La carriera di Inanna. il cosmo, gli dèi della Mesopotamia
 9788864965826

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nana

NELLA STESSA COLLANA

SALVATORE SPOTO, Sicilia mysterica Francesco Vasques, Civiltà ancestrali

ANNA MARIA CORRADINI, Mysteria ANNA MARIA CORRADINI, Dizionario dei miti di Sicilia

BENT PARODI, All'origine del mistero SALVATORE SPOTO, Italia arcana

SaLvaTtORE Massimo STELLA, Le suggestioni simboliche del mito

Vincenzo Guzzo, /n principio fu il mito Roserto M. EuseBIo, L'oceano universale

FEDERICO GUASTELLA, // mito e il velo SARA Favarò, Santi e Dei S.I. Di DonaTO — S.S. MARINÒ, Fiabe ed esoterismo

FiLippo GoTI, // mito gnostico CLaupio SAPORETTI, Miti paralleli

GiancarLo GERMANÀ Bozza, Il sussurro dell'onda Massimo FRANA, / misteri della Santeria M. CENTINI — E MANTICELLI, Architettura e sacrificio

CLAUDIO SAPORETTI

LA CARRIERA DI INANNA IL COSMO,

GLI DÈI DELLA

E UN COINVOLGIMENTO

MESOPOTAMIA PERSONALE

ISBN 978-88-6496-582-6

Proprietà artistiche e letterarie riservate Copyright © 2021- Gruppo Editoriale Bonanno Srl Acireale - Roma www.tipheret.org [email protected]

INDICE

BREVE PREMESSA PAROLE SPARSE

LE ORIGINI DI TUTTO

131

IL MonNDO DI INANNA PENSIERI SEGRETI

205

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

245

INDICE DELLE COMPOSIZIONI

MESOPOTAMICHE

247

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/lacarrieradiinan0000sapo

Dedico questo lavoro a quei Sacerdoti meravigliosi che mi hanno insegnato con la parola e l’esempio 1 valori morali ed etici che ho poi ritrovato nella mia Massoneria: Don Claudio Bucciarelli Don Temistocle Corradi Don Ottorino Dusi Don Primo Rizzardi Don Enrico Tincati

a cui aggiungo i Vescovi di Fidenza Galli e Bosetti e il Cardinale Martini che con la loro amicizia mi hanno fatto sentire

di più di quel che sono [credo che stiano tutti colloquiando con Dio, Architetto dell'Universo]

POSSIBILE RAFFIGURAZIONE DELLA DEA INANNA DA: STROMMENGER — M. HIRMER, L'ARTE DELLA MESOPOTAMIA

BREVE PREMESSA Ricostruire la “carriera” di Inanna è stata piacevole ricerca. Sia chiaro: il tutto è avvenuto in modo artificioso, perché gli antichi popoli mesopotamici non si sono mai sognati di immaginarsi la successione degli episodi così come scaturisce da questo

lavoro. E però un dato di fatto che Inanna non ha mai fatto parte delle divinità nate ab ovo, ma si è fatta un nome a gomitate, con una buona dose di incoerenze e di manifestazioni caratteriali poco adatte ad una natura divina. Colpa della gente che via via è mutata, sono cambiati i tempi, è cambiata anche la mentalità. Questo modo di esposizione non mancherà tuttavia di fornire

una certa conoscenza della dea, così spalmata lungo un canovaccio, una griglia ordita per incapsularvi gli episodi antichi. Non sarà comunque questo studio a chiarirne 1 tanti aspetti, a risolvere i tanti problemi che le sono legati. Qui riporterò semplicemente le antiche testimonianze che mi hanno interessato, niente

di più, quasi un rapporto personale con questa antica invenzione mitologica, e quel che ne è scaturito.

L’idea di ricostruire, sia pure artificialmente, la carriera di Inanna, come omaggio alle donne della mia vita (amiche comprese), ha richiesto una (sia pur sintetica) esposizione del pantheon mesopotamico e delle storie mitologiche secondo cui è nato e si è sviluppato, inevitabilmente coinvolgendo l’uomo (che lo ha inventato). Tuttavia, man mano che ne consideravo un aspetto, un mito

particolare, un estratto, non ho potuto evitare (contro ogni uso, ogni prassi, anche ogni logica) di sentirmi coinvolto in qualche problema che ne è scaturito, tanto che alla fine questo coinvolgimento ha prevalso, e questo lavoro è finito con tutt’altra musica ed argomento. (per ciò stesso sono stato costretto a qualche rinvio ad alcune mie pubblicazioni passate, necessarie per chiarire di volta in volta il mio pensiero. E naturalmente me ne scuso. Spero non siano intese come manifestazioni di vanità o, peggio, di narcisismo).

Allora ho lasciato tutto come è venuto, preferendo il parto spontaneo alla logica rigorosa di una serissima scienza. 25 Ottobre 2020

I termini sumerici sono in grassetto, gli accadici, o altri stranieri,

in corsivo. Gli accenti e gli eventuali numeri in pèdice che accompagnano la trascrizione dei segni cuneiformi sono semplicemente sistemi artificiali, universalmente accettati dagli Assiriologi, per individuarli e contraddistinguerli da altri segni cuneiformi omofoni. La lettera $ va letta come nella parola scemo. La lettera H va letta come nel tedesco Bach. Le lettere S e T sono enfatiche. Per la comprensione delle sigle bibliografiche rimando all’annuale Kei/schriftbibliographie della rivista “Orientalia” (Pontificio Istituto Biblico) o anche al Chicago Assyrian Dictionary (CAD) o all’Akkadisches

Handwòrterbuch (AHw).

PAROLE SPARSE Inanna: strano nome. È quello di una dea del pantheon sumerico, il più antico nome della dea più importante. Tra le spiegazioni che si sono volute dare a questo teonimd!, una delle più convincenti parte dagli ultimi elementi: an-na, che potremmo tradurre: “de/ cielo” (an). Resta un “in” assolutamente problematico. Si è voluto allora pensare che questo “in” altro non fosse che l’abbreviazione (o meglio l’accorciamento) di un elemento che troviamo molto spesso nell’onomastica delle divinità femminili: nin, che significa “/a Signora”. Dunque: [n]in-anna, “La Signora del cielo”, epiteto che si riferisce senz'altro al fatto che Inanna è stata identificata con la stella (in realtà pianeta) Venere. Analogamente si è voluto interpretare il nome del padre di Inanna, che si chiamava Nanna. Fra la luna, a quei tempi maschile, ed addirittura padre, oltre che di Inanna, anche del Sole: conce-

zioni certo non perfettamente coincidenti con la realtà delle cose! Anche qui un an.na finale. Ma invece che un “in” ( < nin) tro-

viamo una semplice “7”, anch’essa interpretabile come un accorciamento del termine corrispondente a nin, cioè en, che significa, appunto, “Signore”. Dunque [e]n.an.na, cioè Nanna, il “Signore del cielo”. **kA*

Divinità astrali. Che c’entrano mai con la terra? Il loro nome le inquadrano, le codificano, le incapsulano in un mondo tutto loro, che sono 1 cieli. I cieli pare siano sempre stati, quanto meno nel mondo che stiamo considerando, la collocazione degli dèi. Sempre. Il dio-padre di tutti era appunto an, il Cielo. Assiri, Babilonesi e affini mesopotamici, per dire “dio” dicevano i/u, parola legata alla radice ‘7, da cui il verbo el, “salire”, “stare il alto”. Più chiaro di così! Ecco allora spuntare il dio EI, parola che significava già “dio” di per sé, e che gridò Jeshua nel momento più tragico ! Spesso il nome della dea (non sempre scritto Inanna) è rappresentato con il segno mù$, che raffigurava il suo simbolo (fascio di canne).

Il

della sua vita, con l’aggiunta di una i lunga, che significa “mio”: “Eli; elit, Dio moi

E gli Arabi, precedendolo con l’articolo, chiamano Dio Allah. Ed anche i Cristiani, che appunto si rifanno al semita Jeshua, recitano “Gloria a Dio nell'alto dei cieli”, “Padre nostro che sei nei

cieli”; in genere, quando pregano, guardando in alto automaticamente, non certo per ammirare il soffitto. x»

Tuttavia nella mentalità mesopotamica le divinità non se ne stanno certo a casa loro a gloriarsi di sé stesse, nonostante il loro nome. Tutt'altro: agiscono sulla terra, ed intervengono, specie se sono invocate. E con loro intervengono altre divinità minori. Ci sono anche queste. Tale coacervo di dèi, tale macedonia di enti differenti ha as-

sunto, ognuno di loro, una propria particolarità ed identità, tanto da diventare protettori di attività e di fenomeni differenti: un fatto che rivedremo nel pantheon greco, che ha poi decisamente influito su altre religioni, quali l’etrusca e la romana. Nel mondo greco-romano si potranno trovare i più recenti pòsteri di Inanna, precorritrice di Afrodite e di Venere, dea di quel pianeta che si chiamerà, appunto, Venere. E così sarà per lei stessa quando passerà a chiamarsi IStar, e si travaserà in Astarte e, ahimè, in Astarotte. >

Guazzabuglio di divinità che i Sumeri hanno coscienziosamente sistemato in un ordine stabilito che era un peccato disarmonizzare e sconvolgere. Ogni dio ha avuto così la sua “storia”, che l’ha portato ad avere un ruolo preciso ed un aspetto precipuo nei riguardi di una sottomessa umanità, sia che fosse nato così, divinità indiscutibile e “grande”, oppure che fosse il frutto di contrasti, di approcci, di iniziative utili a portarlo ad un ruolo maggiore di quello che aveva quando era nato. Difficile ricostruire (ovviamente e necessariamente in modo artificioso e magari anche un po” personalistico da parte dello stu-

dioso, come avverrà qui) il cammino di queste “divinità secondarie”, che si sono impegnate nella costruzione della loro “carriera”, perché ovviamente il tutto non è stato opera loro, che non sono mai esistite, ma degli uomini che di volta in volta le hanno guardate con occhi necessariamente via via differenti, come sono gli occhi dell’umanità. 12

Su su su, si deve risalire allora all’origine del mondo, e poi dell’uomo, certamente non come ci suggerisce la scienza fino al punto in cui è attualmente arrivata, ma secondo la fantasia, o meglio le fantasie umane, fatte di sogni e di poesia, di elucubrazioni e filosofia, di immaginazione e di teologia primitiva. XK

*

Uno dei racconti che meglio conosciamo sulla creazione dei mondi e dell’umanità è tra quelli composti nell’epoca più recente. Si sa, è quello della Bibbia, poetica e fantasiosa narrazione a ragione raccolta e utilizzata come soggetto da tanti miracolosi artisti del pennello, Michelangelo compreso.

£

MICHELANGELO, CAPPELLA SISTINA, CREAZIONE DELL'UOMO

Secondo l’uso poetico del tempo, il racconto è inquadrato in sette “momenti”: sette, perché questo numero, ispirato probabilmente alle quattro fasi mensili della luna, indicava la fine di un episodio, di un fatto, di un avvenimento o altro, ma non una fine improvvisa che abbia tranciato violentemente lo svolgersi di un’a-

zione, bensi il logico, ragionevole epilogo di qualcosa di compiuto e, per ciò stesso, perfetto. E dunque si dividevano i fatti, nel tempo, per sette (0 per sei,

riservando al sette il compito di simbolo finale di compiutezza), magari incapsulandoli in giorni, o in anni. È così non sappiamo se 1 sette anni di regno di un sovrano fossero veramente sette, come non possiamo sapere se una casa bruciò per sette giorni, come troviamo

A. raccontato in un testo, 0 piuttosto in poche ore. — fatto fuoabbia nemici quanti mai Ugualmente non sapremo (ma per nani sette 1 realtà in ri l'Ammazzasette, o quanti fossero

contro non dovremmo limitare la nostra carità alle sette opere di misericordia. o cercare di evitare i soli sette peccati capitali). IS

Secondo Genesi (appropriatissimo titolo) l’unico Dio degli Ebrei creò mondi ed umanità in sei “giorni”, e con il sette sancì il fatto compiuto (compiuto, appunto, e quindi perfetto). Seguendo quell’armonia creata da un “parallelismo” tanto avvertibile nella recita (giust’appunto salmodiante) dei Salmi, la creazione in sei giorni è stata suddivisa in due precise parti sistemate in parallelo?:. 1. Giornoe notte + 4. Sole e luna 2. Separazione acqua e cielo + S. Pesci e uccelli 3. Emersione della terra + 6. Animali di terratuomo 7.. ‘Fine e “riposo” La creazione che è narrata nella Bibbia è dunque un canto poetico, magari da avvicinare al Cantico di San Francesco, non certo alla scienza. Se qualcuno volesse instaurare un paragone tra questo passo di Genesi e la scienza, dimostrerebbe solo di non aver capito niente. Eito

Ma a noi interessa Inanna e quel suo mondo mesopotamico così vario nelle sue manifestazioni, ed a volte così difficile da interpretare. La religione mesopotamica non ha un “fondatore” o, se mai ci fu qualcuno che volle teorizzare il primitivo istinto umano verso qualcosa di superiore e di sacro, non c’è rimasta notizia. Non un Mosè, un Cristo, un Buddha, un Maometto, uno Zarathustra. E dunque niente Bibbia, Vangelo, A vesta, Corano a cui rifarsi, rive-

renti. Solo voluminosi racconti di avvenimenti, avventure, imprese di déi e semidéi, così come certi popoli occidentali hanno avuto il loro Edda, o Behowulf, o le avventure di Sigfrido tra Volsunghi e Nibelunghi, e prima ancora Fracle e Teseo, Minosse e Giasone, Achille ed Ulisse. In altre parole sono i miti, dove gli déi, pur agendo sulla terra, sono posti, appunto, ”in alto”, lontani dal popolo-bue, che verso di loro non può che avere timoroso rispetto, magari paura, certo più paura piuttosto che un amore particolare od un affetto appassIonato.

° Ved. p.es. in E. Galbiati-A Piazza, Pagine difficili dell'Antico Testamento (Genova 1951), 65 sg. Sulla Bibbia in genere, comprese notizie sui ms., codici, edizioni, studi ecc. ved. l’esaustivo P.Capelli - G.Menestrina (a cura di), Vade-

mecum per il lettore della Bibbia (Brescia 2017”)

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L'antico uomo primitivo, che ancora non sapeva di scrittura ed appena riusciva a sbozzare un sasso o una selce, non poteva che sentirsi rapito ed immerso in un mondo infinito quando, di notte, tra il latrare di uno sciacallo o il cupo minaccioso mugolio di un orso bruno, guardava “in alto”, e vedeva miriadi di stelle misteriose e lontane. E poi, quando le stelle scomparivano, coperte da una nuvola nera dentro cui un essere tremendo orribilmente tuonava, vedeva

che quest’essere nascosto scagliava sulla terra crepitanti e scintillanti bagliori che gelavano il sangue. E quando a stento si salvava dal rotolio fragoroso di sassi di una frana improvvisa; o per caso fortuito scampava dal precipizio di una grande assordante cascata: o fuggendo sfuggiva al torrente infuocato di lava scaturito dalla nera cavità di un vulcano: allora sentiva e capiva che aveva a che fare con qualcosa di più forte e potente, da temere e, potendo, tener buono e blandire con inni, implorazioni ed offerte. Ma d’altronde capiva e sapeva che questi fenomeni orrendi contenevano anche una scintilla di utilità e di bontà: l’acqua, il fuoco, il calore del sole. **k*

Di fronte alla potenza “sovrumana” della natura, l’uomo non poteva che sentirsi “subumano”, pronto a sottomettersi per avere una qual certa garanzia di vivere in pace. L’immensità del cielo, la quantità delle stelle, la potenza dell’acqua, il fuoco distruttore e le altre forze della natura erano esseri superiori, erano “dèi” a cui era necessario sottomettersi. Il dio era il padrone, e l’uomo il

suo schiavo. Ma questi déi non si vedevano. Erano loro a suscitare il fenomeno, dietro cui tuttavia si acquattavano in un torbido rimpiattino. Com'’erano fatti, non si sapeva. E così l’uomo non seppe immaginarli se non vedendosi allo specchio, o meglio nelle limpide acque della fonte più vicina. L’uomo creò dio a sua immagine e somiglianza. Non ne creò uno solo. Ne creò centinaia, ognuno legato a un

aspetto, a un fenomeno di quella natura dentro cui viveva com-

penetrato ed immerso. Ma certo non sono uguali un fulmine e un arbusto. non sono identici il vento e il sospiro di un agnello, la

luna piena e la corolla di una margherita. C‘è sempre qualcosa di più piccolo e di più grande, di grande e di maggiore, di maggiore e di immenso.

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L’uomo per cercare Dio guardava in alto, e l’alto più alto, 1° “in alto” più alto era il cielo, o meglio la parte più alta dei cieli. Era an, il Cielo, dove ci si perde in un tutto che sembra fagocitare il mondo, l’umanità intera, l’anima stessa dell’umanità; come diceva Salomone, che parlava a Dio e affermava: “Ecco, i cieli dei

cieli non ti possono contenere”. Ma nel cielo c’erano le stelle, ed ognuna doveva essere un dio, e formare costellazioni che non potevano essere che divine. E divine erano certo le stelle più grandi, o più luminose, e divini i pianeti intesi come stelle, divino il satellite luna inteso come stella, inteso come dio. E difatti iSumeri, per indicare un dio, disegnavano una stella. E come loro, i popoli semiti della Mesopotamia (e non solo) quando scrivevano il nome di un dio lo facevano precedere dal disegno della stella, ad indicare che si trattava di un dio. La triade astrale, Luna Sole Venere (padre figlio e figlia) conteneva la nostra Inanna. Anzi, poteva capitare che l’unica divinità intesa come stella, era proprio Venere-Inanna, come mi è capitato di vedere a Sela”. wo

*

Piccolo excursus La rupe di Sela’ si erge nel centro di una cerchia di montagne più alte, che la coronano con una forma a U, aprendosi solo da un lato. Per raggiungerla è necessario lasciare la strada maestra, che grosso modo corrisponde all’antica “via regia” fondamentale per il commercio nell’antichità, e prendere per un’altra strada a destra venendo da Tafila, che dista pochi chilometri. Siamo in Giordania. Scendendo dalla strada verso la base della montagna si nota che la china è a sinistra più verdeggiante, grazie ad una sorgente che doveva essere molto importante per Sela”. Difatti, giunti ad un punto, ormai basso, in cui non si può proseguire in auto, si nota che fino ad una valletta le rocce recano incisi canaletti che convogliavano l’acqua fino ad una diga artificiale, ottenuta con lo scavo della pietra e la chiusura con massi, di cui resta ancora qualche traccia. La valletta, il cui fondo dall’alto appare scuro, sprofonda poi * Su Sela” e l’episodio narrato ved. H. Qatamin - P. Gentili — C. Saporetti, Nabonedo e Sela’, Numero speciale di ‘“Geo-Archeologia” 20001-1 a cura mia, ed anche // sovrano nella roccia, “Archeo” 18/4 (2002)

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verso dirupi da ambedue i lati. È comunque da questo punto che si saliva sulla rocca, molto spesso per mezzo di scalini scavati nella pietra, ma ora solo in minima parte utilizzabili. Quasi all’arrivo alla sommità si intensificano le tracce di un insediamento: scavi di porte, di passaggi, di postazioni di vedetta e di difesa. Sulla cima, altre tracce indicano chiaramente che la città era costituita di edifici, presumibilmente di legno perché non ne restano avanzi se non nelle parti inferiori, in cui l’intervento nella roccia è evidente sia nel perimetro di mura di edifici, sia nello scavo di numerose cisterne, presenti anche nell’interno delle case, sia nella realizzazione di scale che non portano a niente. Non abbiamo rilevato presenza di mattoni, ma i muri di difesa, anche di torri,

erano formati da massi.

OLARE DI NALA RUPE DI SELA”. È POSSIBILE INDIVIDUARE LA NICCHIA RETTANG DA CUI È PARETE LISCIA L’OSCURA SOTTO BONEDO CON L'ASSE USATA DALL'AUTORE, STATO CALATO. DA: GEO-ARCHEOLOGIA

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2001-1

Dalla sommità si può scendere fino ad una piccola cengia bombata, che dà direttamente sul dirupo a perpendicolo sulla valletta. La discesa non è agevole. Molto più problematica è comunque quella successiva, che permette di venire a stretto contatto con una nicchia, posta direttamente ad una decina di metri più sotto. Questa nicchia mostra dal basso, ovviamente se guardata con un cannocchiale, la figura di un sovrano in piedi sulla sinistra,

sovrastata sulla destra dai simboli della luna (intera e un quarto inserito), del sole (quadruplice alato), e della stella a sette punte, la nostra antica Inanna. Siamo ormai alla fine dell’antichità mesopotamica: il sovrano è Nabonedo di Babilonia, arrivato fino a Sela” nel corso di una sua

lunga campagna vittoriosa su Edom, che allora dominava questo remoto angolo della Giordania. Ma sarà anche colui che sarà vinto dai Persiani di Ciro. Originariamente lo spazio sotto i tre simboli era interamente coperto da una grande iscrizione, ora quasi del tutto scomparsa. La discesa che ho effettuato, con l’allora mio collaboratore Paolo Gentili, è stata effettuata nel Dicembre 2000, grazie alla

realizzazione di un piccola piattaforma di c. 50 cm. di larghezza e 3 m. di lunghezza, costituita di quattro paletti congiunti. Due paletti perpendicolari, posti quasi alle estremità e sporgenti c. 40 cm., avevano il compito di tenere questa minima piattaforma lontana dalla roccia. La piattaforma è stata imbragata con due grosse funi di canapa ai lati, e calata parallela alla base della nicchia. Qui siamo discesi con corde di ny/on e poi, sospesi in un vuoto allucinante per almeno 2 ore e mezza, abbiamo copiato i pochi segni cuneiformi rimasti. Come abbiano fatto gli artigiani e gli scribi del sovrano a realizzare l’iscrizione ed i rilievi di questa nicchia, rimane un mistero. Certamente devono avere usufruito di ben altra organizzazione invece dell’abborracciato e primitivo sistema che abbiamo usato noi. L’impresa deve avere richiesto molti giorni di lavoro e soprattutto una condizione di sicurezza e di tranquillità, che a noi sono mancate. E possibile dunque che sia stata calata dalla piccola cengia una vera e propria “camera” lignea addossata alla roccia, da cui operare con serenità e con opportuna comodità, senza la vista allucinante nel vuoto e l’insicurezza pericolosa del nostro minimo palco traballante ed instabile. x»

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Lasciamo la storia di Nabonedo e della sua incredibile nicchia sperduta sui monti di Sela”, grati di avere veduto una delle ultime raffigurazioni dell’antica Inanna (quando ormai era Istar da tempo) sotto forma di una stella a sette punte. Sette: dunque la stella più bella, completa, perfetta.

LA NICCHIA DI NABONEDO A SELA”

La triade astrale sembra fosse collocata un po” più giù di an, il cielo, a metà strada tra l’alto dei cieli ed il vento che accarezza la terra ma sta più su della terra. Scendiamo allora a sentirlo, questo Vento che scivola fra i ca-

pelli, trasforma in onde i vasti campi di grano, si rinforza squassando le cime delle palme e delle tamerici, ulula tra le tombe ed i resti insepolti di antiche strutture. Impalpabile vento. Si vede ciò che trascina: granelli di deserto quando è tempesta di sabbia ad oscurare il sole, ma anche assi di legno, pelli di animali seccate sui pali, gli animali stessi, gli uomini stessi quando diventa uragano. Ma lui non si vede. Chi è il vero vento? Chi è en, il “signore” del vento? Per i Sumeri era en.lil, “// Signore del vento” (0 “Signor

Vento”), spirito che aleggiava sulla terra come il soffio del dio degli Ebrei aleggiava sulle acque. Un dio dell’aria, un dio dell’atmosfera. Anche lui doveva avere un aspetto come quello di un uomo: sì, ma di un uomo importante, un re con la tiara, anzi più tiare, tre tiare come

il Papa, una triplice tiara destinata agli dèi come lui. Se dall’alto dei cieli, e poi dalle stelle più vicine e visibili, e poi da questa natura viva che spira ad accarezzare la terra, scendiamo infine sulle spalle del suolo, allora troviamo ki, che è, appunto la “terra”. E qui dovremmo ovviamente trovare, scaturito dalla primitiva fantasia della preistoria, un en.ki, un “Signore della terra”, o “Signor Terra”. Ma non lo troviamo. È possibile che ci fosse perché c’era davvero un en.ki° nel pantheon sumerico; ma non abitava sulla terra,

come se lo avessero sfrattato. Mille oscure fantasie che si perdono nella notte dei millenni. Nel Poema di Ghilgames, il dio Fa, che prima si chiamava, appunto, en.ki, suggerisce all’eroe del diluvio, quello che gli Ebrei chiameranno Noè, di costruire un’arca e poi di rivolgersi così ai suoi compaesani, che certo gli avrebbero chiesto conto e ragione di cose servisse una nave nel deserto: «Forse il dio Enlil (cioè il dio-Vento) mi ha odiato. Non risiederò (più) nella vostra città. Nella terra del dio Enlil non poggerò (più) i miei piedi. Scendero nell’ abisso” ad abitare con il dio Ea (l’ex en.ki), mio signore ». E nello Atra-hasis, composizione poetica che vedremo anche in seguito: «Il mio dio n|on è d'accordo] con il vostro dio. Ea ed [Enlil] sono furiosi. Mihanno mandato (fuori) da[lla mia casa(?). Da]to che sono uno che vene[ra Ea) continuamente, non risiederò (più) nella [vostra città]. Non p[orrò (più) i miei piedi nella terra] di Enlil». Appare chiaro che la terra era il regno di Enlil, cioè del Vento, dove un’arca era illogica. La costruzione dell’arca allora aveva senso se il suo costruttore aveva intenzione di andare ad abitare * Come vedremo per Enki, anche per Enlil il significato del nome è stato diversamente inteso, dunque anche il termine “vento, soffio” va messo in discussione. Ved. X. Wang, The Metamorphosis of Enlil in Early Mesopotamia (2010), a cui rimando anche per le altre questioni che riguardano questo dio. Qui “vento” È frutto di una mia scelta. Cfr. comunque lil ( = Saru (“vento”) CAD S/II, 133b ° C'è da dire che secondo alcuni studiosi en.ki non significa “signore della Terra” (0 “Signor Terra”) ma “Signor grazia/favore”, ved. Sollberger, TCS

141, 393; M. Jaques, AOAT 332, 123 sg. e note 272-275.

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1,

con il suo dio personale, che stava sottoterra, nel mondo delle acque sotterranee, un “abisso” che propriamente abisso non era. Era qualcosa che vagamente ricorda l’abisso, ma solo nel nome: un ab.zu, divenuto in accadico (l’assiro-babilonese) apsù. Ma i due segni sumeri, talvolta scritti anche zu.ab, non significano “abisso”, ma ben altro: uno significa mare” (ab), e il secondo “sapienza” (zu): il mare della sapienza, il luogo dove regnava quella che potremmo chiamare “intelligenza” con tutte le sue accezioni: conoscenza, senno, saggezza, sapienza, astuzia, furbizia, e magari qualche volta anche “cultura”. Era un luogo un po’ come quello che l’Ariosto pose invece sulla luna, dove Astolfo si recò a cercare il senno di Orlando “che per amore andò in furore, e matto, d’uom che sì saggio era stimato prima”, e dove voleva andare, con la sua bella fantasia, anche il

Pascoli, quando con l’ippogrifo si poneva in via pel sognato alone. La luna, il nostro Nanna (“// Signore del cielo”): anche lui cambierà nome e diverrà en.zu (da cui, scambiati i termini in zu.en, sarà Sîn). Stranamente, anche questa “Luna” sarà la sede

della sapienza, come la luna di Astolfo: ed infatti già sappiamo il significato di en e di zu: il “Signore della sapienza”. Sembra quasi che en.lil si fosse appropriato della terra, e che Fa, che allora si chiamava en.ki”, ne sia stato cacciato. Cacciato dove? E dove altro poteva rifugiarsi, lui signore della terra, se non sottoterra? Non proprio sotto sotto, altrimenti si sarebbe scontrato con un’altra divinità tremenda: eres.ki.gal, EreSkigal, la “La Signora (ere$) della terra (ki) grande (gal)”: la dea degli Inferi.

Così Enki divenne il dio di quel luogo dove stavano, sempre vive anche se forse paludose, quelle acque che ogni tanto sbuca-

vano dal suolo: le fonti da cui nascevano i fiumi, per scorrere poi a fecondare la terra; oppure erano quelle acque che affiorano man mano che si scava profondo, quelle dei pozzi attorno cui costruire fattorie e abitati, perché sono acque che danno la vita.

Enki vi prese magione, e difatti cambiò nome: da “Signore della terra”, che ormai più non era, divenne é.a, Ea, “/a casa dell'acqua”,

cioè l’abitazione dell’acqua, il luogo dove c’è l’acqua (dolce).

6 Il greco a-Buvooos, “abisso”, significa letteralmente ‘senza fondo” (del mare), e di conseguenza “infinito, immenso”, e non mi sembra abbia molto in Se. comune con il termine mesopotamico. — — ? Su Enki esiste l’interessante lavoro di P. Espak, Yhe God Enki in Sumerian

Royal Ideology and Mythology, Tartu 2010.

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Questa trasformazione del mito, che sembra sia avvenuta (se È avvenuta: l’ipotesi è mia) a un certo punto nella fantasia dell’uomo, deve avere avuto un’origine, oggi oscura e misteriosa. Forse l’uomo si accorse che la superficie della terra, quando era spazzata dal vento, non reagiva, era succube, subiva, e quindi era il

vento il vero signore della terra, sicché il “Signore della terra” in realtà era un abusivo, da cacciare a pedate. O forse no. Chi può dirlo? Il caleidoscopico mondo degli dèi protettori di ogni minima cosa, si è espanso, si è moltiplicato, ed è difficile percorrerlo tutto, capirlo del tutto. Il brulicare degli dèi moltiplicati ha investito ogni aspetto della vita dell’uomo, ogni fenomeno a cui assisteva, ogni cosa che vedeva. Connaturato con il vento era certamente il temporale, con annessi tuoni fulmini lampi e saette, uno Sturm und Drang con una copiosissima pioggia. Il dio del temporale e dell’acqua piovana era infatti indicato con un ideogramma, im, praticamente sinonimo di lil, “vento”, ma veniva letto i$kur, ed era il dio semitico Addu, Adad.

E gli altri fenomeni? Il quadro si espande, come si erano espansi gli déi: Enbilulu il dio dei fiumi, Ghibil del fuoco, ASnan del-

la vegetazione, e poi gli dèi dei mestieri, così come oggi abbiamo promosso tanti santi a protettori di qualcosa: Kulla per i muratori, Enkimdu per gli agricoltori, Nin-simug per i fabbri e via via per tutti gli altri: i gioiellieri, i tessitori, gli scribi. Gli antichi Sumeri, che nella testa avevano sempre l’idea dell’ordine, della sistematica collocazione, della composizione gerarchica degli uomini e delle cose, misero in fila e sull’attenti anche le schiere divine che avevano ereditato dai loro primigeni antenati o inventato loro stessi. Così il dio di un mestiere manuale era certamente soggetto ad un dio superiore, e costui ad un altro superno: era la falsariga della realtà umana: schiavo-padrone-governatore-sovrano.

In tal modo l’uomo di allora (e di sempre?) ha trasferito a quel mondo divino, che si era inventato, il suo mondo. Ogni dio aveva la sua famiglia, il suo clan, di cui era il pater familias, con la sua brava moglie, altre mogli e concubine, figli e nipoti (dèi minori o di più recente acquisizione per creazione o adozione), servi e famigli. E come il re degli umani, aveva i suoi bravi ambasciatori, ministri, musici, schiavi e clienti. Già, ma re di che? Così come c’era un sovrano su uno specifico lembo di terra, ecco che c’era il dio di quella città, di quella 22

città-stato, di quello stato. Un dio poliade, un dio protettore, a cui era delegato l’incarico di farsi interprete delle esigenze di quella città, di quel popolo, di quella persona. Vediamo spesso, nelle impronte dei sigilli-firma, e non solo, delle scene di “presentazione”: è il dio personale che presenta il suo devoto alla divinità superiore: una raccomandazione a chi è molto più in grado di favorire e proteggere. Un po’ come i nostri Santi protettori, che però sono finiti per diventare loro, nella testa di certi fedeli, i produttori dei miracoli.

IMPRONTA

DI SIGILLO. INANNA PRESENTA

AL PADRE

NANNA

UN

SUO FEDELE.

Non ci è difficile, via, riconoscerci, mutatis mutandis, nel sistema antico, che è diventato po’ anche il nostro. Avviene, per esempio, che la basilica di S. Antonio da Padova, a Padova, non sia tanto intesa. come invece è o dovrebbe essere, la basilica di Dio, ma di quello specifico santo, che è anche il protettore di quella città, e certamente protettore anche di una certa tipologia di persone (mi ricordo solo che lo si invoca quando si perde qualcosa) così come ugualmente, magari in condominio, è protettore di qualche altra località con cui ha avuto a che fare: Lisbona dove è nato, Milazzo dove ha fatto l’eremita, oltre a Padova dove è morto. Ed è così con Francesco ad Assisi, Ambrogio a Milano, Gen-

naro a Napoli, la Rosalia a Palermo e l’Agata a Catania, Donnino a Fidenza e via via nell’immensità della chiesa. E a loro che SÌ rivolgono le suppliche, a loro e a quella povera ragazzina destinata ad avere l’anima straziata nel vedere suo figlio appeso ad una 23

croce, e che sarei tentato di abbracciare, con infinita partecipazione ed affetto, più come figlia piuttosto che madre. Ci si rivolge a loro ed a questo figlio che ha rivoluzionato mezzo mondo, ma che ci appare più umano che mai. A loro, non tanto a Dio. Nell’ormai lunga vita mi è capitato di vedere centinaia di chiese. Solo una di queste era dedicata a Dio. Una. Mi pare evidente che anche oggi l’umanità ha bisogno degli déi minori. dk

Stranamente troviamo santi protettori delle più svariate realtà: San Pasquale Bailonne protettore delle donne, Sant’ Alfonso di Loyola fate chiudere la scuola, quell’altro santo annegato e protettore dei ponti, San Marco protettore dei vetrai, San Giorgio della guardie giurate, San Giuseppe dei moribondi, Sant'Orso del mal di schiena, San Biagio della gola, la Vergine di Loreto protettrice degli aviatori perché la sua casa è stata portata in Italia in volo dagli angeli (in realtà in barca dai membri della famiglia Angeli). Se non fossimo nel sacro ci verrebbe anche da sorridere. Così gli antichi dèi avevano chiese e basiliche, oggi diciamo templi, nelle varie città di cui erano protettori: Ea a Eridu, An a Uruk, Nanna/luna a Ur, Utu/sole a Sippar, Enlil, divenuto il più forte e temibile, a Nippur. E nei templi c’erano celle laterali per altri dèi, amici o minori, come nelle chiese cattoliche, dove

magari permangono nel tempo santi ormai “scaduti”, destinati ad essere rinnovati?. Talvolta troviamo tra gli dèi particolari contrasti. Ma forse c’erano soprattutto fra i rispettivi sacerdoti. Come oggi: nel non lontano passato Padova e Venezia si sono talvolta azzannate, ma non risulta che Sant'Antonio e San Marco abbiano mai fatto a cazzotti. Saranno stati invece i Sacerdoti, alleati del Potere. Si dirà: “ma oggi è tutt’altra cosa”. Certo, è tutt’altra cosa: altra spiritualità, altra religione, il monoteismo e quant’altro; ma viene anche da sospettare, alla Tomasi di Lampedusa, che tutto sia stato cambiato perché rimanesse lo stesso. Gli déi che, potremmo dire, duravano da sempre, erano An, Enlil ed Ereskigal: cielo terra ed oltretomba. Ma Ereskigal aveva un * Nella chiesa dove sono stato battezzato (Santa Maria Annunziata, a Fidenza) permaneva in una nicchia laterale una statua di Sant'Espedito. Quando non la vidi più, chiesi spiegazioni al Parroco, che mi disse: ‘“Sant’Espedito? L'ho spedito”.

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regno a parte, sepolto e distaccatissimo dalla vita palpitante degli uomini. Sicché nella triade divina troviamo, al suo posto, il buon

Enki/Ea, che propriamente non risulterebbe sempre nato ab imo, ma che la sua bella importanza se l’era comunque conquistata. Il dio più potente, il vero sovrano, era comunque Enlil. An era il “padre” (anche perché figurava come padre di Enlil), ma se ne stava un po’ incapsulato nel suo cielo, da patriarca venerato ma poco operativo. Era un garante, una specie di Presidente della Repubblica anche se la repubblica era di là da venire: era un re

d'Inghilterra che lasciava fare al Primo Ministro; o meglio era un re d’Italia quando comandava il Duce. Ereskigal aveva un mondo tutto suo, ed un immenso potere?. Era la morte. Era la regina di una “grande terra”, comandava su di un popolo che era il più numeroso di tutti, e sempre aumentava. Lei e la sua corte erano un po” il babau, il personaggio brutto e cattivo da temere e di cui parlare il meno possibile, l’uomo nero che spaventa i bambini. Ed Enki? Enki figura nella triade primigenia, ma quando non c’è Ereskigal. Sembra venuto un po’ dopo, e se è vero quanto abbiamo supposto, si era infilato nella terra (ki) e poi si è tuffato nelle acque (a) sotterranee quando Enlil lo ha definitivamente sloggiato, sempre che sia vera questa defenestrazione, che effettivamente ho solo immaginato. Come dobbiamo considerarlo? Non precisamente uno Starace, ma comunque il consigliere saggio, l’astuto visir, il tappabuchi intelligente e moderatore. * *k*

Questi dèi avevano figli, come li aveva un buon padre, come un sovrano che tiene alla progenie. Ma le mamme? Tutti hanno avuto una mamma, anche gli dèi dovevano avere una mamma. Qui viene il punto: la procreazione, la creazione dovuta ad un essere superiore, che a sua volta deve essere stato procreato. Vedremo poi i miti della creazione, che anticipano quello biblico. Fermiamoci invece su quest’essere primigenio da cui tutto è scaturito e procreato: la donna. Una gran donna, una grande madre, una Magna Mater".

? Sulla dea degli Inferi ved. ultimamente anche A. Jordanova, Untersuchungenven zzu Gestalt einer Unterweltsgòttin EreSkigal nach den sumerischen und akkadI dischen Quellen (2020). Ved. anche oltre !0 Sulla dea-madre, in particolare a Sumer, ved. T. Rodin, Yhe World of the Sumerian Mother Goddess, Uppsala 2014

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La dea-madre per i Sumeri era nin.tu, “La Signora della nascita”, della creazione, dunque dell’origine.

In principio era la donna. Chi l’abbia poi fecondata, non si sa. Come l’uovo e la gallina. Per i semiti era Belit-ilî, “La Signora degli dèi”, di tutti gli déi, ma

era anche la sumera “Signora potente”, nin.mah, in definitiva era Mammi, insomma la mamma.

Mi sembra chiaro, se non quasi indubbio, che “in principio” non ci fosse che lei, donna dai vari nomi, vista nella preistoria

come l’essere generatore semplicemente perché chi generava, come è sempre stato, era la femmina. Senza di lei il villaggio languiva, il clan non progrediva, la famiglia si disfaceva. Doveva esserci sempre la donna lì a fare figli, a rinnovare la società, a sostituire i morti, perché senza la donna l’umanità non sforna niente. Sarà per questo che forse costei è stata all’origine della religiosità: perché era la fattrice del fenomeno più miracoloso ed importante!!. Ed ecco allora che la figura di donna genitrice di vita, insieme alle figure degli animali che servono a vivere, è quella più di tutto rappresentata nell’antichità più remota": la Venere di Hohle Fels, che sembra la più antica (c. 36.000 a.C.), la Venere di Willendorf (23.000 a.C.), che è la più famosa, la Venere di Renancourt (21.000 a.C.), la Venere di Laussel', la Venere di

Lespugere, di ia e centinaia seni pendenti, impegnative":

Savignano, di Gabàn, dei Balzi Rossi e le centinadi altre Veneri vecchie di migliaia di anni, grandi fianchi enormi e voluminosi, natiche estremamente un inno alla fecondità!, un epitaffio funebre per

l’attuale concetto di bellezza!°. Per scendere a periodi più civili,

"! Sulla Magna Mater rimando a L. Rangoni, La Grande Madre. Il culto del femminile nella storia, Milano 2005, G. Sermonti, // mito della Grande Madre. Dalle amigdale a Catal Hiiviik, Milano 2002, J.G. Frazer, Matriarcato e dee madri

Milano 1995, ed ulteriori opere oltre ovviamente alla voce nelle varie Enciclopedie ‘’ Dove non era rappresentata in persona, la donna-genitrice era raffigurata simbolicamente sulla parete delle caverne con il disegno della sola vulva 4 A differenza delle altre, è a bassorilievo, con un corno in mano, nell’atto

di bere. Le discusse tacche sul corno credo vogliano indicare che dentro c’è del liquido ‘Qualcuna fa eccezione (p.es. la Venere di Laugerie-Basse) Alcune (p.es. la cosiddetta “Pulcinella”, la Venere del Rombo, la Venere di Monpazier) mostrano un ventre prominente, come se fossero incinte. ‘° Non si può negare che la donna in carne sia stata preferita da artisti di epoche molto successive. Anche le statue femminili greche, pur eccellendo nelle proporzioni, hanno fianchi importanti. Con altri, anche Tiziano si avvicina ai

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si passerà dalla donna, sempre grassa, di Halaf, per arrivare alla più slanciata “dea bianca” cicladica, o di quelle dette Uruk/Warka (IV Millennio), con la testa che sembra quella di un serpente,

dove è rappresentata sempre in qualità di genitrice ma questa volta accanto a statuette analoghe maschili.

FIGURINA FEMMINILE DI TERRACOTTA, PRIMO PERIODO DI URUK/WARKA.

DA UR

. La 1 o Nelle raffigurazioni il maschio appare infatti molto meno!, a caccia con l’arco e la freccia, e la donna non cessa mai di apparire,

in tutta la sua ingombrante formosità, magari in trono seduta con canoni antichi (non parliamo poi di Rubens). Invece ai canoni odierni (a parte le “maggiorate”, il cui fisico abbonda, ma comunque non esagera) sl avvicinano

molto, sorprendentemente, le figure femminili di Botticelli ? Naturalmente con qualche eccezione, p. es. l’antichissimo uomo-leone di

Hohlenstein-Stadel

Zi

due animali accanto, come a Gatal Hiiyik, o placidamente spaparanzata, con le sue membra voluminosissime, nel sotterraneo di Malta. Seduta o adagiata, lei non fa niente, lei non lavora, ma è lei la Grande Madre, è la Notvia Onpwov, che domina e comanda ad

uomini e fiere. xk

Eppure abbiamo visto che la storia ha avuto un’impennata decisiva, epocale: la supremazia del maschio, che lascerà alla donna,

vedremo, il compito di procreare (e ci credo) ma su quel trono ornato di figure di tori o di leoni si siederà lui, il maschio, il sumero guru, l’accadico etlu, su su fino agli scanni di Carlo Magno e oltre, fino agli odierni grotteschi monumentali troni dorati di qualche tirannello africano. Perché mai? Forse perché il maschio è il più forte, ed a lui è stato affidato il compito di cacciare animali e scacciare i nemici? Ma già lo si sapeva da prima. Può essere, certo. Le donne non combattevano, e sempre sono servite agli eserciti solo come vivandiere, infermiere, prostitute,

fin quasi ad oggi, e con poche eccezioni. Ma altre e più profonde ragioni devono esserci state. Ed io credo che una di queste, forse la più importante, sia dovuta alla lenta continua constatazione che nella competizione fra uomo e donna, basata sulla procreazione dei figli così tanto importanti (per la famiglia, la tribù, la patria), la bilancia abbia incominciato a pendere per quello che, tra i due sessi, aveva la capacità di generare di più, e più spesso. In una poliandria, dieci mariti di una donna non produrranno che un figlio, e dopo nove mesi. Ma in una poligamia maschile, cioè nella poliginia, dieci mogli di un uomo procureranno alla società un risultato ben più proficuo. Da qui (io credo) lo scambio dei ruoli nella sfera del comando. Da qui una sottomissione della donna che la società ha relegato troppo spesso nel cantuccio dell’umiltà, e che nell’era della monogamia non ha assolutamente più ragione d’esistere. x»

*k

AI tempo del triumvirato (triadi, triangoli, trinità: quante volte nelle religioni! Pure in Egitto) dei nostri An, Enlil ed Ereskigal, che erano più o meno i padroni dell’universo, il predominio della donna è già tramontato. Vero è: Ereskigal era una donna, ma non

agiva nel mondo, e d’altronde si pose rimedio procurandole un marito (Gugalanna, poi Nergal). Ed in seguito, presso i Greci e i 28

Romani, sarà Ades/Plutone a rapire Proserpina/Persefone, ed era lui, figlio di Saturno e fratello di Zeus e di Poseidone, a comandare in quell’Ade che porta il suo stesso nome. Le dèe diverranno le mogli, le figlie, le madri o magari anche le nonne dei nostri eroi della triade divina, talvolta scambiandosi i

ruoli come madri, figlie nonne e nipoti. Ma in questa triade la sola donna è relegata agli inferi. Ad acquistare la sua particolare importanza di donna-dea vedremo Inanna, divinità femminile della triade (un’altra triade!) astrale, quella già faticosamente raggiunta e fotografata sulla roccia di Sela”. * * *

A grandi dèi, grandi templi. Certamente! Erano le loro abitazioni, le loro “case”: ed difatti non c’era altro modo di definire il tempio, se

non chiamandolo “casa”. Lì abitava il dio, sotto forma di statua ma sembra davvero creduto in carne e ossa, invisibile ma vivo.

Tutto organizzato: un buon letto per riposar, come cantano gli Alpini, ed un desco di primizie e di delizie. Il loro alter ego umano, il re, provvedeva, insieme ai potenti sacerdoti. Sotto forma di statue che li rappresentavano ma in cui in qualche modo vivevano, gli dèi dimoravano dunque anche sulla terra, per essere più direttamente venerati e riforniti. Ed ecco che

le loro statue venivano abbigliate ed adornate più della Madonna. A queste statue si dava da mangiare e da bere, si incensavano e si impreziosivano con rari profumi, si portavano in processioni dove erano esaltate ed invocate. Un po’ come i santi di adesso. E le celebrazioni erano varie, i riti complicati, le liturgie solenni. I templi erano più grandi dei palazzi reali, perché gli dèi erano più grandi dei re (ma non risulta che questo concetto sia stato seguito dall’ebreo Salomone, che volle il suo palazzo più grande del suo famoso Tempio/dimora di Jahweh). Il grande tempio era la zikkurat, chiamata così dalla radice *zkr, che significa “costruire alto”. Non stupisce quindi il fatto che il termine possa significare anche “vetta di una montagna”.

Ogni città con il suo tempio aveva dunque la sua z/kkurat, una vera montagna'*. Ci abitava il dio? Vi soggiornava la dea? Per niente. Il tempio che conteneva la sacra statua della divinità stava più in basso, alla sua base, ai suoi piedi. !8 Sulla più famosa di queste zikkurat, la torre di Babilonia (più volte rico-

struita), rimando a Le Torri di Babele (Pisa-Roma 1996), con bibliografia relativa.

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LA ZIKKURAT DI NIMRUD PRIMA DELLA DISTRUZIONE DA PARTE DELL'ISIS. FOTO DELL'AUTORE

A cosa serviva, allora, la zikkurat? Non certo a prendere il fresco della sera lontano dalle zanzare (si è detto anche questo). Forse la sua utilizzazione era molteplice: studiare le stelle, accogliere il talamo del re e della sacerdotessa al momento del sacro connubio, ascendere verso il cielo per sentirsi più vicini al sacro: sentimento che anima ancora oggi certi arditi alpinisti che sfidano sé stessi per godere fino in fondo del trionfo e della soddisfazione della vetta (tentazione pericolosa e forse anche insana, ma irresistibile). Ma la ragione vera della loro costruzione, io credo, non era tanto dettata dal salire, ma piuttosto dallo scendere. Non dell’uomo, che comunque prima di scendere dovrebbe necessariamente salire, ma della divinità. Per raggiungere la sua vera ed autentica sede Ia divinità doveva scendere dal cielo e così effettuare un viaggio lungo e faticoso. Arrivata in prossimità della terra, prima di raggiungere la sua tappa definitiva giungeva dall’alto sulla cima di questa montagna artificiale, dove sorgeva un tempietto a suo uso particolare ed esclusivo. Una tappa d’accoglimento, come quella che i cardinali avevano a Roma, lungo la via Flaminia, per rinfrescarsi e cambiare i vestiti impolverati. Come ci racconta Erodoto, l’antica divinità qui trovava un letto per il riposino ed una tavola, ovviamente imbandita, per rifocillarsi: una specie di mansardina per una sosta temporanea ma ne30

cessaria. E da qui, attraverso enormi gradoni (in genere sette: cioè quanti necessari) scendeva finalmente alla sua dimora definitiva. ***

Templi immani. Ricchezza: tanta. Fatica: tantissima. Tempo perso: incalcolabile, per queste divinità mai esistite, in cui l'umanità comunque credeva, e verso cui si rivolgeva con la preghiera di sempre: “Dammi, concedimi, graziami”. “Chiedete, e vi sarà dato”, come se il dio dovesse essere sollecitato ed avesse bisogno delle sollecitazioni per accorgersi delle disgrazie dell'umanità. Un dio che dorme e che dovremmo svegliare, si sa mai con quali reazioni (vedremo quelle delle divinità mesopotamiche). Così come oggi ci sono i libretti di preghiere, anche allora c’erano formulari composti allo scopo: cioè soprattutto per allontanare il male, quando non si ricorreva a qualche forma di magia. Ma agli dèi si chiedeva anche altro: lo strano miracolo di conoscere il proprio futuro, il destino, quello che gli stessi dèi avevano stabilito. A che scopo conoscerlo? Perché mai gli déi avrebbero dovuto rivelarcelo, se è ben chiaro che per il resto della vita saremmo condannati a vivere angosciati e scontenti, nel caso sapessimo quali mali ci stanno aspettando? Il fatto è che gli dèi, fattori di un destino in apparenza immutabile e decisivo, erano in realtà i potenti trasformatori che potevano modificarlo. Si poteva pregare ed offrire sacrifici perché lo facessero. Allora è semplice: non si può chiedere loro di modificare un destino che non si conosce. Bisogna appunto conoscerlo, e una volta saputo il punto negativo e malefico della nostra povera vita, allora sì che possiamo pregarli, questi déi, o un solo dio, il nostro particolare dio, perché intervenga e cambi il futuro. La letteratura mesopotamica è gonfia di questi tentativi di conoscenza, di oroscopi basati sullo studio delle stelle, del fegato degli animali, dei tratti fisionomici del soggetto interessato, dei sogni casuali o provocati, delle macchie d’olio nell’acqua e di quant'altro che la fertile immaginazione ha inventato. Ne traevano deduzione sulla salute del malato persino i medici, a seconda degli animali che incontravano a casa del paziente, o intanto che andavano a visitarlo. dk

Non c'erano solo i grandi déi: abbiamo visto l’esistenza delle divinità minori, perché non c’è sovrano senza sudditi, non c’è padrone senza i suoi schiavi.

Un giorno sono stato invitato, con altri amici, da un ricco si-

gnore irageno che ci ha ospitato nella sua casa in campagna, non lontano da Baghdad. Eravamo in uno stanzone con il tetto di foglie di palma, tutti intorno seduti su stuoie o su tappeti, a ferro di cavallo con il padrone istallato sul lato minore, come dire: a capotavola. Ci è stato servito un piatto di riso con sopra adagiato il solito quarto di pollo. Il più esperto di noi ci aveva avvisato: guai mangiare al completo quella pietanza, nella falsa convinzione, tutta italiana, che l’ospite l’avrebbe apprezzato e che, al contrario, ne sarebbe uscito offeso interpretando l’atto di lasciare qualcosa nel desco come l’affermazione che non l’avessimo gradito.

Tutt'altro: sarebbero rimasti digiuni, se l’avessimo fatto, altri

componenti della famiglia: anzitutto i figli, che nel mentre stavano servendo a far da camerieri, e poi le donne e i bambini, cui spettava il compito di spazzare le rimanenze. Dunque si doveva lasciare qualcosa perché poi, una volta trasferiti altrove, subentrassero i famigliari. Così per gli dèi: a loro spettavano primizie e delizie, che 1 poveri umani dovevano offrire, e loro déi invece godere, se non al-

tro per gustarsi il profumo. Così in terra come il cielo, alla pari di una grande telone cinematografico che amplifica enormemente 1 fatti e i personaggi. Come talvolta, in montagna, troviamo nei verdi pascoli delle Dolomiti pacifiche giovenche che ruminano circondate da una miriade di moscerini, così intorno alle riverite divinità brulicava uno stuolo di esseri minori. Ogni religione ne possiede: le ninfe ed i satiri dei boschi e delle fonti, insieme alle ondine ed ai tritoni del mare della nostra letteratura classica, i nanetti Nibelunghi germanici, ijinn degli arabi, e magari anche i nostri serafini e cherubini, fino all’angelo custode. Molti di questi esserini mesopotamici erano però cattivi e maligni, antipatici e dispettosi, come demonietti!°. Finirono per diventare gli ambasciatori degli dèi quando costoro volevano portare agli uomini, spesso senza un dichiarato perché, malattie, epidemie, carestie e malie, dal mal di pancia alle cavallette. Non solo loro: si aggiungevano a volte i gidim, che in accadico erano gli etemmu, gli spiriti dei defunti che non avevano varcato i confini del mondo ultraterreno. E che vedremo poi.

2001

‘’ Ved. a questo proposito G. Pettinato, Angeli e demoni a Babilonia, Milano

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* *

L’uomo, si sa, è sempre lo stesso: sentimenti, passioni, capacità di

capire e di progredire. Ma l’uomo, si sa, non è mai lo stesso: cambia a seconda dei tempi, dell’ambiente, del clima, dell’influenza ed influsso di altri

uomini, a loro volta cambiati. Sempre uomini: razza umana, come diceva Einstein, ma nell’insieme della razza umana le etnie si distinguono. Non c’è alcuna etnia superiore, o migliore di un’altra. Però è diversa. Può anche eccellere in un campo (magari quello sportivo, o musicale) e non brillare in un altro. L’umanità è diversa anche nei piccoli particolati, o nelle abitudini, com'è diverso un popolo dall’altro (anche nell’àmbito della stessa etnia): io amo profondamente i cani, i miei amici irageni li disprezzano: accetto volentieri il dono di chi ho invitato a cena (una bottiglia di vino, una scatola di cioccolatini), ma gli amici

irageni se ne offenderebbero, se un dono lo portassi io a casa loro: per chiedere spiegazioni di cosa accade faccio un gesto con le dita all’insù, e muovo la mano dal basso in alto, più volte; ma con lo stesso gesto gli amici mi suggeriscono di attendere. “Ma che fai?”. “Takeka”;*Ma cosa dici?”, ’’Sta’ calmo, ed aspetta”. Tutto con lo stesso gesto. Non si capirebbe nulla, se non si parlasse. ***

L’etnia semitica degli Accadi aveva certamente divinità sue, ma almeno le principali assimilò a quelle sumere. Certi nomi rimasero, altri mutarono, un po’ come per i Romani con i Greci: cambiarono nomi agli dèi (però ne rimase la sostanza, sia pure alterata), ma

non tutti: il nome di Fracle, per esempio, non fu particolarmente stravolto quando divenne Ercole, né Persefone quando divenne Proserpina, come Odisseo quando divenne Ulisse, ed Hestia Vesta. Enki. abbiamo

visto, diventò

Fa, e la luna-Nanna

diventò

zu.en/en.zu e da qui Sîn, ed il sole-utu diventò Samas. Ma non solo: con il tempo gli dèi mutarono perché si evolse la loro natura, si impicciarono sempre più nelle questioni, anche minime, umane, decidendo comandando giudicando e punendo a loro piacimento. Se gli déi sono gli stessi, cambiano però gli uomini che li hanno inventati, e dunque cambiano anche gli déi (anche Inanna sumera è cambiata quando è diventata IStar)?°. 20 Ved. nelle opere citate nella Bibliografia finale. Una evoluzione del culto di Istar si può vedere anche in M. Liverani, Antico Oriente. Storia Società Econo-

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E così non poteva non avere conseguenze, nella vita degli dèi, il fatto che ai capi-tribù, beduini primigeni o regucoli di qualche abitato, si sostituirono i re di importanti città con i loro palazzi reali ed il tempio, a cui succedettero i sovrani dei grandi imperi, immensi territori difficili da percorrere tutti, e che si erano allargati ed espansi fino ai confini di quel mondo: i grandi mari, le montagne invalicabili. Analogamente si è allargato ed espanso il regno degli dèi, che ha assunto la configurazione di quello degli esseri umani ed ha cambiato la sua natura man mano che cambiava quella umana, a

sua immagine e somiglianza. Sulla scia dell’umano progresso, gli dèi si sono evoluti, sono diventati meno rozzi e primitivi, si sono adeguati anche alla politica, che sempre varia, si contraddice, si modifica: sulle orme di Sargon il Grande e poi di altri illustri imperatori, giù giù fino a Nabucodonosor II, gli dèi hanno allargato l’orizzonte fino a vagheggiare un impero loro, con a capo un “duce”, un Fiihrer, un caudillo, un

imperatore, meglio ancora un imperatore-duce, alla Napoleone. E così hanno figliato (perché tutto rimanesse in famiglia) e si sono inventati qualcosa di simile con Marduk, a cui hanno dato altri nomi e soprannomi (tipo il noto en/Bel, il “Signore”), ma soprattutto lo chiamarono così traendo dalla lingua sumerica: amar.utu (che potremmo forse tradurre “// torello del sole”. Il fatto è che aveva incominciato a prevalere Babilonia, e guarda caso Marduk era il suo dio, da rivedere e rivalutare. L'impero mesopotamico creò l’impero divino. Ora è Babilonia che domina, e così domina Marduk. Con Marduk, i grandi déi sono andati sì in pensione, ma non hanno perduto del tutto importanza e onori. Marduk imperava grazie a loro, riconoscenti per quanto il nuovo dio aveva fatto. Ma ormai gli avevano conferito pieni poteri, e difficilmente avrebbero potuto, volendolo, tirarlo giù dal trono per i piedi. wo

Sotto la terra. Gli dèi erano “in alto”, ma non era certo da trascurare |’ “in basso”. Insomma, c’erano dèi da pregare guardando il cielo, ma c’erano altrettanti déi sotto i piedi: 300 (dunque in tutto

600, secondo l’allora usuale sistema sessagesimale). mia, Bari 1988, passìm, oltre che, naturalmente, in altre pubblicazioni di storia della Mesopotamia antica. 2! Su Marduk, come sugli altri dèi, si vedano le voci nel RIA, Reallexikon d. Assvriologie (7,360 sg.).

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Questo mondo “infero” non è necessariamente il luogo dei morti; secondo il latino infernus, indica semplicemente ciò che sta in basso. Si chiamava ki, termine che già abbiamo tradotto “terra”, ma che evidentemente non indicava soltanto il suolo su cui poggiamo i piedi. Come quello superno (cielo-astri-vento), anche questo mondo “infero” era fatto un po’ a strati. Intanto c’era, appunto, il suolo, comprensivo ovviamente di quanto stava appena sotto: le radici degli alberi, magari anche le miniere. E forse qui che va collocata quella “natura! burella” orizzontale nella quale si infilava in occidente, di sera, il dio-Sole che la percorreva per tutta la notte fino a spuntare in oriente, a riprendere il diurno cammino, e che, solo fra gli uomini, percorse anche Ghilgames durante le sue avventure.” Sotto questo strato di terra c’era quel mare d’acqua su cui la terra galleggiava: il regno di Ea, é.a, la “Dimora dell’acqua”. Più sotto ancora, quelli che potremmo chiamare Inferi con la lettera maiuscola (ma non Inferno secondo la nostra attuale men-

talità). Difatti era il regno dei morti, messi lì non tanto per espiare 1 peccati, ma perché bisognava pur dare una sede a quanto rimaneva di ogni uomo una volta scomparso il suo corpo. In effetti i defunti se la passavano malissimo. Il modo più consono per descrivere questo mondo infero potrebbe essere un brano che compare, identico, in due composizioni del tutto differenti*: dunque un’esposizione-standard, che di meglio non ce n’è. Gli Inferi erano: . la terra da cui non si ritorna, la casa dell'oscurità, la casa la cui entrata non è l’uscita, la via da cui non si ritorna, la casa i cui abitanti sono privi della luce, dove polvere e fango è il loro cibo, dove hanno le ali come gli uccelli, dove non vedono la luce, stanno

al buio e gemono come colombe. Fra una “dimora” che si poteva raggiungere attraversando un fiume, portati da un battelliere: predecessori dell’oltretomba greco e dell’Inferno dantesco. Aveva sette giri di mura e sette porte: il solito numero 7, ad indicare che queste mura e queste porte obbedivano completamente al loro scopo (quello di fare entrare chi ne aveva il diritto [cioè i defunti], ma anche quello di non fare uscire). 2? Secondo altre versioni, invece di notte il Sole dormiva.

