La Chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata
 9788858128152

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i Robinson / Letture

Di Marco Marzano nelle nostre edizioni:

Etnografia e ricerca sociale

Marco Marzano

La Chiesa immobile Francesco e la rivoluzione mancata

Editori Laterza

© 2018, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2018

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Edizione 5 6

Anno 2018 2019 2020 2021 2022 2023 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2815-2

Indice

Introduzione. Il mistero di un papa già santo I. Francesco il riformatore mancato

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La grande riforma della Chiesa cattolica, p. 5 - Cambiare la Curia, p. 15 - Una riforma solo annunciata: il cambiamento della governance, p. 22 - Rinnovare la morale, p. 27 - Bergoglio e la «spiritualità flessibile», p. 30 - La grande esclusa: il nodo della questione femminile, p. 38 - Francesco e le donne, p. 43 - La questione del celibato obbligatorio e la riforma del ruolo dei preti, p. 44 - Un papa prete celibe dinanzi alla riforma del celibato, p. 51 - Né rivoluzionario né riformatore, p. 53

II. Perché la Chiesa non cambia

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La fedeltà istituzionale di papa Francesco, p. 57 - La crisi della Chiesa cattolica: realtà o immaginazione?, p. 64 - L’irresistibile avanzata della secolarizzazione, p. 76 - Un incubo concreto per il cattolicesimo riformato: la comunione anglicana, p. 88

III. Francesco e l’amicizia come politica

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Francesco nemico del capitalismo?, p. 95 - La «politica dell’amicizia» verso gli altri cristiani, p. 104 - La «politica dell’amicizia» tra le mura della Chiesa I: la teologia della liberazione, p. 113 - La «politica dell’amicizia» tra le mura della Chiesa II: i lefebvriani, p. 128 - Tra i migliori amici del papa ci sono i suoi nemici, p. 132



Conclusioni 144



Bibliografia 157

Introduzione

Il mistero di un papa già santo

L’idea centrale di questo libro è figlia di uno stupore: quello provato da chi scrive, in misura crescente nei cinque anni che ci separano dalla sua elezione, nei confronti del fenomeno sociale e mediatico di papa Francesco. La sorpresa è derivata dal veder presentati, praticamente ogni giorno e da una platea differenziata ed articolata di intellettuali, commentatori e giornalisti, i gesti, le parole e le scelte del papa argentino come immancabilmente sconvolgenti, dissacranti, innovativi e, con una parola molto abusata in questi anni di relativa pace sociale, rivoluzionari. La narrazione del papa iniziatore di una nuova fase nella vita dell’istituzione millenaria, la leggenda del papa buono, umano e sorridente, nemico implacabile di corrotti, conservatori e opportunisti e restauratore degli autentici valori evangelici si sono istantaneamente e universalmente consolidate, divenendo da subito, sin dalla sera della sua elezione il 13 marzo del 2013, senso comune, sapere diffuso, elemento dato per scontato. Le si sente circolare nei bar e nelle case, come nelle redazioni dei giornali e nelle case editrici, tra persone di ogni categoria sociale, ceto, provenienza geografica e appartenenza politica. Quasi nessuno ha l’ardire di mettere in discussione le qualità o le scelte di un «papa nei fatti già santo» per unanime acclamazione popolare. La beatificazione in vita di papa Bergoglio è quasi universale, ma è in particolare appannaggio e prerogativa di un nucleo piuttosto nutrito di prelati e intellettuali cattolici «progressisti», che ha sofferto a lungo sotto i pontificati dei due predecessori di Francesco, attendendo per decenni di ­­­­­VII

potersi rivalere sullo schieramento avverso, di avere finalmente un’occasione di rivincita. Tutti costoro si trovano oggi nella condizione difficile di chi, ansioso di porre termine ad una lunga e dolorosa traversata nel deserto ecclesiale, ha concesso al papa venuto «quasi dalla fine del mondo» un credito immenso ma senza garanzie, e in questo momento si trova a dover tenere acceso a tutti i costi – anche per salvare una reputazione compromessa da un’adesione cieca ai limiti del fanatismo al «nuovo corso» del papa argentino – il lumicino di una speranza sempre più esile in cambiamenti che probabilmente non verranno mai. Devo confessare di non essere mai stato sedotto da Francesco, di non essere mai rimasto incantato dai suoi discorsi e tantomeno dai suoi scritti. Eppure, per almeno un paio di anni, forse anche di più, ho usato un tono decisamente prudente nel giudicare le sue azioni, sono stato cauto nel valutare i suoi atti1. Una prudenza sconosciuta ai più, soprattutto alla maggior parte di osservatori ed esperti di cose cattoliche, alacremente impegnati fin dal giorno della prima apparizione dal balcone di San Pietro a riconoscere i segni della presunta «santità rivoluzionaria» del papa argentino. In quel tempo, nei primi anni del pontificato, le azioni di Jorge Bergoglio mi apparivano ancora enigmatiche, lo pensavo perplesso sul da farsi, forse tormentato dai dubbi nel decidere la direzione da far intraprendere alla Chiesa come lo ero io nel leggere le sue azioni; lo immaginavo esitante dinanzi ad un bivio, incerto se avviare davvero una riforma profonda ed incisiva dell’istituzione di cui egli – in seguito alle dimissioni del papa tedesco – era inaspettatamente diventato il monarca, o invece scegliere una strategia diversa, rimanere alla superficie delle cose, accarezzare le novità solo con la predicazione, con la parola, senza mai giungere all’azione. Col passare del tem1   Di questo si trova conferma negli archivi delle due testate, «il manifesto» prima, e poi soprattutto «Il Fatto Quotidiano», che hanno regolarmente ospitato i miei commenti sulle mosse e le parole del pontefice argentino.

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po, mentre intorno a Francesco il coro degli apologeti laici e cattolici proseguiva – con zelo talvolta imbarazzante – l’edificazione del culto della sua personalità (con un’intensità pari solo a quella riservata, nel contesto cattolico, a Giovanni XXIII), alla curiosità e alla prudenza sono subentrati in me il disincanto e una percezione sempre più chiara degli enormi limiti del pontificato di Bergoglio e insieme della forza e della potenza di un’istituzione, la Chiesa cattolica, capace di prosperare quasi sempre identica a se stessa per millenni, nella buona come nella cattiva sorte, nella luce del trionfo delle epoche integralmente cristiane così come nel buio del mondo secolarizzato del XXI secolo. È in quel momento che è sorto in me il desiderio di saperne di più per capire meglio. Ed è in questo quadro che è nata l’idea di questo libro. Il volume è il frutto di una sistematica e scrupolosa rassegna degli articoli a stampa su quotidiani e settimanali2 oltre che dell’esame di una eterogenea letteratura storico-biografica, teologica e socio-politologica. L’analisi dei testi è stata integrata da quarantuno lunghe interviste in profondità a testimoni privilegiati, quasi sempre «intellettuali organici» al cattolicesimo. Senza il loro contributo questo libro non avrebbe mai visto la luce. Nel primo capitolo presento il nucleo di cambiamenti istituzionali e strutturali del cattolicesimo che a me, e soprattutto a moltissimi fedeli, paiono più rilevanti e urgenti; quei nodi che chi volesse cambiare la Chiesa cattolica dovrebbe necessariamente affrontare: la riforma della Curia, quella del celibato, il ruolo delle donne e la dottrina morale e sessuale. Su tutti questi punti ho ricostruito sia le proposte dei riformatori sia le scelte di fondo compiute da Francesco. Dopo aver mostrato come su nessuno dei grandi temi (con la parziale eccezione della eventuale riammissione dei divor  Di straordinaria utilità si è rivelata la rassegna stampa meticolosamente accurata Incontri di «Fine Settimana», nel sito www.finesettimana.org. 2

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ziati all’eucaristia) Francesco abbia avviato riforme significative, né seminato indizi che facciano pensare ad un loro varo più o meno prossimo, sono passato, nel secondo capitolo, a chiedermi come interpretare il totale fallimento o meglio il mancato avvio dell’azione riformatrice, offrendo un’interpretazione sociologica basata sull’analisi di alcune caratteristiche della Chiesa come grande burocrazia, della secolarizzazione come inevitabile destino delle società europee e della progressiva «terzomondizzazione» del cattolicesimo mondiale. Questa parte è integrata da un modesto e sintetico esercizio di sociologia storica e si conclude con la costatazione di come un cambiamento della Chiesa, e cioè il venir meno del suo carattere clericale, maschile, gerarchico e accentrato, non sia né probabile né, da un punto di vista rigorosamente funzionale, in alcun modo necessario. Il terzo capitolo è invece completamente dedicato a papa Francesco e all’esame degli aspetti più significativi e peculiari del suo pontificato, che non riguardano – come risulterà a questo punto ovvio – il funzionamento della struttura ecclesiastica che il pontefice ha lasciato assolutamente intatta, ma piuttosto l’esercizio del papato, il messaggio personale di Francesco. Nella nostra epoca, contraddistinta dall’enorme potenza dei mezzi di comunicazione, il papa non è infatti più solo un monarca assoluto elettivo posto a capo di un’immensa organizzazione globale, ma anche un leader spirituale e politico in grado di far conoscere quotidianamente i suoi pensieri e le sue riflessioni, di comunicare, per il tramite di immagini, parole e gesti, con un immenso pubblico di fedeli, curiosi e osservatori sparsi in ogni angolo del pianeta. Francesco ha utilizzato in modo mirabile questa possibilità e, grazie alla complicità del sistema dei media sempre alla disperata ricerca di «personaggi» da consumare, è riuscito ad occupare con successo la scena della comunicazione, dando non solo l’impressione di possedere un messaggio politico e sociale originale e assai adatto ai nostri tempi, ma anche quella di aver messo in movimento verso cambiamenti strutturali pro­­­­­X

fondi e duraturi un’istituzione molto spesso identificata con l’immobilismo e la conservazione. Da questo punto di vista, l’elemento più notevole dell’attività del pontefice è stata certamente quella che ho chiamato la «politica dell’amicizia» praticata a tutto tondo, ovvero la tendenza a considerare irrilevanti le distanze ideologiche e culturali e secondaria la dottrina morale e a privilegiare, al contrario, un irenismo in definitiva privo sia di forma che di sostanza. Nella Chiesa di Francesco non ci sono steccati perché mancano delle autentiche opzioni di fondo; tutte le eterodossie possono trovare un loro spazio, purché siano disposte a riconoscere il ruolo di pastore e di guida suprema dell’intero cristianesimo che il moderno principe romano si è assegnato3. L’effetto principale di questa politica è consistito,   È un tratto osservato anche da uno studioso attento come lo storico Loris Zanatta, che in una dettagliata analisi del messaggio sociale e politico di Bergoglio ha scritto: «È innegabile che Jorge Mario Bergoglio ami dire la sua su tanti temi mondani. Anzi, così frequenti sono i suoi interventi da farne sfuggire i silenzi, altrettanto significativi. Trovare il bandolo della sua visione del mondo è tra l’altro reso ancor più improbo da varie circostanze: i suoi discorsi son soliti adattarsi alla platea cui si rivolge, mutare da luogo a luogo e da pubblico a pubblico; e ancor più farlo a seconda che si tratti di testi scritti passati per cento mani e mille lime o di parole estemporanee sfuggite al filtro della Curia; per non dire che a chiunque abbia un po’ di familiarità col suo linguaggio, non sfugge l’astuzia con cui bilancia colpi al cerchio con colpi alla botte. Eccolo così dire al corpo diplomatico che occorre garantire ‘il diritto di ogni essere umano di immigrare in altre comunità’, evitando però che queste ‘sentano minacciati la propria sicurezza, la propria identità culturale e i propri equilibri politico-sociali’; il che è in fondo come pretendere di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ma eccolo tornare subito, dinanzi a platee più compiacenti, a difendere l’immigrazione senza se e senza ma. [...] Ecco papa Francesco riconoscere il ruolo sociale dell’impresa quando ha di fronte i vertici di Confindustria, ma eccolo sparare ad alzo zero contro ‘il liberalismo economico’ rispondendo alle domande di ‘El País’, dando così libero sfogo alla sua viscerale avversione per il mercato. Su tale ping pong verbale e concettuale del papa si potrebbe discettare all’infinito. Se ne potrebbe con benevolenza dedurre che rifletta l’eterno e insoluto dilemma di tradurre i valori evangelici in realtà sociali; oppure, a essere maligni, che il magistero di Francesco non è meno liquido del mondo cui si rivolge. C’è del vero in entrambe tali interpretazioni» (L. Zanatta, Il papa populista, in «Il Foglio», 8 maggio 2017). 3

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secondo me, nel distrarre l’opinione pubblica dal tema delle mancate riforme e al tempo stesso nell’accrescere la popolarità e la legittimità dell’intera istituzione. A questa impresa ha contribuito involontariamente anche la piccola ma agguerrita schiera di irriducibili nemici di Bergoglio: esaltando le modeste innovazioni di papa Francesco, esagerandone sistematicamente la portata e le conseguenze, costoro hanno finito con il rafforzare l’immagine di Francesco come (pericoloso ai loro occhi) rivoluzionario. Da questo punto di vista, hanno compiuto un lavoro perfettamente simmetrico, da sponde opposte, a quello degli apologeti più esaltati. Nella conclusione del libro, provo a disegnare lo scenario futuro e soprattutto ad immaginare le conseguenze non previste delle innovazioni, in primo luogo di quelle legate alla politica dell’amicizia, introdotte da Bergoglio. Un’ultima precisazione è divenuta necessaria prima di chiudere queste pagine introduttive: il libro è in larga misura il risultato di un tentativo di guardare alla vicenda della Chiesa secondo una prospettiva sociologico-organizzativa di verità e di obiettività. Molto spesso, compiendo questo sforzo, mi sono trovato a ribadire – come mi è già capitato in passato, all’esordio della mia carriera di studioso della società e del cattolicesimo4 – l’appropriatezza e la ragionevolezza di scelte e di valori che non mi piacciono, che non sono i miei. Mi rincresce l’idea che qualche conservatore possa adoperare le mie tesi per difendere i suoi interessi e la sua visione del mondo, così distante dalla mia, e nutro al contrario molta simpatia per le tesi e per le speranze dei cattolici progressisti. Eppure non posso negare di essermi persuaso sempre di più che le battaglie di questi ultimi sono destinate all’insuccesso, essendo lotte estenuanti contro i mulini a vento. Le riforme più efficaci del cattolicesimo giungeranno, se-

  Marzano (1996).

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condo me, dal velocissimo progredire della secolarizzazione e di quell’esodo di massa dall’autoritarismo clericale e «verticale» che ha avuto giusto cinquecento anni orsono, con l’avvio della Riforma luterana, una prima grande spinta decisiva. Le «riforme interne» delle grandi burocrazie sono imprese quasi impossibili e la vicenda complessiva della Chiesa cattolica dimostra ahimè, meglio di ogni altra, quanta resistenza esse sappiano opporre ad ogni cambiamento, quanto creativi siano i loro leader migliori nell’escogitare dispositivi che diano l’impressione di produrre mutamenti che in realtà non giungono mai. È questa una severa legge storica, non priva di una certa tragica sfumatura di dolorosa necessità, come notava il precursore più importante del moderno istituzionalismo organizzativo, Robert Michels5. A me sembra di averla solo applicata al caso cattolico, questa legge, in uno spirito di parresia che Francesco, almeno a parole, apprezzerebbe, e che io ho trovato meravigliosamente descritto nelle pagine dell’ultimo Foucault6, laddove il grande filosofo ricordava, sulla scorta dei moniti degli antichi stoici, che non c’è atto di amore più grande che dire la verità ad un amico che non vuol sentirla perché lo fa soffrire. Questo il senso del mio lavoro. Perlomeno secondo me. Hanno reso possibile questo libro le tante persone che mi hanno fornito consigli e suggerimenti, spiegato il loro punto di vista, aiutato a comprendere il punto di vista dei riformatori e molti aspetti del pontificato di Francesco o di quelli dei suoi predecessori (soprattutto quelli non chiaramente evincibili dalla mera analisi dei documenti e delle fonti). Un ringraziamento particolare e sentito va, oltre che ad Asher Colombo, che ha letto e commentato buona parte del lavoro e mi ha sostenuto e incoraggiato per tutto il periodo della stesura con amicale sollecitudine, a Mauro Castagnaro, che non solo mi ha con  Michels (1966).   Foucault (2015).

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cesso due lunghe interviste, ma ha anche svolto il prezioso lavoro di leggere e commentare tutto il testo in una fase di stesura avanzata. Ringrazio anche Francesca Pasquali per la lettura e i commenti sulle pagine conclusive dell’opera. Naturalmente, la responsabilità ultima di quello che troverete in questo libro è solo mia.

La Chiesa immobile Francesco e la rivoluzione mancata

I

Francesco il riformatore mancato

L’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro è stata percepita come una novità di immensa portata1. Hanno contribuito a questa percezione, in primo luogo, l’enorme sorpresa delle dimissioni del suo predecessore, il fatto di provenire «quasi dalla fine del mondo» e cioè dal Sudamerica latino e non, come molti immaginavano nei giorni del conclave, dal ricco Nordamerica, e poi soprattutto alcune sue qualità personali e talune scelte inedite e spiazzanti: da quella, coraggiosa e ambiziosa, di adottare – per la prima volta nella storia del papato – il nome del santo di Assisi, ovvero del più grande simbolo cattolico del rinnovamento ecclesiale e della povertà davvero predicata, a quella di annunciarsi come vescovo di Roma prima ancora che come pontefice universale, di salutare i fedeli con un semplice «buonasera», di invitare il popolo a pregare con lui e per lui. Francesco ha fatto da subito mostra di uno «stile» decisamente differente da quello dei suoi predecessori: ha scelto di abitare a Santa Marta (rinunciando, per 1   Sulla figura e il pontificato di Bergoglio è stata prodotta in questi anni una consistente letteratura che qui non può essere citata per intero. Scartando un’imponente produzione apologetica (forse senza precedenti nel mondo libero), mi limito a segnalare, tra i lavori dei giornalisti italiani (di diverso orientamento), quelli di Franco (2015), Politi (2014), Scaramuzzi (2015), Socci (2014 e 2016), Tornielli (2014), Valli (2016), Nuzzi (2017). La biografia di Francesco più ricca e accurata mi è parsa di gran lunga quella dell’americano Ivereigh (2014); di qualche interesse è anche il libro di Lowney (2013). Tra i lavori di studiosi italiani segnalo quelli di Faggioli (2014), D’Ambrosio (2016), Borghesi (2017), Rusconi (2017) e il numero monografico della «Rassegna Italiana di Sociologia» curato da Garelli e Pace (2016).

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qualche verso, all’uso della «reggia pontificia»2), di continuare a portare da sé, come faceva quando era vescovo di Buenos Aires, la sua vecchia borsa, di indossare mocassini piuttosto usati anziché scarpe più preziose, di predicare con un linguaggio semplice e accessibile, e di buttare all’aria molti discorsi preparati preferendo improvvisare e parlare a braccio. In questi anni, papa Bergoglio ha sorpreso tutti molte volte: ad esempio, quando ha rilasciato clamorose conferenze stampa sugli aerei che lo riportavano a casa (la più celebre è quella in cui ha pronunziato quel «chi sono io per giudicare un omosessuale?» che ha fatto immediatamente il giro del mondo) o quando ha intessuto dialoghi appassionati con conclamati miscredenti, quali il fondatore del quotidiano «la Repubblica» Eugenio Scalfari, o ancora quando si è recato a Lampedusa per denunciare la disumanità della mancata accoglienza dei migranti sulle nostre coste o in carcere a lavare i piedi a una detenuta musulmana. La Roma «bene» e papalina rimase sconcertata quando, a poco più di tre mesi dalla sua elezione a pontefice, disertò il concerto organizzato per lui nella grande sala delle udienze del Vaticano e in tanti sono rimasti colpiti dal fatto che si metta in fila con il vassoio in mano nella mensa di Santa Marta o che abbia pagato il conto dell’albergo dove aveva soggiornato nei giorni del conclave che lo elesse papa3. Insomma, dal punto di vista del messaggio spirituale, e soprattutto dei mezzi (del linguaggio) con i quali lo ha comunicato, papa Francesco rappresenta certamente una novità assai rilevante nello scenario religioso e politico globale4.

  Peloso (2014).   La circostanza fa ricordare un episodio analogo avvenuto quasi due secoli orsono e riferito da Duffy (1997, 337). L’episodio riguarda papa Pio IX che ottenne, all’inizio del suo pontificato, il favore del popolo anche in virtù del fatto che, rimasto senza denaro, dovette chiedere al conclave un prestito per raggiungere Roma. 4   Su questi aspetti si veda il saggio di Flavio Alvernini (2014). A suo giudizio, lo «stile del papa tocca il cuore e l’immaginazione dell’interlocutore per mezzo di una spontaneità e di un carisma fuori dal comune. Il messaggio 2 3

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Si può applicare lo stesso generoso giudizio sull’attività di Bergoglio come riformatore della sua organizzazione, come iniziatore di quella grande trasformazione della Chiesa di cui tanti riformatori cattolici e una parte dell’opinione pubblica attendono con trepidazione l’inizio? La grande riforma della Chiesa cattolica La Chiesa cattolica potrebbe rispondere alle grandi domande di cambiamento che provengono dal suo interno e dall’esterno, dai fedeli cattolici e dalla società civile mondiale, realizzando delle grandi riforme, cioè mettendo mano ad una modificazione profonda di alcune sue caratteristiche strutturali. Questa eventualità è, data la sua articolazione organizzativa e la sua natura di monarchia elettiva, fortemente dipendente dalla volontà del suo leader, il papa, che può prendere l’iniziativa di avviare le riforme praticamente in tutti i campi della vita ecclesiale. Il quesito allora diviene per noi il seguente: cosa avrebbe dovuto o dovrebbe fare di preciso Francesco per soddisfare le istanze riformatrici, per cambiare la fisionomia della Chiesa cattolica? È una domanda non banale, perché ci impone di uscire dalla superficialità di tante enfatizzazioni giornalistiche e dalla genericità degli esercizi apologetici che vedono enormi cambiamenti dietro ogni sospiro di papa Bergoglio. Vorrei precisare, prima di entrare nel merito del tema, che qui le parole «riforma» e «riformatore» sono preferite a quel-

è lui stesso. [Bergoglio] fa un uso della voce molto attento soprattutto con l’intonazione che valorizza l’emozione. Il risultato, anche grazie alla semplicità del messaggio, è che lui ricorda un papà rasserenante, un prete umile e collaborativo». La figura che il papa evoca è quella, sempre secondo Alvernini, di un parroco di campagna e non di un sovrano severo. L’Evangelii Gaudium avrebbe un tono decisamente colloquiale e anche le omelie del papa hanno invariabilmente una struttura semplice, basata, come prevede il modello gesuita, su tre parole sole. Il suo stile comunicativo è diretto e «autentico», dunque molto adatto – conclude Alvernini – ai social media, nei quali è infatti popolarissimo.

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le, largamente abusate nel discorso pubblico a proposito di papa Bergoglio, di «rivoluzione» e «rivoluzionario». Da questo punto di vista, è piuttosto curioso che uno degli uomini più potenti del pianeta, il capo della più longeva e conservatrice istituzione del mondo, venga definito un «rivoluzionario». L’aggettivo evoca infatti immediatamente i volti di Saint-Just, Danton, Lenin, Trockij, Bakunin, Che Guevara, Mao Zedong, Rosa Luxemburg: insomma, di una schiera di sovversivi che hanno dedicato buona parte della loro esistenza a minacciare l’ordine costituito, a far saltare per aria i regimi della loro epoca, a cercare di proiettare l’umanità in un mondo nuovo, rompendo radicalmente e definitivamente con il passato, con la tradizione, con le abitudini e gli schemi più consolidati. Non si era mai visto un «rivoluzionario» quasi ottantenne, pacificamente eletto al vertice di una potentissima e ricchissima (di risorse finanziarie, immobiliari ed umane) istituzione millenaria da una pletora di gerarchi anziani come lui al termine di un’onorata carriera trascorsa interamente al fedelissimo servizio della medesima organizzazione. Anche se, in cerca di rivoluzionari da assimilare a papa Francesco, ci allontanassimo dal campo stretto della politica e ci dirigessimo verso quello della spiritualità cristiana, ci imbatteremmo probabilmente nelle fisionomie di Francesco d’Assisi, di Lutero e soprattutto di Gesù, in ogni caso di outsider capaci di compiere, partendo dalle periferie degli imperi, scelte clamorose e destinate a cambiare il corso della storia umana. Quando giunse a Parigi, eletto all’Assemblea Costituente, Robespierre era un oscuro avvocato di provincia; quando iniziò a diffondere le sue tesi nella cittadina di Wittenberg, Martin Lutero era un monaco agostiniano sconosciuto, un professore di provincia senza incarichi di particolare rilievo. Non mi pare che vi siano mai stati rivoluzionari tra i papi. Forse l’unico che abbia davvero prodotto una clamorosa «azione rivoluzionaria» è stato Celestino V (e, per qualche verso, il suo emulo Benedetto XVI) in ragione del gesto supremo della volontaria rinuncia al potere. 6­­­­

Insomma, per meritarsi fino in fondo l’impegnativa etichetta, Bergoglio dovrebbe mettere in atto almeno un gesto di rottura davvero clamoroso, un’azione distruttiva, appunto «rivoluzionaria», di qualche aspetto del vecchio ordine cattolico. Dal momento che questo non è ancora avvenuto (e non sembra nemmeno tanto probabile che succeda, vista l’età dell’aspirante sovversivo e il tempo – cinque anni – trascorso dalla sua elezione a pontefice), proporrei di concentrarci sull’aggettivo, decisamente più appropriato in questo caso, di «riformatore». Il riformatore, a differenza del rivoluzionario, non intende annientare il vecchio ordine per sostituirlo con uno nuovo, ma desidera piuttosto apportare all’organizzazione che dirige quei cambiamenti indispensabili perché essa possa procedere più spedita ed efficiente, più adeguata ai tempi o depurata di alcuni vizi strutturali. Indubbiamente i riformatori possono, in qualche caso, fare una brutta fine, fallire ed essere spodestati, ma in altri possono invece avere la meglio e riuscire a trasformare in profondità l’organizzazione che guidano. Prendiamo i riformatori comunisti: alcuni di loro, primi fra tutti Dubček e Gorbačëv, hanno perso la loro battaglia storica, sono stati sonoramente sconfitti, dalle armi o dal montare del dissenso popolare; altri, si pensi alla leadership cinese, a Deng Xiaoping e ai suoi successori, invece ce l’hanno fatta e hanno trionfalmente riformato il sistema economico e sociale del loro paese. Tra i papi recenti, il più riformatore, forse l’unico davvero tale, è stato Giovanni XXIII, il quale, a tre mesi dalla sua elezione al soglio di Pietro, decretò l’indizione di un grande concilio ecumenico, che ha prodotto le novità più grandi nella vita della Chiesa di quest’ultimo mezzo secolo. Papa Francesco è davvero un riformatore? E se sì, cosa intende riformare? E cosa invece vuole mantenere intatto della struttura della Chiesa? Per rispondere a questa domanda, dovremmo prima di tutto chiarire cosa sia una riforma, di seguito stabilire quali siano quelle all’ordine del giorno nella Chiesa cattolica, e infine esaminare quali azioni Bergoglio abbia compiuto per realizzarle o almeno avviarle. 7­­­­

Una riforma è un cambiamento intenzionale della forma strutturale di un’organizzazione5. Può riguardare una amplissima quantità di oggetti simbolici, tra i quali: i riti e i rituali organizzativi, le forme gerarchiche, i criteri di selezione e le modalità di impiego del personale, l’articolazione e le competenze interne, la divisione del lavoro tra i diversi compartimenti dell’organizzazione, la formazione dei funzionari, l’ideologia organizzativa. Le riforme sono in genere promosse e avviate dal vertice, dal top management. Esse rappresentano il più radicale anche se non l’unico strumento impiegato per cambiare l’organizzazione, dal momento che ve ne sono altri quali, ad esempio, l’avvicendamento del personale, soprattutto ai livelli più alti, l’attenzione selettiva per certi progetti o per certe pratiche piuttosto che per altri, una diversa redistribuzione delle risorse6. Il varo di una riforma mette sempre a rischio, anzi generalmente sconvolge, gli equilibri di potere, le routine e le pratiche di un’organizzazione e per questo può essere sostenuto con entusiasmo da taluni, ma anche osteggiato, aggirato nell’ombra, non implementato e boicottato da altri. Per giustificare una riforma vengono quasi sempre invocate argomentazioni razionali legate alla necessità di rilanciare l’organizzazione, di aumentarne l’efficienza, di ridurne i costi o di migliorarne la produttività e tuttavia, soprattutto nelle organizzazioni non di profitto, quelle con una forte dimensione ideale e valoriale, non manca mai, tra gli argomenti dei riformatori, un riferimento agli ideali originali dell’organizzazione che la riforma permetterebbe di realizzare meglio, eliminando le incrostazioni, gli opportunismi, le pigrizie e, in generale, le storture sedimentatesi nel tempo. Per questo motivo, le riforme sono immancabilmente espressione di una speranza: quella che l’organizzazione si   Brunsson e Olsen (1993); Brunsson (2009).   Brunsson (2009).

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depuri dei difetti accumulati nel tempo o quella che sia in grado di sopravvivere in una forma rinnovata e più adatta a nuove circostanze storiche, o ancora quella che le difficoltà attuali possano essere superate con un rinnovamento profondo, organico e strutturale. Le speranze nutrono e sostengono gli sforzi dei riformatori, danno senso al loro presente proiettandolo in un futuro immaginato e idealizzato. La speranza, ma si potrebbe anche chiamarla fede, combina in sé previsione e desiderio e rappresenta il miglior antidoto alla disperazione e all’apatia7: la prima si produce quando si crede che le proprie speranze non diventeranno mai realtà; la seconda quando, senza che cessi l’estraneità al presente, si smette persino di desiderare un futuro diverso. Per quasi cinque secoli, la stessa parola «riforma» ha rappresentato un tabù nella Chiesa, non è mai stata pronunciata ed è stata di fatto identificata con l’eresia protestante e per questo bandita del tutto dal linguaggio cattolico8. Nei documenti del Concilio Vaticano I, il termine compare una sola volta e in un’accezione non positiva; anche in quelli del Vaticano II si è preferito impiegare concetti meno impegnativi, quali «aggiornamento» o «rinnovamento». Ad ogni modo, riformare la Chiesa vuol dire soprattutto modificare e cambiare le sue strutture. Senza un cambiamento strutturale, ogni riforma rischia di limitarsi alla superficie, di riguardare la retorica, di apparire come un mero artificio linguistico. Come ha scritto Myriam Wijlens: «Una comunità che desidera vivere in accordo con la dottrina che possiede trae beneficio da strutture che sostengono, promuovono e proteggono la dottrina secondo cui essa vuole vivere. La riforma e le riforme della Chiesa che non considerino le strutture potrebbero non essere durature e non vedersi coronate da successo nel lungo periodo»9.   Brunsson (2009).   Tanner (2013). 9   Wijlens (2016, 309). 7 8

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A sostenere l’opportunità delle riforme della Chiesa è soprattutto un nucleo globale di intellettuali e prelati cattolici «progressisti», già in sé abbastanza ampio, ma soprattutto molto popolare presso vasti settori dell’opinione pubblica, per via della sua forte sintonia con alcuni dei valori più importanti delle moderne società occidentali (la libertà di coscienza, la parità dei diritti, lo spirito democratico). In altre parole, i modernizzatori cattolici si pongono come relais, come elementi di raccordo tra l’istituzione ecclesiale e alcune tendenze culturali e politiche diffuse nel mondo occidentale. La duplice ambizione di costoro è, da un lato, quella di cambiare la Chiesa immettendola nello «spirito del tempo», rendendola adatta a sopravvivere nella contemporaneità; e, dall’altro, di valorizzare nella società lo specifico contributo culturale e spirituale che proviene dall’esperienza religiosa cattolica. Per i riformatori cattolici, la necessità di cambiamenti strutturali della Chiesa sorgerebbe dall’obsolescenza ormai palese del modello di burocrazia ecclesiale noto come «modello tridentino»10, dal nome del concilio che nel XVI secolo lo mise a punto per poi trasformarlo nell’architettura portante dell’istituzione. In termini molto semplificati, esso consiste in un assetto organizzativo centrato, oltre che sulla parrocchia territoriale e sulla pratica religiosa generalizzata, su una struttura di governo affidata in via esclusiva ad un clero di funzionari a tempo pieno celibi e maschi e su un apparato centrale (la Curia romana) al servizio di un capo assoluto (il papa) dotato di enormi poteri normativi e politici. Questo modello, a giudizio di chi vorrebbe abbandonarlo, ormai non funzionerebbe più, soprattutto in ragione dei giganteschi cambiamenti maturati nell’ultimo secolo nelle società occidentali: per la secolarizzazione dilagante e la conseguente profondissima crisi dell’intermediazione religiosa, nonché per l’affermazione irreversibile della libertà e del plu-

  Prodi (2010).

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ralismo religiosi. Così, per i riformatori, «se non aggiorna le sue strutture visibili la Chiesa rischia di apparire, nella sua istituzionalizzazione visibile, come un enorme fossile storico, che minaccia di schiacciare con il peso del suo guscio esterno la preziosa esperienza che intende donare all’umanità»11. Sempre a giudizio di costoro occorrerebbe, in nome sia di un ritorno radicale e purificatore al messaggio evangelico sia di un adeguamento sempre più improcrastinabile del cattolicesimo alla modernità, mutare l’immagine percepita della comunità ecclesiale, combattere l’autoritarismo e la spietata verticalizzazione del potere nell’istituzione e invece favorire, anche attraverso un profondo cambiamento delle parrocchie, la piena partecipazione di tutti i fedeli alla vita ecclesiale. In definitiva, i riformatori desiderano una Chiesa meno maschilista, più sinodale e meno gerarchica. A sostegno della plausibilità e del realismo delle loro proposte, i riformatori affermano che vi sono molti precedenti di grandi cambiamenti nella storia della Chiesa, che quella che si prospetta non sarebbe una novità assoluta perché già altre volte nel corso della storia l’istituzione ecclesiale ha cambiato le sue norme e le sue strutture. La confessione auricolare, ad esempio, è diventata una pratica obbligatoria dopo essere stata a lungo proibita; il celibato del clero è diventato vincolante solo a partire da una certa data; ci sono state per secoli le diaconesse oggi scomparse. E così via. Questa istanza di mutamento sarebbe emersa più volte nell’ultimo secolo: in modo più clamoroso all’inizio del Novecento con il modernismo e poi, lo abbiamo già menzionato, negli anni Sessanta con il Concilio Vaticano II, un momento di grande discontinuità nella storia della Chiesa al quale è seguita una lunga ondata reazionaria, di impaurito smarrimento e ritorno all’indietro. Si tratterebbe insomma di riprendere quel cammino interrotto, di realizzare quel progetto ancora incompiuto, di riattivare quell’entusia-

  Torres Queiruga (2004, 7).

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smo che, nella prima metà degli anni Sessanta, condusse molta parte del cattolicesimo a sognare di poter rinnovare la Chiesa. Il concilio innescò una fibrillazione nello stanco e affaticato organismo ecclesiale: mise in discussione il carattere latino, romano e occidentale del cattolicesimo promuovendo l’idea dell’inculturazione, ovvero del pluralismo nelle forme di vita comunitaria e nelle liturgie cattoliche; incoraggiò le sperimentazioni nella catechesi, l’innovazione in teologia e la crescita anche quantitativa del movimento catechistico; sostenne la crescita del ruolo dei laici e delle loro aggregazioni, nonché l’accesso diretto alla Scrittura e alla sua interpretazione critica per tutti i fedeli; introdusse il diaconato maschile, approntò la riforma liturgica e il conseguente abbandono del latino a favore delle diverse lingue nazionali; consentì lo studio della teologia alle donne, istituì i sinodi e le conferenze episcopali. Il processo riformatore subì una prima battuta di arresto con Paolo VI il quale, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, spaventato dalla piega che le trasformazioni della Chiesa avrebbero potuto assumere, iniziò una vistosa retromarcia istituzionale. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero ulteriormente accentuato, a giudizio dei novatori, la frenata delle riforme già avviata da Paolo VI, senza rompere esplicitamente la fedeltà al messaggio del concilio, ma introducendo una netta distinzione tra una giusta (e cioè minima) e una sbagliata (e cioè radicale) ricezione dei suoi risultati e puntando nei fatti, da un lato, ad un deciso rafforzamento del centralismo romano, ovvero del ruolo della Curia romana a discapito di quello che avrebbero potuto assumere le istanze decentrate, le conferenze episcopali e i singoli vescovi; dall’altro, a un irrigidimento, anche giuridico, dell’impianto dottrinale e al tentativo «costantiniano», cioè politico, di porlo alla base delle legislazioni civili. Quest’ultima tendenza si è sviluppata, durante il pontificato dei papi polacco e tedesco, tramite la messa a punto di una rigida «dottrina della verità» e della contrapposizione etica e morale al mondo contemporaneo 12­­­­

e insieme l’aumento del controllo sull’ortodossia ideologica del lavoro dei teologi, la sacralizzazione della figura sacerdotale, il rallentamento del dialogo ecumenico. Nei decenni wojtyłiani e ratzingeriani, insomma, si sarebbero diffuse nella Chiesa l’esaltazione della continuità con il passato dell’istituzione e l’attenzione verso la purezza ideologica, combinate con la consapevolezza del carattere minoritario e relativamente marginale dell’esperienza cristiana nell’Occidente secolarizzato. Le tendenze reazionarie si sarebbero affermate di pari passo con la capacità di sfruttare appieno tutte le possibilità tecniche che la modernità offre per la diffusione del messaggio ecclesiale. Di qui, l’uso spregiudicato dei media, i grandi raduni di massa, soprattutto le Giornate mondiali della gioventù, la trasformazione del papa in una grande icona massmediatica, nel testimonial mondiale unico della grande istituzione religiosa. Il progetto di restaurazione conservatrice, tuttavia, dopo quasi mezzo secolo di tentativi, sarebbe sostanzialmente fallito e anche l’élite cattolica ne avrebbe finalmente preso coscienza, tanto da nominare al vertice dell’organizzazione un riformatore come Bergoglio. Le fratture e i conflitti che le riforme inevitabilmente innescherebbero non sarebbero, per i riformatori, da considerare in modo negativo, dal momento che esse renderebbero pubblico quel che è vero da tempo, e cioè che la Chiesa cattolica, al pari di altre organizzazioni religiose, è composta da conservatori e progressisti, cioè da individui e gruppi diversi tra di loro, leali e uniti su alcuni piani, ma divisi su molti altri. Bisognerebbe quindi trovare – questa è l’opinione dei progressisti – un nuovo modo di stare insieme ecclesiale, che contempli le differenze e il pluralismo interno. Questa nuova configurazione non solo sarebbe più confacente alla visione del mondo e della Chiesa di tanti semplici fedeli, ma permetterebbe all’istituzione di recuperare una buona parte delle pecorelle smarrite, cioè di tutti coloro che negli anni della restaurazione post-conciliare hanno abbandonato la Chiesa, 13­­­­

mettendo in atto quello che il filosofo Pietro Prini definì uno «scisma sommerso»12. A sostegno di questa tesi, alcuni riformatori citano sondaggi come quello realizzato dal network televisivo americano Univision su più di dodicimila cattolici di tutto il mondo tra il dicembre 2013 e il gennaio 2014. Secondo quella survey, ben il 58% dei cattolici battezzati e il 50% dei praticanti (con enormi variazioni regionali, dal 67% degli europei al 19% degli africani) ritiene giusta l’ammissione dei divorziati risposati alla comunione; il 78% dei battezzati e il 72% dei praticanti è favorevole all’uso dei contraccettivi; il 50% (che comprende il 70% degli europei e il 21% degli asiatici) è favorevole al matrimonio dei preti; poco meno della metà, il 45%, è a favore del sacerdozio femminile (con la consueta enorme differenza tra il 64% degli europei e il 17% degli asiatici); il 54% dei cattolici nordamericani e il 38% degli europei e dei latinoamericani (ma solo l’1% degli africani) è favorevole ai matrimoni gay e il 19% dei cattolici del mondo ritiene addirittura che dovrebbe essere la stessa Chiesa cattolica a celebrarli. I riformatori sono consapevoli che, in una monarchia assoluta quale è la Chiesa cattolica, la decisione di avviare la riforma spetta al principe e solo a lui, e immaginano di conseguenza il proprio ruolo come quello di meri sollecitatori, di consiglieri, di saggi suggeritori di un despota illuminato. Pensano dunque a se stessi come a coloro che, in assenza di qualunque procedura democratica, fanno giungere alle orecchie del capo le lamentazioni e i desiderata del popolo, dandogli così modo, se anch’egli lo ritiene opportuno, di iniziare a cambiare lo stato di cose. Ovviamente, non esiste un catalogo esaustivo e compatto, un programma compiuto, nel quale si trovino condensate tutte le istanze di cambiamento che percorrono il mondo cattoli-

  Prini (2016).

