La civiltà dello spettacolo 9788858431511

La banalizzazione dell'arte e della letteratura, il successo del giornalismo scandalistico e la frivolezza della po

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La civiltà dello spettacolo
 9788858431511

Table of contents :
Indice......Page 159
Frontespizio......Page 3
Il libro......Page 155
L’autore......Page 156
La civiltà dello spettacolo......Page 4
Metamorfosi di una parola......Page 6
Capitolo primo. La civiltà dello spettacolo......Page 20
Precedenti: Cacca di elefante......Page 38
Capitolo secondo. Breve discorso sulla cultura......Page 42
Precedenti: L’ora dei ciarlatani......Page 49
Capitolo terzo. Proibito proibire......Page 53
Precedenti: Il velo islamico......Page 64
Capitolo quarto. La scomparsa dell’erotismo......Page 69
Precedenti: Il pittore nel bordello......Page 77
Il sesso freddo......Page 80
Capitolo quinto. Cultura, politica e potere......Page 85
Precedenti: Pubblico e privato......Page 101
Capitolo sesto. L’oppio dei popoli......Page 105
Precedenti: Il segno della croce......Page 126
Difesa delle sette......Page 130
Riflessione finale......Page 134
Precedenti: Piú informazione, meno conoscenza......Page 140
Dinosauri in tempi difficili......Page 143
Ringraziamenti......Page 154

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Mario Vargas Llosa

La civiltà dello spettacolo Traduzione di Federica Niola

La civiltà dello spettacolo

A Juan Cruz Ruiz, sempre con il suo taccuino e la sua matita

Le ore hanno perduto l’orologio. VICENTE HUIDOBRO

Metamorfosi di una parola

È probabile che nella storia non siano mai stati prodotti tanti trattati, saggi, teorie e analisi sulla cultura come ai nostri tempi. Il fatto è ancora piú sorprendente visto che oggi la cultura, nel senso attribuito per tradizione a questo vocabolo, è sul punto di scomparire. O forse è ormai scomparsa, svuotata con discrezione del suo contenuto, sostituito da un altro venuto a snaturare quello che aveva. Questo piccolo saggio non aspira ad alimentare il gran numero di interpretazioni sulla cultura contemporanea; soltanto a dare una testimonianza della metamorfosi che ha subito ciò che ancora si intendeva per cultura quando la mia generazione è entrata a scuola o all’università, e dell’eterogenea materia che l’ha sostituita, in un’adulterazione che sembra essersi verificata senza problemi, nell’acquiescenza generale. Prima di cominciare la mia argomentazione personale a riguardo, vorrei passare in rassegna, anche se per sommi capi, alcuni dei saggi che negli ultimi decenni hanno affrontato la questione da svariati punti di vista, in certi casi provocando dibattiti prestigiosi in ambito intellettuale e politico. Pur essendo molto diversi tra loro e pur rappresentando soltanto un piccolo campione dell’abbondante fiorire d’idee e di tesi che il tema ha ispirato, questi saggi hanno un denominatore comune, poiché coincidono nell’affermare che la cultura sta attraversando una crisi profonda e che è entrata in decadenza. L’ultimo, invece, parla di una nuova cultura costruita sulle rovine di quella soppiantata. Apro la rassegna con la celebre e polemica presa di posizione di Thomas Stearns Eliot. Sebbene siano passati poco piú di sessant’anni dalla pubblicazione, nel 1948, del suo saggio Appunti per una definizione della cultura 1, quando lo si rilegge oggi si ha l’impressione che l’autore si riferisca a un mondo remotissimo, senza alcun collegamento con il presente. Eliot assicura di essere guidato dall’unico proposito di definire il concetto di cultura ma, in realtà, la sua ambizione è piú ampia e consiste, oltre che nella precisazione di ciò che tale parola abbraccia, in una critica pungente del sistema culturale del suo tempo che, secondo lui, si stava allontanando

sempre di piú dal modello ideale che aveva rappresentato in passato. In una frase che allora poteva apparire eccessiva, aggiunge: «Non vedo ragione perché il decadere della cultura non debba procedere assai oltre, e perché non possiamo anche prevedere un periodo d’una certa durata del quale sarà possibile dire che non ne avrà alcuna» (16). (Anticipando il contenuto della Civiltà dello spettacolo, dirò che tale tempo è il nostro). Questo modello ideale, secondo Eliot, consiste in una cultura strutturata in tre elementi – l’individuo, il gruppo o classe e la società nel suo complesso – in cui, pur non mancando gli scambi reciproci, ciascuno conserva una certa autonomia ed è in costante confronto con gli altri, all’interno di un ordine grazie al quale il complesso sociale prospera e si mantiene coeso. Eliot afferma che la cultura alta è patrimonio di un’élite e sostiene che è cosí perché, assicura, «è condizione essenziale al mantenimento della qualità della cultura della minoranza, che essa continui a essere tale» (19). Cosí come l’élite, la classe sociale è una realtà che dev’essere mantenuta poiché al suo interno viene reclutata e preparata la casta o generazione che garantisce la cultura alta, un’élite che in nessun caso dev’essere identificata del tutto con la classe privilegiata o aristocratica da cui proviene la maggior parte dei suoi membri. Ogni classe produce una sua cultura propria, e sebbene le diverse culture possano coesistere, naturalmente, presentano differenze marcate che attengono alla condizione economica di ciascuna. Non sarebbe concepibile una cultura identica dell’aristocrazia e del ceto contadino, per esempio, benché le due classi abbiano in comune molte cose, come la religione e la lingua. Per Eliot l’idea di classe non è rigida o impermeabile, bensí aperta. Chi appartiene a una classe può passare a una classe superiore o scendere in quella inferiore, ed è bene che sia cosí, benché ciò costituisca piú l’eccezione che la regola. Il sistema garantisce un ordine stabile di cui è espressione, ma adesso tale ordine è incrinato, e genera incertezza riguardo al futuro. L’idea ingenua secondo cui, attraverso l’istruzione, si può trasmettere la cultura alla società nella sua interezza, sta distruggendo la «cultura alta», poiché l’unico modo di ottenere una democratizzazione universale della cultura consiste nell’impoverirla, rendendola ogni giorno piú superficiale. Cosí come è indispensabile l’esistenza di un’élite, secondo Eliot, nella sua concezione di «cultura alta» è necessario anche che in una società vi siano culture regionali che nutrano la cultura nazionale e ne facciano parte, che esistano con il loro

profilo peculiare e godano di una certa indipendenza: «È importante che un uomo si senta cittadino non semplicemente di una particolare nazione, ma altresí di una parte del suo paese, con locali vincoli di fedeltà. Questi, come la fedeltà a una classe, hanno origine nella fedeltà alla famiglia» (54). La cultura si trasmette attraverso la famiglia e quando questa istituzione smette di funzionare in modo adeguato il risultato è «una decadenza della nostra cultura» (44). Dopo la famiglia, il principale veicolo di trasmissione della cultura tra le generazioni è stata la Chiesa, non la scuola. Non bisogna confondere cultura e conoscenza. La cultura non è «semplicemente la somma di parecchie attività, ma un modo di vivere» (42), un modo di essere in cui le forme sono importanti tanto quanto il contenuto. La conoscenza ha a che vedere con l’evoluzione della tecnica e della scienza, e la cultura è qualcosa che precede la conoscenza, una propensione dello spirito, una sensibilità e un’attenzione alla forma che dà senso e guida le conoscenze. Cultura e religione non sono la stessa cosa, ma non sono separabili, poiché la cultura è nata all’interno della religione e, sebbene con l’evoluzione storica dell’umanità se ne sia parzialmente allontanata, sarà sempre unita alla sua fonte di nutrimento da una sorta di cordone ombelicale. La religione, «finché dura, dà un significato apparente alla vita, fornisce una impalcatura alla cultura, e protegge la massa dell’umanità dal tedio e dalla disperazione» (33). Quando parla di religione, Eliot si riferisce fondamentalmente al cristianesimo che, dice, ha reso l’Europa ciò che è. Nella Cristianità le arti si sono sviluppate. In essa le leggi dell’Europa – fino ai tempi recenti – hanno avuto le loro radici. È contro uno sfondo cristiano che tutto il nostro pensiero acquista significato. Un singolo europeo può non credere che la Fede Cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di una cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche. Non credo che la cultura dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della Fede Cristiana (122).

L’idea della società e della cultura che ha Eliot ricorda la struttura del cielo, il purgatorio e l’inferno nella Commedia di Dante, con i suoi gironi sovrapposti e le sue simmetrie e gerarchie rigide in cui la divinità punisce il male e premia il bene secondo un ordine inviolabile.

Vent’anni dopo la pubblicazione del libro di Eliot, nel 1971, George Steiner gli rispose con Nel castello di Barbablú. Note per la ridefinizione della cultura. Nel suo saggio denso e intenso, l’autore è scandalizzato dal grande poeta della Terra desolata, che è riuscito a scrivere un trattato sulla cultura poco dopo la fine della seconda guerra mondiale senza ricollegare in alcun modo tale tema con le convulse carneficine dei due conflitti mondiali e, soprattutto, omettendo una riflessione sull’Olocausto, lo sterminio di sei milioni di ebrei in cui è culminata la lunga tradizione di antisemitismo della cultura occidentale. Steiner si propone di rimediare a questa mancanza con un’analisi della cultura che ne consideri in modo preminente i rapporti con la violenza politico-sociale. Secondo l’autore, dopo la Rivoluzione francese, Napoleone, le guerre napoleoniche, la Restaurazione e il trionfo della borghesia in Europa, nel Vecchio continente s’insedia il grande ennui, fatto di frustrazione, fastidio, malinconia e desiderio segreto di esplosione, violenza e cataclisma, come testimoniano la migliore letteratura europea e opere quali Il disagio nella civiltà di Freud. Il movimento dadaista e quello surrealista sarebbero la manifestazione piú eccelsa e l’esacerbazione massima del fenomeno. Secondo Steiner, la cultura europea non solo annuncia, ma desidera che avvenga l’esplosione sanguinaria e purificatrice rappresentata dalle rivoluzioni e dalle due guerre mondiali. La cultura, invece di arrestarle, provoca e celebra tali carneficine. Steiner insinua che forse la ragione per cui Eliot non ha affrontato «la fenomenologia dell’omicidio di massa, nelle proporzioni che assunse in Europa, dal meridione della Spagna alle frontiere della Russia asiatica tra il 1936 e il 1945» 2 possa essere il suo antisemitismo, inizialmente soltanto privato, che però l’epistolario, dopo la morte, avrebbe reso pubblico. Il suo caso non è infrequente, visto che «non sono stati molti […] i tentativi di rapportare il fenomeno dominante della barbarie del Novecento a una piú generale teoria della cultura» (31). Steiner aggiunge: A me sembra irresponsabile qualunque teoria della cultura, […] che non ponga al centro della riflessione i metodi del terrore che con la guerra, la fame, e il massacro deliberato, causarono in Europa e in Russia, tra l’inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda, la morte di circa settanta milioni di esseri umani (32).

La spiegazione di Steiner è strettamente legata alla religione che, a suo giudizio, è vincolata alla cultura, cosí come ha sostenuto Eliot, ma senza la stretta dipendenza dalla «disciplina cristiana» che l’altro autore sosteneva, «l’aspetto piú vulnerabile della sua tesi» (79). A suo giudizio, la volontà che rende possibile la grande arte e il pensiero profondo ha radici in «una scommessa sulla trascendenza» (80). Questo è l’aspetto religioso di ogni cultura. Eppure la cultura occidentale è disseminata di antisemitismo da tempi immemorabili e la ragione è religiosa. Si tratta di una reazione vendicativa dell’umanità non ebrea nei confronti del popolo che ha inventato il monoteismo, ossia la concezione di un dio unico, invisibile, inconcepibile, onnipotente e inafferrabile dall’intelletto e persino dall’immaginazione umana. Il dio mosaico è venuto a sostituire il politeismo di dèi e dee accessibili per la molteplicità umana, cui la diversità di uomini e donne si poteva adattare e adeguare. Il cristianesimo, secondo Steiner, è sempre stato, con i suoi santi, il mistero della Trinità e il culto mariano, «un ibrido di ideali monoteistici e di pratiche politeistiche» (39), e in questo modo è riuscito a conservare qualcosa della proliferazione di divinità abolita dal monoteismo fondato da Mosè. Il dio unico e inconcepibile degli ebrei si colloca al di fuori della ragione umana – è accessibile soltanto attraverso la fede – e in questa accezione è stato vittima dei philosophes dell’Illuminismo, convinti che con una cultura laica e secolarizzata sarebbero scomparsi la violenza e i massacri che il fanatismo religioso, le pratiche dell’Inquisizione e le guerre di religione avevano portato con sé. Ma la morte di Dio non è coincisa con la venuta del paradiso in terra, piuttosto dell’inferno, già descritto nell’incubo dantesco della Commedia o nei palazzi e nelle camere del piacere e della tortura del Marchese de Sade. Il mondo, liberato di Dio, a poco a poco è stato dominato dal diavolo, dallo spirito del male, dalla crudeltà, dalla distruzione, divenuti paradigmatici con le carneficine dei conflitti mondiali, i forni crematori nazisti e i gulag sovietici. Con questo cataclisma la cultura è finita ed è cominciata l’èra della postcultura. Steiner mette in evidenza la capacità autocritica radicata nella tradizione occidentale. Quali altri popoli si sono rivolti in atteggiamento contrito a quelli che una volta tenevano schiavi, quali altre civiltà hanno moralmente condannato gli splendori del proprio passato? Il riflesso dell’esame di coscienza in nome degli assoluti etici è, ancora

una volta, un atto tipicamente occidentale, postvoltairiano (60).

Uno dei tratti della postcultura è quello di non credere nel progresso, l’eclissi dell’idea secondo la quale la storia segue una curva ascendente, il predominio del Kulturpessimismus o nuovo realismo stoico (63). Curiosamente, questo atteggiamento coesiste con l’evidenza che, nel campo della tecnica e della scienza, la nostra epoca realizza ogni giorno miracoli. Ma il progresso moderno, ora lo sappiamo, deve spesso pagare un prezzo distruttivo, per esempio in termini di danni irreparabili alla natura e all’ecologia, e non sempre contribuisce a ridurre la povertà, piuttosto ad ampliare l’abisso di disuguaglianze tra paesi, classi e persone. La postmodernità ha distrutto il mito che gli studi umanistici umanizzino. Non è vero ciò che hanno creduto tanti educatori e filosofi ottimisti, cioè che un’educazione liberale, alla portata di tutti, avrebbe garantito un futuro di progresso, pace, libertà, uguali possibilità nelle democrazie moderne: «biblioteche, teatri, università, centri di ricerca, nei quali e attraverso i quali avviene in massima parte la trasmissione del sapere umanistico e scientifico, prosperano anche a pochi passi da un campo di concentramento» (70). In un individuo, cosí come nella società, a volte possono coesistere la cultura alta, la sensibilità, l’intelligenza e il fanatismo del torturatore e dell’assassino. Heidegger è stato nazista e mentre il regime nazista sterminava milioni di ebrei nei campi di concentramento «la [sua] penna non si arrestò, né ammutolí il suo pensiero» (71). Per questo pessimismo stoico della postcultura è scomparsa la sicurezza che in precedenza veniva da una serie di differenze ora abolite: La linea di demarcazione separava il piú alto dal piú basso, il piú grande dal piú piccolo: la civiltà dal primitivismo arretrato, il sapere dall’ignoranza, il privilegio sociale dalla sottomissione, l’età adulta dall’immaturità, gli uomini dalle donne – e in tutti questi casi «da» significava anche «al di sopra di» (73).

Il crollo di queste distinzioni è il dato piú caratteristico dell’attualità culturale. La postcultura, a volte chiamata anche, significativamente, «controcultura», rimprovera alla cultura il suo elitarismo e il legame tradizionale di arti, lettere e scienze con l’assolutismo politico: «Che bene ha

fatto l’elevato umanesimo alla massa oppressa della società? A che è servito quando è sopraggiunta la barbarie?» (77). Nei capitoli finali, Steiner schizza un quadro piuttosto tetro di quale potrebbe essere l’evoluzione culturale, in cui la tradizione, non piú operante, finirebbe confinata in una nicchia accademica: «Già una gran parte della poesia, del pensiero religioso, dell’arte, è regredita dall’immediatezza della fruizione individuale alla custodia degli specialisti» (92-93). Ciò che prima era vita attiva passerà ad avere la vita artificiale dell’archivio. E, ancora piú grave, la cultura sarà vittima – comincia già a esserlo – di quello che Steiner definisce il «ritirarsi della parola». Nella tradizione culturale «il discorso parlato, ricordato e scritto, costituiva la spina dorsale della coscienza» (97). Oggi la parola è sempre piú subordinata all’immagine. E anche alla musica, segno identificativo delle nuove generazioni, che con la musica pop, folk o rock creano uno spazio avvolgente, un mondo in cui la scrittura, lo studio, la comunicazione privata «avvengono in un campo di stridente vibrato» (101). Che effetto può avere questa musicalizzazione della cultura sull’intimità del nostro cervello? Oltre al progressivo deterioramento della parola, Steiner segnala come fatti eminenti del nostro tempo la preoccupazione per la natura e l’ecologia, e il portentoso sviluppo delle scienze – soprattutto la matematica e le scienze naturali – che hanno rivelato dimensioni insospettate della vita umana, del mondo naturale, dello spazio, e creato tecniche capaci di alterare e di manipolare il cervello e la condotta dell’essere umano. La cultura «libresca» cui Eliot si riferiva in modo esclusivo nel suo testo sta perdendo vigore ed esiste sempre di piú ai margini della cultura di oggi, che ha tagliato quasi del tutto i ponti con gli studi classici – ebraici, greci e latini – riparati ora presso pochi specialisti, quasi sempre rinchiusi nella torre d’avorio dei loro gerghi ermetici e di un’erudizione asfissiante, quando non di teorie deliranti. La parte piú polemica del saggio di Steiner sostiene che la cultura postmoderna pretende dall’uomo colto una conoscenza di base della matematica e delle scienze naturali che gli permetta di capire i progressi notevoli che il mondo scientifico ha fatto e che ai nostri giorni continua a fare in tutti gli ambiti – chimico, fisico, astronomico – e nelle loro applicazioni, spesso portentose tanto quanto le invenzioni piú audaci della letteratura fantastica. Questa proposta è un’utopia paragonabile a quelle che Steiner nel suo saggio disprezza, poiché se già nel passato recente era inimmaginabile un

Pico della Mirandola contemporaneo capace di abbracciare l’insieme delle conoscenze del suo tempo, nel nostro non possono aspirarvi neppure i computer, che con la loro capacità infinita di immagazzinare dati destano l’ammirazione di Steiner. Può darsi che la cultura non sia piú possibile nella nostra epoca, ma non per la suddetta ragione, poiché la semplice idea di cultura non ha mai significato quantità di conoscenze, bensí qualità e sensibilità. Come altri suoi saggi, questo comincia con i piedi per terra per terminare con un’esplosione di delirio intellettuale. Qualche anno prima del saggio di Steiner, nel novembre del 1967, era uscito a Parigi quello di Guy Debord, La società dello spettacolo 3, che nel titolo assomiglia a questo libro, anche se, a dire il vero, si tratta di approcci diversi al tema della cultura. Debord, autodidatta, avanguardista radicale, eterodosso, sobillatore e promotore delle provocazioni controculturali degli anni Sessanta, considera «spettacolo» ciò che nel 1844 Marx, in Manoscritti economici e filosofici, definí «alienazione» sociale, risultato del feticismo della merce il quale, nello stadio industriale avanzato della società capitalista, raggiunge un protagonismo tale nella vita dei consumatori da sostituire come interesse o preoccupazione centrale qualunque altro argomento di ordine culturale, intellettuale o politico. L’acquisizione ossessiva di prodotti, che consentono e incentivano la fabbricazione di merci, produce il fenomeno della «reificazione» o «cosificazione» dell’individuo, dedito al consumo sistematico degli oggetti, spesso inutili o superflui, che le mode e la pubblicità gli impongono, svuotando la sua vita interiore di inquietudini sociali, spirituali o semplicemente umane, isolandolo e distruggendo la sua coscienza degli altri, della propria classe e di se stesso, fenomeno in seguito al quale, per esempio, il proletariato «sproletarizzato» smette di essere un pericolo – e persino un antagonista – per la classe dominante. Queste idee di gioventú, che Marx non arriverà mai ad approfondire nella maturità, sono il fondamento della teoria di Debord sul nostro tempo. La sua tesi principale è che nella società industriale moderna, in cui il capitalismo ha trionfato e la classe operaia è stata (per lo meno temporaneamente) sconfitta, l’alienazione – l’illusione della menzogna trasformata in realtà – ha annientato la vita sociale, trasformandola in una rappresentazione in cui tutto ciò che è spontaneo, autentico e genuino – la verità dell’essenza umana – è stato sostituito da elementi artificiali e falsi. In questo mondo, le cose – le merci – sono diventate vere e proprie signore della vita, padrone che gli esseri

umani servono per assicurare la produzione destinata ad arricchire i proprietari dei macchinari e delle industrie che fabbricano tali merci. Lo spettacolo, dice Debord, è «la dittatura effettiva dell’illusione nella società moderna» (179, proposizione n. 213). Sebbene Debord in altri ambiti si conceda molte libertà rispetto alle tesi marxiste, accetta come verità canonica la teoria della storia quale lotta di classe e la «reificazione» o «cosificazione» dell’uomo a opera del capitalismo che crea artificialmente necessità, mode e appetiti al fine di mantenere un mercato in espansione per i prodotti. Scritto con uno stile impersonale e astratto, il suo libro si compone di nove capitoli e 221 proposizioni, alcune brevi come aforismi e quasi sempre prive di esempi concreti. I suoi ragionamenti risultano spesso di difficile comprensione a causa della prosa intricata. I temi specificamente culturali, riferiti alle arti e alle lettere, trovano posto nel suo saggio soltanto in modo tangenziale. La sua tesi è economica, filosofica e storica prima che culturale, aspetto della vita che, fedele anche in questo al marxismo classico, Debord riduce a una sovrastruttura dei rapporti di produzione che costituiscono le fondamenta della vita sociale. La civiltà dello spettacolo si limita invece all’ambito della cultura, intesa non come mero epifenomeno della vita economica e sociale, ma come realtà autonoma, fatta di idee, valori estetici ed etici, e di opere d’arte e letterarie che interagiscono con il resto della vita sociale e sono spesso, invece che riflessi, fonte dei fenomeni sociali, economici, politici e persino religiosi. Il libro di Debord contiene scoperte e intuizioni che coincidono con alcuni temi evidenziati nel mio saggio, come l’idea che sostituire la vita con la rappresentazione, rendere la vita spettatrice di se stessa, implichi un impoverimento dell’essenza umana (63, proposizione n. 30). Lo stesso vale anche per la sua affermazione secondo cui, in un ambiente nel quale la vita ha smesso di essere vissuta per essere solo rappresentata, si vive «per procura», come gli attori con una vita falsa che recitano su un palco o sullo schermo. «Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni» (72, proposizione n. 47). Questa lucida osservazione sarebbe stata piú che confermata negli anni successivi alla pubblicazione del libro. Tale processo, dice Debord, ha come conseguenza la «futilizzazione» che «domina la società moderna» per la moltiplicazione delle merci che il consumatore può scegliere e la scomparsa della libertà, poiché i cambiamenti che avvengono non sono opera di libere scelte delle persone, ma «del sistema

economico, del dinamismo del capitalismo». Discostandosi molto dallo strutturalismo, che definisce «sogno freddo», Debord aggiunge che la critica alla società dello spettacolo sarà possibile soltanto come parte di una critica pratica dell’ambiente che la rende possibile, pratica nel senso di un’azione rivoluzionaria volta a eliminare la suddetta società (172, proposizione n. 203). In particolare sotto questo aspetto, le sue tesi e quelle del mio libro sono agli antipodi. Negli ultimi anni un buon numero di lavori ha cercato di definire i tratti caratteristici della cultura del nostro tempo nel contesto della globalizzazione, della diffusione del capitalismo e dei mercati a livello mondiale e della rivoluzione tecnologica straordinaria. Uno dei piú perspicaci è quello di Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata 4. Gli autori vi sostengono l’idea che ai nostri giorni si sia instaurata una società globale – la cultura-mondo – la quale, basata sull’eclissi progressiva delle frontiere a opera dei mercati, della rivoluzione scientifica e di quella tecnologica (soprattutto nel campo delle comunicazioni) sta creando, per la prima volta nella storia, denominatori culturali che accomunano società e individui dei cinque continenti, i quali vengono avvicinati e uniformati nonostante le diverse tradizioni, credenze e lingue che sono loro proprie. Questa cultura, a differenza di ciò che prima rispondeva a tale nome, ha smesso di essere elitaria, erudita ed esclusiva ed è diventata una genuina «cultura di massa»: Agli antipodi rispetto alle avanguardie ermetiche ed elitarie, cerca di offrire nuovi prodotti con la maggiore accessibilità possibile, per distrarre il maggior numero di persone possibile. Si tratta di divertire, di procurare piacere, di consentire un’evasione facile e accessibile a tutti, la quale non richiede alcuna formazione, alcun punto di riferimento culturale particolare e dotto. Ciò che le industrie culturali inventano non è altro che una cultura trasformata in articoli di consumo di massa (74).

Questa cultura di massa, secondo gli autori, nasce con il predominio dell’immagine e del suono sulla parola, ossia con lo schermo. L’industria del cinema, soprattutto partendo da Hollywood, «mondializza» i film portandoli in tutti i paesi, e, in ogni paese, a tutti gli strati sociali, poiché, come i dischi e la televisione, i film sono accessibili a tutti e non richiedono una formazione intellettuale specialistica di alcun tipo per essere apprezzati. Il processo si è

accelerato con la rivoluzione cibernetica, la creazione delle reti sociali e la diffusione capillare di Internet in tutto il mondo. Non solo l’informazione ha infranto le barriere ed è oramai alla portata di tutti, ma praticamente tutti gli ambiti della comunicazione, dell’arte, della politica, dello sport, della religione, e cosí via, hanno sperimentato gli effetti riformatori del piccolo schermo. «Il mondo dello schermo ha delocalizzato, desincronizzato, deregolato lo spazio-tempo della cultura» (83). Tutto questo è vero, senza dubbio. La cosa non chiara è se ciò che Lipovetsky e Serroy chiamano cultura-mondo o cultura di massa e in cui includono, per esempio, persino la «cultura delle marche» degli oggetti di lusso, sia, in senso stretto, cultura, o se ci riferiamo a cose essenzialmente diverse quando parliamo, da un lato, di un’opera di Wagner e della filosofia di Nietzsche e, dall’altro, dei film di Hitchcock e di John Ford (due dei miei registi preferiti) e di una pubblicità della Coca-Cola. Gli autori dànno per scontato che sia cosí: io, invece, penso che tra le due cose vi sia stata una mutazione o salto qualitativo hegeliano che ha trasformato i secondi in elementi con una natura diversa rispetto ai primi. Nei due capitoli iniziali di questo libro spiego perché. D’altro canto, alcune asseverazioni contenute nella Cultura-mondo mi sembrano discutibili, per esempio che questa nuova cultura planetaria abbia sviluppato un individualismo estremo in tutto il globo. Al contrario, la pubblicità e le mode che nel nostro tempo i prodotti culturali lanciano e impongono sono un serio ostacolo alla creazione di individui indipendenti, capaci di giudicare da soli ciò che gradiscono, ciò che ammirano, ciò che trovano sgradevole e ingannevole od orripilante in quei prodotti. La culturamondo, invece di favorire l’individuo, lo rende dipendente, privandolo della lucidità e del libero arbitrio, e lo fa reagire di fronte alla «cultura» imperante in modo condizionato e gregario, come i cani di Pavlov al campanello che annuncia il cibo. Un’altra affermazione di Lipovetsky e Serroy che si direbbe poco fondata è quella di presupporre che, siccome milioni di turisti visitano il Louvre, l’Acropoli e gli anfiteatri greci in Sicilia, ai nostri tempi il passato culturale non abbia perso valore e sia ancora «altamente legittimo» (111). Gli autori non si rendono conto che le visite affollate ai grandi musei e ai monumenti storici classici non riflettono un interesse genuino verso l’«alta cultura» (cosí la chiamano) ma mero snobismo, visto che l’essere stati in quei luoghi fa

parte degli obblighi del perfetto turista postmoderno. Invece di farlo interessare al passato e all’arte classica, le visite lo esentano dallo studiarli e conoscerli con un minimo di cognizione di causa. Una semplice occhiata basta per tacitare la sua coscienza culturale. Le visite del turista «in cerca di distrazioni» snaturano il significato reale di musei e monumenti e li equiparano ad altri doveri del perfetto turista: mangiare la pasta e ballare la tarantella in Italia, applaudire il flamenco e il cante jondo in Andalusia e assaggiare gli escargots, visitare il Louvre e assistere a una rappresentazione del Folies Bergère a Parigi. Nel 2010 è uscito in Francia, pubblicato da Flammarion, il libro del sociologo Frédéric Martel Mainstream 5 che, in un certo senso, mostra come la «nuova cultura» o «cultura-mondo» di cui parlano Lipovetsky e Serroy sia già sorpassata, disorientata dalla voragine frenetica del nostro tempo. Il libro di Martel è affascinante e terrificante nella sua descrizione della «cultura dell’intrattenimento», che ha sostituito quasi universalmente ciò che appena mezzo secolo fa si intendeva per cultura. Mainstream è, in realtà, un ambizioso reportage, realizzato in buona parte del mondo con centinaia di interviste, su ciò che, grazie alla globalizzazione e alla rivoluzione audiovisiva, è oggi un denominatore comune, nonostante la differenza di lingue, religioni e abitudini, tra i popoli dei cinque continenti. Nel testo di Martel non si parla di libri – l’unico citato nelle diverse centinaia di pagine che lo compongono è Il codice da Vinci di Dan Brown e l’unica critica cinematografica è Pauline Kael – né di pittura o scultura, né di musica o danza classiche, né di filosofia e studi classici in generale, ma esclusivamente di film, programmi televisivi, videogiochi, manga, concerti rock, pop o rap, video e tablet e delle «industrie creative» che li producono, sponsorizzano e promuovono, ovvero dei divertimenti del grande pubblico che hanno sostituito (e finiranno con l’eliminarla) la cultura del passato. L’autore guarda con simpatia a questa mutazione, perché grazie a essa la cultura mainstream, o cultura del grande pubblico, ha sottratto la vita culturale alla piccola minoranza che in precedenza la monopolizzava, l’ha democratizzata, rendendola alla portata di tutti, e perché i contenuti di questa nuova cultura gli paiono in perfetta sintonia con la modernità, le grandi invenzioni scientifiche e tecnologiche della vita contemporanea. I reportage e le testimonianze raccolte da Martel, cosí come le sue analisi, sono istruttive e piuttosto rappresentative di una realtà che sinora né la

sociologia né la filosofia avevano osato riconoscere. La stragrande maggioranza del genere umano oggi non pratica, non consuma né produce altra forma di cultura se non quella che prima era considerata dai settori colti, in modo dispregiativo, mero passatempo popolare, senza alcuna parentela con le attività intellettuali, artistiche e letterarie che costituivano la cultura. Quest’ultima è ormai morta, sebbene sopravviva in piccole nicchie sociali, senza alcuna influenza sul mainstream. La differenza essenziale tra la cultura del passato e l’intrattenimento di oggi è che i prodotti della prima si proponevano di trascendere il tempo presente, di durare, di continuare a vivere nelle generazioni future, mentre i prodotti del secondo sono fabbricati per essere consumati all’istante e sparire, come i biscotti e i popcorn. Tolstoj, Thomas Mann, ancora Joyce e Faulkner scrivevano libri che si proponevano di sconfiggere la morte, di sopravvivere ai loro autori, di continuare ad attrarre e ad affascinare i lettori nei tempi futuri. Le telenovele brasiliane e i film di Bollywood, cosí come i concerti di Shakira, non si propongono di durare oltre il tempo della loro presentazione, per poi scomparire, lasciando spazio ad altri prodotti altrettanto applauditi e altrettanto effimeri. La cultura è svago e ciò che non è divertente non è cultura. La ricerca di Martel mostra come oggi questo sia un fenomeno planetario, che si verifica per la prima volta nella storia, e che accomuna i paesi sviluppati e quelli sottosviluppati, a prescindere da quanto siano diverse le loro tradizioni, le loro credenze o i loro sistemi di governo, sebbene, logicamente, tali varianti determinino a loro volta, per ogni paese e società, alcune differenze nei particolari e nelle sfumature dei film, delle soap opera, delle canzoni, dei manga, dell’animazione e cosí via. Per questa nuova cultura sono essenziali la produzione industriale su vasta scala e il successo commerciale. La distinzione tra prezzo e valore è scomparsa, i due concetti sono un tutt’uno, in cui il primo ha assorbito e annullato il secondo. Ciò che ha successo e si vende è buono e ciò che fa fiasco e non conquista il pubblico è cattivo. L’unico valore è quello commerciale. La scomparsa della vecchia cultura ha implicato la scomparsa del vecchio concetto di valore. L’unico valore che esiste ora è quello fissato dal mercato. Da Thomas Stearns Eliot a Frédéric Martel l’idea di cultura ha subito molto piú di un’evoluzione lenta e graduale: un mutamento traumatico da cui

è scaturita una realtà nuova, in cui quasi non resta traccia di quella che ha sostituito. 1. Th. S. Eliot, Notes Towards the Definition of Culture, Faber & Faber, London 1948 [trad. it. Appunti per una definizione della cultura, Bompiani, Milano 1948. Qui e nei saggi citati di seguito i numeri tra parentesi tonda nel testo fanno riferimento alla pagina della traduzione italiana]. 2. G. Steiner, In Bluebeard’s Castle. Some Notes Towards the Redifinition of Culture, Yale University Press, New Haven (Connecticut) 1971 [trad. it. Nel castello di Barbablú. Note per la ridefinizione della cultura, Garzanti, Milano 2011, p. 35]. 3. G. Debord, La société du spectacle, Éditions Buchet-Chastel, Paris 1967 [trad. it. La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008]. 4. G. Lipovetsky e J. Serroy, La culture-monde: réponse à une société désorientée, Odile Jakob, Paris 2008 [trad. it. La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata, O barra O edizioni, Milano 2010]. 5. F. Martel, Mainstream: enquête sur cette culture qui plaît à tout le monde, Flammarion, Paris 2010 [trad. it. Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media, Feltrinelli, Milano 2010].

Capitolo primo La civiltà dello spettacolo

Claudio Pérez, inviato speciale di «El País» a New York per documentare la crisi finanziaria, nel suo articolo di venerdí, 19 settembre 2008, scrive: I tabloid di New York cercano come pazzi un broker che si getti nel vuoto da uno degli imponenti grattacieli che ospitano le grandi banche di investimento, idoli caduti che la tempesta finanziaria sta trasformando in cenere.

Fissiamo per un momento questa immagine nella memoria: una folla di fotografi, di paparazzi, che scrutano in alto, con le macchine pronte, per catturare il primo suicida che fornisca un’incarnazione grafica, drammatica e spettacolare all’ecatombe finanziaria che ha fatto svanire miliardi di dollari e mandato in rovina grandi imprese e innumerevoli cittadini. Non credo che esista un’immagine capace di riassumere meglio la civiltà cui apparteniamo. Mi pare che questo sia il modo migliore di definire la civiltà del nostro tempo, comune a tutti i paesi occidentali, a quelli che, senza esserlo, hanno raggiunto alti livelli di sviluppo in Asia, e a molti del cosiddetto Terzo Mondo. Che cosa vuol dire civiltà dello spettacolo? Quella di un mondo nel quale il primo posto nella scala dei valori vigente è occupato dall’intrattenimento e in cui divertirsi, sfuggire alla noia, è passione universale. Questo ideale di vita è perfettamente legittimo, senza dubbio. Solo un puritano fanatico potrebbe rimproverare ai membri di una società di voler aggiungere piacere, svago, humour e divertimento a vite che in generale sono inquadrate entro routine deprimenti e a volte abbrutenti. Ma trasformare questa naturale propensione a divertirsi in un valore supremo ha conseguenze inaspettate: la banalizzazione della cultura, la generalizzazione della frivolezza e, nel campo dell’informazione, la proliferazione del giornalismo irresponsabile basato sul pettegolezzo e sullo scandalo. Che cosa ha fatto precipitare l’Occidente in una civiltà di questo tipo? Il benessere che è seguito agli anni di privazioni della seconda guerra mondiale e alle ristrettezze dei primi anni del dopoguerra. A quella tappa durissima, è

seguito un periodo di straordinario sviluppo economico. In tutte le società democratiche e liberali dell’Europa e del Nordamerica le classi medie si sono gonfiate come schiuma, è aumentata la mobilità sociale e, contemporaneamente, si è avuta una notevole apertura nei parametri morali, a cominciare dalla vita sessuale limitata per tradizione dalle chiese e dal laicismo bigotto delle organizzazioni politiche, tanto di destra quanto di sinistra. Il benessere, la libertà di costumi e lo spazio crescente riservato al tempo libero nel mondo sviluppato hanno costituito uno stimolo notevole per il moltiplicarsi delle industrie del divertimento, promosse dalla pubblicità, madre e maestra magica del nostro tempo. Cosí, in modo sistematico ma impercettibile, non annoiarsi, evitare ciò che turba, preoccupa e angoscia, è diventato, per settori sociali sempre piú ampi dal vertice alla base della piramide sociale, un mandato generazionale, quello che Ortega y Gasset chiamava «lo spirito del nostro tempo», il dio salace, munifico e frivolo cui tutti, piú o meno consapevolmente, rendiamo omaggio da almeno mezzo secolo, ogni giorno di piú. Un altro fattore, non meno importante, nella costruzione di questa realtà, è rappresentato dalla democratizzazione della cultura. Il fenomeno è nato da un proposito altruistico: la cultura non poteva continuare a essere patrimonio di un’élite, una società liberale e democratica aveva il dovere morale di mettere la cultura a disposizione di tutti, per mezzo dell’istruzione, ma anche promuovendo e sovvenzionando le arti, le lettere e le altre manifestazioni culturali. Questa filosofia ammirevole ha avuto l’effetto indesiderato di rendere triviale e dozzinale la vita culturale, nella quale una certa faciloneria formale e la superficialità di contenuto dei prodotti culturali erano giustificate dal proposito civile di arrivare a un numero maggiore di persone. La quantità a scapito della qualità. Questo criterio, proclive alle peggiori demagogie in ambito politico, in quello culturale ha provocato riverberi imprevisti, per esempio la scomparsa della cultura alta, necessariamente minoritaria per via della complessità e, a volte, dell’ermetismo proprio delle sue chiavi e dei suoi codici, e la massificazione dell’idea stessa di cultura. Oggi la cultura ha cominciato ad avere esclusivamente l’accezione che assume nel discorso antropologico. Ossia, sono cultura tutte le manifestazioni della vita di una comunità: la lingua, le credenze, gli usi e costumi, gli indumenti, le tecniche e, in generale, tutto ciò che vi si pratica, evita, rispetta e aborre. Quando l’idea di cultura diviene un simile amalgama è inevitabile che possa arrivare a

essere intesa, unicamente, come un modo piacevole di passare il tempo. Senz’altro la cultura può essere anche questo, ma se finisce con l’essere soltanto questo si snatura e si svilisce: tutto ciò che ne fa parte viene equiparato e uniformato, al punto che un’opera di Verdi, la filosofia di Kant, un concerto dei Rolling Stones e uno spettacolo del Cirque du Soleil si equivalgono. Per questo non è strano che la letteratura piú rappresentativa della nostra epoca sia la letteratura light, lieve, leggera, facile, una letteratura che senza il minimo imbarazzo si propone prima di tutto e soprattutto (quasi esclusivamente) di divertire. Attenzione, non condanno in alcun modo gli autori di questa letteratura di intrattenimento, perché tra loro ci sono, nonostante la leggerezza delle loro opere, veri e propri talenti. Se nella nostra epoca è raro che si intraprendano avventure letterarie coraggiose come quelle di Joyce, Virginia Woolf, Rilke o Borges non è solo colpa degli scrittori; succede anche perché la cultura in cui siamo immersi non favorisce, anzi scoraggia, gli sforzi strenui destinati a culminare in opere che pretendono dal lettore una concentrazione intellettuale intensa quasi quanto quella che le ha rese possibili. I lettori di oggi vogliono libri facili, che li intrattengano, e questo tipo di domanda esercita una pressione che diventa un potente incentivo per i creatori. Non è casuale neppure che la critica sia poco meno che scomparsa nei nostri mezzi di informazione e si sia rifugiata in quei conventi di clausura che sono le Facoltà umanistiche e, in particolare, i dipartimenti di Filologia, con i loro studi accessibili soltanto agli specialisti. È vero che i giornali e le riviste piú serie continuano a pubblicare recensioni di libri, esposizioni e concerti, ma chi legge piú i paladini solitari che cercano di stabilire un certo ordine gerarchico nella selva promiscua in cui si è trasformata l’offerta culturale dei nostri giorni? Di certo la critica, che all’epoca dei nostri nonni e bisnonni aveva un ruolo centrale nel mondo della cultura perché consigliava i cittadini nel difficile compito di giudicare ciò che ascoltavano, vedevano e leggevano, oggi è una specie in estinzione cui nessuno presta piú attenzione, tranne quando si trasforma a sua volta in divertimento e spettacolo. La letteratura light, cosí come il cinema light e l’arte light, dà al lettore e allo spettatore la confortevole impressione di essere colto, rivoluzionario, moderno, e di essere all’avanguardia, con uno sforzo intellettuale minimo. In questo modo, la cultura che si propone come avanzata e di rottura, in verità

diffonde il conformismo attraverso le sue manifestazioni peggiori: il compiacimento e l’autosoddisfazione. Nella civiltà dei nostri giorni è normale e quasi obbligatorio che la cucina e la moda occupino buona parte delle sezioni dedicate alla cultura e che gli «chef» e gli «stilisti» abbiano il ruolo di protagonisti che un tempo spettava a scienziati, compositori e filosofi. All’interno delle coordinate culturali dell’epoca, i fornelli e le passerelle si confondono con i libri, i concerti, i laboratori e le opere, cosí come le star televisive e i grandi calciatori esercitano sui costumi, i gusti e le mode l’influenza che prima avevano i professori, i pensatori e (ancora prima) i teologi. Probabilmente mezzo secolo fa, negli Stati Uniti, decidere il fiasco o il successo di un libro di poesie, di un romanzo o di un saggio spettava a una figura come quella di Edmund Wilson, nei suoi articoli per «The New Yorker» o «The New Republic». Oggi spetta ai programmi televisivi di Oprah Winfrey. Non dico che sia un male. Dico, semplicemente, che è cosí. In modo impercettibile, è accaduto che il vuoto lasciato dalla scomparsa della critica sia stato riempito dalla pubblicità, che ai nostri giorni è diventata non solo una parte costitutiva della vita culturale, ma il suo vettore determinante. La pubblicità esercita un magistero decisivo sui gusti, la sensibilità, l’immaginazione e i costumi. In questo ambito, la funzione che in passato avevano i sistemi filosofici, le fedi religiose, le ideologie e le dottrine e i mentori che in Francia erano conosciuti come mandarini di un’epoca, oggi è svolta da anonimi «creativi» delle agenzie pubblicitarie. In un certo senso era obbligatorio che le cose andassero cosí, da quando l’opera artistica e letteraria ha cominciato a essere considerata un prodotto commerciale che si gioca la sopravvivenza o l’estinzione niente di piú e niente di meno che negli alti e bassi del mercato, in un periodo tragico nel quale il prezzo viene confuso con il valore di un’opera d’arte. Quando una cultura chiude nella soffitta delle cose passate di moda l’esercizio del pensiero e sostituisce le idee con le immagini, i prodotti letterari e artistici vengono promossi, accettati o rifiutati in base alle trovate pubblicitarie e ai riflessi condizionati di un pubblico che manca delle difese intellettuali e della sensibilità necessarie per individuare il raggiro e l’estorsione di cui è vittima. Di questo passo, i vestiti assurdi che uno come John Galliano faceva sfilare sulle passerelle di Parigi (prima che si scoprisse il suo antisemitismo) o gli esperimenti della Nouvelle cuisine possono ottenere lo statuto di cittadini onorari della cultura alta.

