La biografia 887870279X, 9788878702790

Cos'è una biografia? Può rientrare nei generi letterari? Esistono vari tipi di biografie. Si va dalla biografia del

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La biografia
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STUDI DI LETTERATURE COMPARATE Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Francesco Fiorentino

(seconda serie) 2

I LIBRI DELL’ASSOCIAZIONE SIGISMONDO MALATESTA

A. ANDREOLI, M. BONGIOVANNI BERTINI, J. CANAVAGGIO, A. COMPAGNON, L. CORTI, C. FRUGONI, A. GURR, F. ORLANDO, V. PAPETTI, P. PUGLIATTI, A. VARVARO

La biografia

a cura di CHETRO DE CAROLIS

BULZONI EDITORE

©

Associazione Sigismondo Malatesta http://www.sigismondomalatesta.it TUTTI I DIRITTI RISERVATI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-279-0 Per la presente edizione © 2008 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

La biografia

INDICE

Introduzione di Chetro De Carolis

p.

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CHIARA FRUGONI Francesco d’Assisi nei prologhi delle due biografie di Tommaso da Celano ........................................................................................................................

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49

L AURA CORTI Giorgio Vasari: dar vita alle Vite

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JEAN CANAVAGGIO Raccontare Cervantes: le scelte del biografo ..........................................

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ANDREW GURR Shakespeare e la biografia

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111

VIOLA PAPETTI Effetti di reale nella biografia settecentesca: il caso JohnsonBoswell ..........................................................................................................................

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ANTOINE COMPAGNON «Se revancher à coups d’intelligence»: sul Proudhon di SainteBeuve ..............................................................................................................................

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139

MARIOLINA BONGIOVANNI BERTINI Tra Freud e Sainte-Beuve: il Proust di George D. Painter

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177

ALBERTO VARVARO Guillaume le Maréchal rivisitato

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INDICE

ANNAMARIA ANDREOLI La superbiografia di Gabriele d’Annunzio PAOLA PUGLIATTI 1882-1941: le vite di James Joyce

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p. 193

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FRANCESCO ORLANDO Fra la persona e il testo: contesti, allusioni, reticenze, trasfigurazioni ....................................................................................................................

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Nota bibliografica

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INTRODUZIONE

È sempre difficile costringere un genere letterario in una definizione, anche nel caso apparentemente semplice e scontato della biografia. Volendo tentare, la si potrebbe definire così: la narrazione della vita di un personaggio (illustre) realmente esistito (dalla nascita alla morte). Se è quasi incontestabile che la biografia è sempre una narrazione, in prosa o in versi, e sempre quella della vita di un personaggio storico, le parentesi servono a tener conto delle deviazioni che essa ha subito nei tempi più recenti: da una parte la scelta del soggetto non è più necessariamente dettata dal riconoscimento collettivo dei suoi meriti o per lo meno della sua eccezionalità, positiva o negativa, a vantaggio dell’elezione di individui sconosciuti, medi o al massimo «ordinariamente eccezionali»; dall’altra, alla trattazione dell’intero ciclo vitale si alterna la concentrazione sul frammento illuminante – che sia il «biografema» di Barthes, oppure il momento epifanico in cui il protagonista conosce il suo destino, come in Borges 1. Ancor più problematico può risultare l’inserimento della biografia nella categoria dei generi letterari. Il fatto che il suo oggetto sia un personaggio realmente esistito, che l’autore si impegna a raccontare nel rispetto della verità, la inserisce infatti nell’ambito della storia. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, e a prescindere dalla qualità della singola opera, la biografia offre una «rappresentazione» della vita di un dato individuo storico secondo i codici (o per lo meno alcuni dei codici) convenzionali della letteratura 2. Pensiamo in 1

Ciò non vuol dire che le modalità di elezione del soggetto biografico e la scelta dell’unità di misura del bios siano rimaste invariate da Plutarco al secondo Novecento: secondo M. Fumaroli, è proprio la trasgressione di certe «regole» a segnare nel XVII secolo il passaggio dalla biografia antica a quella moderna (cfr. M. FUMAROLI, Des «Vies» à la biographie: le crépuscule du Parnasse, in «Diogène», 139, juillet-septembre 1987, pp. 3-30). 2 Mi piacerebbe a questo punto poter rinviare alle più recenti riflessioni di Francesco Orlando, per ora espresse in pubblico solo oralmente, sui legami in let-

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particolare alla centralità che vi assume la figura del personaggio. Se, come afferma Genette, il racconto di cose vere dovrebbe escludere l’accesso diretto alla soggettività altrui poiché ciò implica necessariamente una parte di invenzione, la biografia entra nel campo della finzione in quanto il personaggio, al di là dei dati fattuali, è spesso indagato introspettivamente in modo non diverso da come avviene nel discorso fittizio 3. Si tratta perciò di un genere ibrido che, se non può considerarsi mera letteratura, al contrario della storia vera e propria non esula da contatti con l’immaginario; e questo sin dal IV secolo a.C., quando la neonata biografia «arrivò a occupare una posizione ambigua tra realtà e immaginazione» 4. Durante tutto il XX secolo e in particolare negli ultimi trent’anni, la biografia è stata oggetto di numerosissimi studi di taglio diverso, da monografie di carattere generale a saggi centrati su aree linguistico-culturali o periodi storici determinati; a essa sono stati consacrati numeri monografici di riviste di differenti aree scientifiche e opere collettanee dai più diversi approcci. Tra le riflessioni più articolate e che più hanno segnato la critica, emerge quella di Daniel Madelénat: il suo volume La Biographie (1984) 5 costituisce uno dei primi tentativi di proporre una periodizzazione distinguendo tre epoche principali alle quali corrispondono tre rispettivi canoni. La «biografia classica» – che va dall’Antichità alla prima metà del XVIII secolo ed è rappresentata principalmente dalle Vite degli uomini illustri di Plutarco – è volta a illustrare, secondo un certo ordine retorico, il carattere esemplare della vita in questione, anche a discapito della singolarità personale. La «biografia romantica» (dalla fine del XVIII secolo all’inizio del XX) intende offrire una rappresentazione autentica del personaggio, confortata da testimonianze attenteratura tra mimesi e convenzione e sulla impossibilità che la prevalenza in una data opera di uno dei due elementi escluda l’altro. 3 G. GENETTE, Fiction et diction, Éditions du Seuil, Paris 1991, passim. In questo volume il problema del carattere ibrido del discorso biografico, compreso il rinvio a Genette, è trattato nella sua complessità nella prima parte della relazione di Paola Pugliatti (cfr. infra, pp. 203-206). 4 Cfr. A. MOMIGLIANO, Lo sviluppo della biografia greca, Einaudi, Torino 1974, p. 49. 5 D. MADELÉNAT, La Biographie, PUF, Paris 1984.

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INTRODUZIONE

dibili, e allo stesso tempo un ritratto totale che riveli anche l’intimità. La «biografia moderna», infine, da una parte si dà nuove norme di oggettività e dall’altra si avvale – nelle modalità di conoscenza, nelle finalità e nel tipo di scrittura – degli apporti delle scienze umane. Tra gli sviluppi del lavoro di Madelénat, segnaliamo il più recente – Le Pari biographique di François Dosse (2005) – che, attraverso un percorso un po’ differente, identifica tre approcci biografici solo in parte riconducibili a momenti storici definiti: se nel genere «eroico» ritroviamo la finalità della biografia classica di Madelénat, quella cioè di trasmettere alle generazioni seguenti valori edificanti, la «biografia modale» (ancora oggi in voga) darebbe invece valore all’individuo soltanto nella misura in cui questo è suscettibile di illustrare in un dato momento storico il comportamento medio delle categorie sociali al quale appartiene; in questo caso il singolare avrebbe rilievo solo in quanto esemplificazione del generale. Infine, la biografia «ermeneutica» (tipica del ’900) coinciderebbe con un ritorno dell’interesse per la singolarità e con la trasformazione del genere biografico in direzione di un approccio più riflessivo 6. Nel panorama degli studi, il presente volume – che raccoglie gli atti del Colloquio malatestiano di letteratura La biografia (Santarcangelo di Romagna, 27-28 maggio 2005, a cura di P. Amalfitano, F. Fiorentino e L. Innocenti) – si segnala per il carattere problematico di molti dei contributi i quali, a partire da casi particolari, conducono a riflessioni più ampie sul genere biografico, con posizioni e approcci anche molto diversi tra loro che hanno dato luogo a vivaci dibattiti interessanti e costruttivi. La maggior parte dei contributi (qui presentati in ordine cronologico rispetto al biografato) è dedicata a biografie di scrittori, il che ci induce ad accennare a una questione che riteniamo preliminare. Chi tratta della vita di uno scrittore è infatti continuamente esposto alla tentazione di utilizzare l’opera come fonte della biografia, di confondere l’immaginario col vissuto. Niente introduce e al tempo stesso liquida meglio la questione del saggio di Francesco Orlando. La sua premessa, che supera in buon senso tutte le passate disquisizioni, con le sue stesse parole è rias6

F. DOSSE, Le Pari biographique. Écrire une vie, Éditions La Découverte, Paris 2005.

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sumibile così: «da una parte, il testo trascende, sostituisce, smentisce, abolisce la persona d’autore; d’altra parte però sta in intimo e profondo rapporto col mondo, lo guarda, lo rivela, lo interpreta. Non è quindi affatto autoreferenziale, ma è sì autosufficiente» (p. 227). Lo studioso si dedica quindi ad alcuni «casi di confine», la cui natura problematica è legata alla presenza di evidenti «residui» di vita rimasti nell’opera durante la sua genesi, prima che essa arrivasse a «trascendere, sostituire, smentire, abolire la persona d’autore». È nel trattare Shakespeare che la teoria di Orlando assume una chiarezza illuminante. Prendendo a esempio due versi del Sonetto 112 («Your love and pity doth the impression fill / Which vulgar scandal stamped upon my brow»), egli afferma: Mi sembra difficile contestare separatamente ciascuna delle tre affermazioni seguenti, sebbene mi renda conto di quanto è paradossale ammettere contemporaneamente la verità di tutte e tre: 1) questi versi non possono non alludere a una qualche tragica e contingente esperienza precisa; 2) l’esperienza a cui essi alludono è, e di sicuro resta per sempre, non precisabile; 3) per subire o patire o godere la potente espressività dei versi, quell’esperienza è, ed è sempre stata, non necessaria da precisare. In altre parole il testo si presenta insieme, inestricabilmente, lacunoso nel senso e autosufficiente così com’è (p. 231).

Lungi dall’essere paradossale, la verità delle tre affermazioni nel loro insieme potrebbe servire da guida rassicurante tanto all’interprete di un testo letterario quanto, in controluce, all’autore di una biografia che si trovi alle prese con un simile groviglio tra vita e opera 7. Al di là di questo punto capitale, ci sembra che due siano i fili conduttori che attraversano le riflessioni dei relatori. Il primo si lega al reperimento delle informazioni sul biografato; il secondo riguarda 7 Oltre che nel saggio di Orlando, il problema del rapporto vita/opera viene qui trattato sporadicamente anche da altri autori; in particolare da J. Canavaggio che nel mettere in guardia contro la confusione tra «biografia» e «letteratura di finzione» mostra la parziale indeterminatezza del confine tra vita e creazione, e da P. Pugliatti che, tra le altre cose, si interroga sul «conflitto archetipico tra opera e vita» rinviando alle riflessioni di James Hillman.

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INTRODUZIONE

l’uso che di esse viene fatto e dunque l’approccio adottato dal biografo e il fine che questi si propone.

1. La fase della raccolta dei dati costituisce la prima parte del lavoro del biografo, su questo piano assolutamente assimilabile allo storico. A prescindere dal modo in cui se ne servirà, egli deve verificare l’affidabilità delle fonti. Il punto è dunque fondamentale e infatti viene toccato, anche solo marginalmente, in tutti i saggi qui raccolti; a cominciare da quello di Laura Corti che mostra, con l’esempio di Vasari, come un’opera biografica possa superare i suoi modelli anche per il modo in cui l’autore mette al vaglio e verifica metodicamente le notizie che vi attinge. In alcuni interventi, tuttavia, la questione è posta in primo piano in relazione alle specificità delle biografie prese in esame. La scarsità di notizie accertate riguardo al biografato risulta un ostacolo oggettivo in quanto nega in partenza al biografo ogni illusione di esaustività, ma anche soggettivo nella misura in cui spesso conduce al pregiudizio. A questo proposito, di indubbio interesse è la relazione di Jean Canavaggio, biografo di Cervantes. Egli evidenzia come la storia delle biografie cervantine, al di là di pregi e difetti di impostazione legati all’appartenenza a determinate epoche e a determinati canoni, sia inficiata dalla presenza di una certa quantità di «leggende» inventate al fine di colmare il difetto d’informazione. A distanza di una ventina di anni dal suo Cervantès (1986) – che incorporava l’apporto di tutta la più rigorosa critica cervantina – Canavaggio propone ai suoi eventuali successori alcune linee guida al fine di creare una nuova base oggettiva da cui ripartire. Le osservazioni dello studioso risultano utili non limitatamente al caso di Cervantes, ma anche nella più ampia riflessione sulla biografia tout court, sul metodo da adottare, sui rischi dell’interpretazione in mancanza di dati provati. A questo proposito, l’approccio di Canavaggio si differenzia da quello di altri cervantisti per la decisione, assolutamente condivisibile, di evitare illazioni quando non si abbiano a disposizione elementi accertati su cui basarsi, anche a costo di non prendere posizione su questioni importanti (quale, per esempio, il cristianesimo di Cervantes).