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co. Nessuno si è preoccupato di stilarlo, forse perché sarebbe apparso, in un’organizzazione che non tollera il pluralismo interno e che gli preferisce l’unanimismo plebiscitario, un atto divisivo e poi un gesto di lesa maestà, arrogante e presuntuoso, un’azione disubbidiente troppo somigliante ad un’iniziativa democratica dal basso, inaccettabile in un contesto nel quale tutto ciò che è buono e valido proviene solo dall’alto. E tuttavia l’elenco delle riforme non è poi così difficile da compilare, se solo si attinge al vivace dibattito avviato nel mondo cattolico da almeno mezzo secolo, e cioè dall’inizio dei lavori del Concilio Vaticano II, al principio degli anni Sessanta. Tenendo in considerazione quel dibattito, io penso che le grandi riforme che la Chiesa, o per meglio dire il capo della Chiesa, il pontefice romano, potrebbe varare sono le seguenti: 1) la riforma della Curia romana; 2) il mutamento delle norme etiche sulla vita sessuale e affettiva; 3) l’abolizione del celibato obbligatorio del clero; 4) il cambiamento della condizione delle donne nella Chiesa. Le esaminerò nel dettaglio, cercando poi di tracciare un bilancio, su ognuna di esse, dell’operato di papa Francesco. Cambiare la Curia La riforma delle riforme, il più importante di tutti i grandi cambiamenti che il cattolicesimo potrebbe introdurre nella sua articolazione strutturale, consiste, per valutazione praticamente unanime, nel cambiamento del «modello di governo» della Chiesa cattolica, quello che da alcuni secoli prevede la centralità assoluta del pontefice romano e, talvolta accanto, talaltra (come è avvenuto nell’ultima parte del pontificato di Benedetto XVI) addirittura sopra di lui, della potentissima Curia romana, ovvero dell’insieme degli organi e degli uffici del governo centrale della Chiesa, il luogo ove si decidono i destini dell’intera classe dirigente ecclesiale e si costruiscono gli indirizzi politici, religiosi e dottrinari della grande istituzione. Riformare l’assetto di governo della Chiesa avrebbe effetti 15­­­­

micidiali sull’intera istituzione, sulle sue dinamiche interne, sulla sua cultura organizzativa, sugli atteggiamenti dei suoi aderenti e sulle relazioni tra di loro. Favorire una maggiore partecipazione di chi oggi è escluso dai processi decisionali significherebbe inevitabilmente invertire una tendenza storica verso l’accentramento e il verticalismo, sfidare una mentalità ancora oggi molto diffusa a tutti i livelli nella vita ecclesiale. Come ha scritto benissimo Giuseppe Alberigo, «Nella vita quotidiana della Chiesa, la concezione della gerarchia come superiorità stimola un meccanismo di attrazione delle competenze verso i superiori, attraverso una progressiva espropriazione degli inferiori. La presunzione è sempre a favore di un livello superiore di autorità, a cui viene attribuita maggior efficacia, informazione, prestigio e illuminazione. La realtà organizzativa e sociologica della centralizzazione si ammanta di ragioni molto sofisticate, che si possono condensare nella convinzione che ogni autorità proviene dal papa, il quale l’ha ricevuta da Dio»13. Riformare in profondità la Curia vorrebbe anche dire rinunciare all’idea, sviluppatasi all’inizio all’interno della grande comunità ellenistica, di una Chiesa che parla un’unica lingua, che si dota di un ordinamento unico, che ovunque costruisce templi, terme e teatri «identici nel Ponto, nelle regioni iberiche e nella Britannia»14. Cambiare la Curia non dovrebbe essere un compito così difficile, vista la cattivissima reputazione di questo organismo, colpito ripetutamente dagli scandali, divenuto oggetto dei sospetti più feroci, delle malignità più crudeli15. Il ridimensionamento della Curia romana verrebbe probabilmente salutato da un applauso universale16. In effetti, più volte colpita, nella sua lunga storia, da micidiali scandali, la Curia   Alberigo (1982, 87).   Dianich (2016, 292). 15   Melloni (2013). 16   Faggioli (2016). 13 14

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è stata descritta come la sentina di tutti i vizi della Chiesa, come il ricettacolo perfetto del potere e del carrierismo che si annidano al suo interno, come il terreno dove si sparge la maggior parte dei veleni che inquinano la vita dell’istituzione. Rimasta di piccole dimensioni durante l’intero primo millennio di vita del cattolicesimo, la Curia romana è probabilmente il più antico apparato burocratico che la storia ci abbia consegnato, una struttura nella quale si fondono, indivise, le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie della vita ecclesiale, un organo pensato da papa Sisto V negli ultimi anni del XVI secolo come un apparato di corte al servizio della monarchia papale (e per questo sostanzialmente identico nella struttura alle corti regali popolate da nobili e principi) e da allora solo ritoccato nella sua strutturazione (da Pio X, da Paolo VI, da Giovanni Paolo II) con riforme parzialissime e non sostanziali; nei fatti sempre più rafforzata, irrobustita e perfezionata. Articolata in congregazioni normalmente presiedute da un cardinale, essa ha svolto anche la funzione di legare vieppiù a doppio filo al papa i componenti dell’élite cardinalizia, assicurando la compattezza della gerarchia e limitando al minimo i rischi di movimenti centrifughi, di laceranti conflitti all’interno della suprema classe dirigente cattolica. Ai tempi del Concilio Vaticano II, molti riformatori sperarono che la grande assise avrebbe avuto gli effetti di quella tridentina e quindi nutrirono la speranza che la Curia potesse finalmente essere, se non proprio abbattuta, fortemente ridimensionata e privata di potere, radicalmente snellita nelle dimensioni, depauperata di funzioni e ridotta a nulla più di un agile ed essenziale strumento politico-organizzativo a servizio del papa. Così, quando venne approvato il terzo capitolo della Lumen Gentium, il grande teologo Yves Congar scrisse che «era fatta», nel senso che la Curia romana stava per essere smantellata, che finalmente veniva invertito l’indirizzo centralizzatore e autoritario solennemente approvato quasi un secolo prima con il Vaticano I e che avanzava la speranza che all’episcopato venisse attribuita «maggiore importanza 17­­­­

e iniziativa nel regime concreto della Chiesa, attualmente dominato da un certo esercizio del primato papale, quello che comporta il sistema della Curia e del centralismo romano, sistema che costituisce una pietra d’inciampo per le altre chiese che pensano al potere papale in senso assolutistico e monarchico»17. Ed in effetti, nei testi conciliari, non solo nella Lumen Gentium ma anche, ad esempio, nella Christus Dominus (1965), emerse davvero l’idea che una riforma radicale della Curia fosse divenuta un’esigenza improrogabile, che fosse necessario adeguare l’articolazione del governo ecclesiale alle mutate condizioni della Chiesa mondiale, che fosse ormai indispensabile non solo internazionalizzare la struttura, ma anche aprirla al pluralismo geografico e culturale, e allo stesso tempo ampliare il ruolo dei vescovi e delle chiese locali, allentando la ferrea centralizzazione consolidatasi nei secoli precedenti18. Il problema fu che, cinquant’anni fa, i padri conciliari non tradussero, su questo come su altri versanti, i principi e le intenzioni in cambiamenti reali e concreti, immediatamente applicabili, che non passarono cioè dalle parole ai fatti. Per questa ragione, la «Curia reale» ebbe gioco facile nell’impedire qualsiasi cambiamento non appena il clima all’interno della Chiesa iniziò a mutare, quando cioè si fecero più consistenti e diffusi i timori circa le conseguenze negative che sarebbero venute all’istituzione da un abbandono della vecchia struttura e da un’autentica e profonda svolta riformatrice. Lo spirito conciliare venne allora rapidamente archiviato in un cassetto. La parte decisiva nel soffocamento della spinta riformatrice fu giocata da Paolo VI. È vero infatti che il successore di Giovanni XXIII fece approvare, alcuni anni dopo l’inizio del suo pontificato, alcuni modesti cambiamenti organizzativi: l’introduzione di un limite di età per i cardinali elet  Congar (1968, 18).   Legrand (2016).

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tori (ottant’anni) e per i capi delle congregazioni e degli altri uffici (settantacinque); la creazione di nuovi uffici di Curia (i consigli) dedicati ai nuovi temi evidenziati dal concilio, quali l’ecumenismo, le relazioni interreligiose, i laici, i migranti, la giustizia e la pace; l’inclusione di un maggior numero di vescovi esterni alla Curia e non italiani a capo degli uffici e come membri delle congregazioni e dei consigli19; il rafforzamento della segreteria di Stato. In compenso però, papa Montini fece aumentare a dismisura il numero dei componenti della Curia, che passarono dai 1.322 del 1961 ai 3.146 del 197720 e soprattutto affossò gran parte delle speranze dei riformatori quando, nel settembre 1965, nell’Apostolica Sollicitudo, conferì al neonato sinodo dei vescovi un ruolo solamente consultivo, che ne chiarì immediatamente la completa subalternità alla Curia romana. In definitiva, la tesi dei riformisti è che, almeno da questo punto di vista, il Concilio Vaticano II sia stato una grande occasione mancata per riformare la struttura del governo ecclesiale, per ridurre il potere del centro, di Roma, e per ampliare significativamente l’autonomia delle periferie. Nei due pontificati successivi a quello di Montini, quelli di Giovanni Paolo e di Benedetto, la diffidenza verso lo spirito del concilio e la cautela nel dare traduzione pratica alle sue deliberazioni si rafforzò, il centralismo papale e curiale aumentò in modo significativo, l’eventualità di ogni pur timida forma di devolution venne negata in partenza. La costituzione apostolica Pastor Bonus del 1988 confermò il ruolo della Curia (il cui personale venne ancora molto accresciuto) come strumento privilegiato del papa nel governo quotidiano della Chiesa21. Nel codice canonico del 1983, le diocesi vennero designate come «chiese particolari» (e non semplicemente «locali»), subordinate alla Chiesa universale nello stesso mo  Reese (2013).   Mannion (2013, 86). 21   Legrand (2016). 19 20

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do in cui l’episcopato diocesano è subordinato all’episcopato di successione apostolica22. Sempre in quel codice, si escluse l’idea che la Chiesa cattolica fosse una comunione di chiese e si accennò appena al tema delle «chiese locali» solo dopo aver parlato a lungo del papa, dei vescovi e dei chierici. Il codice del 1983 ha infine di fatto equiparato le diocesi territoriali a quelle non territoriali (ordinariati militari, prelature personali), sminuendo così largamente il ruolo delle prime. Un ulteriore rafforzamento della Curia è provenuto anche dall’introduzione, nel 1987, per preti e vescovi, del giuramento di fedeltà al papa. Nella stessa direzione sono andate, nel quarantennio di Wojtyła e Ratzinger, le indicazioni di numerose congregazioni. Nella lettera Communionis notio resa pubblica nel 1992, la Congregazione per la Dottrina della Fede allora presieduta da Ratzinger ribadì con decisione che il carattere unitario della Chiesa «precede la creazione e partorisce le chiese particolari, si esprime in esse, è madre e non prodotto delle chiese particolari [...] da essa, originatasi e manifestatasi universale, hanno preso origine le diverse chiese locali, come realizzazioni particolari dell’una e unica Chiesa di Gesù Cristo. Nascendo nella e dalla Chiesa universale, in essa e da essa hanno la loro ecclesialità». Nell’istruzione sui sinodi diocesani De synodis diocesanis agendis, emanata dalla Congregazione per i Vescovi e da quella per l’Evangelizzazione dei Popoli con l’intento di rendere sempre più stretto il bavaglio ad ogni forma di dissenso interno, venne escluso che possano essere argomenti di discussione sinodale «tesi o posizioni discordanti dalla perenne dottrina della Chiesa o dal magistero pontificio o riguardanti materie disciplinari riservate alla suprema autorità ecclesiastica». Nel motu proprio di Giovani Paolo II Apo­ stolos Suos si legge che la funzione assegnata ai vescovi nella Chiesa è quella di «ripetitori» dell’insegnamento della Santa

  Legrand (2016).

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Sede, che sola possiede il monopolio dell’interpretazione autentica della fede cristiana sulle culture del mondo intero. In definitiva, quello che il concilio aveva iniziato a disegnare nei suoi momenti più innovativi è diventato, nel tempo, per i conservatori, una sorta di «programma sovversivo» da archiviare al più presto, per i progressisti un insieme di temi innovativi che la Chiesa prima o poi sarà costretta ad affrontare. La lista dei suggerimenti concreti che questi ultimi hanno fornito al nuovo pontefice è lunga e nutrita. Si va da proposte modeste quali l’avvicendamento di una parte del personale, la revisione dei mansionari, l’allargamento dei numeri dei sostituti23, sino all’introduzione di un limite anagrafico per l’esercizio del pontificato24, passando dall’idea di far lavorare in Curia e part-time solo vescovi diocesani, che una volta terminato il lavoro a Roma farebbero ritorno nelle loro diocesi25, o da quella di tener separate, nella valutazione dell’ortodossia dei teologi cattolici, le funzioni legislative e giudiziarie (di accusa e giudizio) oggi concentrate nella Congregazione per la Dottrina della Fede. I suggerimenti proseguono con le ipotesi di aumentare i poteri delle conferenze episcopali e dei sinodi dei vescovi, di incrementare il numero di donne e di laici impiegati in Curia o di affiancare al pontefice un Senatus communionis26 o un Consilium episcoporum27, in ogni caso un organismo costituito e gestito tenendo presente come criterio di fondo il pluralismo geografico e culturale, ovvero la rappresentanza di tutte le aree del cattolicesimo, dotato di reali poteri decisionali su tutte le questioni più importanti (modalità di elezione dei vescovi, ruolo dei nunzi, celibato dei preti, eccetera). Alcuni riformatori28 chiedono di limitare

  Melloni (2013).   Tissa Balasurya (2002). 25   Reese (2013). 26   Melloni (2013). 27   Faggioli (2016). 28   Legrand (2016). 23 24

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il potere dei nunzi29 che di fatto hanno, in particolare nel Terzo Mondo, espropriato di autorità le chiese locali, determinando ogni nomina, promozione e trasferimento di vescovi; altri vorrebbero riportare in vita il «diritto di rimostranza», e cioè che sia consentito ad un vescovo di non applicare delle decisioni del papa che egli ritenesse dannose per la propria diocesi; altri ancora desidererebbero riconoscere ai vescovi il potere di richiedere l’indizione di un concilio ecumenico o consentire loro di fare ricorso alla Santa Sede contro le sentenze del romano pontefice. In sintesi, l’insieme delle proposte di riforma, avanzate da tempo ma moltiplicatesi negli anni del papato di Francesco, va nella direzione di una radicale attenuazione del carattere monarchico del papato e verso una concezione della Curia romana come uno snello «organo di servizio» per la Chiesa universale, non più in grado di sottrarre tutte le risorse e le competenze che dovrebbero essere delegate alle periferie, cioè alle diocesi guidate da vescovi «eletti» o comunque legittimati dal basso o, al limite, alle conferenze episcopali nazionali o continentali. Si tratta di un gigantesco programma di devolution e insieme di «democratizzazione», nel quale le «chiese locali» e il «popolo di Dio» nel suo complesso acquisirebbero, ai danni di un centro ridotto nelle dimensioni e nelle funzioni assolte, una rilevanza del tutto inedita (almeno guardando la storia dell’istituzione cattolica nell’ultimo millennio). Una riforma solo annunciata: il cambiamento della governance Su questo nodo cruciale per il futuro del cattolicesimo, Francesco aveva immediatamente acceso le speranze dei progressisti con la nomina, a meno di un mese dalla conclusione del conclave, di una commissione di otto (poi divenuti nove

  Quieroz (2013).

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con l’ingresso del segretario di Stato del Vaticano, monsignor Parolin) cardinali, provenienti da tutti i continenti, i cui scopi principali dovrebbero essere quelli di consigliare il papa nell’attività di guida della Chiesa e, soprattutto, di mettere a punto la riforma complessiva dei dispositivi di governo della grande istituzione. Si è avuta allora l’impressione che Francesco volesse davvero finalmente realizzare, esaudendo un desiderio del conclave che lo aveva eletto e con un piglio incredibilmente energico, quella grande riforma interna della Chiesa cattolica che il concilio aveva solo abbozzato e che nessuno dei successori di Giovanni XXIII aveva poi avuto il coraggio e soprattutto la volontà di rianimare. Le intenzioni battagliere di Bergoglio emersero chiaramente nella prima intervista concessa ad Eugenio Scalfari nell’ottobre del 2013, nella quale il papa definì la Curia la «lebbra del papato»: un organismo, nelle parole molto impegnative del papa argentino, «Vaticano-centrico, [che] vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio». La Evangelii Gaudium, il manifesto programmatico del suo pontificato, è stata universalmente interpretata come un’autorevole e solenne conferma delle intenzioni riformatrici del pontefice. Al paragrafo 32 di quel documento Francesco scrisse infatti: Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Siamo avanzati poco in questo senso. 23­­­­

Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente». Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria.

Nei primi anni del papato, la speranza dei riformisti di una grande trasformazione della struttura ecclesiale è stata tenuta in vita dai due discorsi che Francesco ha rivolto al personale del Vaticano in occasione degli auguri di Natale del 2013 e del 2014. Nel primo, il papa aveva messo in guardia gli uomini di Curia dal rischio di scivolare verso la mediocrità e di «diventare una pesante dogana burocratica», esortandoli infine a passare ai fatti, trasformandosi in «obiettori di coscienza delle chiacchiere». In quello dell’anno successivo, aveva fatto ricorso a toni molto più duri e severi e parlato della Curia nei termini di «Alzheimer spirituale», «schizofrenia esistenziale», «pietrificazione mentale», «arroganza», «vanagloria», «mediocrità», «ipocrisia» e via dicendo. Sono ancora, i primi due anni del pontificato, anni di speranza per i riformatori. Sul «Corriere della Sera» del 4 luglio 2014, uno dei più autorevoli tra costoro, Alberto Melloni, riferendosi al Consiglio dei cardinali e al papa, scrisse che «non pensano ad una riorganizzazione dell’ingegneria curiale, fatta di cose ovvie. [...] L’obiettivo è avviare una riforma della Chiesa e del papato, senza la quale ogni riforma della Curia sarà effimera come tutte quelle tante che l’hanno preceduta: perché la mentalità cortigiana è destinata a ricomporsi fatalmente attorno ad un pontefice privo di organi sinodali». Dal 2015, il clima ha cominciato molto rapidamente a mutare. Le riunioni del Consiglio dei cardinali si sono succedute 24­­­­

una dopo l’altra divenendo routinarie e praticamente nulla è avvenuto, nessuna ipotesi di clamoroso cambiamento è più filtrata dalle stanze vaticane. Al contrario, è diventato progressivamente chiaro a tutti che la riforma avrebbe avuto un carattere meramente «tecnico», che si sarebbe trattato cioè di un minimo aggiustamento organizzativo, di una riduzione dei dicasteri vaticani, forse della creazione di qualche nuovo ufficio, e che Bergoglio non avrebbe proceduto a realizzare nemmeno in minima parte i sogni dei riformatori, che avrebbe mantenuto sostanzialmente inalterato il tradizionale profilo burocratico, monarchico e accentrato della Chiesa cattolica. La riforma della Curia, la madre di tutti i cambiamenti nell’organizzazione del cattolicesimo, è entrata così pian piano in un cono d’ombra, in un anfratto tombale: non se ne parla più, i lavori del Consiglio si prolungano all’infinito, nessuno si aspetta più nulla di importante. Le severe rampogne prenatalizie di Francesco alla Curia nel 2013, 2014 e 2017 ci appaiono ora prive di ogni significato politico, dal momento che non anticipavano nessuna rivoluzione, ma rappresentavano piuttosto una «lavata di capo» a qualche dipendente non ancora allineato con i desiderata del nuovo capo30. Cose di ordinaria (cattiva) amministrazione, insomma. Quella che ormai si prospetta (ammesso che, visti i continui rinvii, giunga mai ad approvazione entro la fine del pontificato) è una semplice manutenzione e messa a punto dell’oliata macchina vaticana. In un’intervista concessa al giornale spagnolo «Vida Nueva» nel gennaio del 201631, il segretario

30   Episodi simili erano già avvenuti nel passato e non avevano certo fatto da premessa ad una «rivoluzione» nella forma di governo della Chiesa cattolica. Graziano (2010, 25) ricorda come Giovanni XXIII non nascondesse la scarsa stima di cui godeva presso i membri della Curia, gli stessi che poi, sempre nella ricostruzione di Graziano, si rivelarono ostili a Paolo VI e al suo segretario di Stato Benelli. Lo stesso Giovanni Paolo II fu a lungo ritenuto un «polonizzatore» (cioè uno che tentava di riempire la Curia di polacchi) e un «corpo estraneo» al Vaticano (Graziano (2010, 25)). 31   La notizia è stata riportata e commentata da Jacopo Scaramuzzi su «La

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di Stato e membro del Consiglio dei cardinali Pietro Parolin ha parlato del tanto atteso cambiamento nei termini di una «ottimizzazione delle risorse esistenti». Dialogando con Andrea Tornielli un anno più tardi («La Stampa», 13 marzo 2017), lo stesso cardinale, a proposito del processo riformatore, ha dichiarato che esso deve essere guidato non da criteri funzionali (e, aggiungo io, tantomeno «rivoluzionari»), ma dalla riforma del cuore e dal ritorno a Dio. Ancora più eloquenti e indicative dell’esaurimento completo di ogni spinta riformatrice in Vaticano (e a Santa Marta) sono gli scritti e le dichiarazioni di monsignor Semeraro, vescovo di Albano e segretario del Consiglio dei cardinali, un uomo vicinissimo anche umanamente a papa Francesco. In un articolo apparso sulla rivista «Il Regno», Semeraro ha scritto che «nel nostro [della commissione] caso il termine ‘riforma’ va inteso nel senso di un riordino, di un miglioramento e di modifiche, nonché di adattamenti alle ‘res novae’, certo anche con una riscrittura dei criteri ecclesiologici, ma non come una ‘metamorfosi’ della Curia [...]. Non un sovverti­ mento della vita presente della Chiesa, ovvero una rottura con la sua tradizione, in ciò che essa ha di essenziale e di venerabile, ma piuttosto un omaggio a tale tradizione, nell’atto stesso che vuole spogliare ogni caduca e difettosa manifestazione per renderla genuina e feconda»32. Dopo aver ulteriormente precisato che la riforma metterà a punto al massimo una riorganizzazione pratica della Curia, operando semplificazioni, snellimenti, accorpamenti e fusione di dicasteri ed eventuali soppressioni di uffici, Semeraro scriveva che «La riforma del­ le strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie»33. «Francesco pensa anzitutto – concludeva SeStampa-Vatican Insider» del 14 gennaio 2016 in un pezzo intitolato Parolin: evitare l’elefantiasi della Curia, sì a semplificazione e decentralizzazione. 32   Semeraro (2016, 435; corsivi miei). 33   Semeraro (2016, 441; corsivo dell’autore).

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meraro – non a una riforma delle strutture ecclesiastiche, ma piuttosto e in primo luogo a una riforma che tocchi la vita dei cristiani e sappia mutarla»34. Più di recente, in un’intervista concessa alla Radio Vaticana nel settembre del 2017, facendo il punto sui tempi, e cioè sul (lentissimo) avanzamento dei lavori del Consiglio, l’importante gerarca ha dichiarato che «il papa di per sé non si sente propriamente un ‘riformatore’ [sic] [...] se il papa ha avviato questo lavoro di riforma della Curia lo ha fatto sotto la spinta di suggerimenti che sono emersi soprattutto nelle riunioni prima del conclave». Insomma, a distanza di quasi cinque anni dalla sua elezione scopriamo, dalle parole di uno dei suoi più fidati e stretti collaboratori, che il papa non ha mai avuto nessuna vera intenzione di riformare la Curia romana, di cambiare l’articolazione strutturale della Chiesa cattolica e che ha avviato la discussione solo perché sollecitato dall’esterno, da alcuni tra i cardinali che lo hanno eletto al soglio di Pietro. Se fosse vero, non ci si potrebbe stupire che la montagna si prepari a partorire uno striminzito topolino. Rinnovare la morale Sulle questioni della morale e dell’etica sessuale, l’opinione dei riformatori è che il totale appiattimento dell’attuale impianto della dottrina cattolica (elaborato a partire dal XIX secolo come reazione alla Rivoluzione francese e all’ascesa della cultura liberaldemocratica dei diritti individuali) su un registro radicalmente antimoderno rappresenti un arretramento sensibile rispetto al dibattito teologico dei secoli precedenti e nuoccia gravemente alla possibilità di diffondere il messaggio cristiano in molti ambienti della società contemporanea. Negli anni Sessanta, il Concilio Vaticano II avrebbe introdotto – questa almeno è la tesi dei progressisti – anche

  Semeraro (2016, 435; corsivo mio).

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in questo campo una robusta ventata di rinnovamento, tentando di recuperare porzioni della tradizione diverse rispetto a quelle intransigenti esaltate da Pio X nella lotta di inizio Novecento contro il modernismo. Quell’ambizioso tentativo riformatore fu bruscamente interrotto dalla pubblicazione, ad opera di Paolo VI, e contro il parere di tanti teologi e pastori all’interno della Chiesa, dell’enciclica Humanae Vitae nel 1968. Da quel momento, e ancor di più negli anni successivi durante i pontificati dei successori stranieri di Montini, la dottrina morale della Chiesa è stata per così dire «blindata», messa in sicurezza, fissata una volta per tutte e ritenuta per sempre immutabile. Per Karol Wojtyła si può immaginare che l’adesione a questa opzione conservatrice sia stata molto favorita dal contesto culturale, certo non particolarmente progressista ed aperto, dal quale egli proveniva. Nel caso di Joseph Ratzinger, giovane teologo progressista ai tempi del concilio e poi potentissimo prefetto per la Congregazione per la Dottrina della Fede negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II, è invece probabile che sia intervenuto soprattutto il timore degli effetti in ultima analisi distruttivi che per l’unità della Chiesa sarebbero derivati da un libero dibattito teologico intorno alle questioni morali. Quali che siano state le ragioni che hanno spinto i due successori di Paolo VI in questa direzione, il risultato è consistito chiaramente in un ritorno a posizioni preconciliari e in un’insistenza particolare nel negare il benché minimo spazio ad una condizione che per i moderni è essenziale, ovvero quella della libertà di coscienza. La «blindatura dogmatica» è stata messa in atto facendo ricorso ad una specifica istanza metodologica ed epistemologica, che è consistita nel negare che la Chiesa abbia il diritto di cambiare nel tempo le proprie statuizioni e che essa si debba perciò limitare, facendo a meno di qualunque aggiornamento storico, a ribadire la bontà dei suoi immortali principi. Quello che secondo i progressisti-riformatori viene rigorosamente evitato in questa visione «imbalsamata» e preconciliare della dottrina morale cattolica è il 28­­­­

confronto con la realtà e con la storia, il riconoscimento che, per giudicare le azioni umane, in questo come in altri campi, non si può prescindere da un esame attento delle circostanze. In una prospettiva intransigente, come quella della Veritatis Splendor del 1993, si presentano le azioni immorali nel campo dell’affettività e della vita relazionale come intrinsecamente e irrimediabilmente negative: se si ammette che l’omicidio possa essere il risultato di un’intenzione precisa o invece solo di una colpevole disattenzione, non si fa lo stesso ragionamento nel caso dell’aborto o dell’uso degli anticoncezionali, considerati sempre e in ogni caso atti intrinsecamente malvagi. In definitiva, la Chiesa si è rifiutata di compiere su questo terreno quello che invece ha realizzato su altri, per esempio quello dei diritti umani o della democrazia, cioè aggiornare la propria dottrina, liberandola dai vincoli di una visione delle azioni umane molto adatta ad una società chiusa, ma certamente insostenibile nel nostro tempo. Nel giudizio dei riformatori, il magistero dei papi polacco e tedesco ha rappresentato, in questo campo, un gigantesco tentativo di costruire una raffinata impalcatura argomentativa per negare l’evidente necessità di un profondo cambiamento, per negare alla radice ogni rapporto tra dottrina ed evoluzione storica e sociale. E per combattere attivamente quest’ultima, anche con l’ausilio dello strumento giuridico del canone e l’attacco al pluralismo e alla libertà di pensiero teologico. Infatti, per almeno vent’anni, dopo la Veritatis Splendor e sino alle dimissioni di Ratzinger, chi osasse insinuare qualche pur timido dubbio sulla bontà della posizione intransigente veniva sollevato, lamentano i riformatori, dall’insegnamento negli istituti teologici ed immediatamente emarginato. L’effetto complessivo è stato duplice: da un lato, è stata favorita un’identificazione perfetta tra il cattolicesimo e il mondo premoderno, dall’altro è stato creato un confine netto, un vero e proprio muro, tra ortodossia ed eterodossia cattolica che ha messo fuori, escludendoli, tutti coloro che dissentivano dalla linea dell’intransigenza. Quelli che stavano dentro 29­­­­

il recinto della disciplina se ne compiacevano, gli esclusi si dolevano e talvolta se ne andavano, abbandonando la barca. I pastori si vedevano privati di ogni strumento di concreto intervento nella vita reale che non fosse quello desueto, anacronistico e ormai del tutto inefficace della scomunica. Tutto questo non potrà durare a lungo, questa l’opinione degli innovatori. Può darsi che il cambiamento richieda molto tempo, ed è molto probabile che sarà doloroso e fonte di frizioni e di lacerazioni interne, ma esso prima o poi dovrà manifestarsi e inverarsi compiutamente nella vita della grande istituzione, pena una sua lenta ma inesorabile estinzione. Bergoglio e la «spiritualità flessibile»35 Quello della dottrina morale della Chiesa è forse l’unico terreno sul quale il papa ha messo a segno qualche timidissimo cambiamento strutturale. La prima innovazione ha riguardato il metodo, che è consistito non solo nella convocazione, a distanza di un anno (2014 e 2015), di due grandi sinodi dei vescovi dedicati al tema della famiglia, ma anche e soprattutto nel fatto che, in entrambe le occasioni, i partecipanti non sembrano aver ricevuto degli «ordini di scuderia» troppo vincolanti dal vertice dell’organizzazione, cioè dallo stesso pontefice, ma sono stati relativamente liberi di confrontarsi a viso aperto sui temi più caldi della morale familiare. E sono stati anche liberi di dividersi, di votare in modo differente, di aggregarsi in minoranze e maggioranze più o meno organizzate. Un altro elemento di sicura novità è consistito nel fatto che i due sinodi sono stati preceduti da una grande consultazione della base cattolica. Non sempre tale sondaggio è avvenuto in un clima davvero parresiastico, cioè di autentica e trasparente volontà di consentire ai sentimenti dei cattoli-

  Per altri aspetti del «magistero morale» di Francesco si veda Piana (2016). 35

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ci ordinari di emergere liberamente (ad esempio, in Italia le opinioni della base non sono emerse liberamente e spontaneamente, ma sono state riportate dai responsabili degli uffici diocesani che hanno compilato i questionari), e tuttavia esso ha rappresentato una novità nell’universo autoritario, gerarchico e «verticale» del cattolicesimo. Nei due sinodi, i vescovi si sono divisi e schierati e il papa ha recepito di fatto il risultato del confronto nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia pubblicata alcuni mesi dopo la conclusione dei lavori del secondo sinodo. Sull’altro piatto della bilancia, un primo elemento negativo dal punto di vista riformista, che mette in ombra il dibattito dei due sinodi spingendo a considerarlo effimero e non strutturale, è rappresentato dal fatto che il papa abbia deciso di dedicare la prossima assemblea sinodale dei vescovi ad un tema del tutto inoffensivo dal punto di vista ecclesiale, quello della condizione giovanile36. Nel merito, l’innovazione apportata da Amoris Laetitia è consistita in pochi passaggi, essenzialmente un paio di note del capitolo ottavo nelle quali il papa, riprendendo le conclusioni dei sinodi, ha previsto la possibilità per i confessori di riammettere, in determinate circostanze, i fedeli divorziati e risposati all’eucaristia. Su questo terreno, nei sinodi si era assistito ad una vigorosa contrapposizione tra innovatori e conservatori, che aveva visto i primi raggiungere un’esigua maggioranza, comunque insufficiente (perché inferiore ai due terzi complessivi previsti dai regolamenti) per cambiare le norme vigenti. Grazie all’intelligente mediazione di un gruppo di cardinali tedeschi l’assemblea era riuscita a partorire la soluzione salomonica poi ripresa dal papa nell’Amoris Laetitia. Prima di esaminare questo punto controverso vorrei mettere in chiaro che, fatta eccezione per quelle pochissime righe, 36   Nel documento preparatorio si nota una notevole preoccupazione soprattutto per il calo delle vocazioni e quindi per l’indebolimento del carattere clericale della Chiesa cattolica.

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quel paio di note in calce che si riferiscono, nel modo non privo di ambiguità che vedremo, ai divorziati risposati, il documento non presenta nessuna novità di rilievo e avrebbe potuto essere redatto da Ratzinger o da qualcuno dei suoi più intimi collaboratori. Per fare solo un esempio, a proposito della fantomatica «teoria del gender»37, al paragrafo 56 si legge che Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo». È inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender) si possono distinguere, ma non separare». D’altra parte, «la rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana ha introdotto la possibilità di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie». Una cosa è comprendere la fragilità umana o la complessità della vita, altra cosa è accettare ideologie che pretendono di dividere in due gli aspetti inseparabili della realtà. Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata.

  Per un esame più approfondito del modo in cui Bergoglio affronta il tema del gender, si veda Rusconi (2017, 116-130). 37

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È un passaggio che sarebbe immediatamente sottoscritto da qualsiasi fondamentalista evangelico, da tutti gli integristi. Con termini analoghi, perfettamente aderenti alla tradizionale dottrina morale cattolica, il papa si è espresso nell’esortazione su tutti gli altri grandi nodi morali del nostro tempo: da quello della contraccezione a quello dell’obiezione di coscienza di fronte all’aborto (caldamente raccomandata dal papa ai medici cattolici), a quello dei diritti delle coppie gay a veder riconosciuta legalmente la loro unione. L’innovazione ha riguardato solo, come anticipato, i cattolici divorziati e risposati, o comunque impegnati in una nuova unione. Su di essi, il paragrafo 305 dell’Amoris Lae­ titia recita: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno –, si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa», e la nota 351 specifica che «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, ‘ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore’ (esort. ap. Evangelii Gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia ‘non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli’». Questo brano dell’esortazione apostolica non ha mutato la dottrina e cioè non ha fatto venir meno la tradizionale posizione cattolica sull’indissolubilità del vincolo coniugale, ma ha previsto che, in seguito ad una valutazione insindacabile da parte del confessore, possano essere individuate circostanze attenuanti la responsabilità del divorzio talmente importanti da far venir meno il divieto assoluto di accesso all’eucaristia previsto dalla norma morale ordinaria. Osservata da un punto di vista sociologico, la formulazione di Amoris Letitia offre quindi ai confessori il grande potere di decidere se assolvere o meno i penitenti. Nella sua 33­­­­

applicazione pratica, questo dispositivo dà agli intransigenti, cioè a coloro che ritengono illegittima ogni contravvenzione all’indissolubilità del matrimonio religioso, tutti gli strumenti per perseverare nella loro durezza. E altrettanto fa, in senso opposto, con i preti più aperti e moderni, quelli che la comunione la danno volentieri anche ai divorziati e che ora possono fare apertamente e pubblicamente quel che già facevano, con più circospezione, prima dell’Amoris Laetitia. Insomma, dal punto di vista delle pratiche quotidiane, l’esortazione apostolica cambia proprio poco: seguendo un’antica abitudine, i divorziati risposati che vogliono fare la comunione dovranno cercarsi, nella propria parrocchia o altrove, un «parroco liberal» che li ammetta al sacramento. Le ambiguità del documento papale hanno autorizzato una discreta varietà di interpretazioni da parte di vescovi e conferenze episcopali: alcuni tra loro vi hanno intravisto una novità significativa e quindi hanno invitato i loro preti a riammettere all’eucaristia, laddove possibile, i divorziati risposati; altri hanno fornito una lettura diametralmente opposta, sostenendo che il testo non contiene delle particolari innovazioni dottrinali38 e confermando quindi la posizione intransigente (niente comunione se non a chi pratica la castità assoluta) enunciata nella Familiaris Consortio da Giovanni Paolo II. In questo senso si è espresso, ad esempio, l’arcivescovo di Filadelfia Chaput, che nelle linee guida pastorali per l’applicazione dell’esortazione papale ha ribadito che nulla è mutato dopo Amoris Laetitia e che «l’impegno a vivere come fratello e sorella è necessario ai divorziati risposati civilmente per ricevere la riconciliazione nel sacramento della confessione, che potrebbe poi aprire la strada all’eucaristia». In pratica, come riferisce la rivista «Il Regno», secondo il potente gerarca cattolico americano, «il discernimento da compiersi 38   Il più autorevole tra i sostenitori di questa posizione è probabilmente il cardinal Müller (2017), il prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede.