Questo stato di cose ha incoraggiato l’esaltazione della musica sino a trasformarla nel segno distintivo delle nuove generazioni in tutto il mondo. I gruppi e i cantanti di moda radunano folle straripanti in concerti che sono, come le feste dionisiache pagane che nella Grecia classica celebravano l’irrazionalità, cerimonie collettive sfrenate e catartiche, culto degli istinti, delle passioni e dell’irragionevolezza. E lo stesso si può dire, chiaramente, delle affollate manifestazioni a base di musica elettronica, i rave, in cui si balla al buio, si ascolta musica trance e si prende il volo grazie all’ecstasy. Non è forzato paragonare queste celebrazioni alle grandi festività popolari a carattere religioso di un tempo: vi si riversa, secolarizzato, lo spirito religioso che, in sintonia con la piega vocazionale dell’epoca, ha sostituito la liturgia e i catechismi delle fedi tradizionali con queste manifestazioni di misticismo musicale in cui, seguendo il ritmo di voci e strumenti esaltati che gli altoparlanti amplificano in maniera inaudita, l’individuo si deindividualizza, diventa massa e ritorna, inconsciamente, ai tempi primitivi della magia e della tribú. È il modo contemporaneo, senz’altro molto piú divertente, di raggiungere l’estasi che santa Teresa o san Giovanni della Croce ottenevano attraverso l’ascetismo, la preghiera e la fede. Nella festa e nel concerto di massa i giovani di oggi fanno la comunione, si confessano, si redimono, si realizzano e godono dello stato intenso ed elementare che è l’oblio di sé. La massificazione è un altro tratto, assieme alla frivolezza, della cultura del nostro tempo. Oggi gli sport hanno acquisito un’importanza che in passato hanno avuto solo nell’antica Grecia. Per Platone, Socrate, Aristotele e gli altri frequentatori dell’Accademia, coltivare il corpo era simultaneo e complementare rispetto al coltivare lo spirito, poiché si credeva che i due si arricchissero a vicenda. La differenza rispetto alla nostra epoca è che adesso, in generale, la pratica degli sport avviene a spese e in sostituzione del lavoro intellettuale. Tra gli sport, nessuno spicca come il calcio, fenomeno di massa che, cosí come i concerti di musica moderna, raduna folle e le esalta piú di qualunque altra mobilitazione urbana: comizi politici, processioni religiose, appelli civili. Una partita di calcio può essere per i tifosi – e io sono uno di loro – uno spettacolo stupendo, di abilità e armonia d’insieme e di affermazione individuale, che entusiasma lo spettatore. Ma, ai nostri giorni, le grandi partite di calcio fungono soprattutto, come il circo romano, da pretesto e da sfogo per l’irrazionale, innescando una regressione dell’individuo alla sua condizione di parte della tribú, di elemento gregario, nella quale, protetto

nel confortevole anonimato della tribuna, lo spettatore lascia briglia sciolta agli istinti aggressivi di rifiuto dell’altro, di conquista e di annientamento simbolico (e a volte persino reale) dell’avversario. I famosi «ultras» di alcune squadre e le stragi che provocano con le loro mischie omicide, gli incendi di tribune e le decine di vittime mostrano come in molti casi non sia la pratica di uno sport ad attrarre tanti tifosi – quasi sempre maschi, sebbene le donne che frequentano gli stadi siano sempre piú numerose – verso i campi, ma un rituale capace di scatenare nell’individuo istinti e pulsioni irrazionali che gli permettono di rinunciare alla sua condizione civilizzata e di comportarsi, per la durata di una partita, come parte di un’orda primitiva. Paradossalmente, il fenomeno della massificazione è parallelo a quello della diffusione del consumo di droga a tutti i livelli della piramide sociale. Senz’altro in Occidente l’uso di stupefacenti ha una tradizione antica, ma sino a relativamente poco tempo fa era pratica quasi esclusiva delle élite e di frange ridotte e marginali, come le cerchie bohémien, letterarie e artistiche, in cui, nell’Ottocento, i fiori artificiali hanno avuto cultori rispettabili quali Charles Baudelaire e Thomas de Quincey. Oggi, il consumo generalizzato di droghe non ha nulla di simile, non risponde alla sperimentazione di nuove sensazioni o visioni intrapresa con propositi artistici o scientifici. E non è una manifestazione di ribellione contro le norme stabilite da parte di individui trasgressivi, decisi ad adottare forme alternative di esistenza. Ai nostri giorni il consumo in massa di marijuana, cocaina, ecstasy, crack, eroina e cosí via è il riflesso di un ambiente culturale che spinge uomini e donne alla ricerca di piaceri facili e rapidi, che li rendano immuni dalla preoccupazione e dalla responsabilità, piuttosto che ad andare incontro a se stessi attraverso la riflessione e l’introspezione, attività eminentemente intellettuali che per la cultura volubile e ludica risultano noiose. La volontà di sfuggire al vuoto e all’angoscia provocati dal sentirsi liberi e costretti a prendere decisioni, come per esempio che cosa fare di noi stessi e del mondo che ci circonda – soprattutto se questo ci pone di fronte a sfide e a drammi –, è ciò che scatena questa necessità di distrazione, è il motore della civiltà in cui viviamo. Oggi a milioni di persone le droghe servono, come le religioni e la cultura alta ieri, per placare i dubbi e le perplessità sulla condizione umana, la vita, la morte, l’aldilà, il senso o l’insensatezza dell’esistenza. Nell’esaltazione e nell’euforia o nella quiete artificiale che producono, conferiscono la sicurezza momentanea di sentirsi in

salvo, redenti e felici. Si tratta di una finzione, non benigna ma maligna, in questo caso, che isola l’individuo e che lo libera solo in apparenza dei problemi, delle responsabilità e delle angosce. Perché alla fine tutto ciò tornerà a impadronirsi di lui, costringendolo a dosi sempre maggiori di stordimento e di sovreccitazione che renderanno piú profondo il suo vuoto spirituale. Nella civiltà dello spettacolo il laicismo ha guadagnato terreno sulle religioni, in apparenza. E, tra chi è ancora credente, sono aumentati coloro che lo sono a tratti e a parole, in modo superficiale e sociale, mentre nella maggior parte della loro vita prescindono del tutto dalla religione. L’effetto positivo della secolarizzazione della vita è che la libertà oggi è piú profonda rispetto a quando era limitata e asfissiata dai dogmi e dalle censure ecclesiastiche. Ma sbaglia chi pensa che, essendoci nel mondo occidentale percentuali minori di cattolici e di protestanti rispetto a un tempo, la religione sia andata scomparendo nei settori divenuti laici. È cosí soltanto nelle statistiche. In realtà, mentre molti fedeli rinunciavano alle chiese tradizionali, cominciavano a proliferare le sette, i culti e ogni tipo di modalità alternativa di praticare la religione, dalla spiritualità orientale con tutte le sue scuole e suddivisioni – buddismo, buddismo zen, tantrismo, yoga – sino alle chiese evangeliche che ora pullulano e si dividono e suddividono nei quartieri poveri, e a pittoreschi succedanei come la Quarta Via, i Rosacroce, la Chiesa dell’Unificazione – i Moonies – Scientology, cosí popolare a Hollywood, e chiese ancora piú esotiche e superficiali 1. La ragione di questa proliferazione di chiese e sette è che solo settori molto ridotti di esseri umani possono prescindere del tutto dalla religione, di cui l’immensa maggioranza ha bisogno poiché soltanto la sicurezza che la fede religiosa trasmette sulla trascendenza e sull’anima la libera dall’inquietudine, dalla paura e dal delirio in cui la fa sprofondare l’idea dell’estinzione, della morte totale. E, di fatto, l’unico modo in cui la maggioranza degli esseri umani intende e mette in pratica un’etica è attraverso una religione. Solo ridotte minoranze si emancipano, sostituendo con la cultura il vuoto che la religione lascia nelle loro vite: la filosofia, la scienza, la letteratura e le arti. Ma la cultura in grado di svolgere una funzione del genere è quella alta, che affronta i problemi e non li evita, che cerca di dare risposte serie e non ludiche ai grandi enigmi, agli interrogativi e ai conflitti che circondano l’esistenza umana. La cultura di superficie e di

paccottiglia, di gioco e di posa, non è in grado di supplire alle certezze, ai miti, ai misteri e ai rituali delle religioni che sono sopravvissute alla prova dei secoli. Nella società del nostro tempo gli stupefacenti e l’alcol forniscono la tranquillità momentanea dello spirito e le certezze e il sollievo che un tempo offrivano agli uomini e alle donne le preghiere, la confessione, la comunione e i sermoni dei parroci. Non è casuale neppure che, cosí come in passato i politici durante le campagne elettorali volevano farsi fotografare e apparire a braccetto di eminenti scienziati e drammaturghi, oggi cerchino l’adesione e il sostegno dei cantanti rock e dei divi cinematografici, o di star del calcio e di altri sport. Costoro hanno sostituito gli intellettuali nell’indirizzare la coscienza politica dei ceti medi e popolari e dominano i manifesti, parlano dalle tribune e appaiono in televisione per predicare ciò che è buono o cattivo in ambito economico, politico e sociale. Nella civiltà dello spettacolo, il comico è sovrano. D’altronde, la presenza di attori e di cantanti non è importante solo per quella periferia della vita politica che è l’opinione pubblica. Alcuni di questi personaggi hanno partecipato alle elezioni e, come Ronald Reagan e Arnold Schwarzenegger, sono arrivati a cariche importanti quali la presidenza degli Stati Uniti e il governatorato della California. Naturalmente non escludo la possibilità che divi del cinema e cantanti rock o rap e calciatori possano fornire preziosi suggerimenti nel campo delle idee, ma rifiuto di pensare che il protagonismo politico di cui godono oggi abbia a che vedere soltanto con la loro lucidità o intelligenza. Si deve esclusivamente alla loro presenza mediatica e alle loro attitudini istrioniche. Un fatto singolare della società contemporanea è infatti l’eclissi di una figura che da secoli e sino a relativamente pochi anni fa ricopriva un ruolo importante nella vita delle nazioni: l’intellettuale. Si dice che la denominazione «intellettuale» sia nata soltanto nell’Ottocento, in Francia, durante il caso Dreyfus e le polemiche scatenate da Émile Zola con il suo celebre J’accuse, scritto in difesa dell’ufficiale ebreo accusato ingiustamente di tradimento della patria da una congiura di alti comandi antisemiti dell’Esercito francese. Eppure, se il termine «intellettuale» è divenuto popolare solo a partire da allora, di certo la partecipazione di uomini attivi nel campo del pensiero e della creazione alla vita pubblica, ai dibattiti politici, religiosi e di idee, risale agli albori stessi dell’Occidente. Era presente nella Grecia di Platone e nella Roma di Cicerone, nel Rinascimento di Montaigne,

nell’Illuminismo di Voltaire e Diderot, nel Romanticismo di Lamartine e Victor Hugo e in tutti i periodi storici che hanno portato alla modernità. Parallelamente al lavoro di ricerca, accademico o creativo, un buon numero di scrittori e pensatori di spicco ha influito con scritti, pronunciamenti e prese di posizione sul panorama politico e sociale, come accadeva quando ero giovane, in Inghilterra con Bertrand Russell, in Francia con Sartre e Camus, in Italia con Moravia e Vittorini, in Germania con Günter Grass ed Enzensberger, e cosí in quasi tutte le democrazie europee. Basti pensare, in Spagna, agli interventi nella vita pubblica di Ortega y Gasset e di Miguel de Unamuno. Ai nostri giorni, l’intellettuale è scomparso dai dibattiti pubblici, per lo meno quelli che contano. È vero che alcuni firmano ancora manifesti, mandano lettere ai giornali e si impegolano in polemiche, ma nulla di tutto ciò ha ripercussioni serie sull’andamento della società, i cui affari economici, istituzionali e persino culturali sono decisi dal potere politico e amministrativo e dai cosiddetti poteri di fatto, in cui gli intellettuali brillano per assenza. Consapevoli della posizione disgraziata nella quale sono stati relegati dalla società in cui vivono, hanno optato in maggioranza per la discrezione o l’astensione dal dibattito pubblico. Confinati nelle loro discipline o pratiche personali, voltano le spalle a quello che mezzo secolo fa si chiamava «impegno» civile o morale dello scrittore e del pensatore nei confronti della società. Le eccezioni ci sono, ma, tra queste, di solito contano – perché arrivano ai media – quelle dettate dall’autopromozione e dall’esibizionismo piuttosto che dalla difesa di un principio o di un valore. Perché nella civiltà dello spettacolo l’intellettuale desta interesse solo se segue il gioco di moda e diventa un buffone. Che cosa ha portato allo svilimento e alla sparizione dell’intellettuale nel nostro tempo? Una ragione che va considerata è il discredito caduto su varie generazioni di intellettuali per via delle loro simpatie nei confronti del totalitarismo nazista, sovietico e maoista, e il loro silenzio e cecità di fronte a orrori come l’Olocausto, i gulag sovietici e le carneficine della Rivoluzione culturale cinese. In effetti, è sconcertante e imbarazzante che, in molti casi, quelle che sembravano le menti privilegiate del loro tempo si siano schierate a favore di regimi responsabili di genocidi, orribili violazioni dei diritti umani e abolizione di ogni libertà. Ma, in realtà, la vera ragione della perdita totale di interesse da parte della società nel suo insieme verso gli intellettuali è conseguenza diretta del potere infimo che ha il pensiero nella civiltà dello

spettacolo. Un’altra caratteristica di questa civiltà è infatti l’impoverimento delle idee come forza motrice della vita culturale. Oggi viviamo la supremazia delle immagini sulle idee. Per questo i mezzi audiovisivi, il cinema, la televisione e oggi anche Internet hanno lasciato indietro i libri che, se le predizioni pessimistiche di un autore come George Steiner verranno confermate, nel giro di poco finiranno nelle catacombe. (Gli amanti dell’anacronistica cultura libresca, come me, non se ne debbono dispiacere, perché, se cosí sarà, forse l’emarginazione avrà un effetto depurativo e annienterà la letteratura del bestseller, giustamente chiamata spazzatura non soltanto per la superficialità delle sue storie e la povertà della sua forma, ma per il suo carattere effimero, di letteratura d’attualità, fatta per essere consumata e poi scomparire, come i saponi e le bibite gassate). Il cinema, che, naturalmente, è sempre stato un’arte di intrattenimento, rivolta al grande pubblico, ha avuto anche, al suo interno, a volte come corrente marginale e a volte centrale, grandi talenti che, nonostante le condizioni difficili in cui hanno sempre dovuto lavorare i cineasti per ragioni di budget e di dipendenza dalle case produttrici, hanno saputo realizzare opere di grande ricchezza, profondità e originalità, e dall’inequivocabile impronta personale. Ma la nostra epoca, in accordo con l’inflessibile pressione della cultura dominante, che privilegia l’ingegno rispetto all’intelligenza, le immagini rispetto alle idee, lo humour rispetto alla gravità, la banalità rispetto alla profondità e la frivolezza rispetto alla serietà, non produce piú artisti come Ingmar Bergman, Luchino Visconti o Luis Buñuel. Chi è proclamato icona del cinema ai nostri giorni? Woody Allen, che sta a David Lean o a Orson Welles come Andy Warhol sta a Gauguin o Van Gogh nella pittura, o Dario Fo a Čechov o a Ibsen nel teatro. Non sorprende neppure che, nell’èra dello spettacolo, nel cinema gli effetti speciali abbiano acquisito un protagonismo che relega temi, registi, sceneggiatura e persino attori in secondo piano. Si può aggiungere che ciò si deve in buona parte alla portentosa evoluzione tecnologica degli ultimi anni, la quale permette veri e propri miracoli nel campo della simulazione e della fantasia virtuali. In parte, senza dubbio. Ma in parte anche, forse soprattutto, si deve a una cultura che incoraggia a compiere il minor sforzo intellettuale possibile, al non preoccuparsi né angosciarsi né, in ultima istanza, pensare, e piuttosto abbandonarsi, in un atteggiamento passivo, a ciò che l’oggi

dimenticato Marshall McLuhan – sagace profeta del segno che avrebbe preso la cultura di oggi – chiamava «il bagno delle immagini», la resa prona a emozioni e sensazioni scatenate da un bombardamento inusitato e a tratti brillantissimo di immagini che catturano l’attenzione, sebbene, per la loro natura primitiva e passeggera, offuschino la sensibilità e l’intelletto del pubblico. Le arti figurative, dal canto loro, hanno anticipato tutte le altre espressioni della vita culturale nel gettare le basi della cultura dello spettacolo, stabilendo che l’arte poteva essere gioco e farsa e nient’altro. Da quando Marcel Duchamp, che senza dubbio era un genio, ha rivoluzionato i modelli artistici dell’Occidente stabilendo che un gabinetto poteva essere un’opera d’arte, se lo avesse deciso l’artista, è diventato tutto possibile nell’ambito della pittura e della scultura, persino che un magnate paghi dodici milioni e mezzo di euro per uno squalo conservato in formaldeide dentro un recipiente di vetro e che l’autore della trovata, Damien Hirst, sia oggi ossequiato non come lo straordinario venditore di fumo che è, ma come un grande artista del nostro tempo. Magari lo è, ma questo non getta una luce positiva su di lui, bensí molto negativa sul nostro tempo. Un tempo in cui lo sproposito e la bravata, il gesto provocatorio e privo di senso, bastano a volte, con la complicità delle mafie che controllano il mercato dell’arte e i critici conniventi o gonzi, a coronare falsi prestigi, conferendo lo statuto di artista a illusionisti che nascondono la propria pochezza e il proprio vuoto dietro i raggiri e la presunta sfrontatezza. Dico «presunta» perché il gabinetto di Duchamp aveva per lo meno il merito della provocazione. Ai nostri giorni, ciò che ci si aspetta dagli artisti non è il talento, né l’abilità, ma la posa e lo scandalo, la loro audacia non è altro che la maschera di un nuovo conformismo. Ciò che prima era rivoluzionario è diventato moda, passatempo, gioco, un acido sottile che snatura la creazione artistica e la trasforma in rappresentazione grandguignolesca. Nelle arti figurative la frivolezza è arrivata a estremi allarmanti. La sparizione di un consenso minimo sui valori estetici fa sí che in questo ambito la confusione regni e sia destinata a regnare per molto tempo, perché non è piú possibile discernere con una certa obiettività che cosa sia l’avere talento o l’esserne privi, che cosa sia bello e che cosa brutto, quale opera rappresenti una novità duratura e quale non sia altro che un fuoco fatuo. Tale confusione ha trasformato il mondo delle arti figurative in un carnevale nel quale i veri creatori si mescolano con gli opportunisti e gli

imbroglioni, spesso difficili da distinguere. Inquietante anticipo dell’abisso in cui può sprofondare una cultura malata di edonismo a buon mercato che sacrifica ogni altra motivazione e disegno al divertire. In un acuto saggio sulle derive da brivido cui è arrivata l’arte contemporanea in casi estremi, Carlos Granés Maya cita «una delle performance piú abiette che si ricordino in Colombia», quella dell’artista Fernando Pertuz, che in una galleria d’arte defecò di fronte al pubblico e poi, «con grande solennità», passò a ingerire le proprie feci 2. E, quanto alla musica, l’equivalente del gabinetto di Duchamp è, senza dubbio, la composizione del grande guru della modernità musicale negli Stati Uniti, John Cage, intitolata 4' 33" (1952), in cui un pianista si sedeva di fronte a un pianoforte ma non premeva neanche un tasto per quattro minuti e trentatre secondi, poiché l’opera consisteva nei rumori prodotti in sala dal caso e dagli ascoltatori divertiti o esasperati. Il fine del compositore e teorico era quello di abolire i pregiudizi che operano distinguo di valore tra il suono e la confusione o il rumore. Senza dubbio ci è riuscito. Forse nella civiltà dello spettacolo la politica ha sperimentato una banalizzazione tanto pronunciata quanto quella della letteratura, del cinema e delle arti figurative, il che significa che in essa la pubblicità e i suoi slogan, luoghi comuni, frivolezze, mode e tic, assorbono quasi interamente l’impegno un tempo dedicato a ragioni, programmi, idee e dottrine. Il politico dei nostri giorni, se vuole conservare la propria popolarità, è obbligato a dedicare grande attenzione ai gesti e alla forma, che sono piú importanti dei suoi valori, delle sue convinzioni e dei suoi principî. Occuparsi delle rughe, della calvizie, dei capelli bianchi, della grandezza del naso e della brillantezza della dentatura, cosí come dell’abbigliamento, conta tanto, e a volte di piú, che spiegare ciò che si propone di fare o disfare dal punto di vista politico al momento di governare. L’arrivo della modella e cantante Carla Bruni al Palazzo dell’Eliseo come Madame Sarkozy e i fuochi d’artificio mediatici che l’evento ha portato con sé e che ancora non sono cessati, mostrano come neppure la Francia, paese che si vantava di mantenere viva la vecchia tradizione della politica come impegno intellettuale, di confronto di dottrine e di idee, sia riuscita a resistere, soccombendo a propria volta alla frivolezza che impera universalmente. (Tra parentesi, forse è bene fare qualche precisazione su ciò che intendo per frivolezza. Il dizionario definisce frivolo ciò che è leggero, volubile e

privo di sostanza, ma la nostra epoca ha dato a questo modo di essere una connotazione piú complessa. La frivolezza consiste in una scala di valori capovolta o sbilanciata nella quale la forma conta piú del contenuto, l’apparenza piú dell’essenza e in cui il gesto e lo sproposito – la rappresentazione – fanno le veci dei sentimenti e delle idee. In un romanzo medievale che ammiro, Tirante il Bianco, la moglie di Guglielmo di Warwick dà uno schiaffo al figlio, un bambino appena nato, affinché pianga di fronte al padre che sta partendo per Gerusalemme. Noi lettori ridiamo, divertiti da questa esagerazione, come se le lacrime che lo schiaffo strappa alla povera creatura potessero essere confuse con il sentimento di tristezza. Ma né la dama né i personaggi che assistono alla scena ridono, perché per loro il pianto – pura forma – è la tristezza. Non c’è altro modo di essere tristi se non piangere – «in pianto dirotto» 3 dice il romanzo – poiché in quel mondo è la forma che conta, e i contenuti degli atti sono al suo servizio. La frivolezza è questo, un modo di intendere il mondo, la vita, in cui tutto è apparenza, cioè teatro, cioè gioco e divertimento). Nel commentare la fugace rivoluzione zapatista del subcomandante Marcos nel Chiapas – rivoluzione che Carlos Fuentes definí la prima «rivoluzione postmoderna», appellativo ammissibile solo nella sua accezione di mera rappresentazione priva di contenuto e importanza, messa in piedi da un esperto di tecniche pubblicitarie –, Octavio Paz ha indicato con precisione il carattere effimero, limitato al presente, delle azioni (piú che altro simulacri) dei politici contemporanei: Ma la civiltà dello spettacolo è crudele. Gli spettatori non hanno memoria; per questo non hanno neppure rimorsi né una vera e propria coscienza. Vivono prigionieri della novità, non importa quale, purché nuova. Dimenticano presto e passano senza batter ciglio dalle scene di morte e distruzione della guerra del Golfo alle curve, alle contorsioni e ai gorgheggi di Madonna e di Michael Jackson. I comandanti e i vescovi sono chiamati a subire la medesima sorte; il Grande Sbadiglio, anonimo e universale, che costituisce l’Apocalisse e il Giudizio Finale della società dello spettacolo attende anche loro 4.

Nell’ambito del sesso la nostra epoca ha sperimentato trasformazioni notevoli, grazie a una progressiva liberalizzazione dei vecchi pregiudizi e tabú di carattere religioso che imprigionavano la vita sessuale in un ceppo di proibizioni. In questo campo, senza dubbio, nel mondo occidentale si sono

avuti progressi con l’accettazione delle unioni libere, la riduzione della discriminazione maschilista verso le donne, i gay e altre minoranze sessuali che a poco a poco si stanno integrando in una società che, a volte a denti stretti, comincia a riconoscere il diritto alla libertà sessuale tra gli adulti. Tuttavia, la contropartita di questa emancipazione è stata, anche, la banalizzazione dell’atto sessuale che, per molti, soprattutto per le nuove generazioni, è diventato uno sport o un passatempo, un’occupazione condivisa non piú importante, magari anche meno, della ginnastica, il ballo o il calcio. Forse per l’equilibrio psicologico ed emotivo, questa frivolizzazione del sesso è sana, anche se dovrebbe farci riflettere il fatto che, in un’epoca come la nostra, all’insegna di una libertà sessuale notevole, persino nelle società piú aperte non siano diminuiti i crimini sessuali e, forse, siano persino aumentati. Il sesso light è sesso privo di amore e di immaginazione, sesso puramente istintivo e animale. Dà sfogo a una necessità biologica ma non arricchisce la vita sensibile né quella emotiva e non cementa il rapporto della coppia al di là dell’unione carnale; invece di liberare l’uomo o la donna dalla solitudine, una volta concluso l’atto perentorio e fugace dell’amore fisico, ve li fa ripiombare con una sensazione di fallimento e di frustrazione. L’erotismo è scomparso, insieme con la critica e la cultura alta. Perché? Perché l’erotismo, che trasforma l’atto sessuale in opera d’arte, in un rituale che la letteratura, le arti figurative, la musica e una sensibilità raffinata impregnano di immagini dall’elevato virtuosismo estetico, è la negazione stessa del sesso facile, sbrigativo e promiscuo in cui paradossalmente è sfociata la libertà conquistata dalle nuove generazioni. L’erotismo esiste come contropartita e oltraggio alla norma, è un’attitudine di sfida ai costumi imperanti e, proprio per questo, implica il segreto e la clandestinità. Esposto alla luce, volgarizzato, si degrada e si eclissa, non realizza la deanimalizzazione e l’umanizzazione spirituale e artistica dell’atto sessuale che un tempo permetteva. Produce pornografia, svilimento procace e volgare dell’erotismo che ha alimentato, in passato, una corrente ricchissima di opere nella letteratura, nelle arti figurative le quali, ispirate alle fantasie del desiderio sessuale, producevano creazioni estetiche memorabili, sfidavano lo status quo politico e morale, lottavano per il diritto degli esseri umani al piacere e davano dignità a un istinto animale trasformandolo in opera d’arte. In che modo il giornalismo ha influito sulla civiltà dello spettacolo e quest’ultima su di esso?

Il confine che per tradizione separava il giornalismo serio da quello scandalistico e sensazionalistico si è fatto meno nitido, riempiendosi di buchi sino a svanire, in molti casi, al punto che ai nostri giorni è difficile stabilire la differenza tra i diversi mezzi di informazione. Una delle conseguenze del trasformare l’intrattenimento e il divertimento nel valore supremo di un’epoca è infatti che, nel campo dell’informazione, va producendosi in maniera impercettibile anche uno sconvolgimento occulto delle priorità: le notizie diventano importanti o secondarie soprattutto, e a volte esclusivamente, non tanto per il loro significato economico, politico, culturale o sociale quanto per il loro carattere nuovo, sorprendente, insolito, scandaloso e spettacolare. Senza che se lo sia proposto, il giornalismo dei nostri giorni, seguendo il mandato culturale imperante, cerca di intrattenere e di divertire informando, con l’inevitabile risultato di fomentare, grazie a questa sottile deformazione dei suoi obiettivi tradizionali, una stampa che a sua volta è light, leggera, amena, superficiale e divertente, la quale, in casi estremi, se non ha sottomano informazioni di questo genere da riferire, le fabbrica. Per questo non dobbiamo stupirci che oggi i casi piú clamorosi di conquista di un grande pubblico da parte degli organi di stampa non siano da imputare a pubblicazioni serie, che mirano al rigore, alla verità e all’obiettività nel descrivere l’attualità, ma alla cosiddetta «stampa rosa», l’unica che con le sue tirature milionarie smentisce l’assioma secondo cui nella nostra epoca il giornalismo cartaceo sta ripiegando e retrocedendo di fronte alla concorrenza audiovisiva e digitale. Questo vale soltanto per la stampa che cerca ancora, remando controcorrente, di essere responsabile, di informare piuttosto che intrattenere o divertire il lettore. Ma che dire di un fenomeno come quello di ¡Hola!? Questa rivista, che oggi non si pubblica solo in spagnolo, bensí in undici lingue, è letta avidamente – forse sarebbe meglio dire sfogliata – da milioni di lettori in tutto il mondo – compresi quelli dei paesi piú colti del pianeta, come il Canada e l’Inghilterra – i quali, è dimostrato, apprezzano molto le notizie su come si sposano, lasciano, risposano, vestono, svestono, litigano, si riconciliano e distribuiscono i loro milioni, i loro capricci e i loro gusti, disgusti e cattivi gusti i ricchi, i trionfatori e i famosi in questa valle di lacrime. Nel 1989, quando uscí la versione inglese di ¡Hola!, Hallo!, vivevo a Londra, e ho visto con i miei occhi la rapidità vertiginosa con cui la creatura giornalistica spagnola ha conquistato la terra di Shakespeare. Non è esagerato dire che ¡Hola! e i suoi

congeneri sono i prodotti giornalistici piú genuini della civiltà dello spettacolo. Trasformare l’informazione in uno strumento di svago significa aprire a poco a poco le porte della legittimità a ciò che prima trovava rifugio in un giornalismo marginale e quasi clandestino: lo scandalo, la malafede, il pettegolezzo, la violazione della privacy, se non – nei casi peggiori – la diffamazione, la calunnia e la menzogna. Non esiste, infatti, forma piú efficace di intrattenere e divertire di quella che alimenta le basse pulsioni dei comuni mortali. Tra queste un posto rappresentativo spetta alla rivelazione dell’intimità del prossimo, soprattutto se si tratta di una figura pubblica, conosciuta e prestigiosa. È uno sport che il giornalismo dei nostri giorni pratica senza scrupoli, riparandosi dietro al diritto alla libertà d’informazione. Anche se esistono leggi al riguardo e a volte – raramente – si hanno processi e sentenze che puniscono gli eccessi, si tratta di un’abitudine sempre piú generalizzata che è riuscita, di fatto, a far sí che nella nostra epoca la privacy sia sparita, che nessun aspetto della vita di chiunque occupi la scena pubblica sfugga alla possibilità di essere indagato, rivelato e sfruttato al fine di saziare la fame vorace di intrattenimento e svago di cui giornali, riviste e programmi di informazione sono costretti a tenere conto se vogliono sopravvivere e non essere esclusi dal mercato. Cosí facendo, in risposta a un’esigenza del loro pubblico, gli organi di stampa, senza volerlo e senza saperlo, contribuiscono meglio di chiunque a consolidare la civiltà light che ha dato alla frivolezza la supremazia che in passato avevano le idee e le pratiche artistiche. In uno dei suoi ultimi articoli, No hay piedad para Ingrid ni Clara 5, Tomás Eloy Martínez si indignava di fronte all’assedio cui i giornalisti sensazionalisti avevano sottoposto Ingrid Betancourt e Clara Rojas – liberate dopo aver trascorso sei anni nella selva colombiana sotto sequestro delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) – con domande crudeli e stupide, per esempio se fossero state violentate, se avessero visto violentare altre prigioniere o – a Clara Rojas – se avesse cercato di affogare in un fiume il figlio che aveva avuto da un guerrillero. «Questo giornalismo, – scriveva Tomás Eloy Martínez, – si sforza di trasformare le vittime in elementi di uno spettacolo che si presenta come informazione necessaria, ma che ha come unica funzione quella di saziare la curiosità perversa dei consumatori dello scandalo». La sua protesta era giusta, naturalmente. Il suo errore consisteva

nel supporre che «la curiosità perversa dei consumatori dello scandalo» fosse patrimonio di una minoranza. Non è cosí: questa curiosità consuma i grandi numeri cui ci riferiamo quando parliamo di «opinione pubblica». La vocazione alla maldicenza, alla scabrosità e alla frivolezza dà il tono culturale al nostro tempo e rappresenta l’imperiosa domanda cui la stampa tutta, a livelli distinti e con perizia e forme diverse, è costretta a ubbidire, tanto quella seria quanto quella sfacciatamente scandalistica. Un altro argomento che allieta molto la vita della gente è la catastrofe. Tutte le catastrofi, dai terremoti ai maremoti sino ai crimini seriali, soprattutto in presenza di aggravanti quali il sadismo e le perversioni sessuali. Per questo, nella nostra epoca, neppure la stampa piú responsabile può evitare di impregnare le proprie pagine di sangue, cadaveri e pedofili. Perché è un alimento morboso che la fame di stupore necessita e reclama, una pressione inconscia del pubblico lettore, ascoltatore e spettatore sui mezzi di comunicazione. Ogni generalizzazione è fallace e non si può fare di tutta l’erba un fascio. Naturalmente le differenze ci sono e alcuni media cercano di resistere alla pressione in cui operano senza rinunciare ai vecchi paradigmi di serietà, obiettività, rigore e fedeltà alla verità, sebbene tutto ciò sia noioso o provochi nei lettori e negli ascoltatori il Grande Sbadiglio di cui parlava Octavio Paz. Sottolineo una tendenza che segna la pratica giornalistica del nostro tempo, ammettendo che esistono differenze di professionalità, di coscienza e di comportamento etico nei diversi organi di stampa. Ma la triste verità è che nessun giornale, rivista o programma informativo di oggi può sopravvivere – conservare un pubblico fedele – se disobbedisce in modo assoluto ai tratti distintivi della cultura predominante della società e del tempo in cui opera. Naturalmente i grandi organi di stampa non sono mere banderuole che decidono la propria linea editoriale, la propria condotta morale e le proprie priorità informative soltanto in funzione dei sondaggi delle agenzie sui gusti del pubblico. La loro funzione è, anche, quella di orientare, consigliare, educare e chiarire ciò che è vero o falso, giusto o ingiusto, bello o esecrabile nel frenetico vortice dell’attualità in cui il pubblico si sente perso. Ma affinché questa funzione sia possibile è necessario avere un pubblico. E oggi il giornale o il programma che non fa la comunione sull’altare dello spettacolo corre il rischio di perderlo e di rivolgersi soltanto a fantasmi. Il giornalismo da solo non ha il potere di cambiare la civiltà dello

spettacolo che ha contribuito a forgiare. Questa è una realtà radicata nel nostro tempo, il certificato di nascita delle nuove generazioni, un modo di essere, di vivere e forse di morire del mondo che è toccato in sorte a noi, fortunati cittadini di paesi cui la democrazia, la libertà, le idee, i valori, i libri, l’arte e la letteratura dell’Occidente hanno riservato il privilegio di trasformare l’intrattenimento passeggero nell’aspirazione suprema della vita umana e nel diritto di contemplare con cinismo e disprezzo tutto ciò che ci annoia, ci preoccupa e ci ricorda che la vita non è solo svago, ma anche dramma, dolore, mistero e frustrazione. 1. Cito la lettera di un amico colombiano: «Hanno colpito anche me, soprattutto un certo tipo di neoindigenismo che praticano, come nuova moda, le classi alte e medie di Bogotá (forse anche in altri paesi). Adesso, invece del prete e dello psicoanalista, questi giovani hanno lo sciamano, e ogni quindici giorni prendono la ayahuasca durante cerimonie collettive che hanno un fine terapeutico e spirituale. Coloro che vi partecipano sono, naturalmente, “atei”, gente di cultura, artisti, ex bohémien». 2. C. Granés Maya, Revoluciones modernas, culpas postmodernas, in C. Lisón Tolosana (a cura di), Antropología, horizontes estéticos, Editorial Anthropos, Barcelona 2010, p. 227. 3. J. Martorell, Tirant lo Blanch [trad. it. Tirante il Bianco, Einaudi, Torino 2013, p. 13]. 4. O. Paz, Chiapas: hechos, dichos y gestos, in Id., Obra Completa, Galaxia Gutenberg - Círculo de Lectores, Barcelona 2002 2, vol. II, p. 546. 5. «El País», 6 settembre 2008.

Precedenti

Cacca di elefante «Pietra de Toque» 1, in «El País», 21 settembre 1997.

È difficile da credere, ma in Inghilterra gli scandali artistici sono ancora possibili. La rispettabilissima Royal Academy of Arts, istituzione privata fondata nel 1768 che di solito, nella sua galleria di Mayfair, propone retrospettive di grandi classici ed esposizioni di artisti moderni consacrati dalla critica, in questi giorni ne vede protagonista una capace di deliziare la stampa e i filistei che non perdono tempo con le mostre. Ma grazie allo scandalo, a questa andranno in massa, consentendo cosí – non tutti i mali vengono per nuocere – alla povera Royal Academy di superare ancora per un certo periodo i suoi problemi finanziari cronici. È con questo obiettivo in mente che ha allestito la mostra Sensation, riunendo opere di giovani pittori e scultori britannici provenienti dalla collezione del pubblicitario Charles Saatchi? Se cosí è stato, complimenti, un vero successo. Di sicuro le folle accorreranno a vedere, pur tappandosi il naso, le opere del giovane Chris Ofili, di ventinove anni, allievo del Royal College of Art, star della sua generazione secondo un critico, che presenta le sue opere sopra una base di cacca di elefante solidificata. Non è stata questa peculiarità, tuttavia, a far conquistare a Chris Ofili i titoli dei tabloid, bensí la sua opera blasfema Santa Vergine Maria, in cui la madre di Gesú compare circondata da foto pornografiche. Ma non è questo il quadro che ha suscitato piú commenti. La palma spetta al ritratto di una famosa infanticida, Myra Hindley, che Marcus Harvey, l’astuto artista, ha ricostruito accostando mani puerili. Un’altra originalità della mostra viene dalla collaborazione tra Jake e Dinos Chapman; l’opera s’intitola Accelerazione zigotica e – come indica il titolo? – mostra un gruppo di bambini androgini i cui volti sono, in realtà, falli eretti. Niente da dire sull’infamante accusa di pedofilia che è stata proferita contro gli ispirati autori. Se l’esposizione è davvero rappresentativa di ciò che stimola e

preoccupa i giovani artisti in Gran Bretagna, bisogna concludere che l’ossessione genitale è in cima alla loro scala di priorità. Per esempio, Mat Collishaw ha «perpetrato» un dipinto a olio descrivendo, in un primo piano gigantesco, l’impatto di un proiettile sul cervello umano; ma lo spettatore, in realtà, vede una vagina e una vulva. E che dire dell’audace assemblatore che ha riempito le sue teche in vetro di ossa umane e, a quanto pare, persino di resti di un feto? La questione importante in tutta la faccenda non è che prodotti di questo calibro arrivino a insinuarsi nelle sale espositive piú prestigiose, ma che ci sia ancora gente che si sorprende per queste cose. Per quanto mi riguarda, mi sono accorto che c’era qualcosa di marcio nel mondo dell’arte esattamente trentasette anni fa, a Parigi, quando un mio caro amico, scultore cubano, stanco delle gallerie che si rifiutavano di esporre le splendide sculture in legno su cui lo vedevo lavorare dall’alba al tramonto nella sua chambre de bonne, decise che la strada piú sicura verso il successo nel mondo dell’arte fosse quella di attirare l’attenzione. E, detto fatto, produsse una serie di «sculture» che consistevano in pezzi di carne putrefatta, chiusi in teche di vetro, con mosche vive che svolazzavano intorno ai resti. Una serie di altoparlanti faceva risuonare il ronzio delle mosche in tutto il locale come una minaccia terrificante. Fu un trionfo, in effetti, al punto che persino una stella della Radiotelevisione francese, Jean-Marie Drot, lo invitò nel suo programma. La conseguenza piú inattesa e truculenta dell’evoluzione dell’arte moderna e della miriade di esperimenti di cui si nutre è che non esiste piú alcun criterio obiettivo per valutare o svalutare un’opera d’arte, né per collocarla all’interno di una gerarchia, possibilità venuta meno a partire dalla rivoluzione cubista e scomparsa del tutto con l’arte non figurativa. Adesso tutto può essere arte e nulla lo è, secondo il sacrosanto capriccio degli spettatori, elevati, visto il naufragio di ogni modello estetico, al livello di arbitri e giudici che un tempo spettava soltanto ad alcuni critici. Oggi l’unico criterio piú o meno generalizzato per le opere d’arte non ha nulla di artistico; è quello imposto da un mercato determinato e manipolato da mafie di galleristi e marchands che non rivela gusto e sensibilità estetica, soltanto operazioni pubblicitarie, pubbliche relazioni e in molti casi semplici truffe. Piú o meno un mese fa ho visitato, per la quarta volta nella mia vita (ma sarà l’ultima), la Biennale di Venezia. Mi sono trattenuto per un paio d’ore,

credo, e uscendo mi sono reso conto che a nessuno dei quadri, delle sculture e degli oggetti che avevo visto, nei venti padiglioni circa che avevo attraversato, avrei aperto le porte di casa mia. Lo spettacolo era noioso, farsesco e desolante tanto quanto l’esposizione della Royal Academy, ma moltiplicato per cento e con decine di paesi rappresentati nella patetica mascherata in cui, con l’alibi della modernità, dell’esperimento, della ricerca di «nuovi mezzi espressivi», in realtà si documentava la terribile orfanità di idee, di cultura artistica, di abilità artigianale, di autenticità e di integrità che caratterizza buona parte dell’attività artistica dei nostri giorni. Naturalmente le eccezioni esistono. Ma non sono affatto facili da individuare, perché, a differenza di quanto accade in letteratura, campo in cui non sono ancora crollati del tutto i codici estetici che permettono di identificare l’originalità, la novità, il talento, la disinvoltura formale o la grossolanità e la frode, e dove esistono ancora – per quanto tempo? – case editrici che conservano criteri coerenti e di alto livello, nel caso della pittura è il sistema che è marcio sino al midollo, e spesso gli artisti piú dotati e autentici non riescono ad arrivare al pubblico perché sono incorruttibili o semplicemente inadatti alla lotta nella giungla disonesta dove si decidono i successi e i fallimenti artistici. A pochi isolati dalla Royal Academy, in Trafalgar Square, nel padiglione moderno della National Gallery, c’è una piccola esposizione che dovrebbe essere obbligatoria per tutti i giovani di oggi che aspirano a dipingere, a scolpire, a comporre, a scrivere o a filmare. Si chiama Seurat e i bagnanti ed è dedicata a Bagnanti ad Asnières, uno dei piú famosi dipinti dell’artista (l’altro è Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande Jatte), realizzato tra il 1883 e il 1884. Sebbene Seurat abbia dedicato a questa straordinaria opera due anni della sua vita, durante i quali, come si dice nella mostra, fece numerosi bozzetti e studi dell’insieme e dei particolari del quadro, in realtà l’esposizione prova che tutta la vita dell’artista fu una lenta, ostinata, insonne, fanatica preparazione per poter raggiungere la perfezione formale plasmata in questi due capolavori. In Bagnanti ad Asnières tale perfezione ci meraviglia – e, in qualche modo, ci mette a disagio – nella quiete delle figure che prendono il sole, fanno il bagno nel fiume o contemplano il paesaggio, sotto una luce zenitale che sembra dissolvere nella lucentezza di un miraggio il ponte in lontananza, la locomotiva che lo attraversa e i comignoli di Passy. Questa serenità, questo

equilibrio, questa armonia segreta tra l’uomo e l’acqua, la nube e la barca a vela, gli abiti e i remi sono, certo, la manifestazione di un dominio assoluto dei mezzi, del tratto, della linea e della distribuzione dei colori, conquistato attraverso lo sforzo; ma tutto ciò denota anche una concezione altissima, nobilissima, dell’arte di dipingere, come fonte autosufficiente di piacere e come realizzazione dello spirito, che trova nel fare la migliore ricompensa, una vocazione che si giustifica e si innalza nel suo esercizio. Quando terminò il quadro, Seurat aveva solo ventiquattro anni, cioè l’età media dei giovani stridenti riuniti nella mostra Sensation della Royal Academy; ne visse soltanto altri sei. La sua opera, brevissima, è uno dei fari artistici dell’Ottocento. L’ammirazione che risveglia in noi non deriva soltanto dalla perizia tecnica, dall’artigianato minuzioso, che vi si riflettono. Precedente a tutto ciò, quasi a sostenerlo e potenziarlo, ci sono un’attitudine, un’etica, un modo di assumere la vocazione in funzione di un ideale, senza i quali è impossibile che un artista arrivi a infrangere i limiti di una tradizione e li ampli, come fece Seurat. Questo modo di «decidersi artista» sembra perduto per sempre nei giovani impazienti e cinici di oggi che aspirano a raggiungere la gloria in qualunque modo, anche ergendosi su un mucchio di merda pachidermica. 1. «Piedra de Toque» («pietra di paragone») è il titolo collettivo degli articoli di Vargas Llosa sull’attualità pubblicati nella stampa spagnola e latino-americana. L’opera giornalistica è stata raccolta di recente nell’edizione delle opere complete dell’autore: Piedra de Toque. 1962-2012, 3 voll., Galaxia Gutenberg - Círculo de Lectores, Barcelona 2012 [N. d. T.].

