La Commedia dell’Arte : Genesi d’una società dello spettacolo [6 ed.] 9788858108673, 8858108671

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La Commedia dell’Arte : Genesi d’una società dello spettacolo [6 ed.]
 9788858108673, 8858108671

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Biblioteca Universale Laterza 656

Roberto Tessari

La Commedia dell’Arte Genesi d’una società dello spettacolo

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione settembre 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0867-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

È esistita la Commedia dell’Arte?

Sembra che debba essere privilegio (o condanna) della Commedia dell’Arte venir considerata – nel microcosmo degli spettacoli teatrali – qualcosa di equivalente al concetto di dio in ambito speculativo metafisico. Attorno a metà dell’Ottocento, ci fu chi la ritenne ipostasi della perfezione assoluta: “la commedia perfetta, il nec plus ultra dell’arte”1. Quattro anni or sono, un intero annuario accademico dedicato e intitolato a questo singolare fenomeno si inaugurava recitando con piglio tanto perentorio quanto (in apparenza) autolesionista: “La ‘Commedia dell’Arte’ non esiste”2. Secondo Maurice Sand – nonché secondo sua madre, George Sand – una simile ‘divinità’ teatrale esisteva, e doveva dunque diventare oggetto di sempiterno culto: perché aveva tra i suoi attributi essenziali, sia a livello scenotecnico-recitativo sia sul piano delle forme animate che era in grado di evocare, mirabolanti qualità costitutive e miracolose dinamiche efficienti. È contro tanta devozione, e contro quanti si ostinano a perpetuarla nei secoli, che si leva intrepida – oggi – l’illuministica confessio fidei di quasi-radicale ateismo che nega non solo mirabilia e miracoli, ma la stessa possibilità 1   M. Sand, Masques et bouffons (Comédie Italienne), texte et dessins par Maurice Sand. Gravures par Alexandre Manceau. Préface par George Sand, Michel Lévy, Paris 1860, vol. I, p. 1. 2  S. Ferrone-A.M. Testaverde, Presentazione, in “Commedia dell’Arte. Annuario internazionale”, I (2008), p. vii.

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di esistenza-essenza vuoi del dio vuoi del modus operandi e delle forme attraverso cui dovrebbe epifanizzarsi la sua sublime ipseità. Qui non si tratta, però, d’un ateismo alla Nietzsche. L’ente divino in questione non risulta “morto”: occorre testimoniare che non è proprio mai esistito. La Commedia dell’Arte non avrebbe tra le sue componenti distintive né uno stile scenotecnico-recitativo più o meno straordinario né delle forme (le maschere, per specificare) più o meno portentose quanto ad impatto estetico. Essa va considerata, se si vuol essere autentici materialisti immuni da miti e mistificazioni, un mero “territorio della storia del teatro che va dal primo Cinquecento all’inizio dell’Ottocento”. Ovvero un alquanto anodino contenitore onnicomprensivo, che si specifica soltanto sulla scorta dell’essere delegato a contenere in raccolta differenziata “una forma di cultura spettacolare fondata sul ruolo preminente degli attori”3. Come dovrebbe risultare ovvio, il proclama secondo cui “La ‘Commedia dell’Arte’ non esiste” intende funzionare soprattutto a mo’ di salubre provocazione contro eccessi di entusiasmo fuorviante, in qualche modo rapportabili al modello offerto dall’acritico fideismo un tempo coltivato da George e Maurice Sand. Non va, insomma, preso troppo sul serio (soprattutto quando le voci che lo recitano sono quelle di accademici ben noti quali specialistici cultori della Commedia dell’Arte; o, addirittura, di drammaturghi autori di pièce intitolate Arlecchino all’inferno...). Meriterebbero invece una considerazione ben più attenta i fattori concreti che si intenderebbe svelare quali esclusivi contenuti reali del tanto leggiadro quanto capzioso vaso di Pandora cui venne apposta l’ingannevole etichetta terminologica in questione. Infatti, se può essere opinabile sostenere che quest’ultima possa riguardare a pieno titolo fenomeni del primo Ottocento, dichiarare che essa – a ben vedere – avrebbe quale sua ultima sostanza l’unicum verum di “una forma di cultura spettacolare fondata sul ruolo preminente degli attori”, benché sembri vantare tutte le apparenze del fatto inoppugnabile, esige un qualche approfondimento. E non solo perché un ipotetico sprovveduto, ove prendesse alla lettera quella formula alquanto vaga, potrebbe pretendere di in  Ibidem.

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serire nel “territorio” dell’antico teatro all’improvviso Molière, Adelaide Ristori, Carmelo Bene, ecc., ma anche e soprattutto in quanto essa sembra confezionata apposta, più che per affermare qualcosa di preciso sull’argomento, per escludere a priori che abbiano inconfutabili patenti di legittimità in qualsiasi discussione seria altri potenziali fattori distintivi del fenomeno. Dire “La ‘Commedia dell’Arte’ non esiste”, insomma, è un modo come un altro per imporre come unica norma ragionevole – facendola scivolare lungo un filo oscillante tra autoritarismo e paradosso – l’idea che la strana specie di teatralità così nominata sia consistita esclusivamente non tanto in un quid estetico particolare che gli attori avrebbero realizzato sulla scena, quanto nella loro specifica comportamentistica individuale e/o collettiva: a livello di singole fenomenologie biografiche, oppure sul piano delle inter-relazioni professionali tra specialisti della recitazione. Non a caso, le prove più significative d’una scelta ermeneutica così orientata, mentre talvolta si vantano esplicitamente (sin dai titoli) di essere a conoscenza del “segreto” della cosiddetta Commedia dell’Arte, privilegiano poi comunque in altissima misura (sempre tributando loro una menzione onorifica in prima di copertina) ora la “memoria” storica “delle compagnie” attoriali, ora “vita” e metafore di declinazioni esistenziali – perlopiù mercantili o piratesche – tipiche dei singoli attori. D’altro canto, in queste prove, la pur proficua enfasi posta sui connotati antropologici e sulle specificazioni socio-culturali dei protagonisti del fenomeno appare intenzionalmente mirata a equilibrare, con un gioco di proporzionalità inversa, quegli eccessi di entusiastica iper-valutazione i quali troppo spesso hanno suscitato (e continuano talvolta a suscitare) gravi fraintendimenti nell’approccio a taluni fattorichiave dell’immaginario e delle tecniche di produzione che avrebbero distinto il loro fare spettacolo. Ne derivano sia una ostentata tendenza a porre in secondo piano ogni ruolo creativo attribuibile al gioco dell’improvvisazione cinque-secentesca (sin quasi ad assimilarla a certi suoi esiti meglio accertati: meri ripieghi talvolta intesi a surrogare vuoti di memoria, talaltra scelti per evitare la fatica dello studio mnemonico), sia una più o meno conclamata renitenza a valutare maschere e parti fisse in quanto precipue forme e componenti strutturali d’un linguaggio scenico davvero specifico dei comici professionisti italiani fra Cinque e Settecento. vii

Per riassumere il tutto in forma sintetica: stando all’ottica appena abbozzata, non sarebbe lecito affermare che la Commedia dell’Arte sia esistita, in quanto ne sarebbero esistiti solo i potenziali produttori, ma non i prodotti. Tutto ciò che si sarebbe realizzato per due secoli in quel metaforico “territorio” teatrologico dove ebbe corso “una forma di cultura spettacolare fondata sul ruolo preminente degli attori” non presenterebbe tratti specifici abbastanza forti da conferire alle sue manifestazioni un qualche autonomo profilo caratterizzante. Si tratta di un’opinione rispettabile, ma non certo in grado di reggere al confronto con alcuni (per non dire moltissimi) dati storici incontestabili. Se quella pur discutibile formula terminologica non ha mai designato un qualche specifico modo di far teatro, di cosa stavano parlando, nel 1569, i cortigiani bavaresi che chiesero a Massimo Troiano e a Orlando di Lasso di allestire per loro piacere “una commedia all’improvviso all’italiana”, distinta da maschere e lazzi? A quale chimera vorrebbe riferirsi, nel 1589, l’accademico Niccolò Rossi quando se la prende – ostentando il massimo disprezzo – contro quelle innominabili forme di commedia “che da gente sordida e mercenaria vengono qua e là portate, introducendovi Gianni Bergamasco, Francatrippa, Pantalone e simili buffoni”? Cosa mai avrebbero avuto da imitare quei colti ‘dilettanti’ di teatro che, come un Gian Lorenzo Bernini e un Salvator Rosa, si sono ampiamente compiaciuti – nel Seicento o nel primo Settecento – di impersonare maschere per strada e sulle scene, e di realizzare spettacoli a imitazione degli attori professionisti (con dovizia di Covielli, di vere o pretese improvvisazioni e di sketch piccanti)? Contro quale obiettivo avrebbe condotto la sua lunga e tormentata guerra la cosiddetta riforma goldoniana, se non fossero mai esistiti un immaginario e un modus operandi come quelli minuziosamente descritti e deprecati nel contesto del Teatro comico? Ciò che, senza ombra di dubbio, non è mai esistito è un astratto concetto di Commedia dell’Arte monoliticamente intesa: sempre eguale a se stessa attraverso qualsiasi mutamento di tempo e di spazio (proprio alla stregua dell’oggetto misterioso di 2001: Odissea nello spazio; e, come quello, dotata dello stesso potere di fascinazione che appartiene solo agli enti mitologici). E neppure è mai esistito, nella realtà, un qualche modello normativo di Commedia dell’Arte, con un suo schema di spettacolo invariabile, con ­viii

un sistema permanente di maschere fisse, con un gioco di improvvisazione univocamente determinato, e sorretto da un codice normativo di mossette stucchevoli e di canoniche intonazioni vocali stilizzate alla meno peggio. È doveroso far piazza pulita di tutte le forme di entusiasmo a-critico (nonché di basso mercimonio fine a se stesso) che hanno investito, e possono continuare ad investire, il fenomeno teatrale in oggetto. Ed è altrettanto doveroso pretendere che la Commedia dell’Arte venga considerata – sempre – un plesso prismatico dalle molte sfaccettature: un insieme di fenomenologie ampiamente variabili, tanto nel corso del tempo quanto in rapporto alle diverse dinamiche cui furono soggette tutte le loro manifestazioni concrete nel vivo verificarsi delle singole vicissitudini storiche. Ma, una volta che siano stati tributati a questi doveri i debiti omaggi, risulta alquanto pretestuoso insistere nel proclamare – mettendo tra parentesi, sino a stiparle all’inverosimile, le testimonianze contrarie – che la Commedia dell’Arte non sia mai esistita. Ovvero che non abbia avuto corso reale – tra metà Cinquecento e metà Settecento – una particolarissima declinazione del fare spettacolo, tutta gestita da professionisti dell’esibizione scenica, che i testimoni di volta in volta suoi contemporanei ritennero essere, prima, una evidente novità dai tratti peculiari ben riconoscibili, e, più tardi, con lo svolgersi dei tempi, una convenzione sempre molto facilmente rapportabile allo schema genetico che ne aveva informato gli esiti iniziali. Lungo i due secoli di storia in questione, è esistito – e ha costituito parte importante del complessivo contesto europeo cui appartenne – un tipo di performance dalle molte varianti, ma in ogni caso fondato sulla scelta di una prospettiva teatrologica ben riconoscibile, e sulla continua presenza delle stesse componenti strutturali (sempre interconnesse tra di loro secondo uno schema collaudato). Non si tratta tanto di un “territorio”, quanto di un modo di concepire (e vendere) il teatro. Un modo che privilegia con scelta radicale l’economia del fare e del distribuire spettacolo in regime di libero mercato, rispetto ai valori aristocratico-culturali tradizionalmente attribuiti alla stesura letteraria su pagina dell’inventio e della compositio d’un testo drammaturgico d’autore. E, soprattutto, privilegia una praxis dello spettacolo pronta ad esibire sulle scene, indifferentemente, i generi tradizionali e quelli di volta in volta emergenti (dalla farsa alla tragedia; dalla pastorale ix

alla tragicommedia; dalla commedia di ascendenza rinascimentale – di gran lunga la più frequentata – ai drammi di cappa e spada, alle favole di magia, ecc.), ma obbligando ogni genere a ricombinare i suoi schemi distintivi attorno a un aggregato di attrazioni sceniche la cui ricetta, per quanto declinabile secondo molteplici varianti, esige un certo numero di ingredienti fissi: le maschere, un sistema di parti ferreamente determinate, la recitazione “all’improvviso”, l’esibizione sensuosa (tra virtuosismi fonico-canorocoreutici, e numeri di strip tease) della donna-attrice, e un quasi sempre ricco corredo di musiche, canti, danze. È appunto d’un mix di questi ingredienti sfruttati dai comici – e non d’un generico “territorio” drammatico gestito in assoluta autonomia da mestieranti della scena – che ci parlano tutti i testimoni contemporanei delle diverse fasi del fenomeno. E le loro parole, significativamente, si rifiutano ognora di rapportarlo all’area specialistica di un’estetica più o meno aristotelicamente intesa, per riferirlo invece all’ambito socio-antropologico e mercantile di un tanto inusuale quanto deprecabile commercio spregiudicato dell’esibizionismo fascinatorio e del divertimento al limite del lecito. In effetti, se la Commedia dell’Arte ha marcato un segno indelebile e ha impresso una svolta significativa nella storia del teatro, questo segno e questa svolta non vanno ricondotti – come sognava Maurice Sand – al fatto che i suoi protagonisti avrebbero saputo realizzare “la commedia perfetta, il nec plus ultra dell’arte”, ma riguardano il primo profilarsi (attraverso un nuovo modulo di allestimento imperniato sulla ri-combinazione seriale di forme e meccanismi audiovisivi d’un immaginario tutto concepito e fisicamente inscenato in funzione del massimo impatto comicosensuale e del più largo consumo) d’una massiccia produzione di messinscene atte ad instaurare con i loro spettatori un interscambio culturale che presenta tutte le caratteristiche d’una moderna società dello spettacolo, e ne prefigura non pochi aspetti tipici degli esiti futuri. Come ben avvertirono a loro tempo teologi e polemisti cattolici, le performances dei nuovi attori professionisti italiani, a partire dal 1545, suscitano un mercato del divertimento e un pubblico entrambi di ampiezza del tutto inusitata, innescando così un numero considerevole di fenomenologie destinate a stravolgere le consuetudini vigenti negli ambiti della comunicazione, del costume, dell’immaginario collettivo, della circolazione delle ­x

forme artistiche, del consumo culturale, ecc. Per quanto siano di certo esistiti, come avremo modo di vedere, singoli comici (nonché intere compagnie) capaci di dar vita ad eccezionali exploits di poesia scenica, che in nessun modo devono venir appiattiti su una qualche modellizzazione astratta di Commedia dell’Arte, simili esperienze vanno comunque interpretate in quanto superbe emergenze di un contesto di pratiche sceniche devote a imprescindibili norme di produzione ‘quasi-seriale’ dello spettacolo e di formalizzazione tanto abilmente stereotipata quanto di forte e immediato impatto effettistico sul più largo pubblico. Ovvero, d’un calcolato insieme di primordiali componenti di una civiltà dello spettacolo spesso e volentieri più facilmente rapportabile (per dirla in termini cinematografici) ai prodotti commerciali vuoi di Hollywood vuoi di Bollywood che ai film d’autore, più incline alle gag attoriali dei cinepanettoni che all’immaginario e al linguaggio di un Ejzenštejn o di un Bergman. Quella civiltà dello spettacolo, appunto, che meglio potrebbe prestarsi a giudizi che preferiscano astrarne ora tutto il bene ora tutto il male possibile: magari esorcizzando (oppure negando tout court) l’esistenza stessa della sua polarità, di volta in volta ritenuta o meno dignitosa o troppo consona alle convenzioni delle facili vulgate. Vernone, 1° luglio 2013

La Commedia dell’Arte

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In principio erat verbum (davanti a notaio)

1. Una selva di sogni avvelenati Il 17 luglio 1583, l’allora arcivescovo di Milano Carlo Borromeo pronunzia due omelie contro “la lussuria” che, secondo lui, va diffondendosi in misura quantomai preoccupante per la città. In una di esse, si interroga – tra ostentate espressioni di sorpresa e d’angoscia – non solo sulla situazione della sua diocesi, ma addirittura sulla reale portata della nuova politica culturale adottata e posta in opera, vent’anni prima, dal Concilio di Trento: A che sono serviti i decreti del Concilio Tridentino con i quali si presero così diligentemente provvedimenti contro i libri osceni da comandare che vengano bruciati, estirpati dalla memoria degli uomini, da comandare che venga punito con gravissime pene chiunque li legga? Ma quanto più penetra nell’anima ciò che gli occhi vedono di ciò che si può leggere in libri di quel genere! Quanto più gravemente la viva voce ferisce le menti degli adolescenti di quanto non lo faccia morta, stampata nei libri! Suvvia, lo confesso, o figli, forse mentre io sonnecchiavo il nemico ha seminato questa zizzania, e senza che io me ne accorgessi questo malanno ha preso piede, ma ci daremo da fare, d’ora in avanti, per sterminarlo con l’aiuto di Dio1.

  C. Borromeo, Dalle omelie recitate il 17 luglio 1583, in F. Taviani, La Com-

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Quale fenomeno concreto possa mai nascondersi dietro l’immagine d’una “zizzania” tanto perniciosa da far dubitare circa l’efficacia dell’intero severissimo sistema censorio tridentino, le parole citate non lo dicono. Sembra che san Carlo sia qui dominato da uno strano ritegno a specificare l’oggetto di riflessioni così onerose. Un ritegno non troppo dissimile da quello adottato – cinque anni dopo – da Giovan Battista Guarini quando si tratta di individuare le cause che l’hanno indotto a proporre una inedita forma drammaturgica, la tragicommedia pastorale, per ovviare alla decadenza della tragedia e della commedia rinascimentali. A parere del celebre scrittore, se il fato tragico non ha più ragione d’essere in una civiltà cristiana dominata dal concetto di provvidenza, neppure il nuovo comico primo-cinquecentesco risulta ancora praticabile, perché la commedia è venuta in tanta noia e disprezzo che, s’ella non s’accompagna con le meraviglie degli intramezzi, non è più alcuno che sofferire oggi la possa. E ciò per cagione di gente sordida e mercenaria, che l’ha contaminata e ridotta a vilissimo stato, portando qua e là per infamissimo prezzo quell’eccellente poema che soleva già coronare di gloria i suoi facitori2.

Dunque, secondo Guarini, la pur “eccellente” commedia reinventata da Ariosto, a ottant’anni di distanza dal suo momento inaugurale va ormai considerata una forma obsoleta (ancora proponibile – se si vuole – solo per via degli intermezzi frapposti tra un atto e l’altro, che la impreziosiscono di “meraviglie” musicali e coreutiche), a causa di indeterminata “gente sordida” che ne avrebbe guastato la purezza. Ma anche il “malanno” denunciato da Carlo Borromeo, nonostante le reticenze del santo arcivescovo, finisce poi col rivelarsi intimamente connesso a un fenomeno che riguarda il mondo del teatro contemporaneo, e che chiama in causa “uomini indegni”:

media dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma 1969, p. 33. 2   G.B. Guarini, Il Verrato. Ovvero difesa di quanto ha scritto M. Giason Denores contra la tragicomedia, et le pastorali, in un suo discorso di poesia, Alfonso Caraffa, Ferrara 1588, p. 29.

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in questa città [...] frequentemente si recitano le commedie, e gli istrioni, uomini indegni quant’altri mai, mascherati, prendono nelle reti del diavolo gran numero di incauti giovani. [...] o figli, [...] vi prego, state lontani da queste scene, fuggite questo genere di spettacoli come cappi e lacci dei demoni3.

Esistono, dunque, negli anni Ottanta del XVI secolo, individui spregevoli “quant’altri mai” – definiti da san Carlo “istrioni”, e qualificati da Guarini con gli attributi di mercenari e di vagabondi – la cui attività (recitar commedie, evidentemente) risulta molto perniciosa vuoi per l’idea di teatro cara agli intellettuali più accreditati, vuoi per gli ideali etici e sociali promossi e difesi dalle gerarchie ecclesiastiche post-tridentine. Ancora cento anni dopo queste testimonianze, molte pagine del Cristiano istruito nella sua legge (1686) del grande pensatore gesuita Paolo Segneri4 ribadiscono e specificano in termini più articolati le preoccupazioni dell’élite cattolica per quel tenacissimo fenomeno di tanto inaudita quanto vasta portata. Nella riflessione di Segneri, le perplessità di Carlo Borromeo circa la reale efficacia del sistema censorio scaturito dal Concilio Tridentino per realizzare un efficace controllo su ogni forma di cultura e di arte si convertono in una diagnosi pressoché scientifica, insieme spietata e lucidissima: i padri della Controriforma hanno creduto che le uniche forme di comunicazione e di espressione socialmente rilevanti fossero “libri” e “pitture”, e non si sono accorti delle prime avvisaglie d’una forma insieme nuova e di ben più larga portata. L’inedita, perniciosissima “zizzania” costituita da una merce mirabolante – dove la scrittura si trasforma in viva azione, dove le immagini si muovono e parlano tra incanti musicali – che si vende a prezzo abbastanza basso, e che può essere acquistata e fruita (sia pure, come vedremo, attraverso differenti modalità d’approccio) da tutti, analfabeti e ignoranti compresi: lo spettacolo teatrale “portato qua e là” e proposto in ogni luogo da “istrioni” mascherati. Né si tratta solo, secondo l’analisi condotta dal Cristiano istruito, della sorprendente ven  Borromeo, Dalle omelie recitate il 17 luglio 1583 cit., p. 33.   P. Segneri, Il Cristiano istruito nella sua legge, in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. 298. 3 4

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dita d’un prodotto d’arte affatto nuovo e insieme tanto fascinoso da risultare irresistibile. Ma, con essa, viene dipoi a prodursi una fondamentale modificazione dell’interiorità di coloro che scelgono di entrare a far parte del pubblico. Poiché, dopo ogni allestimento cui si assiste, “ricorrono alla mente i motti impuri che udisti, le facezie, le formole, i gesti audaci: e tu a te stesso divieni e teatro portatile e recitante e scena e palco e spettatore e soggetto e ciò che tu vuoi”5. L’immaginario dello spettacolo, insomma, diventa componente attiva entro la psiche dello spettatore: si fa immaginario di un’intera società, trasformandone ogni membro in mero ripetitore d’un inquietante “teatro portatile” (quasi-archetipica figurazione dei moderni tablets). Si innesca così un meccanismo che – se non combattuto – potrebbe trasformare l’intera comunità umana in un coacervo di zombies schiavi di “quel letargo incantato [...] che contraggono ne i teatri gli ascoltatori fino a non aprire gli occhi più al loro male se non quando viene la morte a disfar l’incanto”6. Perché il sonno è una certa immobilità ed un certo intormentimento del senso. E tale è il sonno di costoro, rispetto alla fede che non opera, e agli spiriti propri di una mente cristiana, che non si muovono. Anzi il loro non è, se ben guardasi, sonno solo. È sonno insieme, ed è sogno, perché non solamente non veggono quello che è come chiunque dorme, ma veggono quel che non è come chi dormendo anche sogna: Vident vana: e si pascono di quelle loro apparenze e le appruovano e le amano, quasi fossero verità7.

Insomma, l’assoluta novità d’un diffuso mercato dello spettacolo – non avvertita, al suo sorgere, né dalla Controriforma cattolica né dalla intelligencija italiana del Cinquecento – non va intesa come un semplice (ancorché pernicioso) epifenomeno artistico o pseudo-artistico, ma in quanto vera e propria avvisaglia d’una nefasta mutazione antropologico-sociale che potrebbe avere conseguenze esiziali per il mondo intero. Questa mutazione, secondo l’immaginario escatologico di Paolo Segneri, tende a configurarsi

  Ibidem.   Ivi, p. 292. 7  Ibidem. 5 6

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nella forma del più pestilenziale contagio omicida, propiziato dalle artes di attrici e attori (novelle streghe e novelli stregoni dell’era moderna), che serpeggia e si diffonde inarrestabile tra le masse, per trasfigurarne i componenti in “letargici affatturati che veggono” solo più “cose vane”8. Come avviene, per esempio, quando salgono sul palcoscenico quelle femmine audaci che [...], con uno stromento in mano, si fingono spasimare e svenire per l’ansia che hanno del loro giovane sposo, quasi di un nume che le cali a beare giù dalle stelle. Mirate se ciò non è un fingersi affatturate di quel malefizio amatorio [...], per affatturare esse gli altri! [...] E pure questo è il minor pregiudizio che rechino ai costumi i commedianti profani. Se non operassero altra malia nell’animo di chi gli ascolta, io non vorrei né anche loro ascrivere il nome d’incantatori. [...] L’altra spezie di malefizio è detta malefizio ostile, e per essa si fanno sì vasti eccidi che un uomo solo, per nome Elzana, nello spazio di due anni, si riferisce avere uccise più di ottocento persone co’ suoi incantesimi. Tuttavia non si credano gli stregoni di superare le stragi degl’istrioni neppur nel numero, come non le superano nella ferocità: essendo le stragi di questi, stragi di anime, laddove le loro sono stragi di corpi che tosto o tardi pur hanno un giorno a morire. Per dir qualche cosa di una materia sì vasta, tanto che si raccolga, almeno in confuso, il numero degli uccisi, possiamo affermare che fra le infinite occasioni pericolose da cui sono gli uomini incitati a peccare, non ve n’è altra la qual provvegga di sì grandi arme tutti nostri avversari, come le commedie scorrette9.

Se per il grande scrittore gesuita tutti i responsabili delle messinscene teatrali andrebbero considerati alla stregua di stregoni stragisti di anime, sessant’anni prima il padre somasco Francesco Maria Del Monaco (che sarebbe poi divenuto confessore del cardinal Mazzarino) li aveva già dipinti come indefessi fomentatori di ogni possibile disordine sociale, nonché quali responsabili indiretti di innumerevoli omicidi. Il tutto, però, dall’angolazione prospettica di un discorso dove – al di là delle ben calcolate oltranze polemiche – finiscono coll’assumere significativa centralità sia la meritoria attenzione accordata ai segni emotivi che qualificano la   Ibidem.   Ivi, pp. 293-294.

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risposta del pubblico secentesco agli spettacoli, sia la puntuale disamina dell’ampiezza quantitativa e del ventaglio di condizioni umane investite tipiche dell’audience toccata in sorte all’ormai inarrestabile diffondersi delle performances istrioniche: Osserva le voci degli spettatori, guarda le loro facce, i loro occhi, esamina le loro parole, interpreta i sospiri, i cenni, e dovrai riconoscere con me quante male azioni [gli attori] commettono. Costoro rimangono in ogni città due o tre mesi e nel frattempo in queste città quanto scompiglio non si verifica? Quante risse, per lo più causate da quelle riunioni, non avvengono? Quanti ferimenti, uccisioni o almeno pericolo di tutto questo? Gli interessi familiari sono del tutto trascurati, se osservi quel che fanno i padri. L’avidità degli spettacoli regna anche tra gli artigiani e i contadini che accorrono, abbandonando il lavoro quotidiano; vengono in massa i servi, le matrone lasciano le case, portano con sé le figlie e fanciulle adolescenti, perché imparino cose che non hanno mai sentito, perché la fiamma della libidine le investa più rapidamente10.

Potrebbe essere molto utile provarsi a rileggere questa e altre citazioni (insieme a tutte quelle sin qui riferite) spogliandone i contenuti essenziali dalle sovrastrutture retoriche imposte ad esse per via delle varie maschere da moralista esacerbato, che comunque i loro autori scelsero di indossare con sincerissimo zelo. Ne emergerebbe un quadro complessivo che potremmo riassumere nei termini seguenti. Lungo un intero secolo, tra il 1580 e il 1680, l’élite culturale del cattolicesimo controriformista – la più attenta a percepire i fenomeni forieri di mutamenti epocali nella società – insiste nel segnalare un evento ritenuto di straordinaria importanza: per la prima volta nella storia moderna, uomini e donne “in massa” si trovano a subire l’impatto d’una massiccia offerta di fascinose “apparenze” spettacolari, e “le appruovano e le amano, quasi fossero verità”, assumendo nei loro confronti l’inedito ruolo di pubblico (una comunità di spettatori disponibili a farsi plasmare nell’intimo da immagini e voci mai viste né udite). Ma, 10   F.M. Del Monaco, In actores et spectatores comoediarum nostri temporis paraenesis (1621), trad. it. in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. 209.

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e qui occorre prestare la più alta attenzione, la perniciosissima novità individuata ed esecrata da tanti polemisti cattolici non va confusa con un generico concetto di teatro. Vale, per tutti questi intellettuali, il fermo criterio distinzionistico esemplarmente enunciato nel 1670 dal genovese Giovan Paolo Oliva, generale della Compagnia di Gesù: Io qui ragiono non di quei drammi che talora son recitati nelle case illustri per ammirata pompa o di sinfonie armoniose o di abiti risplendenti. Molto qui meno riprovo le tragedie erudite che, fregiate di dottrina e armate di eloquenza, o graffiano i difetti volgari con acutezza di motti, o sollevano gli animi a combattimenti per la fede e a racquisti di provincie tiranneggiate da barbari. Detesto e, per quanto posso, atterro, e, se potessi, sprofonderei negli ultimi tufi dell’inferno quei palchi lavorati di legni tratti o da selve velenose o da boschi incantati, ove recitatori svergognati e mercenarii espongono al pio udito de’ cattolici ogni sorte di diletto perverso11.

Il preoccupatissimo interesse di tanti ecclesiastici e l’inusitato proliferare di sermoni e di pubblicazioni polemiche che ne consegue non riguardano né gli spettacoli allestiti presso sedi “illustri” (palazzi nobiliari, regge, accademie) né i generi rappresentativi distinti da finalità di edificazione religiosa (come avviene, per esempio, nel vasto settore del teatro gesuita) e di propaganda politica a favore degli Stati cattolici europei. Non prendono per nulla di mira, insomma, nessun tipo di performance che risulti, da un lato, senza scopo di lucro, e, dall’altro, accettabile o sotto il profilo etico o dal punto di vista ideologico. Si occupano in esclusiva di tutte le fenomenologie sceniche indifferenti ai dettami della morale cristiana perché motivate in primis dalla ricerca del guadagno ad ogni costo. Non il teatro in sé, dunque, ma quel particolare teatro che è andato sviluppandosi secondo le finalità e le forme tipiche di un moderno (e modernamente spregiudicato) commercio dello spettacolo. Sono soltanto i “palchi” di quest’ultimo ad essere costruiti con legno ricavato da alberi velenosi che crescono in foreste incantate. E l’irresistibile incanto magico che 11  G.P. Oliva, Quaranta sermoni (1670), in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. 254.

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da essi si sprigiona consiste appunto in una forza di attrazione tale da esercitarsi non già entro le ben guardate clausure delle “case illustri” o dei collegi gesuiti, bensì nel più ampio contesto d’una spazialità quasi sconfinata: dove il pullulare di palcoscenici “mercenarii” attira “in massa” tutte le componenti possibili d’un pubblico pagante indifferenziato. La presenza di commedianti “svergognati”, abilissimi nel suscitare attorno alle loro esibizioni un enorme concorso di spettatori pronti a disertare qualsiasi luogo di lavoro o di studio, sembra trovare le sue prime avvisaglie – stando alle testimonianze pervenuteci – addirittura a ridosso del 1550. Risale a quel periodo, infatti, una madrigalessa di Anton Francesco Grazzini (detto il Lasca), intitolata Sopra l’andare a vedere le commedie del Zanni, dove possiamo leggere questi versi: Le belle cose e i costumi divini de i giovan Fiorentini, l’opere degne e ’l vertuoso spasso altro oggidì non è che gire in chiasso, per udir commediacce rattoppate, recitate e condotte da brigate infami, tal che mai belle, o gentili cose non s’odon, ma plebee e sporche12.

Non è dato sapere con certezza se le “brigate infami” cui qui si allude fossero composte da “recitatori mercenari” o da giovani dilettanti. Che si tratti di “svergognati” è fuori discussione. Come è certo che al centro dell’immaginario spettacolare delle “commediacce” in questione fungano da protagoniste indubitabili maschere farsesche quali lo Zanni o un Stefanello Bottarga. In ogni caso, è chiaro che i versi citati intendano deprecare una vera e propria moda affermatasi tra la gioventù fiorentina a metà Cinquecento: quella volta ad imitare gestualità ed eloquio di figurazioni comico-grottesche rese famose da rappresentazioni degne d’un postribolo, ma fortunate e frequentate quant’altre mai. 12  A.F. Grazzini, Rime burlesche, a cura di C. Verzone, Sansoni, Firenze 1882, p. 296.

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Poiché il Lasca ci ha tramandato ulteriori, preziosissime, testimonianze – ma tutte di tono ben diverso – sulle fortune toscane d’un non meglio specificato tipo di teatro che troverebbe il suo simbolo per eccellenza nell’immagine di Zanni, è possibile sia che lo scrittore si riferisca (di volta in volta) a svariate fenomenologie produttive d’un identico modello di performance, sia che il lettore si trovi a dover fare i conti con “un procédé de la poésie bernesque qui consiste à écrire à la fois pour et contre une même chose”13. In effetti, il commediografo senese, in non pochi componimenti raccolti tra le Rime burlesche, pur senza rinunziare alla denunzia sarcastica della dabbenaggine e dei malvezzi fiorentini, si fa addirittura promotore entusiasta degli spettacoli di maschere: Com’esser può che tanto i Fiorentini credino, e tanto e tanto a i ciurmadori, che non pur lor la borsa di quattrini empiono, ma fanno lor mille favori, onde qua piovon da tutti i confini cerretan, mariuoli e giuntatori, che con polvere ed oli, e lattovari rapiscon loro e rubano i denari? [...] Ridesi questo baro Modanese d’aver buscato qui tanti ducati con le parole sol, non già co’ i fatti. Oh Fiorentin balordi, ciechi e matti! E Zanni poverel, che s’affatica co’ suoi compagni ognor per ritrovare qualche commedia moderna od antica, per poter darvi spasso e dilettare, giusto è che ristoriate sua fatica, e questo cerretan lasciate andare falso, bugiardo e pien di frode e inganni, e venghiate alla stanza ad udir Zanni, la Nespola, il Magnifico e ’l Graziano

13   “Un procedimento tipico della poesia bernesca che consiste nello scrivere, di volta in volta, ora pro ora contro un identico oggetto” (M. Plaisance, Censure et castration dans la dernière comédie de Lasca, in AA.VV., Culture et marginalité au XVIème siècle, Klincksieck, Paris 1973, p. 84).

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e Francatrippe, che vale un tesoro, e gli altri dicitor di mano in mano, che tutti fanno bene gli atti loro14.

Con i termini “ciurmadori, [...] cerretan, mariuoli e giuntatori”, Grazzini intende riferirsi – sommariamente – a soggetti impegnati in un largo ventaglio di attività (secondo lui) tutte truffaldine che venivano esercitate sulle piazze e per le vie di Firenze a metà Cinquecento, e che poco più tardi sarebbero state raccolti sotto l’unico attributo connotativo di ciarlatani15. In realtà, il disegno delle strade urbane qui abbozzato dal commediografo traccia un attendibilissimo se pur sommario panorama dei divertimenti e delle attrazioni in cui avrebbe potuto imbattersi, percorrendole, un cittadino qualunque di quasi cinque secoli or sono. È un mondo di micro-spettacoli senza troppe pretese né d’arte né di scienza, ma comunque distinti da un loro calcolato gioco di fascinazione. Non certo troppo dissimile da quello che verrà restituito più in dettaglio, a circa trent’anni di distanza, dalle pagine di una voce del celebre regesto La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585) di Tommaso Garzoni: Fra tanto sbucca fuor de’ portici il Toscano, e monta su con la putta, smattando come un asino Burattino col suo Graziano; il circolo si unisce intorno a lui, le genti stanno affisse per vedere ed ascoltare, [...] e in questo mezzo la putta prepara il cerchio sul banco e si getta in quattro a pigliar l’anello fuora del cerchio, e poi sopra due spade tuole una moneta, indietro stravaccata, porgendo un strano desiderio al popolo della sua lascivia grata. [...]. Non manca Zan dalla Vigna di farsi innanzi ancora lui [...], ove la brigata scoppia dalle risa, vedendo i gesti di simia, gli atti da babuino [...]. Fra tanto Mastro Paolo da Arezzo comparisce in campo con un stendardo grande, lungo e disteso, ove tu vedi un san Paolo da un canto con la spada in mano, dall’altro una frotta di biscie che, sibilando, mordono quasi, così dipinte, ognuno che le mira. Or qui   Grazzini, Rime burlesche cit., p. 48.   Il più ampio e suggestivo quadro analitico dedicato a queste attività, alle loro fenomenologie, e alle vicende storiche cui esse diedero vita tra Medioevo e Settecento è quello offerto da Il libro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Einaudi, Torino 1973. Ancora oggi esiste – nella toponimia della città – un eloquente segno della massiccia e persistente presenza a Firenze di ciurmadori e soci: via dei Cerretani. 14 15

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[...] si butta fuori un aspide sordo, un regolo o basilisco morto, un crocodillo portato d’Egitto, una tarantola di campagna, una luserta d’India, e con la mostra di tai serpenti si pone orrore alla turba, che tremebonda mette mano alla borsa e compra la grazia di san Paolo16.

Non è impossibile che, nell’arco d’un trentennio, strade e piazze della nostra penisola abbiano conosciuto – soprattutto durante i giorni di mercato – una significativa crescita delle attrazioni più specificamente spettacolari tra le molte attività tipiche degli antichi “cerretani”. È certo, comunque, che in ogni periodo storico questi spazi sono stati (sino alle soglie della contemporaneità) i luoghi elettivi sia di epifenomeni folklorico-religiosi, come i coloriti e impressionanti rituali dei serpentari “di san Paolo”, sia dell’esercizio d’una medicina popolare sempre pronta ad offrire in vendita (attraverso i più opportuni imbonimenti) “polvere ed oli, e lattovari”, sia d’una miriade di performances basate sul gioco di maschere, sul contrasto comico, sulla musica, sulla danza, sull’esibizione o bizzarra o mostruosa o ammiccante. Solo la fondamentale presenza di quest’ultimo settore, del resto, rende plausibile l’altrimenti poco perspicuo (e ancor meno logico) raffronto comparativo presupposto dai versi di Grazzini: quello tra le strade invase da “cerretani”, e una “stanza” (evidentemente adibita a sala teatrale cui si accede a pagamento) dove agirebbe una più che pregevole troupe di attori ben conosciuti grazie alle famose figurazioni sceniche – “Zanni, la Nespola, il Magnifico e ’l Graziano e Francatrippe”17 – che sono soliti impersonare. L’autorevole testimonianza del Lasca, mentre pone a confronto le abborracciate e improprie forme di spettacolarità ‘truffaldina’ poste in opera secondo tradizione da varie categorie di “ciurmadori” e le onestamente specialistiche qualità performative di inediti “Zanni”, segnala con forza la nascita d’una novità assoluta: il moderno commercio dello spettacolo, gestito da appositi professionisti “che tutti fanno bene gli atti loro” affittando luoghi a ciò predisposti, mantenendosi entro le regole di un gioco 16   T. Garzoni, De’ formatori di spettacoli in genere, e de’ cerretani o ciurmadori massime, in F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, pp. 15-18. 17   Non a caso, tra i nomi di maschere segnalati dal Lasca, possiamo registrare significative corrispondenze con i nomi delle maschere che – secondo Garzoni – i cerretani sarebbero stati soliti esibire sulle piazze: Zan dalla Vigna, Graziano...

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mercantile di domanda-offerta che non ammette la presenza di equivoci secondi fini. 2. Uomini – e donne – in “fraternal compagnia” Quando il commediografo senese andava componendo le rime che abbiamo sin qui citato, non erano trascorsi ancora dieci anni dalla data della prima documentazione a noi pervenuta di un fenomeno che potremmo considerare l’indispensabile premessa al manifestarsi di questa novità assoluta. Il 25 febbraio 1545, otto cittadini veneti si danno appuntamento di fronte a un notaio di Padova, per stringere fra di loro un’associazione legalmente riconosciuta il cui statuto, nei suoi punti essenziali, recita: Desiderando li infrascripti compagni, zovè ser Maphio ditto Zanini da Padova, Vincentio da Venetia, Francesco da la Lira, Hieronimo da s. Luca, Zuandomenego detto Rizo, Zuane da Trevixo, Thofano de Bastian et Francesco Moschian, far una fraternal compagnia, qual habia a durar fino al primo giorno di quadrigesima proxima [...] de lo anno 1546 [...] hanno insiem concluso et deliberato, aciò tal compagnia habia a durar in amor fraternal [...] senza alcun odio rancor et disolutione, tra loro far et observar cum ogni amorevolezza [...] tutti li capitoli infrascripti [...]. Et primo hanno così da cordo eletto in suo capo nel recitar de le sue comedie di loco in loco dove si troveranno il predito ser Maphio [...]. Item, acciò detta compagnia habia in ogni amorevolezza a durar [...], li compagni prefatti cossì d’accordo hanno statuito et deliberato che si abbi a far una cassella, la qual habia tre chiave che sian sicure. Una de le qual habia et tener debba detto capo, l’altra Francesco de la Lira, l’altra Vincentio da Venetia, ne la qual ogni giorno che si guadagnerà se li habia a reponer hora un ducato, hora più et mancho, segondo li guadagni che occoreranno; qual cassella mai possi esser aperta, né altrimenti di quella tolto denaro alcuno, senza expresso consentimento et voler di tutta la compagnia [...]. Item, che venendo la compagnia in Padova, qual debba venir nel mese di zugno, che allora li danari, che si atroveranno ne la cassella, sian divisi egualmente18.

18  E. Cocco, Una compagnia comica nella prima metà del secolo XVI, in “Giornale storico della letteratura italiana”, LXV (1915), p. 57.

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È l’atto di nascita d’una struttura basilare del teatro moderno: la compagnia degli attori professionisti. Nel caso specifico – come si può evincere da questo primo documento d’un modello statutario e contrattuale destinato a riprodursi più e più volte negli anni successivi al 1545 – non si tratta ancora d’una forma di associazione dichiaratamente concepita per prolungarsi a tempo più o meno indeterminato: i contraenti si limitano a stringere un patto che li legherà per circa un anno, e che scadrà, come risulta logico, all’aprirsi dei giorni di Quaresima (periodo da sempre vietato a feste e divertimenti). Il contratto di Padova, se da un lato certifica che il territorio della repubblica veneziana e la dimensione della sua ricca cultura drammaturgico-spettacolare primo-cinquecentesca costituiscono il retroterra genetico del fenomeno19, dall’altro disegna a grandi linee lo schema d’una troupe temporanea ma saldamente coesa; “fraternale” (poiché in essa ogni attore sembra avere pari dignità, pur dovendo tutti riconoscere la supremazia artistico-organizzativa d’un primus inter pares, e partecipa in egual misura alla spartizione degli utili); fondata su di un accorto bilanciamento tra diritti e doveri di tutti i suoi membri. Gli otto sottoscrittori, per esempio, dopo essersi impegnati a rispettare ogni articolo del loro accordo “senza alcuna cavilatione, sotto la pena et perdita di denari infrascripti”, accettano di obbedire al ‘capocomico’ per quanto attiene alla scelta delle piazze e all’impostazione degli spettacoli, si obbligano a non abbandonare la compagnia, a partecipare in misura paritetica all’acquisto d’un cavallo “il qual habia a portar le robe de li fratelli di loco in loco”, a non giocare d’azzardo tra di loro. Ma, tra i più significativi codicilli dell’accordo, figura ancora una quantomai moderna forma di assicurazione sulla salute: Item, che se per caso niuno de li compagni fra detto tempo de la compagnia si amalasse, che allora et in tal caso detto compagno sia 19   Si tratta di un retroterra le cui componenti risultano tanto sinteticamente quanto efficacemente illustrate da Ferruccio Marotti nella Premessa a MarottiRomei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., pp. xxxii-xxxvii. Tra gli autori e gli attori di questa cultura figurano – sulla scia di una tradizione quattrocentesca coltivata soprattutto dalle veneziane societates iuvenum delle Compagnie della Calza – personaggi del calibro di Angelo Beolco, Francesco De’ Nobili, Andrea Calmo. Senza dimenticare i grandi buffoni Domenico Taiacalze, Zuan Polo Liompardi, Eronimo Limpardi.

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subvenuto et governato de li danari comuni et guadagnati, et spiso fino tanto sia resanato, over condutto a casa sua et fin a quel tempo habia la sua parte, ma condutto a casa sua non habia più niente da ditta compagnia20.

Purtroppo, l’importantissimo documento padovano non dice nulla – e dovevamo aspettarcelo, considerando le motivazioni essenziali della sua stesura – né sulle localizzazioni e sulle modalità che dovrebbero distinguere quel fare spettacolo e quel vendere spettacolo che i membri della “fraternal compagnia” sembrano aver scelto come professione, né sui tipi di performance in repertorio, né (tantomeno) sui tratti tecnici e artistici distintivi vuoi del loro modo di essere attori vuoi delle loro messinscene. Alcuni nomi e soprannomi degli artisti qui in causa (“ditto Zanini da Padova”, “Francesco da la Lira”, “Zuane da Trevixo”) lasciano intravvedere un qualche riferimento sia a maschere zannesche sia a virtuosismi musicali. Ma nulla di più, su questi versanti, è lecito estrapolare. Di sicuro possiamo desumere che, sulla scorta d’una convenzione cortigiana e accademica del primo Cinquecento, l’organico e le rappresentazioni della troupe padovana contemplavano la presenza di soli uomini: alcuni dei quali – evidentemente – specializzati nel sostenere ruoli femminili (un ulteriore documento relativo al gruppo di ser Maphio specifica che uno degli attori “fa da donna”). Nel suo complesso, tuttavia, il contratto del 25 febbraio 1545, che precede di nove mesi e mezzo la solenne cerimonia di apertura del Concilio di Trento (13 dicembre 1545), attesta un dato incontrovertibile di fondamentale importanza: la nascita di un mercato dello spettacolo, forse solo embrionale, ma di certo praticabile con discrete prospettive di guadagno e tale da consistere in pluralità di ‘piazze’ potenzialmente sfruttabili e da favorire, di conseguenza, il costituirsi di nuclei societari di professionisti della scena dediti ad alimentarne la domanda con adeguate offerte di performances concepite come nuove merci. Detto in altri termini, è comunque quello che un Guarini definirà commercio di commedie “contaminate” da “gente sordida e mercenaria”, e che – secondo tanti alti prelati e uomini di Chiesa – va considerato

  Cocco, Una compagnia comica nella prima metà del secolo XVI cit., p. 57.

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colpevolissimo e stregonesco traffico d’un perverso immaginario da sogno a opera di “recitatori svergognati e mercenarii”. Un più tardo contratto, stipulato (sempre davanti a notaio) il 10 ottobre 1564 a Roma, registra un ulteriore elemento di novità introdotto dagli attori professionisti nel mondo dello spettacolo contemporaneo, e cioè la presenza di una donna, tal Lucrezia da Siena21. È la prima attestazione italiana che sancisce in termini inequivocabili l’esordio scenico d’una figura assolutamente inedita: l’attrice. Il documento, pubblicato da Emilio Re nel 1914, conferma e certifica un evento in precedenza enunciato solo da sporadiche e vaghe dichiarazioni di pur autorevoli addetti ai lavori. Il grande comico Pier Maria Cecchini (1563-1645), ad esempio, sostiene – nel 1621 – che “non sono 50 anni che si costumano donne in scena”22. E l’ultimo significativo portabandiera della Commedia dell’Arte in Francia, Luigi Riccoboni (1676-1753) detto Lelio, scrive (ma ormai all’altezza del 1730): C’est du temps de Flaminio Scala que les femmes furent introduites sur la scène, c’est à dire vers l’an 1560. Du moins si Flaminio Scala n’étoit pas encore comédien lorsque cela arriva, il peut l’avoir vu23.

La clamorosa infrazione del tabù che vietava ogni forma di esibizione scenica della donna, e che imponeva la norma d’un teatro in chiave espressiva ‘unisessuale’ realizzato solo da individui maschi, apre le porte all’inopinato manifestarsi d’una spettacolarità affatto altra rispetto alle consuetudini del teatro rinascimentale: non più quella d’un gioco altamente stilizzato, dove anche la componente femminile dell’umanità è (anziché vivo corpo presente) pura immagine finta ad arte; bensì quella d’una effettiva compresenza scenica della corporeità maschile e di quella femminile, che trasferisce pari pari sul palco tutte le implicazioni sessuali e sensua21   E. Re, Commedianti a Roma nel secolo XVI, in “Giornale storico della letteratura italiana”, LXIII (1914), p. 191. 22   P.M. Cecchini, Brevi discorsi intorno alle Comedie, Comedianti e Spettatori, Antonio Pinelli, Venezia 1621, p. 9. 23   “È dal tempo di Flaminio Scala che le donne furono introdotte sulla scena, cioè verso il 1560. O almeno, nel caso Flaminio Scala non fosse stato ancora attore in quel periodo, è possibile che sia stato testimone di questo evento” (L. Riccoboni, Histoire du théâtre italien, Delormel, Paris 1728, p. 42).

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li della dicotomia uomo-donna. Ovvero, per dirla (secondo i termini moralistici cari ai portavoce della Controriforma) con le parole espresse nel 1585 dal gesuita palermitano Pietro Gambacorta: Comparisce vera donna, giovane, bella, ornata lascivamente, la quale essendo con attenzione mirata, senza che vi fosse altro, questo solo è manifesto pericolo di rovina alla gioventù: il sangue bolle, gli anni son verdi, la carne è viva, le passioni ardenti, et i diavoli pronti [...]. Che sarà poi udire la donna parlare? E d’amore? [...] Che sarà vedere che l’adultero chiede un bacio, e l’ottiene? Che sarà che la donna, fingendosi pazza, comparisce mezzo spogliata, o con veste trasparente?24

Se le attrici descritte da Paolo Segneri saranno “femmine audaci” che con il loro “fingersi affatturate” da un “malefizio amatorio” finiscono “per affatturare esse” gli spettatori, quelle cui si rivolgono le deprecazioni di Gambacorta occupano la scena come epifanie d’una conturbante carnalità “vera, giovane, bella”, che affascina orecchie ed occhi sia con la voce suadente sia con vesti lascive sia esibendo al pubblico ora movenze erotiche ora una maliziosa quasi-nudità: il tutto, comunque, al fine di spingere diabolicamente verso la rovina spirituale quanti assistono alle loro performances. Entro un frastornante e prolungatissimo coro di deprecazioni sempre intonate a simili motivi, tra Cinque e Seicento è possibile udire solo sporadiche voci di diverso tenore. Come quella del gesuita Giovan Domenico Ottonelli – autore dei cinque fondamentali volumi Della Christiana Moderatione del Theatro, stampati a Firenze tra il 1646 e il 1652 – che, scegliendo di investigare anche le motivazioni sociologiche che potevano aver giustificato la nascita d’una attorialità declinata al femminile, osserva come le donne di bassa condizione, se risultano escluse dal banco e dalla scena, sono per ordinario confinate alla fatica dell’ago e della conocchia e se la passano in travagliosa vita, guadagnando il vitto co’ quotidiani sudori e con gli stenti. Ma ricevute nelle com24   Il passo di Gambacorta fa parte di un manoscritto citato da Giovan Domenico Ottonelli, e riferito in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. xci.

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pagnie de’ comici hanno la parte migliore e più sicura; son accarezzate et onorate; e si posson pregiare del grazioso titolo di Signora. O che gusto per una donna si è, o che bella cosa l’andar ad una principal città, et esser tal volta incontrata da nobil cavalcate, et anche da carrozze da 4 o da 6 [cavalli]. E vedersi condotta a preparate stanze, et ivi ricever subito regali di rinfreschi per far pasti lauti e deliziosi. O che bella, anzi bellissima cosa, ricevere onori grandi e gran presenti [...] et alla fine sperare dopo morte l’onore d’una nobilissima sepoltura; come si legge della famosa comica Isabella Andreini e d’altre comiche molto celebrate25.

L’inopinata apparizione della donna attrice, insomma, se da un lato inaugura il configurarsi d’un mondo dello spettacolo qualitativamente nuovo rispetto a quello rinascimentale, dall’altro costituisce uno tra i primi e più clamorosi segnali d’una mutazione ormai in corso sul versante femminile della società: la prospettiva della scelta d’un libero lavoro autonomo, potenzialmente foriero di fama e di ricchezza a colei che decida di farla propria. Per altro, com’è giusto, Ottonelli si dimostra ben consapevole del fatto che questa inedita possibilità si fonda tutta su di una richiesta di mercato, che considera l’esibizione della donna sulla scena alla stregua dell’offerta d’una qualsiasi altra merce, tanto rara quanto appetibile. Ed è appunto lungo la falsariga tracciata da una simile domanda, che sceglie di attestarsi – dopo il 1564 – la strategia performativa delle nuove troupe dei professionisti scenici (da Ottonelli sovente accostati in parallelo ai “ciarlatani”), i quali – quasi mutuando le loro astuzie sia dai repertori delle tattiche militari sia dai cataloghi dei prodotti di lusso – considerano la donna o un ‘mezzo d’assalto’ di formidabile efficacia dirompente, o un mero oggetto, più gradevole ed allettante di molti altri: 25   G.D. Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro, in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. 356. In realtà, l’alternativa tra umili lavori domestici e prestigioso mestiere d’attrice prospettata da Ottonelli potrebbe risultare alquanto mistificante, se pensiamo che la più probabile prima area di provenienza di buona parte delle nuove professioniste della scena va indicata nella categoria delle cosiddette cortigiane oneste: donne certo spregiudicate a livello di comportamento erotico, ma anche pratiche nelle arti dell’intrattenimento artistico-intellettuale, del canto, dell’improvvisazione.

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La prudenza prescrive che, per colpire felicemente in un disegno, s’usi il mezzo molto sicuro e certo, e si tralasci l’incerto e poco sicuro. Se il capitano può servirsi della bombarda e del cannone per l’espugnazion d’una piazza, che tratto di militar prudenza farà ch’egli vi impieghi la moschetteria? Il disegno de’ professori dell’arte comica e de’ ciarlatani, si è l’allettar il popolo al concorso, per guadagnare e per mantenersi con lo sforzo delle sceniche fatiche e con lo spaccio di que’ secreti e di que’ rimedi che soglion proporre a’ lor compratori. Dunque i comici et i ciarlatani con prudenza usano la publica e femminil comparsa per allettare, perché sanno per esperienza che la donna vista et udita alletta più efficacemente che gli altri dilettevoli oggetti del banco o della scena26.

Passando in rassegna le principali manifestazioni della complessa fenomenologia cui dà vita la comparsa della donna attrice nella storia moderna, non andrà dimenticato che l’attenzione dei polemisti ecclesiastici cinque-secenteschi si appunta ancora sul ‘pericoloso’ definirsi – entro il mondo dello spettacolo, e segnatamente nella vita quotidiana di tutte le compagnie – d’un inedito modello di convivenza tra il soggetto maschile e quello femminile. Nel 1631 il gesuita Pedro Hurtado De Mendoza, nelle pagine delle sue Scholasticae et morales disputationes, si rivela particolarmente attento ai risvolti anche più pruriginosi dei rapporti tra attori e attrici tanto sulle scene quanto nei loro immediati dintorni: vivono promiscuamente uomini e donne: gli uomini sono dei giovani sfrenati, che pensano giorno e notte agli amori e imparano a memoria poesie amorose; le donne poi sono sempre, o quasi sempre spudorate. La coabitazione è libera, senza che le donne stiano per conto loro in camere da letto separate; perciò gli uomini le vedono di frequente vestirsi, spogliarsi, pettinarsi; ora a letto, ora mezze nude; e sempre intente a parlare tra loro di cose lascive [...] e sulla scena spesso si incontrano e l’uomo spoglia la donna e la veste, perché ella, senza perdere tempo, possa assumere nella commedia ruoli diversi. [...] In teatro [...] si abbracciano, si stringono le mani, si baciano e si toccano27.   Ivi, pp. 340-341.   P. Hurtado De Mendoza, Scholasticae et morales disputationes, in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., pp. 88-89. 26 27

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Lo sguardo di Pedro Hurtado De Mendoza non si limita a registrare quanto avviene sulla scena: insegue gli attori sino a sorprenderli nei retropalchi di norma invisibili agli spettatori, e ancora insiste a braccarli dentro stazioni di posta e “alberghi”, perlustrando così gran parte della specialissima dimensione spaziale entro cui si svolge l’esistenza dei comici, eterni viaggiatori per obbligo professionale. E, come risultano singolari i poli dominanti entro cui si distende questa dimensione, così appaiono affatto anomale – se confrontate con quelle ritenute lecite per i membri d’una società cristiana – le scelte comportamentali tipiche della loro vita sessuale e di relazione. Al ritegno e al pudore che dovrebbero distinguere tutti i rapporti tra maschi e femmine, si sostituiscono la più larga disinvoltura e il più spudorato stile di relazione reciproca; ad una educazione tutta preoccupata di conculcare e sublimare ogni pulsione erotica, subentra l’apprendimento d’una pratica esibizionistica tesa a formalizzare artisticamente le movenze della sensualità; ai rigidi codici del matrimonio cattolico post-tridentino, si sostituisce l’anarchia assoluta vuoi del libero amore vuoi della coppia aperta. I colori con i quali lo zelante polemista dipinge un simile quadro sono certo desunti da una tavolozza dove dominano in esclusiva il rosso acceso e il nero profondo dell’infernale e del demoniaco, ma le linee essenziali del suo disegno corrispondono in buona parte a quelle delle realtà ritratte. La presenza delle donne nelle compagnie girovaghe non trasforma la loro sfera in un girone dantesco, ma vi introduce comunque l’elemento indispensabile a completare e ad attivare una vera e propria micro-società: nettamente distinta dalla normale (autentica o presunta, poco importa) societas Christi, dotata di abitudini proprie e di peculiari regole comportamentali. A questa micro-società, ai suoi membri e alle singolari fenomenologie che li distinguono, la gente comune che vi è estranea – ma che fruisce degli spettacoli “con avidità”, subendone l’impatto come se fossero inebrianti fonti di godibilissimo “scompiglio” – finirà col guardare da un punto di vista sempre connotato, insieme, da ammirazione e da paura, da entusiasmo e da ribrezzo, da desiderio di emulazione e da sensi di scandalo. Ma anche i potenti e gli intellettuali assumeranno nei confronti di attori e attrici un atteggiamento ognora oscillante tra curiosità, attrazione e disprezzo. Con punte di morboso e torbido interesse ben illustrate nell’esemplare vicenda narrata da Ottonelli: 21

quante volte succedono casi di grave scandalo? Lasciamone da parte molti, anche non molto antichi, ricordiamone solamente alcuni assai moderni. Il primo narrato mi fu l’anno 1641 in Fiorenza da un comico, testimonio di presenza. Passava per certo paese una compagnia di comedianti, i quali avevano seco le comiche mogli loro: furon fermati d’ordine del Signore del luogo accioché facessero un’azzione: la fecero e, dopo, una di quelle comiche, senza che il misero marito potesse dire una parola, fu ritenuta in palazzo per le disoneste voglie dell’impudico Padrone, da cui la mattina fu restituita, con motteggiar di più al marito, che mostrava nel volto gran dispiacere dello scorno, che non si crucciasse, perché i signori pari suoi non levavano l’onore, ma l’accrescevano, domesticandosi con le mogli altrui28.

Ove si pensi, infine, alla lunghissima e dura lotta intrapresa da teologi ed ecclesiastici cattolici contro il teatro dei professionisti tra Cinque e Seicento – che sembra trovare il suo simbolo riassuntivo nel formalizzarsi del pesantissimo divieto di sepoltura in terra consacrata per i comici che non avessero rinunziato alla loro professione prima della morte – risulterà evidente come la micro-società degli attori, sottoposta a pressioni e minacce tanto pericolose, non possa reagire se non adottando (più o meno consapevolmente) contromisure comportamentali destinate ad incrementare vieppiù l’isolamento della categoria dal resto della compagine sociale. 3. Magnificenza del recitare, improvvisazione, maschera Al di là d’uno stile di vita che a suo tempo venne denunciato (attraverso pre-giudizi non del tutto svaniti neppure oggi) come o amorale o perverso29, ciò che davvero distinse – ma sul piano artistico-professionale – le “fraternali compagnie” emerse a sorpresa dal contesto storico di metà Cinquecento può essere colto   Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., p. 352.   Non va dimenticato che le troupe di attori avevano anche tra i loro più diffusi caratteri distintivi quella particolare litigiosità (indirizzata soprattutto a conquistare la leadership di un gruppo, o ad affermare costi quel che costi la supremazia di un ensemble su di un altro) che è ben illustrata da molti episodi storici ricostruiti da S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino 1993. 28 29

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attraverso le rime d’un ulteriore componimento di Anton Francesco Grazzini, concepito per celebrare le sorprendenti performances fiorentine d’una troupe ammirevole soprattutto per i suoi contrasti tra le maschere di Zanni e del Magnifico: la dolce e leggiadra presenza del Cantinella e de’ compagni suoi era nel vero una magnificenza. Ma recitando le comedie poi a gli atti, a’ modi, a’ gesti ed alla voce gli altri strion restavan tutti buoi. Non facevan le genti stare in croce con quel lungo parlar senza profitto, ch’a gl’altri comedianti tanto nuoce. Vedeasi spesso misero ed afflitto Zanni dal Cantinella sopraffare, che gli correva addosso a naso ritto; poi si sentiva il Cantinel cagliare, ché Zanni gli faceva un sopravento, ch’il meschin non sapea dove s’entrare: e così gli altri ancora e fuori e drento facevan gli atti lor sì gentilmente, ch’ognun restava al fin lieto e contento30.

Anche se il Lasca non entra nei particolari della sua struttura, è evidente che qui abbiamo a che fare con una delle compagini che inaugurarono la stagione del professionismo scenico: quella guidata da Benedetto Cantinella. Le poche notizie tramandateci su questo attore – raccolte e valorizzate da Emilio Re31 – ne testimoniano attività e fama (soprattutto in ambiente romano) a partire almeno dal 1546. E le Rime burlesche, riferendosi alle sue esibizioni fiorentine, ne esaltano non una sola volta l’eccellenza artistica. Ciò che soprattutto importa, però, è il modo in cui vengono a formularsi i giudizi che riguardano lui e i suoi compagni di performance. Nel passo appena citato, ad esempio, si insiste su di un significativo confronto tra certe qualità espressive tipiche della troupe di Cantinella e talune abitudini che sarebbero proprie di   Grazzini, Rime burlesche cit., p. 521.   Cfr. Re, Commedianti a Roma nel secolo XVI cit., pp. 179-181.

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“altri comedianti”. Ma si tratta di un paragone che Grazzini torna a riproporre pari pari in un diverso componimento: Facendo il Bergamasco e il Veniziano ne andiamo in ogni parte, e il recitar commedie è la nostr’arte. Noi ch’oggi per Firenze attorno andiamo, come vedete, messer Benedetti e Zanni tutti siamo, recitator eccellenti e perfetti: gli altri strioni eletti, amanti, donne, romiti e soldati, alla stanza per guardia son restati. Questi vostri dappochi commediai certe lor filastroccole vi fanno lunghe e piene di guai, che rider poco e manco piacer danno; tanto che per l’affanno, non solamente gli uomini e le donne, ma verrebbono a noja alle colonne32.

Qui, il Lasca si compiace di immedesimarsi nel Cantinella e nel suo Zanni, ritratti mentre percorrono le strade fiorentine – quando gli altri membri della loro compagnia sono rimasti a “guardia” della “stanza” dove reciteranno – come per una parata pubblicitaria. E l’imbonimento reclamistico che i due rivolgono ai loro potenziali spettatori verte in esclusiva sul confronto tra il divertimento che essi si dichiarano capaci di offrire, e la “noja” delle monotone “filastroccole” senza fine cui li avrebbero avvezzi indeterminati “dappochi commediai”. Gli stessi “altri comedianti”, evidentemente, cui allude la poesia citata in precedenza, e che, là, venivano definiti come una mandria di istrioni capaci solo di un “lungo parlar senza profitto”: ovvero di un convenzionalismo performativo così poco animato da costringere “le genti” a “stare in croce”. È alla pietra di paragone d’un simile stile (o, meglio, d’una simile mancanza di stile), che il Lasca intende confrontare, per esaltarle, le qualità di cui sanno dar prova Benedetto Canti-

  Grazzini, Rime burlesche cit., p. 207.

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nella e compagni. I quali, anziché riproporre stancamente un’interminabile recitazione di parole inerti – “senza costrutto” –, si dimostrano capaci di animare la scena vivacizzandola all’estremo attraverso un sapiente gioco sintetico di “atti, modi, gesti e voce”, che trova il suo simbolo più efficace nella rapida sequenza di immagini parlanti restituita dai versi “Vedeasi spesso misero ed afflitto / Zanni dal Cantinella sopraffare, / che gli correva addosso a naso ritto; / poi si sentiva il Cantinel cagliare, / ché Zanni gli faceva un sopravento, / ch’il meschin non sapea dove s’entrare”. Insomma, per dirla con un semplice slogan, solo i membri della “fraternal compagnia” di Cantinella possono a buon diritto proclamare: “il recitar commedie è la nostr’arte”. Arte nel senso di specialità professionale, buon mestiere di cui è lecito e giusto vantare l’assoluta padronanza. In altri termini, il tratto distintivo con cui qui abbiamo a che fare è il costituirsi di quella moderna professionalità attoriale che è innanzitutto – oltre che scelta di vita – pieno dominio su di un complesso insieme di tecniche (presenziali, prossemiche, verbali, gestuali, ecc.) atte a conferire la più ampia e duttile capacità di realizzare a pieno, in stretta interdipendenza con attese e reazioni del pubblico, l’espressività scenica di volta in volta richiesta da un preciso progetto di performance. Evidentemente, all’altezza del tempo in cui Grazzini ha modo di ammirare e di decantare nei suoi versi le sorprendenti performances fiorentine di Benedetto Cantinella, risulta naturale e pressoché inevitabile il confronto tra un simile esempio di professionalità e una certo diffusa abitudine recitativa che sembrerebbe ignorare quasi del tutto i principi elementari della tecnica attoriale. Chi siano, in realtà, i responsabili di tanta pecca, le Rime burlesche non lo dicono mai apertamente. È lecito, comunque, supporre per via indiziaria che si tratti di soggetti e di gruppi da ricondurre a quell’ambito del dilettantismo teatrale cinquecentesco che – pur assumendo diverse tonalità a seconda dei casi – distingue sin dai loro esordi tutte le pratiche sceniche delle corti, delle accademie, delle iuventutes e delle congreghe a vario titolo promotrici di eventi festivi. È qui che, necessariamente, le rappresentazioni vengono allestite attraverso moduli recitativi tali da non potersi fondare sistematicamente sulle complesse tecniche d’un mestiere ben appreso e sperimentato, ma solo su di una più o meno convinta dizione sostenuta d’un 25

testo drammatico. Proprio in riferimento a qualcosa del genere risulterebbe logico evocare le immagini negative delle noiosissime “filastroccole” o di un “lungo parlar senza profitto”. Ed è appunto probabile che i versi del Lasca, mentre esaltano attori professionisti degni di dire “il recitar commedie è la nostr’arte”, invitino il pubblico fiorentino a non frequentare gli spettacoli di stucchevoli attori dilettanti. Ovvero di quei “comedianti” da poco, forse letterati membri d’una qualche accademia, che, in un caso, le Rime burlesche si compiacciono di ritrarre con i termini più crudi, al momento in cui – per l’inaugurazione d’una nuova “stanza” fiorentina destinata al teatro – subiscono una cocente disfatta da parte di innominati professionisti della scena: Hanno i poeti questa volta dato del cul, come si dice, in sul pietrone, poi che il nuovo salone sverginato stato è da Zanni per lor guiderdone, onde delle commedie hanno acquistato la gloria tutta e la riputazione: così da i Zanni vinti e superati possono ire a impiccarsi i letterati33.

Stando alla terminologia delle Rime burlesche, “commedie di Zanni” sembra essere la definizione di preferenza attribuita – faute de mieux – al nuovo modello di teatralità proposto dal professionismo delle “fraternali compagnie”. Nel 1568, qualcosa di strettamente analogo a questo modello compare con significativa frequenza a Monaco di Baviera durante i lunghi e ricchi festeggiamenti per le nozze del principe ereditario Guglielmo con Renata di Lorena: Dopo la settima portata del banchetto in pubblico, ad esempio, tenutosi il 22 febbraio dopo la celebrazione del matrimonio, si ebbero gli sketch di un Magnifico e di uno Zanni “che per bona pezza intertennero in gran risa li sublimi personaggi”. Durante la cena del 27 febbraio comparvero un Magnifico e due Zanni che fecero “smascellare dalle risa”. Il culmine dei numeri costituiti da lazzi si

  Grazzini, Rime burlesche cit., p. 430.

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raggiunse nella pausa di una giostra, con l’esibizione di un Magnifico e di sei Zanni34.

Non è dato sapere chi fossero gli attori di tanti contrasti tra Magnifico e Zanni, ma, di certo, la frequenza delle loro esibizioni comiche rende testimonianza del fatto che, a ventitré anni di distanza dal contratto di Padova e a circa quindici dalle esibizioni fiorentine di Cantinella, l’immaginario portato in scena dai professionisti italiani dello spettacolo era ormai uscito dai confini della penisola italiana e aveva incuriosito e conquistato la corte di Baviera. Ma i documenti relativi agli sponsali tra Guglielmo e Renata lasciano trasparire in tutta evidenza ancora una particolarissima specificità delle performances “di Zanni”, allorché – come certificano i Discorsi Delli Trionfi, Giostre, Apparati e delle cose più notabili fatte nelle sontuose Nozze dell’Illustrissimo e Eccellentissimo Signor Duca Guglielmo (1569), redatti da Massimo Troiano, maestro di cappella del principe bavarese35 – “venne in fantasia all’illustrissimo duca [...] di udire una comedia la sera seguente”, e, per soddisfare a tanta richiesta, il grande musicista Orlando di Lasso fu incaricato di allestire, insieme a Massimo Troiano, “una commedia all’improvviso all’italiana”. Il nuovo modo italiano di mettere in scena spettacoli comici, dunque, sin dalle sue origini sembra distinguersi anche per la scelta d’un fare teatro che abbia tra i suoi esponenti privilegiati il segno dell’improvvisazione. La stessa scelta che, a distanza di quasi novant’anni, Ottonelli dichiarerà essere “bel vanto” di “italica prontezza de’ mercenarii attori”, specificando che il virtuoso recitare in scena è una bella grazia, anzi è un compendio di molte grazie, le quali molti mercenari e moderni comici scoprono improvvisamente nel moderno teatro. Non hanno tutte le rappresen34   N. Schlabach, Prime rappresentazioni della commedia dell’arte. La scala dei buffoni e il fregio del soffitto dello studiolo del duca Guglielmo nel castello di Trausnitz a Landshut, in AA.VV., La ricezione della commedia dell’arte nell’Europa centrale. 1568-1769. Storia, testi, iconografia, a cura di A. Martino e F. De Michele, Fabrizio Serra, Pisa-Roma 2010, p. 407. 35   Il testo di Massimo Troiano (nella sua seconda edizione) è stato ripubblicato da F. Rauhut, La commedia dell’arte italiana in Bavaria: Teatro, Pittura, Musica, Scultura, in AA.VV., Studi sul teatro veneto tra rinascimento e età barocca, a cura di M.T. Muraro, Olschki, Firenze 1971, pp. 241-271.

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tazioni stese di parola in parola: o se pur le hanno essi non le mandano alla memoria al modo de’ recitanti fanciulli o de’ verbali oratori, ma apprendendole bene prima in sostanza, come per brevi capi e punti ristretti, recitano poi improvvisamente o quasi improvvisamente, così addestrandosi ad un modo di recitare libero, naturale e grazioso36.

Le ammirate osservazioni del polemista gesuita vengono espresse in margine al dilemma che motiva l’interesse dell’uomo di religione per una peculiarità d’ordine, almeno in apparenza, strettamente tecnico-politico: “Se i comici recitano improvvisamente, noi che dobbiamo dire o fare intorno alla revisione verbale secondo la debita moderazione?”37. Quasi collocandosi a mezza strada tra le riflessioni di Carlo Borromeo e di Paolo Segneri sui limiti del sistema di censura scaturito dal Concilio Tridentino, Ottonelli individua proprio nell’improvvisazione scenica il punto critico della questione: come è possibile sottoporre a controllo preventivo un fenomeno artistico che sembra fondarsi a priori, anziché su di un testo, sull’assenza del testo? Nel farlo, comunque, se da un lato addita in questa opzione performativa uno tra i principali motivi di successo dei comici professionisti (“un modo di recitare libero, naturale e grazioso”), dall’altro non si esime dal ricordare – giustamente – che sarebbe errato attribuire al verbo improvvisare il senso d’una assoluta ed astratta creazione ex nihilo: gli attori, in realtà, “recitano quasi improvvisamente”, dopo aver appreso quanto devono esprimere sulla scena “come per brevi capi e punti ristretti”. La cautela e l’indeterminatezza delle formule qui impiegate è spia significativa vuoi degli equivoci che possono fiorire intorno al concetto di fare teatro all’improvviso, vuoi dell’importanza di indagare a fondo le forme concrete in cui si attuò quel particolarissimo modo di “apprendimento” che, secondo Ottonelli, i “mercenari e moderni comici” avrebbero escogitato e praticato per surrogare l’assenza dello studio mnemonico d’un qualche testo drammatico. È quanto cercheremo di analizzare in dettaglio a suo tempo. Ma non senza l’ulteriore premessa cui invitano, tra tante altre, le parole d’uno degli ultimi grandi esponenti settecenteschi della tradizione scenica “all’italiana”, Luigi Riccoboni:   Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., p. 520.   Ivi, p. 521.

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“Gli attori italiani [...] non hanno recitato sempre la commedia all’improvviso. A volte recitano imparando testi a memoria”38. Fatto, quest’ultimo, che impone di ricordare come il professionismo inaugurato dal contratto padovano non si sia costituito per affermare un determinato stile di arte scenica, bensì per sancire legalmente l’esistenza di compagnie teatrali in grado di esprimere ogni forma di teatralità allora disponibile (anche se tra le loro pratiche finirà coll’assumere un ruolo preminente l’enigmatico modus operandi detto improvvisazione). Come è facile desumere da tutte le testimonianze sin qui riferite, un ulteriore tratto distintivo sempre ricorrente sembra – forse sin ab origine – caratteristico delle troupe “fraternali” italiane: l’impiego d’un immaginario scenico dove assoluta centralità assumono talune tipologie figurali fisse, come gli Zanni, il Magnifico, ecc. Nel 1589 anche l’accademico vicentino Niccolò Rossi, per giustificarsi d’aver escluso i prodotti tipici degli attori professionisti da ogni genere drammaturgico autorizzato, cita come fattore determinante la presenza di simili figure: Né commedie io nomerò giammai quelle che da gente sordida e mercenaria vengono qua e là portate, introducendovi Gianni [id est Zanni] Bergamasco, Francatrippa, Pantalone e simili buffoni, se non volessimo assomigliarle ai Mimi, alle Atellane e ai Planipedi degli antichi39.

Si palesa, qui, una qualche incertezza quando occorre definire con un termine qualificativo adeguato Zanni, Francatrippa o Pantalone. Viene fatto ricorso, allora, alla parola buffone, che sembra rimandare – in realtà – non tanto al tipo rappresentato quanto alla condizione di chi sarebbe solito rappresentare quel tipo. In effetti, secondo un Tommaso Garzoni, non risulta impossibile stabilire qualche nesso tra le figure impersonate dagli attori e le performances tipiche del buffone, poiché quest’ultimo 38   L. Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. Avec les Pensées sur la Déclamation, Guerin, Paris 1738, p. 34, trad. it. in F. Taviani-M. Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII secolo, La Casa Usher, Firenze 2007, p. 307. 39  N. Rossi, Discorsi intorno alla comedia, Agostin della Noce, Vicenza 1589, p. 34.