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Se la vita di Cervantes appare cosparsa di buchi neri, le notizie sicure su William Shakespeare sono così irrisorie da rasentare il mistero. Questa esiguità delle informazioni unita al loro contenuto che ci presenta l’uomo come un paesano emigrato a Londra e privo di istruzione, ha portato, come si sa, a mettere addirittura in discussione la paternità dell’opera. Il problema è stato per decenni al centro dell’interesse di moltissimi studiosi e non, i quali non hanno risparmiato supposizioni di ogni genere spesso prive di fondamenti oggettivi. Andrew Gurr torna sul suo noto articolo del ’71 in cui prendeva posizione in favore dei sostenitori della paternità dell’opera a partire dalla presenza di un dato verosimilmente biografico nel Sonetto 145, sottolineando quanto ancora oggi nella critica shakespeariana regni il pregiudizio personale e come le congetture predominino troppo spesso sulle letture e sul posto concesso ai pochi fatti concreti. Inevitabile il sentimento di frustrazione su cui si chiude il saggio: «In fin dei conti, quello che dimostrano i numerosi tentativi di scrivere biografie di Shakespeare è quanto l’autore, e forse ogni autore, sia sfuggente» (p. 122). Laddove ci sia carenza informativa, sembra dunque frequente la tendenza del biografo alla supposizione, alla congettura, se non all’invenzione. Meno ce la si aspetterebbe nei casi in cui ci sia addirittura una profusione di dati; eppure non è rara. Viola Papetti tratta di Samuel Johnson, personaggio su cui si sa tutto, nei minimi dettagli, poiché lui stesso fornì il materiale ai tanti suoi potenziali biografi. Qui la sovrabbondanza di notizie, dovute eminentemente alle testimonianze, ha determinato una proliferazione di aneddoti, spesso altresì inventati. Già durante la vita del Dottore: «certi episodi, certe conversazioni vengono ripetute e variate al punto che lo stesso protagonista non ricorda più esattamente come siano andate le cose» (p. 128), figurarsi dopo la morte. Arduo fu il compito del più noto dei suoi biografi, James Boswell, a lungo impegnato oltre che a organizzare annotazioni e trascrizioni di discorsi di Johnson da lui personalmente accumulate, anche a raccogliere e vagliare la mole sterminata di materiale originale e fasullo che continuò a ricevere negli anni seguenti la scomparsa del Dottore, materiale di cui, assicurata la veridicità, non intendeva lasciare inedito neanche un atomo. In questo intento, Boswell raccolse la lezione del Dottore che negli an-

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INTRODUZIONE

ni Cinquanta aveva pubblicato un breve scritto teorico sulla biografia: sulle orme di Plutarco, vi sosteneva l’importanza della minutia, dell’accidente invisibile, al fine di «portare all’esterno l’interno, il mondo psichico interiore del biografato alla scrittura» (p. 134). La sovrabbondanza delle notizie caratterizza molti casi di personaggi che già in vita assumono un’autorità o un’aura tale da destare curiosità per il loro vissuto e stimolare vuoi la raccolta di dati biografici da parte di altri, vuoi la loro diffusione da parte del soggetto stesso quando questi abbia un adeguato senso del protagonismo. Allora la difficoltà del biografo sta nel sapersi staccare dall’immagine più stereotipata del personaggio, spesso coincidente con quella che lui stesso vuol dare di sé prediligendo la divulgazione delle informazioni che più servono ad accreditarla e a preservarla. Su questo aspetto si sofferma Annamaria Andreoli, biografa di Gabriele D’Annunzio. L’attendibilità delle fonti sulla vita del Vate è maggiore di quella relativa a Samuel Johnson giacché si dispone non solo di testimonianze bensì di una esorbitante massa di documenti conservati sin dalla sua adolescenza: abnormi carteggi (sentimentali, famigliari, con amici, con editori, con bibliotecari); registri dei debiti, soprattutto presso i librai; atti processuali; resoconti delle sue imprese di guerra. Tuttavia, come dicevamo, un pur fortunato biografo alle prese con la ricostruzione di una vita così oggettivamente documentata dovrà affrontare, insieme al problema della selezione delle informazioni, quello della ricostruzione di un’immagine meno convenzionale e più autentica del personaggio. Al di là della quantità delle notizie tramandate, dunque, centrale resta il problema dell’oggettività delle fonti. L’argomento viene affrontato in modo approfondito nel saggio di Paola Pugliatti. Dopo aver trattato la già accennata questione della componente letteraria del genere biografico, la studiosa si concentra sulle connessioni tra biografia e storia: il biografo, come lo storico, non solo deve dire il vero ma deve anche «dimostrare» di dire il vero, provando, secondo il concetto formulato da Le Goff, il proprio «impegno di erudizione». A questo fine il documento è una fonte preferibile alla testimonianza: «il testimone oculare dei fatti propone ciò che è stato definito “rappresentazione debole”, contro la “rappresentazione forte” costituita dalla prova documentale» (p. 208). È a partire da questo pre-

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supposto che Pugliatti esamina tre biografie di Joyce redatte da autori diversi a distanza di alcuni decenni (H. Gorman, 1939; R. Ellmann, 1959; J. McCourt, 2000), rilevando, parallelamente all’allontanamento dagli eventi, una trasformazione del metodo biografico sempre più rivolto alla costruzione di «una storia indiretta e cartacea, che punta più sui documenti impersonali che sulla testimonianza personale» (p. 207). Paola Pugliatti non manca di riflettere sullo sviluppo dell’uso che delle informazioni raccolte in un modo o nell’altro viene fatto dagli autori, e dunque di esplicare gli stretti legami esistenti tra la questione delle fonti e quella dell’approccio e dell’obiettivo del biografo, che costituisce il secondo ordine di problemi emersi in questo convegno.

2. Spesso infatti il biografo ha un fine che va oltre l’illustrazione oggettiva della vita trattata. I casi possono essere diversissimi, e sono in parte riconducibili alle linee epistemologiche correnti. Sulla finalità cui mira quella che Madelénat chiama «età classica» – e cioè dare un esempio di vita che induca alla virtù – è eminentemente imperniata l’agiografia. Attraverso il caso di s. Francesco d’Assisi, Chiara Frugoni mostra quanto in questo sottogenere biografico la verità sia subordinata al fine dell’esemplarità. Mettendo a confronto due biografie ufficiali scritte a distanza di quindici anni da Tommaso da Celano, osserva evidenti contraddizioni dovute a modifiche inserite non grazie al reperimento di nuove o più certe informazioni sul santo, bensì in vista di aggiornare la sua immagine alla mutata realtà storica. Tali incoerenze, in due opere di uno stesso autore che garantisce entrambe le volte di rispettare fonti verificate e testimonianze fondate, le offrono motivo di riflessione sull’attendibilità delle biografie medievali. L’attendibilità è sempre compromessa quando la funzionalità ideologica di un’opera biografica prevale sul rispetto della realtà storica del personaggio (altro problema condiviso da biografia e storia). Questo approccio ha mostrato spesso i suoi esiti negativi in quella che Dosse chiama «biografia modale», come risulta con evidenza nel saggio di Alberto Varvaro. Lo studioso attira l’attenzione sull’uso che alcuni biografi novecenteschi hanno fatto dell’Histoire de Guillau-

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INTRODUZIONE

me le Maréchal (1226 circa), principale benché non unica fonte d’informazione su questo personaggio. Sia nell’opera di S. Painter (1933), sia in quella di G. Duby (1984), Varvaro rileva alcuni errori di prospettiva ascrivibili proprio all’ideologia alla base dei due diversi approcci. In linea piuttosto con la terza biografia presa in esame, quella di D. Crouch (1990) dal taglio storiografico pragmatico, lo studioso contesta sia a Painter sia a Duby il fatto di aver trattato Guglielmo il Maresciallo quale mero rappresentante della condizione cavalleresca del suo tempo, trascurandone alcuni tratti caratteristici (e anche la natura letteraria dell’Histoire) per valorizzare solo ciò che è funzionale al loro proposito. Altro scopo di un’opera biografica può essere semplicemente quello di costruire o mantenere intatta l’immagine sublimata di un personaggio cui il biografo sia idolatricamente attaccato, e ciò di nuovo a scapito dell’affidabilità. Questa intenzione può scontrarsi con il tentativo altrui di darne una rappresentazione più vicina alla realtà, come emerge dal saggio di Mariolina Bertini. Tale è infatti la situazione che si presenta quando la critica proustiana «ortodossa» respinge vigorosamente il Proust di G. D. Painter (1959-1965), frutto di diciott’anni di lavoro di spoglio di un’enorme mole di memorialistica e di epistolari, che offre per la prima volta una ricostruzione sistematica di tutta la vita del romanziere. Ripercorrendo le reazioni favorevoli e sfavorevoli dei vari studiosi, Mariolina Bertini fa emergere i diversi approcci alla biografia che all’epoca si facevano concorrenza: dalle posizioni di Barthes a quelle di Godard, di Tadié e soprattutto dei proustiani «ufficiali» i quali accusarono Painter di aver denigrato il genio di Proust, per aver osato portarne alla luce dei lati bui della personalità: nevrosi, tormenti, drammi psicologici irrisolti capaci di intaccarne quell’immagine spiritualistica e magnificata che essi avrebbero voluto difendere. A determinare la finalità di una biografia può essere altrimenti il rapporto che il biografo intrattiene col biografato. La scelta di illustrare la vita di un dato personaggio si può imputare alle più svariate cause: motivi di studio, sentimento di un’affinità, condivisione di determinati ideali ovvero avversione verso gli stessi, ragioni personali o intime, ecc. Si tratta di un legame che comporta quasi sempre un forte coinvolgimento del biografo: senz’altro ideologico, come si

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CHETRO DE CAROLIS

è già detto, ma spesso anche emotivo, soprattutto laddove l’autore abbia conosciuto il suo personaggio. Nei casi migliori, il biografo stenta a far dimenticare la propria presenza; nei peggiori, l’investimento emotivo può risolversi nell’identificazione, con gravi danni, anche in questo caso, per l’attendibilità dell’opera. È interessante dunque indagare le motivazioni che spingono un autore a occuparsi della vita di un determinato personaggio. E lo è tanto più quando queste risultano particolarmente enigmatiche. Antoine Compagnon, trattando del Proudhon di Sainte-Beuve, si interroga sul curioso incontro tra il senatore dell’Impero, delicato e moderato arbitro del gusto letterario, e il rozzo e chiassoso profeta del socialismo. Alla base di questo bizzarro legame sembra esserci da una parte il desiderio di Sainte-Beuve di far assolvere dal tribunale della storia uno scrittore ingiustamente punito da vivo per le sue maniere poco civili. Conoscendo personalmente Proudhon, egli aveva scoperto un uomo diverso dalla sua reputazione di persona brusca e insolente, e secondo Compagnon è proprio questo carattere paradossale, «quella contraddizione in Proudhon tra l’uomo privato e la reputazione, tra la dolcezza e la selvatichezza, che ha intrigato il critico» (p. 147). Dall’altra parte, il biografo può anche essere stato attratto da alcuni lati del suo personaggio che lui stesso condivideva: la situazione di indigenza, paventata anche da Sainte-Beuve, o ancora la tendenza vendicativa, che ritroviamo anche nel Port-Royal. Infine, l’autore si sarebbe proiettato in Proudhon sul piano politico, riuscendo a coglierne la parte conservatrice, più provvidenzialista che rivoluzionaria, e a presentarlo in fondo come un prudente, un moderato come lui, a renderlo così politicamente inoffensivo. Il saggio di Compagnon mostra dunque quanto l’immedesimazione del biografo nel biografato possa nuocere all’obiettività dell’opera, anche in un caso, come questo, in cui il metodo osservato dall’autore – e cioè l’uso prevalente della citazione diretta della corrispondenza di Proudhon – è in apparenza dei più imparziali. Queste sono, l’abbiamo detto, le due problematiche più ampiamente affrontate dagli autori di questo volume. Tante altre vengono prese in esame – non ultima la questione delle diverse forme che

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INTRODUZIONE

un’opera biografica può assumere 8 – e di tante altre ancora si sarebbe potuto dissertare, ma un colloquio non può certo pretendere all’esaustività. L’ambizione, peraltro pienamente realizzata, era piuttosto di sollevare dei problemi, in un campo che sembra lasciarne molti aperti: una biografia è riuscita quando rappresenta l’individuo nel modo più attendibile? o quando mostra, attraverso il personaggio, la società del suo tempo? o quando coinvolge il lettore e lo fa identificare con il personaggio come se fosse «meramente» letterario? o quando lo convince dell’idea che il biografo ha del personaggio? Molte altre ipotesi si possono formulare, tutte più o meno plausibili, ma forse tutte fallimentari rispetto all’irraggiungibile obiettivo cui dovrebbe mirare ogni biografo: far conoscere al lettore l’uomo «così com’è». CHETRO DE CAROLIS

8 Cfr. in particolare i saggi di Compagnon, Corti e Varvaro. Per una breve storia delle forme biografiche dall’Antichità ai nostri giorni, cfr. il primo capitolo di C. N. PARKE, Biography. Writing Lives, Routledge, New York-London 1996, pp. 1-34.

