 10 s . ) . I papiri c i fanno immaginare come dovessero andare l e cose nei vil­ laggi e nelle città minori che vivevano di un'economia essenzialmente rurale, non solo in Egitto, ma probabilmente in tutto l'impero romano. Spesso i vicini si consideravano concorrenti e rivali fra loro nella lotta

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO per le poche risorse economiche. I casi di litigio descritti nei papiri do­ cumentari somigliano molto a ciò che si legge anche nelle fonti lettera­ rie e giuridiche. Ad esempio, alcuni malviventi avevano bruciato il rac­ colto di cereali di un certo lsidoro nell'aia. La vittima sapeva il nome dei colpevoli, che erano tre uomini, due dei quali provenienti da Karanis, come Isidoro, mentre il terzo veniva da un villaggio vicino (P. Cair. Isi­ dor. 65-67; 124) . Anche i numerosi furti di raccolto, che non erano tutti (neanche la maggior parte) provocati dal bisogno o dalla fame, ma piut­ tosto miravano a infliggere un danno a un rivale nel villaggio, rientrano in questo ambito e possono essere considerati indizi delle tensioni nella società rurale. Nella maggior parte delle società rurali un bene che spesso scarseggia è il terreno arabile, e quindi le liti per il terreno e il suolo sono avveni­ menti quotidiani. Uno dei crimini ricordati più spesso nella letteratura antica è il furto di terra, cioè lo spostamento delle pietre di confine. Spesso ci si impossessava del terreno altrui minacciando violenze o com­ mettendole, oppure i terreni contesi, per i quali c'era un processo in cor­ so, erano occupati da una delle due parti prima ancora che fosse stato emesso un verdetto. Citiamo alcuni esempi al riguardo dal ricco mate­ riale proveniente dalle fonti papiracee: Gemello, alias Orione di Karanis, aveva ricevuto insieme a una sorella l'eredità del padre e poi anche quella dello zio, e presentò ai prefetti un'accusa perché due suoi concittadini violenti, i fratelli Giulio e Sota, si erano impossessati dei suoi campi, ap­ profittando del fatto che la sua vista non era buona e confidando sul po­ tere che avevano nel villaggio (P. Mich. V I , 422 ) . In un altro caso Aurelia Teside accusò quattro persone citate per nome, fra cui una donna, che le avevano rubato della terra per cui aveva dovuto continuare a pagare le tasse. Teside si era già rivolta al prefetto per far stabilire i confini della sua proprietà; a quanto vediamo, aveva riottenuto i suoi terreni e li aveva dati in affitto a otto contadini, che però erano stati aggrediti e picchiati dagli accusati. In campagna la tendenza a rispettare le sentenze era spes­ so scarsa, anche quando provenivano dalle più alte autorità, e a livello locale lo stato non disponeva di alcun organo esecutivo che potesse far applicare le sentenze. In questo sistema giuridico, basato in gran parte sull'iniziativa privata, i deboli erano svantaggiati (SB I I I , 6294) . Come mostrano gli esempi citati, i colpevoli e le vittime dei furti di terra provenivano per lo più dallo stesso ceto sociale, quello dei piccoli o medi proprietari terrieri, coerentemente con quanto sappiamo sulle strutture sociali dell'Egitto, in cui predominavano i villaggi agricoli di 99

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO piccole o medie dimensioni. Se nelle liti come quelle descritte si arrivava allo scontro fisico, la violenza impiegata era relativamente innocua, e si adoperavano più randelli che spade. Gli scontri fra contadini e allevatori sono una caratteristica tipica delle società agrarie 21, ed erano moneta corrente anche nei villaggi del­ l'Egitto di età imperiale. Il problema poteva essere il bestiame privo di controllo, come nella storia seguente: i maiali di Aurelia Allus fuggiro­ no, e anche se non avevano recato alcun danno furono uccisi dai vicini; ne nacque uno scontro manesco fra la proprietaria e i vicini (P. O.xy. u v , 3771 ) . Ovviamente altri conflitti avevano motivi molto più seri : Melas e i suoi pastori avevano fatto pascolare il bestiame su un terreno che apparteneva a Isidoro, il quale accusò Melas di volerlo rovinare. Le accuse proseguirono, e nel 324 d.C. Isidoro si lamentò che il bestiame di Pamunis e Arpalo avesse danneggiato le sue piantagioni. Stando alla sua versione, aveva preso una delle loro bestie e la voleva portare al villaggio, ma per strada incontrò i due che lo aggredirono con un bastone e si ri­ presero l'animale, e se non fossero arrivati in suo aiuto un diacono della chiesa e un monaco, per lui sarebbe stata la fine. In un altro caso Isidoro si lamentò che una mandria altrui aveva rovinato la sua terra pascolan­ dovi e riuscì a indicare i colpevoli, quattro uomini che a quanto pare avevano grande potere nel luogo; si ripresenta qui la pesante accusa che costoro volessero cacciare Isidoro dai suoi possedimenti. Sicuramente l'affermazione della parte lesa per cui gli accusati fossero persone parti­ colarmente potenti e influenti è puramente retorica ( uno di loro era un semplice pastore, e sembra difficile che gli altri fossero davvero molto più potenti di Isidoro, che comunque era un pastore decisamente bene­ stante), ma l'accusa è comunque una testimonianza eloquente dei con­ flitti fra vicini, all'ordine del giorno nei villaggi egiziani 22 • Anche se in concreto si può dubitare che i quattro avessero davvero intenzione di rovinare Isidoro e cacciarlo dalla sua terra, sicuramente accadeva che si portassero le mandrie sui terreni del vicino per costringerlo, come estre­ ma conseguenza, ad abbandonarli, un metodo assai frequente per am­ pliare i propri possedimenti terrieri . Il poeta Giovenale allude proprio a questa situazione quando scrive (14, 140 ss. ) : > (trad. E. Barelli ) . Come s i spiegano i frequenti conflitti fra vicini e compaesani ? Nelle società contadine il posto nella gerarchia sociale è determinato dalla ric­ chezza, che spesso è ostentata in bella mostra; il rango sociale si eleva quando il benessere di un altro diminuisce, e il vantaggio che qualcuno acquisisce va necessariamente a svantaggio di un altro. Poiché ognuno parte dal presupposto che gli altri si comportino esattamente come lui, cioè aumentando le proprie risorse a scapito degli altri, tutti quelli che non appartengono alla propria famiglia sono trattati con sospetto e dif­ fidenza. In una società che non conosce crescite economiche di rilievo, si può migliorare la propria posizione solo peggiorando quella degli al­ tri . Questa idea non si applica solo all'ambito economico, ma vale an­ che per altri beni (salute, onore ecc . ) 2 3 • Quello che gli studi socioantro­ pologici hanno mostrato per le società contadine del passato vale anche per l'antichità: i villaggi e le città piccole e per lo più basate sull'econo­ mia rurale erano gli scenari di una vera società foce to foce. Gli abitanti avevano un orizzonte sociale ristretto e frequentavano essenzialmente i loro vicini, con cui spesso erano in competizione per le risorse economi­ che, che erano tanto scarse quanto agognate. Chi aveva successo attirava su di sé l'invidia e la malevolenza degli altri. Un caso caratteristico di questa situazione è il seguente: quando un liberto fece sul suo piccolo terreno un raccolto più grande di quello dei vicini, che avevano terreni molto più ampi, provocò la loro invidia, e così quelli lo accusarono di servirsi della magia per aumentare il suo raccolto e lo denunciarono ( Plin . , Nat. 18, 41 ss. ) . Se in questo caso i conflitti interni al villaggio fu­ rono portati in tribunale, in altri, come si è visto, si arrivò all'uso della violenza. I villaggi antichi, dunque, non erano idilli di armonia e solida­ rietà, ma realtà segnate dal conflitto e caratterizzate in gran parte da ag­ gressività fra gli abitanti . Spesso erano i membri dell'élite del villaggio a vessare e minacciare i loro vicini più poveri e deboli. Le petizioni egiziane contengono spesso riferimenti al comportamento " tirannico" degli avversari, che approfit­ terebbero della loro posizione di forza nel villaggio. Questo valeva per i proprietari terrieri, che rubavano la terra ai loro vicini, o per i creditori, 101

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTI CO che infliggevano violenza ai debitori. È anche vero che nelle petizioni egiziane le lamentele sul comportamento riprovevole dei compaesani " influenti e potenti " hanno qualcosa di fortemente stereotipato, così come è vero che si sottolineava volentieri il proprio essere deboli e indi­ fesi. E così un accusatore adula il destinatario della sua petizione ricor­ dando la sua prontezza nel contrapporsi alle ruberie dei potenti, ma poi più avanti sorprendentemente si legge che l'accusato è il socio in affari dell'accusatore (P. Abinn. 50 ) . Un'altra accusa è introdotta da queste parole: «Se ai potenti riuscisse tutto ciò che decidono di fare e non fosse­ ro ostacolati dall'intervento delle leggi, la vita dei più poveri sarebbe in­ tollerabile>> , ma in realtà una delle accusatrici proviene da una famiglia di honoratiores, mentre uno degli accusati è solo il fìglio di un pescatore (SB XI I , 11220 ) . Ma anche se in alcuni casi possiamo sicuramente dubi­ tare che la descrizione delle circostanze corrisponda totalmente alla real­ tà, tuttavia questi topoi presuppongono indubbiamente delle tensioni all'interno del villaggio fra i membri della élite locale e gli abitanti più poven. Finora ci siamo occupati soprattut­ to di conflitti interni ai villaggi . In molte parti dell'impero in cui domi­ nava il latifondo, però, gran parte della violenza attestata in ambito ru­ rale proveniva soprattutto dai ricchi latifondisti residenti nelle città o dai loro fattori. In Italia, dove i latifondi e le aziende di media grandez­ za delle villae specializzate nella coltivazione del vino e dell'olio si svi­ lupparono fin dal II secolo a.C., i proprietari terrieri, provenienti so­ prattutto dalla classe senatoria o equestre o semplicemente dal ceto de­ gli honoratiores urbani locali, cercavano di privare delle terre i loro vici­ ni più poveri e deboli con minacce, processi vessatori e anche violenza. Nella tarda repubblica, con le guerre di conquista combattute soprat­ tutto nel Mediterraneo orientale, si riversò in Italia una ricchezza enor­ me, e chi ne seppe approfittare furono i membri della classe abbiente, soprattutto i senatori. Le attività commerciali e finanziarie erano loro proibite, e così rimase solo l'economia rurale come fonte di capitale. Nello stesso periodo in Italia, sempre per le guerre di conquista, si svi­ luppò la schiavitù di massa in una misura mai vista prima, e così fu di­ sponibile una forza lavoro abbondante ed economica che poteva colti­ vare i possedimenti dei latifondisti. Ora c'era il capitale e c'era la forza lavoro: serviva solo la terra ! Nello sforzo incessante di ampliare e com­ pletare i propri possedimenti, i latifondisti non si astennero neanche

Violenza provocata dai latifondisti

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LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO dall'uso della violenza brutale 24• Mentre i contadini prestavano il servi­ zio militare, i loro genitori anziani e i figli piccoli erano perseguitati dai vicini ricchi dei villaggi; e anche negli scontri politici della tarda repub­ blica spesso agli avversari si rimproverava la persecuzione violenta ai danni dei vicini. Cicerone, ad esempio, afferma in un'orazione che un certo Autronio era solito cacciare le persone dai loro possedimenti e uc­ cidere i vicini, e che l'armata di schiavi di Clodio aveva conquistato molti villaggi in Etruria con la violenza (Pro Sulla 71; Pro Milone 26; 74) . In questi casi le vittime erano cittadini ricchi e stimati, e se persino costoro non sapevano difendersi, si può immaginare come dovessero andare le cose per i poveri. Perciò nella tarda repubblica aumentarono le misure legislative per reprimere la violenza rurale 2 5 • Un'interdizione de vi armata (sulla vio­ lenza con armi) intendeva aiutare coloro che erano stati cacciati con la violenza dalla loro proprietà a rientrare in possesso dei loro averi. Misu­ re di questo tipo davano all'accusatore la possibilità di chiedere al preto­ re un processo per direttissima. L'imputato che avesse organizzato una truppa di uomini armati poteva comunque trarsi d'impaccio afferman­ do di aver semplicemente respinto un attacco armato o di aver riconqui­ stato un terreno che gli era stato preso in precedenza in modo illegale. La situazione peggiorò nettamente fino agli anni settanta, cosicché nel 76 a.C. il pretore Lucullo si vide costretto a inasprire le pene vigenti per la violenza organizzata. Invece di chiedere solo un risarcimento dan­ ni semplice o al massimo doppio come in precedenza secondo la lex Aquilia, ora era possibile chiederlo quadruplo. All'origine di questa mi­ sura legislativa c'è l'aumento della violenza, attestato con certezza, con­ seguente alle guerre civili degli anni ottanta, violenza in cui le bande di schiavi armati ebbero un ruolo importante (Cic. , Pro Tullio 7 ss. ) . La violenza era usata di frequente per regolare i conflitti sui diritti di pro­ prietà, né poteva essere altrimenti in mancanza di un organo statale ade­ guato. La situazione poteva essere tollerabile finché il numero degli schiavi nelle singole case fu basso e gli schiavi non erano armati, ma la situazione cambiò con lo sviluppo della schiavitù di massa nel II secolo a.C. Non appena gli schiavi rurali furono dotati di spade, i conflitti fra latifondisti assunsero un carattere decisamente cruento. Nella tarda repubblica l'insicurezza raggiunse il culmine; un primo miglioramento si ebbe all'inizio dell'età imperiale, ma anche allora non si riuscì a raggiungere una pacificazione completa della campagna. Una descrizione icastica dei metodi usati dai ricchi latifondisti per aumenta103

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO re i loro possedimenti si trova in un romanzo di età imperiale: il bestia­ me del vicino povero è cacciato via o macellato, il suo raccolto è abbat­ tuto; e quando il poveretto fa appello a testimoni che confermano le sue giuste pretese, il ricco usa la violenza brutale e ci sono dei morti (Apul . , Met. 9 , 3 5 s . ) . Questa era l a violenza usata dall'alto verso il basso. I mandanti era­ no potenti latifondisti che per le aggressioni usavano squadracce armate reclutate soprattutto fra gli schiavi. Nella letteratura di età imperiale si parla spesso dei soprusi dei potentes che cercano di espandere i loro pos­ sedimenti a spese dei vicini più poveri e deboli, e quello di potentes di­ venta un concetto-chiave nelle opere del periodo. Ovviamente le vitti­ me non erano solo i membri più deboli della società, ma in gran parte sì : piccoli contadini che non avevano alcuna speranza di avere la meglio contro potenti latifondisti oppure minorenni e donne sole 26 • Un altro problema di violenza ugualmente connesso con lo svilup­ po del latifondo riguardava i pastori, che nelle regioni dell'impero in cui l'allevamento era praticato in base alla transumanza (cioè il cambiamen­ to regolare fra pascoli estivi e pascoli invernali) , come nell'Italia meri­ dionale e centrale, spesso dovevano condurre il loro bestiame a grandi distanze. A questi pastori spesso si rimproverava, fra l'altro, una certa af­ finità con il brigantaggio; comunque erano individui rozzi e violenti. In Italia e in S icilia erano per lo più schiavi; nei periodi di maggiore sfrut­ tamento degli schiavi spesso non ricevevano dai loro padroni abbastan­ za cibo e vestiti, e così erano spinti a procurarsi il necessario con il furto. Spesso erano armati per difendersi da animali selvatici e briganti, e que­ sto li rendeva a loro volta pericolosi. Ma a lungo andare la situazione si fece pericolosa anche per gli stessi padroni, quando persero il controllo dei loro schiavi pastori. Le violente rivolte servili del I I e 1 secolo a.C. nacquero non da ultimo da questi schiavi. Prima di essere eletto console, Cicerone accusò il suo concor­ rente Antonio di aver sobillato i propri pastori, e anche i seguaci di Ca­ tilina si erano prefissati di portare dalla loro parte gli schiavi pastori in Apulia 2 7 • Spesso i pastori si rendevano colpevoli di violenze e aggressio­ ni nei possedimenti vicini degli altri. Per contrastare i numerosi pericoli per la sicurezza interna derivanti dal gran numero di schiavi pastori in Italia meridionale, Cesare ordinò che almeno un terzo dei pastori fosse­ ro uomini liberi (S uet. , Caes. 42, 1 ) . Malgrado ciò, il potenziale di peri­ colo rimase elevato in età imperiale, anche se in questo periodo lo stato 104

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO cercò di controllare le regioni rurali d'Italia molto meglio di quanto fos­ se avvenuto nella tarda repubblica; nel 24 d.C. l'Italia fu minacciata da Brindisi da un'orda pastori e schiavi riunitisi nei pascoli rurali (Tac. , Ann. 4, 27) . I pastori mantennero la loro pessima fama fino alla tarda antichità: nel 409 fu proibito ai curiali (i membri dei consigli cittadin i ) , a i proprietari terrieri e a d alcuni cittadini di affidare i loro figli a i pastori perché li educassero; in caso contrario , rischiavano un'accusa di compli­ cità con i predoni ( Cod. Theod. 9, 31, 1 ) .

Resistenza contadina All'interno delle comunità dei villaggi sono atte­ stati frequenti conflitti in parte condotti in modo violento. Fra questi, come si è visto, c'erano le violenze dei latifondisti o dei loro uomini (fattori, schiavi, pastori) per lo più nei confronti dei piccoli o medi pro­ prietari; ma come avveniva la violenza dal basso verso l'alto ? La popola­ zione contadina si ribellava contro la violenza e lo sfruttamento cui era esposta da parte degli organi statali o dei latifondisti ? Sicuramente i contadini non erano così inermi come potrebbe sem­ brare a prima vista. Stando a un decreto imperiale del 395, ad esempio, i villaggi in Egitto cercavano di sottrarsi al pagamento delle tasse non solo corrompendo militari e funzionari, ma anche con la violenza aperta, «confidando nella forza del loro numero>> ( Cod. Theod. 1 1 , 24, 3 ) . Nello stesso periodo, nei dintorni di Antiochia, in Siria, i contadini opposero resistenza agli esattori cittadini, e quando questi minacciarono di incar­ cerare i capi morosi dei villaggi, i paesani li aggredirono con una sassaio­ la ( Lib . , Or. 47, 7 s . ) . Tuttavia conosciamo solo pochi casi di opposizio­ ne armata da parte della popolazione rurale, mentre la mole delle atte­ stazioni di esattori, funzionari e militari ricattatori e rapaci è impressio­ nante. Per la maggior parte i contadini non avevano armi (spade) a di­ sposizione e al massimo potevano difendersi con pietre e bastoni. Contro i proprietari terrieri i contadini fittavoli opponevano resi­ stenza armata solo in casi eccezionali. Negli ultimi anni del I V secolo al­ cuni contadini pagani nei dintorni di Gaza presero a bastonate un rap­ presentante della Chiesa che aveva il compito di riscuotere i canoni di affitto. In questo caso, al conflitto fra proprietari e fittavoli si aggiunse il contrasto religioso fra pagani e cristiani ( Marco Diacono, Vita Porph. 22). Diverso è il caso di Teodoro di Sikeon, vescovo nel V I secolo della città di Anastasiupoli, in Asia Minore, che aveva affidato l'amministra­ zione di terreni ecclesiastici a un uomo di nome Teodosio, che nella ri105

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO scossione dei pagamenti si rese colpevole di atti di violenza; i contadini si armarono e lo cacciarono a sassate ( Vita Theodori Syc. 76). Malgrado queste sporadiche azioni violente, non si può definire particolarmente ribelle la popolazione rurale di età imperiale. Si capisce bene quale scarsa importanza avessero i conflitti violenti fra proprietari terrieri e fittavoli nell'antichità se si osserva quanto accadde nella prima età moderna, periodo in cui in molte regioni dell'Europa occidentale, ad esempio la Francia, gli scontri violenti fra i contadini e i signori con i loro servitori erano avvenimenti quotidiani 28 • In confronto a quelli del­ l' età moderna, i contadini antichi erano decisamente pacifici. Riassumendo, sono attestate diverse forme di violenza da parte dei potenti e solo pochi casi isolati di resistenza della popolazione rurale contro gli organi statali o i proprietari terrieri . Nel complesso, a livello locale prevalgono i conflitti fra membri della stessa classe sociale, cioè piccoli e medi proprietari. In confronto ad altre società rurali, i contadi­ ni di età imperiale possono essere definiti relativamente pacifici. Gli abi­ tanti della campagna ricorrevano alla giustizia statale con una frequenza sorprendente per una società antica. Se è vero che i contrasti portavano non di rado all'uso di bastoni e sassi, tuttavia erano molto più numerosi i casi che finivano in tribunale. Non esisteva una frattura che avrebbe potuto portare la popolazione rurale a considerare istintivamente come nemici gli organi di polizia e di giustizia statali e urbani. Le relazioni locali fra vicini e compaesani erano molto conflittuali; l'uso della violenza era uno dei modi per regolare i conflitti, ma anche presso la popolazione più umile esso passava in secondo piano di fronte al ricorso al tribunale. E se qualche volta i conflitti degeneravano, co­ m unque erano molto meno cruenti della violenza che si può osservare nei villaggi siciliani del XIX e xx secolo e in altri luoghi.

Possesso di armi Abbiamo visto che nell'antica Roma la violenza fra privati era spesso spontanea, cioè non pianificata, come nel caso degli scontri fra vicini per strada. N el Medioevo, all'inizio dell'età moderna e anche nei villag­ gi di molte regioni del Mediterraneo fino al xx secolo i privati avevano spesso armi a portata di mano quando l'ira si impossessava di loro, e questo non è certo l'ultimo motivo per cui queste società ci appaiono tanto rozze e violente. Come era la situazione nell'impero romano ? 106

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO La tarda repubblica fu probabil­ mente l'epoca in cui l'insicurezza nelle strade, sia nella città di Roma sia in campagna, raggiunse il culmine; inoltre, questo fu il periodo in cui si ebbe la massima diffusione di armi fra i privati. Nel corso del II secolo a.C. si realizzò il passaggio a un rifornimento almeno parziale di armi per i soldati da parte dello stato. Parte dei veterani, a quanto pare, rima­ sero in possesso delle loro armi 2 9, e anche molti civili avevano armi a disposizione negli anni turbolenti in cui finì la repubblica; chiunque, praticamente, poteva procurarsene una. L'ordinanza del console Opi­ mio del 121 a.C. per cui ogni cavaliere doveva mettere a disposizione due schiavi armati per combattere Caio Gracco, politico riformista che godeva di un largo seguito in molti strati del popolo, presuppone che al­ meno nelle case dei ricchi ci fossero abbastanza armi per rifornire più persone ( Plut. , C. Gracchus 14, 4) . Cicerone, nella difesa giunta fino a noi di Milone accusato di omicidio (52 a.C. ) , poteva affermare che era diritto di ogni cittadino portare armi (Pro Milonno). La crisi interna di Roma alla fine dell'età repubblicana si era acuita in modo così dramma­ tico che negli anni cinquanta i politici in lotta per il potere e per il pre­ stigio si facevano regolarmente accompagnare da uomini armati; ad esempio, quando Clodio si imbatté in Milone sulla via Appia, aveva un seguito di trenta schiavi armati di spada. Ascanio, il commentatore delle orazioni di Cicerone (1 secolo d.C. ) , aggiunge che all'epoca era assoluta­ mente normale girare con un seguito simile. Armare gli schiavi con cui si andava in giro, dunque, non era né insolito né illegale; l'affermazione di Asco n io fa però capire che all'inizio dell'età imperiale la situazione al riguardo era radicalmente cambiata (Ascanio, In Milonianam 27, p . 31 Clark) . Tuttavia neanche nella tarda repubblica bisogna immaginare una diffusione a tappeto delle armi. Nel 133 a.C. i senatori e i loro uomini si scagliarono contro Tiberio Gracco (fratello maggiore del già citato Caio Gracco) e i suoi sostenitori con bastoni e randelli, ma anche con gambe di tavoli e sedili. E quando nel wo si dovette contrastare il ribelle Satur­ nino con i suoi seguaci, il console Caio Mario fece distribuire armi ai volon tari dai magazzini statali. Anche il rivoluzionario Catilina, quando nel 63 a.C. si sollevò contro il regime vigente, ebbe difficoltà a rifornire di armi le sue truppe, che in gran parte erano formate da veterani di Sii­ la. Solo un quarto degli uomini da lui riuniti erano armati in modo completo; gli altri avevano giavellotti, !ance o semplici pali acuminati.