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discorre di legge, come un Gratian da Bologna [...]; favella da Pedante [...]; fa da Bergamasco a spada tratta, come se fusse il primo della vallata, è Magnifico nel sporgere [...]. Hora si vede il buffone [...] con le labbra torte che par un mascherone contrafatto; hora con un palmo di lingua fuori40.

Ricordiamo, ancora, che lo stesso Garzoni – allorché andava elencando le esibizioni tipiche di tutti i “formatori di spettacoli” da lui ascritti al novero dei “cerretani” – aveva menzionato Burattino, Graziano e Zan dalla Vigna quali protagonisti abituali dei “dialoghi” comici improvvisati dagli artisti di piazza suoi contemporanei. Sono indicazioni in base alle quali si può desumere che i nuovi attori professionisti abbiano privilegiato in misura quantomeno significativa, nello scegliere le tipologie umane destinate ad animare le loro commedie, un repertorio di immagini già coltivate da buffoni e performers ‘cerretaneschi’. Sì che il più attendibile prototipo di immaginario scenico tipico delle compagnie professioniste del Cinquecento e del Seicento potrebbe essere appunto simile a quello di cui Grazzini ama farsi appassionato imbonitore: una ben dosata mistura di incisive figurazioni grottesco-caricaturali che identificano taluni statuti sociali con certi luoghi (quali Zanni bergamasco, e il Magnifico veneziano), e di funzioni fisse utilizzabili per svariate trame (“amanti, donne, romiti e soldati”, se si vuole esemplificare). Strettamente connessa a un simile gioco di stilizzazione, l’adozione della mezza maschera sul volto di chi impersona alcuni di questi ruoli (non “gli amanti”, per esempio, ma gli Zanni, il Magnifico, il Dottore, il Capitano) costituisce l’ultimo clamoroso elemento distintivo del nuovo immaginario teatrale. Se Carlo Borromeo sceglie di definire tout court gli attori “uomini indegni quant’altri mai, mascherati”, Tommaso Garzoni – quasi a sancire in termini non discutibili la larghissima fortuna cinquecentesca di ogni tipo di maschera nella vita quotidiana, nelle feste e sui palchi teatrali – dedica un’apposita ampia voce della sua enciclopedica rassegna “di tutte le professioni del mondo” ai fabbricatori di maschere (i “mascherari”): tanto attivi nel territorio di Modena 40  T. Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Somasco, Venezia 1593, p. 816.

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da alimentare il diffondersi della terminologia “volti modenesi”41 a designare gli oggetti da loro prodotti. Come puntualizza Ferruccio Marotti, analizzando in parallelo il processo di “stilizzazione” cui vengono sottoposti i “personaggi”, e la scelta di occultare fronte, naso e guance degli attori con un oggetto scolpito in chiave espressionistico-grottesca: da un lato la contiguità con l’uso carnevalesco delle maschere (ma attenzione: i Pantaloni e gli Zanni non nascono nel carnevale, ma vi entrano presto a far parte in quanto maschere di grande successo); dall’altro il costume veneziano, nelle feste pubbliche e private, di coprirsi il viso con delle maschere che il Sanudo più volte chiama “volti”, “naxi” (nasi), uso subito teatralizzato con profitto dagli autori/attori, cioè dai buffoni quattrocinquecenteschi; dall’altro ancora l’interesse, in quegli anni, per le maschere del teatro classico, testimoniato, ad esempio, dalla traduzione e ampia diffusione dell’Onomasticon del Pollux, sono motivi sufficienti a spiegare l’uso di questo espediente tecnico che permette all’attore di farsi subito riconoscere nel personaggio teatrale alla moda, con l’accento o dialetto rivisitato in funzione scenica, un costume tipico — la palandrana nera del Pantalone, la casacca chiara a sacco dello Zanni — e l’uso di una mezza maschera dal grosso naso aquilino, che caratterizzava Pantalone, o dal naso all’insù propria del Dottore, o dal nero animalesco profilo per i diversi Zanni42.

D’altro canto, della strettissima inter-relazione – nelle figure sceniche dell’immaginario diffuso dalle “fraternali compagnie” – tra l’oggetto che ri-disegna il volto, la phonè, il costume, il profilo corporeo e la gestualità sarà conseguenza immediata il particolarissimo fenomeno che finisce con lo sdoppiare equivocamente il significato del vocabolo maschera: ora inteso come oggetto di forma peculiare che copre un volto; ora usato per definire nel suo insieme qualsiasi tipo scenico possa rispondere a quella singolare mistura di fattori espressivi che è propria di uno Zanni o di un Magnifico, di un Arlecchino o di un Pulcinella. Ed è appunto questa duplice (e un po’ equivoca) presenza della maschera – un quid, a dire il vero, ben più inquietante del semplice “espediente   Ivi, pp. 645-648.   Marotti, Premessa cit., p. xlii.

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tecnico”43 – l’ultimo dato segnaletico distintivo della nuova pratica professionale del teatro, che viene ad aggiungersi all’elenco di fenomeni sin qui passati in rassegna: il costituirsi di un primordiale mercato dello spettacolo rivolto ai più svariati ceti sociali, la fondazione delle prime compagnie girovaghe di attori di mestiere, la comparsa della donna-attrice, il progressivo delinearsi d’una vera e propria micro-società dei comici, l’emergere e il diffondersi d’un insieme di tecniche espressive tali da fondare un efficace e riconosciuto mestiere scenico, l’improvvisazione, un’immaginaria costellazione di comiche figure funzionali articolate in parti fisse. Insomma, un complesso di fenomenologie che, se da un lato mettono in movimento per la prima volta dinamiche culturali e sociali destinate a dare forma alla nostra moderna società dello spettacolo, dall’altro finiranno coll’essere raccolte in sintesi (nonché troppo sovente omogeneizzate per miscele ora di sapore mitologizzante ora di chiara tendenza mistificatrice) sotto l’insegna d’una formula terminologica tanto fascinosa quanto vaga: Commedia dell’Arte.

43   Per Tommaso Garzoni, in ultima analisi, le maschere andrebbero considerate dai buoni cristiani “instromento del diavolo figliuolo della Versaria, compagne dell’inferno, et sicurissima strada al fiume di Caronte” (cfr. La piazza universale di tutte le professioni del mondo cit., p. 649).

II

Un’etichetta ambigua, molte fenomenologie chiare

1. Arte dello spettacolo e arti della ciarlataneria La definizione “Commedia dell’Arte”, secondo quanto accertato sinora, compare per la prima volta nella seconda scena del Teatro comico (1750) di Carlo Goldoni: ottavio  Cara signora Rosaura, sapete pure, che ci mancano due parti serie, un uomo, ed una donna. Questi si aspettano, e se non giungono, non si potranno fare commedie di carattere. rosaura  Se facciamo le Commedie dell’Arte, vogliamo star bene. Il mondo è annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino prima, ch’egli apra la bocca1.

Non a caso, qui, l’autore – mentre rappresenta una compagnia di comici intenti alle prove d’un suo testo ancora ‘vecchio stile’ – propone un dialogo tra il “primo amoroso” Ottavio e la “prima donna” Rosaura, intrepida sostenitrice delle nuove “commedie di carattere”. La terminologia adottata per definire sinteticamente l’ormai vetusto e ripetitivo teatro delle maschere affiora, dunque, da un contesto linguistico tipico di addetti ai lavori, come se

1  C. Goldoni, Il teatro comico, in Il teatro italiano. IV: Carlo Goldoni. Teatro, tomo I, a cura di M. Pieri, Einaudi, Torino 1991, p. 114.

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Goldoni volesse attribuirne l’impiego a una consuetudine gergale degli attori. Quattordici anni dopo, datando il suo intervento “15 marzo 1764”, Giuseppe Baretti recensisce in termini di stroncatura, sulla “Frusta letteraria”, proprio Il teatro comico, pubblicato nel primo tomo (1761) dell’edizione Pasquali delle commedie goldoniane, scrivendo, tra l’altro: il Goldoni parla sempre di caratteri, senza avere un’idea del significato di questo vocabolo. Le commedie dell’arte, come egli le chiama, non erano forse anche quelle di carattere? Non v’erano forse in quelle degli Arlecchini il di cui carattere è la balordaggine? [...] dei Pantaloni; il di cui carattere è di operare da vecchi barbogi? Degli amanti, il di cui carattere è d’essere amanti?2

L’inciso con cui Baretti commenta la definizione goldoniana (“come egli le chiama”) lascia supporre che quest’ultima non appartenesse – negli anni Sessanta del Settecento – alla terminologia abituale delle discussioni erudite intorno alle diverse opzioni artistiche sia del teatro tradizionale sia di quello contemporaneo. “Commedia dell’Arte”, dunque, sembrerebbe essere formula che l’autore del Teatro comico pone in bocca ai suoi personaggi traendola da un’abitudine gergale del mestiere cui essi appartengono, e di cui il severo critico della “Frusta letteraria”, non riconoscendola come appartenente ad un linguaggio degno di letterati rispettabili, preferisce attribuire ogni responsabilità al commediografo. Del resto, per restare in ambito di cultura veneziana, ancora la più tarda testimonianza offerta dalle Memorie inutili di Carlo Gozzi, scritte negli anni Ottanta, può accreditare l’ipotesi d’una lunga fase di incertezza che avrebbe preceduto il definitivo stabilirsi della terminologia ancor oggi corrente. In effetti, l’autore delle Fiabe teatrali, riferendosi al tipo di performance realizzata di norma dai comici che impersonavano le maschere, se perlopiù preferisce etichettarlo come “commedia alla sprovveduta” (cioè: all’improvviso), non esita poi ad apporgli un cartello segnaletico tanto prolisso quanto composito. E proprio quando s’impegna 2  G. Baretti, La frusta letteraria, in Opere, tomo II, Mussi, Milano 1813, pp. 84-85.

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nel rendere un supremo omaggio all’amata troupe di Antonio Sacchi (1708-1788)3: Quella Compagnia, formata nella maggior parte di stretti parenti, correva nella comune opinione per la più morigerata, ed onesta di tutte l’altre. Sosteneva con somma bravura la Commedia antica dell’arte italiana alla sprovveduta, genere che con della inumanità, sotto alla maschera d’un zelo per la coltura, e che non era più che un zelante interesse venale, i Signori Goldoni, e Chiari si erano proposti di voler abolire colle loro innovazioni4.

Insomma, quasi fosse – ancora nell’ultimo ventennio del Settecento – inusuale o addirittura impossibile valersi d’una qualche definizione sintetica per riferirsi alle convenzioni specifiche d’un fare teatro tipico degli attori professionisti italiani, Gozzi preferisce ricorrere alla semplice addizione d’una serie di fattori individuanti: tradizione, mestiere, luogo di origine, creare “all’improvviso”. È una somma che, significativamente, non può escludere dai suoi addendi essenziali il vocabolo “arte”. Quello stesso umile vocabolo che ritorna sovente – con il significato di legittima attività specialistica – negli scritti degli antichi comici (ma senza mai combinarsi con la parola “commedia”)5: “Fiorenza [...] ha posto questo esercitio nel numero delle altre arti neces3   Indicheremo tra parentesi date di nascita e di morte (se conosciute) degli attori protagonisti dell’Arte. 4   C. Gozzi, Memorie inutili, a cura di P. Bosisio con la collaborazione di V. Garavaglia, LED, Milano 2006, vol. I, p. 416. 5   Or non è molto, Elena Tamburini (cfr. “Commedia dell’arte”: Indagini e percorsi intorno a una ipotesi, pubblicato sul sito web www.drammaturgia. it in data 5 luglio 2010) è tornata a considerare favorevolmente l’ipotesi che la terminologia Commedia dell’Arte possa significare “commedia di eccellenza”, fondandosi soprattutto sull’impiego dei vocaboli “commedia” e “arte” in fenomenologie di confine tra la dimensione del teatro e quelle di pittura e scultura. Non si può certo escludere, a questo proposito, che attori e intellettuali del Seicento – in alcuni casi – abbiano usato la parola “arte” intendendola secondo significati più o meno equivocamente sospesi tra mera professione e attività produttiva di prestigiosi prodotti estetici. Ma, nel caso specifico, si tratta di definire non già la potenziale o reale latitudine semantica di “commedia” e di “arte” intesi quali termini separati l’uno dall’altro, bensì di focalizzare l’attenzione sul preciso significato del nesso commedia dell’arte, a partire dal suo primo impiego testimoniato nel gergo specialistico degli uomini di teatro.

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sarie, dove che non può rappresentare alcuno in tutto lo Stato di Toscana, se non è scritto prima, o maestro, o garzone, né può Governatore, o ministro alcuno [...] impedire, che non si faccino Comedie da Comedianti registrati a quell’ufficio, dove sono tutte l’altri professioni”6; “Io giuro a questi signori [che accusano i comici di oscenità] che, se la metà solamente di quello che scrivono io scorgessi esser vero, lascerei or ora l’arte, ancor ch’io non mi ritrovi comodità senza di questa a vivere”7; “Si riprendono nelle professioni i mali operatori, e non l’arti permesse dai superiori”8; “[Carlo Borromeo] rimaneva mortificato non poco d’aver maltrattato in pubblico l’arte comica e i professori di quella”9. È attraverso questa fase di incubazione che l’etichetta Commedia dell’Arte ha finito con l’affermarsi. E, affermandosi incontrastata, è andata progressivamente trasfigurandosi: da semplice formula connotativa (sunto d’un variegato plesso di fenomeni: tutti ricollegabili in concreto solo alle convenzioni organizzative, tecniche ed espressive attraverso cui – in un certo periodo storico – era stato possibile trasformare sparse pratiche di performances utili a campar la vita alla meno peggio in un solido e regolarmente remunerativo mestiere dello spettacolo), a suggestiva insegna araldica double face. Da un lato, ambiguo stemma d’una perduta arte della scena; dall’altro vero e proprio simbolo mitico d’una pura essenza teatrale assoluta, da catalogare insieme ai grandi fantasmi della tragedia greca e della sacra rappresentazione medioevale. A fronte di tanta metamorfosi, potrebbe non essere inutile tornare a considerare quella formula con lo sguardo di quanti furono testimoni contemporanei delle manifestazioni concrete in cui andarono nel tempo articolandosi le realtà cui essa dovrebbe riferirsi. Anche perché l’arco cronologico di norma accreditato a queste manifestazioni – dal 1545 circa, a poco oltre metà Settecento – investe ben due secoli, mentre la dimensione spaziale e culturale che le 6   P.M. Cecchini, Brevi discorsi intorno alle Comedie, Comedianti e Spettatori, Antonio Pinelli, Venezia 1621, pp. 10-11. 7   N. Barbieri, La Supplica. Discorso Famigliare, in F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, p. 645. 8  Ivi, p. 647. 9  Ivi, p. 649.

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ospita andrà progressivamente ampliandosi (attraverso varie forme di migrazione degli attori, e dei modelli di teatro da essi veicolati) sino a riguardare gran parte dei paesi europei: dalla penisola iberica alla Russia; dall’Inghilterra alla Francia, agli Stati germanici. È indubbio, ad esempio, che, prima del 1564, gli spettacoli delle “fraternali compagnie” abbiano attraversato un sia pur breve periodo (quasi vent’anni) nel quale l’assenza della donna dalle loro compagini imponeva di necessità quella ‘stilizzazione unisessuale’ maschile della scena che non può non considerarsi, sul piano degli esiti espressivi e su quello del rapporto con il pubblico, quantomai remota dal modus operandi e dall’effettistica tipici di performances fondate sulla compresenza fisica di attori e attrici. Ciò impone, dunque, di tracciare una netta linea di demarcazione tra il prima e il dopo, rispetto al verificarsi di tanta novità. Ma anche sul piano della considerazione sincronica, le diverse fasi storiche percorse dalle fenomenologie sussunte sotto l’etichetta Commedia dell’Arte vanno indagate con occhio attento alle differenti declinazioni che in esse questo plesso di fenomenologie può conoscere. Così, se da un lato, a metà Cinquecento, il confronto istituito dal Lasca tra Zanni e cerretani sembra alimentare l’ipotesi che anche entro la particolarissima sfera socio-economica di questi ultimi siano esistiti (come confermerebbe Garzoni nel 1585) “formatori di spettacoli” non troppo dissimili da quelli di Benedetto Cantinella, dall’altro – a metà Seicento – la testimonianza e le riflessioni d’un Ottonelli certificano l’esistenza di due, nettamente distinte, categorie di attori: distinguo tutti i recitanti in due ordini: uno di coloro che si chiamano comunemente i commedianti, e questi fanno le loro azioni dentro le case, nelle camere o sale o stanzoni assegnati. L’altro ordine è di quelli che si nominano i ciarlatani, e questi fanno i loro trattenimenti e giuochi nelle pubbliche strade o piazze di concorso; [...] i ciarlatani diventano commedianti e si servono della commedia come di mezzo efficace per allettare al banco, donde fanno lo spaccio delle loro mercanzie e bussolotti10. 10  G.D. Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro, tomo I, Bonardi, Firenze 1652, p. 1.

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Ottonelli è perentorio. Non si può fare di ogni erba un fascio: se si considera la dimensione reale di tutti coloro che vivono proponendo al pubblico “commedie”, è necessario distinguervi bene due diverse categorie, ognuna delle quali individuata univocamente dalle coordinate spazio-temporali in cui agiscono e dalle finalità che perseguono quanti ne fanno parte. Alla seconda, come s’impegna a descrivere minutamente l’autore, va attribuita una singolare formula organizzativa (comunque imperniata sulla messinscena di lunghe e complesse performances, del tutto degne d’essere considerate alla pari con gli allestimenti dei comici professionisti): Comparisce alle volte in una città una compagnia di questi galantuomini: conducono seco donne bene all’ordine e della loro professione [la ciarlataneria], perché senza donne stimano di dar in un nulla, et esser giudicati degni di poco plauso: spargono voce di voler servire al pubblico, vendendo eccellenti segreti e facendo belle commedie; e tutte, per dar spasso e piacere e senza pagamento: eleggono luogo sulla pubblica piazza, ove, composto un palco, vi salgono a fare prima il ciarlatano e poi il commediante. Ogni giorno in ora comoda comparisce in quella scena bancaria un Zanni, o altro di simil fatta; e comincia, o sonando, o cantando ad allettar il popolo al circolo et all’udienza: poco dopo si fa vedere un altro e poi un altro, et anche spesso una donna; e quivi tutti insieme con zannate o con altro fanno un miscuglio di popolari allettamenti: quando ecco viene il principale, che è lo spacciatore del secreto e l’archiciarlatano: e con buone maniere s’introduce alla lode grande et incomparabile del suo meraviglioso medicamento. Di cui, fattosi buono spaccio e radunati i soldi, si termina quella vendita principale; dopo cui un altro ciarlatano comincia la sua, se prima non l’ha fatta [...]. Alla fine si avvisa il popolo così: orsù la comedia si comincia, la comedia; e serrate le scatole e levati i bauli, il banco si cangia in scena, ogni ciarlatano in comediante; e si dà principio ad un dramatico recitamento che all’uso comico trattiene per lo spazio di circa due ore il popolo con festa, con riso, e con sollazzo11.

Quasi a confermare puntualmente tutte le osservazioni di Ottonelli sul teatro dei ciarlatani, ottant’anni più tardi, nel 1733, Carlo Goldoni – mentre soggiorna a Milano – s’imbatte in un   Ivi, p. 456.

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personaggio di cui più tardi amerà tratteggiare con cura, nelle pagine dei suoi Mémoires, la “singolare” scelta di vita: All’inizio della quaresima arrivò in città un ciarlatano appartenente a una specie assai rara, il cui ricordo merita forse di essere registrato negli annali del secolo. Il suo nome era Buonafede Vitali, era di Parma, ma si faceva chiamare l’Anonimo. Era di buona famiglia; aveva avuto un’ottima educazione ed era stato gesuita. Disgustato del convento, si dedicò alla medicina e ebbe una cattedra di professore nell’università di Palermo. Quest’uomo singolare, a cui non era sconosciuto sapere alcuno, aveva una sfrenata ambizione di dare risalto all’ampia distesa delle sue conoscenze e, poiché valeva di più a parlare che a scrivere, abbandonò il posto onorevole che occupava e prese la decisione di salire in banco per arringare le folle; e, non essendo abbastanza ricco per accontentarsi della gloria, traeva profitto dal suo ingegno e vendeva le sue medicine. Era esattamente fare il mestiere di ciarlatano [...]. A Milano l’Anonimo aveva la soddisfazione di vedere la piazza in cui egli si mostrava in pubblico sempre gremita da gente a piedi e in carrozza; ma, siccome i dotti compravano meno degli altri, bisognava riempire il palco di oggetti curiosi, per intrattenere il pubblico ignorante e il nuovo Ippocrate distribuiva i suoi farmaci e prodigava la sua retorica circondato da quattro maschere della Commedia dell’Arte. Il signor Buonafede Vitali aveva anche la passione della commedia e manteneva a proprie spese un’intera compagnia di comici, i quali, dopo avere aiutato il loro signore a raccogliere i soldi che il pubblico gli gettava in fazzoletti e a lanciare di rimando al pubblico quei medesimi fazzoletti, dopo avervi avvolto vasetti e scatolette varie, recitavano commedie in tre atti, al lume di bianche torce di cera, non senza una sorta di sfarzo12.

Dalle parole del grande commediografo si potrebbe anche desumere che, all’altezza dei suoi tempi, un caso come quello descritto fosse forse un po’ meno frequente che in passato. Comunque sia, però, resta indubbio che tanto l’impiego d’una accorta esibizione di maschere per rendere più appetibile a un pubblico popolare gli imbonimenti del ciarlatano quanto la recita “non senza una sorta di 12  C. Goldoni, Memorie, a cura di P. Bosisio, Mondadori, Milano 1993, pp. 170-172.

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sfarzo” di vere e proprie “commedie in tre atti” ripropongano pari pari l’identico schema già illustrato da Ottonelli. Come si specifica nel prosieguo del brano citato, la compagnia di Buonafede Vitali (“la quale non era certo ottima, ma poteva contare su tre o quattro bravi attori e, nel suo insieme, era ben preparata”13) comprendeva addirittura “un compositore di musica e una coppia di bravi cantanti”14. Era, insomma, almeno paragonabile – per ampiezza d’organico e per livello artistico – a una discreta troupe di professionisti puri. E lo testimonia il fatto che due dei suoi membri, il signor Casali, che aveva le parti di primo Amoroso, e il signor Rubini15, che rappresentava a meraviglia il ruolo di Pantalone, l’anno dopo sono stati chiamati a Venezia, il primo al teatro di San Samuele, l’altro a quello di San Luca16.

Lo stesso Goldoni non solo sembra affascinato dalle pratiche teatrali ed extra-teatrali dell’Anonimo, ma addirittura decide di farsi coinvolgere, sia pure per un breve periodo, nelle attività sceniche da lui dirette, tanto da affidare a questo ensemble di attori-ciarlatani la sua “prima composizione teatrale che fu recitata davanti a un pubblico”17. Tra le due categorie individuate con tanto puntiglio da Ottonelli esistono – dunque – vie di comunicazione e di inter-scambio. E non solo in un caso tardo e speciale come quello verificatosi a Milano nel 1733: poiché, ad esempio, il grande attore secentesco Niccolò Barbieri (1576-1641) non esita a confessare che il suo umile esordio (il suo ‘apprendistato’, oseremmo dire) avvenne tra i banchi delle fiere paesane: “Partendomi da Vercelli mia patria l’anno 1596, mi accompagnai con un mont’inbanco soprannominato il Monferrino”18. D’altro canto, se da un lato può capitare che un comico professionista muova i primi passi della sua carriera esibendosi tra i banchi dei cerretani nei giorni di mercato, non è raro che gli   Ivi, p. 173.   Ibidem. 15   Si tratta del lucchese Gaetano Casali e del mantovano Francesco Rubini, con i quali Goldoni ebbe modo di collaborare anche in seguito. 16   Goldoni, Memorie cit., p. 173. 17  Ibidem. 18  Cfr. L. Rasi, I comici italiani, vol. I, Bocca, Firenze 1887, p. 270. 13 14

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eredi delle “fraternali compagnie” cinquecentesche dichiarino di giudicare il teatro dei ciarlatani o come fastidioso concorrente o come deplorevole (ma pur sempre pernicioso) surrogato della loro arte. Già nello scorcio conclusivo del XVI secolo, la celeberrima Isabella Andreini (1562-1604) si preoccupa di scrivere al governatore di Milano don Pedro Enriquez, conte di Fuente: poiché s’intende che di questi che montano il banco in piazza pubblica, fanno commedie, anzi guastano commedie, parimenti la supplico a fare scrivere al sig. Podestà che non consenti che le facciano19.

È l’identico atteggiamento che ritroviamo quale motivo di fondo, all’altezza del 1607, in un passo delle Bravure del Capitan Spavento, capolavoro del marito di Isabella, Francesco Andreini (1548c.-1630): capitano  [...] la povera commedia e la misera tragedia [...] vergognosamente se ne vanno per le pubbliche piazze, e sopra i pubblici banchi dei ciarlatani, tutte stracciate, che a fatica si riconoscono. trappola  È vero padrone [...]; ma questa è colpa di quelli che governano le cittadi, e ciò sia detto con pace loro, i quali a modo niuno non dovrebbero permettere che una commedia e una tragedia fusse rappresentata così vilmente sopra dei banchi, ma sibbene in luogo privato, con quell’onore e con quella magnificenza che se le conviene20.

I due illustri coniugi – guide e prime vedettes della Compagnia dei Gelosi – si mostrano così infastiditi dalla tanto massiccia quanto pervasiva presenza d’un mondo dello spettacolo che sembra ricalcare in fotocopia (ma senza “onore” e “magnificenza”) i modelli di performance dei quali si ritengono supremi depositari, da invocare contro di essa il più radicale intervento repressivo delle autorità. Dal canto loro, però, le autorità hanno già provveduto a un certo tipo di intervento. Quello ben illustrato – ad esempio – dal precocissimo e lungimirante decreto con il quale, il 14 marzo 19   Cfr. A. Paglicci Brozzi, Il teatro a Milano nel secolo XVII, Ricordi, Milano 1891, p. 12. 20  F. Andreini, Le bravure del Capitan Spavento, a cura di R. Tessari, Giardini, Pisa 1987, p. 88.

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1580, il duca di Mantova e di Monferrato Guglielmo Gonzaga nomina Filippo Angeloni, buffone e musico di corte, ‘sovrintendente’ a tutte le attività di quanti per mestiere offrono in vendita varie forme di spettacolo agli abitanti del ducato: Instrutti dell’informatione che ha il giocondo nostro Filippo Angelone di tutti li comici mercenarii, zarattani et cantinbanchi, lo eleggiamo per superiore ad essi in tutti li nostri stati, sì che alcuno di loro, o solo o accompagnato, non habbia ardire di recitare comedie o cantare in banco, vendendo ballotte o simili bagatelle, senza sua licenza in scritto, né d’indi dipartirsi senza la medesima licenza, sotto pena di essere tutti spogliati di ciò che haveranno, così comune come proprio, da essere diviso in tre parti, l’una delle quali sia applicata al fìsco nostro, l’altra al Magistrato, [...] et la terza ad esso superiore; al quale concediamo facoltà di dar le sovrascritte licenze havendo però prima havuto il consenso in voce da noi21.

Il 29 aprile 1599, lo stesso incarico – trasformato in privilegio, e arricchito di più ampi poteri – veniva conferito proprio a un altro grande attore del periodo: Tristano Martinelli (1556-1630), presunto ‘inventore’ della maschera teatrale di Arlecchino. A lui è affidato il compito di sovrintendere alle attività di “comici mercenarii, zaratani, cantinbanco, bagattiglieri, postiggiatori” nonché di quanti “mettono banchi per vender ogli, balotte, saponeti, historie et cose simili”22. Sono, queste, le prime testimonianze moderne di organizzazione e formalizzazione d’un ben studiato controllo, da parte delle autorità supreme, su tutte le forme di spettacolo che possano manifestarsi entro i confini di un qualche paese. A differenza di quanto avrebbero auspicato Isabella e Francesco Andreini, un simile intervento statale non si propone né di tracciare invalicabili linee di confine tra commedie ‘onorate’ e commedie ciarlatane né (tantomeno) di esprimere sentenze categoriche discriminanti sulle qualità artistiche delle une e delle altre. L’unico criterio di giudizio che ispira i due decreti mantovani sembra essere pressoché lo stesso che anni prima – stando 21   C. Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Le Lettere, Firenze 1999, p. 185. 22  Ivi, p. 207.

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a una lettera di Antonio Cerato del 9 luglio 1567 – aveva indotto la maggioranza del Consiglio cittadino a pronunziarsi in questi termini sui disordini provocati dalla concorrenza tra due troupe di comici e dalle accese rivalità tra i fan delle primedonne dell’una e dell’altra compagine: Si è detto che in Consiglio grande fo proposto da molti gentilhomini veniciani che per ogni modo si doveva levar via questi comedianti, alleggando di molte raggioni, et massime che portano via gli denari; da molti altri fugli oposto di no, anzzi che si deveno acarezare, perché mentre che la gioventù sta ocupata in quei solazzi non tendano alli giochi, alle biasteme et altre tristitie, et che se guadagnano spendono ancora, et che le città si deveno tenere alegre a qualche modo, et così questa parte prevalse l’altra23.

Ciò che importa davvero al potere politico non è la maggiore o minore “magnificenza” di una messinscena pubblica a pagamento, bensì l’utile funzione (di intrattenimento-diversivo) che qualsiasi tipo di “sollazzo” può svolgere nei confronti di certi ceti sociali e di certe categorie. Per il resto, è sufficiente guardare all’insieme delle performances che si offrono a una comunità, distinguendone solo con precisione contabile le varianti categoriali primarie e i differenti pubblici cui esse si rivolgono: il teatro delle stanze, e i teatri della piazza. Esattamente come fa il potere religioso. Il quale poi, se deve operare una qualche discriminazione tra commedianti e ciarlatani, non lo farà certo con occhio attento a che non “si guastino” pretese forme artistiche, ma preoccupandosi soltanto dei diversi ceti cui questa o quella sorta di spettacolo potrebbe corrompere l’anima: La commedia della piazza nuoce maggiormente alle anime, perché vi concorre ad udirla molta e moltissima plebe e poveraglia e garzoncelli tristi di bottega e altra canagliaccia che mai suole andare allo stanzone24.

Il quadro offerto dal ducato di Mantova tra Cinque e Seicento, per quanto eccezionale sotto il profilo dei provvedimenti politico  Ivi, p. 183.   Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., tomo I, p. 460.

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amministrativi decisi dai Gonzaga, costituisce – se considerato alla luce delle altre testimonianze qui raccolte – un nitido exemplum dell’insieme delle componenti reali del mondo dello spettacolo inaugurato, entro gli staterelli italici, dal contratto padovano del 1545, e destinato a sopravvivere (almeno, grosso modo, nelle sue linee portanti) sino al primo Settecento. Non già un preteso modello univoco di Commedia dell’Arte, ma, innanzitutto, due livelli di attività performative: quello alimentato da compagnie di attori professionisti che si esibiscono a pagamento in “stanze” adattate allo scopo e affittate di volta in volta per un ciclo di recite; e quello costituito da un pulviscolo di individui e di gruppi che offrono le loro performances, soprattutto nei giorni di mercato, per le strade e sulle piazze cittadine (alcuni proponendole direttamente al buon cuore degli astanti, che dovrebbero compensarli con un qualche obolo; altri offrendole in simbiotico rapporto con gli imbonimenti e con il commercio di prodotti medici o magici gestito dalle varie sorti di ciarlatani). Gli attori del primo livello sono professionisti che vivono esclusivamente del loro lavoro, affidandosi a una remunerazione condizionata solo dal prezzo non arbitrario di un biglietto d’ingresso, e dal numero delle persone che possono e vogliono acquistarlo. I performers appartenenti al secondo sono dei mestieranti (comunque specializzati) che possono contare o sulla volubile buona volontà e carità dei passanti o su di una qualche forma di compenso loro elargito dai ciarlatani di professione; oppure sono essi stessi ‘professori’, insieme, sia d’un certo indirizzo di ciarlataneria sia d’una particolare abilità performativa. In quest’ultimo settore, i tipi di esibizione praticati si articolano in un ampio ventaglio: dalla moltitudine di brevi numeri d’arte varia che passa in rassegna Garzoni quando elenca “tutti i modi e tutte le maniere che adoprano i cerretani per far bezzi”, sino al vero e proprio “dramatico recitamento che all’uso comico trattiene per lo spazio di circa due ore il popolo con festa, con riso, e con sollazzo” evocato da Ottonelli. Nel caso si prendano in considerazione comportamenti quali “finger novelle, trovare istorie; formar dialoghi, [...] cantare all’improvviso”, ecc., sarà logico pensare che gli artisti-cerretani si limitino a riproporre (e a rinnovare in forme adeguate ai tempi) un repertorio di manifestazioni praticate sin dal Medioevo. Ma, ­44

quando si pensa alla durata e alle difficoltà del ben più complesso “dramatico recitamento”, è giocoforza ammettere che – qui – il teatro di strada e di piazza mostra il suo aspetto più moderno: una variante (particolarissima, eppure non per questo meno strutturalmente sofisticata) dello stesso tipo di spettacolo comico praticato, dopo l’introduzione delle attrici sulla scena, dalle compagnie dei professionisti. Stando alle scarne e scarse testimonianze pervenuteci su quest’ultimo fenomeno, uno dei pochi dati certi sembra essere proprio lo strettissimo rapporto di inter-relazione tra le pratiche ciarlatanesche di medicina, di cosmesi e di magia popolare, da un lato, e la commedia di maschere all’improvviso, dall’altro. La produzione di spettacoli commisurati in tutto e per tutto “all’uso comico”, e la vendita al pubblico di rimedi specifici per ogni défaillance, vuoi della salute vuoi esistenziale, si innestano indissolubilmente l’una sull’altra per realizzare una primitiva (ma non per questo meno efficace) macchina di promozione pubblicitaria d’un certo prodotto: la curiosità dei potenziali acquirenti viene dapprima stimolata da una accorta e ben ritmata parade di singole maschere buffe, di musiche e canti, di brevi “zannate” e di belle parvenze femminili; poi ha inizio – ormai, però, all’ombra d’un implicito ricatto: se vi sarà grande smercio, si verrà ricompensati da un meraviglioso spettacolo gratuito – l’imbonimento e lo “spaccio” d’un qualche tipo di rimedio portentoso; infine, si può assistere alla tanto attesa commedia promessa. Siamo di fronte all’archetipo di tutte le forme di spettacolarizzazione della réclame finalizzata alla vendita di merci (nonché di quella mirata a promuovere tra le masse immagine e messaggi d’un qualche partito politico). È su questo versante che si verifica, tra Cinque e Settecento, l’incontro del nuovo spettacolo con le fasce sociali, anche infime, dipinte da Ottonelli sub specie d’un pericolosissimo coacervo di “plebe e poveraglia e garzoncelli tristi di bottega e altra canagliaccia”. Ovvero, per dirla in termini di economia teatrale: tutta la gente “che mai suole andare allo stanzone” dove si esibisce una compagnia di puri professionisti. Ma solo se teniamo presenti, in tutta la loro concretezza e assegnando ad ognuno le sue specificità, i due canali – quello delle stanze, e quello delle piazze – entro cui si riversa diversificandosi il modello di società dello spettacolo prefigurato dal progetto di ser Maphio e compagni nel 1545, saremo in grado di comprendere a pieno (oltre alla reale portata di 45

quel progetto) sia lo sgomento che il suo primo profilarsi destò nella Chiesa post-tridentina sia la preoccupazione che esso suscitò in molte autorità politiche. Purtroppo, per quanto concerne quel “dramatico recitamento” ciarlatanesco “che all’uso comico trattiene per lo spazio di circa due ore il popolo con festa, con riso, e con sollazzo”, non abbiamo che poco eloquenti citazioni letterarie e affatto mute testimonianze iconografiche. Se ne può desumere con certezza l’assoluta importanza del fenomeno per la giusta comprensione sia del teatro che qui ci interessa, sia di altri modelli di spettacolo25. Ma non risulta possibile determinare con qualche precisione tipologie concrete, dinamiche strutturali e qualità espressive delle performances che avevano luogo nel suo ambito di pertinenza. 2. Profani comici, emigranti, artisti virtuosi Insomma, se da un lato possiamo dirci sicuri, per quanto considerato sinora, del fatto che siano esistiti almeno tre stili di teatro (quello alimentato da compagnie di soli uomini, quello tipico delle compagnie professionali miste, e quello dei ciarlatani) di poi sussunti sotto la comune etichetta Commedia dell’Arte, dall’altro non siamo in grado di distinguere nei loro tratti specifici le differenze artistiche tra spettacoli di piazza e spettacoli di stanza. E, in questo, non ci aiuta la vaghezza, comune alla maggior parte delle testimonianze contemporanee, quando si tratta di specificare tra diverse categorie di comici. Lo testimonia già il primo tentativo di passare in rassegna quanti dovrebbero farne parte operato da Tommaso Garzoni. Coloro che noi definiremmo comunque attori, secondo la Piazza universale di tutte le professioni, vanno trattati sotto ben tre voci distinte: De’ comici e tragedi, così auttori come recitatori, cioè de gli istrioni; De’ formatori di spettacoli in genere, e de’ ceretani o ciurmatori massime; De’ buffoni, o mimi, o istrioni. 25   Pensiamo, per esempio, a fenomenologie francesi quali il cosiddetto spettacolo tabarinique (cfr. Les oeuvres de Tabarin, a cura di G. D’Harmonville, Garnier Frères, Paris 1878) o ai settecenteschi Théâtres de la Foire, comunque fortemente segnati dal rapporto con ciarlatani, imbonitori e impresari attivi nei luoghi deputati ad ospitare quotidiani o altrimenti periodici rituali di compravendita.

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Peraltro, solo nel caso di cerretani e buffoni risulta chiaro che si tratta di due sotto-categorie di performers abbastanza agevolmente distinguibili sulla scorta sia degli ambiti entro cui operano sia dei rapporti che intrattengono con committenti e pubblico. Quando, invece, si sofferma a trattare di quei comici che, ormai da quarant’anni, sono soliti riunirsi in compagnie specializzate, Garzoni li etichetta ora come “recitatori” ora come “istrioni”. Ma, in ogni caso, s’impegna soprattutto per far comprendere al lettore come, nel loro complesso, esistano – secondo lui – solo due diversissime tipologie di professionisti della scena. Alla prima vengono innanzitutto ascritte (con galanteria rara da parte d’un canonico, qual era l’autore) le più famose attrici del secondo Cinquecento, evocate con lodi più che lusinghiere: Isabella Andreini, Vincenza Armani (1530c.-1569), Lidia da Bagnacavallo, Vittoria Piissimi. Sulla loro scia, condividono questo privilegio l’attore Adriano Valerini (1546c.-1595c.) e poche celebri troupe simbolicamente rappresentate dalle maschere presenti nelle loro esibizioni: Or qui parmi vedere quanto Adrian s’allegri, quanto giubili Graziano, quanto essulti Burattino, quando godan l’onorate compagnie de’ Gelosi e Confidenti, quanta festa facci il Zani, il Magnifico, il Pedante e tutta quella brigata allegra, vedendo le lor comedie e le lor persone piene di motti arguti e di bellissime facezie, al dispetto de i bandi, caminar per le piazze universali senza ostacolo alcuno ed esser ricevute con sommo onore dove per sorte non si pensava26.

Ma ben più ampio spazio viene poi concesso a una seconda categoria di “recitatori”, distinta da particolarissime specificità che riguardano sia il tipo di linguaggio adottato sia i comportamenti sul piano organizzativo-professionale sia le opzioni scenotecniche: quei profani comici che pervertono l’arte antica introducendo nelle comedie disonestà solamente e cose scandalose, non possono passare 26   T. Garzoni, De’ comici e tragedi, così auttori come recitatori, cioè de gli istrioni, in F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, p. 13.

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senza aperto vitùpero, infamando se stessi e l’arte insieme con le spurcizie che a ogni parola scappano lor di bocca; e quanto maggiore ornamento acquista l’arte comica da’ precedenti, tanto maggiore infamia trae da costoro c’hanno con l’Aretino, o col Franco, cambiato la lingua per ragionare solo da sporchi e vituperosi come sono. Ne gli atti sono più che asini incivili, ne’ gesti ruffianissimi a spada tratta, nelle parole sfacciati come le meretrici publiche, nelle invenzioni furfantissimi a tutta botta, e in ogni cosa putiscono da manigoldi quanto dir si possa; e dove qualche volta potrebbero coprire la cosa destramente, gli par d’essere da nulla se sbardellatamente non la dicono o non la fingono a modo loro in tutto [...]. Come entrano questi dentro a una città, subito col tamburo si fa sapere che i signori comici tali sono arrivati, andando la Signora vestita da uomo con la spada in mano a fare la rassegna, e s’invita il popolo a una comedia o tragedia o pastorale in palazzo o all’ostaria del Pellegrino, ove la plebe, desiosa di cose nuove e curiosa per sua natura, subito s’affretta a occupar la stanza, e si passa per mezzo di gazzette dentro alla sala preparata. E qui si trova un palco postizzo, una scena dipinta col carbone senza un giudicio al mondo; s’ode un concerto antecedente d’asini e galavroni; si sente un prologo da ceretano; [...] atti rincrescevoli come il malanno; intermedii da mille forche; un Magnifico che non vale un bezzo; un Zani che pare un’occa; un Graziano che caca le parole; una Ruffiana insulsa e scioccherella; uno innamorato che stroppia le braccia a tutti quando favella; un Spagnuolo che non sa proferir se non ‘mi vida’ e ‘mi corazon’; [...] una Signora sopra tutto orca nel dire, morta nel favellare, addormentata nel gestire, c’ha perpetua inimicizia con le grazie e tien con la bellezza differenza capitale27.

Esisterebbero, dunque, nel mondo italiano dello spettacolo tardo-cinquecentesco, “onorate compagnie” e “profani comici”: artisti che fanno del teatro un’arte dignitosissima, e infami sprezzatori di ogni norma più o meno ‘sacra’. A prima vista, verrebbe da pensare che i due settori così distinti da Garzoni altro non siano se non mero riflesso fantasmatico del risentito moralismo dello scrittore, preoccupato soprattutto di alzare un confine invalicabile tra attori oltremodo rispettosi di tutti i limiti etici, e istrioni in qualche misura incuranti del comune senso del pudore. Ma proprio il pregevole disegno dettagliato che l’autore traccia   Ivi, pp. 13-14.

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dell’abituale ingresso e del soggiorno di questi ultimi in una qualsiasi città, a parte gli evidenti tratti caricaturali aggiunti in quantità esagerata a ogni componente d’una loro pretesa performance-tipo, non fa che descrivere abitudini, pratiche e scelte comuni di qualsivoglia (più o meno valida sul piano artistico) “fraternal compagnia” contemporanea: la parata che rende noto e decanta a tutti l’arrivo della troupe; l’affitto della stanza adibita a teatro, in un palazzo o in una stazione di posta; la recita. Un percorso non certo molto dissimile da quello che, nella maggior parte dei casi occorsi loro in carriera, si trovavano ad effettuare anche “l’onorate compagnie de’ Gelosi e Confidenti”. In verità, la spia più suggestiva per cogliere – qui – l’autentico punto critico di differenza tra ‘sacro’ e profano va rilevata nella frase “costoro hanno con l’Aretino, o col Franco, cambiato la lingua per ragionare solo da sporchi e vituperosi come sono”: dove sembra risuonare nitidissima l’eco del giudizio espresso, trent’anni prima, da Grazzini sulle “brigate infami” dedite ad allestire “commediacce rattoppate” entro le quali Zanni o Stefanello (ormai assurti a modelli comportamentali in voga tra la gioventù) si agitano tra “cose” e parole “plebee e sporche”, nell’assoluto trionfo d’un linguaggio tutto “merda, potta, cul, coglion’ e cazzo”. Al di là del moralismo di cui amano ammantarsi, queste e altre testimonianze possono soltanto suggerire l’ipotesi che siano sempre esistite – tra le scelte di indirizzo artistico potenzialmente disponibili per gli attori professionisti – due declinazioni linguistiche di opposta tonalità espressiva: i codici scenici, ricchi “di motti arguti e di bellissime facezie”, della commedia che aspira ad essere valutata prestigioso esempio di “onore” e “magnificenza”; e l’anti-codice della “commediaccia” (tanto “di stanza” quanto, o forse ancor di più, “di strada e di piazza”) a bella posta “disonesta”, “sporca” e “scandalosa”, che sembra rapportarsi alla prima come la scrittura bassamente mercenaria e pornografica di Pietro Aretino e di Nicolò Franco si rapporta alla letteratura disinteressata e illustre. È evidente che, nella concreta realtà dei periodi storici, tra questi due poli estremi sia esistita una ricca – non di rado ipocrita – gamma di soluzioni intermedie. Come è evidente che gli attori e le compagnie di cui a noi sono maggiormente noti nomi, vicende, produzioni e testimonianze scritte e iconografiche siano soltanto quei pochi (in verità, una davvero esigua minoranza: qualunque 49

sia il momento del teatro professionale preso di volta in volta in considerazione) che sono riusciti a imporsi al rispetto, o almeno all’attenzione benevola, dei potenti, degli ecclesiastici, dei letterati e degli artisti di riconosciuta onorabilità. Ma pensare che questi sparuti manipoli siano l’intero mondo del nuovo spettacolo, o anche solo che il loro modo di fare teatro sia quello assolutamente tipico per questo mondo, è piuttosto ingenuo, oltre che scorretto. A fronte delle celebratissime costellazioni di nomenclature e di nomi quali Comici Gelosi, Isabella Andreini, Adriano Valerini, ecc., esistono poi pressoché sconosciute filze di “fraternali compagnie”, dove si distribuiscono caterve di quasi-ignoti “Francesco da la Lira” e “Zuane da Trevixo”. Sino a pervenire, infine, all’oscura folla di tutti quei “commedianti” da stanzone e di tutti quei comici ciarlatani che non lasciarono traccia duratura delle loro traiettorie, ma ai quali volle forse rendere omaggio simbolico Buonafede Vitali, quando scelse di assumere sul suo volto la significativa maschera dell’Anonimo per antonomasia. Prendere analiticamente e criticamente in considerazione qualità artistiche, specificità sceniche e moduli linguistici abituali delle tre ultime categorie ultra-maggioritarie è quasi impossibile: per l’assenza di documentazione sufficiente. Ma ignorarne del tutto funzioni specifiche e probabile portata socio-culturale significa precludersi la possibilità di comprendere sia perché i poteri politici e l’autorità religiosa abbiano dedicato tante attenzioni a tutti i fenomeni scaturiti dalla nascita d’un moderno teatro dei professionisti sia quali fossero, in buona sostanza, contenuti reali e obiettivi davvero sensibili di queste insistite attenzioni. Anche se risulta praticabile – come sarà inevitabile riscontrare pure qui e nei capitoli seguenti – solo la strada d’una approfondita disamina dei documenti e delle testimonianze relative ai modelli di spettacolo sperimentati e formalizzati da attori e compagnie di altissimo livello, non si dovrà mai dimenticare che tali modelli (per quanto suggestivi ed eloquenti) non rappresentano la totalità dei fenomeni adombrati dall’etichetta Commedia dell’Arte, ma sono soltanto la punta di un iceberg: autonome formalizzazioni sublimate d’un vasto e multiforme insieme di pratiche performative diverse, accomunate in misture cangianti da taluni fattori individuabili nella maggioranza di esse (quali: esercizio di arti sceniche in quanto mestiere abituale, improvvisazione di ondivaga qualità, maschere ­50

o tipologie figurali fisse). Sia la parte visibile sia la massa invisibile d’un simile iceberg, poi, andranno considerate sempre potenzialmente soggette a un’ampia gamma di variabili, poiché proprio la dimensione dello spettacolo è il luogo per suo statuto essenziale più aperto al verificarsi di tutti gli incroci tra ambiti – artistici e non – diversi: di tutte le ibridazioni e di tutte le con-fusioni possibili. Ne è un esempio emblematico l’amplissimo e articolatissimo panorama offerto dal fenomeno dell’emigrazione, che trascina necessariamente i professionisti italiani non solo ad esportare le loro performances con successo in tutta Europa, ma anche a confrontarsi lungo due secoli con orizzonti culturali e con stilemi scenici destinati – oltre che ad accogliere le novità proposte dai nostri attori – a inter-agire in misura talvolta significativa con i loro codici linguistici e drammaturgici. La “presenza di comici della Commedia dell’Arte alla corte dell’imperatore Maximilian II – a Linz [...], a Vienna, a Pressburg [...] e a Praga – e alla corte di Rudolf II, a Vienna, ci è documentata, a partire dal 1565, da registrazioni di spesa della tesoreria imperiale”28. Nel 1567, una fonte attesta che “a Danzica si esibì per un anno una sconosciuta compagnia di comici italiani”29. Attorno al 1570, il duca Guglielmo V di Baviera raccoglie nel castello di Trausnitz una sua troupe di professionisti italiani che scioglierà, per motivi legati al “crollo finanziario della corte”30, nel 1575. All’ottobre del 1574 risalgono le prime notizie certe sul lungo e importante soggiorno in Spagna della compagnia di Alberto Naselli detto Zan Ganassa (1540c.1584c.)31. Per quanto concerne l’Inghilterra, “le attestazioni sicure, esplicite, cominciano dal 1576”: vi si parla genericamente di 28   A. Martino, Fonti tedesche degli anni 1565-1615 per la storia della commedia dell’arte e per la costituzione di un repertorio dei lazzi dello Zanni, in AA.VV., La ricezione della commedia dell’arte nell’Europa centrale. 1568-1769. Storia, testi, iconografia, a cura di A. Martino e F. De Michele, Fabrizio Serra, PisaRoma 2010, p. 21. 29   M. Surma-Gawlowska, La commedia dell’arte in Polonia, in AA.VV., La ricezione della commedia dell’arte nell’Europa centrale cit., p. 159. 30   N. Schlabach, Prime rappresentazioni della commedia dell’arte. La scala dei buffoni e il fregio del soffitto dello studiolo del duca Guglielmo nel castello di Trausnitz a Landshut, in AA.VV., La ricezione della commedia dell’arte nell’Europa centrale cit., p. 409. 31  Cfr. M. Del Valle Ojeda Calvo, Stefanelo Botarga e Zan Ganassa. Scenari e zibaldoni di comici italiani nella Spagna del Cinquecento, Bulzoni, Roma 2007.

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anonimi “Italian players”, ma già nel biennio 1577-1578 recita a Londra il grande Drusiano Martinelli, fratello di Tristano32. Dal regno di Elisabetta alla Polonia, dalle terre germaniche e boeme alla penisola iberica, il nuovo mondo dello spettacolo ‘all’italiana’, vent’anni dopo la sua genesi, prende a percorrere tutte le strade del vecchio continente – affidandosi ora ad avventurosi azzardi, ora al mecenatismo di potenti sovrani, ora al gioco dei rapporti diplomatici tra taluni intraprendenti staterelli della nostra penisola e le grandi monarchie straniere – aprendo itinerari di tanto ampio respiro da raggiungere, nel XVIII secolo, persino l’impero russo. All’interno di questa sconfinata mappa, un posto di assoluto rilievo va riconosciuto alle tanto intense quando durevoli esperienze francesi dei nostri comici. Prima di essere segnalato a Madrid, Alberto Naselli è – nell’ottobre 1571 – a Parigi. Ma la capitale francese, nel marzo dello stesso anno, era già stata visitata dalla Compagnia dei Gelosi, che ritroviamo due mesi dopo, alla presenza di Carlo IX, nel castello di Nogent-le-Roi, gratificati del titolo di “Comédiens du Roy”. Come si è giustamente notato: nella designazione [...] di cui vengono insigniti gli attori italiani durante la prima tournée, è da scorgere senz’altro il grado di considerazione in cui erano tenuti; ma più precisamente vi si può leggere il preannuncio di un disegno ancora segreto dei sovrani di Francia, l’espressione di un desiderio non meno che di un progetto politico: trattenere presso la corte i messaggeri dell’Improvvisa; disporre, in tempi sempre più prolungati, del piacere e del prestigio che la presenza delle compagnie dell’Arte garantivano33.

In effetti, un “aspetto caratteristico della vita delle compagnie italiane in Francia, manifestatosi fin dagli esordi, consiste nella alternanza di spettacoli a corte con rappresentazioni a pagamento a Parigi”34. E le sempre più frequenti incursioni secentesche delle nostre troupe nella capitale finiscono col trovare uno sbocco emblematico – tra il 1659 e il 1662 – nel progetto del cardinal

  F. Neri, Scenari delle Maschere in Arcadia, Lapi, Città di Castello 1913, p. 38.   D. Gambelli, Arlecchino a Parigi, I: Dall’inferno alla corte del Re Sole, Bulzoni, Roma 1993, p. 134. 34  Ibidem. 32

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Mazzarino di dar vita a una compagine stabile, che verrà inserita in un vero e proprio sistema organico del teatro ufficiale parigino: “i Comédiens Royaux all’Hôtel de Bourgogne; la troupe del Marais; la troupe di Molière e quella italiana al Palais-Royal”35. Nasce così quel primo Théâtre Italien, destinato a durare – attraverso i contributi di artisti d’eccezione: da Tiberio Fiorilli (1608c.-1694) a Domenico Biancolelli (1636c.-1688), a Evaristo Gherardi (16631700)36 – sino all’ultimissimo scorcio del Seicento. Il 13 maggio 1697, Luigi XIV firma il decreto di chiusura del teatro (l’Hôtel de Bourgogne) che era divenuto da ultimo sede degli Italiens. Gli attori che vi recitavano, ormai ripudiati dal sovrano, si disperdono. Alcuni di essi, rimasti a Parigi, offriranno, ricollegandosi in qualche modo alle tradizioni dei “comici ciarlatani” di piazza, un non secondario contributo al definirsi di un nuovo, importante fenomeno: il Théâtre de la Foire37. Ma, nel 1716, Luigi Riccoboni verrà incaricato di dare vita a un ulteriore esperimento di Théâtre Italien, destinato a prolungarsi tra alterne fortune, sotto il nome di Comédie Italienne, sino al 1762. Sviluppandosi con notevole continuità lungo l’arco di quasi due secoli, l’emigrazione degli eredi di ser Maphio in terra francese culmina dunque in un fenomeno a sé stante: distinto innanzitutto – pur presentando nel tempo aspetti variabili – da uno strettissimo rapporto con il potere politico, dalla disponibilità di sedi stabili per gli spettacoli, dalla pratica di un lavoro teatrale non condizionato dai vagabondaggi incessanti tipici d’una compagnia di giro. Entro un simile contesto (già di per sé quantomai estraneo alle consuetudini delle originarie troupe “fraternali”), verranno poi a svilupparsi, e in molteplici soluzioni, un immaginario e una scenotecnica fortemente segnate – oltre che da necessità di adattamento linguistico – da fattori culturali, da convenzioni performative e da abitudini di fruizione tipici dell’ambiente entro cui si trovano ad operare i nostri attori.

  Ivi, p. 214.   Cfr. R. Guardenti, Gli italiani a Parigi. La Comédie italienne (1660-1697). Storia, pratica scenica, iconografia, 2 voll., Bulzoni, Roma 1990; D. Gambelli, Arlecchino a Parigi, II: Lo scenario di Domenico Biancolelli, Bulzoni, Roma 1997. 37  R. Guardenti, Le fiere del teatro. Percorsi del teatro forain del primo Settecento, Bulzoni, Roma 1995. 35 36

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In questo processo di adattamento e di necessario interscambio, le declinazioni stilistiche, i repertori adottati, la scelta delle tipologie da impersonare assumeranno inflessioni tali da generare forme di spettacolo che non si possono confondere in un generico modello di Commedia dell’Arte. Ne può essere minimo ma significativo esempio la peculiare fortuna della maschera di Arlecchino sulle scene del Théâtre Italien in ogni sua fase: nata da complesse inter-relazioni tra i primi attori avventuratisi a Parigi ed epifenomeni culturali allora in corso nella metropoli38, questa sorta di versione in termini zanneschi d’una figura demonica d’ascendenza medioevale39 acquista un ruolo del tutto preminente nell’immaginario portato in scena dai nostri professionisti a Parigi. Sino a divenire il comico protagonista-tuttofare nella stragrande maggioranza dei canovacci elaborati in terra d’oltralpe, inaugurando uno schema di plot drammaturgico destinato a perpetuarsi ancora nelle commedie di Marivaux. Le grandi direttrici percorse dagli avventurosi itinerari europei degli attori, se da un lato provocano l’insorgere di ulteriori varietà formali dei loro moduli di spettacolo, dall’altro non possono non essere considerate altrettante reazioni sintomatiche e altrettanti tentativi di risposta alla inevitabile dipendenza del loro statuto professionale dalle mutevoli vicissitudini dell’economia e della storia40. In considerazione di queste ultime, sarà allora ovvio ma pur sempre necessario ricordare come la stessa struttura organizzativa originaria adottata a metà Cinquecento dai primi mestieranti della scena non abbia certo attraversato due secoli 38   Cfr. Gambelli, Arlecchino a Parigi, I: Dall’inferno alla corte del Re Sole cit., pp. 129-192. 39   Sulla genesi, e sulla presenza di Arlecchino nel folklore antico francese, si veda A. Artoni, Il teatro degli Zanni. Rapsodie dell’Arte e dintorni, Costa & Nolan, Genova 1996. Per quanto concerne i primi riferimenti teatrali su questa figura mitica, rimandiamo a R. Tessari, Teatro e antropologia, Carocci, Roma 2004, pp. 119-140. 40   Secondo Siro Ferrone, notevole peso avrebbe nei viaggi e nelle migrazioni degli attori – oltre al fattore economico – un quasi irrefrenabile anelito alla libertà: “La lotta per la sopravvivenza è inseparabile in questi umili attori dalla ricerca di libertà” (S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino 1993, p. 20). Può essere talvolta vero, a seconda dei casi: sembra però – oltre che suggestivo – concettualmente rischioso attribuire a tutti coloro che praticano lo stesso mestiere l’invariante di un’identica motivazione (o pulsione) psico-culturale.

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senza subire mutazioni di rilievo. Del resto, sono gli stessi responsabili delle troupe ad avvisarci di stare ben attenti alle differenze che distinguono le compagnie nel tempo. All’altezza del 1606, per esempio, Francesco Andreini, dopo aver passato in rassegna tutti i membri del suo ensemble, ne esalta in questi termini la (secondo lui) inarrivabile eccellenza artistica: Questi tali comici uniti insieme si nominavano i comici Gelosi, quali avevano un Giano con due faccie per impresa, con un motto che diceva: ‘Virtù, fama ed onor ne fêr Gelosi’. [...] di quelle compagnie non se ne trovano più e ciò sia detto con pace di quelle che oggidì vivono; e, se pur se ne trovano, sono compagnie che hanno solamente tre o quattro parti buone e l’altre sono di pochissimo valore e non corrispondono alle principali, come facevano tutte le parti di quella famosa compagnia, le quali erano tutte singolari. Insomma, ella fu tale che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcar niuna moderna compagnia di comici41.

Tutte le testimonianze coeve di cui disponiamo esaltano senza riserve l’indiscutibile grandezza della troupe. Ma, nella visione di Francesco, essa avrebbe addirittura segnato, con la sua attività, una soglia-limite: un confine che nessun insieme di comici potrà mai più attraversare. Al di là di questo confine, va situato uno spazio ideale che contiene in sé le coordinate del perfetto teatro moderno: il metro cui ognuno, in futuro, dovrà misurare le proprie pretese e il proprio reale valore. Significativamente, il dio che svetta sulla bandiera del gruppo è il nume tutelare delle soglie: Giano42. E le parole che costellano l’immagine della divinità propongono la sfida di virtutes artistiche tali da dover provocare con forza irresistibile sentimenti di ‘gelosia’ nei confronti della compagnia di Isabella e di Francesco Andreini. Quel che più conta, però, è che i Gelosi avessero scelto di presentarsi al pubblico non nelle forme dimesse che sembrano   Andreini, Le bravure del Capitan Spavento cit., pp. 70-71.   Sulle ragioni che indussero i Gelosi a fregiarsi dell’immagine di Giano, e sui significati di questa immagine, si veda R. Tessari, Sotto il segno di Giano: La Commedia dell’Arte di Francesco e Isabella Andreini, in AA.VV., The Commedia dell’Arte from the Renaissance to Dario Fo, a cura di C. Cairns, Edwin Mellen Press, Lewiston-Queenston-Lampeter 1989, pp. 11-16. 41 42

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caratterizzare i ‘fraternali’ statuti di ser Maphio e compagni, oppure quelle compagini che il Lasca non è in grado di individuare se non definendole genericamente ‘zannesche’, bensì ostentando a mo’ di bandiera una vera e propria impresa araldica con tanto di stemma e di motto. E, soprattutto, adottando – in perfetta sintonia con il significato ultimo degli emblemi di cui si fregiava – una denominazione per la quale non si saprebbe trovare altro termine di confronto che non sia quello delle terminologie metaforiche di regola escogitate a designare le accademie scientifiche e artistiche (Intenti, Cruscanti, Intronati, Rozzi, ecc.). È evidente, insomma, che Francesco Andreini – insieme ad altri grandi comici di fine Cinquecento, come vedremo – mette in opera con molta accortezza una strategia intesa a presentare se stesso, alcuni suoi colleghi e le loro compagnie quali depositari di un’arte scenica che – tanto sul piano delle sue vive espressioni, quanto a livello delle forme emblematiche destinate a sintetizzarne e a divulgarne un’immagine di forte suggestione – intendeva porsi sullo stesso gradino di dignità e di prestigio da tutti riconosciuto alle accademie. Le troupe più conosciute, dall’epoca aurea dei Gelosi sino ai primi decenni del Seicento, si fanno chiamare “dei Fedeli”, “dei Confidenti”, “degli Accesi”. La piccola costellazione formata da questi gruppi segna l’ideale vertice di ‘nobilitazione’ sociale e culturale raggiunto dagli attori professionisti, percorrendo quella ‘strada in salita’ che era stata loro aperta dalle coraggiose ma forse più umili imprese dei ser Maphio e dei Cantinella. 3. Dall’attore accademico all’attore-impiegato È presumibile che la storia inaugurata da contratti notarili simili a quello di Padova, si sia svolta, nei suoi cinquant’anni iniziali, innanzitutto attraverso un processo di distinzione qualitativa e di ‘gerarchizzazione’ avvenuto all’interno del variegato mondo delle compagnie. Molto sommariamente, come abbiamo visto, Tommaso Garzoni riassume l’intero mondo del teatro a lui contemporaneo dichiarando che i suoi realizzatori vanno distinti o sotto l’etichetta di “comici profani” o sotto l’appellativo onorifico di “comici illustri”. Al di là del derisorio e sprezzante giudizio estetico cui s’intona (e che, pur se motivato da molte realtà, non ­56

può essere esteso a un’intera categoria), il passo di Garzoni attesta come il mondo dei comici non conosca al suo interno solo la distinzione più tardi sottolineata da un Ottonelli. Se è vero che esistono “due ordini” di “recitanti” – quello “di coloro” che “fanno le loro azioni dentro le case” e quello costituito da quanti “si nominano” ciarlatani – è anche vero che il primo si articola – e va mutando nel tempo – in una serie di fenomenologie quantomai diversificate: dalle misere compagini raccogliticce le quali, giunte in un paese, eleggono a loro sede l’“ostaria del Pellegrino”; alle più dignitose troupe che di norma affittano “stanze” cittadine; sino alle eccezionali esperienze di chi, come i Gelosi, finisce col lavorare anche (se non soprattutto) su commissione di principi italiani e stranieri. L’insieme di fattori che, più tardi, verrà riassunto e ‘omogeneizzato’ sotto l’etichetta Commedia dell’Arte si articola in pluralità di forme, stratificate a seconda delle ambizioni estetiche e del tipo di rapporto con un certo pubblico che i diversi gruppi di compagnie sono in grado di sostenere. Ma a loro volta, poi, i vari “ordini di recitanti” subiscono – nel corso dei due secoli che, tra metà Cinquecento e metà Settecento, vedono scorrere la storia del loro modo di fare teatro – mutamenti di non poco rilievo, e tali da segnarne in misura significativa sia i connotati professionali sia i prodotti. La stagione d’oro delle troupe dai nomi accademici, ad esempio, sembra caratterizzarsi essenzialmente (se prestiamo fede a Francesco Andreini) per una qualità rappresentativa garantita dal perfetto equilibrio tra le doti artistiche dei singoli membri di ogni gruppo. Nel suo sviluppo, si afferma la figura dell’attore-intellettuale, che tratta da pari a pari con i grandi scrittori contemporanei, e che si preoccupa di dare alle stampe ben selezionati frutti del lavoro e del pensiero dei comici. Anche nel rapporto con i potenti, si realizzano condizioni (e si ottengono risultati economici) di tutto rispetto, come è facile evincere – ad esempio – da una frase vibrante d’orgoglio di Isabella Andreini: “io era con la compagnia a Fointainebleau, dove sono stata trentasei giorni, compiacendosi l’una e l’altra maestà della nostra servitù, e trattenendoci con provvisione di 200 scudi al mese”43. 43   Da una lettera del 7 dicembre 1603 al “cavalier Vinta”, segretario del granduca di Toscana (in Rasi, I comici italiani cit., vol. I, p. 94). Ricordiamo che la più moderna edizione di buona parte degli epistolari dei comici che hanno

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È uno status che sembra trovare la sua cifra emblematica nel destino eccezionale toccato in sorte a Cecchini: “la felice memoria di Mathias imperatore fece nobile il signor Pietro Maria Cecchini detto Fritellino, abilitandolo ad ogni esercizio cavalleresco, facendolo capace di quanto si dona ad ogni titolato”44. Del resto, se la trasformazione d’uno zanni in nobiluomo va in realtà ascritta alla singolarissima parabola d’un comico avventuroso che ama dimostrarsi quantomai critico nei confronti di molte convenzioni del suo mestiere, il segnale più eloquente e il frutto più durevole delle fortune conosciute dai Gelosi e dai loro emuli può essere indicato nel progressivo stabilizzarsi, tournée dopo tournée, della presenza dei nostri attori presso la corte francese. Anche in Italia, però, sin verso il penultimo decennio del Seicento, le compagnie di livello alto (quelle sulle cui vicende siamo, come è ovvio, meglio informati) intrattengono rapporti diretti con il potere politico. I Fedeli di Giovan Battista Andreini (1576?1654), figlio di Isabella e Francesco, lavorano – oltre che per la monarchia parigina – per Francesco Gonzaga, Alessandro Pico della Mirandola, ecc.45. Ma già prima, a partire dal 1598, proprio a Mantova “cominciava a prendere forma un organismo nuovo”46: una troupe non più gestita da un autonomo accordo tra i suoi membri e un qualche “ser Maphio”, bensì da un duca che si arroga in esclusiva il potere sia di reclutare attori di suo gradimento sia di amministrarne personalmente conduzione e tournées. Una lettera di Tristano Martinelli a Vincenzo Gonzaga della primavera 1598 segnala le mosse preliminari della nuova iniziativa (e ne lasciato un segno importante nella storia dell’Arte è in Comici dell’Arte. Corrispondenze. G.B. Andreini, N. Barbieri, P.M. Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, F. Scala, ediz. diretta da S. Ferrone, a cura di C. Burattelli e A. Zinanni, 2 voll., Le Lettere, Firenze 1993. 44   Barbieri, La Supplica cit., p. 594 (Cecchini fu nominato cavaliere dall’imperatore Mattia, che l’aveva fatto venire poco prima a Vienna, il 12 novembre 1614; l’attore volle che il decreto imperiale figurasse in appendice alla pubblicazione dei suoi Brevi discorsi intorno alle comedie). 45   Sulle vicende di Giovan Battista Andreini e dei Fedeli, si vedano: S. Ferrone, Introduzione a Commedie dell’Arte, 2 voll., Mursia, Milano 1985, pp. 11-16; C. Molinari, La Commedia dell’Arte, Mondadori, Milano 1985, pp. 145-150; M. Rebaudengo, Giovan Battista Andreini tra poetica e drammaturgia, Rosenberg & Sellier, Torino 1994, pp. 9-24. 46  Burattelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento cit., p. 188.

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evidenzia subito alcune conseguenze, come l’inedita esigenza dei comici di doversi destreggiare nelle spire di un pressante interesse da parte dei potenti): Avendo inteso da mio fratello come che Vostra Altezza serenissima gli à ordinato mi scriva che io lassa la mia compagnia et che venga in la sua, perché è suo volere io non mancarò di eseguire il voler di Vostra Altezza con tuto il core, ma bisogna remediare a certi particulari, come Vostra Altezza intenderà. La saperà come che io son obligato per scritura di andare a Fiorenza al suo tempo, et il serenissimo granduca à volsiuto che tuti si sottoscriviamo [...]. Per desobligarmi da questo signore et da’ miei compagni Vostra Altezza sarà servita farmi scrivere per uno di suoi quatro righe in nome di Vostra Altezza che si vol servir di me, aciò vedendo quella letera siano sicuri che non è mia invencione47.

La nuova formazione, che inizia la sua attività nel 1599, sarà una tra le più rinomate del primo trentennio del Seicento. Nelle sue fila militeranno, per periodi di varia durata, attori del calibro di Drusiano e Tristano Martinelli, Diana Ponti, Pier Maria Cecchini, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo (attivo tra il 1595 e il 1632), Giovan Battista Andreini, Virginia Ramponi, Domenico Bruni (1580-?). E l’esempio offerto dai Gonzaga a Mantova (ripreso e prolungato, ancorché in tono più dimesso, sin verso la fine del secolo) verrà in qualche modo seguito dai Farnese a Parma e dalla dinastia d’Este a Modena, quasi a profilare un nuovo capitolo padano della storia dei comici: laddove, in prosieguo di tempo, al libero accordo di gruppi “fraternali” sembra sovrapporsi vieppiù il rigido apparato d’una primitiva organizzazione statale del teatro, protettrice e dominatrice della vita dell’attore. Nel secondo Seicento, i carteggi tra i principi italiani titolari di proprie compagnie parlano degli artisti scenici in termini non troppo dissimili da quelli in cui si esprime il moderno mercato calcistico. Ranuccio II Farnese, nel 1675, oppone un netto diniego alle pressanti richieste di Francesco II di Modena, che insiste per avere presso di sé “la comica Lavinia e consorte”:   Ivi, p. 189.

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Levandosi queste due parti che sono le principali e necessarissime nella mia compagnia, venirebbero a rimaner inutili tutti gli altri miei comici48.

Il duca di Mantova Carlo Ferdinando, nel 1676, scrive al suo collega di Modena celebrando le virtù didattiche e produttive d’un accorto interscambio di attori: Variandosi alle volte di anno in anno i comici, si prova maggior dilettazione e si dà campo agl’istessi di far più studio e riuscire assai grati all’uditorio49.

Nel nuovo clima di gioco mercantile, non mancano accorate testimonianze dei frutti estremi e più crudeli di tante ‘variazioni’: Gio. Antonio Lolli alias Dottor Brentino [...] dopo di avere per lo spazio di anni otto servito con ogni decoro e onorevolezza all’Altezza Vostra, già un’anno fa fuori di tempo è senza alcun demerito, dal signor Don Alfonso, licenziato dal Serenissimo Serviggio50.

Insomma, il comico del secondo Seicento, se inserito nelle compagnie ducali, si trova ormai costretto a devolvere al “Signore” ogni potere decisionale sulla composizione della sua troupe e sul suo stesso destino. In cambio, certo, ne riceve una protezione preziosa: capace di garantirlo contro gli esiti più pericolosi di quella libera concorrenza che ser Maphio ed i suoi sodali avevano inaugurato. Se gli attori del duca di Modena, recitando a Bologna nel 1651, trovano ostacoli insormontabili, si affrettano a scrivere al loro potente impresario: Noi sottoscritti comici facciamo fede come sono venute da Padova tre lettere dirette a Fichetto nostro compagno, scritte da cavalieri di colà, con le quali ci persuadono a non andare a recitare in quella città, altrimenti scoreremo gravi pericoli, per essersi divisa la città   Cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. I, p. 1062.   Cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. II, p. 663. 50   Memoriale del comico Giovanni Antonio Lolli al duca di Modena, in data, aggiunta dalla Cancelleria, 21 maggio 1686 (cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. II, p. 32). 48 49

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nel pretendere, chi la nostra Compagnia e chi quella della Signora Armellina51.

E il duca interviene, intimando al podestà di Padova, Pio Enea degli Obizi, di accogliere la sua compagnia. Da simili testimonianze, in ogni caso, appare evidente che il motivo per cui il principe secentesco si rivolge alla Commedia dell’Arte non è determinato tanto da una inclinazione del suo personale gusto artistico verso il virtuosismo delle maschere e dell’improvvisazione, quanto dal più freddo intento di amministrare con perizia il prezioso giocattolo costituito da ogni compagnia, e di distribuire con sagacia politica gli spettacoli ai propri sudditi (o a sudditi di altre terre, per ovvie ragioni di diplomazia e di prestigio). Come sottolinea Cristoforo Ivanovich: Sono oggetti di sopraffina politica, da’ quali dipende la felicità del governo, l’abbondanza ed i giuochi, medianti i quali, usati a misura dell’onesto, s’acquista il Principe l’amore de’ popoli, che mai meglio si scordano del giogo, che satollati o trattenuti ne’ piaceri52.

Se ancora riflettiamo alla persistente crisi secentesca del libero mercato dello spettacolo cui sembra alludere Ottonelli, quando afferma che “oggidì i professori dell’arte comica che non sono provvisionati stabilmente dai principi se la passano malamente”53, non è difficile ipotizzare che, in questo periodo, le istanze di una “sopraffina politica” e le miserie di una urgente necessità di “provvisione stabile” convergano a tratteggiare una definizione e un uso politico del mondo dello spettacolo che, se da un lato ricalcano gli arcaici moduli del panem et circenses, dall’altro prefigurano le modernissime fortune di certi mass media. In questa situazione, lo status dell’attore – almeno a quanto risulta dalle numerose lettere di comici conservate negli archivi dei ducati padani – sembra mutare radicalmente. Ciò che lo distingue, ora, è anche il peso di una particolarissima alienazione. Un

51   Memoriale di un gruppo di comici al duca di Modena, inviato da Venezia il 16 marzo 1675 (cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. I, p. 29). 52  C. Ivanovich, Minerva al tavolino, Pezzana, Venezia 1681, vol. I, pp. 370-371. 53  Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., tomo I, p. 133.

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tempo artigiano avventuroso, poi “accademico” sovente onorato, il comico è adesso funzionario di una bizzarra, ma non per questo meno implacabile, macchina burocratico-statale. Dove, come accade spesso, l’unica possibilità di protesta è affidata alla fuga verso riposi momentanei, propiziati da più o meno autentiche dichiarazioni di “malattia”: resta solo la città un poco disgustata perché il Dottore non ha voluto far la sua pazzia [...] lui dice che non l’ha fatta per dubio di non si amalare per una sua indisposizione54.