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ALBERTO VARVARO

GUILLAUME

LE

MARÉCHAL

RIVISITATO

L’Histoire de Guillaume le Maréchal ci mette in una situazione doppiamente favorevole alla considerazione della biografia medievale. Si tratta infatti della prima biografia, in lingua volgare, anteriore al 1400, di un laico che non sia un sovrano e si tratta di un’opera medievale sulla quale sono basate più biografie moderne, tre almeno delle quali significative per la storia della storiografia, quella di S. Painter (1933) 1, quella di G. Duby (1984) 2 e quella di D. Crouch (1990) 3. Possiamo dunque mettere a confronto diretto il modo medievale di concepire e scrivere una biografia e tre diverse modalità moderne.

Il personaggio storico Guillaume era il quarto figlio (secondo del secondo letto) di un John Marshal (I), che morirà nel 1165, e di Sybil, figlia di Walter di Salisbury: un cadetto, quindi, di una coppia di media nobiltà e ricchezza dell’Inghilterra di re Stefano e dell’anarchia 4. Possiamo de1 S. PAINTER, William Marshal, Knight-errant, Baron, and Regent of England, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1933. 2 G. DUBY, Guglielmo il Maresciallo. L’avventura del cavaliere, Laterza, Roma-Bari 1985 (Paris 1984). 3 D. CROUCH, William Marshal: Court, Career and Chivalry in the Angevin Empire, 1147-1219, Longman, Harlow 1990. 4 Il più aggiornato resoconto della biografia di Guillaume è la voce «Marshal, William (I)» di D. CROUCH nell’Oxford Dictionary of National Biography, XXXVI, University Press, Oxford 2004, pp. 816-822. Del padre la stessa Histoire dice: «E si n’esteit il mie kuens / Ne baron de tresgrant richesce» (vv. 32-33; «Eppure non era conte, / né barone di enorme ricchezza»); cito qui e altrove la nuova edizione: History of William Marshal, a cura di A. J. Holden, S. Gregory e D. Crouch, AngloNorman Text Society, London 2002-2006, 3 voll. Il soprannome Maréchal è portato dalla famiglia almeno a partire dal nonno Gilbert. Si trattava di una carica ereditaria

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durre che Guillaume sia nato tra la fine del 1146 e l’inizio del 1147. Il bambino entra nella storia nel 1152 quando il padre lo consegna come ostaggio a re Stefano che assedia il castello di Newbury, poi non rispetta i patti e dichiara che non gli importa se il re lo metterà a morte. La simpatia del bambino e la bonomia del re lo salvano. Più tardi egli viene mandato in Normandia presso Guillaume de Tancarville, ciambellano di Normandia, che era un importante parente dei Marshal, e vi compie l’apprendistato militare fino al 1166. Alla morte del padre, Guillaume non eredita nulla: i beni della famiglia passano al fratello maggiore Jean, che morirà nel 1194. Fatto cavaliere da Tancarville nel 1166, Guillaume deve cavarsela con i tornei, nei quali ottiene importanti successi. Torna poi in Inghilterra, al servizio di Patrick conte di Salisbury, fratello di sua madre, che è però assassinato nell’aprile 1168. Nel 1170 Guillaume è assegnato da Enrico II al seguito di Enrico il Giovane, appena coronato re: vi rimarrà fino al 1182, anche nella guerra contro Enrico II del 1173; ne sarà cacciato solo perché accusato di adulterio con la regina Margherita, ma dopo un breve soggiorno prima a Colonia, poi con il conte di Fiandra a St-Omer, nel 1183 è riammesso da Enrico il Giovane, con cui resta fino alla morte di lui a Limoges. Il re Giovane, sul letto di morte, lo incarica di fare per lui il pellegrinaggio a Gerusalemme, dove Guillaume rimane dal 1184 al 1186. Tornato alla corte di Enrico II, difende il vecchio re contro il figlio Riccardo poco prima che Enrico muoia (1189) e Riccardo salga al trono. Contro ogni attesa, Riccardo lo accoglie bene: Guillaume porta lo scettro alla sua incoronazione ed ottiene la guardia della ricca ereditiera Isabelle de Clare, che gli era stata promessa da Enrico. Guillaume la sposa nello stesso 1189 e diventa così un ricco barone; nel 1194 ha pure l’eredità del fratello Jean. Alla morte di Riccardo, nel 1199, appoggia la successione di Giovanni contro quella del nipote Arturo. Giovanni lo crea conte di Striguil e Pembroke, sceriffo del Gloucestershire e maresciallo d’Inghilterra. La sua attività si orienta sul Galles, dove sono le terre della moglie, e sull’Irlanda, dove possui cui uffici cfr. L’Histoire de Guillaume le Maréchal, a cura di P. Meyer, Renouard, Paris 1891-1901, 3 voll., III, p. XXI. Il nostro la esercitò effettivamente solo dall’ascesa al trono di re Giovanni nel 1199.

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siede buona parte del Leinster. Quando nel 1204 Giovanni perde la Normandia, il nostro fa omaggio a Filippo di Francia per i suoi beni normanni, ma ne segue una mezza dozzina di anni difficili con re Giovanni. Guillaume rientra in buoni rapporti con il re nel 1213 e lo sostiene anche durante la rivolta dei baroni, fino alla morte nel 1216. Sul letto di morte Giovanni gli affida il figlio bambino, Enrico III, e il consiglio gli attribuisce la guardia del re e del paese, che terrà fino alla vigilia della propria morte, che lo coglie a Caversham, presso Reading, il 14 maggio 1219.

Il poema medievale La cosiddetta Histoire de Guillaume le Maréchal (il titolo risale a Paul Meyer) è un poema di 19214 ottonari rimati a coppie, che deve essere stato composto, con coloritura dialettale normanna, non molto tempo dopo la morte di Guillaume, nel 1226 5. L’autore è un Jean, che si nomina al v. 19195, ma che non siamo in grado di individuare; a giudicare da indizi, costui doveva aver fatto parte del circolo di Guillaume almeno dal 1186. Si tratta comunque di un professionista, dato che scrive: Quer nuls qui de trouver volt vivre Ne deit chose metre en son livre Qui de dreite raison ne veinge Ne a la matyre n’apartienge. (vv. 11101-11104) 6

L’incarico di comporre la biografia gli era stato dato dal figlio del biografato, Guillaume II: Li buens fiz iert avant nomez, Li cuens Willeme, renomez De bien fere, ce seivent tuit,

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Per la datazione cfr. History of William Marshal, cit., vol. III, p. 25. «Poiché nessuno che vuol vivere del poetare / Deve mettere alcunché nel suo libro / Che non sia strettamente necessario / O sia estraneo alla materia». 6

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Car de bone arbre vient buen fruit. (vv. 19177-19180) 7 Quant li lignages, frerre e suers Orront ce, molt lor iert as cuers, Que li buens Mareschal lor frere, Willeaumes a fet de lor pere Feire tel uevre cum cestui. (vv. 19201-19205) 8

L’Histoire de Guillaume le Maréchal ci è conservata da un unico codice pergamenaceo, scritto e decorato in Inghilterra entro la prima metà del secolo XIII, quindi non più di 25 anni dopo la sua composizione. Non si conosce la storia del codice fino al suo acquisto, nel tardo secolo XVI, da parte della famiglia Savile, dalla quale passò nel 1861 a Sir Thomas Phillipps; nel 1958 fu venduto alla P. Morgan Library di New York City, dove ha la segnatura MS. M.0888. Non è inverosimile che fino al 1500 il codice sia rimasto nella biblioteca di qualche famiglia legata ai Marshal, la cui discendenza legittima si era già estinta nel 1245. Il codice è giudicato come integro, ma il testo sembra presentare alcune lacune, oltre a numerosi errori 9. Per la prima edizione dell’Histoire de Guillaume le Maréchal bisognò attendere fino al 1891-1901, quando essa fu stampata nella collezione della Société d’Histoire de France ad opera di Paul Meyer, che era stato autorizzato a prenderne copia; l’edizione è accompagnata da un poderoso studio anche biografico. Esso è la base su cui sono state costruite tutte le biografie moderne, con l’eccezione dell’ultima. Solo tra il 2002 e il 2006 è stata pubblicata una nuova edizione, quella che io uso. 7

«Il degno figlio deve essere nominato per primo / Il conte Guillaume, rinomato / Per le sue buone azioni, lo sanno tutti, / Perché l’albero buono dà il frutto buono». 8 «Quando il lignaggio, fratelli e sorelle, / Lo sentiranno, starà loro molto a cuore, / Che il valoroso Maresciallo loro fratello / Guillaume ha fatto fare sul loro padre / un’opera come questa». 9 A giudizio di P. Meyer (L’Histoire de Guillaume le Maréchal, cit., vol. III, pp. CXXXV-CXXXVI).

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Conviene avvertire che L’Histoire de Guillaume le Maréchal è un testo isolato, con ogni probabilità, solo per un nostro difetto di informazione. Intanto, abbiamo qualche indizio che l’interesse per l’attività letteraria si estendeva in Inghilterra ben al di là dell’aula regia: anche in piccole corti locali si leggevano e qualche volta si scrivevano opere letterarie. Né mancano del tutto altri esempi di produzione genealogica, per quanto il Guy de Warewic sia un poema molto più romanzato del nostro. Del resto, per rimanere nella famiglia di Guillaume, la moglie di lui, Isabelle de Clare, è colei che ha commissionato la cosidetta Chanson de Dermot, cioè il poema anglonormanno sulla conquista dell’Irlanda, nella quale la famiglia della donna aveva avuto gran parte 10. Anche questa volta si tratta di letteratura a fine encomiastico, che celebra le glorie della famiglia: s’intende come una produzione simile fosse esposta ad una rapida scomparsa, specialmente se la famiglia si estingueva.

Le biografie moderne Conviene caratterizzare rapidamente le principali biografie moderne di Guillaume 11. Lo scopo dichiarato di Painter è di dare un quadro dei due estremi della società feudale, «the landless knight and the rich baron» 12, il che viene fatto con penna brillante ma senza approfondimenti, come se avessimo a che fare con Ivanhoe o un altro romanzo di Walter Scott. Nel profilo di Painter si cancellano i tratti che lo studioso giudica poco cortesi e se ne magnificano altri. 10 Va notato che D. CROUCH, William Marshal…, cit., pp. 95-96, dà una datazione della Chanson assai anticipata rispetto a quanto si solesse pensare: per lui l’opera risale agli anni subito prima o dopo il 1200, mentre di solito la si data al 1225 circa. 11 Trascuro due opere minori. Prima di Painter abbiamo avuto un volumetto molto narrativo di Th. L. JARMAN (William Marshal First Earl of Pembroke and Regent of England (1216-1219), Blackwell, Oxford 1930) e tra Painter e Duby un’altra biografia divulgativa di J. CROSLAND (William the Marshal: the Last Great Feudal Baron, Owen, London 1962). 12 S. PAINTER, William Marshal…, cit., p. VII; «il cavaliere senza terra e il ricco barone».

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Tra i primi c’è il profitto che viene dai tornei e dai campi di battaglia, che è un motivo così rilevante nella biografia da essere l’unico a dar luogo alla menzione di documentazione scritta 13. Tra i secondi i rapporti con le donne, su cui torneremo. Quello che interessa a Duby è invece, nelle sue stesse parole, non tanto la biografia vera e propria ma «la visione del mondo di questi uomini» 14, che è esposta in un testo senza note il quale inverte lo sviluppo cronologico, cominciando dalla morte di Guillaume e poi dalla sua fama, per risalire alla sua formazione ed alla prima carriera militare ed infine alla strategia matrimoniale. Rimane sostanzialmente trascurato tutto ciò che Guillaume fa dal 1189 fino alla morte, che è poi la parte storicamente più rilevante della sua vita e la ragione stessa per cui L’Histoire de Guillaume le Maréchal è stata scritta. Tra i difetti più seri del libro c’è, da un lato, la trascuratezza per gli aspetti letterari dell’opera, che viene così letta come una fonte documentaria, e dall’altro la mancanza di integrazione delle altre informazioni che abbiamo su Guillaume (che, come dirò subito, non sono poca cosa): il suo libro «è basato su un’acuta lettura dell’Histoire e null’altro» 15. Ne consegue che la «visione del mondo» del Maresciallo e dei suoi contemporanei finisce per essere più quella dello storico che quella degli uomini del secolo XIII 16. Non meno grave è che per lo storico francese Guillaume non sia altro che un guerriero, con uno splendido fisico e un piccolo cervello: gli sfug13

È il conto dei risultati dei tornei che veniva tenuto per Guillaume e per il cavaliere fiammingo Roger de Gaugy da Wigain, chierico di cucina («li clers de la quisine», v. 3417) di Enrico il Giovane, e da altri suoi colleghi. In dieci mesi i due avevano catturato 103 cavalieri con i relativi cavalli ed arnesi (cfr. vv. 3419-3424). Sul letto di morte ciò crea un problema al Maresciallo: come potrebbe ottemperare all’obbligo del confessore di restituire il maltolto se in vita sua ha catturato almeno 500 cavalieri, con armi, destrieri ed arnesi? Egli non può fare altro che pentirsi: o il ragionamento dei religiosi è falso o nessuno può salvarsi. Cfr. vv. 18481-18496. 14 G. DUBY, Guglielmo il Maresciallo…, cit., p. 48, e cfr. p. 68. 15 D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 4. Si accenna qui anche ad errori di cronologia e genealogia per cui cfr. poi, ad esempio, p. 101. 16 Ivi, p. 5: «[Duby] takes from the Histoire that which confirms his preconceptions about aristocratic society and ignores the rest» («[Duby] prende dalla Histoire ciò che conferma i suoi preconcetti sulla società aristocratica e ignora il resto»).