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con un sacerdote deve servire a rendere i divorziati risposati consapevoli della loro situazione di peccato. I divorziati risposati civilmente inoltre non possono assumere incarichi di responsabilità in una parrocchia, né svolgere funzioni o ministeri». In modo analogo si sono espressi altri vescovi o gruppi di vescovi: ad esempio, quello di La Plata in Argentina, i vescovi dell’Alberta in Canada e quelli polacchi. In una direzione opposta, di maggior apertura, sono invece andati la conferenza episcopale argentina, i vescovi della Sicilia e molti altri ancora. In definitiva, le considerazioni che la vicenda di Amoris Laetitia suggerisce sono due. La prima è di merito e riguarda il fatto che si tratta di un documento che è tutto fuorché «rivoluzionario»39. Non solo perché frutto di un compromesso piuttosto esplicito, e al ribasso, tra conservatori e progressisti, ma soprattutto perché, come ha fatto notare nella sua analisi assai raffinata Fulvio De Giorgi, le premesse di Amoris Laetitia stanno tutte nel magistero dei due predecessori di Francesco40. È vero infatti che nella Familiaris Consortio Giovanni Paolo II non arrivò sino al punto di autorizzare la comunione ai divorziati, ma è altrettanto indubitabile che egli pose certamente tante delle premesse che spiegano la svolta attuale: ad esempio, rovesciò la prassi della scomunica di fatto e sostituì la «severità, il rifiuto, l’estraneità e l’esclusione» di un tempo con «l’atten-

  Per un’opinione contraria si veda Grillo (2017).   L’ipotesi della continuità è stata sostenuta anche, su un piano generale e con ottimi argomenti, da Manlio Graziano (2014a): egli ha sostenuto che, con Bergoglio, abbiamo assistito soprattutto ad un cambio di velocità nello stile, divenuto più sobrio, spigliato e adatto ai tempi. Le differenze tra Bergoglio e Ratzinger sono, a giudizio di Graziano, soprattutto personali, ovvero riguardano il temperamento, l’esperienza pastorale la provenienza geografica, nonché l’età, il fatto che i due siano cresciuti in epoche diverse. Quel che Bergoglio innova, a giudizio dello studioso di geopolitica, è soprattutto il linguaggio, con lui cambia cioè il modo in cui i valori e le prescrizioni di sempre vengono presentate, accentuandone gli elementi esortativi su quelli normativi. Identica a quella dei predecessori sarebbe infine, sempre secondo Graziano, anche la strategia geopolitica complessiva di Francesco. 39 40

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zione misericordiosa e l’inclusione»41. Si legge infatti nella Fa­ miliaris Consortio: La Chiesa, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che – già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale – hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.

Questa linea è stata, sempre secondo De Giorgi, perseguita e approfondita anche da Benedetto XVI, come si evince facilmente da questo discorso pronunciato il 2 giugno 2012 nell’ambito del VII Incontro mondiale delle famiglie: In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie e i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio. [...] E poi, quanto a queste persone, dobbiamo dire che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono «fuori» anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Poi è anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo. Anche senza la ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità   De Giorgi (2016b, 968).

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dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa.

Dunque, nell’intrigante e convincente chiave di lettura suggerita da De Giorgi, Francesco avrebbe solo portato a compimento un processo che Giovanni Paolo e Benedetto avevano già in qualche modo avviato. L’elemento decisivo sarebbe stato non tanto la personalità del papa argentino, la sua visione delle norme morali, quanto la situazione storica, l’aumento esponenziale delle sofferenze e dei disagi dei divorziati e l’impossibilità per la Chiesa di rimanere indifferente di fronte al dilagare di questi fenomeni. Nessuno stravolgimento, ma un semplice doveroso adeguamento nel solco della continuità e della tradizione42. Amoris Laetitia è anche però un esempio illuminante del modo di procedere di Bergoglio, del suo metodo, della sua linea di governo (quella che illustrerò nei dettagli nel terzo capitolo del libro): il papa argentino ha sempre a cuore la massima estensione del consenso, l’inclusione nella Chiesa del maggior numero di soggetti possibili. La sua politica è invariabilmente quella dell’amicizia, della porta aperta, del dialogo, dell’accoglienza verso il maggior numero possibile di gruppi e di persone. Poco importa se questo crea qualche mal di pancia (quelli che racconterò nelle pagine finali del terzo capitolo), se a venir sacrificata è la stessa logica (quella che rende impossibile sostenere che la dottrina non cambia e che il matrimonio cattolico resta indissolubile e al tempo stesso che a questa regola sono 42   L’ipotesi della continuità tra Francesco e i predecessori è stata sostenuta in generale anche dall’autorevole teologo americano Portier (2016), secondo il quale l’opera di Francesco non sarebbe stata possibile se Giovanni Paolo e Benedetto prima di lui non avessero posto termine, con la necessaria durezza, ai pericolosi sommovimenti e agli eccessi del post-concilio.

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ammesse, anzi sono benvenute, le eccezioni), se le innovazioni si verificheranno tutte sul piano pragmatico dell’azione pastorale e mai su quello della dottrina. Del resto, per Bergoglio, la teologia è un doloroso fastidio, un terreno franoso, irto di inutili difficoltà, di ostacoli logici, culturali e razionali, un po’ come il diritto per un capo politico carismatico che vuol decidere senza gli impicci della legge, senza i lacci della giurisdizione. I teologi, come ha detto una volta nel suo consueto tono scherzoso, Francesco li manderebbe tutti a discutere su un’isola deserta. In modo che non diano fastidio, che non ostacolino il processo che gli sta tanto a cuore: la costruzione di una, in definitiva molto gesuitica43, «spiritualità flessibile», basata più sui sentimenti che sulle regole, insofferente agli steccati, ai valori troppo rigidi, alle riflessioni troppo serrate. La grande esclusa: il nodo della questione femminile La condizione femminile nelle società occidentali è immensamente cambiata negli ultimi decenni. Quella dell’emancipazione delle donne è stata per molti versi, come ha sostenuto Norberto Bobbio, l’unica rivoluzione di successo del nostro tempo. La Chiesa cattolica è una delle istituzioni che con maggiore ostinazione hanno resistito all’avanzata delle donne e della parità di genere. Nei documenti del Concilio Vaticano II il tema è solo rapidamente accennato, anche se è vero che alcuni dei cambiamenti promossi dal concilio riguardo al ruolo dei laici nella Chiesa hanno finito con il consentire, all’interno dell’istituzione, un pur iniziale, timidissimo e minimo accesso delle donne a ruoli diversi da quello del semplice fedele44. Siamo comunque lontanissimi da una ricezione anche solo vaga degli enormi cambiamenti sociali prodottisi con impressionante velocità nelle società economicamente e cul-

  Sul «gesuitismo» di Francesco si veda Lowney (2013).   Noceti (2016).

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turalmente più avanzate. Tentando di spiegare l’enorme ritardo accumulato dalla Chiesa su questo terreno, la teologa Serena Noceti scrive che «il sospetto verso il femminismo, il privilegiare esponenti del pensiero della differenza di stampo essenzialista, la mancanza di riflessioni sulla maschilità, la mancata richiesta di politiche tese a una maggiore corresponsabilità dei padri nella vita familiare e nella cura dei figli, sono altrettanti elementi rivelatori di lontananza e limitata consapevolezza (della gerarchia in particolare) di quanto siano profonde le trasformazioni avvenute»45. Lo stesso recente rifiuto, sdegnato e iroso, del concetto di gender rivela una persistente abitudine ecclesiale a considerare quella tra uomini e donne come una differenza, naturale e invalicabile soprattutto perché voluta da Dio, di atteggiamenti, disposizioni e vocazioni, inclusa quella al comando e alla leadership da riconoscere rigorosamente solo ai primi. Insomma, una visione patriarcale nemmeno tanto implicita domina ancora la vita della Chiesa cattolica46. Una concezione nella quale alle donne vengono immancabilmente assegnati solo ruoli gregari, comprimari, subordinati, di servizio e di assistenza. Una visione nella quale i ministri ordinati sono, a differenza di quel che avviene nelle più avanzate chiese protestanti, tutti uomini, ad ogni livello: dai vescovi ai preti sino ai diaconi. «La parola pubblica nell’annuncio del vangelo e nel servizio alla comunità cristiana, come nella custodia dell’apostolicità della fede, è veicolata solo da parole maschili»47. L’opinione dei riformatori è ovviamente che questa permanente e ormai difficilmente giustificabile esclusione sia una delle ragioni del crollo del «gender gap» nel comportamento religioso delle giovani generazioni segnalato da alcune ricerche sociologiche48, ovvero della crescente assi  Noceti (2016, 517).   Noceti (2016, 518). 47   Ibid. 48   Segatti e Brunelli (2010), Castegnaro (2012). 45 46

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milazione delle donne agli uomini nel loro rapporto (sempre più debole) con l’istituzione ecclesiastica. Un primo elenco di riforme, non radicali e anzi abbastanza ragionevoli e moderate, suggerite a Francesco, viene dalla teologa Serena Noceti, la quale propone: a) di rivedere i trattati di antropologia teologica inserendovi una riflessione sul tema rimosso della maschilità; b) di celebrare un sinodo «delle donne sulle donne», a livello locale e continentale europeo, per esaltare il contributo che può venire da una maggior partecipazione femminile alla vita della Chiesa; c) di coinvolgere professionalmente le donne negli uffici pastorali diocesani e nazionali e soprattutto, perché più profondo nelle conseguenze; d) di inaugurare, riprendendo le riflessioni che durante il concilio condussero all’istituzione del diaconato maschile, il dibattito sull’ordinazione diaconale delle donne49. Il presupposto per discutere di quest’ultima significativa innovazione risiede nel fatto che, secondo Noceti, i cambiamenti nel regime del ministero ordinato non dipendono tanto da principi immutabili ed eterni quanto da condizioni storiche peculiari e specifiche: oggi queste rendono possibile la discussione sul tema. Tanto più che si tratterebbe di una misura tutto sommato modesta e compatibile con la netta opposizione al sacerdozio femminile ribadita da Wojtyła nella lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis del 1994. Decisamente più radicali sono gli argomenti dell’ex sacerdote olandese John Wijngaards, creatore del popolare sito womenpriests.org. Secondo Wijngaards, l’opposizione della Chiesa all’ordinazione delle donne, riaffermata con forza da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Mulieris Digni­ tatem e confermata a più riprese dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, è irragionevole quanto lo fu, per secoli, il sostegno ecclesiale alla riduzione in schiavitù. In altri termini, la dottrina non è immutabile: per oltre un millennio, la Chiesa cattolica ha considerato la schiavitù un’istituzione in   Noceti (2017).

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armonia con la legge naturale, e pertanto giusta e voluta da Dio. Poi ha cambiato opinione e ha iniziato a condannarla. Una svolta simile potrebbe essere realizzata sul tema dell’ordinazione sacerdotale delle donne, per tanto tempo perentoriamente esclusa dalla gerarchia cattolica. Gli argomenti a favore dell’ordinazione delle donne sono, secondo il teologo olandese, assai numerosi e contraddicono punto per punto le posizioni ufficiali del magistero cattolico. In primo luogo, non vi sarebbe mai stata un’opposizione di Gesù al presbiterato femminile. Il fondatore del cristianesimo avrebbe abolito lo stesso istituto del sacerdozio ed eliminato perciò ogni gerarchia tra i battezzati, compresa ovviamente quella di genere. Nella lettera di San Paolo ai Galati si legge: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Gesù si adoperò attivamente per abolire i pregiudizi contro le donne, per quale motivo avrebbe dovuto reintrodurli nel regolamentare l’ordinazione dei preti?50 Il fatto poi, spesso citato come decisivo da coloro che si oppongono all’ordinazione sacerdotale femminile, che gli apostoli fossero tutti uomini è una circostanza casuale, legata al carattere patriarcale della società nella quale Gesù viveva. Se egli avesse ammesso delle donne alla cerchia dei suoi più intimi seguaci, avrebbe compiuto un’azione incomprensibile per i suoi contemporanei e reso così più difficile la diffusione del suo messaggio. Lo stesso tipo di limitazione vale per le parole di Gesù sulla schiavitù: «sebbene la visione di Gesù implicasse la perfetta eguaglianza di tutti egli non avanzò alcuna rivendicazione esplicita affinché la schiavitù venisse abolita»51. In realtà, il responsabile principale dell’emarginazione presbiteriale femminile sarebbe stata l’impronta fortemente maschilista del diritto romano, la cui forma sarebbe stata tra  Wijngaards (2002).   Wijngaards (2002, 129).

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sferita di sana pianta all’interno del cristianesimo. Per secoli, infatti, le donne furono regolarmente ordinate diaconesse, con un rito analogo a quello in uso per gli uomini, nei paesi di lingua greca dell’Impero bizantino. Nelle aree latine, prevalse invece una netta e intransigente ostilità, ricavata direttamente, oltre che dall’orrore latino per le mestruazioni, dalla ripresa di una filosofia fortemente maschilista come quella aristotelica, dalla lotta contro lo gnosticismo e dall’assimilazione nel cristianesimo degli elementi fondamentali del diritto di famiglia romano, che prevedeva la totale sottomissione delle donne ai padri e ai mariti, che potevano obbligarle a coprirsi il capo, punirle a piacimento, ucciderle o venderle come schiave. Il divieto dell’ordinazione femminile sarebbe sorto insomma all’interno di una cultura che immaginava le donne come creature inferiori agli uomini per intelligenza e capacità di autonomia. In quel mondo, le donne erano subalterne di fatto e di diritto; la loro sottomissione rifletteva, per la società medievale, un ordine naturale perfettamente legittimo e integralmente voluto da Dio, conseguenza della colpa femminile di aver portato il peccato nel mondo. Un ordine oggi, si spera, anacronistico e definitivamente infranto. «Nessun teologo cattolico sosterrebbe oggi la convinzione che le donne non sono create a immagine di Dio o che lo sono meno di quanto lo siano gli uomini. Per effetto di tale ammissione, l’intera visione medioevale basata sull’esistenza di esseri superiori e inferiori crolla. Se anche le donne recano l’immagine di Dio, anch’esse sono capaci di esercitare il primato e l’autorità sacerdotale»52. In definitiva, «visto che le giustificazioni fornite sono deboli, il bando al sacerdozio femminile dovrà essere rimosso un giorno o l’altro, e più la Chiesa aspetta, più danni saranno stati fatti. [...] Le donne avvertono l’esclusione

  Wijngaards (2002, 96).

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dal ministero come un’esperienza sempre più dolorosa e discriminatoria. Le autorità ecclesiastiche stanno sprecando tempo e risorse preziosi nell’ostacolare un processo di sviluppo legittimo che ne arricchirebbe il ministero pastorale incommensurabilmente»53. Francesco e le donne Alla questione femminile Francesco non pare particolarmente interessato. Vi ha dedicato un paio di paragrafi (il 103 e il 104) dell’Evangelii Gaudium, nei quali si nota soprattutto il fatto che viene confermata la negazione del sacerdozio femminile. In generale, i suoi discorsi sulle donne sono piuttosto poveri e rivelano una visione decisamente tradizionale del loro ruolo nella società e nella Chiesa. L’azione sino ad ora più significativa del pontificato su questo versante il papa argentino l’ha compiuta nel maggio del 2016 quando, durante un incontro con le superiore generali degli istituti religiosi femminili nell’aula Paolo VI, disse che rimaneva oscuro quali fossero stati il ruolo e lo statuto delle diaconesse nei primi secoli di vita della Chiesa e accennò, per la prima volta, alla possibilità di una «commissione storiografica» che esplorasse in profondità il tema. L’organismo venne in effetti costituito pochi mesi più tardi, nell’agosto del 2016: ne fanno parte sei uomini (tutti preti), tra i quali il presidente (il nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, monsignor Ladaria), e sei donne, un solo americano e il resto europei, molti conservatori e alcuni innovatori, tanti storici (come ha riferito Massimo Faggioli su «The Tablet» del 12 agosto 2016). Dei suoi componenti, solo l’americana Phyllis Zagano si è espressa in passato a favore della concessione del diaconato alle donne. Altri membri della commissione sono chiaramente contrari a questa ipotesi,   Wijngaards (2002, 222).

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molti non hanno nessuna competenza specifica sul tema. Insomma, sembrano esserci tutte le premesse perché dai lavori di questo organismo vengano ben poche innovazioni. La principale potrebbe consistere nell’accoglimento della proposta del cardinal Kasper, un dirigente cattolico assai vicino a papa Francesco. Quel che ha proposto Kasper è di concedere alle donne il grado più basso del ministero: quello «istituito» (introdotto nel 1972 come preparazione al sacerdozio), che prevede la subalternità totale al sacerdote (e non al vescovo, come nel caso dei diaconi maschi) e al massimo la possibilità di predicare (anche durante la messa o durante un battesimo): ben poca cosa, quasi nulla, rispetto alle grandi attese di cambiamento dei riformatori. Un semplice riconoscimento di quel che le donne già fanno, e che non cambia di una virgola gli equilibri di potere tra i generi e conferma tutti gli stereotipi che inferiorizzano le donne, escludendole dal diritto a predicare e a pronunciare le omelie. Una decisione del genere, per certi versi, come nel caso della riforma della Curia, peggiorerebbe la situazione attuale, dal momento che costituirebbe un precedente molto significativo e renderebbe difficile intervenire nuovamente sul tema per un buon numero di decenni. La questione del celibato obbligatorio e la riforma del ruolo dei preti L’abolizione del celibato obbligatorio del clero è sostenuta innanzitutto, da tempo e con forza, dalle numerose associazioni di «preti sposati» sparse in tutta Europa (dalla spagnola Movimiento pro-celibato opcional all’inglese Advent Group, dalla svizzera Priester in Beziehungen all’italiana Vocatio)54 e dalle omologhe associazioni di «donne dei preti» (quali la francese Plein Jour o la tedesca Iniziativgruppe vom Zölibat

  Castagnaro e Eugenio (2013, 97).

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betroffener Frauen), ma trova un ampio consenso in segmenti più ampi delle comunità ecclesiali, dell’intellighenzia cattolica e dell’opinione pubblica. La fine dell’obbligo celibatario assumerebbe prima di tutto, sostengono i fan delle riforme, un valore etico generale, nel senso che consentirebbe ai presbiteri di condurre un’esistenza più libera, meno segnata dall’ipocrisia, dalla falsità e dai tormenti (anche di tante donne) che contraddistinguono l’istituto del celibato forzoso e a vita del clero cattolico. Anche l’immagine pubblica del clero ne trarrebbe giovamento, dal momento che i preti vivrebbero il loro ministero in un modo più autentico, senza sotterfugi o doppie vite. Di più: molti preti, costretti a lasciare perché entrati in una stabile relazione affettiva, potrebbero tornare nei ranghi, eliminando l’intollerabile diseguaglianza oggi esistente con i preti sposati delle chiese cattoliche di rito orientale, rafforzando anche per questa via il contingente assottigliato e sensibilmente invecchiato del clero cattolico. «Esiste – scrive il teologo Vogels55 – per una gran parte dei preti una vera vocazione al matrimonio, la quale non è un difetto, ma un dono diverso di Dio, uno stato differente di perfezione evangelica». La riforma del celibato darebbe inoltre alla Chiesa cattolica l’opportunità di un’apertura ecumenica nei confronti delle altre chiese cristiane, che da sempre non lo riconoscono come un obbligo. In un’interpretazione più radicale, l’introduzione di preti sposati nella Chiesa cattolica sarebbe anche espressione di una «teologia del ministero della coppia», ovvero di un «ministero proprio di un ‘noi’ istituzionalizzato, la coppia unita dal sacramento del matrimonio, chiamata ad essere manifestazione della comunione di Dio con gli uomini, autentica essenza del regno, segno di una comunione nella diversità insopprimibile (quella di genere), che è feconda generatrice di vita»56. I preti sposati rappresenterebbero, in un assetto riformato, un con  Vogels (2008, 83).   Noceti (2008, 93).

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tingente clericale più maturo e consapevole rispetto ai preti celibi di fresca ordinazione. Sempre in questa vena radicalmente riformista, si ritiene che il cambiamento nella disciplina del ministero ordinato sia il grimaldello, la chiave di volta, per cambiare l’intera fisionomia della Chiesa: «Il variare dell’uno modifica l’altra; alla modifica sul piano ecclesiologico si correla sempre una trasformazione su quella del ministero e viceversa, modifiche nell’esercizio del ministero hanno sempre generato una nuova forma di Chiesa»57. In questo scenario, l’immissione di clero uxorato contribuirebbe a indebolire la tendenza a «sacralizzare» la figura del prete, immaginato, anche in ragione della sua presunta purezza sessuale e della capacità di astenersi dai rapporti carnali, come una sorta di semidio, unico mediatore riconosciuto tra la divinità e gli uomini58. L’affievolimento del carattere gerarchico e sacrale del prete che conseguirebbe all’abolizione dell’obbligo celibatario faciliterebbe una corrispondente maturazione dell’intera comunità dei credenti, che si sentirebbe finalmente investita della funzione e della missione di «esercizio collettivo del sacerdozio», centrale nella Chiesa primitiva e ormai perduta da molti secoli. Infine, l’avere preti celibi e preti sposati permetterebbe un miglior riconoscimento del pluralismo di percorsi spirituali e di forme organizzative all’interno della Chiesa (da estendere possibilmente ad altri campi) e inevitabilmente aiuterebbe a considerare questo ed altri elementi organizzativi dell’impianto ecclesiale come «storicamente contingenti» e quindi sempre modificabili, in relazione alle mutate condizioni storiche e sensibilità sociali. Favorirebbe, in altre parole, la diffusione di una mentalità e di un costume profondamente riformatori. L’eliminazione del celibato obbligatorio sembrerebbe anche del tutto plausibile sotto il profilo giuridico e teologico, per il fatto che quella che lo istituisce è una mera norma di  Noceti (2008, 87).   Drewermann (1995).

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sciplinare, cioè non si è sempre fatto così, e i preti hanno avuto l’obbligo di esser celibi solo a partire dal XII secolo, in particolare a seguito dell’approvazione dei canoni 6 e 7 del Concilio Lateranense II nel 1139 (che rese nulli anche i matrimoni dei preti già contratti) e, in modo più rigido e generalizzato, dopo il Concilio di Trento, anche per rimarcare la differenza con i luterani, che avevano abolito del tutto il ruolo sacerdotale. I riformatori59 sostengono che in realtà il principio all’origine dell’obbligo celibatario per tutto il clero trae origine dal principio della «purità sessuale», cioè dalla presunta necessità che coloro che accedono alla sfera del sacro non siano resi impuri dalla precedente consumazione di un rapporto sessuale. Un principio che non solo rivela una concezione dell’amore carnale negativa e quasi animalesca oggi totalmente inattuale, ma che ha un’origine chiaramente pagana e semmai veterotestamentaria60. Nel Vangelo non ce ne sarebbe traccia61. La Chiesa occidentale l’avrebbe adottato per un motivo pragmatico, e cioè in ragione della tendenza a celebrare quotidianamente l’eucaristia e quindi ad esigere dai preti la condizione di castità permanente associata al regime celibatario. Sono poi intervenute certamente anche delle ragioni finanziarie, dal momento che tante piccole comunità non sarebbero state in grado di mantenere, oltre al prete, anche la sua famiglia e che vi erano dei rischi concreti che parte del patrimonio ecclesiastico finisse nelle tasche dei figli maschi (talvolta, in una logica tipicamente feudale, insieme allo stesso titolo e alla funzione di presbitero) o nella dote delle figlie femmine. Ad ogni modo, tutte queste ragioni sarebbero state confermate per ragioni opportunistiche, non avrebbero più un fondamento nel presente e si configurerebbero ormai come una chiara contravvenzione dell’imperativo kantiano di non   Gryson (1970) cit. in Cereti (2008, 55).   Gryson (1970). 61   Cereti (2008, 55). 59 60

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usare mai le persone come mezzi, ma sempre come fini in sé. In altre parole, oggi non ci sarebbe nessuna ragione per non riconoscere che i preti, pur accomunati dall’esecuzione di un insieme di funzioni legate al ruolo, si differenziano per personalità, carattere, cultura, storia individuale e quindi anche per orientamento verso il matrimonio e la vita familiare. Inoltre, la Chiesa avrebbe ormai elaborato una nuova visione del matrimonio, più ricca. Prima del Concilio Vaticano II, i fini principali del matrimonio cristiano erano la procreazione e l’educazione dei figli; dopo il concilio, la Chiesa ha ritenuto di considerare l’unione dei coniugi come un’entità che partecipa a pieno titolo alla missione della Chiesa e alla costruzione del «Regno di Dio»62. In questa rinnovata visione, si ritiene che la vita in famiglia arricchirebbe la sapienza pastorale del prete, aiuterebbe quest’ultimo a comprendere meglio i problemi e gli affanni dei fedeli, inclusi quelli legati all’educazione dei figli, e non potrebbe non avere delle conseguenze anche sui contenuti e sulle forme della predicazione e della liturgia63. Concludendo su questo punto, a parere dei riformatori, la scelta del celibato non solo dev’essere resa non obbligatoria, ma anche attentamente ispezionata64, per verificare che dietro di essa non si annidino delle motivazioni inconfessabili, e in larga misura inconsce, che affondano in varie patologie: ad esempio, un’omosessualità repressa e latente, un attaccamento morboso alla madre, il desiderio di evitare le responsabilità e le fatiche di una vita familiare, un atteggiamento egoistico e autocentrato, una tendenza a sviluppare, data la mancanza di una vita familiare, un interesse eccessivo per la carriera o per il denaro. In molti, tra i quali il celebre teologo Hans Küng (su «Le Monde» del 5 marzo 2010), mettono anche in relazione il celibato obbligatorio con la dilagante diffusione della pedofilia nelle fila del clero.   Petrà (2011).   Noceti (2008). 64   Cereti (2008). 62 63

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Oltre a tutto questo c’è però anche una ragione pratica che rafforza l’istanza riformatrice, una ragione legata al sensibile declino delle vocazioni, soprattutto – ma non solo – in Europa. Sono sempre di più le comunità parrocchiali prive di un proprio parroco, i territori nei quali i presbiteri si esercitano in quelli che qualcuno di loro ha chiamato «i rally del prete», cioè le disperate corse in automobile per celebrare l’eucaristia in due o più parrocchie molto distanti tra di loro65. I fedeli di tutte le parrocchie oggetto del rally domenicale non solo ricevono una guida e un’assistenza spirituali molto esigue, ma si trovano dinanzi un prete spesso spaesato, vittima di burnout, incapace di celebrare la funzione con la dovuta concentrazione e con l’impegno appropriato. La «macchina dei sacramenti» o delle celebrazioni, quella che sforna ogni settimana battesimi, cresime, matrimoni, funerali, eccetera, non ha infatti diminuito il suo volume di produzione in una misura pari a quella del distacco popolare dall’istituzione religiosa nella vita ordinaria. In altri termini, molte persone che non vanno più regolarmente in chiesa continuano a recarvisi per celebrare i riti di passaggio, l’ingresso o l’uscita dalla vita, lo sposalizio, i riti dei bambini. Questo fa sì che per i pochi preti rimasti l’attività «sacramentale» non sia diminuita, ma al contrario aumentata, con effetti psicologici e di soddisfazione del proprio lavoro facilmente immaginabili. Ad ogni modo, i riformatori bollano come inefficace e sbagliato il principale rimedio escogitato dalla gerarchia cattolica per far fronte al problema: e cioè l’importazione massiccia di clero dal Secondo e Terzo Mondo66. Affidare una parroc  Marzano (2012).   Arnaud (2015) lamenta l’assenza di una riflessione sistematica sul tema dei preti stranieri, riportando poi alcuni dati molto parziali in suo possesso: in Francia, il clero straniero supererebbe il 10% del totale, in Germania si attesterebbe sullo stesso livello, mentre in Italia sarebbe un po’ più in basso, intorno al 5%. Inoltre, esaminando da vicino la situazione belga, Arnaud ci informa che degli 83 sacerdoti con meno di 60 anni attivi nel 2013 nella 65 66

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chia del Centro Italia ad un prete polacco o ad uno africano significa ridurre l’attività del parroco alla celebrazione dei riti e delle funzioni, esasperare gli aspetti squisitamente liturgici, devozionali e cerimoniali a danno di quelli sociali, culturali e di maturazione spirituale. Perché ovviamente il personale ecclesiastico che proviene dai paesi che esportano clero non solo è spesso molto tradizionalista, ma fa anche fatica a comprendere appieno il contesto sociale e culturale nel quale è chiamato a guidare una parrocchia e per questo finisce per concentrarsi sugli aspetti «universali» della sua professione: l’adorazione eucaristica, il pellegrinaggio, la liturgia, eccetera. Di fronte ad un parroco straniero, la parte più matura e consapevole del laicato cattolico si vedrà costretta a cercarsi un altro luogo dove poter vivere la propria esperienza comunitaria. Molti preti stranieri, da parte loro, lamentano il razzismo implicito o esplicito di cui vengono fatti oggetto da fedeli e confratelli e il fatto di essere immancabilmente tenuti distanti da ogni funzione direttiva, relegati a svolgere i compiti più semplici e spesso trattati come subalterni dal clero e dalla popolazione locale67. I riformatori ammettono che, in termini generali, il calo di personale ecclesiastico viene in parte compensato dalla sensibile riduzione dei fedeli per effetto dell’incalzare dei processi di secolarizzazione, ma al tempo stesso fanno presente che sono aumentate le esigenze di assistenza spirituale specifica. In altri termini, i praticanti sarebbero diminuiti divenendo però più esigenti, più bisognosi di un’attenzione e di una cura specifiche da parte del clero. «L’obbligo del celibato – ha scritto Hans Küng su ‘Le Monde’ del 5 marzo 2010 – costituisce oggi la causa principale della mancanza catastrofica di preti, dell’abbandono – carico di conseguenze – della pratica della comunione e in molti casi del crollo dell’assistenza spirituale diocesi di Liegi, ben 41 sono stranieri e 35 africani e che la quota di stranieri è ancora più elevata in altre diocesi dello stesso paese. 67   Arnaud (2015, 443).

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personalizzata». La relativa scarsità del clero determinerebbe anche l’arretramento della Chiesa cattolica in luoghi popolati da competitori molto aggressivi e ben radicati sul territorio, come le sette evangeliche pentecostali che, in Sudamerica e in Africa, sottrarrebbero fedeli al cattolicesimo anche perché provviste di un ceto di pastori (sposati) più consistente e congruo di quello della Chiesa cattolica. Sul terreno dell’uscita dal regime di celibato obbligatorio, un primo cambiamento potrebbe essere costituito dalla decisione di arruolare nelle fila del clero uomini già sposati68, come già avviene in alcune chiese cattoliche di rito orientale e nel caso degli ex pastori anglicani divenuti preti cattolici. In altre parole, se questa iniziale apertura diventasse realtà e non fosse rigorosamente confinata ad alcune regioni del mondo, ai preti rigorosamente celibi ancora sfornati dai seminari si comincerebbero ad affiancare alcuni laici sposati poi ordinati preti, presumibilmente più maturi come età e formati in luoghi diversi dai seminari. Un papa prete celibe dinanzi alla riforma del celibato C’è da aspettarsi qualche gesto importante su questo versante da papa Francesco? È immaginabile che egli ponga mano se non altro all’avvio di una riforma che avrebbe certamente effetti sconvolgenti sulla vita della Chiesa cattolica? Io credo di no, che Francesco non farà proprio nulla per cambiare il celibato dei sacerdoti. Vediamo il perché. In primo luogo, Jorge Mario Bergoglio non è mai stato favorevole ad una riforma dell’obbligatorietà del celibato. In un’intervista concessa un anno prima di diventare pontefice, nel 2012, l’allora cardinale di Buenos Aires aveva, è vero, sottolineato il fatto che i preti sposati delle chiese orientali sono 68   Se ne è parlato in relazione al sinodo sull’Amazzonia del 2019. Si veda su questo l’articolo pubblicato sul «Messaggero» del 2 novembre 2017 da Franca Giansoldati, I vescovi brasiliani: aprire ai preti sposati.

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ottimi presbiteri e che il regime del celibato obbligatorio in vigore nella Chiesa cattolica non è un articolo di fede, ma una mera norma disciplinare e di opportunità pastorale che può pertanto, in teoria, essere abrogata. Detto questo, l’alto prelato aveva però precisato di essere totalmente a favore del mantenimento del celibato obbligatorio per i preti cattolici, in virtù di dieci secoli di «buone esperienze» e che quello del celibato è un dono. Il futuro papa aveva condannato senza appello i preti che hanno relazioni sentimentali, definendo «totalmente inaccettabile» la violazione della promessa celibataria. «La doppia vita non è una buona cosa per noi», aveva aggiunto, precisando: «Non mi piace, perché significa costruire sulla menzogna». In assoluta coerenza, su questo punto, con tale posizione decisamente conservatrice, nei primi cinque anni del suo papato Francesco ha fatto molto di rado riferimento a qualche forma di revisione dell’obbligo del celibato. Il suo segretario di Stato monsignor Parolin, appena nominato e in attesa di entrare in carica, dichiarò, in un’intervista al quotidiano venezuelano «El Universal» l’8 settembre 2013, che «Bisogna tener presente lo sforzo che ha fatto la Chiesa per instaurare il celibato dei preti. Non si può dire semplicemente che appartiene al passato. È una grande sfida per il papa, che è a capo del magistero dell’unità, e tutte le decisioni devono essere prese con l’obiettivo di unire la Chiesa, non di dividerla». L’affermazione più importante è probabilmente contenuta nell’intervista rilasciata a «Die Zeit» nel marzo del 201769. Al settimanale tedesco il papa argentino dichiarò che era diventato necessario iniziare una riflessione sui «viri probati», cioè sulla possibilità di affidare, soprattutto in regioni del mondo isolate e sguarnite di clero, alcune non meglio precisate (ma chiaramente limitate) funzioni sacerdotali a degli uomini sposati di fede sicura e provata.   Iacopo Scaramuzzi, Papa Francesco: bisogna riflettere sui viri probati, in «La Stampa-Vatican Insider», 8 marzo 2017. 69

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E tuttavia, nella stessa intervista, dopo aver espresso la sua sospensione di giudizio sulla questione del diaconato femminile, Francesco aveva ribadito che il «celibato libero non è una soluzione». Il problema, secondo il papa, si risolve piuttosto con l’intensificazione delle preghiere: «Il Signore ci ha detto: pregate. È questo che manca, la preghiera. E manca il lavoro con i giovani che cercano orientamento». Né rivoluzionario né riformatore Il bilancio dell’attività di papa Bergoglio come riformatore della Chiesa è nel complesso decisamente deludente, quasi nullo. C’è di più: come ricorda il suo autorevole biografo Austen Ivereigh70, Bergoglio ha compiuto, da papa, molti atti di governo che ne invalidano per sempre ogni iscrizione alla schiera dei progressisti: ha ad esempio costretto le religiose americane della Leadership Conference of Women Religious (LCWR) favorevoli alla riforma sanitaria di Obama e sostenitrici di posizioni decisamente poco ortodosse su aborto, omosessualità e ordinazione femminile ad abbassare la testa di fronte alle richieste della Congregazione per la Dottrina della Fede; ha confermato la scomunica di un prete australiano che incoraggiava il sacerdozio femminile; ha criticato il cattolicesimo fai da te di coloro che non si mostrano fedeli alla dottrina mettendone in dubbio la stessa appartenenza alla Chiesa; «in una lettera del novembre 2013 all’arcivescovo Agostino Marchetto, ha anche chiarito di essere d’accordo con l’interpretazione conservatrice che del Vaticano II ha dato Benedetto XVI»71. Ha inoltre intrattenuto ottimi rapporti con tutti i movimenti ecclesiali; di don Giussani ha parlato in termini entusiastici ricordando «il bene che quest’uomo mi ha fatto, nella mia vita di sacerdote, attraverso la lettura dei suoi libri   Ivereigh (2014, 7819-7842).   Ivereigh (2014, 7829).

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e articoli»; con il suo successore, don Carron, ha un rapporto eccellente ed è stato visto pregare sulla tomba di Josemaría Escrivá de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei72. Poco dopo aver detto, nell’intervista al direttore di «Civiltà Cattolica» Spadaro, di voler mettere da parte l’ossessione per i valori non negoziabili, ha pronunciato un violento discorso sull’aborto, mettendolo in relazione con la cultura dello scarto e affermando che «ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito, ha il volto di Gesù Cristo [...] che prima ancora di nascere, e poi appena nato, ha sperimentato il rifiuto del mondo». Francesco ha inoltre descritto come espressione di una «genialità profetica» la decisione di Paolo VI73 di non seguire i consigli della commissione di esperti che aveva nominato e di vietare, nell’Humanae Vitae, ogni forma di controllo delle nascite. Più in generale, Bergoglio è notoriamente un fan di papa Montini, il pontefice che chiuse il concilio e seppe evitare le conseguenze più perniciose che da quell’evento sarebbero potute derivare per il clero e la gerarchia cattolici. Papa Bergoglio ammira Montini il «centrista», nemico giurato degli opposti estremismi, il salvatore dell’apparato tridentino dalle furie riformatrici post-conciliari. Lo ammira al punto tale da averne avviato la beatificazione. Così come ha santificato nello stesso giorno Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, l’icona dei riformatori e quella dei conservatori (del quale Bergoglio ha iniziato presto ad imitare anche la passione per i viaggi apostolici), e in ogni caso due supremi capi romani, due novelli imperatori cattolici. Decentrare i poteri oggi concentrati nella Curia, incoraggiare l’autonomia delle periferie, vorrebbe dire di fatto abolire il papato così come lo conosciamo, depotenziarlo, limitarne sensibilmente le facoltà, riducendo il pontefice romano ad un primus inter pares, ad un qualun  Ivereigh (2014, 8431-8434).   Più in generale, sui rapporti tra Bergoglio e Montini si veda De Giorgi (2016a). 72 73

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que arcivescovo di Canterbury impegnato a sedare le risse tra continenti e culture. Pensare che l’opera di demolizione dell’impalcatura tradizionale della Chiesa possa venire dal suo massimo rappresentante è come immaginare che Luigi XVI avrebbe deciso, se avesse potuto, di fare la rivoluzione, deporsi e poi tagliarsi la testa da sé azionando la ghigliottina. A me sembra al contrario pienamente sottoscrivibile il giudizio che del presunto riformismo di papa Bergoglio ha dato Ivereigh quando ha scritto: Il radicalismo di Francesco non va confuso con la dottrina o l’ideologia progressiste. È un atteggiamento radicale perché è missionario e mistico. Francesco è istintivamente e visceralmente contrario ai «partiti» nella Chiesa, ed è convinto che il papato affondi le radici nel cattolicesimo tradizionale del santo popolo fedele di Dio, e in particolare nei poveri. Non scenderà mai a compromessi sulle questioni scottanti che dividono la Chiesa dall’Occidente laico, un divario che i progressisti amerebbero colmare modernizzando la dottrina. Tuttavia egli non è nemmeno, come risulta altrettanto evidente, un papa della destra cattolica: non userà il pontificato per combattere battaglie politiche e culturali che ritiene debbano essere combattute a livello diocesano, ma se ne servirà per attirare e insegnare; né ritiene necessario ripetere all’infinito ciò che è già noto, anzi desidera porre l’accento su quanto è stato in parte dimenticato: la paterna bontà e la clemenza misericordiosa di Dio. E mentre i cattolici conservatori vorrebbero parlare più di temi etici che di temi sociali, è felice di fare proprio l’opposto, ossia recuperare un cattolicesimo come «indumento senza cuciture». Come fece con i gesuiti negli anni Settanta, Francesco sta cercando di unificare la Chiesa universale da un lato ancorandola ai comuni fedeli e ai poveri e dall’altro indirizzando il miliardo e duecento milioni di cattolici del mondo verso la missione e l’evangelizzazione. Invita i «partiti» a rinunciare alla loro fede nei propri piani o nella propria idea di Chiesa. Rappresenta dunque l’occasione più grande che si sia offerta nell’arco di generazioni di comporre le spaccature tra cattolici progressisti e cattolici conservatori: è infatti il primo papa che sia un prodotto, anziché una 55­­­­

parte, del concilio, e tuttavia ha individuato per tempo la tentazione di condurre il concilio stesso per la strada sbagliata e vi si è coraggiosamente opposto74.

Un centrista moderato non è certo la persona ideale per promuovere cambiamenti radicali. Da parte mia, non ho elementi sufficienti per sapere cosa sia passato nella testa di papa Bergoglio in questi anni: forse è stato spaventato dalle reazioni che i suoi primi pronunciamenti e gesti hanno provocato, forse, come sostiene il cardinal Semeraro che lo conosce benissimo e da tempo, non è mai stato davvero un riformatore e si è limitato, all’inizio, ad assecondare i desideri dei suoi grandi elettori. Forse, e a me sembra l’ipotesi largamente più plausibile, ha iniziato, una volta a Roma, a vedere le cose in modo diverso, a scoprire tutte le ragioni per le quali realizzare una riforma della Chiesa è assai sconsigliabile e controindicato per chi ha davvero a cuore il suo futuro. Ed è proprio questo il tema del prossimo capitolo.   Ivereigh (2014, 7847-7866).