Sul versante dei duchi, l’alienazione che cristallizza la nuova dimensione dell’attore si riflette nel considerare quest’ultimo quale mera pedina di un gioco insieme spettacolare e politico. Se guarda alla società dei propri sudditi, il duca vede il comico come un ingranaggio che deve assolutamente mantenere il suo ruolo preciso nella distribuzione d’una commedia rivolta al popolo, affinché esso si scordi “del giogo”. Se guarda alla diplomazia, lo considera come un ninnolo abbastanza prezioso, in grado di far gola — come un dipinto o un arazzo — a qualche collega straniero. Mentre la moda dell’Arte italiana trionfa nella Francia di Luigi XIV, per compiacere il sovrano d’oltralpe i signori padani sono disposti a cedere anche i pezzi migliori delle loro troupe. Come avviene nel 1684 – ma in una atmosfera di macabra farsa che svela emblematicamente la perfetta miseria del nuovo istrione – allorché Luigi XIV esige per la Compagnia del Re il più famoso esponente del teatro modenese, Giovanni Andrea Cimadori. Il comico cade ammalato. Un medico lo dichiara incurabile, e asserisce che il minimo spostamento può risultargli fatale. Il duca scrive al dottore in questi termini: Atteso con tutto ciò quello che Vostra Signoria ci motiva, e già pare che sia un qualche miglioramento, noi facciamo speditamente partirlo, stimando minor male l’azardare la di lui persona che potesse mai questa dilazione essere interpretata costì [alla corte francese] a difetto di prontezza e volontà55. 54   Lettera di Francesco Allori, da Venezia, il 16 marzo 1675 (cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. I, p. 33). 55  Lettera del 28 settembre 1684 (cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. I, p. 664).

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“Persona” ormai “azardata”, Cimadori muore durante il viaggio. Non ci si potrà allora meravigliare se l’invocazione che sembra fare da controcanto in sordina all’attività dei comici nel secondo Seicento è quella di poter abbandonare non solo ogni velleità di gloria ma anche e soprattutto la professione stessa. Parlando di un suo collega che aveva avanzato istanza per ritirarsi dalla compagnia di Modena, Francesco Allori, nel 1675, confessa: circa poi che mi dice il Signor Carlo di non poter più recitare, io mi rimetto all’autorità e comandi del Serenissimo Padrone e di V.S.Ill., so bene che se potessi ancor io dire non voglio più recitare, con soddisfazione di S.A.S., e che mi fusse concesso, mi sarebbe oltre modo caro56.

L’augurio adombrato nelle parole di Allori (e che altro non è se non l’oscuro desiderio della dissoluzione delle troupe ducali, della liberazione dell’attore dalla duplice livrea del funzionario e dell’oggetto prezioso) trova puntuale riscontro nel trapasso dal Seicento al Settecento. Ma non per una qualche forma di ribellione dei comici: solamente perché l’interesse dei principi a una funzione attiva nelle sorti dell’Arte viene meno con il tramonto della civiltà barocca. Viene meno, cioè, quando le performances distinte da maschere e da improvvisazione cessano di essere un fenomeno, se non più unico, almeno di preminente rilievo nel complesso degli spettacoli pubblici. Gli attori, così, si troveranno a vivere – in concorrenza con le crescenti fortune delle opere in musica – l’ultima stazione dell’itinerario intrapreso nel 1545: il lungo e strascinato tramonto settecentesco delle compagini capocomicali che affidano alla forza d’attrazione d’un superstite cognome di grido (Compagnia Sacchi, Compagnia Medebach, ecc.) le loro residue chance di sopravvivenza. 56  Lettera di Francesco Allori al duca di Modena, inviata da Venezia il 20 aprile 1675 (cfr. Rasi, I comici italiani cit., vol. I, p. 33).

III

Tre sguardi su spettacoli di magia e prostituzione

1. Il principe: spiando da una camera con grata Come abbiamo visto, la definizione Commedia dell’Arte va considerata etichetta generica che – dopo Goldoni – venne impiegata, ora più ora meno consapevolmente, a mo’ di contenitore sia d’un variegato coacervo di fenomeni sia d’una certa serie di mutazioni che questi fenomeni subirono nel tempo (dal 1545 circa a metà Settecento): il malnoto teatro ‘unisessuale’ di ser Maphio e dei suoi primi seguaci; la nuova teatralità mercenaria propiziata dalla comparsa della donna-attrice, forse a partire dal 1564; gli spettacoli professionali delle “stanze”, e gli spettacoli “di piazza” dei comici-ciarlatani; lo stile “illustre” delle troupe di livello superiore, e l’anti-stile alla Pietro Aretino che sarebbe stato tipico di livelli inferiori; i molteplici ibridi prodotti dalle diverse correnti migratorie verso altri paesi europei; le varianti tipologiche sperimentate dal modello-compagnia (fraternale, ducale, capocomicale con nome in ditta, ecc.). Peraltro, se è vero che esiste un discreto numero di variabili sincroniche e diacroniche, ciò non può servire da pretesto per disfarsi – o fingere di disfarsi – vuoi allegramente vuoi seriosamente degli indubbi e stretti rapporti che esistono tra una serie di fattori comuni, sempre presenti, riscontrabili in tutte le fenomenologie sussunte nell’ambito della definizione di cui sopra. Tra questi fattori, occorre innanzitutto segnalare ampiezza e versatilità del ­64

repertorio entro cui spazia l’offerta di spettacoli che i professionisti si dichiarano in grado di offrire ai potenziali fruitori. In ogni tempo, i comici risultano abbastanza disponibili – nei più diversi contesti – a recitare occasionalmente testi scritti di vario genere imparati a memoria. Lo fanno, di certo volentieri, nel luglio del 1573, quando i Gelosi vengono investiti dell’onorifico incarico di allestire l’Aminta del Tasso per la corte estense all’Isola del Belvedere sul Po. E continueranno a farlo forse sempre nella loro normale routine: ammesso che, mentre parlano di “opere gravi”, gli attori intendano riferirsi anche a tragedie, tragicommedie pastorali e drammi ‘di cappa e spada’ manoscritti o a stampa. Come si potrebbe desumere dalle seguenti osservazioni formulate da Niccolò Barbieri nel 1634: tutti i comici oltramontani fanno opere gravi con intermedi ridicolosi, e non sono zelanti delle buone regole de’ Greci e de’ Latini; ma gli Italiani fanno opere gravi, le comedie popolari miste di grave e di faceto, e d’altre istorie composte pur dell’uno e dell’altro, e s’avvicinano a’ dogmi d’Orazio e d’Aristotile; e di più recitano improvisamente, cosa che l’altre nazioni non hanno ancor fatto sinora1.

È invece chiaro che, in altri casi, le compagnie professionali dovevano offrire comunque (anche sotto costrizione...) messinscene di “opere premeditate” al loro pubblico pagante. Ad esempio, “a Napoli, il 27 settembre 1652 veniva stipulato un contratto che impegnava una compagnia di comici” diretta da Carlo de Jorio detto Luzio “a recitare per tutta la stagione – dal settembre ’52 alla fine del Carnevale del ’53 – nella stanza per le commedie di San Bartolomeo”. Nel contratto si stabiliva che “oltre alle opere composte dai comici senza testo scritto” venissero allestiti anche lavori drammatici regolari a firma di “autori letterati”2. Tra le sue clausole, era specificato che:

1   N. Barbieri, La Supplica. Discorso Famigliare, in F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, p. 624. 2  F. Taviani-M. Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria

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detti comici debbiano rappresentare tra le altre in tutto detto tempo otto opere premeditate, cioè quattro vecchie e quattro nuove, che vengono a ragione di due opere al mese, e se per caso vi fossero feste nella settimana o le domeniche che resteranno prima dell’opere premeditate s’obbligano di fare opre di Spada e Cappa3.

Risulta tuttavia difficile pensare che fossero fondate su testi di drammaturgia regolare, le performances di Zanni e Magnifico tanto ammirate dal Lasca nella Firenze di metà Cinquecento. Oppure che il “recitar improvisamente” indicato da Barbieri quale esclusivo vanto degli attori italiani sia solo un aspetto o marginale o troppo sopravvalutato della loro attività. Soprattutto quando l’autore della Supplica – mentre polemizza contro chi sostiene che recitare senza mercede sarebbe lecito ed etico – sembra voler dichiarare pari pari che “l’improvviso” è tutto ciò che distingue (in ultima analisi) i comici professionisti dagli accademici, e dai membri delle iuventutes cittadine che si dilettano di far teatro: Lo aver riguardo a’ comici che recitano gratis e non a quelli che per necessità professano tal arte, è una [...] giustizia da me non conosciuta. Le comedie de’ signori Accademici sono fatte con grande spesa; quelle di certi giovani della città, con meno riguardo all’onestà delle nostre [...]. Ora, se le nostre con minor interesse, più riguardo, e senz’altro fine che di procacciarsi il vitto sono fatte, perché biasimar le nostre e non le altre? Si risponderà [...] che le comedie fatte da’ cittadini ed altri saranno comedie morali e sovente rappresentazioni spirituali, e, se pur comedie come le altre saranno, ch’essendo imparate, saranno più corrette di quelle ch’all’improvviso si recitano, potendo l’uomo più facilmente por freno alla penna che alla lingua4.

Di fronte a queste testimonianze (e ad infinite altre di tenore equivalente), sostenere che il recitare “all’improvviso” – da un lato – sarebbe stato il pane quotidiano dei nostri professionisti, ma – dall’altro – consisterebbe solo in un “perfezionamento assai delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII secolo, La Casa Usher, Firenze 2007, p. 365. 3   U. Prota-Giurleo, I teatri di Napoli nel Seicento, Fiorentino, Napoli 1962, p. 139. 4  Ivi, p. 673.

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redditizio” del “modo di far teatro” di quanti recitavano basandosi “su commedie scritte”5, non ci sembra possa corrispondere in misura molto fedele a quanto ne pensavano i più diretti interessati. Ovvero gli attori stessi, impegnati a ribadire senza posa (in sintonia con i loro spettatori) di sentirsi contrassegnati in positivo da un’unica differenza di qualità nei confronti di altri praticanti dello spettacolo: l’improvvisazione. Comunque vadano poi interpretate le modalità costitutive di questo modus operandi, che si dichiara in ogni caso diverso dalla re-citazione di un testo scritto appreso a memoria, è evidente che esso – insieme alle maschere, alle tipologie fisse, al polilinguismo e ad un concetto di performance basato sulla compresenza di phonèazione-musica-canto-danza – ha fatto parte di uno schema produttivo dello spettacolo che, pur declinandosi nel tempo e nello spazio secondo molte varianti compositive e stilistiche, si è mantenuto sostanzialmente invariato, per circa due secoli. Così sembrano considerarlo ognora, del resto, le tre angolazioni prospettiche di maggior rilievo dalle quali le fenomenologie della Commedia dell’Arte sono sempre state oggetto di costanti e preoccupate attenzioni: quella del potere politico, quella dell’autorità ecclesiastica posttridentina, quella del variegato mondo di intellettuali e artisti più o meno ‘organici a un sistema’. Se scegliamo di considerare innanzitutto la prima, essa ci apparirà in ogni caso configurarsi a partire da un archetipo situazionale già opportunamente privilegiato dalle ricerche di Ludovico Zorzi: lo stanzino con grata entro cui, invisibile ad attori e pubblico, il granduca di Toscana si fa spettatore delle performances “di gente sordida e mercenaria”. Giovan Battista Andreini, nella commedia Lo Schiavetto (1620), mette in bocca ad un personaggio parole celebrative delle anguille arrosto, specificando di riferirsi a “quelle d’Arno, che si cuocono in Baldracca Hosteria, vicina allo Stanzone dove si recitano le Comedie”6. Si tratta della stessa “Hosteria”, propinqua “alla piazza del Grano” e situata “quasi dirimpetto” al “palazzo” granducale già citata da Benedetto Varchi attorno al 15707. E si tratta, soprattutto, dello stesso “Stanzone” – il cosiddetto Teatro   Taviani-Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte cit., p. 364.   G.B. Andreini, Lo Schiavetto, Ciotti, Venezia 1620, p. 152. 7  B. Varchi, Ercolano, Giunti, Venezia 1570, p. 245. 5 6

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di Baldracca – che, secondo Zorzi, avrebbe costituito, a partire almeno dal 1588, il secondo polo di un vero e proprio sistema mediceo dello spettacolo fiorentino: Varrà la pena di insistere ulteriormente sulla figura di ‘sistema’, costituito da strutture a un tempo differenziate e integrate, che il locale veniva a formare con l’attiguo Teatro Mediceo [...]. Differenze di ubicazione, di accesso e di quota distinguevano fisicamente la diversa destinazione dei due locali contigui: più in alto, nel monumentale fabbricato degli Uffizi, stava il teatro destinato ai riti autocelebrativi del potere, cui il pubblico di corte accedeva dall’imponente piazzale e dal solenne scalone vasariano; più in basso, nel modesto edificio che lo stesso architetto8 aveva letteralmente collocato ‘all’ombra’ del regale edificio antistante, si apriva il disadorno ‘stanzone’ degli istrioni dell’Arte tollerati e sprezzati, che il pubblico della incipiente borghesia guadagnava attraverso una porticina dissimulata sul retro: teatro [...] sul quale tuttavia la trascendente maestà del principe si riservava di affermare, come sull’altro, la propria vigile e spesso non condiscendente presenza9.

Il “locale” di Baldracca e il Teatro Mediceo – per quanto concerne gli spettatori destinati a frequentarli – erano nettamente distinti, senza possibilità di comunicazione, in base alle diverse categorie di pubblico cui l’uno e l’altro erano ab origine riservati: I membri dell’oligarchia cortigiana, eletti per nascita o per censo, avevano accesso, dal piazzale monumentale degli Uffizi, alla sala del divago e della fantasia ispirati dal principe e suffragati dalla sua ostentata presenza; gli altri, i figli della borghesia bottegaia e artigiana, dovevano accontentarsi di uno stanzone certamente assai più modesto [...], al quale si accedeva da una viuzza malfamata, pullulante di osterie e di bordelli10.

Ma l’invalicabile confine che separa i due ceti non deve essere tale per chi detiene il potere. Il principe, che assiste con “ostentata presenza” ai divertimenti e agli spettacoli ‘alti’ riservati ai membri   Il Buontalenti.   L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977, p. 228, n. 188. 10  Ivi, p. 126. 8 9

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dell’oligarchia dominante, non intende certo mantenersi del tutto estraneo alle performances degli “istrioni tollerati e sprezzati”. Sceglie allora la soluzione di poter figurare sempre come invisibile spettatore reale o potenziale del loro svolgersi. E lo fa, concretamente, attraverso il dispositivo di uno stanzino adiacente alla sala di Baldracca, ad essa insieme unito e disgiunto dalle fessure di un’apposita grata che vela lo ‘stanzino’ dal quale il granduca, assieme ai suoi familiari e ai suoi ospiti, assiste, celato agli sguardi del pubblico che assiepa il teatro di Baldracca, alle recite della commedia degli zanni, dopo esservisi recato in incognito, raggiungendo la sala da Pitti “lungo il corridore”. È la stessa grata che dalla loggia sporgente in Santa Felicita consente al principe di assistere ai riti religiosi, nascosto agli occhi dei fedeli che gremiscono la chiesa sottostante, guadagnata essa pure in privato attraverso il passaggio del Corridoio11.

Molto opportunamente, trattando del teatro di corte tra 1560 e 1640, Roger Savage ricorda che, nel Cinquecento e nel Seicento, venne chiamato “occhio del principe” quel punto della sala da cui era possibile godere a pieno il gioco illusivo delle scenografie prospettiche12, vanto supremo dello spettacolo rinascimentale e postrinascimentale. Ancora nel primo Seicento, il grande scenografo pesarese Nicola Sabbattini, nella sua Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri, dedica un apposito capitolo alla fondamentale questione di Come si debba accomodare il luogo per il Prencipe, e scrive: Mi pare ragionevole [...] di dire anco come, et in qual sito si debba accomodare il luogo per il Prencipe [...]. Si haverà per tanto in consideratione di far elettione di luogo più vicino che sia possibile al Punto della distanza, e che sia tanto alto dal piano della Sala, che stando a sedere, la vista sia nel medesimo piano del Punto del concorso, che così tutte le cose segnate nella Scena appariranno meglio che in alcuno altro luogo. Si farà dunque a guisa di uno Steccato fermato in terra   Ivi, p. 127.   R. Savage, The Staging of Courtly Theatre: 1560s to 1640s, in ‘Europa Triumphans’: Court and Civic Festivals in Early Modern Europe, a cura di J.R. Mulryne, H. Watanabe-O’Kelly e M. Shewring, Ashgate, Aldershot-Burlington 2004, vol. I, pp. 5-18. 11 12

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con buoni legnami. Et sia assicurato con buone caviglie, e chiodi, acciocché per la calca delle genti [...] non venisse a patire qualche detrimento, et intorno ad esso si potranno porre seditori, quali doveranno servire per li suoi Gentilhuomini, o soldati della sua guardia, come più ad esso piacerà13.

Anche se non abbiamo descrizioni tanto dettagliate nel caso dei teatri di corte cinquecenteschi, vigeva per essi l’identica norma. In qualsiasi salone di rappresentanza destinato, come il Teatro Mediceo, a celebrare con sfarzose messinscene i fasti del potere, colui che lo detiene si asside ben visibile agli sguardi compiaciuti dei cortigiani, esibendo il suo ostentato diritto di occupare quell’unico punto da cui promana e verso cui converge la visione d’un mirabile immaginario. A Firenze, però, se da un lato la suprema autorità politica deve avere il suo “luogo” ben in vista allo spettacolo alto, dall’altro sceglie di farsene costruire uno che lo occulti in funzione dello spettacolo basso. Grazie alle vere e proprie macchine di assenza-presenza costituita dai vani con grata da cui – invisibile a tutti, ma per tutti presente (come il poter persistere a vivere, e come il dover sottostare alla morte) – il principe, talvolta assieme ai suoi satelliti più stretti, o assiste di persona al verificarsi di qualsiasi messinscena, per quanto malfamata e ‘diabolica’, da lui concessa al volgo, e ai riti religiosi che ribadiscono i più stretti vincoli tra il divino e l’umano, o comunque incombe fantasmaticamente: sulle esibizioni profane e sulle cerimonie sacre, ma – quel che più conta – anche sulla societas degli spettatori, e sulla comunitas dei buoni cattolici. Le due grate, quella che spia il teatro di Baldracca e quella che lascia intravvedere il rituale di Santa Felicita, sarebbero entrambe, secondo Zorzi, accomunate dall’identica funzione di schiudere all’occhio del principe due forme parallele di normalizzazione d’un rimosso: da un lato, le pulsioni elementari del sesso e della fame, ridotte a innocui giochi di maschere comiche; dall’altro, l’orrore della morte, esorcizzato in forma di attesa d’una vita eterna14. È molto probabile. Come potrebbe essere non im13   N. Sabbattini, Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri, De’ Paoli e Giovannelli, Ravenna 1638, p. 55. 14  “Come la Commedia dell’Arte, dietro lo schermo della sua convenzione e delle sue maschere, riduce il rimosso e il negato alla accettabilità della norma,

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probabile che l’accorgimento machiavellico del celarsi dietro una grata, nel caso della chiesa, dipenda anche in buona parte dall’infausto ricordo della messa domenicale del 26 aprile 1478, quando i Medici furono oggetto della Congiura dei Pazzi in un luogo più che sacro. E che, nel caso del teatro, dipenda ancora, in sia pur minima parte, da motivi di tutela della sicurezza del principe. In ogni caso, percorrendo il corridoio che lo conduce verso lo stanzino con grata sulla chiesa, il detentore del potere si trasfigura in una presenzialità invisibile che lo apparenta alla sacra onnipresenza del dio. Percorrendo lo stesso corridoio in direzione del vano che permette di spiare la dimensione dello spettacolo pubblico, tende ad assumere tutti i tratti caratteristici di una onnipotenza che tutto pervade: resa tanto più irresistibile quanto più risulta vanificata – dal dispositivo stanza-grata – ogni possibilità di individuarlo come obiettivo percepibile e tangibile d’una qualsiasi reazione che non risulti mera fantasticheria velleitaria. E siamo così davanti, tra l’altro, al primo profilarsi d’uno schema che si è di recente manifestato in forma ben più sofisticata e complessa. Le segrete camere della visione fatte costruire dal principe cinquecentesco sono l’archetipo artigianale della tanto fotograficamente divulgata cabina di controllo iper-tecnologica dove il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di Stato avrebbero seguito in diretta l’uccisione di Bin Laden: una performance che si pretende vera, ma di cui solo il potere avrebbe il privilegio di contemplare – in tutta sicurezza, entro la clausura assoluta di pareti impenetrabili – quell’autentico attuarsi che è destinato a rimanere invisibile per tutti. L’ultimo spettacolo che il potere decide di regalare ai suoi sudditi è l’immagine artificiata del potente che, mentre riduce ciò che si presume essere vero a suo esclusivo spettacolo, si arroga il privilegio di essere l’unico spettatore del vero (che sarebbe sempre, vedi caso, un sacrificio umano). Anche per i duchi toscani, in una qualche misura, spiare attraverso una grata la sala teatrale di Baldracca comporta come una sorta di partecipazione a comici riti sacrificali, se non cruenti, tali da investire la dignità degli individui. Guardando verso il pubcosì la pratica religiosa, con la scenicità iterativa delle sue funzioni e dei suoi riti, assimila alla consuetudine dell’attesa la radicale estraniazione dell’idea di morte” (Zorzi, Il teatro e la città cit., pp. 127-128).

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blico, il principe è in grado sia di assaporare la propria assoluta superiorità sul volgo sia di concedersi, ma senza compromettersi fisicamente, alle identiche basse sensazioni di piacere che gli spettatori provano alle commedie “infami”. Guardando verso la scena, può divertirsi – se ne sente voglia – sia ai virtuosismi sia alle buffonate dei comici, ma può anche provare brividi più lubrichi. Come quelli che nascono contemplando uomini e donne prostituirsi: costretti, per vivere, a rinnegare giocosamente il proprio io, per far vivere al suo posto quelle maschere grottesche e animalesche e quelle corporalità impersonali esibite senza pudore che eccitano, oltre al riso, le più vili pulsioni elementari del pubblico. Ma occorre poi ancora pensare che, se la presenza e il volto del principe, nel teatro di Baldracca, sono destinati a non svelarsi mai agli occhi vuoi degli attori vuoi degli spettatori, tanto gli uni quanto gli altri non possono non vedere la grata: non possono, cioè, non sentir incombere su di sé – come una spada di Damocle – il fantasma dello sguardo scrutatore del duca, indipendentemente dal fatto che egli sia presente o assente al proprio dispositivo segreto. A qualcosa del genere, forse, andava pensando Niccolò Barbieri mentre decideva di mettere in bocca ad un ipotetico principe-tipo del primo Seicento le seguenti parole: “quando si recita io so dov’è il popolo e cosa fa e ciò che può fare stando colà rinchiuso a solazzo”15. Se da un lato l’interesse di quanti detengono e amministrano il potere nei confronti dei professionisti della scena dipende in larga misura – oltre che da considerazioni economiche connesse alle fortune del mercato dello spettacolo – da motivazioni sociopolitiche simili a quelle appena enunciate, dall’altro la scelta fatta propria da molti principi di instaurare rapporti non limitati a mere funzioni di controllo sulle messinscene e sulle tournées degli attori professionisti finisce col declinarsi secondo varietà di motivazioni oscillanti tra impulsi psicologici più o meno torbidi, autentica ammirazione per un certo virtuosismo artistico, e calcolati progetti di gestione su talune mode teatrali. Ne deriva, a seconda dei tempi e dei luoghi, un ampio ventaglio di soluzioni che va dalla preveggente mossa mantovana di dar vita a una sor  Barbieri, La Supplica cit., p. 632.

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ta di ‘sovrintendenza’ statale su qualsiasi tipo di performance, al profilarsi d’una sorta di impresariato mecenatesco (come quello che porta l’atipico Don Giovanni de’ Medici a guidare le sorti della Compagnia dei Confidenti16) alle numerose varianti secentesche (anch’esse inaugurate dal potere di Mantova) del modello compagnia ducale, sino a quei regali Théâtres des Italiens che renderanno a lungo i comici nostrani preziosi oggetti da esposizione, e giocattoli privilegiati per il divertimento della monarchia e dell’alta aristocrazia parigina. Il tutto, sempre, da considerarsi all’interno d’un reticolo di fitte e continue inter-relazioni tra compagnie e autorità locali abbastanza simile – comprensibili oltranze di ottimismo apologetico a parte – a quello disegnato da Niccolò Barbieri quando intende sostenere che le commedie delle maschere e dell’improvvisazione non sarebbero tollerate ‘a occhi socchiusi’ per tacita convenienza, bensì accettate da tutti i poteri (talvolta con aperta benevolenza, più spesso con attenzione guardinga fondata su precisi calcoli): né meno i Superiori con noi chiudono gli occhi, ma stanno benissimo avvertiti, e le licenze del recitare escono dalla loro bocca e talvolta dalla loro penna; e molti imprestano i propri teatri e fanno publicar bandi ch’ognuno paghi senza far tumulto e che non si strepiti mentre si recita, e fanno pene a chi usa male parole o pon mano all’armi; e molti Principi pongono alla porta del teatro o tedeschi della loro guardia, o soldati delle porte, overo offizial di giustizia; sì che dico i Principi non chiudono gli occhi con noi, ma gli aprono benissimo, e con gli occhi ancor la borsa, poiché regalano le compagnie, e massimamente come sono eccellenti, e a lor fanno lettere di favore per altri Principi, ove che le licenze non sono fra’ denti promesse, ma spontaneamente concedute17.

2. Il prete. Tra porte chiuse e porte socchiuse Se la stanza con grata del teatro di Baldracca può essere ritenuta immagine simbolica del plesso psicologico e ideologico da cui

16   Su questo importante capitolo dell’Arte, che vede protagonista un Flaminio Scala, cfr. S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino 1993, pp. 143-199. 17  Barbieri, La Supplica cit., p. 625.

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prendono le mosse i comportamenti che il potere assume, tra Cinquecento e Seicento, nei confronti degli spettacoli pubblici offerti dagli attori professionisti, un’altra “camera” – non più di palazzo, bensì di “ostaria” – si trova al centro dell’episodio evocato da Niccolò Barbieri per simboleggiare quella che, secondo il sincero spirito devoto del grande comico, dovrebbe essere la soluzione ideale del lungo e duro confronto tra i nuovi mestieranti della scena e le autorità religiose: Si partì, dodici anni sono, una compagnia di comici da Napoli per andare in Sicilia e la fortuna li sequestrò per quattro giorni a Capo d’Orlando, ove non vi era da vivere. S’incontrò esservi in quel luogo monsignor illustrissimo in visita, il quale aveva seco quattro reverendi religiosi, e forse di quelli che talvolta esclamano contro le comedie; l’ostaria ad alto era tutta occupata per monsignore, onde i poveri comici non sapevano ove ricovrarsi. Il buon prelato, pieno di carità, [...] fece restringere la sua corte per dar commodità di camere a quelle povere creature; e, perché il tempo era strano e il mare tempestoso, il prelato era in ozio e i comici gli si offerirono di qualche comedia. Monsignore accettò l’offerta servitù fino che il mare sedato fosse, e cosi il primo giorno si recitò: monsignore si pose a sedere avanti una porta di camera a vedere e i padri si posero dietro, nella camera, con la porta socchiusa: non fu a mezzo la comedia che la porta era spalancata e la camera risonava dal mormorio dell’applauso. Il giorno seguente tutti i sudetti padri stettero fuori, vicino al prelato; il terzo giorno precorsero l’ora stabilita e sollecitavano i comici a cominciar tosto per non star in ozio18.

L’aneddoto di “Capo d’Orlando” si riferisce a un fatto confermato nei minimi dettagli da Ottonelli, il quale aggiunge di averlo sentito narrare – come sarebbe del resto successo anche a Barbieri – dal comico Dottor Violone, “testimonio di presenza” dell’accaduto19. Al di là della sua più che probabile veridicità, comunque, la sequenza di immagini che rievoca l’incontro tra la malfamata “comedia” e un gruppo di “reverendi” tutori del cattolicesimo   Ivi, p. 606.   G.D. Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro, in F. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma 1969, p. 345. 18 19

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controriformista compone un plot dove sembra inscriversi l’idea­ le figurazione emblematica della partita in atto tra spettacolo e Chiesa: dal fischio d’inizio, alla possibile conclusione. Un alto prelato sceglie di porsi come giudice, in bella evidenza, a fronte d’una scena improvvisata, per valutarne le forme effimere al metro della sua tanto autorevole quanto severa attenzione censoria. I restanti “padri” del suo seguito, quasi fossero emblemi perfetti del gregge cristiano su cui devono vegliare, sono rinchiusi in una stanza che comunica con il luogo dell’evento teatrale solo in virtù d’una “porta socchiusa”: viene impedito loro di essere investiti direttamente dal pieno esplicarsi della performance; possono averne sì vago sentore, ma come di un qualcosa cui fa da schermo pressoché impenetrabile la schiena del “monsignore illustrissimo”, seduto a guardia della ‘camera dei fedeli’. Il doppio ostacolo che così si frappone tra scena e pubblico cristiano intende essere barriera munitissima, eppure non impenetrabile: l’autorità clericale resta disponibile a esprimere un assenso, la fessura tra i battenti della porta potrebbe prima o poi aprirsi completamente. A differenza di quanto avviene, a non troppa distanza di tempo, nell’Inghilterra post-elisabettiana, dove l’integralismo intransigente dei puritani si spinge sino alla distruzione dei teatri, la savia “moderatione” controriformista si dichiarerebbe così disposta a valutare con discernimento (e non a dannare aprioristicamente) il mondo dello spettacolo. Come dovrebbe essere ovvio, l’edificante sviluppo della vicenda di Capo d’Orlando – con il conclusivo, trionfale schiudersi a pieno della porta vigilata dal monsignore – risponde innanzitutto ad un auspicio vivissimo che sorregge attività e pensiero di Barbieri. Ma cor-risponde, ancora, abbastanza da vicino, alle reali motivazioni strategiche sottintese alla ostentata virulenza tattica messa in opera per quasi un secolo, tra Cinque e Seicento, dagli uomini di Chiesa contro i teatri. Secondo quanto osserva un passo della Supplica, a leggere la sterminata nebulosa di “libretti” stampati da religiosi nel corso della diatriba, si dovrebbe credere che i comici siano tutti “maghi, idolatri o ateisti”20. In realtà, l’eccesso della denunzia finirà col rivelarsi mera maschera di una ben più   Barbieri, La Supplica cit., p. 634.

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cauta opzione di fondo, abbastanza simile a quella che proprio il gesuita Ottonelli formula per commentare l’aneddoto tanto caro a Barbieri. In quella vicenda e nella sua conclusione, fu lodata un’azzione degna di lode, cioè la comedia modesta, allettativa col saporetto del modesto ridicolo et instruttiva con la vivanda della fruttuosa moralità. E se i comedianti osceni procedessero con questo accorgimento nel recitare, non sarebbero biasimati da’ zelanti predicatori e scrittori; i quali [...] quando riprendono, non hanno nell’idea una chimera che mostri loro la comedia per cosa impudica et i comici per indiscreti; ma vi hanno il bruttissimo oggetto dell’oscenità et i bruttissimi ridicoli co’ quali molti comedianti pur troppo indiscreti vituperano il teatro21.

Insomma, per teologi e predicatori, non si tratta di seguire chimere trionfalistiche o di mandare al rogo senza discernimento qualsiasi forma di teatro. Ciò che si vuole davvero è costringere in una posizione di marginalità assoluta i “molti comedianti” osceni e indiscreti, per favorire – se possibile – l’affermarsi di una forma di spettacolo “modesta, allettativa col saporetto del modesto ridicolo et instruttiva con la vivanda della fruttuosa moralità”. Non possiamo sapere con certezza se Carlo Borromeo, quando – nel 1583 – denunciava i limiti delle censure istituzionalizzate dal Concilio Tridentino, intendesse davvero bandire una crociata contro gli spettacoli intesa a “sterminarli con l’aiuto di Dio”22. È invece del tutto chiaro che gli epigoni del santo, per buona parte del secolo successivo, abbiano scelto la via di una accorta e ben orchestrata azione di contenimento (dai toni durissimi, però basata sull’impiego di armi non letali) nei confronti dei professionisti della scena. Propaganda e pubblicistica, dunque, prendono il posto di più o meno fantasmatici roghi. Ma resta pur sempre importante considerare con attenzione quali congegni di lotta ideologica vengano privilegiati rispetto ai veri e propri ordigni di guerra.   Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., pp. 345-346.   Parrebbe di no, se pensiamo al celebre aneddoto (riferito da Barbieri: cfr. La Supplica cit., pp. 648-650) di un san Carlo che avrebbe permesso a Milano gli spettacoli di una compagnia la quale aveva accettato di sottoporre i suoi canovacci alla censura dell’alto prelato. 21 22

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Lungo questa linea, allora, occorrerà notare come tutti i religiosi che s’impegnano nella polemica contro “la comedia impudica” scelgano invariabilmente di proiettare sulle realtà raccolte sotto questa formula gli spettri orrorifici di due sole immagini forti. La prima è quella della prostituta, che trova – stando alle esecrazioni degli ecclesiastici – le sue ideali premesse giustificative sia nell’esibizione del nudo femminile sia nella messinscena di parvenze e di posture allusive alla copula sessuale: Noi leggiamo certo in Plauto e in Terenzio molte di quelle commedie che in quei tempi si recitavano, ma in qual d’esse s’udì mai [...] che sopra un palco si conducessero un uomo e una donna rinvolti in un lenzuolo? Chi ardì mai fra gl’antichi far comparire in scena un’Europa tutta ignuda? Quando si sopportò mai anticamente che una donna uscisse sul palco e sotto le sue vesti tenesse nascosto un uomo? E pur tutte queste indignità si son viste gl’anni addietro su le scene in Firenze. [...] Che atti potevano mai rappresentare gl’antichi tanto osceni che non sieno superati da quelli che l’anno passato si son fatti ne i balli che essi subito dopo le commedie han fatti?

Ferruccio Marotti, prendendo lo spunto da questo passo, giustamente postilla: “Anche lo strip tease, con buona pace dei moralisti antichi e recenti, rientra tra le ‘inventioni’ del ‘recitar soggetti all’improvviso’, facendo anch’esso parte di quell’adattabilità dello spettacolo al piacere del pubblico di ogni sera: logica conseguenza dell’invenzione del teatro come merce”23. Ed è proprio una radicale riduzione della donna a mera merce da esibire 23   F. Marotti, Premessa a Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. xlvi: “dobbiamo [...] dar fede allo scritto fiorentino in cui si parla di scene d’amore con donne nude sotto al lenzuolo [...]. Ma questo è proprio del carattere dell’improvvisa, della sua capacità di variare ed adattarsi alle singole situazioni: la sua specialità è il non specializzarsi, si potrebbe dire; un esempio probante, perché di alto livello, è quello della Pazzia d’Isabella: un soggetto, quello della pazzia, che costituiva il cavallo di battaglia per tutte le grandi attrici. Quando fu recitata dinnanzi alla corte dei Medici nel 1589, Isabella Andreini se ne valse per fare le imitazioni, nella follia, di tutti i suoi compagni d’arte; ma il soggetto di identico titolo e trama diversa, che Flaminio Scala pubblica nel 1611 nel nome di Isabella e con l’avallo di Francesco Andreini, ci mostra un’Isabella che all’oscenità verbale aggiunge l’audace provocazione erotica dello strapparsi le vesti in scena, mostrandosi seminuda in pubblico”.

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sulla scena il fenomeno che i polemisti cattolici individuano quale fulcro diabolico di un fare teatro finalizzato solo a trasformare il comico in lenone, e l’attrice in prostituta. Il tutto a partire sia dalle modalità di rapporto che gli attori intrattengono con le autorità preposte ad autorizzarne le tournées sia dalle forme di imbonimento attraverso le quali essi s’ingegnano di attirare il pubblico alle loro performances, le quali tutte – nella prospettiva d’un Ottonelli – risultano ancora più sfrontate delle consuetudini cui devono adattarsi le meretrici: se parliamo delle comedie oscene e de’ comici disonesti [...], io dico che questi non si possono permettere, perché fanno peggio che le meretrici, le quali non dimandano né ottengono licenza in iscritto di peccare [...]. Né le meretrici, radunate in un luogo publico, mandano per la città un tamburino [...] che inviti il popolo ad andar a peccare con loro; perché questo non si permetterebbe. Né le meretrici fanno attaccare nelle piazze publiche e ne’ publici canti delle strade un cartello d’invito alla fornicazione; perché si stimerebbe cosa vituperosa. E pure i comedianti osceni fanno cose tali; adunque fanno peggio che le meretrici24.

Ma anche i preliminari di ogni messinscena, a parere di Francesco Maria Del Monaco, rimanderebbero senza ombra di dubbio a processi tipici del mercimonio sessuale, operando quella metamorfosi della donna in artificiata fonte di seduzione che si attua percorrendo passo dopo passo le tappe della scelta del giusto phisique du rôle, della costumistica, del trucco, della phonè e delle più fascinose impostazioni gestuali del corpo femminile: Gli istrioni, poiché fanno tutto per danaro [...], non tralasciano nulla per timore di Dio, purché porti un guadagno. Perciò vanno alla ricerca delle donne più belle, le ricoprono di belle vesti, le dipingono con belletto di antimonio e di rosso carico, congegnano le loro parole per dare una sensazione di mollezza, i loro gesti per produrre lascivia, i cenni per renderle impudenti, le danze e i balli per dare l’impressione della lussuria, senza parole; e tutto questo perché sanno che la folla incauta si lascia affascinare da tali espedienti. Infatti conoscono ogni modo adatto a far danaro e non ne trascurano nessuno pur di allettare   Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., p. 442.

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gli adolescenti, di adescare gli adulti, di compiacere le donne, di rendere fiacchi i giovani e pazzi i vecchi25.

A considerare le cose da una simile ottica, non potrà certo stupire il fatto che l’autore di In actores et spectatores comoediarum nostri temporis paraenesis finisca col sostituire regolarmente al termine attrici quello di “sgualdrinelle”. Quanto agli spettacoli veri e propri, non saranno solo isolate schegge di numeri degni d’un moderno strip tease a suggerire immagini di lupanare. È, in verità, l’intera componente erotica delle loro trame ad essere considerata – per i suoi contenuti tematici, e per gli esiti stilistici che la distinguono di norma – una “finzione” propedeutica a scatenare, nel pubblico, la trasfigurazione reale della moglie-spettatrice in aspirante prostituta: i comici molte volte propongono al popolo vituperosi ruffianesimi ed innamoramenti di persone favellanti con parole tanto affettuose et ardenti, che accenderebbero un cuore nel mezzo delle nevi [...]. Questa finzione è una disposizione al distruggimento della castità, questa spiana la strada al meretricio, con questa [...] si fanno le donne prima meretrici che consorti26.

Insomma, anche per il moderato Ottonelli, ogni minima componente degli spettacoli “osceni” prodotti dai comici professionisti – dalla pubblicità che li precede, al dispiegarsi effimero di qualsiasi messinscena – tende a comporre solo l’immagine della triade lenone-meretrice-postribolo. Diventa allora inevitabile, nella trattatistica religiosa del Seicento, l’esito che porta a istituire il più esplicito confronto tra quel trinomio maledetto e il trinomio attore-attrice-teatro. Non si tratta, però, di farne scaturire un’equazione, ma di mettere in risalto – talvolta articolandola secondo le migliori abitudini della casistica – l’assoluta negatività della finzione rappresentativa rispetto al reale consistere di quel mercimonio sessuale che la Chiesa considera male relativo: 25   F.M. Del Monaco, In actores et spectatores comoediarum nostri temporis paraenesis (1621), trad. it. in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. 210. 26  Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., pp. 397-398.

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Aggiungo. Le meretrici si permettono per levar l’occasione di adulterii e di peccati più gravi; [...] la Chiesa tolera il peccato d’andar alle meretrici, per evitar un mal maggiore, ad evitandum maius malum, nondimeno non approva quel peccato, ma dissimulando il tolera accioché moderi così gli adulterii, gl’incesti, et altre sorti di bruttissimi peccati. [...] Leva le meretrici dal mondo, e tutto sarà pieno di peccati abominandi. Ma le comedie oscene, se levano ad alcuni l’occasione di un poco di ozio che forse sarebbe solo peccato veniale, danno a moltissimi occasione [...] di rovinarsi per sempre con il fallimento delle ricchezze spirituali delle virtù e del tesoro della grazia. Aggiungo. Come le meretrici si permettono in molti luoghi, ma con una certa moderazione; così le comedie profane, e mercenarie possonsi permettere, ma con la moderazione dagli eccessi, massimamente osceni27.

Al termine della sua ideale parabola, l’immagine della prostituta (trionfante al centro della diade mezzano-lupanare) dovrebbe restare sospesa per sempre davanti alla scena di tutte le performances dei professionisti. Come uno specchio, calato per riflettere l’autentico operare demoniaco che si cela dietro la finzione teatrale: “Fa’ il mezzano, istrione; prostituisciti, fanciulla, non fingerlo soltanto; sii il lupanare che imiti, o Teatro, perché allora [...] nessuno verrà da te ad imparare cose da mettere in pratica subito dopo”28. O come un congegno capace di proiettare sui responsabili degli spettacoli una duplice figurazione – da un lato terroristica, dall’altro ammiccante – dell’eros mercificato: la Grande Meretrice di apocalittica memoria, che altro non merita se non essere cancellata dalla terra; la banale sgualdrinella comune, che può essere tollerata (qualora non pretenda di imporre la sua presenza a colpi di “eccessi”). Ma, accanto a questa icona femminile del male, un’altra – maschile – traspare in controluce da tutti i libelli secenteschi che si propongono di esecrare e di “moderare” le rappresentazioni: quella del negromante. Non esiste religioso che, riferendosi alle tecniche e alle trovate sceniche più cattivanti o di maggior effetto, non ricorra – tra sensi di aperta deprecazione e di ammirata mera-

  Ibidem.   Del Monaco, In actores et spectatores comoediarum nostri temporis paraenesis cit., p. 207. 27 28

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viglia – a vocaboli (“malia”, “fascino”, ecc.) i quali rimandano, ora metaforicamente ora direttamente, ad un operare magico. Paolo Segneri, nelle pagine dedicate ai teatri del Cristiano istruito nella sua legge, esplicita nelle forme più chiare il vero termine di riferimento cui allude una simile scelta terminologica. E lo fa a partire dalle premesse del suo scritto: concedansi quei teatri [...] che, col porre i vizi in piacevole derisione, hanno per fine esiliarli da i cuori nobili. Quel che io condanno sono quei palchi sfacciati, i quali, agguisa di tante navi incendiarie, non di altro sono carichi che di pece, di bitume, di solfo tolto dal lago tartareo. A parlar chiaro, condanno quelle commedie che, o di loro natura o per accidente, muovono chi le ascolta a mal fare. [...] Questa qualità di opere, pur troppo comuni a’ teatri moderni [...], prendo io a ferire nell’odierno ragionamento, pronunciando che esse riescano una malia tremendissima, in virtù di cui gli uditori rimangono bruttamente maleficiati, cioè posseduti nell’anima da uno spirito maledetto d’inferno con forza strana29.

Le “commedie oscene” degli attori professionisti vanno svelate e denunciate in quanto autentici rituali di “malia tremendissima”, concepiti ed eseguiti al fine di ottenere uno scopo ben preciso: gettare sugli spettatori quell’orrido “maleficio” che li rende “posseduti nell’anima da uno spirito maledetto”. Nelle intenzioni di Segneri, e nella temperie cultural-religiosa del 168630, si tratta di parole che non vanno prese alla leggera né considerate frutto di innocenti giochi retorici intorno alle similitudini31. Tant’è vero 29   P. Segneri, Il Cristiano istruito nella sua legge, in Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro cit., p. 290. 30   Segnata, appunto, anche dal grande successo del libro di Segneri da cui andiamo citando, che – tra il 1686 e il 1719 – conobbe ben tredici edizioni. 31   Non va dimenticato che gli attori di cui stiamo parlando vivono un secolo su cui estende la sua ombra la temperie politico-culturale inauguratasi poco dopo il contratto notarile della prima “fraternal compagnia” a noi nota, quando “Il clima si era fatto sempre meno favorevole alle speranze di alcune élite ecclesiastiche di risolvere i conflitti riformando dall’interno le antiche istituzioni; in cambio, si faceva sempre più impaziente il richiamo all’urgenza di reprimere e di punire. Bisognava imporre ‘una severissima inquisitione contra questi tristi lutherani’, scriveva il vescovo Alvise Lippomano il 16 novembre 1547. Due anni dopo, il Cardinal legato Del Monte riferiva a un membro della Congregazione dell’Inquisizione che il nuovo inquisitore fra Girolamo Muzzarelli aveva trovato

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che il discorso dell’illustre gesuita prosegue ricalcando puntigliosamente le consuetudini categoriali di ogni opera contemporanea sulla magia che pretenda a livelli di incontestabile autorità: “A tre capi si riduce ogni specie di malefizio: a malefizio amatorio, a malefizio ostile, e a malefizio sonnifero. Tali sono le tre teste rabbiose di questo cerbero”32. In particolare, come risulta dalle annotazioni a margine che costellano il testo, il punto di riferimento metodologico e la fonte di esempi cui guarda con più attenzione Paolo Segneri è costituita dai Disquisitionum magicarum libri sex (1593) di Martin Delrio, che appunto tratta degli incantesimi suddividendoli nei tre generi appena specificati. Come il teologo fiammingo di ascendenza spagnola fa nei confronti di chiunque pratichi la magia nera, così l’autore italiano considera i mestieranti dello spettacolo diabolici operatori di riti negromantici, il cui fine sarebbe quello di porre il loro pubblico in balia di tre “spiriti maledetti”: la concupiscenza che distrugge la modestia; la morte che danna l’anima; il sonno che cancella la vigile presenza a Dio del buon cristiano. Ne deriva una vera e propria teatrologia ‘stregonesca’ dove, al linguaggio scenico, subentra il gergo tecnico degli incantesimi: “affatturare”, “malia”, “sacrileghi incanti”, “arte sacrilega”, “fattucchieria”, ecc. Il tutto per ridisegnare in luce affatto “tartarea” e “sulfurea” l’intero complesso dei fenomeni scenici: i motti osceni, le risa sgangherate, i racconti sozzi, le donne audaci che compariscono in palco: i ghigni, i gesti, le operazioni nefande che rappresentano: [...] in una parola, [...] que’ teatri, dove non altro s’insegna che stimar la vita presente, sprezzar la futura, farsi le beffe delle minacce divine, e poco meno che ridersi dell’inferno come di un sogno!33

Nella visione dischiusa dalle parole di Segneri, insomma, l’intero mondo dello spettacolo – a parte qualche suo settore minoritario o morigerato o edificante – altro non è se non il compiuto a Bologna una ‘grande intrecciatura di eresie’. La nomina del Muzzarelli fu un atto ufficiale della nuova Congregazione romana dell’Inquisizione. Era l’inizio di un nuovo ordine, nel quale non c’era più posto per eretici e sospetti” (A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 136-137). 32  Segneri, Il Cristiano istruito nella sua legge cit., p. 290. 33  Ivi, p. 300.

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esplicitarsi delle arti fascinatorie di veri e propri “maghi della fantasia”, già di norma dannati (dalle autorità civili e religiose) a una marginalità infamante, ma non per questo meno esiziali: Non è un incantesimo? Non è un fascino? Non è una fattucchieria? E poi chi sono costoro da cui vi lasciate così stravvolgere? Quali sono, dirò così, quali sono que’ maghi che vi hanno ammaliata la fantasia? [...] Sono ciurma di gente vile che voi stessi tenete per infami e per infami sono tenuti dalle leggi imperiali che lungamente seguirono ad esiliarli dalle città, e per infami si può dire che sian tenuti molto più dalla Chiesa, la quale esclude gl’istrioni e gl’inabilita a tutti gli ordini sagri34.

E tuttavia, di questa “ciurma vile” – che ha raccolto l’eredità delle prime fraternali compagnie, e che va smascherata in quanto opera, come gli stregoni, immergendo “le persone in un alto sonno” per poter “eseguire senza disturbo” qualunque “scelleratezza” le sia venuta in mente – occorrerebbe poi saper individuare e valutare bene un’ulteriore maschera. Secondo Segneri, infatti, tanto i maghi quanto gli attori altri non sarebbero se non gli ultimi “meri seguaci del gentilesimo, vivo ancora in più di un abuso”, “residui della gentilità” nemica di Cristo. Come le streghe, così gli attori-negromanti sono i tardi epigoni di un paganesimo votato all’idolatria dell’immaginario. Noi diremmo: antichi sacerdoti o sciamani ormai decaduti (nella tanto acuta quanto partigiana visione del grande scrittore gesuita) a demoniaci manipolatori di vive figurazioni artificiate, in grado di sommuovere potentemente l’interiorità di quanti assistono alle loro performances. A buon diritto, dunque, dopo aver constatato che tanti “libelli” cattolici del primo Seicento trattano gli attori come se “fossero maghi, idolatri o ateisti”, Niccolò Barbieri esclamava: “Io non vorrei che questi autori di libretti confondessero [...] l’arte comica con l’arte magica”35. Ma la con-fusione tra uomini di spettacolo e demoniaci manipolatori di incantesimi, in quei tempi, non era soltanto diversione tattica abituale nelle mani di pubblicisti e teologi ostili al teatro. E proprio il grande attore vercellese lo sapeva 34   Ivi, p. 308. Le successive citazioni da Segneri, rispettivamene a pp. 201, 30, e ibidem. 35  Barbieri, La Supplica cit., p. 635.

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bene, per averlo sperimentato di persona addirittura sin dal suo poco onorevole apprendistato ciarlatanesco: Partendomi da Vercelli, mia patria, l’anno 1596, mi accompagnai con un mont’in banco sopranominato il Monferino, e, passando per Augusta, o sia Avosta, città del Serenissimo di Savoia, questo Monferino chiese licenza di montar in banco al Superiore; ma perché non era in uso il montar in banco in quei paesi, il Superiore non sapea come deliberarne. Però quello mandò da un Superiore spirituale, il quale negò la licenza colericamente, dicendo che non voleva ammettere le negromanzie in quei paesi. Il Monferino, stupefatto, gli disse (come era vero) che non sapeva manco leggere nonché saper far negromanzie; il Superiore gl’impose che non altercasse con parole, ch’egli ben sapeva come si fa, e che in Italia aveva veduto ciarlatani prender una picciola pallotta in una mano e farla passar nell’altra, [...] tener il fuoco, involto nella stoppa, buona pezza in bocca e farlo uscir in tante faville, passarsi con un coltello un braccio e sanarsi per incantesimi subito ed altre cose del Demonio: e non voleva che il Monferino parlasse, e da sé scacciollo minacciandolo di carcere. Ora dicami adunque alcuno: chi avrebbe potuto mai persuader quel buon Superiore a credere che quelle cose, stimate da lui magie, fossero destrezze di mano, e delle minime ancora che i giocolatori facciano?36

Almeno nella ‘provincia’ della penisola italica, tra Cinque e Seicento, l’intero repertorio di numeri di illusionismo tipici dei giocolieri da piazza può essere rubricato senza possibilità di dubbio o di contestazione – da un religioso che eserciti un qualche potere sul posto – nei cataloghi degli strumenti cari alla necromanzia. Qui si tratta, com’è evidente, solo di piccole performances ciarlatanesche. Ma anche i comici professionisti, in qualche modo ritenuti sempre contigui per origine all’anti-mondo dei cerretani e dei ciarlatani, sembrano essere accompagnati “in molti luoghi d’Italia” (e non solo a causa di preti creduloni, ma soprattutto per diffusa credenza popolare) da una fama che li assimila tout court a “stregoni” dotati di incredibili poteri: Il sentir nominar istrioni, non sapendo l’etimologia d’istrio né la derivazione, vi è chi pensa che si dica per istrioni stregoni, cioè incan-

  Ivi, pp. 679-680.

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tatori ed uomini del Demonio; e perciò vi sono paesi in molti luoghi d’Italia che tengono per fermo che i comici facciano piovere e tempestare [...]. Or, addimando io a coloro che pensano esser vero che i comici facciano piovere, ove fondano la ragione? [...] Forse credono che questi abbiano arbitrio o potestà sopra gli ordini di natura? Questa sarebbe troppa scioccheria. Chi sono adunque costoro da far piovere? Sarebbono mai, per ventura, così male persone che movessero ad ira il cielo e che perciò piovesse? [...] E se non sono tali, che deono esser mai? Negromanti, maghi, incantatori? Se sono maghi, sono maghi molto magri, poiché non sanno trovar tanti soldi da vivere senza andar tapinando per lo mondo37.

Non negromanti, bensì operatori magici in grado di scegliere tra il versante bianco (far “piovere”) e il versante nero (far “tempestare”) della loro arte, i nuovi attori professionisti sarebbero stati accolti in non pochi contesti culturali come eredi d’un perduto sciamanesimo, che occorreva propiziarsi a tutti i costi per costringerli ad elargire doni salvifici. In perfetto ossequio alle finalità della sua Supplica, che intende controbattere punto per punto sul piano dialettico le infamanti accuse dei religiosi, Barbieri liquida simili credenze folkloriche come ridicole fantasie, degne solo di lapidari commenti ironici. Non si dovrebbe però dimenticare che, se è certo che tutti i comici furono talora complessivamente valutati alla stregua di “maghi, idolatri o ateisti”, è altrettanto indubbio che un certo numero di attori – taluni molto celebrati – abbiano giocato spesso e volentieri, nel loro agire artistico, con motivi in varia misura riconducibili ad ambiti di magia, ‘idolatria’ e ateismo. Ad esempio, quando Paolo Segneri accusa l’intero loro teatro di essere quel luogo maledetto dove “non altro s’insegna che stimar la vita presente, sprezzar la futura, farsi le beffe delle minacce divine, e poco meno che ridersi dell’inferno come di un sogno!”, è molto difficile non pensare che lo scrittore gesuita abbia in mente un ben preciso tipo di fabula scenica. Quella cui si ispirarono i numerosissimi canovacci secenteschi derivati dal mito di Don Giovanni, e che – ancora nel Settecento – induceva Goldoni a scrivere:   Ivi, pp. 638-639.

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Non si è veduto mai sulle Scene una continuazione d’applauso popolare per tanti anni ad una scenica Rappresentazione, come a questa, lo che faceva gli stessi Comici meravigliare, a segno che alcuni di essi, o per semplicità, o per impostura, solevano dire, che un patto tacito col Demonio manteneva il concorso a codesta sciocca Commedia38.

Né si potrà dimenticare che furono gli attori professionisti italiani, come notato da Giovanni Macchia, a introdurre il motivo dell’ateismo nella leggenda del Burlador de Sevilla39. O che il grande tema della discesa agli inferi risulta centrale in quella scherzosa guerra di opuscoli satirici entro la quale vanno collocati – tra 1570 e 1585 – sia il parigino ritorno in auge dell’antico demone Arlequin sia le prime testimonianze intorno all’assunzione della maschera arlecchinesca da parte di un comico italiano40. Del resto, “appartiene” addirittura “al più collaudato repertorio degli attori comici [...] italiani del primo Cinquecento la rappresentazione del viaggio nell’aldilà”41. E le “ossessioni e superstizioni”42 della magia nera si accampano al centro dell’immaginario che artisti teatrali del calibro di Bartolomeo Rossi e di Drusiano e Tristano Martinelli portano sulle scene parigine attorno al 1585. Secondo molti studiosi moderni, proprio nelle fenomenologie dello sciamanesimo (che avrebbe, vedi caso, tra i suoi tratti distintivi la trance mimetico-affabulatrice del viaggio nell’aldilà, l’esercizio di poteri magici sia positivi sia nefasti, l’impiego di maschere, strumenti musicali e costumi simbolici, ecc.) andrebbero rintracciati i primordiali fattori-chiave del fare spettacolo e dell’attorialità43. Secondo l’ottica del Cristiano istruito nella sua legge, l’impero 38   C. Goldoni, L’autore a chi legge, in Don Giovanni Tenorio, a cura di C.A. Petruzzi, Damocle Edizioni, Venezia 2012, p. 23. 39   Come testimonierebbe il canovaccio L’ateista fulminato della raccolta Casanatense (cfr. G. Macchia, Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Laterza, Bari 1966, pp. 133-147). 40   D. Gambelli, Arlecchino a Parigi, I: Dall’inferno alla corte del Re Sole, Bulzoni, Roma 1993, pp. 157-174. 41   S. Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 73. 42   Ivi, p. 74. 43  Già Mircea Eliade, a conclusione della sua opera capitale sullo sciamanesimo, aveva scritto: “Bisogna anche dire qualcosa del carattere drammatico

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dello spettacolo instaurato dai comici-stregoni assume i contorni d’un diabolico ritorno del rimosso, che vede Satana riproporre in versione moderna un’antica guerra tra Immaginario idolatrico reso presenza sensibile e invisibile Vero divino divenuto carne sofferente. Stando a quest’ultima prospettiva, risulta necessario dimostrare che, dietro le performances degli attori professionisti, stanno celati gli archetipi della prostituta e dello stregone, in quanto ognuna di esse porta in scena l’osceno. Prepara, cioè, l’avvento del regno apocalittico emblematizzato dal fascino della Grande Meretrice e dall’ipnotica magia dell’Anticristo. Non a caso, il conclusivo monito ai cristiani formulato da Paolo Segneri, parafrasando Tertulliano, collega e pone in corto circuito commedie contemporanee e Giudizio Universale: Mirate che siete possessori della verità cristiana, che già avete piegato il collo alle sue leggi e che però siete tenuti ad obbedirle di modo che non v’è permesso di esserle mai ribelli. Ma qual segno maggiore di ribellione che andare al campo ove mantengonsi ancora vivi i residui della gentilità sua nimica? [...] Mancano forse a un Cristiano spettacoli da ammirare nella sua fede? Vaglia per tutti quel del giudizio finale [...]. O quanto campo avrete in esso da spendere l’ore sane nel contemplarlo! oh che comparse di personaggi diversi! oh che variazioni di scena!44

della seduta sciamanica. [...] Ogni seduta veramente sciamanica finisce per diventare uno spettacolo senza uguali nel mondo dell’esperienza quotidiana. I giuochi col fuoco, [...] l’esibizione di prodezze magiche svelano un altro mondo, il mondo favoloso degli dèi e dei maghi, il mondo in cui tutto sembra possibile, in cui i morti tornano alla vita e i vivi muoiono per poi resuscitare, in cui si può istantaneamente sparire e riapparire [...]. Qual bel libro si potrebbe scrivere sulle ‘fonti’ estatiche della poesia epica e del lirismo, sulla preistoria dello spettacolo drammatico e, in generale, sul mondo favoloso scoperto, esplorato e descritto dagli antichi sciamani...” (M. Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 540-541). Dopo l’auspicio di Eliade, lo studio dei rapporti tra sciamanesimo e origini dello spettacolo è stato coltivato soprattutto nell’ambito del teatro tibetano (cfr. A. Attisani, Fiabe teatrali del Tibet, Titivillus, Firenze 1996, pp. 169-174; A. Attisani, A ce lha mo. Studio sulle forme della teatralità tibetana, Olschki, Firenze 2001, pp. 122-138), e di quello giapponese (cfr. B. Ortolani, Il teatro giapponese. Dal rituale sciamanico alla scena contemporanea, a cura di M.P. D’Orazi, Bulzoni, Roma 1998). 44  Segneri, Il Cristiano istruito nella sua legge cit., p. 309.

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Al di là dell’escatologia e dell’intransigenza tipiche d’un discorso teologico, la teoresi sugli spettacoli proposta dal Cristiano istruito nella sua legge individua comunque nel panorama socioculturale inaugurato dalle fraternali compagnie il profilarsi d’una civiltà dove l’accorta manipolazione di immagini artificiate e animate, qualunque modalità tecnica possa seguire, usurperà – oltre al potere fascinatorio del corpo femminile opportunamente mercificato – i ritualismi evocativi tipici vuoi dello sciamanesimo arcaico vuoi della magia. E, nel farlo, desacralizzando compiutamente l’esistere, contribuirà a quel ‘tradimento’ finale del cristianesimo, che può essere definito, se vogliamo usare termini secenteschi, trionfo di Satana, oppure, se preferiamo un linguaggio post-nietzschiano, morte di dio. Come dovrebbe essere ovvio, peraltro, nessun defensor fidei del cattolicesimo post-tridentino (neppure Segneri) crede davvero che gli attori professionisti siano incarnazione moderna o della Grande Meretrice o dell’Anticristo. Ritiene, piuttosto, che possano figurare tra i loro potenziali annunciatori, come lo fu Giovanni Battista per il Messia. Perciò la Chiesa adotterà in concreto, contro tutti coloro che praticano il mestiere del teatro, provvedimenti quantomai severi: Nessuno è soggetto a scomunica se non è prima caduto nelle reti del peccato mortale; la scomunica non lega nessuno che non sia legato da colpa mortale. Ma i Pontefici, colpiscono gli attori comici con la pena della scomunica, perché evidentemente ritengono gli istrioni colpevoli di peccato mortale45.

Ma questi provvedimenti, pur impartendo scomunica automatica a chi entrava nell’arte e pur comportando conseguenze certo pesantissime per chi vi persisteva (come l’esclusione dai sacramenti, e il divieto della sepoltura in terra consacrata), potrebbe essere definita un’arma di dissuasione più che un ordigno letale: se l’attore rinunzia alla sua professione – anche solo in punto di morte – la sentenza che l’ha condannato si dissolve...

45  Del Monaco, In actores et spectatores comoediarum nostri temporis parae­ nesis cit., p. 210.

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3. L’intellettuale: riflessi fascinosi d’uno specchio sparso di impurità Mentre l’atteggiamento degli uomini di Chiesa nei confronti dei comici si attesta sempre, pur con diverse sfumature di intransigenza, sulla linea di una ferma polemica contro l’osceno, le posizioni assunte dagli intellettuali e dagli artisti – come è facile desumere da molte testimonianze sin qui citate – svariano tra il più altezzoso disprezzo e diverse gradazioni di ammirata sorpresa. Già nel Cinquecento, letterati e teorici come Giovan Battista Guarini e Niccolò Rossi liquidano la nuova dimensione dello spettacolo tacciandola di essere solo il prodotto degenere di “gente sordida e mercenaria”. Mentre un Anton Francesco Grazzini o un Tommaso Garzoni, che peraltro sono attenti a denunciare le scurrilità degli istrioni giudicati “asini incivili”, si mostrano del tutto disponibili a riconoscere e a celebrare l’inedito virtuosismo scenico di attori e attrici delle fraternali compagnie e delle prime troupe accademiche. Soprattutto sulle attrici (ora per comprensibili motivi connessi al fascino che le loro parvenze sanno esercitare, ora con slanci di disinteressato apprezzamento artistico) sembra accentrarsi, tra Cinque e Seicento, l’interesse dei massimi scrittori italiani. Torquato Tasso, che aveva voluto affidare ai Gelosi l’onore e l’onere della prima rappresentazione di Aminta, dedica versi di questo tono a Isabella Andreini: Quando v’ordiva il prezioso velo l’alma natura e le mortali spoglie, il bel cogliea, si come fior si coglie, togliendo gemme in terra e lumi in cielo, e spargea fresche rose in vivo gelo che l’aura e ’l sol mai non disperde o scioglie, e quanti odori l’Oriente accoglie46.

Da parte sua, Giovan Battista Marino compone un elegantissimo sonetto per onorare la morte della grande attrice, avvenuta a Lione nel 1604:

  In I. Andreini, Lettere, Combi, Venezia 1620, p. 6r.

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Piangete orbi teatri, in van s’attende più la vostra tra voi bella sirena, ella orecchio mortal, vista terrena sdegna, e colà donde pria scese ascende. Quivi, Accesa d’amor, d’amor accende l’eterno amante, e ne l’empirea scena che d’angelici lumi è tutta piena dolce canta, arde dolce e dolce splende. Splendono or qui le vostre faci intanto, pompa alle belle esequie, e non più liete voci esprima di festa il vostro canto. Piangete voi, voi che pietosi avete al suo tragico stil più volte pianto: il suo tragico caso orbi piangete47.

In ogni caso, il vario declinarsi di simili atteggiamenti (ora sprezzanti ora benevoli) lungo l’intero arco di sviluppo del nuovo mondo dello spettacolo segnala l’ampiezza delle diversificazioni possibili tra le risposte che i singoli membri di un’élite culturale avvezza a considerare, più o meno legittimamente, autentiche opere d’arte solo i prodotti di un esercizio intellettuale disinteressato vengono portati ad assumere davanti all’inaudito fenomeno di parvenus capaci, sì, di creare teatro, ma anteponendo a tutto il loro interesse venale. In questo quadro, va peraltro notata la singolarità di un ampio e duraturo fenomeno, tanto significativo quanto di per sé eloquente: l’instaurarsi e il consolidarsi di una modalità di performance che imita puntualmente tecniche e forme di quelle realizzate dagli attori professionisti, ma lo fa per puro diletto, senza fini di lucro. È una soluzione che, per quanto possiamo saperne, sembra prendere le mosse affiorando dalle ondate migratorie che portano gli attori italiani in varie contrade europee – e, più in particolare, dalle loro prime visite in Baviera. Come abbiamo già accennato nel capitolo iniziale, in occasione delle nozze del duca Guglielmo con Renata di Lorena, il musicista Orlando di Lasso e Massimo Troiano, per soddisfare una richiesta dell’illustre sposo, allestirono in tutta fretta una “commedia all’improvviso all’italiana”, di cui rimane traccia particolareggiata

  Ivi, p. 6v.

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– in forma di dialogo tra le personae fictae di Fortunio e Marino – nei Discorsi delli Trionfi: marino  Arria a caro sapere il nome di tutti li recitanti. fortunio  L’eccellente messere Orlando di Lasso fu il

magnifico messer Pantalone di Bisognosi; messer Giovan Battista Scolari da Trento il Zanne; Massimo Troiano fece tre personaggi: il prologo da goffo villano, il Polidoro innamorato e lo Spagnuolo desperato, sotto il nome di don Diego di Mendozza; lo servitore di Polidoro fu don Carlo Livizzano; [...] la Cortegiana innamorata di Polidoro, chiamata Camilla, fu il marchese di Malaspina [...]. Per tornare alla comedia, detto che fu il prologo, messere Orlando fe’ cantare un dolce madricale a cinque e, fra sto mezzo, Massimo, [...] con un cappotto di velluto nero, fodrato di bellissimi zebellini, uscì col suo servitore, lodando la fortuna e gloriandosi che nel regno amoroso lieto e contento vivea [...]. Da l’altro canto della scena uscì messere Orlando, vestito da Magnifico, con giubbone di raso cremisino, con calze alla veneziana di scarlatto, et una veste nera, lunga in sino a terra, con una maschera ch’n vederla forzava la gente a ridere, con un liuto alle mani, sonando e cantando: Chi passa per questa strada / e non sospira, beato sé... Dopo che due volte la replicò, lassò il liuto et a lamentarsi dell’Amore incominciò [...]. Tutti a chi più posseva a mostrare i denti dalle risa incominciaro et, insino che Pantalone stette in scena, altro che smascellamenti di ridere non se udiva; e tanto più, Marino mio, che appresso [...] uscì il Zanne, che già molti anni erano che visto non avea ’l suo Pantalone e, conosciutolo, spenzeratamente caminando, diede al Pantalone un grande urtone e contrastano l’uno con l’altro. Alla fine si conoscono e lì per la allegrezza il Zanne pigliò in spalla lo suo patrone e, voltizzanno a guisa di rota di molino, quanto più ebbe cielo di durare durò, e similmente il Pantalone al Zanne fece lo medesimo. Alla fine tutti due andarono per terra48.

La descrizione dello spettacolo – che molti hanno voluto considerare quale primo canovaccio della Commedia dell’Arte pervenuto sino a noi, ma che in realtà è mera traccia letteraria della performance di Monaco – prosegue ricostruendone puntualmente 48   M. Troiano, Discorsi Delli Trionfi, Giostre, Apparati e delle cose più notabili fatte nelle sontuose Nozze dell’Illustrissimo e Eccellentissimo Signor Duca Guglielmo, in R. Tessari, Commedia dell’Arte. La Maschera e l’Ombra, Mursia, Milano 1981, pp. 114-115.

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i tre atti. Ma, qui, soprattutto interessa il cast dei suoi interpreti, che Massimo Troiano espone in dettaglio senza trascurare nessun nome: anche perché si tratta di prestigiosi artisti e di illustri cortigiani presenti alle feste con funzioni non già di intrattenitori prezzolati, bensì di ospiti invitati dal duca. Coloro che indossano le maschere, suonano e cantano (e s’impegnano ad eseguire persino lazzi acrobatici) non sono attori professionisti, ma dilettanti di estrazione intellettuale o aristocratica. Ed è, appunto, il fenomeno di un colto dilettantismo deciso ad imitare tecniche e stilemi dei professionisti specializzati nel produrre commedie di zanni quello che trova il suo esempio archetipico attraverso la messinscena monacense del 1568. Di questo fenomeno – destinato più tardi a larghissima diffusione, nonché a protrarsi in varietà di forme sino al Settecento avanzato – si è sinora tenuto conto, da parte degli studiosi, solo per valutarlo o come bizzarra controprova del grande successo toccato in sorte alla Commedia dell’Arte, o in quanto poco significativa replica (volenterosa ma approssimata), da parte di non addetti ai lavori, di specialismi tipici dei veri mestieranti dello spettacolo. In verità, ci sembra giunto il momento di riconoscere – a questo dilettantismo – il suo vero significato autonomo, nonché l’autentica portata del suo lungo ed ampio estrinsecarsi. E occorre innanzitutto sottolineare che, mentre gli intellettuali e i cortigiani che, nel primo Cinquecento, fungevano da attori nelle rappresentazioni di corte e di accademia tentavano di incarnare sulla scena una generica attorialità di cui non esistevano modelli accreditati (all’infuori di quelli rintracciabili nella per noi interessantissima, ma per loro malfamata, categoria dei buffoni), gli intellettuali e i cortigiani della performance di Monaco – come tutti quelli che ne seguiranno l’esempio – non si propongono di fare teatro pur senza esserne specialisti di professione, ma decidono di provarsi a ricalcare la falsariga di un ben individuato modello di teatro: quello della “commedia all’improvviso all’italiana”, già conosciuto ed apprezzato – attraverso versioni di mestieranti – dal principe che ha richiesto ai suoi ospiti proprio quella particolarissima tipologia di performance (con tanto di maschere, improvvisazione, dialetti, lazzi, acrobazie, musiche, canzoni, ecc.). Nulla di più e nulla di meno. Ciò significa che – qui – non abbiamo a che fare con un generico dilettantismo, ma con un fenomeno inedito: il gusto che induce ­92

alle scelte sia di ri-assaporare come spettatore sia di ri-creare in quanto attore-autore almeno un attendibile riflesso esemplare di un intero mondo dello spettacolo, che si specifica e si individua senza possibilità di equivoci in certe figure dell’immaginario; in una virtuosistica tecnica del recitare; in ben precise scelte linguistiche, fonetiche e gestuali; in variegate commistioni di più arti. Detto in altri termini: tutti coloro che, dopo Massimo Troiano e Orlando di Lasso, si diletteranno nel dar vita – gratis, e senza sceglierlo come mestiere – a sporadici o ripetuti riflessi delle commedie zannesche, lo faranno perché spinti dal desiderio non già di fare l’attore, bensì di provare quel che prova l’attore-inventore d’una intera dimensione dello spettacolo. Ovvero, il tanto maledetto quanto fascinoso mondo delle innominabili messinscene gestite da “gente sordida”, “mercenaria” e vagabonda, e destinate (oltre che a borghesi, artigiani e matrone) persino a “plebe e poveraglia e garzoncelli tristi di bottega e altra canagliaccia”. Testimonia inequivocabilmente in tal senso l’avventurosa incursione, addirittura tra le performances ciarlatanesche, di Salvator Rosa durante il Carnevale romano del 1639, così ricordata da Giovan Battista Passeri: perché si rendeva impaziente, per non veder quello che più desiderava di grido e d’acclamazione, gli venne in pensiero, per fare una larga apertura alla cognizione della sua persona, d’introdursi a comparire al pubblico in azioni ridicole, col personaggio supposto d’un Pasquarello, e si faceva chiamare Formica [...]. Tutto un Carnevale andò in maschera in questo personaggio, e fu nel 1639, con altri amici suoi, e fingevano un monta in banco, e di quando in quando per le piazze di Roma si fermavano a far le solite radunate di popolo all’uso di ciarlatani e, mostrando di vendere alcuni barattoli d’unguenti, e facendo vari gesti ridicoli, si tratteneva la brigata, avendo fatto stampare una certa ricetta faceta che aveva composta Giovanni Briccio. [...] Finito il Carnevale ed essendo in Salvatore rimasto il prurito di questo Formica [...], fatto radunata d’alcuni giovani curiosi, stabilirono di far commedie all’improvviso nella estate49.

La clamorosa sortita dell’illustre scrittore-pittore e del suo gruppo di “giovani curiosi” (anche loro artisti colti ed eclettici,

49  G.B. Passeri, Vite de’ pittori scultori ed architetti che anno lavorato in Roma morti dal 1641 al 1673, Gregorio Settari, Roma 1772, pp. 420-421.

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come Giovanni Briccio) sembra voler abbracciare intenzionalmente l’intero arco fenomenologico del mercato e della società dello spettacolo cui fece da apripista l’invenzione della “fraternal compagnia”: dalle micro-esibizioni delle maschere cerretane sulle piazze dove i “monta in banco” imboniscono i passanti e offrono loro “barattoli d’unguenti”, alla elaborata messinscena di “commedie all’improvviso” da realizzarsi secondo consuetudine. Di norma, invece, solo quest’ultima soluzione viene a costituire il Leitmotiv dominante del dilettantismo secentesco e settecentesco, non di rado fatto proprio – e con esiti talvolta di originale e altissimo livello – da pittori, scultori e architetti di primissimo piano. Come nel caso della intensa attività teatrale berniniana, tra le cui prove eminenti si segnala per virtuosismo scenografico la performance de Li due Covielli, realizzata e recitata a Roma da Gian Lorenzo insieme al fratello Luigi nel 1637. Secondo la testimonianza offerta da Paul Fréart de Chantelou nel Journal du voyage du Cavalier Bernini en France, il creatore del colonnato di San Pietro, tra le maliose rievocazioni delle proprie attività che amava ripetere ai suoi ammiratori d’oltralpe, prediligeva quelle riguardanti le messinscene delle sue “varie commedie”, e soprattutto di quella in cui fece vedere un pubblico al di là del palco, come se ci fossero state due rappresentazioni; ha narrato della discussione che fingeva di tenere tra lui e suo fratello sul fatto che c’erano due teatri invece di uno, e la conclusione che perciò non tutti avrebbero potuto vedere, né sentire, la commedia; che essi allora si misero d’accordo che ognuno di loro due avrebbe fatto la rappresentazione separatamente; che una delle due rappresentazioni era finta; che nel mentre lui rappresentava la sua commedia si sentivano dei finti scoppi di risa che facevano gli spettatori dell’altra parte [...] che tutto era accomodato in modo che l’artificio vi era talmente nascosto da sembrar tutto vero50.

La commedia che, qui, si sdoppia alla vista e all’immaginazione degli spettatori, tramite il fraterno doppio dell’autore-attore, è una commedia di maschere all’improvviso. E sempre maschere (tipiche dei mestieranti di teatro, ma per una volta ritratte mentre 50  P. Fréart de Chantelou, Bernini in Francia, a cura di S. Bottari, Ed. della Bussola, Roma 1946, p. 68.