Capitolo secondo Breve discorso sulla cultura

Nel corso della storia, la nozione di cultura ha assunto significati e sfumature diversi. Per molti secoli è stato un concetto inseparabile dalla religione e dalla conoscenza teologica; in Grecia era all’insegna della filosofia e a Roma del diritto, mentre nel Rinascimento era impregnata soprattutto di letteratura e di arti. In periodi piú recenti come l’Illuminismo sono state la scienza e le grandi scoperte scientifiche a conferire il tratto principale all’idea di cultura. Tuttavia, nonostante queste varianti e persino nella nostra epoca, il termine cultura ha sempre indicato un insieme di fattori e di discipline che, secondo un ampio consenso sociale, la costituivano e che essa implicava: la rivendicazione di un patrimonio di idee, valori e opere d’arte, di conoscenze storiche, religiose, filosofiche e scientifiche in costante evoluzione, l’incentivo all’esplorazione di nuove forme artistiche e letterarie e alla ricerca in tutti i campi del sapere. La cultura ha sempre stabilito differenze sociali tra coloro che vi si dedicavano, arricchendola con apporti differenti, facendola progredire, e coloro che non se ne occupavano, la disprezzavano o la ignoravano, o ne erano esclusi per questioni sociali ed economiche. In tutte le epoche storiche, persino nella nostra, in una società ci sono state persone colte e incolte e, tra i due estremi, persone piú o meno colte o piú o meno incolte, e tale classificazione risultava piuttosto chiara a tutti perché per tutti vigevano un medesimo sistema di valori, canoni culturali e modi di pensare, giudicare e comportarsi. Ai nostri giorni tutto ciò è cambiato. La nozione di cultura si è ampliata tanto che, sebbene nessuno abbia il coraggio di riconoscerlo in modo esplicito, è svanita. È diventata un fantasma inafferrabile, eccessivo e metaforico. Ormai nessuno è colto se tutti credono di esserlo o se il contenuto di ciò che chiamiamo cultura si è corrotto a tal punto che tutti possono credere con qualche ragione di esserlo. Il piú remoto segnale di questo processo di progressivo mescolamento e confusione di ciò che rappresenta una cultura è stato dato dagli antropologi, mossi, con tutta la buona fede del mondo, da un intento di rispetto e di

comprensione verso le società primitive che studiavano. Hanno stabilito che la cultura era la somma di credenze, conoscenze, linguaggi, abitudini, abiti, usi, sistemi di parentele, insomma, di tutto ciò che un popolo dice, fa, teme o venera. La definizione non si limitava a stabilire un metodo per esplorare la specificità di un conglomerato umano in rapporto agli altri. Mirava anche, al principio, ad abiurare l’etnocentrismo colmo di pregiudizi e razzista di cui l’Occidente non si è mai stancato di autoaccusarsi. Il proposito non poteva essere piú generoso, ma, lo sappiamo, come dice il famoso detto, l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Perché una cosa è credere che tutte le culture meritino considerazione, visto che tutte forniscono apporti positivi alla civiltà umana, e un’altra, molto diversa, è credere che tutte, per il semplice fatto di esistere, si equivalgano. È incredibile, ma è proprio ciò che è accaduto in ragione di un pregiudizio monumentale originato dal desiderio di abolire una volta per tutte i pregiudizi in materia di cultura. Il politicamente corretto ha finito per convincerci che è arrogante, dogmatico, colonialista e addirittura razzista parlare di culture superiori e inferiori, e persino di culture moderne e primitive. Secondo questa concezione angelica, tutte le culture, a modo loro e nel loro contesto, sono uguali, espressioni equivalenti della meravigliosa diversità umana. Se etnologi e antropologi hanno determinato un tale livellamento orizzontale delle culture, stemperando sino a renderla invisibile l’accezione classica del vocabolo, i sociologi, per parte loro – o per meglio dire, i sociologi impegnati nella critica letteraria – hanno operato una rivoluzione semantica simile, includendo nell’idea di cultura, come sua parte integrante, quella di incultura, mascherata dietro il nome di cultura popolare, una forma di cultura meno raffinata, artificiosa e pretenziosa dell’altra, ma piú libera, genuina, critica, rappresentativa e audace. Dirò immediatamente che da questo processo d’indebolimento dell’idea tradizionale di cultura sono scaturiti libri suggestivi come quello che Michail Bachtin ha dedicato all’Opera di Rabelais e la cultura popolare, in cui il critico russo analizza, con ragionamenti arguti ed esempi gustosi, quella che chiama «cultura popolare», una sorta di contrappunto, a suo parere, alla cultura ufficiale e aristocratica. Quest’ultima si conserva e fiorisce in salotti, palazzi, conventi e biblioteche, mentre quella popolare nasce e vive in strada, all’osteria, durante la festa, il carnevale. La cultura popolare fa la satira di quella ufficiale con battute che, per esempio, mettono a nudo o esagerano quanto l’altra nasconde

e censura considerandolo «bassezza umana», il sesso, le funzioni escrementizie, la volgarità, e contrappone il lussurioso «cattivo gusto» al presunto «buon gusto» delle classi dominanti. Non bisogna confondere la classificazione fatta da Bachtin e da altri critici letterari di estrazione sociologica – cultura ufficiale e cultura popolare – con la divisione che esiste da lungo tempo nel mondo anglosassone tra highbrow culture e lowbrow culture: la cultura alta («con il sopracciglio alzato», di alto profilo intellettuale) e quella bassa («con il sopracciglio abbassato», di basso profilo intellettuale). In questo ultimo caso siamo sempre all’interno dell’accezione classica di cultura e ciò che distingue l’una dall’altra è il grado di facilità o difficoltà che l’espressione culturale propone al lettore, all’ascoltatore, allo spettatore o al semplice cultore. Un poeta come Thomas Stearns Eliot o un romanziere come James Joyce appartengono alla highbrow culture, mentre i racconti e i romanzi di Ernest Hemingway e le poesie di Walt Whitman alla lowbrow culture, perché sono accessibili per il lettore comune. In entrambi i casi siamo all’interno della letteratura tout court, senza aggettivi. Bachtin e i suoi seguaci (consapevoli o inconsapevoli) hanno compiuto un’impresa piú radicale: hanno abolito i confini tra cultura e incultura e hanno dato a manifestazioni incolte una dignità notevole, assicurando che la componente di imperizia, grossolanità e sciatteria che poteva esserci in questo ambito discriminato era compensata dalla loro vitalità, dall’umorismo e dal modo spigliato e autentico di rappresentare esperienze umane ampiamente condivise. In questo modo sono andati scomparendo dal nostro vocabolario, scacciati dalla paura di incorrere nel politicamente scorretto, i confini che tenevano separate la cultura e l’incultura, le persone colte e quelle incolte. Oggi nessuno è piú incolto, o meglio, siamo tutti colti. Basta aprire un giornale o una rivista per trovare, negli articoli di cronisti e giornalisti da strapazzo, innumerevoli riferimenti alla miriade di manifestazioni della cultura universale di cui tutti siamo depositari, come per esempio «la cultura della pedofilia», «la cultura della marijuana», «la cultura punk», «la cultura dell’estetica nazista» e cose del genere. Oggi siamo tutti in qualche modo colti, anche se non abbiamo mai letto un libro, né visitato una mostra di pittura, né ascoltato un concerto, né acquisito nozioni essenziali per il sapere umanistico, scientifico e tecnologico del mondo in cui viviamo. Volevamo farla finita con le élite, che ci ripugnavano moralmente solo a

sentirle nominare per l’eco di privilegio, spregio e discriminazione che strideva con i nostri ideali egualitari e, con l’andar del tempo, da trincee diverse, abbiamo contestato e distrutto la casta esclusiva dei saccenti che si credevano superiori e si vantavano di monopolizzare il sapere, i valori morali, l’eleganza spirituale e il buon gusto. Ma abbiamo ottenuto una vittoria di Pirro, un rimedio peggiore del male: vivere nella confusione di un mondo in cui, paradossalmente, non essendoci modo di sapere che cosa sia cultura, tutto lo è, e niente. Tuttavia, si obietterà, mai nella storia si è avuto un numero cosí elevato di scoperte scientifiche, di novità tecnologiche, né si sono pubblicati cosí tanti libri, aperti tanti musei, pagate somme tanto vertiginose per le opere di artisti antichi e moderni. Come si può parlare di un mondo senza cultura in un’epoca in cui le navicelle spaziali co-struite dall’uomo sono arrivate alle stelle e la percentuale di analfabetismo è la piú bassa di tutta la storia dell’umanità? Tutto questo progresso è indiscutibile, ma non è opera di donne e uomini colti, bensí di specialisti. E la distanza tra la cultura e la specializzazione equivale a quella tra l’uomo di Cro-Magnon e i sibariti nevrastenici di Marcel Proust. D’altra parte, sebbene oggi ci siano molte piú persone alfabetizzate rispetto al passato, è solo una questione di quantità e la cultura non ha molto a che vedere con la quantità, bensí con la qualità. Sono due cose diverse. Alla straordinaria specializzazione cui è giunta la scienza si deve, senza dubbio, l’aver messo insieme nel mondo di oggi un arsenale di armi di distruzione di massa con cui potremmo scomparire piú e piú volte dal pianeta in cui viviamo e contaminare di morte gli spazi adiacenti. Si tratta di una prodezza scientifica e tecnologica e, nello stesso tempo, di una manifestazione evidente di barbarie, ossia, di un fatto prettamente anticulturale se la cultura è, come credeva Eliot, «ciò che rende la vita degna di essere vissuta» 1. La cultura è – o era, quando esisteva – un denominatore comune, qualcosa che manteneva viva la comunicazione tra persone molto diverse, costrette dal progresso delle conoscenze a specializzarsi, ossia ad allontanarsi progressivamente le une dalle altre e a non comunicare piú. Era, nello stesso tempo, una bussola, una guida che permetteva agli esseri umani di orientarsi nel marasma intricato delle conoscenze senza perdere la direzione e avendo piú o meno chiare, nel loro incessante divenire, le priorità, la differenza tra ciò che è importante e ciò che non lo è, tra la strada principale e le deviazioni

inutili. Nessuno può sapere tutto di tutto – non era possibile in passato e non lo è adesso – ma all’uomo colto la cultura serviva per lo meno a stabilire gerarchie e priorità nel campo del sapere e dei valori etici. Nell’èra della specializzazione e del decadimento della cultura, le gerarchie sono scomparse in un’amorfa mescolanza nella quale, in accordo con il ginepraio che equipara le innumerevoli forme di vita battezzate come cultura, tutte le scienze e le tecniche si giustificano e si equivalgono, e non c’è modo di discernere con un minimo di obiettività che cosa sia bello nell’arte e che cosa non lo sia. Persino questo tipo di discorso appare ormai obsoleto, visto che la nozione stessa di bellezza è screditata tanto quanto l’idea classica di cultura. Lo specialista vede e arriva lontano nel suo ambito particolare, ma non sa che cosa stia accadendo intorno a lui e non si distrae per verificare i danni che potrebbe provocare con le sue conquiste in altri ambiti dell’esistenza, estranei al suo. Questa creatura unidimensionale può essere, insieme, un grande specialista e un uomo incolto, perché le sue conoscenze, invece di metterlo in contatto con gli altri, lo isolano in una specialità che è appena una minuscola cella nel vasto dominio del sapere. La specializzazione, che è esistita sin dagli albori della civiltà, è andata aumentando con il progresso delle conoscenze, e ciò che garantiva la comunicazione sociale, i denominatori comuni che costituiscono il collante del tessuto sociale, erano le élite, le minoranze colte, che oltre a tendere ponti e a instaurare scambi tra le diverse province del sapere – le scienze, le lettere, le arti e le tecniche – esercitavano un’influenza, religiosa o laica, ma pur sempre carica di contenuto morale, affinché il progresso intellettuale e artistico non si discostasse troppo da una certa finalità umana, ovvero, mentre garantiva opportunità e condizioni materiali di vita migliori, determinava un arricchimento morale per la società, con la diminuzione della violenza, dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della fame, della malattia e dell’ignoranza. Nel suo Appunti per una definizione della cultura, Thomas Stearns Eliot sosteneva che non si deve identificare quest’ultima con la conoscenza – sembrava parlasse per la nostra epoca piú che per la sua, non essendo allora il problema grave come adesso – perché la cultura precede e sostiene la conoscenza, la guida e le imprime una funzionalità precisa, una sorta di disegno morale. Da credente, Eliot individuava nei valori della religione cristiana il punto di appoggio del sapere e della condotta umana che chiamava cultura. Ma non credo che la fede religiosa sia l’unico sostegno possibile

perché la conoscenza non diventi erratica e autodistruttiva come quella che moltiplica le polveriere atomiche e contamina di veleni l’aria, il suolo e le acque che ci consentono di vivere. Una morale e una filosofia laica hanno svolto, sin dal Settecento e l’Ottocento, questa funzione per un’ampia parte del mondo occidentale. Anche se è vero che, per un numero equivalente o maggiore di esseri umani, la trascendenza è una necessità o un’urgenza esistenziale di cui non si può fare a meno senza sprofondare nell’anomia e nella disperazione. Gerarchie nell’ampio spettro delle conoscenze che costituiscono il sapere; una morale tanto allargata da potersi adattare alla libertà ed esprimere la grande diversità che costituisce l’ambito umano, ma ferma nel suo rifiuto di tutto ciò che avvilisce e degrada la nozione essenziale di umanità e di ciò che minaccia la sopravvivenza della specie; un’élite costituita non in ragione della nascita né del potere economico o politico ma dello sforzo, del talento e dell’opera realizzata e con l’autorità morale per stabilire, in modo elastico e rinnovabile, un ordine di priorità e di importanza dei valori tanto nello spazio proprio delle arti quanto nelle scienze e nella tecnica: questo è stata la cultura nelle situazioni e nelle società piú illuminate che la storia ha conosciuto e questo dovrebbe tornare a essere, se non vogliamo procedere senza meta, alla cieca, come automi, verso la disintegrazione. Solo in tal modo la vita potrà essere sempre piú vivibile per il maggior numero di persone, inseguendo l’irraggiungibile anelito di un mondo felice. In questo processo sarebbe sbagliato attribuire funzioni identiche alle scienze e alle lettere e alle arti. Proprio l’aver dimenticato di distinguerle ha contribuito alla confusione che ai nostri giorni prevale nell’ambito della cultura. Le scienze progrediscono, cosí come la tecnica, annientando ciò che è vecchio, antiquato e obsoleto; in questo ambito il passato è un cimitero, un mondo di cose morte e superate dalle nuove scoperte e invenzioni. Le lettere e le arti si rinnovano ma non progrediscono, non annientano il proprio passato, vi costruiscono sopra, se ne alimentano e lo alimentano contemporaneamente, al punto che pur essendo cosí diversi e distanti, Velázquez è vivo tanto quanto Picasso e Cervantes continua a essere attuale tanto quanto Borges o Faulkner. Le idee di specializzazione e di progresso, inseparabili dalla scienza, non valgono per le lettere e le arti, il che non significa, naturalmente, che la letteratura, la pittura e la musica non cambino e non si evolvano. Ma di

queste ultime non si può dire, come della chimica e dell’alchimia, che la prima abolisca la seconda e la superi. L’opera letteraria e artistica che raggiunge un certo grado di eccellenza non muore con il passare del tempo: continua a vivere e ad arricchire le nuove generazioni e a evolversi con esse. Per questo, sinora le lettere e le arti hanno costituito il denominatore comune della cultura, lo spazio in cui è stata possibile la comunicazione tra gli esseri umani al di là delle differenze di lingue, tradizioni, credenze ed epoche, poiché coloro che oggi si emozionano con Shakespeare, ridono con Molière e si meravigliano con Rembrandt e Mozart dialogano con coloro che li hanno letti, ascoltati e ammirati in passato. Questo spazio comune, che non si è mai specializzato, che è sempre stato alla portata di tutti, ha avuto periodi di complessità estrema, di astrazione e di ermetismo, che limitavano la comprensione di alcune opere a una élite. Eppure le opere sperimentali o d’avanguardia, se esprimevano davvero zone inedite della realtà umana e creavano forme di bellezza duratura, finivano sempre con l’educare i propri lettori, spettatori e ascoltatori, entrando cosí a far parte del patrimonio comune. La cultura può e deve essere, anche, esperimento, naturalmente a condizione che le nuove tecniche e le forme introdotte dall’opera amplino l’orizzonte dell’esperienza della vita, rivelandone i segreti piú nascosti, o proponendoci valori estetici inediti che rivoluzionano la nostra sensibilità e ci forniscono una visione piú sottile e nuova di quell’abisso senza fondo che è la condizione umana. La cultura può essere esperimento e riflessione, pensiero e sogno, passione e poesia e una revisione critica costante e profonda di tutte le certezze, le convinzioni, le teorie e le credenze. Ma non si può allontanare dalla vita reale, dalla vita vera, dalla vita vissuta, che non è mai quella dei luoghi comuni, dell’artificio, del sofisma e del gioco, senza il rischio di disintegrarsi. Posso sembrare pessimista, ma la mia impressione è che, con un’irresponsabilità commisurata alla nostra irreprimibile vocazione al gioco e allo svago, abbiamo fatto della cultura uno di quegli imponenti ma fragili castelli costruiti sulla sabbia che si disfano al primo colpo di vento. 1. Eliot, Appunti per una definizione della cultura cit., p. 26.

Precedenti

L’ora dei ciarlatani «Pietra de Toque», in «El País», 24 agosto 1997.

Quel pomeriggio mi recai all’Institute of Contemporary Arts (Ica) mezz’ora prima della conferenza del filosofo francese, per dare un’occhiata alla libreria che, seppur piccola, mi è sempre sembrata esemplare. Ma la sorpresa fu enorme perché, nel tempo trascorso dalla mia visita precedente, il piccolo spazio aveva subito una rivoluzione nella classificazione dei libri. Le antiquate sezioni di un tempo – letteratura, filosofia, arte, cinema, critica – erano state sostituite da altre postmoderne quali teoria culturale, classe e genere, razza e cultura e uno scaffale denominato «il soggetto sessuale» che mi diede un po’ di speranza, ma che non aveva nulla a che vedere con l’erotismo, bensí con la patrologia filologica o machismo linguistico. La poesia, il romanzo e il teatro erano stati estromessi; l’unica espressione creativa presente consisteva in qualche sceneggiatura cinematografica. Il posto d’onore era riservato al libro di Deleuze e Guattari sulla nomadologia e a un altro, che si sarebbe detto molto importante, di un gruppo di psicoanalisti, giuristi e sociologi sulla decostruzione della giustizia. Neppure uno dei titoli piú in evidenza (come La ridiscussione femminista dell’Io, Il gay materiale – The Material Queer – Ideologia e identità culturale o L’idolo lesbico) mi invogliò, al punto che uscii di lí senza aver comprato nulla, cosa che mi accade di rado in libreria. Andai a sentire Jean Baudrillard perché il sociologo e filosofo francese, tra gli eroi dell’èra postmoderna, è in parte responsabile di ciò che sta accadendo oggi nella vita della cultura (se tale appellativo ha ancora una ragion d’essere, visti fenomeni come quello che sta vivendo la libreria londinese dell’Ica a Londra). E perché volevo vederlo in faccia, dopo tanto tempo. Alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta entrambi frequentavamo le lezioni del terzo anno tenute alla Sorbona da Lucien Goldmann e Roland Barthes e collaborammo al Fronte di liberazione

nazionale algerino, tramite le reti di sostegno create a Parigi dal filosofo Francis Jeanson. Tutti sapevamo già allora che quella di Jean Baudrillard sarebbe stata una carriera intellettuale brillante. Era molto intelligente e aveva una spigliatezza espositiva eccezionale. Allora sembrava molto serio e non si sarebbe offeso se fosse stato descritto come un umanista moderno. Ricordo, in un bistrot del quartiere Saint-Michel, di averlo sentito fare a pezzi con ferocia e ironia la tesi di Foucault sull’inesistenza dell’uomo in Le parole e le cose, che era appena uscito. Aveva un grande buon gusto letterario e in quegli anni era stato tra i primi, in Francia, a riconoscere il genio di Italo Calvino, in uno splendido saggio pubblicato da Sartre su «Les Temps Modernes». Poi, alla fine degli anni Sessanta, scrisse i libri densi, stimolanti, ampollosi e sofisticati che consolidarono il suo prestigio, Il sistema degli oggetti e La società del consumo. Da allora, mentre la sua influenza si diffondeva nel mondo e metteva solide radici soprattutto in ambito anglosassone – una prova: la sala gremita dell’Ica e le centinaia di persone che non sono riuscite a entrare ad ascoltarlo –, il suo talento, in quella che sembra essere una traiettoria inevitabile per i migliori pensatori francesi dei nostri giorni, si concentrò sempre di piú su un’impresa ambiziosa: la demolizione della realtà esistente, sostituita da una verbosa irrealtà. La sua conferenza – che è cominciata con un riferimento a Jurassic Park – me lo ha piú che confermato. I connazionali che lo hanno preceduto in questa impresa di attacco e demolizione sono stati piú timidi di lui. Secondo Foucault l’uomo non esiste, ma per lo meno questa inesistenza c’è, popola la realtà con il suo versatile vuoto. Roland Barthes conferiva sostanza reale soltanto allo stile, cadenza che ogni vita animata è capace di imprimere al fiume di parole in cui l’essere, come un fuoco fatuo, compare e scompare. Per Derrida la vita vera è quella dei testi o discorsi, universo di forme autosufficienti che rimandano e si modificano l’un l’altra, senza arrivare a toccare in alcun modo la remota e pallida ombra del verbo che è la trascurabile esperienza umana. La magica destrezza di Jean Baudrillard era ancora piú definitiva. La realtà reale non esiste piú, è stata sostituita dalla realtà virtuale, quella creata dalle immagini della pubblicità e dei media. Esiste ciò che conosciamo sotto l’etichetta «informazione», ma questo materiale, in realtà, svolge una funzione essenzialmente opposta a quella di informarci su ciò che accade

attorno a noi. Sostituisce e rende inutile il mondo reale dei fatti e delle azioni oggettive: attraverso lo schermo televisivo ci arrivano le versioni clonate dei fatti, selezionate e ritoccate dai commenti dei professionisti dei media, veri e propri illusionisti, che nella nostra epoca fanno le veci di quella che in passato era conosciuta come realtà storica, conoscenza oggettiva degli accadimenti sociali. Gli eventi del mondo reale non possono piú essere oggettivi; nella loro verità e consistenza ontologica nascono già scalzati dal virus disintegrante rappresentato dalla loro proiezione nelle immagini manipolate e falsificate della realtà virtuale; le uniche ammissibili e comprensibili per un’umanità addomesticata dalla fantasia mediatica dentro la quale nasciamo, viviamo e moriamo (come i dinosauri di Spielberg, né piú né meno). Oltre ad abolire la storia, le «notizie» televisive annullano anche il tempo, poiché uccidono ogni prospettiva critica su ciò che accade: sono simultanee agli eventi su cui dovrebbero informare, che non durano piú del lasso di tempo fugace in cui sono enunciati, prima di scomparire, spazzati via da altri eventi che, a loro volta, annullano quelli precedenti, in un vertiginoso processo di snaturamento dell’esistente che è sfociato, semplicemente, nella loro scomparsa e sostituzione da parte della verità della finzione mediatica, la sola realtà reale di questa nostra èra, l’èra – dice Baudrillard – «dei simulacri». Che viviamo in un’epoca di grandi rappresentazioni destinate a complicare la nostra comprensione del mondo reale, mi pare una verità macroscopica. Ma non è forse evidente che nulla ha contribuito tanto a confondere la nostra comprensione di ciò che sta davvero accadendo nel mondo, neppure le menzogne mediatiche, quanto alcune teorie intellettuali che, come i saggi in una delle piú belle fantasie borgesiane, si prefiggono di inserire nella vita il gioco speculativo e i sogni della finzione? Nel saggio scritto per dimostrare che la guerra del Golfo non c’era stata – perché tutto ciò che vedeva protagonisti Saddam Hussein, il Kuwait e le forze alleate non era altro che una farsa televisiva – Jean Baudrillard ha affermato: «Lo scandalo, ai nostri giorni, non consiste in un attentato contro i valori morali, ma contro il principio di realtà». Sottoscrivo questa affermazione in toto. Allo stesso tempo, mi ha dato l’impressione di un’involontaria e feroce autocritica di chi, da un buon numero di anni, ha dedicato la propria arguzia dialettica e il potere della propria intelligenza a provarci che ai nostri giorni lo sviluppo della tecnologia audiovisiva e la rivoluzione delle comunicazioni

hanno abolito la facoltà umana di discernere tra la verità e la menzogna, la storia e la finzione, facendo di noi, bipedi in carne e ossa smarriti nel labirinto mediatico del nostro tempo, meri automi, pezzi del Meccano privati della libertà e della conoscenza, condannati a estinguersi senza avere neppure vissuto. Alla fine della conferenza non mi sono avvicinato per salutarlo né per ricordargli i tempi ormai perduti della nostra giovinezza, quando le idee e i libri ci esaltavano e lui ancora credeva che esistessimo.

Capitolo terzo Proibito proibire

Sono passati alcuni anni da quando a Parigi, alla televisione francese, ho visto un documentario che mi è rimasto impresso nella memoria con immagini che, di tanto in tanto, vengono attualizzate con sferzante vigore dagli eventi quotidiani, soprattutto quando si parla del problema culturale piú grande del nostro tempo: l’istruzione. Il documentario descriveva i problemi di un liceo alla periferia di Parigi, in un quartiere dove le famiglie francesi povere vivono gomito a gomito con gli immigrati di origine subsahariana, latino-americana e magrebina. Questa scuola superiore pubblica, con alunni di entrambi i sessi che formavano un arcobaleno di razze, lingue, usi e religioni, era stato lo scenario di una serie di violenze: percosse ai professori, stupri nei bagni o nei corridoi, scontri tra bande a coltellate e bastonate e, se non ricordo male, persino spari. Non so se tutto questo abbia causato qualche morto, ma alcuni feriti di sicuro, e durante le perquisizioni la polizia ha sequestrato armi, droghe e alcol. Il documentario non voleva essere allarmista ma tranquillizzante, mostrando che il peggio era passato e che, con l’impegno delle autorità, dei professori, dei genitori e degli alunni, le acque si stavano calmando. Per esempio il direttore, senza riuscire a nascondere la propria soddisfazione, faceva presente che grazie al metal detector appena installato, attraverso il quale dovevano passare gli studenti quando entravano a scuola, venivano confiscate spranghe, coltelli e altre armi da taglio. In questo modo, i fatti di sangue si erano ridotti drasticamente. Si era disposto che né professori né alunni potessero girare da soli, neppure nei bagni; che dovessero essere sempre per lo meno in due. In questo modo si evitavano aggressioni e imboscate. E adesso, la scuola aveva due psicologi presenti in pianta stabile per dare consigli ad alunni e alunne – quasi sempre orfani, semiorfani, e provenienti da famiglie minate dalla disoccupazione, dalla promiscuità, dalla delinquenza e dalla violenza di genere – disadattati o attaccabrighe recalcitranti. La cosa che mi ha colpito di piú nel documentario è stata l’intervista a una professoressa che affermava, con naturalezza, una cosa del tipo: «Tout va

bien, maintenant, mais il faut se débrouiller» (Ora va tutto bene, ma bisogna sapersi arrangiare). Spiegava che, al fine di evitare le aggressioni e le percosse di un tempo, lei e un gruppo di professori si erano messi d’accordo per incontrarsi a una certa ora alla fermata della metro piú vicina e raggiungere insieme la scuola. In quel modo il rischio di essere aggrediti dai voyous (i teppistelli) diminuiva. Quella professoressa e i suoi colleghi, che ogni giorno andavano al lavoro come chi va all’inferno, si erano rassegnati, avevano imparato a sopravvivere e non sembrava riuscissero neppure a immaginare che esercitare la docenza potesse essere qualcosa di diverso dalla loro via crucis quotidiana. In quei giorni stavo finendo di leggere uno degli ameni e sofisticati saggi di Michel Foucault in cui, con la consueta brillantezza, il filosofo francese sosteneva che, cosí come la sessualità, la psichiatria, la religione, la giustizia e il linguaggio, nel mondo occidentale l’insegnamento era sempre stato una di quelle «strutture di potere» erette per reprimere e addomesticare il corpo sociale, mettendo in atto sottili ma efficaci forme di sottomissione e di alienazione al fine di garantire il perpetuarsi dei privilegi e il controllo da parte dei gruppi sociali dominanti. Be’, per lo meno nel campo dell’insegnamento, con il Sessantotto l’autorità castrante degli istinti libertari giovanili è andata in mille pezzi. Ma, a giudicare da quel documentario, che si sarebbe potuto girare in molti altri luoghi della Francia e di tutta l’Europa, il decadimento e il discredito dell’idea stessa di docente e di docenza – e, in ultima istanza, di qualunque forma di autorità – non sembravano aver portato alla liberazione creativa dello spirito giovanile, piuttosto alla trasformazione delle scuole cosí liberate, nel migliore dei casi, in istituzioni caotiche e, nel peggiore, in piccole satrapie di prepotenti e delinquenti precoci. È evidente che il Sessantotto non ha eliminato l’«autorità», la quale stava subendo già da tempo un processo di indebolimento generalizzato in tutti i settori, da quello politico a quello culturale, soprattutto nel campo dell’istruzione. Ma la rivoluzione dei ragazzi bene, la crème de la crème delle classi borghesi e privilegiate di Francia, che sono stati protagonisti di quel divertente carnevale che tra i motti del movimento proclamava «Proibito proibire!», ha redatto l’atto di morte del concetto di autorità. E ha dato legittimità e glamour all’idea che ogni autorità sia sospetta, pericolosa e deprecabile e che l’ideale libertario piú nobile consista nel disconoscerla, negarla e destituirla. Il potere non è stato minimamente scalfito da questo

affronto simbolico dei giovani ribelli che, nella maggior parte dei casi senza saperlo, hanno portato sulle barricate gli ideali iconoclasti di pensatori come Foucault. Basti ricordare che nelle prime elezioni celebrate in Francia dopo il Maggio del 1968, la destra gaullista ha ottenuto una vittoria netta. Ma l’autorità, nel senso romano di auctoritas, non di potere bensí, secondo la definizione del vocabolario, di «prestigio e credibilità riconosciuti a una persona o a un’istituzione per la sua legittimità o per il suo valore e la sua competenza in una qualche materia» non ha piú risollevato la testa. Da allora, tanto in Europa quanto in gran parte del resto del mondo, sono quasi inesistenti le figure politiche e culturali che esercitano il magistero, morale e insieme intellettuale, dell’auctoritas classica, e che a livello popolare era incarnato dai maestri, parola che allora suonava cosí bene perché era associata al sapere e all’idealismo. In nessun campo questo è stato tanto catastrofico per la cultura quanto nell’istruzione. Il maestro, spogliato di credibilità e di autorità, in molti casi trasformato, dalla prospettiva progressista, nel rappresentante del potere repressivo, ossia nel nemico cui, per ottenere la libertà e la dignità umana, bisognava opporre resistenza e, persino, da abbattere, non solo ha perduto la fiducia e il rispetto senza i quali non può svolgere in modo efficace la funzione di educatore – di tramite tanto di valori quanto di conoscenze – con i suoi alunni, ma anche la considerazione dei genitori e dei filosofi rivoluzionari che, alla maniera dell’autore di Sorvegliare e punire, l’hanno visto come incarnazione di uno dei sinistri strumenti di cui si avvale – cosí come le guardie carcerarie e gli psichiatri dei manicomi – l’establishment per imbrigliare lo spirito critico e la sana ribellione di bambini e adolescenti. Molti insegnanti, in assoluta buona fede, hanno creduto a questa demonizzazione e hanno contribuito, gettando secchiate di benzina sul fuoco, ad aggravare la rovina facendo proprie alcune delle piú assurde conseguenze dell’ideologia del Sessantotto per quanto riguarda l’istruzione, per esempio il considerare aberrante la bocciatura dei cattivi alunni, far ripetere l’anno e, persino, la pratica dei voti e il sistema di misurazione del rendimento degli studenti, poiché, con simili distinguo, si sarebbero diffusi la nefasta nozione di gerarchia, l’egoismo, l’individualismo, la negazione dell’uguaglianza e il razzismo. È vero che estremi del genere non hanno investito tutti i settori della vita scolastica, ma una delle conseguenze perverse del trionfo delle idee – delle diatribe e delle fantasie – del Sessantotto è stata che in seguito la

divisione di classe si è accentuata drasticamente a partire dai banchi scolastici. La civiltà postmoderna ha disarmato la cultura del nostro tempo dal punto di vista morale e politico e questo spiega in larga misura come alcuni «mostri» che credevamo estinti per sempre dopo la seconda guerra mondiale, quali il nazionalismo piú estremo e il razzismo, siano resuscitati e si aggirino nuovamente nel cuore dell’Occidente, minacciandone ancora una volta i valori e i principî democratici. L’insegnamento pubblico è stato uno dei grandi traguardi della Francia democratica, repubblicana e laica. Nelle sue scuole, di livello molto alto, le ondate successive di alunni godevano di uguali opportunità che correggevano, a ogni nuova generazione, le asimmetrie e i privilegi di famiglia e di classe, aprendo a bambini e giovani dei ceti piú sfavoriti la strada del progresso, del successo professionale e del potere politico. La scuola pubblica era un potente strumento di mobilità sociale. L’impoverimento e il disordine patiti dall’insegnamento pubblico, tanto in Francia quanto nel resto del mondo, hanno dato all’insegnamento privato, cui per ragioni economiche ha accesso soltanto un settore sociale minoritario con redditi elevati, e che ha subito meno le conseguenze della presunta rivoluzione libertaria, un ruolo preponderante nel forgiare i dirigenti politici, professionali e culturali di oggi e del futuro. Non è mai stato cosí vero che «nessuno sa per chi lavora». Credendo di operare per costruire un mondo davvero libero, senza repressione né alienazione né autoritarismo, i filosofi libertari come Michel Foucault e i suoi inconsapevoli discepoli hanno agito in modo molto efficace affinché, grazie alla grande rivoluzione educativa che hanno favorito, i poveri continuassero a essere poveri, i ricchi, ricchi, e i padroni inveterati del potere conservassero la frusta in mano. Non è arbitrario citare il caso paradossale di Michel Foucault. Le sue intenzioni critiche erano serie e il suo ideale libertario innegabile. Il suo rifiuto della cultura occidentale – che, con tutti i suoi limiti e smarrimenti, ha fatto progredire piú di ogni altra la democrazia e i diritti umani nella storia – lo ha indotto a credere che fosse piú facile arrivare all’emancipazione morale e politica prendendo a pietrate i poliziotti, frequentando i bagni gay a San Francisco o i club sadomaso di Parigi, piuttosto che nelle aule scolastiche o nei seggi elettorali. E, nella sua paranoica denuncia degli stratagemmi di cui, a suo parere, si avvaleva il potere per sottomettere l’opinione pubblica ai suoi

dettami, negò sino alla fine la realtà dell’Aids – la malattia che lo uccise – come uno dei tanti inganni dell’establishment e dei suoi agenti scientifici per spaventare i cittadini imponendo loro la repressione sessuale. Il caso di Foucault è paradigmatico: il piú intelligente pensatore della sua generazione ha sempre avuto, accanto alla serietà con cui ha affrontato le proprie ricerche in diversi campi del sapere – la storia, la psichiatria, l’arte, la sociologia, l’erotismo e, naturalmente, la filosofia – una vocazione iconoclasta e polemica – nel suo primo saggio si era proposto di dimostrare che «l’uomo non esiste» – che a tratti diventava mera provocazione intellettuale, gesto privo di serietà. Anche in questo Foucault non era solo, ha fatto proprio un mandato generazionale che avrebbe marchiato a fuoco la cultura del suo tempo: una propensione al sofisma e all’artificio intellettuale. Ecco un’altra ragione della perdita d’«autorità» di molti pensatori del nostro tempo: non erano seri, giocavano con le idee e le teorie come fanno con foulard e birilli i giocolieri dei circhi, che divertono e meravigliano, magari, ma non convincono. Nel campo della cultura, sono arrivati a determinare un curioso capovolgimento di valori: la teoria, cioè l’interpretazione, ha sostituito l’opera d’arte, diventandone la ragion d’essere. Il critico era piú importante dell’artista, era il vero creatore. La teoria giustificava l’opera d’arte, quest’ultima esisteva per essere interpretata dal critico, era una sorta di ipostasi della teoria. Questa divinizzazione della critica ha avuto l’effetto paradossale di allontanare sempre di piú la critica culturale dal grande pubblico, compreso il pubblico colto ma non specializzato, ed è stata tra i fattori piú efficaci della frivolizzazione della cultura del nostro tempo. Spesso quei teorici esponevano le loro teorie usando un gergo esoterico, pretenzioso e molte volte vuoto e sprovvisto di originalità e di profondità, tanto che persino lo stesso Foucault, che in alcune occasioni vi è incappato a propria volta, lo definí «oscurantismo terrorista». A volte il contenuto delirante di alcune teorie postmoderne – il decostruzionismo, in particolare – era piú grave dell’oscurità formale. La tesi condivisa da quasi tutti i filosofi postmoderni, ma esposta principalmente da Jacques Derrida, riteneva falsa la convinzione secondo la quale il linguaggio esprime la realtà. Le parole esprimono se stesse, forniscono «versioni», maschere, travestimenti della realtà, e per questo la letteratura, invece di descrivere il mondo, si limita a descrivere se stessa, è una successione di immagini che documentano le diverse letture della realtà date dai libri tramite

il linguaggio, materia soggettiva e ingannevole. I decostruzionisti sovvertono in questo modo la nostra fiducia in ogni verità, nell’esistenza di verità logiche, etiche, culturali e politiche. In ultima istanza nulla esiste al di fuori del linguaggio, che costituisce il mondo che crediamo di conoscere, il quale non è altro se non una finzione confezionata dalle parole. Mancava solo un piccolo passo per sostenere, come ha fatto Roland Barthes, che «ogni linguaggio è fascista». Secondo i decostruzionisti, il realismo non esiste né è mai esistito, per la semplice ragione che per la conoscenza non esiste neppure la realtà, la quale non è altro se non un intrico di discorsi che, invece di esprimerla, la occultano o la dissolvono in una trama sfuggente e inafferrabile di contraddizioni e versioni che si relativizzano e si negano a vicenda. Che cosa esiste, allora? I discorsi, l’unica realtà afferrabile dalla coscienza umana, discorsi fatti di continui rimandi interni, mediazioni di una vita o di una realtà che possono giungere a noi solo attraverso le metafore o la retorica di cui la letteratura è il maggiore prototipo. Secondo Foucault, il potere usa questi linguaggi per controllare la società e per stroncare sul nascere qualunque tentativo di scalzare i privilegi del ceto dominante che lo serve e lo rappresenta. Questa è forse una delle tesi piú discutibili del postmodernismo. Perché, in realtà, la tradizione piú viva e creativa della cultura occidentale non è stata per nulla conformista, ma esattamente il contrario: una messa in discussione incessante di tutto ciò che esiste. È stata, piuttosto, trasgressiva, ha criticato tenacemente i valori stabiliti e, da Socrate a Marx, da Platone a Freud, passando attraverso pensatori e scrittori come Shakespeare, Kant, Dostoevskij, Joyce, Nietzsche, Kafka, nel corso della storia ha elaborato mondi artistici e sistemi di idee che si contrapponevano radicalmente a tutti i poteri costituiti. Se fossimo solo i linguaggi che il potere ci impone, non sarebbe mai nata la libertà, non ci sarebbe stata evoluzione storica e non sarebbero mai fiorite opere originali in campo letterario e artistico. Le reazioni critiche agli inganni e agli eccessi intellettuali del postmodernismo non sono mancate. Per esempio, la sua tendenza a proteggersi e a guadagnare una certa inattaccabilità per le proprie teorie utilizzando il linguaggio della scienza ha subito un duro colpo quando, nel 1998, due scienziati veri, i professori Alan Sokal e Jean Bricmont, hanno pubblicato Imposture intellettuali, dimostrazione schiacciante dell’uso irresponsabile, improprio e spesso fraudolento delle scienze fatto nei loro

saggi da filosofi e pensatori prestigiosi quali Jacques Lacan, Julia Kristeva, Luce Irigaray, Bruno Latour, Jean Baudrillard, Gilles Deleuze, Félix Guattari e Paul Virilio, tra gli altri. Bisognerebbe ricordare che anni addietro – nel 1957 – nel suo primo libro, A che servono i filosofi?, Jean-François Revel aveva denunciato con violenza l’impiego di stili astrusi e falsamente scientifici da parte dei pensatori piú influenti della sua epoca per nascondere l’insignificanza delle loro teorie o la loro ignoranza. Un’altra critica severa delle teorie e delle tesi della moda postmoderna fu quella di Gertrude Himmelfarb che, in una polemica raccolta di saggi intitolata On Looking Into the Abyss (1994) vi si scaglia contro e, soprattutto, prende di mira lo strutturalismo di Michel Foucault e il decostruzionismo di Jacques Derrida e Paul de Man, correnti di pensiero che le apparivano vacue confrontate con le scuole tradizionali della critica letteraria e storica. Il suo libro è anche un omaggio a Lionel Trilling, l’autore di The Liberal Imagination: Essays on Literature and Society (1950) e a molti altri saggi sulla cultura che hanno o hanno avuto grande influenza sulla vita intellettuale e accademica del dopoguerra negli Stati Uniti e in Europa, e che oggi pochi ricordano e quasi nessuno legge. Trilling non era un liberale in campo economico (in questo ambito abbracciava piuttosto le tesi socialdemocratiche), ma in quello politico sí, data la sua pertinace difesa della virtú della tolleranza, per lui suprema, della legge come strumento di giustizia, e soprattutto in quello culturale, data la sua fede nelle idee come motore del progresso e la sua convinzione che le grandi opere letterarie arricchissero la vita, migliorassero gli uomini e costituissero la base della civiltà. A un postmoderno tali convinzioni devono apparire di un’ingenuità disarmante o di una stupidità supina, al punto che nessuno si prende neppure la briga di confutarle. La professoressa Himmelfarb mostra come, nonostante i pochi anni che separano la generazione di Lionel Trilling da quella di Derrida o Foucault, esista un vero e proprio abisso incolmabile tra il primo, convinto che la storia umana sia una sola, la conoscenza un’impresa totalizzante, il progresso una realtà possibile e la letteratura un’attività dell’immaginazione con radici nella storia e proiezioni nella morale, e chi ha relativizzato le nozioni di verità e di valore sino a renderle finzioni, stabilendo come assioma che tutte le culture si equivalgono, dissociando la letteratura dalla realtà e confinandola in un mondo autonomo di testi che

rimandano ad altri testi senza mai avere alcun rapporto con l’esperienza vissuta. Non condivido il discredito che Gertrude Himmelfarb getta su Foucault. Con tutti i sofismi e le esagerazioni che gli si possono rimproverare, per esempio le sue teorie sulle «strutture di potere» implicite in ogni linguaggio, il quale, secondo il filosofo francese, trasmetterebbe sempre le parole e le idee che privilegiano i gruppi sociali egemonici, Foucault ha contribuito in modo decisivo a dare ad alcune esperienze marginali ed eccentriche (della sessualità, della repressione sociale, della follia) un diritto di cittadinanza nella vita culturale. Ma le critiche della Himmelfarb relative ai danni prodotti dalla decostruzione nell’ambito degli studi umanistici mi paiono irrefutabili. Ai decostruzionisti dobbiamo, per esempio, che ai nostri giorni sia poco meno che inconcepibile parlare di studi umanistici, ritenuti un sintomo di degradazione intellettuale e di cecità scientifica. Ogni volta che mi sono confrontato con la prosa oscura e con le analisi letterarie e filosofiche soffocanti di Jacques Derrida ho avuto la sensazione di perdere miseramente il mio tempo. Non perché creda che ogni saggio critico debba essere utile – mi basta che sia divertente o stimolante – ma perché se la letteratura è quello che questo autore suppone – una successione o un arcipelago di testi autonomi, impermeabili, senza possibile contatto con la realtà esterna e pertanto immuni a ogni valutazione e a ogni interrelazione con il progresso della società e il comportamento individuale – quale sarebbe la ragione di decostruirli? A che scopo tutti quei laboriosi sforzi di erudizione, di archeologia retorica, quelle ardue genealogie linguistiche, compiute avvicinando o allontanando un testo da un altro sino a costruire artificiose decostruzioni intellettuali che sono una sorta di vuoto animato? Esiste un’incongruenza assoluta in un’impresa critica che comincia proclamando l’inettitudine essenziale della letteratura a influire sulla vita (o a subirne l’influenza) e a trasmettere verità di qualunque genere associabili alla problematica umana e che, poi, si affanna a dissezionarla, spesso in uno sfoggio intellettuale pieno di pretese insopportabili, monumenti di parole inutili. Quando i teologi medievali disquisivano sul sesso degli angeli non perdevano tempo: per quanto potesse sembrare insignificante, per loro era una pratica elevata, legata in qualche modo a questioni importanti come la salvezza o la condanna eterne. Invece smontare oggetti verbali il cui assemblaggio viene considerato, nel migliore dei casi, un’intensa sciocchezza

formale, una gratuità verbosa e narcisistica che non insegna nulla di nulla all’infuori di se stessa ed è priva di morale, significa trasformare la critica letteraria in una pratica gratuita e solipsistica. Vista l’influenza esercitata dalla decostruzione, non stupisce che in molte università occidentali (e in particolare negli Stati Uniti), i dipartimenti di letteratura stiano rimanendo senza alunni, che vi si infiltrino tanti ciarlatani, e che ci siano sempre meno lettori non specializzati per i libri di critica letteraria (che bisogna cercare con il lanternino nelle librerie, dove è raro trovarli, in angoli remoti, tra i manuali di judo e karate o gli oroscopi cinesi). Per la generazione di Lionel Trilling, invece, la critica letteraria aveva a che fare con le questioni centrali dell’agire umano, poiché vedeva nella letteratura la testimonianza per eccellenza di idee, miti, credenze e sogni che fanno funzionare la società, e delle frustrazioni segrete o degli stimoli che spiegano la condotta individuale. La sua fede nel potere della letteratura sulla vita era cosí grande che, in un saggio di The Liberal Imagination, Trilling si chiedeva se il mero insegnamento della letteratura non fosse, in sé, un modo di snaturare l’oggetto di studio. Le sue argomentazioni si riassumevano in questo aneddoto: «Ho chiesto ai miei studenti “di guardare l’abisso” (le opere di autori come Eliot, Yeats, Joyce, Proust) e loro, obbedienti, lo hanno fatto prendendo i loro appunti, per poi commentare: davvero molto interessante, no?» In altre parole, l’accademia congelava, rendeva superficiale e trasformava in sapere astratto la tragica e convulsa umanità contenuta in quelle opere dell’immaginazione, privandole della loro potente forza vitale, della loro capacità di rivoluzionare la vita del lettore. La professoressa Himmelfarb fa notare con malinconia quanta acqua sia passata sotto i ponti da quando Lionel Trilling esprimeva la preoccupazione che la letteratura, diventando materia di studio, potesse essere spogliata della sua anima e del suo potere, sino all’allegra leggerezza con cui un autore come Paul de Man poteva, vent’anni dopo, avvalersi della critica letteraria per decostruire l’Olocausto, in un’operazione intellettuale non molto distante da quella degli storici revisionisti impegnati a negare lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti. Ho riletto varie volte il saggio di Lionel Trilling sull’insegnamento della letteratura, soprattutto quando mi è capitato di fare il professore. È vero che c’è qualcosa di ingannevole e paradossale nel ridurre a un’esposizione pedagogica, inevitabilmente schematica e impersonale – e a compiti scolastici

che, come se non bastasse, bisogna valutare – opere dell’immaginazione che sono nate da esperienze profonde e, a volte, strazianti, da vere e proprie immolazioni umane, e che non possono essere valutate dalla cattedra di un auditorium, ma soltanto nell’intimità concentrata della lettura, e possono essere misurate correttamente attraverso gli effetti e le ripercussioni che hanno sulla vita privata del lettore. Non ricordo che nessun mio professore di letteratura mi abbia fatto sentire che un buon libro ci avvicina all’abisso dell’esperienza umana e ai suoi ribollenti misteri. I critici letterari, invece, sí. Ne ricordo soprattutto uno, della generazione di Trilling, che su di me ebbe un effetto simile a quello che Trilling esercitò su Gertrude Himmelfarb, trasmettendomi la sua convinzione che il peggio e il meglio dell’avventura umana passassero sempre attraverso i libri e che questi aiutassero a vivere. Mi riferisco a Edmund Wilson. Quando ero studente mi è capitato tra le mani il suo straordinario saggio Stazione Finlandia, sull’evoluzione delle idee e la letteratura socialiste, da quando Michelet ha scoperto Vico sino all’arrivo di Lenin a San Pietroburgo. In quelle pagine dallo stile diafano pensare, immaginare e inventare avvalendosi della penna era un modo magnifico di agire e imprimere un segno alla storia; in ogni capitolo si comprovava che i grandi sommovimenti sociali e i destini minimi individuali erano legati visceralmente al mondo impalpabile delle idee e delle finzioni letterarie. Edmund Wilson non visse il dilemma pedagogico di Lionel Trilling per quanto concerne la letteratura, perché non volle mai diventare professore universitario. In realtà esercitò un magistero molto piú ampio di quello delimitato dalle mura accademiche. I suoi articoli e le sue recensioni venivano pubblicati da riviste e giornali (cosa che un critico decostruzionista considererebbe una forma estrema di degradazione intellettuale) e alcuni dei suoi libri – come quello che scrisse sui manoscritti trovati nel Mar Morto – erano reportage per il «New Yorker». Ma lo scrivere per il grande pubblico profano non intaccò il suo rigore o la sua audacia intellettuale; piuttosto lo costrinse a cercare di essere sempre responsabile e intelligibile al momento di scrivere. Responsabilità e intelligibilità procedono di pari passo con una certa concezione della critica letteraria, con la convinzione che l’ambito letterario abbracci l’intera esperienza umana, dal momento che la riflette e che contribuisce in modo decisivo a modellarla, e che, per questo stesso motivo,

dovrebbe essere patrimonio di tutti, un’attività che attinge al fondo comune della specie e cui si può fare incessantemente ricorso in cerca di un ordine quando si pensa di essere immersi nel caos, uno sprone nei momenti di scoraggiamento e di dubbio e incertezze quando la realtà che ci circonda sembra troppo sicura e affidabile. Al contrario, se si pensa che la funzione della letteratura sia solo quella di contribuire all’inflazione retorica di un ambito specializzato della conoscenza, e che le poesie, i romanzi, i drammi prolifichino con l’unico obiettivo di generare un certo scompiglio formale nel corpo linguistico, il critico può, alla maniera di molti postmoderni, abbandonarsi impunemente ai piaceri dello sproposito concettuale e della tenebra espressiva.