2 Sono Nergal ed Ereskigal e La discesa di Istar agli Inferi. Sul primo rimando a Nergal ed Ereskigal. Una storia d'amore e di morte, Pisa 1995. Sul secondo ved. oltre

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Come noi, che definiamo il mondo della morte con vari nomi

(oltretomba, aldilà, l’altro mondo, il mondo dei più, quel paese, gli inferi, l'Oriente eterno, le Valli celesti, i Verdi pascoli e via dicen-

do), anche allora le definizioni erano varie: abbiamo visto ki.gal “la grande terra” nel nome stesso della sua regina, ma incontriamo anche il kur.nu.gi ,a, il “paese del non ritorno” (il dantesco “/asciate ogni speranza voi che entrate”), eri.gal, “/a grande città”, che diverrà l’irkalla, il ku, ku, l'oscurità”, che diverrà il kukkt, e poi matu Saplitu “il paese che sta in basso”, a.ra.li, che diverrà arallà, ed altro, a volte semplificato in ki, la “terra”, o kur il “paese”. La condizione dei defunti era dunque di estrema afflizione: lo abbiamo visto; e ce lo ha ripetuto Enkidu, evocato dall’amico Ghilgame, a cui ha detto: “Se ti rivelassi gli ordinamenti dell'oltretomba, ti siederesti per terra a piangere”. . Questi poveri morti erano gli antenati dei greci e di Achille, che dirà ad Ulisse che sarebbe stato più piacevole essere l’ultimo dei vivi piuttosto che il primo dei morti. Ma c’era un primo fra i morti? C’era almeno una distinzione tra i defunti, una divisione in categorie differenti, oppure la morte era per tutti una “/ivella”, un’uguaglianza almeno dopo la vita, visto che non c’era in vita, come ci ha raccontato così magistral-

mente il massone Antonio de Curtis? © E se la distinzione c’era, si configurava come il risultato delle nostre azioni in vita? Lo stato dei morti variava, insomma, a seconda del comportamento di ognuno? C’era cioè un’esistenza sotterranea più sopportabile per chi aveva agito bene ed insopportabile per i malvagi? Veniva pesata l’anima sulla bilancia, come in Egitto? Oppure si suggeriva una sorta di distinzione basilare tra Paradiso ed Inferno, come suggerisce il Cristianesimo? Ahimè, non troviamo nulla nella letteratura mesopotamica che possa avvicinarsi al nostro Paradiso, premio per chi agisce correttamente e con generosità: né luoghi abitati da splendide Urì, né Campi Elisi, né verdi pascoli di Manitou. Solo qualche eccezione, che vedremo poi. In un originale dialogo (il cosiddetto Dialogo del pessimismo), un servo dice chiaramente al. suo padrone, che non sapeva se “dare o meno aiuto al paese”: 2 Per i vari nomi degli inferi ved. anche K. Tallquist, Sum.-akkad. Namen der lotenwelt, StOr 5/4 (1934), 34 sg.

© A. De Curtis (Totò), ‘A livella, Napoli 1964, 17

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“Non darlo! Prova a salire sulle colline di rovine (i tell, dove un tempo fiorivano città), e guarda i teschi di chi ha vissuto; quali di questi teschi appartiene a chi ha fatto del male, e quale invece a colui che ha aiutato il suo prossimo?” 26 Non c’è alcun accenno a premi 0 condanne dopo la morte: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto: la morte chiude un ciclo,

e tutto livella. E vero, troviamo nella stessa sezione dello stesso dialogo, un suggerimento di far del bene: “Da' aiuto al paese! Chi fa così è come se riponesse il suo gesto nel sacro recinto di Marduk !°. Come dire: far del bene al prossimo equivale a fare offerte e sacrifici agli dèi, che non manche-

ranno di contraccambiare con la loro benevolenza. Ma qui sta il punto: la benevolenza degli dèi si dimostrava durante l’esistenza in vita dell’uomo, non dopo la sua morte. I sacrifici per rabbonire gli dèi e far star meglio i defunti andavano certo bene, ma a vita conclusa. Ed ugualmente la punizione piombava sul capo del peccatore, pensavano, prima che costui morisse.

Da qui è facile immaginare il dramma di chi credeva di comportarsi bene e si trovava invece coinvolto in mille seccature, tragedie, malattie, mentre magari il vicino di casa o un conoscente, noto malvagio, viveva in mezzo agli agi e senza preoccupazioni”. Nella letteratura mesopotamica echeggia questo dramma con i problemi che comportava, e vediamo come si cercasse di dare una spiegazione al fenomeno immaginando colpe di consanguinei, parenti, amici o consoci di clan scaricate sulle spalle di un povero ignaro individuo, o immaginando addirittura peccati commessi, senza volere, dall’ individuo stesso.

Eppure un giudizio esisteva. Giudice dei morti era Ghilgameì, e ciò non deve stupire: in tutto il famoso poema di GhilgameS è evidente che questo supereroe, due volte dio e per un terzo uomo, altri non era che una specie di sostituto terreno del dio-Sole: la madre era sacerdotessa del Sole, era il Sole che patrocinava le sue avventure, ed era soltanto del Sole quella via sotterranea, usata per sorgere ad oriente dopo il tramonto in occidente, che Ghilgameì, unico fra gli

26 Rimando ad Arad mitanguranni, dialogo tra schiavo e padrone nell'antica ae) e Mesopotamia, Pisa 1990, 1995" 2? Ben note sono, a questo proposito, alcune composizioni, per le quali rimando a Perché il male?, CSM 2 (Aracne, Roma 2012). Si tratta specialmente del “Giusto sofferente” e della “Teodicea babilonese”

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uomini, ha percorso. Ed il Sole, l’astro che “fa luce” anche sui delitti e le miserie, il miglior Sherlock Holmes della storia, è appunto il dio della giustizia, il dio che il sovrano Hammurapi ha raffigurato nell’alto della stele in cui è inciso il suo “codice” di leggi. Ghilgame$, come eroe “solare” in vita, in morte ha l’incarico di compiere un’altra funzione del Sole, quella di giudicare: era un Minosse ante litteram, ed in effetti penso che si possa tracciare

qualche parallelo tra Sole, Ghilgame$ e Minosse”. Ma Ghilgame3 non giudicava il comportamento degli uomini: con altri suoi colleghi considerava piuttosto quale fosse la posizione sociale del morto, come il giudicando fosse morto, come da

morto fosse trattato dai vivi?° La posizione sociale era importantissima: sovrani, principi, poi giù giù i famigliari del re, funzionari di corte, governatori, prefetti, borgomastri e via dicendo avevano nel mondo dei morti un posticino privilegiato (le solite ingiustizie). Ciò dipendeva anche dal fatto che la loro sussistenza dopo la morte era assicurata dai beni che venivano sepolti con loro: oggetti preziosi, armi, cibo, e nel caso dei Sumeri di Ur, anche persone sacrificate per loro, proprio come c’erano stati sacrifici umani per lo stesso Ghilgame$, come si legge in un poemetto che ne parla (e vedremo anche per Dumuzi). Non solo: la sussistenza era continua. Si sa che ai sovrani ittiti defunti venivano legati fondi agricoli e bestiame, e certo doveva avvenire anche in Mesopotamia?°. Così, più sacrifici si facevano agli déi in favore-del defunto, più il defunto stava meglio, per intercessione degli stessi dèi gratificati da buon cibo e dal profumo di carni abbrustolite. Per l’uomo comune l’indispensabile cura del defunto era affidata ai figli, sicché chi aveva più figli aveva assicurato maggior culto agli déi, a suo esclusivo suffragio. Questo fatto è ben evidenziato in un importante famoso testo sumero (Ghi/games,

°* Per questo parallelo rimando a Miti paralleli, Acireale-Roma 2020, 11 sg. °° Varie e numerose sono le opere sull’aldilà mesopotamico, con idee non sempre coincidenti. Ved. per es. G. Pettinato, / miti degli inferi assiro-babilonesi, Brescia 2003; M. Hutter, A/torientalische Vorstellungen von der Unterwelt, Gòttingen 1985; S.M. Chiodi, Le concezioni dell'oltretomba presso i Sumeri, Roma 1994; D. Katz, The Image of the Netherworld in the Sumerian Sources, Bethesda 2003. * G. Del Monte, La fame dei morti, ATUON

15 (1975), 319 sg.; Idem, /n-

ferno e paradiso nel mondo ittita, in Xella, Archeologia dell'Inferno (Verona 1987) con contributi di J. Bottéro e di altri, ed anche gli Atti della XXVI R.A.I. (Copenhagen 1980)

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Enkidu e gli Inferi, ma la parte che ci interessa è quella finale), passato poi ad ispirare il Poema di Ghilgames ed in particolare la Tav. XII. Vi troviamo tutta una graduatoria di chi ha avuto più o meno figli tra coloro che vivono nel regno dell’oltretomba. Secondo questo testo, chi ha generato un solo figlio (e dunque ha una sola persona che faccia sacrifici per lui), piange amaramente accanto al chiodo conficcato nel muro, e sembra chiaro che questo chiodo simboleggi l’unico figlio, anche se sfugge il suo esatto significato (solo un chiodo a cui attaccarsi?). Chi invece ha generato due figli siede su due mattoni e mangia pane: già un miglioramento rispetto a chi mangia polvere e fango: ed anche qui è evidente che i due figli sono simboleggiati dai due mattoni, che permettono un riposo su un sedile forse troppo piccolo, rozzo e duro, ma comunque in una posizione migliore rispetto a chi è costretto a sdraiarsi per terra. Certo migliore è lo stato di chi ha generato tre figli, perché negli inferi beve da un otre, già fresco refrigerio, per i vivi, alla calura della steppa. Gioisce invece, come chi è padrone di quattro asini, chi ha avuto quattro figli, il che fa intuire uno stato di una qual certa serenità, come quella che caratterizza un uomo relativamente benestante, mentre viene addirittura trattato come uno scriba, che ha libero accesso a palazzo, chi ha generato cinque figli. Come un proprietario terreno, che certo passa una vita agiata e senza preoccupazioni, sta l’uomo padre di sei figli, mentre chi ha generato sette figli (ed il sette, non dimentichiamolo, è il numero della perfezione) “come un compagno degli dei siede su un trono ed ascolta musica”: il che ci fa capire che, se abbiamo sette figli che inondano gli dèi con una ecatombe di animali, può succedere

che non ce la caviamo tanto male nemmeno nel mondo dei morti. Viceversa, piange chi non ha saputo sedurre il suo sposo o la sua sposa, e dunque non ha generato, sicché chi non ha proprio nessuno, né figli né altri, che si occupi dei culti per lui, “mangia i rimasugli dei vasi ed i pezzi di cibo che si gettano per strada”. Si parla anche di “colui che non ha eredi”, ma qui il testo è rotto: si dice solo (stranamente) che mangia pane. Lo rivedremo poi. La vita nell’aldilà sembra anche continuare, per certi versi, la vita sulla terra, perché nel testo si parla anche del Sovrintendente di Palazzo, che se ne sta all’ombra a dirigere 1 lavori, mentre al lebbroso è concesso mangiare pane e bere acqua, ma è allontanato dalla comunità, come se la lebbra potesse infettare anche i morti. Anche il modo di morire è fondamentale: l’annegato, forse nel 39

ricordo dei suoi ultimi spasimi, ‘si dibatte come un bue mangiato dai vermi”, mentre a chi è caduto in battaglia il padre, piangendo, tiene sollevata la testa: un conforto a chi muore per la patria. Invece il navigante caduto in mare dalla nave evidentemente durante un naufragio, continua ad invocare la madre, mentre le tavole dell’imbarcazione sono trascinate via, “ed egli ‘mangia’ l’albero della nave (come se fosse) la sua razione di cibo” : forse si intendeva dire che continuava a restare appiccicato, testa e braccia, all’albero della nave, e che questa situazione restava anche dopo la morte. Mentre viene contemplato anche un caso in cui lo spirito del morto non sta negli inferi, ne sono descritti altri due, che potremmo

definire alquanto eccezionali. In sintesi: si tratta in primo luogo dell’uomo morto bruciato: “i/ suo spirito non c è, il suo ‘fantasma’ è salito in cielo”. La spiegazione deve essere dovuta al fatto che il corpo dell’uomo bruciato, non essendoci più, non può essere seppellito. E difatti lo spirito degli insepolti non scende negli inferi ma, come vedremo, vaga qua e là, talvolta a spaventare i mortali. I due casi seguenti sono “positivi”. Sono quelli del morto prematuramente e dei “bambini che non hanno visto la luce del sole”. Gli dèi dunque prendono in considerazione la sfortuna di quegli esseri a cui non è stato dato di vivere. Non avendo vissuto, non è giusto giudicarli, ed allora il primo “giace in un letto degli dèi”: il letto qui è simbolo di riposo, di mancanza di fatica, di vita pacifica di chi sta spaparanzato e pacioso. E i bambini? “Giocano ad una tavola d'oro e d’argento piena di dolci e di miele”: un desco di lusso colmo di buone cose da mangiare, in un specie di limbo dove si sta bene e non si soffre. E la donna? Abbiamo già visto chi non ha saputo sedurre il marito e dunque non è stata fecondata. Ecco ora la donna “che non ha mai partorito”. Povera donna! “È stata buttata per terra come un vaso, e non dà all'uomo nessuna gioia”. Eh già, il suo compito era quello di partorire, e generare figli al suo uomo. Ed ecco, da qui, la disperazione delle donne che non riuscivano a generare, e che vivevano nella loro (per gli uomini) sostanziale inutilità: Sara moglie di Abramo, Anna che diverrà la madre di Samuele: donne della Bibbia in apparenza sterili a cui si affiancheranno altre miracolate: Elisabetta nei Vangeli, un’altra Anna,

madre della Madonna, nella Legenda Aurea, così magistralmente rivissuta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Triste sorte per la donna che non sfornava eredi al marito. Ne abbiamo visto un quadro eclatante non moltissimi decenni fa: la 40

bella imperatrice di Persia Soraya, sterile ma non miracolata, è stata ripudiata ed è finita come attrice di non eccelso rango, sia

pure accanto al grande Alberto Sordi, a farsi vedere in costume da bagno (peraltro rigorosamente escludendo il due pezzi). Come Sara diede in un primo tempo a suo marito Abramo la schiava egiziana Agar, così facevano anche in Mesopotamia, dove venivano persino stilati contratti che prevedevano l’uso della schiava, nel caso che la moglie si rivelasse sterile. * *k*

Ma non finisce qui, perché in un testo accadico di Ur la stessa evocazione dagli inferi assume toni diversi, e se talvolta il testo è il medesimo, talaltra cambia, a testimoniare come i miti, man mano

che il tempo passa, mutano come muta il pensiero dell’uomo. Qui le descrizioni di chi è annegato (questa volta in una inondazione), del lebbroso, di chi è morto nell’infanzia (in questo punto il testo è rotto), dei bambini, del morto bruciato, di chi non

ha nessuno che si preoccupi dei riti in suo favore, sono praticamente corrispondenti a quanto abbiamo già visto. Ma ci sono molte novità. Come una di quelle eccezioni che spesso arrivano a far mettere in dubbio ciò che crediamo di sapere sui popoli della Mesopotamia, ecco che questa volta troviamo qualche accenno al comportamento in vita come causa dello stato del defunto. C’è una punizione per chi non ha avuto rispetto per la parola del padre e della madre (nel decalogo ebraico è il quarto comandamento): il colpevole può bere acqua piovana e razionata, che però non possiede a sufficienza e dunque non lo può completamente dissetare. C’è poi chi è stato maledetto dai genitori (chissà mai cosa avrà fatto questo ragazzo scapestrato), condannato a vagare come spirito inquieto e (tremendo!) a non avere eredi. C’è poi chi ha giurato il falso (Ottavo comandamento), destinato a bere solo fango. La necessità di bere è quasi sempre presente in queste situazio-

ni infere: siamo in un paese in cui d’estate imperversa un caldo tremendo (appunto infernale). Ricordo ancora le impronte che lasciavo camminando sull’asfalto della strada, a Baghdad. Ad un elenco di gente straniera, tra cui sorprendentemente ma non troppo (i tempi cambiano) troviamo anche i Sumeri, viene ammannita acqua putrida e salmastra. Pare dunque che, quando fu compilato questo testo, i rapporti tra il popolo dell’autore e la gente nominata, non fosse dei migliori. Questi popoli sono: gli Amorrei, “che scorrazzano sulle cime delle montagne” (in realtà direi tutt'altro), poi appunto i Sumeri, 4l

e gli Accadi. Un’eccezione tuttavia sembra esserci: il “cittadino di Ghirsu con suo padre e sua madre”: cioè tutta la popolazione di Ghirsu (oggi Tello) che non abbiamo difficoltà a riconoscere come la dimora dell’autore: dal testo si capisce (forse) che si tratta di una città unita “come un uomo solo” e (sicuramente) che lo spirito dei suoi abitanti non viene colpito, e non hanno avversari. Nel testo si riprende il motivo del tipo di morte: ma non sappiamo (la tavoletta è rotta, si parla solo di ossa) quale fosse la sorte di chi era morto cadendo dal tetto di una casa. Infine, un’ulteriore considerazione per i genitori, che nel mondo degli inferi “danzano, e festeggiano la festa di Capodanno”. Con il fatto che bisogna obbedire ai genitori, che non bisogna farsi maledire da loro, che Ghirsu li doveva particolarmente considerare citandoli nell’àmbito dei suoi cittadini, e che negli inferi piroettavano festeggiando e stavano dunque benissimo, par di capire che l’autore del-testo fosse molto legato a mamma e papà. Questa evocazione dal mondo dei morti è stata poi ripresa nella Tav. XII del poema di Ghilgames: una sorta di aggiunta non particolarmente convincente. Il testo enumera la solita solfa del morto che ha un figlio, dell’altro che ne ha due e così via fino a sette. Si capisce che è una ripetizione del testo sumero. Purtroppo le lacune si fanno ampiamente notare anche nel séguito, e si capisce solo che pure qui, come nel testo di Ur, c’è qualcosa di nuovo, anche se difficilmente comprensibile. Ci sono altri casi già visti, per esempio quello di chi muore senza eredi, e di cui ci siamo già stupiti, perché chi non ha chi si occupi dei riti funebri in suo favore si trova negli inferi molto miserevolmente ridotto; invece, sia pure in testo corrotto, abbiamo visto che “mangia pane”, e dunque non deve trovarsi proprio male. E così, nella Tav. XII, ugualmente si parla di chi non ha un figlio (il che equivale a chi non ha eredi) e “mangia pane ...” (ed anche qui il testo è rotto). Rimane dunque il solo caso veramente incomprensibile, che potrebbe essere forse chiarito dal contenuto della lacuna, che per ora rimane sconosciuto. Forse si alludeva ad altre fonti di riti funebri (amici, parenti o, appunto, beni vincolati a questo scopo) ?

Gli altri casi contenuti nella Tav. XII sono in parte comprensibili in parte no, a causa delle lacune. Chiaramente troviamo ripetuta la sorte di chi è morto senza che ci fosse qualcuno che si occupasse dei riti per lui (“i/ suo spirito non ha chi se ne incarichi”)

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con la già nota conseguenza di mangiare i resti del contenuto dei vasi e di cibi buttati per strada. Una variante del morto naufrago parla di un “palo” che deve corrispondere all’albero del caso già noto, ma non si capisce perché ‘ Tgrida a sua madre] durante l'estrazione dei chiodi../”. Forse la spiegazione consiste nel fatto che nell’esempio precedente SÌ parla della tavole (della nave) trascinate via dall’acqua; dunque qui si può pensare che si parli dello sfascio di queste tavole, che durante il naufragio vengono schiodate. Anche qui si parla del morto in battaglia, che in questo caso ha la fortuna di avere accanto, a consolarlo, non più il solo padre (come abbiamo già visto), ma anche la madre e la moglie. Il genitori gli sollevano il capo, e la moglie [piange(?)] su di lui. Infine, si parla di “un uomo di corte” che forse corrisponde al “Sovrintendente di Palazzo”, che abbiamo già incontrato. Ma qui il testo è rotto, e si capisce solo che gli riguarda un “emblema”. Ad ogni modo, non doveva passarsela male. Qualche novità dalla Tav. XII: il defunto che è morto di una morte veloce (un improvviso infarto, un subitaneo coccolone?),

negli inferi “riposa nel letto notturno, e beve acqua pura” (sempre l’acqua). La fortunata contingenza per cui ha avuto la fortuna di morire senza dolori e sofferenze si ripercuote felicemente sulla sua situazione nell’oltretomba. Infine, quello che già si sapeva da altre fonti: il caso del defunto insepolto (ne abbiamo già parlato a proposito del morto bruciato). Qui si parla del “cadavere gettato nella piana”, come se fosse stato buttato via come uno straccio. Per questo infelice “il suo spirito non riposa nella terra (infera)”. X* > >*

Una breve sintesi. A parte la solfa di chi ha un figlio, due figli e compagnia bella, nonché la descrizione generale sullo stato dei defunti nelle due descrizioni-formula già viste, abbiamo questi casi: — Situazione di chi aveva vissuto una vita privilegiata (positiva) —

Situazione di chi non aveva procreato (uomo e donna) (ne-

gativa) — -—

Situazione di chi non aveva avuto eredi (apparentemente positiva, ma dovrebbe essere negativa) Situazione secondo il tipo di morte subita (secondo 1 casi,

negativa o positiva)

-— Situazione di chi è morto prematuramente (positiva) Dunque c’era qualcosa dell’uomo, che sopravviveva. Male, ma sopravviveva, secondo l’antica mentalità mesopotamica: qualcosa che era un tutt’uno con il corpo quando questo aveva avuto infuso lo spirito della vita, il napistu, che gli permetteva di svolgere via via la sua esistenza, balatu, finché la morte non sopravveniva.

Giunta la morte, il napiftu si spegneva, ed allora il balatu cessava il suo corso, il corpo restava inerme, come un burattino

abbandonato. Non faceva più parte di questo mondo, bisognava seppellirlo, anche per ragioni squisitamente igieniche. Messo nella terra, tornava alla terra, da cui era stato creato. E così sia. Ma allora che ci faceva nel mondo dei morti? Ma non c’era più il corpo nel mondo dei morti. C’era lo spirito, che si poteva vedere ma che era, appunto, incorporeo, inesistente, impalpabile, come potranno constatare, nel secoli successivi, Ulisse ed Enea, che abbracceranno i loro cari invano.

Questo “spirito” non è lo “spirito vitale” napistu, né il corso di quell’ “energia vitale” che si impiega durante l’esistenza, ba/atu. E un’altra cosa. È l’etemmu. È l’anima.

L’anima ha in sé qualcosa di divino, è la scintilla di Dio, è il tocco del soprannaturale. Non può morire, è destinata a vivere. È divina: gli dèi sono immortali, e dunque è immortale. Resta da chiarire come mai nel mondo mesopotamico l’anima fosse destinata a soffrire. E vagola nel mondo degli umani a disturbarli e spaventarli (è il fantasma, lo spettro), quando il corpo rimane insepolto, e dunque anch’essa deve rimanere “insepolta”. L’anima segue dunque le vicende del corpo a cui apparteneva. Seppellito il corpo, allora anche l’anima viene sepolta in quell’immenso ambiente che gli antichi definivano con i nomi più disparati, così come facciamo noi. Pur essendo divina, l’anima dell’uomo aveva poche prospettive di vivere bene, una volta separata dal corpo. Ma perché? Cosa aveva fatto di male? Poteva avere pochissime volte un grande sollievo, o magari qualche volta un qual certo leggero sollievo: ma tutto dipendeva specialmente dai culti eseguiti dai figli, destinati a morire anche loro, a loro volta supportati dai figli e così via. Morti i figli, finiva la pacchia, se così la vogliamo ottimisticamente definire. Si tornava a vivacchiare nel buio e cibarsi di fango. Perché poi con le ali d’uccello? Perché cibarsi di fango? Non è facile rispondere, e forse ad un certo punto la vera ragione non la seppero dare nemmeno loro, i popoli sumero-semiti44

ci che questo bailamme l’avevano inventato (abbiamo detto che il tempo cambia le cose, e quando le cose cambiano, ci si dimentica di come andavano prima). Ma vedremo poi. Non posso d'altronde liberarmi da un’altra domanda che esige una risposta: se ab initio troviamo la potente triade Anu-Enlil-Ereskigal (cielo-terra-sottoterra) ed Ereskigal era propriamente la regina del regno dei defunti, che ci stava mai a fare, quando ancora non c'erano defunti? Su quali anime dell’uomo comandava, se all’inizio non c’erano uomini, e dunque nemmeno anime? Contraddizioni dei miti e delle religioni? Ma anche qui vedremo poi. * **

Pare comunque che per questi incliti popoli l’anima fosse un elemento divino infuso nell’uomo, da non confondere con il soffio

della vita perché questo ce l’avevano anche gli animali, che per conto loro una volta morti erano morti per sempre, e non avevano anime che sopravvivessero (per soffrire malamente per sempre). E pare ovvio allora che nell’anima c’era quel quid che distingueva l’uomo dalle bestie, insomma la ragione. Ma perché condannare l’anima a quella vitaccia? La domanda continua a proporsi. Viene da pensare, allora, che le anime dell’uo-

mo fossero tutte di scarso valore, benché divine e quindi immortali. Come mai? Una riposta potrebbe venire dal fatto che la materia da cui è nato l’uomo è stato un impasto di argilla e del corpo di un dio. Non di acqua ed argilla, come per 1 vasi, le otri, le anfore, le pentole e le giare, e magari per qualche figurina zoo- o antropomorfa. Era un impasto di sangue ed argilla. In due casi simili ma non identici, si trattava del sangue sì di un dio, ma di un dio malvagio, un dio cattivo e traditore, o comunque ribelle all’autorità divina. In un altro caso si trattava di

un dio di poca importanza, un sopravvissuto, la cui autorità era ormai decaduta, o forse ceduta con la forza ad altri dèi. Ad ogni

modo, un dio non particolarmente eccelso. Tutt'altro. Morto il corpo tornato alla sua inerte origine, restava pur sempre questa maledetta presenza divina che non poteva essere annichilita, perché immortale, ma che bisognava pur sistemare da di qualche parte. per i divina, scintilla la noi: in sia ci Era la scintilla che credo un’anima negativo: dio un da nata mesopotamici negativa perché brutta, un’anima da punire come era stato punito il dio ribelle o inutile. Era una specie di peccato originale, le cui conseguenze

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potevano essere attenuate solo talvolta, e solo grazie ad episodi casuali o fortuite circostanze.

È da qui cheè nata l’idea di un assurdo peccato originale, che ci fa nascere con un’anima già sporca, e che bisogna emendare (con l’acqua pulita del battesimo)? È possibile, come è possibile che nell’àmbito degli Ebrei deportati si sia voluto mantenere questa torva idea, ma rinunciando

alla storia del dio sacrificato perché il loro monoteismo non lo poteva concepire. E così ricorsero ad altri miti mesopotamici (gli alberi divini e la proibizione di usarne) per mantenere questa malvagia idea che ci fa peccatori già prima di nascere. Masochismo dell’umanità. Secondo il Cristianesimo, nel luogo malefico degli inferi/Inferno le anime soffrono “/e pene dell'inferno” (appunto), che consisterebbero nel fuoco purificatore (che dovrebbe pur finire una buon volta, dopo aver purificato. Purificare in eterno è un controsenso), e conseguente “stridor di denti” (che però, mi permetto di commentare, si sente di solito quando c’è un freddo cane). Nell’Arallù invece c’è buio, ci si ciba di fango, si hanno le ali

come gli uccelli. La fantasia dell’uomo antico si è sbizzarrita in questo senso.

Andare a spiegare il perché di questi parti della fantasia è come rimestare nel torbido. Appunto, nel torbido: perché torbida è la vita ultraterrena immaginata da questi popoli superstiziosi e primitivi. Il buio si capisce: da sempre la morte è associata al buio. Dormire è imitare i morti, e si tengono gli occhi chiusi. Il sepolto non vedrebbe nulla, anche se aprisse gli occhi. Dunque buio, o semibuio. Gli infelici colleghi o non si vedono, o si intravedono. Ombre. Mangiano fango? Ma è come il tentativo di ritornare in vita, quando questa anime erano unite al corpo-argilla, ed era un’unione che la morte aveva crudelmente interrotto. Corpo con anima è la (quasi) perfezione, e così la separazione del corpo dall’anima ha come risultato uno straziante stato di cose che è solo sofferenza e doloroso ricordo. L’anima tende a riunirsi con il corpo: anche il Cristianesimo ha pensato di ricreare questo stato ottimale con la resurrezione dei corpi. E le ali degli uccelli? Che cosa mai ha portato ad immaginare questa assurda applicazione a quelle povere anime sepolte? Ma forse anche questo è il tentativo di un impossibile ritorno. Come l’anima tende all’argilla con cui era unita, così non può dimenticare che la sua origine è divina e, come abbiamo già visto abbondantemente,

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il divino sta “in alto”. Le ali d’uccello sono, io credo, il simbolo

di questa tendenza dell’anima verso il divino, oltre gli inferi, oltre la terra, fino all’alto dei cieli. Simbolo anche questo di sofferenza

estrema per una tensione infinita costantemente impedita. Potrebbe essere questa la ragione del fango e delle ali. Così penso. Ma chissà se è vero. **

*

Perché ci siamo soffermati sul mondo dei morti? Certamente perché questo mondo non può essere disgiunto dal pantheon generale mesopotamico, ma anche e soprattutto perché la nostra Inanna ne

ebbe a che fare, in un momento importante della sua vita divina. Diciamo che si spera che serva per preparare il terreno.

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LE ORIGINI DI TUTTO Dopo questa breve infarinatura sulle divinità mesopotamiche dell’a/to e del basso, penso sia ora di vedere più specificamente, per quanto sia possibile, i racconti ed i miti da cui si può dedurre, tra contraddizioni e confusioni, cosa mai quelle popolazioni credessero sulla nascita del mondo, degli dèi, e dell’umanità.

Ne riporto quelli che penso siano gli esempi più significativi, tralasciando soprattutto i “doppioni”. Di solito si incomincia con la cosmogonia, per arrivare alla teogonia ed all’antropogenia. Come è nato il cosmo? Come sono nati gli dèi? Come è nato l’uomo? E poi: come sono nati gli animali e la vegetazione? E soprattutto: perché? Stimola veramente la nostra curiosità costatare come mai quest'uomo antico abbia risposto a queste domande. Ma se ne possono dedurre le risposte solo da un coacervo di fonti che variano da luogo a luogo e da tempo a tempo, perché ogni città aveva il suo dio e 1 suoi miti: esistevano dunque scuole e tradizioni di scribi differenti, pur traendo tutte da un elementare archetipo su

cui si è arzigogolato spennellato e pittato in modi diversi e non raramente contrastanti. Per dare un’idea, pensiamo per esempio ai Vangeli, agli Apocrifi, agli Gnostici, alla varietà delle Chiese primitive, ai Cattolici, Ortodossi, Protestanti, Valdesi, agli eretici e chi più ne ha più ne metta, semplicemente sulla figura di Gesù. Non è possibile, tuttavia, mettere a confronto le differenti convinzioni che c’erano su ciascuno dei temi che troviamo variamente (a volte vagamente) trattati, allineandole ed esaminandole: vedere cioè come è nato l’uomo, come si pensava che fossero nati e organizzati gli dèi, come si immaginava fossero sorti e sistemati via via il cosmo, la terra e il sottoterra, perché ciascuno, o parte, di questi temi si trova indissolubilmente legato agli altri nella stessa medesima composizione. Sarà dunque necessario vedere queste concezioni, o almeno quelle più significative, una per una, e sistemarle nella nostra postazione di analisi con i criteri che sembrano i più opportuni,

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anche se non è detto che lo siano davvero”. Qui si partirà dalle opere più recenti (o per meglio dire: meno antiche), per risalire via via nel tempo. Va da sé che, “grosso modo”, le più recenti sono scritte in accadico, e le più antiche in sumero. L’opera più completa e, da un certo punto della storia in poi, più importante presso la popolazione mesopotamica, non si può certo farla risalire all’epoca dei primordi. Si tratta dell’Enuma elit, così chiamata, come era a quei tempi, dalle prime parole : “Quando in alto...”?2. i Ho già detto che quando nasce un impero in Mesopotamia, così diventa prevalente il dio di quell’impero. Non ne nasce una nuova religione, ma certo i miti, rivisti, ne vengono sconvolti, e le gerarchie divine modificate. Divenuta Babilonia il centro dell’universo, non si può evitare che il suo dio poliade, Marduk, diventi a sua volta il dio dell’uni-

verso, con buona pace delle altre divinità che gli cedono i potere, pur essendo quelle che lo hanno generato. È una situazione nuova, a cui vanno adattate le cognizioni e le idee delle situazioni vecchie, per cui il nuovo dio si accaparra tutti i titoli e le prerogative del vecchio, che poi in questo caso dovrebbe essere Enlil. Ad Enlil vengono scippati fatti imprese gloria ed onori. È comunque all’Enima eli che soprattutto ci si rifà quando si vuole parlare di cosmogonia teogonia ed antropogonia mesopotamiche, anche perché (e lo vedremo poi) a quest'opera ci si è rifatti anche in seguito. Ma non va certo dimenticato che si tratta di un’opera tarda, e che definirla “sumera” è quanto meno bizzarro. E così Marduk, deuccio di una cittaduzza che si chiamava Babilonia, ha vinto il biglietto dell’empireo dopo che si è visto ‘! Per le cosmogonie delle civiltà extra-mesopotamiche (e non solo), rimando a P. Oliva, Cosmogonie e cosmologie. Una breve storia, dal simbolo alla fisica (Roma 2018), e R.J. Steward, Creation Mith, Shaftesbury 1989 (in italiano / miti

della creazione, Milano 1993). Per i miti mesopotamici rimando alla Bibliografia finale, dove sono riportate opere in cui sono trattati i vari miti, con traduzioni e commenti. Si confronti, inoltre, H. McCall, Miti mesopotamici, Milano 1995;

W. Horowitz, Mesopotamian Cosmic Geography, USA 1998; E. Di Pasquale, // ricordo dell'etemmu, Roma 2020 ?° Si noti, in eli$, la solita “elle”, che indica l’altezza, lo stare in alto, già vista a proposto del termine per “dio”. Qui è seguita dalla —i$ avverbiale: “altamente, in alto”. Varie e numerose sono le opere dedicate a questa famosa composizione. Cito per tutte P. Thalon, The Standard Babylonian Creation Myth Enùma elis, Helsinki 2005

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allargare sotto i piedi uno stato diventato impero. Già ai tempi di Hammurapi trova il suo posto d’onore nel Prologo del suo Codice famoso. Il grande sovrano di Babilonia, pur essendo ritratto in atteggiamento riverente di fronte al dio-sole Sama$ (ma perché Samaî era il dio della giustizia) dichiara la supremazia del dio Marduk, così iniziando: Quando l'eccelso dio Anu, re degli Annunaki, ed il dio Enlil, re del cielo e della terra, che determina i destini del paese, hanno assegnato il supremo potere su tutti i popoli al dio Marduk, primogenito del dio Enki, esaltandolo tra gli déi Ighighi, (allora) hanno magnificato il nome di Babilonia e l'hanno resa potente nelle regioni del mondo, e per lui hanno stabilito un'eterna regalità dalle fondamenta solide come il cielo e la terra*. Allora gli dèi Anu ed Enki, per migliorare il benessere del popolo, hanno chiamato me, Hammurapi ... E nell’Epilogo: Io sono Hammurapi, il re perfetto. Non sono stato negligente verso l'umanità che il dio Enlil mi ha donato e che il dio Marduk mi ha affidato perché ne fossi il pastore ... Si vede chiaramente che Marduk, pur essendo dichiaratamente il detentore dei pieni poteri, qui non è ancora arrivato a quell’altezza a cui, vedremo, perviene nell’Enuma elis, dove quasi rasenta lo stato di dio unico, semi-monoteismo ante litteram*. Ci sono, ecco-

me, altri dèi che contano! Nello stesso Epilogo si parla di “Babilonia a cui gli dèi Anu ed Enlil hanno alzato il capo, in Esangila ...È. Più oltre cita Samas, che gli ha donato l’equità, Anu, “padre degli dei e proclamatore del mio regno”, Enlil, “che fissa i destini e magnifica la mia regalità”, sua moglie Ninlil, “grande madre”, Enki, ‘“gran-

de principe ... che conosce ogni cosa”, e poi il dio-Sole Samas, il dio-Luna Sîn, Adad, Zababa, la dea IStar, Nergal e così via, fino a tutti gli déi Anunnaki, con l’aggiunta, per ognuno, di copiose parole: un pantheon ben vivo e presente, da considerare adeguatamente. Certo è che Marduk è ben presente! Nell’Epi/ogo è citato più volte, sia come dio a cui il re si è sottomesso, sia come mezzo con cui ha conseguito le sue vittorie, e via di questo passo. Ma altre divinità si rivelano indispensabili. Anche per questo si è dedotto

33 Sono le stesse parole che formano il nome della torre di Babele: “/'ondamento del cielo e della terra”. 3 Su Marduk's position in the Old Babylonian Pantheon after Hammurabi ved. Lambert, Babylonian Creation Mvthes, 255 sg. 35 Esangila significa appunto “Dimora dalla testa/cima alta, innalzata”.

SI

che la composizione dell’ Enuma eli sia avvenuta in epoca più tarda, oltre le glorie di Hammurapi ed anche oltre le crisi babilonesi successive, con l’occupazione dei Cassiti e le scorrerie degli Elamiti. Anzi, è probabile che la data vada ricercata proprio quando ci fu la rivalsa sugli Elamiti da parte di Nabucodonosor I, con la riconquista delle statue di Marduk e di sua moglie Zarpanitu, che gli Elamiti avevano portato a Susa. L’apoteosi di Marduk deve aver avuto qui la sua esplosione, per continuare imperterrita durante l’impero di Nabucodonosor II, quando l’immagine del dragone, suo simbolo, veniva ripetuta sulla Via delle Processioni ed identificata dagli Ebrei deportati con il “tentatore” capace di compromettere per sempre l’umanità intera’. Eccezionalmente l’Enuma eli fu copiata e ricopiata senza varianti, modifiche, aggiunte. Solo gli Assiri, a un dato momento, vollero sostituirea Marduk il loro dio nazionale, Assur, e la cosa

non ci stupisce. x»

RI

Secondo questa composizione, ben a ragione chiamata epopea, tutto ebbe origine da un enorme caotico ammasso di acqua. “Il cielo non aveva nome”, cioè non c’era, non esisteva, non era stato

nominato e quindi creato, secondo la convinta credenza che solo pronunciandone il nome qualsiasi cosa ne risultasse creata. Dunque non c’era an, il cielo. “La terra non aveva nome”, e dunque non esisteva ki, la terra. Esistevano due “entità”, un maschio e una femmina, i primissimi progenitori. Il maschio era Apsù, e la femmina Tiamat”. Frano dunque le acque dolci (abbiamo già visto cosa fosse l’apst) e le acque salate (tiamtu era il mare), mischiate insieme. C’erano solo acque, e nulla che ne spuntasse. Il testo parla di canneti non ancora esistenti, e ci riporta al sud della Mesopotamia, terra di acquitrini e di canneti, dove meglio si può concepire, con la fantasia, un territorio emergente. Nemmeno gli dèi esistevano, in quanto “non erano chiamati per nome”. Ma ecco che piano piano si evolve la situazione. Da questo

‘© Dalla Bibbia si evince chiaramente che il “tentatore” divenne serpente dopo la consumazione del peccato. Prima non strisciava e teneva la testa alzata, esattamente come il drago simbolo di Marduk (su cui ved. Lambert, Babylonian Creation Mvthes, 232 sg.)

Su cui ved. Lambert, Babylonian Creation Mythes, 236 sg.

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ammasso di acqua immane e allucinante, ma che pure è mescolan-

za di maschio e femmina, nascono due esseri primordiali, Lahbmu e Lahamu, si presuppone anch’essi maschio e femmina. Sono due entità selvatiche ed animalesche, come pare suggerire il loro nome, che le indicherebbe come “pelose, irsute”. Prima che costoro crescano e si ingrandiscano, ecco spuntare un’altra coppia, concepita da loro, come si deduce in seguito: una evoluzione, visto che questa coppia è superiore a quella che l‘ha creata. Proprio come sarà così per l’uomo, che nella realtà storica era primitivo e peloso, qui troviamo una seconda nascita che “riesce meglio”. L'uomo è di là da venire, è vero, ma potremmo imma-

ginare queste due coppie, con la nostra fantasia, come una specie di Cro-Magnon che si sovrappone e si sostituisce ai Neanderthal. Si chiamano Ansar e Kisar. Non è difficile capire i loro nomi: an “cielo” e ki “terra”, già li conosciamo; Sar indica la totalità, e quindi potremmo chiamarli “La totalità del cielo” e “La totalità della terra”, oppure “Tutto cielo” e “Tutto terra”. Ed allora si potrebbe vedere qui un ulteriore passo nell’evoluzione dell’universo: la distinzione del cielo e della terra. Sono distinti ma anche già divisi? Forse la distinzione avverrà con la nascita del dio Anu (an), il “cielo” distinto e separato, ovviamente, dalla terra? Da Ansar®* e Kisar nasce appunto Anu, e da lui Enki/Ea ed altri figli, per dare origine ad una serie di giovani dèi che, essendo giovani, si comportano appunto da giovani. Ed il pensiero va automaticamente ai “giovani d’oggi”, ma anche di ieri, giovani che hanno il “diavolo in corpo”, desiderosi di compagnia, di bisboccia, di movida, insomma di vita.

Da sempre i giovani, quando sono in compagnia, fanno baccano. Qualche volta ne combinano delle grosse perché per loro fare è strafare, restare fermi è traboccare, scorrere è tracimare, rigar dritto 38 Un testo di epoca tarda cita Ansar, ma dapprima nomina una “grande regina”, di nome Ninamakalla, probabilmente da identificare con una Magna Mater, signora madre di tutto, che è sorella di Enki e che si trova nel contesto di

“grida”, “rumore” forse lo stesso rumore che, vedremo, disturberà Tiamat. Pare di capire che un messaggero di Enki rivolge a questa dea una lamentela da parte di suo fratello per non avergli fornito viatico ed avergli così impedito un viaggio. In risposta pare che lei baci Enki. In contesto rotto vengono nominati Ansar e suo figlio Anu, dopo di che uno sconosciuto “entra” ed agisce, alla presenza di An$ar ma non di Anu, con delle armi. Potrebbe trattarsi di una macchinazione dei due fratelli per uccidere nonno e padre, e che il delitto sia riuscito solo con An$ar. Per l’uccisione di padri e antenati cfr. oltre, il mito di Dunnu. Ved. Lambert, Babvlonian Creation Myths, 316 sg. (The Murder of Ansar?)



è andare oltre le righe. Talvolta gli argini sono per i giovani le porte dell’inondazione, le regole sono il suggerimento per essere irregolari, icanoni in cui si vive sono l’occasione della protesta, lo status

quo la ragione di una rivoluzione. Imperativo categorico: cambiare. Se non fosse per loro, nel mondo poco cambierebbe, e gli anziani forse apporterebbero sì alla società qualche cambiamento, ma perché tutto rimanga come prima. Chissà se giovani di tal fatta hanno dato, all’epoca, la stura alla fantasia di chi i miti se li è inventati. Sta di fatto che il loro clamore disturba Tiamat, che vorremmo immaginare allora come un mare dalla calma piatta, una bonaccia perenne dove l’acqua è liscia come olio, e se la dorme in pace. Macché, i ragazzini continuano. Tiamat non reagisce, nulla riesce ad increspare quel mare così pacioso e pacifico, ma Apsù, che vedremo come quell’acqua che sgorga dalle fonti, scorre nei fiumi, gorgoglia nei torrenti, precipita nelle tumultuose cascate, è tutt’altro. Starà forse calmo sotto terra, ma in superficie è qualcosa che si muove, che si agita, che agisce. Anche lui è disturbato. Chiama allora un suo sottoposto, che si chiama Mummu. Mummu è un nome che si riferisce anche ad altre varie divinità distinte. Talvolta è usato addirittura come epiteto di nomi femminili, compresa IStar e la stessa Tiamat®. Può genericamente significare un “realizzatore”, colui che realizza qualcosa, dall’operaio al Demiurgo. Apsù insieme a Mummu si reca da Tiamat, a lamentarsi perché queste giovani divinità non fanno dormire pure lui, ed annuncia di volerli annichilire (incontreremo poi, in tutt’altro ambiente, il tema dei disturbatori degli dèi). Ma Tiamat, da buona madre, o

meglio antenata, si ribella, si rifiuta di collaborare, ed invita alla tolleranza. Mummu però non è d’accordo con Tiamat ed induce il suo padrone a realizzare il suo intento. Ad Apsù questo intervento va benissimo, e così abbraccia Mummu e lo fa sedere sulle sue ginocchia (sai che goduria), tutto felice contento e soddisfatto. Gli déi interessati, venuti a sapere di questo funesto proposito nei loro riguardi, dapprima si agitano, poi rimangono in silenzio,

* All’inizio dell’epopea anche Tiamat viene chiamata Mummu, ma in questo caso il nome sembra piuttosto un epiteto (tipo: la “creatrice’’), se non è un errore per ummu (“madre”). Ved. comunque anche G. Rubio, Time before Time: Primeval Narratives in Early Mesopotamian Literature, 56th RAI (Barcelona), Winona Lake 2013, 5. Su mummu ved. anche Lambert, Babylonian Creation Mythes, 218 Sg.

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sbigottiti. A questo punto interviene Fa (il vecchio Enki), il figlio di Anu, dio intelligente ed astuto, che subito agisce. Tramite filtri

e sortilegi addormenta Apsù, e subito dopo anche Mummu. Messi a nanna i due compari, ne approfitta: toglie la corona e i poteri ad Apsù, poi lo uccide e mette sotto chiave Mummu. Ecco dunque che Ea trasforma Apsù, cioè il luogo delle acque dolci sotterranee, come sua dimora, ne diventa il sovrano, e mette

Mummu al suo servizio. L’Apsù diventa anche la camera nuziale di Ea e di sua moglie Damkina, “La moglie (signora) della terra e del cielo”. Qui viene concepito e nasce il dio Marduk, il nostro

protagonista! A questo punto si scatena l’esaltazione di questo Marduk, che di più bello intelligente e potente e scintillante non ce n'è. L’apoteosi viene dal padre Ea, tutto fiero ed esaltato per aver dato alla luce il dio più alto e più potente di tutti, pari ad almeno 10 delle altre divinità. Quando si dice bello, tuttavia, sorgono dubbi: Marduk figura avere 4 orecchie e 4 occhi, capaci di vedere tutto. Certamente un dio con 4 occhi ha un che di disgustoso, ma certo è un modo per indicare che era onniveggente. Tuttavia non st può dimenticare quel bronzetto nuragico che raffigura una divinità” (cos’altro, altrimenti? Non certo un essere demoniaco, come ha pensato qualcuno), con 4 occhi (oltre a 4 braccia e 2 scudi). Nonno Anu vuole fare un dono al neonato Marduk (i nonni

sono spesso innamorati dei nipotini). Gli regala i 4 venti. Quattro venti? Ma non sapevamo che Enlil, “// signore del vento”, il dio che sappiamo più forte di tutti, era appunto colui che dominava i venti? Che c’entra Anu con i venti? Il fatto è che l’Enuma eli$ è appunto un’esaltazione di Marduk, che viene a sostituire proprio Enlil nella sua funzione di re degli dèi. E dunque Enlil qui è sottaciuto, ignorato, fondamentalmente messo nel dimenticatoio. **

>*

Maoora il fattaccio. 4 Su Marduk ved. naturalmente s.v. in RIA, ed anche in Lambert, Bay/onian Creation Mvths, 147 sg., 248 sg. 4 Si tratta di una divinità potente (ha le corna) ma pacifica se non viene provocata (le corna hanno le punte ingabbiate, esattamente come alcune corna dipinte in una figura dell'Apocalisse nella cripta di Anagni). Divinità con simili capacità sovrumane devono essere anche quelle raffigurate nei bronzetti paleo-babilonesi di Ishjali, che hanno 4 facce. Verranno poi Giano divenuto il mese di Gennaio, che vede il passato e il futuro, le erme e quant'altro

IS

Marduk provoca, ovviamente servendosi dei 4 venti, tempeste di sabbia e di mare che, a detta di chi li ha effettivamente sofferti

(pongo anche la mia testimonianza), non son cosa di poco conto. Tiamat ne esce sconvolta, come il mare in burrasca quando è

scosso dalla bufera. Ed ecco i cattivi consiglieri, tutta una corte attorno alla loro madre. Sono disturbati anche loro, anche loro

vogliono vivere in pace. Chi saranno mai costoro? Forse i vari abitanti del mare, pesci e cetacei, 0 forse mostri come i futuri Tritoni. Fatto sta che incitano

Tiamat a reagire, rimproverandole il fatto di essere stata inerte durante l’uccisione del marito. Tiamat ne esce convinta. Ed ecco altri “malvagi” aderire al complotto e riunirsi per organizzare il conflitto. E un momento strano, per noi alquanto incomprensibile, perché è difficile giudicarlo con il nostro senno e la nostra mentalità: di solito il torto lo diamo al provocatore, e non condanniamo più di tanto la reazione del provocato. Ma Tiamat, colei “che aveva formato ogni cosa”, ed era cioè

la vera gran madre degli dèi perché origine di tutto, ora diventa nemica delle sue creature, dopo avere sopportato senza reagire l’uccisione del marito, con cui peraltro, all’epoca, non era d’accordo. Ora crea mostri orrendi, con zanne aguzze, sangue velenoso,

aspetto terrificante, ricordo forse di autentiche pericolose creature, come orche o balenottere. L'elenco di questi esseri è notevole: Il categorie di bestie e semibestie armate di armi tremende e di un coraggio incredibile. Tra le divinità che Tiamat aveva generato e che si erano radunate per decidere di fare la guerra, c’era un certo Qingu*, che viene nominato comandante in capo del suo esercito. A lui sarebbero spettati l’arruolamento, l’organizzazione e la condotta della guerra. Qingu viene elevato al rango di superiore a tutti gli dèi, unico “sposo” di Tiamat, addirittura detentore della “tavola dei destini”, potente talismano che si affissa al petto come la migliore delle medaglie. Finite le nomine, Tiamat incita il suo esercito alla lotta. Quando Ea lo viene a sapere, ne rimane angosciato. Si reca allora da suo nonno, Ansar (il “cielo totale”) e lo avverte: Tiamat

si è messa sul piede di guerra con tutta la sue corte di divinità, alcune nate dallo stesso Ansar! Che può fare costui? Non gli resta che consigliare Fa di prendere lui stesso le armi contro Tiamat. * Su Qingu ved. Lambert, Babylonian Creation Mvythes, 221 sg.

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D'altronde era stato Ea ad ammazzarle il marito, e sopra il conto era il più adatto ad agire, essendo la sentina della saggezza. Il testo che segue è alquanto smozzicato, ma si comprende che l'accordo è fatto, e che sarà Ea a contrastare la potente nemica. Ma Ansar consiglia Anu (il padre di Ea) di recarsi per prima cosa da Tiamat, con l’intento di cercare di calmarla: una mossa diplomatica necessaria come estremo tentativo di evitare il conflitto. Delusioni delle delusioni: Anu rinuncia e torna indietro, ed

anche Ea, spaventato, non affronta il nemico. Il testo, qui rotto, riprende con una immagine sconcertante: An$ar avvilito e sconsolato, con gli dèi tutti attorno a lui, spaventati e muti. E a questo punto che si fa avanti Marduk (arrivano i nostri!), che su consiglio del padre Fa si presenta ad Ansar e si offre di combattere Tiamat. AnSar è felice di vederlo e naturalmente accetta. Premuroso e preoccupato, gli consiglia tuttavia di tornare subito indietro nel caso che il suo attacco non avesse buon esito. Marduk allora gli chiede 1 pieni poteri, che gli devono essere conferiti in una assemblea degli dèi: d’ora in avanti dovrà essere lui a fissare i destini ed a dare ordini che dovranno essere indiscutibili ed irrevocabili. Un po’ come nella futura “repubblica” romana: nei momenti particolarmente critici viene nominato eccezionalmente un dittatore, con l’intesa, tuttavia, che alla fine del pericolo, svolta la sua missione, ritorni a fare il Cincinnato. Ma,

lo vedremo, Marduk non sarà né un Cincinnato né un Garibaldi. Nessuno dà niente per niente, certo (ma ci sono anche le meravigliose eccezioni, non dimentichiamolo, e sono il sale della terra), e d’altronde la richiesta di Marduk è motivata perché era effettivamente necessario che avesse ampi poteri per acquisire forza, potenza, capacità di vincere il nemico. Ans$ar si affretta ad incaricare il servo Kaka di andare a convocare i suoi “dèi padri” (verisimilmente Lahmu e Lahamu) ad un banchetto-assemblea, e di informarli, con tutti i particolari, di quel che succedeva. In breve, Lahmu e Lahamu con tutti gli altri dèi corrono da

Ansar e tengono consiglio partecipando al banchetto, dove la buona birra li rilassa e li rallegra (in tutti casi importanti, che siano felici o lugubri, il banchetto non mancherà mai, e nel banchetto una sana bevuta, di birra vino o idromele). Stabiliscono così di aderire alle richiesta di Marduk. Gli elevano allora un trono, gli conferiscono il primato sugli déi e lo gratificano dei pieni poteri. Dopo averlo messo alla prova (non SI

si sa mai! Meglio essere prudenti in situazioni così delicate) con la richiesta di fare scomparire e riapparire una Costellazione, tutti gli dèi non hanno più dubbi e lo proclamano loro sovrano. Si allestisce così un arco, in cui Marduk incocca una freccia, poi impugna una mazza ed infine, con il volto raggiante, si appende al fianco una rete, dono di nonno Anu, per catturare Tiamat: un gladiatore reziario ante litteram, con l’arco di Ulisse e la mazza di un Templare. Ai quattro venti, già in suo possesso, provenienti dai quattro punti cardinali, Marduk ne aggiunge altri 7, di grande potenza (cioè praticamente tutti i venti esistenti). Così armato, sale sul suo carro da guerra, tirato da quattro cavalli, dal nome e dall’indole

incontenibile, ed avanza coperto da un’armatura e protetto, ai lati, da forze che hanno il nome stesso del loro agire, quali Battaglia e Distruttore di eserciti. Gli déi suoi alleati lo accompagnano. Ovviamente emana da lui un terrificante splendore, tipico delle grandi divinità. E così, armato soprattutto di forze naturali (i venti, i fulmini, persino il diluvio) evidentemente tutte già esistenti, affronta la grande nemica. L’incontro con Tiamat è in un primo tempo negativo, come sarà per Ghilgames quando affronterà il mostro Humbaba: un escamotage per creare suspense, utilizzato ovunque e da sempre”. Tiamat ha un aspetto tremendo, e così Marduk si atterrisce, e con lui, di conseguenza, si sgomentano gli dèi che lo accompagnano. Le parole che gli rivolge Tiamat (in contesto corrotto ) sembrano in realtà blandire Marduk; almeno così pare dalla sua reazione, visto che accusa Tiamat di falsità nel suo atteggiamento esteriore, quando invece si sa che ha intenzione di agire malvagiamente, visto che in tal modo si era già comportata. La accusa di avere insidiato il trono di An$ar (ma quando mai?), e così la sfida apertamente. Tiamat reagisce urlando come una pazza e lanciando incantesimi. Si arriva al corpo a corpo. Tiamat e Marduk si avvinghiano, fino a che Marduk riesce ad avvolgere Tiamat nelle sua rete ed a scatenarle contro i venti. La rete è un’arma, ma è anche un simbolo per attestare la sconfitta * Pur essendo fuor di luogo, vorrei ricordare qui il particolare di un film che, se ben ricordo, rievocava il duello tra il massone William Cody (Buffalo

Bill) ed il capo indiano Mano Gialla, nel mezzo di un fiume. Mi pare che Mano Gialla emergesse imponente dall’acqua e vibrarasse un tremendo colpo di pugnale all’avversario, totalmente immerso. Poco dopo si vedeva invece il corpo dell’indiano galleggiare morto sulle onde del fiume (sospiro di sollievo)

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e la cattura dei nemici, come si vede chiaramente nella cosiddetta Stele degli Avvoltoi, che esalta la vittoria di Eannatum di Lagas: simbolo addirittura reiterato dagli Irageni nell’ultima guerra contro l’Iran. Tiamat, nel tentativo di divorare il primo vento, spalancando la bocca permette l’ingresso di tutti gli altri. Così il suo ventre ne viene gonfiato e la sua bocca rimane aperta. Verso di lei, così immobilizzata, Marduk scocca la sua freccia, tanto potente da dividerla a metà.

Tiamat dunque muore, e Marduk si colloca in piedi accanto al cadavere. Par di vedere una statua rinascimentale del giovane Davide (Verrocchio o Donatello non ha importanza) in piedi ac-

canto alla testa di Golia. Anche Ghilgameì si servirà dei venti per immobilizzare e trucidare un mostro. Il resto va da sé: le truppe di Tiamat si disperdono e tentano di fuggire. Invano. Sono circondate e imprigionate, comprese quelle 11 specie di creature che Tiamat aveva generato. Qingu, il grande generale dell’esercito nemico, sarà sacrificato. La “Tavola dei destini”, che Tiamat gli aveva concesso, ora gli viene tolta e Marduk se ne orna il petto, come Napoleone si è ornato la testa con la corona ferrea. La vittoria rinsalda ancora di più la sua maestà e il suo potere, e così il nostro eroe sottolinea il successo infierendo sul corpo di Tiamat: le rompe il cranio con la mazza e le taglia le vene. Per il nostro sentire non è certo un’azione accettabile, come sarà biasimevole quella che Achille compirà con il corpo di Ettore. Puzza un po’ di Maramaldo. Ma tant'è, così è scritto. Viene ora un brano molto interessante per noi, perché è a questo punto che è creato l’uomo. Ma, prima ancora, l’universo. Fino a questo momento le divinità cosmiche erano esseri primordiali evocanti conflitti che l’umanità ha immaginato anteriori alla sua esistenza: lotta tra entità del bene ed entità del male, Michele contro Lucifero, anticipazioni di fatti e realtà che si verificheranno poi, sulla terra. Ora le cose sembrano concretizzarsi: il dio

vinto diventa un luogo, come già Apsù era diventato località dove Ea aveva preso dimora. Ma non ci è facile conoscere cosa frullasse nella testa di quegli immaginifici inventori di un mito di cui abbiamo qui, e con lacune, una descrizione che in parte ci sfugge. L’uomo dunque guardava il cielo, e lo immaginò come un’immensa semisfera cava. Per inciso, anche altre popolazioni hanno avuto la stessa idea; e d’altronde anche noi diciamo “la volta” del

cielo. Che c’era oltre la semisfera? C’era un oceano di acqua, da cui talvolta l’acqua poteva anche filtrare. E Marduk che crea l’universo con il corpo di Tiamat. Lo taglia in due, come un pesce da seccare 35

(noi diremmo: come uno stoccafisso) e ne incurva una metà per farne, appunto, la semisfera-cielo. Di conseguenza, dovremmo immaginare l’altra metà, sempre concava, a formare terra ed affini. Se così, l’universo era allora una sfera, una metà in alto ed una metà in

basso, con la terra piatta a galleggiare nel mezzo. Marduk vi pone guardiani per impedire che l’oceano cosmico, che stava tutt’intorno e premeva, traboccasse. L’immenso spazio interno di questa semisfera viene sistemato a dimora prendendo come modello l’Apsù, e qui vi fa prendere posto la “triade” divina, sempre triade ma ora un po’ meno divina: Anu, Enlil ed Ea. Spunta Enlil, finalmente, ma Ea sembra collocato “in alto”, invece che nell’ Apsù sotterraneo.

