La casa dei romani
 8830409308, 9788830409309

Citation preview

LACASk -oEI ROMANI Longanesi & C.

-~-·---~--·~

..:~-~⇒-:-;. : :...~:-.~----

---.. -~---- .... -::. :_=-..::.~. ----BIBLIOTECA DI

~-- ..... ___

ARCHEOLOGIA

La collana è diretta da Mario Torelli

LA CASA DEI ROMANI di

DE

EMIDIO

ALBENTIIS

SETTANTADUE NEL OTTO

TAVOLE

ILLUSTRAZIONI TESTO FUORI

LONGANESI MILANO

&

TESTO

C.

PROPRIETA

Longanesi cl C.,

LETTERARIA

©

RISERVATA

1990 - 20122 Milano, via Sa/vini, J

ISBN 88-304-0930-8

La casa dei Romani

Alla memoria dei miei genitori

Premessa «MA la loro vita [dei primi abitatori di Roma] era quella dei pastori ed essi si mantenevano col lavoro delle braccia, per lo più sui monti, in ricoveri che si costruivano con legname e canne. Uno di essi ancor oggi sopravvive ed è chiamato la 'capanna di Romolo': è situato sul fianco del Palatino che si affaccia sull'ippodromo ed è custodito come un luogo sacro da coloro che vi sono preposti. Essi non fanno nulla per renderlo più magnifico, solo, se qualche parte soffre per il maltempo e per l'età stessa, riparano il danno e restituiscono il più possibile la capanna alle condizioni preesistenti» (Dionigi di Alicarnasso, 1 79, 11). Questo passo, scritto in età augustea da uno storico greco che ricostruì le vicende di Roma arcaica tentando di fare luce sulle cause originarie della posizione di potenza raggiunta ai suoi tempi dalla città, ci trasmette una interessantissima costumanza intorno ,i quella che, verosimilmente, doveva essere considerata la casa romana più antica: una capanna di legno e frasche (ne esisteva, stando ad altri autori, un duplicato anche sul Campidoglio), oggetto di cure, preoccupate soprattutto che non ne venisse alterato l'aspetto primitivo, perché collegata al fondatore della città, Romolo. Un primo elemento di riflessione è offerto dall'importanza simbolica e sacrale assunta dall'abitazione del primo mitico re di Roma: tale circostanza permette di cogliere fin d'ora le profonde valenze ideologiche attribuite dai Romani alla struttura e alla collocazione topografica delle abitazioni, come avremo modo di valutare più volte nelle 2agine che seguiranno. Altro aspetto significativo è proprio1a descrizione dei materiali di cui era composta la capanna, con quella commistione di strutture lignee e vegetali tipica delle usanze abitative di gran parte delle culture primitive: una peculiarità testimoniata anche a Roma dagli scavi condotti sul Palatino, dove, nel 1948, si rinvennero fondi di capanne (peraltro già visti fin dal secolo scorso) databili ad un'epoca all'incirca coincidente con quella indicata dalle fonti per la fondazione della città (vm secolo a.C.). Quando l'équipe guidata dal Puglisi pubblicò i risultati delle indagini archeologiche del Palatino (il colle, si badi, legato più di ogni altro alle origini di Roma), le perplessità in-

8

torno all'attendibilità delle fonti letterarie - fatte letteralmente a pezzetti dagli storici della tendenza nota come ipercritica (fra i quali giova ricordare almeno Ettore Pais) - parvero destinate a essere profondamente revisionate: le fonti non si ingannavano, la nascita di Roma, che Varrone poneva al 754753 a.e., poteva essere storicamente documentata! Se il superamento delle posizioni ipercritiche fu sostanzialmente salutare, perché ci si accorse che gli autori antichi, pur con le loro contraddizioni ed ingenuità, mostravano di essere a conoscenza di nuclei di verità concretamente utilizzabili nella moderna ricostruzione storica, non sempre attenta e meditata forse per l'eccesso opposto di prestar fede alla lettera alle fonti - si è rivelata la lettura comparata dei dati archeologici e della tradizione letteraria. Nel caso dei fondi di capanna del Palatino, ad esempio, ci fu chi volle trovare un'automatica connessione con la casa Romuli ricordata dagli storici antichi, come nel passo menzionato in apertura: l'errore di una simile identificazione, a prima vista suggestiva e convincente, consiste nel dimenticare che la sacralizzazione e la ricostruzione della primitiva abitazione romulea poterono avvenire soltanto nel momento in cui la società romana sentì il bisogno di ripensare, caricandolo di opzioni tutte ideologiche, il proprio passato. E ciò accadde naturalmente in relazione alle prime grandi tappe dell'imperialismo romano su scala prima peninsulare e poi mediterranea (tra la fine del IV e il m secolo a.C.), con una classe dirigente tutta tesa ad autocelebrare i fasti dell'ascesa di un popolo dalle lontane (e mitizzate) origini agro-pastorali. Va da sé che la sostanziale coincidenza della data tradizionale della fondazione di Roma con quella delle capanne palatine indica non più che una oscura coscienza che gli antichi avevano di taluni aspetti (cronologia approssimativa, luoghi: ma di questo riparleremo) della storia più arcaica della città; in altre parole, ipotizzare che la capanna di Romolo si sia conservata intatta attraverso i secoli e che le tracce rinvenute sul Palatino attestino l'integrale veridicità delle fonti equivale ad un grave errore di prospettiva. Ciò significherebbe infatti attribuire alle antiche comunità agro-pastorali dell'età del Ferro - epoca in cui, fra basso Tevere e Colli Albani, naturalmente non esisteva il solo villaggio palatino - una volontà di conservare ritualmente le proprie memorie del tutto priva di legami funzionali con le strutture socio-ideologiche possibili in quel mondo.

9

Un buon modello di riferimento per quanto abbiamo cercato di dimostrare può essere considerata una celebre scultura bronzea, il cosiddetto Bruto capitolino, un ritratto eseguito all'inizio del III secolo a.e. del primo console della repubblica romana, fondata nel 509 a.C.: un ritratto certo non fisionomico ma interamente di ricostruzione ideale, con una voluta ed accorta accentuazione, nella resa espressiva, di quella fermezza e solidità morale care alle classi dominanti, che amavano proiettare all'indietro quei valori per potersene dichiarare degni, e soprattutto legittimi, eredi; quindi l'umile capanna di Romolo - che sarà stata artificialmente 'ricostruita' forse proprio nell'epoca del Bruto - avrà avuto più di un significato ideologico: essa doveva costituire una sorta di specchio per meditare sulla severità di vita dei progenitori (con un implicito richiamo moraleggiante, specie in taluni momenti, a costumi austeri ormai perduti) e sulla grandezza della parabola storica di Roma, amplificata retoricamente proprio in virtù dell'originaria paupertas. Questa lunga premessa, con cui abbiamo voluto aprire questo volume sulla casa dei Romani, ci è parsa necessaria per far valutare con la dovuta cautela i primi risultati di alcune indagini attualmente in corso a Roma nell'area forense (di cui bisogna peraltro attendere un'adeguata pubblicazione scientifica): pur nell'interesse di queste ricerche - entro le quali vi sono anche taluni nuovi dati relativi all'edilizia domestica -, sembra talvolta notarsi un uso troppo disinvolto delle apparenti coincidenze tra fonti e scavi, con modi più sensazionalistici che autenticamente storico-critici. Ciò pare in un certo senso un omaggio alla tendenza, sottilmente dominante, dell'archeologia-spettacolo, offerta al grande pubblico per solleticarne le esigenze ludico-consolatorie, deprivando la ricostruzione storica del carattere propositivo e problematico che dovrebbe portare con sé. Con queste considerazioni, si badi, non si vuole essere per nulla in linea con un'altra tendenza, di natura opposta, degli studi archeologico-topografici contemporanei: quest'ultima postula la necessità di indagare sugli antichi monumenti senza forzare troppo le pretese di identificazione attraverso le notizie della tradizione, ma ciò significa in pratica non tenerle quasi in alcun conto. È invece importante, a nostro parere, pervenire ad un intelligente equilibrio tra quanto conosciamo noi oggi e quanto potevano (o volevano) conoscere gli antichi: che è

IO

quanto, intorno alla casa romana, tenteranno di raggiungere le pagine che seguono.~ra le fonti letterarie il posto d'onore spetta naturalmente al manuale di Vitruvio, redatto nella seconda metà del I secolo a.e.: questo testo è infatti l'unico trattato architettonico classico giunto fino a noi, essendo riuscito a scampare al naufragio pressoché generale della manualistica tecnica antica. Anche se generalmente privi del carattere sistematico dell'opera vitruviana, saranno copiosa~ mente utilizzati nel nostro testo anche i dati ricavabili dai tanti autori antichi che hanno, più o meno direttamente e per le ragioni più diverse, descritto elementi di vita domestica. Si è preferito dedicare !!}aggiore spazio all'analisi della casa romana durante l'arcaismo e l'età repubblicana: lo stato attuale della ricerca ha spinto a privilegiare soprattutto questi periodi in virtù della forte presenza di nodi problematici che tuttora caratterizza la ricostruzione storica ed antiquaria di quelle fasi. Naturalmente ciò non significa affatto che l'impero sia stato relegato ad una posizione marginale: peraltro, il fatto stesso di possedere capisaldi conoscitivi ed interpretativi sulla casa romana di età imperiale in certo senso più solidi che per le epoche precedenti, ha suggerito di impostarne la descrizione in modo più agile e sintetico. Va inoltre aggiunto che tenteremo di evitare il più possibile una caratterizzazione in senso 'esemplare' della genesi e della stessa storia di Roma, cara non solo a molte fonti antiche, ma anche a certa tradizione novecentesca di studi di stampo nostalgico e nazionalistico: cercheremo infatti di sottolineare quanto l'evoluzione dell'edilizia domestica romana rifletta alla perfezione una lunghissima vicenda storica contraddistinta dal predominio degli interessi di classe dei ceti dirigenti. Non è certo casuale che, nel momento culminante di tale lunga parabola, le élites al potere abbiano saputo profittare al meglio di un'organizzazione socio-economica imperniata sul modo di produzione schiavistico. Gli stessi modesti primordi delle strutture abitative di Roma rispetto ai coevi sviluppi del Vicino Oriente costituiscono, come vedremo all'inizio del primo capitolo, un ulteriore antidoto per non sentire la storia del mondo romano come il modello per eccellenza della vicenda umana, come volevano le più viete consuetudini di una retorica ormai consunta. Non è infine superfluo ricordare, concludendo queste no-

11 te preliminari, che~a ricostruzione storica dell'edilizia domestica romana se, per certi periodi, può avvalersi di una documentazione sufficientemente articolata (con veri e propri serbatoi di conoscenze come, ad esempio, Pompei, Ostia, Timgad e Italica), per altri presenta vistose carenze: una delle più rilevanti coincide proprio con le fasi storiche più antiche, diretta conseguenza della tradizionale preferenza accordata, almeno in Italia, ai più remunerativi scavi nelle necropoli rispetto alle indagini negli abitati, dovuta peraltro in molti casi anche alla ininterrotta continuità di vita. Soltanto nell'ultimo quarto di secolo si è potuto assistere ad una proficua inversione di tendenza con un progressivo estendersi degli intere~si archeologici anche agli insediamenti: ne sono un'ottima dimostrazione, fra gli altri, i recenti scavi nei complessi etruschi di Murlo e di Acquarossa, nonché le stesse indagini di archeologia urbana compiute nel centro di Roma, ricordate in precedenza. La circostanza che molte di queste ricerche siano state meritoriamente realizzate da équipes straniere ci spinge a mettere in evidenza i cronici ritardi della politica culturale italiana, non del tutto pronta, tranne lodevoli eccezioni, ad attrezzarsi verso organici progetti di ricerca in un settore in grado di illuminare considerevolmente la nostra conoscenza del mondo antico. Fra i non ultimi intendimenti del presente volume trova posto la speranza che queste pagine, qualunque sia il loro effettivo valore, possano contribuire ad orientare sempre più la scienza archeologica verso ulteriori approfondimenti sulle concrete consuetudini abitative: l'obiettivo è infatti giungere a quella ricostruzione 'a tutto tondo' della vita degli antichi, che sola può giustificare appieno i nostri studi come fecondo stimolo per il mondo attuale.

1. Modelli di edilizia domestica in Etruria e a Roma dalle premesse protostoriche alla fine dell'arcaismo Dalle capanne dell'età del Ferro alle prime articolazioni planimetriche

°LE Cé!panne del Palatino, pur costituendo il primo documento delle abitazioni romane, non sono affatto la più antica testimonianza di vita nell'area della futura città: alcuni frammenti di ceramica, appartenenti alla cosiddetta civiltà appenninica (media e recente età del Bronzo: x1v-xm secolo a.C.), attestano che per lo meno l'altura, in buona parte difendibile naturalmente, del Campidoglio, prospiciente l'area pianeggiante che diventerà in età storica il Foro Boario, era occupata da un insediamento che già può definirsi stabile; non possiamo peraltro dire nulla in merito al tipo di abitazioni in uso presso queste comunità, dedite ad embrionali forme agricole e di allevame-nto del bestiame. Va comunque messo subito in evidenza che il sistema sociale e produttivo dell'età appenninica (l'insediamento capitolino di quest 'epoca sembra funzionare insieme ad altri nuclei del Latium vetus, fra cui il sito di Pratica di Mare, la futura Lavinio) non offre nulla di lontanamente paragonabile alle grandi civiltà dell'Oriente mediterraneo, già da tempo caratterizzate in senso urbano con imponenti sviluppi ben visibili anche nelle tipologie edilizie. I primordi di Roma sono assai modesti - e ciò sarà vero ancora per molti secoli -, palesando in questo il carattere di relativa marginalità non solo rispetto a quanto sta avvenendo, ad esempio, nell'area egea o della mezzaluna fertile e dei grandi bacini fluviali (valle del Nilo e Mesopotamia), ma anche nei confronti di quelle parti della penisola italiana già in stretto contatto, grazie al polo miceneo, con quegli sviluppi più avanzati. Non è certo un caso che, mentre per Roma parliamo, per le fasi del Bronzo, di orizzonti agro-pastorali, per altri siti coevi (fra cui Scoglio del Tonno presso Taranto, Thapsos e Pantalica nella Sicilia orientale) possiamo spingerci fino alla definizione di situazioni protourbane: pur tenendo conto della loro non totale uniformità, questi abitati mostrano accentuate forme di divisione del la-

14

voro e il consolidarsi di strutture politiche complesse, rivelate dalle regge principesche (i cosiddetti anàktora). Questa considerazione non deve peraltro indurre a ritenere la facies dell'insediamento del Bronzo medio e recente priva di elementi dinamici: 11_el passaggio al Bronzo finale (intorno al 1100 a.C.) si assiste infatti alla crescita di un insediamento sul Palatino, noto anch'esso dalla sola cultura materiale, il quale sembra usare come sepolcreto la futura area forense (precedentemente occupata, secondo una recente ricostruzione di Renato Peroni, da un lembo dell'abitato capitolino) in probabile comunanza con il villaggio, evidentemente ridottosi, del Campidoglio. A questi sviluppi non sono estranei fattori di crescita di natura socio-economica, in primo luogo un deciso orientamento in senso agricolo tendente a marginalizzare la precedente centralità della pastorizia: è verosimile che queste piccole comunità di villaggio si stiano organizzando in c/ans famigliari allargati per meglio controllare il dominio sul fattore produttivo principale, le terre coltivate, sicuro oggetto di embrionali forme di privatizzazione; gli sviluppi osservabili a Roma non devono comunque essere disgiunti da quanto sta avvenendo nelle aree limitrofe, in primis nella zona dei Colli Albani ed in quella della futura Etruria meridionale (cioè l'odierno Lazio a nord del Tevere). Per quanto possiamo cogliere oggi, i villaggi romani del Bronzo finale, senz'altro appartenenti alla cosiddetta cultura laziale, appaiono in un rapporto di subordinazione, o di più limitato sviluppo, rispetto ai siti albani di altura - in significativo rapporto con l'antica memoria, presente in talune leggende, del ruolo di Alba Longa nelle origini di Roma -, con una dinamica sostanzialmente parallela ad alcune situazioni dell'area sud-etrusca: in essa i siti delle future città sono ancora in ombra rispetto agli abitati a quota più alta, come mostra, ad esempio, l'insediamento tolfetano nei confronti di Tarquinia. È bene osservare che i fenomeni fin qui ricordati non sono in alcun modo considerabili come sviluppi di tipo urbano - ove con questo termine si intenda un'organizzazione socio-economica fondata su una divisione del lavoro già sufficientemente articolata, con una pronunciata divaricazione socio-politica dei diversi interessi di classe e con un'evidente subordinazione del contado -, per i quali dovranno maturare altre condizioni: il quadro del Bronzo finale è piuttosto

15

un importantissimo prodromo di quell'evento di lunga durata costituito dalla nascita dell'urbs, nel quale per nessun motivo si dovrà scorgere un fenomeno repentino, senza rapporti con una lunga e complessa gestazione. Ancor più decisivo in tal senso è quanto va verificandosi con il sorgere dell'età del Ferro (inizio del 1x secolo a.C.) conlaprfrna documentazione di un nuovo insediamento posto sul Quirinale - sito che la tradizione antica pone insistentemente in rapporto con la presenza dell'éthnos sabino fin dai primordi di Roma - e, soprattutto, con l'evoluzione osservabile tra l'inoltrato 1x secolo e l'vm secolo a.C.: l'abbandono dell'antico sepolcreto del Foro, inserito all'interno del tessuto abitativo, e la nascita contestuale della grande area funeraria dell'Esquilino, usata con sicurezza dalle comunità palatina e capitolina, nonché, molto probabilmente, anche dall'insediamento del Quirinale, sono la prima concreta traccia di carattere ormai protourbano. Parallelamente si assiste ad una progressiva diminuzione di importanza dell'area albana, elemento che sposta lentamente su Roma il perno della cultura laziale; alla base di queste trasformazioni, che equivalgono per la prima volta alla formazione a Roma di un centro demograficamente considerevole, vanno poste due componenti: da un lato 19 sviluppo nel medesimo senso dei centri villanoviani 'protoetruschi' e, dall'altro, soprattutto per gli esiti di v1ìi secolo, i contatti sempre più frequenti con genti di cultura ellenica, presenti in Italia con le prime forme di colonizzazione nel sud della penisola. Il modello villanoviano dei centri dell'Etruria meridionale costiera dovette senz'altro agire come elemento dirompente sui villaggi dei colli romani: ciò fu causato sia dalla superiorità tecnologica nelle modalità dello sfruttamento agricolo, sia dall'articolazione sociale certo più orientata a superare le vecchie coesioni di natura tribale per organizzazioni più complesse ed allargate, in grado di dare vita a centri dominanti di notevoli dimensioni capaci di ridurre ai margini insediamenti privi di possibilità di sviluppo; le suggestioni greche, fondamentalmente del mondo coloniale magno-greco e siceliota, innescarono, come vedremo, alcuni processi produttivi e tecnologici, che portarono ad una progressiva valorizzazione del ruolo di figure quali gli artigiani ed il ceto mercantile, con ulteriori pronunciati meccanismi di differenziazione sociale.

16 A

N

D

/

~~

.--"

a!

• C')

u

V

• o

2

0-0 3

lii

'

5

,,," ,,,"

Fig. I. Roma, Palatino: pianta, sezione e ricostruzione di una delle capanne dell'età del Ferro (da Davico)

Proprio l'orizzonte di vm secolo a.e. corrisponde, come si diceva in precedenza, alle prime abitazioni documentabili archeologicamente a Roma (fig. 1): i fondi di capanna rinvenuti sul Palatino (tav. 1) appartenevano a strutture a pianta ellittica, fondate nella platea tufacea del colle, con alzati composti da fango e materiale stramineo (paglia e canne) connessi da pali lignei conficcati nel terreno, mentre uno strato di argilla assicurava una sommaria impermeabilizzazione. La copertura delle capanne era ottenuta con gli stessi materiali ed era, il più delle volte, sorretta da uno o due pali piantati all'interno dell'abitazione, entro la quale, più o meno al centro, si trovava il focolare domestico: rudimentali aperture, praticate nel tetto (ve n'era più spesso una soltan-

rf J,

"'•·

__

'



:

r ..