Precedenti

Il velo islamico «Pietra de Toque», in «El País», giugno 2003.

Nell’autunno del 1987, alcune alunne della scuola francese Gabriel Havez, a Creil, si sono presentate in classe indossando il velo islamico e la direzione dell’istituto ha proibito loro di entrare, ricordando alle bambine musulmane il carattere laico dell’insegnamento pubblico in Francia. Da allora nel paese si è aperto un acceso dibattito sull’argomento, che da poco è tornato attuale con l’annuncio che il primo ministro Jean-Pierre Raffarin si propone di presentare in parlamento un progetto che dia carattere di legge alla proibizione di portare abiti o segni religiosi e politici «di ostentato proselitismo» nelle scuole statali. Nel dibattito sulle questioni civili, la Francia continua a essere una società esemplare: durante la settimana che ho appena trascorso a Parigi ho seguito, affascinato, la stimolante controversia. La questione ha diviso in modo trasversale l’ambiente intellettuale e politico, al punto che tra sostenitori e oppositori della proibizione del velo islamico nelle scuole si trovano, mescolati, intellettuali e politici di sinistra e di destra, prova ulteriore della crescente inanità di categorie cosí rigide per capire le scelte ideologiche del XXI secolo. Nella disputa il presidente Jacques Chirac dissente dal suo primo ministro e, per contro, concordano con lui alcuni socialisti dell’opposizione come gli ex ministri Jack Lang e Laurent Fabius. Non bisogna essere indovini per capire che il velo islamico è solo la punta dell’iceberg e che in gioco, nel dibattito, ci sono due modi diversi di intendere i diritti umani e il funzionamento di una democrazia. Di primo acchito, sembrerebbe che, in una prospettiva liberale – che è quella di chi scrive – non possa sussistere il minimo dubbio. Il rispetto dei diritti individuali esige che una persona, bambino o adulto che sia, possa vestirsi come vuole senza che lo Stato s’immischi nella sua decisione, ed è

questa la politica che viene applicata, per esempio, nel Regno Unito dove, nei quartieri periferici di Londra, schiere di bambine musulmane entrano in classe velate dalla testa ai piedi, come a Riyad o ad Amman. Se tutta l’educazione scolastica fosse privatizzata, il problema non si porrebbe: ogni gruppo o comunità organizzerebbe le proprie scuole in base ai propri criteri e alle proprie regole, limitandosi a seguire alcune disposizioni generali dello Stato sul programma didattico. Ma ciò non accade né accadrà in alcuna società, per lo meno in un futuro prevedibile. Quindi la questione del velo islamico non è cosí semplice se la si esamina piú da vicino e nella cornice delle istituzioni che garantiscono lo Stato di diritto, il pluralismo e la libertà. Requisito primario e irrinunciabile di una società democratica è il carattere laico dello Stato, la sua completa indipendenza rispetto alle istituzioni ecclesiastiche, che è l’unico modo di garantire l’interesse comune al di sopra degli interessi personali, e la libertà assoluta di fedi e di pratiche religiose ai cittadini, senza privilegi né discriminazioni di sorta. Una delle piú grandi conquiste della modernità, in cui la Francia è stata un esempio di civiltà e ha rappresentato un modello per le altre società democratiche di tutto il mondo, è stato il laicismo. Quando, nell’Ottocento, si è istituita la scuola pubblica laica, è stato compiuto un passo eccezionale verso la creazione di una società aperta, stimolante per la ricerca scientifica e la creatività artistica, per la coesistenza plurale di idee, sistemi filosofici, correnti estetiche, per lo sviluppo dello spirito critico e anche, perché no, di una spiritualità profonda. Perché è un grande errore credere che uno Stato neutrale in materia religiosa e una scuola pubblica laica attentino alla sopravvivenza della religione nella società civile. È vero piuttosto il contrario, e lo dimostra proprio la Francia, paese nel quale la percentuale di coloro che credono e che praticano le religioni – nella stragrande maggioranza cristiani, naturalmente – è una delle piú alte del mondo. Uno Stato laico non è nemico della religione; è uno Stato che, per salvaguardare la libertà dei cittadini, ha allontanato la pratica religiosa dalla sfera pubblica limitandola all’ambito che le corrisponde, quello della vita privata. Perché quando la religione e lo Stato si confondono, scompare irrimediabilmente la libertà; al contrario, quando i due si mantengono separati, la religione tende in modo graduale e inevitabile a democratizzarsi, ossia ogni chiesa impara a coesistere con altre chiese e altri modi di credere, e a tollerare gli agnostici e gli atei. Questo processo di

secolarizzazione ha reso possibile la democrazia. A differenza del cristianesimo, l’islam non lo ha sperimentato sino in fondo, ma soltanto a livello embrionale e transitorio, e questa è una delle ragioni per cui la cultura della libertà fa cosí tanta fatica a radicarsi nei paesi islamici, dove lo Stato è concepito non come contrappeso della fede, ma al servizio di quest’ultima e, spesso, come la sua spada fiammeggiante. In una società dove la legge è la sharia, la libertà e i diritti individuali si eclissano cosí come scomparivano negli ergastoli dell’Inquisizione, né piú né meno. Le bambine che le famiglie e le comunità di appartenenza mandano con il velo islamico nelle scuole pubbliche francesi sono piú di ciò che sembrano a prima vista; sono l’avamposto di una campagna intrapresa dai settori piú militanti dell’integralismo musulmano in Francia, che cercano di conquistarsi una testa di ponte non solo nel sistema educativo ma in tutte le istituzioni della società civile francese. Il loro obiettivo è fare in modo che sia riconosciuto il loro diritto alla differenza, in altre parole, il diritto a godere, in quegli spazi pubblici, di una extraterritorialità civile compatibile con ciò che tali settori proclamano come propria identità culturale, basata sulle loro credenze e pratiche religiose. Il processo culturale e politico che si nasconde dietro alle innocue definizioni di comunitarismo o multiculturalismo con cui si difendono i loro mentori, è una delle piú grandi sfide che deve affrontare la cultura della libertà ai nostri giorni e, a mio giudizio, è la battaglia che si è appena scatenata in Francia dietro le scaramucce e gli scontri in apparenza superficiali e aneddotici tra sostenitori e oppositori della possibilità di autorizzare l’uso del velo islamico per le bambine musulmane nelle scuole pubbliche francesi. Ci sono per lo meno tre milioni di musulmani radicati nel territorio francese (qualcuno dice che siano molti di piú, se si considerano anche i clandestini). E, tra questi, naturalmente, vi sono settori moderni e di chiara filiazione democratica, come quello rappresentato dal rettore della moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, che ho incontrato qualche mese fa a Lisbona, durante una conferenza organizzata dalla Fondazione Gulbenkian, e che mi ha colpito per la sua civiltà, la vasta cultura e lo spirito tollerante. Ma, purtroppo, questa corrente moderna e aperta, nelle recenti elezioni del Consiglio per il culto musulmano e dei consigli regionali è stata sconfitta dai settori radicali e vicini all’integralismo piú militante, raggruppati nell’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia (Uoif), una delle istituzioni che ha

lottato di piú perché fosse riconosciuto alle bambine musulmane il diritto di assistere velate alle lezioni, «in segno di rispetto verso la loro identità e la loro cultura». Questo argomento, portato agli estremi, può andare avanti all’infinito. O, meglio, se viene accettato, crea solidi precedenti per accettare anche altri segni e pratiche falsamente «essenziali» della cultura quali i matrimoni delle ragazze combinati dai genitori, la poligamia e, all’estremo, persino l’ablazione femminile. Dietro un discorso dalla parvenza progressista si cela una posizione oscurantista: con che diritto l’etnocentrismo colonialista dei francesi di antica ascendenza vuole imporre ai francesi recentissimi di religione musulmana usi e costumi inconciliabili con le loro tradizioni, la loro morale e la loro religione? In questo modo, sotto le spoglie di un presunto pluralismo del tutto assurdo, il Medioevo potrebbe resuscitare e instaurare un’enclave anacronistica, disumana e fanatica nella società che ha proclamato, per prima nel mondo, i Diritti dell’uomo. Questo ragionamento aberrante e demagogico deve essere denunciato con forza, per ciò che è: un gravissimo pericolo per il futuro della libertà. Al giorno d’oggi l’immigrazione provoca un allarme esagerato in molti paesi europei, tra cui la Francia, dove questa paura spiega in buona parte l’elevatissimo numero di voti che ha ottenuto, al primo turno delle scorse elezioni presidenziali, il Front National, movimento xenofobo e neofascista guidato da Le Pen. Si tratta di timori assurdi e ingiustificati, perché l’immigrazione è assolutamente indispensabile affinché le economie dei paesi europei, con un andamento demografico stagnante o decrescente, continuino a crescere e gli attuali livelli di vita della popolazione si mantengano o si elevino. L’immigrazione, quindi, non deve essere intesa come l’incubo che popola le fantasie di tanti europei, bensí come un’iniezione di energia e di forza lavorativa e creativa cui i paesi occidentali devono spalancare le proprie porte favorendo l’integrazione dell’immigrato. Ma, questo sí, senza che in tal modo la conquista piú ammirevole dei paesi europei, che è la cultura democratica, venga intaccata, bensí, al contrario, si rinnovi e si arricchisca con l’adozione di nuovi cittadini. È ovvio che sono loro a doversi adattare alle istituzioni della libertà, e non queste ultime a dover rinunciare a se stesse per adeguarsi a pratiche o tradizioni incompatibili con le loro. In questo, non ci può né deve essere concessione alcuna, in nome delle illusioni di un comunitarismo o multiculturalismo pessimamente intesi. Tutte le culture, credenze e costumi devono trovare spazio in una società aperta, sempre e

quando non siano in contrasto con i diritti umani e i principî di tolleranza e di libertà che costituiscono l’essenza della democrazia. I diritti umani e le libertà pubbliche e private che una società democratica garantisce offrono un’ampia gamma di possibilità di vita che consentono la coesistenza al suo interno di tutte le religioni e le fedi, ma queste, in molti casi, come è accaduto al cristianesimo, devono rinunciare alle intransigenze delle proprie dottrine – il monopolio, l’esclusione dell’altro e le pratiche discriminatorie e lesive dei diritti umani – per guadagnarsi il diritto di cittadinanza in una società aperta. Hanno ragione Alain Finkielkraut, Élisabeth Badinter, Régis Debray, JeanFrançois Revel e tutti coloro che si schierano dalla loro parte in questa polemica: nelle scuole pubbliche francesi il velo islamico deve essere proibito in nome della libertà.

Capitolo quarto La scomparsa dell’erotismo

Ciò che è capitato alle arti e alle lettere e, in generale, a tutta la vita intellettuale, è accaduto al sesso. La civiltà dello spettacolo non si è limitata a dare un calcio alla vecchia cultura; sta anche distruggendo una delle sue manifestazioni e conquiste piú eccelse: l’erotismo. Un esempio tra tanti. Alla fine del 2009, in Spagna, c’è stato un piccolo scandalo mediatico quando si è scoperto che la Giunta dell’Estremadura, guidata dai socialisti, aveva organizzato, nell’ambito del progetto di educazione sessuale rivolto agli studenti, laboratori di masturbazione per ragazzini e ragazzine dai quattordici anni in su, campagna battezzata, non senza una certa malizia, El placer está en tus manos, «Il piacere è nelle tue mani». Di fronte alle proteste di alcuni contribuenti per il modo di investire il denaro delle imposte, i portavoce della Giunta si sono giustificati sostenendo che l’educazione sessuale dei ragazzini era indispensabile per «prevenire gravidanze indesiderate», e che le lezioni di masturbazione servivano per «evitare mali peggiori». Nella polemica che la questione ha sollevato, la Giunta dell’Estremadura ha ricevuto i complimenti e il sostegno della Giunta dell’Andalusia, la cui consigliera per le Pari opportunità e per il Benessere sociale, Micaela Navarro, ha annunciato che a breve in Andalusia sarebbe partita una campagna simile a quella dell’Estremadura. Dall’altra parte, il tentativo di bloccare i laboratori di masturbazione tramite un’azione giudiziaria intrapresa da un’organizzazione vicina al Partito popolare e battezzata, con arguzia non minore, «Mani Pulite», è fallita rovinosamente poiché la procura del Tribunale dell’Estremadura non ha dato corso alla denuncia e l’ha archiviata. Bambini e bambine del mondo, masturbatevi! Quanta acqua è passata sotto i ponti sul pianeta che nutre noi umani da quando, ai tempi della mia infanzia, i padri salesiani e i Fratelli delle scuole cristiane di La Salle – scuole in cui ho studiato – ci terrorizzavano con lo spauracchio che toccandoci saremmo diventati ciechi, tubercolotici e deficienti. Sessant’anni dopo, lezioni di seghe nelle scuole! Il progresso è questo, signori.

Lo è davvero? La curiosità mi tempesta il cervello di domande. Daranno i voti? Faranno gli esami? I laboratori saranno teorici o anche pratici? Quali prodezze dovranno compiere gli alunni per prendere il voto piú alto e quali smacchi subire per essere bocciati? Dipenderà dalla quantità di conoscenze che la loro memoria tratterrà o dalla velocità, dalla quantità e dalla consistenza degli orgasmi prodotti dall’abilità manuale di ragazzini e ragazzine? Non è uno scherzo. Se si ha il coraggio di avviare un laboratorio per illuminare l’infanzia sulle tecniche masturbatorie, queste domande sono pertinenti. Non ho la minima obiezione morale da opporre all’iniziativa El placer está en tus manos della Giunta dell’Estremadura. Riconosco le buone intenzioni che la animano e ammetto che, tramite campagne del genere, non è impossibile che diminuiscano le gravidanze indesiderate. La mia critica è di natura sensuale e sessuale. Temo che, invece di liberare i bambini dalle superstizioni, dalle menzogne e dai pregiudizi che tradizionalmente hanno circondato il sesso, i laboratori di masturbazione lo banalizzino ancor piú di quanto non abbia fatto la civiltà dei nostri tempi, al punto di trasformarlo in un esercizio privo di mistero, dissociato dal sentimento e dalla passione, sottraendo cosí alle generazioni future una fonte di piacere che sinora ha alimentato in modo piuttosto fecondo l’immaginazione e la creatività degli esseri umani. La vacuità e la volgarità che hanno minato la cultura hanno rovinato in qualche modo anche un’altra delle piú importanti conquiste della nostra epoca nei paesi democratici: la liberazione sessuale, la scomparsa di molti tabú e pregiudizi che circondavano la vita erotica. Perché, come in ambito letterario e artistico, la scomparsa della forma nella vita sessuale non costituisce un progresso ma un regresso che snatura la libertà e impoverisce il sesso, riducendolo a un livello puramente istintivo e animale. La masturbazione non ha bisogno di essere insegnata, si scopre nell’intimità ed è una delle pratiche che fondano la vita privata. Separa a poco a poco il bambino, la bambina, dall’ambiente familiare, li individualizza e li sensibilizza rivelando loro il mondo segreto dei desideri, e istruendoli su questioni capitali come il sacro, il proibito, il corpo e il piacere. Per questo, distruggere i riti privati ed eliminare la discrezione e il pudore che, da quando la società umana ha raggiunto la civiltà, hanno accompagnato il sesso, non significa combattere un pregiudizio ma amputare la vita sessuale della

dimensione che è fiorita intorno a essa a mano a mano che la cultura e lo sviluppo delle arti e delle lettere l’hanno arricchita trasformandola, a sua volta, in opera d’arte. Far uscire il sesso dalle alcove per esibirlo nella pubblica piazza non significa, paradossalmente, liberarlo ma riportarlo ai tempi delle caverne quando, come le scimmie e i cani, le coppie non avevano ancora imparato a fare l’amore, e si limitavano ad accoppiarsi. La presunta liberazione del sesso, uno dei tratti piú evidenti di modernità nelle società occidentali, in cui si inscrive l’idea di impartire lezioni di masturbazione nelle scuole, forse riuscirà ad abolire alcuni stupidi pregiudizi sull’onanismo. Sarebbe ora. Ma potrebbe anche assestare un altro duro colpo all’erotismo e, forse, finirlo del tutto. Chi ne uscirebbe vincitore? Non certo i libertari né i libertini, ma i puritani e le chiese. E il delirio e la banalizzazione dell’amore che caratterizzano la civiltà contemporanea nel mondo occidentale continuerebbero. L’idea dei laboratori di masturbazione è un nuovo passo nel movimento che, per individuare una data di nascita (in realtà precedente), è cominciato a Parigi nel maggio del 1968 e mira a eliminare gli ostacoli e le prevenzioni di carattere religioso e ideologico che, da tempo immemore, hanno represso la vita sessuale provocando infinite sofferenze soprattutto alle donne e alle minoranze sessuali, nonché frustrazioni, nevrosi e altri squilibri psichici in chi, a causa della rigidità della morale dominante, si è visto discriminato, censurato e condannato a una clandestinità incerta. Nei paesi occidentali questo processo ha avuto conseguenze salutari, naturalmente, anche se in altre culture, come quella islamica, ha esacerbato le proibizioni e la repressione. Il culto della verginità che pesava come un macigno sulla donna è svanito e grazie a questo, e alla diffusione generalizzata dell’uso della pillola, le donne di oggi godono, se non proprio della stessa libertà degli uomini, per lo meno di un margine di autonomia sessuale infinitamente piú ampio rispetto alle loro nonne e bisnonne e alle loro congeneri dei paesi musulmani e del Terzo Mondo. D’altra parte, pur non essendo scomparsi del tutto, sono diminuiti i pregiudizi e gli anatemi e le normative che sino a pochi anni fa punivano l’omosessualità considerandola una pratica perversa. A poco a poco, nei paesi occidentali si comincia a permettere il matrimonio tra persone del medesimo sesso con gli stessi diritti che hanno le coppie eterosessuali, compresa l’adozione dei bambini. E, progressivamente, si sta anche diffondendo l’idea che, in materia sessuale,

ciò che fanno o non fanno tra loro gli adulti dotati di ragione e intendimento, è prerogativa loro e nessuno, a cominciare dallo Stato per finire con le chiese, deve immischiarsi nella questione. Tutto ciò costituisce un progresso, naturalmente. Ma è un errore credere, come i promotori di questo movimento di liberazione, che desacralizzandolo, spogliandolo dei veli, del pudore e dei rituali che lo accompagnano da secoli, abolendo dalla sua pratica ogni forma simbolica di trasgressione, il sesso passerà a essere un’attività urbana sana e normale. Il sesso è sano e normale solo negli animali. Lo è stato nei bipedi quando non eravamo ancora del tutto umani, ossia, quando il sesso in noi era sfogo di istinti e poco piú, una scarica fisica di energia che garantiva la riproduzione. La deanimalizzazione della specie è stato un processo lungo e complicato e vi ha giocato un ruolo decisivo quello che Karl Popper chiama «il terzo mondo», proprio della cultura e dell’invenzione, la lenta comparsa dell’individuo sovrano, la sua emancipazione dalla tribú, con tendenze, disposizioni, disegni, aneliti, desideri che lo differenziavano dagli altri e lo costituivano come essere unico e non trasferibile. Il sesso ha avuto un ruolo primario nella creazione dell’individuo e, come ha mostrato Sigmund Freud, in questo ambito, il piú recondito della sovranità individuale, si forgiano i tratti distintivi di ogni personalità, ciò che ci appartiene come nostro e ci rende diversi dagli altri. È un dominio privato e segreto e dovremmo fare in modo che continui a esserlo, se non vogliamo intasare una tra le fonti piú intense del piacere e della creatività, ossia della civiltà. Georges Bataille non sbagliava quando metteva in guardia dai rischi di una permissività sfrenata in materia sessuale. La scomparsa dei pregiudizi, in sé liberatoria, in effetti, non può significare l’abolizione dei rituali, del mistero, della forma e della discrezione grazie ai quali il sesso si è civilizzato e umanizzato. Con un sesso pubblico, sano e normale, la vita diventerebbe piú noiosa, mediocre e violenta di come è. Ci sono molti modi di definire l’erotismo, ma, forse, il principale e quello che lo denomina deanimalizzazione dell’amore fisico, trasformazione, nel corso del tempo e grazie al progresso della libertà e dell’influenza della cultura sulla vita privata, da mera soddisfazione di una pulsione istintiva in una pratica creativa e condivisa che prolunga e sublima il piacere fisico circondandolo di una messa in scena e di raffinamenti che lo rendono un’opera d’arte.

Forse in nessun’altra attività come nell’ambito del sesso si è stabilito un confine altrettanto evidente fra la sfera animale e quella umana. Questa differenza all’inizio, nella notte dei tempi, non esisteva e confondeva le specie in un accoppiamento carnale privo di mistero, di grazia, di raffinatezza e di amore. L’umanizzazione della vita di uomini e donne è un lungo processo in cui intervengono il progresso delle conoscenze scientifiche, le idee filosofiche e religiose, lo sviluppo delle arti e delle lettere. In questa traiettoria niente cambia tanto quanto la vita sessuale. Quest’ultima è sempre stata un incentivo per la creazione artistica e letteraria e, viceversa, pittura, letteratura, musica, scultura, danza, tutte le manifestazioni artistiche dell’immaginazione umana hanno contribuito all’arricchimento del piacere attraverso la pratica sessuale. Non è esagerato dire che l’erotismo rappresenta un momento elevato di civiltà e che ne costituisce una componente determinante. Per sapere quanto sia primitiva una comunità o quanto sia avanzata nel suo processo di civilizzazione nulla è utile quanto esaminarne i segreti d’alcova e vedere come i suoi membri fanno l’amore. L’erotismo non ha soltanto la funzione positiva e nobilitante di abbellire il piacere fisico e di dispiegare un’ampia gamma di suggestioni e di possibilità che permettano agli esseri umani di soddisfare i loro desideri e le loro fantasie. È anche un’attività che porta a galla i fantasmi di indole distruttiva e mortifera che si nascondono nell’irrazionalità. Freud li ha definiti vocazione tanatica, che si contende con l’istinto vitale e creativo – l’Eros – la condizione umana. Liberati, senza alcun freno, i mostri dell’inconscio che si affacciano nella vita sessuale e chiedono diritto di cittadinanza potrebbero provocare una violenza incredibile (come quella che tinge di sangue e cadaveri i romanzi del Marchese de Sade) e persino la scomparsa della specie. Per questo l’erotismo non trova nella proibizione soltanto un incentivo voluttuoso, ma anche un limite, violato il quale diventa sofferenza e morte. Io ho scoperto che l’erotismo era unito in maniera indissolubile alla libertà umana, ma anche alla violenza, leggendo i grandi maestri della letteratura erotica riuniti da Guillaume Apollinaire nella raccolta da lui curata (scrivendo l’introduzione e traducendone alcuni volumi), intitolata Les maîtres de l’amour. È accaduto a Lima, intorno al 1955. Mi ero appena sposato per la prima volta e dovevo mettere insieme diversi lavori per guadagnarmi da vivere. Ero

arrivato ad averne otto, e nel frattempo proseguivo gli studi universitari. Il piú pittoresco di tutti consisteva nel compilare un inventario dei morti sepolti nella sezione coloniale del cimitero Presbítero Maestro, di Lima, i cui nomi erano scomparsi dagli archivi della Beneficencia. Lo facevo di domenica e nei giorni festivi, recandomi al cimitero munito di scaletta, schede e matite. Dopo aver proceduto a esaminare le vecchie lapidi, redigevo elenchi di nomi e date, e la Beneficencia Pública di Lima mi pagava un tanto a morto. Ma il piú piacevole dei miei otto lavori di sussistenza non era questo, bensí quello di aiuto bibliotecario presso il Club Nacional. Il bibliotecario era un mio professore, lo storico Raúl Porras Barrenechea. Il mio compito era quello di passare due ore al giorno, dal lunedí al venerdí, nell’elegante edificio del Club, simbolo dell’oligarchia peruviana, che in quegli anni celebrava il suo centenario. In teoria, avrei dovuto impiegare quel paio d’ore per schedare le nuove acquisizioni della biblioteca, ma, non so se per mancanza di fondi o per negligenza della direzione, in quegli anni il Club Nacional non acquisiva quasi piú libri, quindi in quelle ore potevo dedicarmi a scrivere e a leggere. Erano le due ore piú felici di quei giorni in cui facevo dalla mattina alla sera cose che mi interessavano poco o nulla. Non lavoravo nella bella sala di lettura al piano terra del Club, ma in un ufficio del quarto piano. Lí scoprii con gioia, nascosta dietro paraventi discreti e tendine pudibonde, una splendida collezione di libri erotici, quasi tutti francesi. Lí lessi le lettere e le fantasie erotiche da Diderot e Mirabeau al Marchese de Sade e a Restif de la Bretonne, ad Andréa de Nerciat, all’Aretino, le Memorie di una cantante tedesca, l’Autobiografia di un inglese, le Memorie di Casanova, Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos e non so quanti altri libri classici ed emblematici della letteratura erotica. Questo genere di letteratura ha precedenti classici, naturalmente, ma irrompe per davvero in Europa nel Settecento, nel pieno dell’auge dei philosophes e delle loro grandi teorie che innovavano la morale e la politica, della loro offensiva contro l’oscurantismo religioso e della loro difesa appassionata della libertà. Filosofia, sedizione, piacere e libertà erano ciò che chiedevano e mettevano in pratica nei loro scritti questi pensatori e artisti, i quali rivendicavano con orgoglio l’appellativo di «libertini» con cui venivano chiamati, ricordando che il senso principale di questo vocabolo era, secondo quanto nota Bataille, «colui che disubbidisce o sfida Dio e la religione in nome della libertà».

La letteratura libertina è molto diseguale, naturalmente; tra le opere che ha prodotto non abbondano i capolavori, anche se si trovano alcuni romanzi o testi di grande valore in mezzo a molti altri dalla valenza artistica scarsa o nulla. Il limite principale che di solito la impoverisce è che i libri soltanto erotici, concentrati in modo ossessivo ed esclusivo sulla descrizione di esperienze sessuali, scadono ben presto nella ripetizione e nella monomania, perché l’attività sessuale, pur essendo intensa e fonte meravigliosa di piaceri, è limitata e, se viene separata dal resto delle attività e funzioni che costituiscono la vita di uomini e donne, perde vitalità e offre una rappresentazione parziale, caricaturale e non autentica della condizione umana. Ma questo non impedisce che nella letteratura libertina risuoni sempre un grido di libertà contro ogni assoggettamento o servitú – religiosa, morale e politica – che restringe il diritto al libero arbitrio, alla libertà politica e sociale, e al piacere, diritto che viene rivendicato per la prima volta nella storia della civiltà: quello di poter dare forma alle fantasie e ai desideri che il sesso risveglia negli esseri umani. Il grande merito dei monotoni romanzi del Marchese de Sade è che l’autore vi mostra come il sesso, se esercitato senza alcun limite e freno, provochi violenze folli poiché è il veicolo privilegiato attraverso cui si manifestano gli istinti piú distruttivi della personalità. L’ideale in questo campo è che i confini all’interno dei quali si dispiega la vita sessuale si amplino abbastanza da consentire a uomini e donne di agire in libertà, riversandovi i propri desideri e fantasmi, senza sentirsi minacciati né discriminati, ma all’interno di determinate forme culturali che preservino la natura privata e intima del sesso, in modo che la vita sessuale non sia banalizzata né animalizzata. L’erotismo è questo. Con i suoi rituali, le sue fantasie, la sua vocazione alla clandestinità, il suo amore per le forme e la teatralità, nasce come prodotto di una civiltà alta, un fenomeno inconcepibile nelle società o presso le popolazioni primitive o rozze, poiché si tratta di una pratica che esige una sensibilità raffinata, una cultura letteraria e artistica e una certa vocazione trasgressiva. «Trasgressivo» è un aggettivo che in questo caso va preso con le pinze, poiché nel contesto erotico non significa negazione della regola morale o religiosa imperante, ma due cose insieme: il suo riconoscimento e il suo rifiuto, mescolati in modo indissolubile. Violando la norma nell’intimità, la coppia o il gruppo dànno vita a una rappresentazione, a un gioco teatrale che accende il loro piacere condendolo

di sfida e libertà, mentre preserva lo statuto di pratica velata, riservata e segreta del sesso. Senza attenzione alla forma, al rituale che, oltre ad arricchirlo, prolunga e sublima il piacere, l’atto sessuale torna ad essere un esercizio puramente fisico – una pulsione naturale nell’organismo umano di cui l’uomo e la donna sono puri strumenti passivi – sprovvisto di sensibilità e di emozione. Lo testimonia, senza volerlo né saperlo, la letteratura da quattro soldi che, proponendosi di essere erotica, possiede soltanto i rudimenti volgari del genere: la pornografia. La letteratura erotica diventa pornografia per ragioni strettamente letterarie: la mancata attenzione alla forma. Ossia, quando la negligenza o l’incapacità dello scrittore nell’utilizzo del linguaggio, nella costruzione di una storia, nello sviluppo dei dialoghi, nella descrizione di una situazione, svela involontariamente tutto ciò che c’è di osceno e di repellente in un accoppiamento sessuale privo di sentimento e di eleganza – di mise en scène e di ritualità – trasformato in mera soddisfazione dell’istinto riproduttivo. Ai nostri giorni l’amore fisico, nel mondo occidentale, è molto piú vicino alla pornografia che all’erotismo e, paradossalmente, è il risultato di una deriva degradata e perversa della libertà. I laboratori di masturbazione cui in futuro parteciperanno i giovani dell’Estremadura e dell’Andalusia c0me parte del programma scolastico sono in apparenza un passo audace nella lotta contro il bigottismo e il pregiudizio in ambito sessuale. In realtà, è probabile che queste e altre iniziative simili destinate a desacralizzare la vita sessuale, trasformandola in una pratica comune come mangiare, dormire e andare a lavorare, abbiano come conseguenza quella di disilludere precocemente le nuove generazioni riguardo alla pratica sessuale. Questa perderà mistero, passione, fantasia e creatività e si banalizzerà sino a confondersi con una mera callistenia. Con il risultato di indurre i giovani a cercare il piacere altrove, probabilmente nell’alcol, nella violenza e nelle droghe. Per questo, se vogliamo che l’amore fisico contribuisca ad arricchire la vita delle persone, liberiamolo dei pregiudizi, ma non della forma e dei riti che lo abbelliscono e lo civilizzano e, invece di esibirlo in piena luce e nelle strade, preserviamo la riservatezza e la discrezione che permettono agli amanti di giocare a essere dèi e di sentire di esserlo negli istanti intensi e unici della passione e del desiderio condivisi.

Precedenti

Il pittore nel bordello «Pietra de Toque», in «El País», 1° aprile 2001.

Jean-Jacques Lebel, scrittore e artista d’avanguardia che negli anni Sessanta organizzava happening, in quel periodo concepí l’idea di allestire «con assoluta fedeltà» Il desiderio preso per la coda, un delirante testo teatrale scritto da Picasso nel 1941, in cui, tra altri spropositi, un personaggio femminile, La Torta, urina in scena per dieci minuti di seguito accucciata sulla buca del suggeritore. (Per riuscirci, racconta Lebel, la sua attrice liquefacente aveva dovuto ingerire litri di tè e abbondanti infusi di ciliegia). In vista di questo progetto, ebbe un colloquio con il pittore all’inizio del 1966 e Picasso gli mostrò una serie di disegni e dipinti a tema erotico, del periodo barcellonese, che non erano mai stati esposti. Da allora Lebel ha maturato l’idea di organizzare un’esposizione che mostrasse, senza eufemismi né censure, la potenza del sesso nel mondo picassiano. L’idea si è concretizzata quasi quarant’anni piú tardi, con un’ampia mostra di trecentotrenta opere, molte mai esposte, alla Galleria del Jeu de Paume di Parigi, dove è durata dal marzo al maggio del 2001. Poi è stata portata a Montréal e a Barcellona. La prima domanda che si può porre lo spettatore, dopo aver visitato l’eccitante mostra (mai l’aggettivo è stato impiegato meglio), è perché ci sia voluto cosí tanto perché fosse allestita. Sono state organizzate innumerevoli esposizioni sull’opera di un artista la cui influenza ha lasciato tracce in tutte le vie dell’arte moderna, ma, sino ad allora, mai una specifica sul tema del sesso che, come ha dimostrato in maniera inequivocabile l’esposizione messa insieme da Lebel e Gérard Régnier, ha ossessionato il pittore e, soprattutto in epoche estreme – la giovinezza e la vecchiaia – lo ha indotto a esprimersi in questo ambito con disinvoltura e audacia notevoli, in disegni, appunti, oggetti, incisioni e tele che, al di là del valore artistico diseguale, lo rivelavano nella sua intimità piú segreta – quella dei suoi desideri e fantasie erotiche – e proiettavano una luce speciale sul resto della sua opera.

«L’arte e la sensualità sono la stessa cosa», disse Picasso a Jean Leymarie, e in un’altra occasione assicurò che «non esiste un’arte casta». Anche se forse simili affermazioni non valgono per tutti gli artisti, nel suo caso era vero. Perché mai, allora, lo stesso Picasso ha contribuito a occultare per tanto tempo questo aspetto della sua produzione artistica, che è sempre esistito, anche quando, in alcuni periodi, si limitava a circolare nelle catacombe, rigorosamente vietate al pubblico? Per ragioni ideologiche e commerciali, dice Jean-Jacques Lebel, in un’interessante conversazione con Geneviève Beerette. Durante il suo periodo stalinista, quando faceva il ritratto di Stalin e denunciava «il massacro in Corea», l’erotismo sarebbe stato fonte di attrito tra Picasso e il Partito comunista, cui il pittore era iscritto e del quale sosteneva l’ortodossia estetica del realismo socialista, dove non c’era posto per la «decadente» esaltazione del piacere sessuale. Piú tardi, consigliato dai propri galleristi, accettò che questo versante della sua opera continuasse a rimanere nascosto per timore che offendesse il puritanesimo dei collezionisti americani e riducesse cosí quell’opulento mercato. Debolezze umane da cui non sono esenti i geni. In ogni caso, dal 2001 è stato possibile abbracciare con lo sguardo il Picasso integrale, un universo cosí pieno di costellazioni da provocare vertigine. Come ha potuto l’immaginazione di un mortale isolato generare un’effervescenza tanto smisurata? È un interrogativo che non ha risposta, che ci lascia esterrefatti in Picasso cosí come in Rubens, Mozart o Balzac. La traiettoria della sua opera, con le sue tappe, i suoi temi, le sue forme, i suoi motivi diversi, è un percorso che attraversa tutte le scuole e i movimenti artistici del Novecento, di cui si nutre e che feconda con un accento personale inconfondibile. In piú, si proietta verso il passato, che l’artista riporta al presente in ritratti, evocazioni, caricature, riletture, le quali mostrano tutto ciò che c’è di attuale e di fresco nei vecchi maestri. Eppure, il sesso non è mai stato assente, in nessuno dei periodi in cui la critica ha suddiviso e organizzato l’opera di Picasso, neppure durante gli anni del cubismo. Anche se, alcune volte, si manifesta con discrezione, in modo simbolico, tramite allusioni; in altre occasioni, piú numerose, irrompe con insolente nudità e crudezza, in immagini che paiono sfide alle convenzioni dell’erotismo, alla raffinatezza e alle pudiche scenografie con cui l’arte ha descritto tradizionalmente l’amore fisico, al fine di renderlo compatibile con la morale corrente.

Il sesso che Picasso svela nella maggior parte di queste opere, soprattutto quello degli anni giovanili trascorsi a Barcellona, è elementare, non sublimato attraverso rituali e cerimonie barocche di una cultura che maschera, civilizza e trasforma in opera d’arte l’istinto animale, ma cerca l’immediata soddisfazione del desiderio, senza esitazione, senza sotterfugi, smancerie né distrazioni. Un sesso proprio degli affamati e degli ortodossi, non dei sognatori né degli spiriti raffinati. E, di conseguenza, un sesso maschilista a piú non posso, in cui non esiste l’omosessualità maschile, e in cui quella femminile è esercitata soltanto a beneficio del piacere e della contemplazione del guardone. Un sesso di uomini e per gli uomini, primitivi e lussuriosi, in cui il fallo è sovrano. La donna è presente per servire, non per godere a propria volta ma per far godere, per aprire le gambe e sottomettersi ai capricci del fornicatore, di fronte al quale spesso appare inginocchiata, intenta a praticare una fellatio in una posizione che è l’archetipo di questa concezione sessuale: mentre gli dà piacere, la femmina si arrende e adora il maschio onnipotente. Il fallo, gridano queste immagini, è prima di tutto potere. È naturale che, per un piacere sessuale di questa indole, lo spazio privilegiato in cui si pratica il sesso sia il bordello. Nessuna deriva sentimentale per questa pulsione che vuole saziare un’urgenza materiale, e poi dimenticare e passare a qualcosa d’altro. Nel bordello, dove il sesso si compra e si vende, non si prendono impegni né si cercano alibi morali né affettivi di sorta; il sesso si dispiega nella sua scarna verità, come puro presente, come un esercizio svergognato che non lascia traccia nella memoria, copula pura e fugace, immune al rimorso e alla nostalgia. Le immagini ripetute di questo sesso postribolare, volgarotto e privo d’immaginazione, che ricoprono quaderni, cartoncini, tele, sarebbero monotone senza le ostentazioni ironiche che ogni tanto ne scaturiscono, scherzi giocosi ed esagerazioni che manifestano uno stato d’animo colmo d’entusiasmo e di felicità. Un pesce malizioso – un maquereau – lecca una ragazza compiacente, ma morta di noia. Sono immagini di gioconda vitalità, manifesti esaltati in favore della vita. In tutte, anche negli scarabocchi veloci disegnati nella confusione della festa su tovaglioli, menu, ritagli di giornale, per divertire un amico o per lasciare testimonianza di un incontro, brilla l’abilità della mano sapiente, la precisione dello sguardo perforante capace di fissare in pochi tratti essenziali il vortice impazzito della realtà. L’apoteosi del bordello nell’opera di Picasso è, chiaramente, Les demoiselles d’Avignon,

non inclusa nella mostra, a differenza di molti bozzetti e prime versioni di quest’opera eccezionale. Con il passare degli anni, la scabrosità sessuale della giovinezza si va attenuando, caricandosi di simboli, con il desiderio che si ramifica nei personaggi della mitologia. Tutta la serie del Minotauro, nelle incisioni e nei dipinti degli anni Trenta, brilla di una sensualità vigorosa e di una forza sessuale che esibisce la propria bestialità con leggerezza e sfacciataggine, come prova di vita e di creatività artistica. In cambio, nella bellissima serie di incisioni dedicate a Raffaello e La Fornarina, della fine degli anni Sessanta, le capriole amorose del pittore con la sua modella sotto gli occhi lascivi di un vecchio pontefice, con le carni flaccide adagiate su un vaso da notte, sono impregnate di una sotterranea tristezza. Non vi fluisce solo la gioiosa dedizione dei giovani all’amore fisico, alla voluttuosità che si mescola con la sfera artistica; anche la malinconia dell’osservatore, che gli anni hanno escluso dalle giostre amorose, un ex guerriero che si deve rassegnare a godere contemplando il godimento altrui, mentre sente che la vita gli sfugge, che alla morte del suo sesso seguirà presto l’altra, definitiva e totale. Questo tema diventerà ricorrente negli ultimi anni di Picasso, e l’esposizione del Jeu de Paume lo rivelava in dipinti dove spesso comparivano, con enfasi poetica e straziante, l’inconsolabile nostalgia della virilità perduta, l’amarezza di sapersi trasportati dalla fatidica ruota del tempo, lontano dalla vertiginosa immersione nella fonte della vita, dall’esplosione di puro piacere in cui l’essere umano ha un anticipo della sua mortalità e che, ironicamente, i francesi chiamano petite mort, piccola morte. La morte figurata, e l’altra, quella della conclusione e dell’estinzione fisica, sono protagoniste di questi drammatici dipinti che Picasso continuò a realizzare quasi fino al rantolo finale.