[Resta da vedere il significato che potremmo trarre da questa doppia suddivisione di Tiamat, il mare. Che dall’acqua, e specificatamente dal mare, sia nata la vita, non è solo idea mesopotamica, ma di altre religioni e cosmogonie. Ma forse andrebbe indagato anche il fatto che Tiamat, mare, non era solo acqua, bensì acqua e sale:

un sale sotto certi aspetti tanto positivo da assumere un significato sacro nei rapporti di alleanza e di amicizia, e di grande importanza pratica quando usato come “salario”, o come conservatore dei cibi. Senza dimenticare, tuttavia, il suo aspetto negativo quando, imbiancando i terreni, li inaridiva e ne impediva lo sfruttamento]. Il cielo, così sistemato a dimora degli dèi, diventa un enorme tempio, l’Esarra (Il “tutto Tempio”, il “Tempio totale”), e qui Marduk, divenuto ormai il vero autentico Demiurgo, sistema le stelle e le costellazioni, ne stabilisce il percorso sul perno della stella polare, definisce l’anno ed 1 12 mesi. Dopo avere aperto delle grandi porte nelle due parti del cielo, vi pone però forti catenacci, che forse potrebbero anche alludere al fatto che oltre a certi confini i popoli della Mesopotamia non sono riusciti ad arrivare. Crea poi la Luna, astro principale a cui viene affidata la notte (ed i giorni di conseguenza). Stabilisce così le fasi lunari (‘// settimo giorno il tuo disco sia a metà”) lungo tutto il mese e l’alternarsi della luna al sole, per favorire i presagi dell’astrologia. Dopo una lunga lacuna, il testo riprende con il compito dato ad Adad, divinità dei fenomeni atmosferici: nuvole, pioggia, nebbia, neve. Dovera la testa di Tiamat stabilisce catene di montagne: allusione ai monti settentrionale ed orientali, da cui sono nati i fiumi, in particolare Tigri ed Eufrate*. “I fiumi sono nati dalle sorgenti, chiamate “occhi” forse per il paragone con

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Mi sembra (ma non la do per certo) che Marduk, come aveva sistemato a montagne la testa di Tiamat, abbia creato una “corda di

giunchi” alla parte opposta della Mesopotamia (allusione alla regione acquitrinosa meridionale), da collegare ( in qualche modo: qui il testo è rotto) all’A psù sotterraneo. Non escluderei che questo “legame” (forse l’entrata) sia dovuto all’affinità che aveva 1’Apsù (mare sotterraneo e, si presume, acquitrinoso e placido per mancanza dei venti) con questa regione della Mesopotamia. **k>*

Dopo aver dato un ordine ben preciso e stabilito alla sua creazione, ora Marduk gratifica gli dèi, certo per sincero affetto, ma anche per tenerseli buoni: dona al padre Fa una serie di poteri, e ad Anu regala la Tavola dei Destini. Degli déi vinti e catturati realizza poi delle immagini che fissa alle porte dell’ Apsù, ad eterno ricordo dell’impresa. Lo pseudo Cincinnato ha però intenzioni napoleoniche “alla re-Sole”, e l’intento gli riesce. Tutti gli dèi sono felici contenti e soddisfatti; nonno e bisnonno lo abbracciano e lo riconoscono come sovrano, la triade Anu Enlil ed Ea lo copre di doni, la madre Damkina ne va fiera. Ne segue una esaltazione massima, e la conferma della regalità assoluta, dopo di che Marduk fa il suo discorsino di circostanza, nel quale annuncia di volere creare una dimora per sé (la sua personale Versailles), nella quale le varie divinità, chi salendo

dall’Apsù chi scendendo dal cielo, potranno sostare; ospitate, si immagina, con tutti gli onori. Questa sede sarà Babilonia, la “Porta degli déî” (bab-ilani). Le divinità vi troveranno le loro quotidiane provviste: una tappa fondamentale e sicura in tutti i loro eventuali spostamenti. Ma chi procurerà queste provviste? Fino ad allora gli déi se le erano procurate da soli. Ora chiedono a Marduk di fare in modo che qualcun altro provveda per loro. Lusingatissimo, Marduk si rivolge ad Ea (suo padre) e gli spiega il suo progetto: creare con il sangue un prototipo umano, chiamato appunto “uomo”, perché a lui siano imposte le fatiche

gli occhi di chi piange e quindi versa lacrime. Non si comprende bene cosa siano le “narici” delle montagne, che Marduk chiude. Forse sono i passi, che restano invalicabili. Infine il parallelo “monti lontani — seni” si può forse intuire: le fonti e le cascate che ne nascono sembrano alludere ad una origine dai capezzoli dei seni che, immaginati sulle montagne poste in verticale, stanno dunque in alto.

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degli dèi e costoro abbiano più tempo libero e più gradevole l’esistenza. Una specie di panis et circenses concessi agli dèi ormai divenuti popolo bue. Fa, che era, non dimentichiamolo, il più saggio ma anche il più capace ed esperto, si dichiara disposto ed in grado di realizzare il progetto del figlio, e chiede che gli sia dato uno degli dèi “fratelli”, perché sia sacrificato al fine di creare l’uomo. Marduk allora si rivolge a tutte le divinità, e chiede che gli sia portato il responsabile della rivolta ed organizzatore della battaglia, qui addirittura descritto come colui che avrebbe indotto e convinto Tiamat alla guerra. E un ecce homo che questa volta vede punito il colpevole, mentre un dio incolpevole la scampa. Il colpevole è Qingu, che viene portato davanti ad Ea e dissanguato. “Con il suo sangue Ea creò l'umanità” Viene così creato l’uomo, al quale viene imposto di esercitare il lavoro che fino a quel momento era stato appannaggio degli déi. A questo punto Marduk, ormai dittatore assoluto, divide gli dèi in due gruppi: 300 in cielo, assegnato ovviamente ad Anu, ed altri 300 per regolare il funzionamento della terra. Sono poi gli stessi dèi Annunaki che si offrono di costruire Babilonia (come quegli stolti che si sentivano onorati di spingere il carro dei vincitori, a dimostrazione di eterna sudditanza). Lavorano per un anno intero, i tapini masochisti. Il secondo anno costruiscono il tempio Esangila (il “Tempio dalla testa/sommità che si innalza”), e realiz-

zano anche la Torre famosa. Tutti gli déi trasferiscono nell’Esangila il loro luogo di culto, vale a dire la loro cella dove istallare la statua, insomma il loro posto a tavola fisso e personale. Babilonia diventa così il centro religioso più importante, una specie di La Mecca, o di San Pietro. E come d’uso e d’ordinanza, ecco il banchetto a lavori conclusi”. Le frasi successive (in verità anche diverse frasi nei brani precedenti) non risultano chiare nel contesto di tutto quanto l’episodio. Ora i grandi déi sono 50, ed incaricano delle decisioni future % Non posso dimenticare quando, come figlio del progettista e direttore dei lavori, partecipavo ai banchetti che si tenevano per celebrare la fine di una fase, o di quella definitiva, della costruzione di un edificio (in particolare ricordo il Seminario

vescovile di Fidenza), sancita da uno sventolante tricolore situato

alla sommità. Vi partecipavano tutti gli operai, muratori, artigiani. E chissà che anche quegli dèi, o meglio quegli uomini che avevano costruito il complesso templare di Babilonia, non abbiano fissato l’emblema di Marduk in cima all’Esangila, o addirittura sull’ Etemenanki, la Torre di Babele!

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le divinità che dovrebbero stabilire il destino. Queste divinità sono 7, e va bene, si comprende il significato simbolico. Ma perché 50?

Spiegazioni date finora non mi sembrano convincenti. Si passa poi ad ammirare le armi vincenti, come già ci fosse un'esposizione museale, come la spada di Napoleone al Palazzo reale di Torino: la rete ma soprattutto l’arco, a cui si attribuiscono vari nomi significativi. Poi Anu realizza per Marduk un trono regale superiore a quelli degli altri dèi, che si inchinano al nostro eroe e giurano portandosi la mano alla gola, gesto solenne che ancora oggi i Massoni compiono nel loro impegnativo saluto. La dossologia in onore di Marduk si prolunga oltremodo, con le solite frasi laudative che terminano però con una affermazione interessante: si afferma cioè che, nel caso che gli uomini si trovino ad avere reciproca ostilità a causa delle loro divinità personali, Marduk deve essere considerato il solo dio, in qualsiasi modo lo si chiami. Un po’ come se si ricordasse che esiste un unico Dio fondamentale e comune a Napoletani e Milanesi che litigano sulla superiorità di San Gennaro o Sant’ Ambrogio. È uno spunto, primitivo quanto mai, ma autentico, per una

forma di monoteismo: ognuno può avere il suo dio minore, il suo piccolo santo protettore, ma l’Entità suprema è solo una ed è sempre quella, che la si chiami Dio, Allah, Jahweh o Grande Architetto dell'Universo. A Marduk vengono dati 50 nomi: 50 come le divinità citate sopra, quasi ad indicare che le contiene tutte. Ogni nome, quasi sempre scritto in sumero, ha un adeguato commento ed un preciso significato. Si va dalla solita esaltazione delle sue imprese all’opera benefica che ha svolto in favore degli dèi, ma anche degli uomini, quale creatore dell’armonia del creato e delle risorse umane. Troppo lungo, e per noi non particolarmente eccitante, è questo elenco elogiativo in cui Marduk figura dominare su tutto e regolamentare tutto. Si arriva addirittura a chiamarlo Adad, come se fosse lui il dio della pioggia e del temporale, forse a significare che Adad agiva esattamente come Marduk voleva. Alla fine della tiritera, ricca di epiteti e descrizioni che si possono effettivamente attribuire ad un dio unico creatore e signore del cielo e della terra, Marduk viene definito creatore anche degli

Inferi. Ora rispunta Enlil, in realtà alquanto dimenticato finora, dato che se ne era fatto solo un cenno. Enlil viene definito “suo padre” ma in realtà, visto che risulta figlio di Anu come già Ea, Enlil sa63

rebbe piuttosto suo zio. Bisognava pure in qualche modo giustif icare, quanto meno in sordina, questo passaggio di poteri da Enlil a Marduk, e sembra che lo si voglia fare a questo punto. Enlil, come se consegnasse a Marduk il testimone della sua potenza, gli conferisce il titolo di en.kur.kur, “Signore dei paesi”: di tutti i “paesi”, e dunque anche degli Inferi. Ricompare sulla scena Fa, che dà a Marduk il suo stesso nome. In tal caso dunque padre e figlio, Ea e Marduk-Ea, si identificano, dato che tutte le disposizioni che Ea aveva elaborato e stabilito, ora Marduk è stato in grado di attuarle con una globale organizzazione. Questa identificazione padre-figlio si risolve, alla fine, anche con lo zio, perché Marduk viene chiamato “/’Enli! degli déî”, a definitivo suggello della nuova regalità, che prima era conferita a Enlil. Questi 50 nomi diventano così una specie di rosario esposto e recitato persino dai padri ai figli, una summa di verità rivelate che potrebbe anche apparire, oltre che esagerata, addirittura sfacciata, tanto che Marduk, alla fine, ci può diventare anche antipatico. ***

L’Enùma

eli$ è opera

unica nella letteratura

mesopotamica.

Certamente ci è utilissima, perché la sua narrazione inizia dai

primordi del cosmo, ma è una composizione alquanto tarda. Comunque, pur rielaborando i miti in modo del tutto originale, non ha tuttavia completamente dimenticato la mitologia precedente. I racconti che vi sono riportati permettono di risalire nel tempo a scovare credenze e convinzioni più antiche, allora note ma poi modificate ed alterate. Poiché le vicissitudini dell’olimpo divino sono state ovviamente influenzate da quelle terrene, è ovvio che nuovi fatti ed accadimenti erano nel frattempo avvenuti, via via modificando le concezioni che gli uomini avevano sui presunti fatti del cosmo. La lotta tra un essere mostruoso ed un dio liberatore era stata già bene attestata nei periodi precedenti: Tispak, Ninurta e compagni erano divinità di volta in volta nuove, che si imponevano man mano che venivano alla ribalta della storia nuove forze e nuovi poteri. Forse i mostri erano, almeno in parte, una trasposizione mitologica delle rozze tribù montanare, che hanno sempre sferzato la Mesopotamia con le loro invasioni:

i Turukku, i Gutei. E forse

non è un caso che Qingu sia un nome straniero e incomprensibile. Tra gli evidenti cambiamenti che si sono succeduti nei miti e dunque nella mentalità umana, vedremo come sia mutata la concezione che si era fatta sulle cause della creazione dell’uomo. È 64

rimasta più meno intatta quell’idea che deve essere stata presente da sempre, cioè quella che fa dell’uomo un sostituto degli déi, incaricato di assumersi tutti quei lavori atti a mantenerli, e che prima era compito degli dèi stessi. L’Emzma elis lo dice più volte espressamente, e più volte ritroviamo questo concetto nelle composizioni precedenti. Ma altri fatti, come la ribellione degli dèi minori, che vedremo ben documentata, qui sono dimenticati. Cambia anche, come vedremo, la natura del dio sacrificato,

così come cambia il fattore di questa creazione: dapprima era Enki/Ea, in un’epoca in cui Marduk nemmeno si conosceva, ora

è Marduk suo figlio, che con lui si identifica, e che fa tutto, crea tutto, è tutto. Una considerazione a parte si potrebbe fare anche sulla ‘“genitrice di tutto”. Abbiamo già visto che in epoche preistoriche sembra che la figura genitrice della magna mater abbia imperato nella convinzione umana, senza alcun ’compagno” che le si affiancasse, se non altro per fecondarla. Qui invece sembra che sia stata compresa la necessità dell’esistenza di questo “compagno”, che si è voluto concretizzare nella figura di Apsù, che si immagina appunto come fecondatore ma comunque di poca importanza e successivamente eliminato. Con l’Enuma elis siamo davanti ad un’opera originale che ha fatto tesoro di miti precedenti, aggregati, modificati, rivitalizzati, che potremo almeno in parte riconoscere man mano che li incontreremo. Tuttavia, come è obbligatorio risalire nel tempo (e lo faremo), ugualmente è obbligatorio quanto meno accennare a composizioni successive che sono echi, con tutta evidenza, dell’Enuma elis, a riprova della considerazione e dell’importanza che quest’opera ha avuto nei secoli successivi. Nel III secolo a.C. un sacerdote di Marduk volle far conoscere ai Greci macedoni conquistatori della Babilonia la mitologia mesopotamica. La sua opera, BafvAw;viaka, è andata in gran parte perduta e ne conosciamo brani solo perché riportati da vari autori: Polistore, Abideno, Eusebio di Cesarea, Sincello*°. È singolare il fatto che possediamo opere, come l’Enuma elis, molto antiche se non antichissime, complete o quasi, mentre altre di autori molto più recenti, come appunto Beroso, sono quasi del tutto perdute e addirittura note perché di seconda se non di terza mano. Colpa o merito del fuoco, che ha distrutto papiri, legni e pergamene, ma ha ulteriormente cotto le tavolette di argilla. Così da una parte abbiamo le lettere del segretario di Cicerone riportate in codici medioevali, dall’altra abbiamo gli originali delle lettere del segretario di Hammurapi

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Questo sacerdote era Beroso*”. Nel brano che ci interessa e che

era compreso nella sua opera si ricorda che l’universo altro non era che tenebre ed acqua, e fu allora che sorsero esseri mostruosi e bisessuali. Beroso li descrive: esseri con più ali o più parti del corpo (e qui ricordo ancora il bronzetto nuragico) oppure mescolanze di attributi umani ed animaleschi, tra cui evidenti suggerimenti della mitologia greca: alcuni con le zampe di capra (ricordano i Satiri), altri con la parte posteriore equina e l’anteriore umana (come i Centauri), oppure tori dalla testa umana (e sono invece i locali lamassu, che forse non escludono uno strano Minotauro), cani con quattro corpi (un Cerbero ancor più potenziato?). Erano immagini che si trovavano nel tempio di Bel/Marduk*, e di cui parla

anche l’Enuma eli$, anche se in realtà dovevano essere, a parte i lamassu, altri tipi di animali mostruosi. Fin qui, reminiscenze greche più che mesopotamiche. Ora però la scena cambia, perché Beroso afferma che era a capo di tutti una donna, chiamata Omorka: strano nome, che si è voluto avvicinare ad

una definizione di Tiamat presente nell’Enuma eli$ : Ummu-habur, cioè “madre dello habur”, che sarebbe un fiume infernale, o addi-

rittura indicherebbe gli stessi Inferi. In ogni caso, intendere quanto meno la prima parte del nome, omo = ummu (‘madre’) non sembra sbagliato. Singolare è poi il fatto che Beroso afferma che la traduzione greca di questo nome era BaXatta, “mare”, evidente accostamento a Tiamat. Detto ciò, Beroso ricorda che Bel (è un altro nome, o meglio epiteto, di Marduk) tagliò in due questa donna, e che con una metà fece il cielo e con l’altra la terra, dopo avere annientato tutti i mostri che stavano con lei. Dopo di che, Bel tagliò la sua stessa propria testa, ed altri dèi ne mescolarono con la terra il sangue che ne era scaturito. Nacquero così gli uomini, dotati di intelligenza e di parte della saggezza divina”. Altrove veniamo a sapere che Bel altri non era che Zeus, e che aveva separato le tenebre, diviso la terra dal cielo ed organizzato Preferisco scrivere Beroso e non Berosso perché credo che il nome derivi dall’accadico Ber-usur (“O dio Ber, proteggi[mi] !”) * Giova ricordare che il teonimo Bel, divenuto un altro nome di Marduk, ha

un significato in realtà generico: “Signore”. Così anche oggi è un appellativo di Dio (o di Gesù Cristo). Per i Fenici era Baal * Reminiscenza della dea Minerva (la sapienza) scaturita dalla testa di Zeus, spaccata in due?

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il mondo. La separazione delle tenebre aveva ovviamente creato la luce, perché viene detto che, all’apparizione della luce, erano scomparsi i mostri (sembra quasi il risveglio dopo gli incubi notturni). In questa seconda versione berosiana il dio Bel non si suicida, ma molto più opportunamente ordina ad un altro dio di tagliarsi la testa (armiamoci e partite). A questo punto, a dire il vero un po’ tardi, Bel crea il sole, la luna ed i sette pianeti. Il tutto viene riferito da Eusebio di Cesarea secondo quanto aveva scritto Polistore. Ma Eusebio ha voluto ricordare anche la versione berosiana di Abideno, secondo cui, in

estrema sintesi,tutto all’inizio era acqua, che si chiamava 0a).aoca (“mare”). Dopo averla soppressa, Bel assegnò a ciascun essere il proprio territorio e circondò di mura, cioè fondò, Babilonia. Un caso curioso e molto interessante è costituito da un altro autore, Damascio, un ateniese del V secolo d.C. (si badi: dopo !). Parlando dei Babilonesi, nella sua opera Aporie Damascio dice che credevano che all’inizio ci fossero due principi dell’universo: Thaute e Apason. Non è difficile riconoscervi Tiamat e Apsù. Thaute era la madre degli dèi e Apason il suo sposo. Da questa strana coppia era nato un certo Moumis (che sembra il Mummu dell’Enuma elis), il quale Moumis dovrebbe rappresentare, secondo Damascio, il mondo intellegibile. Ne era nata poi un’altra generazione: Daché e Dachos, che dovrebbero corrispondere a Lahmu e Lahamu?”, ed una terza ancora: Kissaré e Assoros (evidenti deformazioni di Kisar e AnSar), genitori a loro volta della triade Anos, Illinos e Aos: sono Anu,

Enlil ed Fa”. Damascio si è concentrato, a questo punto, sul solo Aos(-Ea),

che insieme a Damke (= Damkina) generano Bel, ‘* ... e dicono che costui fu il Demiurgo”. Stupefacente è il protrarsi di tali conoscenze (non teorie: Beroso e Damascio pensano a questi miti come metafore, non realtà). Dobbiamo allora pensare che non furono i miti più antichi, ma la loro finale sintesi e summa, l’Enuma elis, sia pure con modifiche ed adattamenti, a rappresentare nei secoli successivi la concezione mesopotamica del cosmo, dell’uomo e degli dèi. 5° È stato fatto osservare che la corrispondenza dei nomi in Damascio e quelli dell’Enuma eli$ è più convincente e concreta se si suppone che alla /amda greca (A) sia stato aggiunto per errore un trattino alla base, dando così luogo a delta (A) 5! La citazione di Enlil fa supporre che la fonte di Damascio sia stata un’altra versione dell’Enuma elis

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Ai tempi di Beroso e di Damascio (compresi gli 8 secoli che li separano) l’Enima eli$ aveva ormai perso, ovviamente, il suo valore storico (dato che certamente risente, in qualche punto, di vicende accadute). E a questo punto sono importanti quelle composizioni precedenti che trattano, sia pure con meno evidenza, i temi che vogliamo focalizzare. Li facciamo precedere però da alcuni testi all’incirca dello stesso periodo (c. I Millennio). RR

Rimanendo dunque a testi non antichissimi, non vanno dimenticati quelli che parlano di Enki/ Ea come ordinatore delle cose. Vedremo che secondo antiche credenze la triade divina era Anu-Enlil-Ereskigal, apparentemente presenti dal principio, almeno per quanto riguarda il Cielo-An (ma in realtà troveremo un certo Alla come vero patriarca, padre di Anu). Tuttavia agisce spesso, come autentico protagonista, Enki, il dio più intelligente e acculturato. Suo epiteto era il sumero nu. dim.mud, che lo definiva come produttore, facitore di tante cose.

Appare per esempio in un formulario accadico attestato in più copie all’inizio del I Millennio (Bottéro, Mvytes et rites de Babylone, Paris 1985). Si tratta del principio di una preghiera: “Quando Anu (= il Cielo) ebbe generato il Cielo, ed Ea ebbe sistemato le piante sulla Terra ...”. Non penso, come invece ha forse creduto qualcuno, che si volesse esprimere l’idea di una immediata sequenza: in effetti Anu crea il Cielo, poi avviene una serie di fatti che non interessano, poi arriva Ea che comincia a sistemare le piante secondo un loro ordine organico e intelligente. Un altro testo, anch’esso documentato dal primo Millennio, è

assai più esplicativo. Si tratta di una preghiera liturgica (Weissbach, Babylonische Miszellen, 32 n° 12 e tav.12), che comincia con “Quando Anu ebbe creato il Cielo”, ma che poi passa senz’altro ad Ea “quando ebbe creato l’Apsù”. Qui l’azione di Ea è particolarmente rivolta alla creazione ed all’organizzazione di un tempio, prototipo di tutti i templi futuri. Possiamo dunque immaginare che sia stato dato ad Ea l’incarico di sistemare una terra ancora abbandonata a sé ed incolta,

per regolarizzare i suoi aspetti e renderla, in ultima analisi, ‘“civile” (l’abbiamo già incontrato a sistemare le piante). Lo vediamo dunque nella veste di En-ki, “signore della terra” secondo il suo nome? Può essere, ma può essere anche il contrario: è Enlil il Signore della terra, ed Enki l’incaricato di sistemarla per bene. 68

Anticipando la creazione dell’uomo, Ea trae dall’Apsù, regno dell’acqua sotterranea, una zolla: dunque terra impastata con l’acqua, con la quale dà luogo alla creazione del tempio, realizzando anzitutto il dio-mattone, ed utilizzando legno e canne (per la copertura e la stratificazione dei muri). La “creazione” di tutta una serie di déi, che segue subito dopo, non è altro che la messa in opera di vari elementi e sistemi adatti all’elevazione ed al perfezionamento dell’edificio. Possiamo intendere questi “dèi” come “sovrintendenti”, ognuno per quanto lo riguarda, ai vari particolari della costruzione, o semplicemente meri prodotti, deificati (o meglio divini) perché nati da un dio ed utilizzati per un sacro tempio (abbiamo visto il dio-mattone). Seguono dunque, sotto forma di dèi, il basamento/fondazione, il fabbro per gli elementi metallici, nonché un dio generalmente inteso come dio della giustizia (Arazu) che vuole forse significare la regolarità e l'armonia dei lavori. Sono nominati altri dèi che sembrano riferirsi alla statua che prenderà posto nel tempio: ecco dunque oro, ornamenti, vesti preziose per abbellirla e valorizzarla. Fatto il tempio, realizzata la statua del dio, ecco che ora bisogna creare tutti i presupposti per la sua sopravvivenza: mari e montagne da cui trarre cereali, bestiame minuto, ingredienti per la birra, alberi da frutta commestibile, leguminose. Pare che si passi poi all’elaborazione dei cibi e delle bevande: dopo l’utilizzazione dei frutti della pesca, della caccia, della raccolta, dell’allevamento, non si arriva proprio a un’ Accademia della Cucina, ma comunque c’è un passo fondamentale nella storia della civiltà. Le due ultime creazioni di Fa sono kù.sù ed il Re. Di Kusu si sa poco, se non che era un figlio di Ea, e che pare corrispondesse ad un “Sovrano del letto”. Visto che nel tempietto della zikkurat c’era (vedi Erodoto) un letto, non è escluso che nel tempio conce-

pito da Ea ci fosse un letto per il riposo del dio. Ovvio, poi, che ci sia un Re per sovrintendere al tutto. Ed alla fine, ecco che Ea crea l’umanità. I nomi di persona degli dèi sono in sumero, ma tra questi c’è anche un Lahar, che vedremo in quella strana teoria di coppie citate nel Mito di Dunnu, dove forse indica il bestiame allevato. La 5 Cfr. anche “Kusu, capo esorcista dei grandi dèi” ved. Lambert, Babylonian Creation Mvths, 375:r. 5; 380: 36

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cosa non deve stupire. Può essere, certamente, che popoli diversi o in tempi diversi abbiano di volta in volta collocato una divinità in luoghi e tempi differenti, ma in questo caso deve trattarsi semplicemente del fatto che il nome della divinità indica l’elemento che sovrintende e che sta a significare. x»

Di difficile collocazione cronologica (è in una tavoletta del VI secolo), ma comunque, sembra, risalente a non prima della seconda metà del II Millennio, c’è un testo che vorrei riportare a questo punto, e che sta nella prima parte di una preghiera per il rituale di edificazione di un tempio, e che allude al primo Tempio, alla prima Dimora degli déi. Lo si cita come Preghiera per la costruzione di un tempio (Borger, “Bibliotheca Orientalis” 30,1973, 179 sg.) Qui la triade esclude Freskigal, al cui posto sta Ea. Dunque quando Anu, Enlil ed Ea presero possesso(?) del cielo e della terra, per provvedere al sostentamento degli déi (cioè di loro stessi? O al sostentamento di altri déi, nati nel frattempo?) prepararono una piacevole Sede, il loro Tempio principale. Non è escluso che si tratti, in buona sostanza, dello stesso Tempio che abbiamo visto nella precedente composizione, tant'è vero che viene detto che questa Triade affidò al Re il compito di provvedere al mantenimento dello stesso Tempio ed al banchetto divino”. Il testo finisce anche qui con l’allusione all’umanità. Difficile è la traduzione del verbo afrazu, che collega la triade al cielo ed alla terra. Generalmente il verbo significa “prendere”: questi dèi “presero”, cioè si impossessarono del cielo e della terra? Sappiamo che gli dèi “crearono”, oppure “divisero” queste due grandi entità, e allora forse il concetto è questo: dopo aver creato/diviso cielo e terra, gli dèi ne presero possesso. Lift

Vorrei aggiungere a questi testi una preghiera bilingue per la fondazione di un tempio, databile non oltre la fine del II Millennio.

E il momento in cui Marduk è creatore" (gli altri dèi non sono nemmeno nominati). Secondo questo testo (Pinkes. “Journal of Royal Asiatic Society” 1891, 393 sg.; King, CT 13, 35 sg.)

5 È molto probabile che si tratti del banchetto degli dèi a cui si allude nell’operetta Nerga! ed Ereskigal “ Ved. anche Lambert, Babylonian Creation Myths, 371 sg. (The Founding of Eridu)

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tante realtà (le canne, gli alberi, i mattoni, le case, le città) ancora non esistono. Ecco che vengono i nomi delle principali città mesopotamiche, con il loro tempio principale: Nippur con l’Ekur (tempio di Enlil), Uruk e l’Eanna (Tempio di Anu), e l’Apsù con la città di Fridu (consacrata a Ea). Ma non esistevano nemmeno queste città e questi templi. Nulla di quanto elencato allora esisteva. Non c’era che Mare! Su questo mare non si può costruire, ed allora interviene Marduk che crea evidentemente un suolo solido. È una separazione della terra dal mare. Ecco allora che appaiono le prime costruzioni. Potrebbe sembrare strano che prima venga nominata Eridu, la città di Ea, e poi l’Esangila, il tempio di Babilonia consacrato a Marduk; ma dobbiamo considerare che Marduk era figlio di Fa e che dunque alcune priorità (padre-figlio) dovevano essere rispettate. Già da qui Babilonia assume un’importanza fondamentale, sancita dagli Anunnaki, gli dèi creati da Marduk e divisi in due gruppi uguali. Il testo passa poi a raccontare come Marduk sia riuscito a creare questi edifici, data l’esistenza del mare: sulle acque ha costruito una piattaforma su cui ha ammucchiato la terra”. Sembra che così sia stata creata la terra, concepita come un’enor-

me zattera che galleggia sul mare””. Non viene comunque riferito da dove Marduk abbia preso la terra che ha ammucchiato. È a questo punto che nasce il resto. È Aruru, la dea generatrice, che crea l’umanità, perché gli dèi possano oziare, ed essere quindi esentati dal lavoro, compito ora dell’uomo. Ecco poi gli animali selvaggi, 1 fiumi Tigri ed Eufrate, canne ed alberi, e gli animali domestici, i bovini e gli ovini, ed infine le

città e i templi, quelli stessi che prima erano stati elencati come non ancora esistenti. **

*

5 C’è qui tutto un crescendo: prima i materiali naturali da utilizzare per la costruzione: canne e alberi; poi il materiale artificiale (i mattoni); infine le co-

struzioni ed il loro insieme che forma le città $6 Una crux interpretum è ai versi 11-12, tradotti da Bottéro “quando il contenuto di questo Mare non formava ancora che un fossato (?)”: fossato paragonato alla “fessura” che viene citata nella “Teogonia di Dunnu”, che vedremo. Credo invece che si volesse alludere al momento in cui sul mare non c’era ancora nulla, e dunque era come una conca, un “fossato” pieno d’acqua. E allora che Marduk vi mette sopra la terra 57 Il testo dice anche: ‘fece una colmata di terra sul bordo del Mare”. Non credo che qui si intenda che questa mare aveva dei limiti, un bordo. Si tratta invece del bordo del mare intorno alla zattera-terra

Hi

Città, fiumi, prodotti della terra, nascita della terra. Solo la terra? E il cielo? Il cielo era di Anu, ma nel cielo ci sono entità

importantissime, che non vanno dimenticate. Alla metà del II Millennio risale un grande Trattato di Astrologia (Virolleaud, L’Astrologie chaldéenne, 1907, 12 N.1), composto di osservazioni ed oracoli. L'introduzione era scritta in sumero, ma anche in accadico: due versioni non precisamente coincidenti. Anche qui la triade è formata da Anu, Enlil ed Enki (nella versione accadica: Ea). Nel testo sumerico viene detto che la triade divina, quando concepì il cielo e la terra, tra le più importanti decisioni che prese ci fu quella di creare la Luna (la nave di Sîn = la falce lunare), da cui vennero il giorno ed il mese, per favorire i presagi. Ed ecco apparire anche le stelle. Nella versione accadica invece, i grandi dèi, quando progettarono il cielo e la terra, incaricarono le divinità astrali maggiori (presumibilmente Luna e Sole) di creare il giorno ed il susseguirsi dei mesi.È da allora che si vedono il sorgere del Sole ed il brillare delle stelle. In altre parole, nel testo sumerico si parla solo della Luna (con il contorno delle stelle) su cui si basa lo scorrere del tempo: il giorno (quando c’è, e quando non c’è: la notte) ed il mese che dipende, appunto, dalla Luna e dalle sue fasi. Il testo in accadico, invece, parla degli astri al plurale, dunque include il Sole in questa opera generatrice del giorno e dei mesi. Ed infatti conclude nominando soltanto il Sole, dominatore del

giorno e totalmente assente di notte. Sembra quasi che ci si sia accorti che durante il giorno, che è il periodo della vita in cui maggiormente si vive, si opera, si realizza, è il Sole che domina. Ed è forse per introdurlo in questo nuovo concetto che il Sole è stato concepito come figlio del dio Luna, con una (per noi) eretica metatesi che ci sopprime la dolce luna, la verde luna, la luna caprese e la luna rossa che me parla ‘e te. C'è un particolare in più: a circa un terzo del trattato è inserita un’altra versione, in accadico. Non vi si parla di una vera e propria “creazione” del cielo e della terra. I grandi déi (anche qui c’è Fa) stabiliscono le varie posizioni degli astri, le loro costellazioni, i

loro movimenti, ed è così che fu stabilita la durata del giorno, della notte, dei mesi e degli anni, con il cammino del Sole e della Luna. Questo testo è dunque da una parte più vago, perché né Luna né Sole sono i protagonisti, dall’altra è invece più preciso e puntuale. 104

Da questi tre brevi prologhi si deduce un fatto importante: è la triade divina che crea gli astri e quindi anche la triade astrale, dove troveremo anche Inanna. ®RkA*

Un altro testo bilingue sumero-accadico contiene una invocazione al dio Sole, ma ad ogni citazione del suo nome (utu), parla di tempi lontani, quando il cielo fu separato dalla terra, ci fu una distinzione tra notte e giorno, e finalmente furono elevate le abitazioni, si formarono i fiumi e le montagne, cielo e terrà si (ri)unirono, e gli dèi Anu ed Enlil si attribuirono il cielo e la terra, concedendo agli Anunna (l’insieme degli altri dèi) di primeggiare sui paesi. Fu allora che la triade (qui compare anche Fa) hanno fatto sì che il Sole fosse “i/ grande signore in cielo e in terra”. Il testo, piuttosto recente, può essere chiamato Scongiuro a Sama$ (von Weiher, Spàtbabylonische Texte aus Uruk III, 1988, 277 sg.). **kA*

Tra le composizioni non antichissime vorrei includere anche una Tenzone fra due animaletti (CT 13, Tav.34). Com’era normale

a quei tempi (e lo sarà anche nel seguito della letteratura) nella Mesopotamia venivano composte delle specie di operette, che chiamiamo “tenzoni”. Vi vengono messi a confronto i rispettivi meriti di due contendenti. Era un sistema per insegnare, anche ai bambini, l’utilità di due strumenti, o di due vegetali, o di due animali, quasi a volere dimostrare che ogni cosa ha il suo valore, e che dunque deve essere rispettata. In queste “tenzoni” può succedere che si voglia risalire alle origini dei due contendenti, un po’ come certi autori di oggi che, volendo chiarire la natura di alcuni argomenti, risalgono, come si suol dire, ad Adamo ed Eva. Il testo sarebbe del I Millennio, ma non si può escludere che sia più antico. Anche qui c’è un prologo, in cui si narra che i grandi dèi, quando ebbero concepito e creato [il cielo e la terra], realizzarono poi gli animali, suddivisi in bestie selvatiche e domestiche. * *k>*

Vorrei riportare, a questo punto, un elenco di testi che W.G. Lam-

bert° ha voluto avvicinare all’Enuma elis. Sono: 1.

Iscrizione sumerica di Kudur-Mabuk®

5 Babylonian Creation Myths, 172 5 Era un re dal nome elamita, padre del sovrano di Larsa (prima metà del XIX secolo a.C.)

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2.

L’Esaltazione di IStar

3.

Iscrizione su una statua di Kurigalzu®

4.

Due paragrafi dell’Introduzione a Enuma Anu Enlil

5.-7. (Altri accenni minori). Nell’Iscrizione di Kudur-Mabuk troviamo un accenno al dio-Luna Nanna, a cui si deve l’alternanza giorno-notte e l’istituzione dei mesi e degli anni, mentre nell’Esaltazione di IStar, che incontreremo più oltre a proposito della dea, a un certo punto si dice che quando Anu, Enlil ed Ea, nel momento in cui crearono i

fondamenti del cielo e della terra e le costellazioni, assegnarono le parti e concessero al dio-luna Nanna ed al dio-sole Utu il giorno e la notte in parti uguali (ma posero Inanna come loro pari, se non sopra di loro). | Invece il testo sumero che si trova in un frammento dell’iscrizione apposta su una Statua di Kurigalzu (un re cassita, ved. nota) è alquanto oscuro. Sembra comunque che si riferisca alla creazione del dio-luna Nanna ed alla sua capacità di dividere i mesi in 30 giorni, per passare poi al dio-sole Utu ed alla sua capacità di fare luce. Infine, tralasciando gli ultimi accenni a frammenti e spezzoni di testi, si passa ad una composizione bilingue chiamata Enuma Anu Enlil Enki/Ea, in cui ugualmente questa triade concepisce la nascita del dio-luna. *o*

*k

Passiamo ora ad opere più antiche. Nell’epoca di Hammurapi, quando già Marduk era all’apice della struttura piramidale degli dèi, ma ancora insieme alle altre divinità ben presenti ed attive appena appena sotto di lui, è stato composta un’opera di enorme importanza. Viene chiamata dal nome (0 meglio soprannome) dell’uomo suo protagonista Atra-hasis, oppure, dalla traduzione di questo nome, Il grande Saggio. La riporto qui, prima di risalire, per quanto è possibile, alle concezioni più antiche e sumere, perché qui i miti vengono raccontati in una forma molto più articolata e complessa e la narrazione è più lunga e più specificata. Il testo che possediamo, scritto in accadico, è di circa un secolo dopo la sua composizione. Conosciamo anche il nome dello °° Uno dei re cassiti con questo nome (XIV) secolo a.C.)

9 Lambert, cit., 176 sg.

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scriba che lo ha copiato: nome discusso, ma che leggerei Ku-Aja, ‘(Il neonato) è tuo / appartiene a te, o Aja” (la dea Aja era la paredra del dio-Sole). Le linee originali erano più di 1200, ma ne conosciamo circa 2/3. Nel corso dei secoli questa composizione ha subìto, a differenza dell’Enuma elis, rimaneggiamenti e modifiche, ma solo parziali. L’integrità del racconto può essere riconosciuta dalla versione più antica, che è anche quella più ricca e quasi completa??. Ma veniamo a noi. L'inizio del racconto è collocato in un’epoca intermedia fra la creazione degli déi e quella degli uomini, cioè “Quando gli déi gli uomini”, frase discussa ma che, dal contesto, sembra di capire che vada intesa come: “Quando gli dei (erano come) uomini”, cioè “Quando gli dèi (erano come saranno poi) gli uomini”. In altre parole: quando dovevano lavorare. Insomma, in quei tempi gli dèi si comportavano alla maniera umana. Poveracci ! Per campare, dovevano lavorare. Una fatica immensa. Già, ma quali dèi? A lavorare erano messi gli Ighighi, divinità minori. Superiori erano invece gli a.nun.na,

o Anunnaki,

che nella letteratura mesopotamiche rivestano varie funzioni spesso contrastanti. Li abbiamo già incontrati (creati da Marduk!) e la loro presenza è attestata persino agli Inferi. Erano un cospicuo gruppo di divinità, a volte molto importanti, a volte messi a fare da coro alle tragedie: gruppo di qualsivoglia natura, talvolta bassa, talaltra, come qui, altissima. Qui il termine indica il gruppo dei “grandi dèi”. Sono infatti i “grandi Anunnaki”, le divinità superiori in numero alquanto considerevole, che formano come un’alta corte divina, la suprema assemblea. Il loro numero non è sempre fisso. In una litania emesal, cioè in lingua femminile”, ne troviamo 300 in cielo e 600

nell’oltretomba ‘5. Vengono inoltre enumerati 50 “grandi dèi” e i 7 (Sibitti) “dèi dei destini”. Ma riprendiamo // grande Saggio. Il loro re era Anu, che era anche il loro padre, il capostipite divino Enlil era il loro maliku, termine che di per sé può significa6 Tra le varie opere cito almeno quella specifica di W.G. Lambert e A.R. Millard, Atra-hasis.

The Babvlonian Story of the Flood (Oxford 1970), nel caro

ricordo che una copia mi è stata donata, a Birmingham, dallo stesso Prof. Lambert nel Maggio 1973 6 Su questo punto ved. G. Pettinato in “Oriens Antiquus” 9/1 (1970), 76 % Ved. Lambertt, cit., 193

6 Qui ki indica la “terra (di sotto)”

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re anche “sovrano” (e così qualcuno lo ha tradotto), ma la radice stessa *m/k suggerisce il termine: “consigliere”: quasi un Primo Ministro. Insomma, Enlil è il vice che dice/decide cosa fare, ed Anu, con la sua autorità, lo avalla.

Seguono dèi minori rispetto ai primi due, ma pur sempre di grande importanza: Ninurta il guza/î, cioè il portatore del trono, elemento indispensabile per esercitate la regalità®, e poi Ennugi, il loro kallà, “messaggero”, incaricato di riportare le parole del re,

quasi un araldo. Nominati così questi illustri signori, il testo ci racconta che si erano l’un l’altro stretti le mani (come un accordo orale, ma sem-

pre solenne, quale ancora si usa fare tra i bovari dell’ Appennino emiliano), decidendo di gettare la sorte (isgam iddu) e di assegnarsi così i vari compiti e ruoli. Dunque, secondo almeno questa mentalità “democratica”, gli dèi non erano nati già con il loro specifico mondo, ma ad Anu

toccò il cielo, [Enlil occupò(?)] la terra, e ad Enki fu data la possibilità di [varcare] la. porta del mare (sotterraneo). A questo punto gli Anunnaki (i soliti tre ma anche gli altri dèi importanti) imposero agli dèi minori, gli Ighighi, il durissimo lavoro necessario per mantenere tutti quanti. Quale che fosse, nella sua imprevista e incoeren-

te varietà, la natura e la funzione degli Ighighi, qui almeno è chiara. Il mondo degli uomini si riflette così paro paro nella natura degli dèi, che non poteva che ripetere pedissequamente lo status di chi li aveva inventati. Questa povere divinità scavarono canali ottenuti dalle acque del Tigri e dell’Eufrate®?. Sembra che dal loro lavoro siano nate le montagne e sorti anche gli acquitrini del sud, ma alla fin fine stanchi, esasperati, sopraffatti dalla fatica dopo tanti anni di attività diurna e notturna, non ce la fecero più e si ribellarono. Chissà, forse fu la prima vera autentica rivendicazione sindacale nella storia, che con vero interesse e partecipazione riusciamo a stento a seguire nonostante le gravi lacune del testo, e che comun-

que riusciamo (miracolo degli Assiriologi) a integrare con frammenti e frammentini pescati nell’immensa miniera del Cuneiforme. °° O forse era il portatore del trono con Anu insediato, come quegli aristocratici romani che portavano a spalla il Papa seduto sulla sedia gestatoria? °° A proposito del lavoro imposto agli dèi minori, alla linea 5. il numero 7 è controverso. 1 7 Anunnaki (Lambert-Millard)? Una settuplice pena (Bottéro)? L'ultima proposta è più accettabile: il settuplice lavoro può indicare che era il massimo, e dunque la fatica più insopportabile che mai

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Questa sommossa semidivina è stata il riflesso di una vera reale rivendicazione storica? Ha anticipato di millenni le rivolte contadine contro caporali e latifondisti intenti ‘a sfruttarli? O le rivolte dei minatori, o degli operai stanchi di lavorare per gli altri molto più che per sé stessi? O si tratta solo del riflesso di un innato desiderio di libertà, mai accontentato e qui divenuto solo una semplice fantasiosa trasposizione poetica? Certamente non è stato il povero ed ignorante popolo-bue a trasferirlo nel mondo degli dèi, considerata la bocca tarpata ed impedita di registrare alcunché senza avere in mano uno sterile stilo dell’ignorante illetterato analfabeta. Sono stati gli scribi ad inventare i fatti ed i misfatti degli déi. Ma non è certo escluso che abbiano preso ispirazione ed argomento da qualche fatto concreto, ed abbiano poi scritto tutto quanto, giusto per ammonire ed avvertire che le sommosse non avevano una fine felice. Da qualche parte del mondo mesopotamico di allora forse un ignoto eroe della storia ha voluto farsi capo e carico di una massa di poveracci costretti a schiattare per un qualche potere. E se così è stato, sarei lieto di dedicargli il mio ricordo, questo libro e la mia ammirazione. Forse era un lontano Masaniello, un Cola

di Rienzo, o il capo dei ciompi fiorentini, facile preda di un’esaltazione pericolosamente suicida, o forse, e meglio, un Chang (comunque costui si chiamasse) capace di opporsi ai militi del sovrano di allora come se fossero una lunga teoria di immensi carri armati. E se così fu, che Dio, o Anu, o comunque si chiamasse dio a quei tempi, anche ora lo benedica. (E chissà che fine avrà

fatto, o meglio che fine gli avranno fatto fare). Questo sobillatore degli infelici dèi dunque si ribella, si rivolge ai suoi miserrimi compagni invitandoli a chiedere conto e ragione di un atteggiamento così crudele ed infame. A chi? Naturalmente a Enlil, il dio che, con il permesso e beneplacito di Anu, pacificamente consenziente, è in effetti colui che tiene e soprattutto esercita il pieno potere. Il popolo in rivolta brucia gli utensili del suo lavoro, si raduna e marcia verso l’Ekur, la “Dimora-montagna”, sede appunto di Enlil, da dove il dio più potente esercita la sua sovranità. E il popolo che marcia verso la Bastiglia all’insegna soprattutto della libertà, all’inseguimento di una molto vaga utopistica uguaglianza, nulla ancora sapendo di una universale difficilissima fratellanza. I ribelli arrivano alla dimora di Enlil, il tirannello tanto odiato, di notte; e par di vederla, questa gente infuriata, con mille fiaccole TE

nelle mani, brulicante a circondare il palazzo. Non sono le torce nefaste di una infame notte dei cristalli, ma il simbolo di una giusta rivendicazione. Il palazzo è una reggia, e dunque non c’è solo il tirannello che ci vive. C’è anche il portiere, Kalkal, il primo ad accorgersi del pericolo, che si affretta a chiudere la porta. Corre poi ad informare Nusku, un’altra importante divinità che qui figura come visir (sukkallu) di Enlil, che immediatamente va ad avvertire il suo padrone, e ina majali usetbitsu, insomma lo tira giù dal letto. Enlil si prepara allora alla difesa, ed intanto manda a chiamare Anu ed Enki, che si affrettano ad arrivare. In questa riunione dei tre Grandi, Enlil fa ovviamente le sue rimostranze e poi, su suggerimento di Anu, manda il suo visir Nusku presso i ribelli, a chiedere la ragione della loro turbolenza, naturalmente dopo il rituale inchino di saluto. Mossa diplomatica. Nusku, a nome non solo della triade, ma

anche degli altri dèi superiori, va a compiere la sua missione, e la risposta che ottiene è ovvia: gli Ighighi si sono ribellati per il troppo lavoro che aveva finito per stravolgerli ed annientarli. Chissà come chissà perché, a Enlil scappano le lacrime, che sembrano più di rabbia che di commozione (anche se a quell’epoca già da tempo esistevano 1 coccodrilli). Difatti, grazie a frammenti che vengono a chiarire la natura di quelle lacrime, veniamo a sapere che Enlil chiede al dio supremo un’esemplare punizione per i ribelli: prendere uno di loro (un dio, ma ovviamente minore perché dovrà essere uno degli Ighighi) e metterlo a morte. Si riferisce al capopolo? Proprio così. Ma Anu, meno infuriato e più obiettivo, non è d’accordo. Riconosce infatti la pena di quei disgraziati. Un altro frammento riferisce però che è stato Ea ad avere pietà, ed è molto probabile che sia stato pensato così, perché sarà sempre Ea ad intervenire a favore dei più deboli. E proprio lui, il dio più intelligente e più saggio ma anche il più furbo, a suggerire il rimedio: la creazione dell’uomo, perché sia lui ad accollarsi la fatica degli Ighighi, liberi così da ogni giogo ed ovviamente esenti da ogni pericolosa rivendicazione. Ma per creare l’uomo, che qui viene chiamato /u//î (che vorrebbe indicare l’umanità più in generale ed indistinta rispetto al termine awilum), ci vuole il sangue di un dio (perché la sola forma in argilla potrebbe avere sì la vita, ma non il discernimento e l’intelligenza che la distinguerebbe dagli animali). Un dio dunque deve essere comunque sacrificato. 78

Ecco allora che viene richiesta la testa del capopolo, verisimilmente il dio Wé, che incontreremo subito dopo. È un modo di creare l’uomo ma anche, in fondo, per accontentare l’indole vendicativa di Enlil, che ne aveva chiesto la testa. E se davvero questo mito, riferito agli dèi, riflette un episodio vero, ci troviamo davanti a quel fenomeno, che diverrà universale, e che si chiama bastone e carota: gli Ighighi vengono accontentati, ma l’elemento più pericoloso e letale per il potere, viene eliminato: meno tasse ma nessun Robin Hood, e così sia. Ecco dunque la ragione per cui viene creato l’uomo, quest’uomo che effettivamente si è dovuto pur dare una ragione della sua esistenza autenticamente sofferta. C’è stato chi, come qui, si è

inventato una rivolta degli dèi, ci sarà chi si inventerà un peccato originale, ma bisognava pur giustificare questa vitaccia penosa. Per questo straordinario evento ci vuole ovviamente una donna, perché è la donna che crea. Più tardi, come abbiamo visto nell’Enuma eli, la gran madre creatrice sarà l’enorme ammasso del mare, Tiamat, a cui sarà anche giustamente abbinato una specie di fuco necessario per ingravidarla. Qui no. Qui spunta una dea che non ha bisogno di essere incinta per creare, e più che una partoriente è una “figula” capace di lavorare la creta. Qui viene chiamata con più nomi: Bélet-ili (“La Signora degli dé”), Nintu, Mammi, come per renderla più indefinita, spersonalizzata. Sarà così anche più oltre, quando si dispererà, nel dramma del diluvio, nel vedere le sue creature disperse nel mare. | Maè sempre lei. Le si chiede di creare il lu/l@ perché porti lui, ora, il giogo di Enlil e su di lui si imponga il lavoro per gli dèi. Ma sembra quasi che la mentalità del tempo non voglia riconoscere il fatto che sia stata una donna, per quanto dea, a dare vita all’umanità. Difatti la dea afferma di non potere agire da sola, e chiede l’aiuto di Enki (e di chi altri, se no?). Si vede che per un atto simile è necessaria una purificazione (certamente perché verrà ucciso un dio). Enki decide un triplice bagno purificatore (una specie di battesimo): il 1°, 7° e 15° giorno (anche qui una ripetizione del N.7). Prima però, bisogna immolare il dio. Ovvio che questo delitto abbia bisogno di questa “immersione” purificatrice, che sa tanto di ipocrisia, come quando qualche cattolico commette tranquillamente un peccato pensando che poi lo confesserà e ne risulterà di conseguenza assolto e pulito. Fu immolato così il dio WE, verisimilmente il capo dell’insurrezione, come tanti capi di oneste e coraggiose insurrezioni sa19

ranno poi ricercati, perseguitati e condannati a morte dallo spirito dittatoriale ed assassino dei potenti di ogni tempo. Se qualcuno pensa che alluda ai carbonari e ai massoni di un paio di secoli fa, ha colto nel segno. Ma dal sangue e dalla carne di quel povero dio è nata una nuova creatura, fatta di corpo e di anima: una creatura destinata,

con il suo spirito e la sua intelligenza, ad inventare persino chi l’ha creata. Il testo, che cerco di tradurre al meglio, dice: ina Sirisu u damisu dnin.tu /iba/lil titta ilumma u awilum libtallilu puhur ina titti ahriati$ umi. uppa i ni$me ina Str ili etemmu libsi balta attasu liSediSuma assu la musst etemmu libsi

«Con la sua carne ed il suo sangue La Dea-della-nascita mischi l’argilla. Proprio il dio e l’uomo siano mischiati insieme nell’argilla, sì che noi ascoltiamo il tamburo nei giorni futuri®. Con la carne del dio ci sia un’anima, si iImprima al vivente un segno perché non si dimentichi che esista l’anima»

E così ina Str ili ettemmu ibsi], ‘Con la carne del dio ci fu l’anima”. Mi sembra chiaro dunque che gli uomini che hanno concepito e scritto questo brano sapevano di essere un agglomerato di carne e di spirito, di umanità e divinità, di mortalità e immortalità. Il testo specifica infatti che il dio sacrificato aveva fema, cioè la “ragione”, l’intelligenza che viene così trasferita agli uomini (ma non agli animali)®?. * La frase, certo chiara a quei tempi, risulta ambigua. È stata intesa come: “saremo liberi(?)”?. CAD: “batticuore”. Penso invece che la traduzione (libera)

possa essere: “sì che noi (uomini) in futuro obbediamo alla chiamata (degli dèi; cioè obbediamo ai loro comandi)”. Ved. Ghilgameò che usa il tamburo per chiamare alle armi i (nolenti) abitanti di Uruk

‘ Pur rendendomi conto di presupporre strane metatesi, non vorrei che

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I vocabolari traducono etemmu come “spirito della morte” (CAD: spirit of the dead”, AHw: “Totengeist”) e “fantasma, spettro”, ed è vero. È quando muore che l’uomo, mescolanza di argilla e di dio, si deve scindere nelle due realtà con cui è stato composto. L’argilla-corpo mortale viene restituito all’argilla, e si rifonderà con essa. L'anima no. L’anima è frutto di un dio immortale, e

deve restare immortale. Ma purtroppo quel corpo e quel sangue appartenevano ad un dio minore, sopra il conto un dio ribelle, un dio “cattivo” rivoluzionario e punito con la morte. Anche se tende al cielo, quest’anima non può essere assunta nell’alto dei cieli, ma messa a consumare la sua immortalità nel mondo delle anime dei defunti, perennemente legate al ricordo del corpo con cui avevano vissuto, tanto che, se il corpo rimaneva insepolto, anch’esse rimanevano insepolte, anime vaganti e disperate destinate a fare gli spettri e spaventare la gente. Ho già espresso questa mia idea, e qui la ribadisco, con tutto il mio rispetto per chi crede tutt’altro. La condizione dell’uomo, legato alla necessità del lavoro per sopravvivere, lo ha costretto a pensare alla punizione di un dio ribelle. La religione cristiana relegherà le divinità ribelli nel ruolo dei cattivi e dell’Inferno. Ma nella concezione mesopotamica il torto non era propriamente quello di ribellarsi al dio per una personale questione di alterigia e presunzione, come accade per Lucifero, ma piuttosto per una giusta causa di libertà; ed è un peccato che l’innata subordinazione dell’uomo al potere abbia fatto apparire negativo anche chi non era dalla parte del torto. La regalità umana si è riprodotta in una regalità celeste che tutto domina e su tutto impera. Ed è questa regalità celeste, totalmente inventata, che a sua volta è servita ad esaltare e potenziare quella terrena. Il masochismo dell’umanità non ha mai fine. Ecco dunque l’uomo, anima e corpo, messo a sostituire gli déi

minori (ora divenuti ”’ grandi” anche loro) nel duro lavoro al servi zio di sé stessi (poco) e degli dèi (molto). La dea-madre annuncia

dunque di avere eseguito la disposizione degli dèi e di avere creato il suo capolavoro. Gioia degli dèi! Le abbracciano le ginocchia e la proclamano “Signora di tutti gli dèi”, come d’altronde già si sapeva dal suo stesso nome (sempre che non le sia stato affibbiato dopo questo etemmu, pur corrispondendo al sumero gidim, sia stato accostato anche a femu (un’assonanza possibile)

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suo capolavoro). A quell’epoca si vede che era facile esaltare fino a tal punto chi faceva qualcosa di importantissimo e di utilissimo. Ma non sembra che la gran madre ne abbia approfittato, come invece ha fatto Marduk, secondo quanto abbiamo già visto. Un frammento assiro di questa composizione così importante ci spiega più particolarmente la procedura che la dea ed Enki hanno seguito nella loro operazione. Questa volta è Ea (Enki) a impastare l’argilla, mentre la dea (Nintu) recita le formule che il dio le suggerisce. E una specie di chierichetto-segretaria. Finita la recita, la dea prende 14 pani di argilla, e ne mette 7 da un parte e 7 dall’altra (il N.7 indica anche qui la perfezione dell’opera). Tra questi due gruppi viene sistemato un mattone, che figurerebbe come lo strumento che deve tagliare il cordone ombelicale al momento della nascita. Al genere umano si fa cenno in una lacuna del testo in cui si parla di seni e di barba: evidente citazione dei due sessi. Sembra dunque che la creazione sia passata (ed in effetti lo vedremo poi, in Enki e Nîinmah), attraverso una vera e propria gestazione. Alla fine di questa complesso sistema creativo, ecco una frase che ci interessa: dopo la nascita e 9 giorni di festeggiamenti (allusione ai 9 mesi di gestazione umana?): “La dea Istar sarà chiamata IShara”. È la citazione della dea Istar, di cui tratteremo

poi. Cosa significhi poi questa frase, non è chiaro. IShara” è una dea che troviamo a volte equiparata a Istar, solo che IStar è dea con (molti?) amanti ma non è la paredra di nessuno. IShara invece compare come paredra di Dagan. Forse si voleva dire che, creati gli uomini maschi e femmine, ci sarà l’unione degli uni con le altre? In tal caso, IShara sarebbe la dea pronuba, una protettrice del matrimonio. E forse in tal senso va intesa la sua presenza in un episodio del Ghi/games. È il momento in cui Ghilgame3 ed Enkidu si azzuffano sulla porta della camera nuziale di una sposa, che qui prende addirittura il nome della dea: “Per Ishara è approntato un letto per la notte”. Difficile che qui si tratti della dea, mentre è più probabile che qui sia citata come anticipatrice di un futuro Imeneo (ma ved. oltre, pag. 199). Ma riprendiamo il nostro racconto: gli uomini si misero subito a lavorare, procurandosi nuovi utensili. Passa il tempo, passano gli anni (sembra addirittura 1200!), e così l’umanità si moltiplica e ne nasce, purtroppo, il rumore, il baccano, che infastidisce il sacro sonno del solito Enlil, che non vuole essere disturbato. Abbiamo già incontrato il tema: nell’Enuma elis erano i giova2° Ved. RIA, sub voce

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ni déi, che hanno disturbato la coppia primordiale: ma nel Grande Saggio, che precede nel tempo, sono gli uomini che sono messi a lavorare a creare frastuono. Ci si chiede: perché tanto baccano? Questi omuncoli appena creati non lavoravano in assoluto silenzio, come sarebbe bene fare per stancarsi di meno? O anche qui siamo di fronte ad un coro di proteste e di lamentazioni? O forse era il canto dei lavoratori, erano gli stornelli delle nostre mondine? Ma è il dio Enlil che comanda, e bisogna lasciarlo in pace. Enlil è terribile, e così decide di decimare l’umanità inviando una tremenda epidemia. Quella che chiamiamo genericamente e spesso impropriamente “peste” è una delle bestie apocalittiche più feroci. Nel momento in cui scrivo (2020), quella che ci sta opprimendo non è stata ancora domata, ed anzi imperversa nel mondo intero mietendo vittime con la falce più crudele e inaspettata. Non ne sono stati privi questi antichi popoli che non avevano né medicinali adatti né vaccini, e d’altronde ne siamo privi anche noi. Anzi, viene da pensare che alcune civiltà che improvvisamente si sono interrotte senza che sia documentata qualche presenza ostile, né siano dimostrati disastri militari, occupazioni nemiche e quant’altro di simile, in realtà abbiano trovato la loro fine a causa di un’epidemia, che poi nessuno ebbe né voglia né possibilità, in tali frangenti, di registrare per i posteri. A causa di questa malefica disgrazia l’umanità soffre terribilmente. Ed allora un tale, chiamato o soprannominato Grande Saggio (d’ora in poi sarà il protagonista) si rivolge ad un dio con cui aveva stretta confidenza: lui che era tanto saggio si rivolge a Enki, naturalmente, il dio più saggio. Enki lo ascolta, ed interviene con il suo consiglio: gli suggerisce di interrompere tutte le preghiere e tutte le offerte finora rivolte agli déi, tranne che a Namtar. Chi era costui? Era un démone. E stato chiamato |’ “angelo della morte” (il termine stesso namtaru

significa “morte, destino”). Gli anziani del paese, avvertiti dal nostro, eseguono. Addirittura costruiscono a Namtar un tempio. Quale fotocopia dell’animo umano, con tutti i suoi difetti e tutte le sue debolezze, si rivela co-

stantemente il mondo divino! Namtar, lusingatissimo, smette di imperversare e così torna la pace (ma continua il lavoro) per l'umanità. Passa lo tempo. I soliti 1200 anni (600 + 600, secondo il loro

sistema sessagesimale). E allora ecco ripetersi il fenomeno: troppo rumore, troppo baccano che disturba il sonno di Enlil, proprio come il bilioso vecchietto che non sopporta il vociare dei bambini. Da padrone assoluto qual è, ordina ad Adad, il dio della pioggia e 83

dei fenomeni atmosferici, di trattenere la acque, e pretende che si

tappino le sorgenti. Risultato: la totale siccità ed un caldo infernale. Che succede? Ce lo racconta un frammento di tavoletta che integra il testo basilare. Proviene da Nippur (dove appunto “abitava” Enlil) ed ora è conservato a Istanbul. In poche parole, si

ripetono i fatti di prima, solo che ora il dio invocato, e per cui è elevato un tempio, è proprio Adad. Lusingato anche lui, permette la rinascita della vita, il rigoglio dei campi e la serenità della popolazione con la pioggia e la rugiada notturna. Ma è la solita solfa: irritato dal rumore, ancora una volta Enlil interviene ed ordina una siccità ancora più stretta; si mette a con-

trollare la terra, mette Anu (che dunque questa volta è ai suoi ordini) a controllare il cielo, nonché A dad, ovviamente ritornato a

più miti consigli, a sorvegliare affinché la pioggia si interrompa e non scenda più sul paese. La descrizione della terra, ridotta ad uno stato pietoso, è tremenda: non spunta più nulla, i prati si seccano, il terreno si copre di sale. Così le riserve vengono consumate e l’umanità si trova in una tragica situazione. Peggio della zattera della Medusa: si arriva persino all’antropofagia. In qualche modo (quale? Non si sa. Il testo è rotto e lacunoso) Enki riesce ancora a mitigare quella tragedia, ma a questo punto Enlil lo accusa pubblicamente. Enki se la ride, ma ecco che Enlil sfodera tutta la sua autorità e decide di provocare nientemeno che il diluvio, l’abubu, perché tutta l’umanità venga definitivamente distrutta, annichilita.