I

I\

i]u

,"J 'I

.)

_.·

•..

'....

. . ...,,.' : -.

'·- . ~•./··~:\·,'H .~.-u

.

_

·r.·:; . ___ _.. ... .....

....

::•

..-:.-·,4

I

,.

I

I

.... .:---.-!. :

.

'·. - -

..

'· · ·.

I

I

·1

\

~

------------ ......

'. - - .. -- ... •. - .. - . '

.

.·. ... • •

14 ,

"· • • . ,

1.,...

.

'r·i;:. e,-: .. /., r_··' . I.

··...

r • . . .._., .I

11

~

Fig. 2. Tarquinia: pianta (parziale) del villaggio villanoviano in località Monterozzi (da Linington)

; ' / / 17

•,'ç·

.- -: ·•

-: __:10

_.,. __ _.-.:) ·._..,

~-•"

a~·-:,-.

I

.,,.,,I

Il~-:'

,~--:, -__ ,,,.

:'

l

/41



.___~____,,._

t

... _... ,

:.,

·.. .

••···•··.~~h r·.:. r··-··--- ·,__ . ----------------·-~-·f:t:·-7;••••"• : _.,. .., · r.·-1>>. .-. t~ _: \ ....... -.. '.\ .: .. . 1...)'... : . .

ir'\ ..............................

..;1/ ·· ::~-:-:-:
I~se-nta ·evidenti segni di trasformazione da un'originarii condizione di domus signorili ad una successiva strutturazione in laboratori artigianali. Gli eleganti pavimenti di cui· si diceva vennero sovente sigillati da nuove pavimentazioni idrauliche in semplice cocciopesto, funzionali quasi certamente a delle fulloniche, gli opifici ove si tingeva la lana con elaborate operazioni: in un certo momento della storia di Fregellae pare quindi comparire una sorta di profondo mutamento nell'economia e, forse, nella stessa composizione del corpo civico. Una notizia letteraria aiuta probabilmente ad interpretare questa situazione: stando ad un passo di Livio (xu 8, 8), nel 177 a.e. arrivarono in città ben quattromila famiglie di Sanniti e di Peligni, due popolazioni italiche provenienti dalla vicina dorsale appenninica. Fregellae attirava evidentemente queste genti montane a causa della sua favorevole posizione su importanti assi viari e fluviali, ma vi è forse qualche elemento in più: non è impossibile che i gruppi dirigenti che erano vissuti fino ad allora nella colonia abbiano tentato l'avventura politica a Roma. Com'è noto, in questa fase storica chi godeva del diritto latino poteva acquisire pieni diritti di cittadinanza romana trasferendosi sulle rive del Tevere, e proprio l'aver rivestito una posizione di prestigio nelle comunità gravitanti nell'orbita di Roma garantì spesso a questi esponenti delle aristocrazie locali l'ingresso nella nobilitas della città. Quella certa caduta di tono riscontrabile nelle case signorili di Fregellae potrebbe quindi essere l'esito di questa dinamica sociale: i Sanniti e i Peligni trasferi tisi nella colonia dovettero evidentemente modellare la propria economia sui loro più diretti parametri di riferimento, le attività manifatturiere, certo lucrose, connesse alla transumanza e alla pastorizia. Che gli abitanti delle domus fregellane precedenti alle tra-

140 sformazioni industriali fossero contraddistinti da un 'ideologia di carattere aristocratico pare testimoniato, oltreché dalla finezza degli apparati decorativi delle loro case, anche da un'ulteriore indicazione: in due abitazioni sono stati rinvenuti in condizioni frammentarie interessantissimi fregi fittili di dimensioni ridotte (circa 30 centimetri di altezza), con raffigurazioni di carattere celebrativo. Nel primo va probabilmente individuata una delle più antiche testimonianze di rilievo storico del mondo romano: vi sono infatti battaglie navali e terrestri ove si affrontano, riconoscibili dalle armature, Romani e Macedoni. Come ha fatto notare Filippo Coarelli, la presenza di elefanti in questo fregio storico assicura che non si tratti di battaglie posteriori allo scontro di Pydna (168 a.C.); l'ipotesi più attendibile è che in questorilievo siano effigiati i combattimenti di Magnesia e di Myonnesos che, attorno al 190 a.e., segnarono il primo vittorioso ingresso dei Romani nello scacchiere del Mediterraneo orientale. Come sappiamo dalle fonti letterarie, nell'esercito romano esisteva un corpo scelto di Fregellani, esplicitamente citato, fra l'altro, proprio a proposito della guerra del 190 a.e. (Livio, xxxvn 34, 6): il fregio fittile, composto da una serie di lastre in cui questi motivi si ripetevano, doveva trovarsi negli ambienti di rappresentanza, probabilmente nel tablino, di qualche Fregellano che intendeva custodire e sottolineare in tal modo le proprie memorie personali e/ o gentilizie. Il secondo fregio in terracotta è stato rinvenuto nelle recentissime indagini del 1989, e pare obbedire alla medesima logica, anche se nel modo più sfumato dell'allusione mitica: il soggetto è costituito da tripodi delfici sormontati dall'ompha/6s (l'ombelico che simboleggiava per gli antichi il centro del mondo), affiancati da due personaggi simmetrici (forse Oreste e Neottolemo) e trofei con Vittorie. Anche questo rilievo potrebbe quindi essere connesso con la celebrazione di glorie famigliari relative a episodi militari: per questo secondo fregio si può affermare con sicurezza la sua pertinenza ad un tablinum di una casa ad atrio. Adiacente a quest'ultima, un'altra domus presenta a questo proposito una particolarità significativa: nell'ala sinistra di questa casa - si tratta di quell'unica abitazione con l'atrio privo di impluvio cui si è fatto cenno nel precedente capitolo - è venuto in luce una sorta di podio in blocchi di tufo, forse in rapporto con

141

una struttura destinata, anche in questo caso, a qualche apparato di rappresentanza. Per quanto riguarda le modalità di inserimento sulle pareti di questi rilievi di terracotta, si può pensare ad un settore appositamente previsto nella decorazione di primo stile, formata da stucchi colorati che imitavano murature isodome: un possibile parallelo, utile più che altro a livello indicativo, può essere fornito dalle pareti in primo stile rinvenute nelle abitazioni dell'isola egea di Delo. In queste decorazioni, peraltro poco più tarde rispetto alle terrecotte fregellane, una fascia dell'ornamentazione era riservata all'inserimento di fregi pittorici continui che interrompevano la rigida imitazione in stucco delle strutture murarie. Non è inutile segnalare un'ultima particolarità delle domus di Fregellae: gli impluvi delle case finora scavate non hanno, come di norma, una cisterna destinata a tesaurizzare l'acqua piovana. Un'ipotetica spiegazione di questa singolare caratteristica può essere ravvisata nel fatto che la colonia sia attraversata da un acquedotto, se è giusta l'interpretazione della struttura in opera quadrata che corre, nel punto più alto del pianoro fregellano, al di sotto della principale strada di attraversamento. È evidente che era superfluo immagazzinare grandi quantità d'acqua in presenza di una simile opera idraulica, che doveva essere fruibile mediante fontane pubbliche (ne è stata ritrovata una): gli impluvi, privi di cisterna, saranno serviti a raccogliere acqua per le necessità domestiche più immediate, ma il rifornimento idrico per esigenze più generali era assicurato dall'acquedotto. L'arrivo di migliaia di Sanniti e di Peligni a Fregellae che abbiamo ricordato in precedenza è un'ottima testimonianza del ruolo di attrazione socio-economica che le colonie hanno spesso giocato nei confronti delle popolazioni italiche: un'altra suggestiva indicazione in tal senso è costituita da una notizia, sempre di Tito Livio (xu 27, 12), trasmessaci purtroppo da una tradizione testuale malsicura. In questo passo, relativo al 174 a.e., lo storico patavino ricorda delle magalia che dovevano trovarsi addossate, certo da tempo, al circuito murario della colonia romana di Sinuessa, sita in Campania sul litorale tirrenico ai piedi del monte Màssico. La lettura e l'interpretazione del termine magalia sono controverse: ad ogni modo, se il testo liviano è stato ricostruito esattamente, con questa parola si dovrebbero intendere delle abitazioni preca-

142 rie, delle capanne. Il vocabolo è usato, ad esempio, anche nell'Eneide virgiliana (1 421), e la glossa del commento di Servio relativo a questo verso spiega il termine asserendo tra l'altro che «alcuni [autori] chiamano magalia i ricoveri dei pastori dei Cartaginesi», una tradizione confermata anche da altre fonti. Tornando a Sinuessa, è quindi molto probabile che attorno alla colonia siano sorti umilissimi quartieri di genti indigene attratte dalle migliori opportunità di vita offerte dalla città: un fenomeno di gemmazione urbanistica che si sarà senz'altro ripetuto in molti altri casi, pur privi di testimonianze letterarie ed archeologiche. Nel caso di Sinuessa questo insieme di capanne venne inglobato in un nuovo perimetro murario, appositamente ampliato, come attesta lo stesso passo di Livio: segno indubbio, da un lato, della spinta sociale dei gruppi subalterni e, dall'altro, del carattere vincente dei modelli romani di aggregazione e di penetrazione territoriale. Un'ulteriore attestazione di questa dinamica è infine offerta da uno straordinario complesso rinvenuto in tempi recentissimi nel cuore della Lucania interna, in località Civita di Tricarico nell'attuale provincia di Matera: in stretta contiguità con un tempietto italico della fine del m secolo a.e., di cui non si conosce la divinità, sorse qualche decennio più tardi una casa ad atrio. Essa è un perfetto esempio di domus imperniata sul sistema ideologico e funzionale formato da un vestibolo d'ingresso piuttosto ampio e da un tablino assiale a quest'ultimo e ritmato lateralmente da due a/ae. Questa struttura era senz'altro la residenza di un signorotto indigeno che, non a caso, individuò un modello di potere e di prestigio nella casa ad atrio, pur ricollegandosi anche all'atavica consuetudine di accentrare in un insieme fortemente correlato il tempio ed il 'palazzo': questo princeps locale, scegliendo di conformare la sua residenza come una domus ad atrio, dichiarava di voler parlare il linguaggio dei vincitori, quei Romani che, ormai da tempo, avevano posto fine all'indipendenza delle genti lucane.

Le case di Pompei e di Ercolano all'epoca della luxuria Asiatica L'asse portante delle nostre conoscenze archeologiche sulla casa italico-romana è naturalmente costituito da Pompei ed Ercolano: pur ribadendo ancora una volta la necessità di non

143

modellare la nÒstra ricostruzione della vita antica sulla sola base delle città vesuviane, la documentazione da loro offerta rimane insostituibile. Un aspetto fondamentale privilegia Pompei ed Ercolano agli occhi degli specialisti e del grande pubblico che affolla ogni anno i due siti: la possibilità di ridurre al minimo gli sforzi d'immaginazione e di astrazione solitamente richiesti da una visita ad uno scavo archeologico. La presenza di edifici conservati per buona parte degli elevati e l'esistenza di un contesto urbano leggibile nelle sue molteplici espressioni permettono indubbiamente di cogliere con immediatezza il vivo svolgersi delle varie attività degli antichi abitanti. Com'è stato più volte notato, l'immane catastrofe che si abbatté all'improvviso su queste cittadine troncandone tragicamente la vita, come testimoniano tra l'altro due celebri missive inviate da Plinio il Giovane al grande storico Tacito (Epistulae, VI 16 e VI 20), si è tramutata nella nostra maggiore fonte di informazione sugli aspetti più concreti del mondo classico. La coltre di ceneri e lapilli che seppellì Pompei e la massa di fango e residui lavici che investì Ercolano hanno finito infatti con il sigillare quanto altrove andò irrimediabilmente perduto. D'altra parte, proprio questa condizione privilegiata ha finito con il favorire inopportune generalizzazioni e semplificazioni, spesso presenti nei pur pittoreschi racconti delle guide locali, se non addirittura nelle pagine di qualche studioso; in realtà, anche Pompei ed Ercolano devono essere adeguatamente decodificate proprio in virtù della loro apparente facilità di lettura. Questa operazione è resa difficoltosa da un dato che non mancherà di sorprendere: a distanza di oltre due secoli e mezzo dall'inizio degli scavi, intrapresi nella Napoli borbonica del Settecento illuminato, la maggior parte degli edifici dei centri vesuviani è ancora sostanzialmente inedita. Ciò significa che mancano tuttora analisi accurate e studi precisi e documentati di complessi monumentali anche molto celebri, circostanza che ostacola in larga misura laricostruzione storica: solo in tempi recenti si è dato corso a progetti di équipe centrati sull'indagine a più livelli di singole unità edilizie e sulla catalogazione il più possibile completa delle strutture esistenti. Ciononostante la gran parte delle case, in special modo quelle minori - che attraggono meno per la mancanza di sontuosi apparati decorativi -, rimangono sostanzialmente sconosciute agli studiosi: è bene sottoli-

144

neare che proprio l'edilizia abitativa secondaria consente di mettere meglio a fuoco il quadro sociale complessivo entro il quale poterono germinare le ricche case delle classi dirigenti. La relativa scarsità della documentazione scientifica è un fenomeno negativo anche per un altro importante motivo: uno dei maggiori problemi dell'archeologia vesuviana è rappresentato, fin dal secolo scorso, dalla seria difficoltà di tutelare adeguatamente quanto venuto in luce negli scavi. L'aggressione della vegetazione, aiutata dalla feracità di un territorio di natura vulcanica, e l'azione degli agenti atmosferici hanno causato perdite irrimediabili al patrimonio edilizio ed artistico di Pompei ed Ercolano (soprattutto della prima): in molti casi pitture e stucchi perfettamente apprezzabili al momento del rinvenimento sono oggi scomparsi e ne restano solo gli acquerelli e i disegni delle pubblicazioni ottocentesche. In altri casi non esiste nemmeno questo tipo di documentazione e tutto è sparito per sempre: una simile sorte è toccata alle decorazioni di minor pregio e alle strutture murarie appartenenti ai tanti edifici privi di opere di consolidamento. A tutt'oggi mancano strumenti in grado di risolvere in modo definitivo questo delicato problema, reso oggettivamente complesso anche dal numero elevatissimo di beni da salvaguardare: ma proprio per questo è opportuno destinare le risorse economiche alla catalogazione e alla documentazione dell'esistente, oltreché ovviamente agli studi sui metodi operativi di tutela e protezione, senza gettarsi in avventuristiche campagne di scavo nelle aree di Pompei ancora sepolte dal materiale vulcanico (poco meno di un terzo della superficie totale). In una situazione così precaria per la conservazione del patrimonio monumentale vesuviano non ha alcun senso proseguire le indagini archeologiche, che appaiono mosse più da sensazionalismo che da un'autentica ispirazione culturale: la conoscenza integrale di Pompei - a Ercolano ciò non sarà mai possibile perché il centro abitato moderno insiste su buona parte del sito antico - è una meta di indubbio fascino, ma va perseguita con la necessaria oculatezza. È forse inevitabile cominciare l'illustrazione delle domus vesuviane della fase compresa tra la fine del III secolo a.e. e la guerra sociale con la celebre casa del Fauno di Pompei (fig. 25): questa sontuosa abitazione occupa un intero isolato, il dodicesimo, della regio v1, un quartiere contraddistinto

145 2S o

38

"'

•••••••

T~J

...... : .

~

o

I

•I•, m ,I ~ ~

: I

IO

20

30

'

40

so"'

Fig. 25. Pompei: pianta della casa del Fauno (da De Vos)

dalla presenza di numerose residenze signorili. Un elemento che va subito sottolineato è l'enorme estensione di questa casa, che si aggira intorno alla stupefacente cifra di 3000 metri quadri (per un perimetro di circa 92 x 33 metri), superando addirittura quella di alcune regge ellenistiche come il palazzo reale di Pergamo. Conviene fornire una rapidissima descrizione schematica preliminare, utile per un primo orientamento: partendo dagli accessi dalla via della Fortuna, la domus presenta due atri, uno tuscanico (27) e l'altro tetrastilo (7), cui segue un'articolazione formata da due peristili (36 e 39) bordati da stanze lussuosamente decorate, mentre settori specifici della casa sono riservati a strutture di servizio (ambienti 19-24 e 45-46). L'abitazione non nacque subito con questa planimetria: come hanno dimostrato recenti scavi in profondità e l'osservazione delle strutture murarie e dell'apparato decorativo, la domus è il frutto di una serie di aggregazioni successive, che portarono alla progressiva scomparsa del gruppo di case piccole e medie da cui era composta in origine l'insula. Per quanto riguarda, ad esempio, il settore dell'isolato affacciato a sud sulla via della Fortuna, è ipotizzabile che vi si trovassero nella fase primitiva, cioè in un orizzonte di 1v-m secolo a.e., due case ad atrio autonome, poste una accanto all'altra: il loro impianto planimetrico doveva essere sostanzialmente analogo a quello della domus del Chirurgo analizzata nel capitolo precedente (fig. 14). Intorno all'inizio del n secolo a.e. il proprietario

146

della casa più occidentale decise di compiere un primo notevole ingrandimento: al di là del tablino (33), al posto dell'originario hortus, venne costruito uno splendido giardino colonnato, il primo peristilio (36), che finì certamente con il cancellare strutture abitative più antiche. È opportuno riflettere su questa operazione: essa poté avvenire grazie al consistente arricchimento di questo gruppo famigliare, che, come vedremo più avanti, è forse possibile identificare. Ma non si trattò, ovviamente, soltanto di possibilità economiche: l'erezione del peristilio, con il conseguente abbattimento di domus preesistenti, mostra l'evidente supremazia sociale raggiunta da questa famiglia della nobiltà sannitica di Pompei. Sono a nostro parere impliciti gli antagonismi di classe che vanno colti in queste trasformazioni edilizie, riscontrabili anche in altri esempi diffusi in epoca tardo-repubblicana in molte città inserite nell'orbita romana: gestire un potere socio-economico rilevante significava quindi la concreta possibilità di espellere dalle loro antiche abitazioni individui di minore fortuna. Naturalmente sarebbe improprio parlare di lotta di classe nel senso moderno del termine, perché i gruppi subalterni dell'antichità classica furono tendenzialmente incapaci di giungere a forme sviluppate di autocoscienza socio-politica: ma questa considerazione non basta certo a negare quantomeno l'esistenza di conflitti di interesse anche piuttosto aspri che dovevano incidere nel vivo del tessuto sociale. Come già si è avuto modo di osservare, l'orizzonte cronologico che stiamo illustrando corrisponde a una divaricazione sempre più netta e marcata tra le classi, con alcuni individui che arrivarono a formare patrimoni eccezionali in stridente contrasto con situazioni poco superiori alla minima sussistenza. Tornando alla casa del Fauno, l'elemento stesso di questa prima grande crescita dell'abitazione, il peristilio, consente di gettare uno sguardo sulla matrice culturale e sulla rete degli interessi economici di questo ricco proprietario pompeiano: come rivela il nome, il peristilio è una struttura di origine greca, consistente in un'area scoperta cinta da portici colonnati per quattro lati, attorno ai quali si disponevano le stanze. Già dalla fine del v secolo a.e., come è documentato dalla città calcidica di Olinto, le case greche dei ceti più abbienti erano incentrate su una struttura simile: nel mondo ellenico il peristilio non era altro che lo sviluppo della cosiddetta pastàs, un