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si dilettano ad apprestare una rappresentazione di maschere) sono i protagonisti dell’unico testo drammaturgico manoscritto di Bernini a noi pervenuto – più o meno opportunamente edito dai curatori moderni sotto i titoli ora di Fontana di Trevi ora di L’impresario51. Né va dimenticato che quest’ultima prova appartiene a un vero e proprio genere discretamente diffuso nel primo Seicento, la commedia ridicolosa52, nel cui ambito ha un peso notevole proprio il contributo del dilettantismo: tra i suoi autori di spicco, non a caso, figura Giovanni Briccio. Ma non solo singole figure di letterati e di artisti si dedicano con passione alla pratica non professionistica dello spettacolo all’improvviso. Andrea Perrucci, nel 1699, sottolinea che “molte Accademie sono insorte di questo virtuoso esercizio, ed in Napoli, ed in Bologna ed in molte altre città d’Italia”53. E, del resto, già nel 1623, Giovan Battista Andreini – con Le due commedie in commedia – aveva declinato il motivo del teatro nel teatro portandolo ad un livello di massima sofisticazione attraverso l’accorgimento che sommava allo schema della mise en abyme un gioco di specchi dove si confrontavano e si riflettevano l’uno nell’altro due spettacoli di maschere e di parziale improvvisazione: il primo allestito da accademici dilettanti, il secondo da comici professionisti. Sulla scorta di queste (e di moltissime altre) testimonianze, occorrerebbe, insomma, dedicare ampio spazio a una ricerca intesa solo a illustrare ed analizzare nel suo insieme il vasto fenomeno secentesco dei rapporti tra accademie e performances tipiche degli attori di mestiere. Non va infine dimenticato che, come intellettuali e artisti prendono implicitamente posizione nei confronti del più emblematico modello di teatralità diffuso dai comici delle troupe “mercenarie” impegnandosi a riprodurlo in un ambito di sperimentalismo mimetico senza fini di lucro, così non mancano esempi – sia pure 51   Si vedano: G.L. Bernini, Fontana di Trevi, a cura di C. D’Onofrio, Staderini, Roma 1963; G.L. Bernini, L’impresario, a cura di M. Ciavolella, Salerno Editrice, Roma 1992. 52   L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento: storia e testi, Bulzoni, Roma 1978. 53   A. Perrucci, Dell’Arte rappresentativa, premeditata ed all’improvviso. Bilingual Edition in English and Italian, a cura di F. Cotticelli-A. Goodrich HeckTh.F. Heck, Scarecrow Press, Lanham-Toronto-Plymouth 2008, p. 102.

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meno diffusi – di operazioni analoghe condotte da esponenti di altre categorie sociali. Per quanto possa destare sorpresa, tra questi ultimi figurano anche membri di comunità religiose: ad esempio il padre benedettino Placido Adriani di Lucca, la cui singolare attività di promotore e di attore di spettacoli all’improvviso, segnalata per la prima volta da Benedetto Croce nel 189854, si svolse (non senza la collaborazione di un certo numero di confratelli) soprattutto negli anni Trenta del Settecento. Ne rimane testimonianza attraverso le pagine di quello Zibaldone manoscritto dove il frate volle raccogliere alcuni canovacci da lui portati sulla scena, insieme a diverse piccole raccolte di prologhi, canzoni, lazzi, enigmi, ariette, ecc. che forse venivano utilizzate nelle rappresentazioni. Non mancano, nell’insieme dei documenti, note relative a sketch che sarebbe alquanto difficile far rientrare nella categoria di quel “modesto ridicolo” che Ottonelli auspicava quale unico principio ispiratore lecito per le commedie. Come il seguente “lazzo d’acqua” riferito alla maschera di Pulcinella: Il lazzo d’acqua è che, la serva gridando acqua, Pulcinella propone tutte le sorti d’acqua: rosa, gelsomini, aranci, menta, gigli, poi piscia nella coppola e la sbruffa alla svenuta padrona o uomo: quella o quello rinviene e Pulcinella allegro dice gran virtù dell’acqua distillata dalla nostra verga55.

Ma la passione per maschere e recite all’improvviso non si insinua solo nel chiuso dei conventi. Investe ancora spazi quantomai prossimi alle sedi dei poteri forti. Così avviene in Francia – per citare un grandissimo esempio primo-settecentesco – nel caso del sostituto procuratore del re Thomas-Simon Gueullette56, raffinato esperto e intrepido propugnatore tanto delle licenziose parades tipiche della Foire quanto (e soprattutto) dei virtuosismi farseschi che distinguevano Ancien e Nouveau Théâtre Italien. Collabora-

54   B. Croce, Un repertorio della commedia dell’arte, in “Giornale storico della letteratura italiana”, XXXI (1898), pp. 458-460. 55   P. Adriani, Selva overo Zibaldone di concetti comici, in E. Petraccone, La Commedia dell’Arte. Storia, tecnica, scenari, Ricciardi, Napoli 1927, p. 265. 56  Cfr. J.-E. Gueullette, Un Magistrat du XVIIIe siècle, ami des Lettrés, du Théâtre et des plaisirs, Thomas-Simon Gueullette, Droz, Paris 1938.

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tore entusiasta, a livello drammaturgico, degli attori professionisti di quest’ultimo, Gueullette assume personalmente le maschere di Arlecchino e di Pulcinella per realizzare canovacci di Commedia dell’Arte e parades sui palchi particuliers57 che impreziosiscono sia talune dimore di amici sia le sue stesse residenze di campagna (Auteuil, Maisons, Choisy-Mademoiselle).

57   Su questa fenomenologia, si veda R. Tessari, Tra dominio della ragione e impero dei sensi. I théâtres particuliers nel Settecento francese, in AA.VV., L’impero dei sensi. Da Euripide a Oshima, a cura di R. Alonge, Edizioni di Pagina, Bari 2009, pp. 119-138.

IV

Messinscene a stampa d’un pensiero di attore

1. La diva, l’Arlecchino e l’attore-autore Tra le mutazioni indotte dal progressivo diffondersi dell’abitudine agli spettacoli, va segnalato con forza il profilarsi – a partire dall’ultimo ventennio del Cinquecento – di un parziale ripensamento del sino ad allora indiscusso primato culturale della scrittura e del libro a stampa. Abbiamo già visto come un san Carlo Borromeo, confrontandosi con i successi delle rappresentazioni mercenarie, si senta costretto ad esclamare: “quanto più penetra nell’anima ciò che gli occhi vedono di ciò che si può leggere in libri [osceni]! Quanto più gravemente la viva voce ferisce le menti degli adolescenti di quanto non lo faccia morta, stampata nei libri!”. Si tratta di osservazioni che, nei decenni seguenti, diventeranno luoghi comuni privilegiati di tutti gli scritti ecclesiastici contro gli “eccessi” degli attori professionisti. Sino a culminare idealmente, nel 1621, con il tanto particolareggiato quanto efficacissimo paragone tra arte della scrittura e arte della scena proposto da Francesco Maria Del Monaco: Hai visto mai il cadavere di un uomo? ne avrai visto più d’uno. Ci sono gli occhi anche in quello, ma vitrei; le orecchie, ma penzolanti; le narici e le guance, ma esangui [...]. Come sarebbe se fosse vivo? Guarda gli occhi, piccole scintille dell’anima, dai quali specialmente trapela e brilla l’anima [...]. Guarda i volti o le guance ricche di naturale porpora e rosee; e mi dirai quanto sono graziose, belle, leggiadre. ­98

Tu vedi la sensibilità e il movimento delle membra e di tutto il corpo e dirai che sono divini e degni del cielo; esattamente lo stesso risulterà se confronterai la lettura e la scrittura con la scena [...]. Sulla scena, [...] le mani accompagnano le parole [...] e spesso le interpretano; quanto sono argute e sapienti, e come completano le parole e la loro evidenza o efficacia, tanto che si potrebbero giustamente chiamare le frecce del discorso. La lettura invece non è completata dai gesti, né appoggiata dagli occhi, né valorizzata dalla voce: del tutto muta, mutila, anzi morta. [...] Io dico che la commedia scritta è un equivoco chiamarla commedia, se la si confronti con quella che viene rappresentata sui prosceni; e che questa non ha rapporto con quella più di quanto ne abbia, nel confronto, un uomo vivo con un uomo morto1.

Lo spettacolo sta al libro come la vita sta al suo residuo cadaverico. È un’equazione che segnala, insieme, tutto lo sconcerto e tutta la preoccupazione suscitati – e proprio tra le fila dei tutori d’una religione del libro – dal minaccioso emergere d’una civiltà dell’immagine e dello spettacolo. Tuttavia, ancora all’altezza del primo Seicento, soltanto uomini di Chiesa particolarmente avvertiti possono permettersi di sostenere (con ammirevole lungimiranza verso qualsiasi futura ipotesi intesa a rivendicare autonomia e valore del linguaggio scenico) “che la commedia scritta è un equivoco chiamarla commedia”, e che si dovrebbe definire teatro non un testo stampato, ma quanto avviene su di un palco. Accademici e letterati, al contrario, continuano a dichiararsi convintissimi del fatto che la vera essenza della dimensione teatrale sia tutta racchiusa tra le righe di un testo. E gli stessi attori non esitano a denunciare ripetutamente i loro pesanti complessi di inferiorità rispetto a quanti si arrogano il diritto d’essere esclusivi signori del mondo della scrittura e della lettura. Per ciò che riguarda il leggere, il comico Domenico Bruni, mentre va elencando i molti inconvenienti che costellano il mestiere di chi recita, rivela che, in quanto alla professione, non si può dir peggio: chi la vuol far bene, non ha ora di piacere per la necessità che si ha di studiare, essendo 1   F.M. Del Monaco, In actores et spectatores comoediarum nostri temporis paraenesis (1621), trad. it. in F. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma 1969, pp. 218-219.

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che questi poveretti, che non sono professi nelle scienze e che bisogna che d’improviso discorino di varie cose, se si hanno da affatticare a scorticare ed a squartare libri volgari, il Cielo ve lo dica2.

Nei confronti, poi, della retorica necessaria allo scrivere, addirittura un Francesco Andreini si concede di esprimere – sia pure dopo aver indossato la maschera della falsa modestia – quel profondo disagio che dovrebbe riguardare qualsiasi attore consapevole: Considerata la difficoltà grande dello scrivere, così nel verso come nella prosa, mi spaventai di così fatta maniera, ch’io non ardiva d’impugnar la penna3.

Tuttavia, per quanto specialisti di un’arte dell’effimero che non può lasciare traccia in segni e forme durevoli, e nonostante il conclamato terrore a fronte dell’ipotesi di trasformarsi in scrittori, alcuni comici non esitano – sin dal 1570 – ad assumersi la responsabilità di pubblicazioni che ricalcano i modelli di vari generi drammaturgici o letterari. Si propongono, insomma, ad un pubblico d’élite, non solo in quanto professionisti del teatro, ma anche come scrittori. Nel farlo, in genere, non sembrano tanto preoccupati (almeno sino ai primi anni del Seicento) di affidare alla pagina una qualche rivendicazione della dignità e del valore della loro arte scenica, quanto piuttosto intenzionati a dimostrare il diritto del singolo attore a cimentarsi, se lo desidera e se ne è in grado, con le sfide di una qualche impresa creativa affidata al “verso” o alla “prosa”. Una prima eccezione a questa norma si verifica, proprio nel 1570, con l’Orazione composta dall’attore veronese Adriano Valerini per la morte della sua celebre collega e amante Vincenza Armani, dove l’indubbia sincerità del cordoglio e l’intento di catalogare puntualmente tutti i meriti reali dell’attrice si compone e trascolora nei toni inconfondibili di un’operazione tesa a mitizzare la donna:

2   D. Bruni, Miserie de’ comici. Prologo da Fantesca, in F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, pp. 387-389. 3  F. Andreini, Le bravure del Capitan Spavento, a cura di R. Tessari, Giardini, Pisa 1987, p. 7.

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O immensa forza d’eloquenza, o rara grazia d’accorte maniere, o ineffabil soavità d’armonia, qual lingua potria pareggiar le parole o ’l canto, qual pittore fora bastante a dipingere i modi vezzosi e gai che Morte ha estinti? [...] Non è magistero così accorto che sapesse sì vari essempi in una sola imagine ridurre, eccetto che il mio core, in cui tutte le leggiadrie di costei di sua mano impresse Amore. E perché le principal sue bellezze con altri occhi che con quelli della fronte dovean contemplarsi, chiunque volea perfettamente ritrarla bisognava che dall’infinita bellezza della Cagion Prima togliesse della interna sua beltà l’essempio [...]: ch’ella tra noi fu veramente un’ombra del sommo Bello, posta qua giù acciò che l’Alme scorgendo in lei l’orme dell’eterno Bene [...], di celeste zelo ardendo, desiassero di riunirsi al suo principio. Ma ritornando ond’io mi tolsi, recitava questa Signora [...] in tre stili differenti, in Comedia, in Tragedia ed in Pastorale; osservando il decoro di ciascuno tanto drittamente che l’Academia de gli Intronati di Siena, in cui fiorisce il culto delle Scene, disse più volte che questa Donna riusciva meglio assai parlando improviso che i più consummati Autori scrivendo pensatamente4.

Qui, tanto la concretezza del bel corpo d’attrice (mera esca di diaboliche tentazioni, secondo gli ecclesiastici) quanto l’effimero estrinsecarsi del suo virtuosismo recitativo vengono intenzionalmente posti tra parentesi, per dar spazio alla luminosa epifania platonizzante d’un angelo di beltà capace d’ogni più alta opera di poesia. Vincenza Armani non deve essere considerata donna, ma – secondo termini degni d’una confraternita di mistici fedeli d’amore – mediatrice celeste tra le anime e Dio. Le sue opere terrene non sono finzioni teatrali, bensì “scritture” sospese a mezz’aria con arte tale da far impallidire le migliori composizioni che i “consummati Autori” tracciano a fatica sulla carta. La sua qualità autentica, peraltro, non è quella di una grande artista. Consiste nell’essere “Signora Divina”. In una parola: diva. Nel 1604, a Lione, durante il viaggio di ritorno da una trionfale tournée parigina, muore Isabella Andreini. I suoi compagni di lavoro, per renderle onore, fecero coniare

4   Orazione d’Adriano Valerini veronese, In morte della Divina Signora Vincenza Armani, Comica Eccellentissima, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 35.

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medaglie di bronzo, d’argento e d’oro [...] ‘dall’una parte con l’immagine di Isabella [...], dall’altra una Fama con due trombe’. Le due facce della medaglia [...] sono riprodotte dal Rasi da un esemplare conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Isabella Andreini è rappresentata di profilo, a mezzo busto. La Fama, sull’altra faccia, è a figura intera: suona la tromba che regge con la mano destra, mentre l’altra, la tromba della mano sinistra, simbolo della fama cattiva, resta inoperosa. Sui bordi la scritta: Aeterna Fama5.

Concludendo il suo ricordo delle onoranze funebri tributate alla madre, Giovan Battista Andreini scrive: “et ogni giorno pellegrine genti non solo da così famosa città passando [...] vanno ad onorar il sepolcro di quella con preghiere e a celebrarla con lodi, ma cercano di quelle medaglie possedere”6. Anche nel caso di Isabella, come già era successo per Vincenza Armani, vita e morte della grande attrice vengono trasfigurate – attraverso scritti di altri comici – in pure materie di suggestivi monumenti concepiti per imporre alla cultura contemporanea l’immagine fantasmatica della diva7. Ciò che accadde a Lione nel 1604, peraltro, rivela come un simile impegno non si limiti a investire il mondo dei colti che sanno leggere, ma risulti pronto a valersi di strumenti (come le medaglie commemorative coniate in metalli di diverso prezzo: dunque adeguate alle disponibilità di ceti diversi) capaci di imporre al più vasto immaginario collettivo l’icona sublimata della donna. Quel che conta è pubblicizzare, attraverso segni forti, la leggenda epica dell’eroina senza macchia, dimostratasi capace di combattere vittoriosamente – nelle arene della poesia e della scena – contro i mostri della “mala fama”, sino a far squillare per l’eternità le trombe della Gloria. Attorno alla sua tomba, così, può nascere un vero e proprio culto: le

5   F. Taviani, Bella d’Asia. Torquato Tasso, gli attori e l’immortalità, in “Paragone. Letteratura”, XXXV (1984), nn. 408-410, p. 28. 6   G.B. Andreini, La Ferza. Ragionamento secondo contro l’accusa data alla commedia, Callemont, Paris 1625, p. 68. 7   Per quanto concerne Isabella, questa funzione verrà svolta post mortem – insieme: con accorato rimpianto, e con sapiente strategia celebrativa – dal marito Francesco Andreini (cfr. R. Tessari, O Diva, o “Estable à tous chevaux”. L’ultimo viaggio di Isabella Andreini, in AA.VV., Viaggi teatrali dall’Italia a Parigi fra Cinque e Seicento, Costa & Nolan, Genova 1989, pp. 128-142).

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“genti” vi accorrono quasi in santo pellegrinaggio, per rendere omaggio alla diva victrix contendendosi le reliquie-simbolo del mitico agone che l’ha resa immortale. Se l’Orazione di Valerini è la prima prova letteraria da cui emerga la nuova immagine dell’attrice, “le Compositions de Réthorique di Tristano Martinelli, stampate a Lione tra il dicembre 1600 e il gennaio 1601”, vanno considerate il primo libro in cui un attore esibisce una ben precisa visione di se stesso e della sua arte. Si tratta di “settanta pagine in-4°”8, che si aprono con un saluto di dedica a Enrico di Borbone e a sua moglie. In esso, il sovrano francese viene definito “Segretario Segreto del più segreto Gabinetto di Madama Maria de’ Medici, Regina del Louvre”. Quanto al resto del libretto, a partire dal frontespizio, vi compaiono una quarantina di versi variamente distribuiti lungo le pagine (composti da vocaboli italiani, dialettali, francesi, latini, spagnoli talvolta alternati in miscuglio maccheronico), sette incisioni (di cui cinque raffiguranti Arlecchino in diverse posture e situazioni; due un Pantalone e un Capitano). Cinque soli temi dominanti si accampano al centro dello scarno tessuto linguistico della pubblicazione: una collana, che la regina dovrebbe regalare all’attore-autore; una medaglia, evidentemente preziosa, che quest’ultimo spera di ottenere dal re; le prospettive di guadagno che hanno spinto i compagni di Arlecchino – Pantalone e il Capitano spagnolo – a seguirlo sino alla corte francese; ciò che Tristano e gli altri membri della sua troupe sono disposti a dare in cambio ai loro (si spera) munifici committenti, nulla di concreto, ma molte canzoni e molto divertimento; la minaccia, da parte di Arlecchino, di tornarsene subito in Italia, se non otterrà dai sovrani ciò che spera. Questo, sia pur schematicamente abbozzato, è l’esclusivo e scarnissimo contenuto che si svela al lettore sotto il provocatoriamente pretenzioso titolo di Compositions de Réthorique: quasi fosse il supremo opus accademico di – recita il frontespizio – “Monsieur Don Arlequin, comicorum de civitate Novalensis, corrigidor de la bonna langua Francese et Latina, Condutier de Comediens, Connestable de Messieurs les Badaux de Paris, et Capital ennemi

8  D. Gambelli, Arlecchino a Parigi, I: Dall’inferno alla corte del Re Sole, Bulzoni, Roma 1993, p. 419.

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de tut les laquais inventeurs desrobber chapiaux”. In questa pubblicazione a stampa, secondo Siro Ferrone, Arlecchino non si atteggia ad autore, e neanche ad attore, appare soltanto un fool. Il suo legame con l’antica tradizione dei buffoni rinascimentali è suggerito dalla scherzosa indicazione tipografica (“imprimé de là le bout du monde”) che ricorda i fantastici e inferici viaggi del veneziano Zuan Polo e di altri comici. Gli stessi epiteti con cui Arlecchino apostrofa il re di Francia [...] lasciano intendere che ci troviamo in un clima, come si suol dire, “carnevalesco”. Attore e sovrano possono stare sullo stesso piano perché la situazione è eccezionale, fittizia. Ma la follia del buffone contiene anche delle verità. Ossessivamente nel corso di tutto il suo “livre simulé” [...] il comico non perde occasione per ricordare ai reali di Francia la natura del rapporto tra lui e loro9.

È vero che, inscenando la propria maschera nel contesto stralunato del suo piccolo libro, Tristano Martinelli si atteggia a buffone. Ed è altrettanto vero che i rapporti tra il comico ed i suoi regali mecenati vi risultano distorti come se fossero stati trasposti in un “clima carnevalesco”. Ma non va dimenticato che, se questa vuole essere la parte principale della auto-rappresentazione a stampa inscenata dall’autore, essa va considerata – per essere compresa a pieno – nell’ambito di un gioco che coinvolge ancora altri fattori compositivi d’una finzione tanto minimale quanto sorprendente. L’autore non vi introduce soltanto se stesso in vesti arlecchinesche, ma vuole che vi figurino anche scelti rappresentanti della sua compagine (un Magnifico e un Capitano) ritratti nell’atto di esprimersi, ciascuno attraverso il suo linguaggio di scena, con voci proprie. Lo spazio occupato dal testo e dai comici impasti linguistici che lo distinguono non è che parte di una struttura composita, dove il peso del primo viene abbondantemente bilanciato dalla presenza di farsesche icone parlanti. E infine (ancorché la cosa risulti essere quella che a prima vista dovrebbe meravigliare e disorientare ogni lettore), delle “settanta pagine in4°” che formano il volumetto, solo dodici contengono un qualche insieme di segni: tutte le altre risultano affatto vuote... 9  S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Einaudi, Torino 1993, p. 200.

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In altri termini: il libro di Martinelli non è un ben composto e ordinato volume di significanti grafici disposti nell’intento di presentificare discorsivamente catene logiche di significati, ma sceglie di esibirsi – a prima vista – come una clamorosa impaginazione dell’assenza. È, la sua, una ostentata follia: di carattere, indubbiamente, buffonesco. Eppure si tratta d’una risibile finta demenza che non può essere considerata priva né dell’intenzione di alludere a una qualche verità né, quel che più conta, d’una sua interna logica consequenziale. Il lettore accorto, oltre a lasciarsi abbagliare dal gioco clownesco di tante pagine vuote, dovrebbe poi considerare che un così strambo definirsi della composizione tipografica non può che accennare a un quid non scritto in quanto non esprimibile tramite scrittura letteraria. Qui, il non-detto è il non-scrivibile10. E il non-scrivibile si palesa non soltanto in forma di pagina bianca, bensì ancora attraverso quelle figure incise – la restituzione visiva delle maschere – che tanta parte hanno entro il contesto. Ma poi, forse, insiste a manifestarsi attraverso ulteriori espedienti: per esempio, le frasi impaginate come se uscissero in quanto phonè dalle labbra di Arlecchino, del Magnifico e del Capitano; oppure la scelta, quando si dovrebbe parlare del mirabile dono che Tristano Martinelli offre in cambio delle regali prebende cui aspira, di sintetizzarne gli aspetti nell’unico motivo del “cantare”. Ora, la vibrazione sonora del canto, le presenze e la comportamentistica di maschere suggestive, e il singolare timbro d’ogni voce tipica dell’una o dell’altra maschera possono essere soltanto viste e udite. Non possono essere né scritte né lette. Se si vuole trasferirle su di una pagina, le uniche soluzioni praticabili consistono nel simboleggiarle indirettamente: sia tramite l’ammiccamento d’un cenno allusivo espresso in termini letterari; sia sostituendo alla parola l’immagine; sia cercando di figurare icona e verbo in qualche modo valido a suggerire l’impressione d’una immagine

10   Naturalmente, le considerazioni appena esposte perderebbero parte del loro significato qualora risultasse vera l’ipotesi avanzata da Ferdinando Taviani, che si domanda, a proposito dell’unica copia pervenutaci delle Compositions: “Ma non poteva essere [...] una copia sulla quale il Martinelli si riprometteva di scrivere certi suoi testi a mano?” (F. Taviani-M. Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII secolo, La Casa Usher, Firenze 2007, p. 495).

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parlante; sia – infine – attraverso il mezzo più radicale: il vuoto e il silenzio assoluti. Ma tutti questi espedienti disegnano infine il contorno proprio di quella specificità ultima del fare spettacolo che consiste solo nell’attuarsi effimero di un evento (colloquiale, mimico, musicale o danzato, poco importa), e che non può assolutamente consistere nel più o meno approssimato definirsi logico d’un concetto. Si può tentare di scrivere un concetto. Scrivere l’irripetibile sbocciare d’un evento è impossibile: perché, appunto, tra parola scritta o stampata e performance in atto vige lo stesso rapporto che esiste tra “un uomo morto” e “un uomo vivo”. Come suggerisce il titolo, le Compositions de Réthorique sono prove esemplari di tecniche finalizzate ad esprimere qualcosa. Qui, si tratta di tecniche non del dire, ma del rendere manifesto a qualsiasi costo. E di rendere manifesto quel qualcosa di non-scrivibile che è il farsi del teatro. Ovvero la professione artistica di quei concreti soggetti che stanno dietro le maschere, e che alle maschere danno vita innanzitutto allo scopo di ottenerne in cambio l’unico tema quasi maniacalmente evocato e ribadito dal libretto: il denaro per mangiare, oppure – se le condizioni lo permettono – compensi d’un valore sovrabbondante (come collane e medaglie preziose). L’omaggio a stampa che Tristano Martinelli ha scelto di offrire ai suoi regali estimatori francesi si presenta come la petulante e ripetitiva esibizione d’un grande attore che sa di essere molto amato per i suoi sorprendenti numeri da fool arlecchinesco, e dunque organizza il palinsesto del libretto come se dovesse impaginarvi una messinscena che lo veda protagonista assoluto. Ma che, nel contempo, vuole anche ricordare discretamente ai lettori il suo vero status: non quello d’un buffone all’antica, ma della moderna star d’una compagnia di attori professionisti (come coloro che sono soliti portare in scena un Pantalone o un Capitano), tutti – oltre che sfacciatamente interessati al loro tornaconto – consapevoli depositari di un’arte dello spettacolo che sa di poter eludere o irridere quanti credono ancora alla sacralità del libro. Compositions de Réthorique non è il testo di un buffone11, ma la metaforica 11   Basti pensare alle evidenti differenze di impostazione tra l’opera di Tristano Martinelli e l’unico ampio testo a stampa a noi pervenuto che sia stato scritto per illustrare e celebrare il mestiere del buffone: Il Tedeschino overo Difesa

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messinscena a stampa di una attorialità consapevole del proprio autonomo consistere, che sceglie di esibire in primo piano il suo virtuosismo nell’assumere, quando sia utile, il ruolo del fool. Se la pubblicazione di Tristano Martinelli può apparire anche come una sorta di performance in forma tipografica del livello di coscienza che l’attore ha della propria arte, un altro grande comico – Flaminio Scala – dà alle stampe, nel 1618, una vera e propria trasfigurazione drammaturgica del pensiero e della poetica che possono giustificare e sostenere significati e valori della pratica scenica. Pubblicando la propria commedia regolare Il finto marito, Scala la fa precedere da due prologhi in forma di dialogo, dedicati l’uno alla rivendicazione della dignità artistica della professione teatrale contro il disprezzo di molti intellettuali, e l’altro alla difesa della stessa nei confronti delle ormai diffusissime polemiche ecclesiastiche. Il primo prende l’avvio ex abrupto da una tanto semplice quanto efficace mossa teatrale. Un Forestiero, che presto si svelerà quale esponente-portavoce della più accreditata e tradizionalista cultura letteraria contemporanea, irrompe a sorpresa sul palco dove un Comico sta indugiando nel predisporre l’allestimento del Finto marito: comico 

Olà, olà, Signore, dove andate? Non si va di costà. Oh, donde? comico  Di qua, in malora. forestiero  Oh, piano; non è questo l’apparato, la scena e il luogo dove si ha da rappresentare la commedia? comico  E quello è il luogo dove hanno a stare gli ascoltanti, e non questo; né di qui si passa. forestiero  Orsù, andrem d’altrove; ma che zannata è questa che si deve recitare? comico  Oh, costui è fastidioso: è Il finto marito di Flaminio Scala. forestiero 

dell’Arte del Cavalier del Piacere. Dialogo dal medesimo dedicato a tutti quelli Principi, che si dilettano tenere Buffoni appresso di loro, attribuito a Bernardino Ricci, e stampato a Venezia, senza indicazioni né d’autore né di editore né di data (ma si pensa al periodo 1633-1635). Come giustamente scrive Teresa Megale, il trattato ha l’andamento di “un esercizio teorico per la ricerca delle ragioni ideali di un buon buffone” (T. Megale, Bernardino Ricci e il mestiere di buffone tra Cinque e Seicento, in B. Ricci, Il Tedeschino overo Difesa dell’Arte del Cavalier del Piacere, a cura di T. Megale, Le Lettere, Firenze 1995, p. 9).

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forestiero  Di chi? comico  Dello Scala,

sì, che a’ suoi dì ha fatto mille suggetti. Voi torcete il naso? Ché, ve ne maravigliate? forestiero  Sì, ch’io me ne maraviglio, perché altro è impiastrare un suggetto perché sia rappresentato all’improviso, ed altro è distendere una commedia affettuosa e sentire un bel disteso co’ suoi graziosi e ben formati periodi12.

Le battute iniziali del dialogo disegnano uno schema di incontro-scontro tra due visioni opposte del teatro: da un lato, la pretesa del Forestiero di considerare il luogo dello spettacolo come cosa sua (da percorrere e frequentare a piacimento); dall’altro, la protesta del Comico, che si ritiene unico signore e custode del palcoscenico, e che dunque vuole trattare l’intruso come va trattato un qualsiasi spettatore potenziale: invitandolo ad occupare il suo posto in platea. Ma, se la posizione del secondo rimanda implicitamente all’ormai inveterata abitudine degli attori di considerarsi i soli responsabili d’ogni fattore della prassi performativa, l’arrogante disinvoltura con cui il primo pretende libero accesso persino all’“apparato” scenografico svela subito le sue ragioni di fondo: il Forestiero si considera suprema autorità del mondo dello spettacolo, in quanto detiene il potere di saper valutare “un bel disteso co’ suoi graziosi e ben formati periodi”. In altri termini: si ritiene arbitro di cosa sia giusto e di cosa sia sbagliato nella composizione letteraria di un’opera drammaturgica scritta compiutamente – parola dopo parola, periodo dopo periodo – seguendo precisi criteri formali. Posizionandosi da questa prospettiva, l’intruso si rifiuta di considerare “commedia” un prodotto a firma dell’attore Flaminio Scala. Non vuol neanche sapere se dovrà assistere alla recita d’un lavoro tutto “disteso”. È sufficiente l’aspetto del Comico per fargli dire che d’altro non potrebbe trattarsi, se non d’una spregevole performance all’improvviso di rozze maschere: una “zannata”, appunto. Né può certo modificare un simile atteggiamento la puntigliosa replica, preoccupata di ricordare come lo Scala sia maestro e fecondissimo inventore di “suggetti” per la rappresentazione. Infatti, come spiegherà più tardi Andrea Perrucci: 12  F. Scala, Prologo della comedia del Finto marito, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 58.

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Il soggetto non è altro che una tessitura delle scene sopra un argomento formato, dove in compendio si accenna un’azzione che deve dirsi e farsi dal recitante all’improviso, distinguendosi per atti e per scene, scorgendosi le scene nel margine, dove si nota quel personaggio che ha da uscire e si contrasegna con una linea rotta, dove termina dicendo “via”, accorciato da “va via” o “vanno via”. In testa di esso si pone il luogo dove si finge la favola, verbigrazia Roma, Napoli, Genova, Livorno etc. [...] Il segno di partire e terminar la scena è una linea rotta; il segno d’osservar da parte ciò che fanno o dicono gli altri personaggi, per poi fare ciò che deve per lo soggetto, sarà una stelluccia notata alla margine, chiamata osservatoria. Il dirsi “in questo” significa che il personaggio, al partir d’altri resta; dicendosi “il tale o i tali vanno via e il tale o i tali in questo”, cioè resta o sopraggiunge o sopraggiungono altri13.

Insomma, il “soggetto” (o “canovaccio”14 che dir si voglia) è solo uno schematico abbozzo della nuda trama d’una commedia, che accenna ai meri contenuti delle battute proprie di ogni personaggio, e che indica entrate e uscite di scena per mezzo di segni grafici convenzionali. È quanto basta per offrire precise coordinate di orientamento ad attori che debbano improvvisare. Ma è anche esattamente l’opposto d’un qualsivoglia “bel disteso”. E ciò costringe l’attore a ripiegare per un attimo su di una linea difensiva che non può valersi d’altro se non d’un comunque variamente interpretabile ampio favore di pubblico: comico  Troppo ci vuole a far maravigliare un par vostro, ch’al sentire tanto sa, o per lo meno se lo crede, stimandovi forse avere in voi l’idea de’ componimenti scenici [...]. Ma non mi negherete già che, dove lo Scala ha portati i suoi suggetti, sempre hanno dato gusto e son piaciuti. forestiero  È vero, ma perché? Perché egli ha cercato far-

gli apparire con le azzioni; e le buone compagnie de’ comici son quelle che, ben recitando, nobilitano i suggetti; ma quella compo-

13   A. Perrucci, Dell’Arte rappresentativa, premeditata ed all’improvviso. Bilingual Edition in English and Italian, a cura di F. Cotticelli-A. Goodrich Heck-Th.F. Heck, Scarecrow Press, Lanham-Toronto-Plymouth 2008, p. 186 e p. 192. 14  Talvolta viene usato, in questo senso, anche il termine “scenario”.

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sizione, poich’è solamente scritta sopra un foglio, s’ella non ha in sé l’arte del bene scrivere che l’accompagni, resta fredda e cade15. L’ineccepibile contro-replica del Forestiero, dopo aver tributato ogni debito omaggio al valore della perizia fonico-gestuale che distingue “le buone compagnie de’ comici”, ribadisce come non possa pretendere al titolo di opera d’arte una forma di scrittura – qual è il soggetto – che in scarni fogli disegna solo la fredda impalcatura scheletrica d’una commedia. Ma, nel farlo, attribuisce di passaggio ai pur tanto lodati attori una funzione che non è certo quella di veri e propri artefici della creazione teatrale: essi sarebbero, stando alle sue parole, coloro che possono contribuire al successo di un testo drammaturgico (e, addirittura, “nobilitare” le povere pagine d’un soggetto); ma non in quanto poeti della scena, bensì solo come tecnici coadiutori, specialisti nel tradurre un opus scritto in gioco di parvenze visibili attive e loquaci. È a fronte d’una visione tanto riduttiva che insorge, in un soprassalto d’orgoglio, il Comico di Flaminio Scala, deciso ad esaltare l’attore in quanto – oltre che artifex della scena per eccellenza – unico depositario supremo di tutte le norme preposte alla creazione teatrale: Chi può sapere meglio i precetti dell’arte che i comici stessi? Che ogni giorno gli mettono in pratica esercitandola? E però gl’imparano dall’uso [...]. L’esperienza fa l’arte, perché molti atti reiterati fanno la regola, e se i precetti da essa si cavano, adunque da tali azzioni si viene a pigliar la vera norma, sì che il comico può dar regola a’ compositori di commedie, ma non già quegli a questi16.

In base a una simile ottica, colui che si assume il compito di mettere per iscritto un “bel disteso”, se è – come l’autore del Finto marito – un grande attore, può dar vita a un’opera drammaturgica apprezzabile. Ma, nel caso si tratti di un pur abilissimo conoscitore della sola retorica letteraria, saranno proprio i suoi prodotti a risultare, sulla scena, “freddi” e inconsistenti (ovvero segnati appunto da quei disvalori che il Forestiero credeva appannaggio esclusivo di tutti i soggetti):   Scala, Prologo della comedia del Finto marito cit., p. 58.   Ivi, pp. 59-60.

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da questo avviene che molti gran litterati, e de’ migliori, per non aver pratica della scena, distendano commedie con bello stile, buoni concetti e graziosi discorsi e nobili invenzioni, ma queste poi, messe su la scena, restan fredde, perché, mancando dell’imitazione del proprio, con una insipidezza e languidezza mirabile, e talora con l’inverisimile, per non dir coll’impossibile, fanno stomacare altrui, né conseguiscono perciò il fine di dilettare, e meno del giovare; e non gli si porgendo però attenzione, si perde la memoria non che il frutto degl’auditori. Onde i buoni concetti si conoscano dagli effetti, e non da’ precetti, perché chi nega il senso (dicono quelli che sanno) ha bisogno di sentir l’effetto delle cose sensibili17.

Mentre perviene così a definire i comici professionisti massimi esperti di quelle tecniche della scena che devono presiedere sia alla creazione di uno spettacolo davvero efficace sia alla composizione di un testo drammaturgico adatto a incarnarsi in viva performance, l’autore del Finto marito prospetta una visione complessiva dell’arte teatrale essenzialmente e qualitativamente altra, rispetto a quella implicita nei ragionamenti del Forestiero. Fare teatro, secondo il Comico, consiste nel pensare in termini di spettacolo, e non secondo le logiche di una qualche retorica letteraria o di un qualche argomentare da filosofo. Ciò significa, innanzitutto, sapere che – sulla scena – contano soltanto gli “effetti” delle “cose sensibili”, e non i segni astratti tipici di qualsivoglia discorso teoretico, comunicativo o persuasivo messo per iscritto. Nella commedia in atto, impera un sistema linguistico tutto fondato sulle minime declinazioni sensibili del corpo presente, della sonorità vocale, delle intenzioni che balenano attraverso uno sguardo, dei minuti cenni gestuali: ogni minimo gesto a tempo et affettuoso farà più effetto che tutta la filosofia d’Aristotile, o quanta retorica seppone Demostene e Cicerone. [...] E ciò avviene ancora in ogni altra cosa al senso sottoposta [...]; perché in effetto alle azzioni son più simili l’azzioni che le narrazioni, e le commedie nell’azzioni consistono propriamente et in sustanzia, e nelle narrazioni per accidente. Chi adunque vorrà azzioni imitare, con le azzioni più se gli appresserà che con le parole, nel genere comi-

  Ivi, p. 60.

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co. E considerisi ciò ne gl’amanti, che più da una lacrimuzza, da uno sguardo, da un bacio, per non dir più, e da simili coserelle vengano dal subietto amato tirati e mossi, che dalla persuasiva di qual si voglia gran filosofo morale, che con ben ordinata scrittura, perfetti concetti, ottima locuzione et esquisite parole e migliori ragioni esorti alla virtù, persuadendo a lasciar da canto la sensualità; perché i sensi da’ sensi più agevolmente vengon mossi che dalle cose che sono in astratto, accostandosi sempre il simile volentieri al suo simile18.

La vera e propria rivoluzione copernicana a teatro proposta da Flaminio Scala fa ruotare tutte le componenti della rappresentazione non più attorno al ‘pianeta immobile’ delle poetiche e delle pratiche di scrittura di ascendenza umanistica, bensì lungo una ellissi che ha il suo doppio fuoco nelle vive presenze e dell’attore e dello spettatore: unite l’una all’altra da quella linea che percorre la falsariga privilegiata delle “cose sensibili”, costringendo a sperimentare senza posa il delicato ambito delle corrispondenze tra il “gesto a tempo et affettuoso” e l’“effetto” che esso è in grado di realizzare sul pubblico. Da questa prospettiva, se non si perviene certo al radicale ripudio del testo drammaturgico, viene comunque rivendicata con forza la necessità d’una profonda revisione dei suoi statuti più accreditati. Per essere più precisi: di quelli che esaltano oltremodo la potenziale auto-sufficienza d’una scrittura astratta dalle ragioni della scena, e indifferente ad esse. Del resto, le riflessioni del grande attore intervengono, nello scorcio iniziale del Seicento, a sancire in termini quantomai emblematici una situazione ormai delineatasi – entro l’ambito delle culture italiane – in forme che il tempo avrebbe purtroppo rese persistenti: quelle di una singolare e quasi invalicabile frattura tra un teatro inteso come mero gioco performativo gestito da professionisti della finzione, e un teatro concepito come puro esercizio letterario destinato alla stampa. Ma questo, naturalmente, non rientra tra gli assilli primari che determinano l’intervento teoretico di Flaminio Scala, il quale, da un lato, è convinto che attori come lui possano assurgere senza problemi al ruolo di drammaturghi, e, dall’altro, patisce soprattutto l’urgenza di difendere la propria categoria dal disprezzo di certi letterati, e – ma in sottordine – dalle accuse di tanti eccle  Ivi, p. 61.

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siastici. Su quest’ultimo versante, però, l’autore del Finto marito, immaginandosi a confronto con un altro Forestiero, non si dilunga, come aveva fatto nel primo prologo, a contestare con puntiglio tutte le pretese ragioni del suo compunto interlocutore, né sembra interessato a sostenere pericolose tesi eterodosse. Si limita a ri-formulare, in termini di convinta fermezza, il principio dell’assoluta neutralità morale del teatro: No, no, Signor mio, quest’arte è cosa media, come sono tutte le cose umane sottoposte a gl’oppositi ed a’ contrari, e non è biasimevole né lodevole per se stessa, ma sì bene per le azzioni che in altri conseguentemente ne seguono dopo di lei; però in chi l’adopera, o con abuso o pur convenientemente, merita esser o lodata o biasimata; onde, avendo ella per sé il fine di giovare con l’esempio, il difetto non può mai esser suo, ma sì bene di chi mal se ne serve19.

Secondo quanto sottolinea Giovanna Romei20, “non è da escludere che il secondo prologo ‘per recitare’ sia, se non di altra mano, frutto di precise indicazioni del committente”. Siro Ferrone, del resto, ha ricostruito sulla scorta di inequivocabili documenti d’archivio la storia della realizzazione editoriale del Finto marito, dimostrando come il suo strutturarsi risponda tutto a precise indicazioni di don Giovanni de’ Medici, che l’autore dovette accettare più per volontà del suo nobile signore che non per convinzione personale21. 2. Un comico in costume da cavaliere Il pensiero di Flaminio Scala porta audacemente in primo piano non solo un’idea di teatro tutta centrata sull’assoluta specificità

19   F. Scala, Prologo per recitare, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 553. 20   Nella nota introduttiva al Prologo per recitare cit., p. 551. 21   Cfr. S. Ferrone, Dalle parti “scannate” al testo scritto, in “Paragone. Letteratura”, XXXIV (1983), n. 398, pp. 56-57; nonché Arlecchino rapito. Sulla drammaturgia italiana all’inizio del Seicento, in AA.VV., Studi di Filologia e Critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, Salerno Editrice, Roma 1985, vol. I, pp. 23-25.

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extra-letteraria del linguaggio scenico, ma ancora una più generale impostazione ideologica che – esaltando come uniche vere fonti della conoscenza l’esperimento pratico, e l’“esperienza” fisica diretta – non esita ad entrare in aperta polemica con il principio di autorità, e sembra pronta a irridere “qual si voglia gran filosofo morale, che con ben ordinata scrittura [...] e migliori ragioni esorti alla virtù, persuadendo a lasciar da canto la sensualità”. Tende invece proprio ad auspicare il dominio di norme autorevoli certe sull’ovvio disordine concorrenziale e sull’altrettanto ovvia variabilità di esiti formali tipici del mondo dello spettacolo primo-secentesco, l’intera bibliografia di un altro grande attore del periodo, collega e rivale tanto di Tristano Martinelli quanto dello Scala: Pier Maria Cecchini. L’incipit del suo primo trattatello – Discorso sopra l’arte comica con il modo di ben recitare (1608), rimasto manoscritto, e pervenuto sino a noi nella trascrizione di Luigi Rasi – rimanda esplicitamente alle invettive d’un Tommaso Garzoni contro gli “asini incivili”: quella specie di gente di che fa menzione l’eccellentissimo Garzoni nella sua Piazza universale del mondo, che si vede per le cittadi vestiti alla divisa con pennacchi che prima che fossero suoi furono di mille altri, con cappe bandate di veluto che, inanzi che sia diventato banda, era calzone affaticato prima nella cittade e poscia in villa22.

E avanza subito l’idea radicale di sottoporre il teatro a ferrei sistemi di controllo che ne valutino con la massima severità aspiranti professionisti, dimensione etica, repertorio, originalità dei canovacci, esiti formali: dich’io che, prima che si lasciasse comparire alcuno in su le pubbliche scene, bisognerebbe intendere quel che egli sa, perché vuol recitare e se è instruto dell’ordine che si tiene, che in questo modo molti, che vengono a far comedie per non lavorare, tornerebbono a lavor senza far comedie, e certo che questo sarebbe cagione di molti beni. Il primo e più importante sarebbe ch’inviolabili s’osserverebbono le leggi del 22   P.M. Cecchini, Discorso sopra l’arte comica con il modo di ben recitare, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 69.

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recitare, né s’inciamperebbe per balordaggine in parole che punto si allargassero da gli onorati e lodevoli confini de l’onestade, né ci sarebbe tanta copia di sviati e ciarlatani che così spietatamente lacerassono questa povera comedia, la qual mi par tuttavia di udire che pianga e si lamenti per esser non solo per le bocche di molti ignoranti, ma ne’ meccanici banchi, su le pubbliche piazze strasinata. Un altro bene seguirebbe doppo questi, che, ristretto il numero de’ recitanti, quel poco sarebbe così virtuoso ed esemplare che non si vedrebbe altro che soggetti nuovi e corretti [...]. O povera comedia, [...] si metta un ordine e stabiliscasi un pratico, il quale vegga e approvi chi dee recitarti: che in questo modo le debbite circonstanze senza falo s’osserverebbono, si estirperebbono molti ignoranti, riducendosi in poca e studiosa quantità quelli che rappresentassero23.

La vera e propria ossessione dell’arbitrato censorio che sembra pervadere questa pagina sarà l’autentico Leitmotiv di fondo dell’intera trattatistica di Cecchini. Ma un imperativo del genere, nelle opere seguenti, preferirà presentarsi al lettore in forme meno clamorose: quelle del pacato e ragionato monito – rivolto verso colleghi o aspiranti attori – a praticare certe soluzioni espressive, e ad evitarne altre. In genere, simili memento si articoleranno in ossequio a due principi già in qualche modo esplicitati dal Discorso del 1608. Per dare vita a una performance di apprezzabile livello artistico, il comico deve assolutamente impegnarsi a rispettare con il massimo rigore i confini che delimitano e definiscono i tratti distintivi di una delle parti costituenti l’insieme del cast d’una messinscena qualsivoglia. Così occorre fare, per esempio, nel caso di attori impegnati a svolgere i ruoli – centrali per le dinamiche di ogni spettacolo – vuoi del primo vuoi del secondo servo. Come si specifica nei Frutti Delle Moderne Comedie Ed Avisi A Chi Le Recita (1628): È cosa molto necessaria e molto dovuta nella comedia che, dopo la parte di un servo astuto ed ingegnoso, il quale spiritosamente attendi senza buffonerie al maneggio della favola, che ne succedi un altro totalmente dissimile, il qual, rappresentando un goffo ed ignorante, paia   Ivi, pp. 69-70.

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anche tale con il fìnger di non sapere, di non intendere o di non poter dire quello che li viene ordinato; onde poi naschino graziosi equivoci, ridicolosi spropositi ed altre artificiose goffagini, le quali, portate in iscena da chi è ben capace di quest’ordine, forma una parte di gran gusto24.

E la perfetta coerenza del singolo interprete con i tratti mimetici o dello zanni “spiritoso” o di quello “goffo ed ignorante”, secondo Cecchini, dovrebbe riguardare non solo tutte le componenti della recitazione, ma anche tutti i fattori che contribuiscono a una coerente definizione figurale del tipo-maschera. Per la logica degli Avisi, dunque, persino il processo che – all’alba del Seicento – avrebbe portato il secondo servo ad assumere parvenze (anche costumistiche) arlecchinesche andrebbe condannato come illogica violazione d’un ipotetico principio di corrispondenza tra condizione servile e verosimiglianza dell’abito indossato da chi deve rappresentarla: L’abito adunque vorrebb’esser moderato, il quale si è molto allontanato ed a gran passi discostatosi dal convenevole, posciaché in vece de’ tacconi o ratoppamenti (cose proprie del pover’uomo), portano quasi un recamo di concertate pezzete, che li rappresentano morosi lascivi, e non servi ignoranti. Sì che lo sconcerto dell’abito par che indizii quello dell’ingegno25.

Il secondo principio che ogni buon professionista dovrebbe osservare puntigliosamente impone l’assoluto rispetto dei limiti entro cui l’estrinsecarsi espressivo della singola parte deve mantenersi per non turbare – o, peggio, compromettere del tutto – il complessivo piano di sviluppo del plot stabilito da un canovaccio. Ovvero l’andamento generale del difficile gioco di equilibri e di rapporti reciproci che deve regolare la convivenza d’un insieme di parti. A giudizio di Cecchini, soprattutto la comicità un po’ surreale del secondo servo sciocco può correre il rischio di manifestarsi – oltre che in forme giudicate assurdamente puerili – attraverso 24   P.M. Cecchini, Frutti Delle Moderne Comedie Ed Avisi A Chi Le Recita, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 85. 25  Ibidem.

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soluzioni affatto incongrue all’economia complessiva d’una performance eseguita a regola d’arte: Sogliono questi folletti o precipitosi cascanti, senza punto chieder licenza al soggetto della comedia, uscir molte volte nel teatro nel tempo per lo apunto che una o due parti gravi parlano e si affatticano intorno a materia spiritosa e difficile, e quivi dire: “Fatte poco romore, ché la gallina fa l’uovo”, overo “La pentola non può bollire”, levando, con questi graziosi concetti o simili, la maestà e l’applauso alle fatiche di chi senz’altro studiava quando costoro dormivano; onde sarebbe gran bene che facessero opera che quella gallina e quella pentola avessero tanto di pazienza, o a bollire o a far l’uovo, che quelli fossero giunti al fine ed agiustato quello che assai più importa. Non mancano ancora alcuni di questi bei spiriti, nello scioglimento della favola, di saltar fuori e con una loro cascata precipitar quanto sino allora si è inteso, non curando, per far rider cento pazzi, di offender quel numero de’ savi ed intendenti che in estremo godono di quello snodamento che si era quasi ridotto indissolubile26.

Ma, se le reprimende di Cecchini insistono di preferenza sull’eventuale attivismo sfrenato del secondo Zanni (anche perché la sua comicità è componente privilegiata d’ogni spettacolo), non risparmiano di certo tutte le altre parti. Anzi, finisce coll’essere proprio una dettagliata rassegna critica dei ruoli che i singoli attori possono svolgere in una compagnia la modalità di strutturazione che sembra dominare e distinguere il breve contesto dei Frutti Delle Moderne Comedie. Ne deriva il primo definirsi di quel modello di troupe che viene generalmente considerato il meccanismo-base della Commedia dell’Arte: un insieme di parti fisse costituito da una o più coppie di “innamorati”, i due “vecchi” (il mercante veneziano e il dottore bolognese), i due servi zanneschi, il capitano vanaglorioso, più eventualmente alcune funzioni variabili di contorno. Va comunque notato che, se l’esplicita sequenza degli argomenti via via affrontati da Cecchini sembra davvero riflettere una situazione del genere, la logica cui essa risponde risulta poi alquanto fluida e confusa (il dottor Graziano, ad esempio, viene discusso due volte: la prima considerandolo   Ibidem.

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soggetto unico d’un apposito capitoletto a lui intitolato, la seconda tornando a trattarlo in quanto esponente delle “parti gravi”). E, soprattutto, che questa logica appare comunque distinta dalla scelta di mantenersi aperta ai mutamenti che nuove proposte e capricci di mode possono apportare anche al meglio strutturato e più organico immaginario dello spettacolo (come testimoniano i capitoletti conclusivi della rassegna, dedicati alle Parti napoletane e a Pulcinella: entrambi introdotti dalla significativa notazione “In queste nostre parti di Lombardia si sono seminati diversi personaggi alla napolitana”27). Una normalizzazione estetica capace di ovviare ai dislivelli di valore presenti nel mercato dello spettacolo, favorendo una produzione qualitativamente tanto omogenea quanto apprezzabile anche sul piano etico, e una regolamentazione organizzativa adatta sia a selezionare professionisti seri sia a farli lavorare in un contesto economico ottimale costituiscono gli obiettivi cui guardano tutte le pubblicazioni di Cecchini. Tra di esse, però, assumono funzione emblematica – soprattutto per la loro accorta impaginazione – i Brevi discorsi intorno alle Comedie, Comedianti e Spettatori, pubblicati per la prima volta a Napoli nel 1616. I temi che essi affrontano sono, ancora una volta, “quali rappresentationi si possino ascoltare, et permettere”28, e quali “avertimenti” debbano seguire attori, principi ed ecclesiastici per convivere in felice e produttiva armonia. Ma, in questo caso, il comico sceglie di enunciare i suoi soliti “avisi” fondandoli29 su una sorta di metafisica della professione teatrale, considerata quale unica attività benefica entro un oceano di mestieri votati al male: Vediamo a chiari segni, ed a evidenti prove nel mondo non v’esser quasi professione [...], che non habbia l’animo, o l’officio intento al danno. O almeno al disturbo del prossimo, e molti alla rovina, e morte; [...] ed ecco chi ha molto grano, ha con esso desiderio di carestia [...]. Quelli che vendono robbe mangiative vorrebbero, che tutti fossero pa-

  Ivi, p. 88.   Così recita il frontespizio dell’opera. 29   Non senza una certa dose o di amara ironia o di spirito di rivalsa: considerando che l’attore fu dichiarato reo di omicidio, e venne perseguito da diversi bandi (cfr. Ferrone, Attori mercanti corsari cit., pp. 290-291). 27 28

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rasiti [...] i Calzolari, e Ciavattini, ch’ogni giorno si rompessero le scarpe; Medici, Speciali e Barbieri, che le malatie fussero lunghe; Capitani, e Soldati, che il mondo fusse tutto in guerra; Avvocati, Procuratori, e Notai, liti e discordie continue [...]. Solo il Comico per sua natura (e per conseguenza del suo essercizio) desidera a tutti vita lunga, animo quieto, sanità continua, conservatione de’ beni, riposo, pace, sobrietà, abondanza, e finalmente ogni bene: poiché dal bene, quiete e pace altrui, ne trahe lo sostentamento di se, e casa sua30.

È sulle fondamenta d’una simile definizione dello status sociale dell’attore – tanto unico quanto promotore di innumerevoli benefici per l’intera comunità in cui opera – che Cecchini stabilisce un suo ideale di teatro regolato da “ordini” che sappiano valutare quanti siano davvero degni di entrare nel “numero de’ recitanti”, nonché da “avisi” in grado di ottenere “ch’inviolabili” si osservino “le leggi del recitare”. Ma è solo nel quadro d’un organico e ben funzionale sistema economico-organizzativo del mondo dello spettacolo che una simile visione può realizzarsi. E l’autore dei Brevi discorsi ne è tanto consapevole da evocare – al culmine della sua teoresi – una nitida alternativa al disordine del libero mercato vigente nelle contrade italiche: gli ordinamenti sui quali si regge, in gran parte, il teatro spagnolo del Siglo de Oro. Quasi a conclusione del trattato, il comico ricorda che: In Spagna sono tenute le Comedie in tanta consideratione, e conosciute di tanta conseguenza, che per commodo loro, e publico beneficio, vi sono stati in ogni luoco di quei Catolici Regni, eretti Teatri, e fatto Scene, che mostrano chiaramente, che con la vita del mondo devono conservarsi in que’ paesi, e acciò che si vegga, che non da gente vana, o popolare, vengono somministrati tali aiuti a questa professione, hanno gli propri Hospitali grandi di quei luoghi, del loro erario fatto fabricar quelle stanze, dalle quali non isdegnano trar frutto, con il far da’ suoi agenti allogar sedie, e palchi a commodo universale dell’auditorio; anzi ch’il Comico viene sovenuto da questi luoghi, non solo d’habitazione; ma di denari e favori.

30   P.M. Cecchini, Brevi discorsi intorno alle Comedie, Comedianti e Spettatori, Pinelli, Venezia 1621, p. 12. Le successive citazioni da Cecchini, rispettivamente a pp. 16, 12 e 13.

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Se in Italia vige l’abitudine delle “stanze” private che le singole compagnie devono affittare per poi gestirne il funzionamento in un breve arco di tempo a loro esclusivo rischio e pericolo, in Spagna ha assunto un peso preponderante il complesso di veri e propri luoghi del teatro fatti costruire da istituzioni ospedaliere che ne ricavano utili per le proprie attività, ma che in compenso sono interessate a dotarli sia di arredi per il “comodo dell’uditorio” sia di servizi e di fondi finanziari usufruibili dagli attori. Così, mentre nella penisola italica ci si accapiglia per stabilire se il recitare sia attività lecita o illecita, in quella iberica i professionisti della scena fanno parte a pieno titolo del variegato mondo dei mestieri. Non solo, ma possono addirittura venir gratificati da riconoscimenti ufficiali che li portano in alto nella scala sociale: Sono di così honorata conditione quei Comici, che non è stato interdetto loro lo ascender a’ gradi; ma vi sono di proprio moto dalla gloriosa memoria del Catolico Re Filippo II stati conferiti per riconoscimento dell’acutezza de i loro ingegni.

L’ultima osservazione, in realtà, serve a Cecchini – oltre che a riferire un dato incontestabile – per introdurre un grande coup de théâtre, predisposto al fine di concludere il breve trattato con una esibizione fuori dal comune: Dio buono, e perché debb’io tacere, anzi perché non debb’io dire quello, che dalla spontanea volontà del nostro Imperator Matthias Regnante è derivato? Ed è pur vero, che estollendomi sopra al numero de’ Cittadini, mi ha inalzato, e posto nella schiera de’ gentil’huomini, e pretendenti, come se di quattro Avi Paterni, e Materni fossi nato Nobile [...]. Ma perché non è giusto che il mondo apperto non vegga, quello che qualche malevole negar potrebbe, mi risolvo di far imprimere il privileggio di Nobiltà.

Il libro d’attore, dunque, ha come scena conclusiva lo schiudersi del sipario sull’epifania del prolisso decreto imperiale che – in data 12 novembre 1614 – conferisce, attraverso canonico linguaggio latino, a Pier Maria Cecchini il titolo di cavaliere. Il finale dell’opera, da tutti i punti di vista, fa da esatto pendant al prologo da cui aveva preso le mosse: tre pagine di citazioni teologiche la­120

tine tratte da auctoritates non ostili al teatro31. Il cosmo del teatro ideale tratteggiato dal comico sceglie di presentarsi al lettore ponendosi al centro di una accorta regia che lo incastona tra antiche voci di religiosi benevoli, e vecchi rituali cortesi riciclati per poter conferire patenti aristocratiche persino a scelti protagonisti dello spettacolo moderno. 3. I corsari della scena La prima parte dello ‘scenografico’ trittico nobilitante inscenato dai Brevi discorsi, quasi fosse appunto un versatile oggetto di trovarobato teatrale, ricompare pressoché identica all’interno della più vasta e organica opera a stampa dedicata da un attore secentesco alla difesa della sua categoria dalle accuse di parte ecclesiastica: La Supplica. Discorso Famigliare, “diretta a quelli che” – secondo quanto recita il frontespizio – “scrivendo o parlando trattano de’ Comici trascurando i meriti delle azzioni virtuose”. Questo celebre scritto di Nicolò Barbieri, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1634 e poi ancora edito in forma più ampia a Bologna due anni dopo, si presenta come l’estremo stadio di maturazione d’un processo che l’attore-autore avvia nel 1627, con il Trattato sopra l’arte comica32, e prosegue con il Discorso famigliare intorno alle moderne comedie (1628). Il titolo ultimo va inteso non tanto nel senso (oggi quasi esclusivo) di “preghiera accorata” quanto in quello maggiormente diffuso nel primo Seicento: laddove “supplica” funge da termine tecnico del linguaggio giuridico, e indica l’appello indirizzato a una qualche autorità legale affinché si pronunci – sulla scorta di ragioni e prove a tal fine addotte – in favore d’un soggetto che si ritiene vittima di azioni ingiuste. I giudici cui idealmente si rivolge Barbieri, com’è logico attendersi, sono gli uomini di Chiesa che polemizzano contro gli spettacoli. E appunto da giudice – severo ma non malevolo: anzi, intelligentemente

31   Sulle complesse vicende di questa silloge di auctoritates, pubblicata e ripubblicata più volte sotto diversi nomi d’attore tra il 1601 e il 1636, si veda Ferrone, Attori mercanti corsari cit., pp. 209-211. 32  Si tratta sempre dell’identica antologia di testi teologici favorevoli al tea­ tro già usata da Cecchini.

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comprensivo – sceglierà di rispondergli Gian Domenico Ottonelli dalle pagine di Della Christiana Moderatione del Theatro. L’autore della Supplica, non diversamente dal Cecchini dei Brevi discorsi, si dichiara – ma, qui, con forte enfasi preliminare – interessato in primo luogo a parlare della propria attività in quanto professione: Ragionando della comedia, non intendo trattare del Poema diffinito da Orazio, Aristotile ed altri [...]; ma intendo parlare della mia professione, difendendola come saprò, mostrando a chi è mal informato dell’esser suo come non è vile né scandalosa, [...]; pertanto sotto questa voce di comedia voglio sempre inferire l’arte in genere, qual rappresenta tanto comedie quanto tragedie, pastorali, tragicomedie, pescatorie ed altr’opere miste, atteso che noi rappresentiamo istorie e favole, intrecciando le cose serie fra le giocose, per non render nel corso d’una stagione sazietà ne’ gusti, e far manchevole, co’ gusti di coloro che n’ascoltano, l’utile nostro33.

Si tratta, dunque, del mestiere d’attore inteso secondo l’intera gamma delle sue potenziali specificazioni espressive: tutte giustificate – quanto alla loro compresenza in un ideale repertorio-tipo – dall’identica necessità di risposta sia ad una variegata domanda da parte del pubblico sia alla ricerca di guadagno che motiva l’agire dei comici. Per quanto attiene, poi, al “giocoso” tipo di performance di cui è perlopiù protagonista (e che risulta essere, in ultima analisi, l’unica fenomenologia davvero in questione), Barbieri – ben diversamente da come aveva impostato la sua teoresi Flaminio Scala –, pur considerando il proprio operare artistico quale raffinato erede moderno del teatro comico fiorito nel paganesimo, non intende difenderne un’immagine tanto elevata da comportare l’apertura d’un qualsiasi contenzioso con accademici, drammaturghi e letterati. La Supplica vuole tutelare a spada tratta la causa di un mestiere cui possa essere riconosciuto il merito di risultare qualitativamente ineccepibile sia sul piano estetico sia a livello morale, ma si rifiuta senza margini di ripensamento all’ipotesi secondo cui questo mestiere sarebbe detentore supremo della sapienza necessaria al 33  N. Barbieri, La Supplica. Discorso Famigliare, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 578.

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fare teatro. O, almeno, sceglie di non esplicitarla mai. E preferisce sperimentare sino in fondo il non facile doppio binario sia delle puntigliose repliche a tutte le accuse di parte clericale, sia dell’accumulo di prove che sarebbe necessario fornire per certificare i tratti autonomamente distintivi di un professionismo non ancora accreditato, nonché le ragioni della liceità estetica, sociale ed etica delle “cose giocose” perlopiù prodotte da quel professionismo. Quanto a queste ragioni, il compito di definirle appare subito tutt’altro che agevole. Lo si vede già dal primo approccio tentato da Barbieri, che esordisce provandosi a giustificare non senza contorsioni un po’ imbarazzate l’evidente protagonismo assoluto della “giocondità” nel contesto complessivo delle performances che si realizzano e si vendono di norma nel suo mestiere: poiché, quantunque l’intenzione dell’opere dramatiche siano tutte più all’utilità che al dilettamento dirette, nulladimeno il maggior capitale che facciano i vaghi della comedia è il diletto, ove ne convien porre l’utile immascherato di giocondità, come col zucchero si cuoprono gli antidoti per li malori de’ fanciulli, acciò che come confetti, e non come medicine, siano da loro inghiottiti; altrimenti facendo, il popolo non avrebbe gusto, e senza il di lor gusto ogni picciolo teatro sarebbe sufficiente all’auditorio ed ogni picciola borsa sarebbe capace al nostro guadagno, essendo ch’il senso ha più seguito nell’umanità che non ha la ragione; e poi il gusto è via e condimento a tutte le umane azzioni34.

Se la produzione di spettacoli è da considerarsi alla stregua di ogni altra industria, il vero capitale su cui questa impresa può contare davvero è la sete di divertimento. Che, poi, la necessità di assecondare anche (se non soprattutto: come sovente di certo avveniva) i più rilassati gusti del pubblico pagante fosse da considerarsi davvero come il tassiano velo di zucchero destinato solo a contrabbandare la pillola amara di insegnamenti tanto utili quanto severi, i detrattori degli spettacoli non avrebbero potuto crederlo molto facilmente. E neppure Barbieri ne sembra convinto al cento per cento, visto che – dopo aver accennato solo di sfuggita una giustificazione che possa far annoverare la produzione degli spettacoli tra i mestieri di chiara e indubitabile utilità   Ibidem.

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sociale – preferisce ripiegare sull’esibizione polemica d’una ricca rassegna, non priva di apposite statistiche, di professioni dedite o a diffondere merci palesemente inutili o a spargere per il mondo strumenti micidiali ipocritamente catalogati come mezzi di difesa: Quante professioni si esercitano nelle città che non servono ad altro che alle vanità ed al danno del prossimo? Quanti vivono col far dadi, carte, palle, palloni, bracciali, palamagli, bocchie, sbrigli, trucchi e altri simili? Quanti guadagnano a far fiori finti, fogge di bindelli, vezzi da collo, pendenti falsi, collane di vetro o paglia, gioie contraffatte ed altre vanità? Quanti si sostentano col far belletti, lisci, acque bionde, polveri, profumi per le donne, che ne potrebbono far di meno? Quanti campano la vita loro per far ordegni da uccider altrui? E questi sono tanti ed in tanto numero che sono un terzo de gli artegiani, e pur si lasciano vivere in pace e non sono offesi come sono i comici; anzi che sono accarezzati ed a’ loro lavori si dice che sono industrie, le vanità vaghezze della gioventù, i giuochi eutrapelia, le spade, archibugi, lancie, ed altri simili stromenti difensivi; e niuno argomenta che le armi siano il distruggimento de gli uomini, signor no. Ma [la comedia] diventa subito la corruttela de’ costumi, il costume de gli scostumati, l’idra, la chimera, l’arpia, insomma il veleno dell’anime. Oh, garbato35!

E non una sola volta simili considerazioni affiorano dal contesto della Supplica. Se Cecchini si era tolto lo sfizio di definire l’intero panorama delle professioni umane come uno sterminato falansterio di attività finalizzate solo a propiziare o “disturbo” o “rovina” tra gli abitanti del pianeta, Barbieri non lo segue sino in fondo, però lascia trapelare di bella posta una tanto irresistibile quanto non immotivata tentazione a farlo. Dopo aver abbozzato l’ironica provocazione, preferisce comunque ripiegare su una casistica delle arti che, se da un lato postula per ognuna di esse una dimensione etica legata non alla specifica attività in sé ma all’individuale livello di moralità del singolo praticante, dall’altro finisce col classificarle in due grandi ordini. Quello delle arti nobili, che producono oggetti più pregevoli sul piano estetico che non utili; e quella dei mestieri umili, che realizzano e diffondono beni primari e servizi di pubblica utilità:

  Ivi, p. 621.

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lascieremo ch’ognuno nella sua professione possa esser galantuomo mentre abbia timor d’iddio e non danneggi il prossimo, poiché tutti non possono esser pittori, scultori, orefici o gioiellieri; e l’arti men prezzabili sono forse le più bisognevoli: molte terre, ville e castella hanno più bisogno d’un sartore e d’un calzolaio, che d’un miniatore o d’uno che taglia in rame, ed ognuno in disugual merito tira ugualmente mercede. Non disputeremo adunque di nobiltà e lasciaremo l’infamia a chi non stima Iddio né cura il prossimo, e così salvaremo l’Arti e i poveri artisti che s’affaticano per vivere come il Ciel comanda e che la necessità insegna36.

Quale debba essere il versante su cui va collocata la professione d’attore, La Supplica preferisce non dirlo. Del resto, sospenderla in bilico tra le categorie del “nobile” e del “bisognevole” può rivelarsi soluzione tale da comportare più vantaggi che svantaggi... Ma erano ben altri, all’altezza del primo Seicento, i dilemmi urgenti e i possibili equivoci con cui doveva confrontarsi il mestiere dello spettacolo. Primo fra tutti, quella certa abitudine – non solo della gente comune o dei detrattori – a confondere nuovi comici e buffoni di cui già abbiamo constatato alcune tracce nelle Compositions de Réthorique di Tristano Martinelli, e che qui ritroviamo al centro d’una lunga disamina che sembrerebbe intenzionata a distinguere nettamente – una volta per tutte – il profilo del vero artifex scenico dalle smorfie vuoi del fool di ascendenza medioevale vuoi dei più moderni “cavalieri del piacere”37: qual è colui così sciocco che non sappia che differenza sia dall’essere al fingere? Il buffone è realmente buffone; ma il comico, che rappresenta la parte ridicola, finge il buffone [...]. La commedia è tutta finzione: taluno finge il vecchio e non avrà peli al mento e tal donna finge la fanciulla che averà fatto quattro e sei figliuoli. Sono tutte burle. Il comico è una cosa e il buffone è un’altra: buffone è colui che non ha virtù e che, per avere una natura pronta e sfacciata, vuol viver col mezzo di quella, o alla diritta o alla storta, o, se pur ha qualche poca virtù, la converte in buffoneria, motteggiando i difetti noiosi eziandio delle persone gravi, dando occasione che siano dal volgo derisi; buffone è colui che sta col cappello in mano avanti del suo principe, che dice   Ivi, p. 589.   Vedi supra, p. 106 n. 11.

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parole ingiuriose a’ cavalieri, che scorre con motti pungenti nell’onore, che racconta casi non molto onesti, che per danari si fa talvolta rader tutto il capo, [...] che tranguggia candele di sevo intiere, che mangia sporcherie, [...] e insomma che si fa vigliaccamente maltrattare per ingordigia d’aver denari38.

Il criterio distinzionistico tra il “fingere” proprio dell’artista scenico e l’“essere” tipico del buffone – per quanto potenzialmente suffragabile sulla scorta di solidi dati storici e antropologici – non può certo dirsi del tutto immune da critiche o da contestazioni. Non a caso, dopo averlo enunciato, Barbieri preferisce attestarsi in seconda battuta su di un criterio di giudizio non più ontologico, ma esclusivamente etico: l’attore è colui che opera una finzione “virtuosa”, il buffone va considerato un soggetto sfacciato e ignobile, privo (o quasi privo) di “virtù”, che traduce esibizionisticamente in atti abnormi e folli il vizio morale che lo affligge. Ma, adottando simili criteri dialettici, La Supplica non fa altro che valutare la categoria dei buffoni esattamente nello stesso modo che denuncia come inaccettabile, quando accusa gli ecclesiastici di aver demonizzato l’intera arte del teatro (e non chi la pratica in forme disoneste). Non stupirà, allora, che Barbieri – per chiudere il suo ragionamento su questo sdrucciolo motivo, decida di ricorrere, anziché a ulteriori esercizi di logica, a un più suggestivo gioco di metafore: Alcuni mostrano ove san Carlo Borromeo ha detto un non so che contro le comedie, ma non dicono che l’autore dice comedianti, mimi e buffoni, che, nel viluppo di questi essercizi, l’autore ha inteso parlare della schiuma o riassunto delle persone vili e non de’ comici virtuosi: anche a dir corsari, ladri e assassini par che si dica uomini del diavolo, ma in tal viluppo non si rinchiude que’ corsari illustri, che sgombrano il mare da’ ladroni pirati e che s’oppongono a’ nemici di nostra fede, ché vi è differenza da chi ha per arte il furto a chi ha per fine guerriero onore. Così vi sono comici tanto lontani dall’esercizio de’ mimi e buffoni quanto da’ corsari illustri a’ pirati, e forse ancora il benedetto pastore non aveva piena cognizione dell’arte comica39.

  Barbieri, La Supplica cit., p. 599.   Ivi, p. 650.

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A conclusione di tanto travaglio teoretico intorno al significato e al valore della professione scenica, la buffoneria si rivela – in realtà – semplice variante spuria del recitare. E, in quanto tale, può essere equiparata senza margini di distinzione a un’ulteriore variante spuria dell’identico mestiere: quel “mimo” che, nonostante il suo evidente richiamo all’antichità classica, è per Barbieri denominazione sintetica delle modernissime performances oscene tipiche di attori svergognati e ciarlatani. Risulta così possibile formulare il tutto nei termini esatti di una convincente equazione: l’attore professionalmente qualificato sta, tanto al buffone quanto al mimo, come il corsaro sta al pirata40. In questo modo, La Supplica consegue senza ombra di dubbio l’importante obiettivo di tracciare una nitida linea di separazione tra quanti, nel mondo dello spettacolo latamente inteso, vorrebbero farsi creatori solo di prodotti dalla qualità estetica ed etica in qualche modo garantita, e quanti sono disposti a offrire – pur di vendere – merci di contrabbando buone soltanto a smuovere i più bassi istinti. E lo paga, non sappiamo quanto intenzionalmente, al prezzo di collocare i comici (nell’ambito della società) in una posizione identica a quella che i corsari secenteschi occupano nel contesto delle marine militari: il ruolo di chi, pur riconosciuto e tutelato da patenti regali, è pur sempre un combattente irregolare tra i normali soldati. Ora, essere irregolare significa non figurare ufficialmente. Ma significa anche potersi servire, nell’esercizio della propria attività, oltre che di tutti i mezzi leciti, di tutti gli accorgimenti che una qualche legge consideri illeciti. Questa, d’altro canto, è proprio la 40   A proposito dei pirati e dei corsari evocati da Barbieri, Siro Ferrone – riferendosi alle pagine da me dedicate a questi motivi in Commedia dell’Arte. La Maschera e l’Ombra, Mursia, Milano 1981 – mi rimprovera garbatamente di non avervi colto “il segnale di un più vasto e consapevole sistema mitopoietico” che riguarderebbe in generale gli attori primo-secenteschi (cfr. Ferrone, Attori mercanti corsari cit., p. 45 n. 85). A questo proposito, sarebbe forse utile verificare caso per caso se simili immagini ‘marinaresche’ costituiscano davvero un “sistema mitopoietico”, addirittura collettivo. Nel caso di Barbieri, ad esempio, proporre una risposta positiva a un simile quesito sarebbe davvero alquanto pretestuoso, considerando che La Supplica non insiste neanche un po’ – né qui né altrove – su questa pur suggestiva metafora. Insomma: non ne fa per niente un “sistema mitopoietico”. Se ne avvale solo in funzione metaforica. Che poi si tratti di una bellissima e illuminante metafora, è un’altra questione.

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prerogativa che Barbieri finisce col riconoscere come tratto specifico della professione teatrale onorevolmente esercitata. Anche qualora si prendano in considerazione quei temi erotici, quei contenuti linguistici sensuali e quelle esibizioni del corpo femminile che i polemisti di parte clericale considerano inescusabili capi d’accusa da imputarsi a tutti i produttori di spettacoli: In Italia vi sono costumi differentissimi da una città all’altra. In Napoli le femine dicono famigliarmente “bene mio” a gli uomini, “bella faccia mia”, ed altre simili parole, ed in Lombardia queste sono voci da persone perdute negli amori o lusinghe di sfacciate concubine [...]. In certi luoghi le donne mostrano parte del petto e ’l principio della mammella, ed in altri luoghi vanno coperte fin al collo: e pur tutte vogliono esser donne da bene. [...] Il veder un piè nudo ad una gentildonna, overo un poco di gamba, pare gran cosa, e la concupiscenza travaglia: e le lavandaie e le povere contadine mostrano e piedi e gambe, e non vi si bada, e pur tutte son carni di femine, e l’onor delle donne è pur tutto ad un modo. E perché l’uno scandaliza e l’altro no? Questa è ragione dell’uso. Così l’uso del vedere le donne in comedia e l’udir i loro discorsi amorosi è un tal abito già fatto, per l’uso dell’arte, che non sollecita così facilmente la concupiscenza, come tali si pensano, e gli uditori abbadano a’ be’ concetti, all’efficace modo di porgere le cose, e si lasciano rapir dall’arte e non dalla libidine [...]. Così i discorsi amorosi delle comiche, sapendo ognuno che son finti, non vi concorre il mal animo, ma l’intelletto gode dell’eccellenza de l’arte41.