La situazione iniziale nella repubblica

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LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO È comun­ que un fatto assodato che nella tarda repubblica l'abuso di armi fosse sfuggito di mano; perciò non sorprende che in questo periodo si siano anche viste le prime misure tese a regolamentare il possesso di armi. Sii­ la istituì con la sua !ex Cornelia de sicariis et veneficis dell'81 a.C. un tri­ bunale stabile che si occupava dei casi di criminalità di gruppo e omici­ dio e puniva chiunque si fosse procurato un'arma con l'intenzione di uccidere. Questa misura non era però diretta tanto contro il possesso di armi in sé, quanto contro il tentato omicidio, perciò non era punito chi si fosse armato per autodifesa. Verso la fine della repubblica e all'inizio dell'età imperiale seguirono altri provvedimenti di ampia portata. Nel 5 2 a.C. il console Pompeo, come reazione ai disordini seguiti all'omicidio del capobanda Clodio, proibì di portare armi in città; una misura analoga è dovuta nel 48 a.C. a Marco Antonio. La !ex Iulia de vi pub!ica voluta da Augusto ( 2 7 a.C.-14 d.C.) proibì di tenere armi in casa, tranne che per la caccia o per difen­ dersi durante i viaggi, poiché in mancanza di un apparato statale di poli­ zia spettava necessariamente al singolo difendersi con le armi in caso di aggressione. La stessa legge proibiva però di portare armi nell'assemblea popolare o in tribunale; questo divieto fu in seguito esteso a ogni luogo pubblico. Nel 70 a.C. a Cicerone era sembrato ancora importante ri­ chiamare l'attenzione sul divieto di portare armi per gli schiavi, che era stato proclamato in Sicilia per il timore ancora vivo di una rivolta servile (In Verrem, actio secunda 5, 7 ) . Come si vede, nel giro di pochi decenni fra la fine della repubblica e l'inizio dell'impero la facoltà dei privati di possedere e usare armi era stata decisamente limitata in modo generaliz­ zato. Sicuramente lo stato era ancora molto lontano dal raggiungere un monopolio della forza, ma certo furono compiuti grandi passi in questa direzione. Nella legislazione tardoantica il divieto di possedere armi fu ripreso. Una legge del 364 d.C. proibiva ai privati di usare armi in mancanza di una esplicita autorizzazione imperiale ( Cod. Theod. 1 5 , 1 5 , 1 ) . Come sta­ bilì Giustiniano nel 535, i governatori provinciali dovevano far sì che nessuno portasse armi eccetto i soldati (Nov. Iust. 17, 1 7 ) . Nella tarda antichità, nell'impero esistevano ovunque officine statali che servivano alla produzione delle armi per i bisogni dell'esercito. Lo spazio per una produzione e un mercato di armi per i privati, dunque, era ristretto. Fu però Giustiniano che rese la produzione di armi un mo­ nopolio statale: la vendita ai privati fu proibita, e fu consentito solo il

Misure legislative per la regolamentazione del possesso di armi

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possesso di coltelli. Questa misura fu giustificata per motivi di sicurezza interna (Nov. Iust. 8 5 ) . I provvedimenti di Giustiniano avevano una portata particolarmente ampia e non lasciarono il minimo spazio al possesso di armi da parte dei privati. La già citata !ex !ulia de vi aveva già fissato un criterio al riguardo, imponendo ai privati un divieto fondamentale che aveva però alcune eccezioni (armi per la caccia e per l'autodifesa durante i viaggi) . Sicuramente non bisogna pensare che questa e altre leggi che limi­ tavano il possesso di armi nella tarda repubblica o all'inizio dell'impe­ ro ebbero un successo immediato e radicale. D'altra parte, come si poteva dimostrare che una persona sorpresa con un'arma la portasse con intenti malvagi e non per difendersi in un viaggio ? E così ancora sotto l'imperatore Augusto, quando ormai si poteva notare una certa pacificazione della società dopo gli anni turbolenti della fine della re­ pubblica, molto spesso i banditi (grassatores) portavano armi tranquil­ lamente e sfacciatamente, a quanto dicevano loro per difendersi (S uet. , Aug. J2, 1 ) . Ci volle del tempo prima che le misure legislative prendessero piede; tuttavia non bisogna sottovalutare i loro risultati immediati . Comunque, in età imperiale non era opportuno farsi ve­ dere armati in pubblico, e se lo si faceva bisognava essere pronti a giu­ stificarlo; e già questo potrebbe aver limitato la diffusione di armi fra la popolazione civile. È dunque possibile osservare una crescente pacificazione della socie­ tà: i divieti di portare armi sembrano non aver mancato il loro effetto sulla lunga durata. In generale si giunse a pensare che il porto d'armi dovesse essere riservato alle persone pagate dallo stato per farlo, cioè ai soldati 30 • Inaspritosi sempre di più per cinque o sei secoli, a lungo an­ dare il divieto dovette infine portare a un cambio di mentalità nella po­ polazione civile. Certo, le armi da caccia tanto diffuse nell'impero romano potevano essere usate in ogni momento come armi d'attacco; inoltre alcuni viag­ giatori erano armati per difendersi dai briganti, come esplicitamente permesso dalla !ex !ulia de vi. Costruire una spada, poi, non richiedeva una particolare abilità tecnica, e non era possibile controllare tutti i fab­ bri. Perciò, se qualcuno voleva armarsi per compiere un reato la cosa non presentava certo difficoltà, e all'occorrenza anche alcuni oggetti da cucina, a cominciare dai coltelli, potevano fungere da armi da offesa.

Diffusione delle armi in età imperiale

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LA C R I M I NALITÀ NEL M O N DO ANTI CO Ma c'è una grande differenza tra quando le persone che progettano un delitto possono procurarsi armi - cosa comunque possibile - e quando gran parte della popolazione adulta è armata in modo permanente. Per quanti sforzi si facessero, non si sarebbe potuto impedire in nessun modo che i criminali si armassero, nell'antichità come oggi . Riguardo al mantenimento dell'ordine pubblico, fu già un grande risultato elimina­ re il pericolo che piccole liti di strada fra vicini degenerassero e portasse­ ro all'uso di armi. A causa dell'insufficienza delle fonti non è possibile dire con esattez­ za quanti scontri violenti finissero con l'impiego di armi, cioè di spade. Comunque, nei papiri egiziani non si parla molto spesso di spade, e per lo più come armi si usavano bastoni o pietre. Anche nelle fonti letterarie si parla solo raramente di privati che si trovavano in possesso di una spa­ da. Quando i padri della Chiesa tardoantichi nelle loro prediche descri­ vono le liti violente nelle strade, parlano per lo più di persone che usano i pugni, non le armi pesanti . Anche in campagna solo la minoranza delle famiglie disponeva di armi. Ad esempio, quando attorno al 350 il vescovo ariano di Costanti­ nopoli Macedonia inviò quattro unità dell'esercito regolare contro la setta dei N ovaziani nel paesi no di Mantinio in PaAagonia (Asia Mino­ re) , i contadini si armarono contro i soldati con falci, asce e altri arnesi da lavoro o semplici oggetti che potevano essere usati come armi. Evi­ dentemente non avevano a disposizione spade o altre armi da guerra 3 1 • L e milizie urbane che vegliavano sull'ordine pubblico nelle v i e d i grande comunicazione erano armate solo di giavellotti e fionde, e questa dotazione rudimentale delle forze dell'ordine locali presuppone che an­ che la maggior parte dei criminali disponesse solo di armamenti insuffi­ cienti. Ad esempio, nell'Antiochia tardoantica una truppa di miliziani urbani portava il nome di ( Lib . , Or. 48, 9 ) . Quando nelle fonti leggiamo di forze di polizia insufficienti (secondo i nostri parame­ tri) e di poliziotti non addestrati e male armati, non dobbiamo conside­ rarlo una mancanza. Evidentemente l'impero romano non aveva biso­ gno di poliziotti più numerosi né meglio addestrati per far osservare le misure d'ordine necessarie. Insomma, la diffusione delle armi non era ampia come nel Medioe­ vo e nell'età moderna, quando non solo le armi da taglio e le armi bian­ che, ma anche le armi da fuoco erano disponibili ovunque e venivano usate in ogni occasione 3 2 • Di conseguenza nell'impero romano gli scon­ tri violenti avevano già in partenza una dimensione diversa, perché era110

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO no condotti per lo più a pugni o al massimo con bastoni, il che diminui­ va di molto il rischio che uno dei partecipanti perdesse la vita.

Uno sguardo d'insieme La violenza è un problema molto sfaccettato che in questa sede non po­ trebbe essere affrontato in tutti i suoi aspetti. Sicuramente non c'è alcun motivo di idealizzare la situazione nell'impero romano: nella società di allora la violenza apparteneva alla vita quotidiana. Ovviamente, non tutte le sue forme erano necessariamente legate alla criminalità. È il caso, ad esempio, della violenza all'interno della famiglia: il padrone di casa, il pater familias, aveva il potere di punire corporalmente i suoi schiavi e nessuna giurisdizione lo avrebbe condannato. Anche la puni­ zione che infliggeva ai figli non era perseguibile: non esisteva un delitto come il " maltrattamento di minore " . Perciò la violenza all'interno della famiglia non può essere trattata in una storia della criminalità. Il giurista Claudio Saturnino afferma che le percosse date dai geni­ tori o dai maestri restano impunite proprio perché non vengono inflit­ te per commettere ingiustizia, ma per migliorare i bambini (Dig. 48, 19, 16, 2). Tuttavia si faceva attenzione a che i padri non facessero un uso eccessivo della loro facoltà di punire 33: il filosofo Seneca (I secolo d.C.) accetta, come molti suoi contemporanei, le punizioni corporali, ma condanna i padri che picchiano i figli per futili motivi ( Clem. 1 , 16, 2 s.). Molte donne soffrivano della violenza del marito, e anche questo caso non finiva in tribunale. L'imperatore Nerone, ad esempio, picchiò sua moglie Poppea, che era incinta e che morì in seguito all'aborto pro­ vocatole dalle percosse (Tac., Ann. 16, 6; Suet., Nero 35, 3 ) . Nella tarda antichità la maggior parte delle donne delle città africane era senz'altro picchiata dai mariti; Monica, la madre di sant'Agostino, il grande padre della Chiesa, era un'eccezione, anche se suo marito tendeva all'irascibili­ tà (Aug., Conf 9, 9, 1 9 ) . Spesso la violenza dei mariti era ulteriormente aumentata dal consumo di alcol. I maltrattamenti da parte del marito erano un motivo di divorzio per molte donne. Diocleziano stabilì che una donna che avesse trovato rifugio nella casa del padre non poteva essere costretta a tornare da suo marito ( Cod. Iust. 5, 17, 5, 1 ) . Fino al IV secolo la giurisdizione romana sul divorzio fu molto liberale: al marito e alla moglie era possibile se111

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO pararsi dal coniuge senza dover fornire un motivo. A partire da Co­ stantino, invece, i divorzi non consensuali furono ammessi solo in presenza di motivi molto gravi, fra cui non c'erano più le percosse del marito, a meno che queste non eccedessero la misura ( Cod. Theod. 3, 16, 1 ) . Teodosio I I accettò come motivo ammissibile per il divorzio solo l'eccesso di percosse subite dalla donna da parte del marito, men­ tre il legislatore non aveva nulla da obiettare contro le punizioni ( Cod. Iust. 5, 1 7 , 8 , 2) . Le leggi mostrano che evidentemente le mogli dovevano soffrire piuttosto spesso del trattamento brutale da parte dei mariti, e non si trattava solo di botte date con le mani, ma anche di punizioni inflitte con bastoni e fruste, come quelle che si in­ fliggevano agli schiavi. Perciò bisognerebbe trattare anche di queste e altre forme di violen­ za, quando ci si domanda quanto bisogna ritenere violenta la società romana. È comunque possibile formulare l'ipotesi che molti tipi di violenza persero importanza nel corso dell'età imperiale. Sicuramente le punizio­ ni rituali pubbliche, le frustate, le mutilazioni e le esecuzioni pubbliche andavano molto di moda nella tarda antichità; ma i giochi gladiatori, che nella tarda repubblica e all'inizio dell'età imperiale portarono alla morte ogni anno migliaia o decine di migliaia di criminali, e il numero delle esecuzioni pubbliche probabilmente diminuirono, piuttosto che aumentare, in confronto alla prima età imperiale (pp. 71 s . ) . Anche l a violenza domestica potrebbe essere diminuita nel comples­ so. Se gli autori cristiani criticano i metodi educativi dei loro contempo­ ranei, ciò non prova che i padri maltrattassero i figli, ma piuttosto che lasciavano loro troppa libertà. Le punizioni eccessive degli schiavi non furono più inflitte a cuor leggero, e se un padrone uccideva uno schiavo lo si notava in modo critico. Uno storico poté affermare che al suo tem­ po (v secolo) nell'impero romano era assolutamente insolito, diversa­ mente che presso i barbari, punire gli schiavi con la morte ( Prisco, fr. 1 1 , 2 Blockley) . Non è quindi fuori luogo ipotizzare che fino al v secolo la violenza nell'impero romano sia andata progressivamente calando, e questo vale tanto per la criminalità violenta quanto per altre forme di violenza non legate al crimine. Perciò proprio la tarda antichità, che negli studi di storia antica viene generalmente considerata molto più violenta rispetto alla prima età imperiale, può invece essere ritenuta relativamente più pacifica. 112

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO Omicidio e assassinio

Situazione giuridica All'inizio della repubblica lo stato partecipava solo in minima parte al perseguimento dell'omicidio e controllava in qualche modo solo la giu­ stizia privata. Probabilmente gli omicidi non finivano davanti al tribu­ nale popolare, ma erano indagati dai magistrati, forse i quaestores parri­ cidii. In caso di verdetto di condanna l'accusato era consegnato all'accu­ satore (addictio ), che di solito era il parente più stretto dell'ucciso e po­ teva poi infliggergli la pena prevista dalla legge 34. Ancora in età imperiale il perseguimento dell'omicidio era fonda­ mentalmente un affare dei parenti. Quasi tutti i casi su cui siamo me­ glio informati furono portati in tribunale dai membri della famiglia; per lo più gli estranei non avevano alcun interesse genuino a presentare un'accusa per omicidio, procedura che richiedeva sforzi e costi non in­ differenti. Se i familiari avevano perso l'occasione di accusare il colpevo­ le o se si erano accordati con lui finanziariamente, l'omicida aveva ogni probabilità di uscirne impunito. Il legislatore ne trasse alcune conse­ guenze interessanti: un erede poteva entrare in possesso dell'eredità solo se portava in tribunale l'omicidio del de cuius; un marito che tralasciava di punire l'omicidio della moglie rischiava di perdere la sua parte per questa omissione di doveri (Dig. 29, 5, 22; 49, 14, 27) .

Moventi Gli autori antichi si esprimono solo in termini generici e per lo più mol­ to vaghi sui moventi ammissibili. Un criminologo moderno sarebbe in grande difficoltà se dovesse lavorare con questo materiale. Spesso a provocare la violenza o l'omicidio erano altri reati. Gli adùlteri o i ladri colti sul fatto, ad esempio, commettevano omicidio per sottrarsi alla punizione. E così sant'Agostino in una predica spiega come un peccato ne provochi un altro (In psalm. 57, 4): . Questa è sicuramente retorica; e se pure in alcuni casi una violenza contro qualcuno poté effettivamente aver origine da un delitto contro la proprietà, si può comunque dire che in generale né i la­ dri né i rapinatori di strada fossero inclini a una particolare brutalità. Molte volte questi fatti accadevano in stato di eccitazione: gli impu­ tati di omicidio si giustificavano spesso dicendo di essere stati offesi e di aver agito in preda all'ira. Partendo da queste premesse è interessante vedere che il vescovo Basilio di Cesarea (Iv d.C.) si chiede quando si possa parlare di un'uccisione preterintenzionale: se durante una lite qualcuno si è servito di un grosso bastone o di una pietra e così ha pro­ vocato la morte di un altro, questa si può ancora considerare uccisione preterintenzionale, perché la sua intenzione era stata di ferire, non di uccidere, e ha inferto al suo avversario un colpo mortale solo perché in preda all'ira; ma se qualcuno usa una spada o un'arma equivalente, allo­ ra non vale più alcuna scusante (Epist. 188, 8 9 ) . Nel comminare la pena s i distingueva se il reato fosse stato commes­ so di proposito o in preda all'eccitazione, ad esempio in preda all'alcol (Dig. 48 , 19, 1 1 , 2 ) . Adriano stabilì che l'uccisione preterintenzionale non doveva essere perseguita con la stessa severità dell'omicidio preme­ ditato: se qualcuno sguainava la spada contro il suo avversario, allora l'intenzione omicida era evidente; se invece qualcuno nel corso del liti­ gio abbatteva il suo avversario con una chiave pesante o con un caldero­ ne di metallo senza volerlo uccidere, la pena doveva essere più mite. A quanto pare, sull'onda dell'eccitazione si potevano usare gli oggetti più impensabili, un altro indizio del fatto che quasi tutti i privati non erano armati (Dig. 48 , 8, 1, 3 ) . Se qualcuno restava ucciso da un colpo durante un litigio, all'inizio del IV secolo il colpevole era condannato alla scuola dei gladiatori o ai lavori in miniera se apparteneva alla classe più umile (humiliores) , mentre se era del ceto privilegiato (honestiores) era esiliato perdendo anche metà del suo patrimonio ( Pau!. , Sent. 5, 23, 4) . Si badi a questo riferimento agli honestiores: evidentemente non erano solo i meno abbienti che si lasciavano andare alla violenza spontanea ed emo­ tiva con conseguenze spesso fatali ! Le fonti che parlano di crimini violenti citano spesso come movente la brama di denaro e l'avidità, intendendo con questo da un lato l'omi­ cidio a scopo di rapina, dall'altro l'omicidio all'interno della famiglia. E così, ad esempio, Firmico Materno, autore di un libro di astrologia nel IV secolo d.C., profetizza l'uccisione del figlio, del fratello, dei genitori, 114

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di parenti o della moglie, e come motivo per il fratricidio cita molto concretamente la , cioè il desiderio di mettere le mani sull'e­ redità paterna senza doverla dividere (4, 14, 9 ; 8, 29, 1 3 ) .

Colpevoli Omicidi nell'ambito familiare I moventi citati nelle fonti antiche, per quanto banali ci possano sembrare, fanno comunque capire i rapporti fra vittima e carnefice. Si è anche cercato di ridurre a semplice luogo co­ mune letterario le affermazioni degli autori antichi, che stigmatizzano l'avidità che si espanderebbe a macchia d'olio e il conseguente aumento degli omicidi all'interno della famiglia, ma non bisogna arrivare a tanto. La famiglia antica aveva funzioni economiche, e la conservazione degli interessi economici ebbe sempre un ruolo importante. Ne possiamo perciò dedurre che le liti per i soldi fra parenti (coeredi, fratelli ecc.) spesso portarono effettivamente a dissidi e, nei casi più estremi, anche a delitti. Non è difficile trovare nelle fonti giuridiche casi di omicidio di un parente, spesso per impossessarsi della sua eredità. I legami familiari, dunque, proteggevano dall'omicidio decisamente poco, come oggi . Spesso nelle fonti è citato l'omicidio del coniuge. Sotto il regno di Tiberio fece scalpore il caso del pretore Plauzio Silvano, che fu accusato dal suocero Lucio Apronio di aver gettato dalla finestra sua moglie. I motivi della morte o dell'omicidio rimasero oscuri. Grazie al suo rango elevato, Plauzio Silvano fu portato davanti al tribunale imperiale, dove finse di non sapere nulla affermando che sua moglie si sarebbe gettata dalla finestra. In seguito Tiberio si recò di persona nella stanza da letto dell'uccisa, dove si potevano ancora notare i segni di una colluttazione; a Plozio Silvano fu concessa la possibilità di porre fine da sé alla sua vita. La storia ebbe un ulteriore epilogo, perché la prima moglie divorziata di Plozio fu accusata di aver stregato il suo ex marito e di averlo fatto preci­ pitare nella follia (Tac., Ann. 4, 22) . Tanto è avvilente l'impressione data dalla storia, tanto banale fu la spiegazione addotta dall'omicida. Quintiliano, autore di un manuale di retorica, riferisce che anche in al­ tri casi i mariti che avevano buttato la moglie dalla finestra cercarono di far sembrare l'accaduto un suicidio (Inst. or. y, 2, 24) . In alcuni casi i litigi fra coniugi potevano finire con la morte. Ad esempio il vescovo Basilio di Cesarea (Iv secolo) dovette giudicare il caso di un uomo che in preda all'ira aveva ucciso la moglie con un'ascia; 115

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO in base all'arma del delitto capì che si trattava di omicidio, e il colpevole non poté sostenere che si era trattato di un'uccisione involontaria. Alla radice di simili eccessi vi fu, e sempre rimase, il diritto universalmente riconosciuto al marito di punire la moglie (Epist. 188, 8 ) . Nel complesso, fra l a moltitudine di moventi per l'uxoricidio s e ne distinguono due in particolare: o gli uomini uccidevano le mogli in pre­ da all'ira e all'eccitazione, o lo facevano per appropriarsi della loro dote. Il marito, infatti, aveva una facoltà limitata di accedere alla dote, perciò poteva essere tentato di entrarne in possesso uccidendo sua moglie e magari di procurarsene un'altra risposandosi. Grazie a Cicerone cono­ sciamo un caso in cui l'oratore accusa di aver ucciso la moglie un certo Aris, presentatosi come testimone contro l'imputato, il governatore provinciale Scauro: non poteva più vivere con lei perché era vecchia e brutta e perché aveva una nuova amante, ma poiché in caso di divorzio avrebbe dovuto restituirle la dote, cosa che non voleva né poteva fare, non aveva neanche voluto separarsi da lei (Pro Scauro 8 ss. ) . Anche i conflitti fra padri e figli potevano finire con l a morte. Gli ampi poteri legati alla potestà paterna, o almeno il fatto che essa durasse fino alla morte del padre, costituivano una fonte di conflitti fra padre e figlio. Nelle fonti i loro rapporti sono spesso raffigurati come distanti. I conflitti potevano degenerare, e alcuni figli desideravano ardentemente la morte del padre per essere finalmente liberi dalla sua tutela 3 5 • Il fatto che la potestà paterna finisse solo con la morte significava ad esempio che chiunque avesse un padre longevo non poteva disporre di sostanze proprie neanche in età avanzata. E così nella letteratura antica troviamo spesso il motivo dei figli che non ricevono abbastanza denaro dai padri avari e perciò li uccidono. Non sorprende quindi che nelle declamazioni (discorsi fatti per esercizio) dei retori il parricidio fosse un tema predi­ letto: un padre di tre figli che avevano cercato di ucciderlo ammette ad esempio con un'autocritica di essere stato troppo severo e che avrebbe dovuto affidar loro un po' prima l'amministrazione del suo patrimonio (Quint, Inst. or. 4, 2, 72 ss. ) . Probabilmente questa non è pura finzione, se vediamo che Cicerone argomentò che era del tutto improbabile che il suo assistito Roscio avesse ucciso il padre, perché dopotutto quest'ulti­ mo gli aveva affidato già prima di morire l'usufrutto di alcuni terreni. Come si vede, effettivamente c'erano spesso problemi finanziari che av­ velenavano i rapporti fra padre e figlio (Pro S. Roscio 44) . Se fosse necessaria un'altra prova, forse è offerta da una decisione del senato sotto il regno di Vespasiano, il senatus consultum Macedo116

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nianum, che proibiva la concessione di prestiti ai figli che si trovassero ancora sotto la potestà paterna e che quindi non possedevano sostanze proprie, qualora una clausola nel contratto di prestito imponesse la re­ stituzione del prestito dopo la morte del padre. Macedone, infatti, aveva addotto i debiti come movente per l'uccisione di suo padre; di­ chiarando non valida la clausola post mortem, i figli non avevano più la tentazione di accelerare la morte del padre, e ai potenziali finanziatori era tolto fin dall'inizio ogni stimolo a concedere prestiti ai figli di fa­ miglia 36 • Nella sua discussione del senatus consu!tum Macedonianum il giurista Ulpiano fornisce ulteriori chiarimenti: i figli prendevano pre­ stiti per poter uccidere il padre, o con il veleno o reclutando sicari (Dig. 48 , 9, 7 ) . È il diritto penale stesso a testimoniare in modo n o n secondario il peso che il parricidio aveva nella cultura romana. Già da molto tempo questo era l'unico reato di sangue che era perseguito e punito dallo sta­ to 37• La pena prevista era l'insaccamento: il colpevole era cucito in un sacco con alcuni animali vivi (un serpente, un cane e altri) e gettato nel Tevere; facile immaginare l'orribile morte del delinquente. Questa pena fu applicata fino all'età imperiale. Il filosofo Seneca attesta che sotto l'imperatore Claudio (41-54) , che pure aveva fama di eccentrico, le con­ danne per parricidio non erano rare, e in quel periodo furono insaccati nell'arco di cinque anni più parricidi che in tutti i secoli precedenti ( Clem. I, 23, 1 ) . Anche il primo imperatore cristiano, Costantino il Grande, rinnovò questa pena ( Cod. Theod. 9 , 1 5 , 1 ) . I riferimenti a i parricidi tentati o effettivamente compiuti non per­ mettono alcuna conclusione sulla loro frequenza. Cicerone, oratore giu­ diziario molto attivo, si occupò, a quanto sappiamo, di tre casi di parri­ cidio, due volte come difensore e una come accusatore 38• Per il tentato colpo di stato del 63 a.C., Catilina radunò attorno a sé anche molti gio­ vani provenienti da famiglie nobili che furono incaricati di uccidere il proprio padre (Sallustio, Catilina 43, 2; Cic. , In Cati!inam 2, 8 ) . Anche se questi e altri riferimenti non ci danno un'idea precisa di quanti padri furono uccisi dai loro figli, è comunque chiaro quanto fossero carichi di tensione i rapporti all'interno della famiglia romana e in particolare fra padri e figli, e sarebbe bastato questo a motivare i diffusi timori sopra citati. Vedremo più avanti che anche gli schiavi appartenenti alle famiglie erano ritenuti potenziali nemici (p. 179 ) . Nella società romana, dun­ que, i pericoli per la vita non provenivano tanto da chi apparteneva

LA C RI M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO a un ambiente criminale, quanto da chi apparteneva alla famiglia. La maggior parte degli omicidi su cui siamo meglio informati grazie alle fonti letterarie e giuridiche fu compiuta in seno al nucleo fa­ miliare.

Omicidi commessi all'interno dello stesso ambito sociale Se i colpevoli non appartenevano direttamente al nucleo familiare della vittima come parenti o come schiavi, tuttavia spesso provenivano almeno dallo stesso ambito sociale: nella maggior parte dei casi vittima e omicida si cono­ scevano già in precedenza. Secondo il diritto romano, per mettere le mani sul colpevole gli schiavi di un ucciso potevano essere interrogati sotto tortura, il che presuppone che i colpevoli provenissero dalla cer­ chia del nucleo familiare o almeno da quella dei vicini o dei conoscenti. Che ci si dovesse guardare specialmente dagli altri abitanti della casa è provato fra l'altro dalle profezie dell'astrologo Firmico Materno (Iv se­ colo d.C. ) : qualcuno sarà vittima di morte violenta; o sarà ucciso da ra­ pinatori o da membri del nucleo familiare, oppure, riconosciuto colpe­ vole di vari delitti dal verdetto di un giudice, sarà giustiziato (3, 4, 23) . Firmico Materno considera dunque due possibilità: essere uccisi o da rapinatori o da chi abita nella stessa casa, con cui si intendono sia gli schiavi sia i parenti. Spesso i colpevoli andavano cercati tra i vicini. In un'opera agiogra­ fica, ad esempio, leggiamo la seguente storia: un abitante di un villaggio aveva affidato del denaro al suo parroco, che lo uccise nascondendo il suo cadavere in un monastero. Come sospetto assassino fu arrestato pri­ ma il monaco Milesio, che però, stando alla storia, seppe riportare in vita per breve tempo l'ucciso, che accusò il parroco del villaggio ed espresse il desiderio che il suo denaro fosse tolto al parroco e dato ai suoi figli. Sebbene la storia sia inventata, è comunque utile al nostro proposi­ to, anche se non si accenna minimamente a un intervento punitivo del­ la giustizia statale: forse il colpevole, in quanto uomo di Chiesa, se la cavò con una penitenza, e magari nel restituire il denaro rubato fu ap­ plicato un congruo risarcimento (Apophthegmata patrum, Milesios 1 ) . Il caso seguente, invece, è autentico: nella Siria tardoantica un uomo fu ucciso di notte nel suo cortile; gli schiavi non opposero resistenza agli aggressori, anzi si nascosero, e così gli assassini non furono riconosciuti. Gli eredi dell'ucciso portarono il caso in tribunale e alcuni paesani furo­ no arrestati. Il processo si trascinò in lungo e i cinque arrestati morirono in carcere senza che la loro colpa fosse stata provata ( Lib . , Or. 45, 25 s . ) . 118

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO Anche qui, come in molti casi di omicidio, la ricerca dei colpevoli fu av­ viata dai familiari, eredi dell'ucciso. Le conseguenze sono ovvie: sospetti vaghi invece di indizi o prove certe portarono subito a un'accusa con conseguenze nefaste per gli accusati. Spesso i parenti dell'ucciso si limi­ tavano probabilmente a chiedersi a chi, nella cerchia della vittima, si po­ tesse attribuire il crimine con più probabilità. Evidentemente è quanto accadde in questo caso: saremmo felici di saperne di più sui sospetti e sui loro rapporti con l'ucciso, ma di indizi incontestabili a loro carico non c'era nemmeno l'ombra.