147

portico che cingeva su un solo lato, preferibilmente quello settentrionale, l'au/è, il cortile dell'abitazione. Come ha opportunamente ribadito Fabrizio Pesando, sia la casa a pastàs sia la sua evoluzione rappresentata dal peristilio furono «espressione del mondo aristocratico che in esse viveva», non costituendo certo la normalità nella tipologia domestica greca; non è infatti casuale che proprio questo schema planimetrico sia stato adottato nei palazzi reali dei regni ellenistici nati alla fine del 1v secolo a.e. dalla divisione dell'impero di Alessandro Magno. Un esempio straordinario della presenza di simili apprestamenti è la reggia macedone di Vergina-Palatitsa, corrispondente all'antica capitale Aigai: la ristrutturazione del palazzo fu compiuta nella prima metà del III secolo a.C. dal sovrano Antigono Gonata. In questa residenza reale esistevano due peristili ben distinti nelle loro dimensioni e nelle loro funzioni: il primo, un gigantesco cortile pressoché quadrato con ciascun lato lungo circa 45 metri, era il perno del settore di rappresentanza, riservato alle esigenze della corte, mentre attorno al secondo peristilio, molto più ridotto, era organizzato il quartiere di servizio. Un altro prestigioso modello dell'architettura ellenica utilizzato dal mondo italico-romano nell'elaborazione tipologica dei cortili a peristilio fu certamente rappresentato dai ginnasi; parallelamente all'evoluzione del concetto di paidèia, il termine con cui i Greci designavano il processo educativo di formazione dei giovani, i ginnasi raggiunsero in epoca tardo-classica ed ellenistica la loro compiuta formulazione: infatti alle tradizionali esigenze di un'educazione centrata sulle attività ginnico-militari si affiancarono le strutture necessarie ad una formazione basata anche sugli studi filosofici e letterari. Il 'tipo' edilizio del ginnasio si fissò in tal modo proprio nello schema costituito da un cortile colonnato, attorno al quale si disponevano stanze adibite a vario uso, e da un adiacente stadio ginnico con un settore al coperto. Strutture simili si trovano un po' dappertutto nel mondo greco, come ad esempio in alcune città dell'Asia Minore affacciate sull'Egeo. Proprio uno di questi ginnasi, quello del1'importante centro ionico di Priene, è stato recentemente messo in rapporto dall'archeologo germanico Adolf Hoffmann con il primo peristilio della casa del Fauno. Casa nobile a pastàs e a pastàs-peristilio, residenze reali, ginnasi: l'adozione dei cortili colonnati nelle domus aristo-

148

cratiche italico-romane nacque dalla precisa conoscenza di queste esperienze greche. Ciò non fu soltanto l'esito di una generica influenza culturale: l'ampia gamma di relazioni economiche e mercantili che, soprattutto a partire dalla conquista di Cartagine, intercorsero durante l'età ellenistica tra l'Oriente mediterraneo e la penisola italiana costituisce lo sfondo storico necessario per comprendere appieno questo fenomeno. Va da sé che coloro i quali riuscirono a trarre i profitti più alti da questi rapporti commerciali, che abbiamo messo in luce nel paragrafo iniziale del presente capitolo, non assimilarono soltanto modelli architettonici, ma anche strutture ideologiche: il peristilio non era unicamente una elegante comodità, risultava del tutto adatto a sancire una supremazia socio-economica e perfino culturale, se il legame con i ginnasi fu davvero così rilevante. L'inserzione del peristilio nello schema della casa ad atrio fu il risultato di un geniale adattamento tra l'antica tradizione e le innovazioni suggerite dalla nuova moda ellenizzante: gli aristocratici italico-romani preferirono di norma conservare i loro atri, molto probabilmente per le profonde valenze ideologiche che questi ambienti detenevano, usando il peristilio come ulteriore sottolineatura di quegli stessi valori. Nel caso specifico della casa del Fauno, da cui abbiamo preso le mosse, tale situazione fu ribadita in modo ancor più sostanziale con le trasformazioni edilizie degli ultimi decenni del n secolo a. C.: è molto probabilmente in questa fase che la ricca domus raggiunse le proporzioni definitive. Risale infatti a questo momento l'occupazione integrale dell'isolato con un'ulteriore eliminazione dalla zona di abitazioni piccole e medie: si precisa forse proprio adesso un'articolazione basata sul doppio atrio, quello tuscanico (27) usato come elemento della parte 'pubblica' della casa, e quello tetrastilo (7), cioè con gli angoli del compluvio sorretti da quattro snelle colonne ionico-corinzie, come perno del settore riservato alle esigenze private della famiglia. Una simile strutturazione, imperniata su due atri, è presente anche in altre ricche domus pompeiane, come ad esempio quella detta del Labirinto (v1 11, 10: fig. 26), sempre nella regio VI. L'atrio tetrastilo della casa del Fauno subì, forse proprio in questa fase della fine del II secolo a.e., alcune modifiche: venne abolito il tablino, mentre le due ali (11 e 14) furono arretrate occupando il centro dei loro lati e non più le loro estremità; l'ala 11

149

divenne il vano di passaggio tra i due atri. Il settore privato della domus si arricchì di servizi che costituivano un vero e proprio privilegio pressoché esclusivo per un Pompeiano di quell'epoca: l'ampia cucina (24) era infatti dotata di un forno in grado di riscaldare delle terme composte da un tepidarium e un calidarium (22 e 23), poste vicino ad una latrina (21) convenientemente separata. Ma l'elemento che attestava adeguatamente il potere socio-economico del ricco proprietario della fastosa casa era l'aggiunta di un secondo peristilio (39), che giganteggiava nella parte terminale della domus: su questa grande struttura, oltre ad alcune stanze di prestigio di cui riparleremo, si trovavano due piccoli ambienti (45 e 46) riservati al giardiniere e al custode del posticum, l'entrata secondaria (47) aperta sul vicolo di Mercurio. Sempre affacciati sul secondo peristilio erano poi un ambiente (49) destinato molto probabilmente ad essere ornato con statue, nonché due piccole nicchie (senza numero nella planimetria che presentiamo) adibite al culto dei Lari domestici, come provano utensili bronzei e una statuetta di Genio rinvenuti davanti ad esse. I Lari domestici erano antichissime divinità destinate a proteggere la casa e i suoi abitanti, e il larario, sotto forma di cappella o di apposito armadietto, non mancava in nessuna abitazione italico-romana. I Lares tendevano per certi versi a sovrapporsi agli avi defunti di ciascuna famiglia: ciò spinge a scorgere nei larari gli eredi di quei sacrari domestici che tanta parte avevano avuto durante l'arcaismo, come ben documentano i culti gentilizi di 'palazzi' come quello di Murlo. Come si è accennato, la parte più importante della casa del Fauno era certo il settore di rappresentanza con la sua successione composta dal vestibolo d'ingresso, dall'atrio tuscanico e dai due peristili: queste tre aree scoperte, di dimensione via via maggiore procedendo verso l'interno della domus, erano contornate da raffinate stanze dalla decorazione lussuosa ed elegante. È proprio a questo periodo, i decenni finali del II secolo a.e., che va assegnato l'integrale rifacimento dell'apparato ornamentale, con la sua mescolanza di stucchi di primo stile a finto rivestimento marmoreo e di pavimenti a mosaico di fine gusto alessandrino. Prima di procedere idealmente alla visita di questo settore 'pubblico' della casa, è necessario coglierne significato e funzione avvalendosi di un notissimo passo di Vitruvio (v1 5, 1-2): [ ... ] è ora opportuno considerare in quali modi debbano essere costruiti

150 negli edifici privati gli spazi riservati al padrone di casa (loca propria) e quelli 'pubblici' (communia) destinati agli estranei. Negli ambienti privati, infatti, le persone possono entrare solo se invitate, ed essi sono le camere da letto, le stanze da pranzo, i bagni e tutti quegli altri vani di uso simile. Gli spazi comuni sono invece quelli in cui anche la gente del popolo può entrare di diritto senza essere stata invitata, ed essi sono i vestiboli, gli atri, i peristili e tutti gli altri ambienti di uso consimile. Perciò chiunque sia di livello sociale mediocre non ha bisogno né di vestiboli, né di tablini né di atri grandiosi, poiché sono essi a dover far visita agli altri e non viceversa. D'altra parte, per coloro i quali si avvalgono delle rendite della campagna, bisogna costruire nei loro vestiboli stalle e botteghe, nelle loro case cantine sotterranee, granai, magazzini e tutto ciò che possa servire alla conservazione dei prodotti agricoli piuttosto che al vezzo dell'eleganza. Similmente, per i prestatori di denaro e per gli agenti del fisco è opportuno realizzare case più consone ed appariscenti nonché protette dagli agguati; agli avvocati e agli oratori, invece, necessitano case ancor più eleganti e spaziose, atte ad accogliere le riunioni; agli esponenti della nobilitas, infine, che rivestono le più alte cariche magistratuali assolvendo i loro doveri verso la cittadinanza, si devono costruire alti vestiboli regali, atri e peristili amplissimi, giardini alberati e luoghi di passeggio spaziosissimi, maestosamente realizzati; inoltre biblioteche, pinacoteche, basiliche, la cui magnificenza può stare alla pari con quella delle opere pubbliche, giacché nelle case dei nobiles si svolgono spesso sia riunioni in cui si trattano affari di stato (publica consilia) sia processi ed arbitrati privati.

Le osservazioni vitruviane, pur essendo state scritte nella seconda metà del I secolo a.e., si adattano molto bene anche al clima socio-politico espresso da una domus più antica come la casa del Fauno di Pompei: le parole dell'architetto consentono infatti di intendere appieno le ragioni che guidarono le scelte del proprietario della sontuosa abitazione. Non c'è dubbio che il settore gravitante sull'atrio tuscanico (27) e sui due peristili (36 e 39) corrisponda agli estesissimi communia loca, la parte pubblica della casa, ambienti ove si poteva entrare anche senza avere il permesso: naturalmente per cogliere uno dei significati di questa consuetudine bisogna ripensare alla antica prassi della clientela. Il meccanismo di questo sistema è ben noto nelle sue linee generali: i clientes erano uomini di condizione libera che offrivano ad un patronus i propri servigi, ricevendo in cambio protezione e garanzie; naturalmente i patroni, gli individui più influenti del corpo civico, basavano il proprio potere politico ed economico non solo sul loro rango e sulla loro ricchezza, ma per l'appunto sull'entità della clientela che erano in grado di controllare a fini economici e produttivi e a scopi elettorali. Descrivendo la casa del Chirurgo come esempio di domus medio-repubblicana avevamo individuato la presenza dell'i-

151

stituto della clientela soprattutto grazie al vestibulum; nella casa del Fauno, ormai, è l'intera zona dell'atrio tuscanico a essere divenuta spazio di attesa e di raccolta per i clienti del ricco proprietario dell'abitazione. A questo proposito può essere interessante sottolineare un dato linguistico: il termine atrio, il cui valore era originariamente quello di fulcro fondamentale della casa, finì con l'assumere, non certo a caso, il significato in certo senso riduttivo di vestibolo d'ingresso, come documenta l'uso corrente della parola. Ma come afferma Vitruvio, i communia loca non erano destinati ai soli clienti: in essi si svolgevano riunioni ad altissimo livello in cui venivano fra l'altro trattati affari di interesse pubblico, un fenomeno assai indicativo della progressiva 'privatizzazione' della vita politica tardo-repubblicana. Questa situazione esploderà con tutte le sue contraddizioni soprattutto a Roma, all'epoca delle guerre civili del I secolo a.C.: come vedremo nel prossimo capitolo, il passo vitruviano che abbiamo ricordato permetterà di valutare nella sua esatta prospettiva cosa significasse per un nobile romano il possesso di una sontuosa residenza privata. Per ciò che invece riguarda l'agiato proprietario della casa del Fauno va aggiunto che la sua posizione di spicco non era sancita soltanto dalle imponenti dimensioni della domus, ma anche dal profondo valore ideologico dell'apparato ornamentale, di cui abbiamo già sottolineato l'eleganza: il punto di massima enfasi del programma ideato da questo aristocratico signore pompeiano della fine del II secolo a.e. era costituito da un grande mosaico pavimentale collocato nella stanza 37. In questo ambiente si trovava infatti la riproduzione a tessere minutissime di una pittura della fine del 1v secolo a.e., rappresentante una battaglia vittoriosa di Alessandro Magno, forse quella di Isso, contro il re persiano Dario. Senza dimenticare che questo splendido pavimento tessellato, ora al Museo di Napoli, è tra i più notevoli documenti delle conquiste formali dell'arte pittorica greca di età tardo-classica ed ellenistica, è importante cercare di valutare il senso della sua presenza nella casa del Fauno: la stanza 37 era un'esedra, cioè un ambiente di rappresentanza costruito secondo la moda grecizzante, allo stesso modo del peristilio e di altre stanze domestiche di lusso che analizzeremo fra breve; osservando la planimetria della casa del Fauno non può sfuggire la collocazione dell'esedra 37 in asse con il ta-

152

blino 33: in qualche modo, quindi, è come se le funzioni ideologiche del tablinum, legate come si ricorderà all'orgoglio gentilizio del padrone di casa, fossero state trasferite all'esedra, il nuovo ambiente di prestigio connesso al peristilio. Dall'insieme di questi dati pare evidente che il mosaico di Alessandro non sia soltanto una raffinata ornamentazione: con ogni probabilità il dominus intendeva così sottolineare il proprio legame ideale con il grande sovrano macedone, rimarcando con una certa megalomania la propria indiscussa preminenza sociale sui suoi clientes e, più in generale, la propria posizione nei gruppi di vertice della città. Una base onoraria con dedica in osco, la lingua italica preromana parlata nella regione di Pompei, trovata dagli scavatori non lontana dal tablino, fornisce forse il nome dell'eminente famiglia dell'aristocrazia sannitica proprietaria della casa del Fauno: i Satrii, una gens che, non certo a caso, fu bersagliata dalle proscrizioni del dittatore L. Cornelio Silla, che, all'indomani della guerra sociale, colpirono Pompei e tutte le altre città che si erano ribellate a Roma. L'esedra 37 non era certo l'unica stanza di prestigio di questa sontuosa abitazione pompeiana, che, al contrario, abbondava di fastosi ambienti di soggiorno dall'elegante decorazione, come ad esempio l'oecus 42, o le almeno tre stanze da pranzo, dette triclini (34, 35 e 44: ad esse si può quasi certamente aggiungere la grande sala 25, anche se nell'ultima fase di vita di Pompei essa venne usata come luogo di conservazione delle anfore vinarie). Questo tipo di ambienti documenta, al pari dell'introduzione del peristilio, un avviato processo di ellenizzazione della cultura romana, che non investì ovviamente la sola edilizia domestica: la prova principale di questa affermazione è l'origine greca delle denominazioni di queste stanze. Il caso più interessante è forse fornito dai triclini, le stanze da pranzo: il termine triclinium è infatti collegato alla parola ellenica klìne («letto»), e l'adozione di questi ambi enti nella casa italico-romana attesta un mutamento assai rilevante nel modo di prendere i pasti. Come testimonia un passo (xx 11, 9) del grammatico Isidoro di Siviglia, vissuto nel vn secolo d.C. ma ottimo conoscitore degli eruditi latini di età tardo-repubblicana ed imperiale, presso i Romani dell'epoca più antica non vi era l'abitudine di giacere co• ricali [mentre mangiavano]; per la qual cosa venivano definiti come 'quelli che stanno seduti'. Successivamente, come dice Varrone nella sua opera

153 La vita del popolo Romano, gli uomini cominciarono a mangiare sdraiati, (mentre] le donne [continuarono a] stare sedute a tavola, poiché era giudicato osceno che esse mangiassero coricate.

Il modello di questa consuetudine è certamente greco: la penetrazione di simili usanze nel mondo occidentale rimonta almeno all'età arcaica, come testimoniano fra l'altro le lastre fittili del 'palazzo' di Murlo (figg. 6-7). È d'altra parte indubbio che il rinnovato processo di ellenizzazione che investì la cultura italico-romana a partire dai decenni finali del m secolo a.e. favorì la progressiva diffusione di questo modo di banchettare. I triclini erano stanze accuratamente decorate: i letti si disponevano per tre lati, lasciando al centro uno spazio libero in cui si esibivano mimi, giocolieri e suonatori in spettacoli offerti dal padrone di casa per divertire i convitati; non va infatti dimenticato che i banchetti duravano assai a lungo, potendo giungere fino a tarda notte! I commensali attendevano, comodamente sdraiati, che la servitù recasse ai loro letti tricliniari le varie portate. Nelle case aristocratiche ci si preoccupava di orientare i triclini calcolando la loro esposizione alla luce e al calore solare: con la consueta ricchezza di particolari tecnici, una nota di Vitruvio (v1 4, 1-2) illustra efficacemente questa caratteristica: I triclini d'inverno e i bagni devono guardare l'occidente invernale, perché c'è bisogno della luce vespertina; inoltre anche perché il sole al tramonto, proiettandovi incontro il suo bagliore e rimandandovi il calore, rende più tiepidi questi ambienti quando si fa sera. [... ] I triclini di primavera e di autunno devono [invece] essere rivolti ad est; così infatti, essendo [subito] esposti alla luce, l'azione del sole avanzante verso ovest li rende di temperatura moderata per le ore in cui si è solito usarli. I triclini estivi [devono guardare] a nord, poiché questa esposizione li mantiene in uso sempre freschi, salubri e piacevoli, poiché [tale orientazione] volge le spalle al corso del sole, al contrario di tutte le altre che per tutta l'estate diverrebbero torride per il calore.

Nella casa del Fauno gli ambienti 25 e 44, con le loro larghe aperture verso nord, erano certamente triclini estivi, mentre gli altri due, 34 e 35, dovevano essere preferibilmente usati durante la stagione più fredda. Gli oeci, il cui nome fu coniato in latino dal termine greco 6ikos (una parola polisemantica che sta per «casa», «ambiente in cui si vive»), erano altre eleganti stanze di soggiorno e di ricevimento affacciate sul peristilio, come il vano 42: nella pur sfarzosissima casa del Fauno mancano però tipi

154

ancor più raffinati di oeci, con colonne, balconate o finestre panoramiche, che potevano essere usati anche come stanze tricliniari di gran lusso. Vitruvio (VI 3, 8-10) ne fornisce un prezioso elenco, confermando la loro origine orientale, menzionando oeci tetrastili, corinzi, egizi e ciziceni: Gli oeci corinzi, tetrastili ed anche quelli chiamati egizi abbiano il rapporto tra larghezza e lunghezza nella medesima proporzione di quanto prescritto per i triclini [cioè la lunghezza doppia della larghezza), ma, a causa della presenza interposta delle colonne, siano di dimensioni più ampie. Tra gli oeci corinzi e quelli egizi vi sarà questa differenza: i corinzi hanno semplici colonne poste o su un podio o direttamente a terra; sopra queste colonne vi siano architravi e cornici o in legno o intonacate, ed inoltre, sopra le cornici, [vi siano] dei soffitti curvi a cassettoni a sezione circolare. Negli oeci egizi, invece, sia collocata una travatura [all'altezza) delle architravi situate sopra le colonne e dello spazio compreso tra le architravi e le pareti perimetrali; su questo solaio [vi sia) un pavimento, in modo che giri una balconata all'aperto. Inoltre al di sopra dell'architrave, a perpendicolo con le colonne inferiori, siano collocate altre colonne più piccole di un quarto [delle inferiori]. Sopra gli ornamenti e le architravi di queste ultime si predisponga un soffitto decorato a cassettoni, aprendo delle finestre negli intercolumni di questo piano superiore; in tal modo gli oeci egizi sembrano simili alle basiliche e non ai triclini corinzi. Non sono inoltre di uso italico quegli oeci che i Greci chiamano ciziceni: questi sono costruiti rivolti verso nord e completamente affacciati sul verde dei giardini (maxime viridia prospicientes), ed hanno al centro delle porte pieghevoli. Queste sale sono inoltre lunghe e larghe in modo che vi possano essere collocati, uno di fronte all'altro, due triclini con lo spazio per circolarvi intorno; esse prendono luce, a destra e a sinistra, grazie a finestre ad imposta, in modo che siano visibili i verdi giardini mediante le aperture finestrate, [stando] al coperto (uti de tectis per spatia fenestrarum viridia prospiciantur). La loro altezza deve essere una volta e mezzo la loro larghezza.