Al culmine del suo insistito impegno apologetico per ribattere colpo su colpo tutte le imputazioni che tacciano di infinite pratiche d’oscenità l’intero fare teatro del professionismo moderno, Barbieri – dopo aver per mille volte negato che attori e attrici onesti possano mai ricorrere a soluzioni equivoche – imprime una svolta sorprendente alla sua memoria difensiva. L’etica univocamente stabilita dalla Controriforma non tiene conto del fatto che lo status reale dei costumi varia col variare delle coordinate sociogeografiche. Il tacciare di oscenità i linguaggi della scena non tiene conto del fatto che questi linguaggi agiscono a livello di “eccel  Barbieri, La Supplica cit., p. 643.

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lenza dell’arte”, e non sul piano dei giochi di “concupiscenza” immediata. Per l’appunto: i comici non sono pirati intenti solo a rapinare tesori di “libidine”, sono corsari di finzioni amorose che combattono in nome dell’intelletto sotto la bandiera neutra della consuetudine artistica. A considerare nel suo complesso l’intero contesto della Supplica, si ha da ultimo l’impressione che il processo di lesa moralità cristiana cui l’autore si auto-convoca per invocare il giudizio delle autorità cattoliche sia solo una messinscena cui né l’accusato né i suoi accusatori credono sino in fondo. Come s’impunterà a dimostrare Gian Domenico Ottonelli, tutti i numerosi dettagli dell’arringa difensiva di Barbieri sono frutto di pie intenzioni nonché degni di essere discussi, ma non tali da vanificare la vigile diffidenza della Chiesa. L’attore stesso, d’altro canto, doveva essere consapevole del fatto che la causa da lui perorata non dipendeva certo da scambi più o meno dialettici di libelli diffamatori e di testi apologetici. La sentenza era già stata scritta. E non vi si trattava di pene capitali o di supplizi esemplari: semplicemente, si era stabilito in alto loco che il nuovo mondo dello spettacolo dovesse venir costretto, a ogni costo, entro i limiti di una “Christiana Moderatione”. Ovvero, in fin dei conti, qualcosa di non troppo distante dal quadro ideale entro cui Barbieri s’ingegna di far rientrare la sua idea di libera professione della scena. La Supplica vuole essere una difesa – ora accorata ora orgogliosa – di onesti artigiani del teatro contro le accuse di magia, di prostituzione, di buffoneria, e di pirateria dell’osceno. Ma la filigrana nascosta delle sue pagine finisce poi col tratteggiare una figura d’attore cui potrebbe competere il privilegio di oscillare (non solo per obbligo) tra immagini emblematiche opposte: tra il Virtuoso dell’illusionismo e – come abbiamo visto nel capitolo terzo – il Mago, tra la Diva e la Prostituta, tra l’Artifex e il Buffone, tra il Corsaro e il Pirata. Ed è in questo senso che l’opera pone le fondamenta dei moderni statuti della considerazione pubblica di cui possono fruire quanti per mestiere fanno spettacolo: non perché ne offra la prima definizione chiara ed univoca, ma perché indica le polarità entro le quali non ha ancora cessato di svariare. Per costrizione e per comodo.

V

Contrabbandi e provocazioni: tracce di repertorio

1. Capricci verbali di zanni, dottori e innamorati Le “comedie” più fortunate e più tipiche dei repertori proposti al pubblico dai nuovi professionisti italiani presentano come loro primo dato distintivo l’apparente paradosso d’un teatro le cui forme specifiche erano tanto chiaramente riconoscibili per ammiratori e detrattori contemporanei da comporre ai loro occhi un ben preciso modello di struttura drammaturgico-scenica, ma – nel contempo – risultavano connotate anche dalla ‘curiosa’ opzione che le portava a non fondarsi su di un preciso e compiuto contesto organico di drammaturgia scritta. E a non potersi dunque neppure risolvere, lasciando nitida traccia di sé, in un qualche prodotto accreditato d’un simile contesto. Le molte varianti di ciò che più tardi verrà definito Commedia dell’Arte, dunque, non sono documentate in nessun modo da compiute ed esplicite testimonianze di letteratura drammatica. Se ne possono soltanto additare sparse tracce pressoché prive di collegamenti tra loro, andandole per di più a scovare là dove – di primo acchito – non si penserebbe di trovarle: entro categorie di prosa e di poesia le quali (per le loro denominazioni, oppure per l’uso più o meno pretestuoso che di queste denominazioni viene fatto) sembrerebbero lontane le mille miglia da qualsiasi riferimento al mondo delle performances. Così avviene, per esempio, nel caso dei libri concepiti per raccogliere exempla di composizioni fantastiche messe sulla pagina in ­130

parvenza di lettere scambiate tra corrispondenti immaginari: un genere che, già nel primo Cinquecento, aveva trovato in Andrea Calmo un cultore interessato soprattutto ad usarlo per sperimentare “il primo repertorio linguistico di un proto-Pantalone, che lo stesso Calmo rappresentava in scena”1. Proprio tra le Lettere del poligrafo salentino Cesare Rao se ne trova una – databile attorno al 1585 – che sin dal suo titolo sembra dichiararsi esatta registrazione (o, meglio, traduzione, poiché l’epistola viene introdotta dall’avvertenza “di lingua bergamasca ridotta nella italiana toscana”) d’un pezzo di bravura del repertorio di Alberto Naselli, in arte Zan Ganassa: Lamento di Giovanni Ganassa con Messer Stefanello Bottarga suo Padrone sopra la morte di un pedocchio. È del resto evidente sin dall’avvio del brano che – qui – non abbiamo a che fare con l’andamento tipico d’una lettera, ma con un monologo comico connesso ad un inequivocabile antefatto scenico: Deh, caro Padrone, lasciate pianger a me, c’ho degna occasione di essere il più infelice ed isventurato ch’oggidì viva, poiché m’è morto il più caro amico e compagno ch’io avessi. E perché non ho io in questo luogo la facondia e l’eloquenza di Demostene, di Cicerone o di Quintiliano, da potervi descrivere il valor de’ suoi meriti e la passione dell’animo mio? [...] Questo, dilettandomi con soavi trattenimenti, a guisa di eccellente musico, faceva mille belle ricercate, ed isnellamente toccando gli attasti sicuri or con grave, or con veloce movimento, quinci e quindi leggiadramente scorrendo rendevami una perfetta e dolcissima armonia. Questo tenevami desto dal soverchio sonno, e con amorevoli ricordi, a guisa di sprone, mi pongeva e mi sollecitava alla cura delle cose mie; ed in somma mangiando, studiando, bevendo, vegghiando, dormendo ed in qualonque mia operazione m’era dolce e grata compagnia. Ahimè, che se si cercasse tutto il riverso Mondo dal levante alle polente, e quante [...] navi, ostarie, spedali, scole, taverne, prigioni e molini si ritrovano in esso, non si potrebbe di questo ritrovare il più garbato e gentile, di cui tanto sono le pellegrine virtù, quante si

1   F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, p. 98. Sulle lettere di Andrea Calmo si veda L. Zorzi, Tradizione e innovazione nel “repertorio” di Andrea Calmo, in AA.VV., Studi sul teatro veneto tra Rinascimento ed età barocca, a cura di M.T. Muraro, Olschki, Firenze 1971, pp. 221-240.

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ritrovano mosche in Puglia, taffani in Egitto, zenzale nel Pollesmo2, cavallette in Cipri, scarafaggi in Sardegna, moschini in Pisa, e vespe nella Maremma; o, per dir meglio, formaggie in Parmigiana, polente in Bergamasca, ravioli in Cucagna, manzi in Lodegiana, gnocchi in Piacentina, ricotte e salcizzoni in Bologna3.

Al di là di ogni possibile disputa sulla reale paternità del brano, resta comunque possibile considerarlo – in base alle parole di chi se ne dichiara semplice traduttore – come un tracciato nel cui sviluppo affiorano orme evidenti della comicità tipica d’un celeberrimo zanni del secondo Cinquecento. Per suscitare il riso degli spettatori, Naselli avrebbe fatto leva sul paradosso dell’uomo di bassa estrazione che, tra accorati lamenti, effonde un vero e proprio panegirico funebre su un esemplare di quegli insetti che più affliggono la gente del suo status sociale. In questa prospettiva, tutti i fastidi che i pidocchi possono provocare a chi ne è infestato si convertono o in gradevolissime forme di intrattenimento o in provvidenziali stimoli a una vita più attiva. E l’elogio culmina in crescendo col celebrare le innumerevoli virtù dell’amato parassita, declinate (in chiave di ammiccante assurdo grottesco) sul doppio registro metaforico d’un lungo catalogo di insetti perniciosi tipici di certe plaghe del Mediterraneo, e d’un altrettanto lungo menu di appetitosi piatti tipici delle cucine italiche. Il Lamento attribuito a Naselli ruota tutto su motivi topici del personaggio di condizione servile: le afflizioni quotidiane legate a sporcizia e povertà, il cibo. Di questi temi, però, il testo non solo sembra voler evitare con ogni cura qualsiasi implicazione seria ma propone sistematicamente una versione giocosa che li tratta come meri pretesti d’un virtuosismo verbale clownescamente funambolico. Del resto, anche la cultura che la bizzarra lettera-citazione di Rao attribuisce implicitamente al secondo servo Zan Ganassa è il sapere tipico più di un comico “folletto” (per dirla con Cecchini) che di un villano o di un valligiano inurbato ritratti in termini

  Zanzare nel Polesine.   C. Rao, Lamento di Giovanni Ganassa con Messer Stefanello Bottarga suo Padrone sopra la morte di un pedocchio, di lingua bergamasca ridotta nella italiana toscana, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 101. 2 3

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realistici: da un lato, si sciorinano senza incertezze i nomi delle massime auctoritates oratorie classiche; dall’altro si confonde in spensierata allegria occidente e “polente”. Occorre comunque sottolineare con la massima energia che il Lamento, così come possiamo leggerlo, sarebbe stato “di lingua bergamasca” ridotto “nella italiana toscana”. Non possiamo considerarlo né una testimonianza precisa del fondamentale linguaggio bergamasco che ne intonava e ne determinava l’espressività, né una dimostrazione esemplare di quanto l’interprete creava davvero sulla scena. Si tratta, in verità, solo d’una plausibile variante approssimativa dei temi, degli schemi logici e dei progetti formalmente prestabiliti a partire dai quali l’attore si disponeva a dare vita e voce alla sua maschera teatrale. Entro questi limiti, si può ipotizzare che lo zanni impersonato da Alberto Naselli non fosse tanto una rappresentazione comico-grottesca della greve condizione servile quanto la giocosa caricatura virtuosistica d’un bergamasco del ceto basso ritratto secondo un’ottica che ne esaltava soprattutto l’ilare dipendenza da una forte dominante ludica. Due anni dopo la comparsa del Lamento, Lodovico de’ Bianchi (attivo tra il 1576 e il 1589), che impersonava il Dottor Graziano nella Compagnia dei Gelosi, avrebbe pubblicato4 Le Cento e Quindici Conclusioni in Ottava Rima del Plusquamperfetto Dottor Graziano Partesana da Francolin, il cui incipit suona così: Mi son, come se sa, quel gran Dottor Sì fiamos in le litre, e sì sfondrad Che de tutt i longista a’ son mior, Al più savi, al più dot e al più agarbad Filosmo e delinquento parlador, Loico e fisio pien d’autoridad; E chi non cred la mia scienzia bona, Guarda la vesta, e po la mia persona. [...]

4   È stato avanzato qualche dubbio sull’effettiva paternità delle Cento e Quindici Conclusioni che vanno sotto il nome di Lodovico de’ Bianchi. In ogni caso, si tratta d’un chiaro specimen del linguaggio di scena tipico della maschera del Dottore.

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Qui comenza le Conclusioni, e prima: 1. La Rosa ch’è fiorida, sa da bon, 2. E l’uomo che camina, non è mort, 3. Un che sempre abbia stort, mai ha rason, 4. La nave ch’è in alto mar, è via dal port, 5. Chi non vol star in pas, faza costion, 6. E chi non vol andar pian, camina fort, 7. E quel ch’è fat a quadro, non è tond, 8. E chi non vol esser al prim, sippa al segond5.

In questo caso, se si vuole dar fede al nome cui viene attribuita la paternità dell’opera, avremmo a che fare con un testo dove è l’attore stesso a trascrivere una sua testimonianza relativa all’eloquio tipico della maschera che era solito impersonare. Lodovico de’ Bianchi lo avrebbe fatto raccogliendone una selezionata campionatura – in qualche modo, per lui, esemplare – all’insegna di quella categoria generica che rimanda a una formula tipica sia delle tesi universitarie sia dei dispositivi giuridici: la sequenza di “conclusioni” verso cui dovrebbero tendere tanto le dimostrazioni accademiche quanto le arringhe e le sentenze processuali. Ma l’infinita congerie di clausole pseudo-dialettiche e di certezze dimostrate che il Dottor Graziano va sciorinando senza una pausa di respiro, anziché comporsi nelle vesti illustri di un latino rituale, preferiscono indossare i più comodi panni domestici d’un irrituale dialetto bolognese abbastanza annacquato (che perdipiù ama giocare con un esercizio alquanto corrivo e lezioso dell’ottava rima). Qui, dunque, il linguaggio d’una maschera non traspare attraverso lo schermo deformante della traduzione, ma ci si offre così come può registrarlo una pagina da cui tragga materie-base da trasfigurare in onde sonore la phonè del comico. Del resto, anche certi tipi di deissi cui indulge la scrittura (“Guarda la vesta, e po la mia persona”), più che veicolare precisi contenuti semantici, rimandano a evidenze percettive che solo la presenza scenica, il costume e l’immagine complessiva dell’attore mascherato possono soddisfare a pieno.

5   L. de’ Bianchi, Le Cento e Quindici Conclusioni in Ottava Rima del Plusquamperfetto Dottor Graziano Partesana da Francolin, comico Geloso, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 129.

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Il lettore, insomma, dovrebbe ridere immaginandosi spettatore del personaggio che, mentre enuncia il suo status di sublimità intellettuale, esibisce e addita la grassa figura di un inguaribile ghiottone paludato da super-sapiente. È il gioco linguistico dello strafalcione involontario a tradurre sulla pagina una parallela compresenza comica degli opposti: per dire d’essere “eloquente oratore”, Graziano deve auto-denunciarsi come “delinquento parlador”. E appunto opera di ridicola delinquenza verbale risulta essere la sterminata monotonia delle Conclusioni: un tanto defatigante quanto surreale ripetersi senza fine delle affermazioni più stupide perché ultra-lapalissiane (come la scoperta della verità che recita: chi cammina non è morto). In misura non diversa da quanto traspariva attraverso il Lamento che Zan Ganassa avrebbe fatto udire al padrone Stefanello Bottarga, anche i monologhi in ottava rima messi a stampa per illustrare un topos del repertorio espressivo del Dottore tendono a restituire l’immagine non d’una qualche satira crudele e graffiante degli intellettuali italiani (medici, accademici, giuristi), ma della caricatura comica che si compiace di riprodurne taluni vizi – stereotipi a larga circolazione entro una vasta cerchia di opinione pubblica – in chiave di tormentone scenico sfruttabile a piacimento. Se i due esempi sinora presi in esame riguardano differenti settori delle parti (gli zanni e i vecchi) destinate a manifestare le varianti fondamentali della comicità che distingue gli spettacoli degli attori professionisti, i Cento madrigali di Adriano Valerini, pubblicati nel 1592, ci permettono di gettare uno sguardo sui temi, sulle tonalità e sulle tecniche caratteristici dello stilizzato eloquio d’un fondamentale ruolo serio: quello dell’innamorato. Figura scenica che aveva come unica maschera il bel viso truccato e le eleganti movenze d’una ideale giovinezza maschile in fiore, quest’ultimo – al pari della sua partner femminile – doveva fornirsi d’un repertorio di battute e di monologhi che era consigliabile far consistere, secondo Pier Maria Cecchini, in grande “quantità di nobili discorsi attinenti alla varietà delle materie che la scena suol apportar seco”6. Per realizzare un simile obiettivo, sarebbe occorsa “una frequente

6   P.M. Cecchini, Frutti Delle Moderne Comedie Ed Avisi A Chi Le Recita, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 83.

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lettura di libri [...] eleganti”7. Ed è appunto sulla scorta dell’agghindato retroterra della lirica petrarcheggiante cinquecentesca che Valerini compone e dà alle stampe quelle sue cento poesie d’amore dove la forma del madrigale viene ad applicarsi in tutta evidenza ai motivi-chiave di vicende sentimentali trasposte entro una trama scenica: il corteggiamento, la ricerca del piacere erotico, il tripudio di sentirsi corrisposto, la paura del tradimento, la ripulsa, la disperazione o la rabbia per un rapporto che si spezza. Come testimoniano ampiamente la letteratura drammatica contemporanea ai Cento madrigali e le convenzioni che, a partire dall’ultimo scorcio del Cinquecento, domineranno le scene sino al primo Settecento, il linguaggio in cui questi grandi temi del discorso amoroso vengono trasposti a teatro è quello del sofisticato concettismo: dove un qualsivoglia luogo comune delle fenomenologie erotiche trova espressione riflettendosi allo specchio d’un più o meno sorprendente termine di paragone metaforico. Ancora all’altezza del 1699, Andrea Perrucci, trattando della retorica necessaria a quanti – uomini e donne – devono impersonare le figure degli innamorati, chiama in causa l’autorità di Torquato Tasso per sottolineare il ruolo fondamentale che in questa retorica deve giocare un accorto impiego dei concetti: I concetti, disse il Tasso, non son altro che “imagini delle cose, le quali non hanno soda, e reale consistenza in se stesse, come le cose, ma nell’anime nostre hanno un certo loro essere imperfetto, e quivi dall’immaginazione son formate e figurate”. Da’ concetti poi, secondo lo stesso, nasce la locuzione. I concetti [...] da rappresentare non son altro che una locuzione breve figurata8.

Ma persino nel Teatro comico di Goldoni risuona un’ultima eco – impietosamente parodiata – delle durevoli fortune toccate in sorte a un linguaggio d’amore tutto incentrato sul “dolce stile” dei “traslati”. Lo scrittore Lelio importuna senza requie tutti gli attori, cercando invano di convincerli ad assumerlo (secondo le vecchie abitudini

  Ibidem.   A. Perrucci, Dell’Arte rappresentativa, premeditata ed all’improvviso. Bilingual Edition in English and Italian, a cura di F. Cotticelli-A. Goodrich HeckTh.F. Heck, Scarecrow Press, Lanham-Toronto-Plymouth 2008, pp. 104-106. 7 8

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dell’Arte) come poeta di compagnia. La primadonna Rosaura, intrepida sostenitrice della riforma goldoniana, lo affronta con decisione: rosaura  lelio  Sì

Signor Lelio ancora qui? mia signora, qual invaghita farfalla mi vò raggirando intorno al lume delle vostre pupille. rosaura  Signore, se voi seguiterete questo stile, vi farete ridicolo. lelio  Ma i vostri libri, che chiamate generici, non sono tutti pieni di questi concetti? rosaura  I miei libri, che contenevano tali concetti gli ho tutti abbruciati, e così hanno fatto tutte quelle recitanti, che sono dal moderno gusto illuminate [...]. lelio  Quand’è così, vi darò io delle commedie scritte con uno stile sì dolce, che nell’impararle v’incanteranno. rosaura  Basta che non sia stile antico, pieno d’antitesi, e di traslati. lelio  Ah, signora Rosaura, voi avete ad essere la mia sovrana, la mia stella, il mio nume. rosaura  Questa figura mi pare iperbole [...]. lelio  È possibile, che non vogliate esser medica amorosa delle mie piaghe? rosaura  Sapete cosa sarò? Un giudice legale, che vi farà legare, e condurre allo spedale de’ pazzi9.

Ai tempi di Adriano Valerini non sarebbe certo sembrato da “pazzi” parlare d’amore mettendo sulla pagina o facendo risuonare dal palcoscenico uno stile tutto “figure”, “antitesi”, “iperboli”, ecc. Al contrario, se capita che un giovane amante voglia esprimere nella forma più suggestiva le sue non troppo esacerbate doglianze alla partner che è solita maltrattarlo, secondo il Madrigale XL dell’attore, lo può fare soltanto evocando una inconsueta similitudine di forte impatto fantastico. In questo caso, addirittura l’immagine del boia che decapita il condannato: Poiché ben mille volte M’avete a torto ucciso e m’uccidete, Onde iniqua carnefice mi sete, Concedetemi almen quel che concede

9  C. Goldoni, Il teatro comico, in Il teatro italiano. IV: Carlo Goldoni. Teatro, tomo I, a cura di M. Pieri, Einaudi, Torino 1991, pp. 131-132.

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Al reo, facendo lui del capo scemo, L’esecutor de la giustizia estremo; Per premio e per mercede De la mia doglia, ch’ogni doglia eccede, Baciatemi ogni volta Che la vita da voi, cor mio, m’è tolta10.

Non diversamente, il Madrigale LXXI prospetta le scelte espressive d’uno spasimante tutto impegnato a informare l’oggetto delle sue brame di desiderarne, sì, la bella anima, ma anche l’appetibilissimo corpo, attraverso il doppio specchio metaforico sia della morte che separa l’“Alma” dal suo involucro terreno, sia dei diversi mesi preposti a generare prima fiori e poi frutti: Se l’Alma ignuda e sciolta, Donna, avesti dal velo e da i legami Del tuo bel corpo, amerei l’Alma sola, Senza più dir parola; Ma perché l’Alma è involta In questo corpo, il corpo è giusto ch’ami, E che di coglier brami Quel c’ha l’Aprile e il Luglio in voi produtto: Da l’Alma vostra il fìor, dal corpo il frutto.

Come risulta chiaro già da quest’ultimo esempio, l’eloquio dell’innamorato non si limita a giocare con gli stereotipi più convenzionali d’un etereo petrarchismo che consideri la donna solo in quanto astratto ente angelico da adorare platonicamente. Nel suo uso teatrale, il concettismo investe senza remore anche la dimensione del rapporto fisico, ed estende il suo raggio d’azione – secondo quanto evidenzia il Madrigale XCV – sino a inoltrarsi entro le tonalità tipiche d’una barzelletta sull’adulterio: L’altra notte io sognai, quando le stelle Dan loco al vicin giorno, di tenerti Stretta ne le mie braccia e di goderti: 10   A. Valerini, Cento Madrigali, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 160. Le due successive citazioni rispettivamente a p. 161 e pp. 161-162.

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Fa’ che non passi il sogno Per l’avorio, ben mio, de i denti tuoi, Perché saria fallace; Se vuoi ch’ei sia verace, Soccorri al mio bisogno, E passi il Sonno per la fronte poi Del tuo marito adorno, Ch’ivi la porta troverà di corno.

Secondo quanto recita l’Annotazione posta in calce ai versi citati: “Narra Omero, nel fine del decimo nono dell’Odissea, il ­ orta sonno aver due porte, l’una d’avorio, l’altra di corno, per la p d’avorio passano i sogni falsi, per quella di corno i veri”. Più adatto a lettori eruditi che a normali spettatori paganti, l’allusivo gioco di rimandi all’immaginario classico qui proposto da Valerini testimonia comunque d’una poetica teatrale pronta a trasporre qualsiasi tema e qualsiasi fenomeno della dimensione erotica, senza preclusioni, a livello d’una manipolazione verbale adatta a istituire continui giochi di rifrazione tra sentimentalismo e sesso, da un lato, e, dall’altro, la più eterogenea gamma di motivi in apparenza non riconducibili a quelle forme di relazione. Come l’amore istituisce tensioni e rapporti tra il maschile e il femminile, così il discorso d’amore si fa parte precipua dello spettacolo, istituendo capziose reti di tensioni e di rapporti tra un concetto e l’altro-da-sé di quel concetto. L’innamorato e l’innamorata, nelle performances dei comici professionisti, non danno vita a un teatro dove si esibiscano e si scontrino armonie e dissonanze di psicologie complesse e sfumate, ma a una scenicità di giovanili corpi fascinosi, e di voci che vorrebbero intrecciare nodi musicali inattesi, in un cattivante gioco tra stilizzate silhouettes dell’ego e l’universo mondo. Se un concettismo sofisticato e talvolta malizioso sembra essere la cifra stilistica più rilevata dei Cento madrigali di Valerini, il sistematico riproporsi dei complessi giochi di rispecchiamento, di riverbero e di con-fusione tra realtà e immagine, tra apparenza finta e sostanza vera, tra comportamenti esistenziali e fenomenologie artistiche assume un ruolo di assoluta centralità nell’esperienza creativa di Isabella Andreini. Lo conferma l’unica testimonianza valida a restituirci almeno un pur esilissimo barlume delle soluzioni che avrebbero distinto lo stile scenico della grande attrice. 139

Quella contenuta nel Diario (1589) di Giuseppe Pavoni, che la descrive mentre impersona la protagonista della Pazzia d’Isabella in preda a una crisi di follia: come pazza se n’andava scorrendo per la Cittade, fermando or questo, ed ora quello, e parlando ora in Spagnuolo, ora in Greco, ora in Italiano, e molti altri linguaggi, ma tutti fuor di proposito: e tra le altre cose si mise a parlar Francese, e a cantar certe canzonette pure alla Francese [...]. Si mise poi ad imitare li linguaggi di tutti li suoi Comici, come del Pantalone, del Graziano, del Zanni, del Pedrolino, del Francatrippe, del Burattino, del Capitan Cardone e della Franceschina tanto naturalmente, e con tanti dispropositi, che non è possibile il poter con lingua narrare il valore e la virtù di questa Donna11.

Al gioco virtuosistico che percorre una babele di linguaggi, si sovrappone lo scivolamento dalla phonè al canto, e ancora subentrano le molte sfaccettature delle ‘imitazioni’ in chiave spropositante di tutte le parti comiche della Compagnia dei Gelosi. Ma un orientamento stilistico in qualche modo parallelo lo si può riscontrare nell’intera produzione letteraria di Isabella, e soprattutto in quelle opere a stampa che, ora più ora meno esplicitamente, ci restituiscono indubbie tracce residue delle battute e dei monologhi attraverso i quali dava voce al ruolo della prima innamorata: le Lettere, pubblicate a Venezia nel 1607 dal marito Francesco dopo la scomparsa dell’attrice; e i Fragmenti di alcune scritture (Torino 1616): silloge di testi suoi e di Francesco raccolti e curati da quest’ultimo, ma editi da Flaminio Scala. Le Lettere risultano essere, in realtà, spezzoni di prosa dedicati a motivi di comune utilizzo, in qualsiasi trama di canovaccio, entro i monologhi previsti per la parte della giovane donna innamorata. Come questo, che – giusto il suo titolo – tratta il tema Della lontananza: Non così tosto mi fu dato in sorte di vedervi, che mi giunse per gli occhi al cuore la vostra bella imagine: onde l’anima mia, me da me divisa lasciando, venne a starsi con voi; e s’io son vissuta senz’anima 11  Citato in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 164.

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così lungo tempo, è stato solo perché la bella forma dell’imagine vostra ha fatto, e tuttavia fa in me, quell’offizio che già l’anima mia faceva. Né solamente il suo vago sembiante ha avuto forza di mantenermi in vita, ma mirabilmente anc’ha potuto rendermi riguardevole, tralucendo i suoi divini raggi da questo mio petto, non meno che tralucer soglia lume da vetro rinchiuso; e s’io non contradico a quel bello che ’n me di lodar vi piace, è solo perch’io conosco esser in me comendata la vostra bellezza. E non meno in me medesima veggo il mio dolce Signore, di quello ch’io vedrei me stessa mirandomi in lucidissimo specchio; onde mi maraviglio come, vinta da questa cara trasformazione, di me stessa non m’innamori. Ma perché non è possibile trattar con parole finite dell’amor infinito ch’io vi porto, e dell’obligo ch’io vi tengo, non sarò più lunga12.

Più che sulla separazione spaziale in sé tra amante e amato, il brano vuole incentrarsi sulle peripezie dell’immagine che l’amato lasciò impressa nell’intimo dell’amante prima che i due vivessero l’amara esperienza della lontananza. È tutto un gioco di lacerazioni, di sdoppiamenti, di sostituzioni tra immagini riflesse che vivono una loro vita autonoma. L’anima della donna si scinde dalla sua persona e va a vivere presso l’uomo. A sua volta, la bella immagine del personaggio maschile, allontanatosi dalla realtà corporea cui aderiva, viene ad abitare l’interiorità femminile. E non solo vi prende il posto e le funzioni dell’anima assente, ma finisce coll’informare di sé – della sua bellezza – la bella parvenza della donna. Tanto da far sì che quest’ultima, se guarda dentro se stessa, veda il caro sembiante dell’innamorato; se mira la propria immagine riflessa in uno specchio, contempli la sua beltà con-fondendola con quella dell’uomo. Sino a stupirsi di non essere divenuta amante di se stessa. Qui, come in un esercizio circense di volteggio al trapezio, la parola fa spettacolo restando sospesa sulle oscillazioni di un’altalena che spazia vertiginosamente tra condizioni psicologiche ed emotive verosimili e fantasmi dell’immaginario erotico-sentimentale. Sino a sfiorare con mossa compiaciuta il punto di non ritorno d’un paradosso estremo. Ancora una volta il tema della lontananza (ma – in questo caso – relazionato al motivo dell’ap12  I. Andreini, Lettere, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 184.

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parizione tanto fugace quanto fascinosa) costituisce il fulcro attorno a cui ruota non più un monologo, ma un modello di dialogo uomo-donna. Figura infatti tra i Fragmenti composti da Isabella quell’Amoroso contrasto sopra la commedia, dove una innominata Signora (trasparente portavoce dell’autrice) non esita a rivolgere insinuazioni di simile tenore a un Letterato: Io intendo che in questa città son arrivati molti comici, quali giornalmente recitano commedie pubblicamente. Credo che il vostro maggior diletto sia nel vedere quelle signore comiche, le quali intendo esser molto belle e graziose. E poi intendo che vanno riccamente vestite, che suol essere di grande accrescimento della bellezza femminile.

Per poi concludere, con un tocco di ambiguissima malizia: Guardate pur a non v’innamorare di qualcuna di loro, perché nella loro dipartenza sentireste poi grandissimo dolore, come intendo esser intervenuto a degl’altri nella nostra città13.

Se Niccolò Barbieri, nel suo sforzo di dimostrare che la supposta ‘pericolosità’ erotica delle attrici è solo frutto d’un preconcetto moralistico alimentato da ignoranza, si appoggerà al per lui risolutore argomento della presenza necessariamente effimera delle artiste teatrali (“vi vuol tempo a sapere la loro vita e costumi; inoltre a pena conosciute gionge il tempo della loro partenza, ove che poco possono far danno ancor che taluna inonesta fosse...”14), Isabella sottolinea proprio nella labilità di questa presenza il particolarissimo risvolto sia del potere di seduzione che la donna di teatro esercita sia del potenziale dispiacere che il suo speciale status conferirebbe all’innamoramento (sino a sconsigliarne la pratica ai sedentari letterati; ma forse anche sino ad allettarli, con crudele civetteria, verso un sentimento reso più sapido – o, comunque, meno impegnativo... – dalle spezie del doloroso distacco).

13   I. Andreini, Fragmenti di alcune scritture, Eredi di D.G. Tarino, Torino 1616, entrambe le citazioni a p. 359. 14  N. Barbieri, La Supplica. Discorso Famigliare, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 646.

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Non può certo essere ascritta al caso l’insistenza con cui la scrittura di Isabella frequenta il motivo del surplus di energia attrattiva che le vicende dei viaggi conferiscono – rendendola transitoria e fugace: dunque, preziosissima – all’epifania innamorante della donna. Ancora nel passo delle Lettere dedicato alle Lodi di bella donna, possiamo ritrovare questa mimesi dei sentimenti che, accesi da consimili situazioni, dovrebbero riverberarsi sull’intero pubblico maschile d’una qualsiasi città: Sì come la vostra amara partenza fu dolorosa e cagione della nostra morte, così il vostro dolce ritorno è giocondo mezzo per cui torniamo in vita. Ben dee rallegrarsi non sol ogni cuor amante del vostro felice ritorno, ma tutta la città ne dee far grandissima festa, poiché essendo priva di voi ella era senza ornamento, e parea ch’al sol dispiacesse di rischiararla, non ci essendo quella donna, la cui bellezza è cagione che egli raddoppia i suoi raggi, per meglio vederla15.

Al di là della retorica barocca, qui, l’evocazione ora del lutto ora della festa d’amorosi sensi che un coro maschile dovrebbe vivere in assoluta stupefazione, regolando il proprio tempo sul tempo esclusivo scandito dagli arrivi e dalle partenze d’una meravigliosa viaggiatrice perenne, rimanda inequivocabilmente a declinazioni esistenziali tipiche dei rapporti tra la diva dell’effimero spettacolare e i suoi fan. Del resto, nella pagina citata, Isabella non farebbe che usare il mondo quale metafora del teatro. Esattamente come altrove – ma sempre a proposito di dialoghi tra fantastici amanti – usa il teatro in quanto concettosa metafora del mondo erotico: ersilia  A voler comporre di questa vostra amorosa commedia vi bisognava aggiungere ancora di molti episodi, li quali mi credo che sarebbero stati quelli amanti che voi avereste avuti per concorrenti nel vostro amore. diomede  L’episodio nella tragedia e nella commedia s’intende quell’azione che si aggiunge alla principal azione per aiutarla ad aver la sua grandezza convenevole, che dimostri la natura del fatto che si propone di scrivere fin che si gionge alla tramutazione al suo fine,

  I. Andreini, Lettere, Zaltieri, Venezia 1606, p. 55.

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avvertendo che abbia la sua grandezza convenevole e (come ho detto) sia meravigliosamente intrecciata di peripezia, di riconoscimento affettuosa e non episodica: a tale che nell’amorosa mia favola non occorrevano episodi d’amanti concorrenti e rivali nell’amor mio, come avete detto16.

Implicandola nel faticoso schermo d’un compiaciuto esercizio retorico sulla retorica delle strutture drammaturgiche, Isabella svolge la favola d’amore di Ersilia e Diomede paragonandola alla falsariga che dovrebbe sorreggere ogni favola teatrale. Ersilia, mentre vive la sua vicenda sentimentale, vi proietta sopra schemi attinti dal mondo dello spettacolo: proprio perché vorrebbe esperire le peripezie dell’eros in luce di maliziosa intensificazione dell’avventura. Vorrebbe fingere peripezie di molti amanti, per destare i più acri sapori della gelosia di Diomede (come potrebbe avvenire in una commedia ben fatta). Il personaggio è, dunque, donna che sa il piacere e il valore della finzione sovrapposta al reale. Ma lo sa (e lo esprime in metafora di dramma) perché nasce come fantasma letterario finto da una donna-attrice. Ovvero da quella comica che – a significativa e inquietante premessa del suo più impegnato volume di poesie – poneva versi d’un simile tenore: S’alcun fia mai, che i versi miei negletti Legga, non creda a questi finti ardori, Che ne le scene immaginari amori Usa a trattar con non leali affetti, Con bugiardi non men con finti detti De le Muse spiegai gli alti furori, Talor piangendo i falsi miei dolori, Talor cantando i falsi miei diletti. E come ne’ teatri or donna ed ora Uom fei rappresentando in vario stile Quanto volle insegnar Natura ed Arte,

16  I. Andreini, Fragmenti di alcune scritture, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., pp. 205-206.

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Così la stella mia seguendo ancora Di fuggitiva età nel verde aprile Vergai con vario stil ben mille carte17.

Stabilito dalla forma della sua pubblicazione a livello di vero e proprio programma poetico della complessiva scrittura di Isabella Andreini, il sonetto citato sembra voler suggerire che il peculiarissimo (e, per ostentata modestia, poco ambizioso) timbro armonico che l’autrice riserva a se stessa sia quello inteso a illustrare sentimenti così consapevolmente menzogneri come lo sono i personaggi restituiti da un’interprete di professione. Esperta per eccellenza nell’arte di mimare passioni non realmente vissute, l’attrice che scrive si concede l’umile vanto di pagine vergate, appunto, inseguendo la filigrana della più sorvegliata e smaliziata coscienza d’attrice. Ma, se la materia artistica che ella usa si dichiara spudoratamente finta, si può essere certi che siano vere quelle – sempre alquanto consimili – esaltate nella produzione di un qualsivoglia rimatore? Sorge allora il sospetto che la candida innocenza ostentata dai versi di Isabella altro non sia se non la maschera d’una puntualizzazione maliziosa che, dalla dimensione bassa del teatro, volge il suo elegante aculeo contro gli alti cieli della cultura letteraria. E, nel farlo, accenna silenziosamente alla possibilità che abbia un qualche rapporto con la menzogna, non solo (come risulta evidente) quell’effimera professione attoriale che esaurisce tutta se stessa nella labilità dell’evento scenico, ma anche la disinteressatissima arte della parola scritta: da sempre sicura di poter attingere Aeternam Famam, grazie al suo ovvio perdurare. In fondo in fondo (sussurra il controcanto implicito nella poetica dell’attrice), al di là delle materie ora labilissime ora durevoli di cui viene a sostanziarsi, l’arte è una. Ed è – sempre e comunque – finzione sovrapposta al reale: elaborazione coscientemente menzognera d’una parvenza bella in quanto resa tale dal suo appartenere a un immaginario non greve e insignificante come il vero quotidiano della vita, bensì leggero, fascinoso e intenso come l’ingannevole epifania festiva d’una venustà che si manifesti fugace in qualche sosta d’un eterno peregrinare. Seducente, perché elusivo e inaf  I. Andreini, Rime, Bordone e Locarni, Milano 1601, p. 1.

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ferrabile, il bel prodotto della bugia artistica ha il suo nucleo segreto non in una nitida e tranquillante illustrazione della verità, ma in un enigma attrezzato per inquietare. Ma, se la menzogna sublimata in versi passa per pura poesia, mentre quella artificiata dall’interprete teatrale sulla scena può essere tacciata ora di buffoneria ora di volgare pratica seduttiva, ciò dipende solo da differenti opzioni culturali circa la pretesa nobiltà della scrittura di penna e la pretesa ignobilità dello scrivere con le proprie membra (e non da incontrovertibili differenze sostanziali). 2. Flaminio Scala: una drammaturgia di canovacci I Fragmenti di alcune scritture, se da un lato offrono un’ultima testimonianza della levatura letteraria di Isabella Andreini e dei repertori d’attrice su cui si appoggiava la sua arte scenica, dall’altro segnano l’atto finale d’una scelta sequenza di pubblicazioni che sembrano inequivocabilmente tutte segnate sia da una ben precisa progettualità editoriale in cui cooperano Flaminio Scala e Francesco Andreini, sia dal comune intento di illustrare il teatro degli attori professionisti promuovendone un’immagine sublime anche attraverso i libri a stampa: Le bravure del Capitan Spavento da Vall’Inferna (1606) e i Ragionamenti fantastici (1612) di Francesco Andreini; le Lettere di Isabella (1607); Il teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1611); e, appunto, i Fragmenti (1616). E potrebbe trattarsi di una operazione addirittura proemiata da una sorta di saggio introduttivo, se mai fosse possibile verificare l’ipotesi, suggerita con tutte le cautele del caso da Ferruccio Marotti18, che attribuisce a Flaminio Scala la paternità dell’anonimo scenario La schiava, comedia nuova e ridicolosa nuovamente posta in luce, ad instantia d’ogni spirito gentile (Pietro Bartoli, Pavia 1602), di cui ci è stato conservato il solo frontespizio. In ogni caso, le linee-guida alle quali dichiaratamente si ispira la significativa impresa di Flaminio e di Francesco si desumono senza difficoltà dalle prefazioni che i due appongono al Teatro delle favole rappresentative. Secondo Andreini, è innanzitutto necessario ovviare 18  Cfr. F. Marotti, Introduzione a F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di F. Marotti, Il Polifilo, Milano 1976, vol. I, pp. xxxviii-xxxix.

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in qualche modo all’ineludibile destino cui soggiace la gloria dei grandi attori-creatori, in quanto affidata solo alla loro viva presenzialità e all’effimero risuonare della loro voce: l’uomo non debbe solamente contentarsi dell’uso del parlare, ma debbe con ogni industria et arte lasciar di se medesimo e delle sue fatiche qualche memoria alle stampe, com’hanno fatto tanti19.

Scala, dal canto suo, focalizzando l’attenzione sui soggetti di cui si sente unico inventore, preferisce sottolineare energicamente un diverso aspetto positivo insito nel pubblicarli: in tal maniera sarà levata a molti l’occasione di appropriarsi le mie fatiche, poiché so che spesso compariscono di questi soggetti nelle scene, o tutti intieri nella maniera che qui li vedete, o in qualche parte alterati e variati. Sono miei parti, mia è l’opera, qualunque ella sia, e mio parimente deve esser quel biasimo, o quella lode, che merita20.

Ma se chiare esigenze di tutela sia del diritto d’autore sia della fama postuma offrono al progetto editoriale dei due comici motivazioni più che sufficienti per affidare alle stampe pagine firmate da loro stessi o da altri eletti colleghi, risulta invece alquanto difficoltoso motivare i contenuti specifici di quelle pagine, sempre molto remote dai canoni convenzionali delle forme drammaturgiche accreditate (se non addirittura incompatibili con essi). La distanza che separa le scarne e scarse righe d’un canovaccio dal “bel disteso” della normale commedia regolare, per esempio, è di certo incommensurabile. Scala sceglie di valicarla, come è tipico del carattere pugnace che lo distingue, saltandola a piè pari. Ovvero esaltando l’inedita forma del canovaccio o soggetto in quanto novità di per se stessa mirabile: Mentre io feci questi componimenti, che ora alle mani vi pervengono, non ebbi mai pensiero di palesarli al mondo in altra maniera che con

19   F. Andreini, Cortesi lettori, in Scala, Il teatro delle favole rappresentative cit., vol. I, p. 14. 20  F. Scala, L’autore a’ cortesi lettori, in Scala, Il teatro delle favole rappresentative cit., vol. I, p. 6. Anche la citazione seguente è tratta da qui.

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rappresentarli tal volta nelle publiche scene, poiché sono andato affatigandomi in tali cose solo per esercizio della mia professione di comico, e non per altro fine; ma li commandamenti de’ Patroni, l’esortazioni de gli amici e le preghiere di persone curiose mi hanno addotto a far nuova risoluzione, e darli alle stampe. Di ciò mi sono io poi facilmente appagato, conoscendo che [...] oltre l’esser opera (per quanto io sappia) da nessuno data in luce in questa forma, contiene tal varietà d’invenzione che potrà secondare gli appetiti e gusti di molti intelletti, li quali di simil cose, o per ricreamento, o per loro professione, si dilettano.

Meno polemica (e, forse, meno convinta) appare la motivazione che Francesco Andreini adduce – non senza diluirla tra corollari esplicativi alquanto pretestuosi – per giustificare la comunque peregrina scelta dell’amico Flaminio, in arte Flavio: el Signor Flavio, [...] dopo un lungo recitar sopra le scene, ha poi voluto lasciar al mondo (non le sue parole, non i suoi bellissimi concetti) ma le sue Comedie, le quali in ogni tempo et in ogni luogo gli hanno dato grandissimo onore. Avrebbe potuto il detto Signor Flavio (perché a ciò fare era idoneo) distender l’opere sue, e scriverle da verbo a verbo, come s’usa di fare; ma perché oggidì non si vede altro che Comedie stampate con modi diversi di dire, e molto strepitosi nelle buone regole, ha voluto con questa sua nuova invenzione metter fuora le sue Comedie solamente con lo Scenario, lasciando a i bellissimi ingegni (nati solo all’eccellenza del dire) il farvi sopra le parole, quando però non sdegnino d’onorar le sue fatiche da lui composte non ad altro fine che per dilettare solamente, lasciando il dilettare et il giovare insieme, come ricerca la poesia, a spiriti rari e pellegrini21.

Nel passo citato, è la stessa teoreticamente insolita equiparazione tra “Comedia” e “Scenario” a far da spia della difficoltà di presentare come veri e propri testi drammatici quei meri sunti di fabulae sceniche senza dialoghi che, se da un lato pretenderebbero di ovviare alla noia delle troppe “Comedie stampate con modi diversi di dire”, dall’altro non possono fare a meno di dichiararsi affatto alieni da una dimensione poetica che non riguarderebbe l’attore, ma soltanto eletti “spiriti rari”. Non a caso, lo stesso Scala, dopo aver dichiarato che gli artifici letterari sono specialità ap  Andreini, Cortesi lettori cit., pp. 14-15.

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partenenti “ad altra professione che alla mia”, decide di ripartire i propri canovacci “in cinquanta giornate”: come se si trattasse di prodotti in qualche modo ascrivibili alla novellistica d’ascendenza boccacciana. E non a caso la prefazione di Francesco culmina e si chiude evocando un più o meno consapevole gioco di equivoci tra il diversivo offerto dalla lettura di brevi racconti d’intrattenimento e il piacere di assistere a spettacoli coinvolgenti: Eccovi adunque le non mai a bastanza lodate fatiche del vostro tanto affezzionato Signor Flavio, le quali serviranno nell’ore oziose del giorno e della notte per passar via la noia, e per dar onesto e piacevol trattenimento a Dame e Cavalieri, che di simili spettacoli sono tanto bramosi22.

Idealmente sospesa tra il narrato novellistico e la traccia scritta dello sviluppo d’uno spettacolo, la mai veduta “forma” di drammaturgia delle Favole rappresentative sceglie – in ultima analisi – di offrirsi ai suoi potenziali fruitori come un canovaccio riveduto e corretto sulla scorta di un duplice criterio: liberarlo, almeno in parte, dalle convenzioni grafiche ed espressive tipiche solo di mestieranti della scena; ampliarne e distenderne la trama verbale quel tanto che risulti sufficiente a fare dei suoi contenuti una chiara (ancorché molto sintetica) sequenza espositiva di azioni parlate. Frutto particolarissimo d’un certo modo di praticare la “professione di comico”, il canovaccio non dovrebbe proprio – per suo statuto originario – “palesarsi”, al di fuori d’uno stanzone teatrale, “in altra maniera” che non sia il “rappresentarlo tal volta nelle publiche scene”. Imbellettarlo letterariamente e affidarlo alle stampe è senza dubbio impresa da nessuno mai “data in luce”, però è anche massima provocazione nei confronti di tutte le poetiche del Cinquecento e del Seicento, che considerano comunque unico esito praticabile della scrittura drammatica quello che il Forestiero del primo Prologo al Finto marito definiva “un bel disteso co’ suoi graziosi e ben formati periodi”. Ciò che resta di qualsiasi ipotesi di testo, una volta eliminata la tessitura mono-dialogica dei “ben formati periodi”, non può che risultare nuda trama non più espressiva, ma solo denotativa degli snodi percorsi dall’andamento d’una qualche fabula.

  Ivi, p. 15.

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E scarne Favole, appunto, sono ben coscienti di essere le singolari forme scritte rappresentative pubblicate dallo Scala: non senza accompagnarle con un appena accennato abbozzo di nuova poetica teatrale, che sembra prospettare – nelle parole del “Signor Flavio” – la più assoluta primogenitura dell’“invenzione” sulla retorica esprimente e discorsiva; e insieme – stando alle dichiarazioni di Francesco – una poco ortodossa scissione del binomio docere et delectare, che porta in primo piano un solingo delectare (stretto parente della “brama” di sempre nuovi spettacoli). Semplificato e tradotto in termini moderni, ciò significa che i “soggetti” editi da Flaminio Scala stanno ai canovacci da cui derivano e alle performances cui rimandano, pressapoco come – nel cinema attuale – le sceneggiature compiute stanno ai trattamenti che sviluppano e ai film che in base ad esse si realizzano. Il moderno mercato dello spettacolo inaugurato dai comici dell’Arte non si spinge di certo sino a proporre una qualche forma di persistenza e di riproducibilità dell’evento scenico, ma perviene comunque a praticare una sorta di sistematica liquidazione della tradizionale scrittura drammatica: sostituendo, ai suoi esiti formali canonici, inediti schematismi di essenziali fabulae sceneggiate. Che, poi, una soluzione del genere fosse davvero in grado di alimentare, secondo quanto avveniva per i generi drammaturgici accreditati, una produzione a stampa volta a soddisfare reali attese di potenziali acquirenti (“Dame e Cavalieri”) è azzardo cui scelgono di affidarsi con audacia Francesco Andreini e l’amico “Signor Flavio”. Ma risulterà, infine, essere esperimento tanto significativo per la categoria degli attori quanto impotente a fondare un nuovo genere di pubblicazioni: dopo il teatro di Scala, nessuna raccolta di soggetti ebbe mai più l’onore delle stampe. L’autentica funzione di quel volume, dunque, si compie nel segnalare provocatoriamente il livello di coscienza cui perviene – nel primo Seicento – un fare teatro che, equiparando gli spettacoli a merci di largo consumo e di intensa circuitazione, deve necessariamente considerarli come prodotti da presentare al pubblico, in rapida sequenza durante ogni singola tappa delle tournées annuali, sotto l’aspetto allettante dell’assoluta novità che si esibisce per una volta sola. Se una compagnia si ferma dieci giorni nello stesso luogo, dovrà produrvi dieci pièces diverse. Ma, in queste condizioni, al­150

lestire dieci messinscene almeno decenti di dieci testi drammatici studiati e appresi a memoria risulta o impossibile o insostenibile a livello di economia di gestione organizzativa d’una troupe. Di qui il funzionale ricorso alle scelte che privilegiano l’improvvisazione rispetto alla re-citazione, e lo svelto procedere attraverso sceneggiature sintetiche rispetto al prolungato confronto col “bel disteso”. Al di là di quanto significhino sia sul piano del più efficiente sviluppo d’un mercato dello spettacolo sia su quello del provocatorio definirsi d’una nuova poetica teatrale d’attore, i cinquanta soggetti pubblicati da Flaminio Scala offrono poi dati preziosi per intravvedere in via indiziaria alcuni tratti dominanti del repertorio che avrebbe potuto offrire al pubblico – tra Cinque e Seicento – una compagnia-tipo di elevate pretese artistiche (come quelle di cui fece parte, nel corso della sua vita, l’autore delle Favole rappresentative: gli Uniti, i Desiosi, i Confidenti). Naturalmente, nulla autorizza a considerare questa scelta campionatura di trame lo specchio fedele delle autentiche proposte di spettacoli sulle quali le singole troupe professioniste di livello medio e alto basavano le proprie tournées. Ma la fama del “Signor Flavio” e delle sue doti di “invenzione” drammaturgica (nonché gli accenni ai numerosi plagi che questa fama avrebbe suscitato) inducono a considerarla comunque una testimonianza attendibile almeno dei generi, dei temi, delle vicende e delle atmosfere sceniche più praticate e fortunate tra quelle potenzialmente usufruibili dai comici “illustri”. E, a questo proposito, andrà subito notato come, nel novero complessivo degli exempla offerti da Scala, solo dieci non appartengano al genere “comedia”: due “opere regie”, due “opere reali” (di cui una, lunghissima, ripartita in tre “parti”), una “tragedia”, una “opera eroica”, una “pastorale”, e una “opera mista” (Gli avvenimenti comici, pastorali e tragici). Se Niccolò Barbieri insisterà, più tardi, nel segnalare che l’arte cui si vanta di appartenere “rappresenta tanto comedie quanto tragedie, pastorali, tragicomedie, [...] ed altr’opere miste”, il Teatro delle favole rappresentative lascia supporre che il rapporto quantitativo medio tra i due grandi filoni spettacolari – quello “ridicoloso” e quello variamente ‘serio’ – sia sempre stato all’incirca dell’ottanta contro il venti per cento. Il settore minoritario, se da un lato contempla isolati esempi di pastorale e di virtuosistiche commistioni tra il comico, il pastorale 151

e il tragico, dall’altro – a somiglianza di quanto si verifica nei più o meno contemporanei teatri elisabettiano e spagnolo – abbraccia vari sottogeneri di trame avventurose e romanzesche (non aliene da esiti funesti) incentrate su personaggi o regali o di nobile condizione o favolosi, dai cui sviluppi non risulta però pressoché mai esclusa la presenza delle maschere, che vi introducono – secondo quanto avviene con i clown e i fools inglesi – le note tipiche della loro comicità grottesca. Da segnalare, ancora, l’eccezionale ma lungimirante presenza, che si realizza con le “parti” in cui viene a ritmarsi la diffusa materia dell’Orseida, di quello che potremmo considerare un potenziale archetipo dei moderni serials cinematografici e televisivi: un epico fantasy di guerre e di amori ambientato nelle magiche contrade di Arcadia, e diviso in varie puntate. Quanto al di gran lunga maggioritario genere “comedia”, contenuti e titoli dei singoli soggetti testimoniano senza ombra di dubbio in favore d’una drammaturgia che, pur continuando a poggiare sulle fondamenta dei modelli plautini e novellistici posti in auge da un Ariosto o da un Machiavelli, si affida in prevalenza al massimo incremento possibile e al più alto grado di complicata sofisticazione di meccanismi situazionali forti: gli equivoci, gli scambi e i giochi contrappuntistici di varianti generate dalle coppie e dai quartetti gemellari (Li duo vecchi gemelli, Li duo capitani, Li quattro finti spiritati, ecc.); i rimandi speculari, le confusioni e i nodi inestricabili tra realtà e simulazione della realtà (nei titoli di ben dieci soggetti su quaranta domina la presenza di aggettivi quali “finto” e “creduto”: Il finto cieco, Il finto negromante, Li due finti zingani, ecc.). Quasi sempre, nelle trame proposte da Flaminio Scala, musiche, canti e danze intervengono a costellare la recitazione. E, non di rado, vi si accampano in primo piano motivi poco frequentati dalla drammaturgia regolare, qui privilegiati soprattutto per la loro bizzarra e curiosa evidenza performativa. Così si spiega la preferenza accordata dalle Favole al tema della follia, pretesto ideale – almeno in un caso – allo strip tease della bella attrice: “Isabella [...] diventa pazza affatto, si straccia tutte le vestimenta d’attorno, e come forsennata se ne corre per strada”23. E così si verifica ancora ne La fortuna di Flavio, che – ambientandolo tra osteria e piazza

  Scala, Il teatro delle favole rappresentative cit., vol. II, p. 393.

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– tratteggia un particolareggiato quadro del mondo ciarlatanesco per inscenare un colorito spettacolo nello spettacolo: graziano ciarlatano, chiama l’oste, che venga a darli da desinare, perché vuol poi andare a montar in banco co’ suoi compagni. Orazio intende quello esser capo de gli altri ciarlatani; s’offerisce farli ogni favore, pregandolo che voglia montar in banco vicino a casa sua. Graziano: che lo farà; entra nell’ostaria con Burattino [...]. arlecchino ciarlatano, fa accomodare il banco da montare a vender la roba, poi [servitori] vi mettono sopra la sedia, la valigia, poi chiama i compagni. graziano turchetto vengono fuora dell’osteria, montano tutti in banco. Turchetto comincia a sonare e cantare; in quello flaminia alla finestra, sta a veder i ciarlatani; in quello burattino viene ad ascoltare; in quello franceschina arriva, si ferma per vedere; in quello pantalone arriva, saluta Orazio, e tutti si fermano a vedere. Qui Graziano tratta sopra la sua roba, fa l’imbonimento, Arlecchino il simile, Turchetto suona e canta24.

Utilizzando nei loro percorsi suggestive evocazioni d’un mondo cittadino inteso quale ricco repertorio di variopinte e bizzarre performances, le quaranta “comedie” della raccolta di Flaminio costituiscono altrettante declinazioni diverse di una sola fabula: il più o meno intricato intreccio tra avventurose peripezie esistenziali di personaggi ora sventurati ora intriganti, e complesse vicende erotiche e sentimentali destinate a concludersi in una sequenza di nozze festose. Il tutto condotto attraverso un più o meno ampio labirinto di equivoci, intrighi e beffe le cui linee devono essere in grado di alimentare sempre suspence e curiosità del pubblico. E ambientato entro quello spazio urbano di maniera del quale si è appena visto un vivace esempio, alle cui spalle possono stare invisibili prospettive di remote lontananze esotiche. L’ampiezza delle gamme di effetti comici percorsa da un simile schema di fabula traccia un arco che si apre idealmente con le tonalità giocosamente sessuali e scatologiche illustrate dalla frenetica scena musicale del Vecchio geloso in cui la giovane e bella Flaminia, moglie di

  Ivi, vol. I, pp. 33-34.

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Pantalone, si finge afflitta da un subitaneo bisogno per godersi di nascosto il suo amato Orazio: flavio arriva con tutta la comitiva, [pantalone graziano isabella flaminia burattino] salutano il Capitano, rallegrandosi del suo

arrivo. Flavio subito propone il sedere e di nuovo tornare a ballare, ma rinfrescarsi prima; tutti si pongono a sedere; [...] in quello pedrolino graziano servi con piatti pieni di confezzioni, fiaschi di vino, frutte, con bicchieri e sottocoppe, danno la collazione, nella quale ognuno mangia e beve; dapoi si comincia a ballare, facendo il ballo del piantone, e, mentre si balla, Isabella accenna a suo marito di voler orinare. Pasquella subito, con licenza di Pantalone, la conduce in casa. Pantalone subito, per gelosia, si pone a guardia della porta, e, mentre che di nuovo si balla, flaminia vorrebbe entrare in casa Pasquella; subito Pedrolino, perché non disturbi Orazio, la invita a ballare; e così ognuno vorrebbe entrare in casa Pasquella per far qualche servizio, e Pantalone tien detto: “Di grazia, non andate a disturbar mia moglie, la quale fa un servizio”. Alla fine vien fuora isabella tutta sudata. Pantalone subito la rasciuga col suo fazzoletto, dicendoli che quando gli vengono quelle volontà, che se le cavi e non patisca. Tutti si levano dal ballo, per andare a diporto, e così s’incamminano, e Pantalone gli seguita, asciugando il viso a sua moglie, la quale fa della vergognosa, accarezzando suo marito25.

Si tratta, potenzialmente, d’una “scena acre di sesso urina e sudore”26, che sembra rimandare, per la sua meccanica essenziale, a certe situazioni incise con crudeltà e violenza dalla penna di Ruzante. Ma, qui, proprio i sentori più ‘acri’ del “servizio” reso da Flaminia ad Orazio risultano molto stemperati entro il balletto comico del surreale ripetersi a catena d’un epidemico “voler orinare”, nonché entro un’atmosfera di spensierata festa campestre dove – allo stesso modo – si moltiplicano gli allettamenti gastronomici e le danze. Un analogo gusto di replicare in infinite varianti una trovata di sicuro effetto si ritrova attivo ancora al polo opposto dell’ideale arco di comicità frequentato dalle “comedie”: quello in cui opera prevalentemente non la dynamis dell’allusione sessuale, ma il mec  Ivi, vol. I, pp. 80-81.   Cfr. Marotti, Introduzione cit., p. lvii.

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canismo virtuosistico di magie illusive fondate talvolta sia su trucchi ottici sia su accorti stratagemmi mimici degli attori. Così avviene, per esempio, nella scena finale dello Specchio, quando l’oggetto che dà titolo alla favola rappresentativa viene sfruttato per visualizzare – tra evocazioni affidate alla parola e comici giochi di immagini riflesse – sofisticate sequenze di flashback, cui tocca il compito di svelare come sia stato rubato a Pantalone un preziosissimo anello: capitano:

in quello

che Laura ha un segreto da far trovar robba rubbata;

graziano arriva, intende dell’anello, si pacificano e d’accordo chiamano Laura, alla quale domandano aiuto col segreto per ritrovar l’anello di Pantalone. Ella si fa pregare, poi fa portare Uno scanno Uno specchio grande Due sedie basse Et, accomodato lo specchio sopra lo scanno, chiama le figlie di casa flaminia fabrizio sono fatte sedere e guardar nello specchio. Flaminia dice veder uno, figurando Pedrolino, e qui racconta tutti gli inganni di Pedrolino fatto alli vecchi con gli fiaschi; in quello pedrolino di nascoso guarda nello specchio. Flaminia dice: “Vedetelo, vedetelo!”. Tutti guardano nello specchio. Pedrolino, ridendo, si parte. Laura fa guardar Fabrizio, qual dice veder Arlecchino che fa una zuppa a Pantalone e vi mette dentro un’acqua d’un’ampollina, poi Pantalone che s’addormenta e che il detto Arlecchino li leva l’anello di dito, e ve ne pone un altro, e l’altro lo dona a Flavio; in quello arlecchino di nascoso guarda nello specchio. Fabrizio dice: “Vedetelo, vedetelo!”. Tutti guardano nello specchio. Arlecchino, ridendo, via. Flaminia torna a guardare, e dice veder Pedrolino qual piglia l’anello di Pantalone e lo nasconde nella manica a Graziano; in quello pedrolino arlecchino vengono e s’aggirano intorno allo specchio, via27.

3. L’imaginifica follia d’un Capitano Negli elenchi di maschere e personaggi che regolarmente precedono i soggetti di Flaminio Scala è presenza costante la figura   Scala, Il teatro delle favole rappresentative cit., vol. I, pp. 174-175.

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di Capitan Spavento: omaggio, forse, all’immagine scenica cui rimase più legata la fama dell’amico Francesco Andreini. E sono appunto Le bravure del Capitan Spavento la fortunata opera a stampa in cui quest’ultimo volle conservare memoria scritta dei suoi deliranti exploits scenici in veste di superbo militare vanaglorioso: “perch’io bramava di preservarmi, e di non cadere da quel grido che acquistato m’aveva [...], mi diedi con molto studio allo studio della parte del soprannominato Capitano solo per renderla, più che per me si poteva, ricca e adorna”28. Pubblicato in una prima edizione, che conteneva cinquantacinque Ragionamenti tra il soldato e il suo servo Trappola, a Venezia nel 1607, il testo tornerà ad uscire ancora – con versioni vieppiù arricchite di nuovi dialoghi – nel 1609 e nel 1615. Nel 1618, il comico pistoiese darà alle stampe La seconda parte delle Bravure. Infine, due mesi prima della morte, nel 1624, riunirà l’intero repertorio del suo Capitano nella versione definitiva, comprendente novantacinque Ragionamenti. A differenza di quanto si verifica per gli scritti di Adriano Valerini, di Lodovico de’ Bianchi e di Isabella Andreini ricordati in precedenza, qui abbiamo a che fare con una tanto sistematica quanto ampia raccolta di brani “generici”. Messi sulla pagina con l’intenzione esplicita di serbare memoria delle “iperboli” tipiche della maschera, ma insieme con la non troppo celata consapevolezza di presentare ai lettori appassionati di teatro una “invenzione” tale da concernere un versante drammaturgico, certo diverso da quello illustrato da Flaminio Scala, eppure complementare ad esso, ed affrontato con l’identica originalità di scelta creativa: come quello che [...] era spaventato dalla grandezza del verso Eroico, del Lirico, del Tragico, e da molt’altre sorti di versi, mi posi con cuor tremante a scrivere, e mi diedi alla prosa, ed a trattar quello che non era stato trattato ancora da scrittore alcuno. E se l’invenzione è quella che fa il poeta, non è corona in Parnaso ch’io non meriti solo per questa nuova invenzione, avend’ella in sé del Comico e del Tragico rappresentativo29.

28   F. Andreini, Le bravure del Capitan Spavento, a cura di R. Tessari, Giardini, Pisa 1987, p. 7. 29  Ivi, p. 8.

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Ne deriva, in questo caso, la possibilità non solo di confrontarsi con tracce incontrovertibili dei motivi e degli andamenti stilistici che un grande attore era solito praticare sulla scena per dar vita all’immagine del Capitano, ma ancora di poter individuare – sia pure a grandi linee – il particolarissimo profilo individuale che quell’attore era in grado di incidere disegnando la propria parte. E, qui, va subito notato come i luoghi comuni cui di norma si pensa quando ci si riferisce alla maschera cinque-secentesca del soldato vanaglorioso abbiano ben poco da spartire con l’operare concreto d’un singolo artista creativo, poiché lo Spaventa andreiniano non risulta proprio aver nulla di assimilabile ai clichés del roboante militare spagnolo ridotto a caricatura, o del fanfarone italico (di varia origine regionale) impegnato ad accreditarsi come eroe di più o meno storiche imprese belliche. Si tratta, certo, d’un instancabile narratore maniacale di fanfaluche incredibili. Ma sono proprio i particolarissimi contenuti dei suoi racconti a ridisegnarne la silhouette secondo forme incongrue al modello convenzionale. Risulta già piuttosto singolare la nascita del Capitano: Nel tempo che la mia genitrice stava per partorirmi, mio padre, bramoso d’aver un figlio maschio che lo simigliasse nella bravura e nel valore, disse a mia madre che s’ella faceva una femina, voleva subito scannarla [...]. Io, sin dentro dell’utero materno, intesa la volontà di mio padre, deliberai d’ingannarlo, e venute le doglie a mia madre, in cambio di nascer maschio volli nascer femina, per veder quello che sapeva far la mala sorte. Mia madre corruppe l’allevatrice, la quale sparse voce ch’io era maschio, mi diede a balia, pure da lei ancora corrotta, e fu dato a credere a mio padre che aveva acquistato un figlio maschio [...]. Tutto fu opera della gran madre Natura, per scherzar com’ella suole nel produrre ermafroditi ed altri mostri, come si vedono (e perché lei ed io siamo d’accordo; e quando bisognerà ne faremo di più belle)30.

Dotata ab origine del privilegio di comparire nel mondo, a suo piacimento, ora come uomo ora come donna, la maschera di Francesco Andreini è sulla terra sin dai tempi della creazione, e risulta detentrice di una magia che gli permette di eludere la morte:

30  Ivi, p. 340. Le successive citazioni rispettivamente a pp. 299, 415, 268, 269, 268-269, 52.

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capitano  [...] sappi ch’io mi rinnovo come la fenice al suo tempo, e ringiovenisco come fece il vecchio Esone per mano della incantatrice Medea. trappola  [...] ma come fate voi a rinovarvi e ringiovenirvi come dite? E chi sono quelli che v’aiutano a ringiovenire? capitano  Molti e molti servitori miei hanno fatto l’offizio di rinovarmi, essendo da me stati bene instrutti del modo e dell’ordine che dovevano tenere, come farai ancor tu fra pochi giorni, avvicinandosi il tempo di ringiovenirmi.

Ideale monstrum ermafrodito, immortale e senza età, Spavento non si lascia condizionare neppure dal peso d’un involucro sensibile che ne circoscriva l’esistere. Ad un ritrattista che pretende di fermarne sulla tela le sembianze, risponde per le rime proclamando la propria assoluta incorporeità: Il pittore stava ostinato, e mi faceva grandissima instanza ch’io mi dovessi lasciar dipingere; ond’io con quattro versi lo feci accorto del suo errore, dicendo così:

A che cerchi tu, pur sciocco pittore, di far di me pittura, che son tale che non mi vidde mai occhio mortale, e non ho forma, corpo, né colore?

In altri termini, secondo quanto confessa a Trappola, il Capitano è un non-vivo (“io non poteva perder la vita né morire, non avendo, come gli altri hanno, la vita”). E lo è, certamente, per la sua coscienza di appartenere – in quanto personaggio – alla dimensione delle creature scaturite dall’illusionismo artistico (“Quello che ti par di vedere, è tutta arte illusiva”). Come una pura creatura dell’immaginario convintasi per caso d’essere viva e reale, Spavento passeggia – e svola, poiché possiede ancora questo magico dono – per l’universo; visita ogni contrada terrestre, ogni età, ogni cielo e ogni inferno; combatte (solo incidentalmente: perlopiù s’abbandona a risse spropositate con amici occasionali o di lunga data); copula e ama senza limiti; s’immerge e si sbraga volentieri in clamorose orge gastronomiche e alcoliche. E lo può fare agevolmente, perché si nutre solo di favole e di figurine coltivate per lui dalla fantasia dei poeti e delle leggende ­158

popolari, o comunque raccolte come appetitosi frutti di bosco da cespugli della mitologia classicheggiante riplasmati in forme grottesche: trappola  capitano  trappola  capitano 

Se voi non avete vita, come vivete voi? Vivo, perché mangio. E come fate voi a mangiare se non avete vita? Mangio come fanno gli spiriti quando pigliano forma umana. [...] fra mezz’ora mi sarà mandato un pasticcio alla francese, dentro del quale ci sarà l’Ippogrifo d’Astolfo, Bucefalo d’Alessandro Magno, e le cervella d’Orlando paladino. [...] Mi saranno portati ancora fatti arrosto, e stagionati, un paro d’elefantini da latte, con le sue melarance colte negli Orti Esperidi.

Non a caso, postillando le farneticazioni del suo signore, Trappola sottolinea per ben due volte – tanto nella prima quanto nella seconda parte delle Bravure – la loro stretta dipendenza da un fortunatissimo best seller del secondo Cinquecento: “Mi ricordo aver letto queste cose nella Miteologia del Natalis Comiti”. Il riferimento è ai Mythologiae libri decem di Natale Conti, editi nel 1551 presso Aldo Manuzio, e ripubblicati più volte (anche in traduzione) già prima della loro versione definitiva curata dall’autore poco prima della morte, nel 1581: monumentale summa enciclopedica dell’immaginario mitologico di ascendenza greco-latina, destinata a far da ponte tra la sensibilità rinascimentale e quella barocca, e a costituire, secondo quanto afferma Paolo Rossi, “uno dei manuali maggiormente diffusi nell’Europa del tempo, che univa alla larghezza di informazioni il non indifferente vantaggio di una pratica e rapida consultazione”31. Il Capitano di Andreini, dunque, ben di rado risulta impegnato in battaglie che abbiano un sia pur vago riferimento alla storia contemporanea. Nella stragrande maggioranza dei casi, le sue fantasticherie coinvolgono dei dell’Olimpo e dell’Averno, figure leggendarie, personificazioni allegoriche tutte strascinate senza posa in una ridda carnevalesca di banchetti, di magie, di giochi e di zuffe infantilmente iperbolici: 31  Citato in G. Savarese-A. Gareffi, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Bulzoni, Roma 1980, p. 276.

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Bellissimo desinare fu quello che mi fece iermattina Plutone re del sotterraneo regno; eravamo pochi di numero, ma molti di qualità alla tartarea mensa. [...] Eravamo Plutone, Proserpina, Minos, Eaco, Radamanto ed io. [...] Fummo serviti regiamente, come si conveniva. Megera, Aletto, Tesifone e Lissa, furie infernali, portavano le vivande in tavola, Briareo gigante con cento braccia e cento mani, dava da bere ai convitati, e Cerbero cane con tre capi e tre bocche, se ne stava sotto la tavola a roder l’ossa dei serpenti e dei basilischi che si mangiavano. Finito l’infernal banchetto, comparve una compagnia di violoni cremonesi, nominati i Carobelli, uomini famosi, i quali cominciarono a suonare un saltarello alla milanese. Io sentendo quel suono invitatorio, mi levai da tavola, presi per mano Proserpina regina, e quivi danzai seco una bellissima gagliarda, la quale durò molti secoli; finalmente per non straccar la regina, spiccai una capriola tant’alta, che col capo sfondai l’inferno dalla parte di sotto. Quando Plutone vidde l’inferno sfondato di sotto e di sopra, dubitando di maggior danno, fece fermare il ballo e chiamare a sé tutti i muratori del Lago Maggiore, li quali in un subito rimediarono agli sfondi e alle rotture dell’inferno. Così ebbe fine la festa, ed io me ne ritornai al marziale albergo a mutarmi di camicia, essendo tutto sudato32.

Se lo spazio e il tempo entro cui si realizzano le “bravure” della maschera risultano essere quelli tipici d’una dimensione sconfinata dove si confondono luoghi reali e lande fantastiche, presente ed eternità, il genere di azione preferito dal protagonista è uno scatenamento festivo dai caratteri abbastanza simili a quelli che traspaiono dalle classiche gag d’una cinematografia muta tutta indirizzata verso frenetiche scene di torte in faccia. In uno dei tanti banchetti che costellano i “ragionamenti”, Momo reca offesa a Spavento: Io allora vedendomi fare uno scorno tale alla celeste mensa, subito senz’altro dire, slanciai la coppa piena di nettare nel mostaccio a Momo, e non volendo diedi nel volto ad Ercole. Ercole sentendosi percuotere, prese un piatto pieno d’ambrosia, e slanciandomelo, per mala ventura diede nel capo a Giove, il quale sentendosi percosso anch’egli, gridando ad alta voce ordinò ch’io fossi carcerato e morto. Io in quel punto conoscendo il pericolo grande, pigliai la tavola con ambe le mani, e la feci

  Andreini, Le bravure del Capitan Spavento cit., p. 171.

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cadere sopra di tutti gli altri Dei; poscia saltandovi sopra con ira e con furore, feci crepar Giove con l’altre Deità sotto quella tavola, la quale era di verdissimo smeraldo, lunga cinquanta piedi, e tutta d’un pezzo33.

E, in occasione d’un ulteriore pranzo metafisico, prende l’avvio il più mirabolante exploit sessuale che il Capitano possa annoverare tra i suoi stravolti ricordi dongiovanneschi: capitano  Io [...] un giorno invitai meco a desinare la Morte e il Diavolo miei carissimi amici. [...] Finito che fu il sontuoso banchetto, il Diavolo prese licenza da noi facendo ritorno alle squalide rive d’Acheronte, la Morte sola volle rimanersene meco a cena, ed a dormire [...]. Cenammo quella sera allegramente, e poscia ce ne andammo a dormire in un medesmo letto, la Morte ed io. trappola  Voi potevate dire, come dice il Petrarca, è duro campo di battaglia il letto. capitano  E perché la matina e la sera s’era bevuto alla gagliarda, stimolato dal liquor di Bacco, e dai piaceri di Venere, presi amoroso sollazzo con la Morte tutta quella felicissima notte [...]. E tanto e tale fu il contento dell’una e dell’altra parte, che la Morte rimase gravida di me. trappola  Che diavolo di contento fu il vostro? E come fu possibile ingravidar la Morte, la quale altro non è, che pelle ed ossa? capitano  La Morte è buona robba, a chi la sa usare; è [...] donna prattica, che si spedisce alla prima, e non ti fa stentare, come certe donne mal prattiche nel mestiero, che non la finiscon mai34.

Anche quel repertorio di immagini d’ascendenza medioevale che trova nelle più fruste icone del Diavolo e della Morte un facile emblema distintivo, dunque, rientra a pieno diritto – insieme alla mitologia classica, e alle presenze canoniche dei poemi cavallereschi – entro l’affollatissimo palcoscenico dove si agitano senza posa “bravure” e amori del Capitano. È stato ipotizzato, a proposito dei non pochi riferimenti inferi e diabolici cui indulge l’opera di Andreini, che la figura di Spavento possa essere percorsa da “una vena di faustismo”35. In verità, oltre a quello che chiama in causa il Volksbuch di Johann Spies, sarebbero molti i termini   Ivi, p. 176.   Ivi, pp. 40-41. 35  Cfr. C. Molinari, La Commedia dell’Arte, Mondadori, Milano 1985, p. 118. 33 34

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di confronto romanzeschi cui il testo quasi ci impone di pensare. Parrebbe, ad esempio, clamorosa anticipazione d’una comica trovata swiftiana dei Gulliver’s Travels (1726), lo stratagemma con cui il Capitano – qui in compagnia della sua ultima conquista, e d’una dama francese – salva l’Arsenale di Venezia da un terribile incendio (provocato, peraltro, dal “sospiro” amoroso del milite): vedendo il fuoco andar serpendo, e farsi sempre maggiore, per salvar così degno luogo, la donna mia, la dama francese, e gli altri tutti, andai velocemente al mare, e postomi in mezo a duo castelli, quivi apersi l’ampia voragine della bocca mia, ed a me tirando e ritirando il fiato più volte, mi tirai in corpo tutta l’acqua del mare Egeo; fatto quello me ne venni correndo all’Arsenale, pisciai sul fuoco, smorzai l’incendio, liberai l’Arsenale, salvai la donna mia, la dama francese, e tutti quelli ch’erano nel pericoloso incendio36.