Il sesso freddo «Pietra de Toque», in «El País», 27 maggio 2001.

Narra la leggenda che, durante la sua prima notte di nozze, il giovane Victor Hugo fece l’amore otto volte con sua moglie, la casta Adèle Foucher. E, come conseguenza del primato stabilito dal focoso autore dei Miserabili,

che, come rivela lui stesso, era arrivato vergine a quella notte nuziale, Adèle fu vaccinata per sempre contro quel genere di attività. (La sua tortuosa avventura adulterina con il brutto Sainte-Beuve non aveva nulla a che vedere con il piacere, piuttosto con il dispetto e la vendetta). Il saggio Jean Rostand derideva il record di Hugo paragonandolo con le prodezze compiute da altre specie nella sfera della fornicazione. Che cosa sono le otto effusioni consecutive del vate romantico, se paragonate con i quaranta giorni e quaranta notti durante i quali il rospo copula con la rospa senza un solo attimo di respiro? Eppure, in un’agguerrita signora francese, Catherine Millet, gli anfibi anuri, i conigli, gli ippopotami e gli altri grandi fornicatori del regno animale hanno trovato, all’interno della mediocre specie umana, un’emula capace di misurarsi con loro da pari a pari, e persino di vincerli nel numero delle copule. Chi è la signora Catherine Millet? Una nota critica d’arte che ha superato il mezzo secolo, dirige la redazione di «Art Press», a Parigi, ed è autrice di monografie sull’arte concettuale, il pittore Yves Klein, il disegnatore Roger Tallon, l’arte contemporanea e la critica d’avanguardia. Nel 1989 è stata responsabile della sezione francese della Biennale di San Paolo e, nel 1995, responsabile del padiglione francese della Biennale di Venezia. La sua fama, tuttavia, è piú recente. Deriva da un saggio sessuale autobiografico, appena pubblicato da Seuil, La vita sessuale di Catherine M., che ha suscitato molto scalpore e che è stato in testa alla classifica dei libri piú venduti in Francia per diverse settimane. Dirò subito che il saggio della signora Millet vale molto di piú del ridicolo clamore con cui è stato lanciato e, anche, che chi si è precipitato a leggerlo attratto dall’aura erotica o pornografica che lo circondava, è rimasto deluso. Il libro non è uno stimolante sessuale né un’elaborata fantasia di rituali intorno all’esperienza erotica, ma una riflessione intelligente, cruda, insolitamente franca, che a momenti adotta le sembianze di un rapporto clinico. L’autrice si concentra sulla propria vita sessuale con la precisione fredda e ossessiva dei miniaturisti che costruiscono navi nelle bottiglie o dipingono paesaggi su una capocchia di spillo. Dirò anche che il libro, seppure interessante e valido, non è piacevole da leggere, perché la visione del sesso che lascia nel lettore è faticosa e deprimente quasi quanto quella lasciata in Madame Victor Hugo dagli otto assalti maritali della prima notte di nozze.

Catherine Millet ha dato inizio alla propria vita sessuale piuttosto tardi – a diciassette anni – per una ragazza della sua generazione, quella della grande rivoluzione dei costumi rappresentata dal Maggio francese. Ma, immediatamente, ha cominciato a recuperare il tempo perduto, facendo l’amore a destra e a manca, e in tutti i luoghi possibili del suo corpo, a un ritmo folle, sino a raggiungere cifre che, a occhio e croce, devono aver superato di gran lunga il migliaio di donne che, nella sua autobiografia, si vantava di essersi portato a letto l’incontinente poligrafo belga Georges Simenon. Insisto sul fattore quantitativo perché cosí fa l’autrice nella prima lunga parte del libro, intitolata per l’appunto Il numero, in cui documenta la propria predilezione per le partouzes, il sesso promiscuo, il disordine. Negli anni Settanta e Ottanta, prima che la libertà sessuale cominciasse a perdere mordente e, a causa dell’Aids, passasse di moda in tutta l’Europa, la signora Millet – che si descrive come una donna timida, disciplinata, piuttosto pacata, che nei rapporti sessuali ha trovato un modo di comunicare con i propri simili come non le capita facilmente in altri ambiti della vita – ha fatto l’amore in club privati, nel Bois de Boulogne, sul ciglio delle strade, negli atri dei palazzi, sulle panchine, oltre che in case private e, qualche volta, nel retro di un camioncino in cui, con l’aiuto del suo amico Éric, che disciplinava la coda, ha dedicato alcune ore alle decine di uomini che la richiedevano. Dico uomini che la richiedevano perché non so come chiamare questi fugaci e anonimi compagni di avventure dell’autrice. Non clienti, naturalmente, perché Catherine Millet, sebbene abbia dispensato i propri favori con generosità senza limiti, non ha mai ricevuto denaro per farlo. Il sesso per lei è sempre stato hobby, sport, routine, piacere, mai professione o affare. Nonostante il modo sfrenato in cui lo ha praticato, dice di non essere mai stata vittima di brutalità, né di essersi sentita in pericolo; persino in situazioni al limite della violenza, le è sempre bastato un semplice rifiuto perché il contesto si adeguasse alla sua decisione. Ha avuto amanti, e adesso ha un marito – uno scrittore e fotografo, che ha pubblicato un libro di nudi della moglie – ma un amante è qualcuno con cui si suppone esista un rapporto piuttosto stabile, mentre la maggior parte dei compagni di sesso di Catherine Millet si presentano come figure di passaggio, prese e lasciate con noncuranza, quasi senza dialogo. Individui senza nome, senza volto, senza storia, gli uomini che sfilano nel libro sono, come le vulve furtive dei libri

libertini, nient’altro che verghe transeunti. Sinora, nella letteratura confessionale, solo i maschi facevano l’amore cosí, in sequenze cieche e badando a fare numero, senza nemmeno preoccuparsi di sapere con chi. Questo libro mostra – ed è forse il suo contenuto davvero scandaloso – che sbagliavano coloro i quali credevano che il sesso a catena, trasformato in mera ginnastica carnale, dissociato completamente dal sentimento e dall’emozione, fosse una prerogativa di chi porta i pantaloni. È bene precisare che in queste pagine Catherine Millet non fa il minimo sfoggio femminista. Non esibisce la propria ricchissima esperienza in materia sessuale come una bandiera rivendicatoria, o un’accusa contro i pregiudizi e le discriminazioni che ancora subiscono le donne in ambito sessuale. La sua testimonianza è priva di arringhe e non vi compare la minima pretesa di voler illustrare, con ciò che racconta, alcuna verità generale, etica, politica o sociale. Al contrario, il suo individualismo è estremo, e molto evidente nella preoccupazione di non voler trarre dalla propria esperienza personale conclusioni per tutti, senza dubbio perché non crede che esistano. Allora perché ha reso pubblica, tramite un’autoautopsia sessuale senza precedenti, un’intimità che l’immensa maggioranza delle femmine e dei maschi nasconde con quattro mandate di chiave? Si direbbe che in questo modo voglia tentare di capire meglio, ottenere la prospettiva sufficiente per trasformare in conoscenza, in idee chiare e coerenti, questo pozzo oscuro di iniziative, estasi, audacie, eccessi e, anche, confusione che, nonostante la libertà con cui l’ha affrontato, è per lei, ancora, il sesso. La cosa che mi sconcerta in questo memoir è la freddezza con cui è scritto. Le prosa è efficace, impegnata nel mantenersi lucida, spesso astratta. Ma la freddezza non impregna soltanto l’espressione e il raziocinio. Anche dalla materia, il sesso, scaturisce un alito congelato, congelante, e in molte pagine deprimente. La signora Millet ci assicura che parecchi suoi compagni la soddisfano, la aiutano a materializzare i suoi fantasmi, dice di aver trascorso bei momenti con loro. Ma davvero la soddisfano, la fanno godere? La verità è che i suoi orgasmi appaiono meccanici, rassegnati e tristi. Lei stessa lo lascia intendere, in maniera inequivocabile, nelle pagine finali del libro, quando sottolinea che, nonostante la varietà di persone con cui ha fatto l’amore, non si è mai sentita altrettanto realizzata dal punto di vista sessuale come quando ha praticato («con la puntualità di un funzionario») la masturbazione. Non è sempre vera, dunque, la diffusa convinzione

maschilista (aggettivazione ormai discutibile) che, in materia sessuale, solo nella varietà si trovi il gusto. Lasciamolo dire alla signora Millet: nessuno dei suoi innumerevoli partner in carne e ossa è stato capace di scalzare un fantasma incorporeo. Questo libro conferma ciò che tutta la letteratura incentrata sull’argomento sessuale ha mostrato sino alla sazietà: che separato dalle altre attività e funzioni che costituiscono l’esistenza, il sesso è estremamente monotono, con un orizzonte tanto limitato da risultare in definitiva disumanizzante. Una vita incentrata sul sesso, e solo su questo, riduce questa funzione a un’attività organica primaria, non piú nobile o piú piacevole dell’inghiottire tanto per farlo o del defecare. Solo quando è civilizzato dalla cultura, caricato di emozione e di passione, e rivestito di cerimonie e di rituali, il sesso arricchisce la vita umana in modo straordinario e i suoi effetti benefici si proiettano in tutti gli interstizi dell’esistenza. Perché questa sublimazione avvenga è imprescindibile, come ha spiegato Georges Bataille, che siano preservati alcuni tabú e regole che incanalino e frenino il sesso, in modo che l’amore fisico possa essere vissuto – goduto – come una trasgressione. La libertà senza restrizioni, la rinuncia a ogni teatralità e formalismo nel suo esercizio, non hanno contribuito ad arricchire il piacere e la felicità degli esseri umani grazie al sesso. Piuttosto a banalizzarli, trasformando l’amore fisico, una delle fonti piú fertili ed enigmatiche del fenomeno umano, in mero passatempo. D’altronde, è bene non dimenticare che la libertà sessuale dispiegata con tanta eloquenza nel saggio di Catherine Millet è ancora privilegio di piccole minoranze. Mentre leggevo il suo libro, usciva sui giornali la notizia della lapidazione, in una provincia dell’Iran, di una donna che un tribunale di ayatollah fanatici aveva giudicato colpevole di essere comparsa in film pornografici. Chiariamo che, in una teocrazia fondamentalista islamica, è «pornografia» una donna che mostri i capelli. La rea, secondo i dettami della legge coranica, era stata sotterrata in una pubblica piazza sino al petto e lapidata a morte.

Capitolo quinto Cultura, politica e potere

La cultura non dipende dalla politica, non dovrebbe in ogni caso, anche se è inevitabile nelle dittature, soprattutto quelle ideologiche e religiose, in cui il regime si sente autorizzato a dettare norme e a stabilire i canoni all’interno dei quali si deve svolgere la vita culturale, sotto la sorveglianza dello Stato impegnato a fare in modo che non si allontani dall’ortodossia, che costituisce il fondamento di chi governa. Il risultato di un simile controllo, lo sappiamo, è la progressiva trasformazione della cultura in propaganda, ossia in un’espressione decadente per mancanza di originalità, spontaneità, spirito critico e volontà di rinnovamento e di sperimentazione formale. In una società aperta, pur mantenendo un’indipendenza dalla vita ufficiale, è inevitabile e necessario che tra la cultura e la politica esistano rapporti e scambi. Non solo perché lo Stato, senza ridurre la libertà creativa e critica, deve supportare e favorire le attività culturali – con la preservazione e la promozione del patrimonio culturale, innanzitutto – ma anche perché la cultura deve esercitare un’influenza sulla vita politica, sottoponendola a un continuo esame critico e inculcandole valori e forme che le impediscano di degradarsi. Nella civiltà dello spettacolo, purtroppo, l’influenza che la cultura esercita sulla politica, invece di costringere quest’ultima a mantenere determinati standard di eccellenza e di integrità, contribuisce a deteriorarla dal punto di vista morale e civile, stimolando ciò che vi è di peggiore, per esempio la farsa pura e semplice. Abbiamo già visto come, in accordo con la cultura imperante, la politica abbia sostituito sempre di piú le idee e gli ideali, il dibattito intellettuale e i programmi, con la mera pubblicità e con le apparenze. Di conseguenza, la popolarità e il successo si conquistano non tanto con l’intelligenza e la rettitudine quanto attraverso la demagogia e il talento istrionico. Cosí, si dà il curioso paradosso secondo cui, mentre nelle società autoritarie è la politica a corrompere e a degradare la cultura, in quelle democratiche moderne è la cultura – o ciò che ne ha usurpato il nome – a corrompere e a degradare la politica e i politici. Per illustrare meglio ciò che voglio dire, farò un piccolo salto nel passato, nella vita pubblica che conosco meglio: quella peruviana.

Quando entrai all’Università di San Marcos, a Lima, nel 1953, in Perú «politica» era una brutta parola. La dittatura del generale Manuel Apolinario Odría (1948-56) aveva fatto sí che per un gran numero di peruviani «fare politica» significasse dedicarsi a un’attività delittuosa, associata alla violenza sociale e ai traffici illeciti. La dittatura aveva imposto una Legge di sicurezza interna della Repubblica che aveva reso illegali tutti i partiti, e una rigorosa censura impediva che sui giornali, sulle riviste e alla radio (la televisione non c’era ancora) comparisse la minima critica al governo. In compenso le pubblicazioni e i notiziari erano pieni zeppi di elogi del dittatore e dei suoi complici. Il buon cittadino si doveva dedicare al proprio lavoro e alle proprie occupazioni domestiche senza immischiarsi nella vita politica, monopolio di coloro che esercitavano il potere protetti dalle forze armate. La repressione teneva chiusi in carcere i dirigenti dell’Apra (Alianza Popular Rivolucionaria Americana), i comunisti e i sindacalisti. Centinaia di militanti di questi partiti e persone legate al governo democratico di José Luis Bustamante y Rivero (1945-48), spodestato dal golpe militare di Odría, furono costretti all’esilio. Esisteva un’attività politica clandestina, ma era minima, per la durezza delle persecuzioni. L’Università di San Marcos era uno dei focolai piú intensi di quell’azione sotterranea suddivisa nella pratica tra apristi e comunisti, acerrimi rivali. Ma erano minoritari rispetto alla massa di universitari in cui, per timore o apatia, si era fatto strada l’atteggiamento apolitico che, come tutte le dittature, quella di Odría aveva deciso di imporre al paese. A partire dalla metà degli anni Cinquanta il regime diventò sempre piú impopolare. E, di conseguenza, un numero crescente di peruviani osò cominciare a dedicarsi alla politica, cioè, a opporsi al governo e ai suoi sgherri e ai suoi poliziotti tramite comizi, scioperi, serrate, pubblicazioni, sino a costringerlo a indire le elezioni che, nel 1956, misero fine all’«Ochenio», gli otto anni di dittatura di Odría. Con il ritorno dello Stato di diritto, l’abolizione della Legge di sicurezza interna, la rinascita della libertà di stampa e del diritto di critica, la legalizzazione dei partiti illegali e l’autorizzazione a crearne altri – il Partido de Acción Popular, la Democracia Cristiana e il Movimiento Social Progresista – la politica tornò al centro dell’attualità, rinvigorita e di nuovo prestigiosa. Come suole accadere quando a una dittatura segue un regime di libertà, la vita civile attirò molti peruviani e peruviane che avevano cominciato a guardare alla politica con ottimismo, come strumento per

trovare una soluzione ai mali del paese. Non esagero dicendo che in quegli anni i professionisti piú eminenti, imprenditori, accademici e scienziati si sentirono chiamati a intervenire nella vita pubblica, mossi dalla volontà disinteressata di servire il Perú. Il fenomeno si rifletté nel Parlamento eletto nel 1956. Da allora il paese non ha piú avuto una Camera dei senatori e una Camera dei deputati con qualità intellettuali e morali paragonabili a quelle di allora. E una cosa simile si può dire di coloro che occuparono ministeri e cariche pubbliche in quegli anni, o che, dall’opposizione, fecero politica criticando il governo e proponendo alternative alla gestione governativa. Con questo non voglio dire che i governi di Manuel Prado (1956-62) e di Fernando Belaúnde Terry (1963-68), intervallati da una Giunta Militare (1962-63) tanto per non perdere l’abitudine, siano stati un successo. Di fatto non lo furono, visto che, nel 1968, la breve parentesi democratica durata poco piú di un decennio crollò ancora una volta per mano di un’altra dittatura militare – quella dei generali Juan Velasco Alvarado e Francisco Morales Bermúdez – che sarebbe durata dodici anni (1968-80). Voglio solo mettere in evidenza che, a partire dal 1956 e per un breve lasso di tempo, la politica in Perú smise di essere percepita dalla società come una pratica spregevole e riaccese l’entusiasmo nella maggioranza delle persone, che la videro come un’attività che poteva canalizzare le energie e i talenti capaci di trasformare quella società arretrata e povera in un paese libero e prospero. La politica per alcuni anni diventò una faccenda per bene perché la gente per bene si decise a fare politica invece di tenersene fuori. Oggigiorno, in tutte le inchieste fatte sulla politica, una maggioranza significativa di cittadini la considera un’attività mediocre e sporca, repellente per i piú onesti e capaci, in cui vengono reclutati soprattutto inetti e mascalzoni che vi vedono un modo facile di arricchirsi. Non accade soltanto nel Terzo Mondo. Ai nostri giorni il discredito della politica non conosce confini e trova corrispondenza in una realtà incontestabile: con varianti e sfumature proprie di ogni paese, in quasi tutto il mondo, quello avanzato e quello sottosviluppato, il livello intellettuale, professionale e indubbiamente anche morale della classe politica si è abbassato. Non è una prerogativa delle dittature. Le democrazie soffrono questo stesso logoramento e la conseguenza di ciò è il disinteresse per la politica espresso dall’astensionismo nelle consultazioni elettorali, tanto frequente in quasi tutti i paesi. Le eccezioni sono rare. Forse non ci sono piú società in cui le attività civiche

attraggano i cittadini migliori. A che cosa si deve il fatto che il mondo intero sia arrivato a pensare ciò che tutti i dittatori hanno sempre cercato di inculcare nei popoli soggiogati, cioè che la politica sia una pratica vile? È vero che, in molti luoghi, la politica è o è diventata, in effetti, sporca e vile. «Lo è sempre stata», dicono i pessimisti e i cinici. Non è vero che lo sia sempre stata né che adesso lo sia dappertutto e nello stesso modo. In molti paesi e in molte epoche, l’attività civica ha goduto di un meritato prestigio perché attirava persone di valore e perché i suoi aspetti negativi non sembravano prevalere sull’idealismo, la rettitudine e la responsabilità della maggior parte della classe politica. Spesso, nella nostra epoca, gli aspetti negativi della vita politica sono stati sbandierati in modo esagerato e irresponsabile da un giornalismo scandalistico, con il risultato che l’opinione pubblica è giunta alla convinzione che la politica sia una pratica propria di individui amorali, inefficienti e inclini alla corruzione. Il progresso della tecnologia audiovisiva e dei mezzi di comunicazione, che nelle società autoritarie serve per contrastare i sistemi di censura e di controllo, avrebbe dovuto perfezionare la democrazia e incentivare la partecipazione alla vita pubblica. Ma ha sortito piuttosto l’effetto contrario, perché la funzione critica del giornalismo è stata in molti casi distorta dalla frivolezza e dalla fame di svago proprie della cultura imperante. Nel portare alla luce, come ha fatto il Wikileaks di Julian Assange, i retroscena della vita politica e diplomatica nelle sue piccolezze e miserie, il giornalismo ha contribuito a spogliare di rispettabilità e serietà una pratica che, in passato, manteneva una certa aura mitica, di spazio fecondo per l’eroismo civile e le imprese audaci in favore dei diritti umani, la giustizia sociale, il progresso e la libertà. La frenetica ricerca dello scandalo e il pettegolezzo a buon mercato che si accanisce contro i politici in molte democrazie ha avuto come conseguenza che il grande pubblico conosca meglio di queste persone soltanto il peggio che sono in grado di mostrare. E ciò che mostrano è, in generale, la stessa misera cosa in cui la nostra civiltà ha trasformato tutto ciò che tocca: una farsa di fantocci capaci di ricorrere ai peggiori stratagemmi per guadagnarsi il favore di un pubblico avido di svago. Non si tratta di un problema, perché i problemi hanno una soluzione e questo non ce l’ha. È una realtà della civiltà del nostro tempo, di fronte alla quale non esiste via di scampo. In teoria, la giustizia dovrebbe fissare i limiti

a partire dai quali un’informazione smette di essere di interesse pubblico e viola il diritto alla privacy dei cittadini. Nella maggior parte dei paesi, si possono permettere giudizi simili soltanto star e miliardari. Nessun cittadino comune può rischiare un processo che, oltre a impelagarlo in una contesa, in caso di sconfitta gli costerebbe molto denaro. E, d’altra parte, spesso i giudici, secondo un principio degno di rispetto, sono restii a emettere sentenze che sembrano limitare o abolire la libertà di espressione e di informazione, garanzia della democrazia. Il giornalismo scandalistico è un perverso figliastro della cultura della libertà. Non si può sopprimere senza infliggere alla libertà di espressione una ferita mortale. Il rimedio sarebbe peggiore del male, quindi dobbiamo sopportarlo, come chi ne è vittima sopporta alcuni tumori, perché sa che se cercasse di estirparli potrebbe perdere la vita. Non siamo giunti a questa situazione per via delle macchinazioni oscure di pochi proprietari di giornali o di canali televisivi avidi di denaro, che sfruttano i bassi istinti della gente con assoluta irresponsabilità. Questa è la conseguenza, non la causa. Si può averne una conferma proprio in questi giorni in Inghilterra, uno dei paesi piú civilizzati della Terra e dove si credeva, sino a poco tempo fa, che la politica rispondesse a elevati standard etici e civili offuscati soltanto da ruberie e traffici illeciti occasionali, imputabili a funzionari isolati. Lo scandalo di cui è protagonista il potente Rupert Murdoch, proprietario di un impero nel campo della comunicazione, News Corporation, e del giornale londinese «News of the World», che è stato costretto a chiudere, nonostante la sua immensa popolarità, perché si è scoperto che aveva commesso un reato controllando i telefoni di migliaia di persone, tra cui quelli di alcuni membri della Casa reale e di una bambina scomparsa, per alimentare il pettegolezzo scandalistico che era il segreto del suo successo, ha mostrato sino a che punto una stampa del genere possa avere un effetto nefasto sulle istituzioni e sui politici. «News of the World» aveva assoldato alcuni pezzi grossi di Scotland Yard, corrompeva funzionari e politici, e si serviva di investigatori privati per frugare nell’intimità della gente famosa. Il suo potere era tale che ministri, funzionari e persino primi ministri corteggiavano i suoi direttori e dirigenti, temendo che il giornale li compromettesse coinvolgendoli in un qualche scandalo che avrebbe rovinato la loro reputazione e il loro futuro. Naturalmente è un bene che tutto ciò sia venuto alla luce e si spera che la giustizia infligga le sanzioni previste ai colpevoli. Ma dubito che, con questa

lezione, sarà sradicato il male, che è radicato profondamente in tutti gli strati della società. La radice del fenomeno è nella cultura. O meglio, nella banalizzazione ludica della cultura imperante, in cui il valore supremo è ora quello di divertirsi e divertire, al di sopra di qualunque altra forma di conoscenza e di ideale. La gente apre un giornale, va al cinema, accende la televisione o compra un libro per stare bene, nel senso piú leggero della parola, non per torturarsi il cervello con preoccupazioni, problemi, dubbi. Solo per distrarsi, per dimenticare le questioni serie, profonde, inquietanti e difficili, e abbandonarsi a uno svago leggero, piacevole, superficiale, allegro e sanamente stupido. C’è qualcosa di piú divertente che spiare l’intimità del prossimo, sorprendere un ministro o un parlamentare in mutande, scoprire le scappatelle sessuali di un giudice, sapere che coloro che passavano per persone rispettabili ed esemplari sguazzano nel fango? La stampa sensazionalista non corrompe nessuno; nasce corrotta da una cultura che, invece di rifiutare le intromissioni maleducate nella vita privata della gente, le reclama, perché un simile passatempo, odorare la rogna altrui, rende piú sopportabile la giornata dell’impiegato puntuale, del professionista annoiato e della casalinga affaticata. L’idiozia è signora e padrona della vita postmoderna e la politica è una delle sue vittime principali. Forse nella civiltà dello spettacolo i ruoli piú denigranti sono quelli che i mezzi di comunicazione riservano ai politici. E questa è un’altra delle ragioni per cui nel mondo contemporaneo sono cosí pochi i dirigenti e gli statisti esemplari – come Nelson Mandela o Aung San Suu Kyi, per esempio – che meritano l’ammirazione universale. Un’altra conseguenza di tutto ciò è la reazione modesta o assente del grande pubblico ai livelli di corruzione nei paesi sviluppati e in quelli cosiddetti in via di sviluppo, tanto nelle società autoritarie quanto nelle democrazie, che sono forse i piú alti della storia. La cultura snob e abulica addormenta in senso civile e morale una società che, in questo modo, diventa sempre piú indulgente verso le sfrenatezze e gli eccessi di coloro che occupano le cariche pubbliche ed esercitano qualunque tipo di potere. D’altro canto, questo lassismo morale si presenta in un momento nel quale la vita economica è progredita tanto in tutto il pianeta e ha raggiunto un grado tale di complessità da rendere il controllo del potere che la società può esercitare attraverso la stampa indipendente e l’opposizione molto piú difficile rispetto

al passato. E le cose peggiorano se il giornalismo, invece di esercitare la propria funzione di controllo, si dedica soprattutto a intrattenere i propri lettori, ascoltatori e telespettatori con scandali e pettegolezzi. Tutto ciò favorisce nel grande pubblico un atteggiamento tollerante o indifferente verso l’immoralità. In occasione delle ultime elezioni peruviane, lo scrittore Jorge Eduardo Benavides si stupí che un tassista di Lima gli dicesse che avrebbe votato per Keiko Fujimori, la figlia del dittatore che sta scontando una pena di venticinque anni di prigione per furti e omicidi. «Non le importa che il presidente Fujimori fosse un ladro?», chiese al tassista. «No», rispose quello. «Perché Fujimori ha rubato solo il giusto». Il giusto! L’espressione riassume in modo impareggiabile tutto ciò che sto cercando di spiegare. La valutazione piú attendibile del denaro sottratto da Alberto Fujimori e dal suo braccio destro, Vladimiro Montesinos, nei dieci anni passati al potere (1990-2000), fatta dalla procura è di circa seimila milioni di dollari dei quali la Svizzera, le isole Cayman e gli Stati Uniti hanno restituito sinora al Perú soltanto centottantaquattro milioni. Quel tassista non era il solo a pensare che un simile volume di sottrazioni fosse accettabile, visto che la figlia del dittatore ha perso le elezioni del 2011, ma stava per vincerle: Ollanta Humala l’ha sconfitta per una differenza minima di soli tre punti. Nulla demoralizza tanto una società né discredita tanto le istituzioni quanto il fatto che i suoi governanti, eletti in modo piú o meno pulito, approfittino del potere per arricchirsi tradendo la fiducia pubblica riposta in loro. In America Latina – anche in altre regioni del mondo, naturalmente – il fattore piú rilevante nella criminalizzazione dell’attività pubblica è stato il narcotraffico. Si tratta di un’industria che ha vissuto una modernizzazione e una crescita portentose, poiché ha approfittato meglio di ogni altra della globalizzazione per estendere le proprie reti al di là dei propri confini, diversificandosi, trasformandosi e riciclandosi nella legalità. Gli enormi guadagni hanno permesso a questo traffico di infiltrarsi in tutti i settori dello Stato. Potendo pagare salari migliori rispetto a quest’ultimo, l’organizzazione compra o corrompe giudici, parlamentari, ministri, poliziotti, legislatori, burocrati, o ricorre a intimidazioni e a ricatti che, in molti luoghi, le garantiscono l’impunità. Quasi ogni giorno in un paese latino-americano si scopre un nuovo caso di corruzione legato al narcotraffico. La cultura contemporanea fa sí che tutto ciò, invece di risvegliare lo spirito critico della

società e la sua volontà di combatterlo, sia guardato solo di sfuggita e vissuto dal grande pubblico con la rassegnazione e il fatalismo che si riserva ai fenomeni naturali – i terremoti e gli tsunami – e come una rappresentazione teatrale che, pur tragica e cruenta, suscita emozioni forti e vivacizza la vita quotidiana. Naturalmente la cultura non è l’unica responsabile del discredito della politica e della funzione pubblica. Un’altra ragione che spiega l’allontanamento dalla vita politica da parte dei professionisti e dei tecnici piú preparati è quanto siano in genere mal retribuiti gli incarichi pubblici. In quasi tutti i paesi del mondo il salario di una mansione ufficiale non è paragonabile a quello che può guadagnare presso un’azienda privata un giovane dotato di buone credenziali e di talento. L’abbassamento dei salari percepiti dai dipendenti pubblici è una misura che in genere l’opinione pubblica apprezza, soprattutto quando l’immagine del servitore dello Stato è in ribasso, ma i suoi effetti sono fatali per il paese. I salari bassi sono un incentivo alla corruzione. E allontanano dagli organismi pubblici i cittadini onesti con la formazione migliore, facendo sí che tali incarichi si riempiano spesso di incompetenti e di individui dalla scarsa morale. Affinché una democrazia funzioni correttamente è indispensabile una burocrazia capace e onesta, come quelle che, in passato, hanno fatto la grandezza della Francia, dell’Inghilterra o del Giappone, per citare soltanto tre casi esemplari. In questi luoghi, sino a un’epoca relativamente recente, servire lo Stato era un lavoro ambito perché faceva sentire rispettati, onorati e consapevoli di contribuire al progresso della nazione. I funzionari, in genere, potevano contare su salari dignitosi e su una certa sicurezza riguardo al loro futuro. Anche se molti di loro avrebbero guadagnato di piú presso le aziende private, preferivano il servizio pubblico perché il denaro che non vi percepivano era compensato da un lavoro che li faceva sentire rispettati, poiché i loro concittadini riconoscevano l’importanza della funzione che ricoprivano. Ai nostri giorni, questa cosa è scomparsa quasi del tutto. Il funzionario è discreditato tanto quanto il politico di professione e l’opinione pubblica di solito non lo vede come un elemento chiave del progresso bensí come un freno e un parassita del Bilancio. Naturalmente l’inflazione burocratica, l’aumento irresponsabile dei funzionari per ripagare favori politici e creare clientele fedeli, in alcuni casi ha trasformato l’amministrazione pubblica in un labirinto, dove ogni minima pratica diventa

un incubo per il cittadino che non ha conoscenze e non può e non vuole pagare tangenti. Ma è ingiusto generalizzare e fare di tutta l’erba un fascio, quando in molti si oppongono all’apatia e al pessimismo e dimostrano con il loro discreto eroismo che la democrazia funziona. Una convinzione tanto diffusa quanto ingiusta è quella che le democrazie liberali siano minate dalla corruzione, che alla fine realizzerà ciò che il defunto comunismo non ha ottenuto: farle crollare. Non si scoprono ogni giorno, in quelle antiche e in quelle nuovissime, disgustosi casi di governanti e funzionari cui il potere politico serve per mettere insieme, a velocità supersonica, una fortuna? Non sono forse innumerevoli i casi di giudici corrotti, di contratti non conformi, di imperi economici che annoverano nei propri libri paga militari, poliziotti, ministri, doganieri? Non è forse vero che il marciume del sistema ha raggiunto livelli tali che ci si può soltanto rassegnare, accettando che la società è una selva nella quale i lupi mangiano gli agnelli e tale resterà sempre? È questo atteggiamento pessimista e cinico, non la corruzione diffusa, che può portare davvero alla rovina le democrazie liberali, trasformandole in un guscio privo di sostanza e di verità, quello che i marxisti ridicolizzavano con l’appellativo di democrazia «formale». In molti casi è un atteggiamento inconsapevole, che si traduce nel disinteresse e nell’apatia verso la vita pubblica, nello scetticismo verso le istituzioni, nella reticenza a metterle alla prova. Quando ampi settori di una società devastata dalla leggerezza soccombono al catastrofismo e all’anomia civile, i lupi e le iene hanno campo libero. Non esiste una ragione ineluttabile per cui ciò debba accadere. Il sistema democratico non garantisce che la disonestà e la furbizia svaniscano dai rapporti umani; ma stabilisce una serie di meccanismi volti a minimizzarne i danni, a individuare, denunciare e punire coloro che se ne servono per scalare le gerarchie o arricchirsi e, cosa piú importante di tutte, per riformare il sistema in modo che tali crimini comportino sempre piú rischi per coloro che li commettono. Ai nostri giorni non c’è democrazia in cui le nuove generazioni aspirino a servire lo Stato con l’entusiasmo con il quale pochi anni fa i giovani idealisti del Terzo Mondo si dedicavano all’azione rivoluzionaria. Negli anni Sessanta e Settanta tale dedizione portò sulle montagne e nelle foreste di quasi tutta

l’America Latina centinaia di ragazzi che vedevano nella rivoluzione socialista un ideale degno cui sacrificare la propria vita. Sbagliavano credendo che il comunismo fosse preferibile alla democrazia, naturalmente, ma non si può negare che il loro agire fosse coerente con un ideale. Ai nostri giorni, in altre regioni del mondo, come l’Afghanistan, il Pakistan o l’Iraq, giovani impregnati di integralismo islamico offrono le proprie vite trasformandosi in bombe umane per eliminare decine di innocenti in mercati, autobus e uffici, convinti che tali immolazioni purifichino il mondo dagli individui sacrileghi, concupiscenti e crociati. Naturalmente una simile follia terrorista merita di essere condannata e ripudiata. Ma ciò che sta accadendo oggi in Medio Oriente non ci ridà forse entusiasmo, dimostrando che la cultura della libertà è viva e capace di imprimere alla storia una svolta radicale in una regione dove ciò appariva poco meno che impossibile? La rivolta dei popoli arabi contro le satrapie corrotte che li sfruttavano e li costringevano nell’oscurantismo ha già destituito tre tiranni, l’egiziano Mubarak, il tunisino Ben Ali e il libico Gheddafi. Il resto dei regimi autoritari della regione, a cominciare dalla Siria, è minacciato da questo risveglio di milioni di uomini e di donne che aspirano a sbarazzarsi dell’autoritarismo, della censura, del saccheggio delle ricchezze, a trovare lavoro e a vivere senza paura, in pace e libertà, godendo della modernità. È un movimento generoso, idealista, antiautoritario, popolare e profondamente democratico. È nato laico e civile e non è stato guidato né inglobato dalle frange integraliste – non ancora, per lo meno – che vorrebbero sostituire alle dittature militari quelle religiose. Per evitare che ciò accada, è indispensabile che le democrazie occidentali mostrino la propria solidarietà e appoggino attivamente coloro che oggi in tutto il Medio Oriente lottano e muoiono per vivere in libertà. Eppure, di fronte a ciò che accade in questi luoghi, chiediamoci: quanti giovani occidentali oggi sarebbero disposti ad affrontare il martirio per la cultura democratica cosí come hanno fatto o stanno facendo i libici, i tunisini, gli egiziani, gli yemeniti, i siriani e altri? Quanti tra coloro che godono del privilegio di vivere in società aperte, protette da uno Stato di diritto, rischierebbero la vita per difendere questo tipo di società? Pochissimi, per la semplice ragione che la società democratica e liberale, pur avendo favorito i livelli di vita piú alti della storia e ridotto maggiormente la violenza sociale,

lo sfruttamento e la discriminazione, invece di risvegliare adesioni entusiastiche, di solito provoca in chi ne beneficia noia e indifferenza, se non un’ostilità sistematica. Per esempio, tra gli artisti e gli intellettuali. Ho cominciato a scrivere queste righe quando, sotto la dittatura cubana, un dissidente, Orlando Zapata, si era lasciato morire dopo ottantacinque giorni di sciopero della fame per protestare contro le condizioni dei prigionieri politici sull’isola, e un altro, Guillermo Fariñas, stava agonizzando dopo varie settimane senza cibo. In quei giorni ho letto sui giornali spagnoli gli insulti rivolti contro di loro da un attore e un cantante, entrambi famosi, che, ripetendo le dichiarazioni ufficiali della dittatura caraibica, li definivano «delinquenti». Nessuno dei due vedeva la differenza tra Cuba e la Spagna per quanto riguarda la repressione politica e la mancanza di libertà. Come spiegare un simile atteggiamento? Fanatismo? Ignoranza? Semplice stupidità? No. Frivolezza. I buffoni e i comici, divenuti maîtres à penser della società contemporanea, pensano per come sono: che cosa c’è di strano? Le loro opinioni paiono rispondere a presunte idee progressiste ma, in realtà, ripetono un copione snobistico di sinistra: smuovere le acque, far parlare. Non è un male che i principali privilegiati della libertà critichino le società aperte, in cui esistono molte cose criticabili; ma lo è se lo fanno schierandosi in favore di coloro che le vogliono distruggere e sostituire con regimi autoritari, come il Venezuela e Cuba. Il tradimento degli ideali democratici da parte di molti artisti e intellettuali non va a discapito di principî astratti, ma di milioni di persone in carne e ossa che, sotto le dittature, resistono e lottano per raggiungere la libertà. Ma la cosa piú triste è che questo tradimento delle vittime non risponda a principî e convinzioni, bensí a un opportunismo professionale e a pose, gesti e assurdità di circostanza. Molti artisti e intellettuali del nostro tempo sono diventati assai dozzinali. Un aspetto nevralgico della nostra epoca che contribuisce a indebolire la democrazia è l’indifferenza verso la legge, un’altra delle gravissime conseguenze della civiltà dello spettacolo. Attenzione, non bisogna confondere questa indifferenza verso la legge con l’atteggiamento ribelle o rivoluzionario di coloro che vogliono distruggere il sistema normativo esistente perché lo considerano intollerabile e aspirano a sostituirlo con un altro piú equo e giusto. L’indifferenza verso la

legge non ha niente a che vedere con questo intento riformistico o rivoluzionario, in cui si annidano una speranza di cambiamento e la scommessa su una società migliore. Tali atteggiamenti nella cultura del nostro tempo sono quasi svaniti con il grande fallimento dei paesi comunisti, la cui fine è stata segnata dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, la scomparsa dell’Unione Sovietica e la trasformazione della Cina popolare in un paese basato su un’economia capitalista pur conservando un sistema politico piramidale e autoritario. Naturalmente, qua e là, sono rimasti alcuni eredi dell’utopia crollata, ma si tratta di gruppi e gruppuscoli minoritari senza grandi prospettive. Gli ultimi paesi comunisti del pianeta, Cuba e la Corea del Nord, sono due anacronismi viventi, nazioni da museo, che non possono costituire un modello per nessuno. E casi come il Venezuela del comandante Hugo Chávez, che ora si barcamena, nonostante le abbondanti riserve di petrolio, in una crisi economica senza precedenti, non possono risuscitare nel mondo il modello comunista che negli anni Sessanta e Settanta è riuscito a entusiasmare importanti settori del Primo e del Terzo Mondo. L’indifferenza verso la legge è nata in seno agli Stati di diritto, e consiste in un atteggiamento civile di disprezzo e di noncuranza rispetto al sistema normativo esistente e in un’indifferenza e in un’anomia morale che autorizzano il cittadino a trasgredire e ad aggirare le leggi ogni volta che può per trarne beneficio, lucrando, soprattutto, ma anche, spesso, semplicemente per manifestare il suo disprezzo, la sua mancanza di fiducia o per farsi beffe dell’ordine esistente. Non sono pochi coloro che, nell’èra della civiltà dello svago, violano la legge per divertirsi, come chi pratica uno sport a rischio. Una spiegazione per l’indifferenza verso la legge è che spesso le leggi sono malfatte, non per il comune beneficio bensí in favore degli interessi privati, o concepite con tale inettitudine che i cittadini si vedono incentivati ad aggirarle. È ovvio che se un governo opprime arbitrariamente i contribuenti con le imposte, questi saranno tentati di sottrarsi ai propri doveri tributari. Le cattive leggi non vanno soltanto contro gli interessi dei cittadini comuni; in piú, discreditano il sistema normativo e fomentano l’indifferenza verso la legge che, come un veleno, corrode lo Stato di diritto. Ci sono sempre stati cattivi governi e ci sono sempre state leggi assurde o ingiuste. Ma, in una società democratica, a differenza di quanto accade nella dittatura, esistono modi di denunciare, combattere e correggere tali errori attraverso meccanismi di partecipazione al sistema: la libertà di stampa, il diritto di

critica, il giornalismo indipendente, i partiti di opposizione, le elezioni, la mobilitazione dell’opinione pubblica, i tribunali. Ma perché ciò accada è imprescindibile che il sistema democratico possa contare sulla fiducia e il sostegno dei cittadini, e che, al di là delle sue mancanze, tale sistema appaia sempre perfettibile. L’indifferenza verso la legge deriva dal crollo di questa fiducia, dalla sensazione che sia il sistema stesso a essere marcio e che le cattive leggi che produce non siano eccezioni, ma la conseguenza inevitabile della corruzione e dei traffici che costituiscono la sua ragion d’essere. Una delle conseguenze dirette dello svilimento della politica provocato dalla civiltà dello spettacolo è l’indifferenza verso la legge. Ricordo che una delle impressioni piú forti che ebbi nel 1966, quando andai a vivere in Inghilterra – avevo trascorso i sette anni precedenti in Francia – fu scoprire il rispetto, direi quasi naturale – spontaneo, istintivo e razionale insieme – dell’inglese comune verso la Legge. La spiegazione sembrava essere la convinzione fermamente radicata nei cittadini che, in generale, le leggi fossero ben concepite, che la loro finalità e fonte di ispirazione fosse il bene comune, e che, quindi, avessero una legittimità morale: ciò che la legge autorizzava era un bene ed era positivo e ciò che proibiva era un male ed era negativo. Mi sorprese perché in Francia, in Spagna, in Perú o in Bolivia, paesi in cui ero vissuto in precedenza, non avevo avvertito nulla del genere. L’identificazione tra la legge e la morale è una caratteristica anglosassone e protestante, di solito non esiste nei paesi latini né in quelli ispanici. In questi ultimi i cittadini tendono piuttosto a rassegnarsi alla legge che a vedervi l’incarnazione di principî morali e religiosi, a considerare la legge come un corpo estraneo (non necessariamente ostile né antagonista) rispetto alle loro convinzioni spirituali. In ogni caso, se la distinzione era reale nei quartieri in cui ho vissuto a Londra, probabilmente non lo è piú oggi che, in gran parte a causa della globalizzazione, l’indifferenza verso la legge ha equiparato i paesi anglosassoni a quelli latini e ispanici. L’indifferenza presuppone che le leggi siano opera di un potere che non ha altra ragione d’essere se non quella di servire se stesso, ossia chi lo incarna e lo amministra, e che, pertanto, le leggi, i regolamenti e le disposizioni che ne scaturiscono portino il segno dell’egoismo e degli interessi privati e di gruppo, cosa che esonera moralmente il cittadino comune dal rispettarli. La maggioranza delle persone di solito osserva la legge perché non ha

alternative, per paura, perché avverte, cioè, che il tentativo di violare le norme porterebbe piú danni che benefici, ma questo atteggiamento indebolisce tanto la legittimità e la forza di un sistema normativo quanto quella di coloro che delinquono violandolo. E ciò significa che, anche per quanto riguarda il rispetto delle leggi, la civiltà contemporanea rappresenta un simulacro che, spesso e in molti luoghi, diventa pura farsa. Ai nostri giorni l’indifferenza diffusa verso la legge è piú evidente rispetto a ogni altro ambito nella pirateria di libri, dischi, videocassette e altri prodotti audiovisivi, specie la musica, che regna sovrana ovunque ed è ormai radicata, quasi senza ostacoli e, si direbbe, persino con il beneplacito generale, in tutti i paesi del mondo. In Perú, per esempio, la pirateria di video e film ha fatto fallire la catena Blockbuster e da allora i peruviani appassionati del cinema sul piccolo schermo, anche volendo, non possono trovare dvd ufficiali perché non esistono quasi piú sul mercato, salvo in pochi negozi, che importano solo alcuni titoli e li vendono carissimi. L’intero paese si procura film pirata, principalmente presso lo straordinario mercato di Polvos Azules, a Lima, dove, sotto gli occhi di tutti – compresi i poliziotti addetti alla sorveglianza per scongiurare i furti – si vendono ogni giorno per pochi soles – centesimi di dollaro – migliaia di videocassette e dvd pirata di film classici e moderni, molti dei quali non sono ancora arrivati nei cinema della città. L’industria della pirateria è tanto efficiente che, se il cliente non trova il film che sta cercando, lo può ordinare e, nel giro di pochi giorni, se lo trova tra le mani. Cito il caso di Polvos Azules per la grandezza del luogo e per la sua efficienza commerciale. È diventato un’attrazione turistica. Ci sono persone che vengono dal Cile e dall’Argentina ad approvvigionarsi di film pirata a Lima per arricchire la propria videoteca. Ma questo mercato non è l’unico luogo nel quale la pirateria prospera alla luce del sole e con il beneplacito generale. Chi rinuncerebbe a comprare film pirata che costano mezzo dollaro se quelli ufficiali (che quasi non si trovano neppure) costano cinque volte tanto? Oggi i venditori di dvd pirata sono ovunque e conosco persone che ordinano i film ai loro «commercianti di fiducia» per telefono, poiché esiste anche un servizio a domicilio. Quelli che, come me, si mostrano restii ad acquistare film pirata per una questione di principio si contano sulla punta delle dita e (non senza una qualche ragione) vengono considerati degli imbecilli.