Quest'ultimo tipo di oeci ricordato da Vitruvio era stato elaborato a Cizico, una città dell'Asia Minore sul Mar di Marmara, e doveva essere stato introdotto nel mondo romano proprio negli anni in cui l'architetto scriveva il trattato (40-30 a.C.): alcuni studiosi, fra cui Pierre Gros, hanno voluto riconoscere anche a Pompei la presenza di questi oeci cyziceni, ma essa va respinta sulla base di una più attenta lettura del testo vitruviano. Per poter parlare di oecus cyzicenus non basta infatti che ci si trovi di fronte ad una stanza di grandi dimensioni affacciata a nord su un giardino o su un peristilio, condizione che individua semplicemente un triclinio estivo: gli oeci cyziceni dovevano essere, viceversa, pienamente avvolti dal verde, con finestre disposte in almeno due lati, che, insieme alla porta d'ingresso, permettevano

155

ai banchettanti di scorgere all'intorno la verzura del giardino. Non a caso Vitruvio usa lo stesso verbo, prospiciere («prospettare»), per definire il rapporto spaziale e visivo tra questi oeci ed il verde circostante. Non deve sorprendere più del dovuto la mancanza a Pompei di elementi architettonici menzionati dal trattato vitruviano: esso fu senz'altro scritto con la mente rivolta soprattutto a ciò che caratterizzava la vita lussuosa di una città come Roma. Per quanto riguarda ancora gli oeci cyziceni, una loro possibile eco pompeiana è comunque in quei triclini estivi coperti da pergolati, situati nel cuore dei giardini, come ad esempio quello della villa suburbana di Diomede, peraltro successivo all'età sillana; un gusto simile a quello di questi lussuosi ambienti di origine microasiatica può inoltre essere ravvisato in un edificio della piena età giulio-claudia, la villa imperiale scavata a Oplontis, nei pressi di Torre Annunziata: con ardito impianto scenografico una serie di ambienti a muri paralleli e a finestroni sfalsati permetteva di osservare la natura reale del1' adiacente giardino e la natura artificiale dipinta illusionisticamente sulle pareti poste al termine delle fughe prospettiche. A differenza dei ciziceni, gli oeci tetrastili, corinzi ed egizi sono viceversa documentati in ambito vesuviano, pur non essendo certo frequentissimi: in particolare si conosce un solo esempio di oecus aegyptius nella casa ercolanese dell' Atrio a mosaico (Iv l-2: fig. 26), databile peraltro all'età augustea. L'oecus, con pilastri, finestre e balconate, fu ricavato dal proprietario dell'abitazione trasformando un antico tablino. A Pompei si conservano invece oeci tetrastili e corinzi, quasi certamente appartenenti ad un orizzonte ancora di fine II secolo a.C.: se ne può ammirare uno del primo tipo nella casa delle Nozze d'argento (v 2, i, vano 4), mentre due notevoli esemplari di oecus corinzio sono l'ambiente 43 della casa del Labirinto (VI I I, IO: fig. 26) e la sala 24 della casa di Meleagro (VI 9, 2). Elemento caratteristico di questo gruppo di oeci è la presenza delle colonne e di un ambulacro, che rendeva molto probabilmente più comoda la stessa consuetudine di mangiare sdraiati: è infatti ipotizzabile che nel momento del banchetto i letti tricliniari si disponessero tra gli intercolumni e non accostati ai muri perimetrali, permettendo così alla servitù di svolgere più discretamente le sue mansioni grazie ai corridoietti laterali.

ig. 26. Pom . F' Labirinto· . pe1, casa del

d . pianta gc nerale ( a Overbeck) dell' oecus c . ~ sezione to) (da M . onnz10 (in alcasa dell'Aa1u~1); Ercolano • tno a • p1~nta generale mosaico: e ncostruz· (al centro) e_n basso) ione d ,p rospettica 1 (da M . e_11 oecus egizio a1un)

Fig. 27. Pompei, casa dei Diadumeni: pianta generale (da Overbeck) e ricostruzione prospettica dell'atrio corinzio (da Jung) I

l.

I.

t

I ~-- - •-- ,

'o -

__ ,_ -

-j

20

m

158

Come si sarà notato, l'introduzione di strutture di gusto greco-orientale nell'architettura domestica italico-romana delle classi dirigenti corrispose all'uso su vasta scala della colonna, fulcro modulare dei peristili e degli oeci più lussuosi: spesso si assiste alla caratteristica mescolanza degli ordini, secondo dettami stilistici in voga nell'arte ellenistica; un buon esempio di ciò è il primo peristilio della casa del Fauno che, nella definitiva trasformazione della fine del II secolo a.e., ebbe un colonnato ionico sormontato da un fregio dorico a triglifi e metope lisce. La colonna è presente anche in altri ambienti delle domus più prestigiose: sempre nella casa del Fauno si possono ricordare sia l'esedra 37 (la stanza del mosaico di Alessandro), aperta da una sorta di loggia con due colonne corinzie su alte basi quadrangolari, sia l'atrio tetrastilo della parte privata. Per quanto riguarda gli atri è poi opportuno ricordare il tipo definito corinzio da Vitruvio (vI 3, 1), con il tetto sostenuto da una vera e propria peristasi di colonne: la casa dei Diadumeni (Ix I, 20: fig. 27), una grande domus risalente alla fine del II secolo a.e., ne conserva uno con sedici colonne con capitelli dorici in tufo di Nocera, uno dei materiali prediletti a Pompei in epoca preromana. Se, come si è visto in precedenza, l'aggiunta del peristilio all'antico schema della casa ad atrio si configura sostanzialmente come una fusione tra tradizione ed innovazione, il n;iodello dell'atrio corinzio rappresenta senza dubbio l'esperimento di edilizia domestica italico-romana più vicino alle case greche a pastàs e a pastàs-peristilio: la concezione abitativa appare infatti molto vicina, imperniata in questi tipi di case su un vasto ambiente colonnato immediatamente raggiungibile dopo aver percorso il corridoio d'accesso. L'esemplificazione di modelli ricavati dall'architettura ellenistica potrebbe continuare ancora a lungo, menzionando ad esempio il peristilio rodio, dove uno dei colonnati era di altezza superiore agli altri tre (come ad esempio nella casa delle Nozze d'argento di Pompei, v 2, i), o gli eleganti xysti, le passeggiate scoperte lungo i giardini privati, o ancora il procoetòn: quest'ultimo era un'anticamera posta davanti ad un cubicolo padronale, destinata ad uno schiavo o ad una schiava di fiducia che si preoccupava delle eventuali esigenze notturne di chi dormiva all'interno del cubiculum. Come abbiamo cercato di spiegare, la cultura italico-romana mutuò queste novità dal contatto con il raffinato mondo greco-o-

159 rientale: non è inutile ricordare a questo punto l'ostinazione con cui, in epoca fascista, si volle negare la derivazione ellenica di queste profonde trasformazioni nell'edilizia domestica. Ancora una volta dobbiamo citare le teorie di Giovanni Patroni: secondo questo archeologo, che abbiamo visto accanito difensore dell'origine etrusca degli atri, perfino la stessa introduzione del peristilio era un naturale sviluppo dell'architettura privata romana. Il termine vitruviano peristylium diventava, nell'ipotesi patroniana, un neologismo creato dal trattatista, pertinente quindi ad una tipologia del tutto indigena; naturalmente ciò è falso, il vocabolo è modellato dal greco, allo stesso modo di una parola come epistylium (architrave): oltretutto Vitruvio utilizza l'espressione peristy/ium descrivendo proprio la casa ellenistica, come in VI 7, 4. Non va infine dimenticato, come opportunamente sottolineò Amedeo Maiuri, che l'architetto si preoccupa sovente di precisare con scrupolo filologico il significato e l'appartenenza linguistica dei termini tecnici che usa. Ad esempio, è proprio un passo vitruviano ad informarci (VI 7, 5) che xystos indica in greco un portico di notevole larghezza in cui gli atleti si allenano durante la stagione invernale; i Romani chiamano invece xysta le passeggiate scoperte che i Greci denominano paradromìdes.

È probabile che anche il Patroni ne avesse piena coscienza: ma il bisogno tutto ideologico di considerare i Romani sostanzialmente immuni da ogni contaminazione culturale ed autonomi nelle loro conquiste intellettuali impedì allo studioso di formulare una teoria più rispondente alla verità storica. Del resto, il ruolo dell'influsso greco su Roma era ben chiaro alla cultura latina, come può testimoniare questa famosa considerazione di Orazio: «La Grecia conquistata conquistò il bellicoso vincitore e portò le arti al Lazio contadino» (Epistulae, 11 1, 156-157). La stessa analisi degli apparati decorativi presenti nelle città vesuviane tra la fine del m secolo a.e. e la guerra sociale del 91-88 a.e. rivela la forza di penetrazione dei processi di ellenizzazione: negli ambienti di lusso non mancano, ad esempio, pavimenti che recano al centro quadretti, detti emblémata dagli antichi, realizzati a tessere policrome minutissime in una tecnica di origine greco-orientale, il cosiddetto

160

opus vermiculatum. Questo nome deriva probabilmente dall'andamento molto mosso assunto dalle file di tesserine, che poteva ricordare il brulichio dei vermi: lo stesso mosaico di Alessandro della casa del Fauno fu eseguito in questa tecnica, ma le sue notevolissime dimensioni ne fanno comunque un unicum a Pompei e non soltanto in questa città! I soggetti degli emblémata comprendevano, fra gli altri, temi erotici, nature morte con pesci, scene e maschere teatrali, raffigurazioni dionisiache e paesaggi nilotici; questi eleganti mosaici erano opera di artigiani specializzati che copiavano un repertorio standard, avvalendosi di cartoni di bottega: ciononostante essi illustrano efficacemente l'alto livello di resa illusionistica del reale che doveva caratterizzare la pittura coeva, soprattutto quella alessandrina. Gli emblémata - a Pompei se ne conoscono poco meno di una quarantina - erano inseriti in questa fase prevalentemente al centro di pavimenti composti da scaglie calcaree bianche (marmoree in rari esempi) o policrome: gli emblémata, e gli stessi mosaici a tessere quadrangolari che si estenderanno fino ad occupare intere pavimentazioni, costituiscono naturalmente un gruppo assai limitato di decorazioni pavimentali; si è ad esempio calcolato, esaminando alcuni isolati della regione I di Pompei, che i mosaici ammontano ad appena il 2,5 per cento del totale, concentrandosi in pochissime domus: un dato che ha fatto giustamente osservare a Mariette De Vos che «studiare i mosaici figurati significa quindi vagliare l'ideologia e il gusto di un ceto dirigente molto ristretto». La gran parte dei pavimenti era infatti formata da battuti a sfondo rosso eseguiti in cocciopesto, composti cioè da un tritume di tegole e anfore connesso da buona calce che, in alcuni casi, venivano decorati da motivi geometrici realizzati a tessere calcaree bianche e/o nere; queste pavimentazioni sono ricordate anche in un noto passo pliniano (Naturalis Historia, xxxv 165), che rende nota inoltre la loro denominazione antica, signina: che cosa non escogita la vita usando anche cocci rotti, in maniera che i cosiddetti signini, pestati i cocci e aggiuntavi calce, siano più solidi e durino più a lungo!

Per quanto riguarda la decorazione parietale delle case di Pompei ed Ercolano, il periodo che stiamo analizzando fu contrassegnato dalla moda del primo stile che, come già ab-

161

biamo avuto modo di osservare, è altresì presente in qualche esempio romano. Anche questo sistema ornamentale è di provenienza greco-orientale: conosciuto già in età classica, come documentato da Atene, si diffuse notevolmente nelle città del mondo ellenistico, tra cui, ad esempio, Alessandria, Delo, Pergamo e Magnesia al Meandro. L'obiettivo fondamentale di questa decorazione è l'imitazione in stucco, bianco o policromo, di strutture murarie a blocchi isodomi, elemento che spiega la definizione di 'stile strutturale' con cui si preferisce sovente denominare il primo stile: nel gioco degli aggetti di queste stuccature non mancavano parti in rilievo accentuato, come le cornici a dentelli o, addirittura, i finti loggiati. Con questa ornamentazione si nobilitavano le pareti, perseguendo un duplice scopo: si nascondevano alla vista i paramenti non particolarmente eleganti dell'opera cementizia allora in uso nell'area vesuviana - che aveva ormai quasi del tutto soppiantato l'antico opus quadratum - e si dotava la propria casa di un'ulteriore raffinatezza di gusto ellenizzante. A differenza dei pavimenti, in cui emblémata, signini e cocciopesti individuano una certa gerarchia sociale, le decorazioni in primo stile, forse per il loro costo non elevatissimo e la minore specializzazione richiesta alle maestranze, paiono essere comuni sia alle domus di altissimo livello sia alle case dei ceti 'medi'. Tra le prime si può nuovamente ricordare la casa del Fauno o la bella casa di Sallustio (v1 2, 4), mentre per il secondo gruppo presenta elementi significativi un'abitazione di Ercolano, la casa 'Sannitica' (v 1): si tratta di una domus ad atrio tuscanico risalente al II secolo a.C. che ha conservato numerose parti dell'originaria decorazione in primo stile. Le fauci d'ingresso presentano infatti stucchi policromi, che intendono suggerire una parete isodoma con alto zoccolo ed ortostati, con un'attenzione particolare rivolta all'imitazione dipinta di marmi rari e preziosi: una vivace inserzione di colore che ravviva il sostanziale classicismo del riferimento alla muratura a blocchi regolari mediante un elemento di gusto 'barocco', secondo un'inclinazione eclettica cara a buona parte della cultura ellenistica. Nella zona superiore dell'atrio della casa 'Sannitica' (tav. II) è inoltre presente un esempio di finto loggiato a pilastrini con balaustra, in grado di «esprimere bene il desiderio di lusso e di spazio» (Torelli) che si impadronì della classe media: le abitazioni di questa larga fascia sociale non

162 potevano certamente giungere alla abnorme dilatazione spaziale di domus come la casa del Fauno. A conclusione di questo paragrafo dedicato alle città vesuviane, in cui si è finora lasciato ampio spazio all'analisi delle abitazioni dei ceti dirigenti identificandone un'esemplificazione pregnante nella casa del Fauno, è opportuno dedicare qualche riflessione a domus di livello minore. La gamma delle abitazioni pompeiane ed ercolanesi offre un vasto campionario di soluzioni abitative, con tipologie edilizie molto differenziate anche all'interno di gruppi sociali omogenei: ad esempio, per restare ancora per un attimo nell'ambito delle case aristocratiche, la combinazione ed il numero degli atri e dei peristili sono abbastanza variabili. Una caratteristica piuttosto interessante può essere ravvisata in quelle abitazioni in cui vi sono invece cortili colonnati ricavati sistemando alla meglio l'antico hortus, costruendo attorno al giardino porticati su due o tre lati; i proprietari di queste case non poterono evidentemente acquistare lo spazio sufficiente per erigere ampi peristili quadrati: ciò a causa non soltanto della consistenza del loro patrimonio economico, ma anche delle resistenze che avranno certamente opposto i possessori delle case adiacenti, non disposti a cedere in parte o interamente le loro domus, come nei casi già visti degli ingrandimenti delle dimore aristocratiche. Peristili estesi per soli due lati attribuibili al periodo sannitico sono conservati, tra gli altri (fig. 28), nella casa della Caccia antica (vn 4, 48) e in quella dei Quadretti teatrali (1 6, 11): la lettura sociologica di questo fenomeno è tutt'altro che scontata. La logica dovrebbe comunque coincidere con quella messa in rilievo poc'anzi a proposito del finto loggiato in primo stile della casa 'Sannitica' di Ercolano: si è cioè di fronte ad individui desiderosi di godere almeno di una parvenza del lusso strabocchevole dei nobiles al potere. Una situazione, quindi, che pare autorizzare l'attribuzione di abitazioni di questo tipo a ceti di livello 'medio-borghese', per usare una definizione convenzionale: resta però il dubbio se questa gente, indubbiamente agiata anche se affascinata dai modelli di vita di chi era più ricco, facesse parte o no della classe dirigente delle due città. Queste valutazioni sono rese difficoltose anche dalla mancanza di un censimento completo delle abitazioni di Pompei ed Ercolano che tenga conto di tutte le variabili (dimensioni, arredo, decorazione, posizione urbanisti-

163

I 12

n 6

■ @3

El

z

17

10

20m

Fig. 28. Pompei: piante della casa della Caccia antica (a sinistra) e della casa dei Quadretti teatrali (a destra in alto) (da De Vos); Ercolano: pianta della casa della Fullonica (a destra in basso) (da Maiuri)

ca ecc.) in grado di facilitarne la classificazione sociale: si tratta, naturalmente, di uno studio assai complesso, ma è auspicabile che la futura scienza archeologica provi a farsene carico. Nell'ambito delle case delle classi medio-basse ed inferiori vanno poste quelle domus ad atrio prive del giardino, abbastanza diffuse, anche se non esclusivamente, nel quartiere vicino al Foro di Pompei (le regioni VII e vm), che rimase per secoli di carattere piuttosto popolare; o ancora quelle abitazioni imperniate su atriali di modeste dimensioni che, pur concludendosi talora con un hortus, hanno un numero molto esiguo di stanze: il primo gruppo di domus corrisponde al tipo messo in luce dall'archeologo Adolf Hoffmann, già visto nel capitolo precedente, mentre il secondo è stato studiato da Edith Evans in un articolo sulle case ad atrio prive di cubicoli laterali. Un esempio di questa tipologia domestica databile ancora nell'orizzonte del II secolo a.C. è la piccola domus che si apre al n. 9 dell'isolato vr 6 (fig. 17a-b),

164

in gran parte occupato dalla cosiddetta casa di Pansa. Proprio l'inserimento del peristilio in quest'ultima grande dimora aristocratica è alla base delle modeste dimensioni della domus VI 6, 9: come forse si ricorderà (si confronti quanto scritto nel capitolo terzo), la crescita della casa di Pansa sanzionò la scomparsa o la sostanziale riduzione di alcune abitazioni di questo isolato. Originariamente la domus VI 6, 9 si estendeva verso ovest, raggiungendo con un'articolazione planimetrica certo più complessa un ipotetico hortus: in un esempio come questo, ove sono evidenti gli antagonismi di classe tra i gruppi sociali di Pompei, deve restare incerto se questa piccola casa sia stata abitata dalla medesima famiglia dopo gli interventi di ridimensionamento. In linea teorica sono infatti possibili tre alternative: a) la riduzione di superficie della domus VI 6, 9 non ha comportato un cambio di proprietà: la casa è rimasta dello stesso nucleo famigliare cui fu in pratica imposto di vivere in un'abitazione più piccola; b) il possessore della casa di Pansa ha acquistato anche questa piccola domus, affittandola ai vecchi proprietari rimasti come locatari; c) il cambio di proprietà a vantaggio del dominus della casa di Pansa si è risolto con l'espulsione dei vecchi abitanti: in questo caso l'abitazione VI 6, 9 o fu affittata ad altri, o fu usata per scopi particolari. Quest'ultima possibilità fu sostenuta soprattutto da Amedeo Maiuri, che riconosceva in questa piccola domus un hospitium, cioè una sorta di dépendance della casa signorile utilizzata dal proprietario per accogliere i suoi ospiti: il grande archeologo colse probabilmente nel segno, ma ebbe il torto di pensare che l'isolato fosse stato pianificato così fin dall'inizio. In altri termini, anche ammettendo la destinazione, peraltro non sicurissima, di questa piccola casa ad hospitium - il Maiuri assegnava la stessa funzione anche alle due abitazioni indipendenti poste al n. 7 e al n. IO (cfr. fig. 17 a) - non è possibile sorvolare sul modo traumatico con cui il proprietario della casa di Pansa giunse a questa sistemazione abitativa. Come abbiamo più volte osservato, l'ingrandimento di una residenza signorile presuppone in sé uno scontro di interessi contrapposti: l'ammirazione, talvolta venata di nostalgia, per la raffinatezza e l'eleganza di molte dimore pompeiane ed ercolanesi non deve affatto far passare in seconda linea il costo sociale sovente determinato dalla ricerca di queste forme di vita comoda e lussuosa.