Ma è forse lo stesso autore ad indicare il suo più probabile modello narrativo contemporaneo, quando fa esclamare a Trappola, come se il servo intendesse esprimere compendiosamente, una volta per tutte, la verità ultima sulla causa che induce Spavento a spropositare senza freni (pretendendo ancora che le sue fole siano riferite per filo e per segno ai “cavalieri” di maggior riguardo): “Padrone, voi mi volete far incatenar per pazzo, e condurre allo spedale de’ pazzi a Milano. S’io vò da quei cavalieri, e che io lor dica ciò che mi avete detto, senz’altro dire mi faranno incatenare”37. Per il buonsenso comune, tutti i racconti evocati da Spavento possono essere motivati solo da uno stato di follia. Ed è appunto mirabile figura d’una pazzia che costringe a scambiare per realtà un mondo tutto immaginario El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, eroe eponimo del capolavoro di cui Cervantes pubblicò la prima parte nel 1605: esattamente due anni prima che Francesco pubblicasse la sezione inaugurale delle Bravure. Non oseremo per questo pretendere di sostenere che Andreini abbia sicuramente letto e scelto di imitare il romanzo spagnolo, ma resta indubbio che, come Don Quijote sostituisce alle dure sostanze del reale le fascinose parvenze fantasmatiche dell’epica   Andreini, Le bravure del Capitan Spavento cit., p. 164.   Ivi, p. 22.

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cavalleresca, così Spavento sovrappone alla realtà uno sterminato mondo di memorie abitate solo dalle presenze d’un immaginario desunto da vari ambiti letterari. Nell’uno e nell’altro caso, le suggestive larve del libro invadono e occupano senza incontrare resistenze razionali la dimensione degli enti e dei fenomeni concreti e sensibili. Un Paolo Segneri avrebbe detto che tanto il soldato-maschera quanto il personaggio ingenioso “veggono quel che non è come chi dormendo anche sogna: Vident vana: e si pascono di quelle loro apparenze e le appruovano e le amano, quasi fossero verità”. Per quanto riguarda il solo Capitano – pensando al mondo dello spettacolo cui appartiene naturaliter, e nel cui ambito doveva esprimersi a pieno il suo essere – verrebbe poi da aggiungere che egli sia vittima d’una ancor più curiosa ‘malattia professionale’. Quella che ci porterebbe ad apostrofare quanti ne sono afflitti in termini anch’essi mutuati dalla saggezza teologica di Segneri: “tu a te stesso divieni e teatro portatile e recitante e scena e palco e spettatore e soggetto e ciò che tu vuoi”. In effetti, la strana turba mentale che si è impadronita di Spavento trova le sue motivazioni di fondo nel fatto che egli sa di essere – oltre che maschera – grande attore-creatore di maschere. A suo tempo alfiere (con l’amata Isabella) d’una certa troupe dei Gelosi, il folle eroe andreiniano ama ricordarne, nel Ragionamento decimoquarto, tutti i membri passandoli in rassegna uno per uno, come è solito fare nei confronti delle sue amate divinità e personificazioni, per poi concludere: “Trappola mio, di quelle compagnie non se ne trovano più e ciò sia detto con pace di quelle che oggidì vivono”38. Già “parte” di un insieme scenico formidabile, dove ogni componente risultava essere “singolare”, il singolarissimo Capitano esibisce dal palco la follia di chi preferisce vivere come vera la finzione teatrale. E s’immerge tutto nel suo immaginario. E ne ripete a piacimento le sequenze che più l’hanno suggestionato: quasi metamorfizzando se stesso in un fantastico “teatro portatile” (o in qualsiasi altra eventuale macchina di spettacoli: ché le presenze, le logiche narrative e la dynamis tipiche delle Bravure possono facilmente accostarsi a quelle proprie o d’una cinematografia fantasy o di mirabolanti cartoons).

  Ivi, p. 71.

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VI

Segreti di uno spettacolo in bilico tra arte e mestiere

1. Due immagini riflesse della messinscena: re-citazione e improvvisazione Giovanni Ambrosio Marini, autore di uno dei più fortunati romanzi del Seicento – Il Calloandro fedele – decide, nel 1655, di ricavarne una sorta di adattamento teatrale, il cui testo verrà pubblicato a Genova l’anno successivo con il titolo Il Calloandro fedele, tragicomedia, e sarà introdotto da una premessa A chi legge; dove l’autore racconta che la versione drammatica, appena composta, era stata affidata a una compagnia di comici professionisti in tournée a Genova perché la recitassero: Per sapere com’ella riuscisse, basti sapere che in scena talun de’ comici, col pretesto d’aver poca memoria, componeva da sé d’improviso, procurando di ritenere alla meglio, per non dire alla peggio, il senso e la sostanza, e altri avea trasportata la parte toscana in bergamasco, o in altra sua lingua più adatta a muover negli uditori il riso, che altri più serii affetti. Or pensa tu, o lettore, se la dicitura dovea riuscir limata, e se i pensieri potean mantenere la loro gaiezza e forza [...]. Ciò osservando alcuni miei amici [...] mi consigliarono a lasciarla venir alle stampe, dicendo che, essendo già la copia in mano de’ comici prezzolati, i quali per l’Italia di mano in mano come opera nuova l’anderebbono recitando, ne seguirebbe che ogni compagnia di comici avrebbe accomodate le parti al suo dosso, e mezza sconvolta, tramandandola ad altri, e questi, anche maggiormente svisandola, l’avrebbon ridotta ­164

in poco tempo ad una tale defformità che mai potrebbe più ravvisarsi la sua effigie primiera1.

Marini, dunque, dichiara di aver dovuto dare alle stampe la versione originale della sua “tragicomedia” sia per reagire allo scempio da essa subito alla prima rappresentazione sia per impedire che continuasse a cadere vittima d’un (a quanto sembra) inveterato malvezzo di molti mestieranti della scena nei confronti del cosiddetto “bel disteso”: trasformarlo radicalmente, vuoi adattandolo alla comicità e alle scelte linguistico-espressive più abituali per quanti dovrebbero recitarlo, vuoi sconciandolo con un tipo di improvvisazione che si limita a riproporne in termini molto approssimativi, se non addirittura fuorvianti, “il senso e la sostanza”. Si farebbe fatica a pensare che compagini come quelle dei Gelosi o dei Fedeli, nei non frequentissimi casi in cui affrontavano scelti exempla di drammaturgia scritta, potessero mai abbandonarsi a simili eccessi. Però, come afferma il Capitano di Andreini già nel 1607, “di quelle compagnie non se ne trovano più”. E, comunque, la disavventura toccata in sorte al Calloandro fedele potrebbe essere ricondotta a quell’aspetto double face dell’improvvisazione su cui si sofferma, attorno al 1730, l’attenzione di Luigi Riccoboni: Non vi fu mai chi più di me avesse in odio la stravagante usanza di recitar comedie a l’improvviso e chi forse più di me si sia servito di questo comodo. Per un comico diligente, morigerato e non affatto ignorante, confesso che l’invenzione non è pericolosa servendogli anzi di stimolo per ben parlare e per erudirsi. Ma io l’ho sempre abborrita poiché per esperienza ho conosciuto che al comico ignorante e scostumato [...] l’uso di recitare a l’improvviso gli serve di facilità per studiar solamente come inserire ne’ suoi discorsi qualche oscenità2.

Se esiste un impiego formativo e virtuosistico del “recitare a l’improviso”, che appartiene al comico savio e artisticamente im1   Citato da D. Conrieri, La rielaborazione teatrale di romanzi nel Seicento. Considerazioni e prime indagini, in Scritture e riscritture secentesche, Pacini Fazzi, Lucca 2005, p. 152. 2  L. Riccoboni, Discorso della Commedia all’improvviso e scenari inediti, a cura di I. Mamczarz, Il Polifilo, Milano 1973, p. 30.

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pegnato, esiste anche un suo utilizzo che serve in misura affatto strumentale o per eludere le fatiche dello “studiar” seriamente una parte (studio mnemonico d’un testo, oppure studio creativo d’una drammaturgia che si compone solo sulla scena: a seconda dei casi) o per soddisfare la comoda pretesa di introdurre a piacimento entro qualsiasi contesto drammaturgico soluzioni tanto corrive quanto di facile effetto. L’esito cui andò incontro la prima del Calloandro fedele, e che minacciava di ripetersi nel caso di sue eventuali repliche da parte di altre compagnie, sarebbe dipeso appunto da questo secondo aspetto dell’improvvisazione. E andrebbe attribuito al generale status d’un mondo dello spettacolo dove – all’altezza di metà Seicento, ma forse anche in altre epoche – non era certo raro imbattersi in troupe composte da comici “ignoranti” e “scostumati”. Già Domenico Ottonelli, del resto, aveva sottolineato con forza che “col dire improvisamente”, se da un lato risulta possibile attingere alle vette d’un “recitare libero, naturale e grazioso”, dall’altro “si fugge molto la fatica da’ negligenti” e “si fomenta molto la natura viziosa di que’ comici che sono poco inclinati a voler dilettare con l’onesto della virtù”3. Sulla scorta di simili testimonianze, dunque, ci sembra più che ovvio concludere che, durante tutta la storia bicentenaria del mercato dello spettacolo inaugurato dalle fraternali compagnie, siano sempre esistite due grandi tipologie dell’improvvisazione: quella che, esercitandosi su testi scritti, mirava soprattutto a sopperire a più o meno colpevoli défaillances di memoria dovute al caso o a vera e propria “negligenza”; e quella che, lavorando vuoi su di un copione di drammaturgia regolare vuoi sulla traccia schematica del soggetto, traduceva scenicamente le indicazioni dell’uno o dell’altra nei termini propri d’un modello riproducibile strutturato sulla compresenza di maschere, di parti fisse, di polifonia fondata su stilizzazioni di vari codici linguistici, di trovate comiche d’un repertorio vocale e gestuale i cui esiti spaziavano (per dirla in termini secenteschi) tra il “grazioso” e l’“osceno”. Si può ben immaginare – e il caso del Calloandro fedele sembrerebbe confermarlo esemplarmente – che in moltissimi casi una simile traduzione risultasse mero effetto d’una sorta di forza d’i3   G.D. Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro, in F. Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca. I: La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma 1969, p. 523.

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nerzia cui gli attori si abbandonavano per routine e per comodità, riducendo il modello a semplice stereotipo che o si sovrappone al testo o funge da scontato riempitivo della trama disegnata su di un canovaccio. Ma sarebbe davvero pretestuoso spingersi a negare che essa abbia generato, nei suoi esiti migliori, un particolarissimo modus operandi drammaturgico, dove la creazione teatrale si attua sulla scena senza manifestarsi come re-citazione d’un testo organico scritto parola per parola. Qui, il pre-meditato non consiste in esternazione interpretativa di catene di dati appresi a memoria, bensì in un’arte della memoria capace di ricomporre certi suoi scelti contenuti in una sintesi “all’improvviso”. Riferendosi solo a quest’ultima accezione di un termine quantomai ambiguo e sfuggente, un addetto ai lavori del calibro di Luigi Riccoboni – attraverso le pagine della Histoire du Théâtre Italien (1728) – ci offre una tarda ma efficace sintesi delle motivazioni pratiche, della specifica valenza espressiva e delle difficoltà che caratterizzano una tecnica performativa da lui definita come tipica delle generazioni di attori succedutesi dopo il 1545: L’improvvisazione permette una variazione nel recitare, di modo che, anche se si vede più volte lo stesso canovaccio, si può vedere ogni sera una diversa rappresentazione. L’attore che recita all’improvviso recita in maniera più vivace e più naturale di quello che recita una parte imparata a memoria: è più facile sentire e quindi si dice meglio quel che si è composto da sé, che non quel che si prende dagli altri con l’aiuto della memoria. Ma questi vantaggi della commedia recitata all’improvviso sono pagati da molti inconvenienti: essa richiede attori ingegnosi e più o meno ugualmente bravi, perché lo svantaggio dell’improvvisazione consiste nel fatto che la recitazione del miglior attore dipende assolutamente da colui con cui dialoga: se si trova con un attore che non sa cogliere con precisione il momento della replica, e che l’interrompe a sproposito, il suo discorso langue e la vivacità dei suoi pensieri viene soffocata4.

4   L. Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien depuis la decadence de la Comédie Latine, avec un catalogue del Tragédies et Comédies imprimés depuis l’an 1500 jusqu’à l’an 1600 et une dissertation sur la tragédie moderne, Delormel, Paris 1728 (ristampa anastatica: Forni, Bologna 1969, pp. 61-62). Citiamo nella traduzione offerta da F. Taviani-M. Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII secolo, La Casa Usher, Firenze 2007, p. 314.

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Fare teatro in una prospettiva dominata dal principio di improvvisazione significa dunque, se si interpreta questo principio non quale mero espediente di comodo, partire dall’imprescindibile presupposto di far compagnia seguendo un ideale di organico fondato tanto sul buon livello paritetico degli attori componenti quanto sul loro affiatamento. Significa, ancora, pretendere che ogni comico sappia sempre coltivare la viva consapevolezza d’essere lui a comporre in termini creativi la figura della cui vita scenica si è fatto carico, rendendosi in tal modo co-autore responsabile dell’intero spettacolo. Si tratta di due premesse irrinunciabili, che, se da un lato schiudono l’alta possibilità di un recitare diversamente vibrato (carico di maggior energia: perché avvertito nell’intimo come un qualcosa di proprio), dall’altro vanno pur sempre considerate – con schietta aderenza al reale – soluzioni utili anche sul piano di una sana economia di gestione attenta alle specificità del mercato: se non servirà certamente a far sembrare ogni sera nuovo l’identico canovaccio, l’improvviso permetterà comunque di presentare quali prime assolute tutte le ben studiate varianti d’un certo schema-modello di scenario. Non a caso Ottonelli, dopo aver lodato il “recitare libero, naturale e grazioso” dei professionisti scenici, si premura di postillare, con una punta di malizia: “Certo, se i mercenari attori imparassero a mente il testo come imparano per lo più gli Accademici recitanti, e dicessero ex scripto, secondo lo scritto, [...] non potrebbero recitare ogni giorno diverse azioni”5. È proprio l’accostamento in parallelo del fare teatro tipico dei dilettanti accademici e di quello abituale ai comici di mestiere la scelta compositiva cui si affida il virtuosistico gioco di mises en abyme realizzato – a livello di “bel disteso” – dalle Due comedie in comedia di Giovan Battista Andreini. Recitata per la prima volta a Venezia nel 1623 in prossimità della Festa della Sensa, ed edita nello stesso anno, l’opera prevede che la seconda performance da rappresentare entro lo sviluppo della fabula venga allestita da una compagnia i cui membri sono evidenti ritratti di veri attori dei Fedeli. Tra di essi, che nella finzione si definiscono comici Appassionati, compare addirittura – sostenendo il ruolo d’un Pasticcere francese impegnatissimo a storpiare comicamente   Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro cit., p. 523.

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vocaboli italiani – Flaminio Scala, che si svela da ultimo al pubblico per dichiararsi pronto a trarre, dalle vicende della finzione cui ha partecipato e da quelle ‘vissute’ dai protagonisti del lavoro andreiniano, uno scenario di rara bellezza: Io, che ho fatto stampar molte Comedie (non son più Pasticciero, son Flaminio Scala) con titolo di Theatro delle favole rapresentative prometto, per questo nobil caso, tessere intrico così raro, e pellegrino ch’a tutti gli altri torrà il vanto, e per tutto il mondo celebre splenderà come il sole6.

D’altro canto, il drammaturgo responsabile del testo su cui si fonda la messinscena allestita dai dilettanti accademici – Mirindo – agisce sotto le mentite spoglie di Lelio (nome d’arte di Giovan Battista Andreini). Ed è ancora lo stesso Mirindo-Lelio a rendersi, sia pure in piccola parte, co-autore della trama allestita dagli attori professionisti, proponendo loro di inserire nel suo sviluppo “un certo scherzo che sarà di gusto indicibile”7. Il “bel disteso” che verrà recitato dai membri della veneziana Accademia dell’Incerta Speranza possiede (a differenza del canovaccio senza nome proposto dai mestieranti) l’eloquente titolo di Commedia di fine incerto8. Attorno al genere di teatro cui esso dovrebbe appartenere, si apre un breve battibecco tra attori e spettatori mascherati, allorché la protagonista femminile sembra infrangere la finzione rivelando al pubblico autentici segreti di suo padre Rovenio: rovenio  Signori con licenza io sono in casa mia. Ah sfacciata presuntuosa, e così tieni segrete le cose del Padre? Ti voglio ammazzare. lidia  O poverina me. maschera 1  Olà che voleu far Rovenio? Fermeve la. maschera 2  A sto muodo voleu de Comedia ridicolosa, far Tragedia pianzosa; moia, moia. lelio  Eh Signore che questa è Commedia d’Incerto fine.

6   G.B. Andreini, Le due comedie in comedia, Imberti, Venezia 1623, p. 112. Un’edizione moderna della commedia è offerta in Commedie dell’Arte, a cura di S. Ferrone, vol. II, Mursia, Milano 1986, pp. 9-105. 7  Ivi, p. 84. 8  Cfr. ivi, p. 68.

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rovenio  Non mi stare a dire che questa sia Commedia improvisa d’incerto fine, poiché Lidia t’ha palesato i miei segreti9.

La definizione “Comedia ridicolosa” potrebbe essere sia mero espediente per un comico gioco di parole con “Tragedia pianzosa” sia terminologia tecnica che definisce con proprietà un genere di composizione e di pubblicazione – finalizzato a riprodurre soluzioni creative ed espressive tipiche dei comici dell’Arte – abbastanza coltivato dai dilettanti di teatro secenteschi. Qui, non è dato sapere con certezza assoluta il senso in cui Andreini intenda impiegarla. È però evidente che l’autore – attraverso le battute dei suoi personaggi – abbia scelto di sottolineare ancora come non sia impossibile istituire equivoche e improprie corrispondenze tra “Comedia ridicolosa” e “Commedia improvisa”: forse per invitare uditori e lettori tutti a non confondere due forme di creazione teatrale che andrebbero tenute ben distinte. Non a caso, in molte battute che il testo andreiniano attribuisce agli accademici dell’Incerta Speranza, la specificazione “all’improvviso” viene usata in maniera tale da generare forti perplessità in chi sappia ascoltarla con l’udito tipico del vero conoscitore di spettacoli. Ad esempio, nella scena seconda dell’atto primo, Filino, mentre comunica a Rovenio “in questo suggetto io fò Narciso”, dichiara: Lelio (giovine di V.S.) n’ha così tutti ben istrutti, che basta veder lo scenario d’ogni Commedia, e siamo atti a recitarla.

Tuttavia, mentre pronunzia queste parole, Filino – secondo quanto si legge nell’Ordine per recitar con facilità Le due commedia in commedia – dovrebbe avere con sé, e far vedere in qualche modo al pubblico “Una lista di carta [...] che sembri una parte scritta di Comedia”. La Commedia di fine incerto, dunque, risulterebbe – qui – scritta non già in forma di semplice trama da scenario, ma composta di parti interamente distese (e divise in rotoli cartacei affidati ai singoli attori). Due scene dopo, Rovenio dice a Filino:

9  Ivi, p. 65. Le successive citazioni rispettivamente a pp. 16, 121, 22, 25, 82, 83, 76.

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Farete vostra cura (poi che Lelio è fuor di Casa) l’andar per gli Accademici, perch’io voglio doppo aver desinato, che si reciti la Commedia, che all’improvviso recitar volete; benché io sappia che Lelio haverà ad ogni recitante data alcuna cosa di gentile: ma non vuol dirlo, perché cosa inaspettata è più grata.

Ed è, questa, una battuta dalla quale si potrebbe evincere che gli Accademici abbiano sparso la voce di voler realizzare una commedia “all’improvviso”, mentre, in realtà, si accingono (come Rovenio afferma di aver ben compreso) a “recitar cose” gentili scritte da Lelio, e mandate a memoria da ogni attore dilettante. D’altro canto, in una diversa occasione, Rovenio confessa all’amata Solinga: hoggi non era il giorno destinato a questa Commedia, però havendola di già Lelio più volte fatta alla mia presenza udire, dal fine in poi mi rendo certo, che si potrà recitare; poiché lo scioglimento di quella sta in Lidia mia Figliuola, la quale ha così bene addestrata nel parlar anche all’improviso, che senz’altra diligenza recitar potrassi.

Sono parole dalle quali sembra lecito evincere la soluzione più plausibile del piccolo enigma alimentato inizialmente dal testo intorno alla presenza o meno di un’autentica improvvisazione nella messinscena degli accademici: Lelio ha scritto in forma di “bel disteso” la Commedia di fine incerto, dividendone poi le battute (a seconda dei personaggi) in “rotoli” da affidare ai singoli attori, tanto da poterla far “udire” più e più volte – o leggendola egli stesso, o facendola leggere dagli accademici coinvolti – a Rovenio. Però, come vuole il suo titolo, questa commedia è stata composta senza metterne su carta il finale, che deve restare “incerto” sino al momento conclusivo della rappresentazione: sarà Lidia, improvvisando, a crearne uno a sorpresa. Le ragioni contingenti dell’enigma non vengono chiarite (a bella posta?). Forse qualcuno tra gli accademici vuole far credere che lo spettacolo sia davvero realizzato all’improvviso, come quelli dei professionisti. O forse tutto scaturisce solo dall’ibrido statuto costitutivo d’una performance al novanta per cento fondata sulla recitazione del testo, ma studiata per concludersi con un coup de théâtre che né una pagina distesa né le scarne righe d’un soggetto devono svelare. 171

È comunque significativo che, se Lidia – unica tra i suoi colleghi di scena – saprà esibire incontestate e risolutive doti di improvvisatrice, ciò vada ascritto all’abile magistero di Mirindo-Lelio, trasparentissima controfigura dello stesso Andreini, e proprio come lui dotato d’ogni prerogativa immaginabile per il perfetto professionista-artifex d’una teatralità a tutto campo: organizzatore di eventi scenici, drammaturgo accademico, corago di spettacoli, attore, maestro d’improvvisazione. Come è significativo che, a fare da ideale cerniera tra l’allestimento degli accademici e quello dei comici di mestiere sia un breve sketch allusivo alla differenza tra l’autentico improvvisare e una ridicola parodia dell’improvvisazione: calandra 

Allegrezza, allegrezza. Allegrezza, allegrezza. lelio  Che cos’è? calandra Allegrezza. lelio  Dillo tu Calandra. calandra Allegrezza. lelio  O quest’è la cosa del cantar all’improviso, poiché uno cantando altro non diceva, che, fa, la, la, la, la, lela; e domandato lui, che diceva, rispose, che cantava all’improviso. filino 

I due servi Calandra e Filino – entrambi già attori dello spettacolo accademico – irrompono sulla scena esultanti, e ripetono senza soluzione di continuità la parola che designa il loro stato d’animo. Tanta sfrenata allegria dipende dall’aver saputo che avrà luogo, entro brevissimo tempo, una performance di comici professionisti, i cui nomi d’arte verranno subito elencati da Filino. Lelio, che non ne conosce il motivo, giudica del tutto privo di senso il ritornello gridato dai servi: proprio come una serie di facili vocalizzi che non vogliono dir nulla, ma che vengano spacciati da un qualche bello spirito per parole d’una mirabile canzone improvvisata. Nella scena seguente, Rovenio (che ha organizzato la seconda recita in gran segreto, e che aveva pregato Calandra e Filino di non parlarne con nessuno), costretto ormai a svelare il tutto, confessa il suo piano ad Arminia e Solinga: “Ah Signore non sapete già, ch’io voglia da Comici far recitar segreto, o per meglio dire all’improviso una Commedia, non è vero?”. Per intendere la battuta di Rovenio, è necessario ricordare che gli attori professionisti ­172

si erano presentati di fronte agli accademici prima dichiarandosi “alfieri di virtù” raccolti sotto una “candida bandiera” fregiata di “note nere”, e poi spiegando, per bocca di Fabricio, che Il candido stendardo, entrovi affisse note nere, sono que’ Cartelli di Commedie, che si veggono per le Città, i quali mentre son letti, e per piazze, e per cantoni, riducono alle stanze gran numero di Popolo. Siamo Alfieri di Virtù, poiché al vagar di queste insegne per la Città, invitiamo gente molta a vederne [...]; siamo Comici al fine.

Gli attori di mestiere si gloriano, dunque, di una impresa araldica che li certifica in quanto cavalieri della “Virtù”, e che consiste nell’esclusivo simbolo della più larga pubblicità intesa a promuovere i loro spettacoli: i cartelli che vengono portati in giro e letti su ogni piazza e ad ogni incrocio di strade, per informare tutti gli abitanti d’una città sulle opere in repertorio e sulla ragione sociale di chi ne è responsabile. Che simili “Alfieri” accettino di esibire una propria performance mantenendola nel più totale segreto sino al momento dell’esecuzione può – insomma – provocare un effetto di ammirata sorpresa, paragonabile solo a quello di un evento che si realizzi “all’improviso”: come “all’improviso” viene a comporsi sulla scena lo spettacolo tipico dei veri professionisti del teatro. Se Angelo Ingegneri, sul finire del Cinquecento, lamentava che “le Commedie imparate” a memoria non avessero più successo, e ne attribuiva la causa al modo di far spettacolo introdotto da “gl’istrioni mercenari, detti altre volte della Gazzetta”10, secondo Giovan Battista Andreini veri simboli dell’attore moderno non sono le monete da due soldi che gli spettatori pagano di norma per entrare nelle “stanze” ad ammirarlo, ma i “Cartelli di Commedie” e “l’improviso”. Del resto, come queste due realtà possono assurgere a emblemi privilegiati della “Virtù” distintiva degli autentici professionisti, così sembra possibile – nonché facile – per l’autore delle Due comedie in comedia individuare un oggetto capace di manifestare in sintesi il dato segnaletico essenziale di quel diverso fare teatro che è proprio dei dilettanti accademici. Abbiamo già 10   A. Ingegneri, Della Poesia rappresentativa et del modo di rappresentare le Favole Sceniche (1598), cit. in F. Marotti, Lo spettacolo dall’Umanesimo al Manierismo, Feltrinelli, Milano 1974, p. 274.

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avuto modo di ricordare che il servo Filino si presenta in scena dotato di “Una lista di carta [...] che sembri una parte scritta di Comedia”. Un’ulteriore nota intesa a “facilitare” la messinscena dell’opera andreiniana specifica così: Tutti gli Accademici haveranno il loro foglio della parte fatto in rotolo: ma allhora di saccoccia lo caveranno, che nella Scena Terza [dell’atto secondo] sarà l’occasione.

Il momento indicato è quello in cui Rovenio, aiutato dall’amico Zelandro, interroga quanti saranno coinvolti nella recita “di fine incerto” per accertarsi che siano davvero pronti a sostenerla: rovenio  Messer filino  Eccola in zelandro  E voi

Filino la vostra parte? scritto nel foglio: ma stampata poi nella mente. Gilenio, voi Tibrino, voi Alfesimoro, voi Ricciardo, Rubenio, Terbuono, Lucrano, come vanno le cose? filino  Benissimo Signor, et ecco come ogni Accademico ha la sua parte in mano, e tra sé la va ruminando11.

Come in un rituale che non possa subire violazioni, l’ultimo incontro collettivo prima dello spettacolo esige che la troupe degli accademici venga passata in rassegna con il rigore tipico d’una cerimonia militare. Si tratta, appunto, di verificare che le sue armi siano davvero in ordine. E le uniche armi qui contemplate sono: il rotolo esibito dalla mano del singolo interprete, e un “ruminare” che ne rivela il pensoso e concentratissimo studio mnemonico. Ma non basta. Quasi a svelare – insieme – i reali contenuti dei singoli “fogli della parte”, e il tragicomico destino cui un simile procedimento di realizzazione della messinscena potrebbe andare incontro se affidato a persone di clamorosa insipienza, Andreini conclude la rassegna insistendo sullo svolazzo d’un ridicolo sketch: calandra  Son qui son qui anch’io fratelli con la mia parte in mano [...]. Signori Accademici uditemi un poco; sia detto con pace di Lelio nostro capo; mi par che abbia fatto errore.

11  Andreini, Le due comedie in comedia cit. Le due citazioni a pp. 122-123 e a pp. 39-40.

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lelio  Può essere la correzzione farà virtù. rovenio  O sciocco; e che errore è questo? filino  Eccolo? Dice qui: Marte e Venere, ambe congiunti insieme. lelio  Che vuoi dire? [...] Questo detto allude alla favola di Mar-

te, e di Venere, alhor che Vulcano gli prese nella rete. rovenio  E ch’è balordo? calandra  Che balordo? Fermatevi un poco su quel congiunto; dicendo Marte, e Venere congiunti insieme; come congiunti insieme, se tra il Marte e ’l Venere c’è il mercore e ’l giobbia? Questo è errore12.

Il “rotolo” della singola parte contiene effettivamente tutte le parole che l’attore dovrà pronunziare: compresi i concetti più peregrini e le immagini desunte dai consueti repertori mitologici. Ma non basta – per farne una buona recita – averlo, oltre che “in saccoccia” o in mano (almeno sino a quando la rappresentazione non avrà inizio), ben “stampato nella mente”. Occorre continuare a “ruminarlo” tra sé e sé per comprenderne rettamente tutti i significati, e per non equivocare sui significanti: come avviene, in misura grottescamente iperbolica, nel caso della clamorosa balordaggine zannesca esibita dal servo Calandra, che confonde divinità pagane e giorni della settimana. Mentre la Compagnia degli Appassionati creerà il suo spettacolo in assenza di “rotoli delle parti”, lasciandosi introdurre solo da comici giochi di parole su vere e false versioni dell’improvviso, la recita allestita dalla compagine accademica dell’Incerta Speranza deve essere preceduta dalla presenza del testo distesamente scritto, e dalla comica denuncia degli equivoci in cui lo studio del testo potrebbe anche inciampare. Se nel secondo caso la scrittura viene prima della performance, nel modus operandi dei professionisti la composizione scenica improvvisata porta alla luce ciò che Flaminio Scala metterà (forse) sulla pagina in forma di soggetto. Quanto ai fattori strutturali delle due forme di prospettiva drammaturgica qui messe a confronto, e quanto alle fenomenologie e agli esiti artistici delle due performances cui quelle forme danno origine, il testo di Andreini – molto significativamente – non intende stabilire la sia pur minima differenza né di valore estetico né di efficacia scenica. Solo per smania di risibile auto-celebra  Ivi, pp. 40-41.

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zione, Zelandro, dopo aver asserito “Signori Accademici [...], la vostra Commedia è stata benissimo recitata”, oserà preconizzare che quella dei professionisti non possa mostrarsi capace di “tanta eccellenza”13. Ma, per il resto, risulta evidente che l’autore intenda proclamare a chiare lettere l’assoluta equivalenza dei valori culturali e artistici da attribuirsi sia al mondo dell’accademia sia alla dimensione dei “virtuosi” attori professionisti. L’élite dell’intelligencija disinteressata e l’élite dei comici mercenari fanno teatro seguendo procedimenti magari diversi, ma portano in scena lo stesso immaginario, e lo allestiscono con risultati egualmente apprezzabili. Se proprio occorre segnalare una differenza tra le due sfere, si potrebbe dire che la prima ha come sua prerogativa l’arte di comporre un “bel disteso” che imita immaginario e stilemi tipici degli “Alfieri di Virtù”, mentre la seconda vanta i privilegi dell’improvviso e del saper inventare scenari tramati di “intrichi rari e pellegrini”. Del resto, a costituire il perfetto simbolo dell’equazione che l’attore-autore intende evidenziare agli occhi di lettori e spettatori è la funzione svolta dalla sua controfigura Mirindo-Lelio: mentre Flaminio Scala, qui, è il comico che – toltosi la maschera – si svela infine per sommo drammaturgo di scritture che, pur non avendone i tratti distintivi, si auto-definiscono tout court “comedie”, dietro la doppia mascheratura Mirindo-Lelio si nasconde un Giovan Battista Andreini pronto a dichiararsi (oltre che sommo esperto di tecniche performative) validissimo compositore accademico anche di mirabili “ridicolose”. L’attore “virtuoso”, dunque, non solo va considerato alla stessa stregua dell’accademico dilettante di arti sceniche, ma può vantarsi sia delle qualità tipiche dell’esperto mestierante di teatro sia dei saperi e delle pratiche privilegiati che distinguono i membri delle accademie. La Commedia di fine incerto e quella senza titolo allestita dai comici Appassionati si basano entrambe sulla presenza delle maschere (il Magnifico, il Dottor Graziano, il Capitano, Buratello, nel primo caso; il Pedante, Tartaglia, Ceccobimbi, nel secondo). Entrambe prospettano trame che prendono l’avvio da grotteschi contrasti di vecchi, per incentrarsi poi su contese e inganni d’amore attorno a una protagonista femminile. Entrambe si affidano soprat  Ivi, p. 85.

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tutto a una comicità che fa leva sulla parola storpiata e sull’equivoco più o meno scatologico. Se in un caso, ad esempio, il Magnifico e il Dottore intrecciano dialoghi di questo tenore: graziano 

O deme la man.

magnifico Eccola.

graziano  Lè fatt’e’l bech’al l’Oca; scilicet, nempe, id est, nimirum, cioè, v’ho cattà e’l cul stort. magnifico  E sto culo storto l’haveu catà col naso dritto, disè el vero, che sento che spuzzè, che amorbè? Qui tutti rideranno. graziano  Il Signor Padelon. magnifico  El Signor Fritadon fatto de vuovi marzi de galina Anabatista; Pantalon, Pantalon me chiamo.

Nell’altro le battute di Tartaglia a colloquio con il Pedante e Ceccobimbi spingono la mimesi della balbuzie verso effetti che il servo Rondello, spettatore della commedia, s’incarica di sottolineare clamorosamente: pedante 

vestra est.

O così qui cito dat, bis dat; filia mea non plus mea, sed

tartaglia 

Cà, cà, cà, cà, Caca, e finiscila, e ammorba il Matrimonio. tartaglia  Voglio dicere; Cà, cà, cà, cavoli tò, tò, tò, tò, tò. rondello  Uh, uh và a caffia. tartaglia  Tò, tò, torzuti14. rondello 

Né ci sentiremmo di sottoscrivere la proposta che, per distinguere tra le due rappresentazioni, vorrebbe attribuire alla seconda il titolo di commedia dei “diversi linguaggi”15, poiché, come il canovaccio dei professionisti contempla l’impiego di latino, francese, bergamasco, napoletano, ecc., la rappresentazione degli accademici si vale di veneziano, bolognese, latino, mantovano e ferrarese16.   Ivi, rispettivamente a pp. 53-54 e p. 95.   M. Rebaudengo, Giovan Battista Andreini tra poetica e drammaturgia, Rosenberg & Sellier, Torino 1994, p. 186. 16  Andrebbe piuttosto notato come il testo di Andreini scelga di sottolinea­ re, quale nota distintiva dello spettacolo offerto dai professionisti, la presenza 14 15

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2. Stereotipi e serialità Valutando con attenzione, sulla scorta dei dati appena esposti, la rete di corrispondenze che unisce – a livello di elementi strutturali e di disegno compositivo – le due messinscene immaginate da Andreini, se mai fosse possibile considerare senza margini di dubbio la Commedia di fine incerto come intenzionale ricalco illustrativo d’una tipica “ridicolosa”, dovrebbe valere per essa quanto Ferrone osserva a proposito del rapporto tra performances dei comici di mestiere e drammaturgia dei dilettanti: era facile che le commedie dei comici professionisti venissero confuse con le analoghe composizioni dei comici dilettanti, comunemente note con il nome di “ridicolose”. È stata dimostrata l’analogia di contenuti, personaggi, maschere, intreccio che apparenta i due generi. Il fenomeno prende consistenza all’inizio del Seicento, annidandosi soprattutto nelle aree accademiche. Il consumo sempre più diffuso del teatro professionistico [...] aveva indotto le accademie ed anche i collegi a recuperare gran parte dei materiali (le maschere, canovacci) circolanti presso i professionisti, per introdurli anche nelle morali e disinteressate esercitazioni, divagazioni, pause, degli adepti.

Sarebbe peraltro scaturito da un simile recupero un processo di irrigidimento che, sempre secondo lo stesso studioso, avrebbe condotto la “ridicolosa” a rendersi fautrice di una concezione alquanto riduttiva e distorta delle autentiche realizzazioni sceniche prodotte dai professionisti, portando in assoluto primo piano la dominante d’uno schematico sistema di maschere stereotipate: Proprio le maschere, una volta estrapolate dal mondo dell’Arte, vennero cosi schematizzate e appiattite. Non furono più uno dei tanti connotati della pratica scenica. Divennero il fenomeno per eccellenza del teatro nuovo eludendo cosi il problema posto dal mestiere dei nostri attori [...]. Un particolare dei comici (anche se importante come la maschera) venne trasformato in totalità dal bisogno, tipico dei dilettanti colti, di riordinare e ricondurre a unità il paesaggio irregolare costituito dalla commedia a canovaccio. Ed è questa, infatti, una volta d’una “bella musica” distinta da ricca strumentazione orchestrale e da canti polifonici (cfr. Andreini, Le due comedie in comedia cit., p. 86).

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riconosciuta l’insidiosa somiglianza dei due generi della stessa specie, la differenza fondamentale: la “ridicolosa” ricompose in congettura di spettacolo quello che la “commedia dell’arte” aveva analizzato sulla carta a consuntivo di una pratica17.

Non esiste ombra di dubbio sul fatto che il “mestiere dei nostri attori” (o, almeno, quello degli attori interessati a conservarci traccia del loro impegno creativo, e capaci di farlo) si sia sempre svolto attraversando – anche avventurosamente: tra sperimentazioni e svolte – pratiche sceniche la cui complessità non può certo essere ridotta al meccanico definirsi di una parte o di una maschera da configurare con assoluta precisione, sul modello d’un ingranaggio destinato a combinarsi senza margini di incertezza con altri ingranaggi invariabili. La ben diversa parabola reale d’un Francesco Andreini, per esempio, risulta accennata chiaramente dalle due prefazioni apposte alle Bravure, laddove, mentre la prima lo vede assumere il ruolo del pastore Corinto per intrecciare un ultimo dialogo con la morta moglie Fillide-Isabella entro il quadro di una fantastica pastorale, la seconda ce lo mostra interprete che, nella sua carriera, passa dal ruolo di innamorato alla maschera del Capitano: mentre ch’io vissi nella famosa compagnia dei Comici Gelosi [...] mi compiacqui di rappresentar nelle Comedie la parte del milite superbo, ambizioso e vantatore, facendomi chiamare il Capitan Spavento da Vall’Inferna. E talmente mi compiacqui in essa, ch’io lasciai di recitare la parte mia principale, la quale era quella dell’innamorato18.

Tenendo ben presenti queste realtà, risulta poi altrettanto chiaro che l’insieme degli scritti chiamati Ragionamenti e facenti parte delle Bravure di Francesco non vanno considerati né i testi che l’attore avrebbe pronunziato sulla scena (dopo averli messi su pagina) quando indossava la maschera di Spavento né l’esatta riproduzione di quanto egli avrebbe improvvisato nel corso delle sue performances. Si tratta, appunto, di composizioni re-inventate – piuttosto che “analizzate” – “a consuntivo di una pratica”. E, co  S. Ferrone, Introduzione a Commedie dell’Arte cit., pp. 25-26.   Andreini, Le bravure del Capitan Spavento cit., p. 7.

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me tali, vanno lette con l’accortezza di considerarle solo in quanto riflessi e tracce, ri-meditati e ripuliti, d’un ora reale ora potenziale frammento di discorso o recitato o recitabile. Ciò non toglie, però, che dalla testimonianza delle Bravure affiorino due dati incontestabili: il Capitano cui dava vita Andreini si fondava su uno schema di parte fissa offrendone un trasfigurazione personalissima; l’eloquio che gli era peculiare era tracciato sulla falsariga della vanteria o bravura, ma svolgeva temi e accadimenti scelti perlopiù evitando i luoghi comuni dell’esorbitante numero di nemici uccisi e di vicende belliche tra eserciti più o meno immaginari. In altri termini: la maschera del militare vanaglorioso – secondo quanto risulta da un testo scritto “a consuntivo d’una pratica”, e tenendo conto della fenomenologia specifica del “mestiere” attraversato da quella pratica nel farsi creativa – risulta essere, nel caso di Spaventa, originale variante di uno schema tipologico. Se volessimo passare dalla singola figura scenica all’insieme drammaturgico entro cui essa deve svolgere il proprio ruolo, il solitario esempio offerto dalle “favole rappresentative” di Flaminio Scala potrebbe indirizzarci verso conclusioni in qualche modo parallele. Non esiste, ad esempio, soggetto di commedia – tra tutti quelli fatti stampare dal “signor Flavio” – che non contempli la presenza delle maschere. Pantalone, il Dottore, Arlecchino, Capitan Spavento, ecc. vi figurano come cittadini abituali dell’immaginario che le abita, e la loro comparsa non è mai solitaria o sporadica: si compone sempre in ossequio a una scelta di nitida combinazione schematica tra vecchi, servi e tipologie grottesche incaricate di fungere da terzo incomodo presso una qualche coppia di innamorati. Ancora in questo caso, dunque, se da un lato dobbiamo rendere omaggio a tutti i segni di personalissima originalità e di “varietà d’invenzione” emergenti da “favole rappresentative” scritte dal singolo attore in forma di scenari fissati su pagina “a consuntivo d’una pratica”, dall’altro non possiamo considerare di scarsa importanza il fatto che altezza artistica e peculiare esperienza di mestiere di Flaminio Scala vengano a manifestarsi costruendosi comunque sulle fondamenta di tipi e schemi tanto funzionali quanto concepiti in prospettiva seriale. Insomma, che le maschere della “ridicolosa” risultino “appiattite” rispetto a quelle davvero presenti nelle peculiari forme drammaturgiche poste in campo dagli attori di mestiere, sembra ipotesi ­180

attendibile (anche se andrebbe verificata caso per caso). Ma che esse siano state “schematizzate” dagli accademici in modo tale da far scambiare per “totalità” quello che sarebbe stato solo “un particolare” importante, aprendo così la strada all’equivoco per cui le multiformi esperienze dei comici verrebbero oscurate da un astratto modello di Commedia dell’Arte, ci risulta essere affermazione che, se da un lato può venire in parte condivisa, dall’altro rischia a sua volta di oscurare un dato distintivo essenziale delle fenomenologie teatrali che andiamo discutendo, nonché di e­ ludere i problemi posti dalla presenza – entro queste fenomenologie – di un fattore-chiave per il definirsi dello spettacolo moderno. In effetti, se è doveroso osservare che esistono facili e capziosi schematismi adoperati per comodo da quanti, pur non essendo addetti ai lavori, vogliono imitare la drammaturgia dei comici di professione, potrebbe essere fuorviante dimenticare, o porre tra parentesi, che quella drammaturgia andava praticando un impiego qualitativamente nuovo di tutti gli schemi di convenzione a vario titolo riproducibili cui possa ricorrere il progetto e il processo compositivo d’uno spettacolo. A cominciare dal fatto che il singolo attore e la singola attrice – come risulta più che evidente da tutti i casi sin qui citati – devolvano o ampie o amplissime porzioni della propria vita a portare in scena sempre e comunque l’identica figura immaginaria: tanto da aggiungere (e talvolta sostituire) al nome e cognome che li identificano l’appellativo di questa icona fantastica. Tristano Martinelli pubblica le Compositions de Rhétorique come se fossero opera di Arlecchino. Flaminio Scala si fa chiamare anche “signor Flavio”. E questa consuetudine risulta tanto ovvia per la micro-società dei comici, da alimentare un’aneddotica non priva di risvolti giuridici: Un certo mal pagadore, molt’anni sono, non voleva pagar un scritto fatto da suo padre. Il creditore lo fece chiamar in giudizio, e chiesto perché non voleva pagare, essendo lo scritto buono e sottoscritto, rispose costui che lo scritto era sottoscritto da due quali erano comedianti e che i comedianti non possono esser testimoni [...] perché i comici vivono di bugie, si mutano il nome come a lor pare [...]. Oh, mirate incautezza di persone: se i comici si mutano il nome, se lo mutano per far che tal nome serva loro per maschera, volendo ch’ogni 181

grado tanto d’onore quanto di disonore vada alla maschera, e non alla persona fuori di comedia19.

Secondo quanto osserva giustamente Niccolò Barbieri, in arte Beltrame, l’attore sceglie perlopiù di sdoppiarsi tra una “maschera in comedia” e una “persona fuori di comedia”. Agendo in tal modo, dimostra di voler tutelare la propria privacy, ma insieme di tendere a conseguire un risultato ben preciso: che la maschera o il personaggio fisso vivano di vita propria in quanto stereotipi di un immaginario che il pubblico possa continuare a frequentare (e a coltivare) entro quello spazio interiore definito da Paolo Segneri “teatro portatile” di ogni individuo, rendendolo così presenza abituale e ricorrente di un discorso collettivo. Lo scopo dei comici è, sì, quello di essere considerati “virtuosi” da tutti e “onorabili” da quanti contano, ma è anche quello di far circolare nella misura più ampia e redditizia la fama – non importa se spesso “disonorata” – della maschera dietro cui agiscono routines di mestiere e ambizioni creative delle loro tecniche di scena. Per conseguirlo su vasta scala e nell’immediato, poco servirebbero personaggi di complesso e problematico spessore psicologico simili a individualità irripetibili: occorrono figurazioni ponderatamente schematiche, capaci di corrispondere a tipologie riconoscibili e riproducibili a piacimento con facilità, quasi archetipi elementari d’un livello di conoscenza adatto al più largo consumo. È, questa, l’incolmabile differenza di fondo tra un Amleto e un Arlecchino. Oppure tra un Don Chisciotte e un Capitan Spavento. Ciò non impedisce che un singolo comico possa realizzare, in certi casi, un Arlecchino di routine, e, in altri casi, una versione originalissima di Arlecchino. Ma significa che, in ogni caso, la maschera prende forma a partire dalla scelta d’un immaginario il cui principio ispiratore dominante è lo schematismo funzionale, e non la poco economica ricerca dell’unicum poetico. Nel teatro dei professionisti, non possono aver luogo personaggi concepiti per riprodurre rapporti inter-soggettivi tra persone verosimili: entra in gioco solo una selezionata campionatura di astratte condizioni 19   N. Barbieri, La Supplica. Discorso Famigliare, in F. Marotti-G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, pp. 590-591.

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familiari e sociali, che agiscono e parlano all’interno d’un limitato reticolo di pulsioni e di reazioni, destinate a fungere da intermediatrici tra le singole astrazioni. Sono queste ultime, così intese, a costituire l’insieme delle parti necessarie a mettere in moto la commedia. E spetta alla coscienza professionale e alla capacità artistica del singolo comico l’azzardo di saper innalzare o meno una singola parte a livello di figura inconfondibile – con o senza maschera – capace di imprimersi potentemente nell’immaginario del pubblico. I principi cui si ispira un simile meccanismo compositivo sembrano molto simili a quelli da cui aveva preso le mosse, poco dopo la metà del Cinquecento, il singolare “disegno” d’uno tra i maggiori commediografi rinascimentali, l’accademico e scienziato senese Alessandro Piccolomini. L’autore dell’Amor costante (1539) e dell’Alessandro (1550), dopo aver scritto queste due sole opere teatrali, tace per alcuni anni. Antonio Cocco, coadiutore di Corfù e suo ammiratore, lo interroga per sapere se ha “in animo di far de l’altre”. Piccolomini risponde negativamente, accennando in termini vaghi al progetto di intraprendere una diversa “impresa”20. Solo nel 1561, col pretesto di dedicare all’autorevole interlocutore il trattato di astronomia La sfera del mondo, gliene svela i particolari: V.S. ha da sapere che il disegno mio era questo. Primieramente io aveva disegnato e formato tutte quasi quelle sorti di persone che possano o sogliano rappresentarsi ne le Comedie, secondo quelle diversità che occorron trovarsi per varie cause ne la vita commune de l’uomo: come a dire per causa di congiunzion di sangue, come son padri, figliuoli, nepoti e simili; per diversità di fortuna, come son poveri ricchi, servi, padroni; di età, come vecchi, giovani, fanciulli; di professione, come legisti, medici, soldati, pedanti, parasiti, meretrici, ruffiani, mercanti e simili; di qualità di affetti, come sono iracondi, innamorati, paurosi, arditi, prodighi, giusti, prudenti, stolti, gelosi, incostanti, vantatori, arroganti, pusillanimi, et altri così fatti; et in somma andavo io discorrendo per tutte quelle qualità di persone, e di vita che possono rappresentare ne le Comedie la vita commune de gli uomini. 20   Nella dedica premessa a La sfera del mondo, Piccolomini ricorda di aver parlato con Cocco della sua nuova ipotesi di composizione delle commedie a Roma “sei, o sette anni” prima. Il progetto, dunque, avrebbe cominciato a prendere forma o nel 1554 o nel 1555.

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Or a ciascheduna di queste persone aveva io disegnato d’accomodare primamente varie scene di soliloquii, le quali se ben fussero tra sé diverse, fussero non dimeno tutte proporzionate secondo il decoro, e la qualità di coloro che si rappresentano. E di poi incatenando et in varii modi accoppiando le già dette persone, com’a dire il padre col figlio, il padrone col servo, il servo col servo, l’innamorato con l’amata [...], et in somma ciascheduna de le già dette persone con ciascheduna de le medesime, avevo proposto di fare in ciascun di questi accoppiamenti diverse scene; avendo insieme l’occhio [...] ad accomodar le scene a varii concetti e diverse invenzioni, acciocché si potessono applicare a diverse favole, con levar solo o aggiugnere qualche cosetta, che potesse fare a proposito di quella favola che si avesse per le mani21.

L’apparentemente bizzarra ipotesi di lavoro concepita da Piccolomini rovescia con atto radicale l’angolazione prospettica donde si guarda, sin dai primi albori del Rinascimento, a qualsiasi progetto di scrittura drammaturgica. Qui, non si tratta in nessun modo di concepire la commedia come una costruzione unitaria ben articolata, dove favola e personaggi, monologhi e dialoghi – pur se re-inventati sulla scorta di modelli classici ora patenti ora sottintesi – devono svolgersi e integrarsi a vicenda attraverso nessi originali dettati solo dalla logica dei loro rapporti, per confluire in un prodotto di sintesi poetica che dovrebbe avere i prestigiosi caratteri del ‘pezzo unico’. Secondo l’autore de L’amor costante, è giunto, almeno per lui, il tempo di abbandonare questa posizione. E di dedicarsi ad un lavoro che gli sembra più razionale a livello di economia compositiva: scrivere non una commedia, ma tutti i possibili monologhi e dialoghi di tutte le commedie immaginabili. Se è vero che l’ambito entro i cui confini è destinata a operare l’istanza rappresentativa comica riguarda soltanto la sfera bassa della “vita commune” (e non quella alta dei destini eccezionali,

21   A. Piccolomini, De la sfera del mondo, Giovanni Varisco, Venezia 1561, pp. 3-4. Spetta a Seragnoli il merito di aver richiamato l’attenzione degli studiosi di teatro su questo singolare passo di Piccolomini (cfr. D. Seragnoli, La struttura del personaggio nel teatro del Cinquecento: il progetto di Alessandro Piccolomini, in “Biblioteca teatrale”, 1973, nn. 6-7, pp. 54-64). Una prima ipotesi di lettura in parallelo della “impresa” rievocata dal commediografo e delle technai tipiche dell’improvvisazione dei comici è stata formulata da chi scrive nel volume Commedia dell’Arte. La Maschera e l’Ombra, Mursia, Milano 1981, pp. 76-80.

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riservata alla tragedia), è anche vero che il tratto distintivo d’una dimensione così inferiore va individuato – in sintonia con tutta la cultura ufficiale dell’epoca – nel suo compiuto risolversi attraverso l’eterna ripetizione di stereotipi esistenziali sempre identici a se stessi. Nel cosmo non aristocratico, è impossibile sfuggire alla legge per cui l’uomo, se si presenta come individuo “comune”, deve essere o povero o ricco, o servo, o padrone. Può variare l’età, lo status famigliare, la professione, il carattere, la passione dominante. Ma si tratta di variazioni sin troppo prevedibili: mere schede d’un archivio che il commediografo-scienziato non ha certo bisogno di inventarsi. E, qui, Piccolomini porta paradossalmente alle estreme conseguenze pratiche le premesse teoriche del teatro rinascimentale: poiché il personaggio ‘da commedia’ deve essere uomo qualunque, diventa addirittura secondario sforzarsi di dargli nome e cognome, di attribuirgli – in prima istanza – una qualche sfumatura di personalità irripetibile. Altri potranno pensare a fornirgli un volto e un’identità. Lui preferisce limitarsi a considerarlo o un vecchio mercante o un giovane innamorato. Per dedicarsi poi alla stesura di “soliloqui” e di “scene” dialogate da costruirsi con i materiali offerti da un quasi scientifico catalogo di stati d’animo, di vizi, e di inter-relazioni economico-sentimentali tra le poche varianti della conditio hominis communis. Nel nuovo progetto di “impresa” teatrale, dunque, scompare dall’orizzonte della scrittura la definizione individuante del personaggio e della sua parola, e le subentra l’intenzione di mettere a fuoco soltanto le ‘nervature’ forti dei ruoli topici d’una esistenza borghese e plebea. Per ciò che concerne la trama, essa non sembra più destare neppure il minimo interesse di Piccolomini. Certo, qualcuno si occuperà di immaginare “diverse favole”, ma è implicito che il suo lavoro – poiché non può riguardare la stesura di monologhi e dialoghi – dovrà volgersi in esclusiva a definire la mera traccia degli episodi componenti il plot d’una vicenda scenica. Insomma, tanto il tradizionale autore di commedie quanto la commedia stessa dovrebbero scomparire: per lasciare il posto, da un lato, all’attività combinata di diversi specialismi settoriali della composizione; e, dall’altro, a un puro assemblaggio di “scene” preconfezionate e di “favole” (senza “scene”) predisposte a parte. Dietro una simile ipotesi, non può non esservi – anche se l’autore non ne parla in forma esplicita – la convinzione che il testo-com185

media vada ormai considerato, anziché “eccellente poema”, inutile e tedioso paludamento letterario d’una macchina di comicità che è possibile rimettere in movimento solo a condizione di smontarne i pezzi, e di ricombinarli con altri criteri. E, questo, potrebbe essere stato il principio ispiratore della proposta di Piccolomini. Quanto alle finalità ultime che essa intendeva prospettarsi, ci vengono rivelate da una frase detta quasi en passant: “io aveva ben disegnato, e già dato principio a una impresa, la quale riuscendomi arebbe recato qualche aiuto ai comici de’ nostri tempi”22. Abbiamo, dunque, a che fare con una ipotesi di frantumazione e di rinnovamento della drammaturgia convenzionale che ruota tutta attorno alla centralità dell’attore nello spettacolo. Se l’elaborazione separata delle “scene” e delle “favole” ha un senso, questo senso gli viene dall’intervento del “comico”, che è destinato a unire in sintesi, sul palco, i meccanismi – da altri disgiunti e riconfigurati – di quella macchina rimasta a lungo prigioniera nella forma chiusa del testo-commedia. Si può allora comprendere bene perché le “scene” escogitate da Piccolomini assomiglino tanto ai generici dell’Arte, perché le “favole” di cui parla facciano subito venire in mente i canovacci, e perché le tipologie umane da lui catalogate sembrino rimandare alle parti fisse assunte dai professionisti. Purtroppo, nulla ci è giunto dei dialoghi e dei monologhi in cui culminò l’“impresa” annunziata dalla lettera di dedica de La sfera del mondo23. E neppure siamo in grado di determinare chi siano stati, in realtà, i “comici” ai quali Piccolomini intendeva prestare aiuto. Secondo logica, solo “gente sordida e mercenaria” potrebbe aver avuto interesse a fruire d’una ‘drammaturgia fatta a brandelli’. Ma non ci è concesso saperne di più24. Dobbiamo constatare,

  Piccolomini, De la sfera del mondo cit., p. 3.   A conclusione del suo scritto, Piccolomini racconta: “Or come la sorte volle, quando io di cinquecento scene, che avevo in animo di fare, n’avevo a pena fatte intorno a trecento, mi accorsi un giorno che mi era stato furato d’una cassa il libro dove io scriveva di prima bozza questa mia opera”. 24   Il fatto che Piccolomini finisca con l’ideare un teatro tanto remoto dalle convenzioni letterarie quanto vicino a esigenze tipiche degli attori, potrebbe dipendere dalle sue attività nell’ambito della Accademia senese degli Intronati: “si consideri, da ultimo, il suo probabile lavoro di corago svolto all’interno della Accademia degli Intronati” (Seragnoli, La struttura del personaggio cit., p. 54). Per quanto attiene a eventuali rapporti tra il commediografo e il mondo dei primi 22 23

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comunque, che – dieci dopo la costituzione della “fraternal compagnia” di ser Maphio – un finissimo letterato teorizza e pratica (ovviamente, secondo un’ottica da specialista della parola scritta) un progetto di disintegrazione del testo-commedia, e di sua conversione in drammaturgia al servizio dell’attore, le cui linee portanti marciano parallele a quelle praticate dal gioco all’improvviso dei creatori dell’Arte. È anche possibile che si tratti di fenomeni del tutto indipendenti l’uno dall’altro. Ma è più probabile che tra di essi (come afferma l’autore) si sia verificato davvero un qualche rapporto. E che proprio in questo rapporto si celi un accenno di risposta al segreto essenziale delle particolarissime technai compositive e rappresentative poste in opera da quanti scelsero di non agire “come i recitanti fanciulli”. Del resto, se vogliamo prestar fede a Pier Maria Cecchini, De la sfera del mondo non risulterebbe ignota neppure ai comici dell’Arte secenteschi...25 Le ultime parole che Piccolomini rivolge a Cocco per svelare la ragione di fondo del suo racconto riguardano i possibili destini futuri del “libro” cui aveva affidato la “prima bozza” del progetto: “Ho voluto che V.S. sappia questo: acciocché occorrendo che in nome d’altri si vedesse uscire un giorno in luce, ella si ricordi di me, e riconosca per mia figlia, o l’opera o almeno l’invenzione”26. Per lo scienziato-drammaturgo senese, ciò che (in ultima analisi) soprattutto conta è l’“invenzione” d’un modo diverso di comporre commedie. Ma anche per Flaminio Scala il crisma d’una “nuova invenzione” deve essere unico titolo di vanto delle sue “favole rappresentative”. E Francesco Andreini insisterà con frequenza altamente significativa sull’impiego del termine “invenzione”, a

comici professionisti, è suggestivo pensare che essi – se davvero si verificarono – potrebbero essere stati favoriti dallo stesso ambiente (ricordiamo la testimonianza di Adriano Valerini su Vincenza Armani: “l’Academia de gli Intronati di Siena, in cui fiorisce il culto delle Scene, disse più volte che questa Donna riusciva meglio assai parlando improviso che i più consumati Autori scrivendo pensatamente”). 25   “E pur ce ne sono [di attori] che nel voler esprimere una passione amorosa daranno di piglio alla Sfera del Piccolomini, e quivi s’anderanno aggirando per gli cieli, porranno sossopra i pianeti, calculeranno il conto delle stelle [...], come se la sua donna non mangiassi, bevesse ed albergasse qua giù” (P.M. Cecchini, Discorso sopra l’arte comica con il modo di ben recitare, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 72). 26  Piccolomini, De la sfera del mondo cit., p. 5.

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connotare il merito precipuo delle singolari forme di scrittura teatrale pubblicate da lui stesso e dagli attori suoi amici. La grande scoperta che accomuna l’“impresa” progettata e iniziata da Piccolomini e le pratiche di scrittura para-drammaturgica esibite più tardi da alcuni comici “virtuosi” consiste nel fatto che entrambe fanno riferimento – l’una assumendola come premessa per nuove soluzioni di scrittura teatrale, l’altra evidenziandola nella prospettiva del “consuntivo” d’una pratica – all’identica constatazione preliminare. Il nuovo mondo dello spettacolo dischiuso dalla mercificazione del teatro su larga scala non ha bisogno – per essere alimentato da prodotti idonei alla vendita – del testo-capolavoro, ma di ben studiate e collaudate tessere combinatorie sempre e comunque disponibili a formare molteplici schemi di sceneggiature. In questa ottica, il criterio dominante non può più essere quello della composizione poetica: ad esso deve subentrare il principio della combinazione di successo. E la combinazione di successo non può fondarsi sul gusto del singolo, ma solo sul fattore-chiave della più facile riconoscibilità da parte di un ampio pubblico. Se così non fosse stato, come avrebbe potuto – già nel 1569 – il “Signor Duca Guglielmo” di Baviera farsi “venire in fantasia” di chiedere a Orlando di Lasso la riproduzione di “una commedia all’improvviso all’italiana”? Tanto Piccolomini quanto il comico professionista (ognuno a modo suo) disarticolano l’ideale quadro d’insieme delle neoclassiche strutture drammaturgiche cinquecentesche, per ricombinare queste ultime secondo criteri che individuano, al di sotto del concetto di personaggio, sia una serie finita di variabili socio-familiari, professionali, esistenziali, emozionali della “vita commune”, sia un catalogo di “parti” simbolicamente rappresentative d’un ristretto ma ben congegnato campione delle suddette variabili (nonché adeguate all’economia funzionale di una troupe messa insieme per produrre molti spettacoli a scadenza ravvicinata, senza ampie pause di ideazione e di prove). La rivoluzione del teatro e della drammaturgia progettata a tavolino da Piccolomini e attuata sulla scena dagli attori professionisti tra Cinque e Seicento consiste nel ridurre la seconda a un meccanismo produttore di sceneggiature e dialoghi preconfezionati da ricombinare a piacimento e (se occorre) quasi ‘all’improvviso’. E il primo a un prototipico, ma non per questo meno coerente, mercato dello spettacolo: dove ciò che conta è soprattutto ­188

il sapere e poter vendere ogni performance presentandola in forma appetibile a un qualche ben definito tipo di audience. Un mercato abbastanza duttile, almeno nella sua lunga fase di crescita, da svariare – alla ricerca di potenziali acquirenti – entro i poli estremi degli infimi strati d’una popolazione, e delle più aristocratiche élite di potere. Convertendo la convenzione rinascimentale del fare teatro in una sommatoria sintetica di moduli scenici collaudati e di strutture drammaturgiche variamente ricombinabili, i prodotti dei comici vengono a determinarsi in base alle componenti funzionali d’un immaginario tanto elementare quanto cattivante. Forme e dinamiche di questo immaginario vengono configurate per rispondere a una ben precisa serie di fattori e di parametri: la semplificazione seriale; lo stereotipo disponibile a formare incastri e articolazioni con altri stereotipi; la combinazione modulare; le formule che possano alimentare lo sviluppo continuativo e agile di un gioco mnemonico (dominato non dalle necessità di ripetere puntualmente l’esatta sequenza delle parole che contengono, scritta, l’intera vita scenica di un personaggio; ma da individuali scelte di topoi espressivi atti a inscriversi nei confini delimitanti una tipologia umana stilizzata, e passibili di comporsi lungo le linee costitutive d’una figura coerente). Proprio la costante presenza di formule e di “proposizioni prefabbricate” – perlopiù desunte da svariate fonti letterarie – nei procedimenti compositivi che caratterizzano l’improvvisazione dei comici è stata non di rado ricondotta a comportamenti tipici di quella cultura orale che, dagli stadi primitivi della civiltà umana, si sarebbe in qualche modo perpetuata sino a mostrare certe sue tracce residue nelle pratiche degli attori professionisti: La [...] cernita libresca, condotta dagli attori ad ampio raggio, spaziò senza alcuno scrupolo gerarchico dalla poesia colta alla novellistica popolaresca, dalle raccolte di sentenze e di detti proverbiali fino alla letteratura dialettale e di colportage, ma sempre ponendosi nei confronti delle fonti, come [...] ricordava Ferrone, “con la stessa disinvoltura che era appartenuta alla tradizione orale”. Bisogna insistere su questo punto: a rigore i comici non rubano e non plagiano, perché dal loro punto di vista nessuno è proprietario dei propri o altrui enunciati. Immersi in una mentalità e in una pratica ancora prevalentemente orali (quantomeno nel periodo più vitale), essi considerano l’insieme della cultura (ivi compresa quella scritta) come un paradigma 189

di proposizioni prefabbricate, che ognuno è autorizzato a assemblare come crede e secondo occasione: l’arte del discorso è per l’appunto ars combinatoria, i nuclei tematici e le relative espressioni sono disponibili, preesistenti, consolidati, basta raccoglierli27.

Ma, se è indubbio che l’“ars combinatoria” praticata sui palcoscenici dell’Arte rimetta in situazione accorgimenti e stilemi schematici specifici di tutte le forme espressive dell’oralità, non ci sembra molto produttivo considerare un simile fenomeno o come revival di una “mentalità” più o meno arcaica o in quanto pretesto ideale a inutili diatribe su originalità e plagio. Ciò che soprattutto conta è il nesso motivazioni-finalità entro cui vengono a determinarsi tutte le soluzioni coinvolte nell’“ars combinatoria” dell’improvviso. E, qui, saremmo tentati di considerare questo nesso con la stessa simpatica brutalità d’un Barbieri: “Il fine dei comici, qual è? Certo che non è altro che dilettare e giovare per averne essi mercede da vivere”28. Ovvero: se gli attori professionisti hanno preferito valersi di formulari e di stereotipi, se hanno scelto di strutturare componenti e procedimenti compositivi della loro drammaturgia in base ai principi della serialità e della funzionalità modulare, lo hanno fatto per rispondere alle potenziali istanze di divertimento degli spettatori loro contemporanei con prodotti spettacolari realizzabili in tempi rapidi e senza eccessivo dispendio di tempo e fatica: di sicuro successo, di agevole circuitazione e di massimo profitto economico. La trasformazione della performance drammatica in merce di aperto e ampio consumo usa forse procedimenti antichi, ma lo fa con occhio attento a condizioni tipiche della modernità. 3. Presupposti, prosaicità e poesia dell’improvviso L’improvvisazione di cui tanto si è discusso a proposito dei comici dell’Arte è – innanzitutto – scelta d’un modus operandi tutto finalizzato al conseguimento degli obiettivi appena esposti. L’attore-

27   A. Artoni, Il teatro degli Zanni. Rapsodie dell’Arte e dintorni, Costa & Nolan, Genova 1996, p. 197. 28  N. Barbieri, Discorso famigliare, Antonio Pinelli, Venezia 1628, pp. 25-26.

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compositore adotta una prospettiva che non parte né da un testo drammaturgico pre-esistente né dal suo studio e dal suo apprendimento mnemonico. Egli non si confronta con la commedia scritta da un qualche autore, ma con molti libri di vario genere che considera miniere di materie grezze da estrarre e da ri-configurare per dare forma a parte di una sua commedia non scritta. Il comico Domenico Bruni, già membro dei Confidenti guidati da Flaminio Scala, in un Prologo composto attorno al 1620, dà la parola a una Fantesca immaginata nel doppio ruolo di serva da commedia e di autentica ‘cameriera’ della compagnia in cui è inserita: La mia disgrazia m’ha posto a stare per serva con questi comici, i quali mi diedero ad intendere che la professione loro era lastricata di delizie [...]. Come tutte queste promesse sono state inganatrici! Perché, in quanto alla professione, non si può dir peggio: chi la vuol far bene, non ha ora di piacere per la necessità che si ha di studiare, essendo che questi poveretti, che non sono professi nelle scienze e che bisogna che d’improviso discorino di varie cose, se si hanno da affatticare a scorticare ed a squartare libri volgari, il Cielo ve lo dica [...]. Basta, Signori cari, io sto male con loro. Ohimè, sentite. La matina la Signora mi chiama: ‘Olà, Ricciolina, portami la innamorata Fiametta che voglio studiare’. Pantalone mi dimanda le Lettere del Calmo. Il Capitano le Bravure del Capitan Spavento. Il Zanni le Astuzie di Bertoldo, il Fugilozio e l’Ore di ricreazione. Graziano le Sentenze dell’Eborente e la Novissima Poliantea. Franceschina vuole la Celestina per imparare di far la ruffiana. Lo innamorato vuol l’opere di Platone e quasi in un punto chi mi comanda una cosa e chi un’altra29. 29   D. Bruni, Fatiche Comiche di Domenico Bruni detto Fulvio, Comico di Madama Serenissima Principessa di Piemonte (1623), in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., pp. 387-389. Le opere citate nel passo, e di cui non viene menzionato l’autore, sono: Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio; Le bravure del Capitan Spavento di Francesco Andreini; Le sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce; Fugilozio di Tommaso Costo; Ore di ricreazione di Ludovico Guicciardini; Sententiae et exempla ex probatissimis quibusque scriptoribus collecta, et per locos communes digesta di André de Rezente; Tragicommedia di Calisto e Melibea (“Celestina”) di De Rojas. La Novissima Poliantea è testo di difficile identificazione (si vedano comunque le proposte avanzate da Romei nel suo commento al Prologo, p. 388, n. 1; e da M. Pieri, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 264, n. 84).

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La servetta di Bruni, qui, sembra aprire uno squarcio sul concreto svolgersi quotidiano d’uno ‘studio d’attore’ inteso come premessa indispensabile all’improvvisazione: addirittura passando in rassegna una scelta campionatura dei volumi che ogni professionista, a seconda della parte interpretata, dovrebbe leggere e rileggere senza posa. In questa ideale biblioteca, accanto a opere che, a vario titolo, potremmo comunque definire di pertinenza teatrale (quelle di Calmo, di Andreini, di De Rojas), stanno i prodotti d’una letteratura svariante dai ‘grandi classici’ della novellistica (Boccaccio) ai centoni eruditi o di largo consumo; dalle massime altezze del pensiero filosofico alle raccolte di aneddoti e proverbi popolari. Davanti a una simile “immagine” del lavoro quotidiano dei comici, non ci sentiremmo di dichiararla “un po’ troppo forte”, innanzitutto perché da essa non si evince affatto che i compagni-padroni di Ricciolina amino gettarsi “di buon’ora avidamente sui libri”30. E poi perché, quando l’autore dei Prologhi intende offrire una visione davvero poco credibile del training libresco cui gli attori dovrebbero sottoporsi quotidianamente, mostra di saperlo fare allo scoperto, entro un gioco di finzione autocelebrativa non privo di sfumature ironiche. Come capita nell’intenzionalmente esagerato monologo del Principiante che vuole con lo studio superar le difficoltà dell’arte: Dalle opere del Boccaccio, dalle Osservazioni del Dolci, dalle Battaglie del Muzio, dalle Prose del Bembo, da’ discorsi del Tomitano ed altri, imparerò di parlare ornatamente senza far errore nelle regole che la italica favella abbelliscono. La Fabrica del mondo, le Ricchezze della lingua, le Osservazioni sopra il Petrarca dell’Alunno, il Memoriale e la Grammatica del Pergameno, m’empierano di vocaboli, di favole, d’istorie e di vero modo di ben parlare. La Rettorica del Cavalcanti, le Elocuzioni di Demetrio, i Somari del Zinani sopra varie retoriche, m’aprirano la via al bene scrivere e parlare. Se doverò discorrere di politica, v’è il Tesoro Politico, il Seminario del Frachetta, le opere d’Aristotile tradotte, il Lottini, il Guicciardini, il Viscardo, il Bottero e tanti che per me servirano di miniere da cavarne preziosissime gemme. Se di moralità, il Pucci sopra l’etica, il Picolomini nella sua Filosofia Morale, il Landino nelle sue Azzioni, oltre le opere di Seneca, mi basterano

  Artoni, Il teatro degli Zanni cit., p. 185.

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per formarne bellissimi discorsi. Se d’amore, infiniti ne sono i maestri. Non sono tradotte tutte l’opere di Platone?31

E l’elenco non si arresta qui, ma continua ad ampliarsi in misura sempre più defatigante (sino a inglobare anche il Piccolomini de La sfera del mondo...). Lo smisurato catalogo bibliotecario passato in rassegna da questo prologo, se da un lato intende esaltare le potenzialità culturali degli attori, dall’altro evidenzia con un cenno di sorriso tutta la presunzione del “principiante” che vorrebbe colmare a parole la distanza interposta tra lui e chi possiede lunga esperienza scenica dell’Arte. Ma ciò non toglie valore alle molteplici testimonianze da cui risulta come la pratica intensa d’una lettura ben mirata costituisca l’ineliminabile premessa della composizione all’improvviso. Secondo Niccolò Barbieri, ad esempio, il rapporto suo e dei suoi colleghi con il libro stampato è di una intensità eccezionale: Non vi è buon libro che da loro non sia letto, né bel concetto che non sia da essi tolto, né descrizzione di cosa che non sia imitata, né bella sentenza che non sia colta, perché molto leggono e sfiorano i libri. Molti di loro traducono i discorsi delle lingue straniere e se ne adornano, molti inventano, imitano, amplificano. Basta: ché tutti studiano, come si può vedere dalle cose ch’essi hanno alle stampe: rime, discorsi, comedie, soggetti di comedie, lettere, prologhi, dialoghi, tragedie, pastorali ed altre cosette che per comici non sono sprezzabili32.

Non diversamente, Pier Maria Cecchini, mentre va sciorinando i suoi Avisi, sottolinea con vigore: “non mi par aviso sprezzabile una frequente lettura di libri”. E – cosa ancora più interessante – accompagna a questo avvertimento considerazioni che riguardano il passaggio dalle semplice lettura studiosa di un testo ad una corretta estrapolazione ed assimilazione di certi suoi contenuti scelti: sia per quanto riguarda i temi sui quali improvvisare sia per quanto concerne la consequenzialità stilistica delle scelte linguistico-sintattiche alla quale l’improvviso deve sapersi intonare. Ne tratta in forma esplicita quando volge i suoi consigli ai   Bruni, Fatiche Comiche cit., p. 399.   Barbieri, La Supplica cit., p. 607.

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protagonisti delle immancabili peripezie d’amore della commedia, ma è evidente che le sue parole riguardano qualsiasi “parte” coinvolta nel tutto del singolo spettacolo: Sogliono questi che si compiacciono di recitar la difficil parte dell’innamorato arricchirsi prima la mente di una leggiadra quantità di nobili discorsi attinenti alla varietà delle materie che la scena suol apportar seco. Ma è da avvertire che le parole susseguenti all’imparate vogliono aver acciò uniformità con le prime, che il furto paia patrimonio e non rapina, onde, per far ciò, non mi par aviso sprezzabile una frequente lettura di libri continuamente eleganti, poiché rimane a chi legge una tale impressura d’amabilissima frase, la quale, ingannando chi ascolta, vien creduta figlia di chi favella. Debbe insieme chi legge operar che l’intelletto comandi alla memoria, che dispensa il tesoro de’ premeditati concetti nello spacioso campo delle continue occasioni che la Comedia porge, in quel modo ch’egli possa pretender di mieter applauso33.