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gono così del tutto le sue notevolissime capacità politiche e di corte, che non meno delle qualità militari sono espressione di una visione del mondo 17. Per David Crouch, la Histoire de Guillaume le Maréchal è solo una delle fonti, anche se la principale, sulla biografia di Guillaume e va dunque sottoposta a critica. Di Guillaume ci resta un buon numero di documenti di archivio (almeno 65) ed alcune menzioni in altre fonti narrative 18. Quella di Crouch è una storiografia pragmatica, senza tesi di fondo da dimostrare e senza troppe illusioni sui tempi di cui si occupa.

Con quali informazioni è scritta la biografia? Alla fine della sua opera il poeta pone espressamente la questione di «Qui fu qui dona la matire» (v. 19174) 19, oltre che di chi fece fare il poema e di chi lo pagò. In questa sede Jean non menziona i suoi ricordi personali, che pure sono qua e là invocati: cfr. vv. 720 (il poeta parla del fisico di Guillaume perché lo ha visto: «Quer bien les vi e bien m’en menbre»), 3885-3886 («Mais nostre estorie me remebre / Ce que ge vi e bien me menbre»), o dichiarati impossibili perché egli era assente («Kar ge nes vi, ne ge n’i fui», v. 7285) 20. In tal caso egli farebbe male a inventare ciò che non sa: Je n’i fui pas; ci m’en descombre De dire ce que nuls ne seit, Kar li mondes despit et heit

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Ivi, pp. 173-174. Ivi, p. 5: «The Histoire is a mirror of the emotional bonds between the Marshal and his men; but the charters are a microscope that enable us to look much deeper into their material nature» («La Histoire è uno specchio dei legami emotivi tra Marshal e i suoi uomini; ma le carte sono un microscopio che ci permette di guardare più in profondità nella natura materiale degli stessi»). 19 «Chi fu a fornire la materia». 20 «Perché bene lo vidi e bene me ne ricordo»; «Ma la nostra storia mi rammenta / Quello che vidi e che bene ricordo»; «Poiché non vidi né fui presente». 18

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Celui qui lesse sa matire Por mensonge e oisoses dire. (vv. 17496-17500) 21

La maggior parte delle informazioni gli vengono dal più vicino e fedele dei compagni del conte, Jean d’Erlée 22. Egli dice: Bien i parut e nuit e jor Que cil ama molt son seignor Qui la matire en a portrete, Merci Dieu, tant qu’ele est bien fete: C’est Johan d’Erlee, por veir, Qui cuer e pensee e aveir I a mis, e il i pert bien, De ce ne deit nus doter rien. (vv. 19185-19192) 23

Ma gli informatori furono certo parecchi e non sempre concordi, come ci dice lo stesso poeta: Seignor, ci me covient plus dire, Car cil qui me donent matire Ne s’acordent pas tot a un, Ne je ne puis pas a chascun Obeïr, car je mefereie, Sin perdreie ma dreite veie, Si en fereie mains a creire, Car en estoire qui est veire Ne doit nus par reison mentir. (vv. 16401-16409) 24 21 «Io non fui lì; perciò faccio a meno / Di dire ciò che nessuno sa, / Poiché la gente disprezza e odia / Chi si allontana dalla sua materia / Per dire menzogne e futilità». 22 Su di lui cfr. L’Histoire de Guillaume le Maréchal, cit., vol. III, pp. XIV-XIX; D. CROUCH, William Marshal…, cit., pp. 195 sgg. 23 «Fu chiaro, di notte e di giorno, / Che amò molto il suo signore colui / Che ha descritto la materia, / Grazie a Dio, tanto che ella è ben esposta: / Si tratta ovviamente di Jean d’Erlée / Che cuore, pensiero e ricchezza / Ci ha messo, e questo è evidente, / Di ciò nessuno dovrebbe dubitare». 24 «Signore, qui è opportuno che io dica altro, / Poiché coloro che mi hanno fornito le informazioni / Non sono tutti d’accordo, / E io non posso a ciascuno / Ub-

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Una parte delle informazioni risale addirittura allo stesso Guillaume, che usava spesso raccontare della sua giovinezza e delle sue imprese. L’origine delle informazioni spiega perché la loro precisione sfumi al di là dei quaranta-cinquanta anni precedenti 25. Le informazioni costuiscono la matière del racconto: oltre ai passi citati, si vedano i vv. 4431-4434 («Ne voil de cest torneiment / Faire plus lunc conveiement, / Que cil qui me dist la matire / Ne me volt ci endreit plus dire»), 12836 («ne sai pas bien la matire»), 19174 («Qui fu qui dona la matire»), 19187 («Qui la matire en a portrete») 26. Queste informazioni sono in buona parte di natura orale, ma è continuamente ricordato un escrit, che potrebbe essere anche una serie di appunti consegnati al poeta dai suoi informatori: cfr. vv. 15909 («Tant me feit li escriz entendre»), 16027 («Li escriz dit ce que je di») 27. Il poeta si ritiene vincolato al rispetto dello scritto, perfino quando vi trova un’inversione cronologica (quindi non si tratta di appunti ma di un discorso continuo): Mais devant la desconfiture I avint une autre aventure Qui deüst estre devant dite: Mais si cum ge la truis escrite La m’estuet dire mot a mot. (vv. 4927-4931) 28

Anche l’uso ripetuto del termine estoire: vv. 3656 («Si com en l’estorie le truis»), 4327-4328 («Ge n’ai pas les nons en memorie, / Quer bidire, perché farei male, / Perderei la mia diritta via, / E sarei meno credibile, / Poiché raccontando una storia vera / Nessuno ha ragione di mentire». 25 Sul cambio di velocità del racconto dopo il v. 1186, cfr. D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 7. 26 «Non voglio su questo torneo / Soffermarmi più a lungo, / In quanto colui che mi procurò le informazioni / Non volle dirmi di più a questo proposito»; «non conosco bene i fatti»; «Chi fu a offrire le informazioni»; «Che ha descritto i fatti». 27 «Così mi fa intendere lo scritto»; «Lo scritto dice ciò che dico». 28 «Ma prima della sconfitta / Capitò un’altra avventura / Che avrebbe dovuto esser detta prima: / Ma è così come la trovo scritta / Che devo riportarla parola per parola».

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nes trovei pas en l’estorie»), 4460 («Si comme en l’estorie le truis»), 16784 («Si comme en l’estorie le truis»), 17534 («Issi le trovons en l’estorie») 29 fa pensare a qualcosa di più di una serie di appunti.

Il taglio del racconto La materia è versata nello schema cui aveva già abituato il romanzo biografico, a cominciare dal Tristano. Più difficile è dire se qualche scena, che trova preciso riscontro dei romanzi, sia da essi derivata o trovi in base ad essi la forma più appropriata. L’esempio più vistoso è l’accusa d’adulterio mossa a Guillaume da altri seguaci di Enrico il Giovane. Guillaume si offre di dimostrare in campo la sua innocenza, ma nessuno accetta di battersi. Il cavaliere è dunque bandito dalla corte, ma qualche tempo dopo vi è riammesso, senza che si stabilisca precisamente se è colpevole o innocente. È evidente la analogia con le vicende proprio di Tristano 30. Risenta o no di modelli letterari, la biografia rivendica spesso, come abbiamo visto, una istanza di verità. Si aggiungano questi passi: […] cil qui me dist la matire Ne me volt ci endreit plus dire. (vv. 4433-4434) 31 Mais devant la desconfiture I avint une autre aventure Qui deüst estre devant dite:

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«Così come lo trovo nella storia»; «Non ho memoria dei nomi, / Perché non li ho trovati nella storia»; «Così come lo trovo nella storia»; «Così come lo trovo nella storia»; «Così lo si trova nella storia». 30 Altri casi di utilizzo di temi letterari sono quello della dama compassionevole (v. 1780) e l’aiuto alle dame in difficoltà (vv. 8753-8772). Il gioco di specchi tra realtà e letteratura si ritrova nell’episodio del giullare che al torneo di Joigny chiede la ricompensa di un cavallo (v. 3489). Cfr. la recensione di J. W. BALDWIN al libro di Duby, in «Speculum», 61, 1986, p. 642 [pp. 640-642]. 31 Per la traduzione in italiano, cfr. supra, nota 26.

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Mais si cum ge la truis escrite La m’estuet dire mot a mot. (vv. 4927-4931) 32

Aspetti dell’Histoire de Guillaume le Maréchal trascurati dai biografi moderni Per i biografi moderni l’interesse per la descrizione dei tornei è molto maggiore che quello per le guerre reali 33. I primi sono considerati, a differenza della seconda, la tipica manifestazione organizzata delle virtù cavalleresche. In realtà le descrizioni dei tornei non ne omettono il carattere fortemente pratico e a volte poco cavalleresco (il Maresciallo, ad esempio, cattura gli avversari afferrando al passaggio le redini del loro cavallo, il che non è proprio il colmo della cortesia) e spesso brutale. Tuttavia non è vero che la guerra abbia nell’Histoire una parte minore. Ma guerra non significa necessariamente battaglia in campo. Si badi che in realtà furono solo due o tre le occasioni in cui il Maresciallo, in una vita dedicata alle armi, si trovò propriamente su un campo di battaglia: per lo più le guerre si risolvevano in cavalcate, cioè brutali distruzioni di beni, in agguati ed in assedi, nei quali l’astuzia prevaleva sulla forza. Né la battaglia era sempre il momento delle eroiche cariche di cavalleria. Di tutto ciò è prova soprattutto il racconto della campagna del Maresciallo, guardiano d’Inghilterra, che portò alla battaglia di Lincoln, la campagna che liberò l’Inghilterra dagli invasori francesi. Ma si tratta tipicamente di una battaglia nelle vie di una città in difficile posizione topografica e non in campo aperto e con cariche di cavalleria 34.

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Per la traduzione in italiano, cfr. supra, nota 28. Per i tornei cfr. L’Histoire de Guillaume le Maréchal, cit., vol. III, pp. XXXV, XXXIX-XLI; D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 174; per la guerra: ivi, pp. 178-183. 34 Cfr. ivi, pp. 121 sgg. 33

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Cosa aggiungono gli storici moderni Un ingrediente essenziale della cortesia è, a parere degli studiosi moderni, il rapporto con la donna. Nell’Histoire esso è però ben diverso da quello che è stato ricostruito dagli studiosi trasferendo la poesia lirica in comportamenti reali. Abbiamo già accennato all’accusa di adulterio con la regina. Sorprende che il poeta non ritenga di dover dire nulla sulla posizione di lei e sulle eventuali conseguenze per lei di quanto veniva insinuato. A dire il vero, non se ne preoccupa neanche il presunto adultero. Non meno singolare, per noi, è il modo in cui viene ricordato un rapporto, durato un paio d’anni, con Eleonora d’Aquitania, che ai nostri tempi viene considerata la stella polare dei comportamenti cortesi del secolo XII. È lei che nel 1168 lo riscatta dalla prigionia (la sola della sua vita!) nelle mani dei cavalieri pittavini che hanno ucciso Patrick di Salisbury, e trattenendolo nella sua familia lo fa entrare per la prima volta nel circolo magico della casa reale. Per un certo periodo il giovane Maresciallo fa dunque parte della corte che della cortesia è il modello. Orbene, l’Histoire si sofferma su questa svolta importante (cfr. vv. 1869 sgg.), ma non nei termini che ci attenderemmo, non come l’ingresso nel raffinato regno della cortesia di cui favoleggiano i critici letterari che si occupano di Eleonora d’Aquitania. L’episodio della biografia che meglio illustra la considerazione delle donne è quello dell’incontro in campagna, ai tempi di Enrico il Giovane, tra Guillaume ed una coppia. Il cavaliere ode la donna che si lamenta della propria stanchezza. Quindi chiede gentilmente chi siano e man mano si scopre, dalle parole dell’uomo, che si tratta di un chierico che ha abbandonato la sua funzione, ha sedotto e porta con sé la sorella di un nobile fiammingo, Raoul de Lens, e conta di vivere prestando ad interesse le 48 lire che ha nella borsa. Siamo in un clima di fabliau piuttosto che di romanzo, e s’intende il disprezzo del Maresciallo per il chierico e, forse, anche per la donna. Altra cosa è però che egli lietamente derubi i due, argomentando che il denaro sarà meglio speso da cavalieri che destinato ad usura (la vicenda è raccontata ai vv. 6677 sgg.).