Ciò che accade per i dvd accade anche per i libri. La pirateria editoriale ha avuto uno sviluppo notevole, soprattutto nel mondo sottosviluppato, e le campagne contro di essa fatte dagli editori e dalle Cámaras del Libro di solito falliscono rovinosamente, per via dell’appoggio scarso o nullo che ricevono dai governi e, soprattutto, dalla popolazione, che non si fa alcuno scrupolo a comprare libri illegali, con la scusa del prezzo basso cui sono venduti in confronto ai libri ufficiali. A Lima, uno scrittore, critico e professore universitario ha fatto un pubblico elogio della pirateria editoriale, dicendo che grazie a questa i libri arrivavano alla gente. Non si pensa che la pirateria costituisce un furto ai danni dell’editore legittimo, dell’autore e dello Stato cui l’editore pirata sottrae le tasse; non lo si pensa per la semplice ragione che l’indifferenza verso la legalità è generalizzata. La pirateria editoriale è cominciata come un’industria artigianale, ma, grazie all’immunità di cui gode, si è modernizzata al punto che non si può escludere, in paesi come il Perú, che succeda ai libri ciò che è accaduto ai film in dvd: che i pirati schiaccino gli editori ufficiali diventando padroni del mercato. Alfaguara, l’editore che mi pubblica, calcola che per ogni mio libro ufficiale venduto in Perú, se ne vendono sei o sette piratati. (Una delle edizioni pirata del mio romanzo La festa del caprone è stata stampata nella stamperia dell’Esercito!) Ma ancora peggiore del caso dei film e dei libri è quello della musica. Non solo per la proliferazione di cd pirata, ma per la leggerezza e l’impunità assoluta con cui gli utenti di Internet scaricano canzoni, concerti e dischi dalla Rete. Tutte le campagne per arrestare la pirateria in ambito musicale sono state inutili e, di fatto, molte etichette discografiche sono fallite o sono sull’orlo della bancarotta per via di questa concorrenza sleale che il pubblico, in una manifestazione flagrante di indifferenza verso la legge, mantiene viva e alimenta. Le mie affermazioni sui film, i dischi, i libri e la musica in generale valgono anche, naturalmente, per un numero infinito di prodotti, profumi, vestiti, scarpe. Una delle ultime volte che sono stato a Roma ho dovuto accompagnare alcuni amici in visita turistica a un grande «mercato dell’imitazione» (imitazioni di scarpe e abiti firmati) dove i prodotti, completi di etichetta, si vendevano a un quarto o un quinto rispetto agli originali. L’indifferenza verso la legge non è dunque una prerogativa del Terzo Mondo. Comincia a produrre danni anche nel Primo, minacciando la sopravvivenza di industrie e negozi che operano nella legalità.

L’indifferenza verso la legge ci porta inevitabilmente a una dimensione piú spirituale della vita in società. Il grande discredito della politica è senza dubbio collegato alla rottura dell’ordine spirituale che, in passato, per lo meno nel mondo occidentale, fungeva da freno per gli spropositi e gli eccessi commessi da chi deteneva il potere. Una volta venuta meno la tutela spirituale della vita pubblica, si è creato un terreno fertile per tutti i demoni che hanno svilito la politica e indotto i cittadini a non vedervi nulla di nobile e di altruistico, ma una pratica dominata dalla disonestà. La cultura dovrebbe colmare il vuoto che un tempo era riempito dalla religione. Ma è impossibile che ciò accada se la cultura, tradendo questa responsabilità, si orienta in modo risoluto verso la facilità, rifugge i problemi piú urgenti e diventa mero intrattenimento.

Precedenti

Pubblico e privato «Pietra de Toque», in «El País», 16 gennaio 2011.

Da quando ho cominciato a leggere i suoi libri e i suoi articoli, circa una trentina di anni fa, mi capita con Fernando Savater una cosa che non mi accade con nessun altro dei miei scrittori preferiti: non dissento quasi mai dai suoi giudizi e dalle sue critiche. Le sue ragioni, in genere, mi convincono subito, anche se perché accada devo rivedere in modo radicale ciò che pensavo sino a quel momento. Che esprima opinioni sulla politica, sulla letteratura, sull’etica e persino sui cavalli (di cui non so nulla, tranne che non ho mai azzeccato una scommessa le poche volte che ho messo piede in un ippodromo), Savater mi è sempre sembrato un esempio di intellettuale impegnato, attento ai principî e insieme pragmatico, uno dei rari pensatori contemporanei capaci di vedere sempre chiaro nell’intricata selva del XXI secolo e di guidare noi che ci muoviamo un po’ smarriti per ritrovare la strada. Tutto ciò a proposito di un suo articolo su Wikileaks e Julian Assange che ho appena letto sulla rivista «Tiempo» (numero dal 23 dicembre 2010 al 6 gennaio 2011). Prego caldamente coloro che hanno celebrato la diffusione delle migliaia di documenti riservati del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti come una prodezza libertaria, di leggere questo articolo che trasuda intelligenza, coraggio e buon senso. Anche se non li indurrà a cambiare idea, li porterà per lo meno a riflettere e a chiedersi se il loro entusiasmo non sia stato un po’ precipitoso. Savater osserva che nella vasta messe di materiali filtrati le rivelazioni importanti sono quasi assenti, che le informazioni e le opinioni riservate venute alla luce erano già note o ipotizzabili per qualunque osservatore dell’attualità politica piú o meno informato, e che vi prevale soprattutto il pettegolezzo destinato a saziare una frivolezza che, sotto il nome rispettabile

di trasparenza, è in realtà il venerato «diritto di tutti a sapere tutto di tutto: non ci devono essere segreti e riserve che possano contrariare la curiosità di qualcuno […] succeda quel che succeda, anche a costo di perdere qualche pezzo per strada». Questo presunto «diritto» è, aggiunge, «parte dell’attuale rimbecillimento sociale». Sottoscrivo in toto questa affermazione. La rivoluzione audiovisiva dei nostri tempi ha infranto le barriere che la censura opponeva alla libera informazione e alla dissidenza critica, e grazie a questo i regimi autoritari hanno molte meno possibilità rispetto al passato di costringere i propri popoli nell’ignoranza e di manipolare l’opinione pubblica. Questo, naturalmente, costituisce un grande progresso per la cultura della libertà e bisogna approfittarne. Ma da qui a concludere che la trasformazione eccezionale delle comunicazioni che Internet ha portato autorizzi gli internauti a sapere tutto e a divulgare tutto ciò che accade sotto il sole (o sotto la luna), facendo sparire completamente il confine che separa pubblico e privato, c’è un abisso che, se venisse abolito, potrebbe non significare un’impresa libertaria ma un puro e semplice liberticidio, il quale, oltre a minare le basi della democrazia, infliggerebbe un duro colpo alla civiltà. Nessuna democrazia potrebbe funzionare se sparisse la riservatezza delle comunicazioni tra funzionari e autorità, né avrebbe senso alcuna forma di politica nell’ambito della diplomazia, della difesa, della sicurezza, dell’ordine pubblico e persino dell’economia se i processi che determinano tali politiche fossero di dominio pubblico in ogni particolare. Il risultato di un simile esibizionismo informativo sarebbe la paralisi delle istituzioni e ciò semplificherebbe alle organizzazioni antidemocratiche l’azione di ostacolare e annullare tutte le iniziative in contrasto con i loro disegni autoritari. Il libertinaggio informativo non ha nulla a che vedere con la libertà di espressione, si colloca piuttosto ai suoi antipodi. Un simile libertinaggio è possibile solo nelle società aperte, non in quelle sottoposte a un controllo poliziesco verticale che punisce ferocemente ogni tentativo di violare la censura. Non è casuale che i duecentocinquantamila documenti riservati che Wikileaks ha ottenuto provengano da informatori statunitensi e non russi o cinesi. Anche se le intenzioni del signor Julian Assange rispondono, come si è detto, al sogno utopistico e anarchico della trasparenza totale, le sue operazioni per porre fine al «segreto» possono condurre piuttosto, nelle società aperte, alla nascita di movimenti d’opinione

che, sbandierando la difesa dell’indispensabile riservatezza interna degli stati, pongono freni e limitazioni a uno dei diritti piú importanti della vita democratica: quello alla libera espressione e alla critica. In una società libera l’azione dei governi è controllata dal Congresso, dal potere giudiziario, dalla stampa indipendente e d’opposizione, dai partiti politici, istituzioni che, naturalmente, hanno il sacrosanto diritto di denunciare i raggiri e le menzogne cui in certi casi ricorrono alcune autorità per coprire azioni e traffici illeciti. Ma Wikileaks non ha fatto nulla di tutto ciò, bensí ha distrutto brutalmente la riservatezza di comunicazioni in cui i diplomatici e gli addetti informano i propri superiori riguardo a fatti privati politici, economici, culturali e sociali dei paesi in cui operano. Gran parte di questo materiale è costituito da dati e da commenti la cui diffusione, seppure non cosí significativa, crea situazioni molto delicate per i funzionari in questione e alimenta suscettibilità, rancori, risentimenti con l’unico risultato di compromettere i rapporti tra paesi alleati e screditarne i governi. Non si tratta, quindi, di combattere una «menzogna» ma, in effetti, di soddisfare la curiosità morbosa e malsana della civiltà dello spettacolo, quella del nostro tempo, in cui il giornalismo (cosí come la cultura in generale) sembra svilupparsi all’unico fine di intrattenere. Il signor Julian Assange, piú che un grande paladino della libertà, è un entertainer o intrattenitore di successo, l’Oprah Winfrey dell’informazione. Se non esistesse, il nostro tempo lo avrebbe inventato, prima o poi, perché questo personaggio è il simbolo emblematico di una cultura nella quale il valore supremo dell’informazione è diventato quello di divertire un pubblico stolto e superficiale, avido di scandali che pescano nell’intimità dei personaggi famosi, ne mostrano le debolezze e gli intrighi e li trasformano nei buffoni della grande farsa che è la vita pubblica. Anche se, forse, parlare di «vita pubblica» è ormai inesatto, poiché, affinché questa esista, dovrebbe esistere anche la sua contropartita, la «vita privata», che invece è andata quasi scomparendo per trasformarsi in un concetto vuoto e fuori moda. Che cos’è il privato ai nostri giorni? Una delle involontarie conseguenze della rivoluzione informatica è quella di aver fatto sparire i confini che lo separavano dal pubblico, confondendo entrambi in un happening in cui tutti siamo insieme spettatori e attori, in cui ci esibiamo reciprocamente esponendo la nostra vita privata e ci divertiamo osservando quella altrui in uno striptease generalizzato che non salvaguarda piú nulla dalla morbosa

curiosità di un pubblico reso depravato dalla stoltezza. La scomparsa del privato, il mancato rispetto dell’intimità altrui, diventata una parodia che eccita l’interesse generale, e l’esistenza di un’industria dell’informazione che alimenta senza sosta e senza limiti questo voyeurismo universale, è una manifestazione di barbarie. Poiché con la scomparsa della sfera privata molte delle migliori creazioni e funzioni umane si deteriorano e si avviliscono, a cominciare da tutto ciò che è subordinato all’attenzione verso una determinata forma, come l’erotismo, l’amore, l’amicizia, il pudore, la buona educazione, la creazione artistica, il sacro e la morale. I governi scelti tramite elezioni legittime possono essere rovesciati da rivoluzionari che vogliono portare il paradiso in terra (benché spesso portino piuttosto l’inferno), non c’è nulla da fare. Possono nascere conflitti e persino guerre sanguinarie tra paesi che sostengono religioni, ideologie o ambizioni incompatibili, ed è una vera disgrazia. Ma che simili tragedie accadano perché i nostri contemporanei privilegiati si annoiano e hanno bisogno di emozioni forti e perché un internauta intuitivo come Julian Assange dà loro ciò che chiedono, non è né possibile né accettabile.

Capitolo sesto L’oppio dei popoli

A differenza di quanto immaginavano i liberi pensatori agnostici e atei dell’Ottocento e del Novecento, nell’èra postmoderna la religione non è morta e sepolta e non è finita nel dimenticatoio: è viva e vegeta, al centro dell’attualità. Non c’è modo di sapere, naturalmente, se il fervore di credenti e praticanti delle diverse religioni che esistono al mondo sia aumentato o diminuito. Ma nessuno può negare lo spazio che occupa l’elemento religioso nella vita sociale, politica e culturale contemporanea, probabilmente altrettanto grande o maggiore rispetto all’Ottocento, quando le lotte intellettuali e civili in favore o contro il laicismo erano una preoccupazione centrale in un gran numero di paesi da entrambi i lati dell’Atlantico. Al momento, il grande protagonista della politica attuale, il terrorista suicida, legato alla religione in modo viscerale, è un sottoprodotto della versione piú integralista e fanatica dell’islamismo. La lotta di Al-Qaeda e del suo leader, il defunto Osama Bin Laden, non lo dimentichiamo, è innanzitutto religiosa, un’offensiva purificatrice contro i cattivi musulmani, i rinnegati dell’islam, cosí come contro infedeli, nazareni (cristiani) e degenerati dell’Occidente capeggiati dal Grande Demonio, gli Stati Uniti. Nel mondo arabo il conflitto che ha generato piú violenze ha un carattere inequivocabilmente religioso e il terrorismo islamista sinora ha fatto piú vittime tra i musulmani stessi che tra i fedeli di altre religioni. Soprattutto se si considera il numero di iracheni morti o mutilati per mano dei gruppi sciiti e sunniti e quelli uccisi in Afghanistan dai talebani, movimento integralista nato nelle madrase o scuole religiose afghane e pachistane, e che, cosí come Al Qaeda, non ha mai esitato a uccidere i musulmani che non condividevano il suo puritanesimo integralista. Le divisioni e i conflitti diversi che percorrono le società musulmane non hanno contribuito minimamente ad attenuare l’influenza della religione nella vita dei popoli, bensí a esacerbarla. In ogni caso, non è stato il laicismo a guadagnare terreno; piuttosto, in paesi come il Libano e la Palestina, i focolai laici negli ultimi anni si sono ridotti con la crescita di forze politiche come

quella di Hezbollah («Il Partito di Dio») libanese e di Hamas, che ha ottenuto il controllo della Striscia di Gaza tramite elezioni pulite. Questi partiti, cosí come il jihad islamico-palestinese, hanno un’origine fondamentalmente religiosa. E, nelle prime elezioni libere che si sono tenute nella storia della Tunisia e dell’Egitto, la maggior parte dei voti ha favorito i partiti islamici (piú moderati). Se questo è ciò che accade in seno all’islam, non si può dire che la convivenza tra le diverse denominazioni, chiese e sette cristiane sia sempre pacifica. Nell’Irlanda del Nord la lotta tra la maggioranza protestante e la minoranza cattolica, ora interrotta (si spera per sempre), ha lasciato dietro di sé un’incredibile scia di morti e feriti per le azioni criminali degli estremisti di entrambe le parti. Anche in questo caso il conflitto politico tra unionisti e indipendentisti è stato accompagnato da un simultaneo e piú profondo antagonismo religioso, come tra le fazioni avversarie dell’islam. Il cattolicesimo vive grandi conflitti al suo interno. Sino a qualche anno fa, il piú intenso era quello fra tradizionalisti e progressisti promotori della Teologia della Liberazione, conflitto che, dopo l’elezione di due pontefici dalla linea conservatrice – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – sembra essersi risolto, per il momento, con il contenimento (non la sconfitta) di quest’ultima tendenza. Oggi, il problema piú grave che sta affrontando la chiesa cattolica è la rivelazione di una forte tradizione di violenze e di pedofilia nelle scuole, nei seminari, nelle residenze e nelle parrocchie, realtà scabrosa rivelata per anni da indizi e sospetti che, per molto tempo, la Chiesa ha messo a tacere. Ma, negli ultimi tempi, in seguito ad azioni giudiziarie e denunce presentate dalle vittime, gli abusi sessuali hanno cominciato a venire alla luce in numero tale che non si può parlare di casi isolati, bensí di pratiche molto diffuse nello spazio e nel tempo. E questo ha fatto rabbrividire il mondo intero, soprattutto i fedeli. Le testimonianze di migliaia di vittime venute fuori in quasi tutti i paesi cattolici hanno portato la Chiesa in alcuni luoghi, come l’Irlanda e gli Stati Uniti, sulle soglie del fallimento viste le somme elevatissime che è stata costretta a spendere per difendersi in tribunale o per pagare i danni alle vittime delle violenze e delle molestie sessuali compiute da sacerdoti. Nonostante le proteste, è evidente che almeno parte della gerarchia ecclesiastica – le accuse in questo senso sono arrivate al pontefice in persona – è stata complice dei religiosi pedofili e stupratori, proteggendoli, rifiutandosi di denunciarli alle autorità, e limitandosi a

spostarli senza sospenderli dalle loro funzioni sacerdotali, compreso l’insegnamento ai minori. La condanna severissima che papa Benedetto XVI ha rivolto ai Legionari di Cristo, annunciandone la riorganizzazione totale, e al suo fondatore, padre Marcial Maciel, messicano, bigamo, incestuoso, truffatore, stupratore di bambini e bambine, compreso uno dei suoi figli – personaggio che sembra uscito dai romanzi del Marchese de Sade – non ha dissipato completamente le ombre che tutto questo ha gettato su una delle piú importanti religioni del mondo. Lo scandalo ha contribuito a diminuire l’influenza della chiesa cattolica? Non mi sentirei di sostenerlo. È vero che in molti paesi i seminari vengono chiusi per mancanza di novizi e che, in confronto a quelle di un tempo, le elemosine, le donazioni, le eredità e i lasciti che riceve la Chiesa sono diminuiti. Ma, al di là dei numeri, si direbbe che le difficoltà abbiano acuito l’energia e la militanza dei cattolici, che non sono mai stati cosí attivi nelle loro campagne sociali, quando manifestano contro i matrimoni gay, la legalizzazione dell’aborto, le pratiche anticoncezionali, l’eutanasia e il laicismo. In paesi come la Spagna, la mobilitazione cattolica – tanto quella della gerarchia quanto quella delle organizzazioni secolari della Chiesa – incredibile per ampiezza, raggiunge a momenti una virulenza che non si può affatto considerare propria di una Chiesa in declino o ai ferri corti. Il potere politico e sociale che nella maggior parte dei paesi latino-americani esercita la chiesa cattolica è intatto e a questo si deve che, in materia di libertà sessuale e nella liberazione della donna, i progressi siano minimi. Nella stragrande maggioranza dei paesi ibero-americani, la chiesa cattolica è riuscita a ottenere che la «pillola» e la «pillola del giorno dopo» continuino a essere illegali, cosí come ogni tipo di pratica anticoncezionale. La proibizione, è chiaro, vale solo per le donne povere, perché dalla classe media in su gli anticoncezionali, cosí come l’aborto, sono ampiamente diffusi nonostante la proibizione. Qualcosa di simile si può dire delle chiese protestanti. Queste ultime, spesso con l’appoggio dei cattolici, negli Stati Uniti hanno deciso di mobilitarsi perché l’insegnamento scolastico si attenga ai postulati della Bibbia, e sia abolita dai programmi la teoria di Darwin sulla selezione della specie e sull’evoluzione, sostituita dal «creazionismo», o «disegno intelligente», posizione antiscientifica che, per quanto possa sembrare anacronistica e oscurantista, non è impossibile che possa imporsi in alcuni

stati nordamericani nei quali l’influenza religiosa è molto grande in campo politico. D’altro canto, l’offensiva missionaria protestante in America Latina e in altre regioni del Terzo Mondo è enorme, decisa, e ha ottenuto risultati notevoli. Le chiese evangeliche hanno relegato in luoghi periferici e marginali, estremamente poveri, il cattolicesimo che, per la mancanza di sacerdoti o per la diminuzione del fervore missionario, ha ceduto terreno alle impetuose chiese protestanti. Queste ultime sono ben viste dalle donne perché vietano l’alcol e pretendono una dedizione costante alle pratiche religiose nei nuovi membri, contribuendo cosí alla stabilità delle famiglie e a tenere i mariti lontani da bar e bordelli. La verità è che in quasi tutti i conflitti piú cruenti degli ultimi tempi – Israele-Palestina, guerra nei Balcani, violenze in Cecenia, incidenti in Cina nella regione di Sinkiang, dove c’è stata una sollevazione degli uiguri, di religione musulmana, massacri tra indú e musulmani in India, scontri tra l’India e il Pakistan, e cosí via – la religione si rivela la ragione profonda del conflitto e della divisione sociale celata dietro le carneficine. Il caso dell’Urss e dei paesi satelliti è istruttivo. Con il crollo del comunismo, dopo settant’anni di persecuzione delle chiese e di predicazione dell’ateismo, non solo la religione non è scomparsa, ma è rinata ed è tornata a occupare un posto predominante nella vita sociale. È capitato in Russia, dove le chiese sono di nuovo piene e i pope sono ricomparsi nel mondo ufficiale e ovunque, e nelle società che sono state sotto il controllo sovietico. Con il crollo del comunismo, la religione, ortodossa o cattolica, sta rifiorendo, e questo fenomeno indica che non è mai scomparsa, ma è rimasta silente e nascosta per resistere all’assedio, contando sempre sull’appoggio discreto di vasti settori della società. La rinascita della chiesa ortodossa russa è impressionante. I governi sotto la presidenza di Putin, e poi di Medvedev, hanno cominciato a restituire le chiese e le proprietà religiose confiscate dai bolscevichi, ed è in corso persino la restituzione delle cattedrali del Cremlino, cosí come di conventi, scuole, opere d’arte e cimiteri che un tempo appartenevano alla Chiesa. Si stima che, dalla caduta del comunismo, il numero di fedeli ortodossi sia triplicato in tutta la Russia. La religione, dunque, non dà segni di scomparire. Tutto sembra indicare che avrà ancora lunga vita. È una cosa positiva o negativa per la cultura e per la libertà?

La risposta a questa domanda data dallo scienziato britannico Richard Dawkins, che ha pubblicato un libro contro la religione e in difesa dell’ateismo – L’illusione di Dio – cosí come dal giornalista e saggista Christopher Hitchens, autore di un altro libro recente dal titolo significativo, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, non lascia adito a dubbi. Ma nella recente polemica che li ha visti protagonisti e ha riportato in vita le accuse di oscurantismo, superstizione, irrazionalità, discriminazione di genere, autoritarismo e conservatorismo retrogrado contro le religioni, sono intervenuti anche numerosi scienziati, come il premio Nobel per la Fisica Charles Tornes (che sostiene la tesi del «disegno intelligente»), e pubblicisti che, con entusiasmo non minore, difendono le proprie fedi religiose e confutano gli argomenti secondo i quali la fede in Dio e la pratica religiosa sarebbero incompatibili con la modernità, il progresso, la libertà e le scoperte e le verità della scienza contemporanea. Non è una polemica in cui si può vincere o perdere in base alle ragioni, perché queste sono sempre precedute da un parti pris: un atto di fede. Non c’è modo di dimostrare razionalmente se Dio esiste o non esiste. Qualunque ragionamento in favore di una tesi trova il suo equivalente in quello contrario, di modo che in questo ambito ogni analisi o discussione che voglia limitarsi al campo delle idee e delle argomentazioni deve cominciare escludendo la premessa metafisica e teologica – l’esistenza o non esistenza di Dio – e concentrarsi sugli effetti e sulle conseguenze che ne derivano: la funzione di chiese e religioni nello sviluppo storico e nella vita culturale dei popoli, argomento che invece rientra in ciò che può essere verificato dalla ragione umana. Un dato fondamentale da tenere presente è che la fede in un essere supremo, creatore di ciò che esiste, e in un’altra vita che precede e segue quella terrena, fa parte di tutte le culture e civiltà conosciute. Non esistono eccezioni a questa regola. Tutte hanno il loro dio o i loro dèi e tutte credono in un’altra vita dopo la morte, anche se le caratteristiche di questa trascendenza variano all’infinito secondo il tempo e il luogo. A che cosa si deve che gli esseri umani di tutte le epoche e latitudini abbiano fatto propria questa credenza? Gli atei hanno la risposta pronta: all’ignoranza e alla paura della morte. Uomini e donne, a prescindere dal loro grado di informazione o di cultura, dal piú primitivo al piú raffinato, non si rassegnano all’idea della scomparsa definitiva, alla propria esistenza come fatto passeggero e

accidentale e, per questo, hanno bisogno che ci sia un’altra vita e un essere supremo che la presieda. La forza della religione è tanto maggiore quanto piú grande è l’ignoranza di una comunità. Quando la conoscenza scientifica elimina cispe e superstizioni della mente umana, sostituendole con verità obiettive, tutta la costruzione artificiale dei culti e delle credenze con cui il primitivo cerca di spiegarsi il mondo, la natura e l’aldilà, comincia a sgretolarsi. È l’inizio della fine per questa interpretazione magica e irrazionale della vita e della morte, ciò che a lungo andare farà marcire e svanire la religione. Questa è la teoria. Nella pratica non è accaduto e non ha l’aria di voler accadere. Lo sviluppo della conoscenza scientifica e tecnologica dall’età delle caverne è stato fenomenale (non sempre benefico) e ha permesso all’essere umano di conoscere profondamente la natura, lo spazio siderale, il proprio corpo, di capire il proprio passato, di sostenere battaglie decisive contro le malattie e di migliorare le condizioni di vita dei popoli in modo inimmaginabile per i nostri antenati. Ma, tranne che in minoranze relativamente piccole, non è riuscito a estirpare Dio dal cuore degli uomini né a fare in modo che le religioni scomparissero. L’argomento degli atei è che si tratta di un processo ancora in corso, che l’avanzamento della scienza non si è arrestato, ma continua a progredire e che presto o tardi si giungerà alla fine di questa lotta atavica in cui Dio e la religione scompariranno, espulsi dalla vita dei popoli per mano delle verità scientifiche. Questo articolo di fede per i liberali e i progressisti ottocenteschi è difficile da accettare se si guarda al mondo di oggi, che lo smentisce in ogni dove: Dio ci circonda completamente e, mascherate sotto travestimenti politici, le guerre religiose continuano a provocare danni all’umanità cosí come accadeva nel Medioevo. Il che non dimostra che Dio esista effettivamente, ma che una grande maggioranza di esseri umani, tra cui molti tecnici e scienziati celebri, non sono disposti a rinunciare alla divinità che garantisce loro una qualche forma di sopravvivenza dopo la morte. Del resto non è stata solo l’idea della morte, della scomparsa fisica, a mantenere viva la trascendenza nel corso della storia. Anche la convinzione complementare che sia necessaria, indispensabile, per rendere questa vita sopportabile, una dimensione superiore a quella terrena, nella quale si premia il bene e si punisce il male, si discriminano le azioni buone da quelle cattive, si rimedia alle ingiustizie e alle crudeltà di cui siamo vittime e si puniscono

coloro che ce le hanno inflitte. La realtà è che, nonostante tutti i progressi che ha fatto la società dai tempi antichi in materia di giustizia, non esiste comunità umana in cui il grosso della popolazione non abbia il sentimento e la convinzione assoluta che la giustizia completa non è di questo mondo. Tutti credono che, a prescindere da quanto sia equa la legge e quanto rispettabile il corpo di magistrati incaricati di amministrare la giustizia, o quanto onorevoli e degni siano i governi, la giustizia non arriverà mai a essere una realtà tangibile e alla portata di tutti, capace di salvaguardare l’individuo comune, il cittadino anonimo, dall’abuso, la sopraffazione e la discriminazione da parte dei potenti. Per questo non è raro che la religione e le pratiche religiose siano piú radicate nelle classi e nei ceti piú sfavoriti della società, quelli contro i quali, per la loro povertà e vulnerabilità, si accaniscono abusi e vessazioni di ogni sorta che in genere rimangono impuniti. Si sopportano meglio la povertà, la discriminazione, lo sfruttamento e la sopraffazione se si crede che ci saranno un risarcimento e una riparazione postumi per tutto ciò. (Per questo Marx ha definito la religione «oppio dei popoli», droga che anestetizzava lo spirito ribelle dei lavoratori e permetteva ai loro padroni di sfruttarli in tutta tranquillità). Un’altra ragione per la quale gli esseri umani si aggrappano all’idea di un dio onnipotente e di una vita ultraterrena è che tutti, chi piú chi meno, sospettano che se questa idea scomparisse e si imponesse come verità scientifica inequivocabile che Dio non esiste e che la religione non è altro se non un inganno privo di sostanza e di realtà, sopraggiungerebbero, prima o poi, una barbarizzazione generalizzata della vita sociale, una regressione selvaggia alla legge del piú forte, e la conquista dello spazio sociale da parte delle tendenze piú distruttive e crudeli che si annidano nell’uomo e che, in ultima istanza, sono frenate e attenuate non dalle leggi umane o dalla morale riconosciuta dalla razionalità dei governanti, ma dalla religione. Detto in altri termini, se esiste ancora qualcosa che si può chiamare morale, un corpo di regole di comportamento che favoriscono il bene, la coesistenza nella diversità, la generosità, l’altruismo, la compassione, il rispetto del prossimo, e rifiutano la violenza, l’abuso, il furto, lo sfruttamento, è la religione, la legge divina e non le leggi umane. Se scomparisse questo antidoto, la vita diventerebbe a poco a poco un sabba di ferinità, prepotenza ed eccesso, in cui coloro che detengono qualunque forma di potere – politico, economico, militare e cosí via – si sentirebbero liberi di perpetrare tutte le ruberie

immaginabili, lasciando briglia sciolta ai propri istinti e appetiti piú distruttivi. Se questa vita è l’unica che abbiamo, se non c’è nulla dopo e scompariremo per sempre, perché non dovremmo cercare di sfruttarla al massimo, anche se questo dovesse significare precipitare nella rovina e seminare intorno a noi le vittime dei nostri istinti sfrenati? Gli uomini si impegnano a credere in Dio perché non confidano in se stessi. E la storia ci dimostra che hanno una qualche ragione, perché sinora non ci siamo dimostrati affidabili. Ciò non significa, naturalmente, che il vigore della religione garantisca il trionfo del bene sul male in questo mondo e l’efficacia di una morale che contrasta la violenza e la crudeltà nei rapporti umani. Significa soltanto che, per quanto vada male il mondo, un oscuro istinto fa pensare a gran parte dell’umanità che andrebbe ancora peggio se gli atei e i laici a oltranza raggiungessero il loro fine sradicando Dio e la religione dalle nostre vite. Questa può essere soltanto un’intuizione o una credenza (un altro atto di fede): non ci sono statistiche in grado di provare se sia cosí o il contrario. In definitiva, c’è una ragione ultima, filosofica o, piú propriamente, metafisica, che spiega il prolungato radicamento di Dio e della religione nella coscienza umana. Contrariamente a quanto credevano i liberi pensatori, né la conoscenza scientifica né la cultura in generale – meno che mai una cultura devastata dalla frivolezza – sono sufficienti a liberare l’uomo dalla solitudine in cui precipita con il presentimento dell’inesistenza di un aldilà, di una vita ultraterrena. Non si tratta di paura della morte, di terrore di fronte alla prospettiva dell’estinzione totale. Ma della sensazione di abbandono e di smarrimento in questa vita, qui e ora, che si fa largo nell’essere umano di fronte al semplice sospetto dell’inesistenza di un’altra vita, di un aldilà nel quale un essere o una serie di esseri piú potenti e saggi degli umani conoscono e determinano il senso della vita, dell’ordine temporale e storico, ossia del mistero in cui nasciamo, viviamo e moriamo, e alla cui saggezza possiamo avvicinarci abbastanza da capire la nostra esistenza, in modo da darle un fondamento e una giustificazione. Con tutti i suoi progressi, la scienza non è riuscita a svelare questo mistero ed è difficile che ci riesca mai. Pochissimi esseri umani sono capaci di accettare l’idea dell’«assurdo esistenziale», che siamo stati «scagliati» qui nel mondo da un caso incomprensibile, da un incidente siderale, che le nostre vite sono meri accidenti sprovvisti di ordine e concerto, e che tutto ciò che vi accade o non

accade dipende esclusivamente dalla nostra condotta e dalla nostra volontà e dalla situazione sociale e storica in cui siamo inseriti. La sola idea, che Albert Camus ha descritto nel Mito di Sisifo con lucidità e serenità, deducendone splendide conclusioni sulla bellezza, la libertà e il piacere, fa precipitare il comune mortale nell’anomia, nella paralisi e nella disperazione. Nel saggio iniziale dell’Uomo e il divino 1, intitolato Della nascita degli dèi, María Zambrano si chiede: «Come sono nati gli dèi, e perché?» (23). La risposta che dà è precedente e piú profonda rispetto alla semplice presa di coscienza da parte dell’uomo primitivo del proprio abbandono, della propria solitudine e della propria vulnerabilità. In realtà, dice la Zambrano, è un elemento costitutivo, una «necessità abissale, che definisce la condizione umana» (27), il sentire di fronte al mondo l’«estraneità» che provoca nell’essere umano un «delirio di persecuzione» il quale cessa soltanto, o per lo meno si placa, quando egli riconosce e si sente circondato dagli dèi di cui ha presentito l’esistenza e che lo hanno fatto vivere nell’angoscia e nella frenesia prima di riconoscerli e inglobarli nella propria esistenza. María Zambrano analizza il caso specifico degli dèi greci, ma le sue conclusioni valgono per tutte le civiltà e le culture. Se cosí non fosse, si chiede, «Perché ci sono sempre stati degli dèi, di diverso tipo certo, ma pur sempre dèi?» (27). La risposta a questo interrogativo viene fornita in un altro saggio del libro, La traccia del paradiso, e non potrebbe essere piú convincente: Nei due punti estremi che segnano l’orizzonte umano, il passato perduto e il futuro da creare, risplendono la sete e l’ansia di una vita che sia divina senza cessare di essere umana, di una vita divina che l’uomo pare aver sempre considerato come modello previo, che si è via via delineato attraverso la confusione in immagini variegate, come un raggio di luce pura che si colora attraversando la torbida atmosfera delle passioni, della necessità e della sofferenza (282).

Negli anni Sessanta ho vissuto, a Londra, un’epoca in cui irrompeva con forza una nuova cultura che da lí si sarebbe diffusa in buona parte del mondo occidentale, quella degli hippie e dei figli dei fiori. La cosa piú nuova e macroscopica era la rivoluzione musicale che portò con sé, quella dei Beatles e dei Rolling Stones, una nuova estetica nell’abbigliamento, la rivendicazione della marijuana e di altre droghe, la libertà sessuale, ma, anche, il rifiorire di una religiosità che, discostandosi dalle grandi religioni tradizionali

dell’Occidente, si rivolgeva verso l’Oriente, soprattutto al buddismo e all’induismo, e a tutti i culti legati a questi, cosí come a innumerevoli sette e pratiche religiose primitive, molte di origini dubbie e, a volte, fabbricate da guru da strapazzo e da pittoreschi approfittatori. Ma non importa quanto vi fosse di ingenuità, moda e posa in questa tendenza; la cosa certa dietro la proliferazione di chiese e credenze esotiche, genuine o infondate, è che migliaia di giovani di tutto il mondo vi si sono buttati e hanno dato loro vita, o hanno fatto un pellegrinaggio a Katmandu come un tempo i loro nonni andavano in Terrasanta o i musulmani a La Mecca, hanno mostrato in modo palpabile questa necessità di una vita spirituale e di trascendenza da cui si sono liberate solo piccole minoranze nel corso della storia. A questo proposito è istruttivo che tanti spiriti insubordinati e ribelli verso la supremazia del cristianesimo soccombessero poi alla malia e alle prediche religioso-psichedeliche di personaggi come il padre dell’Lsd, Timothy Leary, il Maharishi Mahesh Yogi, santone e guru preferito dei Beatles, o il profeta coreano dei Moonies e della Chiesa dell’Unificazione, il reverendo Sun Myung Moon. Molti non hanno preso granché sul serio questo rifiorire superficiale di religiosità, dalle sfumature pittoresche, ingenue, con una veste cinematografica e la proliferazione di culti e chiese promossi da una pubblicità chiassosa e di cattivo gusto come quella dei prodotti commerciali di consumo domestico. Che siano recenti, a volte grottescamente ingannevoli, che approfittino della mancanza di cultura, dell’ingenuità e della frivolezza dei loro adepti, non impedisce loro di svolgere un servizio spirituale e di contribuire a riempire un vuoto nelle vite delle persone, cosí come accade a milioni di altri esseri umani con le chiese tradizionali. Non si spiega in altro modo che alcune di queste chiese comparse di recente, come Scientology, fondata da L. Ron Hubbard e sponsorizzata da alcune stelle di Hollywood, tra cui Tom Cruise e John Travolta, abbiano resistito all’attacco che hanno subito in paesi quali la Germania, dove l’organizzazione è stata accusata di lavaggio del cervello e di sfruttamento di minori, e abbiano costruito un vero e proprio impero economico internazionale. Non ha nulla di sorprendente che nella civiltà della pantomima la religione si avvicini al circo e a volte si confonda con esso. Per fare un bilancio della funzione svolta dalle religioni nel corso della storia umana, è imprescindibile separare gli effetti sortiti in ambito privato e

individuale e in quello pubblico e sociale. I due non vanno confusi perché si perderebbero sfumature e fatti fondamentali. A chi crede e pratica, la religione – sia questa profonda, antica e popolare, o contemporanea, superficiale e minuscola – serve, naturalmente. Gli permette di spiegarsi chi è e che cosa sta a fare in questo mondo, gli fornisce un ordine, una morale per organizzare la sua vita e il suo comportamento, una speranza di eternità dopo la morte, una consolazione nelle avversità, e il sollievo e la sicurezza che derivano dal sentirsi parte di una comunità che condivide credenze, riti e modi di vita. Soprattutto per coloro che soffrono e sono vittime di abusi, sfruttamento, povertà, frustrazione, disgrazia, la religione è un’ancora di salvezza cui aggrapparsi per non soccombere alla disperazione, che annulla la capacità di reazione e di resistenza di fronte all’avversità e spinge al suicidio. Anche dal punto di vista sociale sono molte le conseguenze positive della religione. Nel caso del cristianesimo, per esempio, è stata una vera rivoluzione per l’epoca la predica del perdono allargata ai nemici, che Cristo insegnava ad amare tanto quanto gli amici, e la trasformazione della povertà in un valore morale che Dio avrebbe premiato nell’altra vita («gli ultimi saranno i primi»), cosí come la condanna della ricchezza e dei ricchi che fa Gesú nel Vangelo secondo Matteo (19, 24): «È piú facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Il cristianesimo ha proposto la fratellanza universale, combattendo i pregiudizi e la discriminazione tra le razze, le culture e le etnie e sostenendo che tutte, senza eccezione, erano figlie di Dio e benvenute nella casa del Signore. Sebbene queste idee e predicazioni abbiano tardato a farsi strada e a tradursi in forme di comportamento da parte di stati e governi, hanno contribuito ad alleviare le forme piú brutali di sfruttamento, di discriminazione e di violenze, a umanizzare la vita nel mondo antico, e hanno gettato le basi di ciò che, con il passare del tempo, sarebbe sfociato nel riconoscimento dei diritti umani, nell’abolizione della schiavitú, nella condanna del genocidio e della tortura. In altre parole, il cristianesimo ha dato una spinta determinante alla nascita della cultura democratica. Tuttavia, mentre da una parte serviva questa causa con la filosofia implicita nella sua dottrina, dall’altra il cristianesimo sarebbe diventato, soprattutto in società che non avevano sperimentato un processo di secolarizzazione, uno degli ostacoli maggiori per la diffusione e il radicamento della democrazia. In questo non si è rivelato diverso da

nessun’altra religione. Le religioni ammettono e proclamano soltanto verità assolute e ciascuna rifiuta quelle delle altre in maniera categorica. Tutte aspirano non soltanto a conquistare le anime e il cuore degli esseri umani, ma anche le loro azioni. Finché fu una religione praticata nelle catacombe, marginale, perseguitata, di gente povera e indifesa, il cristianesimo rappresentò una forma di civiltà in contrasto con la barbarie dei pagani, con le loro violenze folli, con i loro pregiudizi e con le loro superstizioni, con gli eccessi delle loro vite e con il loro modo disumano di trattare l’altro. Ma quando fece presa e cominciò a inglobare nelle proprie file le classi dirigenti, passando a condividere il governo o a governare direttamente la società, il cristianesimo perse l’apparenza mansueta che aveva. Una volta al potere è diventato intollerante, dogmatico, esclusivista e fanatico. La difesa dell’ortodossia l’ha portato a tollerare e a esercitare in prima persona violenze uguali o peggiori di quelle che avevano subito i primi cristiani da parte dei pagani, e a guidare e a legittimare guerre e crudeltà inique verso gli avversari. La sua identificazione o vicinanza con il potere l’ha indotto spesso a fare concessioni vergognose ai re, ai principi, ai capi militari e, in generale, ai potenti. Se in alcune epoche, come il Rinascimento, la Chiesa ha favorito lo sviluppo delle arti e delle lettere – né Dante né Piero della Francesca né Michelangelo sarebbero stati possibili senza di essa – in seguito sarebbe diventata, nell’ambito del pensiero, brutale e repressiva tanto quanto lo era stata sin dall’inizio nell’ambito della ricerca scientifica, censurando e punendo persino con la tortura e la morte i pensatori, gli scienziati e gli artisti sospettati di eterodossia. Le crociate, l’Inquisizione, l’Indice sono altrettanti simboli dell’intransigenza, del dogmatismo e della ferocia con cui la Chiesa ha contrastato la libertà intellettuale, scientifica e artistica, cosí come lo sono le dure battaglie scatenate contro di essa dai grandi paladini della libertà nei paesi cattolici. Nei paesi protestanti c’è stata un’intolleranza minore verso la scienza e una censura meno severa verso la letteratura e le arti, ma non è stata inferiore a quella cattolica la rigidità per quanto concerne la famiglia, il sesso e l’amore. In entrambi i casi, la discriminazione della donna ha sempre visto la Chiesa in prima fila, e in entrambi, la Chiesa ha incoraggiato e tollerato l’antisemitismo. Solo con la secolarizzazione la Chiesa avrebbe accettato (rassegnandovisi, piú che altro) la necessità di dare a Cesare quel che era di Cesare e a Dio quello che era di Dio, ammettendo cioè una divisione netta tra