165

Prima di terminare queste rapide annotazioni sulle abitazioni delle classi subalterne delle due città vesuviane può essere interessante dedicare una breve nota agli hospitia o hospitalia, che ci riporterà brevemente alle abitudini aristocratiche: anche se la valutazione sull'articolazione dell'isolato della casa di Pansa non è immune da imperfezioni interpretative, il Maiuri ebbe il merito di intuire, in quel suo studio del I 954, che l'assimilazione di costumi di vita di impronta greco-orientale poteva essere rinvenuta anche nel modo di assolvere i doveri di ospitalità. Sulla base di un passo vitruviano relativo alla casa greca che descriveva l'esistenza di appartamenti ideati appositamente per gli ospiti, lo studioso credette di riconoscerne degli esempi in alcune tra le più ricche domus di Pompei, fra cui, come si è visto, la casa di Pansa. Anche se il riconoscimento di questi hospitia non appare sempre convincente - assolutamente inaccettabile è, fra le altre cose, l'idea che l'atrio tetrastilo (7) della casa del Fauno (fig. 25) fosse destinato agli ospiti -, la teoria del Maiuri è plausibile, soprattutto per gli indubbi influssi ellenistici che caratterizzarono quell'epoca. Vitruvio (v1 7, 4) descriveva così questo tipo di struttura: [Nella casa greca] sono posti sulla destra e sulla sinistra dei piccoli appartamenti (domunculae) dotati di ingressi autonomi, triclini e adeguate stanze da letto, in modo che gli ospiti in arrivo possano essere ricevuti in 4uesti appartamenti (hospitalia) e non nei peristili. [... ) Così ai capifamiglia [accolti) negli hospitia non sembrava di essere in un paese straniero, goc.lendo in questi quartieri per ospiti di una generosità [offerta) con discrezione.

In quello stesso saggio Amedeo Maiuri volle scorgere un altro indizio di ellenizzazione nella presenza nelle domus pompeiane di settori appartati destinati alle donne, i ginecei: in questo caso, quanto sappiamo sul ruolo relativamente più libero della donna romana rispetto a quella greca non depone a favore della teoria maiuriana. Dopo questa parentesi ritorniamo ad occuparci delle abitazioni meno sontuose: un altro esempio interessante di domus di livello 'medio' abbastanza modesto databile con sicurezza al II secolo a.C. è la casa ercolanese della Fullonica (1v 6: fig. 28). Questo edificio, privo di hortus, è composto dalla successione di due piccoli atri, il primo testudinato ed il secondo tuscanico; attorno ad essi si dispongono pochi ambienti destinati al soggiorno e al riposo, secondo una pia-

166 nimetria assai lontana dalla casa ad atrio di tipo più usuale; la presenza di stanze decorate in primo stile dimostra ulteriormente che questo schema ornamentale era comune a più strati sociali. Nel I secolo d.C., come avverrà frequentemente in molti edifici delle città vesuviane, questa casa venne trasformata in un laboratorio artigianale, la f ullonica (una struttura per la tintura e il lavaggio di panni e stoffe), che suggerì agli scavatori il nome dell'abitazione. Per esemplificare ulteriormente le condizioni di vita di individui ancor meno privilegiati, ai gradini più bassi della scala sociale, entriamo idealmente in almeno un paio di case di livello particolarmente modesto; esse appartengono al gruppo di piccole domus messe in luce, per la loro emblematicità, da un grande studioso tedesco del secolo scorso, Johannes Overbeck: egli, animato dallo spirito positivistico della cultura del suo tempo, cercò di descrivere Pompei in tutti i suoi diversi aspetti, senza esaltarne le sole luci come troppo spesso si fece in seguito. Un primo esempio di abitazione in cui le comodità sono ridotte all'indispensabile è la casa VI 2, 29 (fig. 29), nel cuore del quartiere signorile della regio VI: in circa 100 metri quadri si dispongono un vano d'ingresso interamente coperto (1) da cui si accede ad un piccolo cubicolo (3, forse la stanza dell'unico schiavo a disposizione della famiglia) e alla stanza più curata della domus (4), usata probabilmente per i pasti; sempre dall'ambiente 1 era possibile raggiungere con una scalinata (2) il piano superiore, o dirigersi verso la parte terminale della casa mediante il corridoio 5, certo coperto, sul quale si apriva la camera 6, verosimilmente usata per il riposo notturno dei proprietari; la domus si concludeva nel vano 8, usato come cucina e latrina, una contiguità riscontrabile anche in abitazioni molto più signorili: l'ambiente 8 era parzialmente scoperto sul lato destro, ove era situato un piccolo bacino di raccolta per l'acqua piovana (9), delimitato da una strettissima fascia di 15 cm che, a giudizio dell'Overbeck, accoglieva dei fiori, modestissima eco degli immensi giardini dei privilegiati. Questa casa, che aveva comunque almeno altri tre vani al piano superiore, riceveva luce soltanto dalla porta d'ingresso, dall'apertura compluviata nel tetto dell'ambiente 8 e da piccole finestre che rischiaravano le stanze 3, 4 e 6, prendendo luce dall'elegante hortus colonnato dell'attigua casa di Sallustio: la domus doveva quindi es-

167

f

I'

Fig. 29. Pompei: piante delle casette v1 2, 29 (in alto) e v111 4, 37 (in basso) (da Ovcrbeck)

\CTe particolarmente buia, al punto che all'esterno, a lato dèll'ingresso, venne posta una panchina di pietra (a), per permettere ai suoi abitanti di sedere all'aria aperta. Nelle ca\C aristocratiche simili panchine in prossimità dell'entrata 1..·rano invece concepite per l'attesa dei c/ientes, che certo non ~i saranno affollati davanti a questa modesta dimora! Era anzi il proprietario di quest'ultima a dover essere cliente di (.Jualche personaggio di rango. La seconda casa (fig. 29) che può mostrare con efficacia

168

questo livello sociale è invece situata nella regione VIII, non lontano dal tempio di Iside e dai teatri. La domus (VIII 4, 37) è accessibile mediante uno stretto corridoio, affiancato da tre botteghe (due con retrobottega) che non appartengono alla casa: dall'ingresso si perviene all'atriolo testudinato 2, sul quale si aprono la stanza 3, forse un piccolo magazzino-deposito, ed il vano di disimpegno 4; quest'ultimo consente l'accesso al modesto triclinio 5, mentre il corridoio 6 permette di giungere alla latrina 8 e al vano di servizio 7, con il focolare ed un bacino idraulico murato in un angolo. Anche questa minuscola casa, buia e dalla planimetria piuttosto strozzata, doveva avere un piano superiore, raggiungibile grazie ad una scala posta nell'atriolo e del quale non restano tracce: in esso dovevano verosimilmente trovarsi le stanze da letto. Queste abitazioni, vero e proprio contraltare delle residenze aristocratiche, non appartengono beninteso alla sola fase preromana, dal momento che discrepanze sociali rilevanti continuarono naturalmente a perdurare nelle città vesuviane fino all'eruzione del 79. Tali domus non rappresentano peraltro le condizioni di vita più disagiate: senza considerare gli schiavi, di cui riparleremo a lungo soprattutto nei paragrafi dedicati alle ville, vi erano persone, sovente di condizione libera, che vivevano in tuguri ancor più modesti. Era questo il caso di molti bottegai che abitavano in soppalchi lignei posti al di sopra dei vani di lavoro e di vendita, cui si accedeva mediante scale con i primi gradini in pietra e i restanti in legno: Pompei, una città di transito situata su importanti vie di comunicazione, conobbe per l'intero corso della sua storia simili tabernae e piccole officine di mestiere, che abbondavano più che altro sulle strade principali, ove era intenso il viavai di carri e persone. Questi soppalchi, illuminati da basse finestre poste in asse con il sottostante ingresso alla bottega, erano normalmente denominati pergu/ae: un celebre proverbio riportato da Petronio (Satyricon, 74, 14), «ma chi è nato in una pergu/a non sa immaginarsi una casa», denota con efficacia che cosa significasse concretamente l'appartenenza alle classi subalterne.

169

Ville rustiche e ville d'otium Nel periodo della cosiddetta luxuria Asiatica si assiste ad importanti mutamenti nelle forme di occupazione e di sfruttamento delle terre agricole. Con una dinamica che sembra avere le sue necessarie premesse già a partire dal III secolo a.e. nascono, soprattutto nelle aree più fertili del versante tirrenico, vere e proprie aziende agrarie orientate verso produzioni specializzate, che finirono con il soppiantare sempre più diffusamente l'antico tessuto formato dalla piccola proprietà contadina, pur non eliminandolo del tutto; quest'epoca coincide quindi con la formazione di concentrazioni terriere di estensione media e medio-grande, con punte definibili in taluni casi francamente latifondistiche: ne sono sicura prova le stesse proposte graccane della seconda metà del II secolo a.C., con quel limite massimo di 125 ettari che sottintende come nella realtà di quei tempi esistessero proprietà agrarie ben maggiori. Come si è avuto modo di notare nell'introduzione a questo capitolo, tale processo socio-economico ricevette un impulso fondamentale dalla grande disponibilità di manodopera schiavile conseguente alle vittorie militari romane: la possibilità di limitare l'incidenza dei costi produttivi a livelli pressoché minimi, dal momento che agli schiavi bastava garantire la semplice sussistenza, favorì certamente la realizzazione di profitti molto rilevanti. Non va peraltro dimenticato che tra il personale impiegato in queste aziende rurali erano compresi anche lavoratori di condizione libera, talvolta tenuti a prestazioni forzate in seguito all'indebitamento. Le produzioni più remunerative erano senza dubbio quelle arboricole: soprattutto oliveti e vigneti erano in grado di assicurare alti redditi grazie ad un mercato che poteva contare sui consumi di una megalopoli come Roma e, più in generale, sul vasto complesso di relazioni commerciali tra il mondo romanizzato - coincidente in pratica con quasi tutti i popoli affacciati sul Mediterraneo - e le aree confinanti. Elemento non secondario di questa congiuntura che, in età tardo-repubblicana, rafforzò grandemente le classi dominanti della nostra penisola, specie chi aveva investito nelle ricche pianure medio-tirreniche, è il ricorso a misure protezionistiche; non è certo inutile ricordare a questo proposito un famoso provvedimento senatorio, ascrivibile forse al 154 a.e., ricordato da Cicerone: con estrema lucidità il grande oratore rileva che

170 noi [i Romani] non permettiamo alle genti transalpine [gli abitanti della fertile Gallia meridionale] di coltivare l'olivo e la vite, per non svalutare i nostri oliveti e le nostre vigne (Cicerone, De repub/ica, m 9, 16).

Simili considerazioni illustrano al meglio la portata di quelli che, ormai da tempo, erano gli interessi economici in campo. Il termine latino usato dagli antichi scrittori per designare i fabbricati costruiti al di fuori delle città era villa, una parola che pare individuare uno spettro semantico piuttosto ampio: per i Romani, infatti, erano villae sia le fattorie destinate alla sola produzione agricola, da essi denominate rusticae, sia le lussuose residenze pensate per il riposo ed il tempo libero, le cosiddette ville d'otium. Tra questi due estremi vi erano naturalmente soluzioni intermedie: esistevano infatti sia ville produttive adeguatamente attrezzate anche per il soggiorno temporaneo sia ville di lusso comprendenti settori ideati per colture talvolta a carattere fortemente specializzato. Con il progressivo diffondersi presso le classi dirigenti italico-romane di raffinate abitudini di vita di origine grecoorientale si sviluppò inoltre, già a partire dal II secolo a.e., la consuetudine di edificare nell'ambito stesso delle città o nelle loro immediate vicinanze prestigiose ville: queste ultime, dette urbanae, erano per lo più circondate da vasti giardini e godevano di una privilegiata posizione panoramica. In questo paragrafo forniremo una campionatura indicativa dei diversi tipi di villa che abbiamo menzionato, avvertendo fin d'ora che le ville urbane di Roma saranno trattate più diffusamente nel prossimo capitolo: esse infatti furono una caratteristica saliente soprattutto durante il I secolo a.e., quando punteggiarono intere zone della metropoli, come ad esempio l'Esquilino ed il Quirinale. Peraltro una possibile villa romana di questo tipo assegnabile già al pieno II secolo a.C. è la villa Scipionis («villa di Scipione»), fugacemente nominata in un passo ciceroniano (Philippica II, 109); un'altra notizia di Cicerone (De natura deorum, II 11), con la menzione di horti Scipionis («giardini di Scipione») in un contesto cronologico di prima metà II secolo a.e., permette di ipotizzare che la villa Scipionis, ammessa la sua coincidenza con gli horti, doveva appartenere a Scipione l'Africano, il vincitore di Annibale. Questa proprietà del grande personaggio si trovava al di fuori del pomerio, la linea sacra di demarcazione della città più o meno coincidente con le

171 mura urbane, ed era probabilmente situata nella piana del Campo Marzio. La nostra documentazione sulle ville rustiche databili al periodo concluso dalla guerra sociale del 91-88 a.e. non può per ora basarsi su dati archeologici molto numerosi: per villa rustica si deve intendere soprattutto una fattoria adibita a scopi esclusivamente produttivi in cui era preferibilmente impiegato personale schiavistico. Un'esemplificazione di questo tipo di struttura può essere riconosciuta nella villa scavata nei primi anni '70 nei pressi di Qualiano, una località posta sull'antica via Campana, la strada di collegamento tra Capua ed il porto di Pozzuoli: tale edificio, situato in una fertilissima zona agricola, era caratteristicamente privo di decorazione, sia parietale che pavimentale, un elemento che rende abbastanza certi della sua destinazione a villa schiavistica di produzione. In area laziale simili fattorie paiono individuate dal tessuto piuttosto ramificato costituito dai ruderi più volte riconosciuti in territori di alta produttività agraria come, tra gli altri, i comprensori di Sezze e di Terracina. Molti studiosi hanno giustamente ricondotto questa occupazione dei terreni agricoli della fascia medio-tirrenica mediante una rete di ville rustiche al tipo di sfruttamento del suolo presupposto dal trattato catoniano De agri cultura: l'opera del Censore, riferibile alla prima metà del n secolo a.e., è una meticolosa raccolta di precetti indirizzata ai nobiles interessati agli investimenti agrari. Nella storiografia moderna, tuttavia, si è spesso considerata la conduzione catoniana come un modello legato ancora ad atavici schemi patriarcali, contrapponendovi le più mature esperienze della fine della repubblica e del primo impero, rappresentate dai trattati di Varrone e di Columella e dalle notizie fornite da Plinio il Giovane. Questo quadro, pur vero in buona parte per ciò che concerne l'evoluzione della tecnica agronomica, rischia di risultare deformante in merito alla valutazione complessiva dell'agricoltura 'catoniana': fin dalle prime pagine del trattato è infatti preminente il conseguimento della rendita, il cosiddetto fructus, come si può ad esempio arguire dalla precisa raccomandazione di acquistare una villa in cui vi siano abbondanza di lavoranti, buona [disponibilità d'I acqua, una cittadella ben munita nelle vicinanze, [nonché la presenza] o del mare o di un fiume navigabile, o di una strada in buone condizioni e frequentata (Catone, De agri cultura, , 3).

172

Il carattere schiavistico della villa delineata dal Censore emerge nei famosi passi in cui vengono descritte le condizioni della manodopera servile: tra gli altri assume particolare rilievo la raccomandazione (II 7) di disfarsi, vendendoli, degli schiavi vecchi ed infermi, che, al di là della sostanziale disumanità, illustra bene il ruolo di ingranaggi essenziali alla produzione rivestito dai servi. Senza entrare nella intricata polemica sull'estensione media dei fundi all'epoca catoniana, un momento in cui, almeno in certe aree, si saranno comunque formati alcuni latifondi pur nella sostanziale predilezione verso la media proprietà, importa esaminare un altro aspetto di carattere generale: l'identificazione del trattato di Catone con un livello ancora 'primitivo' di conduzione agraria ha spinto sovente a considerare impossibile che le ville rustiche 'catoniane' potessero essere dotate di apparati di una certa comodità. A prescindere naturalmente dalle fattorie a destinazione prettamente produttiva, si può dimostrare l'erroneità di questa supposizione per quel gruppo di proprietà agrarie che più sopra abbiamo definito intermedie: in esse si trovavano infatti abbinate l'esigenza di assicurare la resa economica e la possibilità, funzionale alla stessa produzione, di essere abitate, con soggiorni prevalentemente temporanei, dai loro possessori. Un passo del manuale agronomico di Catone (1v 1) chiarisce bene la questione: Edifica con investimento adeguato la villa urbana [questo termine va qui inteso come la parte elegante di una villa rustica]. Se in una buona tenuta avrai costruito bene, ne ricaverai buon esito: se tu avrai fatto in modo di abitare in campagna come si conviene [alle tue abitudini], più volentieri e più spesso ci verrai, la tenuta diventerà migliore, capiteranno meno inconvenienti e trarrai una rendita maggiore.

Sembra quindi del tutto plausibile che fin dalla prima metà del II secolo a.e. le parti padronali delle ville rustiche fossero contraddistinte da una certa raffinatezza, anche se finora mancano conferme archeologiche soprattutto per la carenza delle nostre conoscenze al riguardo. Va peraltro osservato che un'altra testimonianza catoniana, nota grazie ad Aulo Gellio, sembra apparentemente contraddire quanto si è appena affermato: Gellio, un erudito di età antonina, ricorda che M. Catone, che fu console e censore, afferma che, a dispetto dell'opulen-

173 za pubblica e privata [dei suoi tempi], le sue ville rimasero trascurate e disadorne senza neppure essere abbellite dall'intonaco, fin quando egli raggiunse [addirittura] i settanta anni d'età (164 a.C.]. A ciò aggiungeva queste parole: «A me non abbisognano né una costruzione né un vaso né un abito finemente lavorati, né un servo né un'ancella che costino cari. Se posseggo una cosa che sia utile, me ne servo; se non la possiedo, ne rimango privo. Per parte mia è lecito che ciascuno utilizzi e goda il frutto dei suoi beni» (A. Gellio, Noctes Atticae, xm 24).

Nell'interpretare questo passo è necessario ricordare l'ideologia 'spartana' di Catone, un elemento che egli caricò di motivi propagandistici, spesso di facciata, da impiegare nella dura lotta politica dei suoi tempi, anche se il brano in questione pare concludersi in modo conciliante: con ciò non si vuol dire, beninteso, che le ville catoniane non fossero realmente come egli le descrisse secondo Gellio, quanto affermare che in esse non si vollero probabilmente raggiungere i livelli iperbolici di altre ville di quell'epoca. Infatti il passo catoniano rappresenta proprio una implicita conferma del fatto che allora ne saranno esistite di gran lusso, quelle villae expolitae («ville tirate a lustro») site certamente anche nelle città, polemicamente ricordate dallo stesso Catone in un frammento conservato da Festo (282 L.) esaminato in un precedente paragrafo. Non si dimentichi, infine, il consiglio di Catone riportato poco più sopra di edificare la parte urbana della villa rustica «con investimento adeguato»: pare evidente che, anche prescindendo dai diversi livelli di lusso degli apparati decorativi, doveva ormai essere divenuto senso comune già nella prima metà del n secolo a.e. preoccuparsi degli agi di almeno una parte delle ville di campagna. Ciò è tanto più vero soprattutto in considerazione della sicura esistenza di ville d' otium in questo orizzonte cronologico, testimoniate sia dalle fonti letterarie che dai rinvenimenti archeologici. In quest'ultimo gruppo assume particolare risalto la fase più antica della villa dei Misteri (fig. 30), una villa urbana costruita nelle immediate adiacenze di Pompei: accurate analisi delle strutture hanno permesso di dimostrare che l'edificio sorse intorno all'inizio del n secolo a.e. con la precisa destinazione a villa di riposo e di soggiorno, dal momento che il quartiere rustico fu aggiunto solo in età giulio-claudia. Il primo periodo di vita di questa costruzione non corrisponde ai celeberrimi affreschi che tuttora la adornano, che descriveremo nel prossimo capitolo dedicato ai

174

i

,,_,

:j

,... , ;;

+.;

: : . : . I

I I __ .:~:- "/ - !:'\ I •

ii ~i

fr~_i .--i. i, IC?·:-· -,1'1'

I!'i:,: ~il.... ,I )J

=-"""""'-::::ai.-=--c~,

1-,

~

CJ

'

li I

I

1

--- ----

.