Omicidi commessi da criminali Oltre agli omicidi dovuti ai familiari e ai vicini, c'erano quelli compiuti a scopo di rapina. Il momento preferi­ to era la notte o la sera, quando faceva buio e il pericolo di essere scoper­ ti era minimo, come in questa storia narrata dal vescovo Ambrogio (Iv secolo; Hexaemeron 6, 4, 23 s . ) : un soldato uccise un uomo al tramonto in un quartiere fuori mano di Antiochia per rapinarlo, ma quando più tardi si mescolò fra gli spettatori sul luogo del delitto, fu riconosciuto come colpevole dal cane dell'ucciso. Gli omicidi a scopo di rapina, dun­ que, non erano dovuti necessariamente a criminali professionisti che si guadagnavano regolarmente da vivere in questo modo: spesso fra i cri­ minali occasionali si incontravano i soldati, che erano già armati per la loro professione. Quanto erano frequenti gli omicidi di strada come questo ? Nel ro­ manzo di Apuleio uno straniero nella città di Larissa in T essaglia viene ammonito con queste parole a non uscire di strada di notte (Met. 2, 1 8 , 3 ) : > 0 • Nel Medioevo e all'inizio dell'età moderna la maggior parte dei la­ dri erano criminali occasionali, persone che spesso appartenevano agli strati umili della popolazione, ma praticavano anche un lavoro onore­ vole: contadini, artigiani o lavoratori salariati. Di questa forma di crimi­ ne contro la proprietà è caratteristico che spesso i colpevoli provenissero dallo stesso villaggio delle loro vittime, o almeno dalle immediate vici­ nanze, e che non facessero alcuna carriera criminale, commettendo solo 6' pochi furti nella loro vita . Dobbiamo immaginarci la situazione nel­ l' antichità in modo molto simile; i ladri erano per lo più criminali occa­ sionali che forse commettevano il crimine solo una volta. Anche dopo diversi furti, una persona non restava necessariamente legata a quella sottocultura criminale cui rimanderebbe l'idea moderna di reato e cri­ minalità. Come nel tardo Medioevo e all'inizio dell'età moderna, anche il crimine antico contro la proprietà non può essere ricondotto all'im­ poverimento di una grande fetta della popolazione o al contrasto fra ric­ chi e poveri.

Bande di briganti Il brigantaggio è un aspetto essenziale delle forme di violenza e crimi­ nalità che si trovavano in campagna. Se nelle società preindustriali le regioni rurali sono da considerare altamente rischiose, gran parte del 144

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demerito è delle bande di briganti. La loro diffusione o il loro declino è sempre un indicatore importante per giudicare l'efficienza, la forza o la debolezza dell'apparato statale. I briganti mettevano in discussione le istituzioni, violavano il monopolio statale della forza e proliferavano soprattutto in aree con scarsa presenza dello stato, come le regioni rura­ li o le zone montane, dove a volte le strutture statali mancavano del tutto. I briganti ricorrono molto di frequente nelle fonti antiche e sono continuamente nominati fra i pericoli che minacciano la vita dei cittadi­ ni. Anche se nella letteratura di età imperiale i predoni hanno grande importanza, ovviamente ciò non significa che stessero in agguato in ogni strada provinciale: l'intensità della paura di essere vittima di un re­ ato non corrisponde sempre alla frequenza di determinati crimini. Die­ tro la retorica delle fonti letterarie, la realtà della vita dei briganti si per­ cepisce solo in modo molto confuso.

Diffùsione delle bande di briganti I briganti operavano di preferenza in zone solitarie e abbandonate, nei boschi e nelle regioni montane fuori mano, non in aree fittamente po­ polate e tantomeno nelle città. La criminalità in bande, come abbiamo già ricordato, era soprattutto un problema della campagna, non della città, e in questo l'impero romano assomiglia a tutte le società premo­ derne dell'Europa. Per ogni stato preindustriale fu particolarmente dif­ ficile controllare le vaste regioni montane; e anche i Romani non rag­ giunsero mai un controllo effettivo su alcuni monti, come alcune zone del Nord Africa (Mauritania) o dell'Asia Minore (Cilicia) . Spesso que­ ste aree erano collegate solo in modo insufficiente dalle strade e molte volte erano assolutamente inaccessibili d'inverno. A causa di questa si­ tuazione, lo stazionamento di truppe romane nelle pianure non aveva un effetto veramente deterrente sulle bande di briganti: i soldati non erano pronti a una battaglia sui monti. L'equiparazione degli abitanti di montagna con i " briganti " è un topos prediletto dell'etnografia antica. In Siria, ad esempio, le catene montuose nei dintorni di Antiochia offri­ vano riparo ai briganti 62; altrove erano le zone acquitrinose a essere uti­ lizzate come nascondiglio ( I uv. 3, 302 ss. ) . I l fatto che gran parte del mondo mediterraneo sia montuoso e che quasi ovunque ci fossero regioni inospitali in cui i briganti potessero ri145

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO tirarsi comportava che anche alcune delle aree principali dell'impero ro­ mano non erano mai libere dalla piaga del brigantaggio. Ad esempio, una volta Cicerone non riuscì a far pervenire una sua lettera al suo ami­ co Attico perché il suo corriere era stato rapinato e ferito sulla via Appia nei dintorni di Roma ( Cic. , AdAtticum 7, 9, 1 ) ; e anche altri autori con­ statano la pericolosità delle strade notturne anche nei dintorni della ca­ pitale ( Properzio 3, 16, 1 ss. ; luv. 10, 19 ss. ) . Alla fìne del I secolo d.C. Plinio il Giovane narra di un suo concittadino che era scomparso du­ rante un viaggio in Italia: non si sapeva se fosse stato ucciso dai suoi schiavi che lo accompagnavano o se il gruppo fosse incappato in un ag­ guato di briganti (Epist. 6, 2 5 ) .

Reclutamento delle bande di briganti Non sappiamo nulla di preciso sulla provenienza sociale dei briganti. Le fonti antiche spesso non fanno che ripetere cliché: in un romanzo di età imperiale, ad esempio, si narra la storia di lppotoo, un giovane di nobile famiglia che si era innamorato di un giovinetto, e quando questo fu ra­ pito da un rivale, lppotoo vendette i propri beni, si mise alla ricerca del suo amato e uccise il rivale. Dopo che perse anche il suo amato e il suo denaro, si diede al brigantaggio (Senofonte Efesio 3, 2, 1 ss. ) . La perdita del patrimonio, cioè l'impoverimento, è citata più volte in queste fonti come motivo per darsi alla criminalità, in particolare al brigantaggio . Ma spesso questi sono luoghi comuni, e si hanno dei dubbi a elaborare una sociologia dei criminali da affermazioni simili. Perciò in primo luogo si può constatare con una certa sicurezza sol­ tanto che molti briganti provenivano dalle classi umili rurali nel senso più ampio, cosa che non stupisce in una società connotata in senso agri­ colo. Lo storico Cassio Dione biasima l'imperatore Settimio Severo per­ ché la sua decisione di non reclutare più i membri del corpo dei preto­ riani in Italia fra i campagnoli avrebbe portato a un aumento dei crimi­ ni di brigantaggio nella penisola: in seguito a questa decisione, i giovani italici si sarebbero visti costretti a darsi al brigantaggio, ora che trovava­ no sbarrata la carriera nella guardia pretoriana. Cassio Dione dunque vede una netta alternativa per i giovani degli strati rurali più poveri: o l'esercito o le bande di predoni (Cassio Dione 74 [ 75 ] , 2, 4 ss. ) . Che i briganti provenissero dalle classi più basse è u n luogo comune della letteratura antica sull'argomento. E così in Apuleio i briganti giu-

LA CRI M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO stificano il loro comportamento con il bisogno, e quando è necessario reclutare altri compagni, gli sforzi si indirizzano soprattutto ai giovani più poveri, che ne avevano abbastanza della loro (Met. 4, 23, 3 s . ; 7, 4, 3 ss. ) . Anche se si ammette che in questo ritratto letterario di briganti trovino posto alcuni cliché, comunque la popola­ zione umile della campagna era un serbatoio grazie al quale le bande po­ tevano rinnovare costantemente il loro personale. Talvolta ad aggregarsi alle bande di briganti erano gli schiavi fuggi­ tivi . Il capo brigante B ulla Felice avrebbe rilasciato un centurione da lui catturato con l'incarico di dire a suoi padroni - cioè gli imperatori Setti­ mio Severo e Caracalla - che dovevano nutrire e remunerare bene i loro schiavi, se non volevano che diventassero briganti; infatti Bulla, come commenta Cassio Dione ( 76 [ 77] , 10 ), aveva accolto nella sua banda un enorme numero di schiavi imperiali che erano retribuiti male o per niente. Nel complesso, però, solo una minoranza di schiavi fuggitivi do­ veva aggregarsi alle bande; i più cercavano lavoro nei terreni di altri pa­ droni o si perdevano nelle grandi città. Anche i disertori dell'esercito romano si segnalavano in campagna come criminali, soprattutto in bande 63 . La diserzione di soldati e giova­ ni reclute era un problema con cui l'esercito romano dovette sempre combattere 64. Alcuni fuggiaschi non riuscivano più a reinserirsi nella società civile: quando li si puniva bisognava fra l'altro considerare se il delinquente avesse disertato da solo o in gruppo o se, durante il tempo della sua diserzione, avesse commesso altri reati, fra cui sono citati in particolare il furto, l'abigeato o la tratta illegale di schiavi (Dig. 49, 16, 5 ) . Il rapporto fra diserzione e diffusione delle bande di briganti è espli­ citamente citato qua e là nelle fonti; ad esempio nell'anno 378, dopo la sconfitta di Adrianopoli, quando la situazione si fece alquanto spinosa per l'impero romano nella penisola balcanica, i rapinatori e i disertori commettevano i loro crimini per le strade. L'esercito romano sotto l'im­ peratore Valente (364-378 ) fu annientato dai Goti, e i sopravvissuti do­ vettero trovare il modo di tirare a campare, e volenti o nolenti si diedero in gran parte alle rapine di strada. Il vescovo Basilio di Cesarea (in Asia Minore ) , ad esempio, non ritenne indicato in questa situazione affidare a un messaggero oggetti di valore per un suo corrispondente che sog­ giornava in Tracia (Bas . , Epist. 268 ) . Nel 401 la Tracia fu tormentata da orde i cui componenti millantavano di essere Unni - si trattava in realtà di schiavi fuggitivi e disertori - e ci volle un intero esercito guidato da Fravitta, il valoroso generale dell'imperatore Arcadio, per liberare la 147

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO Tracia da questa . Come si vede, qui gli schiavi fuggi­ tivi si erano aggregati ai disertori (Zos. 5, 22, 3 ) . Nel 403 l'imperatore Onorio concesse agli abitanti della provincia, per mantenere l'ordine pubblico, il diritto di procedere di proprio pugno contro i disertori, da lui equiparati ai briganti, e anche di ucciderli nel caso che opponessero resistenza ( Cod. Theod. 7, 1 8 , 14) . I disertori, insomma, ingrossavano le file delle bande di briganti. Erano esercitati nel mestiere delle armi e il brigantaggio offriva loro la possibilità di provvedere alla propria sopravvivenza in modo relativa­ mente tranquillo. Ma non bisogna farsi idee sbagliate sull'entità quanti­ tativa del problema. I casi come quelli del 401 restano un'eccezione: quando i disertori non ritornavano direttamente nella loro patria o non andavano a lavorare come contadini, come è spesso attestato (dopotutto la maggior parte dei soldati aveva origini contadine) , si muovevano come rapinatori da soli o al massimo in piccoli gruppi, e perciò nel complesso non rappresentavano una minaccia seria per la popolazione civile, altrimenti Onorio nella legge sopra citata non avrebbe dato per scontato che i civili potessero catturare i disertori anche da sé, senza prendere in considerazione l'impiego di una forza militare. Le guerre e le usurpazioni portavano sempre a un aumento delle ra­ pine per le strade. I soldati del partito perdente spesso non avevano altra scelta che guadagnarsi da vivere in questo modo. Dopo la sconfitta del­ l'usurpatore Magnenzio (350-353) , molti dei suoi soldati si diedero alle rapine; l'esercito regolare si mostrò subito in grado di provvedere all'or­ dine pubblico in Gallia. Il cesare Giuliano riuscì a calmare la situazione accogliendo i soldati di Magnenzio nel suo esercito e garantendo loro l'impunità per i delitti commessi ( Lib . , Or. 18, 104) . Comunque, i disertori non rappresentavano il grosso delle bande di briganti, né i rapinatori provenivano esclusivamente dagli strati più umili o dai gruppi marginali della società. Apuleio, ad esempio, raccon­ ta di un giovane di nobile famiglia che a causa delle frequenti visite in taverne malfamate aveva contatti con rapinatori (Met. 8 , 1 , 3). Si può prendere questo racconto come finzione, ma nelle fonti giuridiche si parla continuamente di decurioni, quindi di membri della classe diri­ gente urbana, resisi colpevoli di rapine (Dig. 48 , 1 9 , 27, 1 s . ) . Anche i ve­ terani, che nella società di età imperiale potevano annoverarsi fra le clas­ si abbienti grazie alla liquidazione che ricevevano quando lasciavano il servizio attivo, prendevano parte a rapine 6 5 . Come si vede, non era sempre la povertà a provocare l'aumento di bande di briganti, anche

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO perché i veterani disponevano di possedimenti terrieri dai quali avreb­ bero potuto ricavare di che vivere. Le bande di briganti, insomma, re­ clutavano seguaci da un ampio spettro sociale. Di sicuro possiamo solo dire che fra le loro file le persone provenienti dai ceti rurali più poveri erano molto numerose, solo perché questi ceti erano di gran lunga la parte preponderante della popolazione nel suo complesso.

Le bande di briganti e il loro ambiente S ulle bande di briganti in sé sappiamo molto poco. La loro forza nume­ rica non dovrebbe essere sopravvalutata. Certo, il già citato capobanda B ulla Felice, che all'inizio del I I I secolo rese insicura l'Italia, avrebbe riunito intorno a sé fino a 6.000 uomini; ma anche se questo numero è esatto (il che non può minimamente essere affermato con sicurezza) , questa banda era comunque eccezionalmente grande e non può essere presa come misura della composizione delle bande in generale. All'ini­ zio dell'era moderna, già le bande di dieci uomini erano un'eccezione, e per lo più le azioni criminali erano compiute in gruppi di 3-5 uomini. Quando in alcuni singoli casi gli atti processuali citano forze di zoo, 300 o addirittura 400 persone, si tratta di esagerazioni, che si spiegano con la mitologia che si diffonde rapidamente intorno ai capibanda di successo. Anche nel caso di B ulla Felice le cose potrebbero stare così, perché le bande di molte dozzine o anche centinaia di membri non avevano alcu­ na possibilità di sopravvivenza: come avrebbero potuto procurarsi di che vivere senza compiere enormi razzie ? Queste, però, avrebbero pro­ vocato subito una reazione decisa e militare delle autorità, e le bande di briganti non avrebbero potuto tenere testa alle unità dell'esercito che operavano in modo organizzato. I banditi, dunque, operavano per lo più in piccoli gruppi e normalmente erano in grado di compiere solo piccole aggressioni. I papiri egiziani ci danno un'immagine abbastanza esatta delle atti­ vità dei briganti di strada. Qui non troviamo criminali di professione (per lo più feroci briganti) che rendessero le strade insieme o assaltasse­ ro le case. Comunque, un certo Dionisio fu aggredito e picchiato da uo­ mini a lui sconosciuti e armati di spade su una strada di campagna, per­ ciò al di fuori del suo villaggio, tanto da finire in pericolo di vita, e nella denuncia che sporse affermò che i ladri gli avevano rubato i vestiti, i sol­ di e anche un anello d'oro (P. Oxy. L, 3561 ) . In un altro caso, i due por1 49

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO cari Pasione e Onesimo furono aggrediti mentre erano in cammino fra due villaggi da briganti che legarono le due vittime e la sentinella di una torre di guardia, li picchiarono e ferirono Pasione; la refurtiva furono un maiale e la sopravveste di Pasione (P. Fay. 108 ) . I delitti ascrivibili a compaesani, vicini o familiari, però, avevano un peso molto maggiore di quello della criminalità pesante dei rapinatori e dei predoni. I papiri documentari non danno affatto l'impressione che nell'Egitto di epoca imperiale la criminalità organizzata avesse assunto dimensioni preoccupanti, e questo corregge le affermazioni delle fonti letterarie che accusano proprio l'Egitto di essere un luogo particolar­ mente violento 66 • Non è neanche consigliabile prestare imprudente­ mente fiducia agli autori antichi quando parlano di una criminalità di­ lagante e quando non possiamo confrontarli con materiale documenta­ rio, come nel caso eccezionale dell'Egitto. Riguardo ai crimini dei bri­ ganti, i letterati tramandano più luoghi comuni che un'attenta osserva­ zione e analisi delle realtà sociali. I papiri ci insegnano anche un'altra cosa: in pochissimi casi i brigan­ ti uccidevano le proprie vittime; i viaggiatori per lo più se la cavavano con qualche botta o con un po' di paura. Sembra che i briganti non fos­ sero neanche regolarmente armati di spade, che nelle petizioni per furto sono citate solo di rado. Raramente in Egitto capitava che una casa fosse assaltata e gli abi­ tanti uccisi; per lo più si aggredivano i viaggiatori, che erano derubati dei vestiti, delle poche monete che avevano con sé e talvolta di un capo di bestiame: decisamente, queste non sono azioni spettacolari. Nelle de­ nunce delle vittime non è citato il numero dei rapinatori, ma difficil­ mente sarà stato superiore alle 3- 5 persone. I dati frammentari delle fonti letterarie e giuridiche combaciano bene con l'immagine che possiamo farci dell'Egitto grazie allo stato ec­ cezionale delle fonti, cioè al gran numero di papiri documentari, e fan­ no pensare che la situazione fosse simile nella maggior parte delle regio­ ni dell'impero. Se si esclude qualche regione ritenuta particolarmente insicura, come la già ricordata Cilicia nell'Asia Minore sud-orientale, le azioni dei briganti si riducono per lo più all'aggressione dei viaggiatori sulle strade provinciali. Anche al di fuori dell'Egitto sembra che non ci siano stati eccessi nelle violenze da parte dei rapinatori. Perciò non sorprende che nella parabola del buon samaritano l'uomo fosse sopravvissuto, anche se i ra­ pinatori lo avevano aggredito ( Vangelo di Luca 10, 25 ss. ) . In un'iscrizio-

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO ne da Lambaesis, nel Nord Africa, leggiamo di un uomo che incappò nei briganti durante un viaggio verso Saldae ma ne uscì vivo insieme ai suoi compagni di viaggio, anche se ferito e derubato ( C/L VI I I , 2728 18122 ILS, 579 5 ) . Probabilmente ben pochi briganti erano dotati di spade; perciò a molti viaggiatori o proprietari terrieri bastava anche solo portare con sé un cane da guardia per proteggere la loro persona e i loro averi ( Plin . , Nat. 8, 142-144). In diversi casi sono attestate anche azioni di portata più vasta: i bri­ ganti attaccavano le locande o si accordavano con i loro proprietari per derubare gli ospiti; talvolta si osavano anche attacchi a case di campagna isolate o a piccoli insediamenti. Questi assalti di solito si svolgevano col favore delle tenebre, in modo che gli aggressori potessero sfruttare l'ef­ fetto sorpresa. Ma i briganti non si azzardavano ad azioni davvero gran­ di e clamorose, perché da un lato le loro forze erano insufficienti, dall'al­ tro i colpi spettacolari avrebbero provocato una reazione tanto più deci­ sa degli organi statali e sarebbero perciò risultate controproducenti. Quando gli autori antichi paragonano l'organizzazione delle bande criminali a piccole entità statali 67 , lo sfasamento fra l'immagine dei bri­ ganti nella letteratura e quella reale è particolarmente grande. Le bande erano sempre troppo piccole per potersi sviluppare in modo simile a istituzioni " parastatali " . Le fonti letterarie ci presentano briganti che ac­ cumulano nel loro covo oro, argento e altri oggetti di valore (ad esem­ pio, Giovanni Crisostomo, De Lazaro 1, 1 2 ) , ma in realtà la refurtiva, come abbiamo visto, era per lo più di valore oggettivamente scarso, il che fa pensare che spesso i rapinatori fossero solo dilettanti. I " professio­ nisti " difficilmente si sarebbero dedicati a rapinare poveri contadini per le strade di campagna per prendere loro vestiti miserabili e qualche spicciolo. Infine, le affermazioni delle fonti letterarie vanno affrontate con grande cautela anche da un altro punto di vista: in esse i rapinatori sono rappresentati come privi di legami: non hanno famiglia, moglie, figli e abitano in grotte o nei boschi. La realtà era spesso molto diversa, e lo si capisce chiaramente quando l'imperatore Teodosio I I , ad esempio, an­ novera fra i motivi giustificabili di una moglie per divorziare il fatto che il marito sia un brigante o un complice di briganti. Almeno una parte dei banditi aveva inoltre un'abitazione fissa e anche una famiglia ( Cod. Iust. 5 , 17, 8, 2 ) . A questo riguardo è notevole anche la storia narrata da Petronio della vedova di Efeso, dove vediamo un soldato che ha il com­ pito di impedire che i briganti crocifissi siano tolti dalla croce e seppelli=

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LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO ti dai loro familiari, il che presuppone che i briganti avessero legami so­ ciali ( Petronio 111, 5 s . ) . Abbiamo già parlato dei membri dei ceti urbani elevati coinvolti i n attività d i rapina. L a cosa n o n capitava d i rado: secondo una legge ema­ nata nel 426, il patrimonio confiscato di un rapinatore proscritto anda­ va per metà al fisco e per metà ai figli del condannato. Per i decurioni, cioè gli honoratiores urbani , che si erano resi colpevoli del reato di rapi­ na, esisteva una legislazione particolare ( Cod. Theod. 9, 42, 24) . Anche in questa legge si parte ovviamente dal presupposto che i briganti abbia­ no moglie e figli, e se persino i decurioni sono condannati capiamo che i banditi non provenivano solo dagli emarginati della società. Come ve­ dremo nuovamente più avanti, i briganti che erano stati catturati spesso si accordavano con le forze dell'ordine locali, provenienti dalla classe di­ rigente urbana, per sottrarsi a un processo e a una condanna. Anche questo rende verosimile che esistessero contatti personali fra i briganti e i membri della élite cittadina (pp. 154 s . ) . Verosimilmente, dunque, i rapinatori erano solo in parte dei " fuori­ legge" ; la parte restante, impossibile da quantificare, aveva un lavoro e a volte apparteneva persino al ceto abbiente e si riuniva solo sporadica­ mente per fare un colpo. Un caso avvenuto nell'Italia ostrogota (vi se­ colo) potrebbe essere tipico: qui alcuni contadini fittavoli avevano deru­ bato dei mercanti che volevano recarsi a un mercato rurale. I proprietari terrieri e grandi fittavoli furono sollecitati da un decreto imperiale a fare in modo che non accadesse più nulla di simile (Cassiod., Var. 8, 3 3 ) . Abbiamo già visto come alcuni bravi campagnoli s i dessero senza troppi problemi alle rapine, qualora se ne presentasse l'occasione, anche in un altro contesto, cioè quando gli abitanti di Antiochia fuggiti dalla città dopo un terremoto furono derubati delle loro ultime cose dagli abitanti della campagna (p. 142) . Le fonti giuridiche incitano a punire duramente coloro che aiutano i briganti e altri criminali, mentre si dovrebbe procedere con maggiore clemenza contro quelli che dei criminali sono parenti naturali o acquisi­ ti (Dig. 47, 16, 2 ) . Anche questa differenziazione mostra che i briganti non si liberavano necessariamente da ogni legame sociale: continuavano ad avere contatti con i loro parenti e all'occasione si nascondevano da loro. In altri casi, figli, mogli e vicini si davano da fare in tribunale per chi era accusato di brigantaggio: ad esempio, quando un governatore provinciale fece arrestare come brigante un abitante del villaggio dell'a­ sceta Poimen, i paesani si rivolsero a Poimen pregandolo di intercedere

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LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO

presso il governatore in favore dell'arrestato (Apophtegmata patrum, Poi­ men 9 [ 1 ] ) . Spesso i contatti con la famiglia e con il villaggio d'origine restavano inalterati, né poteva essere altrimenti: come avrebbero potuto sopravvivere i banditi nei luoghi deserti senza contatti con il resto della società ? La vita del brigante, nell'antichità come in tutte le altre epoche, era sicuramente molto meno romantica di quanto i romanzi vogliano farci credere. Le bande avevano bisogno di una loro base locale. Le fonti giuridi­ che sottolineano ripetutamente che il governatore deve agire con la stes­ sa energia contro i briganti e contro i loro complici, perché senza questi ultimi i primi non potrebbero restare nascosti a lungo (Dig. 1, 1 8 , 13, pr. ) . Le autorità partivano dal presupposto che le bande di briganti si sa­ rebbero estinte non appena si fosse venuti a capo della «cerchia di sim­ patizzanti>> (Dig. 47, 16, 1 e 2). I briganti non dovevano solo depositare da qualche parte la refurtiva, ma avevano anche bisogno della collabora­ zione di alcuni settori della popolazione rurale per il rifornimento rego­ lare di alimenti e altri beni. Perciò non sorprende che nel romanzo di Apuleio i briganti in un villaggio sostino presso alcuni anziani che li aiu­ tano (Met. 4, 1, 1 s . ) . N o n era difficile sospettare l a popolazione p i ù umile di essere i n combutta con i briganti. Quando i militari avviavano u n a grande opera­ zione contro i briganti, spesso erano i contadini a pagarne le conseguen­ ze: i soldati non facevano molta differenza fra loro e i banditi, forse per­ ché pensavano che collaborassero con i malviventi. Ad esempio, quando alcuni funzionari militari furono incaricati nel VI secolo di dare la caccia ai briganti in varie province dell'Asia Minore, invece di risolvere concre­ tamente il pericolo del briganti risultarono un flagello per la popolazio­ ne rurale, tanto che Giustiniano tornò ad affidare il compito di perse­ guire i briganti esclusivamente ai governatori provinciali, mentre ai ge­ nerali (i magistri militum) fu proibito inviare nelle province cacciatori di 6 briganti e altre forze armate 8 • In effetti in alcuni casi è attestata un'ampia collaborazione della po­ polazione rurale con i briganti , come nel caso di un villaggio egiziano che in uno scontro con un villaggio vicino si avvalse dei servigi di un ca­ pobanda e nell'affidarsi a lui rifiutò il tentativo di conciliazione di un asceta cristiano (Historia monachorum in Aegypto 8, 30 ss. ) ; ma probabil­ mente casi come questo furono rari. È comunque chiaro che non esiste­ va necessariamente un antagonismo fra briganti e popolazione rurale. 1 53