Inizia qui la storia del diluvio, già nota da un testo sumerico ed articolata, con lo stesso canovaccio e spesso quasi con le stesse parole, nel successivo poema di Ghi/games. Ma qui si fermano le nostre considerazioni su questa interessante composizione, perché il resto non interessa più gli argomenti che stiamo esaminando. RR

All’incirca contemporaneo è un poemetto sumerico chiamato Enki e Ninmabh, che presenta caratteri specifici rispetto agli altri racconti”, non solo per l’argomento trattato, ma anche per i particolari che riguardano il tema della creazione.

" Rimando allo studio pubblicato in Fst. Frevdank: G. Matini — C. Saporctti, Einege Anmerkungen zum Mythos Enki und Ninmah, in D. Prechel - H. Neumann, Beitrdàge zur Kenntnis und Deutung altorientalischer Archivalien (Miinster 2019), 173 sg.; cfr. in “Geo-Archeologia” 2016-1, 21 sg. Sul poemetto si veda anche M. Ceccarelli, Enki und Ninmah, Tùbingen 2016

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Potremmo trovarci davanti, in questo caso, all’unificazione di

due 0 più poemetti precedenti, o ad un’operetta derivata da un’altra più ampia, della quale sia stato saltato qualche brano. Ciononostante è possibile seguire l’evoluzione dei fatti raccontati. Il testo contiene due atti creativi: nel primo è stato formato un modello riproducente la forma da realizzare, il secondo consisterebbe invece nella normale gestazione di un essere immaginato come modello e come tale poi concepito e generato. Si inizia localizzando i fatti in giorni “lontani”, quando il cielo fu separato dalla terra e furono stabiliti i destini. Allora furono partoriti gli Anunna (Anunnaki), i “grandi dèi”, che presero moglie e si distribuirono nel cielo e nella terra. Le dée furono così ingravidate e partorirono. Si passa a raccontare come gli dèi “piccoli”, forse i figli partoriti (il termine può essere anche tradotto “figli”, invece che “piccoli”), oppure sono gli dèi minori, dovessero lavorare: scavavano i canali, macinavano cereali e così via, per cui iniziarono a lamentarsi.

Ecco che salta fuori Enki, “creatore di tutti gli déi esistentî 8°,

che se la dorme beatamente. Gli dèi che dovevano sudare e lavorare, lo accusano di essere la causa del loro dolore, ed allora Namma “madre primordiale, che aveva partorito tutti gli déi”, corre a svegliare suo figlio Enki: “Gli déi che hai fatto con le tue mani rompono i loro [strumenti] di lavoro!”. E la rivolta che abbiamo già visto nel Grande Saggio. La grande madre Namma (qui si chiama così), sveglia il figlio Enki, lo invita ad alzarsi dal letto ed a pensare a come rimediare al troppo lavoro degli dèi, dandogli implicitamente un suggerimento: “Dopo che avrai fatto un loro sostituto, possano allentare la loro fatica!”. Enki finalmente si sveglia, entra nel suo personale ‘“pensatoio”, e che fa, lui grande saggio, il creatore del modello di tutto quanto esisteva? Fa uscire le “dée dell’utero” (una novità!). Poi si rivolge alla madre, e le dice che la creatura di cui lei già aveva concepito l’esistenza, effettivamente esisterà, ed a questa creatura sarà imposto il lavoro degli dèi. E prosegue: “Dopo che tu (Namma) avrai manipolato il cuore dell'argilla dalla superficie dell’Apsù, le dèe dell'utero pizzicheranno l'argilla. Dopo che avrai fatto esistere il modello, possa Ninmah fungere da tua assistente, possano (e qui seguono 7 nomi di divinità femminili minori) assisterti durante i tuoi parti. Dopo che avrai stabilito il suo (= della nuova creatura) destino, possa Ninmah legare a lei il loro (= degli dèi) cesto da lavoro (= il lavoro tout court)”. 85

Volendo sintetizzare quanto il testo ci suggerisce fin dal prinEt cipio, risulta che: Namma, la madre primordiale, partorisce (tud) tutti gli déi (evidentemente si tratta dei “grandi dèi”). Vengono partoriti (tud) anche gli Anunna, sembrerebbe — ad opera di Enki. Dèie dée Anunna si uniscono in matrimonio e generano — (tud) gli déi “piccoli”/”’figli”’/”minori”, costretti a lavorare. -— Avvertito dalla madre Namma delle lamentele e di un principio di ribellione degli dèi “minori”, su sua sollecitazione Enki, che crea i modelli (mud me.dim) di tutto, agisce. -— Anzitutto “fa uscire”? le dée dell’utero” perché collaborino. — Enki concepisce il modello dell’uomo creandone (mud me.dim) uno a sua immagine”. — Namnaa, che aveva concepito l’esistenza dell’uomo (mud mu gar.ra.zu) ne crea con l’argilla il modello (me.dim.gal) ispirandosi a quello di Enki. Le dée dell’utero collaborano. — Namma partorisce (tud) l’uomo sulla base del modello creato, ed Enki ne è contento e soddisfatto anche perché l’operazione sembra sia stata svolta celermente (lùgud. lugud.da). Il seguito del poemetto non ci interessa più di tanto. Racconta che Ninmab (che qui abbiamo visto come assistente della grande madre Namma, ma che altrove figura lei stessa come grande madre) crea esseri malformati ed handicappati sfidando Enki a trovare loro un’occupazione. Bisogna comunque dire, a questo proposito, che anche qui c’entra una creazione con la creta, visto che Ninmah per dispetto getta la creta per terra. La controrisposta

? Il verbo “uscire” non fa capire bene da dove vengano (escano) queste dèe. Piuttosto che pensare che siano nate da una forma di gestazione di madre ignota (Namma?), gestazione che qui dovrebbe essere, alla stregua di quanto è detto per l’uomo, più precisamente descritta, è forse più agevole pensare che facciano parte della schiera degli dèi precedentemente creati. Da questa massa di divinità Enki “estrae” 7 dée e le indica come collaboratrici (ved. Matini-Saporetti, cit.) ® L’espressione potrebbe semplicemente indicare che Enki è l’unico” creatore (ni.te.a.na) dei modelli del mondo, ma può anche indicare che ha concepito l’uomo creando un modello di sé stesso, perché l’uomo sia, come dice la Bibbia, “a sua immagine e somiglianza”

86

di Enki, cioè la creazione di un ugul, sembra invece avvenuta in modo diverso: dopo averne creato l’immagine, la creatura viene concepita nel seno di una donna. Tornando alla creazione dell’uomo, così come è stata pensata in questo poemetto, dobbiamo anzitutto rilevare la grande differenza che la distingue dalle descrizioni espresse altrove. Qui non si parla di mescolanza di argilla e sangue di un dio, ma di sola argilla, con la quale viene creato un “modello”, verisimilmente una figurina che lo riproduce. Enki non agisce con un soffio che dona la vita a questo modello, come invece fa il Dio della Bibbia”. Vuole invece che Namma ne resti incinta e lo partorisca, aiutata da divinità femminili che fungono da ostetriche, con una specie

di partenogenesi. Visto che non c’è la mescolanza con il sangue divino, possiamo dire anche in questo caso che nell’uomo c’è una scintilla divina? Credo di sì, perché l’uomo non viene partorito da una donna comune, ma da una dea, addirittura la dea-madre. * * *

Risalendo nel tempo, le notizie sulle concezioni cosmogoniche teogoniche ed antropogoniche si fanno sempre più scarse nella letteratura accadica e, prima ancora, sumera. Potremmo porre a questo punto una composizione alquanto singolare, che è stata intitolata il Mito di Dunnu (CT 39 e 40). Si tratta

di un testo scritto in accadico; è tardo, ma risulta copiato da esemplari più antichi. Nonostante le molte lacune, si può ricostruire. Vi è attestata la città di Dunnu, che appare, anche dal nome (*dnn), come fortificata. È una piazzaforte, intorno a cui si svol-

gono i fatti. I personaggi sono divinità, schedate a coppie e in successione, con matrimoni tra consanguinei ed omicidi perpetrati per ottenere il potere. Secondo quanto mi sembra di capire, all’inizio c'erano un certo Harab e la Terra (ki). Il significato di Harab è “aratro, vomere”

(harbu) ed è appunto con il vomere di un aratro che viene fessa la Terra, e ne nasce il Mare (che dunque stava nel sottosuolo). Ve-

dremo poi che il Mare è inteso di sesso femminile, un po’ come per i Francesi /a mer (che mi ricorda anche la mére). Lo chiamerò (ma solo per capirci meglio) Marina. Mi sembra chiaro che qui si alluda ad un atto sessuale: Harab

7 “Allora il Signore Iddio formò l’uomo con la polvere del suolo e gli soffio nelle narici un alito di vita, e con ciò fu l’uomo un'anima vivente”, Genesi2,7

87

non è che il membro maschile che fende la terra, e ne nasce il mare

che nella terra era contenuto. Altre composizioni (che vedremo) mi suggeriscono l’idea che questo “vomere” sia il membro del Cielo, che così si unisce alla Terra. Harab e Terra fondano la città di Dunnu, il primo luogo civile abitato, di cui Harab diventa signore, e generano un certo Anakandu, che la madre Terra induce ad unirsi con lei. Come succe-

derà anche troppe volte nelle future corti europee, inizia qui una serie di crimini, perché Anakandu uccide il padre Harab e diventa lui il signore di Dunnu. Anakandu: chi era costui? Peggio del manzoniano Carneade. Tento una spiegazione: la parola anakandas/akkandas significa “raggio della ruota”, cioè, prendendo la parte per il tutto, la ‘“ruota” tout court. In altre parole: la civiltà, perché l’invenzione della ruota è stata una tappa tecnologica fondamentale nella storia del progresso umano. Se così, potremmo pensare che il mito non fosse peculiarmente accadico, ma di origine cassita, perché anakandas è parola cassita. Il che spiegherebbe la differenza tra questo mito e tutti gli altri mesopotamici. Altri invece hanno voluto vedere in questo personaggio il bestiame selvaggio, considerando Lahar, che vedremo, simbolo del bestiame allevato. Sintetizzo qui gli avvenimenti successivi. Anakandu sposa dunque (sua) madre Terra e la sorellastra Marina, da cui nasce Labar, e cioè gli ovini (/a/ru è la “pecora”). Lahar sposa la madre Marina e uccide il padre Anakandu, intanto che Marina uccide la madre Terra (una doppia tragedia edipica). Da Lahar e da Marina nasce un figlio di cui ignoriamo il nome, e che chiameremo A,. Nasce anche una figlia, il Fiume che, per capirci meglio, chiameremo Fiumara. I due fratelli A, e Fiumara si sposano. A, uccide i genitori (Lahar e Marina) e con la sorella Fiumara genera anche lui due figli: uno (per noi anonimo) che chiameremo A_, ed una femmina di nome Uaildak. Questo A, fa spuntare l’erba e dal testo sembre-

rebbe che agisca per il bene degli dé. A, e la sorella Uaildak si sposano, e generano un A, presumibilmente da identificare con un Habarum che spunterà poi, ed il cui significato sfugge (cfr. con habarainum, una pianta?). Generano anche una sorella il cui nome, Ningestinna, è palesemente sumero, ed indica la vigna. Habarum, che è probabilmente da identificare con A,, sposa la sorella Ningestinna, uccide il padre e la madre, e genera “altri figli e via dicendo. 88

| Il mito, nel suo succedersi (nemmeno tanto complicato) di incesti, patricidi e matricidi, sembra volere spiegare, un po’ ingenuamente, il sorgere ed il progredire del mondo: un “vomere divino” che fende la terra, un mare che stava nel sottosuolo e che ora erompe, ed il progressivo nascere di realtà che via via invadono il mondo con la loro presenza che si aggiunge alle altre, e così lo perfeziona. L’endogamia, anzi addirittura il matrimonio fra stretti congiunti, è di prammatica, e nel caso che questo mito dovesse essere l’eco di pratiche autenticamente esercitate, allora porterebbe lontano, magari fino all’Egitto. Vi si intravede una iniziativa dapprima femminile (la madre che seduce il figlio), poi la preminenza dei maschi, che con la violenza si impossessano via via del potere signorile e poi regale. In definitiva, il Mito di Dunnu è una narrazione che sta a sé, è un masso erratico di concezioni differenti, presumibilmente stra-

niere, rielaborato in epoca tarda con un qual certo guazzabuglio di nomi, che sanno di cassita, accadico, sumero e magari elamita. * **

Un testo bilingue sumero-accadico a linee alternate, chiamato La creazione dell’uomo (KAR

4), non sembra una traduzione dal

sumero all’accadico, ma semmai viceversa, come quella nostro studente che esegue una traduzione dall’italiano al Difatti, come spesso succede appunto a qualche studente, qui la traduzione è un po’ maccheronica. L’opera risale alla fine del II Millennio ma è copia, malmessa,

di un latino. anche

molto

di un’altra. Ed è un vero peccato che ci siano tante

difficoltà di interpretazione. Anche qui si incomincia dalla separazione del cielo e della terra ma poi, stranamente, dalla citazione

di dée madri si passa alla sistemazione della terra, secondo i programmi divini. In questo caso la triade diventa un quartetto con l’introduzione di Ninmab, la “Signora potente”, la magna mater la cui presenza giustifica quella, fin dal principio, delle dèée madri. L'abbiamo già incontrata, sotto le vesti di ostetrica, in Enki e Ninmah. Spuntano a questo punto gli Anunna, cioè gli Anunnaki, che altrove figurano creati da Marduk in due gruppi. Qui costituiscono un insieme di divinità minori ed individualmente indistinte, come il coro in una rappresentazione teatrale o in un’opera musicale. NE A loro si rivolgono i grandi dèi con delle domande le cui risposte sembrano concreti suggerimenti, e che probabilmente non 89

sono altro che quello che i grandi déi volevano sentirsi dire. Difatti il quartetto divino aveva già concepito il programma relativo alla sistemazione dell’universo. Tutto viene predisposto per la produzione della terra, per cui l’acqua è indispensabile, ed infatti ecco il Tigri e l'Eufrate da cui trarre l’acqua per predisporre la canalizzazione. Richiesti di cosa si debba fare per proseguire le grandi opere degli dèi, gli Anunna rispondono di immolare due A//a divini e far nascere gli uomini con il loro sangue. Chi erano questi Alla? In un’altra composizione troviamo un Alala che è addirittura il padre di Anu/Cielo, un dio pre-déi le cui due e/le potrebbero significare (è solo un’ipotesi) una collocazione “molto in alto”. Se Anu, ammesso e non concesso, può corrispondere ad un

futuro Zeus, allora Alla potrebbe equivalere, grosso modo, ad un Chronos/Saturno spodestato, qui addirittura sacrificato. Ma gli Alla sono due, cioè forse una coppia che servirebbe a prefigurare i due sessi dell’uomo. Gli uomini: “i/ lavoro degli déi sarà il loro lavoro”. Viene qui affermata l’idea fondamentale sullo scopo dell’esistenza umana. L’uomo è stato creato per sostituire gli dèi (più precisamente gli déi minori) ed addossarsi tutte le fatiche necessarie a procurarsi la sussistenza. In tal modo gli déi, che devono pure campare, si sono creati dei miserrimi sostituti, e se ne possono stare, come si suol dire, a mo” di re Luigi: in panciolle sopra un letto con le molle. E così che l’umanità, con la sua fantasia, in un mondo in cui c’erano anche gli schiavi a fare i lavori più umili, ha immaginato la sua origine e risposto all’eterno enigma: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Siamo gli schiavi degli déi, fatti apposta per sostituirli e servirli, diretti verso un mondo non particolarmente felice, anzi oscuro, drammatico e noiosissimo, dove la nostra anima, divina sì, ma

nata da sangue di poco conto, è costretta a sopravvivere. Nascono così gli uomini nel tempio di Enlil Dur-anki (‘* ‘Muro’ del cielo e della terra”), il “crea carne’. Il testo specifica ciò che gli uomini dovranno fare: delimitare i campi, zappare, portare il materiale, irrigare, fare germogliare la vegetazione, e naturalmente celebrare le sacre feste. Questi uomini saranno dappertutto (“Crescete e moltiplicatevi”, dirà il dio della Bibbia) come sembrano suggerire i nomi con * Evidente allusione al fatto che vi fu creata l'umanità

90

cui devono essere chiamati (Ullegarra e Annegarra): “Quelli posti là” e “Quelli posti qua”, cioè sistemati qua e là, dappertutto”. Così moltiplicati, a loro volta moltiplicheranno gli animali, quelli da allevamento (bovini ed ovini) e quelli che si procureranno con la pesca e con l’uccellagione. “Così hanno deciso, con la loro sacra bocca, Enul e Ninul”.

I loro nomi significano “Signore dell’ ul”, e “Signora dell’ ul”, dove ul può significare sia “stella” (Kakkabu) sia “il passato, il tempo antico” (sat). Chi erano questi “signori primordiali (0 delle stelle)”? Forse i due Alla sacrificati, che così risulterebbero consenzienti? Difficile dirlo, anzi la cosa mi sembra improbabile. Ad ogni modo viene indicata, come esecutrice del programma divino, la dea madre con i due nomi delle versioni sumerica

(Aruru”) e accadica (Belit-ilî). Sarà lei a creare continuamente artigiani e contadini, che diverranno numerosi come il grano e le stelle eterne, in modo che non possano venire mai meno le feste

degli dèi: un continuo catering gratuito e dipendente. Infine viene imposta all’umanità la dea dell’agricoltura, Nisa-

ba, con il fine evidente di farle produrre il più possibile. C’è da dire che da altre interpretazioni (Pettinato) in questo mito figurerebbe una creazione degli uomini per emersio, cioè gli uomini sarebbero germogliati dal suolo come le piante: stesso mito che figurerebbe anche nella composizione L'invenzione della zappa (su cui ved. oltre). . Stranamente, ma non troppo, il testo termina con una frase molto interessante: “Questa è una dottrina segreta”, aggiungendo che solo i competenti la potevano trattare. Si è allora pensato all’esistenza di “iniziati”, a cui soli era permesso di conoscere tale “dottrina segreta”. Anzi, il termine “competenti” non sembra la più adatta, perché qui si tratta di scribi in una società dove ben pochi sapevano leggere e scrivere, per cui tutti coloro che sapevano leggere erano “competenti”. Forse ci si riferisce ad una stretta compagnia/setta di scribi che sola aveva accesso a questi segreti? Cè poi il fatto che all’inizio della composizione c’è una stra7 Per altri: sumerica, 420 “Signori “Signore delle

“Creato per il cielo” e “Creato per l’eternità” (Pettinato, Mitologia nota 6 i primordiali”, RIA 9,509b per nin.ul; in RIA 2,403b, per en.ul, ia stelle”

78 Aruru è la dea-madre che figura avere creato Enkidu nel Poema di Ghilgames: “Come Aruru udì queste prole, creò un'immagine di (per?) Anu. Si lavò le mani, prese dell'argilla ... creò il prode Enkidu”

9I

na serie di ridicole parole con cui incomincia ogni riga. Qualche studioso ha pensato a nomi propri arcaici o a semplici elementi di questi nomi, ma senza prove convincenti e senza riscontri. Altri ad annotazioni musicali. Forse si tratta di una formula magica? Oppure di una “parola segreta” ? L’idea non sembra tanto peregrina: me.me.pap.pap a.a.a.a.a ku.ku.lu.lu e via dicendo, con intersecazioni di segni (a pap pap.a, igi.igi.igi.a.igi a.ig.igi etc.).

In effetti la ripetizione di sillabe come in abracadabra” dà un senso di magico e di mistero", Eitoitoi

All’inizio del II Millennio va collocato un testo scritto in sumero,

in genere conosciuto come L’invenzione della zappa (Kramer, Sumerian Mytology, New York 1961, 52 sg.). Inizia attribuendo ad un generico “Signore”, che certamente è il dio Enlil, la creazione del mondo e la determinazione dei destini. Dapprima questa divinità separa il cielo dalla terra, e poi nel tempio di Enlil Dur-anki, che abbiamo già incontrato, pensa di creare il primo uomo. Nello stesso luogo crea una zappa, indispensabile utensile per il lavoro. Si tratta evidentemente di un

utensile ben diverso dallo strumento autentico (altrimenti l’agricoltore, invece di usarlo, l'avrebbe prestamente venduto per godersela altrove!).

Difatti è d’oro ed ha la lama di lapislazzuli ed altri ammennicoli preziosi. Doveva trattarsi di una zappa a punta, visto che è paragonata ad un bue unicorno. Prima ancora di diventare il banale strumento agricolo, questa zappa preziosa è in realtà un prototipo di zappa che serve per creare, a sua volta, un altro prototipo. Lo stesso Enlil la usa per staccare dal suolo l’argilla che deve servire, nel tempio di Nippur, alla creazione dell’uomo. Ma non ” Attestata fin dal III secolo d.C., qualsiasi significato avesse, derivata dall’arabo o dall’ebraico o dall’aramaico * Di tale tipo è hocus-pocus. In epoca recente si è ricorsi a questa tipologia quando si è voluto inventare una formula magica: salacadula mecicabula bibbidi bobbidi bù è pronunciata dalla fatina di Cenerentola nel capolavoro di Walt Disney, ed attualmente sim salabìm è la formula inventata dal Mago Silvan. In fondo, anche ambarabd ciccì coccò è una formula per designare qualcuno a caso, dunque secondo il destino. Non so se sia giusto ricordare qui il famoso e discusso dantesco pape satàn pape satàn aleppe (inizio canto VII dell’Inferno), che interpreterei non tanto come parole incomprensibili ma come un’allusione alla persona più importante (a/ef) che purtroppo è un “papa-satana”, come succedeva ai tempi di Dante, e succederà anche dopo. Altri: mara interiezione di meraviglia (Plauto e Terenzio)

Ha

risulta Enlil il creatore. Difatti appare come colui che fornisce la materia e fa uno stampo (da cui, si immagina, la dea-madre creerà il prototipo umano). Gli uomini così si moltiplicano. Saranno poi gli Anunnaki, gli dèi della corte di Enlil (che in questa operetta appare come unico sovrano, mentre Enki non appare proprio) che dopo averlo lodato trasmetteranno agli uomini questo strumento di lavoro. Bisogna dire che questo brano è controverso, giacché Pettinato dà al testo una interpretazione diversa. Come accade anche per altri passi, Pettinato (Sumerologia accadica, 416) interpreta la nascita dell’uomo come un germogliare dalla terra (cfr. vv. 6 e 20). ok *k

Sempre all’inizio del II Millennio va collocata una “tenzone”, questa volta tra il Cereale e il Bestiame minuto (Kramer in Uomini e dei ..., 543 sg.: cfr. Lisman, Cosmology ..., 40 sg.). Incomincia con il momento in cui il dio An crea gli Anunna. Non erano stati ancora creati né i cereali né i vegetali da cui trarre i filati, né c'erano pecore e capre: prodotti che qui sono indicati, come spesso anche altrove, con i nomi delle divinità che li sovrintendevano: qui sono ASnan (una specie di Cerere patrona dei cereali) e Lahar, divinità del bestiame minuto. Di conseguenza, gli uomini (o gli Anunna?) si nutrivano di erbe, bevevano l’acqua dei pantani e giravano nudi. Fu così che gli dèi crearono gli ovini e i cereali, di cui gli Anunna, situati su di un sacro monte, hanno incominciato a servirsi. Ma erano insufficienti. Non si saziavano completamente di carni e cereali e non avevano abbastanza latte. C’era necessità dunque che provvedessero gli uomini con il loro lavoro. Il solito Enki allora interviene ed avverte Enlil della necessità di fare discendere dal monte queste due preziose realtà, e donarle agli uomini. Allora “concessero agli uomini il soffio/la vita del cuore (zi.$à)”. Sembra che qua ci sia una contraddizione, in quanto parrebbe che gli uomini già ci fossero, per quanto selvaggi. Più che pensare ad interpolazioni o altro, si potrebbe in questo caso interpretare il secondo intervento, piuttosto che come una creazione, una trasformazione radicale da umanità selvaggia a civile. Questi Anunna abitavano sopra una collina sacra (du,.kù, “la pura collina”), e mi pare che qui indichino la totalità degli dei, senza specificazione di singoli particolarmente emergenti. Sembra anche che si tratti qui, come altrove, della creazione dell’uomo 99

al fine di una sussistenza degli déi, oppure di una sua trasforma-

zione, sempre comunque per lo stesso scopo. dk

Un testo sumerico, intitolato l’Introduzione dei cereali (Kramer-Bernhardt, Sumerische literarische Texte aus Nippur I, n° 5), si rifà a quello precedente. Inizia infatti con il riferimento agli uomini che non mangiavano che erba, come le pecore, in uno stato

più animalesco che umano. Fu allora che An fece discendere dal cielo cereali e lino (cibo e vestiario). Ma qui, rispetto a quanto già sappiamo, c’è un’ interruzione. Spunta infatti Enlil, che scende dalla montagna"', e guarda in basso e in alto. In basso non vede che il mare, ed in alto la montagna. Allora prende l’orzo, lo porta sulla montagna, che

poi isola in modo da renderla inaccessibile. Spuntano allora due divinità minori, due fratelli: Ninazu e

Ninmada. Sarebbero il “Signore che conosce l’acqua* ” (nin.a. zu) e il “Signore del paese” (nin.ma.da). Il primo suggerisce di conquistare la Montagna, su cui Enlil ha portato a crescere orzo e lino e di recarli a Sumer, cioè in tutto il paese (che dunque non era solo ed esclusivamente mare).

Ninmada si oppone perché non era stato dato loro alcun ordine in questo senso. Decidono quindi di chiedere consiglio a Utu (il Sole), quando dorme (quindi di notte): un dio stranamente chiamato “dalle 70 porte” (cioè quante non ce ne potevano e dovevano essere, cioè tutte le porte)®®. Purtroppo la rottura del testo ci impedisce di sapere come va a finire. La logica ci suggerisce che, grazie al Sole (che si sveglia e quindi contribuisce al fiorire di questi vegetali) Sumer ebbe finalmente questi doni divini, civilizzatori degli uomini, ma appare molto difficile che Enlil abbia ceduto, tanto più che sembra sistemato in luogo ben fortificato. Si potrebbe anche supporre, ma con mille dubbi, che Enlil si * Si pensa che sia la montagna dove vivono gli dèi (una specie di Olimpo). Ma si badi che la ‘Casa /Tempio della montagna” (é.kur) è il nome della zikkurat del suo tempio a Nippur. *° Non si capisce però se Enlil era l’incaricato (da Anu) di portare cereali e lino sulla terra, o se piuttosto se ne sia impadronito * a.zu. cioè colui che conosce l’acqua, o meglio tutti gli intrugli che vi vengono messi per formare le medicine, è il “medico” * O “del territorio” ? * Forse perché in grado di penetrare dappertutto? (cfr. l'Inno al Sole).

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accorga di essersi sbagliato nel vedere solo mare, e che dunque abbia acconsentito a che anche gli uomini potessero usufruire di cibo e vestiario, diventando meno selvatici e più civili. RK

*

Un'altra “tenzone”, tra un Uccello ed un Pesce (Zimmern, Sumerische Kultlieder aus altbabvlonische Zeit II, Berlin 1913 n° 204),

risalente anch’ essa all’inizio del II Millennio, ci riporta al solito tempo in cui An ed Enlil fissano i destini e pianificano l’universo. A questo punto arriva Enki, che separa le acque dalla terra abitabile, crea il Tigri e l'Eufrate per l’indispensabile sistema di irrigazione, poi organizza gli ovili e le stalle con a capo pastori e vaccari. Istituisce le città e i villaggi, e pone un re giusto alla testa degli uomini. Enki passa poi ad organizzare il meridione della Mesopotamia, ricco di acquitrini che popola di pesci e di uccelli, con una magistrale impresa di organizzazione. Alla fine della fiera, è chiaro che i primi due dèi stabiliscono, mentre il terzo organizza con

un’opera efficace ed intelligente. > *k*k

Riporto, a questo punto, un episodio che costituisce per noi un punto di arrivo, non di partenza, della storia del cosmo e dell’umanità. Si tratta del diluvio. E difatti la composizione viene chiamata L’agricoltura dopo il diluvio (Sollberger, 7he Rulers of Lagas, JCS 21, 1967, 279). Perché parlarne? Nel Grande Saggio eravamo arrivati appunto al diluvio, non oltre, e quindi anche qui sarebbe giusto non parlarne. Il fatto è che il diluvio pareggiò tutto quanto, il Noè mesopotamico divenne il nuovo Adamo, tutto ricominciò dal principio; un secondo principio che ci riporta al primo. Come l’umanità è (ri)nata da un prototipo, così tutto il resto doveva (ri)nascere da un prototipo, e questa “rinascita” si presenta come si pensa fosse stata all’origine dei tempi dei tempi: una ripetizione, un doppione; un filmato di quel che era già accaduto”. Ecco dunque i soliti An ed Enlil. Le “teste nere” (come ave-

vano chiamato sé stessi i Sumeri, che non sembrano perciò ap-

86 Secondo la mentalità del tempo, per cui l’uomo continua a vivere nei figli nipoti e posteri, Um-napistim, il Noè mesopotamico, essendo divenuto, dopo che il diluvio annientò tutti gli altri uomini, un nuovo “primo-Adamo”, è destinato a vivere finché vivrà l’intera umanità, che da lui discende. Credo sia davvero per questo che nella mitologia figura immortale

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partenenti ad etnie scandinave) risorsero dall’argilla ad opera di queste due divinità, che tuttavia non vollero dar loro alcuna forma di regalità; sembra di capire che non desiderarono che la civiltà dell’umanità si evolvesse allo stesso modo di prima (probabilmente perché si sarebbe addivenuti alla stessa situazione che aveva provocato il diluvio). Un ritorno ad una vita incivile? Difatti non furono più consegnati agli uomini gli strumenti dell’agricoltura, ma non è chiaro se ciò avvenne, come è stato supposto, per volontà di Ninghirsu (“Il Signore di Ghirsu”, il dio della città di Laga$) che qui spunta a ricordare che il diluvio distrusse l’umanità (ma non gli déi che nel frattempo si erano moltiplicati come funghi). E più probabile, invece, che il testo volesse dire che ciò avvenne nonostante la vo-

lontà di Ninghirsu, per le ragioni che vedremo. Man mano che le varie popolazioni prendevano il potere, ovviamente prevaleva il loro dio poliade (abbiamo visto quanto sia stato vero per Marduk a Babilonia), ed è evidente che siamo arrivati ad un punto in cui il potere è nelle mani di Lagas, come prova il fatto che subito dopo ne vengono enumerati i sovrani. L’agricoltura, si sa, ha bisogno di acqua, ma 1 lavori di canalizzazione e della conseguente irrigazione non venivano eseguiti, perché mancavano, appunto, gli strumenti. Né bastava l’acqua piovana, troppo scarsa. Di conseguenza a Ghirsu e a Laga$ (ecco che spunta il territorio di Ninghirsu) venne una forte carestia. Fu allora che gli dèi si decisero a mettere a disposizione dell’umanità gli strumenti per scavare e tenere puliti i canali, con la felice conseguenza che l’agricoltura iniziò a produrre l’orzo, e con l’orzo la vita. Qua ci troviamo davanti ad un dio dell’agricoltura, Ainan, ai cui piedi gli uomini si inginocchiano prima di mettersi al lavoro, per propiziarsi un buon raccolto. Sembra quasi di trovarci davanti a un quadro di Millet. Ma sorge una domanda: come mai questi dèi pazzerelloni privano l’umanità degli strumenti di sussistenza, ma poi li concedono? Che cosa ha fatto cambiare loro idea? Non potevano concederli prima, ed evitare la tragedia della carestia? La risposta è: sì, potevano, eccome se potevano, ma il fatto è che agli déi non importavano né gli uomini né le loro sofferenze. Per niente. E quando “/a città e il popolo non facevano più libagioni agli dèi” che si sentono toccati nel vivo. Ecco allora che agiscono: ma per sé, non per gli altri. Folle umanità. Non contenta di fare la schiava ai potenti di 96

turno, si è immaginata una schiera di esseri più potenti ancora, mai esistiti, da ossequiare venerare adorare e soprattutto nutrire. È da questo evidente imbroglio della fantasia che è nata l’idea del sacrificio: dalle due miti tortore di Giuseppe e Maria all’agnello della Pasqua su fino agli incredibili suovetaurilia dei Romani: dai bambini ad Isacco che l’ha scampata bella; dalle povere vittime azteche dell'America precolombiana allo stesso figlio di Dio che avrebbe sacrificato sé stesso a sé stesso, per una qualche ragione che mi rimane ostinatamente oscura, nonostante gnostici e preti. Se posso dire la mia, credo sia molto meglio offrire a Dio il sacrificio del lavoro, ed anche l’enorme sacrificio di operare per il bene e rinunciare a tante tentazioni del male, dato che siamo suoi alleati per allargare il bene sulla terra. Magari donando sostanze a chi ne ha bisogno, non a Dio a cui non credo aggrada vederle andare letteralmente in fumo. x» *k*

Vorrei riportare qui una composizione scritta in accadico, conosciuta da tavolette del I Millennio, ma che certo risale almeno al 1800 a.C. E un esorcismo contro il male di denti. Viene ricordato come Il verme del mal di denti (Thompson, Cuneiform Texts ... in the British Museum, London 1903, 17 tav. 50). Vi si racconta che “quando Anu (il cielo) ebbe creato il Cielo, ed il Cielo ebbe creato la Terra, e la Terra ebbe creato i Fiumi, ed i Fiumi ebbero creato i Ruscelli, ed i Ruscelli ebbero creato il Fango, ed il Fango ebbe creato il Verme, il Verme andò a piangere davanti al (dio-Sole) Samas, e le lacrime scendevano davanti ad Ea”. Insomma: una generazione a grandi gradoni, alquanto strava-

gante per giustificare l’esistenza di un verme, peraltro nato dal fango ma per qualche ragione ignota. Il resto, che comunque poco ci interessa, prosegue spiegando che questo verme si era messo a piangere perché non aveva niente da mangiare. Eppure qualcosa da mangiare lo aveva, perché aveva rifiutato vari frutti che gli erano stati proposti. Oltre ad essere alquanto viziatello, questo verme maledetto doveva essere anche alquanto sadico, perché chiese di essere sistemato tra il dente, a cui cavar sangue, e la gengiva, da corrodere. A questo punto parte l’esorcismo, con l’invocazione ad Ea perché lo colpisca e lo annichilisca, con tanti auguri da parte mia e di chi, come me, ha patito le sofferenze di questo male infernale. Si tratta. come si vede, di una composizione che mostra una successione di creazioni sempre meno “importanti”, dove Cielo e Terra non appaiono più dopo essere stati separati e quindi nati 39

non contemporaneamente, ma in successione, con prevalenza del Cielo che crea la Terra. In un’altra versione molto sintetica, nella quale tutta quella parte di sequenza “acquatica” è abolita, si legge che Alala creò Anu, che creò il Cielo, da cui è stata creata la Terra, dalla quale è

stato creato il Verme. Dunque niente fiumi ruscelli e fango, ma in compenso siamo un gradino più su nella scala della creazione. Alala: chi era costui? Un altro Carneade. Abbiamo già visto la coppia degli Alla sacrificata per creare l’uomo. In effetti da altre fonti si tratterebbe del marito della dea creatrice Belit-ili, la “Signora degli dèi”. Dunque saremmo di fronte all’autentica coppia esistente ab initio, le due divinità creatrici di tutto, la cui parte maschile qui viene preferita e privilegiata, dato che siamo evidentemente in epoca ormai decisamente maschilista. E chissà che la doppia e//e di questa quasi sconosciuta divinità non voglia indicare, come abbiamo già pensato, il dio per eccellenza: il padre del Cielo, e dunque l’alto dei Cieli. RR

C’è un breve inizio di natura cosmologica anche in una interessante operetta, intitolata Viaggio di Enki a Nippur (Al Fouadi, Diss. Università di Pennsylvania, 1970), risalente al periodo paleobabilonese. Nei primissimi versi si legge che Enki, quando furono fissati i destini, prima di intraprendere il suo viaggio si costruì un meraviglioso palazzo nell’ Apsù. Problematico è il verso 3, molto importante a seconda di come viene interpretato. In effetti alcuni autori lo collegano al verso precedente, che parla di un anno di ricchezza voluto da An: questa ricchezza si sarebbe espansa sulla terra (es. Bottéro: “un anno di ricchezza ... si era spiegato qui in basso come un tappeto d'erba”). Altri (Castellino, Pettinato) traducono diversamente (Pettinato: “quando gli esseri umani spuntarono dalla terra come piante”’*) corroborando, con ciò, l’idea

che in una scuola di scribi (Nippur) la creazione dell’uomo fosse intesa come un germogliare dei vegetali*. >

Nella nostra ricerca cosmo/teo/antropologica può esserci utile anche una semplice invocazione che troviamo utilizzata in diversi esorcismi. Si tratta dell’esaltazione del Fiume creatore, o meglio Castellino, Mitologia sumerico-accadica, 168: “L'umanità, come erba, irruppe dalle crepe” ** Per questa questione rimando a Lisman, Cosmogony ..., 9 sg., 14 sg.

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dei fiumi, vita e vigore della Mesopotamia (Bottéro, Mvythes et rites, 323 Sg.). Vi si afferma che questo dio-Fiume è il creatore di tutto, ma subito dopo questo epiteto è smentito dal fatto che “i grandi dei hanno scavato il suo letto”. D'altronde abbiamo‘appena visto, nel raccontino del Verme, che è stata la Terra a creare il Fiume, il quale poi ha creato il resto. A rigore dunque il Fiume potrebbe essere considerato il creatore di tutto, ma di tutto quanto esiste ed avviene dopo di lui. Il testo prosegue con l’accenno alla prosperità che il fiume porta. Nel suo fondo ci sarebbe la dimora di Fa, re dell’Apsù, senza dubbio perché il fiume nasce da una fonte che sorge dall’Apsù, da cui ha preso tutta la sua potenza che (a volte) può essere distruggitrice come un diluvio. **A*

Risalendo a testi più antichi, ché tali si rivelano quelli scritti in sumero, dobbiamo rilevare che le nozioni che ci interessano non sono tanto l’argomento fondamentale di grandi o piccole opere, ma le troviamo invece, come d’altronde abbiamo già visto, come prologo di composizioni che sono state scritte per tutt'altro scopo. Prendo come primo esempio la prima parte di un’operetta sumera che abbiamo avuto già modo di conoscere: Ghilgames Enkidu e gli Inferi (Shaffer, Sumerian Sources..., Diss. Pennsyl-

vania 1963, 48 sg.). Si è già visto che si tratta di una rievocazione del defunto Enkidu da parte dell'amico Ghilgames, che vuole conoscere la situazione dei morti nell’oltretomba. Incontreremo ancora questa operetta quando parleremo di Inanna. La parte della rievocazione di Enkidu è stata in seguito appiccicata, in lingua accadica, come ultima XII tavola al Poema di Ghilgames. Ma all’inizio non parla né di Inferi né di rievocazioni, ma del caos primordiale: giorni primigèni, notti remote, anni antichi, quando il cielo fu separato dalla terra e la terra fu separata dal cielo. In quei giorni lontani An aveva preso per sé il cielo, Enlil la terra e gli Inferi toccarono ad Ereskigal. Fin dall’inizio, dunque, la grande triade. Nessun sorteggio, come si vede altrove, ma il sorgere di entità primigenie che si identificano con le realtà stesse emerse da questo primo, colossale, epocale, cosmico avvenimento: la divisione del cielo e della terra, evidentemente da un caos informe e indefinibile. Dal caos primordiale è nata una prima organizzazione che ha interessato i tre elementi fondamentali: il cielo, la terra e il sotto99

terra. Ma sono nati così anche tre dèi, che portano nel nome la ragione della loro esistenza. Come dire: visto che è nato finalmente il cielo, è il cielo stesso che si governa da solo, è lui stesso il suo stesso dio, è il Cielo il dio “cielo”. E così per altre divinità. Possiamo trovare in tal modo la risposta ad un nostro quesito: per quale ragione viene dato ad Ereskigal il dominio del regno dei defunti, quando i defunti sono molto al di là da venire? Sembra allora che in questa prima fase i defunti non c’entrino: c’entra invece il mondo sotterraneo, tutto quanto, senza distinzioni alcu-

ne. L’apsù di Enki/Fa, l’irkalla dei morti, la galleria sotterranea del Sole apparteranno ad una evoluzione futura. Di Enki si parla subito dopo, ma in un contesto problematico: lo vediamo in viaggio con la sua barca, ostacolato da pietre che si abbattono sulla chiglia, diretto verso il kur, verisimilmente l’oltretomba. Ma ab-

biamo visto che l’oltretomba era di EresSkigal! Allora viene qui descritto un Enki cacciato dalla terra, che cerca sotto terra una sede

tra difficoltà ed ostacoli, prima di prendere possesso dell’A psù? Resta solo una considerazione: non viene detto che nel caos esisteva un dio-Caos. La vita (divina) è nata dunque con il principio dell’organizzazione, e nell’organizzazione sta dunque la vita: ordo (vita) ab chao (mancanza della vita). RK

Un testo del periodo di Ur III (Lisman, Cosmogony, 53), che chiamerei Carestia degli dèi parla di giorni in cui non esisteva l’acqua per i campi, e la terra era piena di ghiaccio. Gli déi, a cui era stato assegnato il dovere di lavorare, pensarono all’umanità perché svolgesse lei questo compito. Il Tigri non portava sufficiente acqua al mare, non si producevano frutti per le offerte, c’era una forte carestia, nessuno puliva i canali, il fango non vi veniva dragato, l’acqua non inondava i campi e non si scavavano fossati. Niente solchi nella terra, e poca semina. Il brano descrive una penosa situazione sulla terra, e sembra di capire che gli dèi incaricati di lavorare (verisimilmente gli Ighighi) erano diventati sfaticati: da qui il pensiero di accollare agli uomini questa poco piacevole incombenza. RR

Una “tenzone” del tipo che già abbiamo visto, scritta in sumero, mette a confronto l’Albero e la Canna (de Genouillac, Textes cuneiformes 16 ete., Kramer, Uomini e dei ..., 509 sg.). Erano i

fondamentali e primi elementi naturali utilizzati per la costruzione degli edifici. Verranno poi i mattoni, elementi artificiali. 100

L’albero era indispensabile per la costruzione soprattutto del tetto, e tale sistema durerà anche fino ai giorni nostri. Per i palazzi antichi gli alberi servivano per avere tetti ottenuti con fusti particolarmente grandi ed alti, tra cui ovviamente primeggiavano (ed erano meta di varie spedizioni militari a scopo di razzia) i cedri del Libano. Ma non mancavano altri, come le acacie, le tamerici,

le palme. Inutile dire che l’albero serviva anche ad ottenere colonne, ed in casi particolari anche a rivestire di legno le pareti. La canna, ancora oggi abbondantemente attestata, specie nel sud-Italia, per ottenere solette particolarmente efficaci per attenuare la calura del sole, in Mesopotamia si trovava anche come elemento divisorio tra strati di mattoni, per attenuarvi il peso e favorire la stabilità. Ancora oggi è facile costatarne la presenza in qualche resto di edificio antico, come ad esempio in quel che rimane della zikkurat di Dur-Kurigalzu. Questa “tenzone” tra albero e canna si trova in alcuni esemplari che risalgono ai primi secoli del II Millennio. Narrano come ai primordi (anche qui c’è un autore che risale ad Adamo ed Eva, anzi oltre), ci fosse la Terra. Dunque si presuppone come già avvenuta la sua separazione da un caos primigenio. Si tratta di una enorme piattaforma, che ci appare tutta agghindata, ornata d’argento, lapislazzuli e varie altre pietre semipreziose. È come la sposa che si fa bella in attesa di essere fecondata dal suo sposo, il Cielo, tramite la pioggia che è il suo sperma. Ed ecco che “;/ dio sublime, il Cielo, affondo il suo pene nella terra spaziosa, versò nel suo grembo il seme dei valorosi Albero e Canna.

Tutta quanta la terra, la fertile mucca, ricevette dentro di sé il buon seme del Cielo” Questo passo ci fa pensare che il “vomere” che ha inciso la terra nel Mito di Dunnu fosse effettivamente un’allusione al pene del Cielo. Ci spiega come miticamente siano nati, fecondati dalla pioggia, questi due preziosi elementi, ma non viene raccontato come sia nata la terra, come sia nato il cielo, come siano stati separati, rimanendo uniti come amanti. **k*

Una “tenzone” tra la Palma e la Tamerice (Wilcke, ZA 79, 1979, 161 sg. et aliî) ha anch'essa un interessante prologo, in cui si narra che gli dèi, quando ormai ferveva la vita degli uomini, pensarono di dare loro un re. La triade divina (Anu, Enlil ed Fa) insieme al dio-Sole ed alle dee madri, diedero allora la regalità alla città di Ki (come è confermato da altri testi). Interessante è una variante, 101

secondo cui furono gli Ighighi, cioè gli déi minori, a scegliere di conferire la regalità a Kiò, (sottintendendo, con ciò, che gli uomini li avrebbero sostituiti nel lavoro).

Vorrei ricordare, a questo proposito, il prologo di un poemetto, Lugalbanda e Hurrum (Black, Reading Sumerian Poetry, Oxford 1998, 176), in cui si parla invece di Uruk, la città che di-

venne potente e ricca dopo che, naturalmente, il cielo fu separato dalla terra, e poi tutto fu perfettamente organizzato. dk

*

Un'altra “tenzone” sposta il nostro interesse verso tutt’altri lidi. I contendenti sono ora l’Estate e l’Inverno (van Dijk, La Sagesse suméro-accadienne, Leiden 1953, 43 sg.; Kramer, Uomini e dei ..., 511

sg.). Come per l’albero e la canna, in questa composizione sumera, nota anch’essa da più esemplari risalenti all’inizio del Il Millennio, si narra come siano nati gli archetipi dell’estate e dell’inverno. Questa volta non è il Cielo, ma Enlil il dio più potente, che agisce come Nunnarmir, nome che evoca la sua sovranità. Enlil agisce per una umanità, che però non c’è ancora. Come un toro, questo “sovrano dell'universo affondo il suo pene nella vasta regione montuosa”. In tal modo la Montagna ne esce ingravidata, ed Enlil ne estrae

l’Estate e l’Inverno, che mette a pascolare come se fossero uri”. Nell’estate non ci sarebbe stata pioggia, mentre d’inverno sarebbe stata procurata per la campagna. Insomma: era stata creata un

sistemazione regolare dei tempi perché le stagioni si alternassero in modo che la produzione agricola (orzo, lino) fosse regolare. Anche qui, sia pure in altro contesto, appare l’atto sessuale, così fondamentale per far nascere la vita. Ed è un atto così autentico che la Montagna durante l’atto gode di piacere come se fosse anch’essa un uro. Anche Enlil agisce “come un toro”, il che fa immediatamente supporre che tutta la narrazione sia stata ispirata da una monta di bovini. Enlil appare qui ormai separato dalla Terra, e la domina. È strano che faccia nascere le stagioni da una montagna e non da qualche altro elemento. Forse si tratta del mitico kur, il “monte della vita”, di cui avremo modo di parlare? dk

Tra le creazioni precedenti quella dell’uomo c’è quella della triade ’ CHRSÙ . : : . . *Ko) L’uro, bos primigenius, pascolava in Europa, Asia e nell'Africa del nord fino al XVII secolo

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astrale: soprattutto Luna (il padre) ed i suoi figli Sole e “Venere” (Inanna/IStar). Ma le modalità sono contrastanti. Nel 7rattato di Astrologia era stata la triade divina a creare quella astrale. Nell’Enuma eli$ si è visto invece che è stato Marduk a creare la Luna, ma si è visto anche che Marduk è stato, nella storia della religione mesopotamica, il dio che ha sostituito Fnlil. Ecco infatti che è proprio Enlil a creare Nanna, la Luna, con la sua partner Ninlil (che porta il nome corrispondente al suo: nin.lil, “La Signora del vento”). L’operetta che ne parla può essere chiamata, infatti, La nascita del dio Luna (Kramer, Sumerian Mytolo2, 43 sg.: Behrens, Enlil und Ninlil 1978). Scritta in sumero, risale all’epoca paleobabilonese (c. XVIII secolo a.C.) Il racconto inizia con l’esaltazione della città di Nippur e del suo Tempio Dur-anki che, lo sappiamo, era la sede di Enlil. Ninlil (che non doveva chiamarsi ancora così) era una vergine bella e attraente, a cui la madre dà il saggio consiglio di non andare a bagnarsi al fiume, perché Enlil, che evidentemente bazzicava da quelle parti, avrebbe potuto vederla con indesiderate conseguenze. Ah, la fanciulla al bagno! Nei film del far west c’è spesso la giovane verginella, o giovane sposina, che con quel caldo soffocante zitta zitta si fa il bagno, appena vede una bella polla di limpida acqua rinfrescante ed accogliente. Poi la storia cambia, ma certamente c’è sempre qualche uomo di mezzo. Storia e miti non ne sono privi, da Susanna ed i vecchioni (non

proprio vecchioni vecchioni, se volevano possederla), alla bella moglie del povero ittita, Betsabea, vista guardata desiderata e posseduta da quel limpido esempio di purezza e castità, il re Davide, un bel tipo da cui si volle far discendere nientemeno che Gesù Cristo. Illustre antenato da farne volentieri a meno. Il copione viene ovviamente rispettato: la fanciulla si bagna, Enlil la vede, ed il fattaccio è compiuto. Ninlil, che sarà poi la sua compagna, rimane incinta, ma intanto accade l’inimmaginabile, segnale sicuro che con il tempo e con i luoghi le figure divine cambiano e con loro cambia l’intensità della loro potenza. Qui la potenza di Enlil è infatti limitata: sarà pure il più grande degli dèi, ma la deprecabile azione compiuta è di una tale gravità che viene arrestato e processato: vuol dire che in quel momento la giustizia agiva per suo conto, ed il sovrano ne era soggetto. 50 divinità più i Sette (i Sibittu) evidentemente preposti alla giustizia, condannano Fnlil all’espulsione: la violenza ad una donna era (e sempre è) un crimine orrendo, da punire con l’ostracismo. 103

Enlil non ha altra possibilità che esulare negli Inferi, ma intanto che vi si sta recando, ecco che Ninlil, che si è innamorata di lui,

lo cerca e lo raggiunge. Pericolo! Se Ninlil procrea negli Inferi il

suo bambino, costui è destinato a rimanervi, il che non coincide certo con i desideri di Enlil. Per rimediare, Enlil si trasforma via

via in tre personaggi degli Inferi: il guardiano delle porte, il custode del fiume infernale, il traghettatore delle anime, che Ninlil via via incontra per strada, rimanendone sempre incinta (povera vittima!) e partorendo tre esseri destinati a rimanere negli Inferi sostituendo il primogenito, che così è libero di salire al cielo. Costui è Nanna, il dio-Luna (futuro padre del Sole e di Inanna). Dunque Nanna risulta figlio di Enlil, anche se altrove, abbiamo visto, risulta nato da tutta le triade, o da Marduk o ancora, in un altro testo, enbu Sa ina ramanisu ibbanu; “frutto che si è creato da solo”. RR

Un inno (Lisman, Cosmogony, 53 sg.) del periodo paleo-babilonese riporta qualche notizia che, a dire il vero, non mi è chiarissima. Parla della coppia Enlil e Ninlil che prima guardano il cielo, e poi stabiliscono un santuario sulla terra. Si tratta evidentemente del tempio di Nippur. Poi gli Anunna, sia quelli del cielo che quelli della terra (infera?) hanno ordinato che (loro stessi? L'umanità?) prendessero zappa e cesto (da lavoro) per fondare città. Potremmo denominarlo La fondazione degli abitati. >>

Sempre al periodo paleo-babilonese risale il testo sumero del diluvio (Diluvio sumerico, Poebel, Historical! and Grammatical Texts,

PBS 4, 5, 1914). Nella prima parte, che vede mancanti più di una trentina di righe, una divinità evidentemente potentissima (Anu? Enlil?) dichiara di volere portare la civiltà all’umanità, affinché impari a costruire le città ed i templi, e sia irrigata la terra perché ci sia pace e prosperità. Ciò per/in favore di Nintu che è la dea della procreazione: questa dea aveva dunque già creato gli uomini, che tuttavia vivevano come selvaggi. Il testo passa poi a narrare di quando gli déi An, Enlil, Enki e Ninhursag (la “dea madre”) crearono l’umanità ( = le “teste nere”), gli animali si moltiplicarono. Poi, in testo un po” corrotto, vengono elencate le prime città, che sono (elencate in ordine cronologico insieme alle loro divinità poliadi) Eridu, Bad-Tibira, Larak, Sippar, Suruppak. Un dio (I°anonimo di prima?) fece poi in modo che ci fosse la regolare irrigazione dei campi. Ma a questo punto avvenne quel terribile iato che fu il diluvio. 104

®R**

Fi

All’epoca della Terza Dinastia di Ur (Ur III, fine 3° Millennio), risale un testo sumerico, che vorrei chiamare Anu prima di tutto (NBC 11108, Lisman, Cosmogony, 37sg.). Vi si dice che il dio Anu, “il potente”, cioè il dio-Cielo, illuminava, appunto, il cielo, ma a quel tempo non esisteva nient’altro. E qui il testo elenca ciò che non c’era ancora: la terra era al buio completo, non si attingeva l’acqua dai pozzi, la terra non veniva coltivata, non esistevano ancora altri dèi, il cielo e la terra non erano stati ancora separati (ma nemmeno sposati), non esisteva nemmeno la Signora del cielo (Inanna), né c'erano gli Anunna. Insomma: “gli déi del cielo e gli déi della terra non esistevano ancora”. Facile dedurre che al principio c’era solo il dio Anu, senza che ne vengano indicati antenati e genitori. > *k>*

AI 2300 c. a.C. risale un testo proveniente da Nippur (7he Barton Cvlinder, van Dijk, “Acta Orientalia” 1964, 37, Liston, Cosmo-

gony, 30 sg.), che racconta che nei tempi remoti una potente tempesta con i suoi fulmini si abbattè sul Santuario di Nippur (sede di Enlil). Dopo questa tempesta (o magari a causa sua?) il cielo e la terra “strillarono/gridarono” (cioè si congiunsero [= grida di godimento sessuale])! O forse si parlarono/strillarono contro (=si separarono)? Oppure (credo meglio) ne risultarono sconvolti? Dopo una lacuna il testo riprende con la notizia delle “nozze(?)”

di Ninhursag (la sorella di Enlil) ed un suo atto sessuale: come vedremo subito dopo anche in un altro brano più antico, il partner la bacia, e per sette volte (cioè tante volte, finché non ebbe fini-

to) le versa il seme nel grembo. Viene poi la frase: “la terra (ki) ha parlato allegramente con il serpente” . Segue una invocazione ad un fiume divino (testo corrotto). Potremmo (riduttivamente) chiamare questo brano Amore e sesso-1. Colloco qui, seguendo Lisman, un brano che dovrebbe essere collocato oltre, perché più antico di c. due secoli; ma è direttamente collegabile con il precedente pur essendo molto più breve e corrotto. Potremmo chiamarlo Amore e sesso-2 (IAS 174, Lisman, Cosmogony, 31 sg.). Anche qui viene riportato paro paro l’atto sessuale: lui la bacia, preparano insieme il letto, e lui le versa per sette volte il seme in grembo. Nella colonna successiva viene citata Ningal, dentro cui si agita il serpente. L’interpretazione dei due testi è molto difficile, perché non si sa chi sia il partner di Ninhursag (si è pensato ad Anu), i cui 105

epiteti la mostrano come una che ha a che fare con il cielo, mentre è definita anche “grande sorella di Enlil” (nin.gal.‘en.lil). Dopo che cielo e terra “hanno gridato”, costei ha rapporti sessuali con uno sconosciuto. Segue una frase che indicherebbe un amichevole/amoroso(?) rapporto (sessuale nel brano 2) tra la terra (ki) ed un serpente. Tuttavia nel 2° brano non è la terra, ma la stessa Ninhursag (chiamata nin.gal, ved. sopra) ad avere rapporti sessuali con il serpente (che si agita dentro di lei), come indicherebbero anche due verbi che esprimerebbero il suo godere fisico. La sia pure parziale ed incerta soluzione di questo dilemma potrebbe venire, secondo il mio parere, solo intendendo il termine ki del primo brano (dove lo troviamo in relazione con il serpente) in altro modo che “terra”. Accettando questa correzione, sarebbe questa la sequenza dei fatti: — Grande tempesta distruttiva sul santuario di Nippur (=tempio di Enlil) — Cieloe terra “gridano”: verbo da intendere come sfacelo a causa della tempesta. — La sorella di Enlil pone rimedio unendosi con un X. — Questo X potrebbe essere il serpente con cui pare unirsi poco dopo. Il serpente (altrove simbolo sessuale) o è lo stesso X, che ha suscitato la tempesta, oppure è simbolicamente il membro di X. — Il risultato (= la tempesta si placa) vede rifiorire, con il fiume sacro, la normale vita a Nippur. i RR

*

Un testo che parla dei primordi, ritrovato a Laga$ e risalente al 2400 c. a.C., potrebbe essere intitolato Prima degli dèi (Sollberger, Corpus, Ukg 15 II e I-III 4). Dopo (o forse prima?) un accenno alla canalizzazione del terreno (“i buchi della terra furono riempiti di acqua”, il tema diventa come in Anu prima di tutto. Sembra il momento immediatamente successivo a quando cielo e terra non erano ancora separati. Qui invece “si chiamarono l’un l'altro” (come è stato tradotto il verbo in questa occasione): sembra dunque che stiano per (ri)unirsi in un tutto armonico, a meno che non si voglia intendere il verbo come “strillarsi contro” %, o

ancora “furono sconvolti” da qualche sconvolgimento cosmico.

°° Su questo testo ved. anche G. Rubio, cit. (nota 6). Lisman, Cosmogony, 27 sg. pensa che il verbo indichi l’unione sessuale durante il matrimonio sacro.