'~-:-:

---

Fig. 30. Pompei, villa dei Misteri: planimetria della prima fase (da Mai uri)

decenni centrali del I secolo a.e.: di questa villa importa qui sottolineare il profondo legame con il paesaggio e alcune interessanti caratteristiche planimetriche. L'edificio sorgeva in declivio verso il mare, sul quale si apriva con eleganti ed ariosi saloni che offrivano incantevoli panorami del golfo: questi ambienti, collocati nel lato più a valle dell'intero complesso, erano sostenuti da un criptoportico che girava per tre lati, destinato a colmare il dislivello altimetrico fungendo da basis vil/ae («basamento della villa»). La villa dei Misteri era inoltre contraddistinta da un elemento che, stando ad un passo vitruviano (VI 5, 3), era comune a queste costruzioni: subito dopo l'ingresso si entrava in un peristilio, al quale seguiva un atrio, con un'inversione della normale successione presente nelle domus signorili di quest'epoca, come ad esempio la casa del Fauno (fig. 25). A ben guardare,

175

tale peculiarità delle ville di lusso pare riflettere ancora una volta il notevole grado di ellenizzazione dei loro proprietari: la diretta immissione in un cortile colonnato sembra infatti particolarmente vicina alla consuetudine greco-orientale espressa dalle raffinate case a pastàs e a pastàs-peristilio. Nell'ambito delle ville di soggiorno è interessante ricordare il complesso scavato non lontano dalla località laziale di Priverno, nel comprensorio pontino. Si tratta di un edificio di alto livello, come dimostrano soprattutto alcuni finissimi pavimenti a mosaico policromo, databili negli ultimi decenni del II secolo a.C.: secondo un'ipotesi di Filippo Coarelli questa villa potrebbe essere appartenuta ad un esponente della nobilitas romana di quell'epoca, M. Giunio Bruto, pretore intorno al 140 a.e. ed eminente giurista, che, secondo Cicerone (Pro C/uentio, 141), possedeva una villa a Priverno. Con ogni probabilità questa proprietà non era pensata per il solo soggiorno, essendo situata nel cuore di una plaga agricola resa rigogliosa da bonifiche compiute nel 160 a.e. Come si diceva all'inizio del paragrafo, le classi dirigenti italico-romane avranno cercato sovente di fondere le esigenze produttive e il desiderio di trascorrere periodi di riposo lontano dalla vita cittadina: esempi caratteristici al riguardo sono l'intero territorio di Tivoli o, con ancor maggiore evidenza, la fascia compresa tra Fondi e Sperlonga, sempre in ambito laziale. L'analisi delle modalità di occupazione di quest'ultima area si rivela infatti di grande interesse: a Fondi le ville sembrano essere prevalentemente indirizzate allo sfruttamento agrario della zona pianeggiante attorno alla città, assai rinomata presso gli antichi per la produzione del vino Cecubo; a Sperlonga, invece, le ville paiono concepite soprattutto in rapporto allo splendido paesaggio marino del litorale costiero suggestivamente frastagliato fino a Gaeta. In queste ultime ville non mancavano peraltro strutture di carattere produttivo: nelle recenti indagini archeologiche condotte dagli studiosi francesi Henri Broise e Xavier Lafon nella cosiddetta villa Prato si sono tra l'altro individuati, sulla riva del mare, i resti di una peschiera. Simili apprestamenti erano appositamente ideati per la piscicoltura, un'attività che poteva rivelarsi molto remunerativa. A questo proposito è doveroso ricordare un intraprendente personaggio più volte citato dalle fonti letterarie, C. Sergius Orata: stando ad esempio a Plinio il Vecchio,

176 Orata, primo fra tutti, inventò i vivai di ostriche nella sua villa di Baia [località presso Pozzuoli corrispondente al sito odierno], al tempo dell'oratore Lucio Crasso, prima della guerra contro i Marsi [la guerra sociale del 91-88 a.C.]: e non per gola, ma per avidità, in quanto percepiva grandi rendite dalla sua naturale predisposizione ad inventare. Per esempio fu lui che inventò per primo i bagni sospesi [cioè il sistema costituito da pilastrini laterizi posti sotto il pavimento per creare un'intercapedine destinata a far circolare l'aria calda]: con essi allestiva le ville e subito dopo le vendeva. Egli per primo attribuì un ottimo sapore alle ostriche del lago Lucrino [piccolo lago costiero presso Baia, oggi ridottosi d'estensione] (Natura/is Historia, IX 168).

L'alto valore commerciale di questo tipo di vivai è chiarito poche righe dopo dallo stesso Plinio il Vecchio: egli ricorda infatti che a partire dall'epoca di Sergius Orata molti nobiles si dedicarono all'allevamento di ogni sorta di pesci pregiati, fra cui, ad esempio, le murene; uno di questi personaggi, L. Licinio Lucullo, che ritroveremo nel prossimo capitolo, aveva impiantato vicino a Napoli una villa con un grande vivaio, i cui pesci furono venduti, alla morte del proprietario, per la cifra sbalorditiva di quattro milioni di sesterzi. Come si sarà certamente notato, le fonti letterarie permettono di cogliere con efficacia gli interessi economici e gli stessi volumi d'affari delle classi dirigenti tardo-repubblicane: ritornando brevemente ad Orata, va sottolineata l'altra sua attività speculativa menzionata da Plinio, centrata proprio sulla compravendita delle ville di lusso. Egli fece fortuna grazie ad una geniale invenzione, le suspensurae, i pavimenti sospesi da pile laterizie per riscaldare i bagni grazie all'aria calda che circolava nelle intercapedini così ottenute: tale accorgimento, che si sarebbe diffuso in tutto il mondo romano con applicazioni su vasta scala nelle terme pubbliche, all'atto della sua invenzione avrà certamente rappresentato quel quid in più in grado di affascinare i ricchi acquirenti delle ville allestite da Orata. Una delle aree predilette dai nobiles romani per l'erezione delle loro raffinate ville fu certamente l'arco costiero compreso tra Cuma e Napoli che, già dal pieno n secolo a.e., dovette pullulare di eleganti villae maritimae: come si è appena chiarito, non dovevano mancare in molte di esse precise forme di investimento economico, mentre, in taluni casi, non furono assenti neppure calcoli di carattere politico-militare. Un'ottima testimonianza al riguardo è costituita dalla villa presso Miseno appartenuta a Caio Mario, più volte

177

console tra la fine del n e l'inizio del centi moralistici Plutarco afferma che

I

secolo a.C.: con ac-

in effetti Mario possedeva presso Miseno una sontuosa villa, avente ogni lusso e ogni comodità, ove viveva con maggiore mollezza di quella che si addicesse a chi con la sua energia aveva vinto tante guerre e a cui erano state affidate tante imprese (Plutarco, Vita di Caio Mario, 34).

Avvalendosi di altre notizie letterarie relative a questa villa misenate, in precedenza appartenuta a Cornelia, la madre dei Gracchi, e, dopo il periodo di possesso di Mario, a L. Licinio Lucullo, Fabrizio Pesando ha brillantemente messo in luce, in un volume di questa stessa serie, un'importante caratteristica di questo edificio: esso non era solo una villa di lusso, bensì era concepito con una spiccata finalità militare, il controllo strategico, dall'alto della rupe di capo Miseno ov'era collocato, di un'intera porzione di territorio. Tale funzione non discendeva soltanto dall'esigenza di difendersi da eventuali aggressioni, era piuttosto in rapporto al bisogno di tenere saldamente nelle proprie mani soprattutto l'esercito; in quei decenni, infatti, le milizie si trasformarono, in seguito ad una riforma promossa da Mario, in truppe mercenarie: ciò spiega come nella lotta politica tra i potentati nobiliari che avrebbe insanguinato l'intera storia tardo-repubblicana, fosse divenuto essenziale proprio il controllo dell'esercito, pronto a darsi al migliore offerente. Fabrizio Pesando ha inoltre supposto la presenza di simili preoccupazioni di carattere militare anche per la famosa villa di Liternum (località campana presso il lago Patria) in cui Scipione l'Africano si ritirò in esilio nel 184 a.e.: la più completa descrizione della villa è in una celebre lettera di Seneca (Epistu/ae ad Lucilium, 86), mossa peraltro dal desiderio di far risaltare la modestia di vita del grande generale in contrasto con il dilagare del lusso dei tempi del filosofo, vissuto in età neroniana. Ciononostante, proprio ciò che Seneca afferma per inciso, soprattutto la menzione di «una cisterna posta al di sotto di edifici e del verde [di un giardino], così ampia da bastare addirittura alle necessità di un esercito», permette di ipotizzare la notevole estensione di questa villa: con ogni probabilità si doveva trattare di una residenza fortificata, ispirata quasi certamente a consimili esperienze dei re ellenistici, come ad esempio il palazzo costruito nella prima metà del m secolo a.e. a Demetriade, in Tessaglia,

178

dal sovrano macedone Demetrio Poliorcete. L'allusione senechiana all'esercito per delineare agli occhi dei suoi lettori la vastità della cisterna della villa dell'Africano potrebbe essere ben più che un semplice paragone indicativo: anche se ai tempi di Scipione le milizie non erano ancora professionali come all'epoca di Caio Mario, non si può escludere a priori che anche nell'infuocato clima politico dei primi decenni del II secolo a.e. i soldati potessero essere debitamente utilizzati da personaggi in lotta fra loro. La villa di Scipione è nota infine per il balneolum angustum, tenebricosum ex consuetudine antiquo («l'angusta stanzetta da bagno, immersa nell'oscurità secondo l'uso antico») ricordato da Seneca: nel valutare questo particolare occorrerà naturalmente stare molto attenti al punto di vista del filosofo giulio-claudio, teso, come si diceva, a mostrare la profonda differenza tra 'il buon tempo antico' ed il lusso strabocchevole della sua epoca. Certamente l'opulenza di cui i Romani vollero circondarsi nelle loro residenze private raggiunse livelli sempre più ragguardevoli con il progressivo diffondersi della luxuria Asiatica, come si è del resto già visto e come si vedrà anche in seguito: ciò non significa, d'altra parte, che un grande esponente della nobilitas dell'inizio del II secolo a.e., profondamente ellenizzato come Scipione l'Africano, non vivesse in condizioni ben superiori a quelle 'medie' del suo tempo.

5. Lotta politica ed edilizia di prestigio negli ultimi decenni della repubblica Note sulla crisi definitiva delle istituzioni repubblicane IL periodo compreso tra la guerra sociale (91-88 a.C.) e la battaglia navale di Azio (31 a.C.), che sancì l'affermazione di Ottaviano nei confronti di Marco Antonio e Cleopatra, è la fase che vide il tramonto dello stato repubblicano: anche se Ottaviano avrà l'accortezza di mantenere l'assetto formale degli ordinamenti politici della res pub/ica, un comportamento del resto obbligato per conservare il potere, il significato più profondo degli eventi dei decenni centrali del I secolo a.C. è proprio la progressiva dissoluzione della logica di governo basata sull'equilibrio oligarchico. Fu un'epoca di trasformazioni radicali e di conflitti laceranti entro una cornice di sostanziale insicurezza e di irrequieta instabilità politica: a parte i costi sociali provocati dal dipanarsi di ben tre sanguinose guerre civili in un arco di tempo relativamente breve, l'elemento in certo senso più grave della crisi repubblicana fu il costituirsi di una prassi di governo tesa a scavalcare le istituzioni. Le grandi figure che si succedettero nello scenario politico di Roma, personalità come Silla, Pompeo, Cesare, Marco Antonio ed Ottaviano, ebbero in comune, pur considerando le notevoli diversità dei loro programmi e delle loro alleanze, la volontà di perseguire forme di potere centrate sull'affermazione personale: sebbene non sia questa la sede per esaminare in dettaglio le modalità dei conflitti scatenati da questi personaggi, intorno ai quali si è da sempre esercitata la riflessione dei posteri alimentata da una vivacissima tradizione antica, devono essere messi in luce almeno alcuni dati fondamentali. Un primo elemento di grande interesse va senza dubbio riconosciuto nell'avvenuto compimento del processo di privaI iaazione della gestione del potere politico: decisioni vitali per l'interesse dello stato nacquero sovente da accordi personali, spesso proprio nel chiuso delle domus, i cui apparati di rappresentanza giunsero, non certo a caso, a vere e proprie ostentazioni di potenza. Un patto tra potentati, illegale nella forma ma operante nella sostanza, fu, ad esempio, la celebre intesa del 60 a.C. tra Crasso, Cesare e Pompeo, nota co-

180 me primo triumvirato: la spartmone del potere decisa da questi tre rappresentanti della nobilitas romana costituiva un evidente scardinamento non solo delle regole istituzionali, ma anche e soprattutto della stessa coesione oligarchica della classe dirigente. È significativo notare come poco meno di vent'anni dopo, in un clima reso rovente dall'assassinio di Cesare compiuto alle idi di marzo del 44 a.e., un accordo non dissimile dal primo triumvirato abbia ricevuto una veste legale: l'intesa stipulata tra Ottaviano, Antonio e Lepido nel 43 a.e., il cosiddetto secondo triumvirato, era ormai divenuta una regolare magistratura costituente di durata quinquennale. Questo confronto tra primo e secondo triumvirato mostra con efficacia gli sforzi di adattamento che caratterizzarono ampi settori dell'oligarchia senatoria, coinvolta in una spirale di eventi sempre meno controllabili. Le profonde spaccature della nobilitas, che si frantumò in schieramenti di tipo partitico in violenta contrapposizione reciproca, finirono con l'indebolire la struttura repubblicana, del resto virtualmente inadatta a governare uno stato sempre più complesso con ordinamenti di tipo cittadino: dopo la guerra sociale maturarono in definitiva tutte le contraddizioni implicite negli sviluppi socio-politici conseguenti alla grande spinta imperialistica su scala mediterranea iniziata già alla fine del III secolo a.e. Nei decenni finali della repubblica si fecero in tal modo strada le personalità più intraprendenti, capaci di avere al loro seguito clientele vaste ed organizzate: un ruolo nevralgico, da questo punto di vista, è da riconoscere agli eserciti, divenuti ormai, soprattutto a partire dalla professionalizzazione voluta da Caio Mario nel 107 a.C., veri e propri serbatoi di consenso per i loro generali. Tra gli aspetti più vistosi della crisi istituzionale della repubblica romana va annoverato in particolare l'uso frequente delle milizie contro la stessa città di Roma: episodi famosi, come l'attacco di Silla dell'88 a.e. o il passaggio del Rubicone compiuto da Cesare nel 49 a.e., chiariscono il peso decisivo del controllo dell'esercito, i cui effettivi erano certo più pronti a battersi per un capo disposto a pagare un donativo sostanzioso che per garantire la legalità dello stato repubblicano. La prassi della clientela traeva alimento anche dall'importanza crescente delle province, sempre più coinvolte, con una dinamica simile a quanto già era avvenuto per gli Italici, nelle maglie del

181

potere: il governo dei domini provinciali significò il più delle volte per gli uomini di vertice la concreta possibilità di imbastire quel viluppo di interessi e di corruttele che si rivelò spesso prezioso nella lotta politica. Il ruolo tutt'altro che secondario dell'esercito e delle province consente di delineare entro uno sfondo sociale più allargato vicende che non di rado si sono volute ridurre alla sola presenza determinante delle personalità di spicco del periodo: queste ultime furono senz'altro decisive, ma è chiaro che certi sviluppi politici sarebbero stati impensabili senza l'appoggio di consorterie debitamente spinte al consenso. Lo scontro fra potentati, con metodi che giunsero a prevedere senza eccessive remore l'assassinio politico, con vittime illustri tra cui Cesare e Cicerone, innescò un vero e proprio disorientamento ideologico: non è certo casuale che l'interpretazione di questa cruciale chiave di volta della storia romana abbia sovente diviso, tutt'altro che accademicamente, anche gli stessi moderni. Inestricabile appare tuttora il nodo tra ambizione personale e coscienza delle esigenze di rinnovamento che animò gli esponenti più duttili ed intraprendenti - ma anche più spregiudicati - della classe dirigente tardo-repubblicana, come Silla e Cesare; del pari complessa e contraddittoria la valutazione sui difensori della res publica, come Cicerone o i cesaricidi o, addirittura, il sia pur ambiguo Pompeo: essa infatti non può che oscillare tra la loro condanna come esponenti di una battaglia di retroguardia - risoltasi in una sorta di arroccamento per mantenere ben saldi antichi privilegi - ed il loro apprezzamento come tutori a oltranza di valori non interamente negativi destinati ad essere travolti. L'acre lotta di quei decenni, che forse proprio per la loro continua tensione furono ricchi di straordinario fervore intellettuale, finì per concludersi con la normalizzazione voluta dal figlio adottivo di Cesare, Ottaviano: il grande merito di questo personaggio fu indubbiamente la lucida chiaroveggenza politica, che gli permise di dosare con oculatezza i tempi e i modi della trasformazione dello stato, risolvendo una crisi che nemmeno Silla e Cesare erano stati capaci di domare pienamente. Ottaviano riuscì anche ad esorcizzare il fantasma della concezione orientale assolutistica del potere, che si era incarnata nella figura del suo rivale Marco Antonio; con un'accorta propaganda antitirannica e con una fortunata campagna militare l'erede di

182

Cesare si preparò il terreno - con un paradosso solo apparente - ad un dominio personale che, con il prestigioso titolo di Augusto, lo avrebbe visto al vertice per quasi mezzo secolo: dell'antica res publica rimase la sola impalcatura formale, del tutto svuotata di prerogative a vantaggio della nuova struttura centralistica nata con l'impero. Non è forse inutile, a chiusura di questa breve premessa sulla storia tardo-repubblicana tesa a facilitare la lettura sociologica delle case che stiamo per analizzare, mettere in evidenza la singolare attualità della dinamica socio-politica dei decenni finali della repubblica romana: a nostro giudizio, infatti, lo studio di questo periodo, pur con le ovvie diversità che ci separano da esso, appare significativo per cercare di penetrare il senso di talune degenerazioni che paiono minare i nostri ordinamenti democratici. Pur evitando di scendere nei dettagli, non si può fare a meno di notare, in via assolutamente generale, lo svuotamento progressivo di certe istituzioni, con una gestione del potere che si sta sempre più trasformando in battaglia tra consorterie contrapposte, travolgendo forma e sostanza dell'attuale stato repubblicano; ciò ricorda per certi versi la situazione di Roma nel I secolo a.C.: in essa vi fu, ad esempio, come si vedrà fra breve, un nesso preciso tra il possesso di una domus capace di accogliere centinaia di clientes ed il predominio politico, un legame forse in grado di gettare luce su una diffusa stortura come il clientelismo moderno.