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO Comunque, da questi casi di collaborazione puntuale non bisogna dedurre che i briganti vadano considerati " ribelli sociali" che lottavano per i poveri contro i ricchi come Robin Hood; se ne può dedurre solo che, come sappiamo per le bande della prima età moderna, potessero contare su una base locale da cui potevano operare. In epoca moderna le bande di briganti potevano durare a lungo sol­ tanto se trovavano sostegno o in una comunità locale o presso un pro­ tettore potente. Anche nell'impero romano molti delitti furono resi possibili solo dal fatto che un patrono proteggeva clienti e dipendenti; le persone influenti (funzionari o privati potenti) accordavano la loro pro­ tezione anche ai briganti, e questi, così come gli altri criminali, corrom­ pevano coloro che li avevano catturati comprandosi così la libertà (Dig. 47, 16, 1; Achille Tazio 7, 3 ) . Alcuni organi di polizia erano in combutta con i criminali. Già il fatto che Caracalla ( 2 11- 2 17 ) abbia dovuto specifi­ care che i prigionieri riconosciuti colpevoli e confessi non dovevano es­ sere creduti alla leggera quando accusavano di complicità chi li aveva catturati e li sorvegliava, prova che dovevano essere accaduti casi di col­ laborazione; se invece esistevano prove inequivocabili, bisognava proce­ dere penalmente contro gli organi di polizia e di sorveglianza ( Cod. Iust. 9, 41 , 4) . Anche il poeta gallico Ausonio (Iv secolo) considera perfetta­ mente ammissibile che il suo corrispondente T eone, evidentemente un latifondista, persegua di sua iniziativa i ladri di bestiame ma che si faccia corrompere da loro e partecipi del bottino (Auso n . , Epist. 14, 22 ss. ) . Alla corruzione fra i tutori della legge rimanda anche l'esortazione di Teodosio il Grande (379-395 ) , quando ordina ai defensores civitatum ­ ufficiali che esercitavano una giurisdizione minima a livello urbano - a eliminare la protezione accordata ai briganti ( Cod. Theod. 1 , 29, 8 ) . For­ se alcuni magistrati urbani avevano coperto i briganti: nell'impero ro­ mano gli organi amministrativi erano corruttibili a tutti i livelli. Ancora più notevole è il fatto che i criminali o i disertori trovassero da nascondersi nei possedimenti altrui. Qui però bisogna evitare di dare un'importanza esagerata a questa circostanza più volte citata nella legi­ slazione, che non significava certo che i latifondisti fossero in combutta con rapinatori e altri criminali (come è il caso, per citare solo un esem­ pio, nella Sicilia del XIX-XX secolo riguardo alla mafia 69 ) . Di regola i re­ sponsabili di questa complicità non erano i proprietari in persona, ma piuttosto i loro fattori; il latifondista, che viveva lontano in città, spesso non sapeva niente di ciò che accadeva nei suoi possedimenti. L'acco­ glienza riservata ai criminali nei latifondi, dunque, non significa che il

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LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO proprietario ne fosse il patrono e protettore: diciamo piuttosto che i suoi amministratori erano costantemente alla ricerca di forza lavoro e non erano troppo scrupolosi in fase di reclutamento 70 • Insomma, con­ cludere da casi come questi che i latifondisti garantissero protezione ai delinquenti per rafforzare il proprio potere anche verso l'esterno sarebbe senz' altro forzato. Riassumiamo. Briganti e criminali vari trovavano spesso protezione presso i familiari, presso i paesani e talvolta forse anche presso i proprie­ tari, ma più probabilmente presso i fattori. Sicuramente i possidenti non avevano alcun rapporto di protezione fisso sui briganti. Fenomeni come quelli attestati in altre società, per cui i latifondisti prendevano a servizio i briganti per attuare brutalmente il proprio potere all'interno dei possedimenti come pure all'esterno non possono essere provati per l'impero romano. N o n è possibile parlare, come in altre società rurali, di una distanza fra popolazione e forze dell'ordine per lo più urbane, distanza che avrebbe potuto manifestarsi nella protezione accordata a briganti e cri­ minali da gran parte della popolazione. Anche se qualche volta è attesta­ ta la protezione da parte di familiari o di singoli campagnoli, nel com­ plesso le fonti non lasciano alcun dubbio sul fatto che briganti e crimi­ nali non potevano aspettarsi grandi simpatie da parte degli abitanti; anzi, in realtà spesso era proprio la popolazione più povera a chiedere l'esecuzione dei briganti che erano stati catturati.

Le bande di briganti: un pericolo per la sicurezza interna dell'impero ? Basandosi sulle parole delle fonti letterarie, per lo più fortemente segna­ te dalla retorica, è difficile valutare i pericoli provenienti dai briganti. Di contro alle frequenti lamentele sull'aumento costante della criminalità esistono non poche affermazioni di autori antichi, dalla prima età impe­ riale alla tarda antichità, che constatano la relativa sicurezza delle stra­ de 7 ' . Non bisogna prestare incautamente fiducia né a un gruppo di fonti né all'altro. Sicuramente si faceva bene, nell'intraprendere un viaggio, a essere prudenti: informarsi se i briganti erano in agguato per strada, non allon­ tanarsi per quanto possibile dalle vie principali, fermarsi di notte in un alloggio sicuro. Qualcuno si armava quando si metteva in viaggio, e la già menzionata !ex Iulia de vi consentiva esplicitamente il possesso di 155

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO armi per potersi difendere dalle aggressioni in viaggio. Ma talvolta si ri­ nunciava del tutto alla partenza, o almeno la si rimandava perché si era saputo che le strade erano rese insieme dai briganti (Sen . , Benef 4, 35, 2; Apul. , Met. 1, 1 5 ) . Si può dubitare che gli amuleti indossati per proteg­ gersi dai ladri in viaggio funzionassero veramente ( Plin . , Nat. 28, 115; 29 , 77) ; ben p i ù sicuro era aggregarsi nelle province a l convoglio scorta­ to di alti funzionari se si sapeva che le strade erano frequentate da rapi­ natori (Epitteto 4, 1, 91 s . ) . I pericoli provocati dai briganti erano dunque veri , ma n o n dovreb­ bero essere drammatizzati, perché nell'impero romano il traffico di viaggi era intenso come in nessun'altra società anteriore all'era del turi­ smo di massa. La maggior parte dei viaggiatori, se la si ammoniva del pericolo dei briganti, non rinunciava al suo proposito, proprio come oggi la maggior parte delle persone non rinuncia a salire su un aereo, sebbene si sia consapevoli di poter restare vittima in qualsiasi momento della pirateria aerea o di un attacco terroristico. Tutti sapevano dell'at­ tività dei briganti, ma pochissimi erano rimasti personalmente vittima di un'aggressione o conoscevano qualcuno cui fosse toccata questa sorte. Cassio Dione (I I I secolo) in un passo della sua opera storica parla in termini generici delle bande di briganti: sono sempre esistite e probabil­ mente esisteranno sempre, finché la natura umana resterà la stessa. Più avanti afferma che i pericoli provenienti dai briganti di strada sono limi­ tati, perché le loro attività possono essere facilmente controllate dalle città (Cassio Dione 36, 20, 1 e 3 ) . La fitta rete di città non ostacolava cer­ to i briganti, ma contribuiva in modo essenziale al fatto che il brigantag­ gio non dilagasse. Questo resta vero anche se gli organi di polizia urbana non possono essere paragonati neanche lontanamente a quelli di uno stato industriale moderno. Sarebbe bello sapere come il brigantaggio si sia sviluppato sul lungo periodo. È a priori inverosimile che il numero dei rapinatori (come dei criminali in genere) sia rimasto anche solo vagamente costante in circa ottocento anni, dal I I secolo a.C. al VI d.C. Negli studi di storia antica si afferma spesso che nel corso dell'età imperiale, soprattutto dal I I I seco­ lo, si verificò un aumento costante della criminalità e soprattutto delle aggressioni dei briganti: le numerose invasioni dei barbari nell'impero romano e le guerre civili del I I I secolo avrebbero portato a un indeboli­ mento del potere statale, e la popolazione si sarebbe impoverita e aggre­ gata in gran numero alle bande 72• Non credo che questo sia vero.

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO Bisogna comunque ammettere che le guerre civili, che effettivamen­ te si fecero più frequenti nel I I I secolo, abbiano portato in breve a un aumento dell'insicurezza lungo le strade. I soldati del partito sconfitto erano denunciati dai vincitori come " briganti " , e spesso, quando non veniva più erogata la paga regolare, non restava loro altra scelta che raz­ ziare e saccheggiare, e alcuni di loro potrebbero effettivamente essersi aggregati ad alcune bande di rapinatori. Ma anche nel caso del I I I secolo si trattò comunque di un fenomeno limitato nello spazio e nel tempo. Nel IV e v secolo, infatti, l'impero raggiunse di n uovo una notevole sta­ bilità dopo le turbolente vicende del I I I secolo, e non si segnalano più guerre civili che avrebbero scosso tutto l'impero o anche solo le regioni più importanti . E così anche nella tarda antichità di solito i viaggi erano possibili, senza che sussistesse troppa paura delle aggressioni dei briganti. Almeno le strade principali erano rese sicure da postazioni militari (stationarii) tanto che, stando agli autori contemporanei, di fatto non esisteva un pe­ ricolo di briganti. Libanio o Simmaco, autori che tenevano una fitta corrispondenza, non hanno alcun problema a mandare le loro lettere a grande distanza, e non dicono mai che sono state intercettate. Simma­ co, che in quanto ricco latifondista viaggiava spesso, nelle lettere parla costantemente di viaggi che lo hanno portato da Roma ai suoi poderi e viceversa o da un podere all'altro. Quando si deve scusare con un corri­ spondente che lo ha invitato di non aver potuto intraprendere il viag­ gio, come pretesto non adduce mai i briganti, ma la fatica e la durata del viaggio o i freddi invernali. Nella tarda antichità i viaggiatori erano armati relativamente di rado, ed erano poche le regioni in cui le strade fossero ritenute insieme e rischiose: nel Nord Africa alcuni barbari furono presi sotto giuramento da ufficiali di stazione sul confine e impiegati fra l'altro per la sorve­ glianza dei trasporti o per la protezione dei viaggiatori (Aug., Epist. 46, 1 ) ; in Arabia ai pellegrini, se dovevano lasciare la strada principale, era­ no dati dei soldati di scorta 73 • Queste misure rimasero però limitate a regioni che tradizionalmente erano rese poco sicure da stirpi nomadi; ma nel complesso non si può provare un aumento dell'insicurezza sulle strade. Tratti più brevi potevano essere percorsi senza che ci fossero da temere grandi pericoli, almeno di giorno. Questo contrasta con la situa­ zione di altre società rurali in cui per la propria sicurezza era consigliabi­ le essere sempre armati 74•

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LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO Riassumiamo. Il brigantaggio sulle strade nell'impero romano era solo un settore fra tanti della criminalità. Le rapine, che nella letteratura antica hanno tanto spazio, probabilmente costituivano solo una piccola parte dei reati. Sicuramente ci furono oscillazioni delle attività di bri­ gantaggio anche in dipendenza della situazione economica e politica ge­ nerale, ma non si può provare e neanche ritenere plausibile una tenden­ za " secolare" che avrebbe portato a un aumento delle rapine sul lungo termine. Ad aumentare nel corso dell'età imperiale non fu il brigantaggio, ma al massimo l'intensità della lotta contro i briganti. Nelle fonti si par­ la più volte della paura dei briganti di essere presi e puniti , e a lungo an­ dare non avevano alcuna possibilità di sfuggire a questa sorte. Sempre più spesso furono minacciati di arresto anche i complici . Nella lotta contro i crimini più gravi si vide nella tarda antichità un impegno dello stato più intenso che nei periodi precedenti. Sicuramente mancava un apparato di polizia che fosse in grado di prendere alla radice il male, che spesso doveva raggiungere dimensioni considerevoli prima che gli orga­ ni statali intervenissero. La lotta contro le rapine minori fu affidata agli organi cittadini. Quando questi non erano più in grado di assolvere a questo compito con le forze a loro disposizione, si attivavano gli organi statali, e allora i briganti non avevano più speranza di successo. Questo accadde anche per gli lsaurici, nel sud-est dell'Asia Minore, ritenuti particolarmente pericolosi: quando nel 367-368 Musonio, il vicarius Asiae, dopo la scon­ fitta dell'esercito regolare cercò di assoggettare gli lsaurici con una schiera di miliziani semiarmati, cadde in un'imboscata e fu annientato con i suoi uomini. Gli lsaurici si fecero perciò più audaci, ma questo provocò subito una dura reazione dei militari: furono respinti nelle montagne, dove rimasero privi di cibo e di ogni altra risorsa, finché non dovettero chiedere un armistizio (Amm. 27, 9, 6 s . ) . Anche l'esempio seguente è istruttivo: nel IV secolo in Siria un inte­ ro villaggio si diede al brigantaggio , i banditi si fecero sempre più spa­ valdi e alla fine fecero incursioni anche nelle città. Nel farlo si travestiva­ no da ufficiali con il loro seguito, e così era proprio l'effetto sorpresa a rendere possibile l'assalto a un grande insediamento (Amm. 28, 2 , n ss. ) . Il fatto che in questo caso un intero villaggio fosse passato al bri­ gantaggio rese anche inevitabile l'intervento del governo: una piccola banda avrebbe potuto sfuggire all'attenzione delle autorità, ma con una simile concentrazione di delinquenti questo non era più possibile. T an-

LA CRI M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO to più spietato fu l'intervento punitivo dell'esercito: il villaggio fu raso al suolo dalle fiamme e persino i neonati furono uccisi ( Lib . , Or. 48, 35 s.). Sul lungo periodo, le bande di briganti non potevano tenere testa agli organi statali.

Rapimento Il rapimento (plagium) era definito nel delitto romano come un reato a sé stante. A differenza di quanto accade ai nostri tempi, non era diretto a estorcere un riscatto ma ad alimentare il mercato degli schiavi. Con una stima di dieci milioni di schiavi e un'aspettativa di vita non molto superiore ai venti anni, ogni anno dovevano subentrare circa 500.000 nuovi schiavi . Non sempre le principali fonti di rifornimento legali (vendita dei prigionieri di guerra e commercio di frontiera) supplivano al bisogno, e il rapimento aiutava a colmare le difficoltà di riforni­ mento . Nel periodo in cui si sviluppò la schiavitù di massa ( I I - I secolo a.C. ) , soprattutto l'Asia Minore rappresentò una riserva inesauribile per i cacciatori di uomini. Nel 67 a.C. Pompeo riuscì certo a mettere un fre­ no notevole ai traffici dei pirati, che alimentavano copiosamente i mer­ cati di schiavi, anche se non riuscì a estirpare completamente la pirateria nel bacino mediterraneo, ma il rapimento continuò e aumentò ogni volta che la sicurezza interna diminuì. Durante le guerre civili alla fine della repubblica anche in Italia le strade non furono più sicure; i latifon­ disti facevano rapire i viaggiatori per farli lavorare come schiavi sui loro possedimenti. Gli imperatori Augusto e Tiberio si videro quindi co­ stretti a far perquisire le prigioni degli schiavi (ergastula) dei latifondi per scarcerare i liberi che vi erano stati rinchiusi (Suet. , Aug. p , 1; Tib. 8 ) . Ancora cento anni dopo, l'imperatore Adriano dovette affrontare lo stesso problema (Historia Augusta, Adriano 18, 10 ) . I l rapimento d i uomini rimase dunque intenso anche i n età impe­ riale. Ai governatori fu ordinato dai mandata imperiali di perseguire non solo chi rubava nei templi e i briganti di strada, ma anche i rapitori (Dig. 48, 13, 4, 2). Per la lex Fabia, che aveva come oggetto il traffico il­ legale di uomini, la pena prevista era in un primo momento un'am­ menda pecuniaria, ma al più tardi a cavallo fra I I I e I V secolo il plagium fu perseguito penalmente e punito a seconda della gravità del fatto, molto spesso con la condanna ai lavori in miniera, se a commetterlo

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LA C R I M I NALITÀ N E L M O N DO ANTICO erano gli humiliores ( '' la popolazione più umile " ) ; gli honestiores ( " i membri dei ceti privilegiati " ) erano invece puniti con l'esilio a vita (Dig. 48, 15, 7; Pau!. , Sent. 5, 30 8 ) . Quando anche liberi cittadini della città di Roma furono venduti in gran numero sul mercato come schia­ vi, Diocleziano reagì con un inasprimento delle pene, e il prefetto urba­ no ebbe l'ordine di punire il plagium con la pena di morte. L'inaspri­ mento delle pene fu motivato con la speranza di un effetto deterrente

( Cod. !ust.

9,

20, 7).

A volte erano anche i briganti comuni a imprigionare le loro vittime e venderle in schiavitù o anche a offrirle ai familiari in cambio di un ri­ scatto. Questa pratica è attestata in tutta l'antichità: il pretore (a Roma) o il governatore provinciale, secondo i giuristi, poteva stabilire l'entità della dote per una ragazza al posto del padre se questo era caduto prigio­ niero di guerra o era stato rapito dai briganti (Dig. 23, 3, 5, 4). Il giurista Ulpiano discute se un marito sia autorizzato a utilizzare la dote di sua moglie, di cui non può disporre liberamente, per riscattare i parenti del­ la donna che sono stati rapiti dai briganti (Dig. 24, 3, 21 ) . Resta comun­ que vero che i briganti di strada erano interessati soprattutto ai beni del­ le loro vittime, non alla loro persona. Inoltre le bande di briganti, come abbiamo visto, erano per lo più molto piccole e perciò già solo per moti­ vi logistici avevano difficoltà a portare con sé le loro vittime, condurle al mercato degli schiavi oppure offrirle in riscatto ai familiari senza cadere nelle mani delle autorità. Esistevano poi bande che si erano specializzate in rapimenti . All'ini­ zio del v secolo nel Nord Africa non si riusciva più a tenere sotto con­ trollo il fenomeno crescente dei rapimenti : i malviventi aggredivano vil­ laggi isolati o piccoli insediamenti e vendevano le loro prede ai mercanti di schiavi, che a loro volta li imbarcavano per le province oltremare. Una bambina, ad esempio, era stata sottratta ai genitori e ai fratelli, che si erano nascosti senza provare a cotrastare i rapitori . Anche una donna di Ippona aveva preso parte ai rapimenti: con la scusa di voler comprare legna, aveva imprigionato a casa sua alcune donne e le aveva vendute (Aug., Epist. w*, 2 ss. ) . Soprattutto i bambini erano rapiti e venduti all'estero. Costantino inasprì le pene: gli schiavi o i liberti che si erano resi colpevoli di questo reato dovevano essere gettati alle belve feroci, mentre i liberi dovevano essere uccisi con la spada durante i giochi gladiatori ( Cod. Theod. 9, 18, 1). I predicatori cristiani ricordano sempre il pericolo per i bambini de­ rivante dai rapitori. È comprensibile che si preferisse rapire bambini:

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LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO non erano in grado di opporre resistenza e non avevano alcuna possibili­ tà di rivendicare la propria libertà, una volta venduti come schiavi al di fuori della loro patria. A parte ciò, il commercio illegale di uomini riguardava soprattutto gli schiavi che erano stati rapiti. Nelle fonti giuridiche si discute spesso il problema del rapimento di schiavi altrui e della loro rivendita, e si pone ad esempio la questione se chi ha rubato uno schiavo ed è stato deruba­ to dallo schiavo stesso possa esigere un risarcimento dal proprietario dello schiavo; la risposta è sì, perché bisogna impedire non solo che gli schiavi che commettono questi reati restino impuniti, ma anche che i loro proprietari ne approfittino, perché la refurtiva diventava parte dei beni privati (peculium) dello schiavo e andava restituita insieme a lui al padrone (Dig. 47, 2, 68 [67] , 4) . È interessante anche il caso seguente: qualcuno aveva venduto per due monete d'oro una schiava che era stata rubata, ma poi la donna era stata sottratta anche al compratore. E così ai giuristi si poneva la domanda se non solo il legittimo proprietario ma anche l'uomo che nel frattempo l'aveva comprata in buona fede potes­ sero intentare una causa per furto (Dig. 47, 2, 75 [74] ) . Queste e molte altre discussioni fanno capire che il furto di schiavi evidentemente era un reato commesso di frequente. Mentre le persone libere che erano sta­ te vendute in schiavitù potevano riconquistare la libertà almeno teorica­ mente chiamando in causa un giudice, gli schiavi rapiti e rivenduti non avevano alcun interesse autentico a invocare la giustizia. Il fatto che il rapimento, tanto di uomini liberi quanto di schiavi, abbia avuto tanta importanza per diversi secoli nella società romana si spiega con le strutture economiche e sociali: esisteva una costante ri­ chiesta di forza lavoro, e i proprietari di schiavi non erano particolar­ mente scrupolosi su come garantirne la copertura. Le fonti giuridiche mostrano che i processi sullo stato giuridico delle persone erano molto frequenti: in essi capitava non solo che i proprietari volessero ricollocare nello status di schiavo persone che si erano arrogate la libertà, ma anche che, al contrario, persone nate libere e cadute illegalmente in schiavitù reclamassero la loro libertà. I cacciatori di uomini non avrebbero potuto praticare la loro attività se tanti " onorati " cittadini non avessero coperto questo reato. E non solo i latifondisti avevano pochi scrupoli a soddisfare la loro domanda di forza lavoro in modo illegale. I direttori dei grandi forni ro­ mani, in cui il grano di stato era lavorato in pane, nel IV secolo avevano trasformato le loro officine in veri propri covi di banditi: accanto vi ave-

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N DO ANTICO vano allestito taverne in cui lavoravano anche le prostitute. I clienti ignari, che compravano semplicemente pane o i favori delle prostitute, erano catturati e costretti a girare la macina nelle cantine dei forni. Un soldato cui era capitata questa sventura riuscì a liberarsi con il suo pu­ gnale uccidendo alcuni di quelli che lo volevano trattenere (Socr., Hist.

ecc!. 5, 18). Reati sessuali

Adulterio L'adulterio era definito come rapporto sessuale di una donna sposata con un uomo estraneo. Ci si aspettava fedeltà coniugale solo dalla don­ na, non altrettanto dall'uomo: il rapporto sessuale con le proprie schia­ ve era comune e non era considerato adulterio. Fino all'età di Augusto la persecuzione dell'adulterio fu lasciata es­ senzialmente alla vendetta privata del marito tradito. L'adultera era sot­ toposta alla giurisdizione domestica dell'uomo e poteva persino essere uccisa impunemente da lui; anche l'adultero rischiava la morte, o alme­ no la castrazione. Nella tarda repubblica, tuttavia, c'erano nella stessa Roma circoli che tolleravano apertamente l'adulterio: Augusto reagì con un'apposita legislazione, e la !ex !ulia de adulteriis rese la punizione del­ l'infedeltà coniugale una faccenda di stato. Secondo questa legge, se la moglie e l'amante erano colti in flagrante si ammetteva la possibilità tanto per il marito quanto per il padre dell'adultera di vendicarsi priva­ tamente, ma con diritti più ampi per il padre; questi poteva uccidere sia la figlia adultera sottoposta alla sua potestas (potere legittimo di capofa­ miglia) sia l'adultero, mentre il marito poteva uccidere solo l'adultero, e solo se questo apparteneva a una delle categorie che la legge indicava come malfamate. Il marito era obbligato a separarsi dalla moglie infede­ le e a denunciare sia costei sia il suo amante entro un tempo di sessanta giorni, passato il quale poteva a sua volta essere accusato di " ruffianeria" (lenocinium) . Anche chi non era direttamente coinvolto aveva la possi­ bilità di portare I' adulterio in tribunale. Forse in età severiana (193-235 d.C.) le pene vennero inasprite. Da questo momento non si rischiava più l'esilio, ma la pena di morte, che fu anche applicata 75• Sant'Agostino, ad esempio, descrive i timori di un giovane adultero: teme, se colto in flagrante, di essere imprigionato, tor-

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO turato e giustiziato; perciò ha anche paura dei complici, di cui è alla mercè (Serm. 15 9 , 6, 7). Un esempio particolarmente impressionante si trova in san Girolamo (Iv-v secolo; Epist. 1, 3 ss. ) : una donna fu accusa­ ta falsamente di adulterio, e per ordine del governatore provinciale fu gettata in carcere e torturata insieme al suo presunto amante. Mentre la donna negava tenacemente, l'uomo fu debole e rilasciò una confessione, in base alla quale entrambi furono condannati a morte. Dopo molti tentativi inutili di decapitare la donna, la folla degli spettatori si agitò e protestò, e fu necessario l'intervento dei militari per riportare la calma. Alla fine, a quanto pare, l'esecuzione riuscì; ma quando la donna fu se­ polta risultò che era ancora viva e fu salvata dai chierici del luogo. Forse proprio il fatto che ora per l'adulterio c'era la pena di morte comportò che alcuni mariti traditi rinunciassero alle estreme conse­ guenze di un'accusa. Molto più spesso le accuse di infedeltà nella tarda antichità furono perseguite dal vescovo, e quindi senza il massimo rigo­ re della pena. Un concilio ecclesiastico discute il problema se un giova­ ne che si è separato dalla moglie infedele possa risposarsi se la sua ex mo­ glie è ancora in vita: evidentemente non tutte le donne trovate colpevoli di adulterio erano giustiziate ( Concilio di Arles [314 d.C. ] , c. 11 [10 ] ) . Nella stessa direzione va un'altra decisione conciliare: s e l a moglie d i un chierico ha tradito suo marito, questo deve ripudiarla, altrimenti rischia l'esclusione dalla comunione ( Concilio di Elvira [300/306 d.C. ? ] , c. 65). Molti mariti, dunque, n o n pensavano a trarre le estreme conseguenze dall'infedeltà della moglie; comunque la Chiesa si accontentava della se­ parazione come sanzione e non pretendeva alcuna accusa davanti a un tribunale terreno . Anche per le donne che avevano confessato un adul­ terio la Chiesa rinunciava a una confessione pubblica in chiesa, affinché non rischiassero la pena di morte ( Bas. , Epist. 1 9 9 , 34) . Praticamente in ogni piccolo comune dell'impero romano, in cui tutti si conoscevano, era impossibile che l'adulterio restasse nascosto. E così in età imperiale un gran numero di casi finì in tribunale: se dobbia­ mo credere agli autori tardoantichi, vedere una donna che aveva com­ messo adulterio con un suo schiavo trascinata in tribunale nel foro era una scena quotidiana (Aug. , Serm. 9, 4). L'accusa di adulterio si spargeva per sentito dire in modo particolar­ mente rapido. Il tardo professore di retorica Dinamio dovette fuggire per questo motivo da Bordeaux. Sicuramente dipendeva molto dalla posizione dell'adultero nella comunità locale quanto riuscisse a stare al sicuro malgrado le voci che circolavano su di lui; tutta la città poteva so-