l’ambito spirituale e quello temporale, esercitando la sua sovranità nel primo e rispettando nel secondo ciò che avrebbero deciso i cittadini, cristiani e non cristiani. Senza questo processo di secolarizzazione che ha allontanato la Chiesa dal governo temporale non ci sarebbe stata la democrazia, sistema che significa coesistenza nella diversità, pluralismo civile e anche religioso, e leggi che possono non solo non coincidere con la filosofia e la morale cristiane, ma dissentirne radicalmente. La secolarizzazione della società è stata intesa, durante la Rivoluzione francese, negli ambienti anarchici e comunisti durante la Seconda Repubblica spagnola o in un periodo importante della Rivoluzione messicana e nelle Rivoluzioni della Russia e della Cina, come un attacco frontale alla religione volto a estirparla dalla società. Sono stati bruciati conventi e chiese, sono stati uccisi religiosi e fedeli, sono state proibite le pratiche liturgiche, è stata eliminata dalle scuole ogni forma d’insegnamento cristiano e sono stati caldeggiati vivamente l’ateismo e il materialismo. Tutto ciò non solo è stato crudele e ingiusto, ma, soprattutto, inutile. Le persecuzioni hanno avuto l’effetto di una potatura, poiché, dopo un certo periodo, hanno fatto rinascere con piú vigore le credenze e le pratiche religiose. La Francia, la Russia e il Messico di oggi ne sono l’esempio migliore. La secolarizzazione non può significare persecuzione, discriminazione né proibizione delle credenze e dei culti, ma libertà priva di vincoli affinché i cittadini esercitino e vivano la propria fede senza il minimo ostacolo, sempre e quando rispettino le leggi imposte dai parlamenti e dai governi democratici. Il dovere di questi ultimi è garantire che nessuno sia attaccato o perseguitato in ragione della sua fede e, nello stesso tempo, operare in modo che le leggi siano rispettate anche quando si discostano dalle dottrine religiose. Questo è accaduto in tutti i paesi democratici in questioni come il divorzio, l’aborto, il controllo delle nascite, l’omosessualità, i matrimoni omosessuali, l’eutanasia, la decriminalizzazione delle droghe. In generale, la Chiesa ha limitato la propria reazione a proteste legittime, come manifesti, meeting, pubblicazioni e campagne volte a mobilitare l’opinione pubblica contro le riforme e le disposizioni che rifiuta, benché al suo interno ci siano istituzioni e preti estremisti che incoraggiano le pratiche autoritarie dell’estrema destra. La salvaguardia del secolarismo è requisito indispensabile per la sopravvivenza e il perfezionamento della democrazia. Per averne una prova basta rivolgere lo sguardo verso le società nelle quali il processo di

secolarizzazione è assente o minimo, come accade nella stragrande maggioranza dei paesi musulmani. L’identificazione dello Stato con l’islam – i casi estremi sono oggi l’Arabia Saudita e l’Iran – ha rappresentato un ostacolo insormontabile per la democratizzazione della società ed è servito – serve ancora, anche se, finalmente, sembra che nel mondo arabo sia incominciato un processo di emancipazione – a preservare sistemi dittatoriali che impediscono la libera coesistenza delle religioni ed esercitano un controllo illegittimo e dispotico sulla vita privata dei cittadini, punendoli duramente (arrivando sino al carcere, alla tortura e all’esecuzione) se si discostano dalle prescrizioni dell’unica religione tollerata. La situazione delle società cristiane prima della secolarizzazione non era molto diversa e continuerebbe a essere tale se questo processo non avesse avuto luogo. Cattolicesimo e protestantesimo hanno ridotto la propria intolleranza e hanno accettato di coesistere con altre religioni non perché la loro dottrina fosse meno totalizzante e intollerante rispetto a quella dell’islam, ma perché indotti dalle circostanze, da determinati movimenti e da una pressione sociale che hanno costretto la Chiesa a retrocedere e l’hanno obbligata ad adattarsi agli usi democratici. Non è vero che l’islam sia incompatibile con la cultura della libertà, non meno del cristianesimo, in ogni caso. La differenza è che nelle società cristiane si è avuto, sotto la spinta di movimenti politici disubbidienti e ribelli e di una filosofia laica, un processo che ha costretto la religione a privatizzarsi, a destatalizzarsi, grazie al quale è prosperata la democrazia. In Turchia, grazie a Mustafa Kemal Atatürk, la società ha vissuto un processo di secolarizzazione (introdotta con metodi violenti) e, da alcuni anni, benché la maggioranza dei turchi sia di confessione musulmana, la società è andata aprendosi alla democrazia molto di piú rispetto al resto dei paesi islamici. Il laicismo non va contro la religione; va contro la trasformazione della religione in un ostacolo all’esercizio della libertà e in una minaccia contro il pluralismo e la diversità che caratterizzano una società aperta. In questo la religione appartiene all’ambito del privato e non deve usurpare le funzioni dello Stato, il quale deve mantenersi laico proprio per evitare il monopolio in campo religioso, sempre fonte di abuso e di corruzione. L’unico modo di esercitare l’imparzialità in grado di garantire il diritto di tutti i cittadini a professare la religione che hanno scelto o a rifiutarle tutte, è che lo Stato sia laico, ossia, non subordinato a istituzione religiosa alcuna nei suoi doveri di funzione. Fintanto che la religione si manterrà nell’ambito del privato, non

rappresenterà un pericolo per la cultura democratica ma, piuttosto, un suo caposaldo e un suo complemento insostituibile. A questo punto ci addentriamo in un terreno difficile e controverso sul quale il parere dei democratici non è unanime, neppure quello dei liberali. Perciò è bene muoversi con prudenza, evitando le mine di cui è disseminato. Cosí come sono fermamente convinto che il laicismo sia insostituibile in una società davvero libera, credo con non meno fermezza che, perché una società sia tale, sia altrettanto necessario che vi prosperi un’intensa vita spirituale – che per la grande maggioranza delle persone significa vita religiosa – poiché, altrimenti, né le leggi né le istituzioni concepite al meglio funzionano a dovere e, spesso, si compromettono o si corrompono. La cultura democratica non è costituita soltanto da istituzioni e leggi che garantiscono l’equità, l’uguaglianza di fronte alla legge, le uguali opportunità, i mercati liberi, una giustizia indipendente ed efficace, che implica giudici onesti e capaci, il pluralismo politico, la libertà di stampa, una società civile forte, i diritti umani. Anche e soprattutto, dalla convinzione radicata nei cittadini che tale sistema sia il migliore possibile e dalla volontà di farlo funzionare. Tutto ciò non può esistere senza alcuni valori e paradigmi civili e morali profondamente ancorati nel corpo sociale, cosa che, per l’immensa maggioranza degli esseri umani, è inscindibile dalle convinzioni religiose. È vero che a cominciare dal Settecento e dall’Ottocento nel mondo occidentale ci sono stati, tra i liberi pensatori – sempre minoritari –, cittadini esemplari cui l’agnosticismo o l’ateismo non hanno impedito di avere un comportamento irreprensibile, all’insegna dell’onestà, del rispetto della legge e della solidarietà sociale. È stato cosí in Spagna, nei primi decenni del Novecento, per tanti maestri e maestre impregnati di ideologia anarchica, che la morale laica, altamente civile, ha reso veri e propri missionari sociali: compiendo grandi sacrifici personali e conducendo vite spartane si sono sforzati di alfabetizzare e di preparare i ceti piú poveri ed emarginati della società. Si potrebbero citare molti esempi del genere. Ma, con le dovute eccezioni, è indubbio che la morale laica in questione ha attecchito soltanto in gruppi ridotti. È ancora una realtà incontrovertibile che, per le grandi maggioranze, la religione è la fonte primaria e maggiore dei principî morali e civili, base della cultura democratica. E che quando, come accade oggi nelle società libere, tanto del Primo come del Terzo Mondo, la religione comincia a perdere terreno, mordente e credito, divenendo superficiale e frivola – mera

facciata sociale – il risultato è rovinoso, e può arrivare a essere tragico per il funzionamento delle istituzioni democratiche. Accade in ogni ambito della vita sociale, ma il fenomeno, senza dubbio, è piú evidente in economia. La chiesa cattolica e il capitalismo non sono mai andati d’accordo. Dall’inizio della Rivoluzione industriale inglese, che ha dato il via allo sviluppo economico e all’economia di mercato, i papi hanno lanciato duri anatemi, in encicliche e sermoni, contro un sistema che, a loro giudizio, stimolava la brama di ricchezze materiali, l’egoismo, l’individualismo, accentuava le differenze economiche e sociali tra ricchi e poveri e allontanava gli esseri umani dalla vita sociale e religiosa. Esiste un fondo di verità in queste critiche, che tuttavia perdono la loro capacità persuasiva se collocate in un contesto storico e sociale piú ampio, quello della trasformazione positiva che hanno apportato agli esseri umani nel loro complesso il regime della proprietà privata e un’economia libera nella quale imprese e imprenditori competono secondo regole chiare ed eque per soddisfare le necessità dei consumatori. A questo sistema si deve che buona parte dell’umanità si sia liberata di quello che Karl Marx chiamava «il cretinismo della vita rurale», che sia progredita la medicina in particolare e le scienze in generale e che siano aumentati vertiginosamente i livelli di vita in tutte le società aperte, mentre quelle prigioniere languivano in un regime patrimonialista e mercantilista che portava povertà, ristrettezze e miseria per la maggior parte della popolazione e lusso e opulenza per i vertici sociali. Il mercato libero, sistema insuperato e insuperabile per quanto riguarda la distribuzione delle risorse, ha fatto nascere le classi medie, che dànno stabilità e pragmatismo politico alle società moderne, e ha fatto sí che la maggior parte dei cittadini avesse una vita dignitosa, cosa mai accaduta prima nella storia dell’umanità. Detto questo, è vero che il sistema dell’economia libera accentua le differenze economiche e alimenta il materialismo, la brama consumistica, il possesso di ricchezze e un atteggiamento aggressivo, bellicoso ed egoista il quale, se non trova alcun freno, può arrivare a provocare sconvolgimenti profondi e drammatici nella società. Di fatto, la recente crisi finanziaria internazionale, che ha fatto vacillare tutto l’Occidente, ha origine nella cupidigia sfrenata di banchieri, investitori e finanzieri che, accecati dalla sete di moltiplicare le proprie entrate, hanno violato le regole del gioco del

mercato, hanno ingannato, truffato e provocato un cataclisma economico che ha rovinato milioni di persone nel mondo. D’altro canto, nelle attività creative, non pratiche, per cosí dire, il capitalismo determina una confusione totale tra prezzo e valore che va sempre a danno di quest’ultimo, cosa che, prima o poi, conduce alla degradazione della cultura e dello spirito rappresentata dalla civiltà dello spettacolo. Il mercato libero fissa i prezzi dei prodotti in funzione dell’offerta e della domanda, facendo sí quasi ovunque, anche nelle società piú colte, che opere letterarie e artistiche di altissimo valore siano sottovalutate e accantonate, perché sono ostiche e richiedono una certa formazione intellettuale e una sensibilità acuta per essere apprezzate come si deve. La contropartita è che, quando il gusto del grande pubblico determina il valore di un prodotto culturale, è inevitabile, in moltissimi casi, che scrittori, pensatori e artisti mediocri o insignificanti, ma appariscenti e pirotecnici, abili nella pubblicità e nell’autopromozione o capaci di soddisfare sapientemente i peggiori istinti del pubblico, raggiungano livelli altissimi di popolarità, siano ritenuti, dalla maggioranza incolta, i migliori e che le opere siano le piú quotate e diffuse. Come abbiamo visto nell’ambito della pittura, per esempio, questo ha portato le opere di veri e propri turlupinatori, grazie alle mode e alla manipolazione del gusto dei collezionisti da parte di galleristi e critici, a prezzi esorbitanti. E ha indotto pensatori come Octavio Paz a condannare il mercato e ad additarlo come il maggiore responsabile della bancarotta culturale nella società contemporanea. L’argomento è vasto e complesso, e affrontarlo in tutte le sue sfaccettature ci porterebbe molto lontano dal tema di questo capitolo, che è la funzione della religione nella cultura del nostro tempo. Basti segnalare, tuttavia, che tanto quanto il mercato, in questa anarchia e nei molteplici malintesi che la scissione tra prezzo e valore ha causato per i prodotti culturali, influisce la scomparsa delle élite e della critica e dei critici, che un tempo stabilivano gerarchie e paradigmi estetici, fenomeno non relazionato direttamente con il mercato, bensí con l’impegno di democratizzare la cultura e renderla alla portata di tutti. I grandi pensatori liberali, da John Stuart Mill sino a Karl Popper, passando per Adam Smith, Ludwig von Mises, Friedrich Hayek, Isaiah Berlin e Milton Friedman, hanno tutti affermato che la libertà economica e politica svolge correttamente la propria funzione di civilizzazione, di creazione di ricchezza e di impiego e di difesa dell’individuo sovrano, dell’applicazione

della legge e del rispetto dei diritti umani, solo quando la vita spirituale della società è intensa ed è in grado di mantenere viva e di ispirare una gerarchia di valori rispettata e osservata dal corpo sociale. Questo era il modo migliore, a loro parere, perché lo iato tra prezzo e valore scomparisse o per lo meno si attenuasse. Il grande fallimento, e le crisi che vive incessantemente il sistema capitalistico – la corruzione, il mercato di favori, le operazioni commerciali per arricchirsi trasgredendo la legge, la cupidigia frenetica che spiega le grandi frodi di enti bancari e finanziari e cosí via – non si debbono a carenze costitutive delle sue istituzioni, ma al crollo del fondamento morale e spirituale incarnato nella vita religiosa che funge da argine e da correttivo permanente per mantenere il capitalismo all’interno di determinate norme di onestà, rispetto del prossimo e della legge. Quando questa struttura di carattere etico, invisibile ma influente, crolla e svanisce per vasti settori sociali, soprattutto quelli che hanno maggiore ingerenza e responsabilità nella vita economica, si diffonde l’anarchia e una serie di elementi perturbanti comincia a intaccare l’economia delle società libere, provocando una sfiducia crescente in un sistema che pare funzionare solo a beneficio dei piú potenti (o dei piú disonesti) e a danno dei cittadini comuni, privi di risorse e privilegi. La religione, che in passato ha dato al capitalismo un grande spazio nelle coscienze, come ha osservato Max Weber nel suo saggio sulla religione protestante e sullo sviluppo del capitalismo, banalizzandosi sino a scomparire in molti strati della società moderna – precisamente nelle élite – ha contribuito a provocare la «crisi del capitalismo» di cui si parla sempre di piú, mentre, con la scomparsa dell’Urss e la trasformazione della Cina in un paese capitalista autoritario, è sembrato che il socialismo, nella pratica, fosse giunto alla fine della sua storia. La frivolezza disarma la cultura miscredente dal punto di vista morale. Ne mina i valori e lascia filtrare nel suo esercizio pratiche disoneste e, a volte, apertamente delittuose, senza che vi sia alcun tipo di sanzione morale. E questo è ancora piú grave se chi delinque – per esempio violando la privacy di una persona famosa per esibirla in una situazione imbarazzante – è premiato con il successo mediatico e può godere dei quindici minuti di fama che nel 1968 Andy Warhol aveva previsto per tutti. Un esempio recentissimo di ciò che voglio dire è il simpatico truffatore Tommaso Debenedetti, che per anni ha pubblicato sui giornali italiani «interviste» a scrittori, politici, religiosi (compreso il papa) che, spesso, venivano riproposte dai giornali

stranieri. Erano tutte false, inventate di sana pianta. Io stesso sono stato tra i suoi «intervistati». Lo ha scoperto il romanziere americano Philip Roth, che non si è riconosciuto in alcune dichiarazioni che gli venivano attribuite dalle agenzie di stampa. Ha cominciato a seguire la pista della notizia, sino a trovare il truffatore. È capitato qualcosa a Tommaso Debenedetti per aver ingannato giornali e lettori con i settantanove articoli falsi individuati sinora? Nessuna punizione. La rivelazione della truffa lo ha reso un eroe mediatico, un mascalzone audace e inoffensivo la cui immagine e le cui imprese hanno fatto il giro del mondo come quelle di un eroe del nostro tempo. E di certo, pur essendo triste da riconoscere, lo è. Lui si difende con questo bel paradosso: «Ho mentito, ma solo per poter dire una verità». Quale? Che viviamo in un tempo di truffe, in cui il delitto, se è divertente e intrattiene il grosso dei lettori, viene perdonato. Negli ultimi anni due questioni hanno riportato alla ribalta il tema della religione e provocato aspre polemiche nelle democrazie avanzate. La prima questione è se, nelle scuole pubbliche, amministrate dallo Stato e finanziate da tutti i contribuenti, si debba escludere ogni forma di insegnamento religioso e lasciare che questo sia limitato alla sfera privata. E, la seconda, se nelle scuole si debba proibire l’uso del velo, del burqa e dell’hijab a bambine e ragazze. Abolire del tutto ogni forma di insegnamento religioso nelle scuole pubbliche significherebbe dare alle nuove generazioni una formazione lacunosa e privarle di una conoscenza basilare per capire la loro storia, la loro tradizione e per godere dell’arte, della letteratura e del pensiero occidentale. La cultura dell’Occidente è imbevuta di idee, credenze, immagini, feste e costumi religiosi. Mutilare questo ricchissimo patrimonio nell’istruzione delle nuove generazioni equivarrebbe a consegnarle con mani e piedi legati alla civiltà dello spettacolo, ossia alla frivolezza, alla superficialità, all’ignoranza, al pettegolezzo e al cattivo gusto. Un insegnamento religioso non fazioso, obiettivo e responsabile, in cui si spieghi il ruolo egemonico che ha avuto il cristianesimo nella creazione e nell’evoluzione della cultura occidentale, con tutte le sue divisioni e secessioni, le sue guerre, i suoi incidenti storici, i suoi successi, i suoi eccessi, i suoi santi, i suoi mistici, i suoi martiri e i suoi martirizzati, e il modo in cui tutto ciò ha influito, nel bene e nel male, sulla storia, sulla filosofia, sull’architettura, sull’arte e sulla letteratura è indispensabile se si vuole che la cultura non continui a degenerare a questo

ritmo e che il mondo del futuro non sia diviso tra analfabeti funzionali e specialisti ignari e insensibili. L’uso del velo o delle tuniche che coprono in parte o del tutto il corpo della donna non dovrebbe essere oggetto di dibattito in una società democratica. Non esiste forse la libertà? Che genere di libertà è quella che impedisce a una bambina o a una ragazza di vestirsi in accordo con le prescrizioni della sua religione o secondo i suoi capricci? Ma non è per niente certo che portare un velo o un burqa sia una decisione presa liberamente dalla bambina, dalla ragazza o dalla donna che lo usa. È molto probabile che li porti non per piacere o libera scelta personale ma come simbolo della condizione che la religione islamica impone alla donna, ossia di servitú assoluta al padre o al marito. In queste condizioni, il velo o la tunica smettono di essere semplici capi di abbigliamento e diventano emblemi della discriminazione che grava ancora sulla donna in buona parte delle società musulmane. Un paese democratico deve tollerare, in nome del rispetto verso le fedi e le culture, che al suo interno sussistano istituzioni e costumi (pregiudizi e marchi, piuttosto) che la democrazia ha abolito da secoli a costo di grandi lotte e sacrifici? La libertà è tollerante, ma non può esserlo verso coloro che con il proprio comportamento la negano, se ne fanno beffe e, in definitiva, vorrebbero annientarla. In molti casi, l’impiego di simboli religiosi come il burqa o l’hijab che le bambine musulmane indossano a scuola è una mera sfida alla libertà della donna raggiunta in Occidente, che qualcuno vorrebbe limitare, ottenendo concessioni e creando enclave sovrane all’interno di una società aperta. Dietro un abbigliamento apparentemente inoffensivo, quindi, si nasconde un’offensiva che mira a ottenere il diritto di cittadinanza per pratiche e comportamenti in contrasto con la cultura della libertà. L’immigrazione è indispensabile per i paesi sviluppati che vogliono continuare a essere tali, i quali, per questa stessa ragione pratica, devono favorirla e accogliere lavoratori di lingue e fedi diverse. Naturalmente un governo democratico deve garantire alle famiglie immigrate la possibilità di mantenere la loro religione e i loro costumi. Ma a condizione che questi non intacchino i principî e le leggi dello Stato di diritto. Quest’ultimo non ammette la discriminazione né la sottomissione della donna a una servitú che calpesta i diritti umani. Una famiglia musulmana in una società democratica ha lo stesso obbligo che spetta alle famiglie oriunde di adattare la propria

condotta alle leggi in vigore anche quando queste contraddicono costumi e comportamenti inveterati nei luoghi d’origine. Ecco il contesto in cui bisogna collocare sempre il dibattito sul velo, il burqa, l’hijab. In questo modo si potrà capire meglio la decisione francese – giusta e democratica, a mio parere – di proibire in modo categorico l’uso del velo o di qualunque altra forma di divisa religiosa per le bambine nelle scuole pubbliche. 1. M. Zambrano, El hombre y lo divino, Círculo de Lectores, Barcelona 1999 [trad. it. L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2008. I numeri tra parentesi nel testo fanno riferimento alla pagina della traduzione italiana].

Precedenti

Il segno della croce «Pietra de Toque», in «El País», 27 agosto 1995.

In Germania nessuno aveva dato molta importanza alla coppia di seguaci dell’umanista Rudolf Steiner che qualche tempo fa, da un paese sperduto della Baviera, aveva presentato un ricorso al Tribunale costituzionale della Repubblica, a Karlsruhe, perché i suoi tre figlioletti erano rimasti «traumatizzati» dall’immagine del Cristo crocifisso che erano costretti a vedere, ogni giorno, appeso alle pareti nella scuola pubblica in cui studiavano. Ma tutte le famiglie del paese, dalla prima all’ultima, sono venute a sapere – e un buon numero di queste è rimasta a bocca aperta per lo stupore, quando è venuta a saperlo – che l’alto Tribunale incaricato di vegliare sulla corretta applicazione dei principî costituzionali nella vita politica, economica e amministrativa della Germania federale, le cui decisioni sono inappellabili, aveva accolto il ricorso. Per bocca del suo presidente Johann Friedrich Henschel, figura giuridica eminente, gli otto magistrati che lo costituivano hanno sentenziato che la proposta fatta dalla scuola bavarese di sostituire i crocifissi alle pareti con croci nude – per vedere se la semplificazione avrebbe «detraumatizzato» i pargoli della causa – era insufficiente e ordinato al Land della Baviera di togliere croci e crocifissi da tutte le aule poiché «in materia di religione lo Stato deve essere neutrale». Nella sentenza il Tribunale puntualizzava che solo nel caso di unanimità assoluta tra i genitori, i professori e gli alunni, una scuola avrebbe potuto conservare nelle proprie aule il simbolo cristiano. Gli echi dello scandalo sono arrivati sino al pacifico lago tra i boschi austriaci dove sono venuto a rifugiarmi per sfuggire al caldo e alla siccità londinesi. Il Land della Baviera non è solo il paradiso del colesterolo e dei trigliceridi, visto che lí si beve la migliore birra e si mangiano i migliori insaccati del mondo; è anche un baluardo del conservatorismo politico e la

chiesa cattolica vi è radicata profondamente (non voglio insinuare un rapporto di causa-effetto tra le due cose): piú del novanta per cento degli 850 000 studenti bavaresi appartiene a famiglie cattoliche praticanti. L’Unione cristiano-sociale, versione locale e alleata del partito dell’Unione cristianodemocratica del cancelliere Kohl, detiene un dominio politico incontrastato nella regione e il suo leader, Theo Waigel, è stato il primo a protestare contro la sentenza del Tribunale costituzionale, in un articolo apparso sull’organo del partito, il «Bayernkurier». «Visto l’ostentato impegno del Tribunale nel proteggere le minoranze e nel relegare sempre piú in secondo piano le necessità della maggioranza, i valori costituiti e il patriottismo costituzionale sono in pericolo», ha affermato. Reazione misurata, se la confrontiamo con quella di sua eminenza l’arcivescovo di Monaco, il cardinale Friedrich Wetter, che per questa faccenda ha rischiato un colpo apoplettico e – ancora piú grave dal punto di vista democratico – ha rasentato l’ammutinamento civile. «Neppure i nazisti hanno strappato le croci dalle nostre scuole», ha esclamato il porporato. «Vogliamo permettere che ciò che non è stato perpetrato da una dittatura sia compiuto da uno Stato democratico, guidato dalla legge?» Certo che no! Il cardinale ha invitato alla disubbidienza civile – nessuna scuola deve rispettare la sentenza del Tribunale – e annunciato una messa all’aperto, il 23 settembre, che attrarrà di sicuro folle di papisti. La manifestazione sarà celebrata all’insegna dell’euritmia belligerante di uno slogan coniato dallo stesso principe della Chiesa: «La croce c’è e rimane!» Se i sondaggisti hanno fatto bene il loro lavoro, una nutrita maggioranza di tedeschi sostiene il cardinale ribelle Wetter: il cinquantotto per cento disapprova la sentenza del Tribunale costituzionale e solo il trentasette per cento la condivide. Il cancelliere Helmut Kohl si è affrettato opportunamente a riprendere i magistrati per una decisione che gli sembrava «contraria alla nostra tradizione cristiana» e «incomprensibile dal punto di vista del contenuto e delle conseguenze che può portare con sé». Ma, forse piú grave ancora per la causa sostenuta dal Tribunale costituzionale, è che gli unici politici accorsi in sua difesa siano i pochi parlamentari straccioni e vegetariani amanti della clorofilla e del digiuno – i Verdi – che, in questo paese di mangiatori eccezionali di salcicce e carne alla griglia non vengono presi molto sul serio da nessuno. A Bonn il loro leader parlamentare, Werner Schulz, ha sostenuto la necessità che lo Stato mantenga

una rigorosa neutralità nelle questioni religiose, «proprio ora che esiste una minaccia contro la libertà di culto a opera dei fondamentalisti musulmani e di altre sette». E ha chiesto che smetta di incassare l’imposta che sovvenziona la Chiesa e che sostituisca le lezioni di cristianesimo che vengono impartite nelle scuole pubbliche con un insegnamento generale di etica e credenze, senza privilegiare alcuna religione specifica. Dalle tonificanti acque fredde del lago di Fuschl vorrei unirmi anch’io, con la mia voce raffreddata, in sostegno del Tribunale costituzionale tedesco e applaudire i suoi giudici lucidi, per una sentenza che, a mio avviso, rafforza il risoluto processo di democratizzazione che questo paese ha intrapreso dalla fine della seconda guerra mondiale, la cosa piú importante accaduta nell’Europa occidentale in vista del suo futuro. Non perché io abbia la minima obiezione estetica riguardo a crocifissi e croci, o perché in me alberghi la benché minima avversione verso i cristiani e i cattolici. Al contrario. Pur non essendo credente, sono convinto che una società non possa giungere ad avere una cultura democratica elevata – ossia, che non possa godere come si deve della libertà e della legalità – se non è profondamente impregnata di una vita spirituale e morale che, per l’immensa maggioranza degli esseri umani, è indissociabile dalla religione. Lo ha ricordato, per lo meno ventitre anni fa, Paul Johnson, che nei suoi studi meticolosi ha sottolineato il ruolo primario che la fede e le pratiche religiose cristiane hanno avuto nella fioritura di una cultura democratica in mezzo alle tenebre dell’arbitrarietà e del dispotismo in cui si dibatteva il genere umano. Ma, a differenza di Paul Johnson, sono convinto anche che se lo Stato non preserva il proprio carattere secolare e laico e, cedendo alla questione numerica cui ricorrono gli oppositori del Tribunale costituzionale tedesco – perché lo Stato non dev’essere cristiano se la maggioranza dei cittadini lo è? –, si identifica con una chiesa, la democrazia, prima o poi, sarà perduta. Per una ragione molto semplice: nessuna chiesa è democratica. Tutte postulano una verità, che ha il solido alibi della trascendenza e la protezione magica di un essere divino, contro cui si infrangono e si polverizzano tutti gli argomenti della ragione, e negherebbero se stesse – si suiciderebbero – se fossero tolleranti ed elastiche e fossero disposte ad accettare principî elementari della vita democratica quali il pluralismo, il relativismo, la coesistenza di verità contraddittorie, le costanti concessioni reciproche per la formazione di consensi sociali. Come potrebbe sopravvivere il cristianesimo se si

sottoponesse al voto dei fedeli, per dire, il dogma dell’Immacolata concezione? La natura dogmatica e intransigente della religione diviene manifesta nel caso dell’islamismo, perché le società in cui questo credo ha messo radici non hanno sperimentato il processo di secolarizzazione che, in Occidente, ha separato la religione dallo Stato e l’ha resa privata, trasformandola da dovere pubblico in diritto individuale, e costringendola ad adattarsi alla nuova situazione, ossia a retrocedere divenendo una pratica sempre piú privata e meno pubblica. Ma da qui a concludere che se la Chiesa recuperasse il potere temporale che ha perso nelle società democratiche moderne, queste continuerebbero a essere libere e aperte come sono adesso, è una sovrana ingenuità. Invito gli ottimisti che lo pensano, come Paul Johnson, a dare uno sguardo alle società del Terzo Mondo nelle quali la chiesa cattolica ha ancora la facoltà di influire in modo decisivo sulla formulazione delle leggi e sul governo della società, e vedere che cosa capita con la censura cinematografica, il divorzio e il controllo delle nascite – per non parlare della depenalizzazione dell’aborto – perché capiscano come, quando è in condizione di farlo, il cattolicesimo non esiti neppure per un secondo a imporre le proprie verità a ogni costo e non solo ai propri fedeli, ma anche a tutti gli infedeli che sono alla sua portata. Per questo, una società democratica, se vuole continuare a essere tale, mentre garantisce la libertà di cultura e alimenta al suo interno un’intensa vita religiosa, deve vegliare affinché la Chiesa – qualunque chiesa – non sconfini dalla sua sfera di competenza, che è quella del privato, e impedire che si infiltri nello Stato e cominci a imporre le sue convinzioni alla società nel suo insieme, cosa che può avvenire soltanto schiacciando la libertà dei non credenti. La presenza di una croce o di un crocifisso in una scuola pubblica è un abuso per coloro che non sono cristiani tanto quanto lo sarebbe l’imposizione del velo islamico in una classe dove ci siano bambine cristiane e buddiste oltre che musulmane, o la kippah ebraica in un seminario mormone. Non c’è modo, in questo ambito, di rispettare le credenze di tutti contemporaneamente, quindi la politica statale non può che essere quella della neutralità. I giudici del Tribunale costituzionale di Karlsruhe hanno fatto quello che dovevano fare, e la sentenza che hanno emesso fa loro onore.

Difesa delle sette «Pietra de Toque», in «El País», 23 febbraio 1997.

Nel 1983 a Cartagena, in Colombia, ho partecipato a un convegno sui mezzi di comunicazione presieduto da due intellettuali di prestigio (Germán Arciniegas e Jacques Soustelle) dove, oltre a giornalisti provenienti da mezzo mondo, erano presenti alcuni giovani instancabili, che esibivano gli sguardi fissi e ardenti tipici di coloro che posseggono la verità. A un certo punto nel certame, creando grande scompiglio tra quei giovani, è comparso il reverendo Moon, capo della Chiesa dell’Unificazione che, attraverso un organismo di facciata, patrocinava il convegno. Poco dopo, mi sono reso conto che la mafia progressista aveva aggiunto, al mio prontuario di iniquità, quella di avermi venduto a una setta sinistra, i Moonies. Poiché, da quando ho perso quella che avevo, sto cercando una fede che la sostituisca, pieno di illusione mi sono affrettato a verificare se quella del coreano sorridente e robusto che maltrattava l’inglese fosse in grado di risolvere il mio problema. E cosí ho letto il magnifico libro sulla Chiesa dell’Unificazione della professoressa della London School of Economics Eileen Barker (che ho conosciuto durante quella riunione a Cartagena), probabilmente la persona che ha studiato in modo piú serio e responsabile il fenomeno della proliferazione delle sette religiose in questa fine millennio. Grazie a lei ho saputo, tra le molte altre cose, che il reverendo Moon non solo si considera investito dal Creatore della responsabilità minuscola di unire ebraismo, cristianesimo e buddismo in una sola chiesa ma, come se non bastasse, pensa anche di essere un’ipostasi di Budda e di Gesú Cristo. Questo, naturalmente, mi scoraggia del tutto dall’entrare nelle file della sua chiesa: se, nonostante le credenziali eccellenti che duemila anni di storia gli conferiscono, confesso di essere del tutto incapace di credere nella divinità del Nazareno, difficile che possa accettarla in un evangelista nordcoreano che non ha avuto la meglio neppure sull’Internal Revenue Service degli Stati Uniti (che lo ha rinchiuso in carcere per aver eluso le tasse). Detto questo, se i Moonies (e i 1600 gruppi e gruppuscoli religiosi individuati dall’Information Network on Religious Movements, Inform, diretto dalla professoressa Barker) mi lasciano perplesso, mi accade lo stesso anche nei confronti di coloro che da qualche tempo a questa parte si

impegnano ad attaccarli e a chiedere che i governi li proibiscano, sostenendo che corromperebbero la gioventú, destabilizzerebbero le famiglie, impoverirebbero i contribuenti e si infiltrerebbero nelle istituzioni dello Stato. Ciò che sta accadendo in questi giorni in Germania alla chiesa di Scientology dà a questo argomento un’attualità perturbante. Come è noto, le autorità di alcuni Länder della Repubblica Federale – prima di tutti la Baviera– mirano a escludere dagli incarichi amministrativi i membri di tale organizzazione, e hanno portato avanti campagne di boicottaggio dei film di John Travolta e di Tom Cruise, in quanto membri di Scientology, e proibito un concerto di Chick Corea nel Baden-Württemberg per la medesima ragione. Sebbene sia un’esagerazione assurda paragonare queste misure con la persecuzione subita dagli ebrei durante il nazismo, come si diceva nel manifesto delle trentaquattro personalità di Hollywood che hanno protestato contro le iniziative ai danni di Scientology in un annuncio a pagamento apparso su «The New York Times», la cosa certa è che tali operazioni costituiscono una flagrante violazione dei principî di tolleranza e di pluralismo della cultura democratica e un precedente pericoloso. Si possono accusare il signor Tom Cruise e la sua bella moglie Nicole Kidman di avere una sensibilità dubbia e un gusto letterario pessimo se preferiscono, alla lettura dei Vangeli, quella degli aborti scientifico-teologici di L. Ron Hubbard, che ha fondato quarant’anni fa la chiesa di Scientology, d’accordo. Ma perché mai le autorità di un paese con una Costituzione che garantisce ai cittadini il diritto di credere in ciò che vogliono o di non credere in nulla dovrebbero ficcare il naso in una faccenda del genere? L’unico argomento serio per proibire o discriminare le «sette» non è ammissibile nei regimi democratici; lo è, invece, nelle società in cui il potere religioso e politico sono tutt’uno e dove, come in Arabia Saudita o in Sudan, lo Stato determina quale sia la vera religione e si arroga il diritto di proibire quelle false e di punire l’eretico, l’eterodosso e il sacrilego, nemici della fede. In una società aperta non può essere cosí: lo Stato deve rispettare le fedi personali, per assurde che appaiano, senza identificarsi con alcuna chiesa, poiché se lo fa finirà inevitabilmente con lo schiacciare le credenze (o la mancanza di queste) di numerosi cittadini. Lo stiamo vedendo in questi giorni in Cile, una delle società piú moderne dell’America Latina che, tuttavia, sotto alcuni punti di vista, continua a essere poco meno che troglodita, poiché non ha ancora approvato una legge sul divorzio a causa dell’opposizione

dell’influente chiesa cattolica. Le ragioni brandite contro le sette sono spesso veritiere. È vero che di solito i loro proseliti sono fanatici e i loro metodi di catechizzazione ossessivi (a Parigi un testimone di Geova mi ha assediato per un lungo anno per convincermi a fare il bagno lustrale, esasperandomi sino a diventare un incubo) e che molte di queste spremono letteralmente le tasche dei propri fedeli. Ma non si può forse dire esattamente lo stesso di molte sette rispettabilissime delle religioni tradizionali? Gli ebrei ultraortodossi di Mea Shearim, a Gerusalemme, che ogni sabato escono di casa per tirare pietre contro le automobili che passano nel quartiere sono forse un modello di elasticità? Per caso l’Opus Dei è meno rigido nella dedizione che pretende dai membri numerari di quanto non siano, con i propri, le religioni evangeliche piú intransigenti? Sono esempi presi a caso, tra moltissimi altri, che provano in modo esauriente come qualunque religione, quella legittimata dalla patina dei secoli e dei millenni, dalla ricca letteratura e dall sangue dei martiri, o quella nuova di zecca, costituita a Brooklyn, Salt Lake City o Tokyo e promossa tramite Internet, è potenzialmente intollerante, con una vocazione monopolistica, e che le giustificazioni per limitare o impedire la pratica di alcune di queste valgono anche per tutte le altre. Quindi, delle due l’una: o si proibiscono tutte, senza eccezione, come hanno tentato di fare alcuni ingenui – i fautori della Rivoluzione francese, Lenin, Mao, Fidel Castro – o si autorizzano tutte, con l’unica condizione che agiscano all’interno della legge. Non è neanche il caso di dire che io sono un deciso sostenitore di questa seconda opzione. E non solo perché quello di poter praticare la fede scelta senza per questo essere discriminato né perseguitato è un diritto umano fondamentale. Anche perché, per l’immensa maggioranza degli esseri umani, la religione è l’unico cammino che conduce alla vita spirituale e a una coscienza etica, senza le quali non esiste convivenza umana, né rispetto della legalità, né i consensi elementari che sono alla base della vita civile. È stato un gravissimo errore, ripetuto varie volte nel corso della storia, credere che la conoscenza, la scienza, la cultura, avrebbero liberato a poco a poco l’uomo dalle «superstizioni» della religione, sino a quando, con il progresso, questa si sarebbe rivelata inutile. La secolarizzazione non ha sostituito gli dèi con idee, conoscenze e convinzioni capaci di farne le veci. Ha lasciato un vuoto spirituale che gli esseri umani riempiono come possono, a volte con grotteschi succedanei, con svariate forme di nevrosi, o rispondendo al

richiamo delle sette che, proprio per il loro carattere assorbente ed esclusivista, che pianifica in modo minuzioso ogni istante della vita fisica e spirituale, forniscono un equilibrio e un ordine a coloro che si sentono confusi, soli o sconcertati nel mondo di oggi. In questo senso sono utili e dovrebbero non soltanto essere rispettate, bensí incoraggiate. Ma, naturalmente, non sovvenzionate né mantenute con il denaro dei contribuenti. Lo Stato democratico, che è e può essere soltanto laico, cioè neutrale in materia religiosa, rinuncia a tale neutralità se, poiché la maggioranza o una parte considerevole dei cittadini professa una determinata religione, esonera la chiesa in questione dal pagare le tasse e le concede altri privilegi da cui esclude le fedi minoritarie. Questa politica è pericolosa, perché discriminatoria nell’ambito soggettivo delle credenze, e perché stimola la corruzione istituzionale. Il massimo cui si dovrebbe arrivare, in questo ambito, è ciò che ha fatto il Brasile, ai tempi della costruzione di Brasilia, la nuova capitale: regalare un terreno, in un viale ad hoc, a tutte le chiese del mondo intenzionate a costruirvi un tempio. Sono diverse decine, se la memoria non mi inganna: edifici grandi e appariscenti, dall’architettura varia e caratteristica, tra i quali troneggia, superbo, sormontato di cupole e simboli indecifrabili, il Tempio dei Rosacroce.

Riflessione finale

Concludo con una nota personale un po’ malinconica. Da qualche anno, all’inizio senza rendermene pienamente conto, quando visitavo le mostre, assistevo ad alcuni spettacoli, vedevo determinati film, opere teatrali o programmi televisivi, o quando leggevo determinati libri, riviste e periodici, mi aggrediva la scomoda sensazione di essere preso in giro e di non avere modo di difendermi di fronte a una cospirazione schiacciante e sottile per farmi sentire un ignorante o uno stupido. Per questo motivo si è fatta strada dentro di me una domanda inquietante: perché la cultura in cui ci muoviamo si è banalizzata sino a diventare, in molti casi, una pallida imitazione di ciò che i nostri genitori e nonni intendevano con questa parola? Mi pare che un simile degrado ci stia facendo sprofondare in una confusione sempre piú grande da cui potrebbe derivare, prima o poi, un mondo privo di valori estetici, in cui le arti e le lettere – gli ambiti umanistici – saranno diventate poco piú che forme secondarie di intrattenimento, inferiori a quello procurato al grande pubblico dai grandi mezzi audiovisivi e senza grande influenza sulla vita sociale. Quest’ultima, orientata con decisione da considerazioni pragmatiche, procederebbe sotto la guida assoluta degli specialisti e dei tecnici, votata essenzialmente alla soddisfazione dei bisogni materiali e animata dal lucro, motore dell’economia, valore supremo della società, misura esclusiva del fallimento e del successo e, per questo, ragion d’essere dei destini individuali. Non è un incubo orwelliano ma una realtà del tutto possibile alla quale si sono avvicinate, in modo discreto, le nazioni piú avanzate del pianeta, quelle dell’Occidente democratico e liberale, a mano a mano che i fondamenti della cultura tradizionale andavano in rovina, sostituiti da imbrogli che hanno allontanato sempre di piú dal grande pubblico le creazioni artistiche e letterarie, le idee filosofiche, gli ideali civili, i valori e, in definitiva, tutta la dimensione spirituale chiamata un tempo cultura, la quale, pur limitata principalmente a un’élite, in passato debordava verso l’insieme della società e vi influiva dando un senso alla vita e una ragion d’essere all’esistenza che trascendeva il mero benessere materiale. Non abbiamo mai vissuto un’epoca

tanto ricca di conoscenze scientifiche e di scoperte tecnologiche, né meglio equipaggiata per sconfiggere la malattia, l’ignoranza, la povertà e, tuttavia, forse non siamo mai stati tanto confusi di fronte ad alcuni interrogativi fondamentali, per esempio che cosa ci facciamo sull’astro privo di luce propria che ci è toccato in sorte, se la mera sopravvivenza sia l’unico fine che giustifica la vita, se parole come spirito, ideali, piacere, amore, solidarietà, arte, creazione, bellezza, anima, trascendenza, hanno ancora un significato e, se la risposta è positiva, qual è. La ragion d’essere della cultura era dare una risposta a questo genere di domande. Oggi la cultura è esente da una simile responsabilità, visto che l’abbiamo trasformata in un qualcosa di molto piú superficiale e volubile: una forma di divertimento per il grande pubblico o un gioco retorico, esoterico e oscuro per gruppuscoli saccenti di accademici e intellettuali indifferenti alla società nel suo insieme. L’idea di progresso è ingannevole. Soltanto un cieco o un fanatico potrebbero negare che un’epoca in cui gli esseri umani possono raggiungere le stelle, comunicare all’istante superando tutte le distanze grazie a Internet, clonare gli animali e gli esseri umani, fabbricare armi capaci di disintegrare il pianeta e contaminare con le nostre invenzioni industriali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e la terra che ci alimenta, è giunta a uno sviluppo che non ha precedenti nella storia. Allo stesso tempo, non è mai stata meno certa la sopravvivenza della specie per i rischi di un conflitto o di un incidente atomico, per la follia sanguinaria dei fanatismi religiosi e l’erosione dell’ambiente. E forse non c’è mai stata, accanto alle straordinarie opportunità e condizioni di vita di cui godono i privilegiati, la spaventosa miseria che affligge ancora, in un mondo cosí prospero, centinaia di milioni di esseri umani, non solo nel cosiddetto Terzo Mondo, ma anche in enclave di vergogna in seno alle città piú opulente del pianeta. Da molto tempo il mondo non subiva le crisi e i disastri finanziari che negli ultimi anni hanno rovinato tante imprese, persone e paesi. Spesso in passato la cultura è stata il modo migliore per portare alla ribalta problemi simili, una coscienza che impediva alle persone colte di voltare le spalle alla realtà nuda e cruda del proprio tempo. Adesso è, piuttosto, un meccanismo che ci permette di ignorare le questioni problematiche, di distrarci dalle cose serie, immergendoci in un momentaneo «paradiso artificiale», quasi un succedaneo di un tiro di marijuana o di coca, ossia, una piccola vacanza di irrealtà.