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In ogni caso non esistevano ancora Enki e la paredra Ninki, e nemmeno c'erano Enlil e la paredra Ninlil, e non c’erano la luce del giorno né quella della notte, dunque nemmeno il sole e la luna. ®»**

C'è un testo del 1500 c. proveniente da Abu-Salabih, che vorrei chiamare Breve sequenza di dèi (IAS 114, Lisman, Cosmogony ...,

23 sg., 225 sg.). Ci dice che an e ki (cielo e terra) avevano creato Enki e la paredra Ninki, a loro volta creatori di Enlil e la paredra Ninlil, a loro volta creatori di Nanna (dio-luna). Il che, abbiamo già visto, non corrisponderà certamente a quanto si crederà in seguito, almeno per quanto riguarda Enki ed Enlil. Lisman (Cosmogonvy, 26 sg., 229 sg.) riporta altri tre testi della Stessa natura, provenienza ed epoca, in cui viene riportato che Enlil è il dio che ha separato il cielo e la terra: testo che vorrei chiamare Enlil separatore. >»

>*

Vorrei citare per ultimo un testo, redatto in sumero, del III Millennio. E stato ritrovato a Ebla (Siria del Nord), e dunque non è chiaro

se rispecchia il pensiero eblaita o se si tratta di un testo mesopotamico copiato nella città siriana. Possiamo chiamarlo La creazione eblaita. (Pettinato, OA 19, 49 sg.). Si tratta in realtà di poche righe, in cui l’autore si rivolge ad un lugal.an.ki (“Sovrano del cielo e della terra”) che poi si prolunga a lodare, dicendo che era il creatore della terra e della luce del sole, ed eliminatore del caos. >»

>*

Alla fine di questa carrellata sulle concezioni mesopotamiche della cosmogonia, teogonia ed antropogenesi, credo sia necessario ribadire anzitutto un concetto: pur restando fondamentalmente intatte, nel corso dei secoli, alcune teorie (almeno per quanto è dato constatare), altre hanno subito modifiche e ripensamenti, anche alla luce di avvenimenti storici che vi si sono riflessi. Già non poteva non cambiare la mentalità dell’uomo nel corso della necessaria, fatale evoluzione della società. Dai primi villaggi alle città-stato (abbiamo visto Laga$), alle grandi realtà politiche, emerse tra altre realtà vicine e nemiche (la Babilonia di Hammura-

pi). fino ai grandi imperi (l’Assiria di Assurbanipal, la Babilonia di Nabucodonosor II), l'evoluzione della società si è riflessa sulle

concezioni religiose, dipendenti dall'uomo che le aveva create e che era dunque in grado, anzi padrone di modificarle. Le tristemente concrete disgrazie che si sono abbattute sul paese, a cominciare dal diluvio alla fine del IV Millennio, si sono dunque 107

riflesse nel mondo dei miti: alluvioni, carestie, invasioni di barbari

nemici si sono rispecchiate nelle punizioni degli dèi. Punizioni: ché altrimenti non potevano essere intese. E da qui è nata la ricerca, certo vana, di cause che abbiano in qualche modo irritato questi déi inesistenti ma tremendi ed impossibili nella loro natura (inventata). Tra i fatti che devono essersi verificati nella terra tra i due fiumi credo sia da annoverare quella rivolta degli dèi minori così bene descritta nel Grande Saggio. Fu una rivolta probabilmente vera, non di dèi ma di uomini: vera perché non credo che sia stata mitizzata senza che fosse avvenuto un episodio autentico che l’avesse ispirata. Per questo ho espresso tutta la mia ammirazione per quell’ignoto, anonimo protagonista, poi personificato nel dio Wé, che ne fu a capo e che fu sacrificato. La storia del mondo, compresa quella italiana anche recente, è punteggiata di innumerevoli rivendicazioni. La maggior parte avrà certo avuto motivazioni giuste e nobili, tuttavia si sono trasformate spesso in atti disdicevoli, per non dire criminali”. Vorrei solo ricordare, per tutte (e chissà quante sono!), la rivolta contadina nella Germania del 1524, che ebbe a capo il predicatore religioso Thomas Miintzer. I rivoltosi chiedevano la soppressione della servitù della gleba e dei privilegi della Chiesa e dei nobili. Come dar loro torto? Ma dovettero sottostare alla repressione dell’autorità costituita, anche perché si lasciarono andare a saccheggi e delitti, come si può comprendere dalla condanna

espressa dallo stesso Lutero”, anche lui ossequioso delle infelici frasi di San Paolo nella Lettera ai Romani (XII) che parlano di una autorità come se fosse sempre innocente ed onesta. dk

k

Un fatto storico che troviamo, anche se quasi di sfuggita, nei testi che abbiamo considerato, è stato certamente il diluvio. Si tratta di un’altra eredità che la Bibbia ha ricevuto dai testi e dalla storia della Mesopotamia. Che sia avvenuto, e che sia avvenuto proprio in Mesopotamia, non ci sono dubbi, ad onta di quanti si sforzino di collocarlo al°" Mi vengono in mente i fatti di Bronte, ma il pensiero si estende ad altre innumerevoli rivendicazioni, giuste ma poi sfociate nel crimine, come nella stessa

Rivoluzione Francese. Tra le tante, vorrei ricordare qui, perché un po’ dimenticata, quella che diede luogo all Atto del popolo sovrano (Roma 15.11.1798). Ai giorni nostri, oneste manifestazioni pubbliche cadono nell’illegalità a causa di criminali infiltrati, che non hanno nemmeno il coraggio di scoprirsi la faccia °° M. Lutero, Contro le empie e scellerate bande dei contadini

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trove”. I più antichi racconti sul diluvio sono infatti mesopotamici (una versione anche in sumero), il toponimo è mesopotamico (Suruppak), il monte dell’arca è mesopotamico (Nisir®, comprovato dalle iscrizione di AsSurnasirpal), gli antroponimi sono mesopotamici (Ziusudra, Ubara-Tutu in sumero, Um-napistim, Puzur-Amurri, Atra-hasis in accadico), gli dèi sono mesopotamici (An, Enlil, Anunnaki, Adad, Sama$, Nintu, Mammi, Ighighi, Errakal, Ninurta, Ennugi, Sullat, Hani, anche Istar). Ma la prova maggiore consiste nel fatto che la storia più antica dei popoli mesopotamici, scritta (si badi) da quei popoli stessi, è divisa, come uno jato fondamentale, in due parti ben distinte: un “prima”, ... poi il diluvio pareggiò ogni cosa, e un “dopo” l’evento. Tre indizi mi hanno fatto supporre che il diluvio di cui parlano questi testi avvenne verso il 3000 a.C... >» **k

Una considerazione, forse peregrina ma che non vorrei sottacere, mi deriva dall’idea che a quei tempi ci si era fatta, sia pure con varianti e modifiche, sulla creazione dell’uomo: impasto di argilla e sangue di un dio “negativo”. Mi è sembrato di dedurre che anche allora si era pensato che l’uomo fosse composto di zittu (argilla) e di etemmu, elemento divino e per questo immortale, non lontano, credo, dal nostro concetto di “anima”. Non si trattava di un’anima “pulita”, ma della scintilla di un dio di poca importanza, anzi soprattutto negativa: un dio (o una coppia) primigenio, Alla, ormai sperduto nella nebbia del tempo che l’aveva ormai superato, oppure un Wé, o addirittura un Qingu, in una mitologia su cui non dovremmo dare un giudizio. Ma se volessimo darlo non sarebbe certo positivo, alla luce della nostra attuale mentalità, sia nel caso di Wé e della retrograda repressione delle sue giuste rivendicazioni, sia nel caso di Qingu a proposito di una vittoria ottenuta sopra un esercito nato dalla comprensibile reazione ad una ingiusta provocazione. Sono due casi basati sulla colpevolizzazione di due nemici vinti (che pro-

babilmente avevano ragione), dato che i vinti hanno sempre torto. ® Cito come esempio per tutti W. Ryan — W. Pitman, Noah's Flood. The

New Scientific Discoveries on the Event that changed History, New York 1998 (in italiano nel 1999), che nonostante i loro serissimi studi e ricerche hanno tuttavia

sbagliato in pieno nella collocazione del diluvio mesopotamico-biblico

l

9% Nel testo biblico il termine ’yyf non va letto Ararat (come hanno fatto i

Masoreti in un’epoca in cui si sapeva ormai ben poco della storia), ma Urartu. 95 Rimando a // diluvio, “Geo-Archeologia 2007-2, 83 sg.

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Ecco dunque un’anima “sporca”, infelice nella sua immortalità, indissolubilmente legata al realistico ricordo del corpo, affidata alla pietà degli altri dèi, che non hanno dimenticato le sue azioni “malvagie”. È un’anima che tende, come tutte le anime, al mondo divino da cui deriva, ma è condannata ad una eterna rinuncia.

Tale concezione, che mi sembra molto presente nella religione mesopotamica, non rimarrà isolata. Anzi, è la prima manifestazione di chi vedrà l’anima prigioniera del corpo, come appare ben chiaro da tante scritture gnostiche, dove accanto al corpo (ed alla psiche, anima astrale soggetta all’influsso dei pianeti), esiste, ec-

come, lo pneuma, scintilla divina che tende a ricongiungersi con Dio, di cui partecipa l’essenza.

Questo dualismo, che da un lato incatena l’uomo alla legge della materia e dall’altro crea nel suo spirito la nostalgia della perduta conoscenza di Dio e gli produce uno stato di perenne instabilità, credo che possa essere individuato, in nuce, in questa antica mitologia mesopotamica. Nel corso dei secoli si sono poi succedute la religioni più varie; da quella greco-romana, anche con influssi egiziani, ai Misteri di varia natura, a Zarathustra, a Mitra e quant’altro, fino alla rivoluzione cristiana ed ai suoi complicatissimi annessi e connessi, con

1 Vangeli più o meno credibili, alcuni reietti, altri scelti ma chissà con quanti interventi di modifiche ed aggiunte, più o meno (meglio meno) legati ad un ebraismo che era comunque la religione di Jeshua, incredibile meraviglioso personaggio deificato, certo non privo di influenze naziree, e forse anche esseniche. È qui che hanno trovato fertile terreno le dottrine gnostiche. Per alcuni gnostici è stata l’anima ad innamorarsi del corpo e ad unirvisi sconsideratamente per restarne poi prigioniera, per altri furono differenti le cause che contribuirono a rinchiuderla. Molte concezioni si sono accavallate, contraddette, enormemente

complicate, sì che certi autori gnostici si differenziano a tal punto dagli altri da potere concepire addirittura un’idea religiosa loro propria. E non è mancato nemmeno chi si è dichiarato scelto dal cielo e incaricato dall’alto di diffondere la sua propria dottrina. Tale fu Simon Mago, che si poneva come salvatore, profetizzava sciagure e proclamava una filosofia “nuova”. Il pensiero teologico gnostico (Yvwoug, “La conoscenza”) si basa fondamentalmente su un dio perfetto, trascendente, immutabile ed inconoscibile; del tutto estraneo alla natura dell’universo, vive altrove ed ha un rapporto antitetico con il mondo fisico, o co110

smo, creato dal Demiurgo e dagli Arconti (eoni): potenze inferiori che, pur provenendo da lui, non partecipano pienamente della sua essenza e allontanano il mondo e l’uomo dalla “verità ultima”.9 L'universo sarebbe formato da 7 sfere concentriche (più una di stelle fisse), che racchiudono la terra. L'uomo sarebbe compo-

sto di carne, anima e spirito. Il corpo sarebbe creato dal Demiurgo, primo degli Arconti, che gli avrebbe infuso l’anima astrale (psiche) soggetta all’influsso dei pianeti. In essa sarebbe infuso lo pneuma (spirito o scintilla divina immortale) che tende a ricongiungersi a Dio, di cui, abbiamo detto, partecipa l’essenza. Corrispondente al biblico “peccato originale”, la caduta dell’anima nella molteplicità cosmica è la conseguenza di un errore o di un sentimento negativo. Abbiamo già visto che per alcuni si è innamorata della materia dimenticando sé stessa; per altri fu imprigionata per un inganno degli Eoni. Ma i movimenti di pensiero “gnostici” non sono certo lineari. Sono differenti, ed in essi spesso si perde, nell’infinita summa delle loro concezioni, la mia povera mente fasulla. E chi ci capisce tra mondi che si susseguono e si accavallano fino alle più alte sfere? Eoni ed arconti, padri e figli, dèi e semidéi, fantastiche costruzioni di mondi invisibili ed improbabili, scaturiti da fervidissime menti di uomini intelligenti, scatenati filosofi scrittori, tanti scrittori che tanto hanno scritto, e che forse avrebbero fatto meglio a scrivere di meno. Nel leggere gli gnostici trovo un accumulo di teorie che talvolta si rifanno al passato, talaltra si moltiplicano in un coacervo di fantasie su Dio, gli angeli, l’anima, lo spirito e quant'altro. E pensare che i vari protagonisti furono, in vita, molto più noti che ora, dopo che un velo impietoso li ha nascosti nell’oscura sagrestia del Cristianesimo”. Già nel primo secolo ci fu Menandro, e Cerinto che era convinto che un essere superiore emanato da Dio fosse disceso come colomba su un uomo, figlio di Giuseppe e Maria. E non molto dopo, nel II secolo, ecco Saturnino con la sua storia degli angeli che vollero imitare una luminosa immagine, ma ne sortì una cre% Ved. per la dottrina e gli Autori gnostici, insieme allo studio accurato dei vari gradi della Massoneria Scozzese, M.C. Nicolai, Gnosis. Dalla luce del

Neofita all’ordo ab chao (2020; altrimenti pubblicato nel 2018 da Atanor, Roma, Collana “Massoneria e tradizione iniziatica’’) 9 Come il Cristianesimo ha molto influito sugli Gnostici, ugualmente il pensiero gnostico ha influito sul Cristianesimo (ved. il Vangelo di Giovanni)

Ill

atura informe, che infine ebbe una scintilla di vita dall’alta com-

passionevole potenza divina. Sempre nel II secolo, ecco Carpocrate con le sue teorie di amore libero e comunanza dei beni, Basilide con la sua complessa cosmologia e le sue fantasiose credenze religiose, nelle quali ha trovato posto l’idea che a morire sulla croce fu il Cireneo, e poi Marcione, cristiano ma scettico sul legame con l’Antico Testamento, tanto da non riconoscervi affatto il vero dio, fino a pensa-

re ad un Vangelo epurato di tanti episodi (per cui divenne alla fine una minaccia per il Cristianesimo stesso). Valentino ed i Valentiniani portarono, sempre nel II secolo, l’idea di un fortissima antitesi tra conoscenza e ignoranza, per cui la vera salvezza consisterebbe nella conoscenza dell’essere universale. Accettava solo ilVangelo di Giovanni e pensava che ci fossero 60 eoni, emanazione di Dio, ed uno di questi fosse il Cristo.

Ma in queste teorie c’è un grande guazzabuglio di dipendenze e indipendenze, azioni immaginifiche e inimmaginabili, costruzioni fantasiose di un universo che ben difficilmente deve essere effettivamente esistito, tanto da far pensare, anche qui, che le grandi menti talvolta pensano troppo. O erano un po’ troppo esaltati costoro? Ecco che gli uomini sono divisi in tre categorie, gli eoni si mescolano e interagiscono con il mondo superiore, la legge mosaica ha più autori, la storia del mondo viene tassativamente divisa in periodi. La verità si può tentare di raggiungere anche con la fantasia, è vero, ma solo se la fantasia è intuizione, non invenzione. Non è certamente questa la sede di trattare troppo del movimento che chiamiamo genericamente Gnosticismo, partendo da Nag Hammddi e dai Vangeli gnostici per arrivare a Mani passando da Marco Mago e colleghi, senza tralasciare la visione cosmica contenuta nel Corpus hermeticum. Vorrei solo sommessamente suggerire un filo di paragone con le convinzioni (anche se non sempre coerenti) dell’uomo della Mesopotamia. I miti della Mesopotamia risolvono, ovviamente a modo loro, l’insoluto dilemma sui problemi dell’uomo in un modo tanto semplice quanto pessimistico: I. L'uomo stato creato per nutrire gli dèi, esentandoli dal lavoro indispensabile per la loro sussistenza. Nasce da un mi-

sto di materia e di essenza divina non certo “purissima”*. ° Per Pettinato ed altri, secondo un’altra scuola di pensiero mesopotamica

112

2.

3.

L'uomo è il prodotto di questa mescolanza probabilmente perché, se fosse solo materia (come gli animali), non avrebbe il tema, la mente che ragiona ed inventa, e sarebbe dunque incapace di svolgere il suo lavoro. Ciò non toglie che gli dèi abbiano verso gli uomini una qual certa affezione: “// tal dio/Il dio è (come?) mio padre”: “La tal dea è (come) mia madre”: così troviamo nei

4.

nomi di persona. Dopo la morte i due elementi di cui l’uomo è formato si scindono. Il corpo ritorna argilla, l’anima no perché, dato che è divina, è immortale. Ma essendo elemento di una divinità inutile o addirittura “cattiva”, segue la via del corpo, e come il corpo è sepolta sotto terra, dove rimane viva ma in condizioni più o meno pietose, soffrendo di non potere accontentare la sua tendenza (è munita di inutili ali) verso il divino vero. Se invece il corpo non è sepolto (0 bruciato), nemmeno

l’anima (etemmu) viene sepolta, ma

vagola come un fantasma.

i

Ecco dunque la risposta mesopotamica al quesito “da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo”. Non mi sembra che i miti vadano più in là, né c’è alcun desiderio di risvegliare la scintilla divina

con il tentativo di conoscere sé stessi. Millenni dopo le dottrine gnostiche andranno oltre, ma uno substrato di idee comuni credo davvero che esista: non è detto per influenza indiretta e men che meno diretta, ma forse perché, in certe condizioni, l'animo umano è portato a ragionare, e credere, alla stessa maniera. * >*k%*

Lette così una dopo l’altra, come le ho riportate, quella quasi quarantina di operette che suggeriscono i vari aspetti di questa sintesi, costituisce un ammasso di notizie contenute dentro schemi dif-

ferenti. Quasi ognuna è un mondo a sé. Non credo sia sufficiente, per averne un quadro abbastanza organico, la disposizione con cui le ho riferite, che segue un criterio grosso modo cronologico (dalle più recenti alle più antiche). Tento allora di dividere gli argomenti e di riportare, per ciascuno, i testi che li trattano, citandoli secondo le sigle seguenti: — AC Tenzonealbero-canna l’uomo, in alternativa, sarebbe nato germogliando dalla terra, come la vegetazione (ved. sopra)

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AD AS AT BS CB CD CE CU DA DS ED

Agricoltura dopo il diluvio Amore e sesso Anu prima di tutto Breve sequenza di déi Cereali e bestiame minuto Carestia degli dèi Creazione eblaita Creazione dell’uomo I due animaletti Diluvio sumerico Enki ordinatore

EE Enuma eli$

EI Estate e Inverno

EN Enlil e Ninmah ES Enlil separatore

EO Enlil Ordinatore

FA Fondazione degli abitati FC Fiume creatore GE Ghilgames Enkidu e gli Inferi GS Il Grande Saggio IC Introduzione dei cereali IE Esaltazione di IStar IZ Invenzione della zappa KM Iscrizione di Kudur-Mabuk LH Lugalbanda e Hurrum MC Marduk creatore MD Mito di Dunnu NL Nascita del dio-Luna PT Preghiera per il Tempio SK Statua di Kurigalzu S$ Scongiuro a Sama$ TA Trattato di Astrologia Tar Tutto era argilla 114



TP Tenzone palma-tamerice



UP Tenzone uccello-pesce

— —

VD Verme del mal di denti VD, Verme del mal di denti (2a versione) — VN Viaggio di Enki a Nippur Per ogni sezione, i testi citati per primi sono i più recenti. Il prospetto è sintetico e non può essere esaustivo perché molti particolari sono necessariamente omessi. > >* >*

Primordia, caos Miscuglio delle acque -EE Prima della separazione del Cielo e della Terra Filiazione: due esseri primitivi -EE [Enlil] crea il mondo e determina i destini -IZ [An ed Enlil] pianificano l’universo e fissano i destini -UF Alla crea Anu -VD,

Esisteva Anu prima di tutto -AT Eliminazione del caos -CE Separazione / congiunzione del cielo e della terra

An-Sar e Ki-3ar -EE Separazione del cielo e della terra, definizione dei destini -EN - KM Vomere/Cielo e Terra generano il Mare -MD Separazione del cielo e della terra -—CU Enlil separa il cielo e la terra -1AZ Anu crea il cielo, il cielo crea la terra, e da qui creazioni successive (fiumi, ruscelli ecc.)-VD —-VD,

Separazione del cielo e della terra —GE La terra è fecondata dal cielo -AC Creazione della terra — CE Esiste solo Anu. Cielo e terra stanno per ricongiungersi. Non esisteva altro —Tar I Cielo e terra si congiungono — SS Enlil separa cielo e terra -—ES Separazione della terra e del mare Marduk crea la terra sul mare preesistente -MC Enki separa l’acqua dalla terra abitabile -—UP

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Triade e altri dèi Triade divina ed altre divinità -EE Triade e Anunnaki preposti al loro compito dalla sorte -GS Namma partorisce gli dèi. Gli Anunnaki si sposano e partoriscono -EN Dèe madri -CU Anu crea gli Anunnaki -CB Triade divina (con EreSkigal) —GE Enlil padre del dio-Luna -NL An e Enlil ( + Ea) - SS Breve sequenza di dèi - BS Concepimento creazione e possesso del cielo e della terra Marduk con il corpo di Tiamat diviso in due crea l’universo- EE La triade prende possesso del cielo e della terra -PT La triade concepisce il cielo e la terra - TA La triade concepisce e crea il cielo e la terra -DA

Creazione dell’ Apsù Fa crea 1’Apsù -EE -EO Enki crea il suo palazzo nell’ ApSu -VN Creazione degli astri Marduk crea astri e costellazioni e il susseguirsi del tempo -EE La triade crea gli astri ( e dunque la triade astrale), ed il susseguirsi del tempo -TA Nascita della Luna — NL - KM Sole e Luna — IE - SK Creazione della luce solare —CE Creazione del Sole -S$ Creazione del primo Tempio Nella sfera superiore Marduk crea il Tempio universale -EE Fa crea il Tempio con una zolla dell’Apsù e con vari elementi (legno e canna). Ne crea le varie parti -EO Creazione del Tempio —PT Fondazione del Tempio di Nippur - FA

Sistemazione del mondo Nascita della natura, i 2 Fiumi, animali città e templi -MC Dal Mare e altre divinità si realizza una serie di nascite attraverso incesti, patricidi e matricidi, con le quali si vuole forse rappresen116

tare l’evoluzione di esseri via via creati: piante, animali ecc. -MD

Grandi dèi e Anunnaki sistemano il mondo, Terra; 12 Fiumiac.

qua -CU Ea sistema piante e bestiame minuto. Elabora il cibo -EO Enki crea i 2 Fiumi, organizza agricoltura e allevamento, villaggi, città e meridione della Mesopotamia -UP Gli déi creano il Fiume, e il Fiume crea il resto -FC Cielo e Terra generano alberi e canne -AC Enlil e la Montagna generano Estate e Inverno —EI Gli dèi creano cereali e bestiame minuto per sé, poi Enki e Enlil per gli uomini — CB Fiumi e montagne, abitazioni — S$ Perfetta organizzazione generale —LH Distruzione e rifacimento del Santuario di Nippur — AS Nascita della civiltà — DS Fondazione degli abitati - FA Creazione del Re EO=PT-UP

Regalità a K13 - TP

Lavoro degli dèi minori Gli déi minori lavorano e si rivoltano -GS Gli dèi minori lavorano e si lamentano-Namma avverte Enki -EN

Gli dèi minori lavorano e bisogna sostituirli -CU

Creazione dell’umanità Marduk concepisce l’idea dell’uomo per alleviare le fatiche degli déi, ed Ea crea l’uomo con il sangue del dio nemico vinto Qingu -EE (accenno) —-EO -PT

Aruru crea l’umanità -MC Creazione suppletiva dell’uomo. Dea-madre ed Enki. E immolato il dio Wé capo della rivolta. Nasce l’uomo dall’argilla e da carne e sangue del dio (versione assira: Enki impasta l’argilla e la dea-Madre recita le formule). Nasce l’uomo con corpo ed anima. Purificazione degli dèi. - GS Enki concepisce a sua immagine il modello dell’uomo. Namma prende l’argilla dall’Apsù con l’aiuto di altre dée dedicate alla procreazione e ne realizza il modello concepito da Enki, poi partorisce l’uomo sulla base di quel modello -EN 117

Gli Anunnaki suggeriscono di immolare due Alla divini, con cui viene creato l’uomo nel Tempio di Enlil -CU Enlil crea (o meglio: fa creare) l’uomo nel suo Tempio: crea una zappa preziosa con cui stacca l’argilla, e con questa argilla la dea-madre crea l’uomo -IZ Gli dei creano l’umanità -CB Anu e Enlil (ri)creano i Sumeri con l’argilla -AD Carestia degli dèi e decisione di dare il lavoro agli uomini - CD

Primitiva situazione dell’umanità Gli uomini sono selvaggi. Gli Anunnaki creano per sé vegetali e animali, ma sono insufficienti. L’uomo allora viene creato (0 “civilizzato”’?) perché possa produrre e lavorare per loro -CB Gli uomini sonò selvaggi. Anu provvede loro di cibo e vestiario ma Enlil se ne appropria. Infine, grazie al Sole, i due prodotti vengono introdotti in Sumer -IC Anu ed Enlil lasciano che in un primo tempo gli uomini siano selvaggi, poi si affrettano a dar loro gli strumenti per l’agricoltura quando si accorgono che gli uomini selvaggi non sono in grado di lavorare e produrre per loro -AD Lavoro degli uomini Lavoro degli uomini, baccano, tragiche reazioni di Enlil -GS L’uomo è destinato a moltiplicarsi e produrre - CU Gli Anunnaki trasmettono la zappa all’uomo perché lavori -IZ **k*

Mi pare che balzi più che evidente che, in qualche punto, fatti e convinzioni coincidano, ma che in altri ci siano delle significative varianti, mentre in altri ancora compaiano fior di contraddizioni e differenze. Ne sono state individuate due scuole, una che faceva capo ad Eridu (città sacra ad Enki) e l’altra ad Uruk (città sacra ad Anu). Fondamentale è poi la distinzione tra fonti sumere ed accadiche. La sintesi che ho tratto è dunque sicuramente mancante ed imperfetta”. oi

” Altri brani mesopotamici fanno cenno, naturalmente, ad eventi cosmici,

a lotte tra divinità, ad episodi molto particolari, ad altri eventi difficilmente inseribili in un canovaccio più o meno comune. Tali sono, ad esempio, La disfatta di Enmesarra, La città di Zarpanitum, Il duro lavoro dei Babilonesi, Uras e Marduk, il già citato Assassinio di Ansar, Il “vincolo” di Damkina, La sconfitta di Enutila, Enmesarra e Qingu, L'uccisione di Labbu, Il primo mattone, etc., ved.

in Lambert, Babyvlonian Creation Myhts.

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La perniciosa fantasia che ha permeato tutte le costruzioni mitologiche che abbiamo visto, ha indotto l’uomo della Mesopotamia a credere in un dio bizzarro, che porta del male all’uomo per ragioni che saprebbe solo lui. Basta leggere operette come il Ludlu/ bel nemegi o la eodicea babilonese per rendersene ampiamente conto!®. Tutto è sudditanza ad una divinità strana perché inspiegabile, talvolta multiforme, suddivisa in cento facce ed aspetti, altre volte sintetizzata ma non troppo in un essere solo, e sempre umanizzata più che mai, difettosa e cattiva. L’umanizzazione del dio ha portato in ultima analisi, nel corso di tutta la storia umana, ad un dio-uomo, estremo punto d’arrivo.

Altrove non si è arrivato a tanto, e ci si è accontentati di potenziare al massimo la figura del suo interprete principale (il Profeta, esaltato, eroicizzato, santificato).

Il fatto più singolare di tutto questo coinvolgimento di un dio nella storia dell’uomo è che tutto è stato frutto dell’immaginazione e della fantasia. Nulla di veramente concreto, ma tutto basato sulla fede di credenti che spesso potrebbero essere dei semplici creduloni. Anche la fede nel Cristianesimo, su cui in effetti si è basata gran parte della mia vita, vacilla quando mi si chiede di credere e basta,

come spesso usava fare Jeshua, grande personaggio intorno a cui non solo ruotano i Vangeli, ma un coacervo di idee e di interpretazioni strane, che lo hanno frainteso e fatto fraintendere. Quel che rimane dei Vangeli apocrifi e degli scritti gnostici è sufficiente a dimostrare come questa religione non sia stata da sùbito limpida e cristallina, ma fin dall’inizio coinvolta in interpretazioni e mistificazioni diverse (peraltro, sotto certi aspetti, nell'àmbito degli stessi Apostoli: ved. le scuole di Giacomo e di Paolo). Mille dubbi mi vengono dai veri o presunti “miracoli”, a cominciare dalla nascita virginale del protagonista, non nuova nella storia delle religioni!”. Lo stesso messaggio sulla filosofia della vita, per certi versi (sia chiaro, cum grano salis e facendo acco100 Rimando a queste opere ad al loro commento al già citato Perché il male? Il problema nella Mesopotamia antica 01 Mitra nacque da una vergine in una grotta. Il suo culto prevedeva la festività della Domenica e quella del Natale al solstizio d’inverno (che allora cadeva

il 25 Dicembre). Tra i suoi riti figurava il battesimo e la reiterazione di un’agape celebrata con pane, acqua e vino, che rappresentavano il “cibo dell'immortalità”. Ved. anche P. Mengoli, Gesù e il primo Cristianesimo, Acireale-Roma 2017, 25 sg. Le nascite da una vergine non si fermano comunque a Mitra e Jeshua

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stamenti con i piedi di piombo) non così tanto dissimile da quello che ci ha lasciato Gauguin'®, è accettabile solo se praticato nel cuore, perché seguire l’esempio dei corvi o degli anemoni (i “gigli dei campi”) ci porterebbe ad un impossibile “buon selvaggio” con gli uomini che non lavorano, o che sfruttano chi lavora. Ugualmente gli avvenimenti, così palesemente contraffatti in certi Vangeli gnostici, non possono avere sempre l’assoluto convintissimo marchio dell’autenticità. Che nel pane e nel vino ci siano il corpo e il sangue di Jeshua è miracolo da accettare solo ad occhi chiusi, non da chi li abbia quanto meno socchiusi interpretando quelle parole come un semplice comprensibile invito alla celebrazione del ricordo, in un periodico banchetto futuro (“fate questo per ricordarmi”). Se si intendono alla lettera, cosa distin-

gue quell’atto ‘dall’antropofagia?® D'altronde, anche gli Esseni consumavano un banchetto sacro con la benedizione del pane e del vino. Semmai sono i valori, i princìpi, i dettami e magari anche le convinzioni (vere o false) dello spirito che entrano nel corpo dei fedeli con un alto, altissimo atto simbolico. Anticamente si be-

veva il sangue e si mangiava la carne di un nemico, o di un re al termine del suo mandato!" per acquistarne la potenza, poi giustamente al sangue si sostituì il vino, e chissà se la “benefica grazia” (Eucarestia) cattolica non si rifaccia appunto a questi antichi riti. Ma sempre sia chiaro che chi crede nella “transustanziazione”, ha ed avrà sempre da parte mia il più grande rispetto, la massima compartecipazione morale, ed il senso della più assoluta ed intima fratellanza. Anche sulla resurrezione! può avere qualche dubbio chiunque non accetti supinamente le imposizioni della Chiesa, che tra '©° Nel quadro di Boston D'où Venons Nous / Que Sommes Nous / Où Allons nous

!© Alle volte l’inserimento del termine “come” (0 di espressioni simili, del

tipo “alla stregua di”) potrebbe risolvere i dubbi. Abbiamo visto nel Grande Saggio: “Quando gli dèi erano (come) gli uomini”. Le parole nell’ultima cena potrebbero essere interpretate anche in tal modo: “Questo è (come se fosse) il mio corpo ... questo è (come se fosse) i/ mio sangue”. D’altronde in qualsiasi poetico paragone della poesia universale dobbiamo sottintendere, quando non c’è, un “come”. Si vedano però le parole di Jeshua quando ne parla prima dell’ultima cena, sempre con il sospetto di eventuali interpolazioni. "“ Ved. A. Delsanto in M. Bonanno-M. Costa, Fratelli a tavola (Acireale-Roma 2020), 8

‘© Pure Attis, mitico pastore amato da Cibele, risorse dopo tre giorni

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l’altro nei secoli e nei millenni si è dimostrata, nei riguardi di alcuni aspetti fondamentali del Cristianesimo (la povertà, la tolleran-

za, l’amore) l’assoluto contrario delle teorie di Jeshua. L’assoluto

impressionante incredibile pazzesco contrario. Che è successo nella cosiddetta “resurrezione” ? Jeshua ne ritorna diverso, la Maddalena non lo riconosce, e da lei non si fa nemmeno toccare: per farsi riconoscere dai discepoli deve mostrare loro le ferite della crocefissione; quando gli undici apostoli salgono su un monte della Galilea e lo vedono, “alcuni però furono dubbiosi”; e poi, sul lago, non lo ravvisano anche se è già giorno, e capiscono che è lui dopo il miracolo della pesca'; ed anche durante tutto

un viaggio fino ad Emmaus i discepoli non lo riconoscono. Come mai? Cosa c’è sotto? Sono personalmente convinto che la Sindone sia autentica, ma che sia autentica non dimostra niente, al di là della

veridicità del fatto che Jeshua, grande uomo e grande “Profeta”, sia stato effettivamente martirizzato. Non ho dubbi. Forse la “discesa agli inferi” altro non è che il lontano ricordo di Inanna, una necessaria tappa per arrivare agli alti gradi della divinità?!” Ed aggiungo che non è necessario essere un dio, ma basta essere un grande (e che grande!) uomo per formulare quel capolavoro di Discorso delle Beatitudini, che dovrebbe essere in eterno il manifesto dell’intera umanità: umanità come insieme di uomini, ed umani-

tà come consapevole sentimento di grande positività verso gli altri. Nelle parole di Jeshua non c’è alcun commento sulla natura del dio biblico di Mosè, che a volte è peggio di Enlil, e che fa schiattare soffrire angosciare e morire un popolino che ha scelto, per sua disgrazia, come “popolo eletto”. A costo di massacrare intere popolazioni (donne, bambini, vecchi, persino gli animali) questo dio inventato, anche lui, dalla perversa mentalità umana, avrebbe portato, a scapito di gente che già ci abitava, gli Ebrei verso una qual certa “terra promessa”. Sai poi che promessa! Ne valeva davvero la pena?

Non mi stupisce il fatto che gli Ebrei/Israeliti si siano spesso rivolti ad altre divinità del circondario. 1 Anche dopo, già sbarcati, “nessuno dei discepoli osava domandargli ‘Chi sei?’, sapendo che era il Signore”, dunque perché avevano capito che era Jeshua, non perché lo avevano fisicamente riconosciuto. 107 La resurrezione, su cui si fonda la fede dei credenti, è argomento troppo delicato ed importate per trattarlo in questa sede. C’è chi ha pensato ad una falsa resurrezione, con furto del cadavere, chi ha paragonato il fatto a fachiri che si fanno seppellire anche per giorni, chi ha pensato a un semplice rito di iniziazione (un po” poco simbolico se ha implicato una tragica crocefissione)

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Eppure nella stessa Bibbia che, come dice il nome, è fatta di Libri diversi (ta BiBAua) troviamo uno Jahweh differente, frutto di altra sensibilità e di ben altro ed alto sentire. Fa veramente impressione il paragone tra un dio della Sapienza, dei Salmi, del Cohelet e non solo, ed il deucolo bilioso della conquista (nemmeno reconquista) ebraica. Era un dio di quattro gatti, alla stregua degli dèi “poliadi” dei popoli vicini: Baal, Kos, Kemo3!° e quant’altri (altra cosa gli dèi potentissimi Assur e Marduk), camuffato da Mosè in una macchina infernale, tanto patetica quando terrificante, che non sapeva mai bene chi andare a colpire!®, La storia di Jeshua ne ha cambiato aspetto e natura: con lui stesso e con l’emanazione che lo avrebbe generato (il santo Pneuma) ne ha ricostituito una triade divina!!°, che però sta al monoteismo, più o meno, come le triadi mesopotamiche. Lo Jahweh, da mostriciattolo invidioso, geloso, crudele, certe volte infame, è diventato un abba, un padre. Jeshua ha stravolto le filosofie del mondo, ma non dimentichiamo che già nella piena

Mesopotamia gli dèi erano “padri”. Abbiamo visto “// mio dio è (come?) mio padre (abu)”: ecco un tipico nome personale che veniva dato in Mesopotamia al bambino, insieme a cento altri che esprimevano la riconoscenza per un dio che “amava” i suoi fedeli ed il suo popolo. Jahweh però, sia pure come “padre”, è rimasto un po’ lontano dalla venerazione del popolo cristiano: una specie di Anu isolato che accetta ed approva, e se vogliamo evitare l’infelice impossibile assurdo paragone Enlil/vento — Spirito Santo, ecco che una qual certa, sia pur remotissima, affinità si può intravedere invece tra Jeshua ed un Enki quando costui sistema, aiuta, ed è misericordioso verso l’umanità infelice. Jeshua è stato un “grande saggio”, come Enki e come l’omonimo protagonista dell’altrettanto omonima composizione, come già era grande saggio l’Ahura Mazda di Zarathustra. Saggio ma non sempre, a meno di pensare che sia stato saggio fare sfracelli con i “mercanti” del tempio (comunque colpevoli; ma tutti?). Né ‘'* Il cui popolo (moabita) “Io presi gli arredi di Jahweh e "® Sull’Arca dell'Alleanza dare a Sennacherib e la Bibbia,

ha addirittura vinto proprio il popolo di Jahweh: li portai davanti a Kemo$” (Stele di Mesha, 17-18) ed ai suoi assurdi sfracelli mi permetto di rimanAcireale-Roma 2017

4° II concetto di trinità risulterebbe tuttavia assente nella Chiesa primitiva, a

patto però di espungere le parole di Jeshua in Matteo, 28, 19

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so se sia stato saggio predire, alla stregua dei “Profeti” (di sventure) precedenti, un’imminente terrificante catastrofe ebraica, anche se effettivamente si scatenò poco dopo, su Gerusalemme, la furia dei Flavi. Né so se sia stato saggio fare quel poco o nulla per impedire che nascesse e dilagasse l’idea che volesse diventare rex judeorum ". Né so se sia stato molto saggio a volte dire e non dire, accennare e non chiarire, rifarsi ad altre vere o presunte saggezze che certo non erano di tutti (non tutti hanno orecchie per intendere)" sicché il suo messaggio non è sempre limpido e chiaro, e non è per tutti, come penso ci si aspettava e ci si aspetterebbe. Detto questo, bisogna anche dire che molto ce ne corre dal suo messaggio “ebraico” e limitato fondamentalmente alla Galilea ed alla Giudea, e l’interpretazione successiva, specie di Paolo e poi della Chiesa, che ha completamente stravolto ciò che Jeshua era, diceva e dimostrava di essere. ***

Cosa si possa trarre di vero in tutte queste religioni, dalle credenze mesopotamiche a quelle successive fino al Cristianesimo, è difficile dire, perché vediamo che tutto è nato dalla fantasia: una fantasia che sulla base di autentiche impressioni, sentimenti, pau-

re ed uomini realmente vissuti, ha creato un mondo fasullo su cui sì è poi tanto elucubrato. Per fondare qualcosa di solido ci vogliono i dati sicuri, i postulati indiscutibili, e qui già non ci siamo, perché l’esistenza di Dio nonè stata ancora pienamente dimostrata (come, d’altronde, non è stata dimostrata la non esistenza di Dio).

Ci tocca ragionare sulla fragilità di un’ipotesi. Dunque non potrò mai affermare con certezza che sia vero ciò che penso, tuttavia potrò riportare la speranza che sia vero quello che immagino. Anche qui la fantasia. Parto però da un postulato che potrebbe essere vero: l’esistenza di meraviglie incantevoli e inesprimibili nella natura e nell’uomo accanto a malvagità senza fine. Il solito Bene ed il solito Male. Tutti ne abbiamo coscienza, tutti ne abbiamo goduto e sofferto e la nostra vita ne è intrisa, a volte esaltata a volte sconvolta. Difficile negarlo.

i! Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Jeshua si sottrae comunque alla folla perché “sapendo che sarebbero venuti a prenderlo forzatamente per n Si farlo re, fuggi di nuovo sul monte, da solo”. Giov. 6,15 2 Jeahua apparteneva forse ad una setta di “iniziati”, gli unici capaci di comprendere il suo vero linguaggio? Nazirei?

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Allora mi posso immaginare che questo dioBene e questo dioMale siano in lotta fra loro, con alterne vicende e risultati. Anche questa è fantasia, ma non ce la faccio proprio a pensare che Bene e Male vivano insieme in amicizia e concordia. Sarebbe un controsenso. Mi posso immaginare che questo Bene e questo Male siano qualcosa che trascende l’umanità, anche se tutta la coinvolge e modifica. E che questo Bene e questo Male siano, ambedue, quello che chiamiamo Dio, o meglio dei, due dèi attorno a cui ruota l’universo. Mi posso immaginare che in questa epica e cosmica guerra a volte prevalga l’uno, a volte l’altro dio. È una guerra che si svolge nel cosmo, a schermaglie infinite fra gli astri, ma anche in questo mondo, sulla terra. Ne nascono panorami affascinanti, l’incredibile sbocciare dei fiori, l'evoluzione della natura, l’istinto degli

animali, l’intelligenza dell’uomo. Ma ci sono anche le orribili onde di morte prodotte dagli tzunami o dalla lava di un vulcano. Mi posso immaginare che Bene e Male siano in lotta anche per la conquista dell’uomo, a volte riuscendoci l’uno con l’amore, la

tolleranza, il messaggio positivo di Jeshua e di altri “Profeti”, a volte riuscendoci l’altro con la malcreanza, la cattiveria, fino al

concepimento ed alla realizzazione dei crimini più inverosimili e feroci, perpetrati fino a ieri (ma anche oggi) con la guerra oscena ed i campi di sterminio allucinanti. Mi posso immaginare che l’uomo sia libero di scegliere con chi stare, e che sia naturalmente portato verso il Bene, anche se a volte il Male lo seduce e lo conquista. Mi posso immaginare che il vero Dio sia il Bene, volto da sempre alla conquista dell’uomo e del mondo (che non è ancora il suo mondo), e che noi, se vogliamo scegliere il Bene, dobbiamo operare con lui e per lui: è interesse di tutti. Mi posso immaginare che anche l’uomo sia dunque implicato in questa epica lotta, e che debba essere alleato del Bene che opera con noi e per noi, ma che è un Bene che non può intervenire nei nostri inevitabili duelli quotidiani. Quando uno di noi soffre (figuriamoci i bambini), se il dio-Bene non interviene, non è perché

non lo voglia (in questo caso sarebbe la più perfida perfidia del più perfido dioMale), ma perché non può, perché il Male glielo impedisce, perché Dio non è onnipotente. Il che non impedisce la preghiera, possibilmente nel suo aspetto migliore: non tanto per esaltare un dio che già sa quello che è, e non si vede perché dirglielo e ripeterlo, non tanto/soltanto per chiedere, sia pure nella convinzione che spesso Dio non è nelle 124

condizioni di dare quello che gli si chiede, ma come un quotidiano colloquio, alla stregua dei soldati del medesimo esercito che comunicano fra di loro prima delle battaglie, dopo le battaglie, e soprattutto durante le battaglie. Come soldati di queste battaglie, è destino che il Male ci combatta e spesso ci vinca: il male delle malattie, il male delle disgra-

zie sono le ferite di un uomo che combatte per il Bene, ma che può anche soccombere. Ed è così che mi immagino di spiegare l’esistenza di un Male che quotidianamente ci perseguita, dal peggio al meno peggio, dalle seccature alle catastrofi. Mi posso immaginare che dopo la morte la nostra alleanza sia riconosciuta, che la nostra battaglia e la nostra sofferenza siano riconosciute, e che la nostra anima ritorni al dioBene che abbiamo scelto, in un tutt’uno con lui. La nostra anima è stata creata da lui, ma non vedo in lui, in questo momento, soltanto un dio-padre; vedo anche un dio-fratel-

lo, un dio-fratello-maggiore con cui sarei portato a uniformarmi nella sua cosmica composizione: un dio che mi ha fatto libero con il libero arbitrio, uguale a lui perché formato dalla sua stessa essenza, fratello perché uniti a lottare, lui tutto ed io minimo, per

il medesimo fine. Mi posso immaginare di godere il momento in cui sarò presente alla vittoria definitiva del Bene, magari dopo miliardi di anni, chi lo sa? Ma sapremo aspettare. 7

*>**

Inutile, pleonastico ricordare che questa concezione del dualismo di entità divine in contrasto fra loro è già stata propria di religioni di un lontano passato. Fu quell’incredibile personaggio di Zarathustra / Zoroastro a intuire, verso il VII/VI secolo a.C., l’esistenza di un mondo del Bene e di un mondo del Male, dopo che uno spirito lo ebbe trasportato dinanzi alla divinità suprema (la leggenda impera anche qui), che gli fece la rivelazione e gli consegnò il libro sacro (l’Avesta). Per Zarathustra, la corte divina ha come capo supremo Ahura Mazda, il “Signore sapiente” (come Atra-hasis, o meglio ancora Enki/Fa). È da lui che è uscita tutta la creazione positiva, ottenuta mediante la sua potente parola e da lui conservata, insieme all’uomo che segue la sua legge ed occupa la vita con la pratica dei buoni pensieri, dei buoni discorsi e delle buone azioni". 13 [A vesta riferisce ciò che disse una volta il dio Ahura Mazda a Zarathustra:

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È lui il dio supremo, generatore di tutto, circondato da santi immortali, anch’essi amanti della giustizia, puri e luminosi. Sono astrazioni ed espressioni della provvidenza, alla quale l’uomo deve corrispondere con una sincera adesione, per avere alla fine una beata immortalità. Ma di fronte al regno del Bene sta quello del Male, il cui capo supremo è Angra Manyu, uno spirito tentatore che si sovrappone allo spirito buono (Spenta Manyu). È uno spirito che vuole distruggere la creazione servendosi di tutti i mezzi contrari: la sterilità, le tenebre, i flagelli della natura, le malattie, la morte, con

l’aiuto di spiriti che lo affiancano. Tutto il Male è opera loro, e questo Male durerà fino alla vittoria finale del Bene. Con queste idee, Zarathustra, che per tutta la vita dovette lottare contro i suoi oppositori (specialmente i Magi), portò anche un grande progresso sociale, oltre che religioso; dato che fu convinto protettore delle classi umili contro lo strapotere dei signori e dei sacerdoti Magi. Esaltò la vita attiva, il lavoro agricolo apportatore di benessere materiale, diede uno scopo alla vita umana. È forse troppo ardito avvicinare, sia pure con la dovuta necessaria prudenza, al dio negativo di Zarathustra il mondo malefico della religione mesopotamica? Anche qui, accanto alla triade divina il cui terzo elemento, Enki/Ea, è preposto all’organizzazione, all’ordine, all’armonia ed allo scorrere sereno della vita, stanno contrapposti 7 (cioè tutti quanti ce ne sono) demoni cattivi. An-

che loro provengono dal cielo, come troviamo scritto nel poemetto I demoni sconvolgono il mondo (Thompson 1903, 28 sg.), da una serie esorcistica contro, appunto, gli spiriti cattivi. Descritti come esseri animaleschi fantastici e feroci, si com-

portano come un tempestoso uragano, si inseriscono nel cielo di An, conquistano alla loro funesta causa persino il dio-Sole ed il dio-Pioggia ISkur!!*. La triade astrale, che era stata messa a difesa del cielo, viene così annullata: Nanna-Luna viene accerchiato e ‘“(Dopo la morte, l’anima del fedele vede avvicinarsi) una bella fanciulla luminosa, vestita di bianco, forte, di alta statura, ben retta, dal prospero seno, di bel corpo, di nobile aspetto, di alto lignaggio, bella quanto la più bella cosa del mondo. L'anima del fedele si rivolge a lei chiedendo: «Che ragazza sei mai tu, che sei la più bella fanciulla che io abbia mai veduto? ». Ed ella gli risponde: «O giovane dai buoni pensieri, dalle belle parole e dalle buone azioni, io sono la tua coscienza»”. Così come mi piacerebbe avere un giorno questo incontro, qui con il cuore lo auguro a tutti. "4 Il sole è talvolta malefico quando con il suo calore eccessivo provoca la siccità; il dio-pioggia è ugualmente malefico quando procura tempeste e uragani

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oscurato, Utu-Sole passa al nemico, Inanna-Venere pensa di approfittare della situazione per diventare lei la regina al posto di An, ed arrivare così al culmine della sua “carriera”. A tanto sfascio reagisce Enlil, che manda un suo messaggero nell’Apsù ad avvisare Enki. Costui, preoccupatissimo, incarica il figlio Marduk (quello che abbiamo già visto protagonista nell’Enuma elis): dopo una lacuna segue poi il rito scongiuratorio e la preghiera contro questi spiriti del male. E non si creda che gli esseri malefici sumeri ed accadici finiscano qui! Tutt'altro. Ci sono anche divinità negative. Questi esseri malvagi raffigurati come bestie mi ricordano tanto le raffigurazioni del Male rappresentate così spesso nei rilievi delle nostre chiese medioevali: serpenti, sirene, draghi, esseri orrendi, ma anche animali che hanno caratteristiche fisiche del demonio: ovini, caprini dal piede biforcuto, o cornuti come bovini e cervidi, a fronte di animali “positivi” quali l’aquila, il leone, il grifone. * **

Ritrovo questo dualismo divino in Mani, un babilonese del III

secolo d.C. (quasi un millennio dopo Zarathustra!), che elaborò una religione universale di tipo sincretico, comprensiva di Cristianesimo (che lo influenzò nell’escatologia), Buddismo (nell’ideale

etico e ascetico) ed anche Gnosticismo, il tutto sulla base, appunto, dell’insegnamento di Zarathustra, che fu il più seguito per la parte cosmologica. Povero Mani! Anche se la sua dottrina, a un certo punto, si diffuse enormemente! fece personalmente una brutta fine, non si sa se crocifisso o scuolato. Come al solito anche lui ebbe la sua brava visione, che gli rivelò il “mistero” della Luce e delle Tenebre, e del grande conflitto che ci fu tra loro. Ma non si ferma qui: la visione gli rivelò tutta la storia del mondo, anche a lui da Adamo (anzi da prima) fino a

“quello che sarà”. Secondo Mani, prima ancora dell’esistenza del cielo e della terra c’erano due nature, una buona e l’altra cattiva, separate l’una dall’altra, con a capo un “Padre della Grandezza” ed un “Re della Tenebra”, ognuno circondato dalla sua schiera. Se ne stavano in pace finché la Tenebra desiderò di appropriarsi della Luce: un concetto che, per la verità, era già stato espresso dallo gnostico Basilide. !S “I manicheismo si espanse dall'Egitto alla Cina ma si estinse in Occidente nel VII secolo mentre in Oriente durò fin oltre il XII secolo”, Mengoli, cit., 29

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Mamma mia, entrano in ballo qui le solite invenzioni di esseri e di fatti: ecco il Padre della Grandezza che va personalmente a combattere, chiedendo aiuto ad una Madre della Vita (l'ex Magna mater?), che a sua volta evoca l’Uomo Primordiale. Costui si dà in pasto con i figli al nemico, frenandone così l’aggressività: personificazione concreta dell’astratto concetto dell’ Anima prigioniera della Materia (0 non si tratta piuttosto di un vago ricordo di Tiamat che si mangia i Venti e ne rimane sconfitta?). Risparmio tutto quanto ci viene raccontato a proposito del séguito di questi più che presunti avvenimenti: gli Arconti, un’altra trinità, la pelle dei vinti che forma i 12 cieli, la creazione che ha

l’intento di liberare l’anima, ridotta a particelle luminose intrappolate nella Materia, la separazione della Luce con cui si formano

il sole e le stelle, l’evocazione di un “Messaggero”, Nemrod!° che con la sorella genera Adamo

ed Eva, “Gesù luminoso”

inviato

sulla terra per svegliare Adamo, e via via elucubrando. Nulla da dire invece sulla morale che ne scaturisce, sull’ascetismo e lo stile di vita suggerito, il contatto con la materia evitato fino ad una esaltazione della continenza, la dieta che esclude la

carne degli animali, insomma un rigorismo riservato a pochi (tra cui non mi annovero), e che forse ha influenzato le prime comuni-

tà cenobitiche cristiane. Ognuno è libero di vivere come gli pare, purché non faccia del male a nessuno. Ma per il resto, tutta la grandiosa visione cosmogonica di Mani, come d’altronde quella di altri gnostici, è frutto di presunte visioni e di una scatenata fantasia!!. Invenzione per invenzione, preferisco leggere l’Or/ando furioso. >>

>

Sia come sia, l’idea di questa lotta fra il Bene ed il Male, di questo dualismo che sconquassa la terra e la vita dell’uomo, del continuo contrasto che lacera spesso anche noi stessi, può ben contenere almeno uno iota di verità. Perché? Perché è vero, perché si tocca con mano, lo si prova e lo si sente ogni giorno. Nel constatarlo, nel viverlo anche nolente,

nel trovarmici tanto coinvolto da non potere ignorarlo, mi capita !!© Nemrod è il personaggio biblico Nimrod, citato nella Tavola delle Nazioni (Genesi 10,8-10), come sovrano di Babilonia, Uruk, Akkad e gran cacciatore. Tradizionalmente è il nome (Nimrud) del sito di Kalhu, una delle antiche capitali assire.

!" Su Mani ed anche alcune belle e interessanti pagine della sua dottrina ved. A. Magris (a cura di), // Manicheismo. Antologia dei testi (Brescia 2000)

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che non mi sento come un nàufrago abbrancato ad un travicello, in attesa di qualcuno che lo salvi. Un salvatore? Salvatore di che? E da chi? Cos’ho fatto di così grave, ancor prima di nascere, da dover essere salvato dalle orrende conseguenze delle mie presunte azioni malvagie? Perché dovrei vivere abbarbicato alle ginocchia di un Enki o di uno Jeshua che mi viene in aiuto? In aiuto di che? E da chi? E perché? Forse perché mi sono ribellato a degli dèi crudeli che si ostinavano a farmi lavorare come un mulo? Ma non sono mai esistiti. Esistevano solo i muli. Perché un mio antenato preistorico aborigeno troglodita si mangiò la mela, o quant’altro, senza nemmeno sbucciarla? Ma lo sappiamo: è un episodio inventato sulla base della mitologia mesopotamica, secondo cui ogni qualità divina era contenuta ed espressa da frutti di alberi divini e magici, che l’uomo non doveva toccare!!. E allora la si smetta, finalmente, con questa storia della nascita già corrotta, che pretende una purificazione obbligatoria. Non mi sembra di essere nato debitore. Io sono un uomo, e basta. Certo nasciamo tutti nella materia, che è corruttibile ed è anche male,

certo i nostri genitori ci possono tramandare qualcosa che può essere nocivo: una malattia, una brutta eredità fisica, un brutto aspetto, anche un brutto carattere. Ma sono eredità più che altro del corpo, non dell’anima, e dunque non si parli di nostre precedenti mancanze. Sotto questo aspetto credo che siamo tutti, e mi perdonino i Cristiani, imaculada conceptiòn. Altra cosa è il battesimo, purificazione simbolica dei peccati commessi da una persona sinceramente pentita: da una persona già adulta, però, che i suoi bravi peccati li ha giust’appunto commessi, non da un neonato innocente. Con questa teoria del Bene e del Male c’è poco da fare: bisogna scegliere, volenti o nolenti

(ma anche nolenti è una scelta). Ed ecco

che nella mia scelta non mi sento più solo, non sono un naufrago che aspetta il salvagente. Non mi sento reietto di un paradiso perduto, di un’età dell’oro, di un’utopia, di una città del sole, colpito ferito e condannato per chissà quale patetica inventata mancanza. Mi sento semplicemente messo qua, e qua devo vivere e lottare, non me ne posso andare, mi è stata data una bicicletta (i talenti della parabola) e con quella devo pedalare. Ma non sono U8 Ne ho già trattato in L'Albero del Paradiso. A proposito di un simbolo, “Hi-

ram” 2012/2, 42 sg. ed in Genesi. Dalla Luce all'Arca (Acireale-Roma 2016).

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solo. Non devo pedalare da solo. Sono circondato, anche se non li conosco né li vedo, da miliardi di altri esseri umani capitati come me in questo covo di viole e di vipere. Sono tutti coinvolti, come me, in una battaglia a fianco del dioBene. Sono i miei alleati, non

importa se talvolta sono traditori, ipocriti, fuggiaschi e disertori. Sono i miei camerati, sono i miei fratelli. Sono i miei fratelli che sbagliano, come succede che sbagli anch'io.

Non sono solo. Siamo tutti impegnati, sotto l’impalpabile guida del dioBene, che è il commilitone infinitamente più importante, il Generale in capo, il Comandante supremo, a spazzare il dioMale dal mondo, ognuno come può, per una ancora lontanissima soffertissima invisibilissima vittoria futura del Bene. Certo di noi rimarrà poco, come una baionetta arrugginita tra i sassi del Carso; una palla di cannone affondata nella Beresina, un

frammento di carro ittita sepolto nella terra di Kades. Ma l’avere agito bene sarà riconosciuto, ed in un certo qual modo, che ignoro, avrò anch'io, ma solo se l’avrò meritata, la mia ricompensa e

la mia piccola medaglia. E che dioBene sappia perdonare la mia ignavia, quando l’ultima estrema immagine del Male malefico maligno e maledetto comincerà a battere le dita sui vetri della mia finestra.

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IL MONDO DI INANNA Inanna: ne abbiamo già accennato. È la donna, è l’essenza della femminilità, (non sempre) con tutto ciò che di grazia, di dolcezza, di tenerezza comporta, insieme a quanto (purtroppo) talvolta l’accompagna: la perfidia, la cattiveria, la scatenata ambizione. Troveremo queste contraddizioni nelle varie operette che il popolo della Mesopotamia le ha dedicato lungo i millenni". Ma queste operette, come ho già scritto, non si troveranno qui secondo una collocazione cronologica basata sulla data della loro composizione, ma in modo del tutto arbitrario ed abusivo: seguendo cioè, più o meno, gli episodi che l’hanno vista come protagonista durante tutta la sua ’’carriera”, a cominciare da quando, giovinetta, non aveva ancora iniziato la scalata al potere. Per conoscere invece le differenze tra le figure di Inanna sumera ed IStar accadica, dovremmo predisporre in altro modo i vari episodi che la riguardano. Questa predisposizione non viene realizzata qui, ma chiunque può farlo. Inanna, abbiamo visto, appartiene alla triade astrale, che è venuta dopo, è stata creata dopo le divinità principali e tutta la tiritera dei loro antenati, dopo il trambusto cosmico con i relativi litigi e la realizzazione del creato. E già abbiamo visto a Sela” come Inanna-IStar fosse figlia del dio-luna Nanna/Sîn e sorella del dio-sole Utu/Samas. Lei era la “stella”-Venere. Venere e Sole: gemelli? In una composizione in cui Inanna è ancora evidentemente una fanciulla ancora ignara delle cose della vita, suo fratello Utu sembra più anziano e più ferrato. Potremmo chiamare questa breve composizione Inanna e la Montagna sacra (Kramer, Or. 54, 1985, 117 sg.). Si tratta di una esaltazione del dio-Sole, a cui la sorella Inanna chiede un ‘“pas-

!!° La letteratura su Inanna è molto vasta. Ne citerò poi alcune opere, limitandomi per ora a S. Brinton Perera, La grande dea, Como 1987 (da Descend to the Goddes, Toronto 1981) perché si tratta di un’analisi dei testi e dei protagonisti alla luce delle teorie della scienza psicologica. Le più accurate notizie su Inanna-IStar sono comunque nel RIA 5, 74sg. (C. Wilcke; U. Seidl per la parte iconografica), a cui ovviamente rimando per una completa documentazione. Ugualmente per l’analisi dei vari nomi della dea, parentele, culto ecc.

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saggio” sul suo carro, perché si vuole recare al kur. In questo caso (vedremo poi ulteriori casi, in cui il termine assume altri

significati), kur significa “montagna”, più specificamente una montagna mitica, ricca di alberi e di minerali, e dove scorre un altrettanto mitico fiume. Cosa fosse questa montagna nella testa (nera) dei Sumeri"? è ancora discusso: una specie di Olimpo dove abitavano gli dèi? Un luogo dove nasceva la vita? Il punto intorno a cui ruotavano il mondo, il cosmo? Un asse centrale che univa la terra infera al cielo? Corrispondeva forse al luogo della foresta dei cedri (Libano)

custodito da Humbaba nel poema di Ghilgames?” Qui si tratta di un luogo misterioso a cui Inanna pensa di arrivare salendo sul carro del Sole, e con uno scopo ben preciso. Quale? Nel suo. discorso, la dea afferma che è necessaria la conoscenza reciproca dell’uomo e della donna, sottintendendo che lei, donna, ancora non conosce l’uomo. E poi si fa più esplicita: non conosce il bacio, non conosce il sesso, non conosce l’unione

sessuale. In altre parole, la fanciulla vuole fare le sue esperienze, insomma vuole diventare donna. E che c’entra il kur? Inanna afferma di voler mangiare ciò che si trova nel kur. Non specifica altro, ma è evidente che in quella montagna c’è qualcosa di edibile (presumibilmente vegetale) che permette di conoscere il sesso; in altri termini, considerato quel che diventerà Inanna, il risultato dell’unione sessuale: la fecondazione, la procreazione. Sarà proprio così: Inanna/IStar sarà la dea dell’atto sessuale, della fecondazione, delle nascite. E difatti,

quando nel Poema di Ghi/games si legge che tutti gli dèi durante il diluvio erano terrorizzati, troviamo scritto che “Istar gridò come una partoriente”: non si poteva trovare un paragone più adatto. Pur affermando che si tratta di una idea del tutto personale, mi sento di avvicinare questo “vegetale” (o albero) del kur a quelle

piante magiche, precipue degli dèi, che troviamo in altri punti della letteratura mesopotamica e che ritroviamo nella Bibbia (Genesi) tutte quante raccolte nel ‘frutteto terrestre” ed a disposizione (tranne una) del nostro progenitore Adamo. Si trattava (credo) del frutto di un albero che concedeva il

0 I Sumeri amavano definirsi “teste nere” ‘°! Pettinato ritiene di individuare una montagna di questo tipo nel kur Ebih, in merito al poemetto Inanna ed Enki, che vedremo poi; ma la sua traduzione in proposito è dubbia

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dono della procreazione, o meglio di far procreare. In questo mito si vuole dunque dimostrare come sia riuscita Inanna, all’inizio

della sua vita, a diventare la dea della procreazione degli uomini e degli animali: cioè a causa di un istinto sessuale naturale avuto da giovinetta, e per il fatto che le è stato concesso, in forza di quell’istinto, di mangiare il magico frutto, essendo comunque una dea.