LA C RI M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO spettare che un uomo fosse adultero senza che gli si chiedesse conto del­ la cosa (Auson . , Comm. prof Burdig. 23, 3 ss. ) . L'onnipresenza degli schiavi in molte case, e non solo in quelle dei ricchi, rendeva natural­ mente l'adulterio un grande rischio per la moglie e per il suo amante, perché agli schiavi non restava celato nulla di ciò che accadeva in casa. I complici del tradimento, cioè proprio gli schiavi, se non rivelavano quanto sapevano dovevano tenere in conto la possibilità di essere co­ munque puniti, e per perseguire i reati gli organi statali dipendevano dalle delazioni. Questo era particolarmente vero per l'adulterio, che di regola era compiuto al calore del focolare domestico. Il numero di reati che potevano essere portati allo scoperto, dunque, poteva non essere tanto piccolo; in realtà, a causa dei numerosi processi, spesso la giustizia era sovraccarica. Lo storico Cassio Dione (inizio del I I I secolo ) riporta che durante il suo consolato si registrarono tremila denunce per adulterio, ma a causa della scarsità del personale giudiziario solo una piccola parte delle cause ebbe seguito (Cassio Dione 76 [77] , 16, 4). La situazione era simile nelle province. Il reato poteva essere per­ seguito solo in modo selettivo; lo stato doveva accontentarsi di condan­ nare in modo esemplare pochi colpevoli. Anche nella tarda antichità non si doveva pensare che ogni adultero portato in tribunale fosse con­ dannato a morte. Si può perciò constatare una grande discrepanza (per fortuna!) fra diritto penale e relativa prassi penale nei casi di adulterio, discrepanza che continuò a crescere fìno alla tarda antichità (pp. 74 s.). Solo di rado nella letteratura di età imperiale si continua ad allude­ re alla vendetta privata: un marito che avesse ucciso la moglie sorpresa in adulterio flagrante con il suo amante, secondo la situazione giuridica dell'epoca, andava punito, anche se meno severamente di un omicida comune 76• Le possibilità di vendetta privata furono in qualche modo ampliate da Giustiniano: quando un marito sospettava qualcuno di avere una relazione con sua moglie, era autorizzato a uccidere il bellim­ busto dopo averlo avvisato tre volte per iscritto, premesso che lo avesse incontrato con sua moglie in casa sua o in casa di sua moglie o in quel­ la del rivale o in una taverna. Se il rivale si era incontrato con sua mo­ glie in un altro posto, il marito poteva trascinarlo subito in tribunale, e allora l'adulterio era considerato provato già solo perché l'accusato ave­ va continuato a incontrare la donna malgrado i tre avvisi scritti (Nov. Iust. 117, 15, pr. ) . Negli stati germanici che sorsero sulle rovine dell'impero romano nel VI secolo la vendetta privata riprese importanza. Alla corte degli

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO Ostrogoti, ad esempio, si decideva così sull'uccisione di un adultero: Crispiano, che aveva ucciso sua moglie insieme all'amante, fu in un pri­ mo momento condannato all'esilio, ma poi si decise che l'uomo non poteva essere perseguito per la sua azione. Dovette comunque discolpar­ si in tribunale e portare la prova che in realtà aveva voluto vendicare solo il suo onore ferito: dunque in base a questa decisione il marito tra­ dito risultava impunito (Cassiod., Var. 1, 37) . Quella precedente, co­ m unque, aveva perseguito l'uccisione dell'adultero con una condanna per omicidio conformemente alla !ex Iulia de adulteriis. Stando a questa situazione giuridica, dunque, almeno nel regno ostrogoto anche in caso di adulterio per il marito tradito il ricorso alla giustizia risultava fonda­ mentalmente più ovvio della giustizia privata. Il modo in cui il tribunale d'appello trattò il caso rende però chiaro che si era verificato un cambio di mentalità: qui Crispiano approfittò della piena simpatia che gli fu di­ mostrata per aver ucciso l'adultero. Nella legislazione di altri stati dinastici germanici, a differenza della !ex Iulia de adulteriis augustea, fu accordato al marito il diritto di ucci­ dere l'adultero nonché la moglie infedele 77• La diversa sensibilità giuri­ dica diventa pienamente evidente nel regno dei Franchi: Gregorio di Tours cita più volte l'uccisione di una coppia adultera senza che la cosa gli sembri degna di commento (Historia Francorum 8, 19; 10, 36) . Che cosa sappiamo sui colpevoli di questo reato ? Spesso di trattava di ragazzi o di giovani non sposati. I delitti sessuali, soprattutto l'adulte­ rio, potrebbero essere considerati il loro dominio. Il rinvio del matrimo­ nio era il primo presupposto dei numerosi adultèri nella cultura antica come pure nella successiva storia europea del Medioevo e della prima età moderna. I giovani uomini passavano spesso dieci-quindici anni fra la pubertà e il matrimonio, e in questo periodo non potevano sfogare la propria sessualità se non con prostitute o concubine. Gli autori cristiani consigliavano perciò spesso ai genitori di far sposare precocemente i loro figli: la condizione matrimoniale comportava delle responsabilità, e si credeva che con essa i giovani avrebbero adottato uno stile di vita mo­ rigerato. La prassi familiare, però, era spesso diversa. Il padre di sant'A­ gostino consigliava al giovane figlio proprio di esplorare la sua sessuali­ tà, mentre sua madre Monica aveva paura che Agostino potesse trovarsi in guai seri a causa di un adulterio (Aug. , Conf 2, 3, 6 ss. ) . Spesso l'adultero era u n amico d i famiglia o u n vicino . Le donne avevano pochissime possibilità di formare una propria cerchia di amici­ zie al di fuori di quella del marito, e così era del tutto naturale che l'a-

LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO mante provenisse dallo stesso ambito sociale della famiglia. Altrettanto grande era il timore che la moglie mantenesse una relazione adulterina con uno schiavo; qui le possibilità erano molte, perché nelle case private era impossibile separare la sfera dei padroni da quella degli schiavi . Alcuni adùlteri si vantavano delle loro imprese ed evidentemente non erano consapevoli di aver commesso un delitto, anzi in questo modo davano prova della loro virilità. In molti ambiti questa morale sessuale arretrata sopravvisse fino alla tarda antichità cristiana: e così il vescovo Basilio di Cesarea (Iv secolo d.C.) descrive con riprovazione quegli svergognati che siedono al mercato vantandosi delle loro spudo­ ratezze, per di più prendendo in giro i passanti morigerati (Hom. in psalmum 1, 6). Sant'Agostino sottolinea lo status particolare dell'adulte­ rio fra i reati : mentre si desidera scacciare gli omicidi dalla loro città d'o­ rigine e si odiano i ladri, fra gli uomini l'adulterio è così frequente che non se ne prova vergogna, e chiunque è casto deve aspettarsi di essere preso in giro dagli altri uomini perché è un uomo perbene. La morale sessuale, dunque, continuava a essere quella dell'antichità pagana: men­ tre ci si aspettava dalla moglie assoluta fedeltà coniugale, l'uomo si van­ tava delle proprie relazioni extramatrimoniali (Serm. 9, 12).

Stuprum , stupro e delitti sessuali affini Nella repubblica le violenze sessuali erano solitamente perseguite per via di giustizia privata. L'esempio classico e leggendario è Lucrezia, disono­ rata da Sesto Tarquinio, figlio dell'ultimo re, Tarquinio il S uperbo; in questo caso la vendetta di sangue servì a ristabilire l'onore familiare macchiato ( Liv. 1, 58). In età imperiale gli stupri potevano essere perse­ guiti come atti di violenza (vis) secondo la lex !ulia de vi. Il padre della famiglia era considerato colui che doveva punire il crimine per primo. Se si era lasciato convincere con preghiere a rinunciare al suo proposito, chiunque (extraneus) poteva sporgere denuncia (Dig. 48, 6, 5, z; 48, 6, 3, 4) . Chi avesse violentato una donna estranea, sposata o no, rischiava la pena di morte, che ovviamente non fu sempre comminata: i genitori di una ragazza violentata, ad esempio, si lamentarono che il colpevole fosse stato punito da Giuliano, quando soggiornava in Gallia come cesare, solo con l'esilio e non con la morte (Amm . 16, 5, 12). Questo è un altro esempio di come in età imperiale esistessero palesi differenze fra il dirit-

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LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO to penale (che in questo caso avrebbe previsto la morte) e la prassi pe­ nale. La violenza sessuale non doveva certo essere un delitto raro. Bande di giovani scorrazzavano per le strade di notte e molestavano le donne. Nella Roma tardorepubblicana era ritenuto in un certo senso diritto del giovane violentare donne di cattiva fama (Cic. , Pro P!ancio 30). I violen­ tatori agivano in gruppo; un'esercitazione retorica è basata sul caso di un uomo giovane e bello che indossa un vestito da donna e viene stu­ prato di notte per strada da una banda di dieci giovani (Seneca il Vec­ chio, Controversiae 5, 6). Spesso i colpevoli si trovavano nell'ambito d e i conoscenti e dei pa­ renti della vittima. Così si spiega la profezia dell'astrologo Firmico Ma­ terno (Iv secolo) che cita come possibili responsabili dello stupro di una vergine, fra gli altri, i suoi parenti: padre, zio, patrigno (6, 29, 23 s . ) . Molte volte l e vittime appartenevano alle classi umili. Le figlie dei ricchi erano protette e sorvegliate meglio, e il rischio di un processo pe­ nale era maggiore; se invece si violentava una schiava, al massimo si do­ veva pagare un risarcimento secondo la !ex Aqui!ia. Non molto maggio­ re era il rischio per il violentatore quando la vittima era una ragazza libe­ ra di condizione umile, perché diversi genitori poveri preferivano una compensazione finanziaria a un processo. Si pensava all'accordo extragiudiziale anche quando la ragazza non era stata violentata ma solamente sedotta. Dal punto di vista del diritto penale la differenza fra i delitti di stupro e di seduzione non era molto grande. La legislazione augustea in materia, infatti, mirava a porre un freno non solo all'adulterio, ma anche in generale ai rapporti sessuali fra uomini e donne liberi al di fuori del matrimonio. In base a ciò, già il rapporto sessuale con una donna non sposata era punito come stuprum. Anche per questo reato, così come per l'adulterio, nella tarda antichità nel caso peggiore era prevista la pena di morte, anche se fu comminata di rado: quando il monaco Macario era stato accusato di aver messo in­ cinta una vergine, fu duramente picchiato e insultato dai paesani, ma i genitori pretesero solamente che provvedesse al mantenimento della ra­ gazza (Apophthegmata patrum, Makarios 1 [So] ) . Nella tarda età imperiale aumentano d i numero l e leggi sul tema " rapimento di donne", cioè il rapimento con lo scopo di sposarla suc­ cessivamente. A Roma un matrimonio legale presupponeva non solo l'approvazione (consensus) dei due coniugi, ma anche quello del padre della sposa. Spesso questo consenso era forzato con il rapimento della

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO sposa desiderata; questa prassi è citata spesso dai retori, ma probabil­ mente si verificava davvero, come mostrano i casi paralleli di alcune so­ cietà mediterranee moderne 78• In particolare, una legge di Costantino minaccia di pene draconiane tutti quelli che prendono parte al rapi­ mento di una vergine: i rapitori devono essere immediatamente giudi­ cati dal governatore provinciale; le balie che hanno prestato il loro aiuto nel rapimento devono essere punite versando loro in bocca piombo fuso; le vergini che hanno dato il loro consenso devono essere punite con la stessa severità riservata ai rapitori; anche se sono state rapite con­ tro il loro volere, devono essere escluse dall'eredità paterna, perché avrebbero comunque potuto difendersi, attirare l'attenzione con grida e invocare l'aiuto dei vicini. Anche i genitori devono essere condannati alla deportazione se non hanno voluto perseguire il reato; infine, secon­ do la legge anche i complici devono essere puniti come i rapitori stessi, indipendentemente dal loro sesso, e gli schiavi devono essere arsi sul rogo. Gli schiavi che hanno denunciato il delitto sono invece da pre­ miare con il diritto di cittadinanza latina ( Cod. Theod. 9, 24, 1 ) . Qui Costantino sospetta che ci sia una compiacenza segreta da parte delle ra­ gazze rapite; si spiega così che anche la vittima del rapimento sia minac­ ciata di punizione, cosa che a prima vista potrebbe stupire. Particolar­ mente draconiane sono le pene per gli schiavi che prendono parte al de­ litto: nelle case romane erano onnipresenti, e in particolare la balia, che quasi sempre era di condizione servile, aveva spesso un rapporto di con­ fidenza fino all'età adulta con il bambino affidato alle sue cure. Costan­ tino, evidentemente, presuppone che in molti casi sia stata lei a favorire il contatto fra il rapitore e la ragazza.

Omosessualità Se la !ex Scatinia di età repubblicana continuava a prevedere una sempli­ ce ammenda per il rapporto sessuale con ragazzi liberi o eventualmente fra adulti per l'omosessualità passiva, in età imperiale il diritto si svilup­ pò ulteriormente 79 • Secondo le cosiddette Sentenze di Paolo dell'inizio del IV secolo (2, 26, 12 s . ) , l'omosessualità passiva poteva essere punita con la confisca di metà del patrimonio; per lo stuprum ( " condotta im­ morale" ) con un ragazzo si rischiava la deportazione, se era rimasto a li­ vello di tentativo, o la pena di morte, se il rapporto sessuale era stato compiuto. In un primo momento però l'inasprimento della legislazione

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LA CRI M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO riguardò solo l'omosessualità passiva, e a partire dal IV secolo questa po­ teva essere punita con la morte: nel 342 la pena prevista era la decapita­ zione, e secondo un decreto imperiale del 390 indirizzato ai prefetti della città di Roma i prostituti maschili che lavoravano nei bordelli rischiava­ no di essere pubblicamente arsi sul rogo 8 0 • L'influsso cristiano si riconosce solo in piccola parte nella legisla­ zione del IV secolo: le misure legislative miravano soprattutto all' omo­ sessualità passiva e alla prostituzione. I cristiani furono molto più rigo­ rosi nel loro rifiuto dell'omosessualità: per loro il criterio distintivo non era tanto l'essere attivo o l'essere passivo in un rapporto omoses­ suale, quanto l'essere omosessuale contro l'essere eterosessuale. L'impe­ ratore Giustiniano diede nuovo impulso alla lotta contro l' omosessua­ lità maschile. Nelle sue Istituzioni è prevista la morte per gli omoses­ suali tutti . Questa è una novità, perché fino al IV secolo la legislazione aveva continuato a prendere di mira la sola omosessualità passiva; con Giustiniano, invece, fu stigmatizzata l'omosessualità in sé come contra­ ria alla natura. Evidentemente l 'etica sessuale era radicalmente cambia­ ta (Inst. Iust. 4, 18, 4). Quali motivi portarono all'inasprimento della legislazione ? L a mo­ rale sessuale aveva iniziato a cambiare già all'inizio dell'età imperiale, senza che si possa indicare la causa nell'influsso cristiano; d'altra parte è innegabile che la vittoria del cristianesimo abbia dato un giro di vite alla repressione dell'omosessualità. Invece la condanna radicale espressa dalla legislazione giustinianea si può spiegare interamente con l'influsso del cristianesimo, perché nell'antichità pagana l'omosessualità non fu mai considerata " contro natura " ; al massimo erano scherniti e bollati di infamia quelli che in un rapporto omosessuale assumevano il ruolo paSSIVO. Per fortuna, comunque, anche nella tarda antichità l'omosessualità fu punita solo in modo selettivo. Nelle metropoli come Antiochia, nella seconda metà del I V secolo era ampiamente diffusa malgrado il nuovo clima morale, e in altre aree dell'impero non era diverso. L'autore cri­ stiano Salviano a metà del v secolo lamenta che a Cartagine gli omoses­ suali ammettano apertamente le proprie inclinazioni senza dover temere una punizione ( Gub. 7, 79 s . ) . Sembra che anche in età giustinianea non si sia mai arrivati alla pena di morte; d'altra parte i colpevoli, se mai finivano in tribunale, erano spesso castrati e portati in giro per la città. Se nel VI secolo le leggi prevedono la pena di morte per l'omosessualità, le fonti letterarie non lasciano dubbi sul fatto che la mutilazione dei

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO condannati fosse la pena abituale. Verso la fì.ne del suo regno anche Giustiniano fu molto più moderato nella legislazione: nel 559 invitò i colpevoli a costituirsi spontaneamente entro un lasso di tempo stabilito presso il vescovo di Costantinopoli e a fare penitenza, altrimenti sareb­ bero andati incontro a un'indagine da parte delle autorità terrene e alle pene che ne conseguivano (Nov. Iust. 141 ) . Poiché in precedenza per l'o­ mosessualità c'era la pena di morte, questa legge fa capire chiaramente che in seguito non fu più possibile imporre leggi penali severe, che per lo più avevano solo un valore nominale. Nel valutare gli editti penali è dunque necessaria la prudenza, perché non sempre rispecchiano una prassi legale effettiva. L'omosessualità era sì criminalizzata, ma non si pensava a perseguirla in modo generale e sistematico. Le pene erano di solito più moderate di quanto facessero pensare le leggi .

Ricapito/azione S tupro, seduzione di vergini e adulterio erano sicuramente tra i delitti compiuti più di frequente. Come può affrontare questo tipo di pro­ blemi uno stato che non dispone di un apparato di polizia e di giu­ stizia ? L'iniziativa e la giustizia privata hanno avuto una grande importan­ za: i padri si mettevano con le armi alla caccia dei seduttori delle loro fi­ glie minorenni, alcuni mariti traditi si vendicavano dei loro rivali con la forza delle armi. Ma un ruolo molto più importante lo assunsero nella Roma di età imperiale i metodi civili di risoluzione dei conflitti, come il ricorso ai tribunali statali e l'accordo extragiudiziale (con il coinvolgi­ mento di intermediari o, nella tarda antichità, dei tribunali vescovili) . Questo punto è importante per comprendere la società romana. Se dob­ biamo credere a Gregorio di Tours, nel VI secolo veniva spontaneo sguainare la spada se si coglieva la moglie in adulterio; nell'impero ro­ mano, invece, ci si rivolgeva alla giustizia. Eppure, visto l'apparato giudiziario decisamente ridotto, la giustizia sarebbe stata sicuramente oberata di lavoro se ogni stupro, ogni adulte­ rio e (nella tarda antichità) ogni caso di omosessualità fosse stato porta­ to in tribunale. Ma soprattutto, considerato che per tutti questi reati a partire da una certa data si rischiò la pena di morte, il boia avrebbe do­ vuto lavorare ininterrottamente. Questo darebbe ragione alla tesi, ricor­ rente negli studi ma erronea, per cui il diritto penale tardoantico si sa-

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LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO rebbe distinto per la sua crudeltà; ma in realtà è chiaro che solo un pic­ colo numero di criminali fu condannato, e solo nella minoranza dei casi fu comminata ed eseguita la pena di morte. Lo stesso vale all'incirca per i casi di rapimento di donne o stupro, adulterio e omosessualità. Invece di portare in tribunale il seduttore della figlia, i genitori preferivano ac­ consentire al matrimonio, anche se un imperatore come Costantino combatté questa decisione con tutte le sue forze, o si accontentavano di una compensazione finanziaria. Molti casi di adulterio furono trattati dal vescovo e comportarono al massimo una penitenza, ma nessuna mi­ sura penale. La maggior parte degli omosessuali rimase del tutto indi­ sturbata; poiché non c'era alcun pubblico ministero che assumesse l'ac­ cusa dei reati di sua iniziativa, probabilmente mancarono spesso accusa­ tori per un reato in cui non c'era alcuna vittima che avesse un genuino interesse a perseguirlo. E se talvolta un omosessuale veniva portato in tribunale, ne usciva spesso con una pena molto più mite di quella previ­ sta dalle leggi . La legislazione penale romana (ed è un risultato partico­ larmente importante) rispecchia solo in modo insufficiente la prassi pe­ nale. I criminali L'esame di alcune delle principali tipologie di reato ( delitti di violenza, contro la proprietà e sessuali ) è ora conclusa. Quando nelle pagine se­ guenti indagheremo sul profilo sociale dei colpevoli, sarà necessario rial­ lacciarsi ad alcuni risultati raggiunti nei capitoli sulla criminalità violen­ ta e su quella contro la proprietà. In particolare, è risultato che né la pri­ ma né la seconda fossero dovute in gran parte a persone provenienti dai gruppi marginali della società. Prima di approfondire ulteriormente questo punto, dobbiamo chiederci innanzitutto quale fosse il sesso e l'e­ tà dei criminali.

Donne Se non tutti i colpevoli di sesso maschile finivano in tribunale, la per­ centuale delle donne che dovevano rispondere dei loro delitti davanti a un tribunale statale era ancora più bassa. Spesso esse erano giudicate dal tribunale domestico dei parenti. Fra i partecipanti al culto dei Baccanali che nel 186 a.C. furono arrestati per delitti di ogni tipo, le donne furono 171

LA C RI M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO consegnate ai loro familiari per essere punite, e solo se non avevano nes­ sun parente furono giustiziate pubblicamente ( Liv. 39, 18, 6). La giusti­ zia domestica fu ridotta di importanza in età imperiale a vantaggio del potere penale dello stato 8', ma fino alla tarda antichità la punizione del­ le donne che si erano rese colpevoli di un reato non troppo grave fu spesso affidata al marito. Ancora nell'Italia ostrogotica, una donna che aveva ripetutamente picchiato un 'altra donna fu fatta punire dal marito (Cassiod., Var. 5, 32). D unque il potere domestico, se riguardava le donne, aveva una certa importanza rispetto alla giurisdizione statale. Fra i criminali, le donne erano poco rappresentate rispetto al loro numero complessivo. La testimonianza dei papiri è inequivocabile: in un grandissimo numero di petizioni per furto o violenza si nomina una persona sospetta, ma solo in pochissimi casi questa è di sesso femminile. Nelle fonti giuridiche, allo stesso modo, si parla solo raramente di don­ ne in contesti penali: una donna ha aiutato alcuni briganti, un'altra è stata condannata per furto, un'altra ancora ha assoldato degli assassini che hanno ucciso suo padre (di cui lei ha ricevuto l'eredità) e infine una donna ha avvelenato un parente che nel testamento l'aveva nominata sua erede 82• Più volte nelle fonti giuridiche si discute su quale fosse lo stato giuridico di un bambino messo al mondo da una donna condan­ nata ai lavori in miniera e che quindi, secondo il diritto romano, era equiparata a una schiava (in quanto serva poenae) 83 • Né i papiri né le fonti giuridiche, però, permettono di stabilire quale percentuale costi­ tuissero le donne fra i criminali nel loro complesso, né quali fossero i de­ litti che compivano più spesso. Giovanni Crisostomo (Iv secolo) vede nei reati di violenza come l'omicidio o il furto nelle tombe un vizio tipicamente maschile (In Matthaeum hom. 30 [31 ] , 5 ) . Se invece erano le donne a rendersi colpe­ voli di reati, non di rado questi erano la conseguenza di conflitti familia­ ri o si indirizzavano contro vicini e compaesani, spesso anche loro di sesso femminile. Questo corrisponde alla situazione che troviamo nel Medioevo e all'inizio dell'età moderna: anche in queste epoche le vitti­ me provenivano per lo più dall'ambito sociale più vicino alla colpevole, ed erano quasi sempre parenti, membri del nucleo familiare o vicine 84. La violenza compiuta dalle donne, inoltre, era di solito attuata con mezzi semplici: al massimo usavano pietre, o più spesso assalivano le loro avversarie a mani nude. Se erano coinvolte in atti di violenza, agiva­ no per lo più in combutta con uomini, che molte volte erano loro fami­ liari. Due esempi provenienti dall'Egitto possono illustrare quanto det-

LA C R I M I NALITÀ NELL'IM PERO ROMANO to: una certa Aurelia Tesi de accusa suo zio Cheremone insieme alla mo­ glie e quattro figlie di averla aggredita e picchiata e di averle strappato il vestito. Come possiamo ipotizzare, la forza trainante fu Cheremone, e le sue donne di casa non fecero che offrirgli sostegno; ma non si giunse a usare le armi (P. Cair. Isidor. 63) . Anche nel secondo esempio la violen­ za si muove nell'ambito familiare: una vedova presentò un'accusa con­ tro suo fratello e sua moglie, con cui lei viveva: un giorno sarebbe stata trascinata dentro casa dai due e picchiata tanto duramente da essere ri­ dotta in fin di vita (P. Amh. 1 1 , 141 ) . L'unico reato grave su cui l e donne sembrano aver avuto una specie di monopolio, almeno nell'opinione pubblica, era l'avvelenamento. Le vittime, se il reato non era eseguito da professionisti, erano per lo più membri della famiglia, come il marito o i figliastri . Anche in questi casi i delitti compiuti dalle donne erano una conseguenza di conflitti fami­ liari. Fra i ladri, come fra i violenti, incontriamo poche donne. Talvolta esse derubavano i familiari, il marito da cui avevano divorziato oppure, dopo la sua morte, i propri figli o i figliastri. Per il resto, le donne erano per lo più criminali occasionali, non di professione, cosa che vale anche per la stragrande maggioranza dei ladri di sesso maschile. Nei pochi casi di delitti contro la proprietà che conosciamo un po' meglio in cui furo­ no coinvolte donne, il furto spesso non fu compiuto dalla donna sola ma insieme a un uomo, per lo più il marito o un altro parente. Non è possibile stabilire con precisione se fra i crimini commessi dalle donne, che comunque erano relativamente pochi di numero, pre­ valessero quelli contro le persone ( omicidio, violenza) o quelli contro le cose ( delitti contro la proprietà ) . Nel tardo Medioevo e nella prima età moderna dominavano i furti, per lo più di piccolo taglio; era la povertà a spingere le donne a delinquere contro la proprietà 85 • Si può ipotizzare che la situazione fosse simile nell'antichità: la percentuale sulla popola­ zione complessiva di donne che vivevano da sole (con o senza figli) era decisamente notevole, e gran parte delle vedove finiva in miseria. A molte donne che non erano mantenute dalle famiglie non restava altro che darsi alla criminalità, oltre che alla prostituzione. Lo stato delle fonti antiche, di cui dobbiamo riconoscere la fram­ mentarietà, si può colmare con quanto sappiamo sulla criminalità fem­ minile nell'Europa medievale e moderna. Anche qui la percentuale di donne fra i delinquenti era decisamente inferiore a quella degli uomini. Se in queste epoche, come pure nell'impero romano, le donne non

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LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO compaiono come colpevoli, ciò sicuramente è dovuto soprattutto alla netta diversità di ruoli dell'uomo e della donna nelle società premoder­ ne. La sfera della donna era la casa, mentre l'agire in pubblico era prero­ gativa dell'uomo, e nelle città antiche la violenza avveniva soprattutto nei luoghi pubblici. Dalle donne, invece, ci si aspettava che se ne stesse­ ro a casa e comparissero in pubblico il meno possibile: era l'uomo a rap­ presentare la casa all'esterno. Questa divisione dei ruoli era praticata so­ prattutto quando era necessario un comportamento brutale: se si arriva­ va a un conflitto con i vicini, doveva intervenire l'uomo in qualità di pa­ drone di casa. Gli uomini avevano molte più possibilità di entrare in lite con altre persone nelle locande o nei luoghi pubblici; quindi le donne fondamentalmente potevano entrare in situazioni di vero conflitto solo con i propri familiari, al massimo con le vicine. Anche la socializzazione può aver avuto un ruolo in questo. Le ra­ gazze erano chiuse in casa, avevano da fare con la filatura e la tessitura e le si faceva sposare in giovanissima età; erano sottoposte al controllo del marito, mentre i giovani di sesso maschile godevano di grande libertà fino al matrimonio (che spesso avveniva solo nel terzo decennio di vita) , libertà che spesso usavano per darsi a uno stile di vita sfrenato.