Si tratta di argomenti complessi, che non trovano spazio nelle pretese limitate di questo libro. Li menziono come testimonianza personale. Tali questioni si riflettono in queste pagine attraverso l’esperienza di una persona che, da quando ha scoperto, attraverso i libri, l’avventura spirituale, ha sempre avuto come modello le persone che si muovevano con disinvoltura nel mondo delle idee, con alcuni valori estetici ben chiari che permettevano loro di pronunciarsi in modo sicuro su ciò che era buono o cattivo, originale o epigono, rivoluzionario o trito, in letteratura, nelle arti figurative, nella filosofia, nella musica. Consapevole delle deficienze della mia formazione, per tutta la vita ho cercato di colmarne i vuoti, studiando, leggendo, visitando musei e gallerie, frequentando biblioteche, assistendo a conferenze e concerti. Senza alcun sacrificio. Piuttosto, con l’immenso piacere di vedere che il mio orizzonte intellettuale si ampliava, poiché capire Nietzsche o Popper, leggere Omero, decifrare l’Ulisse di Joyce, assaporare la poesia di Góngora, di Baudelaire, di Eliot, esplorare l’universo di Goya, di Rembrandt, di Picasso, di Mozart, di Mahler, di Bartók, di Čechov, di O’Neill, di Ibsen, di Brecht, arricchiva in modo straordinario la mia fantasia, i miei appetiti e la mia sensibilità. Sino a quando, all’improvviso, ho cominciato ad accorgermi che molti artisti, pensatori e scrittori contemporanei mi stavano prendendo in giro. E che non era un fatto isolato, casuale, transitorio, ma un vero e proprio processo di cui sembravano complici, oltre a certi creatori, i loro critici, editori, galleristi, produttori, e un pubblico di babbei che quelli manipolavano a loro piacimento, dandogliela a bere, per ragioni crematistiche e a volte per puro snobismo. La cosa peggiore è che probabilmente questo fenomeno non ha soluzione, perché oramai fa parte del modo di essere, di vivere, di fantasticare e di credere proprio della nostra epoca, e ciò che io rimpiango è ormai irrimediabilmente ridotto in cenere. Ma, visto che nel mondo in cui viviamo nulla si ferma, potrebbe anche essere che questo fenomeno, la civiltà dello spettacolo, perisca senza colpo ferire, per mano del suo stesso nulla, e che sia sostituito da qualcosa d’altro, forse migliore, forse peggiore, nella società del futuro. Confesso di non essere molto curioso rispetto all’avvenire, in cui, visto come vanno le cose, tendo a non confidare. In compenso mi interessa molto il passato, e molto di piú il presente, incomprensibile senza il passato. In questo nostro presente ci sono innumerevoli cose migliori di quelle che

hanno visto i nostri antenati: meno dittature, piú democrazia, una libertà che si estende a piú paesi e gente che mai, una prosperità e un’istruzione che arrivano a piú persone rispetto a una volta e opportunità per un grande numero di esseri umani che non sono mai esistite prima, salvo per minuscole minoranze. Ma, in un campo specifico, dai confini volatili, quello della cultura, abbiamo fatto dei passi indietro, senza rendercene conto né volerlo, fondamentalmente per colpa dei paesi piú colti, quelli all’avanguardia dello sviluppo, quelli che dettano i modelli e le mete che a poco a poco contagiano chi li segue a ruota. Nello stesso tempo, una delle conseguenze che potrebbe avere, a mio parere, la corruzione della vita culturale determinata dalla frivolezza è che i giganti, alla lunga, rivelino piedi di argilla e perdano il loro protagonismo e il loro potere, per aver sprecato con tanta leggerezza l’arma segreta che li ha resi ciò che sono riusciti a diventare, la delicata materia che dà senso, contenuto e un ordine a ciò che chiamiamo civiltà. Per fortuna, la storia non è una questione fatale, ma una pagina bianca in cui con la nostra penna – le nostre decisioni e omissioni – scriveremo il futuro. È una cosa positiva, poiché significa che siamo sempre in tempo per correggerci. Un’ultima curiosità, oggi universale: i libri di carta sopravvivranno oppure saranno scalzati dai libri elettronici? I lettori del futuro saranno solo lettori di tablet digitali? Nel momento in cui scrivo queste righe, l’e-book non si è ancora imposto e nella maggior parte dei paesi il libro di carta continua a essere piú popolare. Ma nessuno può negare la tendenza dell’e-book a guadagnare terreno rispetto al libro tradizionale, al punto che non è impossibile immaginare un’epoca in cui i lettori di libri sullo schermo saranno la stragrande maggioranza e quelli su carta saranno ridotti a infime minoranze o addirittura spariranno. Molti desiderano che ciò accada il prima possibile, come Jorge Volpi, uno dei principali scrittori latino-americani delle nuove generazioni, che celebra l’arrivo del libro elettronico come «una trasformazione radicale di tutte le pratiche associate alla lettura e alla trasmissione della conoscenza», qualcosa che, assicura, darà «il maggiore impulso alla democratizzazione della cultura nei tempi moderni». Volpi crede che molto presto il libro digitale sarà piú economico rispetto a quello di carta, e considera imminente la «comparsa di testi arricchiti non solo da immagini, ma da audio e video». Scompariranno librerie, biblioteche, editori, agenti letterari, correttori, distributori, e rimarrà

soltanto la nostalgia di tutto ciò. Questa rivoluzione, dice, contribuirà in modo decisivo «alla maggiore espansione democratica sperimentata dalla cultura sin dalla… invenzione della stampa». È possibile che Volpi abbia ragione, ma tale prospettiva, che manda in visibilio lui, angoscia me e qualche altro, per esempio Vicente Molina Foix 1. A differenza di Volpi, non credo che il passaggio dal libro di carta a quello elettronico sia innocuo, un semplice cambiamento di «involucro», bensí di contenuto. Non ho modo di dimostrarlo, ma sospetto che quando gli scrittori scriveranno letteratura virtuale, non lo faranno nello stesso modo in cui lo hanno fatto sinora, in vista della materializzazione dei loro scritti nell’oggetto concreto, palpabile e durevole che è (o ci pare essere) il libro. L’immaterialità del libro elettronico ne contagerà in qualche modo il contenuto, come accade alla letteratura maldestra, priva di ordine e sintassi, fatta di apocopi e di gergo, a volte indecifrabile, che domina il mondo dei blog, di Twitter, di Facebook e degli altri sistemi di comunicazione attraverso la Rete, come se i loro autori, per esprimersi usando il simulacro rappresentato dal sistema digitale, si sentissero esonerati da ogni obbligo formale, e autorizzati a calpestare la grammatica, la sinderesi e i principî piú elementari della correttezza linguistica. La televisione per il momento è la migliore dimostrazione che lo schermo banalizza i contenuti – soprattutto le idee – e tende a trasformare tutto ciò che veicola, nel senso piú epidermico ed effimero del termine. La mia impressione è che la letteratura, la filosofia, la storia, la critica d’arte, per non parlare della poesia, tutte le manifestazioni della cultura scritte per la Rete diventeranno senza dubbio sempre piú divertenti, ossia piú superficiali e passeggere, come tutto ciò che dipende dall’attualità. Se cosí sarà, i lettori delle nuove generazioni difficilmente saranno in grado di apprezzare nel loro giusto valore e per il significato che hanno avuto opere impegnative del pensiero o della creazione, poiché queste parranno loro remote ed eccentriche tanto quanto lo sono per noi le dispute scolastiche medievali sugli angeli o i trattati degli alchimisti sulla pietra filosofale. D’altra parte, secondo quanto si evince dal suo articolo, per Volpi leggere è solo leggere, ossia, informazione sul contenuto di ciò che si legge, e senza dubbio il suo caso è analogo a quello di moltissimi lettori. Ma nella polemica con Vicente Molina Foix che il suo articolo ha generato, quest’ultimo ha ricordato a Volpi che, per molti lettori, «leggere» è un’operazione che, oltre a

informare sul contenuto delle parole, significa anche, e forse soprattutto, godere, assaporare la bellezza che, cosí come i suoni di una bella sinfonia, i colori di un quadro insolito o le idee di un’argomentazione acuta, sprigionano le parole unite al loro supporto materiale. Per questo tipo di lettori leggere è, oltre che un’operazione materiale, un esercizio fisico, qualcosa che, come dice molto bene Molina Foix, «aggiunge all’atto di leggere una componente sensuale e sentimentale infallibile. Il tatto e l’immanenza dei libri sono, per l’amateur, variazioni dell’erotismo del corpo trattato e maneggiato, una maniera di amare». Faccio fatica a immaginare che i tablet elettronici, identici, anodini, intercambiabili, funzionali a piú non posso, riescano a risvegliare il piacere tattile impregnato di sensualità che i libri di carta risvegliano in alcuni lettori. Ma non è strano che un’epoca in grado di vantare tra le proprie prodezze quella di avere fatto piazza pulita dell’erotismo veda sfumare anche l’edonismo raffinato che arricchiva il piacere spirituale della lettura con quello fisico di toccare e accarezzare. 1. Cfr. la sua risposta a Volpi: El siglo XXV : una hipótesis de lectura, in «El País», 3 dicembre 2011.

Precedenti

Piú informazione, meno conoscenza «Pietra de Toque», in «El País», 31 luglio 2011.

Nicholas Carr ha studiato Letteratura presso il Darmouth College e all’Università di Harvard, e tutto sembra indicare che in gioventú sia stato un vorace lettore di buoni libri. Poi, com’è accaduto a tutta la sua generazione, ha scoperto il computer, Internet, i prodigi della grande rivoluzione informatica del nostro tempo, e non soltanto ha dedicato buona parte della sua vita a godere di tutti i servizi online e a navigare dalla mattina alla sera in Rete; in piú, è diventato un professionista e un esperto delle nuove tecnologie della comunicazione, su cui ha scritto ampiamente in prestigiose pubblicazioni americane e inglesi. Un bel giorno ha scoperto che aveva smesso di essere un buon lettore e, persino, un lettore. La sua concentrazione svaniva dopo una o due pagine di un libro e, soprattutto se ciò che leggeva era complesso e richiedeva molta attenzione e riflessione, nella sua mente sorgeva qualcosa di simile a un rifiuto recondito a dedicarsi oltre a quell’impegno intellettuale. Lo racconta cosí: «Perdo la calma e il filo, comincio a pensare a che cos’altro potrei leggere. Mi sento come se stessi riportando sempre il mio cervello deconcentrato sul testo. La lettura profonda che di solito veniva in modo naturale è diventata uno sforzo». Preoccupato, ha preso una decisione radicale. Alla fine del 2007, lui e la moglie hanno abbandonato la loro residenza ultramoderna di Boston e sono andati a vivere in una capanna sulle montagne del Colorado, dove non c’era telefonia mobile e Internet arrivava tardi, male o mai. Lí, nel giro di due anni, ha scritto il polemico libro che lo ha reso famoso: Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello 1. L’ho appena letto, tutto d’un fiato, e ne sono rimasto affascinato, spaventato e rattristato. Carr non è un pentito dell’informatica, non è diventato un luddista contemporaneo che vorrebbe eliminare tutti i computer, niente del genere.

Nel suo libro riconosce lo straordinario apporto che servizi come quelli di Google, Twitter, Facebook e Skype forniscono all’informazione e alla comunicazione, il tempo che fanno risparmiare, la facilità con cui un numero immenso di esseri umani può condividere esperienze, i benefici che tutto questo porta alle imprese, alla ricerca scientifica e allo sviluppo economico delle nazioni. Ma tutto ciò ha un prezzo e, in ultima istanza, significherà una trasformazione nella nostra vita culturale e nel modo di operare del cervello umano paragonabile alla scoperta della stampa da parte di Johannes Gutenberg nel XV secolo, che diffuse in modo generalizzato la lettura dei libri, sino ad allora limitata a una minoranza insignificante di religiosi, intellettuali e aristocratici. Il libro di Carr è una rivendicazione delle teorie dell’ormai dimenticato Marshall McLuhan, cui nessuno ha dato molto retta quando, piú di mezzo secolo fa, assicurò che i mezzi di comunicazione non sono mai meri veicoli di un contenuto, che esercitano una subdola influenza su quest’ultimo e che, a lungo andare, modificano il nostro modo di pensare e di agire. McLuhan si riferiva soprattutto alla televisione, ma le argomentazioni del libro di Carr, e gli abbondanti esperimenti e testimonianze che cita a loro sostegno, indicano che una tesi simile acquisisce una straordinaria attualità in rapporto al mondo di Internet. I difensori recalcitranti del software adducono che si tratta di uno strumento al servizio di chi lo usa e, naturalmente, esistono numerosi esperimenti che sembrano corroborare questa ipotesi, sempre e quando le prove siano effettuate nel campo d’azione in cui i benefici di quella tecnologia sono indiscutibili: chi potrebbe negare che si tratta di un progresso quasi miracoloso il fatto che, oggi, in pochi secondi, facendo clic con il mouse, un internauta possa ottenere un’informazione che pochi anni fa richiedeva settimane o mesi di consultazioni in biblioteche e presso specialisti? Ma ci sono anche prove inconfutabili che, quando la memoria di una persona smette di esercitarsi perché può contare sull’archivio infinito messo a sua disposizione da un computer, si intorpidisce e si indebolisce come i muscoli che non vengono usati. Non è vero che Internet sia soltanto uno strumento. È un utensile che diventa un prolungamento del nostro corpo, del nostro cervello il quale a sua volta, in modo impercettibile, si adatta a poco a poco a questo nuovo sistema

di informarsi e di pensare, rinunciando a poco a poco alle funzioni che il sistema svolge al suo posto e, a volte, meglio di lui. Non è una metafora poetica dire che l’«intelligenza artificiale», al servizio dei nostri organi pensanti, li corrompe e li seduce, facendoli diventare, in modo graduale, dipendenti da quegli strumenti e, infine, suoi schiavi. Perché mantenere fresca e attiva la memoria se è tutto immagazzinato in qualcosa che un programmatore di sistemi ha chiamato «la migliore e piú grande biblioteca del mondo?» E perché affinare l’attenzione se schiacciando i tasti giusti i ricordi di cui ho bisogno vengono a me, resuscitati da queste macchine diligenti? Non è strano, quindi, che alcuni fanatici del Web, come il professor O’Shea, filosofo dell’Università della Florida, affermino: «Sedersi e leggere un libro da cima a fondo non ha senso. Non è un buon modo di usare il mio tempo, visto che posso avere tutte le informazioni che voglio piú velocemente attraverso il Web. Quando si diventa cacciatori collaudati in Internet, i libri sono superflui». La cosa atroce di questa frase non è l’affermazione finale, ma che questo filosofo da strapazzo creda che si leggano libri soltanto per «informarsi». È uno dei danni che può provocare la dipendenza frenetica dallo schermo. Da qui, la patetica confessione della dottoressa Katherine Hayles, professoressa di Letteratura all’Università di Duke: «Non riesco piú a fare in modo che i miei allievi leggano per intero i libri.» Questi studenti non hanno colpa se sono ormai incapaci di leggere Guerra e pace o Don Chisciotte. Abituati a beccare qua e là informazioni con i loro computer, senza la necessità di compiere sforzi di concentrazione prolungati, hanno perso l’abitudine e persino la facoltà di farlo, e sono stati indotti ad accontentarsi dello sfarfallare cognitivo cui li abitua la Rete, con i suoi infiniti collegamenti e salti verso allegati e complementi, al punto che sono in qualche modo vaccinati contro il genere di attenzione, di riflessione, di pazienza e di prolungato abbandono a ciò che si legge; e che è l’unico modo di leggere, traendone piacere, la grande letteratura. Ma non credo che soltanto la letteratura sia diventata superflua a causa di Internet: ogni opera di creazione gratuita, non subordinata a un uso pratico, viene esclusa dal tipo di conoscenza e di cultura che fornisce il Web. Senza dubbio questo immagazzinerà con facilità Proust, Omero, Popper e Platone, ma difficilmente le loro opere avranno molti lettori. Perché sobbarcarsi la fatica

di leggerle se in Google posso trovare sintesi semplici, chiare e amene delle invenzioni contenute in quei libroni farraginosi letti dai lettori preistorici? La rivoluzione dell’informazione è lungi dall’essersi conclusa. Al contrario, in questo ambito ogni giorno spuntano nuove possibilità, nuove scoperte, e il confine dell’impossibile si sposta velocemente sempre piú avanti. Dobbiamo rallegrarcene? Se il genere di cultura che sta rimpiazzando quella antica ci pare un progresso, senza dubbio sí. Ma ci dobbiamo preoccupare se questo progresso significa quello che uno studioso erudito degli effetti di Internet sul nostro cervello e sulle nostre abitudini, Van Nimwegen, ha dedotto in seguito a un suo esperimento: «Affidare ai computer la soluzione di tutti i problemi cognitivi riduce la capacità dei nostri cervelli di costruire strutture stabili di conoscenza». In altre parole: quanto piú intelligente è il computer, tanto piú stupidi saremo noi. Forse il libro di Nicholas Carr contiene alcune esagerazioni, come accade spesso nel caso di argomenti che sostengono tesi controverse. Io non posseggo le conoscenze neurologiche e informatiche per giudicare sino a che punto siano attendibili le prove e gli esperimenti scientifici che Carr descrive nel suo libro. Ma mi dà l’impressione di essere rigoroso e sensato, un appello all’attenzione che – perché ingannarci? – non sarà ascoltato. Il che significa, se Carr ha ragione, che la robotizzazione di un’umanità organizzata in funzione dell’«intelligenza artificiale» è inarrestabile. A meno che, chiaramente, un cataclisma nucleare, provocato da un incidente o da un’azione terroristica, ci riporti alle caverne. Bisognerebbe ricominciare da capo, allora, e magari la seconda volta lo faremo meglio.

Dinosauri in tempi difficili Testo letto presso la Paulskirche di Francoforte, il 6 ottobre 1996, in occasione della consegna del Friedenspreis degli editori e librai tedeschi.

Ricevere questo Premio per la Pace assegnato dai librai e dagli editori tedeschi mi commuove per molte ragioni: il significato che ha nell’ambito culturale, gli intellettuali insigni che l’hanno meritato, ai quali ora mi sento vincolato dal riconoscimento di una vita dedicata alla letteratura che il premio comporta.

Ma, la ragione principale, nel mio caso, è il suo caparbio anacronismo, il suo impegno a intendere il lavoro letterario come una responsabilità che non si esaurisce nella dimensione artistica e che è necessariamente legato a una preoccupazione morale e a un’azione civile. La mia vocazione è nata con questa idea della letteratura, che sinora ha animato tutto ciò che ho scritto e, per questo motivo, sta facendo di me, come dell’ottimista Friedenspreis, temo, in questi tempi di virtual reality, un dinosauro in pantaloni e cravatta, circondato da computer. So che le statistiche sono dalla nostra parte, che non si sono mai pubblicati e venduti tanti libri come oggi e che, se la faccenda si potesse limitare a una questione numerica, non ci sarebbe nulla da temere. Il problema sorge se, come farebbe un incorreggibile voyeur, non soddisfatti delle confortevoli inchieste su tirature e vendite di libri che paiono garantire la sopravvivenza perenne della letteratura, spiassimo dietro le vesti numeriche. Ciò che ne risulta è deprimente. Ai nostri giorni si scrivono e si pubblicano molti libri, ma nessuno intorno a me – o quasi nessuno, per non discriminare i poveri dinosauri – crede piú che la letteratura serva a molto, salvo per non annoiarsi troppo sull’autobus o in metropolitana, e affinché le finzioni letterarie, adattate per il cinema o la televisione – se riguardano marziani, orrore, vampiri o crimini sadomaso, tanto meglio – diventino televisive o cinematografiche. Per sopravvivere, la letteratura è diventata light – nozione che è aberrante tradurre con leggera, perché in realtà significa irresponsabile e, spesso, idiota. Per questo, critici insigni, come George Steiner, credono che la letteratura sia ormai morta, ed eccellenti romanzieri, come V. S. Naipaul, proclamano che non scriveranno piú un romanzo poiché il genere romanzesco oramai li disgusta. In questo contesto di pessimismo crescente riguardo al potere che ha la letteratura di aiutare i lettori a capire meglio la complessità umana, conservandosi lucidi sulle carenze della vita, attenti alla realtà storica circostante e indocili alla manipolazione della verità da parte dei poteri costituiti (a questo si credeva che servisse la letteratura, oltre che a intrattenere, quando io ho cominciato a scrivere), è quasi incoraggiante volgere lo sguardo verso l’accolita di delinquenti che governa la Nigeria e che ha ucciso Ken Saro-Wiwa, i persecutori di Taslima Nasrin in Bangladesh, gli ulema iraniani che hanno proclamato la fatwa condannando a morte Salman Rushdie, gli integralisti islamici che hanno decapitato decine di

giornalisti, poeti e drammaturghi in Algeria, quelli che, al Cairo, hanno conficcato il pugnale che stava per porre fine alla vita di Nagib Mahfuz, e verso regimi come quelli della Corea del Nord, di Cuba, della Cina, del Vietnam, della Birmania e tanti altri, con i loro sistemi di censura e i loro scrittori carcerati o esiliati. Non cessa di essere un paradosso istruttivo che, mentre nei paesi considerati piú colti, che sono anche i piú liberi e democratici, la letteratura sta diventando, stando a una convinzione generalizzata, un intrattenimento insignificante, in quelli nei quali la libertà è limitata e i diritti umani sono offesi ogni giorno, si consideri la letteratura pericolosa, capace di diffondere idee sovversive e germi di insoddisfazione e ribellione. È bene che i drammaturghi, i romanzieri e i poeti dei paesi colti e liberi disillusi riguardo al loro mestiere per la frivolizzazione a cui sentono di soccombere, o che si ritengono ormai sconfitti dalla cultura audiovisiva, diano uno sguardo alle vastissime aree del mondo che non sono ancora colte né libere, per tirarsi su di morale. Lí, la letteratura non dev’essere morta, né essere del tutto inutile, e la poesia, il romanzo e il teatro non devono essere cosí innocui, se i despoti, i tiranni e i fanatici li temono cosí tanto e fanno loro il favore di censurarli e di imbavagliarne o eliminarne gli autori. Mi affretto ad aggiungere che, pur essendo convinto che la letteratura si debba impegnare sui problemi del proprio tempo e che lo scrittore debba scrivere con la convinzione che, scrivendo, può aiutare gli altri a essere piú liberi, sensibili e lucidi, sono lungi dal sostenere che «l’impegno» civile e morale dell’intellettuale garantisca il successo, la scelta della migliore opzione, quella che contribuisce ad arrestare la violenza, a ridurre l’ingiustizia e a far progredire la libertà. Mi sono sbagliato troppe volte e ho visto molti scrittori che ammiravo e consideravo guide spirituali sbagliarsi a loro volta e, in alcune occasioni, mettere il proprio talento a servizio della menzogna ideologica e del crimine di Stato, per illudermi. Tuttavia, credo fermamente che, senza rinunciare a intrattenere, la letteratura debba immergersi sino al collo nella vita di strada, nell’esperienza comune, nella storia in divenire, come ha fatto nei suoi momenti migliori, perché, in questo modo, senza arroganza, senza pretendere l’onniscienza, assumendo il rischio dell’errore, lo scrittore può fornire un servizio ai contemporanei e salvare il proprio mestiere dalla decadenza in cui a momenti sembra sprofondare. Se si tratta solo di intrattenere, di far trascorrere all’essere umano un momento piacevole, immerso nell’irrealtà, affrancandosi dalla sordidezza

quotidiana, dall’inferno domestico e dall’angoscia economica, in una rilassata indolenza spirituale, le finzioni della letteratura non possono competere con quelle propinate dagli schermi, grandi e piccoli. Le illusioni forgiate con la parola esigono una partecipazione attiva del lettore, uno sforzo di immaginazione e, a volte, se si tratta di letteratura moderna, complicate operazioni di memoria, di associazione e di creazione, che le immagini del cinema e della televisione risparmiano agli spettatori. E gli spettatori, in parte per questo motivo, diventano ogni giorno piú pigri, piú allergici a un intrattenimento che li impegni intellettualmente. Dico ciò senza il minimo spirito polemico verso i mezzi audiovisivi e dalla mia ben nota condizione di appassionato di cinema – vedo due o tre film la settimana – pronto a godersi anche un buon programma televisivo (questa rarità). Ma, proprio per questo, con la cognizione di causa necessaria per affermare che tutti i buoni film che ho visto nella mia vita, e che mi hanno divertito molto, non mi hanno aiutato neppure remotamente a capire il labirinto della psicologia umana come hanno fatto i romanzi di Dostoevskij, o i meccanismi della vita sociale come ha fatto Guerra e pace di Tolstoj, o gli abissi di miserie e le vette di grandezza che possono coesistere nell’essere umano come mi hanno insegnato le saghe letterarie di Thomas Mann, Faulkner, Kafka, Joyce o Proust. Le finzioni dello schermo sono intense nella loro immediatezza ed effimere nelle conseguenze; ci catturano e ci liberano quasi immediatamente; di quelle letterarie rimaniamo prigionieri a vita. Dire che i libri di questi autori intrattengono, equivale a ingiuriarli, perché, anche se è impossibile non leggerli in stato di trance, ciò che vi è di importante nelle buone letture è sempre successivo alla lettura, un effetto che deflagra nella memoria e nel tempo. In me agisce ancora, perché, senza queste letture, nel bene e nel male, non sarei quello che sono, né crederei in ciò in cui credo, né avrei i dubbi e le certezze che mi fanno vivere. Quei libri mi hanno cambiato, mi hanno modellato, mi hanno costituito. E continuano a cambiarmi e a costituirmi, incessantemente, seguendo il ritmo della vita con la quale li confronto. In quei libri ho appreso che il mondo è malfatto e che sarà sempre malfatto – il che non significa che non dobbiamo fare il possibile perché non diventi peggiore di quanto non sia –, che siamo inferiori a ciò che sogniamo e viviamo nella finzione, e che esiste una condizione che condividiamo, nella commedia umana di cui siamo attori, che, nella nostra diversità di culture, razze e credenze, ci rende uguali e dovrebbe renderci, anche, solidali e fraterni. Che non sia cosí, che pur

condividendo tante cose con i nostri simili, proliferino ancora i pregiudizi razziali, religiosi, l’aberrazione dei nazionalismi, l’intolleranza e il terrorismo, è una cosa che posso capire molto meglio grazie ai libri che mi hanno tenuto sveglio e sulle spine mentre li leggevo, perché nulla affina piú della buona letteratura il nostro fiuto e nulla ci rende piú sensibili nell’individuare le radici della crudeltà, la cattiveria e la violenza che può scatenare l’essere umano. Per due ragioni, mi sembra si possa affermare che, se nel presente la letteratura non continua a svolgere come in passato tale funzione – rinunciando a essere light, tornando a «impegnarsi», cercando di aprire gli occhi alla gente, attraverso la parola e la fantasia, sulla realtà che ci circonda –, sarà piú difficile contenere l’eruzione di guerre, massacri, genocidi, conflitti etnici, lotte religiose, movimenti di rifugiati e azioni terroristiche che è divampata e che rischia di proliferare, facendo a pezzi l’illusione di un mondo pacifico, in democratica convivenza, che la caduta del Muro di Berlino ha fatto immaginare. Non è stato cosí. Con il crollo dell’utopia collettivista è stato fatto un passo avanti, certo, che tuttavia non ha portato il consenso universale sulla vita in democrazia che aveva immaginato Francis Fukuyama; piuttosto, una confusione e una complicazione della realtà storica per capire la quale non è inutile ricorrere ai dedali letterari ideati da Faulkner per raccontare la saga di Yoknapatawpha e da Hermann Hesse nel gioco delle perle di vetro. La storia è diventata sconcertante e sfuggente come un racconto fantastico di Borges. La prima ragione è l’urgenza di una mobilitazione delle coscienze che esiga azioni decise dei governi democratici in favore della pace, dove questa si infrange e minaccia di provocare cataclismi, come accade in Bosnia, in Cecenia, in Afghanistan, in Libano, in Somalia, in Ruanda, in Liberia e in tanti altri luoghi dove, ancora oggi, si tortura, si uccide o si rinnovano gli arsenali per futuri massacri. La paralisi dell’Unione europea di fronte a una tragedia accaduta alle sue porte, i Balcani – duecentomila morti e operazioni di pulizia etnica che, nella maggior parte dei casi, sono state legittimate nelle recenti elezioni che hanno confermato al potere i partiti piú nazionalisti – è una prova drammatica della necessità di risvegliare le coscienze che vivono nel letargo dell’indulgenza o nell’indifferenza, e far uscire le società democratiche dal marasma civile, che è stato, per loro, una delle inattese conseguenze del crollo del comunismo. I crimini spaventosi commessi dal

fanatismo nazionalista e razzista nella polveriera, pacificata ma non disinnescata del tutto, della ex Iugoslavia, che si sarebbero potuti evitare con un’azione opportuna dei paesi occidentali, non dimostrano forse la necessità di una vigorosa iniziativa nel campo delle idee e della morale pubblica che informi il cittadino su che cosa ci sia in gioco o che lo faccia sentire responsabile? Gli scrittori possono contribuire a questa azione, come hanno fatto in passato, tante volte, quando ancora credevano che la letteratura non servisse soltanto a intrattenere, ma anche a preoccupare, allarmare, e indurre ad agire per una buona causa. La sopravvivenza della specie e della cultura sono una buona causa. Aprire gli occhi, contagiare l’indignazione di fronte all’ingiustizia e il crimine, l’entusiasmo per determinati ideali, provare che c’è posto per la speranza nelle situazioni piú difficili, è qualcosa che la letteratura ha saputo fare, anche se, a volte, ha sbagliato obiettivi e appoggiato cause indifendibili. La seconda ragione è che la parola scritta ha, oggi, quando molti pensano che le immagini e gli schermi la stiano rendendo obsoleta, la possibilità di andare piú a fondo nell’analisi dei problemi, di spingersi piú lontano nella descrizione della realtà sociale, politica e morale, in definitiva, di dire la verità, sui mezzi audiovisivi. Questi sono condannati a rimanere sulla superficie delle cose e a essere molto piú mediatizzati dei libri per quanto riguarda la libertà di espressione e di creazione. La considero una realtà spiacevole, ma indubbia: le immagini degli schermi divertono di piú, intrattengono meglio, ma sono sempre parche, spesso insufficienti e molte volte incapaci di dire, nel complesso ambito dell’esperienza individuale e storica, ciò che si pretende nei tribunali dai testimoni: «la verità, tutta la verità». E la loro capacità critica è perciò molto scarsa. Voglio soffermarmi un momento su questo, che può sembrare un controsenso. Il progresso della tecnologia delle comunicazioni ha annullato le frontiere e instaurato il villaggio globale, dove tutti siamo, finalmente, contemporanei dell’attualità, esseri in comunicazione mutua. Dobbiamo gioirne, naturalmente. La possibilità di essere informati, di sapere quello che succede, di viverlo attraverso le immagini, di entrare nel cuore della notizia, grazie alla rivoluzione audiovisiva si è spinta piú lontano di quanto potessero sospettare i grandi anticipatori del futuro, come Jules Verne o H. G. Wells. E, tuttavia, pur molto informati, siamo piú distaccati ed estraniati rispetto a prima da ciò che accade nel mondo. Non «estraniati» come Bertolt Brecht

voleva che fosse lo spettatore: per educare la sua ragione e sviluppare la sua coscienza morale e politica, perché sapesse distinguere ciò che vedeva sulla scena da ciò che accadeva per strada. No. La prontezza e la versatilità fantastiche con cui l’informazione ci trasporta oggi negli scenari d’azione nei cinque continenti, sono riuscite a trasformare il telespettatore in un mero spettatore e il mondo in un grande teatro, o meglio, in un film, in un reality straordinariamente divertente, dove a volte siamo invasi dai marziani, dove vengono rivelate piccanti vicende intime delle persone e, a volte, si scoprono le fosse comuni dei bosniaci sacrificati di Srebrenica, i mutilati della guerra in Afghanistan, cadono missili su Baghdad e i bambini del Ruanda mostrano i loro corpi scheletriti e i loro occhi agonizzanti. L’informazione audiovisiva, sfuggente, passeggera, chiassosa, superficiale, ci fa vedere la storia come finzione, portandoci a prenderne le distanze perché nasconde le cause, gli ingranaggi, i contesti e gli sviluppi degli eventi che ci presenta in maniera cosí vivida. È un modo di farci sentire determinanti per il cambiamento di ciò che passa sotto i nostri occhi sullo schermo tanto quanto ci accade quando vediamo un film. Ci condanna alla ricezione passiva, all’atonia morale e all’anomia psicologica in cui di solito ci pongono le fiction e i programmi rivolti alle masse che hanno come unico fine l’intrattenimento. È uno stato perfettamente lecito, naturalmente, è ha i suoi vantaggi: a tutti noi piace evadere dalla realtà oggettiva cullati tra le braccia della fantasia; questa è stata, anche, sin dal principio, una delle funzioni della letteratura. Ma rendere irreale il presente, trasformare in finzione la storia reale, smobilita il cittadino, lo fa sentire esente dalla responsabilità civile, lo porta a credere che intervenire in una storia con una sceneggiatura già scritta, interpretata e filmata in modo irreversibile sia fuori dalla sua portata. Di questo passo possiamo precipitare verso un mondo senza cittadini, fatto di spettatori, un mondo che, pur avendo una forma democratica, si sarà trasformato nella società letargica, di uomini e donne rassegnati, che tutte le dittature aspirano a instaurare. Oltre a trasformare l’informazione in fiction per la natura del suo linguaggio e le limitazioni di tempo di cui dispone, il margine di libertà di cui gode la creazione audiovisiva è imposto dall’altissimo costo di produzione. È una realtà non voluta, ma determinante, poiché incombe come un’imposizione sul regista al momento di scegliere un argomento e di concepire il modo di narrarlo. La ricerca del successo immediato nel suo caso

non è un capriccio, una vanità, un’ambizione: è il requisito senza il quale non può fare (o fare di nuovo) un film. Ma il tenace conformismo che suole essere la norma del prodotto audiovisivo tipico non si deve soltanto a questa necessità di conquistare un grande pubblico, puntando sulle cose piú basse, per recuperare investimenti elevati; ma anche al fatto che, trattandosi di generi di massa, con una ripercussione immediata in vasti settori, la televisione e, subito dopo, il cinema, sono i mezzi maggiormente controllati dai poteri, anche nei paesi piú aperti. Non sempre censurati in modo esplicito, sebbene, in alcuni casi, lo siano; piuttosto, vigilati, consigliati, dissuasi, tramite leggi, regolamenti o pressioni politiche ed economiche, dall’affrontare temi piú controversi o dall’affrontarli in modo controverso. In altre parole, indotti a essere esclusivamente divertenti. Questo contesto ha creato per la parola scritta e per il suo esponente principale, la letteratura, una situazione di privilegio. L’opportunità, direi quasi l’obbligo, visto che può, di essere problematica, «pericolosa», come la considerano i dittatori e i fanatici, capace di sobillare le coscienze, ribelle, preoccupante, critica, impegnata, come recita il proverbio spagnolo, a cercare tre zampe al gatto pur sapendo che ne ha quattro. C’è un vuoto da riempire e i mezzi audiovisivi non sono nelle condizioni né hanno la facoltà di farlo come si deve. Questo lavoro deve essere fatto, se non vogliamo che il bene piú prezioso di cui godiamo – noi minoranze che ne godiamo – la cultura della libertà, la democrazia politica, si deteriori e soccomba, perché i suoi beneficiari si sono dimessi. La libertà è un bene prezioso, ma non è garantita, a nessun paese, a nessuna persona, che non sappia farsene carico, esercitarla e difenderla. La letteratura, che respira e vive grazie a questa, che senza soffoca, può far comprendere che la libertà non è un dono del cielo ma una scelta, una convinzione, una pratica e una serie di idee che debbono essere arricchite e messe alla prova di continuo. E, anche, che la democrazia è la migliore difesa che sia stata inventata contro la guerra, come ha postulato Kant, affermazione che oggi è ancora piú vera rispetto a quando è stata scritta dal filosofo, poiché quasi tutte le guerre nel mondo, per lo meno da un secolo, hanno avuto luogo tra dittature, o sono state scatenate da regimi autoritari e totalitari contro le democrazie, mentre è molto raro il caso – le eccezioni sono come un ago in un pagliaio – di guerre che vedono scontrarsi due paesi democratici. La lezione è chiarissima. Il modo migliore che hanno a disposizione i paesi liberi

per arrivare a un pianeta pacificato è quello di promuovere la cultura democratica. In altre parole, combattere i regimi dispotici la cui sola esistenza è una minaccia di conflitto bellico, quando non incentivano e finanziano il terrorismo internazionale. Per questo, faccio mio l’appello di Wole Soyinka affinché i governi del mondo sviluppato applichino sanzioni economiche e diplomatiche ai governi tirannici, che violano i diritti umani, invece di proteggerli o di guardare dall’altra parte mentre essi perpetrano i loro crimini, con la scusa di garantire gli investimenti e l’espansione delle proprie imprese. Questa politica è immorale e anche poco pratica, sul medio periodo. Perché la sicurezza fornita da regimi che uccidono i dissidenti, come quello del generale Abacha, in Nigeria, o la Cina che schiavizza il Tibet, o la satrapia castrense della Birmania, o il gulag tropicale cubano, è precaria e si può sgretolare nell’anarchia o nella violenza, come è accaduto in Unione Sovietica. La migliore garanzia per il commercio, gli investimenti e il sistema economico internazionale è la diffusione della legalità e della libertà in tutto il mondo. C’è chi sostiene che le sanzioni siano inefficaci per diffondere la democrazia. Non sono forse servite in Sudafrica, in Cile, ad Haiti, per accelerare il crollo della dittatura? Che lo scrittore «si impegni» non può voler dire che rinunci all’avventura dell’immaginazione, né agli esperimenti del linguaggio, né ad alcuna ricerca, audacia, rischio che rende stimolante il lavoro intellettuale, né che combatta contro il riso, il sorriso o il gioco perché considera incompatibile con la responsabilità civile il dovere di intrattenere. Divertire, ammaliare, stupire: le grandi poesie, i grandi drammi, romanzi o saggi lo hanno sempre fatto. Non c’è idea, personaggio o aneddoto della letteratura che possa vivere e perdurare se non spunta magicamente, come il coniglio dal cilindro del prestigiatore, capace di ammaliare. Non si tratta di questo. Si tratta di accettare la sfida che questa fine millennio lancia a tutti noi, e da cui non si possono esimere le donne e gli uomini che si dedicano alla pratica culturale: sopravvivremo? Un evento simbolico come la caduta del Muro di Berlino non ha reso inutile la domanda. L’ha riformulata, aggiungendo altre incognite. Prima, congetturavamo se sarebbe scoppiato il grande conflitto incubato dalla guerra fredda e se il mondo si sarebbe consumato nell’olocausto di un solo scontro tra Est e Ovest. Adesso, si tratta di sapere se la morte della civiltà sarà piú lenta o decentralizzata, risultato di una successione di molteplici deflagrazioni, regionali e nazionali, provocate

per ragioni ideologiche, religiose, etniche e la cruda brama di potere. Le armi ci sono e continuano a essere fabbricate. Atomiche e convenzionali, sono piú che sufficienti per disintegrare diversi pianeti, oltre all’astro privo di luce propria che ci è toccato in sorte. La tecnologia della distruzione continua il suo progresso vertiginoso e diventa sempre meno dispendiosa. Oggi, un’organizzazione terroristica con pochi membri e risorse limitate ha a disposizione un arsenale distruttivo piú potente di quello su cui potevano contare i devastatori piú efficienti, come Attila o Gengis Khan. Non è un problema degli schermi, grandi e piccoli. È il nostro problema. E se tutti, compresi noi che scriviamo, non troveremo una soluzione, può accadere che, come in un film ameno, i mostri bellici scappino dal loro recinto di celluloide e facciano saltare in aria la casa in cui ci sentivamo al sicuro. Durante i suoi anni di esilio in Francia, quando l’intera Europa stava soccombendo all’avanzata degli eserciti nazisti, apparentemente inarrestabili, un uomo di penna nato a Berlino, Walter Benjamin, si affannava a studiare la poesia di Baudelaire. Scriveva un libro su di lui, che non terminò mai, di cui ha lasciato alcuni capitoli che oggi leggiamo con la fascinazione che producono in noi i saggi piú fecondi. Perché Baudelaire? Perché un simile argomento, in quel momento oscuro? Leggendolo, scopriamo che I fiori del male conteneva risposte a interrogativi inquietanti per la vita dello spirito e dell’intelletto, originati dallo sviluppo di una cultura urbana, dalla condizione dell’individuo e i suoi fantasmi in una società massificata e spersonalizzata dalla crescita industriale, dalla direzione che in questa nuova società avrebbero assunto la letteratura, l’arte, il sogno e i desideri umani. L’immagine di Walter Benjamin chino su Baudelaire mentre intorno a lui si stringeva il cerchio che avrebbe finito col soffocarlo, è commovente quanto quella del filosofo Karl Popper che, in quegli stessi anni, nel suo esilio dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda, si dedicava a imparare il greco classico e a studiare Platone come – sono parole sue – contributo personale alla lotta contro il totalitarismo. Sarebbe nato cosí un libro fondamentale, La società aperta e i suoi nemici. Benjamin e Popper, il marxista e il liberale, eterodossi e originali all’interno delle grandi correnti di pensiero che hanno rinnovato e stimolato, sono due esempi di come scrivendo si possa resistere alle avversità, agire, influire sulla storia. Modelli di scrittori impegnati, li cito, in conclusione, come prove del fatto che, per quanto l’aria diventi rarefatta e l’ambiente non

sia propizio per loro, i dinosauri possono arrangiarsi per sopravvivere e rivelarsi utili in tempi difficili. Parigi, 18 settembre 1996 1. N. Carr, The Shallows: What the Internet is Doing to Our Brains, W. W. Norton & Company, New York 2010 [trad. it. Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, Milano 2011].

Ringraziamenti

I limiti e gli errori che può contenere questo saggio sono imputabili soltanto a me, ma i suoi eventuali pregi debbono molto ai suggerimenti di tre amici generosi che hanno letto il manoscritto e che voglio citare e ringraziare: Verónica Ramírez Muro, Jorge Manzanilla e Carlos Granés. MARIO VARGAS LLOSA Madrid, ottobre 2011

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QUESTO

vocabolo, è sul punto di scomparire». Da Mario Vargas Llosa la radiografia durissima di una cultura sacrificata in nome della ricerca

del piacere e dell’intrattenimento. Il ritratto di un tempo destinato alla decadenza, «se non avremo la forza di contrastarne i segni». La banalizzazione dell’arte e della letteratura, il successo del giornalismo scandalistico e la frivolezza della politica sono i sintomi di un male maggiore che ha colpito la società contemporanea: l’idea temeraria di convertire in bene supremo la nostra naturale propensione al divertimento. In passato, la cultura era stata una specie di coscienza che impediva di ignorare la realtà. Ora, invece, agisce come meccanismo di intrattenimento, persino di distrazione. Inoltre, gli intellettuali sono scomparsi e anche se alcuni di loro firmano sporadici manifesti e prendono posizione su eventi e persone, di fatto non esiste piú un vero e proprio dibattito. Mario Vargas Llosa riflette, in questo libro, sulla metamorfosi che la cultura ha subito in questi anni, nell’inquietante remissività generale, e invita gli scrittori «a coniugare la comunicazione col rigore, l’originalità e l’impegno creativo, per costruire nuove forme d’arte» e poter salvare, cosí, la cultura.

L’autore MARIO VARGAS LLOSA

è nato nel 1936 ad Arequipa, in Perú, e attualmente vive a

Londra. Nel 2010 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Einaudi ha in corso di pubblicazione l’intera opera. Tra i titoli già pubblicati: La Casa Verde, La zia Julia e lo scribacchino, La guerra della fine del mondo, I quaderni di don Rigoberto, La città e i cani, Lettera a un aspirante romanziere, Conversazione nella «Catedral», Elogio della matrigna, La festa del Caprone, Pantaleón e le visitatrici, Storia di Mayta, Il Paradiso è altrove, I cuccioli. I capi, Chi ha ucciso Palomino Molero?, Avventure della ragazza cattiva, Appuntamento a Londra, Il caporale Lituma sulle Ande, Il narratore ambulante, Elogio della lettura e della finzione, La Chunga e Il sogno del celta. Nel 2012, sempre per Einaudi, è uscito Alfonsino e la Luna; nel 2013, nella nuova collana digitale dei Quanti, Mondo, romanzo (con Claudio Magris); sempre nel 2013, sono usciti La civiltà dello spettacolo e L’eroe discreto; nel 2016, Crocevia (ultima edizione Super ET 2018).

Dello stesso autore La Casa Verde La zia Julia e lo scribacchino La guerra della fine del mondo I quaderni di don Rigoberto La città e i cani Lettere a un aspirante romanziere Conversazione nella «Catedral» Elogio della matrigna La festa del Caprone Pantaleón e le visitatrici Storia di Mayta Il Paradiso è altrove I cuccioli. I capi Chi ha ucciso Palomino Molero? La libertà selvaggia Avventure della ragazza cattiva Appuntamento a Londra Il narratore ambulante Il caporale Lituma sulle Ande Elogio della lettura e della finzione Il sogno del celta La Chunga Alfonsino e la Luna Mondo, romanzo (con C. Magris) L’eroe discreto Crocevia

Titolo originale La civilización del espectáculo © 2012 Mario Vargas Llosa © 2013 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: illustrazione di Jesús Acevedo González. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858431511

Indice Frontespizio Il libro L’autore La civiltà dello spettacolo Metamorfosi di una parola Capitolo primo. La civiltà dello spettacolo Precedenti: Cacca di elefante Capitolo secondo. Breve discorso sulla cultura Precedenti: L’ora dei ciarlatani Capitolo terzo. Proibito proibire Precedenti: Il velo islamico Capitolo quarto. La scomparsa dell’erotismo Precedenti: Il pittore nel bordello Il sesso freddo Capitolo quinto. Cultura, politica e potere Precedenti: Pubblico e privato Capitolo sesto. L’oppio dei popoli Precedenti: Il segno della croce Difesa delle sette Riflessione finale Precedenti: Piú informazione, meno conoscenza Dinosauri in tempi difficili Ringraziamenti

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