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II

Perché la Chiesa non cambia

L’incerto e debole riformismo di papa Bergoglio che ho ricostruito nelle pagine precedenti richiede di essere spiegato. Oltre alla personalità del papa, alle sue personali inclinazioni, vi sono altri fattori di natura più strutturale che si rivelano decisivi nell’orientare le decisioni del capo del cattolicesimo, determinando lo stallo, la paralisi di ogni grande mutamento. È di questi che ci dobbiamo occupare ora, nel tentativo di comprendere perché è poco probabile che, nella Chiesa cattolica, sotto Francesco o uno dei suoi successori, si producano importanti riforme strutturali. La fedeltà istituzionale di papa Francesco Il primo fattore è relativo alla natura stessa dell’istituzione ecclesiastica e consiste nel fatto che la Chiesa non cambia perché, come tutte le grandi istituzioni, mostra una naturale tendenza verso l’inerzia, la stabilità e la conservazione. Come ha sostenuto correttamente Graziano, «La Chiesa cattolica cammina su molte gambe, ma la sua superiorità assoluta su qualunque altra istituzione o movimento risiede nell’esperienza accumulata e cristallizzata in struttura, in organizzazione»1. Dal punto di vista teologico, la Chiesa è, almeno dal Concilio Vaticano II, il «popolo di Dio», ma dal punto di vista organizzativo e strutturale essa è la formazione sociale più

  Graziano (2013).

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simile al tipo ideale puro della burocrazia descritto da Max Weber2. Essa è infatti: a) solidamente strutturata secondo i principi di disciplina e di competenza; b) dotata di una miriade di uffici ordinati gerarchicamente e secondo una razionale divisione del lavoro; c) animata da quasi mezzo milione di funzionari a tempo pieno inamovibili, adeguatamente formati in luoghi separati dal resto della società, provvisti di una «preparazione specializzata» e di un particolare «prestigio di ceto»; d) arricchita da un immenso patrimonio mobiliare e immobiliare (che appartiene interamente all’istituzione e non ai suoi membri). I suoi funzionari sono obbligati alla fedeltà nella forma della lealtà allo scopo oggettivo e impersonale per il quale l’organizzazione esiste e ai superiori solo in quanto tali (cioè non per le loro caratteristiche personali, ma per la carica che occupano). Infine, nell’organizzazione, le attività interne hanno un carattere riservato e sono immancabilmente coperte dal segreto d’ufficio3. È questa la cornice nella quale interpretare tutte le principali caratteristiche del cattolicesimo organizzato. Istituzioni totali come i seminari, ad esempio, consentono di addestrare al meglio un personale specializzato da impiegare senza limiti di sorta. Nel corso della vita in seminario, i futuri «uomini del sacro» vengono avviati a condurre un’esistenza radicalmente diversa da quella dei loro coetanei, intensamente socializzati al loro ruolo futuro, costantemente tenuti sotto osservazione, allo scopo di plasmarne il carattere in un senso utile all’istituzione, di aumentarne la dipendenza da quest’ultima e di ridurre al massimo tutti gli spazi di vita privata, ogni briciola di autonomia. La regola del celibato, anch’essa trasmessa con

  Anzi ne è per certi versi l’ispiratrice, come riconosciuto dallo stesso sociologo tedesco in un passaggio del quarto libro del suo Economia e società (1995, 66). 3   Per un’analisi sintetica della teoria della burocrazia di Weber e del dibattito che essa ha innescato nella sociologia dell’organizzazione si veda Bonazzi (2007). 2

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molta decisione e grandissimi sforzi durante l’itinerario formativo, riduce lo spazio dell’esistenza extraistituzionale dei funzionari cattolici, garantendone l’impegno massiccio e la piena disponibilità alla mobilità territoriale, ad essere inviati laddove l’organizzazione necessiti del loro lavoro. L’astinenza sessuale, almeno teorica, associata al voto di castità e al celibato, diventa, insieme alle vesti, alla tonsura e ad altri artefatti, un segno visibile dell’appartenenza del prete ad una casta superiore, ad un ceto sacerdotale che ha il diritto-dovere di governare l’organizzazione in nome di capacità straordinarie, quali quelle necessarie per privarsi dei rapporti sessuali pur vivendo «nel mondo» e non in qualche eremo isolato. Già all’epoca della Controriforma, quando questo modello viene perfezionato e rinforzato, «Al cuore della separazione tra il sacro e il profano (decisa dal concilio) si trovava la sessualità: l’autorità del clero cattolico sul popolo si basava sulla sua dichiarata astinenza sessuale, le frequenti violazioni della quale divennero causa di risentimento e di scandalo tra i laici; il celibato ecclesiastico distingueva così il clero cattolico dalla sua controparte protestante, che considerava il matrimonio un’istituzione sacra, pur se non un sacramento della Chiesa»4. Un discorso analogo si potrebbe fare a proposito del ruolo della centralizzazione o dell’esclusione delle donne dal clero. Un insieme di norme, strutture, valori consolidato nel tempo fornisce insomma al cattolicesimo la sua identità distintiva, il suo carattere peculiare, la sua forma unica. In altri termini, il clero cattolico è tale perché maschile e celibe, perché è in questa condizione da moltissimo tempo, e perché a questo ceto hanno appartenuto tanti dei suoi celebrati campioni: santi, papi, profeti, intellettuali, ai quali la maggior parte del clero contemporaneo guarda con orgoglio e identificazione. Ovviamente, il sistema non può poggiare esclusivamente

  Hsia (2009, 48).

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su basi ideologiche e di adesione spontanea. Esso si regge anche sul fatto che, in cambio dell’obbedienza, della fedeltà e della conformità alle sue esigenze, non solo dona ai suoi funzionari delle cospicue ricompense simboliche e materiali, li fa sentire oggetto di ammirazione e venerazione, conferisce, ai diversi livelli, grandi poteri e responsabilità, ma consente anche loro, in virtù dei limiti associati alla rigidità e all’estrema «stupidità» dell’impalcatura burocratica, ai suoi difetti congeniti, di aggirare la rigidità delle norme, di ricavarsi ampie nicchie di autonomia, di costruire sfere di indipendenza nelle quali condurre una vita almeno parzialmente libera. E poi li protegge nel caso in cui quell’esercizio di libertà abbia prodotto qualche guaio, generato qualche conseguenza indesiderata. Il sistema, l’organizzazione complessiva, finisce dunque per divenire oggetto di un consenso amplissimo, quasi generalizzato, risultato della convergenza di una miriade di interessi diversi, effetto paradossale dell’immedesimazione come del distacco, dell’adesione totale così come della capacità di adattamento e di sfruttare il sistema per i propri fini personali. Al pari di tutti i suoi simili sociologici, cioè delle altre grandi burocrazie, la Chiesa ha sviluppato alcune specifiche patologie: ad esempio, l’«incapacità addestrata» di adattarsi alle novità, il «ritualismo burocratico», cioè l’attaccamento eccessivo da parte dei funzionari al formalismo e al dettato delle norme a discapito della sostanza della missione organizzativa, e lo «spirito di corpo», generato dalla propensione dei burocrati a pensarsi come un gruppo dotato di interessi comuni e di uno status separato e superiore rispetto al pubblico che sarebbe, sulla carta, chiamato a servire5. Organizzazioni come la Chiesa diventano poi sovente autoreferenziali e resistenti alle richieste di cambiamento che vengono dall’esterno6. In qualche caso, esse danno vita, nel tempo, ad una vera e propria «eterogenesi dei fini», cioè divengono più interessate alla   Merton (1971).   Gouldner (1970).

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loro mera sopravvivenza che al raggiungimento degli scopi per realizzare i quali erano originariamente sorte7, o paiono colpite da quella che è stata definita «inerzia organizzativa», ovvero una tendenza strutturale, accentuata dall’anzianità e dalle dimensioni, a perpetuare se stesse nell’eterno timore di innescare, con l’avvio di qualche cambiamento, terribili effetti distruttivi8. La distintiva peculiarità della Chiesa cattolica all’interno del novero delle grandi strutture burocratiche consiste nell’avere al suo vertice un capo eletto a vita, popolare e influentissimo anche all’esterno dell’organizzazione (e quindi in grado di ottenere un’immensa legittimità per le proprie azioni), dotato di poteri straordinari e assoluti, incluso, sulla carta, quello di trasformare radicalmente la fisionomia dell’organizzazione. In pratica, però, tali poteri non vengono mai usati per stravolgere l’organizzazione, in ragione del fatto che le tendenze autoconservatrici messe in luce in precedenza agiscono come vincoli impliciti, come pressioni normative anche sull’azione del papa. In altri termini, un papa potrebbe, se lo volesse, rivoltare l’intera macchina, sconquassare i meccanismi consueti di funzionamento dell’organizzazione (e forse anche Francesco ha pensato all’inizio di farlo), ma si astiene e si asterrà perché avverte su di sé l’enorme pressione istituzionale (psicologica, sociale, politica, storica) a non andare in quella direzione, a mantenere in vita il prezioso sistema che gli è stato così solennemente affidato. Anzi, fa di più: lo legittima e lo protegge, aiutandolo a conservarsi e a sopravvivere. È questo il «lavoro istituzionale»9, la missione suprema che il papa è chiamato a compiere dalla macchina organizzativa che lo ha designato suo sovrano. Come risulta facilmente evidente, in questo quadro, l’apparato burocratico, il gran corpaccione ecclesiale con tutte le sue   Selznick (1949).   Hannah e Freeman (1984). 9   Lawrence e Suddaby (2006); Kraatz (2009). 7 8

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immense risorse, le sue centinaia di migliaia di funzionari, dirigenti, sudditi titolati e agganci politici, non è più, come è stato all’inizio, com’era ai tempi della Chiesa primitiva, un mero strumento tecnico per raggiungere un certo fine, cioè una delle tante forme possibili per annunciare il Vangelo e la venuta del Regno di Dio. Oggi, e da tempo, l’organizzazione con tutti i suoi addentellati è divenuta, per chi ne fa parte e ne dipende, un bene in sé, un insieme di valori, di norme, di pratiche, di riti e di simboli ai quali legarsi anche affettivamente e in modo integrale, con tutti se stessi10. Il primo interesse dei membri di una siffatta istituzione diviene così quello per la stabilità, per la soddisfazione di alcune esigenze fondamentali, di alcuni bisogni di fondo: ad esempio, la sicurezza normativa, identitaria e simbolica dei confini organizzativi (che determinano chi è dentro e chi è fuori dall’istituzione), la conservazione di linee di autorità e di comunicazione stabili, la continuità della linea politica dell’organizzazione, l’omogeneità e la tenuta della sua immagine pubblica11. Solo la serena persistenza di tutti questi fattori consente ai membri dell’organizzazione di perseguire agevolmente i propri interessi personali in un quadro di certezza e di normalità. Queste ultime sono richieste anche da una buona parte dei fedeli cattolici, quelli disposti a riconoscere che «La superiorità relativa della Chiesa risiede nel suo carattere sacrale, carismatico. Un carattere che essa stessa si attribui­ sce e che, ovviamente, ha efficacia solo fin quando è riconosciuto dai fedeli. Se perde questo carattere sacramentale, essa compromette anche la propria struttura gerarchica e si espone al rischio di diventare democratica, cioè di aprirsi agli influssi della società, essendone dominata anziché dominarli»12. In questo scenario, il ruolo a cui il leader è chiamato non è certo quello di riformare l’organizzazione ma è «solo» quello di guidarla «politicamente», mediando tra le diverse istanze,   Selznick (2011), si veda anche Bonazzi (2007).   Bonazzi (2007). 12   Graziano (2013). 10 11

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mettendo fine ai conflitti interni, legittimandone all’esterno la missione e le funzioni, proteggendola dagli attacchi di competitori e nemici13. Per fare questo, un leader istituzionale deve assolvere a due funzioni apparentemente contraddittorie14: la prima è quella di tutelare l’integrità dell’istituzione15, ovvero di garantirne l’unità interna e di proteggerne l’identità, il nucleo di elementi culturali sedimentato attraverso la storia dell’organizzazione, il carattere distintivo e originale, ciò che la rende inconfondibile e immediatamente riconoscibile tra i suoi simili; il secondo è quello di cercare all’esterno legittimità e consenso sociale. Questo complesso lavoro «comporta continui sforzi per ottenere il sostegno di diversi gruppi sociali e per dimostrare simbolicamente la capacità dell’organizzazione di adattarsi a elementi variegati del suo ambiente istituzionale. L’organizzazione pluralistica ha bisogno di significare ‘cose diverse per gente diversa’, e buona parte del lavoro del leader consiste nel convincere che l’organizzazione è in grado di essere ciascuna di queste cose»16. Vedremo nel prossimo capitolo come papa Francesco rie­sca ad assolvere in modo eccellente a entrambi i compiti istituzionali legati alla sua leadership. Quel che comunque è giusto ribadire qui è che il riformismo non si coniuga certo bene con nessuna delle attività di un leader istituzionale per come le abbiamo analizzate. Perlomeno in tempi normali. È allora giunto il momento di avanzare la seconda delle nostre considerazioni analitiche, legata appunto alla normalità o all’eccezionalità del momento che sta attraversando la Chiesa cattolica, e quindi all’opportunità e all’indispensabilità di una sua riforma di struttura. Ed è proprio questo che ora dobbiamo stabilire: se quello attuale sia o meno un tempo che richiede alla Chiesa cambiamenti eccezionali.   Washington, Boal e Davis (2008).   Kraatz (2009). 15   Selznick (2011), Kraatz (2009). 16   Kraatz (2009, 72). 13 14

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La crisi della Chiesa cattolica: realtà o immaginazione? La nostra ipotesi prevede dunque che le grandi organizzazioni burocratiche siano tendenzialmente rigide e inadatte a produrre il cambiamento, incapaci di autoriformarsi17. Le riforme giungono solo quando strettamente indispensabili, e cioè a seguito di profondi sconvolgimenti, di crisi, che rivelano in modo incontrovertibile l’inadeguatezza del vecchio assetto e la necessità di vararne uno nuovo18. I segnali della crisi incipiente vengono, nelle burocrazie, sovente a lungo ignorati dai dirigenti: costoro, da un lato, spesso non ne riconoscono i sintomi, dall’altro, rinviano la sua soluzione desiderando mantenere lo status quo immutato il più a lungo possibile. Le crisi possono essere causate da eventi esterni, da fortissime pressioni ambientali, o interni, come una ribellione di larghe dimensioni o una defezione di massa. Durante le crisi emergono delle personalità carismatiche, che si sostituiscono alle norme ordinarie come fonte del potere e dell’autorità. In ogni caso, la crisi è chiaramente un’assoluta eccezione e «il ritmo di fondo che caratterizza un’organizzazione burocratica è l’alternanza di lunghi periodi di stabilità e di brevi periodi di crisi e mutamento»19. Insomma i grandi cambiamenti sociali, al pari di quelli nel mondo naturale, non avvengono in modo progressivo e graduale, per lenta accumulazione di elementi nuovi, ma in seguito a mutamenti rivoluzionari ed improvvisi, nel corso dei quali le vecchie specie vengono sostituite dalle nuove20. In generale, il cambiamento radicale è solo quello che in-

  Crozier (2000).   Crozier (2000, 217-220). 19   Crozier (2000, 218). 20   Un’interessante validazione analitica delle ipotesi di Crozier sulle modalità di cambiamento delle grandi burocrazie viene dalla teoria dell’equilibrio punteggiato (puntuacted equilibrium), basata su un modello macro evoluzionistico ricavato dalla paleontologia e dalla biologia alternativo a quello darwiniano (Tushman e Romanelli [2008]). 17 18

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veste la «struttura profonda»21, cioè l’insieme di scelte che un’organizzazione ha compiuto riguardo 1) alla sua articolazione di fondo, ovvero al modo in cui ogni parte del sistema viene regolata; e 2) al modello di attività fondamentali che la mantiene in vita. Ad innescarlo è il presentarsi di una grande crisi, cioè di un sensibile e improvviso cambiamento nell’ambiente, unito al peggioramento delle performance organizzative e ad un drammatico avvicendamento ai vertici dell’organizzazione; esso finisce per consistere in una complessiva ridefinizione della strategia, della struttura e della distribuzione del potere all’interno dell’organizzazione. Una conferma del legame tra crisi e riforma si può rintracciare anche nella storia della Chiesa e nella vicenda del Concilio di Trento, che segnò l’avvio della Controriforma introducendo importanti e significative novità strutturali nell’organizzazione del cattolicesimo, dalla nascita dei seminari al radicamento di parroci e vescovi nei loro territori e molte altre ancora22. In quel caso, fu proprio l’improvvisa e prepotente avanzata del protestantesimo in tutta Europa a far suonare, per il cattolicesimo, un segnale d’allarme che non poteva essere più ignorato, pena la stessa sopravvivenza dell’istituzione23.   Gersick (1991).   O’Malley (2013), Vismara (1997). 23   A ben vedere, ribadito il carattere decisivo della grande crisi innescata dalla Riforma protestante, le grandi riforme tridentine trassero una parte della loro legittimità dal fatto che si innestarono, rafforzandolo, su un modello di organizzazione burocratica della vita ecclesiale introdotto già da alcuni secoli. È infatti tra il XII e il XV secolo che viene realizzato lo straordinario progetto cattolico di regolamentazione e inquadramento della vita quotidiana della popolazione occidentale nel corso del quale, anche servendosi di un’azione violentemente repressiva come quella condotta nella lotta spietata contro le eresie, ogni aspetto dell’esistenza sociale viene sacralizzato e affidato al controllo di una ierocrazia sacerdotale al cui vertice si pone il ceto oligarchico dei cardinali. «La Chiesa cattolica romana si struttura in possenti forme monarchiche con la costruzione di organismi centrali e con una burocrazia capace di intervenire con efficacia in tutta la cristianità occidentale e con la crescita di un pensiero giuridico e di un’attività normativa – il diritto 21 22

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Era chiaro a tutti che, senza un concilio e una grande (contro)riforma, l’eresia sarebbe dilagata24. Il quesito davvero decisivo per il nostro discorso diventa dunque il seguente: la Chiesa cattolica si trova oggi in una situazione di crisi talmente profonda da generare, per reazione, un cambiamento radicale, una sua riforma strutturale e organica? Anticipo sin d’ora che la mia risposta a questo interrogativo è del tutto negativa: la Chiesa non si trova, a mio parere, in una condizione di crisi profonda e non vi è dunque al momento attuale nessuna delle premesse perché si avvii un cambiamento radicale25. Mi rendo conto che a qualcuno la mia può sembrare un’affermazione controfattuale, dal momento che la tesi della «Chiesa in crisi» è molto diffusa nel dibattito pubblico e all’interno dello stesso mondo cattolico. Per risolvere i dubbi non rimane che effettuare un rigoroso controllo empirico, metterci alla ricerca di misure, di indicatori, che segnalino la presenza o l’assenza di uno stato di crisi. Non è un’impresa troppo complicata. Iniziamo con il più elementare dei dati: quello che riguarda i battezzati. Secondo i dati raccolti dall’ufficio statistico della Segreteria di Stato vaticana e contenuti nell’Annuario Pontificio, il numero dei battezzati cattolici si aggirava, nel 2015, intorno al miliardo e 285 milioni, pari al 17,7% della popolazione mondiale. Nel 1999, i cattolici erano un miliardo e 45 milioni, il 17,4% della popolazione mondiale. In sedici anni dunque vi è stata una crescita, non irrilevante perché in rapporto alla popolazione mondiale, dello 0,3%. I trend sono naturalmente differenziati per area: in Africa il numero

canonico – destinata a far funzionare in modo ordinato le istituzioni della Chiesa» (Merlo [1997, 222]). 24   Hsia (2009, 21). Sul ruolo svolto dai Concili nella storia della Chiesa cattolica si veda l’accurato lavoro di Sandri (2014). Sulla possibilità di un nuovo concilio si veda, tra gli altri, Melloni (2004, 121-129). 25   Dello stesso avviso è Manlio Graziano (2010, 2014b).

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dei battezzati cattolici è cresciuto moltissimo, passando in soli cinque anni, tra il 2010 e il 2015, da 186 a 222 milioni (circa un sesto del totale della popolazione cattolica mondiale), mentre in Europa ci si trova di fronte ad una situazione di sostanziale stabilità (286 milioni nel 2015, ottocentomila in meno cinque anni prima), riflesso, almeno in parte, di una più debole crescita demografica (nel 2015, gli europei erano 743 milioni contro i 738 del 2010; in Africa, nel periodo considerato, la popolazione è cresciuta di più del 10%, passando da circa un miliardo ad un miliardo e 186 milioni di unità). Un discorso analogo vale per l’Asia, dove i cattolici crescono ad un ritmo simile a quello generale della popolazione. Su questo primo versante, dunque, direi che sarebbe decisamente scorretto parlare di crisi. A livello mondiale, negli ultimi anni, il cattolicesimo non solo ha tenuto, ma è leggermente avanzato. La situazione cambia, almeno parzialmente, se si passa ad esaminare un secondo versante, quello, cruciale per la Chiesa, della consistenza del clero. I preti cattolici erano, nel 2015, 415.656, i vescovi 5.304, i diaconi permanenti 45.255. Mentre, in termini assoluti, il numero dei vescovi è in crescita rispetto al 2010, quello dei sacerdoti sempre nel 2015 è solo in leggerissimo aumento se comparato a quello di cinque anni prima (+0,83% rispetto ad un aumento della popolazione mondiale del 6%). Anche su questo piano, i trend regionali sono assai differenziati. Ad essere in difficoltà è la sola Europa26. In   Naturalmente all’interno del continente europeo vi sono, a loro volta, enormi differenze nel ritmo della secolarizzazione, molto evidenti se, a titolo di esempio, si confronta la consistenza del clero di una diocesi dell’Italia meridionale con quella di una francese o di una belga. Nella diocesi di Brindisi-Ostuni, tra il 1970 e il 2015, a fronte di una diminuzione della popolazione di circa il 20%, il numero di sacerdoti diocesani è rimasto quasi immutato: erano 135 nel 1970, sono 126 nel 2015. Negli stessi anni, quindi, il numero di fedeli per singolo sacerdote è addirittura diminuito, passando da 1.938 a 1.707 (fonte: http://www.catholic-hierarchy.org). La Chiesa cattolica è insomma, almeno dal punto di vista della presenza del clero, più forte oggi di quanto fosse alla fine degli anni Sessanta. Di segno completamente opposto la tendenza in Francia o in Belgio. Nella diocesi belga di Tournai, 26

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cinque anni il numero di sacerdoti cattolici sul continente europeo è infatti calato del 5,8%. L’America si è mantenuta stazionaria, mentre Asia e Africa sono cresciute ad un ritmo molto accentuato (rispettivamente, +17,4% e +13,3%). Il clero europeo sta arretrando, ma rimane ancora, e di gran lunga, il più consistente. Nel 2015, ben il 43% dei sacerdoti cattolici del mondo era europeo (anche se in calo rispetto al 46,1 di cinque anni prima). In ogni caso, nel nostro continente, il rapporto tra preti e popolazione è ancora incredibilmente elevato, essendo attestato sulla proporzione di un sacerdote per 1.595 abitanti. In Asia, la ratio è di uno a 2.185 abitanti, in Africa e in America Latina di uno a cinquemila abitanti. Negli anni più recenti diminuisce un po’ anche il numero globale di seminaristi, che nel 2015 erano 116.843 contro i 118.990 del 2010. Il «tasso di vocazione» scende, di conseguenza, da 99,5 seminaristi per milione di cattolici nel 2010 a 90,9 nel 2015. Anche in questo caso, i trend regionali sono molto diversi. Le vocazioni diminuiscono sensibilmente, nel solito quinquennio 2010-2015, in America (–8,1) e soprattutto in Europa (–9,7), mentre crescono in Asia e in Africa (+7,7). In Asia ci sono 245,7 seminaristi per un milione di cattolici, in Africa i seminaristi per milione di cattolici sono 130,6. In Europa e in America si scende rispettivamente a 65,0 e a 53,6. Sul numero totale dei seminaristi, gli africani sono passati, in soli cinque anni, dal 22,6 al 24,8%, gli europei sono scesi, nello stesso arco di tempo, dal 17,3 al 15,9%. ad esempio, nel 1969 c’erano 1.331.677 abitanti e 1.165 preti diocesani con una ratio sacerdote-popolazione di 1 a 717. Nel 2014, gli abitanti sono aumentati a 1.328.760 e i preti sono diminuiti a 277 (cioè sono meno del 25% di quelli di 46 anni prima). Malgrado una decisa contrazione del numero dei battezzati che ne abbassa il livello, il rapporto tra prete e fedeli è ora diventato 1 a 2.715: il segno di una vera e propria smobilitazione! Analoga è la situazione francese. Nella diocesi di Troyes, ad esempio, dal 1969 al 2014 il numero di battezzati sull’insieme della popolazione è rimasto abbastanza stabile, passando dal 74,5 al 71,3. Il numero di preti però nello stesso periodo è crollato da 182 a 64. Il rapporto sacerdote-fedeli, che nel 1969 era di 1 a 904, è oggi di 1 a 2.710.

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È infine in grande crescita il numero di diaconi, molto aumentato sia in Europa che soprattutto in America. In cinque anni l’incremento è stato del 10,5% sul continente europeo e di ben 16,2 su quello americano. In totale, dal 2010 al 2015 i diaconi sono aumentati, nel mondo, di quasi il 15%, passando da 39.564 a 45.255 unità. I dati sui preti confermano dunque, accentuandole, le tendenze già evidenti in quelli sui battezzati: Africa e Asia avanzano, Europa e America arrancano e perdono pezzi. Non si può pertanto parlare di una crisi generale nel reclutamento del clero cattolico, ma di difficoltà regionali. Difficoltà che sono peraltro legate all’andamento dei processi di secolarizzazione: il numero di preti diminuisce dove si mettono al mondo pochi bambini e cresce la secolarizzazione e quindi dove di conseguenza diminuisce sensibilmente il bisogno di clero. Per usare un linguaggio aziendale, l’organizzazione contrae la sua struttura (peraltro di dimensioni ancora imponenti) in quei territori dove si stanno anche riducendo le sue quote di mercato e al contrario la espande dove è in aumento la sua popolarità. Questo rende la crisi del clero assai meno drammatica di quanto appaia a prima vista, anche se è ovvio che gli europei e gli americani dovranno, in misura sempre maggiore, rassegnarsi, loro malgrado, a chiudere qualche parrocchia semivuota e senza parroco o, come avviene già oggi in buona misura, ad «importare» clero dal Secondo e dal Terzo Mondo. Su quest’ultimo punto, ricordiamo che nel 2016 i sacerdoti stranieri che svolgevano attività pastorale in Italia erano già 1.045, gli studenti di teologia 64527. Molti di costoro sono africani o vengono dall’Europa orientale (soprattutto dalla Polonia, ma anche dalla Romania e dall’Ucraina). L’importazione di clero straniero è una misura che le diocesi dei paesi europei non accettano volentieri, per motivi intuibili e comprensibili: i sacerdoti stranieri rimangono mol-

  Dossier della rivista «Popoli e Missioni» (febbraio 2016).

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to a lungo estranei al contesto sociale e culturale del nostro continente e spesso manifestano difficoltà di adattamento che nuocciono a loro e all’istituzione. E tuttavia, la loro presenza è provvidenziale per l’organizzazione ecclesiastica, dal momento che consente, insieme ad altre (soppressione di parrocchie, razionalizzazioni nell’impiego dei sacerdoti sul territorio, promozione del lavoro in équipe per i preti), di evitare una riforma dalle conseguenze esplosive e laceranti quale l’abrogazione del celibato obbligatorio. È vero infatti che, come sostengono i riformatori, la norma del celibato obbligatorio28 è meramente disciplinare (non riguarda la dottrina) e quindi potrebbe essere, sulla carta, mutata senza grandi difficoltà, ma è altrettanto indubitabile che essa sia divenuta da secoli, e in misura sempre più stringente, il cardine essenziale, il bastione principale, dell’intera impalcatura ecclesiale. Si tratta infatti di una regola vigente da circa un millennio e da cinquecento anni, e cioè almeno dal Concilio di Trento, molto rafforzata e diventata centrale e inviolabile, ovvero profondamente istituzionalizzata. Per confermarne la validità agli occhi della popolazione e dello stesso clero, la Chiesa cattolica ha compiuto investimenti teo­ logici, normativo-sanzionatori e propagandistici enormi. Se oggi la accantonasse, la Chiesa metterebbe in dubbio la sua stessa riconoscibilità, la sua identità profonda, la sua immagine presso i fedeli e l’opinione pubblica, in definitiva la sua intera storia istituzionale. La Chiesa cattolica è infatti per tutti, credenti e non credenti, quell’organizzazione che, a differenza delle altre chiese cristiane, ha un grande capo romano e preti celibi. Altre differenze dottrinarie saranno certo teologicamente più rilevanti, ma sono quasi del tutto inconsistenti ai fini dell’identità e della riconoscibilità istituzionale del cattolicesimo, dato che attengono a raffinate dispute tra intellettuali e non hanno nessun si-

  Essa non vale solo per i sacerdoti delle chiese cattoliche orientali.

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gnificato per la maggior parte degli abitanti delle nostre società. Per costoro, conta molto di più, nel denotare e identificare la cattolicità di un prete, il fatto che costui sia celibe e molto di meno, per non dire proprio nulla, che cosa egli pensi della transustanziazione, della messa come sacrificio o degli altri grandi nodi teologici che dividono le confessioni cristiane. Insomma, io sono convinto, al pari, credo, dei gerarchi cattolici, che abolire il celibato obbligatorio per i sacerdoti assesterebbe alla Chiesa una scossa talmente profonda da rischiare di far crollare l’intero edificio ecclesiale. Si pensi ad esempio al destino al quale andrebbero incontro i seminari, dai tempi del Concilio di Trento, che li costituì, l’unica istituzione formativa per il clero cattolico: ancora oggi tutti i nuovi preti debbono uscire da lì, non possono seguire percorsi educativi alternativi. I giovani candidati al sacerdozio devono necessariamente trascorrere in seminario sei lunghi anni, di formazione teologica e di addestramento pastorale, per essere poi immessi nelle fila del clero territoriale. È pensabile che quelle istituzioni possano resistere all’impatto dell’abolizione del celibato? Cosa potrebbe succedere al loro interno in conseguenza della modifica della norma? Si dovrebbe evitare di affrontare tutte le questioni che riguardano la vita affettiva e sessuale del futuro clero, si dovrebbe glissare sul tema, rinviando tutto alla mera scelta individuale? Come potrebbero ancora convivere in uno stesso luogo seminaristi fidanzati o sposati e seminaristi single destinati al celibato? E come la si metterebbe con la questione dell’omosessualità? E, da ultimo, come si giustificherebbe la conduzione, per sei anni, di una vita segregata in un ambiente solo maschile? Il problema è che, se si dovesse percorrere la via del celibato solo opzionale, si dovrebbe ammettere che quella del prete non è più una vocazione che impegna la vita intera nella fedeltà integrale all’istituzione e al servizio dei fedeli. Non solo: si dovrebbe anche riconoscere che una parte rilevante della vita dei preti non è, come è avvenuto sino ad oggi, almeno dalla Controriforma in poi, modellata dall’organizzazione 71­­­­

secondo parametri molto rigidi, ma dipende dalle scelte di ogni singolo futuro sacerdote, dalle convinzioni intime che egli si formerebbe sulla propria futura vita sessuale e affettiva e sulla sua vocazione al matrimonio. Detto in altri termini, l’organizzazione sarebbe costretta a garantire uno spazio alla libertà di coscienza dei singoli seminaristi. Una cosa certo possibile sulla carta, ma che demolirebbe radicalmente l’impianto, il profilo culturale, spirituale e politico dell’organizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi secoli. I riformatori non sono spaventati da queste domande perché sono convinti che la Chiesa possa uscire dallo smantellamento totale dell’impianto tridentino non solo indenne, ma rimodernata e rafforzata. Per loro, una lunghissima fase storica contrassegnata da un fortissimo clericalismo, che va dalla riforma gregoriana all’antimodernismo novecentesco, può essere considerata poco più di una parentesi, che può essere serenamente chiusa per fare ritorno al cristianesimo dei primi secoli, alla collegialità sinodale e democratica delle origini. Una collegialità che, come ho precisato nel primo capitolo, dovrebbe anche ridimensionare potentemente il ruolo del pontefice, ridotto a poco più del vescovo di Roma, ad una sorta di primus inter pares (detto per inciso, fa sorridere pensare che tra le fila di costoro si trovino così tante vittime del «culto della personalità» del papa argentino, al cui primato monarchico affiderebbero, se potessero, le chiavi del mondo!). Nell’immaginazione dei progressisti, l’evento spartiacque è stato il Concilio Vaticano II, che ha impresso una svolta che ora va solo implementata e portata a termine. Le difficoltà, gli ostacoli, gli arretramenti e le reazioni sul cammino di applicazione dei principi conciliari sono visti come momenti di passaggio, come tappe interlocutorie, su un cammino di riforma glorioso già ampiamente tracciato. Esattamente come avvenne, ribadiscono i riformatori, nel caso delle decisioni del Concilio di Trento, che richiesero molti decenni per essere applicate sino in fondo. Quel che queste analisi sottovalutano – vi abbiamo già 72­­­­

fatto cenno – sono le enormi differenze di contesto tra il Cinquecento e la seconda metà del Novecento, la prima e più rilevante delle quali consiste nella velocità con la quale quel clima culturale irenico, progressista e ottimista dei primi anni Sessanta si è completamente dissolto, lasciando il campo ad una secolarizzazione implacabile del mondo occidentale, al ritorno dei fondamentalismi e dei populismi, alla fine di tutte le grandi narrazioni, compresa quella del trionfo della modernità. Come ha sostenuto Peter Berger29 qualche anno fa, nel nostro tempo «Sono i movimenti conservatori o ortodossi a crescere quasi ovunque sulla scena religiosa internazionale. Sono esattamente questi i gruppi che rifiutano quell’aggiornamento alla modernità che tanto piace agli intellettuali progressisti. Al contrario, le istituzioni e i movimenti religiosi che hanno compiuto gli sforzi maggiori per adattarsi alla modernità sono quasi ovunque in declino». In questo nuovo scenario, dunque, le religioni tornano alla ribalta e fioriscono, in modo diciamo «parassitario», sulle difficoltà del mondo secolarizzato, ovvero laddove la modernità arretra, tradisce o fallisce. In un contesto come questo, nessuna alleanza tra religione e mondo sembra più intrecciabile30. Il paragone con i secoli passati non regge, del resto, da ogni altro punto di vista: che la Chiesa possa ritornare ad assumere la forma organizzativa dei suoi primi secoli di vita è un evento realistico tanto quanto il ritorno all’uso dell’aratro in agricoltura o della biga come ordinario mezzo di trasporto. Quello che i riformatori dovrebbero spiegare, al di là delle astrattezze e delle astuzie teologiche un tantino grossolane e totalmente prive di qualità predittive (quelle implicite in ragionamenti del tipo «se la Chiesa è cambiata una volta, secoli orsono, può cambiare anche oggi»), è come concretamente un simile straordinario movimento all’indietro di quasi duemila anni potrebbe mai avvenire.   Berger (1999, 6). Roy (2009).

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Ad ogni modo, il resto della Chiesa, non necessariamente i reazionari, ma anche i preti e i vescovi «medi», il ventre molle dell’istituzione, l’amplissima zona grigia dei burocrati ordinari, a differenza dei riformatori, sa molto bene che, se la struttura tridentino-ottocentesca basata sul primato del clero maschile celibe e sulla centralità assoluta del pontefice romano dovesse crollare, ad essere abbattuta sarebbe la stessa Chiesa cattolica, dal momento che essa sarebbe divenuta largamente indistinguibile da quelle chiese protestanti che nei primi secoli del cristianesimo vagheggiati dai riformatori non esistevano, ma che oggi apparirebbero inequivocabilmente anticipatrici di una tendenza generale comune a tutta la cristianità. Lo ribadiamo: quella del celibato obbligatorio per preti maschi è la regola di ingaggio fondamentale per il clero cattolico ed è anche la norma alla base del peculiare patto di ferro che la Chiesa stipula con i suoi funzionari, con le sue truppe scelte: da un canto, l’organizzazione assiste, tutela, mantiene e protegge, in caso di difficoltà, i suoi membri, dall’altro, essa richiede obbedienza assoluta, dedizione totale e fedeltà eterna. Un prete può violare, anche in modo clamoroso, la regola della castità, «vivere nel peccato», rialzarsi e ricadere mille e mille volte e sarà ogni volta perdonato, assolto e reintegrato. Quel che non può fare, pretendendo di godere ancora del sostegno dell’organizzazione, è di abbandonare la veste, di riconoscere pubblicamente un suo legame sentimentale, di ammettere una paternità. Anche se questo rispondesse a un desiderio di autenticità e di sincerità profonde. Non può farlo sperando che l’organizzazione lo comprenda e lo aiuti, dal momento che in quel modo egli è venuto meno al patto di fedeltà che lo legava in maniera esclusiva e primaria alla Chiesa, perché ha dato mostra di possedere un altro codice morale, diverso da quello dell’affetto per la disciplina, per il segreto di ufficio e per il decoro dell’istituzione. In altri termini, l’organizzazione conferisce ai suoi funzionari tutto il suo prestigio, ma costoro in cambio devono accettare di diventare dei simboli, di esibire almeno in pub74­­­­

blico un comportamento che confermi che sono oggetti sacri, creature pure, una via di mezzo tra gli uomini e Gesù Cristo, al quale devono pretendere di assomigliare. Se loro si sacralizzano, sacra e strumento privilegiato dei disegni divini diviene di conseguenza anche l’organizzazione alla quale appartengono. L’abolizione dell’obbligo del celibato farebbe poi emergere in tutta la sua gigantesca ampiezza il problema della presenza, nei ranghi del clero, di un altissimo numero di omosessuali. Oggi, costoro sono, almeno in superficie, mescolati con e assimilati agli eterosessuali, tutti accomunati, almeno nello spazio pubblico, dal medesimo orientamento verso la sessualità, e cioè dalla castità assoluta, dalla completa astinenza sessuale e dall’appartenenza, agli occhi della gran maggioranza dei fedeli, ma anche di coloro che non frequentano le parrocchie e li conoscono solo superficialmente, ad una sorta di terzo genere rispetto agli uomini e alle donne «normali». I preti recitano la parte di creature asessuate considerate straordinariamente capaci, e in questo consiste in definitiva il nucleo essenziale della loro «vocazione», di reprimere, con immensa fatica, ogni desiderio, ogni bramosia erotica e affettiva, divenendo così eroi, superuomini semidivini, creature intermedie tra il cielo e la terra, nunzi e simboli dell’ultramondano, anticipazioni viventi della vita ultraterrena. E questo è ancora più vero in regioni del mondo, come l’Africa, nelle quali le violazioni della regola della castità sono molto frequenti: lì né i preti né tantomeno i fedeli desiderano una Chiesa con i preti sposati. I fedeli non vogliono rinunciare al simbolo incarnato della purezza (e per questo sono pronti a condannare chi lo viola); i preti non sono certo ansiosi di perdere la fonte principale del loro status e del loro prestigio sociale e quando hanno delle relazioni amorose o dei figli si premurano di tenerli ben nascosti e lontani dalla vista dei propri parrocchiani.