Nel poemetto di Etana troviamo il nome di questa pianta: famnu sa aladi, “la pianta della procreazione”, che il protagonista Etana vuole ingerire perché vuole avere figli, e non li ha. Ma la cerca in cielo, o meglio nel cielo di IStar, dove evidentemente la dea se l’è nel frattempo trasportata, perché divenuta esclusivamente sua. In questo contesto troviamo abbinati ad IStar anche i leoni, animali a lei precipui e che la fanno un’erede della totvia delle fiere. Dalla fine della storia, prima della lode a Utu, patrono della vedova e dell’orfano, possiamo capire che forse Inanna era fuggita dalla casa, per fare le sue brave esperienze. Difatti prega il fratello di riportarla a casa, specificandone il luogo: Zabalam (Tell Ibseh) nella Babilonia meridionale, dove esisteva in effetti un tempio di

Inanna. Pronta per le sue esperienze, Inanna torna dalla mamma, Ningal (la moglie del dio-Luna, madre anche del Sole), nel luogo dove vivono anche la suocera Ninsun, e la cognata Gestinanna. In effetti, è un po’ strano che Inanna, giovinetta inesperta, abbia già una suocera ed una cognata, cioè un marito, ma si tratta di parentele successive, nominate qui anticipatamente rispetto alla loro apparizione. Inanna avrà poi come amante fisso Dumuzi, fratello di Gestinanna, che è dunque sua cognata. In merito a Ninsun, sappiamo che fu la sposa del mitico re Lugalbanda, e madre di Ghilgameì. Che c’entra come suocera di Inanna? Non era la madre di Dumuzi. Ma il mito spesso diverge nel suo canovaccio, così come divergono, nelle varie versioni, le favole che si raccontano ai bambini. Per esempio nella Lista reale sumerica troviamo due Dumuzi: uno è il “pastore”, re antidiluviano di Badtibira (e dovrebbe essere il nostro), mentre l’altro è un postdiluviano, un “pescatore” re di Uruk, successore di Lugalbanda e predecessore di Ghilgames, ed ecco qua un collegamento, che però ci avverte di una qual certa confusione tra Dumuzi differenti. * >>

Un collegamento tra Inanna e Ghilgames possiamo comunque trovarlo in un articolato poemetto, che tratta di vari argomenti, 133

tant’è vero che lo abbiamo già incontrato quando abbiamo parlato del mondo dei defunti, ed anche nelle varie descrizioni della na-

scita del cosmo e degli dèi. In questo poemetto, che altro non è che Ghilgames, Enkidu e gli Inferi, troviamo un intermezzo che riguarda uno strano albero, la cui natura non ci è nota. Infatti, dopo la precisazione cronologica sul remoto periodo in cui la triade divina (qui An, Enlil ed Ereskigal) si era spartito il mondo, e dopo la breve descrizione di un viaggio per nave di Enki (qui spunta anche lui) contrastato da certe pietre e dalla furia dell’acqua, spunta questo albero che se ne sta, tutto solo, sulla riva dell’Eufrate.

Ma il famigerato vento del Sud, infierendo su quest’albero, ne rompe i rami e ne sradica le radici, tanto che il fiume se lo porta via. Ecco però' che passa da quelle parti un donna (presumibilmente è la stessa Inanna), ossequiosa di An e di Enlil, che raccatta

l’albero e lo va a piantare a Uruk, nel santuario della stessa Inanna (cioè a casa sua), sperando che, col tempo, l’albero cresca in modo che se ne possa ricavare un trono ed un letto. Non credo sia un particolare da poco: Inanna pensa di ricavare dall’albero un trono ed un letto, che sono i simboli della sua per-

sonalità: il trono perché è, o vuole essere, la regina nel pantheon di cui fa parte, ed il letto perché è lì che si svolge l’unione tra uomo e donna, è lì che avviene la fecondazione di cui lei è, o vuole essere, la dea, la pronuba, l’unica ispiratrice e protettrice. Per inciso, il “letto” evoca non solo il luogo tradizionale della procreazione, ma anche il “luogo di lavoro” delle prostitute sacre, che sappiamo attive presso i templi della dea. Non si può, di conseguenza, pensare ad una Inanna/IStar vergine: sarebbe un controsenso. Ed infatti la dea è l'amante di Dumuzi, senza che

alcun dettaglio ci riveli che si tratta di una relazione platonica. E poi ci sono le accuse di GhilgameS, che vedremo, e le violenze subite (vedremo anche quelle). Il termine “vergine” risulta dunque quanto mai inadatto, come quello di “vergine e martire” per le infelici fanciulle cristiane che venivano violentate prima di essere martirizzate. Ed aggiungerei: nella tormentata quaestio sulla verginità della Madonna (la “beata sempre vergine Maria”) ci sono molti dubbi sul parto virginale e sulla sua maternità di “fratelli” di Jeshua. Alla luce di questi ed altri esempi di divinità (ved. p.es. Cibele) viene da domandarsi se il termine ’’vergine” in questo caso non significhi propriamente quello che crediamo noi, ma piuttosto 134

“esente da ogni forma di sudditanza rispetto all’altro sesso”, sesso da considerare in questo caso come paritetico, o forse meglio

sottomesso o addirittura ‘“fuco”"??,

Che in questa occasione Inanna appaia ancora giovane mi pare significativamente provato anche da quel che segue. Con l’andare degli anni infatti l’albero deperisce, anche perché delle malefiche creature vi si erano insinuate: un serpente nelle radici, un’aquila ostile sui rami, e nel tronco un malvagio essere femminile. Le speranze di Inanna vengono meno, e la dea si dispera. Ma ecco che il sovrano di Uruk felicemente regnante, Ghilgames, le viene in aiuto. Qui Ghilgame$ è chiamato suo “fratello”, e lei è sua “sorella”, il che potrebbe anche suggerire una parentela (ma certo non da farli apparire marito e moglie, da giustificare il rapporto con Ninsun, madre di Ghilgames). Sono appellativi di rapporto fortemente amichevole, ma sembrano anche indicativi di una sostanziale parità, tant'è vero che è il semi-dio ad aiutare la dea, non viceversa. Altri saranno i rapporti quando vedremo Inanna molto più importante. Ecco dunque che GhilgameS, con la sua ascia potente, scaccia dall’albero le tre creature maligne, ne fa fascine con i rami e lo regala ad Inanna perché si possa realizzare il trono ed il letto. Sembra dunque che la dea possa incominciare la sua attività divina, avendo ormai con sé i realistici simboli della sua personalità. Il seguito del racconto, che qui non interessa, è semplice: con il legno dello stesso albero Ghilgames si fa un tamburo, con il quale chiama a raccolta i giovani di Uruk, presumibilmente per portarli a combattere, con disperazione delle mogli e delle madri. Si deve sottintendere qui ciò che sappiamo da altre composizioni: i lamenti dei sudditi di Uruk sono ascoltati dagli déi. Così come nel poema di Ghilgames sarà inviato un essere ferino, Enkidu, per contrastare la potenza del tirannello, qui invece sembra che Ghilgameì sia privato del suo tamburo, in modo che non possa più convocare i suoi concittadini. Così il tamburo finisce nell’oltretomba, e l’amico Enkidu vi discende per recuperarlo, finendo per rimanerne intrappolato. Ghilgames allora lo evocherà, per conoscere (lo abbiamo già visto) la situazione dei defunti nel’aldilà. dk

Cos’era l’Eanna? La “Casa del cielo” (é.an.na), la dimora di An, ‘22 Cfr. Rangoni, cit.,56.

ovviamente. Ma c’è un mito sumero, molto importante, che racconta come Inanna se ne sia impadronita, l’abbia portata sulla terra, ed abbia con ciò enormemente aumentato il suo potere. Si può chiamare Inanna si impadronisce del cielo (van Dijk; Pettinato,

Mitologia sumerica, 252 sg.). È un peccato che il testo sia rotto in tanti punti, ma certo è fondamentale per segnare un passo decisivo nella carriera di Inanna. Perché mai la dea decide di compiere questo passo decisivo di impadronirsi dell’Eanna? Si tratta dell’aperta sfida al dio supremo (il quale tra l’altro figura, in questa stessa composizione, addirittura come suo “padre”’)? Si tratta della sua sfrenata ambizione? Sembra di no. Forse nel discorso che rivolge a suo fratello, il dio-Sole Utu, c’è la spiegazione, perché in un contesto smozzicato pare che gli riveli di essere stata violentata (il tipico caso in cui intervengono 1 fratelli, chiamati in causa per vendicare l’affronto). Resta da vedere chi fosse questo colpevole di violenza, che con la sua deplorevole azione ha indotto la vergine (non più vergine) all’atto ostile verso suo “padre”. Credo si tratti dello stesso An. Sta di fatto che il Sole, fratello di Inanna (fanno parte ambe-

due della triade astrale insieme al loro vero padre, Nanna-Luna) le promette aiuto, anche se poi non appare, a causa delle lacune, quale aiuto le abbia mai dato. Invece un vero supporto arriva piuttosto da un pescatore, che aiuta Inanna ad impossessarsi dell’Eanna, nonostante il vento del sud e la sua azione volta a fare inabissare le loro navi. In breve,

dopo che Inanna ebbe tagliato la coda ad uno scorpione evidentemente nemico, appare An che si dispera (si batte le cosce), interviene dimezzando la luce perenne del giorno e creando la notte, ed infine si rassegna a che l’Eanna resti sulla terra, purché sia il tempio più bello di tutti. Sembra che An si sia rassegnato perché non si sapesse il furto di Inanna (ed anche la sua violenza?), e le cose rimanessero in famiglia. Insomma: non si conoscessero in giro i “panni sporchi”. Così An, invece di fare annegare Inanna, come avrebbe voluto, accetta

che l’Eanna risplenda sulla terra così come risplendeva in cielo. Poco chiara è le funzione delle navi/barche (sono quelle che trasportano l’Eanna?). In ogni caso l’ambiente è acqueo: oltre che del pescatore e di navi, si parla anche di paludi e di un fiume, per cui non è strana l’auspicata (e mai realizzata) punizione di Inanna per annegamento.

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E così che la dea, come leggiamo negli ultimi versi, è diventata “la più grande di tutti gli déi del cielo”. **

*

Un importantissimo episodio, contenuto in una lunga composizione sumera che originariamente arrivava agli 800 versi, redatta nei primi secoli del II Millennio (Farber-Flugge, Der Mythos ”Inanna und Enki" ..., 1973), deve essere successivo a quanto abbiamo appena osservato. Potremmo chiamarlo Viaggio di Inanna a Eridu. Inizia con Inanna che ammira, compiaciuta, il suo sesso. Ci

sarà anche qualcosa di osceno e di sguaiato in questa scena, ma non dimentichiamo che si tratta della dea della fecondazione e della nascita, e che dunque il sesso in questo caso è fondamentale. Da quanto mi pare di capire, questo autocompiacimento avviene poco prima di recarsi dal “pastore, all’ovile”, dunque dal suo amante (il pastore Dumuzi), con il quale ovviamente pensa di unirsi, e per il quale snocciola tutta una serie di intenzioni positive: di farlo sempre più bello, ricco, perfetto. Poiché subito dopo Inanna esprime l’intenzione di recarsi da Enki, nella città di Eridu a lui sacra, e nell’Apsù, dove Enki vive, par di capire che lo scopo del viaggio sia quello di ottenere da Enki (solo con dei consigli?) il modo per ottenere il potere che le permetta di realizzare il suo intento, che non sarebbe quello ambizioso di ‘fare carriera”, ma semplicemente di favorire il suo amante. Enki, l’onnisciente, quando Inanna è a non molta distanza dalla sua meta ne prevede l’arrivo, ed istruisce un suo ministro, Isimud: la deve ricevere con molto rispetto, ed offrirle cibo imburrato, acqua fresca e birra. Isimud esegue, e così Inanna ed Enki si ritrovano insieme al banchetto, sacro finché si vuole ma anche molto laico", tant'è vero che bevono birra e vino (mai mescolare!) e; con ogni eviden-

za, Enki si ubriaca. Nei fumi dell’alcool accade che Enki, in apparenza senza che ci sia sotto sotto un’azione subdola di Inanna, solennemente le offre (chiamandola “figlia”. Anche lui!) enormi poteri: la regalità ed i suoi simboli: scettro, pastorale, mantello. Le offre le funzioni sacerdotali degli Egizi e di altri ancora, e quella dell’esorcismo, oltre alla capacità di discendere agli Inferi (kur) e di risalirne. Certamente non è 13 Può succedere: personalmente ho assistito ad un episodio simile in occasione di un matrimonio: il sacerdote celebrante (un frate) si ubriacò durante il banchetto nuziale, al quale ovviamente era stato invitato

era

possibile capire, talvolta neppure con incertezza, tutto il seguito dei poteri che Enki offre spontaneamente ad Inanna. Tra questi c’è la funzione di dea dell’erotismo e della prostituzione, inoltre ci sono emblemi bellici e particolari caratteriali che forse l’autore pensava caratteristici della donna in genere: schiettezza, ipocrisia, adulazione(?). Si parla anche di una “santa taverna” che forse vuole alludere a quelle bettole, gestite da birraie, in cui si praticava anche la prostituzione. Sono citati anche musica e canto, certamente prerogative femminili ma anche dei cinedi che, lo sappiamo da altre fonti, cantavano, ballavano e recitavano, in abiti femminili, nei templi della dea.

L’elenco continua riprendendo anche argomenti cui già si era fatto cenno: insieme ad altre caratteristiche caratteriali ci sono anche aspetti guerreschi, come il saccheggio delle città, cui sono legate lamentazioni (si immagina dei vinti) e gridi di gioia (certo dei vincitori). Ci sono, insomma, tutti gli aspetti della vita, variamente interpretabili. Ma quel pazzo di Enki non finisce qui: vi aggiunge anche le varie arti degli artigiani, dal falegname al fabbro, dallo scriba al muratore ed allo stuoiaio. E vi aggiunge la saggezza, il comportamento e tutti gli aspetti della vita (perfino l’arte di accendere e spegnere il fuoco) con tutti i sentimenti e le qualità proprie degli uomini. Inanna, come è più volte ripetuto, accetta ben volentieri questi doni, spontanei sì ma frutto di una mente alterata dalla birra

e certamente anche dal suo fascino e dalla sua bellezza. Eterno femminino, come sembrano suggerirci, rassegnati, gli autori di questo mito, forse vittime anche loro di donne sottomesse sì, ma

in fondo in fondo padrone della casa ed anche dei loro mariti. Questi doni, che conosciamo attraverso le parole di Enki, sono poi (non tutti) elencati alla fine e dichiarati propri da Inanna, perché sia ben chiaro cosa la dea ha ricevuto, e che cosa si porta a casa. Ma ecco che Enki si riprende dall’effetto della birra, e chiede ad Isimud che fine abbiano mai fatto i famosi “poteri”. Troppo tardi! Inanna è ripartita per Uruk, la città a lei sacra, sopra la

“nave del cielo”, ed Enki non la può raggiungere. Manda allora il suo visir Isimud, che raggiunge Inanna e le riferisce l’ordine di Enki, che è quello di riportare la nave a Fridu,

ovviamente con tutto il suo carico di poteri. In più, vuole che altri esseri al suo servizio si impadroniscano della nave. Non solo Inanna si oppone, accusando Enki di rimangiarsi le sue parole e, peggio, il suo giuramento, ma fa intervenire una sua ‘4 Si tratta della nave del tempio Eanna, divenuto ormai proprietà della dea

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assistente, Ninsubur. Non si sa bene cosa faccia costei, ma sta di

fatto che la spedizione voluta da Enki fallisce. Il testo prosegue con la medesima solfa: Inanna ha proseguito il suo viaggio, Enki rispedisce, con Isimud, dei nuovi accoliti finché la raggiungono. La stessa scena si ripete più volte, anche quando la dea ha raggiunto finalmente la sua città, Uruk. Ovviamente la barca con i poteri viene portata in trionfo dalla folla esultante, con grande festa collettiva. L’ultima parte della composizione è alquanto lacunosa. Si capisce solo che Inanna riorganizza il commercio nella sua città, e che Enki ha nuovamente mandato Isimud a Uruk, questa volta però con l’intenzione di non ostacolare l’evento. Isimud rielenca tutti i poteri che Inanna ha accumulato, ed alla fine pare davvero che Enki, rassegnato, auguri ogni bene a Inanna e ad alla sua città Uruk. Cosa fatta, capo ha. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Certamente questi “poteri”, forse intesi come oggetti-simbolo, talismani da caricare su una barca, non vengono “trasferiti” ad Inanna, così che Enki ne rimane privo. Enki invece li conserva, ma ora anche Inanna contemporaneamente li possiede. Si è voluto vedere in questi poteri, ed a ragione, tutto quell’insieme di realtà e attività umane che costituiscono, nel bene ma

anche nel male, la “cultura” di una popolazione. Che poi si sia anche voluto rappresentare, con questo lungo episodio, una passata dipendenza, o meglio una derivazione della cultura del tempo, da Eridu (Enki) a Uruk (Inanna), è possibile ma non lo direi sicuro.

Certo è, comunque, che insieme agli aspetti vari o generici sono contenute, in questo elenco espresso per ben tre volte, anche

prerogative caratteristiche e specifiche di Inanna: la sua importanza nel pantheon, la sua specificità come dea del sesso, la tipologia dei suoi templi dove cantano e ballano (e non solo) femmine ed

effeminati, le sue qualità guerresche. Tra queste prerogative ritengo siano molto importanti, anzi fondamentali, quelle due che riguardano la discesa e la risalita dal kur, da intendere qui come il “paese dei defunti, degli inferi”, dove Inanna effettivamente scenderà (con non poche difficoltà per risalirne). Perché mai questa curiosa prerogativa? E stato pensato, e personalmente concordo, che per un dio la discesa agli inferi e la resurrezione, cosa impossibile agli uomini mortali, fosse la prova dey125 cisiva della sua potenza, in definitiva il suggello della sua deicità?. 125 È stato così anche per Jeshua?

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Scendere tra i morti e risalire era dunque presumibilmente, per l’aspirante “gran dio”, una prova nel suo doppio significato: prova da affrontare e superare, e prova nel senso di dimostrazione

della propria potenza. Non era dunque molto dissimile da un rito di iniziazione e di passaggio. Inanna non era nata “grande dea”, ma faceva parte di una triade astrale creata, con gli altri astri, da altre e più potenti divinità. Aveva quindi bisogno, per coronare la sua “carriera”, di superare questa prova tremenda. *ok*

In un momento presumibilmente successivo va collocato un episodio che vede come protagonisti Inanna e suo fratello Utu, il Sole: Le lenzuola della dote di Inanna (P. Mander, Canti sumerici d'amore e di morte, Brescia 2005,106). Utu promette alla sorel-

la di coltivare il lino e poi, di volta in volta, sottoporlo alla dovuta lavorazione, per diventare poi un lenzuolo nuziale. Potremmo pensare che al fratello toccava preparare il “corredo” per le nozze della sorella. Ma c’è il problema dello “sposo” (anche se effettivamente non risulta che la dea abbia mai avuto un marito, ma solo amanti, Dumuzi compreso). Utu afferma che lo sposo dovrà essere, appunto, Dumuzi, ma ad Inanna la cosa non sta bene: la fanciulla ama un agricoltore,

che le riempie di grano i silos. Utu insiste, elogiando Dumuzi, che non piace ad Inanna ma che direttamente interviene, paragonando i suoi doni a quelli dell’avversario. Alla dea che gli rinfaccia l’aiuto che gli hanno dato i suoi parenti, Dumuzi risponde che la propria famiglia non è da meno della sua, ma alla fine sembra che il litigio abbia avvicinato i due giovani. Da questo ed altri poemetti (es. Il bisticcio degli amanti) risulta finalmente l’unione tra Inanna e Dumuzi, ma viene da sospettare, specie per via di una “disputa” tra Dumuzi pastore ed un Ekimdu agricoltore” (in cui ricompare Utu che cerca di convincere Inanna a scegliere Dumuzi), che anche qui possa esserci un’eco dell’eterno conflitto tra pastori ed agricoltori, che vedremo rispuntare più oltre, nell’episodio di Sukalletuda. * **

Veniamo ora alla prova tremenda che ha dovuto affrontare la nostra dea: la discesa nel mondo dei morti e la sua faticosa risalita. Ben noto è il mito di Inanna agli Inferi (Kramer, RA 34 1937,93 sg.), in seguito duplicato (ma non esattamente) in chiave semitica, quando Inanna era ormai Istar, come vedremo. Da 140

sùbito vorrei specificare che non mi sento di concordare con la proposta Chiodi-Pettinato, secondo cui il kur = Sede dei defunti, altro non era che il kur = Montagna sacra, sede della vita, e che Inanna vi si sia recata, salendo e non scendendo, “per ampliare la sfera della sua azione (e) impadronirsi del Kur, dominio incontrastato della regina (dei morti) Ereskigal”. Tra l’altro, non sembra davvero che la Montagna sacra, la montagna della vita, figuri dominio della dea dell’oltretomba. Il regno dell’oltretomba in effetti è il “mondo di sotto”, ed Inanna si accinge a recarvisi, partendo dal cielo (non scordiamoci che è il pianeta/stella” Venere)". Tuttavia, subito dopo, viene detto

che lascia i suoi templi, situati nelle varie città che, insieme alle denominazioni di questi templi, vengono enumerate: anzitutto il tempio Eanna di Uruk (abbiamo già visto la sua storia), e poi quelli di Badtibira, Zabalam (già incontrata), Adab, Nippur, Ki3, Akkad.

Ovviamente (e come può essere altrimenti?) si munisce dei suoi poteri (sette, come a dire: tutti) e si fa bella, con la sua brava corona, una bella collana di lapislazzuli, braccialetti d’oro, un at-

traente reggiseno, il suo mantello regale e quant’altro. Così ornata, o meglio addobbata, prima ancora di partire fa un bel discorso ad una sua assistente, di nome NinSubur, perché

ovviamente sa che il suo viaggio non sarà privo di pericoli e di imprevisti. Anzi, sembra che addirittura preveda la sua impossibilità di ritornare. E così raccomanda a NinSubur di darsi alle lamentele e di andare, dimessa nel vestire, nelle dimore degli dèi per chiedere aiuto. Per inciso, ricordo che abbiamo già incontrato questa NinSubur nelle vesti di quell’assistente che era riuscita a vanificare i tentativi di Enki di riprendersi i poteri inopinatamente ceduti. Ninsubur dovrà recarsi al tempio Ekur di Enlil a chiedergli di salvare Inanna, con preghiere non sempre comprensibili al nostro modo di pensare del terzo Millennio (d.C .1)!27, Nel caso che Enlil ri-

fiuti, allora dovrà recarsi a Ur, al tempio del dio-luna Nanna (che tra l’altro era l’autentico padre della dea), a pregarlo con le stesse parole. In caso, anche qui, negativo, allora avrebbe dovuto recarsi al tempio di Enki, il dio che sicuramente non avrebbe negato il suo aiuto. 126 Tra le varie opere (ved. anche in Bibliografia) che trattano della discesa diInanna agli Inferi ved. anche W.R. Sladek, /nanna 's Descend to the Netherwold,

Baltimore 1974, e P. Lapinkivi, Yhe Neo-Assvrian Myth of Istar's Descent and

Kos. = Resurrection, Helsinki 2010 2? Sembrano auguri affinché gli oggetti preziosi che la divinità possiede non vadano in malora.

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Detto questo, ecco che Inanna si presenta dal portiere degli Inferi ma, a dire il vero, con un fare un po’ troppo aggressivo. E chiede, anzi ordina, di lasciarla entrare. Alla domanda (del tipo: “si qualifichi”) del portiere, Inanna si rivela: “sono la signora del cielo” (e difatti è il pianeta Venere). Il portiere è stupito: “Se sei la signora del cielo, come mai vuoi entrare nel paese-senza-ritorno?”. E qui Inanna, chiaramente, inventa una scusa: poiché era morto

il marito di Ereskigal, Gugalanna (vedremo poi chi era) allora, assicura, era arrivata in quel luogo per partecipare ai funerali ed ai riti connessi. Visto che chiama “sorella” Ereskigal sembrerebbe, dunque, un triste dovere di parente. Il portiere le dice di aspettare, perché deve avvertire la sua signora, ed infatti si presenta ad Ereskigal e le racconta per filo e per segno ciò che era avvenuto: la pretesa di entrare da parte di una nobile donna, adornata come già sappiamo di gioielli vestimenti e trucco. Ereskigal evidentemente capisce che si tratta di Inanna, e si indispettisce: si batte le cosce (atto di rabbia, lo abbiamo già visto) e si morde le labbra, poi ordina al portiere di introdurre l’indesiderata ospite, privata tuttavia di tutto quanto si porta addosso. Il portiere esegue, ed inizia a spogliare Inanna, che ogni volta che è privata di un suo oggetto si stupisce e chiede spiegazioni, ma viene zittita. Così per ognuna delle sette porte del kur sotter-

raneo, Inanna perde i sette indumenti e gioielli'* nei quali sono ìnsiti i suoi sette (cioè tutti) poteri.

Così ridotta, nuda e impotente, Inanna viene introdotta al cospetto della “sorella” Freskigal che, assisa in trono e confortata dal giudizio dei sette (anche loro) Anunna degli inferi in veste di giudici, lancia un’occhiata micidiale a Inanna, con un grido e con parole di condanna. Così la dea è ridotta a un cadavere, e finisce appesa a un chiodo. La storia non finisce qui, e la riprenderemo. Invece a questo punto vorrei passare subito al confronto fra questa composizione sumerica e quella, analoga, accadica, che potremmo chiamare Istar agli Inferi, di cui sono note una edizione ninivita (Talbot, ‘“Transactions of the Society of Biblical Archaeology” 2, 1865, 179) ed un’altra trovata ad Assur (CT 15, 45-48; KAR 1). Anche in questo caso viene detto che Istar (la sumera Inanna) si accinge a recarsi negli Inferi, che qui sono accuratamente deSr Pe. S ua rg * La precisa traduzione dix alcuni RAG diTh questi n oggetti Linon èa chiara ed è discussa.

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scritti con quella descrizione-standard, di cui abbiamo già parlato. Non viene detto però che lascia i suoi templi, né viene riferito tutto il discorso fatto alla sua assistente. La troviamo subito all’entrata degli Inferi. Qui la sua irruenza è certamente più evidente: minaccia di fracassare tutta la porta in modo da far uscire tutti i morti che, essendo più numerosi, scatenati per il mondo si mangerebbero i vivi. Secondo copione, il portiere le dice di attendere e va ad avvertire Ereskigal, dicendole che era arrivata sua “sorella”: “colei che gioca con la corda da saltare, e che aveva fatto confusione nell’'Apsù”. Vedremo poi questi particolari, anche se non è chiaro questo intervento negativo di IStar nell’Apsù (forse vuole alludere all’ubriacatura di Enki ed alla faccenda dei “poteri”, magari insinuando che fosse tutto frutto della macchinazione della dea). Ereskigal, avuto l’annuncio, si fa livida (“come un ramo di tamerice tagliato”) e pensa subito alla ragione che avrebbe indotto la sua rivale a scendere nel mondo dei morti. Ed immagina che IStar abbia pensato di raggiungere i morti che le sono cari (i giovani sposi, 1 bambini) per condividere la loro triste vita mangiando come loro

fango e bevendo acqua torbida'?. Dà ordine dunque di introdurre IStar, ma badando bene di trattarla secondo l’antica legge degli Inferi. Falso più di Giuda, il portiere invita la dea ad entrare affermando che gli Inferi sono ben lieti della sua visita, ma inizia a

spogliarla: prima la corona", poi gli orecchini, la collana di perle, il copri-seno, la cintura, gli anelli delle mani e dei piedi, infine il mantello. Come nella versione sumerica, la dea chiede ogni volta il perché di quello spogliarello. Ma si sente rispondere che quella era la regola, decisa da EreSkigal. Appena si vedono, le due dee dimostrano tutto il loro astio reciproco. Ereskigal si infuria, ed Istar si getta sconsideratamente su di lei. Ma la dea degli inferi ha, per così dire, il coltello per il manico, perché sappiamo che Istar, senza i suoi ornamenti, è privata anche dei suoi poteri. Così Ereskigal ha buon gioco nel chiamare un suo addetto, Namtar, ed ordinargli di scaricare sulla rivale sessanta ma-

lattie, ognuna relativa ad una singola parte del corpo. Così IStar è trattenuta negli inferi (non si dice però che resta appesa ad un chiodo). In questa versione accadica troviamo anche FIRE, 129 Per altra interpretazione, peraltro da respingere, ved. oltre. 130 Seguo qui la traduzione di Bottéro per quanto riguarda l’identificazione degli oggetti.

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le conseguenze dell’episodio: morta la dea della procreazione, non si procrea più; il toro non monta più la vacca, l’asino non feconda più l’asina, nessun uomo ingravida più una donna. Anzi, ognuno dorme per conto suo. Torniamo ora alla versione sumerica. Dopo tre giorni e tre notti da quando IStar era finita appesa a un chiodo, ecco che la sua fedele assistente, NinSubur, inizia le sue lamentele e si reca, umile

e dimessa, dapprima nell’Ekur a pregare (con la stessa terminologia un po’ enigmatica, che abbiamo visto prima) il dio Enlil. Costui però rifiuta l’aiuto, con delle parole che fanno chiaramente capire che era convinto di un’azione di Inanna riprovevole: “dopo aver voluto il cielo, ha desiderato gli Inferi”. E traspare così che il potentissimo Enlil non era certo soddisfatto della “carriera” di Inanna, e contemporaneamente era convinto che la dea se la costruisse personalmente, innegabilmente dominata da una feroce ambizione. Lo stesso accade con il dio-Luna Nanna, anche lui dominato dalla stessa convinzione. Ma quando la preghiera viene rivolta a Enki, costui si preoccupa enormemente. Allora si raschia un po’ di terra dalle unghie e crea due esseri: un kur.gar ed un gala.tur. Sono due tipologie di addetti ai templi di IStar, da considerare tra quelli effeminati che davano spettacoli teatrali, imitanti anche le battaglie di IStar guerriera, ma anche impiegati come prostituti. Tra parentesi, ecco un altro esempio di creazione, sempre dall’argilla, questa volta ad opera di Enki. Il dio affida loro il nutrimento-della-vita e la bevanda-della-vita, ed ordina loro di scendere agli Inferi. Pare che suggerisca di sgusciare alla porta in modo da entrare agevolmente senza essere visti, e di presentarsi ad Freskigal in quel momento sofferente. Non si conoscono le ragioni di questa sofferenza. Il testo la descrive come “madre genitrice, a causa dei suoi figli a letto ammalata, senza vesti gettate sulle sue spalle”. Tutto porterebbe a pensare ad una scena di parto, se non si trattasse di EreSkigal, regina dei morti sempre contrapposta ad Istar, che è la regina dei Vivi, e mai intesa come madre. In via del tutto ipotetica, si potrebbe forse pensare ad una scena di contrappasso: Ereskigal, che ha privato delle nascite il mondo tenendo presso di sé, morta, la dea della procreazione, ha

assunto su di sé, come per una reazione del destino, il compito di procreare, o semplicemente di dovere sopportare i dolori della procreazione. Non mi vengono in mente altre spiegazioni.

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I due effeminati, su consiglio del saggio e furbo Enki, le si devono mettere accanto e farsi compartecipi del suo male, lamentandosi con lei per i dolori del cuore e delle membra! Ereskigal, dice Enki, si sarebbe commossa e ben disposta verso di loro. A questo punto avrebbero dovuto approfittarne, facendola giurare sulla bontà delle sue intenzioni, e rifiutando cibo e bevande che volesse offrire!. Invece avrebbero dovuto chiederle il corpo morto di Istar, versargli sopra cibo e bevanda-di-vita, e farla così resuscitare. Il tutto perfettamente avviene, ed Inanna viene resuscitata. Ma non finisce qui. Spuntano infatti gli Anunna degli Inferi, che affermano la legge secondo cui chi lascia il mondo dei morti (è un mondo che aumenta sempre, e non diminuisce mai) ne deve

fornire un sostituto. Interrompo a questo punto la narrazione sumerica per tornare a quella successiva, l’accadica. Là dove avevamo incontrato la fedelissima Ninsubur, qui invece troviamo una divinità minore,

Papsukal, preoccupato per l’improvvisa interruzione delle nascite, che la morte di IStar aveva provocato. Subito Papsukal si reca piangendo dal padre di IStar, il dio-luna Sîn (l’ex Nanna). Pare gli vada buca, perché allora si reca da Fa (l’ex Enki) ad avvertirlo del disastro. Fa, il dio particolarmente intelligente, crea allora un invertito, di nome Asusu-namir (“La sua “uscita” è splendente”) gli ordina di scendere negli Inferi e, una volta superate (non dice come) le sette porte, di presentarsi ad EreSkigal, che si sarebbe certamente rallegrata alla sua vista (come si nota, non c’è qui alcuna scena di sofferenza da parte della dea Ereskigal. Anzi). Approfittando della sua buona disposizione, l’invertito avrebbe dovuto carpirle un giuramento, e poi chiederle di bere da un otre lì vicino. Tutto si avvera. Doveva trattarsi di un otre di vitale importanza, perché Ereskigal si àltera, si ferisce (addirittura!) le cosce e si morde le dita. Perché mai? Perché era vietato bere da quell’otre, ma il giuramento la legava e dunque era costretta ad obbedirvi. Come conseguenza, però, lancia una maledizione tremenda all’invertito (la considereremo poi). 131 Ho già fatto presente (in / segreti dell'archeologo, Roma, Aracne 2009, 258) il parallelo con una raffigurazione antica peruviana in cui si vede, accanto ad una donna in fase di parto, un’altra persona che, in simpatia, soffre con lei. 3 Mangiare cibo e bere acqua offerti dalle divinità infere destinava a rimanere per sempre nel mondo dei morti, come è ben evidente nel poemetto Nergal ed Ereskigal.

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Ereskigal poi ordina al suo fedele Namtar (quello che aveva scatenato addosso ad Istar 60 malattie), di chiamare gli Anunnaki per farli sedere in Assemblea, di aspergere Istar con l’acqua della vita (evidentemente contenuta nell’otre fatale) e di condurla davanti a lei. Il testo passa subito ad elencare gli stessi indumenti/gioielli che IStar indossava all’inizio, e che vengono ora riconsegnati, ad ogni porta, alla dea, che così esce, resuscitata, dagli Inferi. Ma Ereskigal non dimentica di ordinare a Namtar, evidentemente spalleggiata dagli Anunnaki, di riportare indietro IStar nel caso non riuscisse a trovare un sostituto. Siamo al punto in cui Inanna-IStar resuscita, grazie al dio EnkiFa, avvertito da NinSubur/Papsukal, ma legata ad una legge che Ereskigal, supportata dagli Anunna-Anunnaki, pretende sia attuata. Riprendendo la versione sumerica, abbiamo visto che gli Anunna fermano Inanna. Saltano fuori, a questo punto, dei demoni, piccoli e grandi, simili a delle rose ma, in realtà, tali che circondano gli uomini “come siepi di rose” (dalla versione accadica)

cioè (credo) spinosi. Questi demoni scortano, armati, Inanna. Sono insensibili alle

offerte, strappano la sposa dalle braccia dello sposo, ed il bambino dal seno della nutrice, sono dunque in ogni senso, come vedremo, i sostituti della dea della morte. Appena uscita, Inanna incontra la fedelissima NinSubur, che tanto si era prodigata per lei, che le si getta ai piedi. I demoni subito la individuano come sostituta, ma Inanna si oppone, ricordando, parola per parola, tutto quello che Ninsubur aveva fatto per lei. Incontrano allora un certo Sara, uscito dal tempio di Umma, che si getta, anche lui umile e dimesso, ai piedi di Inanna. I demoni lo individuano come sostituto della dea, ma

anche questa volta Inanna si oppone: si tratta del suo manicure, del suo parrucchiere! Togliere ad una donna, peraltro bellissima dea (sarà la futura Afrodite/Venere) questo importantissimo soggetto, sarebbe da folli.

Giungono così al tempio di Badtibira. Stessa scena di Lulal, che pare fosse il comandante del suo esercito; così Inanna ugualmente si oppone. Arrivano a Kullab, dove l’amante di Inanna, Dumuzi, se ne sta comodamente seduto su un trono. Si capisce che è un pastore, perché i demoni gli rovesciano la zangola, mentre altri pastori suonano il flauto e lo zufolo (strumenti realizzati, come la siringa di Marsia e del dio Pan e come le /auneddas sarde, con le canne, e tipici dei pastori). 146

E più che sottinteso che Inanna si aspettava che il suo amato Dumuzi mostrasse contentezza per la sua liberazione: ma ne rimane fortemente delusa. Con lo stesso sguardo omicida e le stesse parole che le aveva rivolto Ereskigal per ucciderla, Inanna si rivolge a Dumuzi, e lo consegna nelle mani dei demoni. Costoro sono quelli che non conoscono le gioie di chi si unisce con la moglie, non amano i bambini e cacciano le nuore dalla casa del suocero. Già li avevamo trovati descritti. Il povero Dumuzi rimane male; scoppia allora in lacrime e si rivolge al dio-sole Utu, che chiama cognato in quanto è il fratello di Inanna, la sua amante. Gli ricorda di avere sempre portato a sua madre Ninsun (che è poi la madre anche di Inanna, sorella di Utu) il burro ed il latte, e lo prega di tramutarlo in serpente, in modo da

potere sfuggire ai demoni. Utu lo ascolta e lo accontenta!”. Finisce così il racconto del primo tentativo di Dumuzi di sfuggire ai demoni. In un altro testo possiamo trovare, in qualche modo, il sèguito della storia. Vi si legge che i demoni si recano a Uruk, a cogliere Inanna intanto che amoreggia con Dumuzi, e qui la inducono a tornare nel kur dei defunti, senza ovviamente i suoi poteri. A questo punto Inanna riconsegna il povero Dumuzi, che viene messo in ceppi ed umiliato. Si ripete lo stesso copione (se in realtà non si tratta dello stesso episodio di prima, qui raccontato in modo differente). Dumuzi infatti prega Utu di trasformarlo in serpente, in modo di sfuggire ai demoni e di potersi rifugiare presso sua sorella, Gestinanna. Utu lo accontenta. La sorella Gestinanna!#, il cui nome rivela di essere la patrona della vite e del vino, capisce però che non c’è nulla da fare, e scoppia in una lamentazione per Dumuzi, povero giovane senza moglie, figli ed amici, e senza nemmeno il conforto della madre.

Difatti i demoni cercano Dumuzi proprio presso la sorella, e le ingiungono di rivelare il nascondiglio del fratello. Gestinanna, 133 JI] serpente, essendo animale che ha la tana sotterranea, è un simbolo del dio-Sole nel suo aspetto notturno, e così come il sole quotidianamente si rinnova, anche il serpente rinnova la pelle. Cfr. l’episodio nel Ghi/games, quando il serpente ruba al protagonista la pianta dell’immutabilità. Anche l’aquila, simbolo del sole nel suo aspetto diurno, è animale che si rinnova 134 Sulla figura di Gestinanna, di per sé ambigua perché ondeggiante tra vegetazione e pastorizia, ho fatto qualche considerazione (con bibliografia) in Qualche nota dai testi di Enunna, 3. Dubbiose note sul dio Ninazu, in Ana turri gimilli (Fst. Mayer),Roma 2010, 358 sg. Ved. anche oltre

147

senza proferire parola, prosegue il suo lavoro. Si avvale della facoltà di non rispondere. Allora i demoni hanno l’idea (certo non particolarmente perspicace) di cercare Dumuzi a casa sua, o meglio presso l’ovile dove tiene le sue pecore, e qui naturalmente lo scovano e lo imprigionano. Sembra che a questo punto la dea Inanna si volga a premiare una mosca, forse perché è stata lei a rivelare la sede di Dumuzi. Ad ogni modo, di fronte a Dumuzi piangente Inanna lo consola decidendo che per metà anno sarà Gestinanna a sostituirlo negli Inferi. C’è un altro testo che riprende la narrazione da questo punto, ma è differente (Ur Excavations Texts,6/1, 1963). Qui infatti i de-

Moni, dopo il rilascio della dea, si recano ad Uruk, trovano Inanna e le ingiungono di tornare agli Inferi, senza naturalmente i suoi poteri. Inanna, spaventata, consegna loro Dumuzi, ed idemoni allora lo catturano, lo torturano e lo umiliano. Il povero Dumuzi si rivolge allora al dio-sole Utu per chiedergli di trasformarlo in serpente in modo che si possa rifugiare presso la sorella Gestinanna che, come già sappiamo, al vederlo si lamenta e lo compiange. Ma i demoni hanno l’idea di cercarlo dalla sorella, che non fiata anche se viene ferocemente torturata.

Si sa la fine della storia: i demoni cercano Dumuzi a casa sua, presso l’ovile, e lo catturano nonostante le lamentele della sorella. Riprendiamo ora il racconto accadico, dove Dumuzi è Tammuz. Liberata IStar, Ereskigal ordina a Namtar di lavare e profu-

mare Tammuz, di vestirlo con un abito bellissimo, in modo da renderlo attraente, e di circondarlo di donnine allegre. È sottinteso che IStar, vedendolo in simili atteggiamenti e sembianti, rimanga inorridita e consegni l’ex amante ai demoni, dal che la sorella (qui chiamata Belili"), sentendo il richiamo disperato di Tammuz, si spoglia dei vari gioielli di cui si stava ornando, e si mostra disperata. Gli ultimi versi, tuttavia, sono una sua consolazione, perché viene rivelato che Dumuzi sarebbe risalito dal mondo dei morti, e non solo lui. Quando si leggono le due versioni, sumerica e accadica' della Discesa di Inanna/Istar agli Inferi, la prima domanda che sorge 135

ahi

cote

, D Li b) ° Bel-ilt — “Signore degli dèi” ? L’attribut o sembra eccessivo , e d'altrond e èai maschile. Dovrebbe essere, semmai, Belit-ili !© Riprendo qui un mio scritto in “Rivista di Studi Fenici” 44 (2016), 31 sg. ;

Y:99.


Certo non finisce qui. Per esempio in un’altra breve composizione (IStar si presenta, Reisner, SBH 50, 105 sg.. 153) dobbiamo assistere alla solita vanagloria di sé stessa, sia come signora del cielo sia come tremenda guerriera, dea che scuote i cieli e fa tremare la terra. Si vanta di avere 7 nomi significativi e di essere, come sempre, la prima degli dèi. Ma è anche interessante il fatto che, a un certo punto, inaspettatamente dice di giocare al salto della corda, che è trastullo dei bambini e non particolarmente glorioso, ma che abbiamo già visto tipico di IStar, ricordato ad Ereskigal nelle parole del suo portiere. Né va dimenticato un altro particolare: a un certo punto la dea dichiara: “quando sto alla porta della taverna sono la prostituta che conosce l'amore”: ulteriore accenno a quelle taverne malfamate, dove la taverniera era anche la maîtresse di un piccolo bordello. Per quanto riguarda i 7 nomi di Istar, li ritrovo in un Inno bilingue (Lambert, Bab. Creation Muths, 147): Istar (signora) dei cieli — Signora dei paesi — regina che fa tremare i cieli e scuotere la terra — fuoco fiammeggiante [...] — Irnina [...] -@roe in solitaria — signora del (tempio) Eulmaî. x» *

Non vanno dimenticate le preghiere: IStar era anche guaritrice ed aveva la forza di allontanare gli spiriti maligni. Nella Grande preghiera a IStar (Lambert, AfO 19,1919/60, Tavv.8-11) troviamo un significativo esempio: c’è il poveraccio malridotto che incolpa sé stesso e i suoi numerosi e vari peccati per via del triste stato in cui si trova. È la solita solfa: è la fermissima idea che il male che ci viene sia la conseguenza, la punizione per i nostri peccati. Si tratta di un’idea che esiste (come si vede anche qui) da sempre. Ma non si riferisce soltanto alle colpe personali! No no, si è evoluta tanto da abbracciare anche quelle di interi popoli, intere nazioni, oggi persino tutto il mondo, visto che proprio tutto il mon-

do è caduto preda del perfido coronavirus (scrivo nel 2020) ed un pope ortodosso lo ha attribuito alle colpe ed alla degenerazione

204 Per es. concede una pausa ai buoi che arano ma mette a lavorare quelli che se ne stanno tranquilli, oppure rende schiava la donna per bene e prende sotto la sua protezione la donna malfamata

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della moderna umanità. Tutti colpevoli? Tutti fetenti peccatori? Eh sì, proprio tutti per il nostro pope, visto che anche lui è caduto vittima della maledetta pandemia. >»

Solo malattie? Non è detto, In una Preghiera a IStar contro la magia (Ebeling, KAR 92) un altro poveraccio invoca la dea per essere liberato da una brutta fattura (avevano messo una figurina, che lo rappresentava, in una tomba). In un’altra composizione (Ebeling, KAR 236,243), dove IStar è invocata come stella ma

poi è chiamata “signora del cielo e dell'’oltretomba’?®, un fedele presenta lo stesso problema. Un altro (Farber, /$tar und Dumuzi,146-149) che la dichiara amante di Dumuzi e ma anche dell’intera umanità, riferisce di averle fatto un bel dono: una vulva di

pietra ed una stella d’oro: simboli ambedue della dea, ed alquanto significativi. Ma l’orante vuole la grazia da Dumuzi, che prega di levargli le sue disgrazie. ok *

Un preghiera è anche una composizione chiamata La grandezza di IStar (King, BMS

5,11-19; 8,1-19;1,29-35), dove la dea, in-

vocata con l’elencazione della sua parentela, viene detta: “fu sei (come?) Anu, tu governi i cieli”, e definita senza pari tra gli déi Ighighi e Anunna(ki). Anche qui il massimo, tanto più che sarebbe lei a definire 1 destini (particolare che troviamo anche altrove). L’orante le chiede salute e fortuna, una vita serena e la realizzazione dei suoi desideri. Auguri. Tra le preghiere vorrei includere qui una Supplica a IStar (King, Seven Tablets of Creation 2, 75-84). Si tratta di una lunga composizione, che è stata anche divisa in cinque parti distinte (Castellino, Testi sumerici e accadici, 356 sg.). Vi troviamo la solita tiritera degli elogi ed esaltazioni di IStar, soprattutto sotto l’aspetto di dea guerriera, a cui si invoca pietà, dato che è anche

guaritrice degli infermi?°°. Ed infatti si vede subito che chi la invoca è un disgraziato, che ricorda un po” l’infelice protagonista della Teodicea babilonese ed il Giobbe biblico: non ci sono solo le malattie a tormentarlo, ma anche i torti e le menzogne dei perse-

2 Assurdo che sia chiamata “signora degli Inferi”, ma qui si tratta forse di una espressione standardizzata, oppure si riferisce al semplice fatto di esserne scampata ‘% La dea si arroga qui anche il compito di guarire i malati, che in realtà è prerogativa di un’altra dea, Gula

192

cutori e degli invidiosi. Il nostro orante ne ha passato di tutti i colori, si trova in una situazione confusa e disperata, e giustamente se ne chiede la ragione. Ovviamente pensa che si tratti della conseguenza di un suo peccato, sicché prega la dea di condonarglielo, in modo che possa ritornare libero e confondere i suoi detrattori. Il tutto finisce con la ripresa dell’esaltazione di Istar ed il suggerimento di un rituale per ottenere il suo favore. Qualcosa di simile troviamo in un Salmo penitenziale a IStar (Haupt, ASKT 15, 116 sg.) dove, dopo le solite lodi alla dea (qui chiamata “madre”), l’orante si dichiara infelice fin da giovane e (anche lui) presunto autore di peccati, causa del suo malessere. Per questo invoca la dea, ed elenca tutta una serie di divinità, tra cui figurano anche Ea (di Eridu) e Marduk (di Babilonia) perché siano loro a porgere la supplica per lui. wo

*

Non voglio sottacere un’altra preghiera, perché formulata da Nabonedo, quell’ultimo sovrano babilonese che abbiamo già incontrato sula rupe di Sela’ (Smith, RA 22,1925, 60 II 16-31).

Alla fine di un’iscrizione commemorativa della ricostruzione di una tempio della dea a Babilonia, Nabonedo si rivolge ad IStar di Akkad, dea della battaglia, perché si faccia interprete presso Marduk (ormai grande divinità di Babilonia) affinché possa vivere a lungo e possa uccidere i suoi nemici. Ma dai dati storici che possediamo non sembra che Istar lo abbia attentamente ascoltato. Si vede che il persiano Ciro pregava meglio. Ovviamente, Nabonedo non è stato il solo sovrano che abbia invocato la dea, ed è logico. Ma vorrei risalire molto più in alto

nel tempo, e ricordare quel grande re di Akkad, Sargon, le cui

origini pescano nel mito?” Dopo aver ricordato di avere lavorato per un certo tempo presso un frutticoltore che lo aveva estratto da un cesto abbandonato nell’Eufrate, e prima di affermare di avere regnato per 55 anni, Sargon esce con una frase molto significativa sull’aiuto (che credeva fosse stato) elargito dalla dea: “La dea Istar mi ha amato”. x»

Una delle manifestazioni più eclatanti del culto di IStar erano ovviamente le cerimonie, che includevano solenni processioni. Nella 207 Per il testo e per il confronto con altri simili miti rimando a Saporetti-C hiera, L'eroe nel canestro. Tre storie parallele di fondatori di imperi, Lunaris, Viareggio 1998, 15 sg., 47 sg.

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città di Isin, quando il sovrano era Iddin-Dagan (re di Isin, XX sec.

a.C.), si svolgeva nel giorno di capodanno un importante rito, di cui parla una lunga composizione che potremmo ricordare come Liturgia di Inanna a Isin (rinvio a Castellino, Testi sumerici e accadici, 147 per la bibliografia). Il testo è diviso in 10 “prostrazioni”, che quasi potremmo paragonare alle soste della Via Crucis, nel corso di una processione che si svolgeva alla presenza della statua della dea. La prima prostrazione avviene dopo una grande lode a Inanna come signora del cielo, cioè nelle vesti del pianeta Venere. Pri-

ma della seconda invece viene sottolineata la sua parità con gli déi della triade divina, che hanno permesso che godesse dei loro stessi poteri; chiude con l’affermazione che la dea figura essere il giudice del paese (come se avesse usurpato questa prerogativa al fratello Utu-Sole). Prima della terza sono citati i vari strumenti suonati durante la processione (è la nostra banda del Comune o dei Carabinieri). Prima della quarta e della quinta si passa al momento in cui la statua della dea viene adornata: le acconciano i capelli, poi le appendono il fuso, la cintura per la corazza, la lancia. Passano a vestirla con un abito maschile a destra e poi un abito femminile a sinistra, oltre alla famosa corda da saltare, che

già abbiamo incontrato (sono gli aspetti dell’uomo, della donna, del bambino). Continua il rito della vestizione prima della sesta sosta, con il passaggio di giovani, cinedi, sacerdotesse; la dea viene cinta di spada ed ascia, mentre viene irrorato sangue tra musica e grida di esaltazione. Prima della settima prostrazione la dea, sempre nelle vesti di astro celeste, è omaggiata dal bestiame, dalla vegetazione, dal popolo che danza e festeggia. Prima dell’ottava invece si prospetta un ambiente sereno, con i granai ricolmi e la gente riposata che si volge ad Inanna per sottoporsi al suo verdetto, come se si trattasse di una scena da giudizio universale: i perversi da una parte, i giusti dall’altra. La sosta successiva ripete un po’ i temi precedenti, ma soprattutto è dedicata alle offerte per la mensa della dea: pecore, burro, datteri, frutti, tanta birra.

Prima della decima ed ultima prostrazione c’è il clou della cerimonia: il matrimonio sacro (Lepog yauoc), dove il sovrano (qui Iddin-Dagan) si unisce, in veste di Dumuzi, con la dea. Ma chi fa la parte della dea? Non certo la sua statua, finora venerata, osannata, vestita ed addobbata, ma pur sempre di legno o di pietra, e certamente un po’ freddina nel talamo reale. A raffigurare la dea doveva essere la prima sacerdotessa, non tanto schiva all’atto, essendo a capo di uno stuolo di prostitute e prostituti. Nell’Egalmah (é.gal. 194

mah, “poderoso palazzo”), che era poi il tempio di Inanna a Isin, gli addetti preparano il letto “nuziale” con una bellissima coperta, intanto che la “dea” si lava e si prepara all’abbraccio. Segue (e può essere altrimenti? Si fa anche ora) il pranzo fra musiche e canti. RK

*

Giova ricordare qui, a proposito della statua intesa come “divinità viva”, quella della dea che guarisce, in particolare IStar di Ninive, richiesta persino dall’Egitto. Ma il sovrano mittente è anche preoccupato, perché teme che non ritorni più (come è successo molto più recentemente per certi pezzi prestati da un museo, e mai più rivisti): Così dice IStar di Ninive, Signora di tutte le terre: “Andrò in Egitto, paese che amo, arriverò laggiù’. Ecco, te la mando ... Mio “fratello”(= il Faraone) la onori, e la lasci ripartire con gioia. Possa ritornare! ... IStar per me è la mia dea, per mio “fratello” non è la sua dea?®*. **>*

Di tutt’altra natura è un testo in cui il sovrano di Isin ISme-Dagan, successore di Iddin-Dagan (sempre XX secolo a.C.) appare sotto le vesti di Dumuzi, ed è per questo che qui lo riporto. Si potrebbe inti-

208 Ved. Liverani, Guerra e diplomazia ..., 207 sg.

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Inizia con un epiteto che accompagna spesso Inanna, anche in composizioni che già abbiamo esaminato: “mucca” (più spesso: “mucca selvatica/selvaggia”). Come mai? Il termine è certamente caratteristico (anche come nome proprio) della sacerdotessa del dio-Sole. Qui invece deve avere attinenza con il forte legame tra la dea e gli animali del pastore Dumuzi: animali dei quali lei stessa favorisce la produzione. Ma può essere anche per via della sua nascita, che la vede sorella del dio toro-Sole, e figlia del dio Luna, che appare, in un suo aspetto, divinità dalle corna (appunto) lunate. Qui viene riferita una visita beneaugurante della dea all’ovile

di Dumuzi, a un certo punto identificato con ISme-Dagan, a cui si augura lunga vita. >

Rimanendo sempre al re ISme-Dagan, in una breve composizione che potremmo intitolare Omaggio di ISme-Dagan a Inanna (Zimmern, SK II, 200) non vediamo più questo sovrano nelle vesti di Dumuzi, ma nell’atto di rivolgersi alla dea (dopo le soliti laudi che la pareggiano ad An ed Enlil) e pregarla tra ricche offerte ed al suono di strumenti musicali. Sembra ci sia stato un brutto antefatto: una incursione di nemici che hanno terribilmente danneggiato il paese, Uruk compresa, come già abbiamo visto sopra, in quella lamentazione che forse si riferiva ad una devastante incursione dei Gutei. Pare tuttavia che tutto sia passato, e che ci si metta nelle mani del re e della dea per una ricostruzione ed una ripresa della vita. o **&

Termino la sequela degli omaggi a Inanna/Istar legati al sovrano ISme-Dagan con un Inno a Inanna e ISme-Dagan (SRT 36+ZA NF 18,86 sg.) dove, come al solito, la dea (qui giustamente figlia del dio-Luna), è messa sopra tutto, omaggiata dagli altri dèi, tremenda nella battaglia. Interessante è il particolare delle feste, che qui viene riportato: pare che i giovani e le giovani si scambino i vestiti (allusione agli effeminati?) e che a turno danzino al reciproco canto. ISme-Dagan sembra quasi pareggiato alla dea, ma in fondo si vede che, pur esaltato, ha il privilegio/dovere di provvedere agli dèi, costruendone i templi e ammannire loro lauti pasti e beveraggi. Ma alla fine dell’inno si capisce che in realtà si vuole esaltare Nippur e la coppia Enlil-Ninlil (la paredra di Enlil) che vi domina, con un vago accenno all’Apsù (di Enki).

Sono questi due che hanno concesso tanta gloria ad Inanna, ma Isme-Dagan viene detto addirittura “generato da Ninlil” (non da Inanna). Sembra quasi che il sovrano, nell’esaltare Nippur e le sue 196

divinità, abbia messo le mani avanti con Inanna, con quella gran lode all’inizio, come per scusarsi. Ma non dobbiamo tanto stupirci di questo: Isme-Dagan voleva propiziarsi tutti gli dèi. Ne è prova, ad esempio, un Inno alla dea Bau (PBS 10,14), in cui questa divinità, pregata di concedere lunga vita a ISme-Dagan, è talmente esaltata che potremmo tranquillamente sostituire al suo nome quello di Inanna. Difatti Bau è chiamata “grande signora del cielo e della terra”, anche lei “mucca” e, guarda un po”, colei che “fa vivere gli uomini, crea gli uomini”: una altera ego di Inanna anche se conosciamo Bau come dea del tutto a sé stante e indipendente. RK

Naturalmente le manifestazioni di sudditanza alla dea da parte dei sovrani mesopotamici non si fermano qui. Ci mancherebbe! Abbiamo visto Nabonedo, Sargon, Iddin-Dagan, Isme-Dagan. Passiamo allora a Ur-Ninurta, un altro sovrano di Isin che regnò tra il XX e il XIX secolo a.C. Si tratta di un inno alla dea, al solito esaltata oltre ogni misura, paragonata ad An ed Enlil: Inno a Inanna da Ur-Ninurta (Falkenstein, ZA 18, 58 sg). Alla dea vanno tutte le ossequiose attenzioni del re, presentato a lei da sua madre, che sarebbe addirittura la dea Nintu! Come si vede, così come i padri, anche le

madri si sprecano. Quando si tratta di medio Oriente, bisogna stare molto attenti a queste pseudo-parentele simboliche (e non solo: io stesso in medio-oriente sono stato presentato come “cugino” di persone conosciute mezz'ora prima). D'altronde, questo sovrano è anche definito “toro selvatico/selvaggio”, quasi fosse lui stesso un dio. A lui Inanna è pregata di concedere prosperità e lunga vita. *>*k >*

Restiamo a Ur-Ninurta per ricordare una composizione in cui Inanna, alla quale abbiamo presentato questo sovrano, a sua volta lo presenta a chi compete la ratifica del suo regno, e cioè ai grandi déi An ed Enlil. Ma a questo punto il testo avverte che c’è la prima prostrazione (0 prosternazione, presumibilmente davanti alla statua della dea). Dunque il testo è una Liturgia di Ur-Ninurta per Inanna (CT 36,28-30), che doveva consistere in una processione con soste saltuarie. Ai due dei la dea si rivolge raccomandando il giovane re con lusinghiere parole; e si arriva così alla seconda prostrazione. Prima della terza, e poi della quarta, è lo stesso dio An, forse rappresentato da un sommo sacerdote, che si rivolge al re, con raccomandazioni ed auguri di trionfi e vittorie, ed assicurazione della sua tutela. Ed ecco che prima della quinta sosta è la volta di Enlil che augura, anche lui, 197

la vittoria sul nemico, tirando in ballo anche il dio Ninurta, che in qualche modo deve essere ugualmente un protettore del re, perché il teonimo è compreso nel suo nome. Si arriva alla declamazione prima della sesta prostrazione, dedicata questa volta agli altri déi, gli Anunna, che si limitano, mantenendo il loro ruolo di semplici comparse, ad approvare. Poi il testo termina con la ricomparsa di Inanna?®, che conferisce (ma sarà meglio dire: conferma anche lei) la consegna al re del potere di sottomettere i nemici e di portare la pace. L’ultima esternazione, prima della settima prosternazione, è tutto un augurio di Inanna per il nuovo re di Isin, scelto da lei e suo

eletto, trattato con amore e ricco di fascino. La composizione termina con l’affermazione che il sovrano è stato scelto come “pastore” (un po’ come se fosse Dumuzi) del paese di Sumer. >»

Un altro esempio di devozione a Inanna, un altro re: Ammiditana,

che ha regnato a Babilonia tra il XVII e il XVI secolo a.C. Si tratta dell’Inno di Ammiditana a IStar (Thureau-Dangin, RA 22, 169 sg.). Questa volta il poeta di allora si volge alla bellezza della dea, sorridente e ricca di fascino. E finalmente (finalmente!) la troviamo affettuosa, materna, misericordiosa. Tuttavia continua ad essere la più grande, pareggiata solo ad Anu (chiamato “suo sposo”). È a loro due che il sovrano di Babilonia offre il sacrificio di pecore e buoi, e dunque da loro due ha avuto concessa una lunga vita e la vittoria sui nemici. >

Termino questa rassegna di sovrani con Assurbanipal, il greco Sardanapalo, sovrano assiro a Ninive nel VII secolo a.C. Si tratta di una Preghiera di Assurbanipal a IStar (Cilindro B 5,15 sg. = 3R 32, qui “figlia di Enlil””) che è poi un racconto da parte del sovrano. Dice che si trovava ad Arbela, città particolarmente cara alla dea, quando fu avvertito dell’avanzata del re degli Elamiti, Teumman. Allora invocò la dea (l’IStar di Arbela) ricordandole che era stata

favorevole quando il dio dell’ Assiria, Assur (qui risulta lui il padre di IStar!) aveva approvato la sua elezione a re. La pregava dunque di sconvolgere Teumman. Istar (o meglio saranno stati i sacerdoti suoi interpreti) gli avrebbe risposto rassicurandolo. È successo poi che un interprete di sogni ebbe di notte la visione della dea, armata di arco e di spada, che si rivolgeva ad Assurbanipal consigliandogli °° Qui la dea viene definita “figlia di Sîn, sua amata sposa”, a conferma che le parentele mesopotamiche vanno “prese con le molle”

198

di stare sereno e di far festa, mentre lei si recava contro Teumman.