Giovani Per i ragazzi e i giovani uomini il periodo dalla pubertà fino al matrimo­ nio era di fatto un periodo di libertà pressoché totale. Stringevano ami­ cizie con i coetanei e si riunivano in combriccole e bande che commette­ vano anche reati. Già all'epoca di Plauto non era sicuro camminare di notte a Roma per le strade infestate dai giovinastri (Amphitruo 153 ss. ; Trinummus 3 1 3 ss. ) . Nel I secolo d . C . queste bande che s i aggiravano di notte per le strade di Roma erano una vera piaga. Tristemente note era­ no le escursioni del giovane imperatore Nerone, che con i suoi compa­ gni picchiava i passanti, faceva irruzione nei negozi e rubava tutto ciò che riusciva a portar via; neanche le donne sposate erano al sicuro da loro. Altri giovani imitarono l'esempio di Nerone e formarono masnade analoghe, e gli abitanti di Roma, a quanto si dice, ebbero la sensazione 6 che la città si trovasse nelle mani dei nemici 8 • Non diversa era la situazione nelle città provinciali: Lucio, il prota­ gonista del romanzo di Apuleio, è avvisato da una schiava del suo pa­ drone di casa a non andare per strada di notte: una banda di giovani no-

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LA CRI M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO bili compie i suoi misfatti, e in quanto straniero Lucio corre il rischio di essere aggredito dai criminali (Met. 2, 18, 3). Come mostrano gli esempi, i reati non si spiegano con il bisogno materiale, perché i giovani prove­ nivano per lo più dai ceti abbienti . Sant'Agostino, il cui padre era curia­ le e quindi apparteneva agli honoratiores urbani, a sedici anni con i suoi amici coetanei rubò tutte le pere dall'albero di un vicino, e poi le diede­ ro quasi tutte da mangiare ai maiali. Fu dunque il gusto del proibito a spingerli a commettere il furto; Agostino sottolinea che da solo non lo avrebbe mai fatto, ma che fu solo il cameratismo con gli amici a spin­ gerlo ( Conf 2, 4, 9-2, 10, 18). Quasi tutta la violenza nelle città antiche era perciò dovuta a i giova­ ni. Nei disordini cittadini spesso c'erano loro in prima linea; talvolta erano i giochi pubblici a scatenare azioni violente. Secondo il giurista Callistrato i teppisti erano puniti con le bastonate, se recidivi con l'esi­ lio, nei casi più gravi persino con la pena di morte (Dig. 48, 19, 28, 3). Anche nelle fazioni circensi tardoantiche, che tanto contribuirono al­ l'insicurezza delle città soprattutto nel VI secolo, i giovani erano la mag­ gioranza, in parte di famiglie abbienti: ad esempio nei resoconti sulla ri­ volta di Nika, che nel 532 portò quasi alla destituzione dell'imperatore Giustiniano, si parla di un gruppo di duecento-duecentocinquanta gio­ vani armati appartenenti al partito dei verdi che si distinsero particolar­ mente nella lotta contro Giustiniano 87• A creare disordini c'erano poi gli studenti, che per lo più erano mol­ to giovani (sotto ai venti anni) 88• A soffrire delle loro malefatte erano soprattutto gli abitanti di città, specie gli artigiani e i commercianti. In particolare ad Atene gli scontri fra cittadini e studenti assunsero dimen­ sioni preoccupanti nel I V secolo, e la città divenne nota per le lotte, an­ che cruente, fra allievi di maestri in concorrenza fra loro; scontri fra stu­ denti sono comunque attestati anche per le altre metropoli (Antiochia, Cartagine, Roma). Valentiniano (364-375) ritenne perciò opportuno mettere gli studenti a Roma sotto stretto e continuo controllo come po­ tenziali creatori di disordini ( Cod. Theod. 14, 9, 1 ) . I ragazzi o i giovani uomini erano l a maggioranza anche fra i crimi­ nali comuni, come nel Medioevo e nella prima età modern a ? 89 Le peti­ zioni egizie che ci danno le prime risposte contengono solo di rado ac­ cenni all'età degli accusati 90, ma se si analizza il materiale presente nelle fonti nel complesso se ne ricava l'impressione che fra i criminali i giova­ ni fossero fortemente presenti. A loro si dovevano soprattutto i delitti sessuali (stupro, adulterio; pp. 162 ss. e 166 ss. ) , e il loro numero era de-

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LA C R I M I NALITÀ NEL M O N D O ANTI CO varo anche fra i colpevoli di violenza. Gli autori antichi danno per scon­ tato che nelle bande di briganti predominassero i giovani, e anche i membri delle fazioni circensi che nel VI secolo eseguivano omicidi a pa­ gamento erano ancora in età giovanile. Altrettanto vale per le persone legate al sottobosco criminale delle città: sicuramente erano in gran par­ te giovani che avevano lasciato la loro patria per cercare fortuna all'este­ ro, e li si poteva coinvolgere in qualsiasi tipo di attività criminale ( Lib . , Or. 1, 98 s . ) . Ugualmente, fra i ladri comuni sono menzionati spesso i giovani; l'amico di sant'Agostino, Alipio, fu catturato a Cartagine come ladro: lo si sospettava di aver sottratto del piombo da una cancellata nel foro. Ma come si scoprì ben presto, il colpevole era un giovane studente che aveva trafficato attorno alla cancellata insieme al suo schiavo (Aug. , Conf 6, 9, 14 s . ) . L a piramide delle età delle società preindustriali s i differenzia i n modo fondamentale da quella delle società industriali moderne. L a per­ centuale delle persone di quindici-trenta anni nell'impero romano po­ trebbe essere stata circa un quarto della popolazione complessiva 91• Già solo da questo si capisce che la criminalità era in gran parte giovanile. Se i ragazzi o i giovani (fino a trenta anni) sembrano spesso coinvolti in at­ tività criminali, bisogna ancora una volta rimandare alla loro assenza di legami familiari: si sposavano molto tardi e passavano molto tempo sen­ za doversi assumere la responsabilità di moglie o figli, mettevano alla prova le loro forze e volevano farsi riconoscere dai più anziani . In questo stadio di passaggio fra infanzia ed età adulta, i giovani godevano di li­ bertà piuttosto ampie. Gli autori cristiani rimproverano continuamente ai genitori il metodo educativo liberale: li viziano, permettono loro rap­ porti con le prostitute, non impediscono loro di perdere tempo nelle osterie, con il gioco d'azzardo e a teatro. I padri lasciavano molto spazio libero ai propri figli nel periodo lungo e difficile dell'avvicinamento al­ l' età adulta, destinato a concludersi solo con il matrimonio. Sicuramente fra i giovani c'erano anche criminali professionisti che si guadagnavano da vivere con attività illegali: giovani che non volevano praticare alcun mestiere regolare e diventavano briganti e altri che sper­ peravano il patrimonio ereditato e dopo vivevano di furti. Ma della cri­ minalità giovanile è tipico non tanto tutto ciò quanto il consumo di al­ col e la frequentazione delle osterie, le risse tra ubriachi, i delitti sessuali (adulterio e stupri ) , gli scontri violenti in occasione di rappresentazioni teatrali e corse di bighe o le liti fra gruppi di giovani rivali (ad esempio le associazioni studentesche) . Tutto ciò definisce i giovani violenti non

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO come gruppo marginale, ma come classe di età che aspetta di essere inte­ grata nel mondo adulto . È difficile che i giovani che frequentavano le osterie e si appassionavano per le corse di bighe e il teatro fossero ragazzi di umili origini, che in giovane età dovevano già contribuire alle finanze della famiglia. La violenza urbana non può essere ricondotta tanto ai di­ seredati o agli emarginati quanto piuttosto ai figli dei cittadini bene­ stanti e degli honoratiores.

Schiavi Gran parte dei reati era dovuta agli schiavi. Questi si ribellavano con la violenza ai loro proprietari e derubavano e ingannavano tanto i padroni quanto gli estranei 92• Per le strade di Roma giravano molti schiavi che non erano control­ lati dai loro padroni. Durante la repubblica i tresviri capita/es facevano arrestare gli schiavi che si aggiravano in città di notte e il giorno dopo li facevano frustare 93• Lo storico Tacito indica come compito dei prefetti urbani tenere a freno con pene deterrenti gli elementi turbolenti del po­ polo a Roma, fra cui spiccano gli schiavi (Ann. 6, n ) . Agli schiavi era rimproverata soprattutto l'inclinazione a l furto. Lo scrittore di agricoltura Columella (1 secolo d . C . ) consigliava, come ab­ biamo già visto, di non coltivare da sé i possedimenti troppo lontani ma di darli in affitto, perché gli schiavi, che a causa della grande distanza non avrebbero potuto essere controllati adeguatamente, avrebbero im­ poverito il raccolto rubandolo e comunque non avrebbero tenuto lonta­ ni con la dovuta attenzione i ladri (Colum. 1, 7, 6 s . ) . Se uno schiavo aveva compiuto un furto, secondo i giuristi si trattava di una mancanza che diminuiva considerevolmente il suo valore commerciale. I pericoli per i tesori accumulati derivavano non tanto dai ladri provenienti dall'e­ sterno quando dagli schiavi di casa, che più di tutti potevano impadro­ nirsi dei beni del padrone passando inosservati. La paura dei furti da parte dei proprietari era perciò grande, e se si restava vittime di un delit­ to contro la proprietà si sospettava prima di tutto dei propri schiavi. I sospettati erano frustati e messi in catene, perché per un delitto di poco conto il padrone poteva non portare in tribunale uno schiavo ma dove­ va farsi giustizia da sé. Molti furti avevano sicuramente origine dal cattivo trattamento da parte dei proprietari, che a volte fornivano ai loro schiavi cibo e vestiti

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO insufficienti. Ma questo non valeva come scusa: gli autori antichi, che quasi sempre erano essi stessi proprietari di schiavi, per lo più spiegava­ no i furti degli schiavi con la loro innata cattiveria e depravazione. Gli schiavi agivano spesso da soli, anche se capitavano furti compiu­ ti in gruppo da più schiavi. Avevano i loro aiutanti fra la popolazione li­ bera, che per esempio potevano nascondere la refurtiva. Un caso simile è documentato in un papiro : Aurelio Didimo, consigliere di Hermou­ polis in Egitto, accusa Ermes di essersi impossessato di un suo schiavo e di avergli rubato in casa con il suo aiuto (SB XVI I I , 14056) . Spesso al furto si univa la fuga degli schiavi. Uno schiavo dell' orato­ re Libanio, ad esempio, si fece convincere da una banda di criminali a rubare al padrone la ragguardevole somma di 1 . 500 solidi (monete d'oro) e a fuggire. S tando a Libanio, i banditi di solito uccidevano colo­ ro di cui si erano serviti, e forse anche il suo schiavo patì questo destino ( Or. 1, 61 ) . Spesso alla fuga seguivano altri reati . Alcuni schiavi, una vol­ ta sfuggiti al controllo del padrone, si davano al brigantaggio; altri si perdevano nelle città e probabilmente anche lì spesso si guadagnavano da vivere con attività illegali. I gruppi marginali della città si formavano proprio da esistenze come queste. Agli schiavi era dunque dovuta una percentuale considerevole dei delitti contro la proprietà. Lo stesso vale per quelli di violenza: anche se possiamo ritenere tendenziosa qualche affermazione nelle fonti secondo cui gli schiavi avrebbero un ruolo determinante nei disordini, è però vero che spesso si trovavano al centro delle risse. Le battaglie di strada nella Roma tardorepubblicana furono condotte in parte preponderante da loro 94• In età imperiale la violenza servile nella vita pubblica poteva essere tenuta sotto controllo, ma si sentiva sempre il rischio che gli schiavi delle grandi famiglie urbane potessero essere armati dai loro pa­ droni e usati per i loro scopo personali (Tac., Hist. 1, So; 3, 64) . Durante gli scontri del 419 d.C. fra i seguaci di Bonifacio e quelli di Eulalio per l'assegnazione del seggio vescovile a Roma, i seguaci di Eulalio furono aggrediti insieme al prefetto urbano Simmaco con pietre e in parte an­ che con spade; stando al resoconto di Simmaco, i facinorosi erano in gran parte schiavi ( Collectio Avellana 29) . Le liti fra schiavi, incluse quelle manesche, erano una scena quoti­ diana, e non di rado ne risultavano ferite o anche la morte di uno dei partecipanti. Nelle città gli schiavi erano tenuti sotto un controllo piut­ tosto scarso da parte del padrone, il che spiega perché restassero coinvol­ ti tanto spesso negli scontri violenti e si rendessero colpevoli di tanti al-

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P E RO ROMANO tri reati. Anche i liberi restavano vittima degli schiavi violenti; se qual­ cuno uccideva uno schiavo che gli aveva teso un agguato per rapinarlo, secondo l'opinione del giurista Gaio ( I I secolo) non poteva essere obbli­ gato a pagare un risarcimento danni al proprietario dello schiavo (Dig.

9, 2, 4) . Nel 10 d.C. una decisione del senato, il senatus consultum Silania­ num, aveva ordinato che tutti gli schiavi che avevano vissuto sotto lo stesso tetto fossero torturati e uccisi se uno di loro aveva ucciso il padro­ ne. Le accese discussioni dei giuristi sul senatus consultum Silanianum testimoniano che un buon numero di padroni doveva essere rimasta vit­ tima dei propri schiavi, come lasciano capire anche gli sporadici riferi­ menti nelle fonti letterarie. Forse i pericoli per la vita non erano in ag­ guato per le strade (rapinatori) tanto quanto in casa propria. Il rapporto fra schiavi e padroni era segnato dalla sfiducia e spesso i padroni avevano paura dei propri schiavi. Capitava che questi fossero venduti con la clausola che non potessero recarsi in determinati luoghi, nell'interesse della sicurezza del proprietario precedente (Dig. 18, 7, 1 ) . All'origine d i molti d i questi delitti c'era i l cattivo trattamento che gli schiavi subivano dai loro padroni; e così il padre della Chiesa sant'Ago­ stino discute il problema se uno schiavo che rischia la tortura sia giusti­ ficato se uccide il padrone (De libero arbitrio 1, 9, 2 5 ; 1, 10, 28 ss. ) . Talvolta gli schiavi venivano accusati d i omicidio anche senza ele­ menti concreti: in base a un oracolo del falso profeta Alessandro ( I I se­ colo) alcuni schiavi furono accusati di aver ucciso il figlio del loro pa­ drone ad Alessandria: trovati colpevoli, furono gettati in pasto alle bel­ ve. Poco tempo dopo, però, il ragazzo ricomparve vivo e vegeto ( Lucia­ no, Alessandro 44) . Qualche volta gli schiavi erano incaricati da persone esterne al nu­ cleo familiare di uccidere i loro padroni. Se un padrone era ucciso da uno dei suoi schiavi, la cosa comportava per tutti le conseguenze già de­ scritte: tutta la servitù era interrogata sotto tortura per fare il nome di un ipotetico committente (Dig. 29, 5, 6, pr.; 29, 5, 17). Si poteva tutta­ via presumere che nelle famiglie più ampie si sarebbe trovato almeno uno schiavo che odiasse il padrone abbastanza da rischiare di assassi­ narlo. Infine, gli schiavi erano istigati dai loro padroni a compiere i delitti più diversi (furto, furto di terreno, omicidio) . E quando non c'erano di­ rettamente loro dietro ai reati, allora i padroni coprivano gli schiavi che si erano impossessati di beni altrui, invece di punirli con la severità do-

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LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO vuta. Un vescovo, ad esempio, poté essere fondatamente accusato di non aver fatto pagare il fio a uno schiavo che aveva commesso un omici­ dio ( Palladio, Vita !oh. Chrys. 13). Spesso gli schiavi trovavano protezio­ ne presso il proprio padrone, se le loro malefatte non colpivano diretta­ mente i suoi interessi, ed è facile intuire quanto ciò abbia contribuito al­ l'insicurezza nelle città. La critica dello storico Ammiano Marcellino (Iv secolo) ai senatori della città di Roma punta proprio a questo malcostu­ me: piccole mancanze degli schiavi sono punite con severità esagerata, mentre se uno schiavo ha ucciso un estraneo, il padrone lo prende sotto la sua protezione e lo sottrae alla pena (Amm. 28, 4, 16) . La testimonianza delle fonti letterarie e giuridiche e dei papiri è uni­ voca: furti e violenze commessi dagli schiavi erano all'ordine del giorno nelle città e nelle campagne. Certo, gli schiavi contribuivano molto al prestigio dei ricchi, ma erano anche una fonte costante di pericoli e in­ convenienti. Il rischio di restare vittima di ingiurie, furti o atti di violen­ za da parte degli schiavi propri o altrui era alto. Questa panoramica di delitti ci trasmette un'immagine sicuramente cupa e sgradevole, ma i reati degli schiavi potevano far parte dell'espe­ rienza di qualunque abitante di città o di campagna. Il significato di questa situazione si chiarisce tenendo presente il gran numero di schiavi nelle città e in parte anche nelle campagne. Anche i campagnoli relativa­ mente poveri spesso avevano schiavi, così come le famiglie cittadine che potrebbero essere definite " povere" . La percentuale degli schiavi sulla popolazione d'Italia può essere stimata nella tarda repubblica e all'inizio dell'impero in circa un terzo della popolazione totale, e non è affatto certo che nella tarda antichità si sia ridotta di molto, mentre la percen­ tuale sulla popolazione totale dell'impero romano (50-60 milioni) era forse sull'ordine del 20%. Si può dunque immaginare quale importanza possa aver avuto la criminalità degli schiavi. Perciò, se si può attribuire una certa affinità con il crimine a un preciso gruppo sociale dell'antichi­ tà romana, questo gruppo erano gli schiavi.

Una sottocultura criminale? Più volte ci è capitato di chiederci se i criminali nell'impero romano ap­ partenessero a un gruppo sociale marginale; a tale proposito abbiamo ac­ cennato al gran numero di criminali occasionali, sia riguardo ai delitti di violenza sia riguardo a quelli contro la proprietà. Ciò non deve far esclu-

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LA C R I M I NALITÀ NELL'IM P E RO ROMANO dere a priori l'esistenza di una sottocultura criminale, ma d'altra parte quello che abbiamo appreso sulle bande di briganti non induce ad attri­ buire grande importanza a una simile " sottocultura" o " controcultura" . Se s i deve parlare di u n a sottocultura criminale, bisogna pensare a i sen­ za fissa dimora, ai vagabondi e ai senzatetto negli studi sulla storia della criminalità nel Medioevo e nella prima età moderna. Quale legame esi­ steva nell'impero romano fra lo status di senza fissa dimora o di senza­ tetto da un lato e la criminalità dall'altro ? Nelle pagine seguenti biso­ gnerà distinguere fra la situazione delle campagne e quella delle città. La popolazione di età imperiale, per essere quella di una società preindustriale, può essere considerata estremamente mobile. Il gruppo di coloro che non avevano un domicilio stabile era formato dalle perso­ ne più disparate. Oltre agli schiavi fuggitivi e ai disertori, bisogna pensa­ re ai contadini che erano stati costretti a lasciare i campi per il carico fi­ scale. Ovviamente in molti casi la fuga dalle campagne (anacoresi) era solo temporanea: appena si verificava un'amnistia o una riduzione delle tasse, molti fuggitivi tornavano indietro. I riferimenti ai contadini nei papiri egiziani e nelle altre fonti, dunque, non deve essere sempre equiparato a uno sradicamento totale, a un passaggio perma­ nente verso il vagabondaggio o il declassamento sociale. Un altro grup­ po erano i giovani che cercavano fortuna all'estero e che probabilmente preferivano orientarsi verso le grandi città. Molti di loro avevano diffi­ coltà a rimettere radici e a costruirsi una nuova esistenza. Poi, nella tar­ da antichità, a partire dalla fine del IV secolo, furono soprattutto gli sfol­ lati di guerra a formare il gruppo dei senza fissa dimora. In questi anni di disordini militari esisteva un gran numero di persone mobili che si stabilivano in un luogo al massimo per un breve periodo. In una legge di Valentiniano I I I della metà del v secolo si parla di liberi definiti e : per uscire dalla loro misera condi­ zione, stipulavano un contratto di lavoro, per lo più in un podere, e si sposavano con una dipendente del loro nuovo datore di lavoro, ma ap­ pena la loro situazione migliorava abbandonavano il lavoro e la famiglia

(Novella Valentiniani 31, 5 ) . La grande mobilità regionale non impediva che i n molte piccole co­ munità gli stranieri fossero guardati con sospetto. Quando in una pic­ cola città comparvero alcuni forestieri che spendevano denaro a piene mani, sorse subito il sospetto che si trattasse di briganti o almeno di schiavi fuggitivi (Caritone 4, 5, 3 s . ) , e così alcuni liberi furono arrestati e imprigionati come presunti fuggitivi (Dig. 47, 10, 22) . Di certo all'e-

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LA C R I M I NALITÀ NEL M O N DO ANTI CO stero nessuno poteva portarsi testimoni che fossero in grado di attestare il suo stato giuridico di libero; perciò nelle persone che si trovavano per strada e vivevano senza fissa dimora spesso si vedevano solo malviventi cui si attribuiva ogni sorta di misfatti . Ecco perché era considerato un insulto grave chiamare qualcuno (Bas. , Horn. adversos eos

qui irascuntur 3). Eppure i riferimenti precisi a u n legame fra criminalità e vagabondag­ gio sono rari. Stando all'editto di un governatore egizio, il praefectus Aegy­ pti Marco Sempronio Liberale (154 d.C. ) , i contadini fuggiti dai loro campi si erano dati a commettere ruberie. Quelli fuggiti dalla campagna furono invitati a tornare ai loro luoghi d'origine, e si prometteva loro l'amnistia; scaduto il tempo messo a loro disposizione, quelli che non se ne fossero andati sarebbero stati considerati criminali provati e consegnati al prefetto 95• Ma se si prescinde da questa testimonianza, nelle fonti non viene attribuita ai senzatetto e ai vagabondi una particolare propensione alla violenza o una spiccata tendenza al crimine (contro la proprietà). Per la sicurezza interna, costoro non rappresentavano alcun problema. Schiavi fuggitivi, disertori, carcerati evasi, gente che scappava dalle tasse (anacoreti) e sfollati di guerra facevano parte della gente di strada in età imperiale. Alcuni di loro si davano all'accattonaggio e talvolta commettevano furti di poco conto quando se ne presentava l'occasione, ma per la maggior parte si integravano nella società e non diventavano né emarginati né fuorilegge. Come abbiamo visto, nei latifondi c'era sempre bisogno di forza lavoro, ed erano soprattutto questi luoghi ad assorbire schiavi fuggitivi, coloni o disertori . Nella tarda antichità anche la Chiesa si sforzava di migliorare la sorte dei senzatetto. Di primo acchito, questo risultato contrasta con la situazione del­ l'Europa fra tardo Medioevo e prima età moderna, quando c'erano mendicanti, vagabondi e senza fissa dimora che si trascinavano di città in città e per la maggior parte erano sospettati di tendenze criminali. 96 Ma forse le differenze non sono tanto grandi come potrebbe sembrare in un primo momento, perché anche nell'Inghilterra di quel periodo un esame degli atti giuridici mostra che, malgrado i timori diffusi nella so­ cietà che trovarono un'eco anche nella letteratura e nella pubblicistica contemporanee, i vagabondi che si guadagnavano da vivere con la cri­ minalità erano relativamente pochi; al massimo si rendevano colpevoli di piccoli furti, e solo quando si presentava un'occasione favorevole 97• Se le persone che spesso si aggiravano per le strade provinciali non costituivano una classe criminale, dobbiamo comunque chiederci se

LA C R I M I NALITÀ NELL' I M P ERO ROMANO nelle città esistesse un ambiente criminale. Il proletariato urbano era formato in non piccola parte da immigrati. Le metropoli vivevano di un flusso costante dalla campagna circostante: città come Roma, Costanti­ nopoli, Alessandria, Antiochia e Cartagine, per le condizioni demogra­ fiche insufficienti, non avrebbero mai potuto mantenere invariato il loro numero di abitanti senza questo movimento migratorio. Ciò non toglie che l'antipatia verso gli immigrati fosse grande, come abbiamo già visto. Nelle metropoli gli stranieri erano sempre ritenuti re­ sponsabili di disordini e violenze. Soprattutto, non erano neanche inte­ grati nel sistema del vicinato, che esercitava un certo controllo sociale, e questo può aver avuto un riflesso in un aumento del tasso di criminalità. Anche nelle città medievali e moderne molti criminali erano immigrati : nelle grandi città erano abbandonati a se stessi senza essere integrati in vincoli di famiglia o di vicinato, e il controllo sociale che funzionava a meraviglia nel villaggio non era altrettanto efficace nella metropoli 98• Ciononostante, le città di età imperiale sembrano aver retto decisa­ mente bene all'immigrazione. Nella Roma tardoantica l'amministrazio­ ne teneva il conto dei forestieri . Più volte, quando ci furono difficoltà di rifornimenti, gli stranieri furono cacciati dalla città. Questo presuppone un controllo efficace delle popolazione; gli immigrati (ed eventualmen­ te gli elementi criminali) , dunque, non potevano immergersi a loro pia­ cimento nella massa anonima. A ciò dovette contribuire non poco la suddivisione della città in quartieri ( vici) , unità controllabili in cui i vi­ cini si conoscevano bene fra loro. Qui gli stranieri non potevano restare nascosti troppo a lungo. Neanche i nullatenenti costituivano un ambiente criminale nelle città antiche. Nella legislazione si trova solo un accenno al fatto che i mendicanti siano propensi ai crimini (Nov. Iust. So, 4 s. ) . Certo, i ricchi sospettavano i mendicanti di città di essere schiavi fuggitivi, briganti o ladri, ma per lo più non si trattava di ribelli: accettavano il loro destino, forse sognavano la ricchezza, ma per la maggior parte non cercavano di rimediare alla povertà con crimini contro la proprietà dei ricchi. Quasi tutti i poveri, si trattasse di piccoli possidenti (artigiani e commercianti) o di mendicanti, erano integrati nella società, e non erano una classe

dangereuse. Nelle grandi città fra tardo Medioevo e prima età moderna si iniziò a realizzare un isolamento dei gruppi marginali nella topografia urbana. In città come Parigi o Avignone esistevano già alla fine del Medioevo quartieri che godevano di cattiva fama a causa di un tasso di criminalità