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L’irresistibile avanzata della secolarizzazione Ammettiamo per un attimo che gli argomenti sopra esposti non valgano più e che di fronte alla crisi del clero europeo, così come ad altre «questioni calde» sul tappeto, si pensi di agire per il tramite di quel sistema federale, decentrato e di autonomie locali che, come abbiamo visto nel primo capitolo, tanti riformatori vagheggiano come conseguenza delle riforme della governance cattolica. È certo che un modello di governo decentrato che riconoscesse una maggiore autonomia alle singole nazioni o alle regioni continentali consentirebbe, con più facilità, di varare riforme «locali», particolarmente adatte alle specifiche situazioni nelle quali la Chiesa è chiamata ad operare. Così, ad esempio, il celibato obbligatorio potrebbe essere abolito solo in quelle regioni, prima tra tutte l’Europa, dove la crisi di reclutamento del clero è più accentuata e invece mantenuto in altre dove la situazione non è problematica. Lo stesso potrebbe avvenire per le donne, che potrebbero ricevere incarichi e spettanze in quelle società dove l’emancipazione femminile ha fatto maggiori progressi. E così via. Ma cosa succederebbe se si andasse davvero in questa direzione? Sarebbe in grado la Chiesa cattolica di arrestare la marcia della secolarizzazione, di aumentare i propri effettivi e i propri mezzi, di porre termine alla sua «crisi europea»? Quale sarebbe il gradimento popolare per una Chiesa riformata? Quante persone tra quelle che l’hanno abbandonata tornerebbero a frequentare la Chiesa cattolica se essa imboccasse un cammino di riforma? E di converso quanti se ne allontanerebbero? Quanti di quei «cristiani senza Chiesa» in aumento esponenziale nelle nostre società negli ultimi anni sarebbero disposti a riavvicinarsi ad una Chiesa rinnovata, a ripopolare canoniche ed oratori? Sono domande ineludibili, dal momento che sarebbe molto complicato far passare una riforma senza dimostrare che essa permetterebbe, una volta approvata, di conseguire dei 76­­­­

migliori risultati organizzativi, di elevare le performance e le risorse a disposizione dell’istituzione. La possibilità di rispondere a queste domande ci proviene dall’osservazione sociologica complessiva della situazione europea e dalla comparazione dello stato del cattolicesimo con quello di altre confessioni cristiane che hanno operato scelte molto simili a quelle che auspicano i riformatori cattolici. I risultati non lasciano molto spazio all’immaginazione. Iniziamo da un paese dove lo schieramento riformatore cattolico è forte e dove è presente una maggioranza protestante: la Germania31. Nella vecchia Germania Ovest, dove l’affiliazione religiosa era facilmente e oggettivamente identificabile come lo è nell’attuale Germania unita, in soli nove anni, tra il 1980 e il 1989, il numero complessivo di cristiani, cattolici e protestanti, è sceso del 6%, dal 90 all’84%. Nella Germania unificata del 1991, la percentuale di cristiani è discesa fino al 72% (anche per effetto dell’altissimo livello di secolarizzazione nell’ex Repubblica Democratica). Il numero è ulteriormente e drammaticamente calato al 62% nel 2005, solo in minima parte per effetto dell’aumento della popolazione musulmana (4%) o Hindu (0,1%). Quindi, in 25 anni, dal 1980 al 2005, un numero enorme di persone, quasi otto milioni, ha abbandonato le chiese cattolica e protestante. Il «tasso di declino» è stato praticamente identico tra le due chiese. Un calo anche più severo ha riguardato il numero dei praticanti, attestato, un decennio orsono, al 5% tra i protestanti e al 13% tra i cattolici. «Dunque, mentre un numero crescente di persone lasciava le chiese, la percentuale di praticanti tra coloro che non le hanno (ancora) lasciate non è cresciuta ma è drammaticamente diminuita. Le chiese non sono state in grado di trasformare il ridimensionamento quantitativo in un miglioramento qualitativo della loro base. Guardati assieme, questi dati dimostrano chiaramente

  Wolf (2008).

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un terrificante declino della religiosità di chiesa tradizionale in Germania»32. E le dimensioni della frana sono destinate ad aumentare, se solo si osserva che, come avviene d’altronde ovunque in Europa, ogni nuova coorte anagrafica, ogni nuova generazione è meno religiosa di quella che l’ha preceduta e l’irreligiosità si diffonde a destra come a sinistra, tra i conservatori così come tra i progressisti. Insomma, nel più popolato ed importante paese europeo, l’appartenenza alle chiese tradizionali è destinata a riguardare un numero sempre meno cospicuo di persone anziane e allo spaventoso declino della religiosità tradizionale non corrisponde nemmeno l’avanzata di forme, alternative, più individualizzate, di religiosità. Al cristianesimo che scompare fa seguito il vuoto spirituale, la morte di Dio. La situazione è ancora più seria, per la religiosità, nel paese la cui Chiesa dominante, quella anglicana, ha fatto le riforme più profonde33, e cioè il Regno Unito. La secolarizzazione britannica ha radici antiche poiché inizia già al principio del secolo scorso e il declino è stato talmente profondo da indurre qualcuno a parlare della Gran Bretagna come di un «paese post-cristiano», nel quale i membri della comunità cristiana non rappresentano ormai che una minoranza accanto alle altre. L’indice di appartenenza alla Chiesa è crollato del 64% dal 1900 al 2010; i praticanti settimanali sono scesi dal 57% del 1851 al 10% del 2012, due terzi dei britannici non hanno mai messo piede in una chiesa. I frequentanti residui sono in larga maggioranza abitanti delle periferie rurali, soprattutto donne e anziani: gli over 65 sono meno di un quinto della popolazione britannica, ma rappresentano quasi un terzo dei praticanti regolari. L’unica forma di protestantesimo in ascesa nel Regno Unito è rappresentato dalle chiese pentecostali, quasi totalmente frequentate da immigrati africani. Le chiese non solo si svuotano, ma vedono sistematicamente sfidata an  Wolf (2008, 114).   Wilkins-Laflamme (2016a).

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che la loro reputazione: esse sono state sconfitte, nell’ultimo secolo, in tutti i grandi conflitti politico-civili all’interno del Regno Unito: da quello sul lavoro femminile fuori di casa, al divorzio, all’aborto, alla legalizzazione dell’omosessualità, al riconoscimento delle unioni civili, al matrimonio gay, alla liberalizzazione del commercio domenicale e alla vendita di alcolici. Anche la popolarità delle nuove religioni e della spiritualità è in realtà molto circoscritta e limitata all’1% della popolazione britannica. La diffusione dell’analfabetismo religioso va di pari passo con l’allontanamento dalle chiese: più della metà dei 1.000 bambini tra i 5 e 12 anni di età che hanno risposto ad un questionario su questi argomenti nel 2014 ha dichiarato che a Natale si festeggia il compleanno di Babbo Natale e non la nascita di Gesù34. Ha risposto in modo analogo il 12% dei londinesi adulti, mentre una percentuale elevata di giovani tra i 18 e i 34 anni ha sostenuto che l’albero di Natale si trova tra le pagine della Bibbia. Alla maggior parte degli abitanti del Regno Unito, i conflitti all’interno della Chiesa anglicana sono sembrati semplicemente incomprensibili. L’ordinazione delle donne o degli omosessuali è apparsa all’opinione pubblica britannica, soprattutto a quella giovanile, come nulla più di un atto doveroso e scontato, un adeguamento ad una cultura dei diritti che nella Chiesa di Inghilterra si è affermata con decenni di ritardo rispetto al resto della società. La Chiesa cattolica è assurta all’onore delle cronache soprattutto per alcuni scandalosi episodi di pedofilia. Se si mettono a confronto i dati delle rilevazioni IPSOS Mori del 1983 e del 2013 si costata che la fiducia nel clero è crollata nella popolazione britannica, in trent’anni, di più del 20% (di contro ad una sostanziale tenuta di quella di insegnanti, medici, giudici e scienziati e dell’ascesa di quella di imprenditori, funzionari pubblici e sindacalisti). In conclusione, quella delle persone religiose in Gran Bre-

  Field (2014).

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tagna è diventata una piccola minoranza, relativamente isolata dal punto di vista sociale e culturale dal resto del paese. Un quadro analogo emerge dal confronto dei trend di secolarizzazione tra il 1985 e il 2012 tra i cattolici e i protestanti di tre Stati occidentali: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada35. La disaffezione verso la chiesa è cresciuta molto più rapidamente tra i protestanti che tra i cattolici in tutte e tre le realtà, cioè il cattolicesimo ha tenuto di più e meglio (anche, bisogna precisarlo, grazie all’immigrazione). In meno di trent’anni, negli Stati Uniti i protestanti sono calati del 20%, contro un –8,7 dei cattolici; in Gran Bretagna hanno fatto ancora peggio, scendendo del 28,8% contro un –17,9 dei cattolici; in Canada la discesa è stata del 20%, contro il 15% dei cattolici. In definitiva, i protestanti che, prima dei cattolici e addirittura già nell’Ottocento, hanno iniziato a sperimentare tassi altissimi di secolarizzazione e di distacco dalle chiese sono oggi in una crisi ancora più profonda, nella quale la performance peggiore è proprio quella ottenuta dalle chiese progressiste36. Se c’è infatti un protestantesimo che tiene è quello delle chiese evangeliche e pentecostali, e cioè il più conservatore e fondamentalista, quello antiabortista e omofobico, nel complesso molto più a destra della Chiesa di Roma e lontanissimo dal modello sognato dai riformatori cattolici. Un’ulteriore conferma della forza montante della secolarizzazione viene dall’analisi ravvicinata del caso americano. Gli Stati Uniti rappresentano da sempre la spina nel fianco di coloro che sono convinti che quella della secolarizzazione sia una strada inevitabile per l’Occidente e di converso l’argomento principale di chi sostiene che il declino della religiosità non è ineluttabile nella modernità. Come spiegare la persistenza, in un paese così sviluppato economicamente e socialmente, di un elevato livello di religiosità, di un così grande affetto per le chiese e il cristianesimo? La religione   Wilkins-Laflamme (2016b).   Naso (2016).

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non dovrebbe scomparire progressivamente con l’avanzare del progresso economico e sociale? Queste sono le domande che hanno per tanti anni turbato i sonni di chi credeva nel progresso ineluttabile della secolarizzazione. Ebbene, un saggio recente pubblicato sull’autorevolissimo «American Journal of Sociology» a firma di David Voas e Mark Chaves37 ci rende noto che l’America non rappresenta più un’eccezione e che anche nel paese più grande e potente dell’Occidente cristiano la secolarizzazione, pur essendo iniziata più tardi e pur procedendo ad un ritmo leggermente meno accelerato che altrove, avanza come in tutto il resto del mondo più sviluppato. Il numero di americani che dichiara di essere privo di un’appartenenza religiosa è infatti cresciuto di sette volte tra la fine degli anni Cinquanta e il 2012, passando dal 3 al 20%. Allo stesso modo, è diminuita la partecipazione alla messa domenicale e aumentato in modo notevolissimo, in meno di tre decenni, passando dal 13% del 1990 al 26 del 2014, il numero di persone che non mette mai piede in chiesa nel corso dell’anno. È cresciuto anche, in modo rilevante, il numero di persone che ha perso interesse per le regioni tradizionali, acquisendolo per forme più o meno generiche e sincretiche di spiritualità. Ad essere sempre più secolarizzate da ogni punto di vista (sentimento di appartenenza, partecipazione ai riti, sistema di credenze) sono, in modo compatto, e cioè con poche differenze di genere e di etnia, tutte le giovani generazioni dell’ultimo mezzo secolo, a partire dai baby boomers. Insomma, la religione è una cosa sempre più per anziani anche in America: nel 2014, solo il 14% dei giovani adulti statunitensi (contro il 68% degli ultrasessantacinquenni) dichiarava di non aver dubbi sull’esistenza di Dio. L’avanzata della secolarizzazione nelle giovani generazioni è praticamente identica, assolutamente omogenea, in tutta Europa38. La crescita dell’irreligiosità è la medesima nei paesi   Voas e Chaves (2016).   A questa conclusione è giunto il sociologo inglese David Voas (2008)

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protestanti e in quelli cattolici, dal Baltico al Mediterraneo. Nei paesi cattolici, il progredire della secolarizzazione è più evidente solo perché più alto era il livello di religiosità precedente; nei paesi protestanti, il numero dei credenti si era già fortemente assottigliato nel passato e quindi appare oggi abbastanza stabilizzato intorno ad una soglia minima. Si tratta in ogni caso di un declino strutturale, dal momento che le coorti di giovani lontani dalla religione non sono destinate a diventare più religiose con l’età. La religione è destinata a rimanere irrilevante per tutto il corso della loro vita. Ma non è tutto. C’è un altro elemento interessante nell’analisi di questi dati e riguarda l’emergere di quello che potremmo definire un «legame tenue» con la religione. Si tratta di un fenomeno che riguarda coloro (in Italia vengono chiamati spesso «cattolici non praticanti») che, ad esempio, continuano a recarsi in chiesa per la celebrazione dei riti di passaggio (funerali e matrimoni), battezzano i figli, partecipano di tanto in tanto ad una processione, esibiscono qualche vago legame con la tradizione religiosa, vanno in chiesa una tantum, ad esempio a Pasqua o a Natale. Costoro si dichiarano convinti che «esista qualcosa lassù in cielo», che la vita non finisca con la morte terrena, anche se hanno spesso le idee abbastanza confuse su molti argomenti religiosi e, in qualche caso, pur dichiarandosi cristiani, sono più persuasi dall’idea buddista di reincarnazione che da quella di resurrezione. Voas39 ha definito il loro sistema di credenze «fuzzy»: confuso, vago, tenue. Esso sembra essere il risultato dell’assemblaggio, più o meno creativo e coerente, di elementi culturali decisamente eterogenei: vi si trovano certamente tracce di una formazione cristiana, ma mescolate con elementi provenienti dalle religioni orientali e anche dal pensiero magico, dalle nuove e dalle antiche superstizioni, dalla scaramanzia agli oroscopi, dai sortilegi ai fantasmi, dai sistemi lavorando su una consistente massa di dati estratti dalla European Social Survey. 39   Voas (2008).

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di energia allo yoga, dall’aromaterapia al reiki. Insomma, ciò che è sicuro per tutti costoro è che la vita non si esaurisce nella materia visibile, ma non è molto chiaro in cosa consista il mondo incantato, il soprannaturale, quali siano le forze che occupano lo spazio invisibile che alloggia sopra le nostre teste di poveri mortali e se il Dio in cui credere sia quello trinitario cristiano o piuttosto «una grande energia» o uno «spirito collettivo» o «qualcosa che sta lassù». La confusione nasce probabilmente dal fatto che questo ampio gruppo di persone assegna alla religione un ruolo estremamente marginale nella propria esistenza ed è in cerca più di un mondanissimo «benessere» fisico e psicologico «qui ed ora» che di un sollievo propriamente spirituale ed escatologico. In questo contesto, il definirsi cristiani assomiglia al rivendicare le lontane origini italiane per un italoamericano di terza generazione: un’appena accennata sfumatura identitaria talmente esile da non possedere molte chance di essere trasmessa alla generazione successiva. «Molti europei sono ancora in grado di indicare il loro background religioso nello stesso modo in cui nominano il loro luogo di nascita, l’occupazione del padre, e la scuola secondaria che hanno frequentato, ma non è assolutamente chiaro se e quanto queste cose siano rilevanti per capire come costoro si percepiscono o come sono percepiti dagli altri»40. La «religiosità confusa», e qui viene l’elemento davvero originale dell’analisi, non è tuttavia destinata a rimanere stabile nel tempo, ma sembra piuttosto una stazione intermedia sulla strada della completa indifferenza religiosa, dell’ateismo e dell’agnosticismo; insomma, uno stadio nel quale la religiosità si attenua e si confonde prima di sparire del tutto. «La ‘fede confusa’ non è una nuova forma di religiosità, o il surrogato per un’ancora indeterminata ricerca spirituale; essa è piuttosto una tappa intermedia sulla strada che dalla religione porta all’egemonia del secolarismo»41.   Voas (2008, 162).   Voas (2008, 167).

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Le conclusioni alle quali è giunto Voas, e cioè il progressivo venir meno, a vantaggio dell’indifferenza e dell’ateismoagnosticismo, delle appartenenze «tenui», «deboli», solo nominali alle confessioni religiose, sono confermate da altri importanti studi sociologici42, che attestano l’esistenza, soprattutto nelle società da più tempo secolarizzate, di una sempre più marcata polarizzazione, cioè di una divisione sempre più netta tra un’ampia maggioranza di persone quasi del tutto indifferenti alla sfera spirituale e prive di un’affiliazione religiosa di qualsiasi genere e una ridotta minoranza di persone religiose attivamente praticanti e impegnate. Si tratta di una divisione profonda, che influenza molte altre sfere della vita quotidiana: da quella delle preferenze elettorali43 a quella delle scelte educative, dall’impegno nel volontariato44 alle decisioni matrimoniali, eccetera. Le cause di questo fenomeno risiedono, almeno in parte, nella crescente separazione tra Chiesa e Stati, ovvero nella neutralità delle autorità politiche riguardo alle scelte religiose dei cittadini. In questo scenario, l’avanzata della secolarizzazione e la ripresa della religione nella sfera pubblica non sarebbero affatto fenomeni incompatibili, dal momento che quest’ultima sarebbe appannaggio di piccole ma intense minoranze religiose, molto più attive sulla scena politica rispetto alle grandi maggioranze inerti del passato. La polarizzazione sarebbe anche favorita e rafforzata, come hanno sostenuto alcuni, dall’ininterrotta successione di campagne di mobilitazione dei due versanti, religioso ed irreligioso, sui fronti etico-politici più sensibili, ad esempio, rispettivamente, contro e a favore dei diritti delle coppie omosessuali, o contro e a favore della legalizzazione dell’aborto, e così via. Come effetto delle campagne, le posizioni si farebbero sempre più nette e radi  Primi tra tutti Putnam e Campbell (2010), ma si veda anche Achterberg et al. (2009) e Olson e Beckworth (2011). 43   Evans e de Graaf (2013). 44   Lim e MacGregor (2012). 42

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cali, svuotando la zona grigia dell’appartenenza debole, dei cristiani nominali, dei credenti non praticanti. Il quadro che emerge da tutte queste ricerche è dunque piuttosto nitido e ci suggerisce due considerazioni utilissime per comprendere l’eventuale trasformazione della Chiesa cattolica. La prima è che la secolarizzazione procede in Occidente, nelle zone più ricche del pianeta, a grandi passi, a ritmo sostenutissimo. I cittadini occidentali si distaccano in misura sempre crescente dalle loro chiese, indipendentemente dal fatto che queste si siano o meno riformate, che abbiano o meno le donne preti o vescovi, che riconoscano i matrimoni tra persone dello stesso sesso, che tollerino l’eutanasia o che approvino la contraccezione, che siano conservatrici o progressiste. La secolarizzazione agisce come una livella che indebolisce tutte le confessioni religiose, tutte le chiese tradizionali, anche se in misura diversa e con intensità variabile. Riformarsi, da questo punto di vista, non serve a nulla; non evita la necessità, comune a tutte le istituzioni religiose, di dover navigare in acque assai mosse. Ma c’è una seconda conclusione che si può ricavare dai dati di ricerca che ho presentato: ovvero che, in società molto polarizzate, dove le persone religiose hanno valori, orientamenti, comportamenti, attitudini sempre più diversi da quelli dei non religiosi, l’assimilazione, l’avvicinamento, l’omologazione ai valori dell’altra componente è una strategia perdente, che non solo non fa conquistare nuovi proseliti (per via della secolarizzazione e dell’allontanamento generalizzato da tutte le chiese), ma che fa anche perdere i propri aderenti più conservatori, delusi da una Chiesa che tradisce i suoi valori tradizionali. In altri termini, se i cittadini delle società occidentali e secolarizzate si polarizzano intorno alle questioni della religiosità, alle istituzioni religiose conviene restar ferme sulle proprie posizioni più reazionarie, enfatizzare la propria diversità e l’estraneità al resto della società che le circonda. In questo modo, non riuscendo comunque a conquistare territori sociali nuovi, esse mantengono viva una fisionomia 85­­­­

culturale e spirituale che rafforza gli elementi distintivi della loro identità e per questa via consente di sopravvivere e prosperare, anche se solo nel ghetto sociale e culturale nel quale secolarizzazione e polarizzazione l’hanno confinata. Insomma, il futuro della religione sembra coincidere con quello di una crescente «settarizzazione», di un progressivo e netto ridimensionamento e distanziamento delle persone religiose dal resto della società. Difensori di norme e valori sempre più isolati e anomali rispetto a quelli più diffusi, le chiese sopravvivono meglio se danno risalto alla loro irriducibile diversità con il mondo moderno, se ne denunciano con forza le perversioni e le crisi. Questo vale anche per il cattolicesimo. D’altronde, un’immaginaria Chiesa cattolica federata nella quale le riforme venissero realizzate solo nel Nord del mondo farebbe pagare i costi dei cambiamenti anche alle sue diramazioni nel Sud del pianeta, giacché i cattolici africani e asiatici certo non gradirebbero essere parte di un’istituzione che altrove riconosce la legittimità dell’omosessualità o che fa preti le donne. Un pegno da pagare molto alto, visto che, in ragione dei volumi di crescita demografica e dell’assenza di secolarizzazione, Africa e Asia sono destinate a divenire continenti sempre più importanti e influenti. A questo proposito, Paolo Naso45 ci ha rammentato che nel 1910 il 66% dei cristiani viveva in Europa e che cento anni dopo essi sono solo il 26%. Il cristianesimo americano è passato dal 27,1 al 36,8%; quello africano dall’1,4 al 23, quello asiatico dal 4,5 al 13,1. Ci sono ormai più cristiani in Congo che in Germania. In una prospettiva futura, Africa e Asia avranno il 50% dei cristiani, l’Europa solo il 16. Tra i cattolici il trend è analogo: i primi tre paesi cattolici del mondo per numero di fedeli, ricorda ancora Naso, sono il Brasile, il Messico e le Filippine. E Jenkins ha stimato al   Paolo Naso (in «Limes», 3, 2014) analizzando i dati del Pew Research Center. 45

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75% la percentuale di cattolici che vivrà nel Sud del mondo nel 202546. È vero che quelle del Terzo Mondo rimangono chiese deboli dal punto di vista finanziario e del potere, ma sarà difficile ignorarne del tutto i desideri, o peggio calpestarli, dato che rappresentano, sotto ogni profilo – anche quello demografico, viste le impressionanti previsioni di crescita dei loro paesi –, il futuro del cristianesimo. Del resto, se ci sono pressioni al cambiamento in Africa, sono in una direzione esattamente opposta rispetto a quella auspicata dai riformatori europei. Per ottenere un maggior radicamento nella realtà locale, il cattolicesimo africano vorrebbe inseguire le chiese pentecostali ed indipendenti sul terreno dell’entusiasmo liturgico, delle profezie, dell’esorcismo, della trance, eccetera. Per poter meglio rispondere alla sfida «dell’altro cristianesimo», il cattolicesimo africano dovrebbe diventare più magico, più esoterico, più in grado di incorporare elementi delle tradizioni locali premoderne47. E accentuare tutte le caratteristiche meno compatibili con la secolarizzazione: l’omofobia, il maschilismo, la prossimità con la stregoneria. Già oggi i vescovi africani sono quelli che più frenano ogni apertura, ogni anche timida riforma nella Chiesa cattolica. È   Jenkins (2008).   Scrive un importante missionario come Giulio Albanese (2014): «Se il processo di incarnazione del vangelo all’interno di una cultura si realizzava con l’annuncio e la testimonianza dei missionari, la matrice culturale di cui essi erano depositari finiva per rivelarsi spesso impositiva, inficiando negativamente l’evangelizzazione stessa oppure riducendola ai suoi meri aspetti esteriori. Di qui la gran messe di fenomeni scismatici, soprattutto nel continente africano a partire dall’ambito delle grandi chiese protestanti (luterana, calvinista e metodista) e quindi nella stessa Chiesa cattolica, causati da veri e propri deficit di inculturazione. Ne hanno fatto le spese, ad esempio, la simbologia cattolica importata presso le culture nilotiche e la venerazione dei defunti fra quelle dell’africa subsahariana che hanno evidenziato tutti i limiti di una missione condotta sull’onda dell’aritmetica e non della qualità della fede. Proprio le culture africane, almeno sino al Concilio Vaticano II erano percepite come l’espressione di un paganesimo aberrante, legato alla magia e alla superstizione, e dunque da mondare». 46 47

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pensabile che la Chiesa possa mortificare, con decisioni che vanno in direzione politicamente contraria, il suo bacino di fedeli più promettente, la sua regione più florida, quella che produce più battezzati, più clero, al punto da riuscire persino ad esportarne in buon numero? Non sarebbe una follia, un salto nel buio, un gesto scriteriato bello e buono? È quello che devono aver pensato molti gerarchi cattolici quando hanno visto i primi atti di governo di Jorge Mario Bergoglio come papa. Quelli successivi li hanno rassicurati: per loro fortuna, Bergoglio non è un riformatore. Un incubo concreto per il cattolicesimo riformato: la comunione anglicana Chi volesse avere una rappresentazione plastica, una sorta di simulazione, di quello che sarebbe la Chiesa cattolica riformata nella direzione auspicata da molti progressisti non deve fare troppa fatica; è sufficiente infatti rivolgere lo sguardo a quel che succede nella Chiesa anglicana48. La comunione anglicana annovera all’incirca ottanta milioni di battezzati ed è articolata in un network di quarantaquattro chiese divise in trentaquattro province e in sei chiese extraprovinciali. La Chiesa d’Inghilterra è quella che può contare sul maggior numero di battezzati, ma è quella nigeriana a vantare ormai il maggior numero di praticanti (e anche quella ugandese ha probabilmente superato, per numero di praticanti regolari, quella inglese). L’arcivescovo di Canterbury ricopre ufficialmente il ruolo di «coordinatore» dell’intera comunione, ma in realtà non può prendere decisioni vincolanti che valgano per province diverse dalla sua. Ciononostante, il suo ruolo è stato in questi anni continuamente messo in discussione. In realtà, tutte le strutture uni-

  Hasset (2009), Sacks (2009), Vanderbeck, Sadgrove, Valentine, Andersson e Ward (2015). 48

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tarie sono sotto attacco e tra il Nord e il Sud volano accuse di tutti i tipi, soprattutto quella di colonialismo. A dilaniare l’organizzazione, provocando estenuanti dibattiti e sofferte lacerazioni, in questi ultimi due decenni è stato soprattutto il confronto sull’omosessualità. La contrapposizione è giunta ad un punto talmente elevato che una parte dei gruppi nordamericani più conservatori ha deciso, per dissociarsi radicalmente dall’orientamento liberal di molti correligionari connazionali, di chiedere l’adesione ad una delle chiese superconservatrici dell’Africa, portando in dono una notevole quantità di finanziamenti e di risorse, materiali e non. I primati africani hanno così provveduto a nominare nuovi vescovi per quei lontani territori nordamericani, col risultato che ora, in molte regioni, esistono due vescovi della stessa comunione, uno di tendenza progressista e l’altro conservatore. In vista della conferenza di Lambeth (il decennale grande appuntamento unitario dell’anglicanesimo, presieduto dall’arcivescovo di Canterbury, al quale dovrebbero partecipare tutte le chiese e le province sparse per il mondo) del 2008, un folto gruppo di anglicani conservatori (provenienti, oltre che dagli Stati Uniti e dalla diocesi australiana di Sydney, dalle province della Nigeria, del Kenya, del Ruanda, dell’Africa Occidentale e del Cono Sud) ha deciso di convenire a Gerusalemme in una sorta di conferenza alternativa a quella unitaria, con il chiaro intento di boicottare quest’ultima o perlomeno di ribadire il proprio dissenso dalle sue probabili determinazioni finali. Al termine dei lavori, i delegati hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta nella quale hanno ribadito, da un lato, la loro netta contrarietà all’omosessualità e il riconoscimento del matrimonio eterosessuale come l’unico contesto nel quale è legittima un’attività sessuale, dall’altro, di voler dare una casa all’anglicanesimo reazionario costituendo la GAFCON, ovvero la Global Anglican Future Conference. Nei mesi successivi, alcuni dei partecipanti al meeting di Gerusalemme hanno fondato, col fine di accogliervi i fuoriusciti dalle chiese anglicane liberal statunitense 89­­­­

e canadese, l’ACNA (l’Anglican Church of North America). Una delle caratteristiche di quest’ultima organizzazione è di consentire, ai suoi affiliati, di mantenere anche l’appartenenza alla Chiesa anglicana. Da parte sua, Canterbury, e cioè il centro dell’anglicanesimo o quel che ne rimane, non ha ancora preso una decisione sull’opportunità di riconoscere l’ACNA come parte della comunione anglicana. In questa situazione incredibilmente confusa, nella quale la frammentazione, la contrapposizione e il conflitto regnano sovrani, si producono casi come quello della diocesi di Forth Worth nel Texas (USA), che ha deciso di chiedere l’affiliazione alla neocostituita ACNA, ribadendo però allo stesso tempo la sua appartenenza alla Chiesa anglicana, ma non alla provincia geografica anglicana della quale farebbe parte secondo il criterio rigorosamente territoriale previsto da Canterbury, bensì a quella sudamericana e molto conservatrice del Cono Sud. Tutti i tentativi dell’arcivescovo di Canterbury di promuovere una maggiore omogeneità e centralizzazione e di imporre almeno una parvenza di unità sono stati rapidamente boicottati dai gruppi in conflitto e così fatti fallire. Le conseguenze del perenne dilaniamento interno, dell’inesausto conflitto fratricida sono molto negative per i fedeli. Quelli del Nord globale, e soprattutto gli omosessuali, si sentono discriminati dall’atteggiamento omofobo delle chiese del Sud e non donano volentieri il loro denaro alle loro chiese, né paiono disponibili a rinunciare ai propri diritti (così faticosamente conquistati) solo per mantenere buone relazioni con i confratelli africani, mentre sono sempre più orientati, se le cose non mutassero, ad abbandonare la Chiesa anglicana. Come ha dichiarato uno di loro, un giovane britannico, a chi lo ha intervistato: «La cosa che penso della comunione anglicana è che una diversità di posizioni è buona fino a che queste posizioni non diventano distruttive, e io credo che siamo arrivati ormai a quello stadio; e non si tratta solo di distruggere le chiese, ma di distruggere le persone. Quello che questa gente (i vescovi anti-gay delle province africane) dice 90­­­­

danneggia la relazione delle persone con Dio»49. Altri gay inglesi hanno confessato di tener nascosta la loro frequentazione della Chiesa anglicana ai loro amici non religiosi, al fine di non essere canzonati o criticati per il fatto di far parte di un’organizzazione che comprende tanti scatenati omofobi. Una situazione perfettamente analoga si riscontra sul versante opposto. Tra i fedeli più tradizionalisti del continente africano, l’esistenza di correligionari con opinioni e comportamenti così diversi da quelli prevalenti nel loro contesto crea moltissimi imbarazzi e finisce per essere ritenuta un elemento che avvantaggia gli agguerriti competitori locali, soprattutto le chiese pentecostali indipendenti, che procedono a tutta forza nel proselitismo senza far mostra di imbarazzanti parentele nel Nord del mondo. La conseguenza di tutto ciò è la maturazione, in molti anglicani africani, di un sentimento di estraneità alla loro Chiesa. Come si evince dalle parole di una donna africana, che ha dichiarato: «Essere un anglicano non significa niente per me. Io non sono più condizionata dal fatto di essere anglicana. Io sono influenzata solo dalla parola di Dio»50. Insomma, «l’intensificazione dei flussi transnazionali di discorsi, persone e denaro, invece di rappresentare un elemento di connessione tra coloro che condividono un’identità anglicana – ha spesso apparentemente creato un senso di disconnessione all’interno della comunità [...]. La minaccia di uno scisma permanente all’interno della Comunione è ampiamente discusso. Alcuni sostengono che in sostanza esso si è già consumato, visto lo stato pessimo delle relazioni tra le province e, in alcuni casi, persino al loro interno. Non è certo se la Comunione continuerà ad esistere a lungo in una forma che assomigli a quella attuale»51. Una Chiesa cattolica riformata, senza Curia e priva di un   Vanderbeck, Sadgrove, Valentine, Andersson e Ward (2015, 3296).   Vanderbeck, Sadgrove, Valentine, Andersson e Ward (2015, 3297). 51   Vanderbeck, Sadgrove, Valentine, Andersson e Ward (2015, 3298). 49 50

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forte governo centrale si troverebbe in una situazione analoga a quella in cui versa l’anglicanesimo. Per dirla in modo un po’ brutale, seguendo Manlio Graziano: «La nascita di chiese cattoliche nazionali significa puramente e semplicemente la scomparsa della Chiesa cattolica»52. In questo capitolo ho esaminato le ragioni strutturali che spiegano alcuni dei motivi per i quali la Chiesa cattolica non cambia facilmente. Nel prossimo, torneremo a puntare l’attenzione su papa Francesco e sulle qualità del suo papato, sul significato delle sue scelte, dei suoi discorsi, dei suoi gesti più importanti. Dopo aver messo in chiaro quel che il papa non fa e aver cercato di individuarne i motivi, racconterò quello che il papa al contrario fa, tentando di scoprirne gli effetti e le ragioni più importanti. E rivelando il nesso implicito tra i due volti, quello attivo e quello inerte, del pontificato di Bergoglio.

  Graziano (2014a).

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III

Francesco e l’amicizia come politica

Lo ribadiamo: la Chiesa, al pari di moltissime altre organizzazioni (incluse molte imprese economiche), ha subito e continua a subire, in misura crescente negli ultimi decenni, una quantità consistente di pressioni esterne affinché cambi le proprie strutture, aggiornandole ai valori del nostro tempo, rendendole più efficienti, funzionali, trasparenti1. Nel caso della Chiesa cattolica, alle pressioni che provengono dall’esterno, dall’opinione pubblica internazionale, si aggiungono quelle che provengono dall’interno, da quella parte del mondo cattolico che reclama l’adozione di un programma riformatore di modernizzazione e aggiornamento. Riformare davvero l’istituzione è però un’impresa rischiosissima e, per le ragioni che abbiamo visto nel secondo capitolo, anche poco opportuna. Per questo motivo, si fa strada l’esigenza di distrarre l’attenzione di chi, all’esterno come all’interno della Chiesa, preme per il cambiamento, indirizzandola verso altri aspetti della vita dell’istituzione. In altri contesti organizzativi, la distrazione è un effetto della «disgiunzione delle strutture»2, che consiste nell’affiancare alla struttura principale altre che si dedichino ad attività socialmente edificanti: è, ad esempio, ciò che fanno quelle grandi aziende che, per mettere in secondo piano il fatto che le loro attività sono orientate principalmente al profitto per   Meyer e Rowan (1977), Scott (2013), Bromley e Powell (2012).   Faccio riferimento al concetto di decoupling così come è stato definito dai sociologi neoistituzionalisti Meyer e Rowan (1977); si veda anche Boxenbaum e Jonsson (2008). Per molti versi, si tratta di una nozione assai simile a quella di «legame debole» resa celebre dai lavori di Karl Weick. 1 2

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chi le possiede, o che inquinano o che implicano altre attività moralmente spregiudicate e guardate con sospetto dai media, danno vita ad una fondazione impegnata sui terreni dell’arte, della solidarietà sociale o della letteratura. In quel modo, il nome dell’azienda sarà, almeno in parte, «disgiunto» dal legame con i suoi comportamenti più discussi e non evocherà, tra i consumatori e nell’opinione generale, solo oscure manovre finanziarie, deforestazione, polluzioni ambientali, eccetera, ma anche bellezza, filantropia, cooperazione e benevolato. Anche la Chiesa percorre regolarmente questa via, ad esempio enfatizzando, nel raccogliere il denaro necessario alla sua riproduzione, il ruolo delle sue strutture caritative e di beneficenza. La pubblicità dell’otto per mille è, seguendo questa strategia, completamente incentrata sulle azioni di solidarietà, anche se sappiamo che solo una piccola parte del denaro raccolto dai contribuenti viene poi usato per aiutare i poveri e i deboli. In ogni caso, con l’arrivo di Francesco, la Chiesa si è trovata a disposizione un eccezionale strumento supplementare e singolarissimo per evitare le riforme. Esso si configura come una diretta conseguenza dell’immensa popolarità personale del capo dell’organizzazione e consiste, da un lato, nel fatto che egli riesca a distogliere l’attenzione dal tema delle riforme della Chiesa per concentrarlo su altri aspetti assai meno problematici per l’istituzione, dall’altro, nella decisione di depotenziare tutti i conflitti, intra- ed extraecclesiali, ereditati dal passato, compattando l’intera istituzione intorno al suo monarca. La disgiunzione non è prodotta esclusivamente da Francesco, ma anche, talvolta, da coloro che gli si oppongono con più determinazione: la messa in scena di un conflitto apparentemente radicale e mortale (in verità assai limitato o comunque di portata minore rispetto alla sua rappresentazione mediatica) contribuisce a fornire l’impressione che dentro la Chiesa stia avvenendo un grande mutamento e che Bergoglio ne sia l’iniziatore. Le disgiunzioni non sono sempre il risultato di mosse stra94­­­­

tegiche perfettamente intenzionali; in molti casi, sono la conseguenza non voluta e non cercata di comportamenti e scelte organizzative motivate da altre intenzioni, assai meno opportunistiche ed astute. Quel che in ogni caso rileva per la mia analisi, in assenza di ogni possibilità di un qualsivoglia riscontro empirico sulle reali intenzioni del papa, è solo il risultato finale, l’effetto complessivo delle azioni che descriverò nelle prossime pagine sulla vita e sul destino dell’organizzazione. Francesco nemico del capitalismo? La prima forma di disgiunzione che il papa ha attivato per distogliere l’opinione pubblica interna ed esterna alla Chiesa dal tema delle riforme, consiste nella grande attenzione che egli ha rivolto ai temi dell’economia, dell’organizzazione sociale e della politica. A questi argomenti il papa ha dedicato, come è noto, ampio spazio e tuttavia le esagerazioni pubblicistiche che definiscono terribilmente innovativo o addirittura rivoluzionario il suo messaggio non colgono nel segno: dal punto di vista sostanziale, cioè dei contenuti, i discorsi del papa sui temi sociali e politici non si discostano in nulla dalla tradizionale dottrina sociale della Chiesa, dal pensiero e dalla predicazione dei suoi predecessori3. Non c’è, in altre parole, nessuna svolta clamorosa nell’approccio che il pontefice propone in questi campi. Quel che ha fatto più rumore nei suoi interventi, la critica agli eccessi del capitalismo e alle crescenti disparità economiche e sociali, alle ingiustizie, si può trovare, in termini perfettamente analoghi, nelle parole di chi l’ha preceduto sul soglio di Pietro. A sostegno di questa tesi vorrei citare dapprima due attenti conoscitori del pensiero di Francesco, il suo principale biografo Austen Ivereigh e l’autorevole studioso cattolico Dennis Doyle, e poi direttamente papa Benedetto XVI.