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Questo non significa che il poema sia misogino. Intanto c’è il rapporto con la moglie Isabelle, che appare di rado, ma che ha una sua personalità politica 35. Poi ci sono le figlie, di cui riparlerò. Infine c’è qualche personaggio come la dama pittavina anonima, la bone dame (v. 1780) che gli fornisce, nascondendole in una pagnotta, le stoppe necessarie a bendare le ferite che gli hanno inflitto coloro che l’hanno catturato (vv. 1759 sgg.). Siamo in ogni caso ben lontani nel poema da quello che, per gli studiosi, è il canone della signora cortese, punto di riferimento e di desiderio di un gruppo di giovani uomini, quale è stata immaginata da Duby. Non meno importante è considerare proprio il tema della mesnie, importante per le ipotesi storiografiche di Duby sui «giovani» nella società medievale. Nell’Histoire la mesnie del protagonista figura due volte: nella sua gioventù egli è parte, successivamente, di quelle di Tancarville, di Eleonora, di Enrico il Giovane, di Riccardo; nella maturità Guillaume ha la propria, di cui fa parte, tra gli altri, Jean d’Erlée. Abbiamo così due ottiche diverse e complementari. È senz’altro vero che Guillaume rimase per lungo tempo un bacheler, non casato e senza beni di fortuna. Ma non sembra conseguirne quella sindrome che lo storico ha creduto di ravvisare in questo gruppo sociale, né nel castello di Tancarville né altrove; per nessuna corte si menziona la dama che ne costituirebbe, per i «giovani», il centro. Poi, divenuto Guillaume un grande magnate, egli mantiene la propria mesnie e possiamo osservarne bene i legami ed i comportamenti. Intanto la mesnie è composta non solo da laici ma anche da chierici, due gruppi tra cui non mancano tensioni. I laici, guerrieri, scudieri e cavalieri, sono giovani, di condizione ed anche di età (almeno una generazione meno del conte). Essi sono legati tra loro e con il signore da rapporti di solidarietà e di affetto (la parola che viene usata è proprio amour) che non sembrano però avere alcun risvolto erotico 36. La signora Isabelle non è mai menzionata in questo contesto. Appare chiaro che Duby ha individuato una struttura sociale certamente importantissima, ma ne ha dato un’interpretazione che va ridiscussa. 35 36

Cfr. ivi, pp. 99-100. Cfr. ivi, pp. 150 sgg.

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Cosa è degno di memoria, cosa di silenzio Un elenco assai fitto dei silenzi dell’Histoire può ricavarsi dalla biografia di Crouch ed è certamente significativo. La selezione deve dipendere da ragioni diverse: se l’assoluta mancanza di notizie su quanto è avvenuto a Guillaume in Terrasanta è sorprendente e sembra dovuta a vera e propria deficienza di informazione, il silenzio su altri eventi è probabilmente diplomatico. Il poema sa poco o nulla sulla famiglia da cui proviene Guillaume, sa poco della vita del protagonista a Tancarville, trascura vari incidenti avvenuti alla corte di Enrico il Giovane, tace sull’attribuzione da parte di re Giovanni del titolo di conte di Striguil e Pembroke 37, non ricorda la felice campagna di re Giovanni in Galles nel 1204, non dice nulla del cambio di campo di molti uomini del Maresciallo a favore di Giovanni a Tewkesbury nel 1207, sorvola sui motivi dei baroni che si ribellarono al re e gli strapparono la Magna Charta, non menziona le fondazioni religiose del conte 38. Alcuni di questi silenzi sono conseguenza, senza dubbio, ripeto, di ignoranza, ma ciò che si osserva per gli anni del regno di Giovanni non può essere casuale. È opportuna una premessa. La notizia imprevista della morte di re Riccardo, avvenuta il 6, coglie Guillaume a Rouen, la tarda sera del 10 aprile 1199; il Maresciallo si precipita dall’arcivescovo di Canterbury, Hubert Gautier, che si trovava lì vicino, a Notre-Dame-du-Pré, ed i due discutono chi convenga porre sul trono, tra Giovanni e Arturo, il fratello o il nipote (figlio del morto Goffredo, maggiore di Giovanni) del re defunto. L’arcivescovo preferirebbe Arturo, ma Guillaume lo dice mal consigliato e avverso agli Inglesi; l’arcivescovo cede, ma predice che Guillaume avrà di che pentirsi (vv. 11890-11906). Chi ascolta il rac-

37 Ivi, p. 8: «The Histoire studiously avoids mentioning John’s creation of the Marshal as Earl of Pembroke and the remarkable number of grants with which he favoured him» («La Histoire evita deliberatamente di menzionare la nomina del Maresciallo a conte di Pembroke da parte di Giovanni e il notevole numero di benefici che questi gli concesse»). 38 Cfr. ivi, rispettivamente pp. 6, 37, 42, 8, 85, 98, 111-112 (cfr. Histoire, vv. 15031-15036; D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 120), 185.

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conto può dunque prevedere che Giovanni sarà ingrato a chi lo ha fatto re. Si aggiunga che interviene una circostanza vantata come prova di esemplare correttezza del conte, ma in realtà di dubbia interpretazione. Nella primavera 1204 Giovanni aveva mandato in Normandia il conte, con altri, per negoziare con Filippo Augusto; il re di Francia fece sapere ai negoziatori che o gli prestavano omaggio per le loro terre normanne o le avrebbero perdute. Il conte stipulò dunque con il re una convenzione che gli consentiva, contro il pagamento di 500 marchi, il rinvio di un anno 39. Nel febbraio 1205 Giovanni non ha ancora fatto nulla per recuperare la Normandia e rimanda il conte ambasciatore da Filippo. Il conte spiega a re Giovanni la propria situazione e, secondo l’Histoire, il re gli consente di fare omaggio al re di Francia (vv. 12948 sgg.), cosa che egli fa a Compiègne. Ma Giovanni, a torto o a ragione, non gliela perdonò facilmente 40. Tornando all’Histoire, da un lato viene taciuta parte dei benefici che il re concede al Maresciallo, se ne sminuisce la figura di capo, si sottolinea la sua doppiezza ma non si ricorda il successo delle sue tattiche. Quando poi Guillaume dimentica le vecchie ruggini e passa dalla parte del re, tutto il processo che culmina nella concessione della Magna Charta finisce riassunto in pochi versi, menzionando appena che il figlio stesso di Guillaume fosse con i ribelli.

La costruzione del personaggio Guillaume è stato a lungo considerato tipico della condizione cavalleresca del suo tempo. Proprio come tale è oggetto dell’interesse di Painter e di Duby, anche se già Meyer aveva avanzato qualche dubbio, che è ora molto più forte in Crouch 41.

39 L’atto relativo è conservato: cfr. L’Histoire de Guillaume le Maréchal, cit., vol. III, p. LXXVII. 40 Diversamente si era comportato re Riccardo, al quale Guillaume rifiutò l’omaggio per le proprie terre irlandesi, dichiarando che lo aveva già dato a Giovanni. Cfr. D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 72. 41 Cfr. ivi, p. 3.

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Non bisogna confondere il giudizio entusiastico del poeta Jean, da lui attribuito ad altri (ne parlerò subito), con una valutazione oggettiva. Intanto il Maresciallo non è tipico in quanto illitteratus, in anni in cui il nobile era ormai, specialmente in Inghilterra, per lo più capace di leggere e scrivere. Ma ciò non gli impedisce di coltivare interessi culturali. Non è un caso che poco prima di morire egli provi un gran desiderio di cantare; ma non osa farlo, sia perché non si fida della propria voce, sia perché lo considererebbero pazzo. Gli si consiglia dunque di far venire le figlie, che canteranno per lui. Matilde non vorrebbe farlo, ma obbedisce al padre per fargli piacere e dice il verso di una canzone; viene invitata a cantare Jeanne, ma la voce le si spezza sul verso di una rotruenge. Il conte le insegna pazientemente «comme ele deveit dire» (v. 18580) 42. Né, tornando al problema se Guillaume sia tipico per il suo ceto, la ripetuta celebrazione della sua lealtà può indurci a dimenticare numerosi episodi in cui egli prevale con l’astuzia, se non addirittura con l’ipocrisia 43. Vero è, però, che la parabola del Maresciallo illustra l’ascesa sociale del cavaliere povero che diventa ricco e potente grazie alle proprie doti. Ancora al momento del duello con Sancho, Guillaume dice: «Ge sui un povres bachelers / Qui n’a uncor reie de terre» (vv. 7030-7031) 44, ma i suoi successi nei tornei e la capacità di muoversi nelle corti gli assicurano buone disponibilità economiche e poi, con il matrimonio, lo trasformeranno in un magnate. La sua parabola è sicuramente esemplare, dato che il Maresciallo stesso la auspica sul letto di morte per il suo figlio cadetto: S’il vit tant qu’il seit chevaliers, Ja seit ce qu’il n’et point de terre, S’il monte a grant enor conquerre, Il trovera qui l’amera E qui grant enor li fera

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«come ella doveva dire». Cfr. D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 156. «Sono un povero baccelliere / Che non ha neanche un pezzetto di terra».

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Plus que nus autres, por veir. (vv. 18142-18147) 45

Ma la chevalerie del conte non è solo forza bruta o solo successo militare. Guillaume è molto attento agli aspetti economici della sua vita 46. Egli prende impegni finanziari anche quando non ha come mantenerli, ma restituisce scrupolosamente quanto gli prestano e gode quindi di un ottimo rating: segno non di cieca magnificenza ma di saggezza.

Aneddoti ed immagini prima di un discorso L’Histoire de Guillaume le Maréchal, come le migliori opere storiche volgari del medioevo, non ha inclinazione per l’analisi astratta e preferisce raggrumare la sua opinione sui personaggi in scene ad alto potenziale significativo. Ne citerò solo qualche esempio, a partire da quella che è forse la scena più bella del poema. Nel giugno 1189 Riccardo e Filippo di Francia piombano sul Mans, da dove Enrico II, molto malato, fugge in fretta, inseguito dai nemici. Il Maresciallo, con pochi altri, forma la retroguardia e affronta Riccardo che, avanti agli altri, insegue a spron battuto il padre. Riccardo lo riconosce e gli grida che è disarmato e sarebbe male ucciderlo: «Ne m’ociez, ce sereit mal; / Ge sui toz desarmez issi» (vv. 8840-8841) 47. Il Maresciallo risponde: «Nenil! Diables vos ocie! / Kar jo ne vos ocirai mie» (vv. 8843-8844) 48, ed abbatte il cavallo del conte di Poitiers. L’inseguimento è bloccato ed Enrico riesce a raggiungere il castello di Chinon. Qui però re Enrico muore il 6 luglio, abbandonato da quasi tutti e derubato di ogni cosa. Il Maresciallo prov-

45 «Se vivrà abbastanza a lungo da diventare cavaliere, / Benché non abbia terra, / Purché riesca a conquistare grande onore, / Troverà chi l’amerà / E lo onorerà, / Più di ogni altro, invero». 46 Cfr. L’Histoire de Guillaume le Maréchal, cit., vol. III, pp. XCIV, CII; D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 170. 47 «Non uccidetemi, sarebbe male; / Sono qui completamente disarmato». 48 «Certo che no! Che sia il Diavolo a uccidervi! / Poiché io non vi ucciderò».