Anche Barbieri, del resto, insiste significativamente sul punto critico che congiunge e differenzia il faticoso studio dei libri dall’atto – altrettanto “snervante” – nel quale questo studio si transustanzia in elaborazione personale di repertori recitabili: I comici studiano i libri che sono stampati con licenza de’ superiori; vero è che inventano molte cose [...]. Il Capitano cava il riso dalle sue stravaganti iperboli; il Graziano da’ suoi spropositi; il primo servidore dalle sottilissime astuzie e pronte risposte; il secondo dalle sciocche balorderie; gli Arlichini dalle cascate; i Covielli dalle smorfie e latinacci macaronici; le parti de’ vecchi dal grossolano parlare de’ loro antichi 33   P.M. Cecchini, Frutti Delle Moderne Comedie Ed Avisi A Chi Le Recita, in Marotti-Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. II: La professione del teatro cit., p. 83. Se Cecchini indica uno dei segreti dell’improvvisazione evocando l’immagine dell’abile “furto” che non deve sembrare “rapina”, Perrucci – dopo aver fatto menzione dei molti brani ‘premeditati’ che ogni attore dovrebbe procurarsi – dichiara: “Qui sta tutta l’arte: il nasconderla” (Dell’Arte rappresentativa, premeditata ed all’improvviso. Bilingual Edition in English and Italian, a cura di F. Cotticelli-A. Goodrich Heck-Th.F. Heck, Scarecrow Press, Lanham-TorontoPlymouth 2008, p. 180). E aggiunge: “Non mi si negherà, per fine, che non abbia bisogno d’esser retorico, [...] o artificioso, chi rappresenta. E questo è quanto al parlare all’improviso che gli succederà con i padri, con le donne, e con i servi in diversi discorsi ed accidenti, dilettandosi di fare qualche concettino all’improviso, e di sostenere il discorso pronto, uguale a quello che dirà premeditato” (ivi, p. 164).

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idiomi, e così tutte le altre parti: e questo studio non è di tutto il giorno, ma è come ogn’altro studio che rincresce ed annoia a lungo andare; e non è, come tali pensano, di tanto gusto che mandi l’anima nell’estasi del diletto, ma è faticoso, come è faticoso a’ maestri il sonare, cantare e ballare, ché l’uomo si stracca, si sfiata e snerva; e quando i comici vanno al teatro, non dicono d’andar a spasso come gli ascoltanti, ma dicono di andar a bottega: e talvolta a più d’uno tremano le gambe pensando che ha da sodisfare tanto popolo e persone che pagano il loro danaro e che non stanno colà per devozione, voglio dire, che possono strepitare se non hanno gusto34.

A una lettura superficiale di questi passi, potrebbe sembrare di aver trovato in essi la risposta più esauriente e maliziosa alla domanda circa cosa potessero mai recitare, improvvisando, i comici dell’Arte: recitavano i frutti dei loro quotidiani “studi” mattutini condotti su certi repertori di drammaturgia e di varia letteratura... Si predisponevano, ognuno dal punto di vista della parte che era solito sostenere in scena, a raccogliere ed a mandare a mente una nutrita serie di “nobili discorsi” desunti da volumi ‘scorticati’ e ‘squarciati’, per poi esporli agli spettatori attraverso una sorta di collage tanto ben eseguito da contrabbandare per “patrimonio” i frutti d’una “rapina”... Ma, a ben vedere, le cose non stanno proprio in questi termini. Non possiamo dimenticare, infatti, che Barbieri – dopo aver accennato alla necessità, per l’attore, di “studiare i libri” – pone un forte accento su quel fattore di “invenzione” che deve distinguerne il modus operandi ottimale. Con una frase quantomai significativa, il comico vercellese lascia balenare l’idea che l’autentico segreto dell’improvvisazione consista nella difficile arte di saper percorrere una strada intermedia tra lettura di “libri stampati” e originalità di ‘invenzione’: è a questo incrocio che si troverebbero le radici delle formule espressive capaci di suscitare interesse e “gusto” nel pubblico (le “stravaganti iperboli” del Capitano, gli “spropositi” del Dottore, le “sottilissime astuzie” del primo zanni, le “sciocche balorderie” del secondo, ecc.). Mentre Cecchini, da parte sua, non si limita a parlare di “furti”, bensì raccomanda vivamente un ulteriore tipo di lettura: quello condotto per appropriarsi, anziché dei meri contenuti d’un testo,   Barbieri, La Supplica cit., p. 666.

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del continuum stilistico-musicale cui si intona il flusso delle parole che lo compongono (onde diventi possibile modulare la voce sino a ottenere effetti di “amabilissimo” fraseggio). E aggiunge che, se la “memoria” del comico improvvisatore – lungi dall’essere vuota – deve possedere con sicurezza un nutrito “patrimonio”, occorre poi un particolare dominio dell’intelletto sulle facoltà mnemoniche per saper trovare il “modo” di selezionare e comporre, traendole da quel patrimonio, le espressioni monologiche e dialogiche da inserire con successo “nello spacioso campo che la Comedia” di volta in volta “porge”. Si tratta, dunque, d’un insieme di fattori numerosi e complessi, tali comunque da lasciarci intuire che gli elementi-base dei prodotti drammaturgici realizzati ‘all’improvviso’ dai comici dell’Arte, ben lungi dal risolversi in astratte sequele di geniali esternazioni estemporanee, siano andati configurandosi secondo le forme rigorose di quella che potremmo chiamare una difficile ‘scrittura per la scena’: con le sue fonti, con la sua retorica, con i suoi criteri di imitatio e di inventio. E, in più, con la necessità di ‘scrivere’ non solo attraverso segni grafici, ma anche e soprattutto per mezzo di quel pluralismo di sistemi segnici di cui già il Lasca, a suo tempo, aveva indicato le diverse logiche grammaticali: “presenza”, “atti”, “modi”, “gesti”, “voce”. Una simile scrittura per la scena trovava modo, almeno in parte, di depositarsi anche sulla pagina, sub specie di “certe composizioni generali, che si possono adattare ad ogni specie di commedia, come sono, per gl’innamorati e donne, di concetti, soliloqui e dialoghi; per li vecchi, consigli, discorsi, saluti, bisquizzi e qualche graziosità”35. Del resto, quando Barbieri passa in rassegna i topoi espressivi delle parti (“stravaganti iperboli”, “spropositi”, “sottilissime astuzie”, “sciocche balorderie”, ecc.), o quando Bruni lascia intendere che le Bravure di Capitan Spavento siano diventate vangelo per chiunque indossi la maschera del militare, è evidente che simili enunciati si fondino sul presupposto che considera ovvio, per ogni attore, mettere su carta, a futura memoria, i risultati migliori del suo studio creativo. La cosiddetta “composizione generale” – che, nel gergo dei comici, almeno a quanto risulta senza   Perrucci, Dell’Arte rappresentativa cit., p. 103.

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possibilità di dubbio dal primo Settecento, verrà chiamato generico – altro non è se non la stesura scritta di monologhi e dialoghi concernenti temi e situazioni scelti tra quelli convenzionalmente riconosciuti tipici d’ogni singola parte scenica (ad esempio, per ciò che riguarda i due giovani Innamorati, uomo e donna: da un lato, le formule di corteggiamento, le gioie dell’amor corrisposto, i travagli dell’amore non corrisposto, la celebrazione delle bellezze e delle qualità del partner, la gelosia, ecc.; dall’altro, la proposta e l’accettazione o il rifiuto d’una profferta d’amore, i contrasti tra amanti provocati dall’intrusione d’un ‘terzo incomodo’, ecc.). La costante linea-guida cui si ispira la loro composizione – come indica il termine che li definisce – deve essere quella, non già di riferirli a un plot drammaturgico ben specificato nei minimi particolari, ma di mantenerli aperti a qualsiasi trama: in modo da poterli adattare, con le opportune variazioni, alla vicenda che il singolo allestimento, di volta in volta, sceglierà di esibire dal palco. A dare loro forma, è la mano stessa dell’attore, che proprio qui può utilizzare i frutti meglio selezionati dello studio da lui condotto ‘scorticando’ e ‘squartando’ “libri volgari”. Non è escluso, tuttavia, il ricorso al contributo esterno di qualche specialista della scrittura. Nel 1699, Andrea Perrucci rivela: ho io conosciuto famosi comici aversi fatto fare libri (ed io glie ne ho fatto quantità) di cose adattate a tutte le occasioni [...], ed aver tanta accuratezza in accomodarle che sembrava che uscisse all’improvviso ciò che s’avevano da molto tempo premeditato. Qui sta tutta l’arte: il nasconderla36.

Ancora nel 1733, il giovane Goldoni, mentre frequenta a Milano la compagnia di Buonafede Vitali, viene sollecitato a svolgere incombenze del genere: Informati i comici, e le donne principalmente, ch’io aveva desiderio di far qualche cosa per il teatro, mi caricarono di commissioni per inpinguare il loro generico37, ed empiei in pochissimo tempo una   Ivi, p. 119.   Qui, evidentemente, Goldoni usa il termine generico non per indicare un singolo brano monologico o dialogico, ma l’insieme di tutti i brani che ogni 36 37

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quantità di fogli di soliloqui, di rimproveri, di disperazioni, di dialoghi, di dichiarazioni e di concetti amorosi, cose, che furono estremamente aggradite, e che facevano augurare ai comici ch’io sarei divenuto un bravo poeta alla loro foggia38.

Pochi anni prima, Luigi Riccoboni aveva scritto: Per facilitare gli attori mediocri a recitare la commedia all’improvviso è stato necessario ricorrere ai monologhi e a quei luoghi comuni che gli italiani chiamano robbe generiche di cui gli attori si servono a seconda delle necessità e delle situazioni sceniche. Questo modo di dialogare non vale nulla, perché spesso accade che si piazzano delle belle massime così mal a proposito che esse non quadrano con ciò che l’interlocutore ha appena detto e sono del tutto fuori tema39.

Stando alla lettera di questo passo, sembrerebbe che – lungo l’intera storia dell’Arte – solo un indeterminato numero di “attori mediocri”, sprovvisti di autentiche doti di improvvisazione, sia stato costretto a servirsi dei generici. Se ciò fosse vero, ci si potrebbe chiedere perché mai Isabella Andreini avrebbe dovuto scrivere le sue Lettere e perché mai Francesco avrebbe messo su carta le Bravure di Capitan Spavento: lavori quasi certamente composti “a consuntivo” di una attività scenica, ma di certo fondati su qualche appunto redatto in funzione dell’attività scenica. Né va dimenticato che Riccoboni, al pari di Goldoni, è fautore d’una riforma del teatro tesa a bandire ogni forma di recita all’improvviso, per riaffermare l’assoluta sovranità della più rigorosa memoria d’un testo drammatico compiuto. È possibile che Perrucci, quando propone, a quanti vorrebbero ricalcare le orme dei comici Gelosi, di ricorrere a una vera e propria ricetta schematicamente normativa (raccogliere sempre le “robbe generiche” di ogni singola parte “in un libro con il titolo di Cibaldone repertorio”, e ordinarle secondo categorie quali – nel caso dell’Innamorato – “amor corrisposto, disprezzo, priego, scaccio, sdegno, gelosia, pace, amicizia, merito, attore ‘collezionava’ per farne uso al momento opportuno. Di norma, queste raccolte andavano sotto il nome di zibaldoni. 38   C. Goldoni, Prefazione al tomo XI dell’edizione Pasquali, in Memorie, a cura di P. Bosisio, Mondadori, Milano 1993, p. 860. 39  Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien cit., p. 63.

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partenza”40), si adegui anche alle consuetudini tipiche d’un dilettantismo alquanto scolastico41. Ma sarebbe risibile sostenere che il Goldoni del Teatro comico, allorché fa discutere lo scrittore Lelio e l’attrice Rosaura intorno a quei “libri” che i comici “chiamano generici”, non stia riferendosi ad abitudini tipiche dei professionisti settecenteschi (i quali da qualche parte le avranno pur o ereditate o desunte). L’improvvisazione, intesa non già come mero espediente di comodo ma in quanto inventio et compositio di un prodotto drammaturgico che prende forma effimera sulla scena anziché risolversi nel re-citare a memoria un “bel disteso”, si fonda innanzitutto sul presupposto d’una struttura produttiva – la compagnia – la cui logica costituente esige da ogni attore il rigoroso rispetto d’una parte fissa funzionale a un geometrico sistema di ruoli. Il “fraternale” gruppo costituitosi a Padova nel 1545 contava otto membri. La compagine dei Gelosi tanto esaltata da Capitan Spavento ne annoverava undici. Secondo la testimonianza primo-settecentesca di Luigi Riccoboni, “una compagnia italiana non ha mai più di undici attori e attrici”42. Se ne può desumere che, per circa due secoli, le troupe dei nostri professionisti abbiano avuto un organico medio che si aggirava intorno alla decina di componenti: dieciundici artisti specializzati, non già (come oggi avviene) a studiare e ad interpretare un diverso personaggio per ogni messinscena cui debbano contribuire, ma a definire e ad arricchire giorno dopo

  Perrucci, Dell’Arte rappresentativa cit., p. 105.   Mirella Schino (cfr. Taviani-Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte cit., p. 510) sostiene che Andrea Perrucci sarebbe stato solo un curioso amateur di teatro: “amatore e dilettante la cui opera [Dell’Arte rappresentativa premeditata e all’improvviso], erroneamente creduta quella di uno specialista, è stata lungamente utilizzata per trarne notizie tecniche, soprattutto per quel che riguarda l’ammaliante problema dell’improvvisazione”. Certo – ma nessuno l’ha mai sostenuto – Perrucci non praticò il mestiere d’attore. Dunque, se lo si considera a confronto con lo specialismo professionistico dei comici dell’Arte, può essere giusto valutarlo quale ‘dilettante’. Ma definire semplice amateur (nel senso deteriore del termine) colui che, oltre a essere drammaturgo di non basso profilo, ebbe un ruolo centrale nel mondo dello spettacolo napoletano di fine Seicento, e che – per molti anni – venne pagato in qualità di responsabile delle messinscene del San Bartolomeo, ci sembra alquanto ingiustificato. 42  L. Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. Avec les Pensées sur la Déclamation, Guerin, Paris 1738, p. 36. 40

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giorno per molti anni – se non per un’intera vita di lavoro – sempre la stessa maschera o la stessa figura scenica. Sulla scorta d’una simile pre-condizione, determinare, per queste funzioni teatrali, tratti specifici di forte impatto sul pubblico e componenti espressive di sperimentato effetto, nonché aver modo di verificare esaustivamente le condizioni di un loro rapporto ottimale con tutte le altre personae cui possano rapportarle le contingenze di qualsivoglia trama da scenario, non è certo impresa impossibile o troppo ardua. Per conseguire tali obiettivi, saranno necessari l’apprendistato dell’osservare, dell’imitare e del meditare i modelli offerti da altri attori di riconosciuta eccellenza nel ruolo che si dovrà ricoprire, e quel genere di quotidiano studio preparatorio sommariamente descritto dalla Servetta di Domenico Bruni, e meglio specificato dalle precisazioni di Cecchini e di Barbieri. Non a caso, se il secondo ci parla dei risultati auspicabili per un simile studio componendo uno schematico elenco di maschere e di tipologie del generico, il primo addirittura mette ordine tra i propri Avisi ai comici distribuendoli secondo un nitido schema di “parti” fisse, e passando in rassegna vizi e virtù dei topoi stilistici di cui devono alimentarsi i rispettivi generici. Peraltro, la composizione scenica dell’improvviso poteva di certo contare non solo su repertori monologici e dialogici “di cose adattate a tutte le occasioni”, ma ancora su formulari d’altro genere. Come, per quanto concerne i ruoli “ridicoli” della commedia, quell’insieme di gag destinate solo a suscitare immediate e intense accensioni di riso nel pubblico che Giovanni Briccio passa in rassegna distinguendole puntigliosamente in termini di “burle, lacci, botte, motti, facezie, inganni, groppi e bizzarrie”43. Pur attribuendole tutte, secondo un’ottica troppo appiattita sulla dominante della più accademica cultura letteraria, a mera “imitazione de’ passati scrittori”, l’autore ne sottolinea soprattutto l’aspetto stereotipato. Ovvero l’identico aspetto che queste varianti della convenzionale trovata comica rivelano quando le vediamo citate nelle raccolte di canovacci giunte sino a noi, dove è soprattutto il vocabolo “lazzo” (di incerta etimologia, e variamente interpretato 43   G. Briccio, Lettera dedicatoria de La Tartarea (1614), in L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento: storia e testi, Bulzoni, Roma 1978, p. 4.

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come cifra gergale o di “lacci” o di “le azioni”) a segnalarne la presenza. Il che, ad esempio, induce Perrucci a spiegare: Si deve avertire per dar contezza delle cifre del soggetto a chi non l’ha in pratica, perché a chi è del mestiere è superfluo, che lazzo non vuol dir altro che un certo scherzo, arguzia, o metafora in parole o in fatti44.

Solo nello Zibaldone del dilettante settecentesco Placido Adria­ ni è dato riscontrare un repertorio di lazzi accompagnati dalla chiara esposizione del loro sviluppo (e ne abbiamo offerto un esempio nel capitolo III)45. È tuttavia sicuro che ogni attore preposto ad animare una maschera abbia avuto a disposizione raccolte ad uso personale. Tra quelli conservatici, l’insieme degli scenari di Flaminio Scala è l’unico a non contemplare esplicitamente la presenza di gag segnalate da un loro appellativo specifico. Ma ciò avviene, senza ombra di dubbio, perché – volendo assumere un aspetto esteriore comparabile a quello delle convenzionali novelle – le “favole rappresentative” evitano con cura l’impiego di vocaboli gergali tipici della professione scenica. Del resto, quando nei Duo Capitani simili leggiamo che “Flaminia entra dicendo villania a Franceschina, la quale le dice che se la gratti, se le pizzica”46, non è possibile non pensare all’evidente identità di contenuti e di soluzioni espressive tra l’allusione oscena abbozzata da Scala, e il “Cotello dice che te la gratti” prescritto dal lazzo di Adriani47. Dunque, come ogni altro codice artistico, così anche la particolarissima compositio scenica all’improvviso praticata dagli attori professionisti possiede le sue convenzioni costitutive, i suoi modelli da imitare, le sue ricerche di fonti usufruibili, le sue miniere fornitrici di materie prime e di moduli formali da utilizzare per nuovi esiti espressivi, la sua retorica, i suoi repertori di schemi discorsivi, i suoi luoghi comuni, i suoi trucchi di sicuro (e, a volte,   Perrucci, Dell’Arte rappresentativa cit., p. 192.   Cfr. supra, p. 96. 46   F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di F. Marotti, Il Polifilo, Milano 1976, vol. I, p. 180. 47   Un tentativo di estrapolare dai canovacci pervenuti sino a noi un catalogo esaustivo dei lazzi da essi contemplati è quello esperito da N. Capozza, Tutti i lazzi della Commedia dell’Arte. Un catalogo ragionato del patrimonio dei Comici, Dino Audino Editore, Roma 2006. 44 45

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facile) effetto. Allo stesso modo, anche i canovacci, nelle cui trame doveva svolgere il ruolo di volta in volta assegnato alla sua parte il singolo attore, venivano elaborati attraverso un ora più ora meno complesso gioco di interpolazione tra peripezie tipiche dei potenziali rapporti tra le maschere e/o i tipi fissi, e modelli di plot ben collaudati: non di rado desunti dalla drammaturgia regolare. Non a caso, già nel primo Seicento, qualcuno può sentirsi in dovere di denunciare come semplice contrabbando di merci prestigiose imitate e contraffatte lo smercio di “soggetti” che alimenta il mercato dello spettacolo contemporaneo: un vero e proprio “traffico di soggetti” era stato [...] denunciato da Giovanni Briccio, fertile autore-attore dilettante, il quale, nella presentazione della sua commedia La Tartarea (1614), aveva accusato i contemporanei di essere gli artefici del “traffico”. Secondo la sua accusa, la drammaturgia contemporanea si avvaleva di un patrimonio che comprendeva le “invenzioni di Plauto, Terenzio e altri antichi”, ma anche le “invenzioni di tanti autori moderni come [...] Ruzante, Calmo, [...], Guarino, Tasso, [...] e altri che arrivano al numero di quasi trecento”48. Alla grande quantità delle fonti citate egli aggiungeva anche gli “innumerevoli soggetti di diverse Academie e Compagnie, come di Gelosi e altre, dove fra le invenzioni credo che ben valente potrà chiamarsi quello che farà un’opera che di vecchio non abbia odore”49.

E, alla fine del secolo, Andrea Perrucci aprirà il capitolo Del­ l’Arte rappresentativa dedicato al “soggetto all’improvviso” ribadendo in termini più sfumati, quasi a bilancio definitivo d’una intera civiltà teatrale, un giudizio abbastanza simile: Questi soggetti o son fatti apposta per rappresentarsi all’improviso, o sono presi da comedie distese degli antichi o moderni, ridotte a stilo di potersi rappresentare all’improviso [...]. I soggetti che vanno a torno sono molti, e ve ne sono tomi stampati [...] a quali mi rimetto,

48   Così scrive Briccio nella dedicatoria apposta a La Tartarea nell’edizione 1614 del testo (cfr. Mariti, Commedia ridicolosa cit., p. 4). 49  A.M. Testaverde, Introduzione a I canovacci della Commedia dell’Arte, a cura di A.M. Testaverde, Einaudi, Torino 2007, p. xxvii.

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come sono il Teatro Scenico di Flaminio Scala [...]. Il farne di nuovi è un poco difficile50.

In verità, di “questi soggetti” che andavano “a torno”, a noi è pervenuta una casuale campionatura di oltre ottocento esemplari, in diversa misura atti a riflettere abitudini di repertorio che spaziano tra l’ultimo ventennio del Cinquecento e il primo del Settecento, in larga maggioranza ascrivibili al mondo dei dilettanti51. Non ne esistono però, al contrario di quanto vorrebbe lasciar intendere en passant Perrucci, diversi “tomi stampati”: Il teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala, rimane, per quanto ne sappiamo, l’unico esemplare del suo genere. Ed è significativo, perché – evidentemente – il duplice impegno del “signor Flavio” per levare “a molti l’occasione di appropriarsi” delle sue “fatiche” e per diffondere attraverso la pubblicazione un nuovo tipo di “opera” drammatica “da nessuno data in luce in questa forma” va riconosciuto, infine, come doppiamente fallimentare. Intanto perché la forma del soggetto non risultò fruibile alla lettura da parte di nessun potenziale acquirente che non fosse un addetto ai lavori dello spettacolo. E poi, quel che più conta, perché – entro i circuiti degli staterelli italiani – nessun attore e nessuna compagnia avrebbero avuto interesse a distinguere tra opere originali e plagi, all’interno di un mercato dove contava soltanto la circolazione più rapida possibile di trame nuove in apparenza, ma fondate su schemi ultra-collaudati, e non aveva il benché minimo senso

  Perrucci, Dell’Arte rappresentativa cit., p. 186.   In quello che rimane a tutt’oggi il catalogo generale più esaustivo (aggiornato al 1988) della sterminata bibliografia sulla Commedia dell’Arte – Th.F. Heck, “Commedia dell’Arte”. A Guide to the Primary and Secondary Literature, Garland Publishing, New York & London 1988 – risultano circa ottocento canovacci superstiti della lunga storia del fenomeno, divisi in numerose raccolte manoscritte. Di questi documenti, pochi dei quali risultano redatti a uso dei comici professionisti, sono più agevolmente disponibili per il lettore comune quelli pubblicati nel corso degli ultimi venticinque anni. Essenzialmente: l’antologia di Testaverde, I canovacci della Commedia dell’Arte cit.; Scenari Casamarciano, a cura di M. Perez, Edizione Teatro Laboratorio, Roma 1988; Gli scenari Correr. La commedia dell’arte a Venezia, a cura di C. Alberti, Bulzoni, Roma 1996; quelli – che, ovviamente, non figurano nell’elenco stilato da Heck – pubblicati nel volume di M. Del Valle Ojeda Calvo, Stefanelo Botarga e Zan Ganassa. Scenari e zibaldoni di comici italiani nella Spagna del Cinquecento, Bulzoni, Roma 2007. 50 51

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la distribuzione di numerose repliche d’un capolavoro d’autore protetto da una qualche forma di copyright. Il repertorio drammaturgico dei comici professionisti non poteva essere costituito da una nobile biblioteca ideale di testi maggiori e minori (come quelle che possiamo ritrovare – a consuntivo d’una civiltà dello spettacolo – sia nel teatro elisabettiano sia nel Siglo de Oro): doveva per necessità economica assumere la forma a bella posta confusa di quello che giustamente Briccio definisce un alquanto losco “traffico” di argomenti e trame sempre ri-adattate in diverse combinazioni. Ma anche sempre desunte – per via di plagio, di imitazione e di parodia, ora consapevole ora inconsapevole – da un ampio catalogo di “invenzioni di tanti autori” antichi e moderni: soprattutto commedie (però senza dimenticare tragicommedie, pseudo-tragedie d’ogni sorta, pastorali, e tutte le nuove fenomenologie drammatiche di tempo in tempo affermatesi con il variare delle mode e con il succedersi delle stagioni culturali). In una simile prospettiva, ed entro i limiti del quadro lacunoso offertoci dagli scritti che in qualche modo possono aiutarci a conoscere contenuti e tendenze stilistiche dei generici e dei canovacci composti da alcuni comici professionisti, possiamo anche attribuire un carattere di eccezionale esemplarità agli scenari (pervenutici attraverso una complicata vicenda di manoscritti perduti e ritrovati52) del grande Arlecchino della Comédie Italienne Domenico Biancolelli, attivo a Parigi tra il 1661 e il 1688. Non si tratta, a ben vedere, di soggetti come quelli pubblicati da Flaminio Scala, bensì d’una copiosa congerie di materiali eterogenei riguardanti le rappresentazioni sostenute dall’attore: resoconti più o meno diffusi di spettacoli, brani recitati, memorie sui minuti sviluppi di commedie le cui scene vengono ricostruite con puntigliosa attenzione al ruolo in esse svolto dal secondo zanni. Proprio quest’ultimo aspetto li rende oltremodo preziosi: poiché – al di là d’una serie di caratteristiche peculiari della Commedia dell’Arte emigrata in Francia – essi ci permettono di cogliere in maniera più ravvicinata una pur vaga immagine di taluni risultati 52   Si vedano, a proposito, i preziosi contributi di Delia Gambelli: Arlecchino a Parigi, I: Dall’inferno alla corte del Re Sole, Bulzoni, Roma 1993, pp. 295-383; Arlecchino a Parigi, II: Lo scenario di Domenico Biancolelli, Bulzoni, Roma 1997, vol. I, pp. 19-34.

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cui poteva pervenire la scrittura scenica realizzata all’improvviso dagli eredi di ser Maphio e di Cantinella. Lo testimoniano (per citare un caso che illustri clamorosamente l’abitudine dei comici a valersi di canovacci derivati da abili “traffici” e furti) le note relative alla versione biancolelliana della tragicommedia di Don Giovanni: Le festin de pierre, allestito al Palais Royal nel febbraio del 1668. Ricostruendo l’episodio – qui diviso in due momenti – nel quale il protagonista e il suo servo, dopo aver fatto naufragio, vengono raccolti e curati da una pescatrice che sarà poi sedotta e abbandonata dal diabolico libertino, l’attore descrive in questi termini la scena iniziale del fortunoso approdo di Dom Jouan e Arlecchino alla spiaggia frequentata dalla fanciulla: Nella scena del naufragio, io mi trovo in camicia nell’acqua con 10 o 12 vesciche gonfie d’aria, mi alzo e mi abbasso come se stessi nuotando, sinché arrivo a proscenio dicendo: “Basta acqua, basta acqua! Vino a volontà!”. Mi accorgo che Dom Jouan è tra le braccia d’una giovane figlia di pescatori, e dico: “Se mi capitasse ancora di naufragare, vorrei salvarmi su una barca del genere”, poi alzo la camicia per strizzarla dall’acqua, e grido: “Oh dio! Un pesce mi si è attaccato al basso ventre!”; ringrazio Nettuno per avermi salvato, e, guardando il seno della pescatrice, dico: “Se avessi avuto due salvagenti così, non avrei avuto paura di annegare”. Intanto, il mio padrone rinviene, e, mentre lui si dà bel tempo con la ragazza, io faccio il lazzo di far scoppiare una di quelle vesciche saltandoci sopra col culo, sino a ottenerne uno scoppio fragoroso, dico che sto tirando colpi di cannone in segno di gioia per lo scampato pericolo; quando il padrone si allontana con la pescatrice, la compiango e dico: “È un libertino tale che, il giorno in cui finirà all’inferno, cosa che gli succederà senz’altro, vorrà sedurre Proserpina”53.

Come è evidente dal quadro d’inizio, ci troviamo di fronte a una forma di Commedia dell’Arte che – dato l’ambiente entro cui si trova ad operare – può permettersi il lusso d’un macchinismo scenografico d’effetto, con apparati in grado di simulare le onde marine54. Su questo sfondo, l’Arlecchino di Biancolelli gioca 53   D. Biancolelli, Le festin de pierre. Convitato di pietra, in Gambelli, Arlecchino a Parigi, II: Lo scenario di Domenico Biancolelli cit., vol. I, pp. 301. 54  Occorre notare che il teatro dei comici professionisti si rivelò, compatibilmente con i mezzi economici di volta in volta a sua disposizione, sempre

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innanzitutto le sue doti mimiche, presentandosi nella grottesca parvenza del naufrago sballottato dai marosi, ma iper-protetto da una vera e propria collezione di vesciche gonfie d’aria. È grazie a questi oggetti di scena, che il comico, più avanti, potrà dare energia e forma alle sue gag: prima paragonando i seni prosperosi della pescatrice a due appetitosissimi ‘salvagenti’; poi dedicandosi al piacere ludico infantile delle cascate che, a colpi di deretano, cercano di far scoppiare fragorosamente un ‘pallone’, per disturbare l’idillio erotico tra Don Giovanni e la bella. Nel frattempo, soprattutto mentre il padrone è ancora svenuto, altri lazzi intervengono a contrappuntare gli sviluppi dell’azione: le grida dello Zanni soffocato dall’acqua, ma ancora (come sempre) amante del buon vino; la trovata fanciullescamente oscena di scoprire, alzando e strizzando la camicia per asciugarla, il proprio membro virile, e di scambiarlo per un pesce. Secondo quanto è logico attendersi, la memoria di Biancolelli privilegia in assoluto ciò che concerne la parte da lui svolta nello spettacolo. Ma è indubbio che – qui, e in ogni altro momento della trama – la materia già trattata da Tirso e da Molière subisce una dislocazione profonda: sotto l’effetto d’una forza propulsiva che, se non spinge certo ai margini della vicenda le avventure di Don Giovanni, porta comunque in primo piano anche la presenza del secondo Zanni. Sino a delineare un contesto drammaturgico dove ciò che un giorno la critica teorizzerà come mitologema fondato su due co-protagonisti (padrone, e servitore-ombra: Don Juan et le Double55) viene anticipato nelle forme concrete d’una chiara disponibile a un’ampia gamma di soluzioni scenografiche: dalla “scena dipinta col carbone senza un giudicio al mondo” deprecata da Tommaso Garzoni, ai raffinati effetti speciali del macchinismo barocco. In effetti, solo delle scenografie rigidamente fondate su vedute prospettiche dipinte (e dunque tali da imporre lo stazionamento degli interpreti in una esigua porzione di palco, allineandoli in modo da non compromettere il gioco di proporzioni tra corpo umano ed edifici riprodotti) potevano risultare poco compatibili con la dinamicissima recitazione degli attori italiani. 55   Don Giovanni e il Doppio è, appunto, il titolo sotto il quale sono stati raccolti due ampi saggi di Otto Rank, scritti tra il 1914 e il 1922, che si appuntano sulla impossibilità di considerare separatamente – nel mito di Don Giovanni – il seduttore e il suo servo, poiché quest’ultimo sarebbe il necessario sosia ‘basso’ (l’ombra che non va disgiunta dal corpo) del protagonista: cfr. O. Rank, Don Juan et le Double. Etudes psychanalytiques, Payot, Paris 1973.

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fabula teatrale. L’insieme di sintagmi mimici e verbali adottati da Biancolelli per realizzare la sua versione della leggenda tragicomica, come avviene nell’ambito di ogni arte della composizione, si determina appoggiandosi a una fitta rete di plagi, di variazioni sul tema, di lazzi stereotipati a volte dozzinali. Chi ha curato la più attendibile edizione moderna dello Scenario ha passato in rassegna puntualmente soprattutto i prestiti attinti dalla letteratura drammatica: la battuta dell’“acqua” e del “vino” riprende e modifica due versi di Tirso dal contenuto analogo; quando Arlecchino è incaricato da Don Giovanni di spiegare alla pescatrice i motivi della sua fuga, “il richiamo è al passo corrispondente di Molière, dove – su ordine di Dom Juan – Sganarelle riassume a suo modo l’elogio dell’incostanza appena declamato dal suo padrone”56; ecc. Talvolta, le novità introdotte dall’attore prendono il posto di espressioni ben più poetiche e incisive usate da altri (è il caso dell’ipotesi relativa alla possibile seduzione di Proserpina: pallido sostituto mitologico-grottesco d’un fulminante cartiglio che Molière appone al burlador: “épouseur du genre humain”). Ma in certi casi – tra imitatio e inventio – prendono forma momenti di mirabile poiesis scenico-drammaturgica. È, questo, il caso del grande coup de théâtre che si realizza nella seconda parte dell’episodio. Quando Arlecchino esibisce a sorpresa la lista delle donne amate e abbandonate dal seduttore. E, dopo avervi aggiunto il nome della pescatrice, la getta verso la platea, e ne accompagna lo srotolarsi con il più ferocemente derisorio ‘invito alla lettura’: In questa scena, la pescatrice dice a Dom Jouan di sperare nella sua promessa di sposarla, lui risponde di non poterlo fare, e, dicendo che un giorno gliene spiegherà il motivo, se ne va; la ragazza si dispera, allora le rivelo che sono più di cento quelle che hanno ricevuto identiche promesse di matrimonio. “Prendete – le dico –, ecco la lista delle donne che si trovano nella vostra stessa condizione, ora aggiungerò anche il nome vostro”, lancio allora la lista, tenendola per un capo e facendola srotolare, verso il parterre, e dico: “Controllate, signori, che non vi sia anche il nome d’una qualche vostra parente”57. 56   Gambelli, Arlecchino a Parigi, II: Lo scenario di Domenico Biancolelli cit., vol. I, p. 302, n. 149. 57  Biancolelli, Le festin de pierre. Convitato di pietra cit., pp. 301-302.

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L’idea di comunicare agli spettatori un vero e proprio ‘catalogo’ delle scellerate conquiste del seduttore è appena accennata dal testo di Tirso. Molière non mostra alcun interesse a svilupparla. Gli autori che in Francia lo precedettero nel rielaborare la tragicommedia spagnola, Dorimond e Villiers, decidono di dedicare almeno una dozzina di versi delle loro opere a un arido elenco di nomi femminili. Soltanto nel Convitato di Pietra di Giacinto Andrea Cicognini (la cui stesura, peraltro, risulta largamente impostata, come quella di Molière, su soluzioni e spunti tratti dai comici professionisti), la lista diventa vero e proprio oggetto di scena, che il servo Passarino lancia verso la pescatrice Rosalba, dicendo: “Guardè s’al ghe n’è qualche centinara su sta lista finì”58. Biancolelli sceglie di muoversi sulla stessa linea, però per deviarla verso un esito geniale. Il rotolo di carta non viene trattenuto e giocato all’interno della finzione scenica: si trasforma in una sorta di ponte mobile che dal palco si protende a ‘invadere’ la platea, co-involgendo il pubblico intero nella ‘grande famiglia’ di coloro che, quando non riescono a rendersi colpevoli di azioni libertine, non possono se non subire l’ineludibile minaccia del libertinaggio altrui. Oggetto, atto e parole – qui – si compongono in una sintesi di perfetta poiesis teatrale. Che il merito di averla data alla luce per la prima volta vada davvero ascritto all’autore dello Scenario, nessuna ricerca (per quanto diligente e fortunata) sarà mai in grado di affermarlo con assoluta certezza. Ma questo non dipende dalla difficoltà o dalla impossibilità di reperire documenti probatori indiscutibili. Deriva dagli statuti stessi di quella viva teatralità moderna di cui i comici dell’Arte – tra metà Cinquecento e metà Settecento, in Italia e in Europa – seppero fare esperienza sulla propria pelle: portandone alla luce, nel bene e nel male, sia le fenomenologie tipiche d’una compiuta mercificazione dello spettacolo sia le implicanze artistiche più inquietanti per qualsiasi visione intellettualistica fondata sul culto indiscusso della parola scritta e della astrazione ideologica, della forma fissata una volta per tutte e dell’autore-demiurgo.

58  Il Convitato di Pietra “opera regia”, in G. Macchia, Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Laterza, Bari 1966, p. 200.

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VII

Lo spettro della Commedia dell’Arte: mitologie, restauri e re-invenzioni

1. Da Gozzi a Craig, morte e resurrezione del teatro delle maschere Già attorno al 1730, a Parigi, un raffinato e curioso erudito – Anne-Claude-Philippe de Tubières conte di Caylus1 – raduna attorno a sé un gruppo di appassionati dello spettacolo allo scopo di coltivare un’idea di teatro che trova il suo simbolo privilegiato in una particolarità tecnica tipica del repertorio espressivo dei professionisti italiani dell’Arte: i lazzi. Tra quelli che decisero di chiamarsi Lazzistes2 – accanto a figure eminenti della politica francese contemporanea, come il ministro Jean-Frédéric Phélypeaux – compaiono ben tre attrici della Comédie Française (tra le quali spicca la celeberrima Jeanne-Françoise Quinault), nonché due drammaturghi di chiara fama: Alexis Piron e Charles-Alexandre Salley. Mascherati da appositi pseudonimi, i componenti della société del conte di Caylus organizzavano a turno nelle rispettive abitazioni convivi incentrati attorno a un rutilante ventaglio di 1   Cfr. AA.VV., Le comte de Caylus: les arts et les lettres: actes du Colloque international Université d’Anvers (UFSIA) et Voltaire Foundation, Oxford, 2627 maggio 2000, a cura di N. Cronk e K. Peeters, Rodopi, Amsterdam-New York 2004. 2   Su questo gruppo e sul loro repertorio, si veda Histoire et recueil des Lazzis, a cura di J. Curtis e D. Trott, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century”, n. 338, 1996.

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spettacoli bizzarri: bals masqués, proiezioni di lanterna magica, esibizioni di cani ‘sapienti’, scene di marionette, sketch satirici contro personalità in auge, ben studiate parodie3 degli stilemi tipici della tragedia classica francese. Non si tratta dunque – come era avvenuto e continuava a capitare nel fenomeno del dilettantismo – d’una semplice imitazione senza fini di lucro del recitare all’improvviso, ma di qualcosa di molto diverso. La società dei Lazzisti ritiene che un accorgimento emblematico dell’ormai vetusto teatro all’italiana debba essere considerato il modello di riferimento per una operazione intesa a sperimentare forme che stravolgano le convenzioni spettacolari vigenti4. Un alcunché di vagamente simile, ma ad un più alto livello di impegno creativo, sembra verificarsi nella Venezia del 1761, quando il conte Carlo Gozzi si compiace di presentare il processo genetico delle sue fiabe teatrali come un capriccio scaturito da istanze polemiche aperte tra un altro gruppo ‘esoterico’ (l’Accademia dei Granelleschi) e i drammaturghi-mestieranti di successo Goldoni e Chiari. In questo caso, il riferimento alla Commedia dell’Arte sembra fondarsi sul considerare quest’ultima un fenomeno in qualche modo pervenuto al suo stadio terminale, dunque sospeso tra prospettive di morte e possibili ri-animazioni. Non a caso, Gozzi accusa Goldoni di “schiccherare soggetti in abbozzo per 3   Per quanto concerne diffusione e funzioni della parodia nella cultura francese settecentesca, si veda: S. Menant-D. Quéro, Séries parodiques au siècle des Lumières, Presses Paris Sorbonne, Paris 2005. 4   Una delle manifestazioni più significative dell’oltranza parodistica che distingue tanta parte delle attività dei Lazzistes può essere ravvisata nel curioso spettacolo – mirifico exemplum di cattivo gusto e di totale insipienza perseguiti ad arte – realizzato durante l’inverno del 1732, prima di una cena offerta a tutti i membri del gruppo dal conte di Caylus: “salirono in un granaio dove si trovarono di fronte a un palco alto sei pollici da terra. La scarsa altezza del soffitto, costringendo gli attori a recitare con la testa tra le nuvole, rendeva la performance affatto ridicola, secondo le intenzioni di chi l’aveva organizzata; i telai su cui erano dipinte le scene imitavano diligentemente a bella posta tutti gli spropositi che l’ignoranza e la scarsezza di mezzi avrebbero potuto realizzare, sino a creare capolavori di cattivo gusto. Per l’occasione, tutta l’orchestra disponibile consisteva nel solo Selim che suonava molto seriamente uno scacciapensieri: strumento sino ad allora mai elevato a tanto onore. È su di un simile teatro che Il Chiaccherone interpretò il testo qui di seguito riprodotto, inscenandolo da solo con tanta vivacità e tanta passione quante ne aveva impiegato a comporlo” (Histoire et recueil des Lazzis cit., p. 84; la traduzione è di chi scrive).

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la sussistenza della antica Commedia italiana alla sprovveduta”5. E ama confessare di essersi servito – al fine di vincere la guerra scenica contro l’autore del Teatro comico e contro l’odiatissimo abate-teatrante – del “formidabile ridicolo di quelle quattro valenti maschere, ch’essi volevano estinte”6. Si tratta, insomma, o di celebrare le esequie del mondo dello spettacolo inaugurato da ser Maphio e compagni, o di cominciare a pensare che certi suoi organi essenziali possano esserne espiantati, per trapiantarli a fini terapeutici in altri corpi viventi. Circa vent’anni anni più tardi, con maggiore lucidità storica e nella prospettiva di comporre un vero e proprio programma di rinnovamento dell’intero teatro germanico, l’immaginaria capocomica goethiana “signora Melina” dichiara ormai conclusa – anche per colpa della sua stessa adesione a principi riformatori che intendevano ripulire le scene dalle residue volgarità delle maschere – la parabola dell’improvvisa: “Quanto mi rincresce” ella disse “che sia andata in disuso la commedia estemporanea dell’arte [...]. Ebbi di me e della compagnia un concetto troppo signorile per continuare a sollazzare il pubblico come per lo passato. Diedi il bando a Pulcinella, sotterrai Arlecchino”7.

Ciò che soprattutto dispiace al personaggio di Wilhelm Meisters Theatralische Sendung (e al suo autore) è la perdita di quella pratica performativa che aveva reso famosi gli attori italiani a partire dal secondo Cinquecento: L’improvvisare era la scuola dell’attore e la sua pietra di paragone. L’importante non era mandar a memoria una parte e immaginarsi di poterla recitare, bensì lo spirito, la vivace fantasia, la conoscenza del teatro, la scaltrezza, la prontezza della mente, da doversi manifestare a ogni passo con la più bella evidenza. L’attore si trovava stretto dalla

5   C. Gozzi, Memorie inutili, a cura di P. Bosisio con la collaborazione di V. Garavaglia, LED, Milano 2006, vol. I, p. 384. Il corsivo – nelle due citazioni – è di chi scrive. 6   Ivi, vol. II, p. 418. 7  W. Goethe, La missione teatrale di Guglielmo Meister, trad. it. di S. Benco, Mondadori, Milano 1953, p. 146.

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necessità di conoscere tutti gli espedienti che il teatro può offrire; vi si trovava a suo agio come il pesce nell’acqua8.

Ma anche le maschere vengono qui rivisitate considerandole efficacissime funzioni drammaturgiche d’un immaginario spettacolare tanto stimolante per l’attore quanto capace di figurare sinteticamente le parti costitutive d’una organica cultura nazionale. E, lungi dal giudicarle relitti d’una arcaica rozzezza, Goethe le propone come modelli d’un ipotetico teatro ideale: S’è parlato tra noi tante volte degli avvantaggi delle maschere italiane, dell’interesse che aggiunge a chiunque l’avere un determinato carattere, una patria, un linguaggio, della comodità per un attore di concentrare il suo studio a fondo in un unico personaggio [...]. Avevamo anche pensato di far qualche cosa di simile a uso dei Tedeschi: [...] il nostro Pulcinella, sarebbe stato di Salisburgo, [...] il nostro Dottore dovea essere uno svevo; il nostro Pantalone un negoziante della Sassonia inferiore9.

Nel romanzo – composto tra il 1777 e il 1785, rimasto manoscritto, e andato perduto sino ai primi del Novecento – il grande scrittore considera l’intera esperienza bicentenaria dei comici italiani astraendola sommariamente dal complesso di fattori reali che ne avevano segnato l’evolversi e il differenziarsi nel corso del tempo, e la riduce tutta al suggestivo binomio maschere + improvvisazione: subito elevato a modello d’una nitida forma di teatralità in grado di essere trapiantata agevolmente, con effetti risanatori (o comunque benefici), in qualsiasi cultura teatrale afflitta da sterili cerebralismi. Le considerazioni di Goethe accennano ancora a una possibile identificazione tra l’insieme delle maschere che vennero variamente combinate negli scenari dell’Arte, e un ideale mosaico variopinto di tipologie umane emblematiche destinato a rappresentare, per paesi come l’Italia e la Germania, la migliore sintesi simbolica tra unità della nazione e particolarismi locali. Su questa linea, non potrà stupire che incidentali mascherate di Pulcinella e di altre consimili figurazioni da imagerie popolare irrompano   Ibidem.   Ivi, p. 147.

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persino sulla metafisica scena del Faust, o che importanti e significative pagine dell’Italienische Reise siano dedicate al Carnevale romano e alle sue maschere, e istituiscano così uno stretto rapporto tra Commedia dell’Arte e manifestazioni folkloriche intese quali forme rivelatrici dello spirito distintivo d’un intero popolo. È una serie di fattori, quella sin qui elencata, che troverà espressione tanto sintetica quanto persuasiva nel primo studio storico-illustrativo che la bibliografia del fenomeno in oggetto possa annoverare: il Trattato su la Commedia dell’Arte ossia improvvisa: maschere Italiane ed alcune scene del Carnevale di Roma, pubblicato nel 1826 a Berlino dall’erudito Francesco Valentini in edizione bilingue italogermanica. Le sessantotto pagine dell’opera, già a partire dal titolo, intendono esaltare un teatro tutto concepito all’insegna dei nomi di Gozzi (“in Gozzi vide l’Italia rinascere e condurre all’apice della perfezione questo genere di commedie”10) e di Goethe, in omaggio al quale largo spazio viene dedicato alla descrizione del Carnevale romano. Se è inutile cercare in essa un impegno interpretativo ispirato a criteri scientificamente rigorosi, la sua importanza va piuttosto individuata nello sforzo di ricondurre a un quadro unitario le sporadiche riflessioni dei romantici tedeschi, realizzato in una organizzazione interna della materia che anticipa quella di tanti studi a noi più vicini (l’autore non manca di premettere al suo lavoro una puntualizzazione sulle origini della Commedia dell’Arte, offre di poi l’esempio di uno scenario e passa in rassegna le principali maschere), inaugurando tra l’altro, con una serie di splendidi rami incisi, i repertori iconografici dei futuri trattati. Nel corso dell’Ottocento, il trittico attore-maschera-improvvisazione assurge a oggetto privilegiato d’una prospettiva artistica sensibile soprattutto alle più fascinose implicazioni della diade genio-sregolatezza, e d’un gusto del passato che si compiace nel ritrarre un Seicento a volte tenebroso, ma sempre rutilante di bizzarrie estreme e di poetici campioni d’umanità. Con i romanzi Il signor Formica (1819) di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, e Capitan Fracassa (1861: edito a puntate) di Théophile Gautier, la 10   F. Valentini, Trattato su la Commedia dell’Arte ossia improvvisa: maschere Italiane ed alcune scene del Carnevale di Roma, Ludwig Wilhelm Wittich, Berlin 1826, p. 6.

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Commedia dell’Arte entra – in forma di piccolo mito moderno – nell’immaginario collettivo d’una larga cerchia di lettori. Ma continua, comunque, a porsi al centro dell’interesse di raffinate élite artistiche, secondo quanto testimonia la curiosa e impegnativa avventura tentata verso la metà del secolo, con l’ausilio di altri parenti e amici, da George Sand e da suo figlio Maurice nella loro residenza di campagna a Nohant. Come ricorda la scrittrice stessa, l’8 dicembre 1846 padroni e ospiti della casa decidono di trasformare il salone in teatro, per cimentarsi nell’inusuale gioco di recitare improvvisando (senza pubblico) un canovaccio concernente improbabili peripezie comico-sentimentali di sacerdoti e principesse dei Druidi. Al termine d’un simile divertissement, riunitisi a cena, gli attori di questa rappresentazione incomprensibile ammisero tutti di aver recitato in uno stato di sovreccitazione non privo di fascino. L’assurda esasperazione del druido s’era impadronita di me a tal punto che mi ero sentita trasportare in un mondo immaginario, come se avessi subito la stessa fatalità che costringe un essere primitivo a dar forma di simboli a tutte le sue emozioni. [...] Ci si interrogò su cosa fosse il vero teatro, e se la convenzione del dialogo scritto non fosse stata per caso la sua morte, anziché la sua scaturigine. Decidemmo da ultimo, in questa serissima assemblea, che [...] l’interprete scenico si era trasformato in una macchina più o meno intelligente [...]. L’immaginifica troupe che si andava formando in quei momenti concepì dunque lo strano progetto di recitare per il piacere di recitare11.

Il “progetto” così affiorato a Nohant, e che George Sand dichiara ispirarsi (oltre che alla confusa voluttà di sperimentare estasi sciamaniche pseudo-druidiche) alle improvvisazioni musicali e coreografiche di cui proprio in quella dimora stava dando prova Chopin, dà vita, nel corso di ben diciassette anni, a più di quattrocento allestimenti di piccoli spettacoli sostenuti o da attori in carne ed ossa o da marionette. Lungo un processo di sperimentazione creativa che abbandona subito qualsiasi velleità di divagazione esoterica, per concentrarsi tutto sulla pretesa di realizzare

11   M. Sand, Masques et bouffons (Comédie Italienne), texte et dessins par Maurice Sand. Gravures par Alexandre Manceau. Préface par George Sand, Michel Lévy, Paris 1860, vol. I, pp. 3-4 (la traduzione è di chi scrive).

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un vero e proprio recupero pratico delle tecniche e dell’immaginario posti in opera – tra Cinquecento e Settecento – dagli ormai mitici protagonisti della Commedia dell’Arte. Il tutto attraverso il filtro d’una ben precisa cultura teatrologica romantica del primo Ottocento parigino: La cosiddetta generazione del ’30 (Janin, Nerval, Nodier, Gautier, la stessa Sand) a seguito della frequentazione entusiasta dei piccoli teatri del boulevard, ed in particolare dei Funambules, aveva già prodotto pubblicazioni e proclami in cui si assimilava la pantomima alla commedia dell’arte [...]. Per questo sono ancor più suggestive alcune ‘coincidenze’ che si sovrappongono alla cronologia del teatro di Nohant. Nel 1846 muore Debureau, l’artista boemo mito di questa generazione, e a Nohant iniziano le improvvisazioni. [...]. Nel 1847 George comincia a raccontarle in un romanzo, Le château des Désertes, che uscirà nel 1851. Nel 1850 Maurice inizia una serie di schizzi inediti che saranno il primo nucleo della ricostruzione iconografica di Masques et bouffons [...]. Nel 1861 esce a puntate un romanzo di un altro enfant terribile della generazione del ’30, Gautier; ne è protagonista un capitano che abbiamo già trovato nelle improvvisazioni di Nohant e in alcuni schizzi di Maurice: Fracassa [...]. Nel ’62 [...] Charles Debureau, il figlio del mimo adorato dai romantici, dà uno spettacolo di addio ai Funambules. E anche il Teatro di Nohant [...] chiude i battenti: nel settembre del 1863 Maurice Sand, ormai padre di famiglia, caccia da Nohant il compagno della madre, Alexandre Manceau, anima e organizzatore (‘regista’) del laboratorio; George Sand lo segue, e a Nohant non resta che Maurice12.

Nel capitolo decimo de Le château des Désertes, George Sand pone in bocca al vecchio capocomico Boccaferri la più eloquente esposizione teorica dei principi e delle finalità cui intendeva affidarsi il particolarissimo teatrino domestico della sua casa di campagna: Abbiamo immaginato di fare un teatro del quale noi per primi potessimo gioire [...]. Ciò non significa che disprezziamo il pubblico; pensiamo anzi che esso possa condividere la nostra illusione [...]. Ogni fenomeno è strettamente connesso ad un altro: l’arte è [...] una me-

12  R. Cuppone, L’invenzione della commedia dell’arte, C.I.R.V.I., Moncalieri 1997, pp. 17-18.

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ravigliosa sintesi della più piena espansione di tutte le nostre facoltà. Il teatro ne è la sintesi per eccellenza, ecco perché oggi non esistono né autentico teatro né veri attori. [...] Ci sono ben pochi veri attori, mentre tutti dovrebbero essere tali! Cos’è mai un attore, se è privo di questa prima condizione essenziale e vitale della sua arte? [...] Il pubblico si formerà a questa scuola, e, anziché mostrarsi ingiusto e stupido come oggi è, diverrà coscienzioso, attento, amante degli spettacoli ben realizzati [...]. Sino a quel momento, che non mi si parli di teatro, in quanto esso è arte ormai quasi perduta al mondo13.

Come per Wagner, anche per la scrittrice francese lo spettacolo scenico è sintesi e summa di tutte le arti. Ma, secondo George Sand e suo figlio, lo può essere davvero qualora si realizzi in virtù della “gioia” creatrice provata da un attore che non sia “macchina” funzionale soltanto o all’esecuzione servile del convenzionale “dialogo” scritto o al soddisfacimento dei gusti di spettatori “stupidi”. Occorre dunque – ancora una volta – riflettere sulle origini d’una teatralità oggi “ormai quasi perduta al mondo”: si tratta però, in questo caso, d’una teatralità fautrice di festa non in quanto profondamente innervata entro un orizzonte estetico-religioso, ma perché tutta risolta nella mirabile creatività all’improvviso dell’attore-artifex che (come “un essere primitivo”) trasfigura in “simboli” fonico-gestuali le “emozioni” che una maschera e un semplice canovaccio possono suscitare nella sua interiorità disalienata dai convenzionali rapporti con il pubblico moderno. Gli esperimenti di Nohant, mirando ad un simile obiettivo, si ricollegano al modello rousseauiano dello spettacolo-festa dove non esiste nessuna dicotomia tra attore e spettatore, ma per deviarlo verso l’approdo d’una sorta di rito propiziatorio concepito per far rinascere la perduta Commedia dell’Arte. Del resto, secondo quanto scrive Maurice Sand in sede di ouverture alla monumentale fatica dei due tomi di Masques et bouffons: Ci siamo assunti l’impresa di abbozzare la storia d’un genere di rappresentazione scenica che non esiste più in Francia, e che non vi

13  G. Sand, Le château des Désertes, Michel Lévy, Paris 1851, vol. II, p. 36 (la traduzione è di chi scrive).

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è mai stata presente con il nome che le competeva. In effetti, questo genere, presso di noi, è stato conosciuto attraverso le definizioni di commedia all’improvviso, commedia improvvisata, commedia su canovaccio. Ma nessuna delle suddette formule esprime appieno quel fenomeno che gli Italiani hanno chiamato COMEDIA DELL’ARTE: vale a dire, letteralmente, [...] la commedia perfetta, il nec plus ultra dell’arte. Preghiamo dunque il lettore francese di accogliere, una volta per tutte, questa denominazione italiana, che nessun’altra potrebbe rimpiazzare adeguatamente14.

L’etimologia applicata da Maurice Sand al termine “Arte”, qui, è non solo del tutto fuorviante, ma addirittura finisce coll’attribuire al fenomeno una qualità pressoché opposta a quella originariamente comportata dal vocabolo. E tuttavia, come per Wagner la tragedia greca andava necessariamente intesa quale sintesi transustanziatrice di tutte le forme estetiche elaborate dallo spirito umano, così andava inteso – secondo gli sperimentatori di Nohant – il teatro primordialmente positivo alimentato dai liberi attori italiani tra Cinque e Settecento, e da loro esportato in Francia secondo modelli tanto vitali da sembrare ancor riconoscibili nelle pantomime di Debureau. Sarebbe peraltro piuttosto ingenuo voler liquidare l’impresa ‘capocomicale’ di George Sand e l’esegesi storica di Maurice raccogliendone le risultanze sotto l’etichetta d’un tanto nobile quanto filologicamente discutibile dilettantismo d’ascendenza romantica, poiché si finirebbe così con l’occultarne l’autentica portata di fondo. Ovvero il complesso e articolato travaglio teorico-pratico che culmina nell’elaborare e nel trasmettere al più largo pubblico l’immagine fascinatrice d’una Commedia dell’Arte intesa quale mitica fonte dell’autentico e sano fare teatro: senza condizionamenti letterari, senza servilismi nei confronti di spettatori ‘stupidi’, attraverso l’assoluta libertà creativa dell’attore trascinato solo dal proprio ‘gioioso’ entusiasmo improvvisatore. E si tratta d’una immagine non destinata a restare nel limbo delle astrazioni, poi che il laboratorio di Nohant – come s’incarica di sottolineare a più riprese il dettato di Masques et bouffons – vorrebbe attestarne al di là d’ogni dubbio la praticabilità nel presente:   M. Sand, Masques et bouffons cit., p. 1 (la traduzione è di chi scrive).

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la possibilità, dunque, di usarlo come vivo antidoto contro un mondo dello spettacolo prono alle convenzioni della drammaturgia più corriva e alle leggi di mercato. Non a caso, dopo l’esperienza di George e Maurice Sand, maschere, improvvisazione e stilemi scenici di suggestiva valenza popolare diventano fattori-chiave di molti programmi di rinnovamento del teatro, e di numerosissime linee di sperimentazione impegnate nella ricerca d’un nuovo linguaggio performativo. A partire dalla “professione di fede” con cui Gustave Kahn, nel 1889, intese specificare la teatrologia profetica di Mallarmé. Là dove, passando in rassegna le “forme prevedibili” di un’arte rappresentativa ‘modernista’, se da un lato si auspica che il nuovo “dramma” ruoti attorno a presenze risolte in “voci” e in “atteggiamenti plastici” tali da costituire puri temi musicali che “ritmano e allitterano le sensazioni [...] non più secondo le probabilità della vita, ma secondo [...] intenzioni essenziali”, dall’altro si vagheggia un tipo di “commedia” che metta in scena “esseri bizzarri” dotati soprattutto “di apparenza, di maschera”. E, celebrando provocatoriamente i valori espressivi della “pantomima americana” e del “circo”, viene invocato il trionfo d’un immaginario spettacolare tutto giocato tra la clownerie moderna e “qualcosa di simile” all’antica “commedia dell’arte”15. D’altro canto, per il Maeterlinck del saggio Menus propos sur le théâtre (1890), se tutte le antinomie del teatro dipendono dall’assoluta inconciliabilità tra la viva presenza del corpo d’attore e il puro simbolo poetico di cui essa deve farsi supporto, lo spettacolo non può avere altre chance di riuscita se non quella di adottare tecniche – come, appunto, l’uso della maschera – atte a schermare più o meno efficacemente la forza di polarizzazione negativa presente nell’immediatezza psicofisica dell’interprete: I Greci non ignoravano una tale antinomia, e quelle loro maschere per noi incomprensibili servivano [...] ad attenuare la presenza dell’uomo e ad alleggerire il simbolo. Se in alcune epoche il teatro ha conosciuto una vita organica e non semplicemente dinamica come 15   G. Kahn, Un teatro per l’avvenire. Professione di fede di un modernista, trad. it. in S. Carandini, La melagrana spaccata. L’arte del teatro in Francia dal naturalismo alle avanguardie storiche, Valerio Levi, Roma 1988, pp. 44-45.

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quella attuale, è stato solo merito di qualche artificio [...] posto a sostenere il simbolo nella sua lotta contro l’uomo16.

Ed è proprio nella temperie culturale simbolista di cui scrittori come Mallarmé, Kahn e Maeterlinck si rendono alfieri che un eletto manipolo di maschere della Commedia dell’Arte (cui viene aggregato senza alcun distinguo il lunare Pierrot ottocentesco ricreato da Debureau) diviene la cifra emblematica d’una purissima teatralità originaria, che avrebbe tradotto a livello di concretezza storica istanze positive di portata addirittura metafisica, e che – per questo – meriterebbe di essere meditata e riproposta in termini moderni. Gordon Craig è tra i più insigni propugnatori d’una simile visione, e, per figurarsi la nascita della Commedia dell’Arte, ricorre a un imaginifico quadro evocativo che compone in simbolico contrappunto il tramonto del cupo dramma sacro e l’avvento delle “solari” rappresentazioni offerte dalle “fraternali compagnie”: I toni, i movimenti, gli sguardi tormentosi entrati a forza nel Dramma nel suo ultimo sviluppo erano diventati una fatica per i nervi. [...] E ora, stando seduti alla porta di casa, al sole, un giorno vediamo per strada, di fronte a un muro grigio chiaro, tre strane figure – le fissiamo attentamente facendoci ombra agli occhi. Assomigliano proprio a... no, è stata solo un’orribile fantasticheria, dimentichiamola... e torniamo dentro. Il giorno dopo la stessa cosa – con risate, e la gente che guarda e ride. Esco, mi accosto di più. Le stesse tre strane figure che si dimenano e gesticolano... in realtà non sono affatto simili a quelle immagini con i volti straziati e le ginocchia spezzate – e ora che sono ancora più vicino vedo quanto fosse assurda la mia idea... ridono continuamente. La miseria e l’agonia non ridono... soltanto i vincitori ridono [...]. Questi sono i nuovi attori, noi i nuovi spettatori, atterriti e sghignazzanti insieme; il nostro teatro la strada; la nostra scena il cumulo di terra di fronte al muro grigio chiaro; i nostri sedili... i nostri stessi calcagni o una pietra. Era nata la Commedia dell’Arte17.

16   M. Maeterlinck, Il teatro, trad. it. in Carandini, La melagrana spaccata cit., pp. 80-81. 17  E. Gordon Craig, Scena (1922), in Il mio teatro, a cura di F. Marotti, Feltrinelli, Milano 1971, p. 231.

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Un terrigno teatro di strada dove s’inscena a sorpresa l’eco interminabile d’una risata vittoriale innescata dall’epifania di “tre strane figure” diventa, qui, la pura cifra astratta dello spettacolo di maschere all’improvviso. È un’immagine dove la complessità della storia viene eclissata completamente da una folgorazione meta-storica. Un disegno emblematico cui sembra voler rendere perfetto riscontro a livello metafisico – per restare nell’ambito del simbolismo anglosassone – la poco più tarda summa esoterica della yeatsiana A Vision, conclusa nel 1928, tutta imperniata sul disegno d’una “Grande Ruota” dei destini individuali cui presiedono le fasi della luna, determinando una rappresentazione metafisica della vita tale da potersi riassumere ironicamente solo nella forma dell’italico dramma di maschere (diversamente interpretato – ora in maniera creativa, ora attraverso stereotipi scontati – a seconda che di esso sia protagonista o il reattivo “uomo antitetico” o il conformista “uomo primario”): Quando voglio trovare un’idea generale capace di descrivere la Grande Ruota come una vita individuale, ricorro alla Commedia dell’Arte, ossia al teatro d’improvvisazione italiano. L’impresario, ossia il Daimon, dà al suo attore un copione ereditato, il Corpo del Fato, e una Maschera – una parte – il più possibile diversa dal suo io naturale o Volontà, e lo lascia improvvisare – mediante la sua Mente Creativa – il dialogo e i particolari dell’intreccio. Egli deve scoprire o manifestare un essere che esiste soltanto con estremo sforzo, quando i suoi muscoli sono, per così dire, tutti tesi e tutte le sue energie sono attive. Ma questo è l’uomo antitetico. Per l’uomo primario ricorro alla Commedia dell’Arte nel suo declino. La Volontà è debole, e non può creare una parte, sicché, per trasformarsi, segue un modello approvato, un buffone o un pagliaccio tradizionali18.

Posizionandosi, a livello ideale, tra questi due poli estremi, l’interesse di Gordon Craig verso il teatro all’improvviso ha poi modo di trovare la sua espressione più concreta nell’importante contributo di studio offerto – tra il 1908 e il 1929 – da “The Mask”: la rivista che egli fondò e diresse a Firenze, prefiggendosi tra gli obiettivi

18  W.B. Yeats, Una visione, trad. it. di A. Motti, Adelphi, Milano 1973, pp. 95-96.

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primari dell’impresa proprio quello di favorire le ricerche storiche sulla Commedia dell’Arte. Innanzitutto, col valorizzare i migliori contributi contemporanei agli studi del fenomeno: Sfogliando gli indici delle varie annate di “The Mask”, nel gruppo dei critici e storici del teatro italiano consultati o chiamati a collaborare (da Adolfo Bartoli, ad Alessandro D’Ancona, a Michele Scherillo, a Yorick, a Cesare Levi, ecc.), il nome del “Professor Rasi”, direttore della scuola governativa di recitazione di via Laura a Firenze, è quello che ritorna con particolare assiduità. È colui infatti che fornisce inesauribile miniera di informazioni – biografiche, critiche, iconografiche –, grazie a quella sua enciclopedica opera in più volumi, I comici italiani, uscita proprio allora tra il 1897 e il 190519. Tutte le volte che nella redazione di “The Mask” occorre stendere note e interventi storico-documentari su attori e uomini di teatro della “splendida” stagione della Commedia dell’Arte (trattando, per esempio, di Tristano Martinelli, di Niccolò Barbieri, di Domenico Biancolelli, dei Comici Confidenti, e così via), sempre viene citata come fonte preziosa l’opera di Rasi, che Craig ricorderà ancora in un articolo del 1927 per la ineguagliata qualità dell’apparato di illustrazioni20.

Ma poi, ancora, propugnando una poetica della performance al cui interno, se da un lato si accampa a mo’ di emblema la visionaria teoria della “supermarionetta”, dall’altro viene sempre esaltata la prassi scenica concreta di attori quali Giovanni Grasso, Angelo Musco, Ettore Petrolini e – più tardi – i De Filippo: ritenuti depositari d’una perfetta conoscenza istintiva delle maschere tradizionali e del loro gioco di improvvisazione. Essi sono, secondo Craig, artisti che, dell’antico teatro all’improvviso, sanno tutto (se non storicamente, certo istintivamente), poiché la Commedia fece parte integrale della loro esistenza per secoli, ed essi l’hanno evidentemente ancora nel sangue e nel midollo. Il meglio che si possa fare, se si è stranieri in Italia – o soltanto stranieri – è di cer-

19   Cfr. L. Rasi, I comici italiani, 3 voll., F.lli Bocca-Lumachi, Firenze 18971905. 20   A. Sardelli, Craig a Firenze: tracce di una presenza, in AA.VV., Gordon Craig in Italia. Atti del convegno internazionale di studi. Campi Bisenzio, 27-29 gennaio 1889, Bulzoni, Roma 1993, p. 114.

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care d’indovinare cosa possa esser stata questa immensa Commedia. Ciò cade a proposito dopo aver assistito ad una rappresentazione di Petrolini quando è in forma, e la sua migliore forma può essere assai brillante, come tutti sanno21.

2. Il primo Novecento: epifanie da un mirifico Baraccone Non a caso, proprio ad una supermarionetta strettamente collegata al concetto di maschera (nonché rivista alla luce sia del pensiero teatrologico goethiano quale risulta da Wilhelm Meisters Theatralische Sendung, sia della drammaturgia di Gozzi) dichiara di volersi rifare il magistero biomeccanico di Mejerchol’d allorché intende spiegare i propri rapporti con le forme sceniche tradizionali22: Maschera: quella di un personaggio fisso, per esempio, le maschere della commedia dell’arte. Quando Gordon Craig parlava di “supermarionetta”, non voleva dire che bisognava gettare via l’uomo per sostituirlo con un fantoccio, ma piuttosto che l’attore doveva acquisire una tecnica che lo rendesse simile a una marionetta [...]. E non era solo Craig a dire questo. Al teatro di Goethe non era estranea questa idea. Goethe diceva che l’attore doveva assomigliare a un funambolo23.

21   E.G. Craig, Conoscenza della Commedia dell’Arte, in “Scenario”, III (1934), n. 10, p. 505. 22   Tutti i fattori-base di questa Tradizione (che compongono un elenco quantomai significativo) sono indicati dal regista stesso nell’ideale “programma di studi” che intendeva proporre ai suoi allievi, e che fece pubblicare, nel 1916, sulla rivista da lui fondata e diretta (“L’amore delle tre melarance. Rivista del Dottor Dappertutto”): “- Analisi delle opere drammatiche del teatro russo degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo (Puškin, Gogol’, Lermontov). - Ruolo del teatro dei saltimbanchi nella storia del teatro (Molière, Shakespeare, Hoffmann, Tieck, Puškin, Gogol’, A. Remizov, A. Blok, eccetera). - Circo e teatro. - Il teatro di Carlo Gozzi. - Il teatro spagnolo. - Metodi convenzionali del teatro indu (Kalidasa). Caratteristiche dello spazio scenico e dei metodi di recitazione dei teatri cinese e giapponese. - Studio delle più recenti teorie teatrali (Craig, Mejerchol’d, Evreinov, [...] Dalcroze)” (V. Mejerchol’d, Lo Studio, trad. it. in L’attore biomeccanico, a cura di F. Malcovati, Ubulibri, Milano 1993, p. 126). 23  V. Mejerchol’d, Lezioni e conversazioni con gli studenti dei GVYTM, in L’attore biomeccanico cit., p. 61.

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Ed è appunto Mejerchol’d a indossare la maschera di Pierrot e ad inventare una celeberrima regia di ostentati funambolismi da pagliacciata infantile per la messinscena di Balagančik al Teatro di Vera Kommissarževskaja il 30 dicembre 1906. Il dramma lirico di Aleksandr Blok, massimo esponente del simbolismo russo, si fondava su di un immaginario dove coabitavano figurine desunte dalla Commedia dell’Arte (Arlecchino, Colombina), un Pierrot della pantomima francese ottocentesca riletto alla luce di Laforgue e Verlaine, espedienti metateatrali già tipici di Tieck, aure di ironica fiaba mutuate da Gozzi. Il regista dà vita a queste materie fantastiche attraverso soluzioni sceniche clamorosamente remote dal naturalismo e dallo psicologismo stanislavskijani: tutte desunte – ma attraverso un sofisticato processo di rivisitazione – da una larga congerie di attrazioni popolari. Il circo, i teatrini di marionette, le performances tipiche dei baracconi da fiera costituiscono i più immediati punti di riferimento delle forme, degli atti e della recitazione proposti da Mejerchol’d. Del resto, Balagančik è il diminutivo di Balagan: “il baraccone”. E proprio Balagan sarà – nel 1912 – il titolo provocatorio sotto cui sceglie di presentarsi al pubblico quella prima poetica mejerchol’diana meglio nota sotto il nome di “convenzionalismo”. Ma, ancora, Balagan è il termine scelto a simboleggiare, due anni dopo e sulle pagine della rivista “L’amore delle tre melarance”24, gli ideali artistici cui si ispira lo sperimentalismo didattico dello Studio di via Borodinskaja: aperto dal regista nel 1913 e strutturato in tre corsi di lezioni, uno dei quali – condotto da Vladimir Solov’ev – dedicato in esclusiva alla “Storia delle tecniche sceniche della Commedia dell’Arte”. Sarebbe proprio quest’ultima, secondo l’ottica adottata dalla nuova scuola, l’esempio supremo di un’arte scenica tutta fondata sulla perfetta coerenza di un autonomo linguaggio artistico del teatro: non si deve imitare la vita, sforzandosi di ripeterne la forma esteriore, perché il teatro ha i suoi propri mezzi espressivi, possiede una sua lin-

24   Sin dal suo titolo, la pubblicazione periodica di Mejerchol’d rende omaggio alla drammaturgia fiabesca di Carlo Gozzi, che l’intelligencija simbolista russa del primo Novecento ritiene – sulla scorta di indicazioni provenienti dal romanticismo tedesco – suprema mediatrice tra la ‘popolare’ Commedia dell’Arte e il teatro colto.

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gua comprensibile a tutti con la quale può rivolgersi al pubblico [...] perché il teatro ha le sue leggi e le sue associazioni di idee [...]. Il teatro non conosce prospettive geometriche. Come dopo un’improvvisa trasfigurazione, tutti i piani si sono spostati e tutti gli oggetti hanno perduto il loro legame abituale25.

D’altro canto, il modello d’attore cui mira la pedagogia mejerchol’diana sarebbe comunque quello scaturito dalla storia della recitazione all’improvviso e delle sue varianti (cui solo gli interpreti dell’originario Globe elisabettiano risultano degni d’essere accostati), e comparso come una mirabile visione ora sulle piazze di Napoli del tardo Rinascimento, ora accanto al teatro Globus dell’Old Merry England, ora nel ridotto della Venezia del Settecento, ora nelle baracche teatrali delle fiere di Saint Germain26.

Tra il 1906 e il 1914, insomma, la Commedia dell’Arte e i suoi derivati, nell’ambito della cultura dello spettacolo che distingue la Russia pre-rivoluzionaria – assurgono a privilegiatissimo (ancorché non esclusivo) punto di riferimento della ricerca d’avanguardia. E si tratta d’una forte linea di tendenza che non distingue soltanto lo sperimentalismo di Mejerchol’d, ma attraversa tutte le proposte espressive tese al superamento sia degli stereotipi pseudo-realisti sia del grande modello naturalista. Anche nell’ambito del balletto, il clamoroso esempio di Balagančik sembra riflettersi senza la minima distorsione nel celeberrimo exploit dello stravinskijano Petruška – realizzato nel 1911 allo Châtelet di Parigi dalla compagnia dei Balletti Russi di Sergej Djagilev, con scenografie di Aleksander Benois e coreografia di Michail Fokin –, dove si accampano in primo piano, pur sotto una più evidente patina di marionettismo tradizionale russo, l’identica triste fiaba d’amore e l’identico gioco di maschere dello spettacolo pietroburghese del 1906, le cui stesse linee-guida stilistiche ricompaiono qui musicalmente trasposte a livello di burattinesche trovate da baraccone,

25   V. Mejerchol’d-J. Bondi, Balagan, in “Ljubov k trem apel’sinam”, 1914, n. 2, trad. it. in C. Solivetti, La commedia dell’arte in Russia e Konstantin Miklaševskij, Marsilio, Venezia 1981, p. 152. 26  Ibidem.

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nonché sul piano d’una gestualità ritmica evocante posture e gag tipiche dei clown. Ma addirittura al 1907 risale l’inaugurazione, sempre a San Pietroburgo, dello Starinnyj Teatr di Nikolaj Evreinov, il cui programma è interamente fondato sull’ipotesi di realizzare scelte “ricostruzioni artistiche” di quelli che vengono considerati modelli imprescindibili per una ricerca mirata a rifondare lo spettacolo moderno: le rappresentazioni sacre e profane del Medioevo, il teatro del Siglo de Oro, la Commedia dell’Arte. Secondo il regista, per realizzare un simile progetto, è innanzitutto necessario distinguere tra una ricostruzione scenica di indirizzo “archeologico”, e un’opzione “artistico-ricostruttiva”, in quanto “la differenza che separa la semplice ricostruzione da una ricostruzione artistica è la stessa che corre tra i metodi della scienza e dell’arte”27. Tuttavia, pur escludendo l’ipotesi d’una ri-creazione meramente scientifica del modello di volta in volta prescelto, il progetto di Evreinov – poiché si propone di attraversare non già le sole testimonianze drammaturgiche di una civiltà dello spettacolo, ma l’insieme dei fattori materiali (dalla concretezza scenica, ai rapporti con presenza e dimensione socio-culturale del pubblico) attraverso cui si sono esplicate in forma viva le sue dinamiche espressive e le sue funzioni – contempla ampie e ben meditate fasi preliminari di approfondito studio storico-critico di tutti i documenti che possono restituire il complesso strutturale entro cui si manifestò un determinato fenomeno rappresentativo. Rispetto al programma previsto inizialmente, lo Starinnyj Teatr­riuscì a realizzare soltanto – tra il 1907 e il 1912 – cicli di performances dedicati al teatro medioevale e a quello spagnolo. Ma il lavoro finalizzato a ricostruire componenti e forme della Commedia dell’Arte, se non poté trovare sbocco in una sequenza di messinscene specifiche, fu comunque fondamentale per la stesura del volume di Konstantin Miklaševskij La Commedia dell’Arte, o il teatro dei commedianti italiani nei secoli XVI, XVII e XVIII, edito in due parti a Pietroburgo tra il 1914 e il 1917, e destinato a figurare tra le monografie fondamentali dedicate all’argomento. Già stretto collaboratore di Evreinov, Miklaševskij – attore,

  Cfr. Solivetti, La commedia dell’arte in Russia cit., p. 149.