  Werpehowski (2017, 128)

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Scrive Ivereigh: La parte dell’Evangelii Gaudium che ha suscitato maggiore attenzione nei media è in realtà quella meno originale. Quando Francesco critica le teorie liberistiche della «ricaduta favorevole», secondo le quali è al mercato stesso che dev’essere lasciato il compito di stabilire i salari e le condizioni di lavoro, non fa che riallacciarsi a una lunga tradizione di insegnamento papale che risale, per limitarsi ai tempi moderni, a Leone XIII, alla fine dell’Ottocento. Anche papa Leone, nella sua Rerum Novarum (1891), aveva condannato l’arricchimento dei pochi a scapito dei molti e l’idolatria dei mercati che lo giustificava, esortando al tempo stesso un intervento statale a protezione e soccorso delle sue vittime. Più recentemente, papa Benedetto XVI ha ribadito questa tradizione nella sua raffinata enciclica sociale Caritas in Veritate (2007). Eppure, sostenendo che la teoria della ricaduta favorevole non ha funzionato («gli esclusi continuano ad aspettare» [par. 54]) e deplorando il fatto che oggi tutto sia sottoposto al «gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole» (par. 53), papa Francesco ha provocato un autentico shock in molti ambienti, come se stesse proponendo di far risorgere il socialismo proprio quando ormai tutti erano d’accordo che il capitalismo aveva creato il migliore dei mondi possibili. Sarah Palin disse preoccupata che alcune dichiarazioni del papa «suonavano di sinistra», il giornalista radiofonico Rush Limbaugh le definì «puro marxismo» e Stuart Varney, di Fox News, protestò che Francesco stava mischiando religione e politica, che la Chiesa non aveva la competenza per pronunciarsi su questioni economiche e che, in ogni caso, il libero mercato aveva garantito un’enorme prosperità in vaste parti del mondo. Nella sinistra, al contrario, molti rimasero affascinati e presentarono Francesco come la nuova pin-up dell’anticapitalismo. Nell’Evangelii Gaudium, però, Francesco non critica il mercato in quanto libero scambio di beni e servizi e normale attività economica umana, che ha effettivamente garantito ricchezza fin dall’inizio dei tempi, e ancor meno propone un «sistema» collettivista o di qualche altro genere4.

  Ivereigh (2014, 4369-4392).

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Il teologo ed ecclesiologo americano Doyle ha confermato implicitamente la diagnosi di Ivereigh: Alcuni dei temi più significativamente sostenuti da Francesco, come l’enfasi incisiva che egli ha dato all’insegnamento sociale della Chiesa, possono essere trovati anche nell’opera dei suoi recenti predecessori. Nella Laborem Exercens, Giovanni Paolo II insegna che ognuno di noi dovrebbe pensare a se stesso come ad un lavoratore e che la dignità del lavoro discende dal fatto che il lavoratore è prima di tutto un essere umano. Nella Sollicitudo Rei Socialis rimprovera le popolazioni occidentali per il loro materialismo e consumismo. [A giudizio del papa polacco] dovremmo dare priorità a quello che condividiamo con altri rispetto a ciò che ci distingue da loro. Materialismo e consumismo sono sintomatici del fatto di basare la vita su priorità sbagliate. Nella Deus Caritas Est, papa Benedetto disse che è compito dei laici costruire una società giusta. Disse anche che quando offriamo un servizio non dovremmo immaginarci migliori di coloro che serviamo. E nella Caritas in Ve­ ritate, Ratzinger ha discusso l’importanza dell’economia del dono, una forma di dare, ricevere e condividere che va più in profondità dello scambio di mercato5.

Di quest’ultima, importante, enciclica di Ratzinger riporto alcuni passaggi sui quali è facilissimo misurare la grande prossimità con il messaggio di Francesco. Sui limiti da porre all’economia di mercato al paragrafo 35 si legge che «la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giu­ stizia sociale per la stessa economia di mercato». Al paragrafo successivo papa Ratzinger scrive: «L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al per­ seguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica». Sulle questioni energetiche e lo squilibrio Nord-Sud al paragrafo 49 si legge:   Doyle (2017, 28-29).

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Le questioni legate alla cura e alla salvaguardia dell’ambiente devono oggi tenere in debita considerazione le problematiche ener­ getiche. L’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e alternative. L’incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri, genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro. Anche su questo fronte vi è l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati. Le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento dell’efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi. Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che, per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei popoli poveri, i quali «reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione d’un mondo migliore».

Al paragrafo 62 sulle migrazioni si legge: Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il fenomeno, com’è 98­­­­

noto, è di gestione complessa; resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d’origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione.

Infine, nel paragrafo successivo sulla dignità del lavoro, papa Benedetto scrive: Che cosa significa la parola «decente» applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa.

Voglio chiudere questa breve rassegna con la citazione di un brano scritto molti decenni orsono, ma che sembra attualissimo e che suona così: l’ordinamento capitalistico dell’economia, col dilatarsi dell’industrialismo per tutto il mondo, si è venuto pure esso allargando per ogni dove, a tal punto da invadere e penetrare anche nelle condizioni economiche e sociali di quelli che si trovano fuori dalla sua cerchia [...] E in primo luogo ciò che ferisce agli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza 99­­­­

dell’economia in mano a pochi [...] una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica dell’economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti [...] la libera concorrenza si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è subentrata l’egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele.

Il documento dal quale sono tratti questi brani6 è la Qua­ dragesimo Anno, l’autore è papa Pio XI, il pontefice che siglò i concordati con Hitler e Mussolini, l’anno di pubblicazione è il 1931. Dopo aver dunque ribadito che non ci sono, in questo campo, rilevanti differenze di contenuti e che vi è una medesima filosofia di fondo nel messaggio di Francesco e dei suoi predecessori, cioè che, come lui stesso spesso ricorda, l’argentino è un papa pienamente ortodosso e fedele alla tradizione, io credo che vi siano comunque almeno tre elementi distintivi nella sua predicazione sui temi sociali. Un primo significativo elemento di novità è dato dal fatto che Francesco ha adottato uno stile di comportamento e di vita che appare più coerente con la tanto sbandierata opzione per i poveri. I mocassini consumati, l’anonima borsa nera da viaggio portata a mano in aereo, la coda con il vassoio per i pranzi a Santa Marta, l’uso di un linguaggio semplice e comprensibile a tutti, la passione per gli interventi a braccio e per le telefonate fatte di persona: questi e molti altri sono gli elementi simbolici dello stile di Francesco che permettono di rappresentarlo, nella comunicazione della sua immagine, come un capo sobrio, che ha rinunciato agli agi e ai privilegi del potere, che sa avvicinarsi al popolo che ama adottandone i modi e replicandone i costumi. Francesco riesce insomma, grazie all’amplificazione mediatica, a comunicare l’immagine   Nella selezione proposta da Cossiga (2014).

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di un uomo coerente con i suoi principi, semplice, onesto e disinteressato alla ricchezza e al lusso. Poco importa poi se l’istituzione che dirige non ha rinunciato ad un solo euro delle sue immense ricchezze, che egli non abbia deciso la chiusura dello IOR o, in Italia, devoluto per intero l’otto per mille ad opere di carità come fanno altre chiese. Tutto questo, cioè quel che riguarda la normalità della vita dell’istituzione, è completamente oscurato, nella realtà della comunicazione, dai gesti e dai simboli esibiti dal papa. Francesco è un leader che non prova nemmeno a mutare sul serio i comportamenti dell’istituzione che guida, ma che mette al servizio del mutamento dell’immagine della Chiesa la sua stessa iconica figura di capo carismatico. E se la Chiesa non lo segue, come sostengono tanti suoi tifosi entusiasti, non è perché lui di essa abbia mutato davvero qualcosa oltre l’apparenza, perché sia andato al di là della superficie, ma piuttosto perché il suo seguito non possiede il coraggio che ha avuto lui di presentarsi povero ed umile nello stile di vita. In questo, se si vuole, sta anche il populismo di Francesco7. Nel fatto che desacralizzi la figura del papa, che attragga il consenso delle masse presentandosi come un prodotto della loro volontà e del loro stile, un capo culturalmente e personalmente omogeneo alle componenti più deboli e indifese dei popoli del mondo e perciò il miglior rappresentante dei loro interessi. Un secondo rilevante elemento di novità nelle parole di Francesco è legato al fatto che i temi della dottrina morale e sessuale vi occupano uno spazio più ridotto rispetto a quello che avevano nei ragionamenti dei due suoi illustri predecessori e questo inevitabilmente, per contrasto, fa aumentare notevolmente la rilevanza di quelli economico-sociali. Al di là delle motivazioni che spiegano questa peculiare attenzione ai fatti della vita sociale da parte di un ecclesia7   Per un’articolata interpretazione di altri aspetti del populismo di Francesco e soprattutto di quelli legati alla sua provenienza dalla Chiesa argentina si veda Zanatta (2016).

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stico cresciuto in una Chiesa come quella argentina e al di là del fatto che un simile atteggiamento possa irritare i pochi o tanti che ritengono questa una pericolosa deviazione dalla tradizionale concentrazione ecclesiale sulla dottrina morale e sessuale, la scelta di Bergoglio può essere considerata come una «mossa disgiuntiva» molto opportuna per l’istituzione. Sul terreno della politica e dell’economia, infatti, la Chiesa ha il vantaggio di essere completamente irresponsabile, nel senso che non è chiamata, per definizione, ad assumersi alcuna responsabilità diretta e che per questo è anche del tutto esentata dal dover formulare proposte realistiche, praticabili, concrete e dal rispondere della loro attuazione. La Chiesa non ha più, dopo la fine dello Stato pontificio, alcuna incombenza nel governo di un’entità politico-amministrativa, di uno Stato, di un sistema economico. I suoi lea­ der possono criticare in tutta libertà questo o quell’aspetto dell’ordinamento politico ed economico globale o di singoli paesi, senza mai fornire un progetto alternativo e senza mai essere chiamati ad assumersi l’onere del difficile governo delle complesse società contemporanee8. In questo modo, le critiche avanzate dal pontefice o da altri alti gerarchi agli eccessi del capitalismo generano un consenso che non può essere mai scalfito dal confronto con la dura realtà e rappresentano per questo un investimento simbolico molto redditizio, generatore di effetti solo positivi per la reputazione dell’istituzione. A parti invertite, l’equivalente dei documenti del pontefice sulle questioni politico-economiche sarebbero dei solenni pronunciamenti di qualche capo di Stato cattolico sulle vicende dello IOR o sulla pedofilia del clero, cioè su questioni interne alla Chiesa sulle quali gli Stati non possono intervenire e che nessuno, tolte le gerarchie, ha il potere di affrontare e   «I leader politici dei diversi paesi, a differenza dei loro omologhi vaticani, sono obbligati a tener conto delle opinioni pubbliche a cui si sottopongono nel momento del voto; e questo può determinare una divaricazione tra interesse strategico e scelte effettive» (Graziano [2010, 40]). 8

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risolvere. Insomma, gli interventi del pontefice su politica ed economia sortiscono l’effetto, non sappiamo quanto cercato, di distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni della Chiesa, quelli sui quali il papa avrebbe tutto il diritto e la facoltà di intervenire con misure efficaci e responsabili. Per giunta, possiamo ancora osservare che, in questo ambito, anche quando il papa esprime un auspicio o una richiesta che coinvolgerebbe direttamente l’istituzione, nessuno nell’opinione pubblica si preoccupa di verificare che alle parole corrispondano poi i fatti, che dai discorsi discendano delle conseguenze concrete. Prendiamo il caso dell’appello fatto da Francesco alle parrocchie europee nell’Angelus del 6 settembre 2015 ad ospitare, ciascuna nei propri locali, almeno una famiglia di rifugiati. Ebbene, a distanza di due anni non sembra che quella richiesta di concreta espressione di una forma di solidarietà verso i bisognosi si sia davvero tramutata in realtà. In altri termini, le parole del papa hanno prodotto sull’accoglienza dei rifugiati nelle parrocchie pochissimi effetti concreti: chi già prima, all’interno della Chiesa, provvedeva all’assistenza dei poveri e dei migranti ha continuato a farlo, mentre chi si guardava bene dall’intervenire ha proseguito in quello stesso atteggiamento. In compenso, nel circuito della comunicazione, è rimasto intatto l’effetto positivo di quelle parole, che accreditano il papa come campione della solidarietà e della bontà, sottovalutando il fatto che egli si è poi astenuto dal denunciare la mancata traduzione in gesti concreti da parte dell’istituzione che dirige di quell’invito così accorato. Infine, su questo punto, la relativa marginalizzazione dei temi legati all’etica e alla morale sessuale consente alla Chiesa di sorvolare più facilmente sul fatto che, almeno in Occidente, le sue prescrizioni dottrinali sono ormai praticamente divenute lettera morta, essendo largamente ignorate, spesso dagli stessi cattolici. Insistere pervicacemente sulla loro bontà e validità renderebbe ancora più evidente lo scollamento tra la morale ecclesiastica e il senso comune, la coscienza diffusa, che oggi in larga misura rifiuta 103­­­­

di consegnare al caso o a Dio la decisione di consumare un rapporto sessuale o di generare un figlio. Un terzo ed ultimo elemento che rende particolarmente apprezzati i discorsi papali sul mercato, l’ambiente e la povertà proviene dal più generale contesto socio-economico mondiale e in particolare dalle serie difficoltà attraversate dall’economia capitalistica negli anni successivi al 2008. In altri termini, la «crisi» ha reso l’opinione pubblica mondiale particolarmente attenta alle severe parole di Francesco sulle ingiustizie sociali, la povertà e il disagio materiale. Per giunta, in questo decennio complicato per le democrazie di tutto il mondo, sono spesso mancate delle autorevoli voci critiche sui problemi economici e sociali generati dal cattivo funzionamento globale del mercato. In questo quadro, la voce del papa, finalmente liberatosi, insieme a tutta la Chiesa, dallo spettro del comunismo e quindi dall’obbligo di considerare il capitalismo un «male minore», si è sentita e si sente ancora di più, finendo quasi per prendere il posto che appartenne all’opposizione politica al mercato, cioè alla sinistra politica e sociale. Per certi versi, è quel che successe sul terreno della politica internazionale nel 1991, quando Giovanni Paolo II criticò molto duramente la scelta statunitense di dichiarare guerra all’Iraq dopo l’occupazione da parte di Saddam del piccolo stato del Kuwait. Anche allora, la voce del papa fu la più autorevole e la più impegnativa nel coro del dissenso dalla via percorsa dall’amministrazione Bush. La «politica dell’amicizia» verso gli altri cristiani La seconda disgiunzione operata da Francesco consiste nel praticare a tutto tondo, citando Derrida, la «politica dell’amicizia»9, ovvero nel sottolineare, nell’interlocuzione con gli altri, soprattutto gli elementi che accomunano rispet-

  Derrida (1994).

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to a quelli che dividono. Verso l’esterno della Chiesa questa linea di comportamento si traduce in un’attenzione peculiare al tema dell’ecumenismo, cioè del dialogo con le altre confessioni cristiane: l’ortodossa e la protestante. Come è noto10, la Chiesa cattolica ha iniziato ad accettare la possibilità del dialogo ecumenico con le altre chiese cristiane solo con il Concilio Vaticano II e la pubblicazione, nel 1964, del decreto Unitatis Redintegratio. Negli anni successivi, i cattolici hanno messo in atto una propria e peculiare strategia ecumenica, fatta soprattutto di incontri, dialoghi e confronti teologici bilaterali con le singole altre chiese cristiane, mai di partecipazione ad assemblee ecumeniche generali. Wojtyła, nel primo decennio del suo pontificato, non ha manifestato un grande interesse per la questione, privilegiando nettamente quella del dialogo interreligioso con le confessioni non cristiane e soprattutto con l’ebraismo. Le cose hanno iniziato a mutare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta con la promulgazione, da parte di Giovanni Paolo II, dell’enciclica Ut Unum Sint, la prima esplicitamente dedicata al tema dell’ecumenismo. In quel documento, il papa polacco fece riferimento al carattere problematico, per il progresso del dialogo ecumenico, del primato petrino, ovvero della supremazia sulla sua Chiesa del papa romano. Joseph Ratzinger è sempre stato piuttosto freddo nel dialogo con le altre confessioni cristiane. Non ha partecipato allo storico incontro di preghiera di Assisi del 1986 e ha probabilmente ispirato molte delle critiche che la parte più chiusa della Chiesa cattolica ha avanzato su questo versante negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Una volta divenuto papa, Benedetto XVI ha ulteriormente raffreddato gli entusiasmi dei cattolici meglio disposti verso l’ecumenismo, «acquisendo» alla Chiesa cattolica i vescovi fuoriusciti dalla

  Salvarani (2014), Francesco (Jorge Mario Bergoglio) (2016).

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Chiesa anglicana e, più in generale, insistendo sull’importanza di una visione di Chiesa assolutistica e universalistica e quindi poco sensibile al riconoscimento delle differenze culturali e religiose. In altri termini, il papa tedesco, da un lato, non era per nulla spaventato dalla prospettiva di un arroccamento minoritario e solitario della Chiesa cattolica; dall’altro, non era assolutamente affascinato dalla prospettiva di una «terza Chiesa»11, cioè di un cristianesimo che, passando sopra le antiche differenze, integrasse le confessioni storiche e spostasse il suo baricentro verso il Sud del mondo, laddove la fede cresce al ritmo della demografia. Quest’ultima prospettiva appare certamente più congeniale a papa Francesco12, che già quand’era vescovo di Buenos Aires chiamava i pastori di altre chiese a predicare nella sua e accettava poi i loro inviti a fare altrettanto nelle loro. Le questioni dogmatiche e teologiche hanno sempre avuto una scarsa rilevanza per lui. Sono troppo complesse e presentano il limite di richiedere un approccio eccessivamente razionale per essere affrontate, nonché un grande coraggio politico e profetico per essere risolte. Per questo, il papa argentino ha sempre preferito la meno impegnativa «politica dell’amicizia», il gesto eclatante che consente di occupare per giorni le pagine dei giornali e le aperture dei TG e che al tempo stesso non lascia strascichi pericolosi all’interno della Chiesa dal momento che non sfiora il piano strutturale, non genera modifiche di alcun genere nella dottrina, non implica obblighi di nessun tipo per il clero, permette a coloro più affezionati alla tradizione di dire che non è cambiato nulla e ai progressisti che è cambiato tutto. Insomma, la «politica dell’amicizia» presenta molti vantaggi e quasi nessun costo, genera consenso ad un prezzo molto basso e aumenta la popolarità di chi la pratica. I gesti di amicizia ecumenica di Francesco sono stati comunque parecchi. Mi limito a citare i più clamorosi e rilevanti.   Jenkins (2008).   Naso (2013 e 2014).

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Nel luglio 2014 si è recato a sorpresa a far visita al pastore pentecostale Giovanni Traettino, del quale è amico dai tempi nei quali entrambi vivevano a Buenos Aires. L’incontro non ha avuto solo un carattere privato, ma ha offerto a Francesco l’opportunità di rivolgere parole importanti ad un movimento, quello carismatico-pentecostale, che ha raggiunto, soprattutto nel Terzo Mondo, dimensioni ormai imponenti e che egli ritiene ingiustamente escluso dal dialogo ecumenico. Il papa ha chiesto perdono ai pentecostali per la complicità cattolica nella persecuzione messa in atto nei loro confronti dal governo italiano durante il ventennio fascista e ha auspicato la «necessità di superare i confini tra le Chiese cristiane», ribadendo la bellezza dell’unità nella diversità. Nel suo discorso di Caserta, Bergoglio si è rivolto ai pentecostali chiamandoli «fratelli» e ha definito sbagliata la definizione di «sette» tanto spesso invocata per definire i loro gruppi. È «il comandamento di Gesù al suo popolo di essere una cosa sola – ha detto il papa – ed è la presenza di Dio che ci dà questa fratellanza. Ci fermiamo, ci guardiamo l’uno con l’altro. E vediamo che ci si assomiglia abbastanza». Il papa ha poi, come già avvenuto in altre occasioni, sminuito il ruolo della teologia, del pensiero e della cultura per esaltare al contrario quello delle emozioni, della spontaneità e dello slancio spirituale. «Non si può predicare un Vangelo intellettuale – ha detto –, il Vangelo è verità, amore e bellezza». Il pastore evangelico casertano ha naturalmente ricambiato l’affetto del papa sostenendo che Francesco è una persona molto significativa per la comunità pentecostale e «per tutto il cristianesimo». «La nostra gioia è grande, quella mia e della mia famiglia. Le vogliamo bene – ha detto Traettino –. Una cosa deve saperla: verso la sua persona c’è grande affetto e tanti di noi pregano per lei. Del resto è facile volerle bene. Alcuni di noi credono addirittura che la sua elezione sia opera dello Spirito Santo». Proseguendo nel suo discorso, il pastore pentecostale ha affermato che il papa ha avuto un «grande coraggio» nel decidere di compiere la visita alla sua comunità e ha concluso dichia107­­­­

rando solennemente che «con uomini come lei c’è speranza per noi cristiani!». L’amicizia con i pentecostali è quella più spontanea e naturale per Bergoglio. Già in Argentina13 il futuro papa scoprì di essere in grande sintonia con quella forma di «cristianesimo magico»14 diffuso ormai anche dentro il cattolicesimo soprattutto grazie al movimento internazionale del Rinnovamento nello Spirito, fatto di glossolalie (cioè del parlare, durante alcune celebrazioni e per il presunto intervento dello Spirito Santo, lingue incomprensibili e sconosciute), di preghiere ossessive, di svenimenti improvvisi (chiamati «riposi nello Spirito») e anche di rituali di liberazione dal demonio o di miracolose guarigioni fisiche. Si tratta della forma di spiritualità cristiana certamente più popolare degli ultimi decenni, quella diffusasi con più rapidità tra gli strati più poveri e deprivati delle grandi baraccopoli del Terzo Mondo e insieme, bisogna dirlo, della forma di religiosità socialmente e politicamente più regressiva, quella che ha alimentato ovunque i movimenti contrari ai diritti civili degli omosessuali, che ha messo in discussione l’aborto e contestato la fecondazione assistita, che ha organizzato campagne contro la cultura gender e così via. È una galassia, quella carismatico-pentecostale, fatta di una miriade di gruppi, talvolta di infime dimensioni, di piccole comunità autocefale spesso guidate da qualche leader improvvisato totalmente sprovvisto di formazione teologica, ma con un grande talento per la persuasione e non di rado per gli affari. Quegli affari che si fanno abbastanza facilmente sulla pelle dei tanti disperati che nel Terzo e Quarto Mondo si rivolgono a questi moderni stregoni per ottenere una guarigione miracolosa, per trovare un posto di lavoro, per sanare una sofferenza psicologica, per risolvere una crisi familiare. In questi gruppi, dei testi della tradizione cristiana vie  Ivereigh (2014).   Marzano (2009).

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ne offerta talvolta un’interpretazione «magica» (quando, ad esempio, si apre a caso una pagina del Nuovo o dell’Antico Testamento e, sulla falsariga della lettura dei tarocchi e di altre pratiche divinatorie, si interpreta quel che si legge come un suggerimento proveniente direttamente dallo Spirito Santo), talaltra una letterale, da cui prende vita una visione del mondo fondamentalista e riduzionista, che rifiuta radicalmente la modernità e tutte le sue conseguenze. Questo è l’universo religioso, culturale e politico che, lautamente finanziato dagli ambienti più conservatori del mondo ricco, soprattutto da quelli della Bible Belt americana, ha dato più filo da torcere nell’ultimo mezzo secolo al cattolicesimo, sottraendogli milioni di fedeli, in particolare in Africa e America Latina. Ma questo è anche, lo ribadisco, il mondo spirituale al quale Bergoglio si sente più vicino, quello che, con maggiore attenzione, recepisce i suoi sermoni sulla povertà che magnificano le virtù dei semplici e degli ultimi senza mai mettere davvero in discussione la necessità che escano, grazie allo sviluppo economico, dalla condizione di miseria materiale che li affligge, quello che si oppone ad ogni forma di intellettualismo, al riconoscere una qualche rilevanza al pensiero teologico, alla cultura, ai progressi dell’educazione; insomma, in una parola, il mondo dei populisti e dei pauperisti che ai poveri offrono soprattutto il lenimento spirituale di qualche preghiera ossessiva o di un rituale magico che favorisca la guarigione dello spirito o della carne. Un altro importante gesto ecumenico di Francesco è consistito nell’incontro, senza precedenti, nel febbraio del 2016, con il patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill. L’incontro è avvenuto, come proposto dai russi, nell’aeroporto internazionale dell’Avana, approfittando della contemporanea presenza in Centroamerica dei due leader religiosi. Durante il viaggio che lo ha portato nella capitale cubana, il papa ha twittato di voler incontrare Kirill da «fratello» e proprio in questo modo si è rivolto a lui, al momento dell’incontro, dopo averlo baciato alla russa, e cioè tre volte, sulle guance: «Finalmente ci incontriamo – ha detto Francesco –, siamo fratelli». Anche al 109­­­­

termine del colloquio Francesco ha espresso grande soddisfazione per l’andamento dell’incontro: «Abbiamo parlato con tutta franchezza – ha detto il papa –, da fratelli. Ho sentito una gioia interiore [...] Con Kirill è stata una conversazione con punti chiari, che preoccupano tutti e due. Abbiamo parlato con tutta franchezza. [...] Io sentivo una gioia interiore – ha concluso il pontefice – che era proprio dal Signore. Kirill parlava liberamente e anche io, si sentiva la gioia». Il patriarca russo è un uomo di destra, un super conservatore, nazionalista e nemico giurato e irriducibile di ogni forma di liberalismo occidentale e di cultura dei diritti, sostenitore entusiasta della politica autoritaria e muscolare del presidente Putin, del quale ha solennemente benedetto tutte le guerre, in Europa e in Medio Oriente. Le ragioni dei cattolici di rito greco dell’Ucraina per lui contano poco e le bombe russe su Aleppo le ha definite addirittura «sante». Nella dichiarazione congiunta, articolata in trenta densi punti, sottoscritta da Francesco e da Kirill si trova un esplicito sostegno alla strategia aggressiva di Putin in Siria, laddove si menziona la necessità che «la comunità internazionale faccia ogni sforzo possibile per porre fine al terrorismo con l’aiuto di azioni comuni, congiunte e coordinate». Nei passaggi successivi, i due leader religiosi si dolgono della fine dell’era costantiniana e della diminuita influenza politica del cristianesimo tanto da scrivere un passo come questo: «constatiamo che la trasformazione di alcuni paesi in società secolarizzate, estranee ad ogni riferimento a Dio ed alla sua verità, costituisce una grave minaccia per la libertà religiosa. È per noi fonte di inquietudine l’attuale limitazione dei diritti dei cristiani, se non addirittura la loro discriminazione, quando alcune forze politiche, guidate dall’ideologia di un secolarismo tante volte assai aggressivo, cercano di spingerli ai margini della vita pubblica». Nei punti 19, 20 e 21 della dichiarazione vengono affrontati i temi etici e morali. Nel punto 20 si attaccano i diritti degli omosessuali, ribadendo che «La famiglia si fonda sul matrimonio, atto libero e fedele di amore di un uomo e di 110­­­­

una donna. [...] Ci rammarichiamo – scrivono i due leader religiosi – che altre forme di convivenza siano ormai poste allo stesso livello di questa unione, mentre il concetto di paternità e di maternità come vocazione particolare dell’uomo e della donna nel matrimonio, santificato dalla tradizione biblica, viene estromesso dalla coscienza pubblica». Nel paragrafo successivo si denunciano, con parole forti, i «crimini» dell’aborto, della procreazione assistita e dell’eutanasia: Chiediamo a tutti – scrivono Francesco e Kirill – di rispettare il diritto inalienabile alla vita. Milioni di bambini sono privati della possibilità stessa di nascere nel mondo. La voce del sangue di bambini non nati grida verso Dio (cfr. Gen 4, 10). Lo sviluppo della cosiddetta eutanasia fa sì che le persone anziane e gli infermi inizino a sentirsi un peso eccessivo per le loro famiglie e la società in generale. Siamo anche preoccupati dallo sviluppo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, perché la manipolazione della vita umana è un attacco ai fondamenti dell’esistenza dell’uomo, crea­ to ad immagine di Dio. Riteniamo che sia nostro dovere ricordare l’immutabilità dei principi morali cristiani, basati sul rispetto della dignità dell’uomo chiamato alla vita, secondo il disegno del Creatore.

Se qualcuno leggesse questo testo senza avere familiarità con il carattere e la strategia di Francesco potrebbe pensare che il papa sia un feroce conservatore al pari del suo amico russo Kirill: ad essere più volte sottolineate nel documento sono infatti le posizioni intransigenti sugli aspetti morali, l’importanza delle radici cristiane dell’Europa, il sostegno all’aggressiva politica estera di Putin, i problemi e le sofferenze dei cristiani (molto meno quelle degli altri). Sulla povertà, l’immigrazione e le diseguaglianze, si trova, nella dichiarazione, un solo, striminzito, paragrafo: poche righe all’interno di un testo lungo alcune pagine. Se non si conoscesse Francesco, insomma, si potrebbe appunto essere indotti a pensare di trovarsi dinanzi ad un papa di destra. Ovviamente non è così. Anche se il testo della dichiarazione contiene tutte affermazioni compatibili con la 111­­­­

dottrina cattolica, è probabile che la sua stesura sia dovuta soprattutto ai russi, che hanno messo l’accento su quello che a loro sta più a cuore: la totale identificazione con Putin e la lotta ad ogni forma di modernizzazione culturale della «Grande Madre Russia», la difesa di una posizione coerentemente e ferocemente reazionaria. Francesco, da parte sua, ha ottenuto da Kirill soprattutto l’amicizia e messo un tassello importante alla costruzione di quell’ecumenismo vago, fatto di buoni sentimenti e di personalizzazione carismatica di cui farà mostra in tante altre occasioni e che ancora una volta allontana la Chiesa da ogni prospettiva di reale riforma. In ogni caso, il gesto ecumenico più clamoroso di Francesco, quello che ha ottenuto maggior attenzione in tutto il mondo, è consistito certamente nel viaggio compiuto a Lund, in Svezia, nell’ottobre del 2016, per celebrare solennemente, insieme ai luterani, i cinquecento anni della Riforma protestante. Pur rimanendo alla fine un evento isolato nel rapporto del papa con il protestantesimo storico (certamente per i cattolici meno rilevante, dato la sua accentuata flessione quantitativa, di quello con il pentecostalismo), l’andata a Lund di Francesco è stata preceduta da alcune dichiarazioni su Lutero piuttosto amichevoli: nel giugno del 2016, tornando dall’Armenia e in una delle sue consuete conferenze stampa in aereo, il papa argentino aveva definito il padre del protestantesimo «un riformatore che protestava contro corruzione, mondanità, attaccamento ai soldi e al potere». Alla vigilia del viaggio in Svezia, in un’intervista ad una rivista gesuita, Bergoglio aveva ribadito che «all’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa» e che Lutero «ha fatto un grande passo per mettere le parole di Dio nelle mani del popolo». Nel suo discorso di Lund, Bergoglio ha dichiarato che cattolici e protestanti non debbono rassegnarsi alla divisione, e ha aggiunto: «abbiamo la possibilità di riparare ad un momento cruciale della nostra storia, superando controversie e malintesi che ci hanno impedito di comprenderci gli uni gli altri». Fran112­­­­

cesco ha inoltre riconosciuto il valore dell’esperienza spirituale di Lutero e della Riforma tutta che, egli ha detto, «ha contribui­ to a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa». Francesco ha ringraziato Dio per i doni venuti dalla Riforma e ha anche chiesto perdono ai luterani per gli errori del passato nonché addebitato ai dei non bene identificati «uomini di potere» le ragioni di una divisione lacerante che tanto ha fatto soffrire il popolo cristiano. Naturalmente Francesco ha taciuto del tutto sulle differenze dottrinali che dividono luterani e cattolici: l’affrontare quelle questioni avrebbe implicato far emergere l’immobilismo totale della Chiesa cattolica e il dinamismo di quelle luterane, che hanno introdotto grandi innovazioni nella dottrina, riconosciuto la validità dei matrimoni omosessuali e accettato di avere come pastori e come vescovi le donne e i gay. Francesco ha preferito insistere sugli aspetti genericamente sociali e politici come la questione ambientale, quella educativa, l’immigrazione e la pace nel mondo. Anche nel suo rapporto con il protestantesimo storico, quello di Francesco si conferma un ecumenismo pragmatico e sentimentale, che non produce mai strappi perché non affronta mai nessun reale nodo teologico o politico, che si risolve sempre nel ribadire l’importanza del dialogo, dei sentimenti, del comprendersi e dell’amarsi. Ed è anche una forma di ecumenismo tutto centrato sul carisma papale, sulla sua capacità di occupare la scena con successo, di ergersi a primattore indiscusso sul palcoscenico mediatico internazionale. La «politica dell’amicizia» tra le mura della Chiesa I: la teologia della liberazione Un altro elemento di disgiunzione messo in atto da papa Francesco è rappresentato dalla «politica dell’amicizia» che egli pratica all’interno della Chiesa, ovvero dal tentativo di ampliare il più possibile le basi del consenso interno, della fedeltà all’istituzione e alla sua persona. Si tratta di una strategia affine a quella ecumenica praticata verso le altre chiese cristiane che 113­­­­

ho esposto nelle pagine precedenti ed è simile, nell’atteggiamento di fondo, al rapporto di Francesco verso il mondo intero. Le condanne che egli esprime nei suoi discorsi sono sempre generiche, riferite a categorie ampie, dai confini vaghi, come «i mafiosi», «i corrotti», «i carrieristi», eccetera. Verso le persone reali, Francesco fa sempre prevalere il dialogo, l’incontro, l’amicizia appunto. Ad ogni modo, anche in questo caso, la «politica dell’amicizia» si rivela al tempo stesso un surrogato e un freno per la riforma strutturale dell’istituzione. Un importante esempio della politica di amicizia a tutto tondo praticata da papa Francesco all’interno della Chiesa cattolica è rappresentato dal suo rapporto con i teologi della liberazione, ovvero con quella corrente della teologia cattolica sudamericana che, in molte delle sue declinazioni più fortunate, non ha fatto mistero di ricorrere, nella teoria e talvolta nella prassi, agli strumenti del marxismo rivoluzionario15. Per comprendere correttamente il significato dei gesti di Francesco nei confronti dei teologi della liberazione dobbiamo necessariamente fare un passo indietro nel tempo. Alla fine degli anni Settanta, quella della liberazione rappresentava certamente una corrente teologica forte, radicata in Sudamerica dove era nata, ma con l’ambizione di affermarsi anche altrove. Essa venne già pesantemente criticata, anche se solo con un ammonimento e una presa di distanza16, da Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi (il documento di Montini prediletto da Bergoglio) del dicembre 1975. In quell’esortazione apostolica, l’anziano pontefice fece proprie molte delle critiche che venivano mosse ai teologi della liberazione all’interno del cattolicesimo. «La Chiesa – scriveva Paolo VI – ha la ferma convinzione che ogni liberazione temporale, ogni liberazione politica – anche se si sforza di trovare la propria giustificazione in questa o in quella pagina dell’Antico o del Nuovo Testamento, anche se rivendica per i suoi postulati ideologici o per le sue norme di   Boff e Boff (1992), Gutiérrez (2012), Scatena (2008).   Miccoli (2007, 40-41).

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azione l’autorità dei dati e delle conclusioni teologiche, anche se pretende di essere la teologia per i nostri giorni – porta in se stessa il germe della negazione e decade dall’ideale che si propone sia perché i suoi motivi non sono quelli della giustizia nella carità, sia perché lo slancio che la trascina non ha una sua dimensione veramente spirituale e perché il suo scopo finale non è la salvezza e la beatitudine in Dio». Il conflitto tra Roma e i teologi della liberazione divenne più aspro negli anni successivi, dopo le critiche avanzate da papa Wojtyła a Puebla nel 1979 e le due severe istruzioni di censura redatte della Congregazione per la Dottrina della Fede presieduta da Ratzinger negli anni successivi; i suoi esponenti sono stati processati e in qualche caso condannati, allontanati dall’insegnamento e dalla predicazione e costretti al silenzio. Le condanne hanno riguardato anche dei preti solo «ispirati» nella loro azione pastorale dalla teologia della liberazione. Quella contro la TDL è stata, a conti fatti, l’opera di epurazione e di contrasto teologico-ideologico più dura compiuta sotto i pontificati dei due predecessori di Bergoglio. Ed è proseguita per più di trent’anni. Ancora nel 2007, quindi regnante papa Benedetto XVI, le opere del teologo della liberazione Jon Sobrino (miracolosamente scampato ad un attentato mortale ordinato dal governo salvadoregno) sono state oggetto di un’arcigna Notificazione da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede17. Le accuse che il Vaticano muoveva ai teologi della liberazione riguardavano «il tentativo di trasformare le pratiche del cattolicesimo popolare in un fattore di riscossa sociale»18; la sovrapposizione tra liberazione e salvezza; l’orizzontalismo, ovvero «la sottovalutazione della dimensione trascendente ed escatologica del messaggio cristiano per ridurlo a mero strumento di riscatto politico e sociale sulla scorta di una latente identificazione del Regno di Dio con utopie di matrice   Miccoli (2007, 309).   Scatena (2008, 66).

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socialista»19; il ricorso, giudicato eccessivo, all’analisi marxista e quindi l’esaltazione degli aspetti sociali, politici ed economici del processo di liberazione a discapito di quelli più propriamente spirituali. Da quelle premesse derivavano sia l’adesione, più o meno esplicita, di molta parte dei seguaci di quella corrente teologica alle lotte di liberazione popolare, spesso armate, dei popoli del Centro e Sudamerica, sia un tentativo di organizzare la vita ecclesiale intorno a delle strutture alternative alla parrocchia tradizionale, ovvero le comunità di base, cellule locali autogestite e attive anche nella lotta politica, a partire da una lettura rivoluzionaria e politicizzata del Vangelo. La teologia della liberazione postulava la fine del tradizionale interclassismo cattolico e soprattutto reclamava la rottura della secolare alleanza e complicità tra il cattolicesimo e il potere politico conservatore, le classi dominanti, i ricchi possidenti. Questo fu sufficiente perché i teologi della liberazione venissero accusati di fare un uso solo strumentale del Vangelo, di essere in realtà dei rivoluzionari marxisti camuffati da uomini di fede. L’insofferenza verso i vari Sobrino, Gutiérrez e Boff iniziò a crescere potentemente all’interno della Chiesa cattolica sudamericana in coincidenza con l’affermarsi della repressione poliziesca e militare della sinistra rivoluzionaria. La severa censura vaticana agevolò a sua volta l’azione repressiva. Alla conferenza di Puebla del 1979 i teologi della liberazione, protagonisti di quella precedente a Medellín, non vennero nemmeno invitati. La teologia della liberazione, in anni lontani dal crollo del Muro di Berlino e nei quali l’influenza del marxismo era ancora forte e in tanti paesi sudamericani operavano gruppi armati di guerriglieri che inneggiavano alla rivoluzione, iniziò ad essere considerata da molti gerarchi cattolici latinoamericani come una sorta di frutto perverso del concilio, come una epidemia che, a partire dagli anni Sessanta, aveva sconvolto la vita della Chiesa, avviandola verso

  Scatena (2008, 66).