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vede al suo funerale a Fontevrault e vi attende il conte Riccardo, il nuovo re d’Inghilterra, tra la preoccupazione dei suoi: «Ker il li ocist son chival / D’un cop d’un gleive desuz lui» (vv. 9268-9269) 49. Riccardo si ferma impassibile davanti al cadavere del padre 50 e poi, uscito dalla chiesa, chiama il Maresciallo e lo accusa pubblicamente di aver tentato di ucciderlo: L’autrier me volsistes ocire, E mort m’eüssez sanz dotance, Se ge n’eüsse vostre lance A mon braz ariere tornee; S’i eüst malveise jornee. (vv. 9322-9326) 51

Il Maresciallo nega arditamente: se avesse voluto, avrebbe potuto ucciderlo facilmente, ma non l’ha fatto. Il respondi al conte: «Sire, Einz n’oi talant de vos ocire, N’onques a ceo ne mis esfors. Quer ge sui unquor assez fors A conduire une lance armé, Enteis que g’ere desarmé; E altresi, se ge volsisse, Tot dreit en vostre cors ferisse Com ge fis en cel del cheval. Se ge l’ocis nel tieng a mal

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«Poiché gli uccise il cavallo / Sotto di lui con un colpo di lancia». Cfr. vv. 9294-9300: «…en son venir / N’out semblent de joie ne d’ire, / Ne nuls ne vos savreit dire / S’il out en lui joie ou tristesce, / Desconfort, corot ne leece; / Mais devant le cors s’arestut / Une piece, ku’il ne se mut…» («…giungendo / Non mostrava né gioia né ira, / E nessuno potrebbe dirvi / Se provasse gioia o tristezza, / Disperazione, dolore o letizia; / Ma stette davanti al corpo / Per un poco, senza muoversi»). Sulla virtù cortese dell’imperturbabilità scrive D. CROUCH, William Marshal…, cit., pp. 157-158. 51 «L’altro giorno volevate uccidermi, / E mi avreste certamente dato la morte / Se io non avessi piegato / Col mio braccio la vostra lancia; / Sarebbe stata una brutta giornata». 50

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N’encor ne m’en repent ge point». (vv. 9327-9237) 52

Dinanzi alla franca risposta (il poeta dice: point a point) 53 Riccardo lo perdona e lo incarica subito di una ambasciata in Inghilterra (probabilmente a liberare sua madre Eleonora, da anni prigioniera). Il cancelliere dice al re che suo padre ha dato al Maresciallo l’erede di Striguil. Riccardo lo corregge: suo padre lo ha promesso, ma è lui che gli dà la meschine e le tenement (v. 9370). Non ci sono commenti: i fatti e le parole bastano a dare il senso della storia. Un esempio fulminante di questa tecnica è la risposta del conte alle considerazioni di Jean d’Erlée sul pericolo che Luigi di Francia prevalga sul giovanissimo Enrico III, di cui Guillaume ha assunto la guardia: «Par la gleive Dieu!» dist li quens, «Cist conseils est verais e buens E me siet al cuer si a dreit Que, si toz le monz li falleit, Fors mei, savez que ge fereie? Desus mon col le portereie En jambe de ça et de la, E si ne li faudreie ja D’ille en isle, de terre en terre,

52 «Egli rispose al conte: “Signore / Non avevo alcuna intenzione di uccidervi / A tal fine non mi sono dato da fare. / Sono ancora abbastanza forte / Per governare una lancia, se armato, / E tanto più quella volta, disarmato; / Perciò, se avessi voluto, / Vi avrei ferito dritto nel corpo / Come feci con quello del cavallo. / Non considero un male averlo ucciso / Né me ne pento”». 53 Il valore positivo attribuito alla libertà di parola in una società cortese fondata sulla dissimulazione risulta anche da altri passi. Ricordo le parole rivolte dal conte, sul letto di morte, ad Enrico III, all’atto di affidarlo al legato pontificio. L’auspicio del Maresciallo è che il re sia prodom: «E se c’est qu’os vos aveiez / Aprés alcun felon ancestre, / E quos autretels vuilliez estre, / Dunt pri je Diu le filz Marie / Qu’il ne vos doint ja loinge vie, / E dont que vos murriez anceis» (vv. 18082-18087) («E se doveste seguire le orme / Di qualche malvagio antenato, / E voleste essere tale e quale, / Allora pregherei Dio, figlio di Maria, / Che non vi concedesse lunga vita, / E che moriste prima che succeda»).

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S’il me couveneit mon pain querre […]». (vv. 15687-15696) 54

Ma gli esempi potrebbero essere molti. Crouch 55 ha attirato l’attenzione sull’episodio in cui re Giovanni ed il Maresciallo sono a Guildford il 25 gennaio 1208, mentre è da tempo impossibile avere notizie dell’Irlanda, dove Guillaume ha dovuto lasciare i suoi quasi in balia dei partigiani del re. Il re chiede al Maresciallo se ha notizie dal Leinster; il conte risponde che no; il re dice di aver saputo che c’è stato un assedio a Kilkenny e tre dei più cari al conte sono morti, tra cui Jean d’Erlée. Tutti sono addolorati ma anche stupiti: come avrà avuto il re questa notizia? Nel silenzio generale il Maresciallo dice: «Certes, beal sire, ge vos di / Que des chivaliers est damaige. / Ici n’a nul, ne fol ne saige, / Qui ne sace, cen est la some, / Qu’il esteient vostre prodome, / E d’itant vait l’ouvre sordeis» (vv. 1384613851) 56. Lo scambio oppone, come scrive Crouch, «a most uncourtly king to its courtly hero and has the king ignominiously worsted by his own undisguised malice» 57. Ma nel poema non ci sono commenti o giudizi. Quando un giudizio appare necessario, esso è attribuito ad un personaggio, non all’autore. Una valutazione riassuntiva della vicenda del Maresciallo è fatta qui da chi gli è meno vicino e più autorevole, Filippo di Francia, del quale egli ha da poco combattuto e sconfitto il figlio. Il re, quando gli giunge la notizia, è a cena nel Gatinais. Chiama Guillaume de Barre e gli dice che gli hanno portato la noti54

«“Per il gladio di Dio!”, disse il conte, / “Questo consiglio è fondato e buono / E si confà tanto al mio cuore / Che, se tutto il mondo lo abbandonasse, / Eccetto me, sapete che cosa farei? / Lo porterei sulle mie spalle / Con le gambe a cavalcioni, / E non lo lascerei mai / D’isola in isola, di terra in terra, / Dovessi anche andare a mendicarmi il pane […]”». 55 D. CROUCH, William Marshal…, cit., pp. 103-104. 56 «In verità, mio buon signore, vi dirò / Che la morte di quei cavalieri è un peccato. / Qui non c’è nessuno, che sia folle o saggio, / Che non sappia, in poche parole, / Che essi erano vostri valorosi uomini, / Il che rende la cosa ancora più spiacevole». 57 D. CROUCH, William Marshal…, cit., p. 104; «un re alquanto scortese al suo eroe cortese e il re ne risulta ignominosamente sconfitto dal suo stesso evidente malanimo».

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zia che è stato sepolto «[…] li Mareschals / Qui tant fu prodome e leals». Quale maresciallo? Quello d’Inghilterra, «qui fu proz e sages». Guillaume dice che è stato ai loro tempi il miglior cavaliere. Il re conferma: «[…] li Mareschals / Fu, al mien dit, li plus leials, / Veir, que jeo unques coneüsse / E nul liu ou je unques fusse». Jean de Rovrei aggiunge: «Ce fu trestut li plus sages / Chevalier qui en nos eages / Fust unques de nului veüz» (vv. 19131-19157) 58.

58 «[…] il Maresciallo, / Che fu tanto valoroso e leale»; «che fu un uomo prode e saggio»; «[…] il Maresciallo / Fu, a mio parere, l’uomo più leale / In verità, che abbia mai conosciuto / In tutti i luoghi in cui sono stato»; «Fu di gran lunga il più saggio / Cavaliere che si sia mai visto / Ai nostri tempi».

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CHIARA FRUGONI

FRANCESCO D’ASSISI NEI PROLOGHI DELLE DI TOMMASO DA CELANO

DUE BIOGRAFIE

Nel Capitolo generale di Parigi del 1266 s. Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dell’Ordine francescano, decise che da quel momento in avanti solo la biografia di Francesco, da lui scritta, dovesse essere ritenuta ufficiale ed attendibile; nello stesso tempo ordinò, con successo, la distruzione di tutte le altre biografie precedenti; chiese e ottenne questo eccezionale «rogo», nel desiderio di riportare la pace all’interno dell’Ordine, turbato da lacerazioni e contrasti, proprio in merito all’interpretazione da dare alla proposta e alla regola di s. Francesco. Scomparvero così centinaia e centinaia di manoscritti e per secoli il Francesco conosciuto fu quello di Bonaventura 1. Alla fine dell’800, però, qualche copia delle biografie condannate fu ritrovata fortunosamente e gli storici cominciarono a scoprire incredibili discordanze di date e di notizie. Come esempio intendo analizzare l’immagine di Francesco così come appare in due biografie ufficiali che precedettero quella di Bonaventura. Un medesimo autore può dire che Francesco era stato un giovane dissoluto, figlio di genitori sciagurati e, a distanza di quindici anni, affermare invece il contrario, che Francesco era stato da sempre santo, figlio di genitori santi. Queste stupefacenti contraddizioni comportano vari problemi attinenti all’attendibilità di una biografia medievale. Ad esempio come si possa fare mutare il ricordo, quali siano le testimonianze che l’autore sceglie come affidabili, quali i condizionamenti ricevuti, chi siano di volta in volta i destinatari, quale sia il modello agiografico cui il biografo si ispira e quale nuovo modello agiografico voglia imporre, infine quale sia stato il peso del successo dell’Ordine nell’esigenza di aggiornare la biografia del santo fondatore. 1 Mi permetto di rimandare, per le notizie generali riguardanti il santo, al mio: Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, prefazione di J. Le Goff, Einaudi, Torino 2005 (1995).

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CHIARA FRUGONI

Gregorio IX, con un processo rapidissimo, canonizzò Francesco due anni appena dopo la morte, il 16 luglio del 1228: per quel tempo doveva essere pronta una biografia che raccogliesse le virtù e i miracoli del santo da portare agli altari. La scelta del pontefice cadde sul francescano Tommaso da Celano, frate dotto, fine scrittore, capace – così aveva sperato il pontefice – di conciliare le direttive della sua committenza con le contrastanti testimonianze dei compagni di Francesco, un riflesso a loro volta delle tensioni dell’Ordine, esplose già durante la vita del fondatore. Tommaso riuscì a finire interamente il suo lavoro con un leggero ritardo o forse, più probabilmente, aggiunse la seconda e la terza parte, brevissime, in un secondo momento, dopo avere assistito ad Assisi alla solenne festa per Francesco dichiarato santo. Dichiara subito Tommaso: Actus et vitam beatissimi patris nostri Francisci pia devotione, veritate semper praevia et magistra, seriatim cupiens enarrare, quia omnia quae fecit et docuit nullorum ad plenum tenet memoria, ea saltem quae ex ipsius ore audivi, vel a fidelibus et probatis testibus intellexi, iubente domino et glorioso papa Gregorio, prout potui, verbis videlicet imperitis, studui explicare 2.

Dovremmo dunque stare tranquilli, quanto ad attendibilità. Vedremo invece che non è così. La personalità di Francesco prima della conversione aveva colpito molto i contemporanei ed era rimasta nella loro memoria, loro e dei frati. Scrivono ad esempio i Tre Compagni (una fonte non ufficiale attribuita ad Angelo Leone e Rufino, intimi amici di Francesco): 2 THOMAE DE CELANO, Vita prima sancti Francisci (d’ora innanzi citata come I CEL), in Analecta Franciscana, X (d’ora innanzi citati come AF X), Ex Typ. Collegii s. Bonaventurae, Ad Claras Aquas prope Florentiam 1926-1941, Prologus, par. 1, p. 3; «Per incarico del nostro glorioso papa Gregorio mi sono accinto a narrare diligentemente gli atti e la vita del beatissimo padre nostro Francesco. L’ho fatto come ho potuto, nel mio modesto stile, raccontando quelle cose almeno che ascoltai dalla sua viva voce o da testimoni fedeli e sicuri. Ho cercato di farlo con pia devozione, seguendo sempre la verità guida e maestra, tutto volendo riportare secondo l’ordine cronologico degli eventi: poiché nessuno può ritenere a memoria tutto quello che Francesco ha fatto e ci ha insegnato».

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FRANCESCO D’ASSISI

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Hic, postquam fuit adultus et subtilis ingenii factus, artem patris id est negociationem exercuit, sed dissimiliter valde quoniam ipso hilarior et liberalior, deditus iocis et cantibus, civitatem Assisii die noctuque circuiens sibi similibus sociatus, in expendendo largissimus adeo ut omnia quae habere poterat et lucrari in comestionibus aliisque rebus consumaret. Propter quod multotiens arguebatur a parentibus dicentibus ei quod tam magnas expensas in se et in aliis faceret, ut non eorum filius sed cuiusdam magni principis videretur. Quia tamen divites erant parentes eius et ipsum tenerrime diligebant, tolelarabant eum in talibus ipsum turbare nolentes 3.

Tommaso da Celano, non potendo cancellare questi tratti biografici, troppo presenti al suo pubblico, ricorse allora al modello di san Paolo già persecutore del cristianesimo che sulla via di Damasco incontrò una repentina conversione e tratteggiò a tinte fosche la giovinezza di Francesco, per fare meglio risaltare il cambiamento dopo che il cuore del giovane fu toccato dalla dolcezza della misericordia celeste: Vir erat in a civitate Assisii, quae in finibus vallis Spoletanae sita est, nomine Franciscus, qui a primaevo aetatis suae anno a parentibus secundum saeculi vanitatem nutritus est insolenter et ipsorum miseram vitam diu imitatus et mores, vanior ipse atque insolentior est effectus 4.

Genitori troppo accondiscendenti (qui la guida sono Seneca e sant’Agostino) rovinano i figli: 3 Legenda trium sociorum, ed. critica a cura di Th. Desbonnets, in «Archivum Franciscanum Historicum», LXVII, 1974, pp. 38-144; il testo si trova alle pp. 89-144, I, 2, pp. 90-91; «Francesco divenuto adulto, di intelligenza vivacissima, esercitò l’arte paterna nel vender stoffe, ma con uno stile completamente diverso, perché era molto più lieto e generoso del padre. Amava cantare e divertirsi, andare in giro notte e giorno con una brigata di amici: larghissimo nello spendere, consumava in banchetti e festini tutto il denaro che guadagnava o che riusciva a farsi dare. I genitori spesso lo rimproveravano: spendeva talmente per sé e per gli amici che non sembrava più figlio loro ma di un qualche gran principe. Tuttavia, poiché erano ricchi e lo amavano con grande tenerezza, erano indulgenti e alla fine lo lasciavano fare non volendo dispiacergli». 4 I CEL, I, 1, AF X, p. 5; «Dai genitori ricevette fin dalla infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso».