Le domus di Roma alla fine dell'età repubblicana Una caratteristica peculiare del panorama edilizio tardo-repubblicano, con premesse riconoscibili forse già dalla fine del III secolo a.C., fu l'esistenza di una vasta attività speculativa, un aspetto che si manterrà naturalmente ben vivo anche durante la successiva epoca imperiale. Il personaggio che nel I secolo a.C. più si distinse in questo settore fu uno dei contraenti del primo triumvirato del 60 a.e., M. Licinio Crasso, la cui ascesa sociale è anzi spiegabile proprio in virtù dei colossali proventi ottenuti in tale attività. La rapacità e la spregiudicatezza dei metodi di Crasso sono descritti con efficacia in questo passo di Plutarco:

183 Inoltre, vedendo che a Roma gli incendi e i crolli erano un male endemico e continuo a causa della mole e del gran numero di case, [Crasso] comprava come schiavi architetti e muratori. E avendone più di cinquecento, si metteva ad acquistare le case incendiate e quelle confinanti che i proprietari, sia per paura sia per incertezza [di quanto poteva succedere], gli cedevano a prezzo ridotto: in tal modo Crasso giunse in possesso della maggior parte di Roma. Tuttavia, benché disponesse di tanta manovalanza, per se stesso non edificò altro che la propria casa, dicendo che chi ha smania di costruire va in rovina da sé pur non avendo nemici (Plutarco, Vita di Crasso, 11 5-6).

Ancora una volta è necessario il richiamo all'edilizia di rapina destinata ai ceti meno abbienti e alla vasta plebe urbana, serbatoio di profitti per i grandi speculatori come Crasso: non sfugga inoltre la precisa notazione plutarchea sugli incendi e sui crolli, molto probabilmente riferibile agli edifici sviluppati in altezza esaminati nel capitolo precedente, caseggiati popolari evidentemente malsani e pericolosi. Una eco di questa situazione può essere ravvisata in questa osservazione di Cicerone in una sua missiva del 44 a.e. a Tito Pomponio Attico: «Mi sono andate in rovina due botteghe e nelle altre vi sono così tante crepe che non solo gli inquilini, ma persino i topi se ne sono andati!» (Cicerone, Epistulae ad Atticum, xiv 9, 1). Il problema degli alloggi proletari e dei loro affitti dovette farsi sentire spesso nell'infuocata realtà politico-sociale di Roma tardo-repubblicana: non certo casualmente Cesare ne fece una parte non secondaria del suo programma di riforme. Come informa Suetonio, il noto biografo degli imperatori che volle considerare tale anche Giulio Cesare, quest'ultimo «condonò [al popolo] anche un anno di affitto, [stabilendo che] le pigioni non superassero a Roma duemila sesterzi e in Italia cinquecento» (Suetonio, Vitae XII Caesarum, 1 38, 2). Questo provvedimento del 46 a.e., pur nel suo ovvio carattere demagogico, illustra implicitamente l'esistenza di un mercato speculativo con situazioni certo frequenti di insolvenza, un problema urgente cui Cesare rispose con una sanatoria e con misure calmieristiche. Queste scarne notizie costituiscono, insieme a pochissime altre, le uniche indicazioni in nostro possesso sulle case degli strati meno favoriti della popolazione romana alla fine della repubblica. Siamo viceversa molto più informati sulle ricche abitazioni della classe dirigente, anche per la rilevanza politica che tali domus si trovarono spesso ad avere nelle lotte di potere.

184

Per intendere compiutamente questo ruolo è necessario ricordare nuovamente il passo vitruviano sulle dimore aristocratiche che si è analizzato a proposito della casa del Fauno di Pompei: come si ricorderà, Vitruvio menzionava significativamente la presenza in esse di biblioteche, pinacoteche, basiliche, la cui magnificenza può stare alla pari con quella delle opere pubbliche, giacché nelle case dei nobiles si svolgono spesso sia riunioni in cui si trattano affari di stato (pub/ica consilia) sia processi ed arbitrati privati (v1 5, 2).

L'esibizione di ricchezza ed il lusso che caratterizzavano queste domus nobiliari erano quindi pienamente funzionali al nuovo corso imboccato dalla vita politica romana: i publica consilia, gli affari di stato, erano ormai il più delle volte trattati all'interno stesso di queste case, in quegli spazi smisurati come le basilicae, che non differivano in nulla dai consimili edifici pubblici. È degno di nota che, a differenza di altri autori antichi anche più o meno contemporanei a Vitruvio, quest'ultimo descriva tali peculiarità delle case dei nobiles senza il minimo accenno polemico di carattere moralistico: ciò non sembra dovuto soltanto all'impostazione tecnica del manuale vitruviano, quanto probabilmente al fatto che l'architetto accetta tale realtà come un elemento ormai insito nella prassi politica e nelle abitudini di vita della classe dirigente. In merito a questo problema del lusso domestico Cicerone assunse una posizione molto più articolata rispetto all'apparente agnosticismo vitruviano: come hanno approfondito Pierre Gros e, soprattutto, Filippo Coarelli, dalle pagine ciceroniane si comprende con efficacia il peso rilevante della luxuria privata nelle aspre lotte per il potere. Come vedremo, Cicerone mostrerà una certa ostilità nei confronti delle domus sontuose: ciò non tanto per una semplice avversione morale fine a se stessa, quanto piuttosto per la possibilità di utilizzare questo atteggiamento di ripulsa come strumento polemico per colpire la parte politica avversa. Com'è noto, Cicerone fu soprattutto un anticesariano, pur avendo creduto in certi frangenti di poter recuperare Cesare alla legalità repubblicana: l'interpretazione del più importante passo di Cicerone sulle case della nobilitas, permette forse di mettere meglio a fuoco anche la stessa posizione vitruviana. Ecco il testo ciceroniano (De officiis, 1 138-140), appartenente ad un trattato scritto nel 44 a.C.:

185 Poiché miriamo a una disamina completa, o almeno è questa la nostra intenzione, si dovrebbe dire anche come dovrebbe essere la casa di un uomo di elevata condizione per carica e prestigio. Essa ha per fine l'utilità pratica, (principio] che deve guidare la disposizione planimetrica, senza tuttavia tralasciare la cura per la comodità e il decoro. Sappiamo che Gneo Ottavio, che fu il primo della sua famiglia a diventare console [nel 165 a.C.], fu tenuto in grande onore poiché costruì sul Palatino una casa splendida e di grande imponenza: si riteneva che tale costruzione, sempre sotto gli occhi del volgo, [avesse contribuito] a far eleggere al consolato il suo padrone, un homo novus; Scauro [M. Emilio Scauro, pretore nel 56 a.C.] la demolì e la incorporò come un annesso agli edifici [già in suo possesso]. Pertanto, Ottavio portò per primo il consolato nella sua casa, mentre Scauro, [pur) figlio di un sommo ed illustrissimo personaggio [princeps senatus, cioè primo senatore, al tempo di Caio Mario]. nella sua casa ingrandita non portò soltanto una sconfitta elettorale, ma anche la vergogna e la sventura [egli fu in effetti costretto all'esilio nel 54 a.C.]. Infatti il valore personale deve adornarsi di una casa [all'altezza), ma esso non può essere ricercato soltanto nella casa, né il padrone deve trarre prestigio dall'abitazione, ma l'abitazione dal suo padrone; e come in ogni cosa occorre tenere conto non solo di se stessi ma anche degli altri, così nella casa di un personaggio illustre, ove bisogna ricevere molti ospiti ed ammettere una folla di persone di ogni genere, ci si deve preoccupare della spaziosità. Del resto un'abitazione grandiosa torna spesso a discredito del suo padrone, specialmente se una volta, quando apparteneva ad un altro, era solitamente frequentata. È infatti assai spiacevole quando i passanti affermano: «O casa antica, di quanto diverso/ signore sei possesso!», cosa che di questi tempi potrebbe dirsi di molti. Inoltre, specie se sei tu stesso a costruire, devi farti scrupolo di non oltrepassare la misura nella spesa e nella magnificenza: ciò è un grande male, anche perché si dà un cattivo esempio. I più, infatti, imitano ambiziosamente soprattutto in questo i grandi personaggi: chi prende a modello il valore del sommo Lucio Lucullo [il noto magnate della gens Licinia vissuto nella prima metà del I secolo a.e., celebre anche per l'abilità militare)? Molti, invece, hanno imitato [solo) lo splendore delle sue ville! Splendide ville, cui occorrerebbe certamente porre un limite ripristinando [maggiore] equilibrio. La stessa moderazione (mediocritas) dovrebbe essere trasferita ad ogni pratica e stile di vita.

Il bersaglio polemico di Cicerone non è tanto il lusso domestico in sé, quanto piuttosto l'uso scorretto della luxuria: va infatti precisato preliminarmente che lo stesso oratore arpinate era proprietario di un'elegantissima domus nell'area palatina, di cui riparleremo in seguito. Il possesso di una simile casa non deve essere considerato in contraddizione con il passo appena citato; si tenga infatti presente che Cicerone descrive due esempi positivi, Gneo Ottavio e Lucio Lucullo: il primo raggiunse il consolato forse addirittura grazie allo splendore della sua domus, il secondo, come lascia intendere l'Arpinate, non vedeva incrinato il riconoscimento del suo

186

valore a causa delle sue proverbiali ricchezze. È appena il caso di aggiungere che la figura di Ottavio doveva avere, in particolare, un indubbio fascino per Cicerone: egli avrà certamente considerato nel console del 165 a.e. un modello, essendo sia lui che Ottavio homines novi (cioè i primi della loro gens a raggiungere le più alte cariche dello stato). Va da sé che entrambi poterono raggiungere il potere in virtù delle clientele che le loro case lussuose fanno facilmente intuire. Nel passo in questione Cicerone introduce però anche esempi negativi, M. Emilio Scauro e i nobilesche imitano Lucio Licinio Lucullo nel solo amore del lusso senza prendere a modello anche il valore personale del generale: riguardo a questi ultimi l'oratore auspica, nel clima surriscaldato in cui scrive il De officiis, un deciso ritorno alla moderazione, quella mediocritas da tempo assente dalla vita politica romana. Di grande interesse è però proprio la menzione di M. Emilio Scauro: questi si era impadronito della casa già appartenuta a Gneo Ottavio, attigua alla sua, per creare una domus di vaste proporzioni. Simili accorpamenti ricordano chiaramente la medesima dinamica che vedemmo in precedenza a proposito di alcune ricchissime case pompeiane. Conosciamo grazie ad altre fonti letterarie l'aspetto grandioso dell'abitazione di Scauro: un passo di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, xxxvi 6) ricorda, ad esempio, come nell'atrio di questa domus fossero state collocate alcune altissime colonne marmoree (alte ciascuna più di undici metri), che, per altra via, sappiamo essere state quattro. In base a questi dati, alle misure-tipo indicate da Vitruvio (v1 3, 4) per gli atri e al confronto con alcune case pompeiane, Filippo Coarelli ha calcolato che l'atrio tetrastilo della casa di Scauro si estendeva per non meno di 430 metri quadrati: una superficie simile poteva accogliere fino a 2500 clientes, una cifra che attesta da sola le masse di manovra di cui necessitava lo scontro per il potere. Cicerone non avversa evidentemente tale sistema, ormai connaturato alla vita politica di Roma e da lui stesso utilizzato; ne critica piuttosto l'uso iperbolico e 'smodato', ergendosi implicitamente come campione della vecchia oligarchia moderata: l'esempio di Scauro non va seguito, poiché egli fu poi travolto dalle accuse di brogli e costretto all'esilio, lasciando disonorata una casa tanto grande. Cicerone, che pur aveva difeso Scauro nel 54 a.e., dieci anni dopo

187

- nel De officiis - ne valuta negativamente l'azione politica, avendo soprattutto in mente le sue conseguenze: la domus di Scauro, certo in seguito al suo esilio, era infatti finita nelle mani di uno dei più acerrimi nemici ciceroniani, Publio Clodio. Questo personaggio, un tribuno della plebe di parte cesariana, era stato tra i protagonisti della cacciata di Cicerone da Roma nel 58 a.C.: così come si era impadronito della casa di Scauro, Clodio era già riuscito in precedenza nell'intento di appropriarsi, distruggendola, della domus di Cicerone all'indomani dell'esilio di quest'ultimo. Sulle rovine della casa egli aveva eretto l' Atrium Libertatis («atrio della Libertà»), teso a propagandare demagogicamente l'avversione ali' oligarchia conservatrice impersonata dall'oratore arpinate. Riuscito a tornare a Roma nel 57 a.e., Cicerone si batté con tutte le sue forze per riottenere, come poi accadde, il possesso dell'area ove sorgeva la sua abitazione: in quell'occasione pronunciò la celebre orazione De domo sua («Sulla sua casa»), uno straordinario documento in grado di illustrare efficacemente il valore ideologico che le case rappresentavano agli occhi dei Romani. È dunque Clodio il bersaglio implicito anche nel brano del De officiis che abbiamo citato per esteso: quel Clodio che, con l'acquisto della casa di Scauro e di altre case attigue di membri della nobilitas, intendeva avere a disposizione spazi e strutture sempre più imponenti per meglio manovrare la sua clientela, base del suo potere personale. Sorpreso senza scorta in un'imboscata guidata da un uomo di parte oligarchica, Tito Annio Milone, Clodio fu ucciso nel 52 a.C.: i suoi funerali, con il corpo esposto proprio nel gigantesco atrio della casa che era stata di Scauro, si trasformarono in un'impressionante dimostrazione popolare, specchio fedele delle gravissime tensioni esistenti tra populares ed ottimati. Da quanto si è finora detto, si può ormai intendere appieno la posizione di Cicerone: l'invito alla moderazione in merito al lusso domestico era teso soprattutto a colpire i capi di parte popolare. Essi avevano portato alle estreme conseguenze il metodo clientelare cercando l'appoggio di larghe fasce della plebe urbana, disintegrando quanto restava del1' antica solidarietà oligarchica, base storica del regime repubblicano: non è improbabile che la neutralità di Vitruvio sulla luxuria, che abbiamo rilevato in precedenza, possa di-

188

pendere dalle simpatie cesariane dell'architetto, che alcuni giungono ad identificare nella figura di Mamurra, il praefectus fabrum («comandante del genio militare») di Cesare. Mamurra, noto soprattutto per essere stato avversato dal grande poeta Catullo, possedeva a sua volta una splendida domus sul Celio, dotata di colonne marmoree, descritta in un passo di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, xxxvi 4849). Sulla base di un'attenta lettura di altre fonti letterarie che citano le case delle pendici settentrionali del Palatino prossime al Foro, che abbiamo appena analizzato nei loro risvolti politici ed ideologici, l'équipe diretta da Andrea Carandini è riuscita ad individuare quanto resta della celebre casa di M. Emilio Scauro, poi inglobata nel 53 a.e. nella domus di Clodio; si tratta di strutture in opera quasi reticolata adiacenti al tratto iniziale del clivus Palatinus, la via in pendenza diretta alla sommità del colle: scavate una prima volta all'inizio di questo secolo da Giacomo Boni, attualmente sono state riprese in esame. Il Carandini ha in particolare identificato in una serie di una cinquantina di stanzette poste una accanto all'altra il piano seminterrato della casa di Scauro, confutando a ragione la tradizionale interpretazione che vi riconosceva gli ambienti di un lupanare: le piccole camere, a pianta quadrata, divise in gruppi separati da corridoi erano molto probabilmente gli alloggi per gli schiavi domestici del potente aristocratico tardo-repubblicano (fig. 31). Ne sono prova sia il tono assai modesto delle pitture e dei pavimenti sia soprattutto le tracce dei robusti cancelli che chiudevano il passaggio verso la parte soprastante dell'abitazione e verso le terme private ricavate in un altro settore del piano seminterrato. Il famoso atrio di Scauro, di cui si è parlato in precedenza, doveva trovarsi proprio al di sopra di questo quartiere servile: come si sarà notato, la stessa strutturazione di questa domus riassume perfettamente i gruppi umani controllati dai nobiles più spregiudicati ed intraprendenti di quest'epoca, i clientes accolti nel sontuoso atrio colonnato e la massa schiavile stipata nelle buie stanzette sottostanti. Riguardo agli schiavi, certamente utili insieme ai clienti anche per la difesa personale del loro capo, non si dimentichi che essi potevano essere anche più del numero che lascerebbero supporre le cinquanta stanzette del seminterrato: con ogni probabilità altro personale servile sarà stato alloggiato an-

189

---+ ••

a:-=

i •• , .... ::.:-

•Il• d••t1

VI

::,

> ~

u

o

IO m

I I I Il I

Fig. 31. Roma, pendice settentrionale del Palatino: pianta delle cel/ae servili della domus di M. Emilio Scauro (da Carandini)

che in camere del piano superiore certamente ricavato al di sopra del complesso atriense. Ancora un passo di Cicerone consente di gettare uno sguardo su un altro significativo episodio della vita politica tardo-repubblicana in cui gioca un ruolo primario la domus di un grande esponente della nobilitas, Gneo Pompeo. Alla sua morte, nel 48 a.e., i suoi beni vennero messi all'incanto e Marco Antonio, generale cesariano, finì per impossessarsene in modo quasi certamente scorretto: spinto dal bisogno di recuperare consenso anche presso i settori a lui più avversi della classe dirigente, Cesare impose tre anni dopo ad Antonio di comparire in giudizio per questa vicenda. Cicerone, all'indomani dell'assassinio di Cesare compiuto dai congiu-

190 rati guidati da Bruto e Cassio nel 44 a.e., iniziò una violenta campagna denigratoria contro i capi cesariani nell'intento di difendere se stesso e i cesaricidi: principale bersaglio dell'oratore fu proprio Antonio, cui venne rinfacciato anche l'episodio della domus sottratta a Pompeo. Cicerone si rivolgeva ad Antonio ricordandogli che lo stesso Cesare lo aveva «citato in tribunale per il pagamento della somma dovuta per la casa, per i giardini, insomma per i beni incettati all'asta» (Cicerone, Philippica n, 71). Con estrema veemenza, che ben riflette l'asprezza della lotta politica in corso, l'Arpinate accusava il suo avversario di aver dilapidato il patrimonio di Pompeo, rilevando, tra l'altro, che a causa di Antonio «nella casa di un così grande uomo le stanze da letto si sono trasformate in bordello e le sale da pranzo in taverne» (ibidem, 69). Sia pure per accenni indiretti Cicerone dà informazioni anche sugli arredi della casa di Pompeo, menzionando ad esempio tappeti e vasi d'argento ridotti in pessimo stato da Antonio; un'importante caratteristica della domus erano poi dei rostri (strumenti appuntiti sistemati come arma offensiva sulle prore delle navi da combattimento), collocati da Pompeo nel vestibolo: essi erano un bottino di guerra, quasi certamente il trofeo della vittoria riportata nel 66 a.e. sui pirati che infestavano il Mediterraneo orientale. Questo significativo particolare conferma quanto già si è visto nel capitolo precedente a proposito dei fregi fittili rinvenuti nelle case di Fregellae: la domus era il luogo privilegiato per conservare ed ostentare le glorie personali, secondo un modello ideologico tipicamente aristocratico. La dimora di Pompeo, che sarebbe entrata successivamente nel demanio imperiale, era situata sulle Carinae, in un'area non certo distante dal Foro e dalle pendici settentrionali del Palatino, il quartiere residenziale prediletto dalla classe dirigente tardorepubblicana. Un'altra peculiare caratteristica della nobilitas di questo periodo fu la costruzione di eleganti e raffinate vil/ae urbanae, che, con i loro grandi parchi, punteggiarono le zone più arieggiate e panoramiche della città. In un'ampia area compresa tra il Quirinale e le pendici più orientali del Pincio era situata una tra le più famose residenze romane di questo tipo, la villa degli Horti Sai/ustioni: particolarmente splendidi erano proprio questi ultimi, i giardini, estesi nell'avvallamento che separava Pincio e Quirinale. Il primo proprieta-

191

rio di questa lussuosa villa urbana non fu, come si potrebbe pensare, Sallustio, l'illustre storico del I secolo a.e.: egli ne venne in possesso solo nel 44 a.e., all'indomani del feroce assassinio di Giulio Cesare. La villa era infatti parte dei possedimenti del grande dictator, del quale era ben noto anche l'amore per l'eleganza ed il lusso, come attesta, tra gli altri, un passo di Suetonio (Vitae XII Caesarum, 1 46). Cesare dedicò cure particolari a questi horti: all'interno di essi fece erigere, ad esempio, un tempietto dedicato a Venere, la dea che era considerata la mitica progenitrice della gens Iu/ia. Un disegno dell'architetto rinascimentale Pirro Ligorio documenta con ogni probabilità l'aspetto di questo edificio di culto, a pianta circolare con una peristasi di colonne e quattro ingressi simmetrici. Al pari di questo tempietto, riscoperto per l'appunto nel '500 ed inopinatamente distrutto nel secolo scorso, gran parte dei resti architettonici della villa degli Horti Sai/ustioni fu vittima della feroce speculazione edilizia che segnò lo sviluppo urbanistico di Roma dopo la proclamazione della città a capitale del Regno d'Italia (1870). Non è inutile ricordare l'amarezza di un grande archeologo ottocentesco, Rodolfo Lanciani, che così commentava la situazione in un libro uscito nel 1897, Rovine e scavi di Roma antica, originariamente pubblicato in lingua inglese: Questi Horti Sal/ustiani hanno subìto, come il resto dei monumenti di Roma, ogni genere di violenza da parte del tempo e degli uomini, ma sono praticamente sopravvissuti fino ai giorni nostri. Per bellezza naturale, per gusto nella disposizione dei loro ombrosi viali, per la decorazione floreale, le vasche e le fontane, la Villa Ludovisi e la Villa Massimo, che occupavano il territorio degli antichi Horti Sal/ustiani, non cedevano in bellezza a un parco dell'età classica. Queste ville, orgoglio della Roma moderna, sono state sacrificate senza pietà dai loro proprietari nel 1886, e senza una ragione plausibile. Vero è che le loro monumentali querce sono finite in carbone, i loro magnifici pini in legno da costruzione, le loro piazzole rese e trasformate in suolo spoglio, i loro viali ombrosi sconvolti per trasformarli in rettifili brulli e arsi dal sole. Ma nessuno pare che abbia guadagnato nel cambio, visto che, dopo un'operazione di pura speculazione edilizia, il quartiere, falliti gli speculatori, è rimasto inconcluso.