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una stagione di crescente disobbedienza interna, di frammentazione e di conflitto fratricida e di smarrimento della sua funzione spirituale e del suo specifico profilo identitario. Da papa, Ratzinger ha, come vedremo, teso la mano a destra ai lefebvriani, ma ha continuato a tenerla chiusa verso la sinistra, e cioè nei confronti dei teologi della liberazione. Se vogliamo, l’unico spiraglio socchiusosi durante l’intero suo pontificato è stato, almeno indirettamente, rappresentato dalla nomina, nel luglio del 2012, di Gerhard Müller a prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Müller è un conservatore, ma è anche un grande amico personale di Gustavo Gutiérrez, e cioè del domenicano peruviano a lungo inquisito dal Sant’Uffizio che può essere considerato il fondatore della teologia della liberazione. Questo debolissimo segno non è sufficiente per ribaltare il giudizio che ho formulato più sopra: l’incerta politica dell’amicizia di Ratzinger è stata gravemente affetta da strabismo e ha mantenuto sino all’ultimo un’attenzione per il recupero dei dissidenti di destra che è stata ostinatamente e palesemente negata a quelli di sinistra. Come scrisse nel febbraio del 2009 sulla «Croix» il filosofo Guy Coq, commentando le aperture di credito di papa Ratzinger verso i lefebvriani, Certo, il principio della riconciliazione possibile è inerente al cristianesimo. Ma c’è qualche cosa di profondamente scioccante nella riconciliazione esclusiva con lo scisma dei lefebvriani, ed è il suo carattere unilaterale. Ciò che fa scandalo, non è in sé la riconciliazione proposta a coloro che hanno trovato che il Vaticano andasse troppo in là, è che essa li riguarda esclusivamente. Trascura coloro che sono stati sanzionati, sfiniti, rifiutati perché, per loro, il concilio non andava abbastanza in là. Ci si dice: «Ma non hanno fatto uno scisma! Bisognava dare la precedenza allo scisma!». Ma come! Jacques Gaillot20 e i suoi amici dovrebbero fare uno scisma per aver diritto ad un’offerta di riconciliazione? Fuori dallo scisma, non ci si può Gaillot era vescovo di Evreux e fu rimosso dall’incarico a metà degli anni Novanta. 20 

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aspettare salvezza? E i cristiani sospettati di simpatia per la teologia della liberazione, anche loro avrebbero dovuto mettere in atto uno scisma per essere partner di un dialogo di riconciliazione? Contro di loro, è pertinente la sanzione subdola: c’è una politica di nomina dei vescovi dell’America Latina, animata da un interminabile spirito di risentimento e di esclusione, contro la teologia della liberazione. Da quella parte, non si annuncia nessuna riconciliazione. Tutto avviene come se ci fossero in fondo delle colpe perdonabili, commesse da coloro che trovano che il Vaticano II va troppo in là, e delle colpe imperdonabili, escluse da ogni dialogo riconciliatore, commesse da coloro che volevano che il concilio fosse assunto pienamente. [...] È vero che da un lato c’è uno scisma, cosa gravissima sul piano dei principi. Ma dall’altro lato c’è una moltitudine di battezzati che le circostanze hanno allontanato, moltitudini di persone di buona volontà che si sentono respinte dalla Chiesa. Coloro che ritenevano che il concilio andasse troppo in là hanno seminato uno scisma; ma dalla parte di coloro che speravano in uno sviluppo dello spirito conciliare, c’è una lunga dissidenza silenziosa21.

Con l’arrivo di Bergoglio al papato le cose sono cambiate. Già la sua nomina a pontefice venne accolta con un prudente ottimismo e un’apertura di credito da parte di quel che resta della teologia della liberazione. Il Sobrino inquisito da Ratzinger dichiarò subito che se Bergoglio «non è stato un Romero né un Angelelli» (due vescovi sudamericani assassinati dall’estrema destra, rispettivamente in Salvador nel 1980 e in Argentina nel 1976), cioè se non si è schierato apertamente contro la dittatura militare nel suo paese, non si può nemmeno negare che la sua elezione rappresenti un «piccolo segno» positivo, per via, ha dichiarato padre Sobrino, della sua modestia, della sua disponibilità al servizio e del suo riconosciuto impegno per i poveri e gli indigenti del suo paese. «Molti papi sono stati eletti, e tra questi ce ne sono stati di buoni. Questo papa fa parte dei buoni!», dichiarò dal canto suo il teologo della liberazione argentino Antonio Reiser al giornale catto  Trad. it. in www.finesettimana.org.

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lico austriaco «Linzer Kirchenzeitung». A giudizio di Reiser, papa Francesco non è un uomo «di sinistra», ma ha una qualche consapevolezza sociale e si impegna a favore dei poveri. Valutazioni analoghe, anche in riferimento alla riforma della Curia romana, furono espresse da altri esponenti di punta della teologia della liberazione, come il vescovo catalano Pedro Casaldáliga e soprattutto l’ex francescano Leonardo Boff (coinvolto successivamente da Francesco nella stesura della Laudato Si’). Anche la più importante associazione legata al movimento, Amerindia, ha più volte esplicitamente preso le parti del papa, difendendone la linea e le scelte principali. Francesco ha risposto positivamente a queste aspettative in diversi modi: ad esempio, riavviando, poco dopo la sua elezione, il processo di beatificazione di monsignor Romero, poi ricevendo solennemente in Vaticano, e celebrando con lui una messa, Gustavo Gutiérrez, poi ancora incontrando Sobrino e il «socialista cristiano» Frei Betto, imprigionato e torturato dai militari brasiliani alla fine degli anni Sessanta, e infine reintegrando nel ministero sacerdotale Miguel d’Escoto Brockmann, ex ministro degli Esteri sandinista. I teologi della liberazione hanno beneficiato, insieme a tutti gli altri studiosi ed attivisti sospettabili di aver assunto posizioni eterodosse, del netto affievolimento della rigida politica repressiva sul piano ideologico avviata dal tandem Wojtyła-Ratzinger soprattutto a partire dagli anni Novanta. Con Francesco è venuto meno il clima di terrorismo ideologico instaurato dai due suoi predecessori che, ad esempio, impediva di diventare vescovi e di intraprendere una carriera ecclesiale a tutti coloro che avanzavano pubblicamente qualche dubbio sul valore di Veritatis Splendor o, in seguito, sul motu proprio di Benedetto XVI che reintroduceva la messa in latino. In quegli anni di caccia alle streghe, di nuovo antimodernismo, venivano condannati anche gli autori di libri passibili (anche solo passibili, era già questa una colpa sufficiente) di interpretazioni «errate» e le classi di molti teologi cattolici sospettati di eterodossia erano piene di studenti delatori 119­­­­

pronti a consegnare a qualche loro zelante superiore i nastri delle registrazioni delle lezioni dei sospetti che venivano poi avviati ai processi e alle misure disciplinari. Per aspirare ad una cattedra in teologia era talvolta necessario scrivere almeno un articolo nel quale si potesse far emergere chiaramente la propria indiscutibile fedeltà al magistero. L’inquisizione ha lavorato insomma a pieno ritmo per almeno un paio di decenni, forte anche dei vantaggi di un contesto giuridico nel quale non erano previste particolari garanzie per gli imputati: gli inquisiti talvolta apprendevano di essere sotto giudizio a distanza di anni dall’inizio delle indagini sul loro conto. La differenza principale col lontano passato inquisitoriale consisteva essenzialmente nell’impossibilità di comminare sanzioni penali, di far patire ai rei delle pene corporali come corredo dei provvedimenti disciplinari, ma per il resto il clima è stato quello della Controriforma. Questo pesante regime disciplinare interno è appunto sostanzialmente venuto meno, anche se la repressione non si è del tutto arrestata nemmeno sotto il regno di Francesco. Lo conferma, ad esempio, la scomunica comminata nel 2014 a Martha Heizer, cofondatrice e presidente di We are Church, il più importante movimento progressista e riformatore cattolico del mondo, accusata di celebrare l’eucaristia nella propria abitazione in Tirolo in assenza di un prete e di aver sollevato pubblicamente la questione della mancata ordinazione sacerdotale delle donne. L’atteggiamento di Bergoglio verso i teologi della liberazione è stato quindi certamente amichevole, soprattutto se comparato a quello dei predecessori. Eppure questo dato non deve dar luogo ad equivoci interpretativi e deve essere correttamente interpretato come una conseguenza della «politica dell’amicizia» che papa Francesco ha attuato, sin dall’inizio del suo pontificato, verso tutti i movimenti e le correnti ecclesiali e non come un segno di prossimità politica o culturale del pontefice argentino con la teologia della liberazione. Il papa con Gutiérrez e soci è stato tollerante, come lo è stato con altri, ad esempio con il teologo Álvarez Valdéz, 120­­­­

accusato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella seconda metà degli anni Novanta di mettere in discussione l’esistenza di Adamo ed Eva e riabilitato da Francesco dopo decenni di persecuzione. Nel caso dei teologi della liberazione, la tolleranza fa perno su un dato di realtà che è difficile disconoscere e che consiste nel fatto che oggi i teologi della liberazione (così come i lefebvriani e altri «eterodossi») non fanno più paura all’istituzione, rappresentando delle sfide ormai del tutto depotenziate e prive di qualsiasi reale pericolo per la stabilità e l’unità della Chiesa cattolica. Quanti seguaci può ormai ragionevolmente annoverare, tra gli stessi vecchi teologi della liberazione, il cattolicesimo marxista-rivoluzionario sudamericano? E quanti sono quelli, sul versante opposto, che auspicano il rinnegamento cattolico del Concilio Vaticano II e il ritorno alla messa in latino con tutti gli annessi e connessi? La verità è che questi gruppi sono ormai totalmente inoffensivi e possono essere pienamente riammessi nell’organizzazione senza che ciò produca grossi strappi. Benedetto XVI lo aveva probabilmente già compreso benissimo e infatti si era spinto, come accennato in precedenza, assai in là nel dialogo con un altro gruppo divenuto nel tempo innocuo, e cioè i lefebvriani, senza riuscire a fare altrettanto con i teologi della liberazione, forse anche perché inevitabilmente condizionato dal fatto di essere stato, da capo del Sant’Uffizio, il loro severissimo censore negli anni Ottanta. La tesi che voglio sostenere è insomma che Benedetto potrebbe non disapprovare affatto la linea che Francesco ha adottato verso Sobrino e gli altri teologi della liberazione, ritenendo che il suo successore porti a compimento quello che lui non è riuscito, o non ha potuto, realizzare. Al tempo stesso «la politica delle braccia aperte» che Francesco lancia oggi è possibile per l’istituzione solo grazie all’intransigenza usata nei confronti dei dissidenti nel recente passato, dal momento che è grazie ad essa che i due movimenti oggettivamente fonti di lacerazioni e di grave divisione interna per la Chiesa, sono stati definitivamente sconfitti e ridotti 121­­­­

all’assoluta irrilevanza. La misericordia odierna di Francesco è perciò, per molti versi, il farmaco che si dispensa in abbondanza ai vinti, ai nemici che issano bandiera bianca e che sono rimasti col caricatore vuoto, senza più una sola pallottola da sparare. In altre parole, l’amicizia papale con l’avversario giunge solo dopo averlo disarmato e ridotto all’impotenza. Se le cose stanno così, le differenze tra Benedetto e Francesco sono solo quelle dei diversi tempi e contesti storici nei quali i due pontefici hanno operato. Non c’è una vera differenza di linea tra loro, se non quella dettata dal diverso momento nel quale si trova l’istituzione. E questo si comprende osservando non solo le aperture dell’ultimo Benedetto, ma anche le chiusure del Bergoglio degli anni Ottanta e Novanta, il suo perfetto allineamento con la strategia Wojtyła-Ratzinger. L’attuale papa è infatti sempre stato, all’interno del clero argentino e latinoamericano e lungo tutto l’arco della sua brillantissima carriera, un moderato assoluto. Proprio per questa ragione, perché promise di limitare la forza degli opposti estremismi e soprattutto di quello di sinistra del suo predecessore, divenne, a soli trentasei anni, padre provinciale dei gesuiti argentini22. Bergoglio è stato anche un convinto peronista di orientamento rigidamente cattolico-nazionalista23 e quindi nettamente antimarxista. Le posizioni dei peronisti conservatori24 come Bergoglio e i suoi amici della «guardia di ferro» assomigliavano per molti versi a quelle sulle quali in Italia si attestava la cosiddetta «destra sociale», cioè quella parte della destra più chiaramente «popolare» che, con maggiore decisione e richiamandosi ad alcune componenti minoritarie del movimento fascista, chiedeva politiche di giustizia sociale e di sostegno ai poveri, avendo però sempre a cuore l’unità mistica e interclassista della nazione e mai, ma proprio mai, il conflitto di classe o l’avanzamento dei diritti civili e   Ivereigh (2014, 2214).   Ivereigh (2014). 24   Zanatta (2014). 22 23

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delle libertà individuali. Una destra dunque tanto antiliberale quanto antimarxista, fiera nemica di tutti i discendenti dell’illuminismo europeo. Tralasciando l’accusa, mossagli da taluni, di essere stato addirittura, in segreto, un sostenitore della dittatura militare argentina e di aver consegnato ai torturatori due suoi confratelli vicini ai Montoneros25, Bergoglio fu a lungo considerato da molti dei gesuiti argentini e almeno fino agli anni Novanta, quando lasciò di fatto la Compagnia, sostanzialmente un reazionario, un provinciale prima e un rettore del Collegio Maximo più tardi concentratissimo soprattutto sui sacramenti e la devozione, accusato, oltreché di essere ossessionato dall’invasione delle culture straniere in Argentina, di non andare, nell’azione verso i poveri, mai al di là di un assistenzialismo pragmatico veteroparrocchiale, di non voler affrontare le cause politiche di quella povertà, di aver spinto i giovani verso forme di religiosità popolare e devozionale fatte di rosari, instancabili adorazioni notturne, richieste di intercessione di santi e pellegrinaggi26 e, in definitiva, di aver spinto a destra, unica in tutto il continente latino-americano, la provincia argentina dei gesuiti, tentando di riportare la vita dei membri della Compagnia a valori «anteriori al Concilio Vaticano II»27. In seguito, Bergoglio divenne vescovo di Buenos Aires grazie alla protezione e alla fiducia che gli aveva accordato il suo predecessore, il conservatore e antimarxista italo-argentino Antonio Quarracino. Ad elevarlo al ruolo di cardinale fu invece Giovanni Paolo II28. Le posizioni di Bergoglio appaiono conservatrici anche dal punto di vista culturale e ideologico. Se si leggono con attenzione i testi principali della corrente teologica, l’argentina «teologia del pueblo»29, alla quale egli si sente da sempre

  Ivereigh (2014), Verbitsky (2006), Mignone (1988).   Ivereigh (2014, 3814-3822). 27   Ivereigh (2014, 3984). 28   Ivereigh (2014, 2433-2435). 29   Scannone (2016), Gera (2015), Bianchi (2015). 25 26

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vicinissimo, si scopre che il popolo che il papa tanto ama coincide sostanzialmente con l’intera comunità nazionale, ovvero con quell’entità politico-simbolica accomunata da una cultura e da un destino simili30. Nel grande blocco sociale rappresentato dall’intera nazione, la forza culturalmente egemone, secondo i vari teologi del pueblo Scannone, Tello, Gera, dovrebbero essere i poveri. Costoro custodirebbero meglio di chiunque altro l’identità e la storia della nazione, dal momento che, in virtù della loro bassa istruzione, sarebbero affettivamente ed emotivamente legati ad una solidissima forma di cristianesimo radicalmente irrazionale e basata su processioni, pellegrinaggi, devozioni e pietà popolare. Sono i poveri, secondo i teologi del pueblo, che sapranno resistere meglio di tutti alle sirene della secolarizzazione, dal momento che conoscono meglio degli altri il valore della trascendenza e che con maggior decisione hanno saputo respingere, lungo il corso del Novecento, le odiate ideologie illuministiche: il liberalismo con tutti i suoi addentellati perversi, primi tra tutti il consumismo e la cultura dei diritti individuali, e il marxismo. Sono sempre i poveri, si sostiene con un argomento antielitario che suona molto populista, a rappresentare, meglio di ogni altro gruppo sociale, la continuità con le radici precolombiane del Sudamerica e ad incarnare e difendere una versione del cristianesimo pienamente mescolata (in linguaggio cattolico «inculturata») con le tradizioni precedenti la colonizzazione. Il loro riscatto avverrà, secondo i teologi del popolo, non certo a seguito del conflitto sociale, della lotta di classe, ma piuttosto nel momento in cui la classe dirigente, resa sensibile alla sofferenza delle masse dalle sollecitazioni pedagogiche31 del clero, cambierà atteggiamento e strategie, divenendo finalmente attenta alle ragioni del popolo. Per il teologo argentino Raffael Tello, è il cattolicesimo po  Scannone (2016).   Mele (2014).

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polare (quello che qui da noi assume le fattezze di padre Pio o di padre Livio Fanzaga, fondatore di Radio Maria e ambasciatore di Medjugorje) a condurre verso una forma perfetta di vita cristiana infarcita di tanta devozione mariana, pratiche popolari di massa (giudicate molto positive per l’evangelizzazione), rifiuto di ogni forma di intellettualismo e di spiritualità personale. Secondo Tello, La lettura non è assolutamente necessaria per i semplici fedeli, come consta dalla condanna delle proposizioni di Quesnel e dal sinodo di Pistoia; infatti essi devono ricevere la dottrina della Scrittura attraverso la predicazione della Chiesa e le immagini, che fanno parte a loro volta della parola di Dio. [...] Pertanto, quando si parla della Parola di Dio non bisogna ridurre il problema né esclusivamente né principalmente alla Sacra Scrittura. Si tratta principalmente della parola incarnata, anche della Rivelazione che l’ha preceduta e che acquista adesso tutto il suo significato, dell’insegnamento apostolico trasmesso per tradizione o per iscritto, della sintesi o riassunto di tutta la fede compiuto dalla Chiesa nei Simboli o Credo, e del suo annuncio attraverso i secoli finché Egli ritorni32.

È chiaro che per intellettuali come questi non c’è niente di peggio di una modernizzazione economica che porti con sé anche l’aumento dei livelli di istruzione e dei diritti di libertà. I poveri, per rappresentare la colonna portante del cristianesimo, devono rimanere tali, soprattutto dal punto di vista delle risorse culturali: consumi e istruzione sono i principali nemici della spontanea e trascinante religiosità del pueblo. In piena sintonia con queste posizioni, Bergoglio che, come è noto, è soprattutto un uomo di azione e di governo e non un teologo né un raffinato intellettuale, in un documento redatto per l’università dei gesuiti33 scriveva che il primo motore del cambiamento doveva essere la fede del popolo «disprezzata dall’arroganza degli illuministi, che l’hanno definita credu  Citato in Bianchi (2015, 198-199).   Ivereigh (2014, 2427).

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lità e alienazione» e che il futuro si creava con «l’approfondimento del sentiero già percorso» anziché con la «servile imitazione di modelli stranieri o con l’abbandono di ciò che è nostro»34 (nel senso di popolare ed argentino). A me sembra che la teologia del pueblo non contenga nulla, ma proprio nulla che avrebbe potuto mettere in allarme le autorità vaticane. La somiglianza con la teologia della liberazione più vicina al marxismo mi pare pertanto solo apparente e legata al fatto che in entrambe la nozione di popolo assume una rilevanza considerevole, anche se in quella del pueblo è declinata in modo politicamente innocuo. Se ne accorsero benissimo anche Wojtyła e Ratzinger, che distinsero con molta nettezza una teologia della liberazione «buona» (appunto quella di Gera, Tello e Bergoglio) e una «cattiva» (quella di Gutiérrez, Boff, Sobrino). La prima era basata sulla religiosità popolare, sulla devozione e la carità ed era certamente da incoraggiare, la seconda appariva invece negativamente contraddistinta, così si legge nella istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1984, da una «riduzione del complesso e articolato concetto biblico a mera categoria politica»35. In una successiva istruzione, pubblicata nel 1986, la Congregazione, e quindi soprattutto il suo prefetto, Joseph Ratzinger, ribadiva sostanzialmente l’elogio della teologia del pueblo, definita come l’unica «teologia della liberazione» accettabile in virtù della centralità che essa assegnava ai poveri, alla pietà popolare e alla devozione e, implicitamente, del ripudio totale del marxismo che Gera aveva definito qualche tempo prima «contrario non solo al cristianesimo, ma allo spirito del nostro popolo»36. Lo stesso Lucio Gera ha partecipato attivamente alla reprimenda dei teologi della liberazione scrivendo di suo pugno le parti dedicate all’evangelizzazione della cultura e alla religiosità   Ivereigh (2014, 2430-2435).   Ivereigh (2014, 3814-3822). 36   Ivereigh (2014, 2003-2006). 34 35

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del documento che Giovanni Paolo II presentò a Puebla, nel 197937. Insomma, la teologia del pueblo non solo non si avvicina alla censurata teologia della liberazione, ma ne rappresenta per molti versi l’antagonista. Il caso di Bergoglio, collaboratore di un vescovo conservatore che ne apprezzava soprattutto la fedeltà alla linea di Roma anti-teologia della liberazione38, di seguito suo successore e cardinale per decisione di Wojtyła e infine papa eletto da un collegio cardinalizio nominato da Giovanni Pao­lo II e Benedetto XVI, ne è la miglior conferma empirica39. La politica di apertura e di accoglienza riservata ai teo­logi della liberazione non è, lo abbiamo detto più volte, all’interno della linea politica costruita da Francesco, una scelta isolata, ma piuttosto la manifestazione di un atteggiamento che il papa argentino riserva a tutti i gruppi, le aggregazioni, le correnti e le sensibilità all’interno della Chiesa. Il papa ha incontrato, esaltandone il carattere contestatario, i «movimenti popolari», ma ha anche ricevuto più volte e vigorosamente incoraggiato quel che di più simile alle sette evangeliche fondamentaliste si trova nella Chiesa cattolica, e cioè i gruppi carismatici del Rinnovamento nello Spirito. Il Francesco accusato di simpatie sinistrorse e addirittura di criptocomunismo è il medesimo leader cattolico che ha autorizzato la traslazione a Roma della salma di padre Pio in occasione del Giubileo della Misericordia, così come è il capo della Chiesa che ha di fatto riconosciuto le apparizioni di Medjugorje40, pur avendo ammesso in precedenza di nutrire qualche dubbio sulla loro quotidiana regolarità.

  Ivereigh (2014, 3791).   Ivereigh (2014, 2003-2006). 39   Ivereigh (2014, 3814-3822). 40   Paolo Rodari, L’inviato del papa firma la svolta su Medjugorje: culto autorizzato, in «la Repubblica», 9 dicembre 2017. 37 38

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La «politica dell’amicizia» tra le mura della Chiesa II: i lefebvriani La dimostrazione più evidente e clamorosa della politica di universale fratellanza voluta da Francesco è rappresentata dal suo atteggiamento verso i già citati seguaci di monsignor Lefebvre, quel gruppo di sacerdoti e semplici credenti tradizionalisti e radicalmente antimoderni che ritennero opportuno abbandonare, almeno temporaneamente, la Chiesa cattolica all’indomani del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che lì venne approvata e che comportò l’accantonamento della lingua latina a vantaggio delle lingue volgari41. Per dare consistenza organizzativa al suo gruppo, Marcel Lefebvre fondò nel 1970, nel villaggio svizzero di Ecône, dotandola di un seminario per la formazione del clero, la Fraternità Sacerdotale San Pio X, all’inizio regolarmente riconosciuta dalla Chiesa cattolica. Le tensioni con Roma e con i vescovi francesi e svizzeri crebbero rapidamente e sfociarono dapprima nell’ordine, disatteso da Lefebvre, di chiudere il seminario e di sciogliere la comunità e poi, nel 1976, nella sospensione a divinis del vescovo disobbediente. Dopo il clamoroso fallimento di un elaborato e complesso tentativo di accordo, gestito, per Roma, direttamente dall’allora cardinal Ratzinger e l’ordinazione, contro il parere della Santa Sede, di quattro vescovi da parte di Lefebvre, si giunse infine, nel giugno del 1988, alla scomunica per Lefebvre e i suoi. Poco più di vent’anni dopo, papa Ratzinger, chiaramente simpatetico verso molte delle istanze dei tradizionalisti, autorizzò l’uso del messale preconciliare e soprattutto cancellò la scomunica per i vescovi lefebvriani e fece accelerare le procedure per una riammissione piena dei nostalgici nemici della modernità nella Chiesa cattolica. Benedetto XVI fece anche preparare una bozza di accordo che la Fraternità di San Pio X, compiendo probabilmente un errore storico, decise alla fine di non sottoscrivere.   Miccoli (2014).

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Nei confronti degli appartenenti e dei seguaci della comunità religiosa fondata da monsignor Lefebvre, Francesco ha compiuto gesti importanti e significativi. Nel settembre del 2015 ha riconosciuto, con una decisione ovviamente molto gradita ai membri del gruppo, come valide ed effettive, per tutta la durata dell’Anno Santo, le assoluzioni dei peccati impartite al termine della confessione dai sacerdoti della Fraternità. Circa un anno più tardi, ha deciso di prorogare ad libitum, quindi oltre i confini dell’anno giubilare e senza l’indicazione di un limite temporale preciso, la validità di quella prima decisione. Nella lettera apostolica Misericordia et Misera resa nota alla conclusione dell’Anno Santo, papa Francesco scriveva parole come queste, che testimoniano bene la volontà di accoglienza e riconciliazione con i lefebvriani: Nell’Anno del Giubileo avevo concesso ai fedeli che per diversi motivi frequentano le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X di ricevere validamente e lecitamente l’assoluzione sacramentale dei loro peccati. Per il bene pastorale di questi fedeli, e confidando nella buona volontà dei loro sacerdoti perché si possa recuperare, con l’aiuto di Dio, la piena comunione nella Chiesa cattolica, stabilisco per mia propria decisione di estendere questa facoltà oltre il periodo giubilare, fino a nuove disposizioni in proposito, perché a nessuno venga mai a mancare il segno sacramentale della riconciliazione attraverso il perdono della Chiesa.

Più di recente, nell’aprile del 2017, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinal Müller e monsignor Guido Pozzo, segretario della commissione vaticana incaricata del dialogo con la Fraternità, hanno reso nota una lettera indirizzata ai «presuli delle Conferenze episcopali interessate» (di fatto quelle dei paesi europei dove il gruppo tradizionalista ha dei seguaci attivi) nella quale si legge: Nella stessa linea pastorale mirata a contribuire a rasserenare la coscienza dei fedeli, malgrado l’oggettiva persistenza per ora della situazione canonica di illegittimità in cui versa la Fraternità di 129­­­­

San Pio X, il Santo Padre, su proposta della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Commissione Ecclesia Dei, ha deciso di autorizzare i Rev.mi Ordinari del luogo perché possano concedere anche licenze per la celebrazione di matrimoni dei fedeli che seguono l’attività pastorale della Fraternità [...] Certi che anche in questo modo si possano rimuovere disagi di coscienza nei fedeli che aderiscono alla FSSPX e incertezza circa la validità del sacramento del matrimonio, e nel medesimo tempo si possa affrettare il cammino verso la piena regolarizzazione istituzionale, questo Dicastero confida nella Sua collaborazione.

Con questo ulteriore passaggio, il rientro dei tradizionalisti è di fatto avvenuto. Manca solo il riconoscimento formale dell’avvenuta riconciliazione. Qualche mese prima, alla fine di gennaio del 2017 sia l’arcivescovo Pozzo che il superiore della Fraternità di San Pio X avevano dato notizia dei progressi fatti nel dialogo e dell’imminenza del varo di un accordo definitivo tra la Santa Sede e la Fraternità dei nemici giurati del Concilio Vaticano II42. In particolare, nel corso di una intervista concessa ad una trasmissione televisiva francese, il successore di Lefebvre alla guida del gruppo, Bernard Fellay, aveva ammesso che papa Francesco difende e protegge meglio di ogni altro i membri della Fraternità. E lo fa, secondo Fellay, cercando l’accordo con loro e definendoli costantemente «cattolici». Si tratta, come non manca di riconoscere lo stesso Fellay, di un atteggiamento in apparenza paradossale, dal momento che, nella sua attività ordinaria di conduzione dell’istituzione, il pontefice sembra andare in una direzione diversa da quella gradita ai membri del gruppo scismatico. Forse, suggerisce Fellay, il papa argentino apprezza dei seguaci di monsignor Lefebvre il fatto che rappresentino, a modo loro, una di quelle periferie esistenziali che gli stanno tanto a cuore; o forse lo affascina, prosegue il religioso svizzero,

  Cfr. A. Tornielli, Fraternità San Pio X, riconciliazione sempre più vicina, in «La Stampa-Vatican Insider», 30 gennaio 2017. 42

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il loro tratto antiestablishment e il loro interesse per la lotta alla povertà, anche se solo a quella spirituale. Sia come sia, non si può certo dire che vi sia tra costoro e il papa la sintonia che era invece ben evidente con Benedetto XVI, con il quale essi condividevano il conservatorismo di fondo, la passione per la liturgia antica e per una certa visione tradizionale e fortemente gerarchico-disciplinare della Chiesa cattolica. Papa Ratzinger aveva fatto, come ho ricordato, molti passi importanti per la pace con i lefebvriani. Ma in questo Francesco non è stato da meno: ha proseguito ed ampliato il terreno delle intese, mostrando verso l’estrema destra reazionaria lo stesso atteggiamento, ed è questo il dato davvero originale, messo in opera verso gruppi di ispirazione completamente opposta. Questa linea di comportamento ha prodotto come effetti, da un canto, una crescita sensibile del consenso verso il pontefice da parte delle moltissime componenti ecclesiali che si sono sentite accolte e protette dal suo atteggiamento «misericordioso», dall’altro – lo ribadisco perché è l’ipotesi centrale di questo lavoro – l’allontanamento e il rinvio sine die di un piano di incisive riforme strutturali che richiederebbero, al contrario, una dolorosa inversione di rotta per il vascello vaticano e l’assunzione di un atteggiamento meno ecumenico e più determinato, più deciso intorno ad una linea politica di chiara rottura e discontinuità con il recente passato. Insomma, al pari degli altri fattori, anche la tanto celebrata «inclusività» di Francesco, le sue aperture a trecentosessanta gradi, si rivelano parte non secondaria di quella strategia di disgiunzione-distrazione che ho identificato come l’implicita linea di fondo dell’attuale pontificato. Fin dove essa possa giungere è spiegato bene in questo passaggio di un articolo di Luigi Sandri (apparso sulla rivista «Confronti» nel maggio 2017) sui rapporti del papa con i tradizionalisti: Francesco ha continuato sulla strada dei gesti distensivi; per ora, però, i lefebvriani sono rimasti tetragoni nella loro opposizione a punti-chiave del Vaticano II. Come uscirne? Si sentono qua e là ipo131­­­­

tesi strane: ad esempio, ai seguaci della FSSPX verrebbe concesso di rifiutare la Dignitatis humanae, in quanto essa non è una «costituzione dogmatica», ma... una semplice «dichiarazione». Orbene, i fedeli di Ecône hanno tutto il diritto di opporsi a qualsiasi decisione papale o conciliare che essi, in coscienza, ritengano contraddire la Tradizione della «Chiesa di sempre» (beninteso, come da loro interpretata). Ma potrebbe il vescovo di Roma, per mostrar loro misericordia, demolire con astuzie interpretative il sacrosanto concilio?

Se i tempi fossero maturi, verrebbe da rispondere: perché no? Cosa lo impedisce? Tra i migliori amici del papa ci sono i suoi nemici Un’ultima forma di disgiunzione dev’essere menzionata. A differenza delle precedenti, messe in atto dal papa per proteggere la Chiesa ed evitare una sua riforma strutturale, questa discende da un fattore esogeno alla politica del pontefice, e cioè dall’azione sinergica dei due partiti, entrambi attivissimi sulla scena pubblica, sorti quasi immediatamente in reazione al papato di Francesco: quello dei «tifosi entusiasti» e quello dei «critici ad ogni costo». Queste fazioni hanno aderito di fatto ad una medesima interpretazione del papato di Bergoglio: a loro giudizio, si tratta di un pontificato «storico», che ha già introdotto cambiamenti epocali nella vita ecclesiale, sospingendo il cattolicesimo mondiale verso una stagione del tutto inedita. Quel che cambia tra i due partiti è ovviamente il segno, il valore attribuito a questo cambiamento: per gli entusiasti, quel che fa Francesco è tutto positivo, straordinario, rivoluzionario, incredibile, meravigliosamente stupefacente, terribilmente innovativo; al contrario, per i critici radicali, esso è completamente negativo, foriero di evoluzioni drammatiche e già da oggi causa di lacerazioni, sofferenze ed errori di portata incalcolabile. I due gruppi, informalmente costituiti ma piuttosto coesi al loro interno, non solo condividono la stessa premessa nella lettura del papato, ma anche si sostengo132­­­­

no vigorosamente l’un con l’altro, indicandosi a vicenda come la prova provata, l’evidenza suprema, rispettivamente della santità o della estrema perniciosità dei progetti del pontefice. L’esistenza di una pattuglia di irriducibili nemici di Bergoglio diventa insomma, per i suoi fan acritici, la dimostrazione migliore che il papa argentino sta davvero compiendo un’azione rivoluzionaria all’interno della Chiesa: la reazione indignata di tanti conservatori ne rappresenterebbe la prova inoppugnabile. La presenza attiva di un’opposizione così violenta al papa giustificherebbe, agli occhi dei pasdaran del capo della Chiesa, tutti i ritardi e i limiti dell’azione del pontefice: Bergoglio farebbe la rivoluzione – questo è grosso modo il ragionamento degli adoratori del papa – se solo non vi fossero i «cattivi» (i «lupi», per usare l’espressione adoperata dal popolare giornalista italiano Marco Politi)43 che gli impediscono di portare a termine il suo programma. Da parte sua, il pontefice sarebbe, sempre per i «francescani devoti», un uomo così buono (o così lucidamente prudente) da aver deciso di ridurre la velocità dei grandi cambiamenti proprio per non scontentare i suoi nemici, ai quali, nella sua immensa generosità e con fraterno spirito cristiano, egli porgerebbe sempre l’altra guancia, preferendo l’abbraccio pacificatore allo scontro frontale. Sull’altro versante, l’esaltazione estasiata del pontefice fatta dai progressisti è, agli occhi dei reazionari, la più lampante conferma del carattere pericolosissimo, forse eretico e quasi «infernale», dell’operato del papa: se così non fosse, egli non solleciterebbe l’entusiasmo senza freni di quei pericolosi nemici della tradizione, neomodernisti e novatori a tutti i costi, che sono i progressisti. Insomma, su entrambi i fronti, prescindendo completamente da un’analisi lucida e obiettiva dell’azione del papa argentino che li condurrebbe a tracciare un ben diverso bilancio, i due gruppi (che, assommati, occupano praticamente

  Politi (2014).

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l’intero spettro dell’opinione pubblica) finiscono per compiere un’azione sinergica: quella di accreditare papa Francesco come un grande rivoluzionario, un leader forte e innovativo, per questo motivo meritatamente tanto adorato quanto esecrato. Di riflesso, la presunta grandezza delle gesta del pontefice si riverbera sugli esponenti dei due partiti, che in questo modo occupano in permanenza e con forza egemonica l’arena pubblica, magnificando senza limiti o denigrando fino in fondo l’azione dell’uomo venuto a Roma «quasi dalla fine del mondo». La consistenza quantitativa dei due schieramenti non è mai realmente verificata né verificabile, ma nell’agone pubblico si sentono, terribilmente amplificate, quasi solo le loro voci, che finiscono per assumere una forma corale, per recitare lo stesso adagio di fondo, e cioè per esaltare la grandezza, santa o demoniaca, dell’attuale pontefice. Per altri toni, più ragionevoli, meno esaltati dalla spinta dei sentimenti, non esiste spazio alcuno. Questo dispositivo combinato si è innescato immediatamente, la sera stessa dell’elezione di Bergoglio a papa, quando il nuovo capo della Chiesa è apparso dal balcone del Vaticano e ha salutato il popolo che lo attendeva con un informale «buonasera». La beatificazione di papa Francesco come storico riformatore di una Chiesa malata e bisognosa di radicali cambiamenti è iniziata già allora, il 13 marzo del 2013. La sua stigmatizzazione, lo sviluppo di un’opposizione radicale e molto decisa, ha richiesto un po’ più di tempo. Nelle pagine che seguono cercherò di ricostruire con precisione proprio lo sviluppo di tale opposizione, lasciando sullo sfondo l’andamento perfettamente simmetrico dei discorsi dei sostenitori più accesi del papa argentino44.

44   Per ricostruire le posizioni dei nemici del papa argentino ho fatto ricorso soprattutto ai blog, assai documentati, di Sandro Magister, «Settimo Cielo» e www.chiesa.espressonline.it, ma utili allo stesso scopo possono essere, tra gli altri e limitandomi all’Italia, «La Nuova Bussola Quotidiana», «Corrispondenza Romana», «Rossoporpora», «Con parole mie».