Ed è forse il caso di ricordare qui la famosa immagine di Assurbanipal che pranza con la moglie sotto la pergola, mentre la testa di Teumman pende dai rami di un albero vicino. x» **

Una fonte primaria per la conoscenza del culto che avevano gli déi è costituita dai nomi di persona. Talvolta il nome, composto dal teonimo e da un aggettivo o apposizione, è abbreviato, e non resta che il teonimo. Così è accaduto, ad esempio, per IShara, che è una dea ma anche il nome della sposa che, nel Poema di Ghil-

games, il protagonista si accingeva a visitare in forza dello jus primae noctis. O si trattava di un aspetto di Istar (ved. pag. 82) o di un nome femminile abbreviato. Così è stato, presumibilmente, per Ester, il secondo nome della protagonista dell’omonimo Libro della Bibbia. Costei si chiamava dapprima Hadassa, “mirto”, ma prese il nome di Ester, che verisimilmente corrisponde a IStar?!°. Molti ebrei, infatti, deportati o figli di deportati in Mesopotamia presero nomi locali, così come lo zio stesso di Ester, Mardocheo, che evidentemente è il nome semitico Mardukzja, ipocoristico-abbreviato da Marduk, il dio di Babilonia. Raccogliere tutti i nomi di persona che contengano il teonimo Inanna/IStar non è impresa da affrontare in questo lavoro, ma qualche esempio si può certamente fare. Bisogna dire anzitutto che molti appellativi della dea sono gli stessi attestati per altre divinità, e dunque non sono certo precipui. Dunque, alla pari di altri dèi, Inanna/IStar ha aumentato i figli, oppure li ha donati, ha dato un erede, è invocata perché sia la difesa, o la protezione del suo fedele, è grande, è la dea dell’orante, è misericordiosa e quant’altro, insieme alle variegate implorazioni?"!. Spigolando qua e là: singolare è il nome neoassiro?!° “Istar, il

210 E così, su base biblica, molte signore contemporanee si chiamano Istar, senza saperlo 2! Per es. ved. K.L. Tallqvist, Neubabylonisches Namenbuch, 1902, 82 21? Un elenco di nomi personali neoassiri con il teonimo è in K.L. Tallqvist, Assvrian Personal Names, Helsingfors 1914, 105 sg., 317; attestazioni medioassire

con il teonimo per. es. nel mio Onomastica Medio-Assira Il, 190-191; per il periodo medio babilonese ved. M. Hélscher, Die Personennamen der Kassitenzeitlichen Texte aus Nippur, Minster 1996, 267; per i nomi più antichi ved. p.es. R.A. Di Vito, Studies in Third Millenium Sumerian and Akkadian Personal Names, Roma

1993; per Ur III H. Limet, /'anthroponymie sumérienne dans les documents de la 3 Dynastie d'Ur, Paris 1968

1909

morto viva”. È un’allusione alla sua discesa agli Inferi? “star è la madre del nostro re” è un antroponimo neoassiro che la colloca come protettrice della corona. Un nome paleoassiro (ma non solo), la mette in connessione con il leone, suo animale-simbolo?!. In un nome medioassiro?! risulta come madre”, ma anche come

padre, ed inoltre è “pastora” (un collegamento con Dumuzi?)"°. Con il nome di Astarte, anche con l’ideogramma Inanna, è attestata

persino a Tell Amarna (Egitto), nel nome “Servo di Astarte”?!”. todi

Nella Bibbia ricorre il nome di una divinità femminile che è stra Inanna-IStar: appunto Astarte. In Giudici 2,11-13 viene che il popolo ebreo abbandonò Yahweh e si fece servo di dei (vari) Baal e delle Astarti (cfr. 10,6). Così in / Samuele

la nodetto Baal/ 7,4 e

12,10. Qui, con il plurale, si vuole forse indicare la totalità delle

divinità maschili e femminili. Ma troviamo Astarte al singolare in 1 Samuele 31,10, dove viene detto che i Filistei, dopo avere ucciso Saul in battaglia, deposero le sue armi nel tempio di questa dea. Come dea fenicia dei Sidonii, Astarte appare anche tra le divinità venerate da Salomone (/ Re 11,5,33), rigettate poi da Giosia (2 Re 2309% È curioso il fatto che il suo nome, ’astoret, veniva accosta-

to alla parola boset, “cosa vergognosa”, per via delle stesse vocali. Baal ed Astarte (ma non solo: EI, Anat, Salim, Afera, Dagan,

Sapas ecc.) erano divinità fenicie ma anche di quel popolo cananeo abitante la terra che proprio gli Ebrei vollero espropriare, perché era la “terra promessa” (promessa da Yahweh)?!. In realtà la mescolanza tra Ebrei e Cananei, avvenuta anche in forza di matrimoni tra esponenti di ambedue i popoli, era necessariamente portata ad un sincretismo politeistico non sempre facile da risolvere, e causa di forti contrasti (ved. Elia e i sacerdoti di Baal). Non dimentichiamo, d’altronde, la citazione biblica di Tammuz, dio, abbiamo visto, mesopotamico: “Mi condusse all'ingresso del portico della casa di Yahweh che volge a settentrione e vidi donne 2! Per i nomi paleoassiri ved. p. es. F.J. Stephens, Persona! Names from Cuneiform Inscriptions of Cappadocia, New Haven 1928,51 2 Ved. in Suppl. I ad AMA (Antroponimi medio-assiri), 138 215 Ved. anche in ONES (Onomastica di Esnunna)

2!° Ci sono inoltre antroponimi che si riferiscono a lei senza nominarla. Cfr.“Chi è senza di lei?” con “Chi è senza Istar?” 2!" Ved. R.S. Hess, Amarna Personal Names, Winona Lake 1993, 10 2!8 Sui miti e sulla religione fenicia, cananea e ugaritica ved. P. Xella, Gli antenati di Dio, Verona 1982

200

792 sedute che piangevano Tammuz”?! . I lamenti per Tammuz a due passi dal Tempio di Gerusalemme! Sembrerebbe impossibile?, D'altronde varie figurine-amuleti, raffiguranti con molta probabilità Astarte, sono state ritrovate in Palestina e risultano risalenti anche al periodo dell’occupazione ebraica. Forse erano portate dalle donne durante la gravidanza, come beneauguranti per il parto. Astarte, il cui nome denuncia la derivazione da IStar (con una “°° finale che ne sottolinea la femminilità) è dunque una divinità del pantheon cananeo, destinata a divenire grande ed importante ma, in un primo tempo, non certo più potente di ASera, sposa di El, o di Anat sua figlia (divinità femminile guerriera che più si avvicina alla nostra Inanna guerriera)?” La troviamo, nel mito ugaritico nella lotta tra Baal e Yam (il mare), incitare Baal peraltro già vincitore, mentre sembrerebbe che all’inizio gli fosse ostile. Astarte appare anche nel mito di Keret, sovrano che non ha figli e che vuole in sposa Hurraj, il cui fascino è paragonato, appunto, a quello di Astarte. Inoltre, alla fine del racconto, quando

Jassib, il figlio di Keret, vuole sostituirsi al padre sul trono del

suo regno”, Astarte viene invocata come dea punitrice. Vorrei ricordare qui un altro mito ugaritico, quello di Danil ed Aqhat, che per certi versi potrebbe ricordate un episodio del Ghilgames, che abbiamo già citato. La dea protagonista però non è Astarte, ma Anat, che nell’aspetto di dea bellicosa abbiamo già

visto alquanto vicino alla IStar guerriera. In questo mito il figlio del re Danil, Aghat, possiede un meraviglioso arco concupito da Anat, che glielo chiede promettendogli grandi doni (cfr. IStar che offre a Ghilgame$ grandi doni), perfino l’immortalità. Aghat si rifiuta, ed allora Anat si reca da suo padre, il toro-El per avere vendetta (cfr. IStar che chiede vendetta ad Anu e che mandi un toro). Trasformata in aquila, Anat trasporta un suo fido che dall’alto uccide Aqhat (cfr. toro inviato da Anu/cielo contro Ghilgame$). La morte di Aghat causa una brutta carestia (cfr. il toro simbolo della carestia). Danil con le

sue maledizioni fa precipitare i rapaci al suolo (cfr. il toro ucciso da Ghilgame$ ed Enkidu) con le ali spezzate (cf. la coscia del toro staccata ed utilizzata da Enkidu come sfregio ad IStar). ga 219 Ezechiele 8,14 220 Ma ved. 2 Re, 23,7, dove si legge che Giosia demolì i luoghi di prostituzione attigui al Tempio del Signore l

221 Anat è femminile di An/Anu, il dio già ben noto del pantheon mesopotamico |

22? Situazione che nella Bibbia vediamo capitata a Davide

201

Eitodito]

Mi sia permesso, a questo punto, citare almeno un caso in cui la nostra Astarte è ricordata al di fuori del suo contesto e del suo tempo. È nell’Inno a Satana di Giosuè Carducci, dove a un certo punto si legge: ... Adone, Astarte/ e marmi vissero/ e tele e carte,/ quando le ioniche/ aure serene/ beò la Venere /Anadiomene./ A te del Li-

bano/ fremean le piante,/ de l’alma Cipride/ risorto amante/ a te ferveano/ le danze e i cori/ a te i virginei/candidi amori ...

Per quanto coerente, nel suo significato simbolico, con l’autentico pensiero del Carducci, la scelta del nome “Satana” credo sia stata un po” infelice perché, ovviamente, non poteva che essere fraintesa. Io stesso ad un primo approccio (decine di anni fa) ne rimasi colpito, se non sconvolto, avendo nella testa (al pari di tante altre persone) la figura di Satana come, appunto, satanica, demoniaca, luciferina (in questo stesso scritto ho definito IStar “assatanata di sesso”). Ed infatti le reazioni negative sono state, a suo tempo, forti e numerose. Ed invece, ad una lettura più accu-

rata e approfondita, non posso che concordare con Mario Rettori, che ha scritto che questo è un

inno

trionfale

al progresso,

alla civiltà,

alla scienza,

alla libertà del pensiero, alla natura, alla gioia di vivere, alla bellezza, all'amore, a tutte quelle forze della vita, insomma, che

l’oscurantismo e l’immobilismo religioso e politico, il fanatismo, il dogmatismo e il falso moralismo ipocrita e superstizioso condannavano identificandolo tout court col Male (o il Maligno), cioè con Satana?*.

Qui, identificando (giustamente) Astarte con Venere, il massone Carducci ci dona una pennellata di sentimento e di amore come esaltazione della vita serena e della gioia di viverla. E nelle danze e nei cori per il risorto amante Adone possiamo anche identificare, con un minimo di libertà, la gioia di IStar e dei suoi fedeli per quel ritorno di Dumuzi su cui i testi antichi sono stati così tanto avari. RK

Me

Rettori in M. Rocchi, /n pietra mutata ogni voce. Letteratura italiana

e Massoneria, Acireale-Roma 2020, 80.

202

Non posso evitare, in questo breve sunto sull’ultimo aspetto della nostra IStar, di nominare la sua estremità cronologica: il demonio Astarotte. È il frutto di quella trasformazione operata dal Cristianesimo, che volle “demonizzare” le divinità del Vicino Oriente. Così è accaduto per Baal-zebul “Signore (e) principe”, divenuto Baal-zebub® “Signore delle mosche” (o perché ridicolizzato o per via delle mosche che si affollavano sugli animali a lui sacrificati ?), che divenne Belzebù. Lo stesso avvenne per Astarte, divenuta maschio nel demonio Astarotte (o Astaroth e altre varianti del nome). Astarotte fa parte di quella schiera di angeli che si erano ribellati a Dio, maschi (chissà perché; si vede che regnava il maschili-

smo anche lì) alla stregua di un Lucifero o di un Satana??*. Veniva raffigurato nudo, con le ali, a cavallo di un drago. La sua fortuna è dovuta alla letteratura, poiché è diventato un personaggio del Morgante di Pulci (XV sec.), dove figura come demonio dotto e spregiudicato. D'altronde è arrivato ai giorni nostri grazie a un manga giapponese, sempre in forma demoniaca ma ritornato femminile, sotto le spoglie di una diavolessa che at-

tira gli uomini per succhiarne l’energia vitale. La grande Inanna col tempo è peggiorata.

224 Il significato di Satana, suffragato da prove ed esempi è, come è noto, e con quello di “accusatore” (satan). Tuttavia, come timidissima alternativa assidio del azione” “demonizz primitiva una proporre vorrei , grande incertezza ro Sadana (il dio “montano”’)

203

PENSIERI SEGRETI Gli déi della Mesopotamia ci rivelano un mondo di idee, concezioni, pensieri ed intimo sentire scaturiti dalla mente dell’uomo, e

questa mente si è rifatta ad impressioni, paure, riflessi a loro vol-

ta scaturiti dall’ambiente, dalla natura, dal mondo in cui l’uomo

viveva, e con cui l’uomo era dunque costantemente in contatto. Nel considerare la storia di Inanna possiamo capire ciò che l’uomo (uomo maschio che, con rarissime eccezioni””, era lo scriba e l’autore delle operette letterarie che conosciamo) pensasse della donna. Sia pure facendola nascere dopo gli altri dèi, l’uomo mesopotamico fece di Inanna/IStar, in qualche modo, l’erede della grande Dea Madre primigenia, visto che la nascita degli animali mammiferi e soprattutto dell’uomo dipendeva da lei. Piano piano, nel corso della sua carriera Inanna/IStar divenne, abbiamo visto, una grande divinità, una divinità femminile fondamentale.

Fu così nelle fedi successive? A parte l'Egitto, che è mondo a sé, con la sua Iside e le altre dee, e le religioni in cui IStar/Astarte si è poi trasferita, di primo acchito non vi trovo una concreta valorizzazione della donna, se non nel mondo occidentale grecoromano, quasi immediatamente successivo. Demetra-Cerere, Hestia-Vesta, Fra-Giunone,

Afrodite-Venere,

Artemide-Diana,

so-

prattutto Pallade-Atena-Minerva hanno assunto ruoli importanti in quei miti, è vero; ma per il resto? Non in Zarathustra, non in Mitra, non nell’Islam, nonostante la valorizzazione delle parenti del Profeta. Nel Cristianesimo la donna non mi sembra sia stata particolarmente considerata, visto che, fino a non molti anni fa, durante la stessa cerimonia nuziale si diceva alla sposa di stare soggetta al marito, ed anche ora, quanto meno nella Chiesa Cattolica ma non solo, alle donne è vietato il sacerdozio. Quando poi penso a certi episodi avvenuti, per esempio, nel medioevo (cardinali che abusavano delle suore, non certo viceversa) ma certamente anche in

225 Un’eccezione è ovviamente la poetessa sargonide Enheduanna

205

altri tempi (o meglio: sempre) appare chiarissimo che anche nella religione, come nella società, la donna ha avuto un ruolo infame

di subordinazione e sudditanza. Solo in rari casi alcune donne geniali, importanti e potenti, hanno potuto imporre il loro operato. Credo che in tal modo l’umanità si sia privata di tante opere meravigliose e costruttive, perché si è visto che la donna ha donato all’umanità, in tempi recenti, una poderosa messe di scoperte scientifiche e di ammirabili opere d’arte??°. Ma la religione cristiana, cosa dice? Credo che le considerazioni più oggettive possa farle non il cristiano credente, forse un po’ troppo obnubilato dalla fede, ma il cristiano che ha perso la fede, anche se si è perduto per strada, come se fosse caduto da un autocarro pieno di gente.come lui, o da un carretto colmo della qualunque. Ma che fa, se non lo raccoglie quell’immenso vagone vagante di anime sante che cantano la gloria del Cristo, e credono tutti nell’esistenza dell’impossibile? Che fa, se non lo raccatta l’autocarro dei biechi anticristo? Non vuole essere racimolato né dagli uni né dagli altri, e nemmeno dai carrettini politici pieni di scalmanati che magari cantano, come ai vecchi tempi, Bandiera Ros-

sa, 0 di altri scalmanati in nero che cantano Giovinezza giovinezza, anche se è gente molto vecchia, troppo vecchia. Roba passata. Resta lì, a pensare a sé stesso, a pensare alle fede che aveva e che ora guarda e vede con un occhio differente, più obbiettivo, “di-

sincantato”. E pensa forse che, tuttavia, a qualcosa in effetti crede, crede nell’evoluzione dell’uomo, nella sua coscienza, nel suo spirito, e nella sua capacità di aggregarsi comunque a qualcosa, anche se ognuno è una mònade, un unicum, una goccia stranamente diversa dalle altre, o meglio un batuffolo di neve, irripetibile. L’aggregazione umana è un insieme di aggregazioni più piccole, spesso contrastanti e contrastate. Sono anche aggregazioni di fedi. L’aggregarsi a una fede è dovuto spesso (molto spesso) al fatto di esserci nati dentro. In Italia in genere si nasce in una aggregazione di fede cristiana, più precisamente cattolica. Inutile spiegare cosa significa. Lo sappiamo tutti. 226 Non dimentico naturalmente le donne del passato, da Ipazia ad Artemisia Gentileschi e via dicendo. Ma qui voglio almeno ricordare, tra gli esempi moderni, accanto alle eccellenti scienziate (Lamarr, Curie, Montalcini), il grande genio artistico della pittrice Tamara de Lempika. Tornando un attimo al passato remoto, vorrei ribadire qui il mio forte sospetto che, da un punto di vista artistico, fossero donne le autrici dei dipinti nelle grotte preistoriche e, da un punto di vista scientifico, fossero ugualmente donne le prime raccoglitrici ed utilizzatrici delle erbe medicinali

206

1 Sì, ma si nasce cristiano anche nascendo come cognato di William Shakespeare. Costui sarebbe sempre cristiano ma senza essere chiamato cattolico, semmai anglicano. Nascendo invece ad Heidelberg, sarebbe sempre cristiano, ma protestante. Già ci sono differenze di fedi, in un’unica fede. Che sarebbe più o meno la stessa dei Quaccheri, dei Mormoni, dei Copti, dei Testimoni di Geova, dei Valdesi, del pope ortodosso, del Katolikòs armeno, e via dicendo. E allora? Credono tutti in un unico Dio, e in Jeshua/Gesù Cristo figlio di Dio, che ha mandato il suo messaggio per gli uomini, e per l’Umanità (dicono) si è sacrificato. Dato che questo messaggio (lo sintetizzerei con quel capolavoro che si chiama “// Sermone della Montagna”) è altamente positivo, questa religione dovrebbe andar giù pacifica, tant'è, appunto, limpida. Limpida? Ma quando mai se, come abbiamo visto, ci sono tanti “cristianesimi”, e la Chiesa di Giacomo e quella di Paolo, i

contrasti e le scissioni già nelle tante chiese primeve, il Concilio e il contro-Concilio, il papa e l’anti-papa, e la transustanziazione e la consustanziazione, le imposizioni e i dogmi della Chiesa, la lotta per le investiture, e il diritto divino e Dio lo vuole e il giudizio di Dio e Got mit uns e morte agli infedeli e la “santa” Inquisizione e gli Gnostici gli eretici le Crociate e i Catari di Carcassonne e la notte di San Bartolomeo? E i genocidi meso/sudamericani? Sapete cosa diceva il massone Totò? “Ma mi faccia il piacere!”. Figuriamoci le altre fedi. La mentalità di Budda (roba buona, per carità!) è spesso lontana; difficile arrivarci. La saggezza di Confucio si assomma alla saggezza di alcuni Libri della Bibbia, ed alle perle sapienziali egiziane e mesopotamiche. Grande, grandissimo, ma niente di più. Non parliamo dell’Islam, con tutto il rispetto per i miei amici (e tutti gli altri milioni di) musulmani. Il fatto è che ho letto il Corano. Difficile da comprendere? A suo tempo mi sono cimentato, nella mia infarinatura di arabo, con una versione della lingua

che è particolarmente difficile da capire; non ce l’ho fatta e allora ne ho letto 3 versioni italiane diverse e un mare di commenti. La mia mentalità occidentale fatica talvolta a comprendere, così come

non comprendo Maometto, che aveva ben capito che Jeshua era un

“Profeta”, ma che ha ucciso manu propria decine di Ebrei. Me ne bastava uno solo, brutalmente ammazzato, per titubare. Ma i miei amici islamici mi daranno le loro spiegazioni su questo grande Profeta, fondatore di una religione che ha coperto il mondo con la sua sottomissione a Dio, ma che non posso accettare (come d'altronde non posso accettare le altre) quando diventa fanatismo omicida. 207

Allora gli Ebrei? Ma dico, l’abbiamo letta la Bibbia? L’ho già detto: un Dio che ordina sfracelli tra chi si dà a un’altra fede, e

stabilisce la morte di tutti i nemici vinti (compresi vecchi bambini

e animali???)? Ah no, tutti no, le giovani vergini meglio tenerle in vita (servono egregiamente a uno scopo ben preciso). Mio dio, anzi dio vostro, tenetevelo ben caro questo dio della “terra promessa”, ma non venite a parlarmene bene. Un Dio? Se volete stàrvene nella beata stantìia convinzione di una millenaria tradizione, allora non cadete dall’autocarro o dal carretto, statevene lì buoni buoni, e tenetevi lontane, umane genti,

da un fenomeno immenso: quello di guardare il cielo stellato nel buio più completo, nel silenzio più assoluto, senza nuvole che non'ce ne sia una che una! Tenetevi lontani, se non volete sprofondare nell’alto dei cieli, ed innalzarvi nell’abisso. Si capisce tutto e non si capisce niente. In quell’assordante silenzio si può percepire una goccia dell’oceano infinito di Dio. Una goccia, magari mezza, come quella che pende dal rubinetto ma no, quando mai? Non scende manco morta. Sta lì, minimo bulbo che mette in apprensione. Se non volete dilatarvi sprofondando in voi stessi, tenetevi lontani. Quella mezza goccia potrebbe metamorfizzarvi per sempre. Ed immergervi in Dio. Per il resto, parole. E credo che siano solo parole, anche se pronunciate da menti sensibili ed intelligenti, le teorie che vogliono suddividere Dio (0 la Divinità) in Assoluto e Demiurgo. Possiamo immaginare, sospettare, architettare, ma in fondo che ne sappiamo? Quando anch'io avevo la fede nel Cristianesimo (ma anche quando già vacillava, e magari non c’era più e non lo sapevo, non me n’accorgevo), leggevo il Vangelo. E vi trovavo tante cose che potevano essere vere, senza dubbio alcuno, ma altre che mi suonavano strane. Mi suonavano male. Mi suonavano male certi atteggiamenti di Jeshua, il Profeta che chiamiamo Gesù (addolcendone, anzi dolcificandone anche

il nome), a cui la mia fede cristiana cattolica apostolica romana si rifaceva. Mia madre, bigotta beghina quanto mai, mi mandava sempre all’Oratorio, “dai preti”. Non erano preti malvagi, tutt’altro. Magnifici preti. Ma che noia! 227 Già orturare tort o ammazzare brutalmente glii animali animl è è un delitto 208

Però sono stato coinvolto, e conquistato, dall’Azione Cattolica, dove ho trovato quasi tutti i miei amici (pochi) di sempre. Il motto degli “Aspiranti” è stato (ed è) quello della mia vita:

“Forti, lieti, leali, generosi”. Tanto che quando mi capitò di di-

ventare, in età già molto matura, Presidente del Rotary Roma, per quell’anno ne feci il motto del Club. Convincete su quel motto un ragazzo di dodici anni: lo terrà tutta la vita. Ma partecipavo alle preghiere, agli Esercizi Spirituali, alle Messe ammirando certi miei compagni, assorti in meditazioni che non riuscivo a meditare, in pensieri che non riuscivo a pensare, e deprecando me stesso perché non riuscivo ad imitarli, ad essere elevato

come loro, profondo come loro. Insomma, avevo il forte sospetto, la quasi certezza, che la mia fede fosse un b/uff, certo a causa della mia incapacità, dell’essere al di sotto dello spirito altrui. Avevo,

evidentemente, uno spirito grossolano, più terreno che celeste, forse più godereccio (parlo sul serio), certamente più superficiale. Per questo rimanevo abbarbicato a questi lacerti di fede. Non avevo altro. Se mi ritenevo colpevole, ogni giorno, di gravi ed orrendi peccati (che poi ho scoperto che non erano peccati per niente, nemmeno veniali, senza colpa e senza inganno) vagavo a perder tempo per la mia cittadina, alla caccia di un prete che mi confessasse. Incredibile! La mia gioventù lacerata e in parte sprecata: ma almeno sono stato impedito di diventare femminaro, puttaniere e donnaiolo, e sono stato portato a rispettare, ammirare, amare le donne. Non è poco. L’amicizia che ho sperimentato in quel tempo della mia adolescenza è stata quella vera, autentica, fatta di affetto e di solida-

rietà, intatta rimanendo anche dopo, anche all’Università, dove ho avuto l’immensa fortuna di capitare al San Francesco dell’Università Cattolica di Milano. Anche lì ho mietuto amici, che ogni anno, 0 quasi, rivedo (ormai vecchi) tanto volentieri. Grandi! In ambito cattolico non sarà aumentata la mia fede, che certo

volevo ma quasi non avevo, tuttavia mi si sono radicati valori ai quali non sarei mai in grado di rinunciare. Soprattutto il rispetto per gli altri. Non mi vergogno di dire che mi sono sposato vergine, per dare tutto me stesso a mia moglie, né mi vergogno di aver fatto con lei, la sera delle nozze, il sacrificio di rimandare (allora

pensavamo che il sacrificio avesse un valore). È mai l’ho tradita. Sarà forse un po’ ridicolo, dati i tempi odierni, ma non me ne

pento e lo rifarei. Dunque dicevo: poiché un buon (?) cattolico,

quale credevo di essere, non può ignorare il Vangelo, è ovvio che ho letto il Vangelo. Ma ci trovavo delle cose che non mi piacevano. 209

Che cosa non mi piaceva? Adesso lasciamo stare i miracoli, che non si spiegano e non è detto che non si spiegheranno. Prendiamo le cose che si spiegano, così come sono. Ecco: non mi piacevano certi atteggiamenti, parole, reazioni, discorsi di Jeshua totalmente diversi da quello che noi, poveri mortali, ci aspetteremmo da lui, uomo probo a santo, altruista e generoso, pieno d’amore di bontà e di pietà verso il prossimo. E così mi è successo, con il tempo, di tentare (con uno sforzo forse un po” oltre na-

tura) di giustificare questi atteggiamenti, parole, reazioni e discorsi che non mi andavano (e non vanno) giù, sperando di comprendere qualcosa che magari non era stato capito o era stato frainteso. Senza più la fede mi sono sentito più obiettivo, più libero di pensare, di giudicare, di capire. Stranezze di Jeshua. Ne ho anche scritto; e così ora, riprendendo un difetto che mi sta agguantando in questi giorni, e che è quello di ripetermi (lo faceva anche Gioacchino Rossini, ma lui era Rossini, che il Cielo lo ringrazi per me, per tutto quello che mi ha dato), riporto quanto ho già pensato e stampato, senza la fatica di esprimere gli stessi concetti con un altro periodare.

UN DUBBIO: LE PAROLE

DEL RAGAZZETTO

GESÙ A GERUSALEMME

In un libretto che presto citerò, avevo espresso l’idea che Zaccaria,

padre miracolato di Giovanni futuro battezzatore, si fosse tenuto in casa Jeshua per allevarlo come dedicato al Tempio, almeno nei primi anni della sua fanciullezza, magari subito dopo il suo ritorno dall’Egitto. Arrivato a 12 anni, ecco che nel Vangelo ci viene raccontato l’episodio di quando i genitori di questo ragazzino, la sera della prima tappa del ritorno a casa da Gerusalemme, si accorgono che non è con loro. Dunque si spaventano a morte. E chi non lo sarebbe? Hanno camminato tutto il giorno, su terreno accidentato, o al limite hanno cavalcato un asinello, massimo massimo hanno trovato il posto su un carretto, rigorosamente senza ammortizzatori.

Devono essere esausti (lo sono io, dopo un giorno d’automobile, e in autostrada!). Si spaventano, sono angosciati, non litigano come potrebbe accadere, ma sùbito (dopo una notte insonne?) 210

rifanno la strada. Da soli? Alla mercè del primo predone? Oppure s1 sono accodati a una carovana che andava all’opposto? Arrivati un’altra volta a Gerusalemme, lo cercano per tre giorni (tre giorni di affannosa ricerca!) immaginiamo con quale stato d’animo. Lo trovano nel tempio che sta tranquillamente con dei rabbini, ed ecco, dopo averlo interpellato, si sentono rispondere con una frase di insensibilità pazzesca. Roba da prenderlo per un orecchio e riportarlo a casa a calci nel sedere.

GESÙ

FRA

I “DOTTORI” DI GIOTTO

Possibile? Possibile che il giovinetto Jeshua sia arrivato a quel punto di fronte a dei genitori angosciati? Ma riprendiamo da principio: Luca ci racconta che Giuseppe e Maria si recavano ogni anno a Gerusalemme in occasione della Pasqua, una festa ebraica molto importante, durante la quale si ricordava e rievocava l’uscita dall’Egitto verso la Terra promessa. E aggiunge: “Quando [Jeshua] ebbe 12 anni salirono secondo l'usanza alla festa e poi, terminato il tempo stabilito, mentre essi se ne tornavano il fanciullo Jeshua rimase a

Gerusalemme, ed i suoi genitori non se ne accorsero”???, Se ne resero conto dopo un giorno di viaggio, credendo che fosse con amici e parenti. Tornarono allora a Gerusalemme e lì lo trovarono, dopo tre giorni di ricerche, nel Tempio. Stava seduto fra i “dottori”, interrogandoli ed ascoltandoli, ed essi erano stupiti per la sua intelligenza e le sue risposte. Maria (Giuseppe come al solito fa da muta comparsa; eppure 228 Saporetti, Jeshua e Gest. Sellerio, Palermo 2000, 86 sg.

211

era lui che doveva esercitare l’autorità) gli chiese: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Vedi che tuo padre ed io, impensieriti, ti cercavamo”, frase che è una pennellata di autentica angoscia materna. La risposta del ragazzetto suona indubbiamente diversa da quella che ci aspetteremmo da parte di un piccolo israelita cui era richiesto di obbedire ai genitori molto più di quanto si chieda oggi??? «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere EV TOLS TOU TaTpos uov?», espressione che è stata interpretata, chissà perché, “nella casa del padre mio”, ma che da una traduzione letterale sarebbe meglio intendere “nelle [cose] del padre mio”, ma meglio ancora “tra quelli (= i dottori/rabbini, sacerdoti) del padre mio”. I genitori non compresero questa frase (e non c’è da stupirsi, perché non è chiarissima). Se Maria fosse stata ancora ripiena di quel “soffio” che si dice fosse arrivato a farla concepire, qualcosa avrebbe capito. Invece non capisce, né capiamo noi perché non abbia chiesto almeno una spiegazione a quel figliolo un po’ saputello e un po’ arrogante. Niente, si riporta a Nazareth Jeshua, “che (comunque) stava loro sottomesso”. L’episodio sta quasi a mezzo di quel lungo periodo sconosciuto, che va, con poche eccezioni, dalla fuga in Egitto al battesimo nel Giordano: periodo durante il quale Gesù può aver fatto di tutto, e noi non ne sappiamo niente. Ma raccontato così ha poco senso. Lo stupore dei “dottori”, o meglio dei ètòaokadot (i precettori, i maestri, i rabbini) dimostra solo che Gesù era una ragazzo intelligente e desideroso di sapere, senza arrivare necessariamente all’enfant prodige. La scuola dà ogni tanto qualche esempio del genere, e nessuno grida al miracolo (anche nelle mie classi ce ne sono stati, amici che però non invidiavo: Giorgio Bisagni, Sandro Aimi, ed al liceo anche Chiesi e Rusconi. Ero contento e fiero di loro. In quanto a me, andava bene così). Se qualcosa è dato capirvi dall’immediata lettura, questo qualcosa potrebbe anche essere un’anticipazione di certi atteggiamenti che Gesù avrà in seguito: il rispetto non del tutto indiscutibile verso sua madre, la poca considerazione per la famiglia. Ma un ragazzino sensibile non si azzarda a far star male i genitori per più giorni ed a costringerli a chilometriche scarpinate nell’angoscia 229

Il rispetto verso i genitori, specificatamente verso la madre, è insito nell’anima degli orientali fin dalla più remota età. Ved. per es. le sumere /struzioni di Suruppak, 255: “Non devi parlare con a ‘roganza a tua madre, perché ciò ti rende odioso”

2

affannosa. Né li liquida con una frase sibillina, in cui tra l’altro nomina un “padre”, evidentemente da lui preferito, in alternati-

va a Giuseppe, che padre almeno doveva apparire («Vedi che tuo

padre ed io ...»), e che a tale uscita non poteva che sentirsi, come

minimo, un po” dispiaciuto. [Oppure con quel “padre” alludeva a Zaccaria, divenuto per lui come un padre adottivo? È un’alternativa. Altrimenti dobbiamo dire che già da allora Jeshua chiamava Dio “padre”, e che quest’idea l’aveva imparata al Tempio]. Messo così, l’episodio può dare la stura a qualche interpretazione di tipo “mitico”: il ragazzo è chiamato da intima esigenza divina alla sua vera missione. Capitato la prima volta a Gerusalemme, ecco che volge (par quasi di immaginarlo ispirato) i passi fatali alla meta designata, il tempio. Vi entra, e subito stupisce i “dottori” con le domande e le risposte. Vien da pensare ad una sorta di miracolosa scienza infusa. Ma possiamo, al contrario, immaginare ben altro susseguirsi di eventi. Jeshua, bambino destinato ad essere |’ “unto”, poteva esser rimasto fin dal principio, o appena tornato dall’Egitto, presso Zaccaria, ed allevato insieme al fanciullo parente destinato a divenirne l’untore: Giovanni il battezzatore. Nati da due miracoli, veri o presunti (ambedue con l’Arcangelo Gabriele: una fissa di Zaccaria?), ed ambedue consacrati a Dio, erano cresciuti alla scuola dell’ardente sacerdote tra la sua casa e il tempio. Qui Jeshua aveva avuto ben altra educazione di quella di un figlio di tektov. Gli avevano insegnato le sacre scritture, le opinioni rabbiniche della Mishna, a leggere e a scrivere. E forse fu lì che gli fu inculcata l’idea di essere il ‘messia’. Intelligentissimo (non lo si può negare), brillante nel pensiero e nella parola, Jeshua si era appassionato a quel mondo fatto di religione e di sapienza, permeato di un’atmosfera divina, lontano dalle piccolezze e dalle miserie del mondo. Ogni anno suo “padre” e sua madre venivano a Gerusalemme da Nazareth per la Pasqua. Non è detto che venissero esclusivamente per un’annuale visita al tempio: la Pasqua era celebrata nell’ambito della famiglia, beninteso la famiglia ebraica, in cui troviamo, accanto al padre-capo, la moglie (o mogli), le concubine, i figli, 1 Servi, gli schiavi, le figlie vedove o ripudiate, i figli adulti ma non ancora sposati, i clienti e gli ospiti: una famiglia in cui imembri si sentivano

molto legati, e dove era sempre molto forte il senso della parentela.

E dunque non è per nulla escluso che Giuseppe e Maria andas213

sero ogni anno a fare la Pasqua in casa di Zaccaria e di Elisabetta, dove viveva anche il piccolo Giovanni. A dodici anni (secondo altri a tredici) un ragazzo ebreo diventava bar Mitzvah, “figlio del comandamento”, soggetto alle prescrizioni della Legge, e considerato membro della comunità. Per questo, hanno pensato i commentatori, Giuseppe e Maria si erano portati dietro Jeshua, fino ad allora lasciato coscienziosamente a casa.

Ma anche qui il discorso potrebbe essere capovolto: Giuseppe e Maria potevano essere venuti, invece, a riprenderselo??°. Gesù aveva ormai raggiunto l’età in cui doveva entrare nella comunità di Nazareth, ed era ora che se ne venisse a casa.

Lo avevano trovato più istruito di loro. Nel trattato ascetico Aboth leggiamo che “a 5 anni è giunta l’età per lo studio della Scrittura; a 10 per lo studio della Mishna; a 13 per l'adempimento dei precetti; a 15 per lo studio del Talmud; a 18 per il matrimonio;

a 20 per procacciarsi i mezzi di sussistenza; a 30 per possedere la pienezza delle forze ...” Dunque gli avevano insegnato Scrittura e Mishna, e forse anche i commenti talmudici alla Mishna, anticipando le scadenze dell’età. Doveva saperne più di Giuseppe, se non altro perché l’ambiente del tempio non poteva che stimolarlo. Tra la casa di Zaccaria ed il tempio, Jeshua poteva essersi fatto un bagaglio cula invidiabile. E non è escluso che le sue “discussioni” con “dottori”, tranquille, piacevoli, costruttive, fossero molto fre0

torta anche abituali.

Ora è venuto il momento di lasciare tutto questo. Nell’obbligo di prescrizioni della legge poteva certo esserci anche quello di vivere con i genitori e di essere loro soggetti, di dare una mano in casa! Ma un ragazzo vissuto in un ambiente così stimolante e gratificante non poteva adeguarsi con entusiasmo all’idea di andare in tutt’altro luogo, soggetto ad una madre da cui era stato lontano, ad un padre che (lo sapeva) non era suo padre, e per giunta a fare il mestiere del teKTOV. Come tutti gli anni precedenti, anche ora Jeshua, senza alcuna volontà di far male, lascia andare i genitori e ritorna nel tempio 2% Affidare un bambino al Tempio perché intraprenda una vita sacerdotale,

o ascetica, 0 semplicemente laico-religiosa ( per es. il nazireato) non è strano. Nei Vangeli apocrifi c’è una vasta letteratura in proposito nei riguardi di Maria. Jeshua e la sua famiglia tornarono dall’Egitto il 4 a.C. (morte di Erode il Grande) edè stata in quell’occasione, quando ormai non era più un lattante, che il ragazzino potrebbe essere stato affidato a Zaccaria.

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ad imparare. E si stupisce che i genitori ritornino-a cercarlo; forse aveva sperato di rinviare il problema ad un altr’anno, forse non si era reso ben conto che era venuto il momento di cambiare radicalmente la vita. E chiede: “Perché mi cercavate? Non sapevate che devo stare ev toLS TOvV TATPos uov?”, che può volere dire tante cose, abbiamo visto, ma che tradotto alla lettera ho già detto che mi sembra significhi “tra quelli (ev tovg) del padre mio (tov taTtpos uov)?”. E “quelli del padre suo”, tra cui voleva stare, dovevano essere, appunto, i “dottori”. Erano i maestri, i rabbini con cui discuteva e con cui si trovava tanto bene. Perché non dovrebbe essere così? Così, anzi, non solo viene

chiarito il significato della frase, ma viene molto attenuato quel tono di protervia e di maleducazione insopportabile ed incredibile sulla bocca di un ragazzetto intelligente, sensibile, e già ben ferrato nella Scrittura e nei comandamenti, compreso il quarto, quello che riguarda il padre e la madre. L’attaccamento di Jeshua ad un tempio dove aveva bazzicato fino ad allora è più vero, più comprensibile, più giustificabile. Ma la legge è legge, lo sapeva perché glielo avevano insegnato. E così “scese con loro e venne a Nazareth, ed era loro [come è giusto!] sottomesso” .

UN ALTRO

DUBBIO:

ALLE NOZZE

DI CANA

Jeshua è ormai maturo. Cresciuto (come penso) nella fanciullezza all’ombra del Tempio e del parente sacerdote Zaccaria, probabilmente si mantiene fedele al suo ruolo come dedito alla religione. Forse, se non probabilmente, si è già fatto Nazirèo. Difatti non è sposato. Essere sposato, fare figli era sentito come un dovere a quei tempi, e se nessuno glielo rimprovera ed ugualmente lo rispetta vuol dire che appartiene ad un ordine di tipo religioso che non prevede il matrimonio. Soprattutto non desta alcun sospetto di omosessualità. I Nazirei praticavano il celibato. Inoltre non bevevano vino e portavano i capelli lunghi. Giuseppe deve essere già morto, 0 per malattia o per vecchiaia o per la fatica del mestiere. All’invito di partecipare alle nozze di una famiglia amica in quel di Cana, Maria non può certo andarci da sola. Deve dunque accompagnarla il figlio, con ciò dimostrando che. se c’erano ulteriori figli della coppia Giuseppe-Maria, Jeshua era comunque il primogenito (dunque non ha valore la 215

pur intelligente trovata, per giustificare l’esistenza di “fratelli” di Jeshua e contemporaneamente di una Maria “sempre vergine”: quella di immaginare che Giuseppe avesse avuto figli da un precedente matrimonio). Era Jeshua il nuovo capo-famiglia.

L’INCREDIBILE INTERPRETAZIONE DELLE NOZZE DI CANA DA PARTE DEL VERONESE

Ed eccoli alle nozze. E qui riprendo il mio periodare di quel libriccino che ho già citato (pag. 125 sg.). Con una sensibilità molto femminile, Maria nota che il vino

del banchetto è venuto a mancare, e già pensa all’imbarazzo di chi deve offrirlo, al disappunto degli ospiti, alla festa che finisce con quel neo, ingiusto agli sposi?*'. E si rivolge al figlio, glielo fa notare: spera nel miracolo? Sta di fatto che la risposta del figlio non sembrerebbe corrispondere a tanta sensibilità premurosa: “E a noi che importa?”. Ed aggiunge: “La mia ora non è ancora venuta”. Poi invece le ubbidisce, ed agisce. A parte questa contraddizione nelle sue decisioni, dovuta magari al rispetto e all’obbedienza, è la prima frase che disturba. Letteralmente: “Che cosa [importa] a me e a te, o donna?”. Sembra il rifiuto sdegnoso all’istanza, l’incomprensione verso lo stato d’animo di chi, invece, partecipa alla piccola fastidiosa tragedia. Anche qui, non può essere. Non è da lui. Non è da Jeshua trentenne, come non era da Jeshua dodicenne la frase sgarbata rivolta ai genitori angosciati. Scherziamo? Uno Jeshua capo famiglia non può trattare così la madre, vedova ormai, ed a lui affidata. Meglio pensare a tutt’altro: ad uno Jeshua “nazireo”, termine troppo simile a “nazareo”, cioè di Nazareth, per non destare sospetti. E che ritroveremo sul cartello della croce. Se così, molto si spiega. Il “che ce ne importa?” non è il ca‘" Trovo tutt'altra interpretazione (che tuttavia mi sembra alquanto forzata) dell’episodio di Cana in D. Donnini, // simbolismo dei miracoli di Gesù, Aci-

reale-Roma 2013, 35 sg.

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tegorico rifiuto di prendere in considerazione le preoccupazioni degli altri e la compartecipazione della madre: è invece la stupìta domanda che subito viene in bocca a chi è effettivamente lontano da un problema che non lo tocca. Jeshua (perché nazireo) e la madre (perché donna) non bevevano vino. Il figlio forse non ha capito subito che la madre si preoccupava per gli altri, ed alla sua considerazione “non hanno più vino”, ha spontaneamente risposto: la cosa non ci riguarda, visto che noi non ne beviamo. Poi gli basta un secondo per capire, e subito agisce. C'è una contraddizione a quanto ho pensato: vedremo Jeshua bere vino, persino paragonargli il proprio sangue”. Ma quello può essere lo Jeshua successivo, che cambia rispetto alle attese di Zaccaria e del suo figlio Giovanni, lo Jeshua che non si sposa, è vero, che mantiene i capelli lunghi (se badiamo alla Sindone), è vero, ma che non rifiuta il colloquio con le donne, che “mangia

e beve” pur di frequentare chi ha bisogno di lui e di un suo insegnamento fatto di coabitazione e famigliarità, non solamente di pulpiti. E chissà se la frase “/a mia ora non è ancora venuta” non significhi proprio questo: non ho ancora intrapreso quella via che mi porterà a bere vino; sono ancora una nazareo-nazireo, ed anche

oggi non bevo vino.

I DUBBI VERI. LA MADONNA

Se dunque né da dodicenne né da trentenne Jeshua pronunciò mai (secondo me) frasi insensibili e rozze nei riguardi di sua madre, ciononostante in altri passi evangelici non sembra dimostrare l’infinito amore che si presume dovesse portarle. E questo è il punto in cui possiamo rispondere al quesito avan-

zato a proposito di Inanna e della divinità femminile della Mesopotamia: quale la considerazione della donna nella religione cristiana? Abbiamo già visto le frasi della Madonna, ambedue squisitamente femminili, in due occasioni in cui ha avuto a che fare con il figlio: una volta angosciata per la sua scomparsa, un ‘altra preoccupata per

8 Mio figlio Gianfranco mi ricorda che durante l’ultima cena Jeshua disse:

“bevete”, ma non è detto (né lo ha detto) che abbia bevuto lui. Tuttavia da un

altro punto del Vangelo, sia pure nelle parole di suoi detrattori, pare che “mangiasse e bevesse”, ovviamente vino

PA]

una difficoltà sorta durante un pranzo nuziale. Due occasioni in cui hace certo non appare serena. Ma c’è dell’altro. riesempio, per In un libretto che ho dedicato alla Madonna, dai che fatto sul porto tutta la questione che si è voluto aprire Vangeli si sa che Jeshua, risorto, non apparve a sua madre, ma alla Maddalena. Rinuncio a riferire tutti gli interventi che hanno voluto sostenere il contrario. Ma riporto comunque un passo che mi sembra significativo: (da Fonti di una Fonte. Per una o mille considerazioni sulla Madre di Gesù, Roma, Informatic@pplicata 2007, 14 sg.). Viene da chiedersi: perché l’atteggiamento di Jeshua sembra più da figlio estraneo (o che vuole rimanere estraneo) alla madre? Difatti: a) Non la chiama mai “madre”. L’unica volta che la definisce “madre”, è per affidarla come “madre” ad un altro (dalla croce a Giovanni [apostolo]; secondo alcuni invece era Lazzaro, ma tutto porta a Giovanni. In ogni caso il fatto non cambia). b) Le si rivolge con l’epiteto di “donna” (due volte, e sempre nel Vangelo di Giovanni), che non ha paralleli nella letteratura greca come comportamento di un figlio verso sua madre. Potremo considerare questo epiteto non certo come negativo: per esempio, due angeli si rivolgono con l’epiteto di “donna” a Maria Maddalena, quando le annunciano la resurrezione (Giovanni 20,

13); Gesù stesso si rivolge con l’epiteto di “donna” alla cananea, nell’atto di guarirla. Dunque “donna” poteva essere un’espressione più ebraica che greca (ed infatti Carmignac ha dimostrato che i Vangeli furono seritti originariamente in ebraico); ma sembra indubbio che si trattava di un modo di rivolgersi a persone estranee, non intime (lo stesso Gesù si rivolgerà poco dopo alla Maddalena chiamandola “Maria”! E prima, aveva chiamato “figlia” la donna malata che aveva creduto in lui. Ed ha chiamato talida la bambina morta: ed il termine deriva da una radice che significa “generare”; come dire, “creatura”, in modo affettivo. c) Sembra quasi ci sia un rifiuto nei riguardi della madre, quando Maria viene citata in due contesti in cui viene ricordata a Jeshua. In uno, gli riferiscono che la madre ed altri parenti vorrebbero entrare nella casa in cui si trova, per vederlo e parlargli, e lui risponde che “madre e fratelli” sono quelli che fanno la volontà di Dio. D'accordo, è una buona occasione per fare l’ennesima predica, o meglio di pronunciare una delle sue frasi storiche, ma sembra anche un disconoscere bell’e buono i parenti più stretti. I quali ci saranno rimasti certamente molto male. Poi c’è l’altro episodio, quello della 218

donna che dice beato il seno che lo ha allattato, alla quale Jeshua analogamente risponde che è beato chi ascolta ed osserva la parola di Dio. Anche qui, non neghiamocelo, c’è uno sminuire la madre,

a cui non viene mai riconosciuta la santità, la verginità, il ruolo

particolare di prescelta dal Signore, la concepita di Spirito Santo, ed alla quale effettivamente non figura apparire dopo la morte, pur apparendo a tutti quanti. D'altronde non sono nemmeno lusinghiere nei riguardi dei genitori in generale le parole che ha pronunciato una volta di fronte alla folla: “Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre, la moglie e i figli, ifratelli e le sorelle ed anche la sua stessa vita, non può essere mio discepolo” (Luca 14,16 cui fa eco Matteo 10,37: “Chi ama ilpadre e la madre più di me non è degno di me; e chi ama ilfiglio o la figlia più di me, non è degno di me”): parole tanto poco lusinghiere, che in un apocrifo si può notare il tentativo di renderle più mitigate ed accettabili. Io però non le accetto. Anche se ho tentato di spiegare, pur non essendo più credente cattolico, che in occasione della Pasqua a Gerusalemme e delle nozze di Cana le parole di Gesù non furono probabilmente così dure come sembrerebbe, sta di fatto comunque che non appare da alcun passo del Vangelo quell’amore e quella tenerezza che gli artisti del Rinascimento (e non solo del Rinascimento) hanno vo-

luto raffigurare nei loro straordinari dipinti. Ben poco di Jeshua giovinetto, nulla di Jeshua diciottenne o ventenne. Dal presepio si passa quasi direttamente agli ultimi anni (il battesimo, Cana, qualche miracolo) e soprattutto agli ultimissimi giorni: l’ultima cena, la crocifissione, la deposizione. Invece c’è molto spesso la Madre (in trono) con quel bambino piccolo, alie volte paffutello e sorridente, altre volte dipinto in modo così orrendo da far venire la voglia di cambiar religione. Ed anche nella letteratura religiosa: la vergine madre e il bambino, e i baci e le tenerezze e quant'altro. Per il resto, a parte il dodicenne Jeshua ed il trentenne (0 più) non ancora Cristo, nel Vangelo c’è vuoto assoluto. Perché? Come mai la sua ora venne solo ad una età così tarda? Perché poi così tanto disprezzo (nelle parole addirittura odio) verso la famiglia? Quale vita ebbe Jeshua e quali insegnamenti dalla sua “sacra famiglia”? C’era ancora del risentimento per averlo strappato da quei “rabbini” che costituivano il suo ideale ed il suo esempio? (anche lui sarebbe stato chiamato rabbi). A 30 anni poteva finalmente dedicarsi alla sua missione perché qualche fratello era diventato in grado di sostituirlo in famiglia? E nei tre anni successivi, che fine avevano fatto i “fratelli”, visto che non c’era che un apostolo a prendersi cura della 219

madre vedova? Lo avevano ripudiato? O se ne erano andati semplicemente per conto loro? E Giacomo era veramente suo fratello? E se sì, perché Jeshua non ha affidato la madre a lui? Questo per i Vangeli, e dovrebbe bastare. Ma no, contro ogni evidenza la Chiesa si è arrogata il permesso di intervenire, di addolcire la figura della Madonna da subito definendola “vergine” in eterno e madre dell’umanità, dedicandole inni e rosari, piazzandola in trono come la magna mater, alterando abusivamente il suo ruolo che non sembra davvero fosse di particolare importanza, temperato in parte dalla sua presenza nel cenacolo, quando si racconta delle fiammelle sulla testa. E poi, perché chiamarla “sempre vergine”, se ebbe (come non è per nulla da escludere) altri figli? Come la vergine Inanna/IStar che, se fosse esistita davvero, con certezza assoluta non sarebbe stata vergine?

MADONNA

IN TRONO, DI CIMABUE

Stranezze della Chiesa, che sceglie i Vangeli e poi li trasforma a modo suo. lo non intravedo da nessuna parte la “vergine” che si proclama concepita senza peccato originale (soltanto lei?), che ha le rose sui piedi, e sotto i piedi schiaccia il serpente, e fa i miracoli a Loreto, a Lourdes o a Fatima ed in pochi altri luoghi, non certo a casa mia; e poi quasi quasi ci fanno credere che le statue che la raffigurano siano taumaturgiche, come quella di Istar di Ninive o di Arbela, che veniva inviata in Egitto perché guarisse il Faraone. 220

Strana donna, che diventa la “Vergine”, la Madonna, “mia domina”, la ‘mia signora”, proprio come veniva chiamata Inanna; Madonna pregata ed esaltata più di Chi, al di sopra di tutti, ha maggiore diritto alle preghiere ed alle esaltazioni; invocata come se fosse lei a fare i miracoli; costretta da Chi l’avrebbe prescelta fra tutte le altre ad assistere allo straziante spettacolo di un figlio crocifisso. Ci vogliamo fissare per un attimo su quest'uomo crocifisso? Crocifisso! Gli hanno forato i polsi ed i piedi e lo hanno inchiodato a dei legni! Ed ora noi guardiamo invece al crocifisso, riprodotto in ogni angolo, come un sereno messaggio di pace e di carità! Un uomo crocifisso è quanto di più bestialmente disumano si possa vedere. Figuriamoci se fosse nostro figlio. No, io amo davvero questa donna segnata fin dalla giovinezza, probabilmente ignorante ma certo di acuta sensibilità, per quello che ha ingiustamente sofferto. È stata una delle eroiche molecole dell’umanità gonfie di dolore e di strazio, come le madri, le mogli, le figlie di tanti poveracci che ci hanno rimesso la ghirba in quella che è stata, che è, e che purtroppo sarà, la più oscena manifestazione della follia umana: la guerra. Mai strazio può superare quello di vedere la morte di chi è uscito dal proprio corpo. E non c’è strazio peggiore di chi vede il proprio figlio straziato. Io amo questa donna, Maria e non Madonna, ed idealmente l’abbraccio, nella speranza di non soffrire mai come lei.

LA PIETÀ DI MICHELANGELO

[°)(SO)

L’IRADDIDDÌO

Mi ricordo di quando, da ragazzetto anch'io dodicenne o giù di lì, capitai per la prima volta nel grande piazzale incompiuto anteposto alla basilica di Loreto. Allora effettuavo con convinzione in ginocchio il percorso del periciclo dell’antica Casa, portata fin lì non dagli angeli, ma dalla ricca famiglia degli Angeli, smontata stivata e ricomposta. E quando ero a casa, con fede speravo che l’olio benedetto di Loreto, calato nelle mie orecchie doloranti, ser-

visse a farmele guarire. Tutt’intorno alla piazza, specie nella parte destra guardando il santuario, c’era una fila di bancarelle che vendevano le solite

immagini, rosari e quant’altro (Padre Pio ancora non esisteva). In genere (mi par di ricordare) a vendere erano donne, che in-

vitavano petulantemente i fedeli e i pellegrini ai loro traballanti banchetti. Mercificazione di cose sante? Senza dubbio, ma non me la sentirei di cacciare le vecchiette a pedate. Poveracce, campavano con questo, e lasciatele campare. Forse anche Jeshua le avrebbe risparmiate.

GESÙ SCACCIA I MERCANTI DAL TEMPIO, DI GIOTTO

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Al tempio di Gerusalemme, invece, c’era di peggio, visto che Jeshua, preso da ira funesta, ha scaravoltato i banchetti e scacciato i “mercanti”. Ma costoro, diciamocelo sinceramente, erano più utili delle vecchiette di Loreto: tante persone straniere arrivavano con monete loro, e non potevano acquistare nulla se non c’era qualche “ufficio di cambio”; se poi volevano comprare animali da offrire al Signore, che fossero tortore o agnelli o altro, eccoli lì, questi animali, pronti per essere acquistati, senza bisogno di andarseli a cercare infognandosi in qualche quartiere della città 0 in qualche fattoria dei dintorni. Dunque questi “mercanti” erano certo più utili delle vecchiette di Loreto, erano anzi indispensabili. E allora perché Jeshua li caccia in malo modo? Il suo atto ha suscitato sdegno e scandalo. Anche qui, però, una spiegazione doveva esserci, e non è poi tanto difficile scovarla: questi mercanti erano ladri, evidentemen-

te il loro “cambio” di monete era alterato, il prezzo degli animali era esagerato ed ingiusto. Non mi pare dunque che Jeshua abbia infierito con tanta violenza perché si era formato un mercato nell’area del tempio: era piuttosto perché questo mercato era tutt’altro che corretto, e dunque perché era stato trasformato, da luogo di scambio lecito ed anzi indispensabile, in una “spelonca di ladri”, era diventato simile a quelle grotte dove i briganti nascondevano il frutto dei loro ladrocini.

IL FICO MALEDETTO

(da Saggi su il Ghilgames, Simoncelli, Milano 2003, 168 sgg., cfr. Miti paralleli, Tipheret, Acireale-Roma 2020, 137 sg.). Anche il Cristo aveva fame. Un giorno, uscito dalla casa degli amici di Betania, vede un fico. Dovevano esserci fichi tutt’intorno al paese, o nel cortile delle piccole case, come quella della promessa Lucia che aspettava il suo Renzo. Vide un fico, carico di foglie, e si mise a frugarlo per trovare qualche frutto; ma non ne trovò. Per forza! Marco, che ci racconta l’episodio insieme a Matteo, dice che non era il tempo deifichi. Non lo sapeva il Cristo? Lui così legato alla natura, abituato a camminare lungo i campi e i frutteti, non lo sapeva? Lo sapeva. È i allora cosa andava cercando? Ma c’è di più. Non trovando i fichi, il Cristo si rivolge all’albero, indignato ed irato: “Nessuno mangi più in eterno il tuo frutto!

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gli fa dire Marco. Oppure, come riferisce Matteo, gli disse: “Mai più nasca frutto da tel”. Ed ora mi chiedo quale fosse la colpa del fico. Del povero

fico ricco di foglie ma non di frutti, perché non era stagione. Si maledice un fico perché non è stagione? Si maledice una giovane donna prosperosa, se non ha figliato perché è ancora vergine? Non si maledice. E allora vuol dire che questo anatema tremendo nascondeva qualcosa, un intento, uno scopo. Importante, se l’atto è accompagnato dall’ira. Il gruppo di Cristo e compagni si reca a Gerusalemme. Ma poi ritorna, di sera, alla cara Betania, a passarvi la notte. E il giorno

dopo, tra i fichi che certo crescevano dispersi lì intorno, ecco il fico di prima, Ma secco, “disseccato fino alla radice”.