Tornando al rapporto tra Cesare e gli Horti Sai/ustioni è doveroso ricordare, oltre al tempietto di Venere, anche la possibile pertinenza a questa villa di due celebri gruppi scultorei, rinvenuti nell'area: il Calata morente ed il Calata suicida, copie di I secolo a.e. di originali pergameni in bronzo;

192

è verosimile che Cesare abbia voluto includere queste statue nella sua villa per alludere ai suoi trionfi personali contro i Galli, secondo i consueti schemi di celebrazione ideologica della propria gloria già riscontrati in altre residenze aristocratiche del mondo romano. Dopo il periodo di appartenenza a Sallustio e ai suoi discendenti gli horti entrarono, dall'epoca di Tiberio (14-37 d.C.), nel demanio imperiale, risultando graditi al soggiorno di più di un imperatore: le non molte strutture architettoniche della villa ancora rimaste si datano, in massima parte, all'età di Adriano (117-138 d.C.). Un'altra raffinata villa urbana tardo-repubblicana, successivamente inglobata nelle proprietà imperiali, si trovava nel cuore del Pincio a non molta distanza dagli stessi Horti Sai/ustioni: circondata anch'essa da un grande parco, era stata fondata da un personaggio di cui abbiamo già avuto occasione di parlare, L. Licinio Lucullo. La villa doveva essere pressappoco situata sul luogo ove attualmente si trova la chiesa di Trinità dei Monti, una posizione che conferma di per sé il carattere privilegiato di queste residenze di lusso immerse nel verde e affacciate su ampi panorami: è interessante notare che la collina del Pincio ha sostanzialmente mantenuto la sua destinazione residenziale fino all'età moderna. Il tono sfarzosissimo delle abitudini di vita di questo esponente della nobilitas del I secolo a.e. traspare evidente da questo noto passo di Plutarco: La vita di Lucullo assomiglia a una commedia antica, in cui all'inizio ci si imbatte in azioni civili e militari, poi alla fine non si trova altro che da bere e da mangiare, nonché danze bacchiche, reste notturne ed ogni sorta di divertimenti (Plutarco, Vita di Lucullo, xxxix I).

Degli Horti Luculliani, espressamente nominati poche righe dopo da Plutarco come magnifico esempio di giardino privato passato agli imperatori, non è rimasto pressoché nulla: riprenderemo invece in esame gli scarsi resti architettonici della villa nell'ultima parte di questo capitolo. Una scoperta fortuita permise viceversa, nel 1847, di riportare alla luce un 'interessantissima decorazione pittorica ed alcune strutture murarie pertinenti ad una villa situata sul Cispio, uno dei rilievi collinari in cui è suddiviso l'Esquilino: l'edificio, noto convenzionalmente come 'casa di via Graziosa' dal nome ottocentesco della strada in cui si eseguirono le indagini archeologiche (corrispondente all'incirca all'attuale

193

via Cavour), apparteneva certamente ad un ignoto esponente della nobilitas tardo-repubblicana. Gli affreschi rinvenuti, databili intorno al 50 a.e., hanno soggetti desunti dall'Odissea di Omero, un tema caro al mondo romano: ciò è attestato anche da un celebre passo vitruviano (vn 5, 2), in cui vengono espressamente menzionate «[pitture] con le peregrinazioni di Ulisse [eseguite] con sfondi paesaggistici». I dipinti di via Graziosa, oggi conservati ai Musei Vaticani, sono per l'appunto uno splendido esempio di pittura di paesaggio, un genere di origine alessandrina di cui i Romani dovevano già essere a conoscenza almeno dal n secolo a.e., ben prima, cioè, delle pitture di questa villa esquilina. La decorazione era articolata in grandi riquadri disposti uno affiancato all'altro nella parte alta di una parete pertinente ad una struttura porticata; alcuni dati desumibili dalle relazioni di scavo ottocentesche permettono di ipotizzare che le scene odissiache erano inserite in un portico a tre ali a forma di ferro di cavallo, aperto su un giardino: un piccolo pannello dipinto, sia pure in epoca più tarda, nel tablino della casa pompeiana di M. Lucrezio Frontone (v 4, a) fornisce un'idea sufficientemente precisa del presumibile aspetto originario di un simile portico. Al pari delle pitture anche la strutturazione architettonica della villa di via Graziosa con un porticato a U è perfettamente inseribile in modelli ellenistici di provenienza greco-orientale, uno dei tanti effetti della cosiddetta luxuria Asiatica. È inoltre possibile dimostrare che questa lussuosa villa urbana si articolava in ulteriori piani che, lungo l'intero declivio del Cispio, si sovrapponevano al portico con gli affreschi omerici: tali costruzioni valorizzavano al meglio la posizione panoramica di questa elegante villa esquilina. Il suo proprietario, come tanti altri aristocratici tardo-repubblicani, possedeva una cultura profondamente ellenizzata, rivelata dallo stretto legame con la natura: esso era evidente non solo nell'articolazione planimetrica della villa, ma anche nella stessa scelta di ornare il porticato con pitture di paesaggio che, con il loro campionario di rocce, vegetali e scorci marittimi, dilatavano illusionisticamente lo spazio della passeggiata coperta.

194

L'area vesuviana La guerra sociale del 91-88 a.e., la cruenta ribellione a Roma promossa dagli Italici, fu gravida di conseguenze per le città dell'area vesuviana: esse erano infatti popolate da genti sannitiche, il gruppo etnico che più si era impegnato nella rivolta. All'indomani della vittoria delle milizie romane, Pompei, Ercolano e Stabia persero quella larvata indipendenza che, pur nell'obbligato riconoscimento del superiore potere di Roma - ormai dominante in Campania dall'inizio del m secolo a.e. -, aveva permesso fino ad allora una notevole autonomia amministrativa alle tre città ai piedi del Vesuvio: a Pompei, ove i segni dell'assedio di Silla sono ancora leggibili in un settore delle mura urbane, fu dedotta nell'80 a.e. una colonia di veterani sillani, dopo nove anni di probabile ordinamento municipale; Ercolano continuò invece a vivere proprio come municipium, mentre il piccolo abitato di Stabia, dopo essere stato distrutto dalle feroci armate di Silla, poté risorgere soltanto come luogo di soggiorno, con un territorio che si ricoprì di ville. Se quest'ultimo insediamento dovette certo pagare il maggiore tributo al desiderio punitivo dei Romani, non si può dire, al contrario, che Pompei ed Ercolano siano uscite del tutto annientate dai provvedimenti sillani; è ben vero che le aristocrazie sannitiche delle due città furono soggette a gravi proscrizioni ed espropri, ma è altrettanto certo che il quadro economico e culturale rimase pressoché analogo a quello dell'epoca precedente la guerra sociale. Si può anzi aggiungere che, già dall'età di Cesare, i vecchi gruppi di potere di origine sannitica erano riusciti in buona parte a recuperare le loro antiche posizioni di privilegio, fondendosi con i nobiles di provenienza romana: segno evidente della formazione di un'unica aristocrazia, cementata da una sostanziale convergenza di interessi politici ed economici. Proprio alcune case e ville di questa classe dirigente saranno l'oggetto del presente paragrafo dedicato all'area vesuviana: una scelta di residenze particolarmente significative che non dovrà naturalmente far dimenticare l'esistenza delle tante abitazioni meno sontuose delle classi subalterne, per le quali rimandiamo a quanto già affermato nel capitolo precedente. Tra le abitazioni più ragguardevoli formatesi a Pompei durante il I secolo a.C. va ricordata la casa del Citarista

I .,

o

4()

>0•

eo

6Jm

Fig. 32. Pompei: piante della casa del Citarista (in alto) e dell'insieme Formato dalle case del Criptoportico e del Sacello Iliaco (in basso) (da De Vos)

196 (1 4, 5-25-28: fig. 32); si tratta di una vastissima domus, di

poco più piccola della casa del Fauno, risultante dalla fusione di più edifici abitativi, un processo di aggregazione a danno di case minori secondo la dinamica sociale che abbiamo più volte messo in luce. In questa dimora pompeiana sita sul decumano di via dell'Abbondanza poco lontano dalle Terme Stabiane tale crescita dimensionale ha peraltro dato luogo ad un esito complessivo non pienamente armonico; pur nella notevolissima ampiezza di spazi disponibili, con ambienti organizzati attorno a due atri e a ben tre luminosi peristili, l'effetto d'insieme della domus tradisce con troppa evidenza una certa difficoltà nel calibrare i rapporti planimetrici: non sono infatti poche le stanze che appaiono vani di risulta irregolari e poco funzionali. Maggiore raffinatezza sembra invece rivelare una coppia di abitazioni pompeiane tra loro adiacenti, le case del Criptoportico (1 6, 2) e del Sacello Iliaco (1 6, 4), aperte sulla via dell'Abbondanza nell'insula contermine a quella della casa del Citarista: anche se le due domus (fig. 32) non furono mai riunite tra loro a formare un'unica dimora, è possibile dimostrare che l'elemento che dà il nome a una di esse, il criptoportico, prima di appartenere a quest'ultima fece parte della casa del Sacello Iliaco. La causa di questo trasferimento di proprietà è quasi certamente da individuare nel rovinoso terremoto del 62 d.C. - vera e propria avvisaglia della tragica eruzione del 79 - che spinse più di un Pompeiano, come si vedrà ancor meglio nel capitolo successivo, a lasciare la città. Dopo il sisma, infatti, la casa del Sacello Iliaco venne trasformata in fu/Ionica, un laboratorio artigianale per il lavaggio e la tintura di panni e stoffe: questo radicale mutamento di destinazione provocò la cessione del raffinato criptoportico alla domus confinante. A loro volta i proprietari di quest'ultima abitazione utilizzarono come semplice cantina la struttura appena acquisita, nata invece come elemento di prestigio: altra prova, questa, della sensibile caduta di tono nella composizione del corpo civico della città ali 'indomani del terremoto. Il criptoportico (indicato con d nella planimetria) fu realizzato molto probabilmente intorno alla metà del I secolo a.C.: al suo posto esisteva in precedenza un giardino - situato come di consueto nella parte terminale della casa - circondato da un portico illuminato da finestre strombate; il

197

terreno dell' hortus venne rialzato fino al livello di queste finestre ed il portico, dotato anche di un nuovo soffitto voltato, divenne in tal modo una fresca passeggiata coperta. Molta cura venne riservata alla decorazione nella quale, oltre agli stucchi, sono particolarmente degne di nota le pitture di secondo stile, lo schema ornamentale diffusosi a Pompei con la colonia sillana: le decorazioni parietali di questo tipo, di cui abbiamo visto un'anticipazione nella casa dei Grifi sul Palatino, erano fondate sul principio di non considerare le pareti come limiti invalicabili, dal momento che esse venivano illusionisticamente dilatate con effetti prospettico-spaziali. L'origine di questo linguaggio va riconosciuta ancora una volta nei profondi legami del mondo romano tardo-repubblicano con le esperienze ellenistiche: per il secondo stile, come è stato spesso suggerito, si può riconoscere un modello ispiratore nelle scenografie teatrali. La particolarità della decorazione pittorica del criptoportico che stiamo esaminando è però nello straordinario fregio figurato che lo adorna: in esso si susseguivano non meno di ottanta episodi - se ne sono conservati poco più di venti, attualmente in grave deperimento - dedicati alla guerra di Troia. Di grande significato è soprattutto la presenza di Enea, per almeno un doppio ordine di motivi: l'eroe troiano era infatti considerato il mitico fondatore di Roma, che egli aveva edificato dopo essere scampato all'incendio della sua città, e, al tempo stesso, era sentito dalla potente casata degli fu/ii, a cui apparteneva Giulio Cesare, come loro progenitore. Essi, infatti, facevano risalire il nome della loro gens al figlio di Enea, Iulo-Ascanio. La decorazione del criptoportico poteva quindi essere il frutto non soltanto di una passione erudita a carattere letterario - lo stesso materiale di radice omerica cui, di lì a poco, avrebbe attinto Virgilio per l'Eneide -, ma anche un atto di lealismo politico: la collocazione del fregio figurato in età cesariana, all'epoca cioè del consolidamento a Pompei di una nuova élite mista sannitico-romana, può forse spiegarne l'origine. La casa del Sacello Iliaco, alla quale va assegnata, come si diceva, l'ideazione del criptoportico, possiede, come rivela il suo nome moderno, anche un altro ambiente (e) decorato con scene desunte dal ciclo troiano; si tratta di un fregio, con figure parte a rilievo e parte dipinte, solitamente datato all'epoca del 1v stile, in età claudio-neroniana: non è improbabile che una più attenta disamina di questa decora-

198

Fig. 33. Pompei: ricostruzione prospettica dei villini costruiti sulle mura urbane nella regio vm (da Noack)

zione ne scopra, al contrario, la sua vicinanza cronologica al ciclo del criptoportico. Un'eco dei profondi e sanguinosi contrasti che lacerarono il clima politico di Roma tardo-repubblicana è percepibile anche a Pompei: nella casa dei Quadretti teatrali (1 6, 11), già citata nel capitolo precedente, si sono rinvenute tre eleganti zampe leonine in marmo, facenti parte di un raffinato tavolo che, grazie ad un'iscrizione, sappiamo essere appartenuto a P. Casca Longus, il congiurato che per primo avrebbe colpito Cesare alle idi di marzo del 44 a.e. Nel clima di vendetta promosso dai seguaci e dagli eredi del dictator, i beni dei cesaricidi vennero confiscati, circostanza che può spiegare la presenza a Pompei, evidentemente per un acquisto, del tavolo di Longus. Un caratteristico aspetto di Pompei nel I secolo a.e., nella fase aperta dalla deduzione della colonia sillana dell'80 a.e., è la particolare utilizzazione di larghi settori delle mura urbane, ormai inutili militarmente per il definitivo ingresso della città nell'orbita romana: nei punti del circuito di migliore collocazione panoramica furono infatti ricavate gran-

199 di domus a più piani (fig. 33), vere e proprie villae urbanae aperte sul paesaggio marittimo, realizzate anche grazie alla nuova tecnica edilizia giunta da Roma con i coloni, l'opus reticulatum. Oltre che nel ciglio meridionale della regio vm, tale sistemazione è riscontrabile nella cosiddetta Insula Occidentalis, dove, tra le altre, spicca soprattutto la villa di M. Fabio Rufo (vu, lns. 0cc. 16-19): essa, frutto di un'indagine archeologica recente, è dotata di ampi saloni panoramici decorati da belle pitture, alcune certamente di secondo stile; curiosa e significativa la presenza di un antico graffito con un verso del De rerum natura, il celebre poema di Lucrezio, manifesto del raffinato epicureismo pienamente funzionale all'edonismo dei ricchi possidenti tardo-repubblicani. La villa che, più di ogni altra, rispecchia al meglio il lusso delle classi dominanti di questo periodo è naturalmente la villa dei Misteri, il complesso suburbano di cui si è già analizzata la prima fase di vita: nel I secolo a.e., più esattamente intorno al 70-60 a.e., i proprietari procedettero ad una pressoché completa ridecorazione della villa, ivi comprese anche alcune modifiche architettoniche di un certo rilievo rispetto al periodo precedente (cfr. le due planimetrie alle figg. 30 e 34). Splendidi mosaici policromi si sposano a pitture di notevole ardimento prospettico, tra i capolavori del secondo stile iniziale; la fama dell'apparato ornamentale di questo edificio è però dovuta in massima parte al grande fregio pittorico dipinto con scene iniziatiche nel grande triclinio invernale panoramico (5). Si tratta di una vasta megalografia, cioè una decorazione composta da figure di grandi dimensioni, centrata su un rituale di carattere dionisiaco, evocato sia mediante allusioni al mito sia con dirette raffigurazioni delle cerimonie di iniziazione bacchica: l'artigiano campano si è certamente ispirato ad originali pittorici di età tardoclassica e primo-ellenistica (fine iv/inizio III secolo a.e.). Una megalografia dalle caratteristiche artistico-formali sostanzialmente simili appartiene ad un'altra celebre villa scavata nell'agro pompeiano, quella di P. Fannius Synistor a Boscoreale: il fregio dovrebbe rappresentare personaggi della corte macedone al tempo di Demetrio Poliorcete, probabile modello ideologico per il proprietario della villa, secondo schemi mentali non troppo diversi da quelli riconosciuti per il mosaico di Alessandro nella casa del Fauno. Il complesso di Boscoreale (fig. 35) è, fra l'altro, anche un'im-

200 o

~

,o

,~

-......-.-•----

J'.l (J

a

o

o e

n l'J 0

Fig. 34. Pompei, villa dei Misteri: pianta dell'ultima fase (da Maiuri-Beyen)

portante attestazione sulle modalità di occupazione del territorio agricolo durante lo scorcio finale della repubblica: la villa, organizzata attorno a due cortili porticati, dovrebbe corrispondere ad una sorta di modello intermedio, con una parte destinata a residenza padronale ed un settore per le attrezzature ed il personale facenti perno su ciascuno dei due cortili. Ciò presuppone visite quantomeno frequenti del dominus, certamente interessato, come già vedemmo per alcune ville del II secolo a.e., a coniugare gli agi della vita in

I

I

1...

I 2J

22

• • • I

•i



07:

;'()

I

17

18

16

19



]



j



•I

• • • • •

~-.



I

.:J, 1E'

15

, '

6T7

• • -• •~=-:_:-• '-~~~

'!_~....!

,. I

T 1 '

•"I

o

10

,om





I

hg. 35. Boscoreale: pianta della villa di P. Fannius Synistor (da Barnabe1)

202 IO 12

A

o

L I



...1.-=-·-----■ O i .l

...le.