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Il primo segnale di allarme sul nuovo papa è venuto, per i tradizionalisti, dalla decisione di Francesco di definirsi «vescovo di Roma» e di mettere in secondo piano il titolo di pontefice cattolico universale. Il timore subito affacciatosi tra le schiere dei conservatori è che quella scelta potesse precedere il ridimensionamento del governo centrale della Chiesa, l’ascesa di periferie ecclesiali riconosciute come legittimamente autonome e la marginalizzazione o addirittura la scomparsa del ruolo del papa romano. Il sospetto venne significativamente rafforzato dalla rinuncia di Francesco a molti degli aspetti più solenni della sacralità papalina e dallo stile modesto, misurato e parco che egli ha da subito dato mostra di prediligere. In questa prima fase, ancora caratterizzata da una certa prudenziale cautela da parte della destra ecclesiale, iniziarono ad affiorare le prime critiche, oltre che per alcune nomine che parvero perlomeno avventate (da quella di Francesca Chaouqui a membro della «Commissione referente di studio e indirizzo sull’organizzazione delle strutture economiche e amministrative della Santa Sede» a quella di monsignor Ricca a prelato dello IOR), per uno stile che sembrò troppo deciso e quasi autoritario e per il ricorso troppo frequente ad un linguaggio informale ed eccessivamente semplificato, oltreché per l’abitudine di far passare i concetti importanti più nelle interviste che nei documenti formali. Iniziarono allora a farsi strada le prime struggenti nostalgie per il papa tedesco emerito insieme allo sconcerto per l’assenza, nei discorsi del nuovo papa, dei «valori non negoziabili» così cari ai suoi due ultimi predecessori. A partire dal secondo anno di pontificato, gli attacchi contro papa Francesco sono aumentati di intensità. Lo si è accusato di rimanere spesso in silenzio di fronte a leggi dello Stato che i cattolici dovrebbero disapprovare, come quelle che rendono legale l’eutanasia o i matrimoni omosessuali, e si è indicata la ragione di questo atteggiamento nella volontà di evitare sistematicamente i conflitti e le contrapposizioni: il papa sarebbe soprattutto preoccupato di non perdere popo135­­­­

larità, di piacere a tutti (inclusi gli atei e i miscredenti), di non avere veri oppositori nell’opinione pubblica e di accreditare una versione light del cristianesimo compatibile con tutti o quasi i valori prevalenti nel mondo contemporaneo. Gli oppositori hanno iniziato ben presto ad accusare il papa di non sapere (o addirittura di non volere) difendere i cristiani perseguitati e di essere troppo tenero e accondiscendente con l’Islam, verso il quale Ratzinger aveva invece saputo, soprattutto nel famoso discorso di Ratisbona, formulare parole chiare e nettissime. A papa Francesco comincia ad essere imputato un atteggiamento ambiguo e contraddittorio su molte questioni, ad esempio quelle economiche, laddove viene rilevato il contrasto tra l’incoraggiamento alla lotta sociale fatto ai movimenti popolari e le eccellenti relazioni coltivate con i membri dell’establishment politico-finanziario. A questo punto, il tono della critica si è già alzato rispetto agli esordi, ma il lumicino della speranza di non trovarsi di fronte ad un papa progressista non è, nelle fila dei reazionari, del tutto spento. Ancora alla fine del 2014, l’ex vescovo di Chicago ed ex presidente della conferenza episcopale statunitense Francis George disse che Francesco, con dichiarazioni disinvolte come quella sul «chi sono io per giudicare?», stava rischiando di sollecitare aspettative che alla fine non avrebbe soddisfatto e che questo avrebbe finito col provocare, come un boomerang, la violenta reazione di un’opinione pubblica laica e progressista infine delusa da un finto riformista come il papa argentino. Nel 2015, la polemica antipapale crebbe ulteriormente di tono. Sotto i riflettori della critica finirono, sul piano della diplomazia vaticana, il presunto sacrificio, in nome dell’allean­ za con Putin e con la Chiesa ortodossa russa, degli interessi dei cattolici ucraini e il silenzio colpevole sulle vittime del regime comunista cubano. Sul piano ecclesiale, si sono contestate a Francesco la nomina di troppi vescovi progressisti insieme alla supposta ostilità verso quelle conferenze episcopali più interessate di lui alla difesa dei valori tradizionali, il ricorso ad un linguaggio demagogico (che non porterebbe 136­­­­

un solo fedele in più in Chiesa) spesso impreciso e approssimativo sotto il profilo teologico e il mancato incoraggiamento rivolto agli anglicani a lasciare la loro Chiesa in favore di quella cattolica. La convocazione da parte di Francesco del Giubileo della Misericordia ha offerto agli oppositori l’opportunità per nuovi attacchi al papa, imputato questa volta di considerare irrilevanti i temi del giudizio e del castigo divino e di non difendere a sufficienza l’esistenza del purgatorio e l’utilità delle indulgenze. Lungo tutta questa fase, nei confronti del nuovo papa vennero avanzate, come abbiamo visto, obiezioni certamente severe e gravi. Possiamo aggiungere a quelle già elencate la critica feroce all’enciclica Laudato Si’, giudicata, di volta in volta, un documento populista, semplicistico, romantico, velleitario, eccetera. E tuttavia in quel momento sopravviveva ancora tra le fila degli oppositori, malgrado tutto, l’esilissima speranza che Francesco non avrebbe avuto il coraggio di mutare la dottrina della Chiesa sul matrimonio, cioè di riconoscere ai divorziati risposati la possibilità di accedere nuovamente all’eucaristia. La pubblicazione di Amoris Laetitia, soprattutto, come è risaputo, per il contenuto del suo ottavo capitolo, ha soffocato quasi del tutto questa speranza. Il «quasi» è legato al fatto che, lo abbiamo già sottolineato, alcuni autorevoli interpreti del documento, primo fra tutti il potente cardinal Müller, ormai ex capo dell’ex Sant’Uffizio, lo abbiamo già ricordato, hanno sostenuto che nulla è cambiato nemmeno dopo Amoris Laetitia e che il papa non ha in realtà apportato, con quel documento, nessuna significativa innovazione all’impalcatura dottrinaria della Chiesa. Sono motivazioni analoghe, come abbiamo visto, a quelle contenute nelle istruzioni per l’applicazione dell’enciclica prodotte dagli episcopati più conservatori. Ad ogni modo, all’interno dello schieramento reazionario, l’opinione prevalente, rafforzata nei mesi successivi, come vedremo, da interventi assai autorevoli, è tutto fuorché cauta: pubblicando il capitolo incriminato, France137­­­­

sco avrebbe commesso un’azione esecrabile e gravemente lesiva della tradizione e della dottrina cattolica. Il fuoco di fila aperto contro il papa era divenuto a questo punto massiccio e senza remore. Si è accusato il papa di aver «pilotato» i due sinodi per poter giungere a questo approdo. Ci si è chiesti – lo ha fatto ad esempio Sandro Magister sulle pagine del suo blog – cosa debbono pensare «quelli che hanno fin qui obbedito alla Chiesa e si sono riconosciuti nella sapienza del suo magistero», cioè che hanno deciso di vivere la nuova unione post-matrimoniale come fratello e sorella, astenendosi dai rapporti sessuali? A quelli – risponde Magister – viene dato uno schiaffo, giacché vien detto loro che rischiano di mettere a repentaglio la nuova famiglia e di compromettere, in conseguenza della rinuncia ad una vita intima coniugale, il bene dei figli. Qualche prelato, ad esempio il vescovo di Astana, nel Kazakistan, Schneider è arrivato a paragonare la situazione ecclesiale attuale determinata da Amoris Laetitia a quella nella quale si era diffusa, nel IV secolo, l’eresia ariana. Il papa è stato accusato di aver sgretolato il principio dell’indissolubilità del matrimonio e di aver fatto avanzare una Chiesa ambigua, furbescamente populista e «liquida». Si è arrivati a dire che il papa ha di fatto «copiato» l’esortazione apostolica da un paio di articoli di un discusso teologo argentino alla cui promozione a rettore dell’Università cattolica di Buenos Aires Ratzinger si era vigorosamente opposto. Nello schieramento che avversa Francesco si è distinto l’importante teologo ex arcivescovo di Bologna cardinal Caffarra. Costui sarà anche l’ispiratore del più clamoroso dei gesti di ribellione a Bergoglio e cioè dei cosiddetti «dubia», ovvero della lettera che, sottoscritta da altri tre cardinali «in pensione», cioè ultrasettantacinquenni, senza incarichi e ormai privi del diritto di far parte del Concistoro che eleggerà il successore di Francesco, verrà dapprima inviata al papa e poi, rimasta senza risposta, resa nota alla stampa e quindi al grande pubblico dei fedeli. Lo spirito della lettera è stato ben sintetizzato da queste 138­­­­

parole che Caffarra ha pronunciato rispondendo alle domande dei giornalisti del «Foglio»: «Io posso essere docile al magistero del papa se so cosa il papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa il papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi vogliamo essere docili al magistero del papa, però il magistero del papa deve essere chiaro». Al giornalista che gli chiedeva da dove provenissero la confusione e lo smarrimento Caffarra rispondeva: Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò che sta accadendo. Mi scriveva: «Nella direzione spirituale e nella confessione non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all’eucarestia, propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il papa ha detto che posso ricevere l’eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento pontificio di ammettere all’eucaristia, date certe circostanze, chi vive more uxorio senza essere sposato». Così scriveva il parroco. La situazione di molti pastori d’anime, intendo soprattutto i parroci, è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare. È a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci, ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe l’astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni. Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e l’abbiano in abbondanza. [...] Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull’arbitrio. Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante. Quando sento dire che [quello proposto da Amoris Laetitia] è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il coman139­­­­

damento che proibisce l’adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c’è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda...

Questi lunghi passaggi dell’intervista all’ex arcivescovo di Bologna chiariscono bene la struttura argomentativa dei «dubia». Quello che si chiede al papa è di fare chiarezza sull’interpretazione di Amoris Laetitia, precisando altresì che, nel caso in cui essa fosse diversa dalla sola ritenuta legittima dagli anziani gerarchi, ne deriverebbe una gravissima perversione della dottrina morale della Chiesa. Oggetto dei «dubia» sono, in primo luogo, la possibilità di assolvere ed ammettere così all’eucaristia i divorziati risposati (violando così la dottrina precedente) e poi l’esistenza di norme morali assolute che qualificano certi atti come oggettivamente cattivi, l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato grave abituale, la possibilità di trasformare un atto disonesto in uno onesto, il ruolo svolto dalla coscienza in relazione a norme morali assolute. Nei mesi successivi, alcuni vescovi ed alti gerarchi cattolici hanno espresso una più o meno grande sintonia con le ragioni dei «dubia». Tale movimento è rimasto tuttavia confinato ad un settore ultraminoritario della gerarchia cattolica non raggiungendo mai le dimensioni di una valanga e non autorizzando nessuno a parlare, neppure lontanamente, di uno scisma o di qualcosa che gli assomigli. In altre parole, se si prescinde dal rilievo che gli hanno assegnato i giornalisti, sempre in cerca di contrapposizioni spettacolari e clamorose, la consistenza del gruppo dei contestatori della leadership bergogliana è di fatto quasi nulla, limitata a quattro cardinali in pensione e a qualche simpatizzante nei ranghi della gerarchia: non più di una decina di vescovi su più di cinquemila. Anche sul piano teologico, la mobilitazione antiAmoris Laetitia appare piuttosto esigua e limitata ad alcune frange marginali ed estremiste della teologia contemporanea. 140­­­­

Nell’aprile del 2017 alcuni di questi teologi si sono radunati in un convegno a Roma. Nel corso dei lavori sono stati evocati, con orrore, tutte le colpe del papa argentino: la protestantizzazione del cattolicesimo, la svalutazione della dottrina morale, l’esaltazione del piano pastorale a discapito di quello dei principi. La relazione più interessante è stata certamente quella di Claudio Pierantoni, il quale, avendo in mente Bergoglio, ha menzionato il caso di due papi, Liberio e Onorio, puniti dalla gerarchia in ragione della loro eterodossia: il primo fu condannato post mortem da un concilio ecumenico, il secondo fu costretto a correggere la sua posizione. È quello che per il teologo reazionario bisognerebbe fare con Bergoglio, anch’egli bisognoso di una «correzione caritatevole che ridia splendore alla verità». In verità, a guardar bene, ha dichiarato Pierantoni, il comportamento di Francesco è pure peggiore di quello dei suoi due lontani predecessori: egli infatti ha la colpa di contrapporsi ad una tradizione e ad un magistero assai più solidi ed efficaci di quelli esistente nei primi secoli del cristianesimo. Quello che salta all’occhio nella situazione attuale – ha concluso Pierantoni – è proprio la deformazione dottrinale di fondo che, pur abile nello schivare formulazioni direttamente eterodosse, manovra tuttavia in modo coerente per portare avanti un attacco non solo contro dogmi particolari come l’indissolubilità del matrimonio e l’oggettività della legge morale, ma addirittura contro il concetto stesso della retta dottrina e, con esso, della persona stessa di Cristo come Logos. Di questa deformazione dottrinale la prima vittima è proprio il papa, che di essa, mi azzardo a ipotizzare, è assai poco consapevole, vittima di un’alienazione generalizzata ed epocale dalla Tradizione, in ampi strati dell’insegnamento teologico. [...] Alla luce di tutto ciò, si rende quindi più che mai necessario un ulteriore atto di coraggio, di verità e di carità, da parte dei cardinali, ma anche dei vescovi e poi di tutti i laici qualificati che volessero aderirvi. In una situazione così grave di pericolo per la fede e di scandalo generalizzato, è non solo lecita, ma addirittura doverosa una correzione fraterna francamente rivolta a Pietro, per il suo be141­­­­

ne e quello di tutta la Chiesa. Una correzione fraterna non è né un atto di ostilità, né una mancanza di rispetto, né una disobbedienza. Non è altro che una dichiarazione di verità: «caritas in veritate». Il papa, ancor prima di essere papa, è nostro fratello.

Si tratta insomma di rimettere in riga un capo incosciente e criminale, di punire, potremmo dire con un linguaggio mutuato da altri tempi e altre circostanze politico-culturali, un «papa che sbaglia». Ad ogni modo, dopo l’Amoris Laetitia, per l’estrema destra cattolica il dado è tratto, il destino del papato di Bergoglio inequivocabilmente segnato. Nei mesi e negli anni successivi, i «critici ad ogni costo» hanno fatto cadere sulla testa del papa accuse di ogni genere: da quella di essere un abile teatrante assai esibizionista a quella di sostenere l’estrema sinistra sudamericana, da quella di voler abolire l’infallibilità esercitando però il papato in modo autoritario a quella di aver stravolto la liturgia del giovedì santo, da quella di voler perdonare e ammettere nella Chiesa i vescovi cattolici cinesi nominati dai leader comunisti a quella di aver licenziato senza ragione dei dipendenti vaticani, da quella di essere un pericoloso populista a quella di essere un criptoluterano e per giunta di esserlo divenuto dopo aver compiuto, su questo come su altri terreni, un clamoroso voltafaccia, dato che nel 1985 il futuro papa aveva scritto: «la prospettiva luterana, poiché si fonda sul divorzio stesso tra la fede e la religione, genera divorzio e scisma; comporta ogni sorta di individualismi che, sul piano sociale, affermano la loro egemonia». È inutile proseguire con ulteriori dettagli. Credo che il quadro sia già sufficientemente chiaro. L’opposizione a Bergoglio è tanto estrema quanto clamorosamente ridotta negli effetti e nelle conseguenze. Essa alimenta, al pari del coro degli apologeti, la leggenda di un Francesco riformatore, che sconquassa e devasta (o riforma e rigenera) la vita della Chiesa. Di leggenda appunto si tratta, di narrazione fantastica e immaginifica che, come esito tangibile, produce l’allontana142­­­­

mento dalla verità dei fatti, una sistematica distorsione nella percezione della figura del pontefice. Si tratta, in definitiva, di una circostanza assai benefica per l’istituzione, dal momento che le consente di occupare la scena della comunicazione con i gesti e le azioni del suo leader, ma anche di fornire agli occhi di chi la osserva l’impressione di un cambiamento profondo che in realtà non è avvenuto e presumibilmente non avverrà, nemmeno in una minima parte. La leggenda metropolitana della resistenza a Bergoglio rappresenta insomma, oltre che un motivo di sopravvivenza per una piccola banda di estremisti di destra, di passatisti legati in modo feticistico all’idea di una Chiesa in lotta con la modernità, un alibi formidabile per non fare le riforme, potendone imputare la responsabilità alla potente e malvagia cricca dei nemici del cambiamento. La «Chiesa reale» delle parrocchie e delle diocesi ha, al contrario di quanto è avvenuto in questa fiction, accolto le azioni di Bergoglio per quel che sono: gesti minimi di adeguamento delle norme ecclesiali alle nuove circostanze storiche, atti dovuti che si limitano semmai a riconoscere quel che era da moltissimo tempo una prassi diffusa anche se non pubblicizzata e che comunque non cambiano di una virgola la «costituzione materiale» della Chiesa, i cardini sui quali essa è solidamente strutturata e cioè: il pregiudizio di genere, ovvero l’esclusione assoluta delle donne dai ruoli direttivi, il clericalismo, ovvero la superiorità esplicita di un ceto di funzionari celibi sulla gran massa del popolo e il centralismo romano, la convergenza di tutte le periferie su un solo abbagliante centro politico, ora occupato da un capo dalla smagliante e vitalistica seduttività.

Conclusioni

Il nostro itinerario è giunto al termine. Nel primo tratto, abbiamo dapprima chiarito che papa Bergoglio non ha fatto, nei cinque anni che ci separano ormai dalla sua elezione, alcuna riforma, che non ha assecondato i piani di coloro che avevano sperato in cambiamenti strutturali nell’organizzazione del cattolicesimo. Di seguito abbiamo compreso che le riforme non si fanno, e probabilmente non si faranno, per ragioni non contingenti, cioè a causa principalmente dell’inerzia organizzativa della grande struttura ecclesiale e dell’assenza di una crisi profonda, che potrebbe, essa sola, innestare l’avvio di qualche cambiamento. Nell’ultimo capitolo, abbiamo analizzato alcune innovazioni del pontificato che sostituiscono le riforme di struttura: essenzialmente l’attenzione ai temi economici e sociali e «la politica dell’amicizia», alle quali si è aggiunta la campagna di delegittimazione orchestrata contro il pontefice argentino da un manipolo di suoi avversari. Insomma, la Chiesa resta immobile e anche quest’ultima occasione di cambiarla è sfumata. Al tramonto dell’eventualità di mutamenti reali negli assetti di potere interni alla Chiesa (è questo quello che rende strutturale una riforma) non è seguito quel che si poteva immaginare che sarebbe seguito, e cioè una delusione profonda da parte dei riformatori e di quella ampia porzione dell’opinione pubblica simpatetica verso l’aggiornamento del cattolicesimo. I motivi per i quali ciò non è avvenuto sono davvero molteplici: il più banale, anche se non del tutto secondario, chiama in causa quello che potremmo definire il «papismo» di molti cattolici, cioè l’attitudine a pensare 144­­­­

al pontefice come all’uomo della provvidenza, allo scioglitore di tutti i nodi, all’unico soggetto a cui compete davvero e fino in fondo il diritto di decidere dove la Chiesa debba dirigersi. Il papismo è una conseguenza della struttura monarchica dell’organizzazione, ma è anche un atteggiamento introiettato, un’attitudine profonda a delegare il cambiamento ad una figura patriarcale provvidenziale, a venerare l’uomo solo al comando, attribuendogli qualità e facoltà straordinarie. Ad ogni nuova elezione, il papismo produce il riaccendersi della speranza palingenetica, un sentimento che poi persiste a lungo, al di là di ogni ragionevolezza, producendo un’ostinata e inconsapevole tendenza a non accettare l’evidenza, ovvero a non riconoscere tutti i motivi che rendono il cambiamento dall’alto molto improbabile, quasi impossibile e il governo della Chiesa un’attività contraddistinta dall’interesse primario delle élites alla stabilità e alla continuità storiche. Ad innescare la spirale di eccezionali aspettative è probabilmente il fatto che, una volta eletto, il pontefice non è più rimovibile, se non per una sua sovrana decisione, per un suo gesto volontario. Questo elemento fa immaginare che egli sia davvero, dal momento della designazione in avanti, un uomo libero, in grado di realizzare quei progetti che ha sempre segretamente coltivato quando occupava le posizioni inferiori. Questa rappresentazione del sovrano cattolico sottovaluta non solo il peso enorme dell’istituzione, dei suoi interessi, delle sue routine, dei suoi valori di fondo, ma anche, e soprattutto direi, il fatto che l’uomo anziano che viene designato a quel ruolo è egli stesso un figlio, generalmente fedele e affezionato, di quella medesima istituzione e assai difficilmente può progettare di stravolgerla e ribaltarla per intero, a meno che questo sia l’unico modo per salvarla, come avvenne negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica col fallito tentativo riformatore di Gorbačëv. Sia come sia, ed escludendo la malafede di chi sarebbe preoccupato soprattutto di non compromettere la propria reputazione di alfiere di un papa incendiario rivelatosi pom145­­­­

piere, il papismo si rivela anche una formidabile «trappola cognitiva» che non permette di fare i conti con la realtà, che allontana e distoglie dalla verità. I papisti si ostineranno a vedere in Francesco un papa riformatore sino all’ultimo giorno del suo pontificato. Il dilagare del culto della personalità di papa Francesco mi ha fatto tornare alla mente il mito, citato dall’antropologo americano James Scott1, dell’ingenuità filo-monarchica2. Questo mito, molto probabilmente rintracciabile in diverse situazioni storiche, ma certamente diffusosi in Russia, come riferisce Scott, a partire dal XVII secolo, in particolare dalla cosiddetta «epoca dei disordini», prevede che uno «zar salvatore desideri liberare i propri sudditi reali dal servaggio e che cortigiani e funzionari maligni, per impedirglielo, cerchino di assassinarlo»3. Lenin era convinto che fosse la diffusione di questo mito a spiegare la docilità delle masse contadine, la loro mancata adesione ad un progetto rivoluzionario. Almeno fino al 1905, e cioè fino alla «domenica di sangue», durante la quale lo zar in persona diede l’ordine di sparare su una folla di manifestanti indifesa e pacifica, «i contadini – scrive Lenin – hanno potuto credere ingenuamente nello zar ‘piccolo padre’ per aver sollievo delle loro condizioni insopportabilmente dure, che derivano dal ‘piccolo padre’ in persona, dando la colpa di ogni coercizione, arbitrio, ruberia o altra infamia solo a funzionari che ingannano lo zar [...] I contadini non erano capaci di ribellarsi. Sapevano solo presentare petizioni e pregare»4. Il mito del «papa buono e giusto», circondato da una corte malvagia che trama contro di lui e ne sabota i tanti magnifici progetti di riforma, è più vivo che mai nella Chiesa di Francesco. Esso spinge ad attribuire al papa intenzioni rivoluzionarie che solo la crudeltà dei suoi perfidi cortigiani gli   Scott ne offre un’interpretazione assai diversa da quella presentata qui.   Scott (2006, 129-136). 3   Scott (2006, 129). 4   Citato in Scott (2006, 129). 1 2

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impedirebbe di realizzare e ad immaginare, all’interno della mura dove la vita di corte si anima, conflitti drammatici, resistenze estreme, complotti oscuri e tensioni laceranti. Io non nego certo che queste ultime vi siano, ma sono convinto che molto raramente esse vedano come protagonisti progressisti e conservatori e cioè che quasi mai abbiano come oggetto aspetti per così dire ideologici o ideali, ma riguardino piuttosto concreti interessi di potere, di denaro, di amore e di amicizia così come di inimicizia, e così via. Come avveniva probabilmente in quelle corti regie e imperiali del passato, di cui oggi il papato è un’ultima, per molti versi affascinante e suggestiva, vivente testimonianza storica. In ogni caso, il persistere del mito contribuisce a indirizzare l’insoddisfazione di una buona parte delle masse e dell’intellighenzia cattoliche verso la chimera del «papa salvatore» che verrà un giorno a compiere il miracolo della riforma della Chiesa. Nella spiegazione dell’accantonamento del tema delle riforme, a questo primo importante elemento, che riguarda soprattutto l’interno dell’istituzione, il mondo cattolico, ne va affiancato un altro, di natura completamente diversa e legato maggiormente alla percezione esterna alla Chiesa della figura del papa. Esso consiste nel fatto che, nel caso di Francesco – ed è il dato a prima vista più evidente per ogni osservatore –, la personalità e lo stile del papa argentino si sono imposti sulla scena globale con una forza tale da spingere rapidamente in secondo piano le riforme e i cambiamenti strutturali. Francesco è diventato una celebrità così popolare, così seducente e intrigante sul piano squisitamente personale, da rappresentare in sé una novità sufficientemente ampia per alimentare la fame continua di personaggi e di simboli dei pubblici mediatici. Da questo punto di vista, Francesco è divenuto rapidamente un «personaggio» dello star system mondiale, capace di affabulare in modo semplice e «simpatico»5,   Non è ovviamente la prima volta che un papa fa mostra di una personalità spigliata e di uno stile diretto ed efficace. Eamon Duffy (1997, 377) 5

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di apparire spiritoso, sagace, pieno di umanità, di compiere bei gesti e di pronunciare battute fulminanti, di mostrarsi in grado di fare bene quelle cose che piacciono tanto in una società voyeurista: confessarsi in pubblico, rivelare eventi della propria vita, raccontare e raccontarsi. Con la sua capacità di occupare la scena, di sedurre le masse, il papa argentino fa prendere alla Chiesa due piccioni con una fava: da un lato, aumenta immensamente la sua popolarità, dà smalto alla sua immagine, cattura l’attenzione delle opinioni pubbliche di tutto il mondo; dall’altro, non solo fa scomparire del tutto dal dibattito pubblico il tema della secolarizzazione e della sempre minor rilevanza del cristianesimo, ma oscura, quasi fosse una cosa irrilevante, l’esistenza e il funzionamento dell’organismo che dirige, della macchina ecclesiastica, cioè delle prassi politiche, religiose, culturali e normative nelle quali è immerso quel mezzo milione di preti che non si chiamano papa Francesco. Questo, lungi dal rappresentare un problema per l’apparato ecclesiale, diventa la premessa perché esso continui a riprodursi senza eccessive interferenze esterne. In definitiva, un papa come Francesco occulta, nel discorso pubblico e nella sensibilità collettiva, il dramma dell’allontanamento dei fedeli e le magagne della macchina clericale facendosi, grazie al soccorso dei media sempre in cerca di ci ha raccontato che Pio X, forse il più reazionario dei papi moderni, aveva un viso tondo e simpatico, origini umili e modi aperti e cordiali, che era insomma un uomo del popolo e che era, da pontefice, popolarissimo e molto amato. Essendo vissuto in altri tempi – è morto nel 1914 – poteva permettersi di pronunciare parole come queste (che Francesco non direbbe mai, ma che forse sottoscriverebbe): «Quando parliamo del vicario di Cristo, non dobbiamo cavillare, dobbiamo obbedire, non dobbiamo [...] valutare i suoi giudizi, criticare le sue indicazioni, per non ferire Gesù Cristo stesso... La società è malata, l’unica speranza, l’unico rimedio è il papa». Anche Pio IX, qualche anno prima, riferisce sempre Duffy (1997, 337) «si comportava con semplicità come un buon parroco: predicava, cresimava i bambini, visitava le scuole e gli ospedali, dava la comunione all’interno delle più umili cappelle cittadine». La differenza principale, sotto questo profilo, tra costoro e papa Bergoglio è che la predicazione di quest’ultimo è immediatamente visibile per così dire «in mondovisione».

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celebrità, egli stesso cattolicesimo, sussumendolo in sé, incorporandolo e simbolizzandolo. Insomma, il papa, per la rappresentazione che ne fanno i media, diventa un divo, un uomo in grado da solo di aggirare, scavalcare e sostituire l’organizzazione, riportando la gente nelle chiese o restaurando la purezza del messaggio evangelico. Se, ad esempio, il papa dice, come ha detto, di aver incontrato quarant’anni fa una psicanalista ebrea, un’affermazione dagli effetti totalmente nulli per la vita di un’organizzazione che comprende da tempo tantissimi psicologi, la stampa italiana titola che la Chiesa riconosce e accetta la psicanalisi; se il papa fa una battuta sul giudicare gli omosessuali, per i media la Chiesa ha già archiviato la sua tradizionale posizione di condanna dell’amore tra persone dello stesso sesso. Il sistema della comunicazione tratta la Chiesa come se fosse un’azienda «liquida», nella quale brand, cultura organizzativa, norme e ragione sociale possono cambiare a seguito di un’alzata di ingegno dell’amministratore delegato o della trovata di un direttore marketing. Il papa non fa niente per correggere questo atteggiamento, per porre fine al fraintendimento; anzi lo fa proprio e lo accredita, costruendo in questo modo l’immagine di un’organizzazione religiosa più adatta ai nostri tempi, più gradita alla maggioranza dell’opinione pubblica che in misura sempre più ridotta frequenta sacrestie ed oratori e che non nutre particolari pregiudizi contro gli omosessuali o la psicanalisi. La Chiesa cattolica è in realtà l’organizzazione più «solida» che esista e i cambiamenti al suo interno sono regolati da un’incredibile selva di regole e di norme, ognuna delle quali richiederebbe, per essere mutata, una riflessione teo­ logica, una discussione dottrinaria, un confronto attento. Come quello che ha impegnato centinaia di alti prelati e di intellettuali cattolici nei due sinodi sulla famiglia, portando ad esempio, sul tema dell’omosessualità, anni dopo il «chi sono io per giudicare?» pronunciato in aereo da Bergoglio, a 149­­­­

concludere che, citando le parole del papa in Amoris Laeti­ tia6, «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». In ogni caso, le due articolazioni, quella liquida e quella solida, entrambe reali negli effetti che producono, possono esistere contemporaneamente dal momento che occupano spazi sociali diversi: la prima quello dell’opinione, la seconda quello della vita quotidiana di chi partecipa davvero alla vita della Chiesa. Nella prima, la Chiesa è semplicemente l’apparato organizzativo a servizio del pontefice e i preti sono i suoi dipendenti-sottoposti: qui le parole e i gesti del papa sono gli unici che contano e producono immediatamente, come per magia, effetti radicali e sconvolgimenti clamorosi. Nella seconda, al riparo dagli sguardi indiscreti, il cambiamento sociale procede con molta maggior lentezza, scontando le resistenze culturali, i molti conservatorismi di clero e fedeli, gli interessi minuti, i retaggi duri a morire, le tante vischiosità. Nel mondo secolarizzato è la «Chiesa mediatica» ad essere destinata a divenire sempre più visibile e rilevante e a doversi far carico delle esigenze della consorella più debole, la «Chiesa parrocchiale», quanto mai bisognosa di protezione e di cura per poter sopravvivere. Da questo punto di vista, avere a disposizione una figura come quella del papa, cioè di un protagonista assoluto della sfera mediale, è per i cattolici un vantaggio eccezionale, un atout formidabile con il quale affrontare le sfide della secolarizzazione. Altro che decentramento! I pontefici del futuro saranno inevitabilmente persone capaci di stare sempre meglio sotto i riflettori, di occupare, da soli, il centro della scena. Rinunciare a questo vantaggio sarebbe per l’apparato ecclesiastico, da un punto di vista squisitamente strategico, pura follia: esso infatti permette di rinviare alle calende greche la riforma e di prosperare più

  Amoris Laetitia, 251.

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e meglio dei concorrenti, e soprattutto evita lo scenario di una conflagrazione della struttura ecclesiale per effetto della balcanizzazione e della crisi di legittimità che seguirebbero il varo di grandi mutamenti strutturali. Ad ogni modo, il discorso del papa risulta attraente non solo per ragioni di stile comunicativo. Quello che Francesco mi sembra aver perfettamente compreso è che il messaggio religioso nel nostro tempo può diventare attraente solo se consente, o meglio promette, a chi lo fa proprio di «vivere meglio», di realizzare le proprie aspirazioni, di condurre un’esistenza più ricca e serena. L’insistenza sulla dottrina, sul peccato, sulle norme morali da non violare riflettevano un’offerta religiosa basata sullo scambio tra un comportamento dei fedeli retto e rispettoso delle norme morali emesse dalla Chiesa e una garanzia di salvezza eterna assicurata da quest’ultima. In quella visione, la Chiesa si offriva come mediatrice e agenzia di salvezza tra Dio e gli uomini: se costoro avessero rispettato le norme e i valori che essa affermava si sarebbero conquistati l’eterna felicità, l’ammissione alla schiera dei salvati. Questa prospettiva è oggi sempre meno credibile. È ormai divenuta troppo grande la capacità umana di curare e guarire le malattie, di posporre la morte, di aumentare il benessere e la qualità della vita perché lo scenario basato sullo scambio escatologico abbia ancora qualche chance di successo. Ed è insieme troppo screditato il ruolo delle mediazioni e dei mediatori in società radicalmente individualiste, oltre che indebolito il sostegno politico e statutale alle istituzioni religiose. Le fiamme dell’inferno insomma spaventano sempre meno, al pari delle profezie di sventura, delle punizioni divine, dei castighi dal cielo. Per questo, almeno nel mondo occidentale, la secolarizzazione avanza con impressionante velocità e lo spazio delle religioni si riduce diminuendo sempre più. Diminuisce, ma certo senza scomparire del tutto. Da un lato, perché rimane attiva un’estrema minoranza di fedeli ancora convinti dell’esistenza di un Dio severo e castigatore (si pensi ai frequentatori di Medjugorje, agli ascoltatori di Radio Ma151­­­­

ria, ai seguaci dei vari profeti di sventura), un Dio che condanna senza sconti gli omosessuali e gli adulteri, dall’altro, e soprattutto, perché comunque molte delle promesse della modernità si rivelano esagerate e non mantenibili e questo genera delusione e desiderio di protezione. In questo scenario, la religione assume, in tante circostanze, le fattezze misericordiose esaltate da Francesco, il volto di Dio si trasforma e diventa comprensivo7; il mercato religioso si liberalizza e si apre alla competizione per conquistare la fiducia dei fedeli. L’abilità di Bergoglio in questo quadro è quella, da un lato, di non rifiutare il contributo che viene dai tradizionalisti, indispensabile per mantenere il controllo di una nicchia rilevante della domanda religiosa, dall’altro, di rilanciare quella che potremmo definire una «spiritualità positiva» molto adatta a soccorrere il grande esercito degli sconfitti della modernità, quelli che non ce l’hanno fatta e che hanno bisogno di affetto, comprensione e appunto misericordia. Per attrezzare la Chiesa a svolgere questo compito non c’è nessun bisogno di cambiare la struttura ecclesiale: è sufficiente incoraggiare la riqualificazione del personale, in direzione di una guida spirituale più dolce, meno severa, più attenta alle istanze individuali, meno interessata ad emettere giudizi che a prestare con umiltà soccorso là dove serve. Quel che del resto già avviene nelle relazioni tra preti e fedeli in molti contesti parrocchiali8. Se l’interpretazione che ne ho fornito in queste pagine si rivelasse corretta, il papato di Francesco si concluderà senza grandi botti, senza ulteriori sorprese. Francesco ha ottantuno anni e si avvicina inevitabilmente al termine del suo pontificato, che potrebbe anche concludersi, come avvenuto per il predecessore, con delle clamorose dimissioni «per raggiunta incapacità di assolvere ai doveri dell’alto officio». Mi pare che si possa affermare che l’infiacchirsi nel tempo dello slancio riformatore accompagni ogni progetto di governo delle or  Rusconi (2017).   Marzano (2012).

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ganizzazioni complesse. Insomma, il buongiorno si vede dal mattino: le riforme più importanti si fanno subito, all’inizio di un incarico. Il passare del tempo arrugginisce la volontà, fa emergere i dubbi, consolida le opposizioni, evoca le minacce e gli spettri che conseguirebbero al cambiamento, insomma fa indulgere alla prudenza e alla cautela, fa scolorire le opinioni troppo radicali e fa assuefare anche i capi più ribelli e sovversivi all’agio quotidiano e ordinario del comando, al piacere libidico che deriva dal possesso di una popolarità e dall’esercizio di un potere immenso come quello a disposizione di un papa. Giovanni XXIII, che giunse al soglio di Pietro ad un’età analoga a quella di Bergoglio, annunciò l’apertura del concilio nemmeno tre mesi dopo la sua elezione a pontefice. In un contesto diverso, ma anch’esso oligarchico e incline alla stagnazione, Michail Gorbačëv non perse tempo, dopo la sua elezione a segretario del PCUS, per varare il suo ambizioso (e poi fallito) progetto di riforma dell’immensa burocrazia sovietica. In ogni caso, sono sufficienti, per spiegare l’assenza di riforme, tutte le motivazioni strutturali che ho fornito nel secondo capitolo, alle quali si può aggiungere l’osservazione ravvicinata dell’ultimo anno e mezzo di pontificato di Francesco, quello seguito alla pubblicazione dell’Amoris Laetitia, caratterizzato da una certa stanchezza nell’azione, dall’assenza di iniziative forti e da un tono di governo piuttosto scialbo rispetto ai primi anni, come dimostra, tra le altre cose, la decisione di dedicare il prossimo sinodo al tema, politicamente del tutto innocuo per la Chiesa, dei giovani e non, per esempio, come taluni speravano, a quello, assai più esplosivo, dei ministeri nella Chiesa (che avrebbe reso inevitabile parlare di celibato e di ordinazione femminile). Cosa succederà alla Chiesa cattolica dopo il papato di Francesco? In cosa consisterà, sempre che esso si conchiuda senza botti e scosse clamorose, l’eredità che il pontificato argentino lascerà ai suoi successori e alla Chiesa tutta? Io credo che sul piano organizzativo è assai probabile che continuino e si approfondiscano le tendenze in atto, e cioè 153­­­­

che il mondo sviluppato si secolarizzi sempre di più e che la Chiesa cattolica si veda costretta a spostare il suo baricentro verso mezzogiorno, in direzione del Sud del mondo. Fino a che le sue difficoltà resteranno confinate ad una sola area, la Chiesa avrà la forza di reagire senza mutare il suo assetto di fondo basato sulla supremazia di un ceto di funzionari a tempo pieno maschi e celibi, su un apparato politico, ideologico e di giustizia rigorosamente accentrato e omogeneo e sulla disponibilità di ingentissime risorse materiali e sostegni politici ad ogni latitudine. L’immenso vantaggio nelle risorse economico-finanziarie assicurerà comunque a lungo al Nord globale privilegi e potere. Limitandoci all’ultima dimensione, dobbiamo costatare come ancora oggi l’Europa, che ormai annovera poco più del 22% dei battezzati, può contare su poco meno del 50% dei cardinali, mentre l’Africa, dove vive oggi il 17,3% dei cattolici, può contare su un povero 10% dei massimi gerarchi. Le nomine di Bergoglio hanno leggermente ridotto lo squilibrio, ma la strada verso la parità è ancora molto lunga. Naturalmente, l’intero scenario muterebbe se iniziassero a secolarizzarsi massicciamente anche i continenti dove la Chiesa cattolica sta crescendo di più, e cioè l’Africa e l’Asia, se anche il Sud del mondo iniziasse a diminuire, in modo sensibile, la propria produzione di battezzati e soprattutto di preti (l’America Latina è già su questa strada, e infatti anche lì, in molte aree, inizia ad esservi penuria di clero). Lo abbiamo visto: le grandi organizzazioni burocratiche, per svariati motivi, tendono a perpetuare se stesse mutando il meno possibile. Tra l’altro, i loro membri sanno che le riforme sono sempre pericolose, che rischiano di mettere a repentaglio privilegi, consuetudini, certezze, piccole rendite di potere e grandi meccanismi di dominazione. La stasi e il quieto vivere nella continuità stanno ovviamente a cuore soprattutto alla casta dei suoi funzionari. Credo che la stragrande maggioranza di costoro abbia tirato, in questi ultimi anni, quando ha compreso che la «rivoluzione» di Bergoglio era fatta soprattutto di annunci e finiva col riguardare soprat154­­­­

tutto i messaggi del papa, un gran sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Si deve tener presente che la casta clericale tutta intera (dai preti di campagna ai porporati) è composta in larga misura da persone assennate, moderate, pacifiche, interessate al quieto vivere, insomma da una «zona grigia» che, soprattutto col passar degli anni e l’incanutire delle chiome, diventa sempre più interessata a evitare le sorprese, a procedere come si è sempre fatto, ad innovare con cautela, a perpetuarsi con serenità. Lontanissima dagli estremismi reazionari furiosi di un Caffarra, di un Burke o di un Negri, la maggioranza silenziosa del clero è ugualmente distante dalle utopie riformatrici, auspica che si introducano cambiamenti il più possibile innocui, che al massimo si rivernicino con qualche parola nuova, omaggio inevitabile ai tempi, le cose di sempre. Anche il montare della secolarizzazione, lo svuotarsi progressivo delle chiese li riguarda solo fino ad un certo punto, dato che, in media, almeno in Italia, sono ultrasessantenni ben consapevoli della breve durata della loro permanenza sul fronte delle parrocchie e degli oratori. Immaginare il futuro non è in definitiva un esercizio che li riguardi né appassioni. La burocrazia clericale ha accolto l’incipit di Bergoglio con un sentimento misto di scetticismo e di speranza. Il primo derivava dallo sbandieramento continuo ai quattro venti di innovazioni e rivoluzioni, dai cambiamenti nello stile, dalla sorpresa di avere un capo così anticonformista nel linguaggio e nei gesti; la seconda invece era quella che costui avrebbe saputo risollevare l’immagine appassita e irrigidita di una Chiesa prigioniera di una dottrina morale obsoleta e punitiva, oramai divenuta largamente inapplicabile e alla fine un po’ ridicola. A quasi cinque anni dal suo insediamento, papa Bergoglio ha confermato la bontà della decisione del conclave che lo ha eletto e superato, agli occhi dei burocrati del sacro, ogni più rosea aspettativa. Come capo della struttura si è rivelato un anziano prete affezionatissimo all’identità cattolica tradi155­­­­

zionale, il servitore fedele di una mentalità clericale che ha coltivato per un’intera vita, il primo boicottatore di ogni vera riforma strutturale dell’istituzione. Sotto questo profilo, la sua innovazione più grande è stata la pacificazione di tutte le variegate prospettive interne, la composizione, in nome della salvezza dell’organizzazione, dei conflitti tra gruppi ed interessi, in un orgoglioso compattamento identitario che getta a mare tutte le ormai anacronistiche divisioni del passato, e con esse le teologie che le giustificavano, per ritrovarsi tutti uniti dentro la medesima struttura di potere maschile e clericale. Come rappresentante dell’istituzione si è dimostrato in possesso di eccezionali strumenti di comunicazione, che lo hanno reso probabilmente il personaggio più popolare ed amato al mondo, il traghettatore della vecchia barca cattolica nella società del benessere e dell’immagine. Cosa chiedere di più?

Bibliografia

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