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO particolarmente alto 99• Sicuramente anche nell'antica Roma c'erano quartieri considerati malsani e in cui perciò vivevano soprattutto i pove­ ri; ma nel complesso, fino alla tarda antichità fu una caratteristica della topografia sociale di Roma come delle altre città dell'impero romano il fatto che ricchi e poveri vivessero a stretto contatto negli stessi quartieri urbani . Nelle città antiche non si verificò alcun isolamento né margina­ lizzazione dei poveri. Sicuramente erano attivi anche malviventi professionisti: ricordiamo ancora una volta i sicarii della Roma tardorepubblicana (p. 120 ) , e non molto diversi erano i tagliaborse che nella tarda antichità agivano persino in chiesa durante il servizio divino. Questo modifica in parte il profilo della criminalità per come abbiamo cercato di tracciarlo, ma non lo altera in modo sostanziale. Fra i criminali bisogna ammettere l'esistenza di una percentuale molto bassa di delinquenti di professione, che va ritenuta de­ cisamente più ristretta di quella di una moderna società industriale. Forse la criminalità causata dalla povertà era in qualche modo molesta, ma la povertà restava un fenomeno controllabile. La maggior parte delle città contava solo poche migliaia di abitanti, al massimo qualche decina di mi­ gliaia, e il numero dei bisognosi andava da qualche centinaio fino a un massimo di qualche migliaio. Quasi tutte le città non conoscevano bassi­ fondi o quartieri poveri con un alto tasso di criminalità. I concetti moderni di reato e criminalità, dunque, possono essere applicati solo con riserva allo studio e alla valutazione dei fenomeni so­ ciali analoghi nell'antichità. Nelle città antiche non esisteva alcuna " classe criminale" . Una parte dei delitti (in particolare i furti) era, come abbiamo visto, motivata dal bisogno. Se in epoche di crisi (difficoltà di approvvigionamento o rincaro dei cereali ) gli artigiani e i piccoli com­ mercianti cadevano in miseria, i reati potevano essere commessi anche da questi gruppi. Molti abitanti della città, dunque, commisero un rea­ to nel corso della loro vita, ma questo non fa di loro dei criminali nel senso moderno del termine. Solo la minoranza dei delitti andava ascritta a ladri abituali o delinquenti di professione. Anche qui è utile il confronto con altre epoche. In molti periodi della storia medievale e moderna fra i criminali la maggior parte furono " normali" cittadini della società urbana e rurale: artigiani, contadini e persone che non si potrebbe far rientrare in gruppi marginali della so­ cietà. Lo stesso vale per le metropoli della prima età moderna come Pa­ rigi o Londra: anche lì la criminalità organizzata costituiva solo una pic­ cola parte di tutti i delitti portati in tribunale 1 0 0 •

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Conclusione

Una ricerca sulla criminalità rende più chiari alcuni aspetti delle tensio­ ni nella società antica. Il materiale delle fonti, essendo così frammenta­ rio se preso in sé, sicuramente non permette di fornire dati quantitativa­ mente sicuri; è comunque possibile formulare alcune ipotesi plausibili. Una percentuale relativamente bassa dei poveri cadeva nella crimi­ nalità, costituiva una sottocultura criminale nelle città o si aggregava alle bande di briganti. Sarebbe una grave esagerazione parlare di " classe criminale" riguardo ai non molti criminali di professione. La maggior parte dei delitti era compiuta quando si presentava un'occasione favore­ vole, e non erano prerogativa di un gruppo marginale della società. An­ che le vittime erano raramente persone molto ricche, perché i ricchi ave­ vano ogni mezzo per difendersi dai furti. Più spesso, colpevole e vittima provenivano dallo stesso ceto sociale, e le vittime, se proprio erano più ricche dei colpevoli, lo erano di poco. Spesso i criminali erano contadini o artigiani , quindi persone che praticavano un mestiere onorevole ed erano integrate nella società. Sicuramente c'erano anche ladri di profes­ sione, ma non ricorrono mai nelle fonti, e altrettanto scarso era il ruolo della criminalità di gruppo nelle città. Uno studio sulla criminalità antica deve naturalmente affrontare anche la marginalità e i gruppi ai confini della società, ma ci porta diret­ tamente al centro della società. I poveri non costituivano un gruppo so­ ciale marginale. L'appartenenza alla famiglia e al vicinato e il senso il ri­ spetto che i poveri portavano ai ricchi impedivano che i primi si ribel­ lassero ai secondi, sia pure in azioni individuali. Lo stesso non si può dire per i rapporti fra schiavi e padroni. In que­ sto ambito le tensioni e i conflitti si notano sempre di più, e sicuramen­ te anche nell'impero romano. Il carattere inumano e coercitivo della schiavitù si manifestava nel fatto che gli schiavi, se pure non avevano al­ cuna speranza di rivoltarsi in massa contro i loro padroni, si ribellavano individualmente o in piccoli gruppi contro i loro interessi : alcuni schia-

LA C R I M I NALITÀ N E L MONDO ANTICO vi impiegati come amministratori sottraevano fondi, altri rubavano cose di famiglia, oggetti di valore, capi d'abbigliamento o denaro e fuggivano. Anche i crimini di violenza o quelli sessuali non erano certo appan­ naggio dei poveri. Fra i colpevoli si trovavano membri di tutte le classi sociali. Ad accapigliarsi non erano ricchi e poveri, ma membri della stes­ sa classe, spesso vicini di casa. Il vicinato era un luogo di solidarietà, ma anche una fonte di frequenti conflitti. Per lo più i violenti non apparte­ nevano a gruppi sociali marginali, e non erano " fuorilegge" . Abbiamo più volte accennato a una situazione analoga negli studi sulla prima età moderna. L'insieme dei delitti nell'antichità era dominato dai delitti contro la proprietà o da quelli di violenza ? Non siamo in grado di fornire una ri­ sposta soddisfacente. Se si guarda all'insieme delle nostre fonti, si ha l'impressione che le persone, in Grecia come nell'impero romano, do­ vessero temere più per le loro cose che per la loro vita. In questo caso l'antichità starebbe in netto contrasto con molte altre società preindu­ striali, che per l'appunto sono caratterizzate da una massiccia propen­ sione alla violenza. È evidente che nell'antichità greco-romana si dava alla proprietà un valore più alto che all'integrità della persona ' ; la perdita dei beni pote­ va colpire membri delle classi umili in città e in campagna in modo più profondo. La violenza, invece, si muoveva a un livello relativamente basso: le persone ci erano abituate e non reagivano con particolare paura. Sicuramente un nudo elenco degli atti di violenza fa nascere per ogni società un'idea di grande insicurezza e violenza; e sicuramente nelle poleis greche così come nell'impero romano gli scontri violenti fra vicini e familiari erano all'ordine del giorno. Ma questi scontri assumevano solo di rado quell'aspetto cruento che avevano in molte altre società agricole. Non bisogna semplicemente giudicare quanto sia " violenta" una società. Il fatto che la società ateniese di età classica e l'impero ro­ mano fossero relativamente inclini alla pace risulta chiaro da un con­ fronto con il primo Medioevo. L'opera storica di Gregorio di Tours non lascia alcun dubbio sul fatto che la violenza sia aumentata con il de­ clino delle strutture statali nella Gallia del VI secolo. Poiché le autorità statali non offrivano alcun aiuto, gli abitanti dovevano farsi giustizia da sé, e in quest'epoca anche i Gallo-romani acquisirono il principio dell'i­ niziativa privata 2•

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CONCLUSIONE

L a faide familiari cruente, che nelle fonti n o n sono attestate per l'antichità, erano molto frequenti nella Gallia dei Franchi 3 • La mancan­ za di faide e vendette familiari differenzia ulteriormente la cultura gre­ co-romana nei periodi trattati in questo studio (Grecia classica, tarda re­ pubblica ed età imperiale) da quasi tutte le altre società contadine. Nelle società in cui i legami familiari sono forti ma lo stato è debole, l'espia­ zione dei delitti e la punizione dei colpevoli sono spesso in mano ai pa­ renti della vittima, e le faide familiari che ne nascono talvolta si trascina­ no per più generazioni. Il fatto che nelle fonti antiche non leggiamo nulla di tutto ciò non può essere un caso della tradizione: gli scontri cruenti avrebbero sicuramente trovato risonanza nella legislazione, nelle tante fonti narrative e nei papiri. Se ci si voleva vendicare di un torto su­ bito, ci si rivolgeva alla giustizia. Quando nelle fonti dell'Atene classica o della repubblica o impero romano si parla di timoria o di ultio ( " ven­ detta " ) , per lo più si intende la punizione comminata dal tribunale. Nella società del Medioevo e della prima età moderna rimase una netta tendenza a risolvere i confl.itti con la violenza, e il controllo delle emozioni funzionava in modo molto insufficiente. Nell'Inghilterra tar­ domedievale l'omicidio era il terzo delitto in ordine di frequenza (18,2%); il tasso di omicidi nella Londra medievale è stimato in 3,6-5,2 casi su 10.000 abitanti; invece fra il 1948 e il 1952 a Miami il tasso fu di soli 1 , 5 casi su 1o.ooo abitanti 4• Nella Roma di inizio Rinascimento il tasso di omicidi forse era ancora più elevato che nella Londra medieva­ le 5• Si può dunque dare per certa una maggiore tendenza alla violenza nel Medioevo e all'inizio dell'età moderna. Il quadro che risulta dalle fonti per l'antichità è ben diverso. Anche questo periodo conobbe molta violenza, ma fu una violenza qualitativamente e quantitativamente di­ versa da quella che si può osservare nelle epoche citate. Un aspetto es­ senziale della differenza è sicuramente la diffusione e l'impiego delle armi. Anche se non si poteva impedire completamente di portare armi, questi strumenti di omicidio non erano diffusi come in altre società preindustriali, in cui saper usare un'arma e impiegarla concretamente erano una parte essenziale dell'autodefì.nizione di ogni uomo. In queste società ci si aspettava che un uomo reagisse a un danno inferto all'onore con la violenza armata; nell'antichità, invece, un uomo ferito nell'onore preferiva andare in tribunale. Forse questo è il risultato più notevole di questo studio. Anche la società greco-romana conobbe molta aggressività, e la salvaguardia del proprio onore ebbe la stessa importanza che nelle società mediterranee

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N DO ANTICO moderne. Perciò, se nell'antichità le persone usavano la violenza fisica solo di rado per regolare i conflitti, questo non significa che fossero di per sé più pacifici degli uomini del tardo Medioevo o delle aree rurali mediterranee del passato, ma che avevano a disposizione mezzi civili per comporre i conflitti . Fra questi mezzi vanno citati in primo luogo i tribunali statali, cui vanno aggiunti anche gli arbitrati privati e (nella tarda antichità) i tribunali vescovili; e vi facevano ricorso anche sempli­ ci contadini con una frequenza stupefacente per una società agricola. Sicuramente questo è il motivo determinante per cui la cultura greco­ romana ebbe un carattere relativamente pacifico per lunghi periodi di tempo.

188

Note

l

I ntroduzione Shaw ( 1 984) ; cfr. anche Id. (1989 ) . 2 Herman ( 1 994) ; Cohen ( 1 9 9 5 ) ; Fisher (1998; 1 9 9 9 ) ; Drexhage ( 1 988a; 1988b).

2 Perseguimento e pun izione dei crimini ad Atene

2 4 5 6 7 8 9 10 11

Hunter ( 19 94, pp. 1 43 ss. ) . Humphreys ( 1 9 8 5 ) ; Todd ( 1 9 9 0 ) . Hansen ( 1976, pp. 9 ss. ) . Todd (1993, pp. 99 ss. ) . Osborne ( 1 9 8 5 ) . Osborne (1985, pp. 52 s . ) ; H unter ( 1 9 94, pp. 125 ss. ) ; Cohen ( 1 9 9 5 ) . Harrison (1971, pp. 64 ss. ) ; Todd (1993, pp. 123 ss.) . Todd (1993, pp. 139 ss. ) ; Debrun ner Hall ( 1 9 9 6 ) . Hunter ( 19 94, pp. 179 s . ) . Hansen ( 1976, pp. 55 ss. ) . Gernet (1 924) .

La criminalità nell'Atene classica

2 4 5 6

MacDowell (1978, pp. 1 26 ss. ) ; Todd (1993, pp. 258 ss. ) . MacDowell (1978, pp. 1 23 s. ) . Fisher ( 1976; 1979; 1990; 1 9 9 2 ) ; Gagarin (1979); Murray ( 1 9 9 0 ) . Cohen ( 1 9 9 5 ) ; F isher ( 1 9 9 8 ) ; Herman ( 1 994; 1 9 9 5 ) . Retorica 2, 2, 1378b 26-29; 2, 16, 1390b 31-1391a 2 e 1391a 17-19. Herman ( 19 94, pp. 105 ss.) .

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO 7 pp. 8 9 10 11 12 13 14 15

MacDowell (1963); Stroud (1968); Gagarin (1981 ) ; T h i.i r ( 1 9 9 0 ) ; Todd (1993; 271 ss. ) ; Tulin (1996). Cohen (1983); Todd (1993, pp. 79 ss., 283 s . ) . Bolkestein (1939, pp. 187 s.) Politica 1 266b 38-67a 17; 1271a 16-18; 1 2 9 5 b 6-1 1 . Fisher ( 1 9 9 9 , pp. 6 8 ss. , 7 5 ss. ) . Cohen (1984; 1990; 199 1a, pp. 98 ss. ) ; Todd (1993, pp. 2 7 6 ss. ) . Cohen (1989 ) . Harris (1990, p p . 373 s . ) . Dover (1978); Cohen ( 1 987; 1991b, p p . 1 7 1 ss. ) .

4 Perseguimento e pun izione dei crimini nell'impero romano Lintott ( 1 968, pp. 89 ss. ; 1999, pp. 141 ss. ) ; Nippel (1995, pp. 4 ss. ) . 2 H irschfeld ( 1 8 9 1 ) ; Durry (1938); Freis ( 1 967) ; Nippel (1995, pp. 90 ss. ) ; Ott ( 1 9 9 5 ) ; Sablayrolles (1996); Nelis-Clément (2000 ) . Chastagnol ( 1 960, pp. 226 ss., 254 ss. ) ; Sinn igen ( 1 9 57, pp. 89 s . ) . 3 Isaac (1990, pp. 182 s . ) . 4 Ott ( 1 9 9 5 . p. m ) . 5 Davies (1973 ) ; Alston (1995. pp. 86 ss. ) ; Nelis-Clément (2000, pp. 236 ss. ) . 6 7 P. Euphr. 5; Isaac (1990, pp. 1 1 5 ss. ) . 8 Hennig (2002 ) . 9 Dig. 48, 17, 1; 48, 17, 5; Cod. lust. 9, 40, 1 ; Cod. Theod. 9, 1, 2 . 1 0 Krause ( 1 9 9 6 , pp. 2 9 1 ss. ) . 11 Lintott ( 1 968, pp. 1 1 s., 22 ss. ) . Flemming (1917, pp. 81 ss.) . 12 Bellen (1971, p p . 5 s . ) . 13 14 Cantarella (1972) . 15 Wesener ( 19 58); Humbert ( 1 9 9 1 , p p . 1 54 ss. ) ; Manfredini ( 1 9 9 6 ) . 1 6 Apul . , Met. 1 , 10, 1 ss. ; 2, 2 7 , 2 s s . ; 1 0 , 6, 1 ss. Kunkel ( 1 962) ; Jones (1972); Santalucia (1998, pp. 1 ss. ) ; Lintott (1999, pp. 17 147 ss. ) . Krause ( 1 9 9 6 , pp. 2 0 3 ss. ) . 18 Krause (1996, pp. 8 ss.) . 19 20 Kunkel (1962, pp. 71 ss. ) . 21 M illar ( 1984) . 22 Mommsen (1899, pp. 9 1 1 ss.) . 23 Ville (1981, pp. 232 ss. ) ; Wiedemann (1992, pp. 68 ss.) ; Kyle (1998, pp. 91 ss.) . 2 4 Garnsey (1970) . 25 Garnsey (1968 ) ; MacMullen ( 1 9 8 6 ) .

NOTE

26 27 28 29 30 31 32 33

Oliver, Palmer ( 1 9 5 5 ) . Ville ( 1 960, pp. 312 ss.) . Dinkler von Schubert ( 1 9 9 5 ) . Dionisotti (1982, pp. 1 04 s . ) . Krause (1996, pp. 330 ss. ) . Krause (1996, p p . 2 1 8 ss.) . Dig. 47, 2, 55 (54), 5; 47, 2, 57 (56), 4· P. Mich. V I I I , 473; Modrzejewski (1957).

La criminalità nell'impero romano

Cod. lust. 9 , 35, 9; 9 , 35, 10; Cod. Theod. 4, 8, 5, 5· Joh. Chrys., In Matthaeum horn. 87 (88 ) , 4; Cod. lust. 9, 35, 5 · Mommsen (1899, pp. 7 8 4 ss. ) ; P6lay ( 1 9 8 9 ) . Pau!. , Sent. 5, 4, 5; Dig. 47, 10, 1 , 2; 47, 1 0 , 9, 4; 47, 1 0 , 1 5 , 15 ss. ; Gaio 3, 220; 4 lnst. lust. 4, 4, 1 . Dig. 47, 1 0 , 1 1 , 9; 47, 10, 22; Cod. lust. 9, 3 5 , 9; 9, 3 5 , 10. 5 6 Dig. 37, 14, 1; 37, 1 5 , 2, pr.; 47, 10, 7, 2; 47, 10, 1 1 , 7; 47, 1 0 , 17, 3 · Krause (1996, pp. 103 ss. ) . 7 Krause (1996, pp. 156 ss. ) . 8 9 Wesener ( 1 9 5 8 ) . 1 0 MacMullen ( 1966, pp. 170 s . ) ; Bollinger ( 1 9 6 9 ) . 11 Rhetorica ad Herennium 2, 24; Cic., De inventione 2, q; Quint., Inst. or. 4, 2 , 68 ss. 12 Watson ( 1970) ; D'Arms ( 1 9 9 5 ) . Sperber ( 19 70, p. 260 ) . 13 14 Kleberg (1957). Sperber ( 19 70, p p . 2 5 7 ss. , 262 s. ) . 15 1 6 Hermansen ( 1 974) . 17 Hopwood (1998, pp. 196 s.). Stumpp (1998, pp. 86 ss. ) . 18 19 Barry (1988; 1 9 9 3 ) . 2 0 Blok ( 1 9 8 1 ) ; cfr. anche Macfarlane ( 1 9 8 1 , pp. 1 7 4 ss. ) ; Muchembled (1989, pp. 33 ss. ) . 2 1 Wilson (1988, p p . 7 6 ss.) . 22 P. Cair. lsidor. 78; 79; 140; P. Col. V I I , 171; P. Mert. 1 1 , 92. 23 Foster ( 1960-6 1 ) . 24 Brunt ( 1 971, pp. 551 ss. ) . 2 5 Lintott (1968, p p . 1 2 5 ss. ) ; Brunt (1971, p p . 5 5 3 ss. ) ; Frier (1985, p p . 5 1 ss.) . 26 Krause ( 1 994-9 5, Bd. 2, pp. 234 s.; Bd. 3, p. 200 ) . 2

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO 2 7 Ascan io, In toga candida 78, p. 87 Clark; C i c . , In Catilinam 3 , 1 4 . 2 8 Castan ( 1 98ob, pp. 8 6 ss. ) ; Macfarlane ( 1 9 8 1 , pp. 178 s . ) . 29 Aigner ( 1 976) . 30 H ier. , In Isaiam 3, 4; Prisco, fr. 11, 2 Blockley. 31 Socr., Hist. ecc!. 2, 38, 29 ss.; Soz., Hist. ecc!. 4, 21, 1 s. 32 Chiffoleau ( 1 984, pp. 122, 146 s.); Dinges (1988, pp. 240 ) ; Muchembled (1989, pp. 33 ss. ) ; Cockburn ( 1 9 9 1 , pp. 82 s . ) ; Schwerhoff ( 1 9 9 1 , pp. 292 s . ) ; Crou­ zet-Pavan (1992, pp. 8oS ss. ) . Saller ( 1 994, pp. 133 ss.) . 33 34 Kunkel (1962, pp. 37 ss. , 97 ss.) . Krause (1994-95, pp. J , 209 ss.) . 35 3 6 Dig. 14, 6, 1 ; Inst. Iust. 4 , 7 , 7 ; Suet., Vesp. 1 1 . 37 Thomas ( 1 9 8 1 , pp. 659 ss.) . 38 Cic., Pro S. Roscio; Plut., Cicero 26, 7; 48 , 1. 39 Liv. 8 , 1 8 ; 40, 37, 4 ss.; Pailler ( 1 987) . 40 Versnel ( 1 9 9 1 , pp. 70 s . ) . Hanawalt ( 1 976, pp. 3 0 9 , 3 1 1 s . ) ; Cockburn ( 1 977, pp. 56 s . ) ; Sharpe (1983, 41 pp. 1 3 1 ss. ) . 42 Cockburn ( 1977, p. 57); cfr. anche Sharpe (1983, p. 127). 43 Mommsen (1899, pp. 733 ss. ) ; Kaser (1971, pp. 1 57 ss. , 614 ss. ) . 44 Krause (1996, p. 1 0 8 ) . 4 5 Dig. 4 7 , 1 4 , t ; Colf. 1 1 , 7; 1 1 , 8, 4 · 46 Dig. 47, 1 1 , 7; 47, 17, 1; 47, 1 8 , 1, 2; 47, 1 8 , 2. 47 Drexhage ( 1 988a, p. 313; 1988b, p. 9 5 3 ) . 48 Tomlin ( 1 9 8 8 ) . 4 9 Saller ( 1 994, pp. 88 ss.) . 5 0 Strubbe ( 1 997) . Rostowzew (1905); Aug., De opere monachorum 23, 28. 51 52 Herz (1988 ) . 5 3 T rad. L . Argentieri. 54 Pau! . , Sent. 5, 1 8 , 3; Colf. 1 1 , 4; 1 1 , 6, 2 . Dig. 47, 14, 1 , pr.; Colf. 1 1 , 7, 1. 55 56 Drexhage ( 1 988b, pp. 986 ss.) . 57 Tomlin (1988, pp. 79 s . ) . 5 8 Manfredini ( 1 996, pp. 5 0 6 ss.) . 59 Tomlin (1988, pp. 79 s . ) . 6 o Manfredini ( 1 996, pp. 5 0 6 ss.) . 61 Hanawalt (1979, pp. 70 s . ) ; Chiffoleau (1984, pp. 161 ss. ) ; Sharpe ( 1 977, pp. 96 ss. , 100 ss. , 1 0 8 ) . 6 2 Lib . , Or. 1 9 , 57 s.; 23, 18; 3 4 , 7; 4 6 , 9 ; 5 0 , 2 6 . 6 3 Shaw (1 984, pp. 29 s . ; 1989, pp. 352 ss. ) . 64 Campbell (1 984, pp. 303 ss.) . 65 Shaw (1 984, p . 29 ) .

NOTE

66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 8o 81 82 83

Alston (1995. p . 8 3 ) . Riess (2001 , pp. 1 56 s . ) . Nov. Iust. 8, 12, 1 ; 8, 13; !J , 4, p r . ; 29, 5; 128, 2 1 . B l o k (1981 ) . Krause (1 987, pp. 218 ss. ) . Velleio Patercolo 2, 126, 3 ; Epitteto 3, !J , 9; Joh. Chrys., A d Stagirium 2, 6 . MacMullen (1966, pp. 192 ss. ) . lsaac ( 1 984, p. 200 ) . McArdle ( 1 978, pp. 1 9 9 ss. ) . Rilinger (1988, p p . 1 6 4 ss. ) . Dig. 48, 8, 1, 5; Cod. Iust. 9 , 9 , 4; Pau!., Sent. 2, 26, 5· Sardella (1993, pp. 79 ss. ) . Evans-G rubbs (1989, pp. 61 ss.) . Cantarella ( 1987) ; Dalla ( 1 987) . Cod. Theod. 9 , 7, 3 ; 9 , 10, 4; Col!. 5, 3 · Humbert ( 1 9 9 1 , pp. 161 s.). Dig. 34, 4, 3 1 , 2; 48 , 5, 40 ( 3 9 ) , 4; 48 , 20, 7, 4; Cod. Iust. 2, 1 1 ( 1 2 ) , 8 . Dig. 38, 17, 2, 3 ; 4 0 , 7, 6, p r . ; Cod. Iust. 9 , 47, 4· 84 Hanawalt ( 1 974, pp. 259 s.); Beattie ( 1 974-75, pp. 83 s., 8 5 s.); Frank (1995, pp. 251 s.). 85 Hanawalt (1974, p . 261 ) ; Beattie ( 1 974-75, pp. 89 ss. ) ; Castan (198ob, pp. 34 ss. ) ; J utte ( 1 9 9 1 , pp. 97 s . ) . 86 Tac . , Ann. ! J , 2 5 ; ! J , 4 7 ; Suet., Nero 2 6 ; Pl i n . , Nat. 1 3 , 1 2 6 ; Cassio D ione 6 1 , 8 , 1 ; 61, 9 , 2 SS. 87 Padagean (1977, pp. 227 s . ; 1 98 1 ) . 8 8 Miiller ( 19 10 ); Eyben ( 1 990, p p . 166 s . ; 1993, p p . 1 1 5 ss. ) . 8 9 Herlihy (1 972, p p . 140 ss. ) ; Muchembled (1989, p p . 4 1 s . , 221 ss. ) ; Schwerhoff ( 1 9 9 1 , pp. 304 ss. , 354) . 90 In un caso un gruppo di giovani, a quanto sappiamo, aveva aggredito l'accu­ satore e sua sorella per trascinarla fuori da casa contando sulla superiorità numeri­ ca; P. Panop. 27. Frier (19 82, p. 245 ) . 91 9 2 Robinson ( 1 9 8 1 , pp. 2 1 8 s . ) ; Bradley (1990; 1994, p p . 1 1 2 ss. ) . 9 3 Plauto, Amphitruo 1 53 ss.; Asconio, In Milonianam 3 2 , p. 37 Clark. 94 Lintott ( 1 968, pp. 74 ss. ) . 9 5 BGU 1 1 , 3 7 2 ; Strassi Zaccaria (1988 ) . 9 6 Sharpe ( 1977, p p . 9 8 ss.; 1 9 8 3 , p p . 1 64 ss. ) ; Chiffoleau (1 984, pp. 2 5 8 ss. ) . 9 7 Cockburn ( 1 977, p p . 6 3 s . ) ; Sharpe (1 984, p p . 99 ss. ) ; Beier (1985, p p . 1 2 3 ss. ) ; Slack ( 1 9 8 8 , p p . 101 ss. ) . 98 Geremek ( 1 976, p p . 2 8 5 ss. ) ; Castan ( 198ob, p p . 290 ss. ) ; Chiffoleau (1 984, pp. 1 57 ss. ) ; Dinges (1988, pp. 160 ss. ) ; Schwerhoff ( 1 9 9 1 , pp. 200 ss. , 350 ss. ) . 99 Geremek ( 1 976, p p . 9 3 ss. ) ; Chiffoleau ( 1 984, p p . 254 ss. ) . 1 0 0 Farge, Zysberg ( 1 979 , p p . 9 8 9 ss. ) ; Sharpe (1 984, p p . 1 1 6 ss. ) .