Marco ci narra che il fico, invece, seccò subito dopo le parole del Cristo. Ma tant’è: fosse quello od un altro mattino, il fico fu Secco. Perché? Che male aveva fatto quel fico? Non bastava non avesse più frutti: no, anche morto lo volle. Un albero, un albero della

natura, un albero ucciso da persona che nemmeno lo possedeva; e pazienza se una persona passando si mangiava i suoi frutti: era il diritto del viandante. Ma uccidere no. È come andar là e segare al bell’albero il tronco. Anzi, è peggio, perché la sega le salva, le radici, ma quel fico fu secco fin dalle radici. Uccidere un albero è un reato. Oggi, ma anche allora. Perché dunque lo fece? Non si uccidono gli alberi. Ed allora vuol dire davvero che quest’atto tremendo nascondeva qualcosa, un intento, uno scopo. Ma quale? Ci sono dei momenti che non capisco il Cristo. Cose che non capisco, e la Chiesa non spiega. O spiega in modo che non mi soddisfa, come si arrampicasse talvolta sugli specchi, lasciandone sfregi di unghie. Il Cristo pazzo non era. E dunque a questi episodi sconcertanti una spiegazione si affiancava, che ora è perduta. Ma ritorniamo al fico. Quando Pietro lo vede (per Matteo sono tutti i discepoli), lo segnala al suo Cristo, quasi lui non sapesse. Ed il Cristo gli dice: “Abbiate fede in Dio. In verità vi dico: a chi dicesse a questa montagna: ‘Lévati e géttati nel mare’ e non esitasse in cuor suo, ma credesse che avverrebbe ciò che dice, (quanto ha detto) si

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compirà. Per questo vi dico: tutto ciò che voi domandate nella preghiera, credete di averlo già ricevuto e l’otterrete”. E Matteo gli fa dire: “In verità vi dico: se avete fede e non esiterete, non solo farete come col fico, ma se anche direte a questa montagna: ‘Lévati e gèttati in mare’, ciò avverrà. E tutto ciò che domanderete nella preghiera, con fede, voi lo otterrete”.

Dunque il fico maledetto era una scusa per insegnare qualcosa. Già in altra occasione Jeshua aveva raccontato una parabola proprio su un fico: un fico che non solo non dava frutti fuori stagione, come il nostro povero fico, ma che non li dava per niente, non li dava mai. Ma al padrone che lo voleva tagliare il vignaiolo suggerì di lasciarlo ancora quell’anno: lo avrebbe zappato e concimato. Solo dopo un altro anno di inutile vita sarebbe stato tagliato. Se dunque il Cristo ha raccontato che bisognava risparmiare un fico sterile, non poteva seccarne uno sano. Solo che la sua spiegazione non dice nulla; obiettivamente: nulla. Fa infatti un gran

discorso sulla fede, che con il fico non c’entra un fico. Che c’entra il fico con la fede che muove le montagne? Si è spiegato: ha voluto dire che con la fede, come si è in grado di seccare un fico, così si possono spostare le montagne. Ma non va, non attacca: nel seccare un povero fico nulla c’era di fede in Dio, di preghiera: solo ira, dispetto ed un atto inconsulto. Può la fede creare degli atti inconsulti? Ora io dico che se Jeshua, che pazzo non era, ha dato questa spiegazione agli amici, gli amici lo hanno capito. Non lo capiamo noi, ma loro lo hanno capito. Dunque, sapevano qualcosa che noi non sappiamo. E se non lo sappiamo, questo qualcosa non è nostro, non fa parte della nostra cultura. Se lo sapessimo, capiremmo. Non lo sappiamo, e allora non capiamo. | Cè qualcosa della cultura degli Ebrei, che io non sapevo. E una simpatica leggenda che si rifà alla creazione, al paradiso terrestre. La scena del paradiso terrestre è il riflesso di antiche credenze mesopotamiche, ed il paradiso, che significa in realtà frutteto, è la summa di singoli alberi ognuno con il suo significato preciso. Devo dire che l’influenza mesopotamica, che ci fa meglio capire cosa fosse questo paradiso in terra, non c'entra per niente con la simpatica storiella ebrea, che potrebbe spiegare il fico del Vangelo. Ma anche se già altrove ne ho scritto e parlato, vorrei ripetermi qui, come una pausa di riposo.

Bisogna dunque sapere che in qualche punto dell’arte e della letteratura dell’antica Mesopotamia si accenna ad alberi misterio229

si e prodigiosi, posti un po’ qua un po” là. C’era anzitutto l’albero della vita, quell’albero di vita immortale che vediamo raffi gurato, nei suoi ghirigori arabeschi, nei bassorilievi e nei sigilli, con i geni alati di fianco, a indicare che era cosa divina.

Ogni albero ha frutto. Poteva mangiare il suo frutto l’uomo mortale, per divenire immortale? Non poteva. All’eroe Ghilgames, che vaga alla caccia della vita immortale, viene detto che gli dèi riservarono per sé l’immortalità, ed ai mortali la morte. Allo stesso Ghilgeme$ fu indicata la sede (in fondo alla terra, nell’acqua) di un’altra pianta divina. Aveva un nome: “// vecchio diventa giovane”, ed era una specie di pruno; probabilmente ne derivò, sparita la pianta e rimasto il contenitore, la leggenda della fonte dell’eterna giovinezza. Questa pianta non era propriamente l’albero della vita, ma faceva restare per sempre giovane chi la mangiava. Anch’essa era divina. Negata ai mortali, fu negata a Ghilgames. Ed era, credo, la pianta che conferiva agli dèi, mangiandola, il dono dell’olimpica immutabilità. E poi ce n°era un’altra, che si chiamava “pianta della procreazione”. Nel poemetto “Etana” risulta ambìta da un re che non poteva aver figli (e che non ne mangiò, però ebbe figli). Era quella che conferiva il dono della creazione: del mondo, dell’uomo, della vita. Questa pianta faceva parte degli alberi particolari, fatti apposta per il singolo dio, perché pare fosse prerogativa di IStar, la dea della procreazione. Similmente c’erano degli alberi, citati anch’essi nell’epopea di Ghilgame$, che producevano gemme in un frutteto posto in oriente, là dove il Sole arrivava, alla fine di una notte trascorsa camminando sotto terra da occidente, per ricominciare il suo ciclo diurno. Sbucando dalla buia galleria, il Sole si cibava dei frutti-gemma splendenti, evidentemente per riacquistare il potere di espandere la sua luce. Alberi-simbolo delle capacità divine, dunque. Alberi solo di dèi, che soli potevano mangiarne. Nella Bibbia questi alberi sono raccolti in un luogo solo, non a caso la terra sumera, dato che Eden vuol dire, in sumero, la steppa incolta della Mesopotamia. Qui Dio, unico immortale nella simbologia diventata leggenda, volle mettere le sue creature fatte ad immagine sua, come fossero déi. Dando loro tutte le capacità divine, tranne una sola: l’onniscienza. Adamo in tutto era dio, o meglio poteva esser dio, purché non fosse onnisciente. 226

Ma torniamo alla storiella ebrea, chiarita così la natura del terrestre frutteto. Gli antichi, ormai scomparsa la comprensione della primigenia simbologia, credettero davvero che Adamo ed Eva fossero in un frutteto (ed ancora c’è chi lo crede). Qui, come sappiamo, mangiarono del frutto dell’albero dell’onniscienza, e subito si accorsero di essere nudi, ed allora “intrecciarono cinture con foglie di fico” per ricoprirsi. E allora si pensò: da dove venivano queste foglie di fico? Da un albero vicino, che era un fico, ovviamente. E qual era l’albero più vicino? Ma era l’albero dell’onniscienza (“della conoscenza del bene e del male”) ovviamente, dal quale avevano appena mangiato il frutto. Dunque l’albero dell’onniscienza, secondo loro, era un fico. E

per fortuna, date le foglie, che non era un olivo. Quest’idea, ovviamente balorda perché, al contrario, di simbologia si trattava, fu poi rinforzata da uno stretto paragone fra il fico e la scienza (anche se, a rigore, il brano ebraico che riporta questo paragone parla piuttosto di “saggezza” insita nelle parole

della Legge, più che di conoscenza in generale)?*. Cos'è la scienza? Un continuo cercare e cercare. Chi più sa,

più si accorge di sapere di meno. Ogni dato acquisito altro non è che il punto di partenza per cercare e conquistare un altro punto successivo. Sicché, cerca cerca, non si finisce mai: si trova sem-

pre qualcosa di nuovo. Come appunto col fico. Frugando e frugando fra le foglie del fico (ovviamente badando a che sia la stagione!) sempre si tro-

veranno i fichi. Anche quando sembrano finiti, guarda là tra il fogliame un altro fico!, e più sopra altri ancora. Ecco, credo che in fondo fosse questo che a quei tempi era noto, ed un po’ lo sapevano tutti, e la storiella dell’albero-onniscienza-fico circolava forse nelle popolari credenze. Anche Jeshua sapeva (è la mia ipotesi) e sapeva che gli amici sapevano: il fico è il simbolo della scienza. Ma non sempre la scienza può dare i frutti che noi ci aspettiamo, né quando li aspettiamo. Non si può attingere alla scienza sicuri di trovarla sempre. Insomma: la scienza non è tutto. In certi momenti, è niente. 28 In Domnini, cit., 49 sg., la spiegazione parte ugualmente dalla identifica-

zione del fico con l’albero della conoscenza, ma invece di rifarsi alle successive

immediate parole di Jeshua, lo scopo dell’atto viene riferito ai sacerdoti del Tempio, visti da lontano dal punto in cui c’era il fico.

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Se vediamo l’episodio in quest'ottica, subito mi pare chiaro il discorso di Jeshua sulla bontà della fede. Scienza e fede sono andate spesso d’accordo, ma più spesso non si sono capite, erano spesso agli antipodi; peggio ancora, nemiche. Per Jeshua è tutto fede. I miracolati sono i miracolati della fede (“Ia tua fede ti ha salvato”), è stolto arrabattarsi per le cose della terra, basta la fede in Dio (“guardate i gigli dei campi ...”). Dunque la scienza, è il caso di dirlo, è un fico secco.

Tutta fede, e fede potente: guarisce, resuscita, fa campare senza lavorare, sposta le montagne. Basta crederci. Basta chiedere a Dio. E chissà che non sia anche vero, ma solo qualche molecola di umanità c’è riuscita: pochi miracoli (troppo spesso fantasiosi) ottenuti da uomini, poche vite d’anacoreti di limpida ascesi, nessuno che abbia mai spostato una montagna. Se dunque Jeshua non era pazzo col suo fico, ma ci ha lanciato e lasciato un messaggio chiaro e potente, è su questo messaggio che l’uomo incespica e cade: non abbiamo (ma che parlo per gli altri?) non ho la forza dell’animo (0 magari l’altissima forza morale) di elevarmi sulle necessità quotidiane (tengo famiglia, ahimè) dietro esempio del giglio del campo (l’anemone) che non fatica e non fila, o del corvo che non semina e miete. Pregare con fede? Ma la storia urla di invocazioni inascoltate a Dio. Né certo le mie dubbiose preghiere mi porterebbero il pane in casa, come pare sia capitato a San Francesco alle porte del mio Borgo San Donnino. Ma accantoniamo l’angoscioso problema, e restiamo alla scienza. Se vogliamo interpretare l’episodio del fico come abiura alla scienza, allora è il solo cenno di Jeshua alla scienza. Altro non c’è nel Vangelo: a conferma che Jeshua e scienza erano estranei e (se è vera la storia del fico-scienza) nemici.

In fondo, il messaggio coincide con quello degli antichi padri: il mito (perché in effetti è un mito) del frutteto terrestre e divino parla chiaro: un giorno l’uomo, creato da Dio che gli è padre, ebbe dal padre ogni dono. Ad immagine e somiglianza, Dio lo fece come sé stesso. Ma per non crearsi un doppione, per avere pur sempre Adamo un gradino più sotto, non gli permise di “sapere”. Nel frutteto beato senza avere la conoscenza, Adamo sembra vi-

vere, così, nella “beata ignoranza”. E il messaggio simbolico si srotola ancora: solo Dio può sapere tutto senza averne del male. L’uomo no: per l’uomo il sapere è una iattura. Da quando l’uomo ha iniziato a sapere si è svolta la sua vita penosa, maledizione di Dio. 228

Se il mito è la sintesi di una subliminale sensazione collettiva, qui siamo nel mitico mito dell’età dell’oro, cantata dalla nostalgia di tanti popoli, velo che copre il desiderio di gioia e di pace: come il mito sumero di Dilmun, isola del Golfo Arabico dove viveva in pace, ed eterno, l’eroe del diluvio, e dove i Sumeri (non potendo mettere nella Sumeria, che era il loro paese, l’antico luogo beato) localizzarono la sede di un magico mondo perduto. E il Mito di Dilmun: i leoni non vi uccidevano, il lupo non divorava gli agnelli, lo sciacallo non razziava i capretti, il cinghiale non devastava i raccolti, la gente non soffriva né di mal d’occhi né male di testa. Né c’erano i vecchi; e se ho avuto ragione nell’interpretare, anni fa, anche il resto”, non c’erano vedove, non avvenivano alluvioni, né ordalie di fiume a provare la verginità di una donna, e non c’era potere ad imporre la sua volontà, Né guerre ed episodi lugubri e drammatici, destinati a passare nelle saghe degli aedi. Forse vi crescevano alberi divini, e non si diventava vecchi perché si poteva mangiare, anche lì, del frutto del “vecchio diventa giovane”, negato a Ghilgames. Fra un’età dell’oro perché l’oro non c’era. Nel cosiddetto Eden (in realtà il frutteto nell’Eden) era

età di beata ignoranza, perché non c’era conoscenza. E poiché fu il desiderio di conoscenza d’Adamo a far crollare quel mondo beato, ecco che conoscenza era male, è male, è fico che crediamo fruttuoso in eterno, ma che poi ci delude. Il “saggio” che ho tratto dalle pubblicazioni precedenti prosegue perché, quando si parla di scienza, non si finisce mai. Ma ne ho tratto quanto basta per giustificare l’apparente follia e la stranezza di Jeshua, che cerca frutti quando non è stagione, e sopra il conto fa seccare un povero albero innocente. Spero, così, di avere “giustificato” certi atteggiamenti e discorsi, francamente un po’ indigesti: -— Jeshua parla ai genitori con saccenza, ignorando i loro affanni e la loro stanchezza? Nessuna colpa: era a Gerusalemme da anni, ed anche quella volta pensava del tutto innocentemente che doveva restarci ancora. A Canarisponde malamente alla madre con un qual certo -— menefreghismo? Ma per un attimo aveva pensato che Maria si riferisse a loro due. Quando capisce, rimedia. Caccia con ira furibonda i cambiavalute ed i venditori di

24 Si può vedere in EVO 16, 1993,119 sg.

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animali dall’area del tempio? Si era accorto che erano ladri, con i pesi alterati ed i prezzi gonfiati. -— Cerca frutti fuori stagione e secca l’albero temporaneamente sterile? Sulla base del parallelo fico-scienza ha voluto ricordare che la scienza è sterile e che l’uomo deve basarsi unicamente sulla fede. Si può non essere d’accordo con questa concezione (affidamento totale a Dio, fede assoluta in Dio e nella Provvidenza; caducità di ogni ricerca scientifica), ma tant’è: Jeshua la pensava così, e non si svegliava la mattina con un intimo livore verso i fichi. Detto questo,mi pare che ne venga fuori uno Jeshua più autentico nella sua missione di pace e di bene. E certo non si venga a dire che guardo a Jeshua con voluta ostilità, o peggio ancora con astio, se io stesso mi sforzo di capire e giustificare ciò che si potrebbe pensare come ingiustificabile e strano. Tutto risolto? Rimangono, ahimè, lati oscuri difficili da com-

prendere. Ecco allora che vorrei esaminare qualche aspetto della predicazione di Gesù, lasciando da parte i miracoli. — Parabola dei vignaiuoli che lavorano per un periodo diverso, e invece vengono tutti pagati con la stessa somma. Non la capisco. L’ingiustizia è palese. Anche se chi ha lavorato di più riceve il compenso giusto, dare la stessa cifra agli altri è favoritismo. La parabola vuole forse dire che Dio è misericordioso e compenserà anche chi si converte all’ultima ora, ma riportare questo concetto nella vita quotidiana non favorisce l’umana giustizia. — Parabola dei due figli, uno che fa finta di ubbidire ma non lo fa, l’altro che si rifiuta di ubbidire ma poi lo fa. Ai discepoli che gli indicano nel secondo chi fa la volontà del padre, risponde rimproverandoli di non aver creduto al Battista. Non capisco. Che c’entra? Il parallelo consiste nel fatto che non hanno creduto al Battista ma ora credono in Jeshua? — Parabola dei vignaioli omicidi, che uccidono i servi e il figlio del proprietario. I discepoli dicono che devono essere puniti con la morte e la vigna data in affitto ad altri. Jeshua paragona i vignaioli omicidi ai contemporanei, che lo rifiutano. Niente da dire, la parabola è contingente. Se però approva il pensiero dei discepoli, significa anche che approva la pena di morte (morte d’altronde augurata, per suicidio, ai pedofili). — Parabola del re (o di un ricco qualsiasi) che prepara le nozze del figlio. Gli invitati rifiutano con delle scuse o in pessimo modo. Allora fa entrare al banchetto estranei raccattati ovunque. 230

Dio accoglie tutti; peggio per chi rifiuta la sua chiamata. Matteo aggiunge l’episodio di quello che si presenta senza abito nuziale (=con la coscienza sporca?) e viene punito (ma se era un poveraccio dove trovava l’abito?). — Parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. La vergini stolte non hanno olio di riserva e così restano fuori dalle feste nuziali. Tema trattato anche altrove: non bisogna essere colti dalla morte impreparati. — Parabola dei talenti. Viene consegnato del denaro che è fatto fruttare dalle persone a cui è consegnato; ma uno riconsegna lo stesso denaro che gli era stato dato. Il significato è palese. Ognuno deve fare fruttare le sue qualità. — Parabola del figliol prodigo. Il figlio sperpera la sua parte di eredità e finisce male, a fare il porcaio (i porci erano ritenuti animali immondi, dunque finisce col mettersi al servizio di chi allevava porci, cioè a dei non ebrei, gente di religione “infedele”). Il padre lo accoglie e fa festa. Il figlio “fedele” ci rimane male. Anche qui (apparente?) ingiustizia., come al N. 1. Sono simili a questo concetto la frase secondo cui in Paradiso si fa più festa per un convertito che per una marea di “giusti”, nonché il discorso della “pecorella smarrita”. — Parabola del buon Samaritano. Un Samaritano (notoriamente

ostile ai Giudei), è l’unico che si ferma a soccorrere un giudeo massacrato e derubato. La parabola è un inno a favore della carità. Accanto a precetti di alto valore morale, troviamo dunque dei casi in cui l’insegnamento non è facile da accettare. Perché dobbiamo pagare l’intera giornata di lavoro di una co/f con il giusto prezzo e contemporaneamente dare la stessa cifra a chi ha lavorato 3 ore? Alla prossima occasione la colf lavorerà tre ore e pretenderà lo stes-

so salario. Chissà cosa ne penserebbero i Sindacati. Perché devo dare come voto 10 al primo della classe, e valutare 10 il pessimo compito del più sfaticato? Forse perché si è pentito? Ma il pentimento non basta. Cosa penserebbero gli alunni del Maestro, del Professore? Gli toglierebbero la stima. E chissà cosa direbbe il Preside. D'accordo, era tutto un modo per parlare dell’infinita misericordia di Dio, si è capito, ma era anche il miglior sistema per essere frainteso. pia

Nel mio incerto pensiero, e più ancora nella mia incerta 1mpressione, c’è che Jeshua sia stato uno di quei rarissimi personaggi convinti di essere inviati di Dio. Più particolarmente, convinto 231

(0 da solo o da altri: penso a Zaccaria) di essere il Messia, e per ciò stesso da sùbito frainteso da chi si aspettava un condottiero destinato a cacciare i Romani. La sua missione, inutile dirlo, aveva tanto del sublime e un po” dell’impossibile: separazione assoluta della religione dal Potere (“date a Cesare quel che è di Cesare”. In un certo qual modo, gli farà eco Cavour in punto di morte); esaltazione dell’umile, del povero, del sottomesso, preferito dalla divinità; assoluto affidamento

alla Provvidenza (guardate gli uccelli, guardate gli anemoni); visione di Dio come padre (ma non era invenzione sua); visione di sé stesso come “via, verità e vita”, ma senza specifiche delucidazioni su cosa fosse la via (“seguimi ma a far che? La vita di nomade?), cosa fosse la verità (quale verità tra le tante?) e la vita (quale vita? Quella che Dio ha dato agli uomini? Oppure vita eterna, ma solo a chi ha fatto del bene?). I fiumi di inchiostro che sono stati fatti scorrere su Jeshua non sono che interpretazioni; in seguito un gruppo (la “chiesa”’) si è accaparrato il diritto di dare e sostenere le proprie, e purtroppo di punire bestialmente chi non le condivideva. Siamo stati quasi costretti a “credere”, ma è soprattutto quando stiamo male che “crediamo”: ognuno (non tutti) nella sua religione

d’infanzia, nella quale è cresciuto e soprattutto è stato fatto crescere. Jeshua ha predicato pro-, ma contemporaneamente (non si può che constatare che) predicava contro-. Dunque l’esaltazione dell’ “uomo delle beatitudini”” era la condanna della ricchezza e dell’ingiustizia. L'adozione di una vita nomade come la sua, senza moglie né figli, sembra la protesta verso la vita famigliare, che forse non doveva essere stata, per lui, particolarmente esaltante. Un apocrifo lo ha fatto complice di Giuda, e lo ha fatto ridere quando non risulta che abbia mai riso. Ma mi sembra un voluto sottile tentativo di screditarlo con un rovesciamento delle parti. Qualche altro lo ha fatto sposo della Maddalena, ma con poca credibilità. E quand’anche, sposato o no, la sua vita non era stabile, e non c’erano figli.

L’esaltazione, infine, della vita affidata alla provvidenza mi sembra tanto una protesta verso il duro lavoro, a cui doveva essere stato costretto fino a quando decise di abbandonare tutto, lavoro e fami-

glia, insieme agli impegni ed ai doveri connessi. A dirla in breve, se tutti seguissimo l’esempio di Jeshua dovremmo affidarci a qualche amico o amica (tipo quelli di Betania) in grado di ospitarci e di darci da mangiare. Se seguissimo il suo esempio, non ci sarebbe nessuna “sacra famiglia”, ma mogli abbandonate e genitori abbandonati, tutti santi a morire di fame. 232

La vita di Jeshua sembra la fuga dal mondo di chi è costretto a stare nel mondo, ma dal mondo vuole stare lontano (“i/ mio regno non è di questo mondo”), per contro solo accennando (0 solo prendendolo ad esempio per tutt’altro?) all’opera del contadino. Insomma, che lavoro faceva Jeshua? Il tektov (vale a dire il muratore”)? Diventato poi il predicatore errante, che viveva solo

di elemosina?” Sulla sua falsariga si mise anche San Francesco

(muratore solo per restaurare la chiesetta di San Damiano, fuori Assisi: quella dove mi sono sposato), ma non San Benedetto e i suoi seguaci, che avevano capito che chi non lavora non mangia. Ho l’impressione che Jeshua si sia talmente compenetrato nell’idea di essere il Messia che volle credersi tale fino in fondo, tranquillo e sicuro della protezione del Padre, fino all’angoscia estrema nella notte del Getsemani (“allontana da me questo calice”) e pur alludendo ad un Salmo, al grido di strazio e di disillusione scaturito dalla croce (‘Dio mio, perché mi hai abbandonato?) Facile far credere di essere il figlio di Dio, e ricostruire così una triade divina che poteva essere sepolta per sempre, in mezzo ad una popolazione ignorante, da convincere con atti “miracolosi”, in un’epoca in cui certi “profeti” (Simon Mago docet) si davano ai miracoli (sapienti giochi di prestigio?) per farsi accettare dal popolo-bue e farsi credere chissà che. Non intendo, con ciò, sminuire la figura di Jeshua (non riuscirei certo a farlo comun-

que), e credo di averlo dimostrato, tentando di giustificare certi atti poco comprensibili: cerco solo di focalizzarla nel suo contesto. Lo reputo un Profeta, un grande Profeta (come d’altronde lo ha creduto anche Maometto) che ha cercato di fare del bene e soprattutto non mai fatto del male, tranne forse, ma senza cattive-

ria, ai suoi famigliari. Certamente ha del miracoloso il fatto che la sua figura si sia ben presto ingrandita a dismisura. Tuttavia viene il sospetto che forse il “cristianesimo” sarebbe morto dove è nato, cioè in Palestina, se non ci fossero stati Paolo prima, e Costantino poi. E 25 La parola indica un lavoro da artigiano, più specificamente quella del muratore (l’archi-tekton, cioè l’architetto, è guida ai muratori). È stato detto che il termine “falegname” deriva presumibilmente dalle traduzioni dei vangeli cinquecenteschi, epoca in cui le case erano costituite di tramezzi di legno (lavoro di falegnami) con gli spazi riempiti da sassi, calce e mattoni. L'epoca di Jeshua è d'altronde caratterizzata da una intensa attività edilizia (Tempio di Gerusalemme compreso). Tuttavia il termine “falegname” riferito a Giuseppe appare prima del ‘500

236 Anche Paolo e affini sono stati accusati di non lavorare

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d’altronde, non hanno del miracoloso anche altre religioni che si

sono via via espanse nel mondo, come il Buddismo e l’Islam? Tra le varie questioni sempre discusse su Jeshua ce n°è un paio che non mi trova consenziente con l'Autore di un recente (2020) articolo apparso in una rivista di divulgazione, ma di valore?”. Vi si sostiene che i Vangeli furono scritti in greco, e che il più antico, quello di Marco, fu scritto tra il 71 e il 75 d.C. (cioè una quarantina di anni dopo la morte di Jeshua). Non sono d’accordo, sulla base di due avvenimenti che l’Au-

tore non ha nemmeno considerato. Il primo è la scoperta del 7Q5: un frammentino di papiro trovato, come suggerisce la sigla, nella grotta 5 di Qumran, e classificato con il n° 7. O°Callagan, un gesuita spagnolo (nonostante il cognome irlandese), ha ampiamente dimostrato che nel frammentino è contenuto un brano del Vangelo di Marco. Trarne le conseguenze storiche è facile: poiché i Romani distrussero lo stanziamento essenico prima ancora della distruzione di Gerusalemme, se ne deduce che il Vangelo di Marco fu posto nella grotta del Qumran prima del 70 d.C., non dopo. ‘Posto’, non scritto, perché evidentemente fu scritto prima, dato che il frammentino è una copia, non l’originale. Studi epigrafici sulle lettere greche del frammento lo collocano addirittura verso il:50 d.C: quindi una ventina di anni dopo la crocifissione. Ma c’è di più. Un altro gesuita, il francese Carmignac, ha fatto una scoperta incredibile: insospettito dal greco dei Vangeli, che tradisce una impostazione sintattica ben diversa dal greco classico che conosciamo, li ha tradotti in ebraico, facendo con ciò scon-

volgenti scoperte, sia trovando nell’ebraico la spiegazione di certe parole dal significato del tutto differente ma presenti nei diversi Vangeli allo stesso punto, sia trovando tutta una serie di giochi di parole che ovviamente si erano perdute nella versione greca. Uno dei tanti enigmi della Chiesa è costituito dalla totale scomparsa delle casse contenenti gli studi di Carmignac, subito dopo la morte dell’illustre studioso. Come mai? Mistero. Per fortuna gli amici lo avevano convinto a sintetizzare le sue scoperte almeno in un libriccino, fortunatamente pubblicato (anche in italiano. Ce l’ho). Se dunque anche il Vangelo di Marco fu scritto in ebraico (secondo Carmignac, nemmeno in aramaico), bisogna far scorrere un minimo di tempo perché sia tradotto in greco, ed un altro po’ 27 A. Piîiero, Chi ha scritto i Vangeli?, “Storica” 138 (2020), 42 sg.

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di tempo per farlo arrivare da Roma, dove presumibilmente fu redatto, fino a Gerusalemme, e da Gerusalemme allo stanziamento degli Esseni. | Se la tradizione dice il vero, Marco era il “Segretario” di San Pietro, e tutto dunque porterebbe ad un Vangelo praticamente dettato dal primo degli Apostoli. In ogni caso mi sembra indubbio che il Vangelo di Marco fu redatto non molti anni dopo la morte di Jeshua, quando cioè era ancora vivo chi lo vide e lo conobbe. Il 7Q5 confuta la tesi che i Vangeli furono scritti dopo che tutti 1 testimoni contemporanei di Jeshua erano morti, e non si

capisce dunque come mai la Chiesa (altro enigma!) non ne faccia uso (a cura della Chiesa ci fu una esposizione dei manoscritti di Qumran, ed il 7Q5 non era nemmeno fra quelli esposti). A me personalmente, invece, farebbe molto, molto comodo che né O°Callagan, né Carmignac né il 7Q5 fossero mai esistiti, perché mi sarebbe più facile credere in una leggenda su Jeshua sorta dopo alquanti anni dopo la sua vita. Invece questi sono i fatti, e lo storico deve accettarli, e non fare come la Chiesa e come

l'Autore dell’articolo che ho citato, che li ignorano totalmente, anche contro i propri interessi (trovo il tutto incredibile). Nonostante O’Callagan e Carmignac, che stimo moltissimo (tant'è vero che ho loro dedicato il libriccino che ho scritto su

Jeshua?#) sono convinto che sì, tanto dei Vangeli è vero ed autentico, ma che presto trovò facile terreno la leggenda del figlio di Dio. Non è facile per me esprimere questo concetto in una ‘nazione (l’Italia) piena di chiese (ma ora incominciano anche le

moschee), che la domenica si riempiono di “fedeli” veri o finti, che assistono alla messa, fanno la Comunione (cioè mangiano

l’ostia, che corrisponde al pane benedetto da Jeshua) nella piena convinzione (molto spesso supinamente accettata) che avvenga il fenomeno della transustanziazione. Tutto ciò è comunque molto positivo: la “messa” avviene in atmosfera di serenità, ed è molto bello il (recente) segno di pace che si scambiano gli astanti. AI semplice atto di mangiare (e di bere) la Chiesa ha aggiunto nella messa tutto un rito di contorno che forse era necessario per rendere la cerimonia ancor più solenne e naturalmente più lunga, visto che dell’ultima cena è stata conservata quella benedizione,

ma non il resto (compreso l’episodio di Giuda). L’azione della Chiesa non si ferma qui: le Parrocchie hanno una loro funzione

2% Jeshua eGesù, Palermo 2000 2535

positiva come aggregazione intorno a valori fondamentali per la vita umana, ed in àmbito anche internazionale sono di enorme

importanza quelle Associazioni benefiche, talune di grande peso, che si occupano del bene degli altri, dei poveri, dei bisognosi, dei reietti, dei disperati, dei bambini poveri o abbandonati. Qui

veramente il “fate questo in memoria di me”, se lo riferiamo alla sua vita e non all’ultima cena, è diventato una meravigliosa realtà. La mia convinzione che nel corso dei millenni il dioBene (piano piano, con alti e molto bassi) prenda il sopravvento sul dioMale, e che il “regno dei cieli” venga (secondo il Pater noster) anche sulla terra (dove evidentemente, secondo Jeshua, ancora non c’era

e non c’è), parrebbe corroborata dal lento cambiamento che la Chiesa ha effettuato negli ultimi due secoli. Niente Parusìa, che invece secondo Jeshua doveva essere imminente, ma faticosa, fa-

ticosissima evoluzione. A papi che accettavano la fucilazione dei “nemici”, o la condanna alla ghigliottina di chi si discostava dal loro pensiero, quali Gregorio XVI?® e Pio IX?! (orrendi omicidi), hanno fatto sèguito personaggi che, sia pure con i loro difetti, si sono rivelati portatori di pace, di alti valori, di spiritualità. Tali sono stati più o meno tutti i papi che si sono succeduti durante la mia vita, a cominciare da Pio XII (Pacelli), che non mi sento certo di condannare a occhi chiusi. Tali sono stati (in particolare, per me) Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I (Roncalli e Luciani).

Ben altro stampo rispetto ai famigerati Alessandro VI o Giulio Il del periodo rinascimentale! Ma che dico? Non si possono dimenticare tanti altri papi fetenti, a cominciare da quelli medioevali per colpa dei quali, dovendoli elencare in una mia recente pubblicazione", temevo di infettare con il loro nome i tasti del mio computer. Perfino (San) Bernardo da Chiaravalle, così magistralmente esaltato da Dante con la sua preghiera alla Madonna, non mi ha certo entusiasmato nelle sue esortazioni ai Templari, molto simili, se non identiche e coincidenti, a quelle odierne della famigerata 239 ce

... Il cui governo s'era caratterizzato per la chiusura netta ad ogni forma di progresso e ispirato alla più dura delle reazioni. I moti rivoluzionari che si succedettero durante il suo Papato furono repressi nel sangue ...” (S. Bellezza, Terni e la Repubblica romana, “Massonicamente” 15, Mag.-Ago. 2019,12 24" Come è noto, Pio IX fu la massima delusione per i liberali italiani, visto che “appariva come il riformatore tanto atteso, il conciliatore tra tradizione e

progresso sociale, l'intermediario tra fede e libertà civili, tra cattolicesimo e democrazia, il creatore della nuova Italia” (Bellezza, ib.)

24! Medioevo di Borgo (Roma 2019)

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“guerra santa” musulmana dell’ISIS. E pazienza se ci sono stati anche ai giorni nostri dei fatti disdicevoli: Giovanni Paolo II che va a beatificare Pio IX! Ma la conosceva la storia? Sapeva chi era costui? Ed anche oggi, papa Francesco, che apre le braccia a tutti (e; sembra, finalmente anche alle donne), ma che rifiuta l’ambasciatore

libanese perché è massone! Incredibile: il rifiuto di chi è fermamente credente in Dio proprio come lui, e che possiede i suoi stessi valori. Rifiuto di una papa che vuole che la Chiesa si apra, come non mai, alla fratellanza, e che quindi, giustamente, accetta tutti e non condanna nessuno (‘Chi sono io per condannare?”), amanti conviventi ed omosessuali compresi. Massoni esclusi. Mi sembra di intravedervi una qual certa ottusa arcaica mentalità contraddittoria. Eh si, il dioBene ne deve fare ancora di strada, tanto più che

certi cardinali (sarebbero i successori degli Apostoli) vivono ancora in superattici di superlusso, anche se pare non si affannino più a trafficare con i soldi sporchi, e la Chiesa abbia smesso con le guerre “sante”, le crociate, gli orrendi delitti, le persecuzioni, le crudeltà inaudite?*. Povero Jeshua! Non credo si sia mai sognato di fondare una “chiesa” come questa. Se l’avesse saputo! Si sarebbe forse accontentato di continuare a mettere, nel pieno anonima-

to, pietra su pietra, come poi hanno fatto gli onesti massoni che lavorarono per costruire immense cattedrali per lui, che però, ne

sono convinto, non le avrebbe mai desiderate?*#. Quanta strada ancora da fare! Ma ce la faremo. Ce la faremo, anche se fra millenni, ed anche se le mie convinzioni su Dio divergono così tanto da quelle dei miei parenti, conoscenti, amici e congiunti (non tutti). Circondato da milioni di persone che credono nella Chiesa, non posso evitare di sentirmi fortemente imbarazzato. Eppure il concepimento divino (che un Vangelo racconta ma poi è tralasciato), il fatto che Dio mandi il Figlio (il Figlio di Dio, ma ci pensiamo? Ci pensiamo all’infinita immensità di Dio? E dunque anche di suo “Figlio”?) a “salvare” l'umanità, dopo mil24 Ma è di questi giorni (Ottobre 2020) la notizia di un Cardinale cacciato

dal Papa per brutte questioni di vile denaro (tanto denaro), con l’incarceramento

eh della sua bella collaboratrice 24 Non dimentichiamo che ci sono stati casi di condanna a morte, a suo

nen tempo, anche da parte di Pietro e di Paolo 24 Una bella battuta al tempo brutto dello IOR: che direbbe Gesù Cristo se entrasse nella Banca Vaticana? Non potrebbe dir nulla, perché non ce lo farebbero nemmeno entrare

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lenni che già esisteva, da chi sa quale peccato di cui questa stessa umanità non ha colpa; il fatto che questa povera creatura (il Figlio di Dio!) finisse fustigata e crocifissa come l’ultimo dei ladroni (immagine orrenda. // Figlio di Dio! Permetterei mai, io semplice uomo banale, che mio figlio faccia quella fine? E sarebbe possibile un Dio padre che sa e che permette che ciò accada a suo Figlio?); che la divinità si sia offerta in sacrificio (ma perché c’è

sempre questa “necessità” del sacrificio?) addirittura a sé stessa (Il Figlio di Dio! Ucciso per soddisfare lui, il Padre del Figlio di Dio!), è storia per me (sia chiaro: per me) talmente assurda, antropomorfizzata, impossibile, leggendaria ed anche arzigogolata, che mi rifiuto di credere a qualsiasi superfetazione sia stata aggiunta ad episodi, questi sì, tristemente veri. Certo che sono veri! In un momento particolarmente difficile per il popolino ebraico, con un re idumeo (perfidi Idumei! Sciacalli di un povero popolo di Giudei quando fu sconfitto da Nabucodonosor II ! ) e l’oppressione romana che già aveva fatto sentire quanto la sua mano fosse pesante (Pompeo), il popolo tramava contro il potere, tanto più che vecchie leggende, utili per tirar su il morale, parlavano di un “unto” (come un re), un Xpwotog che sarebbe arrivato prima o poi a riscattarlo. E tramava di brutto, con i colpi di mano dei partigiani che ogni tanto si facevano sentire, anche con imboscate ed omicidi, di zeloti e sicari con la sica. Uno di questi “partigiani” era probabilmente il “Figlio del padre” (Bar-abba), evidentemente amato dal popolo: sarà stato una specie di “Passatore”, anche se forse poco cortese, come d’altronde non era poi tanto cortese il Passatore stesso (diciamocela tutta?#). Un giovanissimo istruito e futuro “rabbino” (come penso, ma certo con incertezza) uscito dal Tempio, forse istruito da Zaccaria (un sacerdote sicuro di essere stato miracolato e particolarmente legato all’arcangelo Gabriele), suo parente, probabilmente convinto di essere lui l’unto, il Xpwotog, fu poi costretto a fare la vita e l’umile mestiere famigliare, finché, ormai in età non più giovanissima, ebbe l’occasione / la forza / il coraggio(?) di intraprendere la vita del “profeta” (anche di sventure) predicando che presto (ma quando mai?) il “regno dei cieli” sarebbe arrivato anche sulla terra,

FOIS al ° L'episodio di Bagnacavallo fu davvero atroce, stando alla descrizione che ne fece il famoso esperto di cucina Pellegrino Artusi, che ebbe la sventura di viverlo

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compiendo qualche pseudo?-miracolo? per essere più facilmente accreditato, con una mirabile opera fondata sulla misericordia, sull’avversione verso certi poteri, verso la ricchezza e verso l’ipocrisia, facendosi con ciò paladino del popolo e dei poveri, e completamente avulso da ogni forma di politica. Questo “rabbino” si chiamava Jeshua, come un illustre ebreo del passato (Giosuè), ma mi pare che non gli sia mai passata per l’anticamera del cervello l’idea di essere un rivoluzionario patriota, come ha scritto qualcuno. Può essere stato, certamente, un nazireo, ma non uno zelota. Dalla lettura delle sue testimonianze mi pare che risulti invece, indubbiamente, che l’alta missione che si era proposto era quella di ricondurre la gente, nell’ambito ebraico, ad un più vera, autentica, intima, sentita legge di Mosè, senza superfetazioni, paramenti, ipocrisie. Indubbia è stata la sua forza di aggregazione, ma sembra ovvio che sia stato anche frainteso: non ebbe alcun atteggiamento particolare contro i dominatori, come invece ci si aspettava. Ma evidentemente i potenti locali (spesso vittime dei suoi strali morali), in combutta con almeno una parte del Sacerdozio, ha voluto (o fatto finta di) credere alla storia del messia venuto per impadronirsi del (giusto) potere su quella nazione, e divenirne il sovrano. Per questo Jeshua fu catturato e martirizzato, nel peggiore dei modi, dal potere romano. Accusato del tutto ingiustamente di volersi fare re dei Giudei. Jeshua Nazireo Re dei Giudei! Nulla di più falso e di più impossibile. Ben presto fu costruita intorno a lui la leggenda: miracoli (forse anche esagerati ed amplificati), resurrezione dai morti, e tutto un contorno di storie e contro-storie che hanno portato ad evidenti invenzioni, come gli assurdi episodi dell’infanzia della Madonna e di Jeshua stesso, oltre ai fatti accaduti nel corso della fuga in Egitto (ripresi dal Corano), o gli amori con la Maddalena (tutto nei Vangeli apocrifi), o le caleidoscopiche superfetazioni gnostiche: una pletora di interpretazioni diverse, perfino fra gli ] Apostoli, vecchi e nuovi. Sdipanarsene non è facile, come non sarà stato certo facile effettuare, alla fin fine, una scelta che ha portato a tre Vangeli qua24 Tra le ultime pubblicazioni relative ai miracoli di Jeshua cito L.M. Jefin ferson, Jesus the Magician? Why Jesus Holds a Wand in Early Christian Art, 2020 Rewiew” gy “Biblical Archaeolo

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si-simili e comunque strettamente collegati, e ad un altro Vangelo dall’impronta completamente differente e vagamente gnostica. Suscettibili, poi, di chissà quali piccoli interventi e rimaneggiamenti. Tuttavia mi resta l’impressione finale che anche Jeshua fosse alla fine convinto dell’esistenza del dioBene (anche se un po” sconsiderato se manda suo figlio in bocca al carnefice) ed un dioMale che regna sulla terra. Su cui Jeshua non ha certo dubbi: il Male che lo tenta afferma decisamente di essere il padrone del mondo, e di potergli dare qualsiasi cosa del mondo, e lui non lo ha confutato. E d’altronde, quando ha predicato questo “regno dei cieli” (anche lui collocando in alto la divinità) per la verità un po” oscuro, afferma che questo regno “non è di questo mondo”. Allora Jeshua che è venuto a fare? Ovviamente per contribuire a “beneficare” il mondo, per toglierlo dal Male. E difatti nel Pater Noster dice di pregare Dio auspicando che il suo “regno”, così come esiste in cielo, si espanda anche sulla terra. Pure lui, in fondo, pensava a due “divinità” contrapposte, pensava che noi dobbiamo allearci con il Bene e combattere il Male,

anche a costo di rimanerne vittime. RR

Quanto ho scritto è ciò che credo, ma contemporaneamente rimango esterrefatto di fronte alla scelta estrema e totale di chi ha dedicato a Jeshua ed alla religione cattolica la propria vita. Immensa forza della fede. Migliaia di creature. Uomini e donne. Ed infinite rinunce: al benessere, alla buona cucina, agli affetti, agli amici, all’alle-

gra compagnia, al meraviglioso amore terreno. Talvolta anche alla vita. Al loro posto: preti, monaci, suore, isolamento, privazioni, sacrifici, martirio. Perché? Ecco dunque che mi rimane dentro l’angosciosa domanda sull’animo di queste persone. Cosa hanno sentito? In cosa è consistita la “chiamata” che li ha convinti a cambiar vita? Cosa c’è stato dentro il loro animo, che ad un dato momento è esploso, e li ha convinti a credere magari anche a ciò che io penso sia una errata e falsa convinzione? Una specie di estasi? Una catarsi che li ha portati ad un mondo atarassico e superiore? È cos'era quel “Santo Spirito”, che dava forza e coraggio, ma non solo: anche la capacità di guarire gli ammalati, di resuscitare i morti, di parlare improvvisamente le lingue straniere? Fosse stato solo l’episodio della Pentecoste, si potrebbe spiegare: suggestione collettiva. Ma il fatto avviene anche dopo, e più volte (troppe volte) se ne parla negli Atti degli Apostoli. Mistero di questo Saul ben diverso dal re che portava il suo nome. 240

lo non provo nulla e dunque non posso capire. Ma comunque Dio consideri il fatto che con questi Cristiani ci convivo, ovviamente li accetto, e profondamente li rispetto, perché tutti sono i miei fratelli. E sarà anche vero, ed è vero, che le religioni sono l’oppio dei popoli. ma sono anche meravigliosamente positive quando servono a consolare gli afflitti, a dare speranza ai disperati, nuova vita a chi ha l’animo morto, forza imprevista a chi è debole e solo. Chi ha la fede se la tenga ben stretta. A me spiace averla persa. Mi spiace non avere la fede “alla Trilussa”: “Credo in Dio Padre Onnipotente ma ... Hai qualche dubbio? Tientelo per te. La Fede è bella senza li chissà, senza li come e senza li perché”. E soprattutto: Quella vecchietta cieca, che incontrai la notte che mi persi in mezzo al bosco mi disse: se la strada non la sai, ti riaccompagno io, ché la conosco. Se c’hai la forza di venirmi appresso di tanto in tanto ti darò una voce fino là in fondo, dove c’è un cipresso, fino là i cima, dove c'e la croce ...

Le risposi: Sarà ... ma trovo strano che mi possa guidar chi non ci vede ... La cieca, allora, mi pigliò la mano E sospirò: Cammina! — Era la fede.

Purtroppo gli occhi mi si sono aperti, e non sono più cieco. Mi rimane comunque il ricordo legato alle dolci sensazioni delle mie convinzioni passate: lo scampanio festivo in un paese di campagna; il vestito della festa; la nuvola bianca delle bambine alla prima comunione; la macchia rossa di cardinali e vescovi che fuoriesce come

lava da San Pietro, alla fine di una tornata di Concilio; l’orologio del campanile: la Vergine ondeggiante nella processione tra canti, làbari e bandiere: la cotta del chierichetto; l’odore della chiesa; il pranzo dopo la Messa, con il pane bianco forellato di forchetta; il silenzio negli esercizi spirituali; l’incantevole atmosfera di un chiostro; la magnificenza di una cattedrale; la corsa in bicicletta nella bruma oscura, grigia ed umidiccia della Bassa, per fare azione di apostolato fra gli Aspiranti nella squallida stanzaccia di una parrocchia sperduta. Tutto rimasto dentro, succhiato come una spugna, impossibile da espellere. 241

So, con queste mie attuali convinzioni, di dare un dolore a chi mi conosce, e per questo chiedo scusa, anzi perdono. Tuttavia sono un uomo del dubbio, e dunque tutto è possibile: non posso

escludere una mia “conversione” non tanto “alla San Paolo”, ma piuttosto “alla Innominato”. Sono ancora un burattino, e come

Pinocchio posso ridiventare uomo, o meglio (mi piacerebbe) rinascere bambino. Non escludo l’impossibile, e di fronte ad un “non può essere” oppongo, sia pure con riluttanza e dubbi infiniti, un “non si sa mal. Ma non vorrei che, se succedesse, fosse solo per paura, fosse solo per viltà. Anche questo può accadere ad un uomo debole, perché l’uomo può essere debole, molto debole. Di una “conversione” del genere potrei anche essere succube, ma non ne sarei entusiasta. >

Non so, alla fine di questa scrittura, se ho messo sufficientemente in risalto anche ciò che la tradizione ebraica, espressa nella Bibbia (e di conseguenza la “storia sacra” approvata ed adottata della Chiesa) deve alla civiltà mesopotamica. La storia degli alberi divini, proibiti all’uomo, il serpente-drago (evidente simbolo di Marduk), quell’avvenimento drammatico che fu il diluvio “universale”, la crudele sensazione che l’uomo un giorno remoto ha peccato, e deve essere dunque o redento o punito, sono tutti miti che gli Ebrei, deportati a Babilonia nel VI secolo a.C., hanno tratto da quelli babilonesi. Va ricordato che la stessa Bibbia narra che Nabucodonosor II volle che una élite di Ebrei imparasse le lingue locali. Ne è inoppugnabile prova la parola sumera eden, il cui significato è stato ignoto fino alla decifrazione del cuneiforme, e

che purtroppo anche ora è fraintesa?*. Naturalmente le cose non finiscono qui, perché i precetti fondamentali delle leggi mosaiche sono anche quelli contenuti nelle

27 Sul fatto che il serpente fosse in realtà un drago, e che questo drago corrispondesse a Marduk, sono costretto a rinviare al mio già citato Genesi, e me ne scuso. °* Un odierno programma televisivo, dedicato alle bellezze del creato, si chiama Eden, che è invece tutto l'opposto di queste bellezze (il termine è sumero ed indica la terra ancora incolta e deserta, mai toccata dalla mano dell’uomo, la steppa dentro la quale fu posto da Dio il “paradiso terrestre”). Un ulteriore indizio sulla conoscenza (questa volta imperfetta) del sumero da parte dello scrittore ebreo potrebbe essere rinvenuto nella parola “costola”, presente nello stranissimo episodio della creazione della donna: potrebbe esserci stato un fraintendimento, dato che in sumero la parola per “spirito vitale”, “vita” (ti), significa anche “costola”.

242

leggi mesopotamiche. E va bene. Ma tra questi, purtroppo, c’è anche la cosiddetta “/egge del talione”, che personalmente reputo un mostro giuridico. Sotto certi aspetti, e soprattutto attraverso la Bibbia, anche il Cristianesimo risente di tutto questo, intriso com'è di storia sacra, di alberi divini, del diluvio, della punizione dell’uomo, di Abramo e di Davide antenato di Jeshua. Jeshua era un ebreo, e non poteva essere altrimenti. E così che nelle chiese si sentono i salmi salmodiati, ed i dieci

comandamenti comandati. Tutta roba ebraica, trasfusa nel Criche tanto stianesimo. E dunque anche un po’ di mesopotamico, ha influito sull’ebraismo, spunta anche nel Cristianesimo. E chissà (chissà!) che la mentalità sumero-accadica, che vedeva, prima

di quella specie di monoteismo costituito da Marduk, una triade divina, non possa essere considerata un po’ come una primitiva arcaica barbarica anticipazione della “divina Trinità”. Anche gli Assiri ed i Babilonesi credevano, avevano una “fede”, anche intensa, come la nostra, anche profonda come la nostra. Solo

che credevano (come noi?) a degli dèi che non esistevano. E l’oltretomba? Il luogo dove le povere anime immortali erano condannate a soffrire, mangiando fango nel ricordo di quando, legate all’argilla, erano “uomo”, con le ali come gli uccelli, tese a salire nell’alto dei cieli ma tarpate dalla prigione sotterranea, erano diventate nel mondo ebraico un luogo non particolarmente diverso. C’era pure qualcuno (i Sadducei) che non credeva alla

sopravvivenza immortale dell’anima. Il Cristianesimo parla di un “paradiso” (cioè “giardino” con il significato di “frutteto”, rifacendosi al “paradiso terrestre”, in ultima analisi agli alberi divini della religione mesopotamica) e di “inferno” (il cui significato primigenio era semplicemente “sottoterra”. Anche i minatori sono “inferi”, ma per ciò stesso non hanno mai avuto, evidentemente, la condanna divina,).

Questa distinzione c’è nelle parole di Jeshua, che da una parte dice di un luogo celeste, dove il Padre regna e premia; dall’altra parla di un luogo di punizione, dove si soffre. Lasciamo stare ilpurgatorio, immaginario luogo di depurazione, ed ancor più il limbo, ennesimo frutto della capacità inventiva dell’essere umano. Sarà così? Nessuno è tornato a dircelo. Né sappiamo nulla della presunta resurrezione dei morti (c’è nel “Credo”) né del giudizio universale, previsto da Jeshua: tutto un immaginario futuribile. Ma bisogna riconoscere che di fronte ad una Inanna violentata 243

e un po’ ninfetta, ad una Tiamat ed un Enlil che vogliono dormire in pace e per questo producono sfracelli alla disgraziata umanità, ad un Enki che si ubriaca, a divinità antropomorfe che combattono nella guerra di Troia, ad uno Zeus che usa la sua capacità tra-

sformistica (aquila, toro, cigno, pioggia d’oro o quant’altro) per portarsi a letto chi gli piace, donne e giovinetti, molto è cambiato, ed è cambiato in meglio. Zarathustra, Jeshua, Maometto, e non solo loro, hanno vera-

mente fatto della religione una religio fra terreno e divino. Ma sarà vero? Sarà falso? Esiste davvero Dio, sia pure enormemente, incredibilmente, incommensurabilmente diverso da come ce lo

siamo immaginato? E perché Lui, e non altri? E cosa ci aspetta? Io credo nell’esistenza di Dio, certamente (sono massone), tuttavia non ho la fede, ma solo la speranza, che alla fine ci sia

Qualcuno che usi, nei miei confronti, la carità. Che perdoni i miei debiti molto più di quanto perdoni io i miei (odiosi e fetenti) debitori. E che alla fine, contro ogni senso di giustizia umana, si

faccia una festa anche per me. Una gran festa. Una festa infinita. Jeshua ne sarebbe contento.

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BIBLIOGRAFIA

ESSENZIALE

Su ogni composizione mesopotamica esistono bibliografie specifiche, che vanno dal testo cuneiforme a trascrizioni, traduzioni e

commenti. Oltre alla citazione della (in genere) prima pubblicazione (citazione che ho riportato nel testo) tutte le altre notizie bibliografiche si potranno trovare nelle opere indicative che riporto qui sotto. M.G. Biga - G. Capomacchia, // Politeismo vicino-orientale. Introduzione alla storia delle religioni del Vicino Oriente antico (Roma 2008). J. Bottéro, Mvytes et rites de Babylone (Paris 1985). J. Bottéro - S.N. Kramer, Lorsque le dieux faisaient l'homme. Mvythologie mesopotamienne (Paris 1989). Ed. italiana: Uomini e déi della Mesopotamia. Alle origini della Mitologia (Torino 1992). G. Castellino, Testi sumerici e accadici (Torino 1977). S. Dalley, Myths from Mesopotamia (Oxford 2000). B.G. Foster, Before the Muses. An Anthology of Akkadian Literature (Bethesda 1993). G. Furlani, Miti babilonesi e assiri (Firenze 1958).

P. Jensen, Assyrisch-Babylonische Myten und Epen (Amsterdam 1970). W.G. Lambert, Babylonian Creation Myths (Winona Lake 2013) J.J.W. Lisman, Cosmogony, Theogony and Anthropogenv in Sumerian Texts (Minster 2013) G. Pettinato, Mitologia sumerica (Torino 2001). C. Saporetti (a cura di), / miti della creazione nel Vicino Oriente Antico. Secondo Incontro Interdisciplinare Mesopotamico, Camaldoli 14-15 Ottobre 1982, “Geo-Archeologia” 19841 [testi di G. Pettinato, L. Cagni, E. Bresciani, L. Troiani, G. Castellino]

245

INDICE DELLE COMPOSIZIONI MESOPOTAMICHE?"9 Agricoltura dopo il diluvio

95

Amore e sesso 1e 2 105 Anu prima di tutto 105 Assassinio di Ansar 53 nota 38

Atra-hasis / Il Grande Saggio 74 Ballata di Inanna 190 Bisticcio degli amanti 140 Breve sequenza di dèi 107 Canto di Inanna 190 Carestia degli dèi 100 “Codice” di Hammu-rapi 51 Compianto per la morte di Dumuzi

164

Creazione dell’uomo (KAR 4) 89 Creazione eblaita 107

Demoni sconvolgono il mondo 126 Dialogo del Pessimismo 36 Diluvio sumerico 104 Enki/Ea ordinatore delle cose 68 Enki e Ninmah 84 Enlil separatore 107 Enuma Anu Enlil Ea _74 Enuma-eli3 50 Esaltazione di IStar/Inanna 74,189 Etana 133,226 Fiume creatore 98 Fondazione degli abitati 104 Formulario accadico 68 Furia della pianta sumunda 179 Ghilgames Enkidu e gli Inferi 38,99,134 Ghilgameì e il Toro celeste 174 Grande Inanna 190 Grande inno a IStar 190

29 Sono eliminati gli articoli determinativi

247

Grande preghiera a IStar Grandezza di IStar 192 Inanna e Bilulu

191

165

Inanna si impadronisce del Cielo 189 Inanna e Dumuzi 183 Inanna ed Ebih 176 Inanna gli Inferi 140 Inanna e ISme-Dagan/Dumuzi 195 Inanna e la Montagna sacra 131/ Inanna e Sukalletuda 179 Inno bilingue 191 Inno a Inanna e ISme-Dagan 196 Inno a Inanna di Ur-Ninurta 197 Inno a IStar 189 nota Introduzione dei cereali 94 Invenzione della zappa 92 Iscrizione di Kudur-Mabuk 74 Istar agli Inferi 142 Istar non si stancà 175 Istar si presenta 191 Istruzioni di Suruppak 212 nota Lamentazione di Inanna 179 Lamenti su Tammuz 167 Leggenda di Sargon 193 Lenzuola della dote di Inanna 140 Lista reale sumerica 133 Liste di divinità 182 Liturgia di Inanna a Isin 194 Liturgia di Ur-Ninurta per Inanna 197 Lugalbanda e Hurrum 102 Marduk creatore 70 Mito di Dilmun 229 Mito di Dunnu 87 Morte di Ghilgames 162 Nascita del dio Luna 103 Nergal ed Ereskigal 132, 145 nota, 153,156 nota Ninurta e le pietre 188 nota Omaggio di ISme-Dagan a Inanna 196 Poema di Ghilgame3

20, 39, 42, 78, 82, 91 nota, 160, 171, 199,

201, 226, 147 nota Preghiera a IStar contro la magia 248

192

Preghiera liturgica 68 Preghiera di Nabonedo 193 Preghiera per la costruzione di un tempio Prima degli dèi 106 Salmo penitenziale a IStar 193 Scongiuro a Samas 73 Sogno e morte di Dumuzi 163 Statua di Kurigalzu 74 Supplica a IStar 192 Tenzone fra Albero e Canna 100 Tenzone fra Cereale e Bestiame minuto Tenzone fra due animaletti 73 Tenzone fra Estate e Inverno 101 Tenzone fra Palma e Tamerice 101 Tenzone fra Uccello e Pesce 95 Teodicea babilonese 192 Testo accadico di Ur (sugli Inferi) 41

Trattato di Astrologia 72 Verme del mal di denti 97 Viaggio di Enki a Nippur 98 Viaggio di Inanna a Eridu 137

249

70

93

Hob STORIE DI VITA ED ESPERIENZE CLAUDIO SAPORETTI

I SOGNI DEGLI ANTICHI PAGINE: 292 ISBN: 978-88-6496-402-7 Euro: 25,00

Nel mondo antico sognare era uno dei tanti modi per tentare di conoscere il volere delle divinità bed CLAUDIO SAPORETTI e la storia futura: proprio come I SOGNI DEGLI ANTICHI studiare l’eterno ruotare degli La Mesopotamia e i popoli vicini astri, esaminare il volo degli ugcelli, scrutare le viscere di una vittima. Quest’opera distingue, con dovizia di particolari e acume filologico, tali varie categorie; ne scaturisce un mondo che si agita nel sottofondo; interpreti, sovrani, divinità ed eroi, protagonisti della storia e della letteratura. In primo piano sono gli esempi provenienti dalla Mesopotamia, comprensivi delle testimonianze sumere e assiro-babilonesi. A essi ne sono aco: Ittiti, costati altri. scelti dalla letteratura di vari popoli del passat più greco mondo dal Egizi, Ugaritici, Ebrei fino ad alcuni casi tratti à, le affinit ma antico. Se ne potranno osservare, di conseguenza, peculiari che li anche le profonde differenze, a rimarcare i caratteri hanno contraddistinti.

251

Finito di stampare nel mese di marzo 2021 presso Creative 3.0 Reggio Calabria

Inanna, la grande dea sumera divenuta l’accadica Istar, è stata

da una parte l’erede della “grande madre”, divinità preistorica della procreazione, dall'altra l’antenata di Afrodite/Venere, dea

dell’amore e della bellezza femminile. La sua figura è cambiata e alterata nei secoli, ma

è rimasta

esempio

e simbolo

della

femminilità, in tutte le sue forme, anche negative. L’autore ne tratteggia gli aspetti attingendo a una scelta di composizioni mesopotamiche che la riguardano e inquadrandola in una “carriera” che la dea ha percorso pet raggiungere il suo ambizioso scopo finale. Ma contemporaneamente ne ha tratto spunto per un parallelo tra il partbeor Mesopotamico e i sentimenti religiosi contemporanei.

Claudio Saporetti (Fidenza 1938) ha insegnato Assirologia nelle Università

Dirigente

di Pisa, Viterbo,

di Ricerca

Heidelberg,

al CNR.

Milano

Commendatore

e Roma.

al Merito

Già

della

Repubblica, più volte Paul Harris Fellow del Rotary International,

vincitore del Premio Le Muse per la storia (2014), eletto “Fidentino dell’anno” nel 2019. Direttore della rivista «Geo-Archeologia», ha

scritto oltre 300 contributi scientifici e una ottantina di libri. Con Tipheret ha pubblicato: I/ prizzo volo dell'uomo e altre storie della Mesopotamia (2015), Abramo (2016), Genesi. Dalla Luce all'Arca (2016), Sennacherib e la Bibbia (2018), Tre anni da Oratore nella RL. Acacia 669 all'Oriente di Roma (2018), I sogni degli antichi. La Mesopotamia e ipopoli vicini (2019), Pensieri su Salomone (2019), Miti paralleli (2020). Si è occupato anche di arte medioevale, di Ciprominoico e di Archeologia greca. Gli è stato conferito dal Ministero degli Esteri l’incarico di catalogazione e riproduzione virtuale dei reperti dell’Iraq Museum di Baghdad.

€ 25,00

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