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Sed et cum paulo plusculum aetate profecerint, se ipsis impellentibus, semper deteriora opera dilabuntur. Ex vitiata namque radice arbor vitiosa succrescit, et quod semel male depravatum est vix reduci potest ad regulam aequitatis. Cum vero adolescentiae portas coeperint introire, quales eos fieri arbitraris? Tunc profecto omni dissolutionis genere fluitantes, eo quod liceat eis explere omne quod libet, omni studio se tradunt flagitiis deservire. Sic enim voluntaria servitute servi effecti peccati arma iniquitatis exponunt omnia membra sua, et nihil in se christianae religionis in vita seu in moribus praeferentes, solo christianitatis nomine se tuentur. Simulant miseri plerumque se nequiora fecisse quam fecerint, ne videantur abiectiores, quo innocentiores exsistunt. Haec sunt misera rudimenta, in quibus homo iste, quem sanctum hodie veneramur, quoniam vere sanctus est, a pueritia versabatur et fere usque ad vigesimum quintum aetatis suae annum tempus suum miserabiliter perdidit et consumpsit 5.

Ma non solo il giovane Francesco era un grande peccatore, ma proprio per l’influenza esercitata sui compagni aveva portato alla rovina morale il fior fiore della gioventù di Assisi, finché «Facta est proinde super eum manus Domini et immutatio dexterae Excelsi, ut per eum daretur peccatoribus fiducia in gratiam respirandi, et conversionis ad Deum omnibus fieret ad exemplum» 6. Quindi, in questa prima opera, Tommaso da Celano, non potendo ridurre la biografia del santo nei canoni dell’agiografia tradizionale, preferì proporre 5

Ivi, p. 6; «Raggiunta un’età un po’ più matura, istintivamente passano a misfatti peggiori, perché da una radice guasta cresce un albero difettoso, e ciò che una volta è degenerato, a stento si può ricondurre al suo giusto stato. E quando varcano la soglia dell’adolescenza, che cosa pensi che diventino? Allora rompono i freni di ogni norma: poiché è permesso fare tutto quello che piace, si abbandonano senza riguardo ad una vita depravata. Facendosi così volutamente schiavi del peccato, trasformano le loro membra in strumenti di iniquità; cancellano in se stessi, nella condotta e nei costumi, ogni segno di fede cristiana. Di cristiano si vantano solo del nome. Spesso gli sventurati millantano colpe peggiori di quelle realmente commesse: hanno paura di essere tanto più derisi quanto più si conservano puri. Ecco i tristi insegnamenti a cui fu iniziato quest’uomo, che noi oggi veneriamo come santo, e che veramente è santo! Sciupò miseramente il tempo, dall’infanzia fin quasi al suo venticinquesimo anno». 6 I CEL, I, 2, AF X, p. 7; «La mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio».

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Francesco come modello di speranza per i peccatori più incalliti i quali, nell’imitazione di Francesco, entrando nell’Ordine da lui fondato, avrebbero trovato la salvezza. Passarono quindici anni. Il tentativo del primo biografo non resse all’urto delle vicende che segnarono nei decenni successivi la burrascosa storia dell’Ordine. Dopo l’accantonamento, da parte di Gregorio IX, del Testamento di Francesco nel 1230 come testo vincolante, contravvenendo alla volontà del defunto, la crisi si acuì con le drammatiche vicende di Elia da Cortona: ministro provinciale in Siria, poi alla guida dell’Ordine – come vicario del santo dopo le sue volontarie dimissioni – dal 1221 al 1227, il primo divulgatore del miracolo «inaudito» delle stimmate, promotore della costruzione della Basilica di Assisi, era stato ministro generale dal 1232 al 1239. I modi troppo decisi del suo governo, la parzialità verso la parte laica dell’Ordine avevano scontentato molti frati, dato che i francescani si avviavano ormai ad una completa clericalizzazione. La fallita opera di pacificazione fra Gregorio IX e Federico II procurò ad Elia la scomunica papale, mai revocata 7. Tommaso da Celano lo aveva lodato a più riprese nella prima biografia e citato in tanti episodi come affettuoso ed attento compagno di Francesco, specie negli ultimi anni del santo. Elia era dunque divenuto una presenza intollerabile nella storia ufficiale del fondatore dei Minori. Inoltre nel 1241 era morto Gregorio IX. Le ripetute lodi per questo pontefice risultavano ormai inutili. Le ragioni però che determinarono una seconda biografia ufficiale non furono dovute unicamente ad una figura imbarazzante da cancellare, alle ridondanti ed obsolete lodi dedicate ad un papa non più in vita. L’Ordine, dopo vent’anni di espansione e di consenso, avvertiva l’esigenza di un’opera che sottolineasse maggiormente il ruolo di aiuto e sostegno alla Chiesa svolto dai francescani e rafforzasse la venerazione per il fondatore, di cui si era nel frattempo affermato e propagato il culto, un fondatore che si desiderava ora presentare «a tutto tondo», imitabile in ogni fase della sua vita. Alcuni scabrosi episodi della giovinezza si sperava che si fossero un po’ scoloriti nel ri7

Cfr. G. BARONE, Frate Elia, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», LXXXV, 1974-1975, pp. 89-143.

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cordo dei testimoni: ne è spia, come vedremo subito, la dichiarazione dello stesso Tommaso: «La nostra memoria di persone incolte, resa labile dallo scorrere del tempo…». C’erano poi molti frati scontenti perché episodi, ritenuti importanti, erano rimasti attestati solo oralmente, o perché i miracoli avvenuti dopo la canonizzazione non avevano ricevuto alcuna attestazione scritta 8. Crescenzio da Jesi, ministro generale dell’Ordine, dopo il Capitolo generale tenutosi a Genova nel 1244, affidò ufficialmente ancora una volta a Tommaso da Celano, celebrato scrittore pontificio, l’incarico di scrivere una seconda biografia: Tommaso la portò a termine in circa tre anni. Il biografo, sotto il velo retorico di una affettata modestia, denuncia il disagio nel piegarsi ad un racconto che non condivide appieno, costretto a dire cose tanto difformi dalla prima biografia. Scrive infatti nel prologo della seconda Vita: Placuit sanctae universitati olim capituli generalis et vobis, reverendissime pater, non sine divini dispensatione consilii, parvitati nostrae iniungere ut gesta vel etiam dicta gloriosi patris nostri Francisci nos, quibus ex assidua conversatione et mutua familiaritate plus caeteris diutinis experimentis innotuit, ad consolationem praesentium et posterorum memoriam scriberemus. Obedire propterea iussionibus sanctis, quas fas non est ullatenus praeterire, supplici devotione concurrimus; sed virium nostrarum propensiore meditatione infirmitatis, iusto timore percutimur, ne tam digna materia, non prout exigit pertractata, contrahat a nobis quod displiceat caeteris. Haec enim, quae totius suavitatis sunt digna sapore formidamus ne ministrantium indignitate reddantur insipida, sicque praesumptioni potius id tentasse quam obedientiae imputetur. Nam si tanti huius laboris effectus benevolentiae vestrae, beate pater, tantu spectaret examen, nec esset ad aures publicas opportunum prodire, sumeremus gratissime aut de correctione doctrinam aut de adstipulatione laetitiam. Quis enim, in tanta diversitate verborum et actuum, lance subtilis examinis valeat sic cuncta pensare, ut omnium auditorum sit de singulis una sententia? Sed quoniam omnium singulorum simplici animo lucra conquirimus, hortamur, ut benigne interpre-

8 Ne dà notizia il francescano Salimbene de Adam (da Parma, 1221-1287) annotando come ancora al suo tempo molti miracoli fossero conservati solo oralmente: SALIMBENE DE ADAM, Cronica, ed. critica a cura di G. Scalia, Laterza, Bari 1966, vol. I, p. 254.

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tentur qui legunt, sicque referentium simplicitatem supportent vel dirigant, ut eius de quo fit sermo, reverentia illaesa servetur 9.

Francesco, nella prospettiva di un Ordine clericalizzato, nella prospettiva dei frati colti che maneggiano codici in latino, che scrivono dottissime prediche, non può più esprimersi in modo semplice, alla portata della povera gente, come in realtà aveva sempre fatto. Conclude infatti Tommaso: Memoria nostra velut hominum rudium, temporis prolixitate obtusa, fugas subtilium verborum eius et factorum stupenda praeconia nequit attingere, quae mentis exercitatae velocitas etiam coram posita comprehendere vix valeret. Excuset igitur apud omnes nostrae imperitiae culpas repetita multoties praecipientis auctoritas 10.

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THOMAE DE CELANO, Vita secunda s. Francisci (citata d’ora innanzi II CEL), Prologus, AF X, pp. 129-130; «La venerata assemblea dell’ultimo Capitolo generale e vostra Paternità reverendissima, assistiti da Dio, hanno creduto bene di ordinare a noi, per quanto incapaci, di scrivere i fatti e persino le parole del glorioso nostro padre Francesco, a conforto dei presenti e a memoria dei posteri. Noi l’abbiamo potuto conoscere meglio degli altri per lunga esperienza, frutto di assidua comunione di vita e di scambievole familiarità. Perciò ci siamo affrettati ad obbedire con umile devozione, perché non possiamo in alcun modo trasgredire questi ordini santi. Ma, ad un esame più attento delle nostre deboli forze, abbiamo giusto timore che una materia di tanta importanza, se non viene esposta come merita, per colpa nostra, possa dispiacere agli altri. Temiamo infatti che questo cibo gustosissimo diventi insipido per l’incapacità di chi lo prepara, e che il nostro tentativo possa essere imputato più a presunzione che ad obbedienza. Se fosse soltanto la vostra benevolenza, o beato padre, a giudicare il frutto di un così notevole impegno, e non fosse destinato al pubblico, accoglieremmo con animo gratissimo ogni suggerimento di rettifica oppure la gioia dell’approvazione. Infatti chi in tanta varietà di parole e di fatti potrebbe soppesare ogni cosa con la bilancia di precisione, in modo che risultino tutti concordi sui singoli punti quanti ne vengono a conoscenza? Ma, poiché desideriamo sinceramente il bene di tutti e di ciascuno, preghiamo i lettori a voler giudicare con benevolenza, e a compatire o a supplire la semplicità di chi riferisce i fatti, in modo che la stima dovuta alla persona di cui parliamo rimanga sempre intatta». 10 Ivi, p. 130; «La nostra memoria di persone incolte, resa labile dallo scorrere del tempo, non è in grado di ritrarre esattamente i voli di parole sublimi né le meraviglie delle sue azioni. A fatica le potrebbe afferrare una mente pronta ed esercitata, anche se accadessero in quel momento. Pertanto l’autorità di chi ce lo ha ordinato ripetutamente, valga a scusare presso tutti i difetti dovuti alla nostra incapacità».

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Nel prologo della prima biografia aveva invece scritto: «Set utinam eius merear esse discipulus qui semper locutionum vitavit aenigmata et verborum phaleras ignoravit!» 11. La prospettiva in cui Francesco è presentato è dunque del tutto mutata. Francesco ha da sempre una missione da svolgere e perciò, da sempre è santo: fin dalla giovinezza, allevato da genitori esemplari. Ascoltiamo ancora la voce del nostro biografo: Franciscus, servus et amicus Altissimi, cui divina providentia hoc vocabulum indidit, ut ex singulari et insueto nomine opinio ministerii eius toti citius innotesceret orbi, a matre propria Ioannes vocatus fuit, cum de filio irae, ex aqua et Spiritu Sancto renascens gratiae filius est effectus. Quae mulier, totius honestatis amica, quoddam virtutis insigne praeferebat in moribus, sanctae illius Elisabeth, tam impositione nominis ad filium quam et spiritu prophetali, aliquo similitudinis privilegio gaudens. Nam Francisci magnanimitatem et morum honestatem admirantibus convicinis, quasi divino instructa oraculo, sic aiebat: «Quid putatis iste filis meus erit? Meritorum gratia, Dei filium ipsum noveritis affuturum» 12.