193

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO 6 Conclusione 1 A questo riguardo è interessante la testimonianza dei papiri egizi: per gli anni 28-42 d.C. ci sono giunte dal villaggio di Evemeria ventotto petizion i al capo della polizia locale, di cui sette riguardano violenza subita, mentre diciassette denunce sono state sporte per furto e tre per furto in casa (P. Ryl. 1 1 , 124 ss. ) . 2 Mathisen (1993, pp. 139 ss. ) ; Scheibelreiter ( 1 9 9 9 , pp. 184 ss. ) . Wallace-Hadrill ( 1 958-59 ) . Hanawalt ( 1 979, pp. 96 ss. ) . 4 Blastenbrei ( 1 9 9 5 , p p . 51 ss. ) .

194

Bibliografia

Le indicazioni bibliografiche sono state ridotte al min imo. Molti altri titoli sul tema si trovano in J .-U. Krause, J. Mylonopoulos, Bibliographie zur romischen

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206

Indice delle fonti citate

Abbreviazioni degli autori e delle opere citati più di frequente Amm.

Ammiano Marcellino

Apul.

Apuleio

Apoi. Met. Aug.

Con/ Epist. In psalm. A uso n .

Comm. prof Burdig.

Apologia Metamoifosi sant'Agostino

Confessioni Epistulae In psalmos Ausonio

Commemoratio professorum Burdigalensium Basilio

Bas. Cassi od.

Va r.

Cassiodoro

Variae

Ci c.

Cicerone

Cod. lust. Cod. Theod. Colf.

Codex lustinianus Codex Theodosianus Collatio legum Mosaicarum et Romanarum

Dem.

Demostene

Dig.

Digesta

Epist.

Epistula

H ier.

san Girolamo

Ho m.

Homilia

Ho r.

Orazio

Epist. Sa t.

Epistole Satire

lnst. lust.

lnstitutiones lustiniani

I uv.

G iovenale

207

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO J o h . Chrys.

G iovan n i Crisostomo

Li b.

Libanio

Or. Liv.

Orazio n i Li vi o

Lys.

Lisia

Nov. lust.

Novellae lustiniani

Paul .

Paolo

Sent. Plin.

Epist. Plin.

Nat.

Sentenze Plinio il G iovane

Epistole Plinio il Vecchio

Naturalis historia

Plut.

Plutarco

Proc.

Procopio

Are. Bel!. Pers. Salv.

Gub. Se n .

Benef Clem. Const. Ira Prov. Socr.

Hist. ecc!. Soz.

Hist. ecc!. Sue t.

Aug. Ces. Tib. Vesp. Tac.

A nn. Hist.

Historia arcana (Storie segrete) Bellum Persicum ( Guerre persiane) Sal viano

De gubernatione Dei Seneca

De beneficiis De clementia De constantia sapientis De ira De providentia Socrate

Historia ecclesiastica Sozomeno

Historia ecclesiastica Sveton io

Augusto Cesare Tiberio Vespasiano Tacito

Anna/es Historiae

Tert.

Tertulliano

Zos.

Zosimo

208

I N D I C E D E L L E F O N T I C I TATE

Achille Tazio, 58, 1 54 Agazia, 73 Agostino, sant'

Confossiones, 1 1 1 , 132, 16 5, 17 5-6 De catechizandis rudibus, 94 De libero arbitrio, 179 De opere monachorum, 194 Epistulae, 79, 133, 1 57, 160 In psalmos, 64, 8 5, 113, 134 Sermones, 163, 166 Ambrogio, sant' , Hexaemeron, 119 Ammiano Marcell ino, 94, 1 58, 166, 180 Antifonte, 17 Apophthegmata patrum Makarios 1, 167 Milesios 1, 118 Poimen 9, 59 Appiano, Guerre civili, 127 Apuleio

Apologia, 77 Metamorfòsi, 5 2, 55 , 5 9, 63, 104, 119, 129, 147-8, 1 53· 1 5 6, 175 Aristofane

Ecclesiazuse, 37 Nuvole, 16 Tesmoforiazuse, 41 Uccelli, 38 Vespe, 29 Aristotele

Etica Nicomachea, 136 Politica, 29, 39 Retorica, 27, 191 Asco n io

In Milonianam, 107 In toga candida, 194 Ateneo, 17, 29, 37 Ausonio 209

Commemoratio profossorum Burdiga­ lensium, 5 1 , 164 Epistulae, 1 54 Basilio di Cesarea

Epistulae, 64, 114, 116, 147, 163 Homilia adversus eos qui irascuntur, 182 Homilia in psalmum, 166 Besa, Vita di Schenute, 79 Caritone, 181 Cassio Dione, 146-7, 1 5 6, 164, 19 5 Cassiodoro, Variae, 127, 1 5 2, 16 5, 172 Catullo, 1 2 5 Cicerone

Ad Atticum, 146 De inventione, 193 In Catilinam, 117, 194 In Verrem, actio secunda, 58, 108 Pro Caelio, 58 Pro Cluentio, 61 Pro Milone, 103, 107 Pro Plancio, 167 Pro Scauro, 116 Pro S. Roscio, 116, 120-1 Pro Sulla, 103 Pro Tu/fio, 103 Codex Iustinianus, 6z, 67, 78, 89, 98, 1 11-2, 1 22, 141 , 1 51 , 1 54· 160 Codex Theodosianus, 49, 56, 59, 62, 68, 72, 74, 77-8, 8o, 89, 10 5, 108, 112, 117, 133, 136, 146, 1 52, 1 54, 160, 168, 17 5 Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, 63, 7J, 194-5 Collectio Avellana, 178 Columella, 134, 177 Concilio di Arles, 173

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO

Concilio di Elvira, 173 Concilio di Orléans, 79

Iseo, 31-2, 34

Demostene, 16, 18, 20, 2 5 , 27-8, 30-2,

Libanio, Orationes, 9 5 , 10 5 , 110, 118,

36 Digesta, 44, 46, 48, 52, 6o, 62-3, 67, 70, 78, 82, 84, 87-8, 90, 92, 94, 96, 111, 113-4, 117, 120-2, 1 24-6, 128-32, 134, 136, 139-42, 147-8, 1 5 2-4, 1 59-61, 164, 166, 175, 179, 181, 192-5

Institutiones Iustiniani, 169, 193-4

126, 128, 148, 1 59> 176, 194 Livio, 166, 172, 194 Luciano

Alexander, 59, 179 De morte Peregrini, 68, 77 Gallus, 138-9 Lisia, 16, 25-6, 30, 32, 38

Epitteto, 1 56, 19 5 Eschine, 29

Malala, 142 Marcellino, Chronicon, 124 Marco Diacono, Vita Porphyrii, 105

Firmico Materno, 61-2, 1 14-5, 118, 167

Mar2iale, 13 5

Gaio, 84-5, 193

Novella Maioriani, 74 Novella Valentiniani, 181 Novellae Iustiniani, 50, 89, 95, 108-9, 127, 142, 164, 170, 183, 195

Gellio, 86, 95 G iovan ni Crisostomo

Ad Stagirium, 50, 19 5 De Lazaro, 1 5 1 De Maccabaeis, 57 In Matthaeum homilia, 82, 91, 172, 193 G iovenale, 54, 5 7, 77, 100, 120, 145-6

Orazio

Epistulae, 134 Saturae, 69

Girolamo, san

Epistulae, 163 In Isaiam, 194 G regorio Magno, Dialogi, 133 G regorio di Tours, Historia Francorum,

165

Historia Augusta, Hadria n, 1 59 Historia monachorum in Aegypto, 1 53 210

Palladio

Historia Lausiaca, 135 Vita Iohannis Chrysostomi, 180 Paolino di Nola

Carmina, 131 Epistulae, 142 Paolo, Sententiae, 62, 82, 98, 114, 126, 129, 160, 168, 193-5

I N D I C E D E L L E F O N T I C I TATE

Pelagio, Epistula, 90

Simmaco, Relatio, 124

Petronio, 94, 129, 137, 1 5 2

Socrate, Historia ecclesiastica, 51 , 162,

Platone, Repubblica, 36 Plauto

Amphitruo, 174, 1 9 5 Trinummus, 17 4 Plinio il G iovane, Epistulae, 46, 61, 92, 146 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 101, 130, 1 5 1 , 1 5 6, 19 5 Plutarco

C. Gracchus, 107 Cicero, 194 Prisco, Frg. 11, 2 Blockley, 112, 194 Procopio

Guerre persiane, 75 Historia arcana, 55, 75, 120, 138 Properzio, 146

194 Sozomeno, Historia ecclesiastica, 194 Svetonio

Augustus, 109, 130, 1 59 Caesar, 104 Nero, 1 1 1 , 1 9 5 Tiberius, 121 Vespasian, 84, 194

Tacito

Anna/es, 10 5 , 1 1 1 , 1 1 5, 121, 177, 1 9 5 Historiae, 138, 178 T eodoreto di Ciro, Historia religiosa, 133 Tertulliano

Quintiliano, lnstitutio oratoria, 11 5-6,

121

Apologeticum, 46 Defoga, 46, 94, 129 Tibullo, 137 Tucidide, 24, 31

Rhetorica ad Herennium, 193 Rutilio Namaziano, 124 Varrone, De re rustica, 133 Sallustio, Catilina, 117 Salviano, De gubernatione Dei, 85, 169 Seneca

De bene.ficiis, 1 56 De clementia, 93, 111, 117 De constantia sapientis, 85 De ira, 90, 92 De providentia, 94 Epistulae, 128 Seneca il Vecchio, Controversiae, 167 Senofonte Efesio, 146 211

Velleio Patercolo, 1 9 5 Virgilio, Ecloghe, 98

Vita Symeonis Stylitis (sir. ) , 98 Vita Theodori Syceotae, 106

Vangelo di Luca, 1 50

Zosimo, 51 , 148

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO Iscrizioni

e

papiri

BGU, 130-1, 141 , 143, 195 CIL, 136, 1 5 1 ILS, 1 5 1 P. Abinn. , 102, 135 P. Amh. , 173 P. Cair. lsidor. , 9 5 , 173 > 193 P. Col. , 193 P. Euphr. , 192 P. Fay. , 1 50

212

P. Hamb. , 137, 140 P. Mert. , 193 P. Mich. , 5 3, 88, 99, 193 P. Oxy. , 5 3, 1oo, 121, 130, 140, 149 P. Panop. , 195 P. Ryl. , 92, 196 P. Tebt. , 141 P. Yale, So SB, 53, 99, 102, 178

Indice analitico

abactor, abigeatus, 134 abolitio publica, 75 actio forti, 76, 125 , 134, 141, 143 rerum amotarum, 143 ad bestias, cfr. giochi gladiatori addictio, 113 Adriano, 62, 114, 136, 142, 1 59 Agostino, sant', 79, 111, 113, 132, 134, 162, 165-6, 175-6, 179 alcol, consumo di, 29, 92-6, 111, 114, 176 Alessandro (falso profeta) , 59, 179 alloggi, cfr. taverne amn istia, 75, 181-2 anacoresi, 181 anquisitio, 64 Antonino Pio, 125, 130, 142 apagoge, 17-8, 20, 22, 24, 33, 35, 37, 40 apotympanismos, 23-4, 35 apparitores, 48 arbitrati, 21, 76, 188 Arcadia, 51 , 147 archephodos, 53, 141 arconti, 33, 36 Areopago, 22, 26, 33 armi, 31, 57-8, 65, 89-90, 105-10, 122, 125, 134> 140-1, 148-9, 170, 173> 187 arresto, cfr. prigioni arsione, cfr. crematio atimia, 22 atimoi, 17, 22 213

Augusto, 44-5, 65, 6 9 , 7 8 , 108-9, 120, I JO, 1 59, 162 avvelenamento, 65, 75, 121-2, 173

Baccanali, scandalo dei, 43, 171 bagni pubblici, 46, 54, 92, 96, 125-6,

128-9 balia, 168 banchetto, cfr. alcol, consumo di bande, criminalità in, 10, 38, 46-7, 54,

57, 61, 95, 97, I OJ , 119-20, IJI , 135-6, 144-9> 1 51 , 1 53-7> 1 59-60, 167, 174 > 176, 181, 185 barathron, 23 beneficiarii, 46-7, 8o, 129 bordelli, 38, 40, 95-6, 169 Bulla Felice, 147, 149 burgarii, burgi, 46

calumnia, 68, 77, 122, 127 capsarius, 129 Caracalla, 147, 1 54 castrazione, 162 Catil ina, 43-4, 104, 107, 117 Catone il G iovane, 92 Catone il Vecchio, 121 causa popolare, cfr. graphe causa privata, cfr. dike cenacula, 131

LA CRI M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO cereali, rincaro dei/difficoltà di approvvigionamento, 97, 1 27, 184

deftmor civitatis, Bo, 1 54 Delfi nio, 33

Cesare, 104

demoi, 16, 38

ch iesa, asilo in/ monasteri, 54, 79, 131

delazioni, 54-5, 164

Cicerone, 43, 58, 60-1 , 69, 103-4, 1 07-8, 1 1 6-7, 120-1, 146 cicuta, somministrazione di, 23 Cilicia, 48, 145, 150 circensi, fazioni, 75, 123, 137-8, 175-6 classe, differenze di, 70- 1 , 84-5, 94, 114, 126, 131, 139, 1 59-60 Claudio, 117, 138 clero, 73 clientela, 56, 67, 1 54

cognitio extra ordinem, 66, 69, 125 cohortes urbanae, 44-5 collegiati, 4 5

deportazione, 70, 74, 168

diem dicere, 64 dignitas, 84-5, 92 dike, 1 8 ss. aikeias, 19, 24, 26-8 atimetos, 21 biaion, 41 kakegorias, 2 5 klopes, 35 phonou, 33 timetos, 21 D iocleziano, 78, 87-9, 98, 1 1 1 , 122, 160 D iodoto, 24

Commodo, 120

diogmiti, 49

confisca, 22, 50, 1 52, 168

directarii, 131

consensus (per il matrimonio ) , 1 67

diritto di cittadinanza latino, 168

Consiglio del Cinquecento, 1 5

disertori, cfr. diserzione

contio, 64 contubernales, 45 contumelia, 85 conventus (distretti giudiziari) , 66 convicium, 84 corporati, 4 5

diserzione, 62, 147-8 , 1 54, 181-2

domus, 130

corruzione, 49-50, 78, 8o, 1 54

dote, 116, 143, 160

divorzio, 78, 1 1 1-2, 116 Dodici Tavole, Leggi delle, 70, 86, 125, 128 Domiziano, 120

cortigiane, 30 Costantino il G rande, 45, 59, 68, 72, 77-8, 1 12 , 117 , 160, 168, '7'

crematio, 70 cristiani, persecuzion i dei, 46, 70, 72 crocifissione 23, 70, 72-3 curiali, 48-9, 105, 175

effiactores, 131 endeixis, 17 endoplorare, 58 ep 'autophoro, 17 ephegesis, 17-8, 20 eredità (e omicidio), 61, 67, 1 1 3 , 1 1 5 , 121-2, 1 7 2

decapitazione (con la spada) , 73, 169

ergastula, 159

decurioni, 48, 71, 126, 148, 152

esattori, 1 0 5

214

I NDICE ANALITICO

esilio, 22-4, 34, 50, 69, 7 1 , 74-5, 84, 87, 126, 131, 136, 139 · 160, 165-6, 175 Eulalio, 45, 178

ex officio, 68 extraneus, 166

foce to foce, società, 54, 56, 1 0 1 faide di sangue, 32, 97, 187 faide familiari, cfr. foide di sangue

G racchi (Tiberio e Caio ) , 107

graphe, 18 ss. hetaireseos, 42 hybreos, 19, 26-8 klopes, 3 5 moicheias, 40 phonou, 33 grassatores, 109 guerre civili, 103, 1 56-y, 159

fedeli, 1 1 , 8 1

jlagellum, 126 forni, grandi, 161 Franchi, 165, 187 fuga dalla campagna, cfr. anacoresi

fugitivarii, 6o fur (nec) manifèstus, 125 furto di terra, 99 furto nei templi, 36, 126, 1 3 1 , 159

honestiores, cfr. classi sociali honoratiores, 49, 53, 56, 102, 126, 1 52, 175· 177

horrea, 130 humiliores, cfr. classi sociali hybris, 24, 26-30, 37, 41 ; cfr. anche gra­ phe hybreos

furto nelle tombe, 132

furtum domesticum, 142 fustes, 126

imperium, 43, 66 incantesimo, cfr. magia indovini, 6o; cfr. anche magia

gin nasi, 29, 35 giochi gladiatori, yo, 72-3, 112, 160; cfr. anche teatro gioco d'azzardo, 46, 83-4, 94, 176 G iuliano, 148, 166 giurati, 16, 1 9-23, 26, 28, 3 5-6, 41 G iustin iano, 50, 62, 73, 89, 95, 108-9, 1 27, 142, 1 53· 1 64, 1 69-70, 175 G iustino, 142 giustizia privata, 10, 1 8 , 56-y, 63-4, 76, 113, 134, 1 65-6, 170

infomia, 85, 169 iniuria, 67, y6, 82-7 iniziativa privata, 16-8, 30, 51-3, 56, 57 ss., 88-9, 99· J36, 186 insaccamento, 7 4, 1 1 7

insulae, 130-1 interdictum de vi armata, 103 irenarca, 48-9 Isaurici, 1 5 8 iscrizione confessionale, 135

iudicia publica, 66, y6, 78

Goti, 147 governatore, 45-6, 48, 50, 62, 66, 69, 74, y8-8o, 108, 1 25-6, 133, 142, 1 53 , 1 59-60, 168, 1 8 2 215

kakourgia, 29 kakourgoi, 15, J 7, 22, 24, 36-y, 40

LA C R I M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO

komoi, 2 9 kyrios, 38-9 , 4 1

Mario, 1 0 7 matrimonio (età in c u i ci si sposava), 41 , '74

ladri di vestiti, 27, 36-7, 125, 129, 137-8, 149-5 1 , 177

metallum, cfr. lavoriforzati mikroponeroi, 37 M itilene, abitanti di, 24

lanistae, 72

monasteri, cfr. chiesa, asilo in

lavori forzati, 22, 69-71 , 74-5, 126, 129,

Muson io, 1 58

1 3 1 , IJ 4, 140, 142 legittima difesa, 62-3 ; cfr. anche priva-

ta, iniziativa lenocinium, 42, 67, 77, 162 !ex Aquilia, 98, 103, 167 Calpurnia de repetundis, 65 Cornelia de sicariis et veneficis, 108, 120, 140

Fabia, 159 Iulia de adulteriis, 162, 165 Iulia de vi publica, 108-9, 1 5 5 , 166 Papiria, 43 libertà, cfr. status liberto, cfr. patronato

naumach ia, 130 Nerone, 70, 92, 111, 174 Nika, rivolta di, 175 Novaziani, 110

officiales, 4 5, 48 oikos, 38-9 omicidi prezzolati, cfr. sicarii omosessualità, 41 ss. , 73-4, 168 ss.; cfr. anche pederastia O norio, 148

opus publicum, cfr. lavoriforzati

liturgia, 30, 49 , 53

oracoli, 59, 1 21 , 179

locande, 38 , 49, 54, 94-5, 129, 1 5 1 , 174

orazion i giudiziarie, 12-3, 16, 21-2, 25,

lopodytes, cfr. ladro di vestiti Lucrezia, 166

3 1 , 39, 58, 60, 69 , 103, 121 Ostrogoti, 127, 165, 172

Maggioriano, 74

Palladio, 33, 135, 180

magia, 56, 6o, 1 0 1 , 121; cfr. anche oraco-

papa, cfr. vescovo (di Roma)

li e indovini magistri militum, 1 53

papiri, 11-2, 47, 52, 77, 98-9, 1 1 0 , 130,

Magnenzio, 148

parricidio, 70, 1 1 6-7, 120-1

IJ 4, 137, 149-50, 172, 178, 180-1, 187

maltrattamento di bambini, 1 1 1

pastori (come ladri) , 1 04, 136, 142

mandata principis, 1 2 6 , 1 5 9 Marco Antonio, 108

paterfamilias, 66, 84, 1 1 1 peculium, 1 6 1

Marco Aurelio, 72, 8 8 , 125, 136, 139

pederastia, 16, 2 9 , 8 4 , 146

216

I N D I C E ANALITI C O

Pelopon neso, guerra del, 1 5 , 24 pen itenza, 1 1 8 , 1 3 1 , 170-1 p ietre di confine, cfr. jùrto di terra pirati, 159 Pireo, 16, 38

plagium, 67, 1 59-60

quaestio, cfr. tortura quaestio (tribunale), 65 de iniuriis, 65, 86 de sicariis et vene.ficis, 65 quaestores parricidii, 113 quiritatio, 58

Plauto, 58, 82, 17 4

plebs, 69, 9 1 , 93, 96, 1 24, 140 Plinio il G iovane, 46, 146 Plinio il Vecchio, 130

podokakke, 22, 35 polizia, 9-10, 1 5 ss., 43 ss. , 49, 52 Pompeo, 108, 159 popolazione, 43, 55, 66, 72, 97-8, 120, 180 Poppea, 1 1 1

potentes, 1 04 praejèctus Aegypti, 182; cfr. anche gover­ natore provinciale praejèctus urbis, 66; cfr. anche prejètto urbano praejèctus vigilum, 44, 66, 125, 1 27 praetorplebis, 127, 141 praevaricatio, 77 prefetto urbano ( Roma) , 44-5, 72, 94, 1 24, 160, 169, 1 77-8 pretore, 43, 86, 1 03, 1 1 5 , 125, 160 pretorian i/prefetto del pretorio, 44-5, 136, 146 prigioni, 1 5 , 43, 70, 125, 1 5 9 ; cfr. anche

rapimento di donne, 1 67-8, 171 relegazione, 70 relitti navali, saccheggio di, 142 rescritti, 126 risarcimento danni, 28, 3 1 , 33, 35, 62, 76, 87, 89, 98, 103, 118, 126-7, 133, 136, 1 6 1 , 167, 179; cfr. anche !ex A­

quilia rogo, cfr. crematio ruffianeria, cfr. lenocinium

sacrilegium, cfr. jùrto nei templi schiavi fuggitivi, 38, 43-4, 5 1 , 54, 59-60, 69, 8o, 95. 136, 147-8, 1 77, 1 8 1-3, 1 8 5 schiavi, mercato degli, 1 59-60

senatus consultum Macedonianum, 1 1 6-7 Silanianum, 179 sentinelle e illuminazione notturna, 44, 50, 93 senza fissa dimora, 181-2

proconsules, cfr. governatori provinciali

servus fugitivus, cfr. jùggitivi, schiavi poenae, 70, 172 publicus, 52

proscrizione, 152

Sesto Tarquinio, 166

ergastula processi, mania dei, 64

prostituzione, 42, 96, 169, 173

Settimio Severo, 126, 146-7

provocatio, diritto di, 69

sicarii, 117, 119-21, 184

punizione, diritto di, 111 ss. , 116; cfr. anche paterfomilias 217

sicofanti, 20

silentiarius, 1 42

LA CRI M I NALITÀ N E L M O N D O ANTICO S illa, 65, 86, 107-8, 1 1 9-20, 122, 140

tortura, 1 7 , 5 5 , 7 1 , 77, 7 9 , 1 1 8 , 130, 179

Simmaco, 45, 1 24, 1 57, 178

toxotai, 15

simposi, 29-30, 95

T raiano, 46, 125, 136

Socrate, 21-2

trauma ek pronoias, 26

Sofron io di Tella, 6o

"Trenta" (Tira n n i ) , 25

Solone, 18, 26

tresviri capita/es, 43-4, 65, 69, 125, 177

sophrosyne, 31

tribunale/assemblea popolare, 15, 19

sportivi, incidenti, 34

tribunale domestico, cfr. paterJàmilias

squadre cittadine, 63

tribunale vescovile, 79, 133, 163, 170-1

statale, schiavo, cfr. servus publicus

tribuni della plebe, 69

stationarii, stationes, 45-8, 52, 1 57

trierarca, 30

status (libertà, schiavitù) , 20, 42, 70,

trinundinum, 74

161 strimpellata, 84 studenti, 175-6

stuprum, 166-8

ultio, 187 " U ndici " , 1 5 , 1 8 , 22, 24, 33-5, 40, 43 Unni, 147-8

tagl iaborse, 128, 184 Tarquinia il Superbo, 166

Valente, 147

taverne, cfr. locande

Valentin iano

I,

tavolette di maledizione, 6o, 1 21 , 128,

Valentin iano

III,

72, 175 181

vendetta, cfr. jàide di sangue

1 3 9 , 143-4 teatro, anfiteatro, circo, 72, 82, 91-2, 96, 120, 128, 1?6-?

vendetta privata, cfr. pater Jàmilias (

giustizia privata

Teodosio il G rande, 154

vescovo di Roma (papa) , 45

Teodosio

Vespasiano, 84, 1 1 6

11,

49, 1 1 2 , 1 5 1

terme, cfr. bagni pubblici

veterani, 71, 1 0 7 , 144, 148-9

termine d'udienza, So

vicarius Asiae, 158 vici, 183 vigiles, 44-5 vis (privata), 89; cfr. anche !ex Iulia de vi

testimoni, invocazione di, 16, 59, 1 04 Tiberio, 44-5, 9 1 , 1 1 5 , 1 5 9

timoria, 32, 187

218

Saggi

Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer Matthew Batt!es, Biblioteche: una storia inquieta. Conservare e distruggere il sa­ pere da Alessandria a Internet Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità Hans Belring, Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tar­

do Medioevo Pau! A. Boghossian, Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo J ohn Brewer, Ipiaceri dell'immaginazione. La cultura inglese nel Settecento J ulian B udden, Puccini Peter B urke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini Stanley Caveli, La riscoperta dell'o rdinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico Lorraine Daston, Karharine Park, Le meraviglie del mondo. Mostri, prodigi e fotti strani dal Medioevo all1lluminismo B urt D. Ehrmann, I cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture Israel Finkelstein, Nei! Asher Silberman, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia

e mito Peter Gay, Il secolo inquieto. La formazione della cultura borghese (1815-1914) Peter Gay, Nello specchio del romanzo. Dickens, Flaubert, Thomas Mann Stephen Greenblatt, Amleto in Purgatorio. Figure dell'aldilà William

l.

H irchcock, Il continente diviso. Storia dell'Europa dal 1945 a oggi

Michail Ignatieff, Isaiah Berlin. Ironia e libertà Patrick E. McGovern, L 'archeologo e l'uva. Vite e vino dal Neolitico alla Grecia

arcatca

Pierre Milza, Mussolini Stefan Miiller-Doohm, Theodor

W

Adorno. Biografia di un intellettuale

Martha C. Nussbaum, Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge Steven F. Ostrow, L 'arte dei papi. La politica delle immagini nella Roma della

Controriforma Roy Porter, Breve ma veridica storia della medicina occidentale Ezio Raimondi, Novecento e dopo. Considerazioni su un secolo di letteratura Graham Robb, Sconosciuti. L 'amore e la cultura omosessuale nell'Ottocento Gian pasquale Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo Antonio Santosuosso, Barbari, predoni e infedeli: la guerra nel Medioevo Richard Vinen, L 'Europa nel Novecento. Una storia sociale J ohn Woodhouse, Gabriele D 'Annunzio. Arcangelo ribelle