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regista e drammaturgo, oltre che studioso – entra in contatto con Mejerchol’d (che più tardi lo solleciterà a pubblicare interventi dedicati a maschere e improvvisazione su “L’amore delle tre melarance”) a partire dal 1911, e, insieme a Vladimir Solov’ev, fa parte da quel momento della coppia di esperti di cui il regista si vale per le sue ‘arlecchinate’ al teatro Terioki. Una fitta e complessa rete di rapporti viene così a costituirsi tra alcuni dei maggiori protagonisti dello sperimentalismo russo primo-novecentesco. E, al centro di questa rete, si accampano – un po’ come privilegiati oggetti di ricerca storico-critica, un po’ come modelli mitici di altissimo convenzionalismo scenico – stilemi e tecniche degli antichi professionisti italiani. È una prospettiva che non muta nemmeno nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre. Se l’intenso e complesso rapporto di Mejerhol’d con il modello Commedia dell’Arte non viene meno neppure durante il processo di definizione del metodo biomeccanico, appartengono agli anni Venti due exploits scenici che sembrano condensare in sé i pur diversi ma comunque forti e significativi interessi dei rispettivi registi verso maschere e improvvisazione: La principessa Brambilla (1920) di Aleksandr Tairov (a suo tempo interprete di Balagančik) e – soprattutto – la celeberrima Turandot (1922) di Evgenij Vachtangov. E occorre ancora considerare che questi spettacoli-simbolo di un’intera epoca non sono cattedrali perdute in un deserto, ma svettano emergendo da un contesto di orientamenti consimili alimentati da personalità di minor rilievo nel panorama del teatro russo contemporaneo. Risale anch’essa agli anni Venti la fortunata messinscena che testimonia d’un significativo, ancorché nettamente sporadico, interesse della più accreditata regia germanica per l’antico spettacolo di maschere italico: il goldoniano Servitore di due padroni allestito da Max Reinhardt che a Vienna, il primo aprile 1924, inaugura il Theater in der Josefstadt. Mentre, se ci volgiamo ancor più verso occidente, vediamo formarsi in Francia già alle soglie della Grande Guerra addirittura un preciso progetto d’ampia portata che si dichiara finalizzato a riaccendere la fiamma dell’“antica arte della commedia all’improvviso”. Nel 1916, Jacques Copeau – concludendo quel Progetto di una scuola tecnica per il rinnovamento dell’arte drammatica che aveva ideato (a partire dal ­226

1913) per il Vieux Colombier – chiarisce senza mezzi termini che l’intera didattica della nuova istituzione dovrà avere un obiettivo quantomai preciso: L’arte d’improvvisare non è solo un dono. Si acquisisce e si perfeziona con lo studio. Fioriva in Italia e in Francia secoli or sono. È completamente morta? Si può tentare di rianimarla? [...] Gli attori di rivista, gli attori di music-hall [...] e soprattutto i clown del circo, sono improvvisatori più o meno degenerati. Esistono fra il popolo (sulla pubblica piazza, all’osteria, in caserma, nei pranzi di nozze e nelle feste popolari [...]) imbonitori o improvvisatori di prim’ordine. Taluni giochi di società ricordano la commedia primitiva. Sono simili divertimenti che, di tentativo in tentativo, condussero Maurice Sand e i suoi amici a una specie di fugace rinnovamento della Commedia dell’arte [...]. Dunque attorno a noi [...] si ritrovano qua e là sparse scintille a partire dalle quali può riaccendersi l’antica arte della commedia all’improvviso, per poco che incontri un ambiente favorevole. Perciò, non contento di ricorrere all’improvvisazione come a un esercizio atto a rinnovare l’interpretazione della commedia classica, spingerò più lontano il mio tentativo e cercherò di fare rinascere un genere: la nuova Commedia all’improvviso con personaggi e soggetti moderni28.

Non a caso, il dichiarato punto di riferimento cui guarda Copeau per modellare la sua scuola è l’analogo progetto fiorentino29

28   J. Copeau, La scuola del Vieux Colombier. Progetto di una scuola tecnica per il rinnovamento dell’arte drammatica. 1916, trad. it. in Il luogo del teatro, a cura di M.I. Aliverti, La Casa Usher, Firenze 1988, p. 64. 29   Nel 1913, Edward Gordon Craig – che dal 1908 si era stabilito a Firenze – decide di fondare una scuola di teatro presso l’Arena Goldoni: “Nel progetto, diffuso in marzo, le materie dei corsi riservano ampio spazio alle discipline fisiche e all’espressione corporea. Oltre a quello della lingua italiana, è previsto l’insegnamento di: movimento, dizione, ginnastica, musica, educazione della voce, disegno e pittura di scene, ideazione e fattura di costumi, costruzione di modelli teatrali, scherma, danza, mimo, improvvisazione, teorie dell’illuminazione, storia del teatro con particolare riferimento alla tragedia greca e alla Commedia dell’Arte, costruzione delle marionette, esercitazioni al model stage” (M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, La Casa Usher, Firenze 1993, p. 11). Il tentativo craighiano, dopo un anno di prova, si arenò contro lo scoglio della prima guerra mondiale.

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concepito da Gordon Craig. E non a caso il regista francese sceglie di rendere omaggio – sia pure definendoli divertissements d’origine salottiera – agli esperimenti ottocenteschi di Maurice Sand e dei “suoi amici”. Lo scopo del programma tracciato per l’impresa del Vieux Colombier (e destinato a costituire comunque, in forme ora più ora meno esibite, l’obiettivo costante di tutte le esperienze vissute dall’artista) è appunto quello di ricollegarsi in luce di chiara consapevolezza a una precisa tradizione culturale: quella che, ormai da decenni, andava indicando nella Commedia dell’Arte l’archetipo per eccellenza d’una teatralità insieme organicamente funzionale e tutta fondata su tecniche e linguaggi ben radicati “fra il popolo”. D’altro canto, come può risultare evidente dal passo citato, a Copeau non interessa certo inseguire l’ideale d’un “genere” di teatro capace di riprodurre in chiave di archeologia artistica il modello d’una spettacolarità antica. Per lui, la “commedia primitiva” va considerata solo una traccia: preziosissima per offrire punti di orientamento, ma da utilizzarsi nella prospettiva di pervenire a esiti del tutto nuovi (ovvero transustanziati entro un complesso strutturale di “personaggi e soggetti moderni”). Perciò, parlando di improvvisazione, il regista, se da un lato cita Niccolò Barbieri, dall’altro invita a studiare con attenzione “attori di music-hall”, “clown da circo” e “imbonitori” da osteria: cioè i testimoni viventi di tecniche performative non fondate sulla re-citazione d’un testo. E, per tracciare quel vero e proprio itinerario iniziatico che dovrebbe condurre l’attore verso un moderno recitare all’improvviso, addita l’esempio del gioco infantile: Mi sembra che la migliore e la più diretta iniziazione alla Commedia all’improvviso sia l’osservazione del gioco dei bambini. Ci sono bambini che giocano male [...]. Ma i bambini che giocano bene, che sanno giocare, sono [...] maestri nell’improvvisazione. Vedo i miei tre piccoli [...] giocare dal momento in cui si svegliano fino al momento in cui si addormentano, senza uscire un istante dal personaggio che si sono reciprocamente assegnati. [...] Questa identificazione con il personaggio è la prima condizione della creazione improvvisata. Ciascuno di loro è sempre lo stesso personaggio: un certo tono di voce, due o tre gesti o atteggiamenti, un accessorio rudimentale del costume sono sufficienti per costituire la fisionomia esteriore del personaggio e per suggerire il suo carattere. Ripetizione di uno stesso tratto. In ­228

seguito tutto ciò che viene ad arricchire questo primo abbozzo procede dall’osservazione scrupolosa della realtà – abitudini, carattere, vizi, manie, tic – ma leggermente ingrandito e parodiato, deformato sempre in uno stesso senso. L’immaginazione aggiunge all’imitazione tratti sempre più sicuri, parodici e quasi fantastici30.

Non diversamente, quando si tratta di definire in termini più nitidi quali dovrebbero essere le caratteristiche delle presenze sceniche necessarie a una rinnovata creatività all’improvviso di “personaggi e soggetti moderni”, Copeau, anziché proporre una qualche forma di mimesi più o meno attendibile delle antiche maschere, invita a meditare sulle componenti e sulle dinamiche di certe figure-simbolo che – come avviene con Charlot – il cinema contemporaneo va rendendo protagoniste d’una vera e propria mitologia popolare: Ho conosciuto Chaplin in un tempo in cui egli stesso non sospettava ancora la forza della sua arte, né l’importanza del suo personaggio. Pensava di gettar via la sua logora marsina, il suo bastoncino e il suo cappellino! Quale spaventosa catastrofe se il solo attore di questo tempo che si sia elevato alla gloriosa sintesi l’avesse abbandonata, per ritornare allo sminuzzamento del teatro contemporaneo che si è abbassato all’aneddoto e si è perduto nell’analisi. Vedreste voi Pierrot che rinuncia a essere Pierrot, oppure Arlecchino che getta alle ortiche il suo abitaccio multicolore e la sua maschera di cuoio? Charlie Chaplin appartiene alla razza e alla famiglia di quei grandi personaggi della Commedia dell’arte che per più di due secoli hanno alimentato con la loro progenie il teatro moderno31.

Se una ben mirata contemplazione delle dinamiche del gioco infantile può aprire la via a una pratica moderna dell’improvvisazione creativa, lo studio attento di “marionette potenti” come Charlot (sorretto dall’avvertenza di saperle inserire in sceneggiature dove possano accompagnarsi a presenze comprimarie dello stesso calibro) dovrebbe costituire l’ultimo contributo essenziale 30   J. Copeau, La Commedia all’improvviso. 1916, trad. it. in Il luogo del teatro cit., p. 66. 31  J. Copeau, Riflessioni su un attore. 1929, trad. it. in Il luogo del teatro cit., pp. 99-100.

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al sorgere della “nuova Commedia all’improvviso”. Ovvero di una forma drammatica – poco importa se “filmata” o performativa – in grado di purificare il teatro dalla contaminazione d’una ‘letterarietà’ estranea alla sua vera essenza: Questo teatro sminuito, come riprenderà la sua grandezza? [...] Questo teatro letterario [...] come rinascerà alla vita semplice, forte e ingenua che gli renderebbe la sua ragione di essere sociale e la sua portata popolare? Molto semplicemente [...] attraverso la creazione di tipi moderni, a forma fissa, potentemente caratterizzati e opposti gli uni agli altri, non in sottili intrighi, ma grazie al libero gioco della loro forte individualità... Ciò che vi è di ancor debole nell’arte di Chaplin, in quanto creatore di drammi filmati, è il fatto che egli è il solo della sua natura. La marionetta potente che ha creato non trova nessuno che gli dia veramente la battuta. [...]. Supponete invece che oltre al personaggio Charlie, altri personaggi a forma fissa, uguali a lui, possano sorgere; supponete che venga un giorno in cui il popolo [...] possa nominare, al loro solo aspetto, tutti i personaggi della commedia, come nomina Charlot. Supponete che possa riconoscerli tutti, amarli o odiarli, portarli con sé nella memoria, come gli uomini del Rinascimento portavano con sé nella memoria, conoscevano, amavano e odiavano quelle creature di carne e di sangue: Arlecchino, Pantalone, Pulcinella e Brighella. Non vi sembra che il teatro moderno ne verrebbe, in un sol colpo, trasformato, che riacquisterebbe la sua grandezza e il suo significato, che sarebbe infine, secondo la parola di Shakespeare, lo specchio del mondo e la cronaca del tempo?32

Come era già avvenuto nei casi di Gordon Craig, che si valse della sapienza storica di Luigi Rasi, e in quelli di Evreinov e Mejerchol’d (entrambi attenti a dialogare con le ricerche documentarie ed erudite di Miklaševskij), anche l’intenso interesse di Copeau per la Commedia dell’Arte si alimenta di un vivace rapporto con l’attività di teatrologhi e studiosi francesi contemporanei quali Chancerel e Duchartre33. Del resto, tra la fine dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento, la bibliografia critica sul feno-

  Ivi, pp. 99-101.   Il lavoro più celebre di Pierre-Louis Duchartre rimane La Comédie Italienne: l’improvisation - les canevas - vies - caractères - portraits - masques des illustres personnages de la Commedia dell’Arte, Librairie de France, Paris 1924. 32 33

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meno e l’edizione di numerosi documenti ad esso relativi vanno amplificandosi sino a raggiungere proporzioni imponenti. Già in appendice al volume di Miklaševskij vengono elencate più di trecento pubblicazioni dedicate al teatro degli antichi professionisti italiani. Su di esso, insomma, esegesi e sperimentazione sembrano marciare di pari passo: segnando un ritmo che si ripete (attraverso tonalità diverse) con eguale intensità nelle principali culture sceniche europee, ma che – curiosamente – non trova riscontro entro la temperie italiana. Da noi non mancano certo contributi di primaria importanza alla documentazione filologica e allo studio scientifico degli antichi comici professionisti e delle loro maschere: basti pensare a molti lavori della scuola storica34, agli interventi fondamentali di Benedetto Croce35, ad alcune stimolanti proposte esegetiche avanzate da valenti studiosi nel primo Novecento36. Risulta invece del tutto assente qualsiasi forma di interesse sperimentale, da parte degli uomini di scena, verso un meditato recupero di tecniche e forme della Commedia dell’Arte37. Se la nostra

34   Per esempio: V. De Amicis, La commedia popolare latina e la commedia dell’arte, Morano, Napoli 1882; M. Scherillo, La commedia dell’arte in Italia: studi e profili, Loescher, Torino 1884; L. Stoppato, La commedia popolare in Italia, Draghi, Padova 1887. 35   Cfr. B. Croce, Una nuova raccolta di scenari, in “Giornale storico della letteratura italiana”, XXIX (1897), n. 1, pp. 211-215; B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia: ricerche ed osservazioni, Loescher, Roma 1899; B. Croce, Intorno alla commedia dell’arte, in Poesia popolare e poesia d’arte, Laterza, Bari 1931. 36   Pensiamo a F. Neri, Scenari delle maschere in Arcadia, Lapi, Città di Castello 1913; E. Petraccone, La commedia dell’arte: storia, tecnica, scenari, Ricciardi, Napoli 1927; F. Nicolini, Vita di Arlecchino, Ricciardi, Milano 1958. Dei numerosi interventi di Mario Apollonio sul teatro dei comici – cfr. R. Tessari, Mario Apollonio e la Commedia dell’Arte, in AA.VV., Istituzione letteraria e drammaturgia. Mario Apollonio (1901-1971). I giorni e le opere, a cura di C. Annoni, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 381-396 – ricordiamo almeno Storia della commedia dell’arte, Augustea, Roma 1930. 37   Nel considerare questo fenomeno, andrebbe tenuto in debito conto il fatto che, se da un lato la Commedia italiana dell’Arte si estingue senza ombra di dubbio dopo metà Settecento, dall’altro certe abitudini comportamentali e produttive tipiche dei suoi esponenti – ad esempio: nomadismo, modalità di composizione del repertorio, abitudine a talune forme di improvvisazione, ecc. – continuano a distinguere parte della nostra routine teatrale più diffusa e popolare sino al primo Novecento. Non a caso, uno tra i più significativi cultori moderni della maschera di Arlecchino e delle tradizioni dell’Arte – Titino Carrara, anima della compa-

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letteratura simbolista sembra accostarsi eccezionalmente alle fantasmagorie di Arlecchini e Pierrot care ai versi di Laforgue e Blok solo con I Drami delle Maschere di Gian Pietro Lucini, composti tra il 1893 e il 189738, occorre attendere il 1922 per registrare i primi sporadici segnali d’un sia pur minimo interesse ad allestire spettacoli in qualche modo ispirati all’antica teatralità dei comici. Proprio a partire da quell’anno, Anton Giulio Bragaglia propone dalle tavole degli Indipendenti di Roma una serie di pantomime (La fantasima, I guai di Don Pascalotto, Gli zingari) che ripropongono in termini italici certe modalità di approccio alla Commedia dell’Arte già tipiche di rivisitazioni francesi e russe. Si tratta, peraltro, solo di un accenno destinato a non svilupparsi in proposte spettacolari di più ampia portata, sì che il pur forte interesse del regista per maschere e improvvisazione finirà coll’affermarsi soprattutto o soltanto a livello di programma poetico (come avviene, all’altezza del 1929, nelle pagine di Del teatro teatrale ossia Del teatro: dove prodotti degli antichi comici e scenotecnica barocca vengono indicati come modelli supremi cui dovrebbe guardare ogni progetto di vero rinnovamento dell’arte rappresentativa italiana), o nella sua attività di studioso e di editore di ricerche e documenti relativi alla storia dell’Arte39. 3. Il secondo Novecento. Il modello e le trasfigurazioni Insomma, non sarà certo da ascriversi a mero caso il fatto che Pirandello – frequentatore abituale degli Indipendenti di Bragaglia –, quando decide, nel 1929, di tributare un sia pur pallido omaggio ai mitici attori dell’improvvisazione attraverso Questa gnia vicentina La Piccionaia I Carrara – vanta la sua discendenza dai due ultimi esponenti d’una famiglia di attori nomadi e improvvisatori: Tommaso Carrara ed Argia Laurini. Una interessantissima testimonianza sulle tracce residue d’un simile passato è quella offerta da Oralità del teatro – teatro dell’oralità. Morte d’una tradizione. Roberto De Simone a colloquio con Gino Maringola ultimo maestro del teatro di improvvisazione, in I canovacci della Commedia dell’Arte cit., pp. vii-xvi. 38   Cfr. G.P. Lucini, I Drami delle Maschere, a cura di G. Viazzi, Guanda, Parma 1973. 39   A.G. Bragaglia, Le maschere romane, Colombo, Roma 1947; A.G. Bragaglia, Pulcinella, Casini, Roma 1953; A. Perrucci, Dell’Arte rappresentativa premeditata ed all’improvviso, a cura di A.G. Bragaglia, Sansoni, Firenze 1961.

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sera si recita a soggetto, scelga di attribuire il gusto d’una provocatoria sperimentazione moderna delle antiche technai ad un regista dal nome ostentatamente tedesco. È il segno più evidente della chiara, e un po’ paradossale, estraneità della nostra cultura scenica a una tendenza che segna prepotentemente l’intero panorama della ricerca teatrale primo-novecentesca. Del resto, ancora in qualche modo debitrice d’un esempio offerto dalla cultura germanica (in particolare: il goldoniano Servitore di due padroni allestito da Max Reinhardt a Vienna nel 1924) risulta essere la scelta che portò Giorgio Strehler a proporre quale spettacolo-cardine della stagione inaugurale del Piccolo milanese quell’Arlecchino servitore di due padroni (24 luglio 1947), cui sarebbe toccata in sorte la doppia fortuna di venir considerato universalmente sia la messinscena-modello capace di far rivivere davvero technai e forme espressive della Commedia dell’Arte, sia una delle poche rappresentazioni novecentesche degne di perdurare nel tempo e di essere proposta in ogni angolo del mondo. Entro un quadro scenografico concepito da Gianni Ratto in forme tali da ricreare con tocchi leggeri la provvisorietà dei palchi posticci tipici della Commedia dell’Arte più popolare, Marcello Moretti, interprete della maschera protagonista, e gli altri attori diedero l’impressione di declinare, a ritmi di gioco vertiginoso, tutti i lazzi e tutti gli stilemi della più pura e astratta teatralità d’alta convenzione: Ecco i vecchi imbrogli di palcoscenico, i matrimoni combinati come giochi di prestigio [...]; ecco [...] Beatrice che [...] per farsi riconoscere si fa toccare il seno; ecco il pranzo, il caotico e meraviglioso pranzo servito da Arlecchino contemporaneamente ai due padroni. Ecco le pere e le mele finte legate alla fruttiera per mezzo di fili. Ecco le anitre di cartone, la gelatina fantomatica che balla nel piatto come un seno trasformato in dolce. E quello che avviene tra una portata e l’altra sono moltiplicazioni alla Rastelli, operazioni acrobatiche, fuochi d’artificio composti coi salami e le cosce di pollo e una costellazione di polpette40.

“Fuochi d’artificio” (non solo mimici, ma anche verbali) in vertiginosa scansione, appunto, tra ariosi fondalini “di garza   R. Carrieri, Il trionfo di Arlecchino, in “Omnibus”, 4 agosto 1947.

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colorata”41. Il Goldoni di Strehler non ha nulla da spartire né con il goldonismo scenico tradizionale di ascendenza ottocentesca né con i clichés accademici o scolastici di impronta idealisticoletteraria. È, al contrario, l’autore che assume e riplasma sulla pagina scritta – prima in forma di semplice canovaccio, poi secondo le norme d’una testualità drammaturgica che si mantenga comunque disponibile all’improvviso – la lezione d’una lingua e d’una sapienza teatrali di cui erano depositari i committenti del testo: l’attore Antonio Sacchi e i membri della sua troupe. Il regista legge questo particolare Goldoni non per estrapolarne (o sovrapporvi) schemi ideologici, ma per ritrovare in esso i principi grammaticali e le scansioni ritmiche di quella sintassi essenziale dello spettacolo che costituisce senso e tormento della ricerca scenica, e che – a giudizio pressoché unanime degli sperimentatori novecenteschi – avrebbe trovato nella Commedia dell’Arte una codificazione altamente esemplare. Per conseguire un simile obiettivo, il progetto strehleriano traccia un percorso che punta allo spettacolo attraversando una complessa e articolata fase laboratoriale di recupero della maschera e delle specifiche tecniche attoriali necessarie a supportarla, che coinvolse – a livello di esercizi mimici e di stilemi gestuali – il francese Jacques Lecoq, e (per quanto concerneva l’oggetto-maschera in cuoio, e il particolarissimo rapporto che l’attore doveva intrattenere con esso) la maestria scultorea di Amleto Sartori42 e le eccezionali doti interpretative   Ibidem.   Propiziata, prima che da Strehler, dalla collaborazione con Gianfranco De Bosio, la ricerca di Amleto Sartori culmina con il recupero dei materiali e delle tecniche impiegati dagli antichi mascherari per la realizzazione delle mezze maschere in cuoio della Commedia dell’Arte. Dal trionfo di Arlecchino servitore di due padroni in poi, inizia così a determinarsi un settore specifico del revival novecentesco del teatro all’improvviso. La realizzazione di maschere per la scena viene a proporsi sia come produzione artistica autonoma nell’ambito della scultura sia come oggetto di una didattica appositamente concepita per trasmettere le tecniche relative alla sua ideazione e alla sua costruzione. Di assoluto rilievo, in questi due ambiti, la funzione svolta dal figlio di Amleto – Donato Sartori – e dalle due istituzioni da lui fondate e dirette con la collaborazione di Paola Piizzi: dal 1979, il Centro maschere e strutture gestuali di Padova; a partire dal 2004, il Museo internazionale della maschera “Amleto e Donato Sartori” di Abano Terme. È grazie a questa serie di fatti, se oggi si può parlare di una moderna arte della maschera, che annovera tra i suoi maggiori esponenti (oltre a Donato Sartori): Erhard Stiefel, 41 42

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di Marcello Moretti. Ne deriva un risultato di tanta portata da costituire (caso rarissimo nel contesto italiano) un modello di espressività destinato non solo a un altissimo numero di repliche nazionali e di tournées estere, ma anche e soprattutto a rinnovarsi nel tempo sino al 1997, attraverso dieci edizioni diversamente segnate dall’evoluzione artistica di Strehler. La fortunata vita cinquantenaria di Arlecchino servitore di due padroni trasferisce un certo modello elegantemente ‘popolare’ di Commedia dell’Arte dai cieli rarefatti delle sperimentazioni d’avanguardia alla ben più quotidiana temperie dei divertimenti sofisticati ma insieme passibili di largo consumo. E si tratta d’uno spostamento cui conseguono ricadute di non piccolo significato: dal ri-costituirsi, in termini moderni, d’un qualche riflesso di quella tradizione che aveva portato al perdurare delle maschere e delle loro tecniche costitutive col susseguirsi di generazioni d’artisti (così avviene a proposito della non solo ideale ‘staffetta’ tra gli attori subentrati nel ruolo di Arlecchino dal 1947 sino ad oggi: Marcello Moretti, Ferruccio Soleri, Enrico Bonavera), al progressivo delinear­si – inizialmente attraverso l’azione di interpreti e collaboratori dello spettacolo – d’uno schema di laboratorio didattico dove l’improvvisazione di codici espressivi stilizzati, la stesura e la messa in opera di canovacci esemplificati su quelli secenteschi, e l’abitudine a confrontarsi con le più tipiche parti fisse della convenzione italiana (dallo Zanni alla Servetta, dal Dottore al Capitano) diventano componenti irrinunciabili d’una pedagogia che non mira più alla metamorfosi dell’attore mestierante abituato solo a interpretare in artifex creativo, ma tende a valersi di una ora più ora meno plausibile modellizzazione dell’Arte in quanto passe partout ideale verso le più diverse declinazioni del fare teatro. Del resto, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, non sono poche le produzioni spettacolari e le esperienze di ricerca in grado di contribuire ora alla più ampia divulgazione ora a meditati ripensamenti di realtà e mito degli antichi comici italiani. Nel 1952, ad esempio, Jean Renoir realizza La carrosse d’or, che irradia sulle sale cinematografiche di tutto il mondo un’immagine quanWerner Strub, Uwe Krieger, Stefano Perocco di Meduna, ecc. Una significativa traccia del percorso che ha condotto a simili risultati è nel volume AA.VV., Arte della maschera nella Commedia dell’Arte, La Casa Usher, Firenze, 1983.

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tomai suggestiva del teatro delle maschere. Temi, simboli, moduli rappresentativi e valenze teatrologiche della Commedia dell’Arte attraversano l’intera esperienza di Vito Pandolfi, segnandone d’un rilevantissimo filo rosso tanto il versante della creatività artisticoregistica quanto il piano dell’esegesi storico-critica: dal saggio d’Accademia del 1941 (la messinscena del collage di canovacci Pulcinella delle tre spose), alla composizione – insieme a Franco Enriquez – del testo di Isabella comica Gelosa nel 1971; dall’imponente (ancorché non molto rigoroso, sul piano filologico) sforzo documentario dei sei volumi realizzati, tra il 1957 e il 1961, per sistematizzare le testimonianze residue sul fenomeno43, alla riproposta delle tesi esegetiche già avanzate in quella sede nell’impresa saggistica de II teatro del Rinascimento e la Commedia dell’Arte (1969)44. Tra questi poli ideali, d’altro canto, emerge la più irrequieta pluralità di ‘stazioni intermedie’: gli allestimenti di Danza della morte (1942), di La fiera delle maschere (1947), di una prima versione di Isabella comica Gelosa (elaborata, insieme a Dessì e Frassineti, nel 1959), di II servitore di due padroni (1959). Ma, ancora, la consulenza prestata a Jean Renoir per le scene di Commedia dell’Arte inserite ne La carrosse d’or, e un’ulteriore stesura – nel 1959, in forma di “storia romanzata per maschere” – di Isabella comica Gelosa. Appartiene allo stesso arco cronologico un trittico di allesti­ menti che fa registrare l’unico (e poco ricordato) tentativo di approccio ad un teatro di maschere non condizionato dall’esempio strehleriano, bensì ispirato a una suggestiva riformulazione poetica in termini originali dei modelli sperimentali tipici della pantomima francese e del simbolismo russo. Si tratta delle tre messinscene curate da Alessandro Fersen per la televisione italiana: Le avventure di Arlecchino (1957), Pierrot alla conquista della luna (1958), Sganarello e la figlia del re (1960: quest’ultima già realizzata in teatro l’anno precedente come saggio conclusivo della prima fase di attività dello Studio di Arti Sceniche)45. Sempre al 43   V. Pandolfi, La Commedia dell’Arte. Storia e testo, 6 voll., Sansoni, Firenze 1957-1961. 44   V. Pandolfi, Il teatro del Rinascimento e la Commedia dell’Arte, Lerici, Roma 1969. 45  Cfr. R. Cuppone, Alessandro Fersen e la Commedia dell’Arte, Aracne, Roma 2009.

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1958 risale il debutto della fortunata Commedia degli Zanni, opera esemplare di un attento studio storico-critico e della specifica prospettiva pedagogica e registica – tutta incentrata non già sui contenuti convenzionali, bensì sui principi di una sempre valida lezione di ritmo scenico – da cui Giovanni Poli ha guardato ognora agli spettacoli delle “fraternali compagnie” cinque-secentesche, sino a farne un punto di riferimento essenziale tanto per il veneziano Teatro a l’Avogaria, fondato nel 1969, quanto per l’annessa scuola di formazione degli attori: La maschera come simbolo del tipo esige [...] l’astrazione di ogni mezzo espressivo dell’attore. Gesto e voce nella Commedia dell’Arte si manifestano attraverso forme e modi differenti da quelli in cui appare la realtà fisica [...]. Si osservino ad esempio i vari movimenti mimici delle stampe di Callot, si constati l’assoluta astrazione del gesto degli Zanni e si desuma la dinamica del movimento, costituito di scatti, di acrobazie e, in genere, di atteggiamenti i quali nulla hanno a che fare con l’imitazione del vero, ma sono la pura immagine simbolica del succedersi degli stati d’animo. Il gesto della commedia dell’arte non obbedisce ad alcuna legge, se non a quelle ritmiche della parola. È il simbolo dinamico-figurativo del contenuto – ovverosia di quel particolare sentimento d’ispirazione che occorre in un preciso momento tonale. [...] Gesto simbolico di un determinato contenuto d’ispirazione, quindi, potremmo denominare il movimento del corpo nella poetica della Commedia dell’Arte; gesto che non può essere forma che di un solo e unico sentimento. Come si è accennato, il gesto è condotto nel succedersi dei tempi dal ritmo della parola detta, la quale – in altri termini – costituisce la guida musicale del succedersi dell’azione mimica46.

Debutta nel 1969 un altro celeberrimo spettacolo che in qualche modo ripropone – immergendolo però entro una temperie espressiva ispirata soprattutto a cantastorie e giullari – un immaginario debitore anche dei comici dell’Arte: Mistero buffo di Dario Fo, “che sarà lo spettacolo più replicato in assoluto in Italia durante gli anni Settanta, e renderà il suo autore famoso in tutto 46  G. Poli, Prefazione (1958) a “La commedia degli Zanni”, in C. Alberti, L’avventura teatrale di Giovanni Poli, Marsilio, Venezia 1991, p. 130.

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il mondo”47. È uno spropositato collage di monologhi, preceduti e intervallati da “chiose introduttive”48, dove il solitario protagonismo dell’attore-autore evoca (tra onomatopee di grammelot, e stravolte miscelature dialettali) figure e situazioni d’un Medioevo costretto a testimoniare in favore della moderna “lotta per la trasformazione della natura e per la resistenza contro il potere”49, dopo essere stato abilmente manipolato, sul piano drammaturgico e su quello della performance scenica, da una rilettura colta, teatralmente parlando, della tradizione bassa [...] attraverso modi espressivi multipli, grazie a una mescolanza tra la memoria guittesca degli zanni [...] della commedia dell’arte, con i loro precedenti goliardico-giullareschi. [...] La lingua usata per questo montaggio è una re-invenzione, un idioletto di Fo, una koinè dialettale mutuata dalle parlate medievali del nord d’Italia [...], ricca di allitterazioni, di perifrasi sinonimiche, [...] di una mimesi allucinata e iperealistica del parlare basso. [...] E dunque Angeli ebbri e villani dementi, dolenti Maddalene e Papi smargiassi, Cristi arrabbiati e ladroni in crisi [...] si affacciano così dal concerto di gesti e di voci lanciati nell’aria dalla [...] stazza allampanata e antigraziosa [dell’attore], nella sfasatura febbrile e crepitante della bocca, degli occhi, delle mani, delle gambe che sembrano rivolgersi in direzioni opposte [...], [suscitando] una epicità blasfema e incantatoria50.

Soluzioni tipiche d’un comico zannesco riformulato a misura d’una sua supposta originarietà popolare dai toni accentuatamente scatologici e ludico-provocatori tornano a dominare ancora nel testo e nella messinscena di Fabulazzo osceno, del 1982. Ma è in occasione sia del preliminare lavoro di laboratorio sia dell’allestimento di Hellequin-Harlekin-Arlekin-Arlecchino (progettati ed eseguiti per celebrare il quarto centenario della nascita teatrale della maschera) che Dario Fo, nel 1985, s’impegna in un

  De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento cit., p. 361.   P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 204. 49   L. Binni, Attento te...! Il teatro politico di Dario Fo, Bertani, Verona 1975, p. 394. 50  P. Puppa, Il teatro di Dario Fo dalla scena alla piazza, Marsilio, Venezia 1978, pp. 97-98, e Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento cit., pp. 203-204. 47

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confronto diretto con la realtà storico-documentaria della Commedia dell’Arte, e con gli ardui problemi d’una sua eventuale riformulazione nei termini tipici di opzioni spettacolari comunque praticabili e fruibili dalla sensibilità artistica e dalle propensioni ricettive tardo-novecentesche. Ne scaturisce un risultato dove, se la sostanza essenziale e le componenti stilistiche del copione e della performance ripropongono pari pari i motivi e le forme tipiche dell’inconfondibile jonglerie politica moderna di cui Fo è maestro, tutti i segni che rimandano esplicitamente alle “zannate” arlecchinesche del Cinque-Seicento funzionano soltanto come una mera mascheratura posticcia sovrapposta al profilo autentico dell’attore-autore, ma incapace di instaurare un dialogo vitale con la sua particolare creatività. D’altro canto, anche nelle sue riflessioni teoriche, il mirabile affabulatore di Mistero buffo, quando indugia a parlare di Commedia dell’Arte, sembra ben poco interessato all’immaginario e alla scenotecnica che davvero distinsero il fenomeno, e tende a diluirne la consistenza storica – sino a renderla del tutto evanescente – in una visione che la confonde senza distinguo in quel concetto di “istrionismo” per cui l’attore diviene demiurgo del più iperbolico gioco di finzione spiazzante: A proposito del ruolo dell’attore nella Commedia dell’Arte, c’è un discorso che voglio puntualizzare, ed è quello che si riferisce alla ragione di tanta originalità e spettacolarità che distingue questo genere di teatro da tutti gli altri che conosciamo. Originalità e spettacolarità che non è determinata, come qualcuno crede, dall’impiego particolare della maschera e dalla collocazione dei personaggi in stereotipi fissi, ma da una concezione davvero rivoluzionaria del fare teatro e dal ruolo assolutamente unico che vengono ad assumere gli attori. Trovo corretta, infatti, l’idea di alcuni studiosi che propongono di chiamare questo genere, invece che “commedia dell’arte”, più specificamente “commedia degli attori”, o “degli istrioni”. È sulle loro spalle che appoggia l’intero gioco teatrale: l’attore istrione è autore, allestitore, fabulatore, regista, passa dal ruolo di primario a quello di spalla indifferentemente, all’improvviso, sorprendendo, con continui sgambetti, non solo il pubblico ma anche gli stessi compagni attori, partecipanti al gioco51.

  D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Einaudi, Torino 1987, p. 14.

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Se, nelle riflessioni di Fo, il teatro di maschere e improvvisazione degli antichi comici italiani tende a perdere i suoi connotati formalmente distintivi per ridursi quasi solo a mera cifra emblematica di quel certo “ruolo assolutamente unico” verso cui dovrebbero guardare gli attori di tutti i tempi, ciò avviene anche perché – a partire dagli anni Settanta del Novecento – l’interesse di alcuni protagonisti della scena contemporanea verso la Commedia dell’Arte tende appunto a cogliere in essa exempla non già di stilemi da imitare ma di fenomenologie attoriali intese in immediato riferimento a problematiche dell’oggi. Nell’ambito del Living Theatre, per esempio, Judith Malina, quando si interroga sulla mancanza di “naturalezza” gestuale che, secondo lei, affliggerebbe certe performances del gruppo dove il peso della parola comunicativa potrebbe risultare eccessivo, conclude asserendo: “Forse è la la commedia dell’arte che stiamo cercando. Dovremmo allora cercare di essere quei veri commedianti e non menar tanto il can per l’aia”52. Mentre però una simile riflessione sembra ancora tradire un sia pur minimo omaggio alle qualità miticamente attribuite al teatro di maschere, Eugenio Barba sarebbe pervenuto – secondo Taviani – a una totale dissoluzione di ogni aura che lo contorna, per considerarlo infine nudo specchio di un “contesto delle forme di organizzazione, di produzione, di socializzazione interna e di trasmissione delle esperienze dei gruppi di attori”, che oseremmo definire alquanto integralista nella sua ascetica devozione alla genericità. Il creatore dell’Odin Teatret danese parla, in un numero di Teatret Teori og Teknikk del 1970, dei due “padroni” di Arlecchino: da una parte le belle immagini della Commedia dell’arte, le apparizioni fantasiose e colorate; dall’altra il duro lavoro dell’attore per ampliare continuamente le sue possibilità. L’articolo di Barba è parallelo a un seminario organizzato dall’Odin Teatret sulle “tradizioni viventi della Commedia dell’arte” [...]. Negli scritti di Barba, il tema della Commedia dell’arte come attore padrone del proprio mestiere passa nel tema del professionismo teatrale dei comici come mezzo per difendere bisogni altrimenti impossibili da soddisfare. I tratti più interessanti della Commedia dell’arte appaiono, ora, i tratti 52  J. Beck-J. Malina, Il lavoro del Living Theatre: materiali 1952-1969, a cura di F. Quadri, Ubulibri, Milano 1982, p. 16.

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culturali che rendevano deviante e insieme resistente il “corpo separato” degli attori. Il contesto in cui situare la Commedia dell’arte si trasforma anch’esso: non più quello dei teatri popolari, delle maschere (anche se di burattini o della pantomima) e delle “improvvisazioni” [...], ma il contesto delle forme di organizzazione, di produzione, di socializzazione interna e di trasmissione delle esperienze dei gruppi di attori. Questo provvisorio punto di arrivo è assai lontano dal punto di partenza, il teatro come cultura di gruppo sembra non aver nulla a che vedere con le maschere e il gioco di fantasia rievocato da Maurice Sand. Forse il simbolo di una presenza ancora viva della Commedia dell’arte non è tanto la maschera di Arlecchino, quanto il volto serio e dignitoso dell’attore, che quella maschera nasconde e protegge53.

Fa leva invece anche su un ben meditato approccio, in termini di studio e di sperimentazione tipici d’un collettivo moderno, su tre fattori essenziali della Commedia dell’Arte (l’improvvisazione, una drammaturgia fondata su canovaccio e lavoro di gruppo, la maschera) l’esperienza del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine. Gli spettacoli realizzati dall’ensemble d’oltralpe, già a partire da Capitan Fracassa del 1964, annoverano tra le loro costanti componenti espressive maturate attraverso una ricerca laboratoriale che rivisita originalmente – oltre a numerosi altri capisaldi storici, occidentali e orientali, d’un alto artigianato teatrale rigorosamente inteso – dinamiche e fattori segnici della tradizione italiana e delle sue inter-relazioni con la cultura scenica parigina nel Seicento. Si tratta di un fil rouge che, dopo le grandi prove de I clowns (1969) e del dittico dedicato alle date-simbolo della Rivoluzione Francese (1789, del 1970; e 1793, del 1972), si esalta nell’acclamatissima prova di L’Age d’or (1975): grande affresco epico-politico della contemporaneità, narrata però dalla prospettiva d’un futuro che la trasfigura in favola di maschere danzanti attorno alle disavventure d’un Arlecchino-immigrato nordafricano, e condotta con ponderata levità sino a testimoniare tutto il negativo d’un contesto sociale finalizzato solo allo sfruttamento dell’uomo. Se il Théâtre du Soleil e le sue particolari modalità di rielaborazione dell’improvviso e della maschera verranno a costituire un 53  F. Taviani, Influenza della commedia dell’arte, in Enciclopedia del teatro del ’900, a cura di A. Attisani, Feltrinelli, Milano 1980, p. 400.

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punto di riferimento tanto celebre quanto ineludibile per molte esperienze successive, una ‘strana’ congiura del silenzio sembra circondare ancora oggi un’altra intensa avventura tutta italiana dove – tra il 1978 e il 1994 – il modello Commedia dell’Arte assume un ruolo di assoluto privilegio. Formatosi a Mestre, per iniziativa di Alessandro Bressanello, entro l’atmosfera dei circoli La Comune costituitisi sull’esempio di Dario Fo, la compagnia del TAG54, che annovera tra i suoi primi protagonisti Eleonora Fuser e Diego Teso, sin dagli esordi si dedica a un teatro politico distinto anche dal considerare suo punto di riferimento privilegiato per la ricerca d’un linguaggio popolare – insieme ad altri – il gioco scenico delle maschere dell’improvvisa. Nel 1982, con l’ingresso nel gruppo di Giorgio Bertan, e, soprattutto, di Carlo Boso55, questo indirizzo diviene di gran lunga dominante, instaurando l’abitudine a una didattica imperniata su laboratori pratici di Commedia dell’Arte, e producendo una serie di canovacci-spettacolo, tutti allestiti dalla regia di Boso, di largo successo sia a livello nazionale sia sul piano internazionale: Il falso Magnifico (1983), L’assedio della Serenissima (1984), Scaramuccia (1986), La pazzia di Isabella (1989). Arricchito di anno in anno, sino al termine della sua attività, dall’arrivo di nuovi membri italiani e stranieri, il TAG Teatro va considerato il nucleo genetico per eccellenza d’un ben preciso modello di produzione e di didattica imperniate sul trittico canovaccio-maschere-improvvisazione, nonché l’alveo di formazione (o l’inevitabile luogo di passaggio) di attori, registi e pedagoghi la cui attività risulta comunque segnata dall’incontro con una pratica moderna di tecniche e di stilemi desunti dall’antica Arte56: da 54   TAG è acronimo di Teatro Alla Giustizia: dal nome della via di Mestre dove sorgeva la sua prima sede. 55   Direttore, dal 2004, dell’Accademia internazionale delle arti dello spettacolo di Montreuil (Parigi): scuola di teatro nel cui ambito la Commedia dell’Arte ha una posizione di assoluto privilegio. 56   Recentemente, Marco De Marinis ha scritto: “mi capita regolarmente di essere avvicinato da qualche giovane, studente di teatro e/o attore [...], che mi rivolge sempre la stessa domanda: ‘Dove posso andare in Italia a imparare (a fare) la Commedia dell’Arte?’. Per tanto tempo ho risposto come da manuale: la Commedia dell’Arte non esiste più [...], diffidate di coloro che vogliono insegnarvela praticamente! [...]. E loro [...], di fronte al persistere del mio scetticismo, abbassavano la testa, rassegnati ma non convinti. E infatti, quante volte li ho rivisti poi in Italia! A dispetto della mia dissuasione, avevano trovato il luogo, la scuola, il

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Marco Paolini a Adriano Iurissevich, da Eugenio Allegri a Enrico Bonavera, ecc. Risulta molto spesso facile – e talvolta rigorosamente corretto – sostenere che, almeno a partire dalle infatuazioni goethiane per maschere, parti fisse e carnevali, ogni tentativo di far rivivere technai, codici espressivi e immaginario della Commedia dell’Arte dipenda soprattutto da patetiche forme di nostalgia per una concezione mitica di quel fenomeno storico, e sia destinato a risolversi in esiti scientificamente e artisticamente equivoci: se non addirittura a produrre spettacoli e strutture pedagogiche fondate solo sul più bieco sfruttamento economico di mere pseudo-copie adulterate di supposti modelli d’un passato prestigioso. Come risulta in apparenza tanto paradossale quanto severo e persuasivo sostenere che, nei casi migliori, l’interesse degli artisti scenici degli ultimi due secoli per la Commedia dell’Arte altro non debba essere se non volontà di confronto con una certa tipologia esemplare “di organizzazione, di produzione, di socializzazione interna e di

maestro per ‘imparare’ la Commedia dell’Arte e poi magari tornare nei loro Paesi a ‘insegnarla’. [...] Ma in realtà, chi aveva, ha ragione? Loro o io? Mettendo insieme le due premesse credo che la risposta diventi obbligata: avevano, hanno ragione loro. O meglio, essi avevano ragione ad aver (forse) torto e io torto ad aver (forse) ragione. La Commedia dell’Arte non esiste più da tanto tempo, però da essa/in essa un attore può imparare ancora tantissimo a patto di assumerla, anche grazie a una guida adeguata, come qualcosa di vivente e di liberamente reinventabile al di fuori di qualsiasi rigidezza o ortodossia filologica o estetica” (M. De Marinis, La Commedia dell’Arte nel teatro del Novecento e oltre, in “Atti & sipari”, n. 8, aprile 2011, p. 10). Giustissimo. Come è giustissimo decidersi finalmente a citare nomi e cognomi di quanti hanno insegnato e continuano a insegnare oggi “Commedia dell’Arte”. De Marinis lo fa, sia pure in forma indiretta, ricordando almeno personalità come quelle di Antonio Fava, Eleonora Fuser, Claudia Contin, Carlo Boso, Eugenio Allegri, Michele Monetta, Lina Salvatore, Marco Marchisi e Marco Sgrosso (una lista entro cui risulta doveroso inserire almeno pochi altri nomi, come quello di Mauro Piombo). Sarebbe comunque auspicabile, e non impossibile, pervenire – distinguendo tra diversi livelli qualitativi, ma senza pregiudiziali accademiche – ad un catalogo più esaustivo e più ragionato di questo amplissimo settore della creazione e della pedagogia teatrale, che ha, e continua ad avere, non poco peso tra fine Novecento e inizio Duemila. Senza dimenticare che buona parte dei gruppi italiani (nonché alcune formazioni straniere) oggi attivi in esso si sono riuniti, a partire dal 2008, sotto l’egida dell’associazione culturale SAT che “raccoglie tra i suoi soci singoli operatori e soci collettivi (compagnie, associazioni e cooperative) nazionali ed esteri, che operano nella tradizione della Commedia dell’Arte” (cfr. sito web: www.incommedia.it).

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trasmissione delle esperienze dei gruppi di attori”. Poste queste premesse, però, risulta poi intrigantemente significativo che proprio chi ha inteso esprimere al meglio tutte le possibili riserve su miti, mistificazioni ed equivoci legati alle fortune moderne del teatro all’improvviso si senta portato a scrivere “Il sottoscritto s’è trovato [...] per la prima volta davanti a un’immagine della Commedia dell’Arte che gli par vera”57, in riferimento al Ritorno di Scaramouche di Jean-Baptiste Poquelin e Leòn de Berardin, allestito da Leo de Berardinis nel 1994. Registrando, certo, a proposito dello spettacolo, la chiara intenzione dell’attore-autore di insistere sul nesso contiguità-differenza che unisce e separa le esperienze creative del comico Tiberio Fiorilli-Scaramouche e del drammaturgo Molière: Leo calza la maschera e fa Pantalone, anche se Tiberio FiorilliScaramouche, lo sanno tutti, la maschera non l’indossava. Ed ecco che lo si vede scendere dalla pedana comica e invece di mettersi da parte, lo si vede scendere e far rotta direttamente sulla platea. Avvicinarsi alla prima fila di poltrone. Togliersi la maschera. [...] Con voce piana, soave e severa, come sarebbe – se ci fosse – la voce della coscienza, Scaramouche parla come parlò Molière.

Ma insieme riconoscendo agli interpreti che supportano l’exploit scenico di Leo-Scaramouche, al di là di ogni riserva filologica sulla maschera, tutta la felicità espressiva di aver dato piena vita “alla sarabanda della farsa, ai lazzi di parola e a quelli acrobatici” entro cui si realizzò quella mirabile prova. Insomma, se da un lato è giusto e doveroso tracciare chiari confini tra la realtà storica delle fenomenologie che vennero sussunte sotto l’etichetta Commedia dell’Arte e le molte trasfigurazioni immaginarie elaborate a partire da esse tra XIX e XXI secolo, dall’altro occorre registrare con serenità che persino buona parte di queste trasfigurazioni – e in una quantità non proprio esigua di casi – hanno contribuito a generare esiti e abitudini artistiche di 57   F. Taviani, Una prima, vera immagine della Commedia dell’Arte, in AA.VV., La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo a Bologna, a cura di C. Meldolesi-A. Malfitano-L. Mariani, Titivillus, Corazzano 2010, p. 339. Le citazioni successive a pp. 339-340 e a p. 340.

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altissimo livello, nonché capaci di produrre effetti durevoli sulla ricerca teatrale di due secoli. Lo testimonia in misura esemplare uno degli ultimi scritti di Tadeusz Kantor, il quale, prima di porre la figura di Mejerchol’d al centro di Aujourd’hui c’est mon anniversaire (1990), si sentì in dovere di dichiarare che l’intera sua esperienza scenica – al di là delle molte fasi da essa attraversate – andava riconosciuta essenzialmente come debitrice soprattutto (se non esclusivamente) di quel lavoro mejerchol’diano intorno alla Commedia dell’Arte riassunto dallo stesso regista russo nel termine “baraccone” (Balagan): desidero dire qualcosa che forse potrà definire, nel modo più profondo e semplice, la mia via al teatro. Nonostante nei vari periodi consecutivi, nelle diverse ‘tappe e fermate’ abbia scritto come sopra delle pietre miliari i nomi dei luoghi: Teatro Informale, Teatro Zero, Teatro Impossibile, Teatro della Realtà Povera, Teatro Ambulante, Teatro della Morte, sempre, da qualche parte nel fondo, c’era proprio quello stesso BARACCONE. E quelle denominazioni lo difendevano soltanto dalla stabilizzazione ufficiale e accademica. [...] Per quasi mezzo secolo, il povero Baraccone è rimasto nel dimenticatoio. Lo hanno messo nell’ombra le idee puriste, le rivoluzioni del costruttivismo, le manifestazioni surrealistiche, la metafisica dell’astrattismo, gli happening, [...]. Le grandi speranze e illusioni, e a un tempo i grandi disastri [...]. Dopo molte tappe e conflitti, vedo oggi abbastanza chiaramente la strada già percorsa58.

Né le maschere di Mejerchol’d né le stravolte figure clownesche, riciclate dalla pattumiera della morte, che abitano le scene di Kantor – al pari delle immagini evocate da Leo – pretendono certo di essere riproduzioni filologicamente ineccepibili delle parti fisse del perduto teatro all’improvviso59. E tuttavia la poiesis 58   T. Kantor, Ritorno al Baraccone, trad. it. in Il teatro della morte, a cura di D. Bablet, Ubulibri, Milano 2000, p. 266. 59   Un più sottile rapporto tra il teatro di Kantor e la Commedia dell’Arte andrebbe individuato non tanto a livello di esiti formali, quanto sul piano di quella importantissima fase preliminare dello spettacolo che di norma viene definita prova. In effetti, “Al Cricot 2 non si eseguono le prove con il fine esclusivo di allestire uno spettacolo. Non sono una preparazione. Sono una creazione. Uno spettacolo non è un prodotto finito, è un campo aperto nel quale la creazione continua la propria lotta” (T. Kantor, La struttura e il gruppo del Teatro Cricot 2, trad. it. in Il teatro della morte cit., p. 198). Questa creazione sempre in fieri, e,

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che le determina ha ritenuto necessario confrontarsi lungamente e minuziosamente con le impronte in cavo di un passato irrecuperabile. Non per farlo rivivere in qualche maniera. Ma per apprendere da esso un modo concreto per dare forma all’effimero balenare di un esistere sempre sospeso tra frustrante “ciarpame” e mirifica illusione: C’è un momento particolare in teatro in cui entrano in azione pericolose e velenose malie, quando si spengono le luci e tutto il pubblico è ormai uscito, sulla scena tutto s’ingrigisce, lontani paesaggi si trasformano in normale tinta incollata su qualcosa, e i costumi e gli accessori [...] appaiono nella loro essenza di ciarpame [...]. Forse allora vorremo ancora una volta errare sulla scena, come in un cimitero, ricercando le tracce di quella vita che ancora qualche minuto fa, qui, ci commuoveva... Per questo il simbolismo era così affascinato dalla poesia delle decorazioni e dei costumi poveri, di carta, dal pathos di tristi Pierrot e saltimbanchi che celavano sotto la maschera di cerimonia e i gesti ‘signorili’ le loro rughe, sciagure, la tragica condizione umana. Scena, BARACCONE, mondo vuoto, come l’eternità, in cui la vita si accende per poco, come un’illusione60. soprattutto, il particolarissimo processo di improvvisazione creativa cui Kantor costringe i suoi attori sono gli ambiti dove agiscono tanto l’esempio di Mejerchol’d quanto il modus operandi degli antichi comici italiani. 60   T. Kantor, Dall’altra parte dell’illusione ovvero il Baraccone. Il simbolismo, trad. it. in Il teatro della morte cit., pp. 265-266.

Indici

Indice dei nomi

Adriani, Placido, 96 e n, 201. Alberti, Carmelo, 203n, 237n. Aliverti, Maria Ines, 227n. Allegri, Eugenio, 243 e n. Allori, Francesco, 62n, 63 e n. Alonge, Roberto, 97n. Andreini, Francesco, 41 e n, 42, 55 e n, 56-58, 67 e n, 77n, 100 e n, 102n, 140, 146, 147n, 148 e n, 149-150, 156 e n, 157, 159, 160n, 161, 162 e n, 165, 179 e n, 180, 187, 191n, 192, 198. Andreini, Giovan Battista, 58 e n, 59, 95, 102 e n, 168, 169 e n, 170, 172-173, 174 e n, 175-176, 177n, 178 e n. Andreini, Isabella, 41-42, 47, 50, 55, 57-58, 77n, 89 e n, 101, 102 e n, 139-140, 141n, 142 e n, 143 e n, 144 e n, 145 e n, 146, 156, 163, 198. Angeloni, Filippo, 42. Annoni, Carlo, 231n. Apollonio, Mario, 231n. Aretino, Pietro, 48-49, 64. Ariosto, Ludovico, 4, 152. Aristotele, 65, 111, 122, 192. Armani, Vincenza, 47, 100-102, 187n. Artoni, Ambrogio, 54n, 190n, 192n. Attisani, Antonio, 87n, 241n.

Bablet, Denis, 245n. Barba, Eugenio, 240. Barbieri, Niccolò, 36n, 40, 58n, 65 e n, 66, 72 e n, 73 e n, 74, 75 e n, 76 e n, 83 e n, 121, 122 e n, 123-124, 126 e n, 127n, 128 e n, 129, 142 e n, 151, 182 e n, 190 e n, 193 e n, 194, 195 e n, 196, 200, 221, 228. Baretti, Giuseppe, 34 e n. Bartoli, Adolfo, 221. Beck, Julian, 240n. Bembo, Pietro, 192. Benco, Silvio, 211n. Bene, Carmelo, vii. Benois, Aleksander Nikolaevič, 224. Beolco, Angelo, detto Ruzante, 15n, 154, 202. Bergman, Ingmar, xi. Bernini, Gian Lorenzo, viii, 94, 95n. Bernini, Luigi, 94. Bertan, Giorgio, 242. Bianchi, Lodovico de’, 133 e n, 134 e n, 156. Biancolelli, Domenico, 53, 204, 205 e n, 206, 207 e n, 208, 221. Bin Laden, Osama, 71. Binni, Lanfranco, 238n. Blok, Aleksandr Aleksandrovič, 222n, 223, 232.

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Boccaccio, Giovanni, 191n, 192. Bonavera, Enrico, 235, 243. Bondi, Jurij, 224n. Borromeo, Carlo, 3 e n, 4, 5 e n, 28, 30, 36, 76 e n, 98, 126. Bosisio, Paolo, 35n, 39n, 198n, 211n. Boso, Carlo, 242, 243n. Botero, Giovanni, 192. Bottarga, Stefanello, 10, 135. Bottari, Stefano, 94n. Bragaglia, Anton Giulio, 232 e n. Bressanello, Alessandro, 242. Briccio, Giovanni, 93-95, 200 e n, 202 e n, 204. Bruni, Domenico, 59, 99, 100n, 191 e n, 192, 193n, 196, 200. Buontalenti, Bernardo, 68n. Burattelli, Claudia, 42n, 58n. Cairns, Christopher, 55n. Callot, Jacques, 237. Calmo, Andrea, 15n, 131 e n, 191192, 202. Camporesi, Pietro, 12n. Cantinella, Benedetto, 23-25, 27, 37, 56, 205. Capozza, Nicoletta, 201n. Carandini, Silvia, 218n, 219n. Carlo IX di Valois, 52. Carlo Ferdinando di Gonzaga-Nevers, 60. Carrara, Titino, 231n. Carrara, Tommaso, 232n. Carrieri, Raffaele, 233n. Casali, Gaetano, 40n. Cavalcanti, Bartolomeo, 192. Caylus, Anne-Claude-Philippe de Tubières, conte di, 209, 210n. Cecchini, Pier Maria, 17 e n, 36n, 58 e n, 59, 114 e n, 115, 116 e n, 117-118, 119 e n, 120, 121n, 122, 124, 132, 135 e n, 187 e n, 193, 194n, 195, 200. Cerato, Antonio, 43. Cervantes Saavedra, Miguel de, 162. Chancerel, Léon, 230. Chaplin, Charlie, 229-230.

Chiari, Pietro, 35, 210. Chopin, Fryderyk, 214. Ciavolella, Massimo, 95n. Cicerone, Marco Tullio, 111, 131. Cicognini, Giacinto Andrea, 208. Cimadori, Giovanni Andrea, 62-63. Cocco, Antonio, 183 e n, 187. Cocco, Ester, 14n, 16n. Conrieri, Davide, 165n. Conti, Natale, 159. Contin, Claudia, 243n. Copeau, Jacques, 226, 227 e n, 228, 229 e n, 230. Costo, Tommaso, 191n. Cotticelli, Francesco, 95n, 109n, 136n, 194n. Croce, Benedetto, 96 e n, 231 e n. Croce, Giulio Cesare, 191n. Cronk, Nicholas, 209n. Cuppone, Roberto, 215n, 236n. Curtis, Judith, 209n. Dalcroze, Jacques, 222n. D’Ancona, Alessandro, 221. De Amicis, Vincenzo, 231n. de Berardinis, Leo, 244-245. De Bosio, Gianfranco, 234n. Debureau, Charles, 215, 217, 219. Debureau, Jean-Gaspard, pseud. di Jan Kašpar Dvočák, 215. De Filippo, famiglia, 221. de Jorio, Carlo, 65. Del Monaco, Francesco Maria, 7, 8n, 78, 79n, 80n, 88n, 98, 99n. Del Monte, cardinale, 81n. Delrio, Martin, 82. Del Valle Ojeda Calvo, Maria, 51n, 203n. De Marinis, Marco, 227n, 238n, 242n, 243n. De Mendoza, Pedro Hurtado, 20 e n, 21. De Michele, Fausto, 27n, 51n. Demostene, 111, 131. De’ Nobili, Francesco, 15n. De Rojas, Augustin, 191n, 192. Dessì, Giuseppe, 236.

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D’Harmonville, Georges, 46n. Djagilev, Sergej, 224. Dolce, Ludovico, 192. D’Onofrio, Cesare, 95n. D’Orazi, Maria Pia, 87n. Dorimond, Nicolas Drouin, detto, 208. Duchartre, Pierre-Louis, 230 e n. Ejzenštejn, Sergej Michajlovič, xi. Eliade, Mircea, 86n, 87n. Elisabetta I Tudor, 52. Enrico di Borbone, 103. Enriquez, Franco, 236. Enriquez, Pedro, conte di Fuente, 41. Este, dinastia, 59. Evreinov, Nikolaj Nikolaevič, 222n, 225, 230. Falereo, Demetrio, 192. Fava, Antonio, 243n. Ferrone, Siro, vn, 22n, 54n, 58n, 73n, 86n, 104 e n, 113 e n, 118n, 121n, 127n, 169n, 178, 179n, 189. Fersen, Alessandro, 236. Filippo II d’Asburgo, 120. Fiorilli, Tiberio, 53, 244. Fiorillo, Silvio, 59. Fo, Dario, 237-238, 239e n, 240, 242. Fokin, Michail Michajlovič, 224. Frachetta, Girolamo, 192. Francesco II di Modena, 59. Francesco da la Lira, 14, 16, 50. Franco, Nicolò, 48-49. Frassinetti, Augusto, 236. Fréart de Chantelou, Paul, 94 e n. Fuser, Eleonora, 242, 243n. Gambacorta, Pietro, 18 e n. Gambelli, Delia, 52n, 53n, 54n, 86n, 103n, 204n, 205n, 207n. Garavaglia, Valentina, 35n, 211n. Gareffi, Andrea, 159n. Garzoni, Tommaso, 12, 13n, 29, 30 e n, 32n, 37, 44, 46, 47 e n, 48, 56-57, 89, 114, 206n.

Gautier, Théophile, 213, 215. Gherardi, Evaristo, 53. Giovanni Battista, 88. Goethe, Johann Wolfgang von, 211n, 212-213, 222. Gogol’, Nikolaj Vasil’evič, 222n. Goldoni, Carlo, 33 e n, 34-35, 38, 39n, 40 e n, 64, 85, 86n, 136, 137n, 197 e n, 198 e n, 199, 210. Gonzaga, famiglia, 44, 59. Gonzaga, Francesco, 58. Gonzaga, Guglielmo, 42. Gonzaga, Vincenzo, 58. Goodrich Heck, Anne, 95n, 109n, 136n, 194n. Gordon Craig, Edward Henry, 219 e n, 220-221, 222 e n, 227n, 228, 230. Gozzi, Carlo, 34, 35 e n, 210, 211n, 213, 222 e n, 223 e n. Grasso, Giovanni, 221. Grazzini, Anton Francesco, detto il Lasca, 10 e n, 11, 12 e n, 13 e n, 23 e n, 24 e n, 25, 26 e n, 30, 37, 49, 56, 66, 89, 196. Guardenti, Renzo, 53n. Guarini, Giovan Battista, 4 e n, 5, 16, 89, 202. Gueullette, Jean-Emile, 96n. Gueullette, Thomas-Simon, 96-97. Guglielmo V di Baviera, 26-27, 51, 90, 188. Guicciardini, Francesco, 192. Guicciardini, Ludovico, 191n. Heck, Thomas F., 95n, 109n, 136n, 194n, 203n. Hieronimo da San Luca, 14. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 213, 222n. Ingegneri, Angelo, 173 e n. Iurissevich, Adriano, 243. Ivanovich, Cristoforo, 61 e n. Janin, Jules, 215. Kahn, Gustave, 218 e n, 219.

251

Kantor, Tadeusz, 245 e n, 246n. Krieger, Uwe, 235n. Laforgue, Jules, 223, 232. Landino, Cristoforo, 192. Laurini, Argia, 232n. Lecoq, Jacques, 234. Lermontov, Michail Jur’evič, 222n. Levi, Cesare, 221. Lidia da Bagnacavallo, 47. Limpardi, Eronimo, 15n. Liompardi, Zuan Polo, 15n. Lippomano, Alvise, 81n. Lolli, Giovanni Antonio, 60 e n. Lottini, Giovanni Francesco, 192. Lucini, Gian Pietro, 232 e n. Lucrezia da Siena, 17. Luigi XIV, 53, 62. Macchia, Giovanni, 86 e n, 208n. Machiavelli, Niccolò, 152. Maeterlinck, Maurice, 218, 219 e n. Malcovati, Fausto, 222n. Malfitano, Alberto, 244n. Malina, Judith, 240 e n. Mallarmé, Stéphane, 218-219. Mamczarz, Irene, 165n. Manceau, Alexandre, 215. Manuzio, Aldo, 159. Maphio, ser, detto Zanini da Padova, 14, 16, 45, 53, 56, 58, 60, 187, 205, 211. Marchisi, Marco, 243n. Mariani, Laura, 244n. Marini, Giovanni Ambrosio, 164165. Marino, Giovan Battista, 89. Mariti, Luciano, 95n, 200n, 202n. Marivaux, Pierre Carlet de Chamblain de, 54. Marotti, Ferruccio, 13n, 15n, 31 e n, 36n, 47n, 65n, 77 e n, 100n, 101n, 108n, 113n, 114n, 116n, 122n, 131n, 132n, 134n, 135n, 138n, 140n, 141n, 142n, 144n, 146 e n, 154n, 173n, 182n, 187n, 191n, 194n, 201n, 219n.

Martinelli, Drusiano, 52, 59, 86. Martinelli, Tristano, 42, 58-59, 86, 103-104, 105 e n, 106 e n, 107, 114, 125, 181, 221. Martino, Alberto, 27n, 51n. Massimiliano II d’Asburgo, 51. Mathias d’Asburgo, 58 e n, 120. Mazzarino, Giulio Raimondo, 7, 53. Medici, famiglia, 71, 77n. Medici, Giovanni de’, 73, 113. Medici, Maria de’, 103. Megale, Teresa, 107n. Mejerchol’d, Vsevolod Emil’evič, 222 e n, 223 e n, 224 e n, 226, 230, 245, 246n. Meldolesi, Claudio, 244n. Menant, Sylvain, 210n. Miklaševskij, Konstantin Michajlo­ vič, 225, 230-231. Mnouchkine, Ariane, 241. Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, vii, 53, 206-208, 222n, 244. Molinari, Cesare, 58n, 161n. Monetta, Michele, 243n. Moretti, Marcello, 233, 235. Moschian, Francesco, 14. Motti, Adriana, 220n. Mulryne, James Roland, 69n. Muraro, Maria Teresa, 27n, 131n. Musco, Angelo, 221. Muzio, Achille, 192. Muzzarelli, Girolamo, 81n, 82n. Naselli, Alberto, detto Zan Ganassa, 51-52, 131-133, 135. Neri, Ferdinando, 52n, 231n. Nerval, Gérard de, 215. Nicolini, Fausto, 231n. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, vi. Nodier, Charles, 215. Obizzi, Pio Enea degli, 61. Oliva, Giovan Paolo, 9 e n. Omero, 139. Orazio, Quinto Flacco, 65, 122. Orlando di Lasso, viii, 27, 90-91, 93, 188.

­252

Ortolani, Benito, 87n. Ottonelli, Gian Domenico, 18 e n, 19 e n, 21, 22n, 27, 28 e n, 37 e n, 38, 40, 43n, 44-45, 57, 61 e n, 74 e n, 76 e n, 78 e n, 79 e n, 96, 122, 129, 166 e n, 168 e n. Paglicci Brozzi, Antonio, 41n. Pandolfi, Vito, 236 e n. Paolini, Marco, 243. Passeri, Giovan Battista, 93 e n. Pavoni, Giuseppe, 140. Peeters, Kris, 209n. Perez, Massimo, 203n. Pergamini, Giacomo, 192. Perocco di Meduna, Stefano, 235n. Perrucci, Andrea, 95 e n, 108, 109n, 136 e n, 194n, 196n, 197-198, 199n, 201n, 202, 203 e n, 232n. Petraccone, Enzo, 96n, 231n. Petrarca, Francesco, 192. Petrolini, Ettore, 221. Petruzzi, Carlo Alberto, 86n. Phélypeaux, Jean-Frédéric, 209. Piccolomini, Alessandro, 183 e n, 184 e n, 185, 186 e n, 187 e n, 188, 192-193. Pico della Mirandola, Alessandro, 58. Pieri, Marzia, 33n, 137n, 191n. Piissimi, Vittoria, 47. Piizzi, Paola, 234n. Piombo, Mauro, 243n. Pirandello, Luigi, 232. Piron, Alexis, 209. Plaisance, Michel, 11n. Platone, 193. Plauto, Tito Maccio, 77, 202. Poli, Giovanni, 237 e n. Pollux, Julius, 31. Ponti, Diana, 59. Prosperi, Adriano, 82n. Prota-Giurleo, Ulisse, 66n. Pucci, Antonio, 192. Puppa, Paolo, 238n. Puškin, Aleksandr Sergeevič, 222n.

Quadri, Franco, 240n. Quéro, Dominique, 210n. Quinault-Dufresne, Jeanne-Fran­çoi­ se, 209. Quintiliano, Marco Fabio, 131. Ramponi, Virginia, 59. Rank, Otto, 206n. Ranuccio II Farnese, 59. Rao, Cesare, 131, 132 e n. Rasi, Luigi, 40n, 57n, 60n, 61n, 62n, 63n, 102, 114, 221 e n, 230. Rastelli, Enrico, 233. Ratto, Gianni, 233. Rauhut, Franz, 27n. Re, Emilio, 17 e n, 23 e n. Rebaudengo, Maurizio, 58n, 177n. Reinhardt, Max, 226, 233. Remizov, Aleksej Michajlovič, 222n. Renata di Lorena, 26-27, 90. Renoir, Jean, 235-236. Rezente, André de, 191n. Ricci, Bernardino, 107n. Riccoboni, Luigi, 17 e n, 28, 29n, 53, 165 e n, 167 e n, 198 e n, 199 e n. Ristori, Adelaide, vii. Romei, Giovanna, 13n, 15n, 36n, 47n, 65n, 77n, 100n, 101n, 108n, 113 e n, 114n, 116n, 122n, 131n, 132n, 134n, 135n, 138n, 140n, 141n, 142n, 144n, 182n, 187n, 191n, 194n. Rosa, Salvator, viii, 93. Rossi, Bartolomeo, 86. Rossi, Niccolò, viii, 29 e n, 89. Rossi, Paolo, 159. Rubini, Francesco, 40n. Rudolf II d’Asburgo, 51. Sabbattini, Nicola, 69, 70n. Sacchi, Antonio, 35, 234. Salley, Charles-Alexandre, 209. Salvatore, Lina, 243n. Sand, George, v-vi, 214-215, 216 e n, 217-218. Sand, Maurice, v e n, vi, x, 214 e n, 215-216, 217 e n, 218, 228, 241.

253

Sanudo, Marin, 31. Sardelli, Alessandro, 221n. Sartori, Amleto, 234 e n. Sartori, Donato, 234n. Savage, Roger, 69 e n. Savarese, Gennaro, 159n. Scala, Flaminio, 17 e n, 59, 73n, 77n, 107, 108 e n, 110 e n, 112, 113 e n, 114, 122, 140, 146 e n, 147 e n, 148, 150-151, 152 e n, 153, 155 e n, 156, 169, 175-176, 180-181, 187, 191, 201 e n, 203-204. Scherillo, Michele, 221, 231n. Schino, Mirella, 29n, 65n, 67n, 105n, 167n, 199n. Schlabach, Nicole, 27n, 51n. Scolari, Giovan Battista, 91. Segneri, Paolo, 5 e n, 6, 18, 28, 81 e n, 82 e n, 83 e n, 85, 87 e n, 163, 182. Seneca, Lucio Anneo, 192. Seragnoli, Daniele, 184n, 186n. Sgrosso, Marco, 243n. Shakespeare, William, 222n. Shewring, Margaret, 69n. Soleri, Ferruccio, 235. Solivetti, Carla, 224n, 225n. Solov’ëv, Vladimir Sergeevič, 223, 226. Spies, Johann, 161. Stiefel, Erhard, 234n. Stoppato, Lorenzo, 231n. Strehler, Giorgio, 233, 234 e n, 235. Strub, Werner, 235n. Surma-Gawlowska, Monika, 51n. Taiacalze, Domenico, 15n. Tairov, Aleksandr Jakovlevič, 226. Tamburini, Elena, 35n. Tasso, Torquato, 65, 89, 136, 202. Taviani, Ferdinando, 3n, 5n, 8n, 9n, 18n, 19n, 20n, 29n, 65n, 67n, 74n, 79n, 81n, 99n, 102n, 105n, 166n, 167n, 199n, 240, 241n, 244n.

Terenzio, Publio Afro, 77, 202. Tertulliano, 87. Teso, Diego, 242. Tessari, Roberto, 41n, 54n, 55n, 91n, 97n, 100n, 102n, 231n. Testaverde, Anna Maria, vn, 202n, 203n. Thofano de Bastian, 14. Tieck, Ludwig, 222n, 223. Tirso de Molina, Gabriel Téllez, detto, 206-208. Tomitano, Bernardino, 192. Troiano, Massimo, viii, 27 e n, 90, 91 e n, 92-93. Trott, David, 209n. Vachtangov, Evgenij Bagrationovič, 226. Valentini, Francesco, 213 e n. Valerini, Adriano, 47, 50, 100, 103, 135-137, 138n, 139, 156, 187n. Varchi, Benedetto, 67 e n. Verlaine, Paul, 223. Verzone, Carlo, 10n. Viazzi, Glauco, 232n. Villiers, Claude Deschamps, detto, 208. Vincentio da Venetia, 14. Viscardi, Giovanni Antonio, 192. Vitali, Buonafede, 39-40, 50, 197. Wagner, Richard, 216-217. Watanabe-O’Kelly, Helen, 69n. Yeats, William Butler, 220n. Yorick, Piero Coccoluto Ferrigni, detto, 221. Zinani, Gabriele, 192. Zinanni, Anna, 58n. Zorzi, Ludovico, 67, 68 e n, 70, 71n, 131n. Zuandomenego, detto Rizo, 14. Zuane da Trevixo, 14, 16, 50.

Indice del volume

Introduzione. È esistita la Commedia dell’Arte?

v

I. In principio erat verbum (davanti a notaio)

3

1. Una selva di sogni avvelenati, p. 3 - 2. Uomini – e donne – in “fraternal compagnia”, p. 14 - 3. Magnificenza del recitare, improvvisazione, maschera, p. 22

II. Un’etichetta ambigua, molte fenomenologie chiare

33

1. Arte dello spettacolo e arti della ciarlataneria, p. 33 - 2. Profani comici, emigranti, artisti virtuosi, p. 46 - 3. Dall’attore accademico all’attore-impiegato, p. 56

III. Tre sguardi su spettacoli di magia e prostituzione

64

1. Il principe: spiando da una camera con grata, p. 64 - 2. Il prete. Tra porte chiuse e porte socchiuse, p. 73 - 3. L’intellettuale: riflessi fascinosi d’uno specchio sparso di impurità, p. 89

IV. Messinscene a stampa d’un pensiero di attore 1. La diva, l’Arlecchino e l’attore-autore, p. 98 - 2. Un comico in costume da cavaliere, p. 113 - 3. I corsari della scena, p. 121

255

98

V. Contrabbandi e provocazioni: tracce di repertorio

130

1. Capricci verbali di zanni, dottori e innamorati, p. 130 2. Flaminio Scala: una drammaturgia di canovacci, p. 146 - 3. L’imaginifica follia d’un Capitano, p. 155

VI. Segreti di uno spettacolo in bilico tra arte e mestiere

164

1. Due immagini riflesse della messinscena: re-citazione e improvvisazione, p. 164 - 2. Stereotipi e serialità, p. 178 3. Presupposti, prosaicità e poesia dell’improvviso, p. 190

VII. Lo spettro della Commedia dell’Arte: mitologie, restauri e re-invenzioni

209

1. Da Gozzi a Craig, morte e resurrezione del teatro delle maschere, p. 209 - 2. Il primo Novecento: epifanie da un mirifico Baraccone, p. 222 - 3. Il secondo Novecento. Il modello e le trasfigurazioni, p. 232



Indice dei nomi

249