La madre dunque, nel chiamare il figlio Giovanni Battista, aveva presagito il destino del figlio, santo e profeta. Fu poi mutato il nome in Francesco, «cui divina providentia hoc vocabulum indidit, ut ex singulari et insueto nomine opinio ministerii eius toti citius innotesceret orbi» 13. 11

I CEL, Prologus, AF X, p. 3; «Potessi davvero essere degno di colui che evitò costantemente il linguaggio difficile e gli ornamenti della retorica!». 12 II CEL, I, 3, AF X, p. 131; «Il servo e amico dell’Altissimo, Francesco, ebbe questo nome dalla divina Provvidenza, affinché per la sua originalità e novità si diffondesse più facilmente in tutto il mondo la fama della sua missione. La madre lo aveva chiamato Giovanni, quando rinascendo dall’acqua e dallo Spirito Santo, da figlio d’ira era divenuto figlio della grazia. Specchio di rettitudine, quella donna presentava nella sua condotta, per così dire, un segno visibile della sua virtù. Infatti, fu resa partecipe, come privilegio, di una certa somiglianza con l’antica santa Elisabetta, sia per il nome imposto al figlio, sia anche per lo spirito profetico. Quando i vicini manifestavano la loro ammirazione per la generosità d’animo e l’integrità morale di Francesco, ripeteva, quasi divinamente ispirata: “Cosa pensate che diverrà, questo mio figlio? Sappiate, che per i suoi meriti diverrà figlio di Dio”». 13 Ivi, p. 131; «dalla Divina Provvidenza, affinché per la sua originalità e novità si diffondesse più facilmente in tutto il mondo la fama della sua missione». Forse nel-

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Può stupire, paragonando le due biografie, leggere versioni in palese contraddizione reciproca ad opera di un medesimo autore, garante, per incarico ufficiale, di ricercare e rispettare in entrambi i casi fonti verificate e testimonianze attendibili. Dobbiamo subito ammettere che il nostro concetto di verità storica è molto diverso da quello medioevale; credo che non dobbiamo però accusare Tommaso di incongruenza, anche se, tenendo presente questo quadro, si fa per noi più complicato dialogare con il passato. Francesco già in vita aveva visto snaturato il progetto originario pensato per una fraternitas di pochi compagni – laici per la gran parte, come lo stesso Francesco – progetto avviato al fallimento per il suo stesso successo, di fronte ai problemi di gestione di migliaia di uomini, di un Ordine, ché tale era divenuto per un consenso imprevisto e travolgente. Anche le gerarchie ecclesiastiche premevano per una fatale clericalizzazione 14 che riassorbisse la novità in una struttura omogenea alla loro, verso un ritorno al passato, alle sperimentate forme di vita religiosa consolidate da una lunga tradizione. Tommaso, con un’operazione lucida e consapevole, è costretto a manipolare l’esperienza di Francesco: le biografie ufficiali successive e soprattutto quella finale di Bonaventura, mostreranno al destinatario, interno od esterno (l’Ordine o i fedeli) il santo fondatore, di volta in volta aggiornato alla realtà storica del momento: Francesco, rispetto al presente, diviene il coerente profeta; rispetto al futuro, il rassicurante ideale. Neppure la descrizione dei tratti fisici di Francesco ci può rassicurare (un Francesco ben noto a Tommaso da Celano), destinata ad essere letta dai frati che pure avevano chiaro nella memoria il volto la scelta del nome influirono i rapporti commerciali del padre con la Francia o la supposta origine francese della madre, una notizia senza fondamenti precisi. 14 Negli statuti del Capitolo generale di Narbona del 1260, non verrà più ammessa nemmeno la possibilità che dei frati «illitterati» si mettano ad imparare il latino: «Prohibemus, ut de cetero fratres qui nesciunt legere psalterium litteras non addiscant nec alii eos doceant»: M. BIHL, Statuta generalia ordinis edita in capitulis generalibus celebratis Narbonae anno 1260, Assisii anno 1279 atque Parisiis anno 1292 (editio criptica et synoptica), in «Archivum Franciscanum Historicum», XXXIV, 1941, pp. 13-94; 284-358; p. 71, rubr. VI, De occupatione fratrum, par. 1 («Proibiamo per altro che i fratelli che non sanno leggere il Salterio imparino il latino né permettiamo che altri lo insegnino loro»).

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del loro compagno. Ci aspetteremmo un ritratto dal vero, ma non è così, perché il biografo, invece di abbandonarsi ai ricordi, sovrappone alla fisionomia di Francesco quella, tramandata letterariamente, di Bernardo da Chiaravalle 15. Lo stesso si può ripetere per le immagini, nessuna delle quali ci ha fornito un ritratto realistico, pur essendovene la possibilità: la più antica tavola conservata, quella di Bonaventura Berlinghieri, è del 1235 e mostra un uomo altissimo – Francesco era molto piccolo 16 – fornito dei tratti tipici dell’asceta, una figura che appare immutata nelle tavole successive. Limitatamente a questo esempio, per i contemporanei di Francesco non era affatto necessario trovare, sia nel testo che nelle immagini, un ritratto «somigliante», che appagasse lo sguardo e la memoria, tramandando umili particolari – la forma di un orecchio, di quell’orecchio, magari brutto – indispensabili per riconoscerlo quando viveva. Come spiegava Enrico d’Avranches, chiosando il ritratto che egli stesso aveva lumeggiato: Forte supervacuum credas depingere sancti effigiem moresque viri, sed oportuit ambo 15 «Facundissimus homo, facie hilaris, vultu benignus, immunis ignaviae, insolentiae expers. Statura mediocris parvitati vicinior, caput mediocre ac rotundum, facies utcumque oblonga et protensa, frons plana et parva, mediocres oculi, nigri et simplices, fusci capilli, supercilia recta, nasus aequalis, subtilis et rectus, aures erectes sed parvae, tempora plana, lingua placabilis, ignea et acuta, vox vehemens, dulcis, clara atque sonora, dentes coniuncti, aequales et al.bi, modica labia atque subtilia, barba nigra, pilis non plene respersa, collum subtile, humeri recti, brevia brachia, tenues manus, digiti longi, ungues producti, crura subtilia, parvuli pedes, tenuis cutis, caro paucissima, aspera vestis, somnus brevissimus, manus largissima»: I CEL, 29, 83, AF X, p. 62 e le note relative («Uomo di grande eloquenza, dall’aspetto gioviale, dal volto benigno, del tutto immune dall’ignavia, privo di affettazione. Statura media, quasi bassa, testa piccola e rotonda, ma viso allungato e proteso, fronte piatta e bassa, occhi piuttosto insignificanti, neri e schietti, capelli scuri; sopracciglia dritte, naso proporzionato, diritto e affilato, orecchie tese ma piccole, tempie piatte, lingua facile a placarsi, ardente e tagliente, voce veemente, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uniformi e bianchi, labbra ben proporzionate e sottili, barba nera, non del tutto riempita di peli, collo delicato, spalle dritte, braccia corte, mani fini, dita lunghe, unghie di forma allungata, gambe sottili, piedi piccolini, pelle chiara, magrissimo, indossava vesti ruvide, dormiva pochissimo, era generosissimo»). 16 Lo afferma Tommaso da Celano (ivi) ed è stato confermato quando, ritrovata la tomba, si procedette alla ispezione dello scheletro del santo.

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describi; nam causa subest, et idoneus usus. Talis enim completa brevi descriptio versu qualem Franciscum recolam, vel imaginer in se continet expressum, mentique relinquit ideas partim consimiles, etsi non prorsus easdem 17.

Ben più importante era trattenere – sia pure riunendo a mosaico tessere attinte dal repertorio della convenzione idealizzante o di un già affermato modello di santità – il vero significato del messaggio e del carisma di Francesco, guida per la meditazione e l’arricchimento interiore.

17 HENRICI ABRINCENSIS, Legenda versificata, AF X, p. 476, vv. 80-85; «La descrizione racchiusa in pochi versi permette che io faccia tornare alla mia memoria o possa immaginare i tratti di Francesco in modo che mi rimanga in mente il pensiero di un ritratto verosimile anche se non vero».

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L’aretino Giorgio Vasari dette alle stampe a Firenze, per i tipi di Laurens van den Bleeck italianizzato in Lorenzo Torrentino 1, una prima edizione de Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nel 1550, dedicandola a Cosimo I de’ Medici. Opera celeberrima fin da subito, fu licenziata dal suo autore con l’accompagnamento di una bella storia. Nella vigna del cardinal nipote Alessandro Farnese ai piedi di Monte Gianicolo, nel corso di uno di quegli opulenti banchetti che erano soliti riunire gli umanisti a Roma, Paolo Giovio 2, che negli anni ’20 aveva stilato gli Elogia di Michelangelo, Raffaello e Leonardo 3, chiese a Vasari di mettere a frutto la sua esperienza di artista per raccontare le biografie degli artisti appunto. La cena, secondo Vasari, avrebbe avuto luogo nel 1546. A dar fede a questa versione sarebbero bastati solo quattro anni a dar vita a tale ciclopica impresa, che non aveva precedenti. Una presunta velocità di penna che trovava perfetta rispondenza nel soprannome «Giorgio fa’ presto» che l’aretino si era guadagnato nell’uso del pennello eseguendo per Alessandro Farnese nel 1542, in soli cento giorni, la grande sala del palazzo della Cancelleria a Roma, che da tale arco di tempo ha preso nome. Questa bella storia ha comunque il pregio di ridurre la genesi delle Vite ad unità di luogo, di tempo e pressoché di azione, e ha da essere letta, appunto teatralmente, come canovaccio della ben più 1 A. RICCI, Lorenzo Torrentino and the Cultural Programme of Cosimo I de’ Medici, in K. EISENBICHLER (a cura di), The Cultural Politics of Duke Cosimo I de’ Medici, Aldershot, Ashgate 2001, pp. 103-119, con ampia bibliografia precedente. 2 T. C. P. ZIMMERMANN, Paolo Giovio. The Historian and the Crisis of SixteenthCentury Italy, University Press, Princeton 1995. 3 P. GIOVIO, Scritti d’arte: lessico ed ecfrasi, a cura di S. Maffei, Scuola Normale Superiore, Pisa 1999.

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complessa, lunga ed articolata messa in scena dell’impresa editoriale, senza alcun dubbio tra le più ambiziose del Cinquecento. Giorgio Vasari ha firmato un testo al quale hanno concorso in varia misura amici ed intendenti, proprio come nel corso della cena farnesiana a Paolo Giovio avevano fatto coro gli altri commensali: Francesco Maria Molza, Annibal Caro, Gandolfo Porrini, Claudio Tolomei, Romolo Amaseo 4. I nomi di costoro, e di molti altri ad iniziare da Pietro Aretino, ricorrono tra i corrispondenti di quel fitto carteggio che Vasari è riuscito ad intrattenere nel corso della sua intera esistenza e che senza alcun dubbio gli è servito da esercizio letterario fin dalla metà degli anni ’30 5. Onorevolmente nella Conclusione della opera agli artefici et a’ lettori Vasari riconosce che: se i fedeli e veri soccorsi de’ buoni amici, a’ quali mi chiamo e chiamerò sempre più che obbligato, non mi avessero fatto buon animo e confortato a tirare avanti gagliardamente, con tutti quelli amorevoli aiuti, che per loro si poteva, di advisi e riscontri diversi di varie cose, de le quali io stava perplesso, benché io le avessi vedute e considerate con gli occhi propri. E tali veramente e sì fatti sono stati i predetti aiuti, che io ho potuto scrivere il vero di tanti divini ingegni, e senza alcun adombramento o velo semplicemente andarlo in luce 6.

È una sintesi magistrale del debito che ha nei confronti di «molti amici» e «di alcuni padroni» dai quali comunque vuole distinguersi per aver egli «vedute e considerate con gli occhi propri» le varie cose e «per aver scritto come pittore, e nella lingua che io 4 Ch. DAVIS, L’origine delle «Vite», in L. CORTI, M. DALY DAVIS et al. (a cura di), Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, Catalogo della mostra, Edam, Firenze 1981, p. 213. 5 J. W. GAYE, Carteggio inedito d’artisti dei secoli XIV, XV, XVI pubblicato ed illustrato con documenti inediti, Molini, Firenze 1840, 3 voll.; K. FREY (a cura di), Der Literarische Nachlass Giorgio Vasari, Olms, Hildesheim-New York 1982 (ed. an.). 6 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Torrentino, Firenze 1550. Ed. cons.: ID., Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, SPES, Firenze 1966-1987, 6 voll., VI, pp. 409-410 (in seguito citato: ed. Barocchi-Bettarini).

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parlo» 7, come anche gli aveva suggerito Annibal Caro nel 1547: «In un’opera simile vorrei la scrittura apunto come il parlare» 8. Il primo debito contratto con gli amici è l’impianto biografico. Un connotato della romanità della prima edizione delle Vite, in contrapposizione alla fiorentinità della seconda edizione Giuntina del 1568 9, ci riporta alla storia della cena. L’allestimento delle mense romane e la preparazione delle vivande erano ispirati dalle Epistole di Plinio il Giovane e a loro volta tali agapi antichizzanti inducevano i commensali umanisti, e basti citare il Tolomei, a tramandarne la memoria 10 se non addirittura costituivano sollecitazione per stilare trattati, come occorse al Giovio per il suo De Romanis Piscibus 11. Ed è principalmente Paolo Giovio (1486-1552) a condizionare il biografo nella scelta. Il comasco vescovo di Nocera e il pittore aretino avevano condiviso la fatica della Sala dei Cento giorni, Vasari dipingendola, Giovio formulandone il programma, o per meglio dire l’encomio di papa Farnese 12. I «fatti di Paulo III», la sua biografia, sono illustrati in quattro scene che raccontano i momenti più significativi del suo pontificato 13, e sono orchestrati in un articolatissimo apparato decorativo che recita il vero e proprio encomio, tradotto in di7 ID., Conclusione dell’opera agli artefici et a’ lettori, in ed. 1550 BarocchiBettarini, vol. VI, pp. 409-413. 8 Lettera di Annibal Caro da Roma a Giorgio Vasari a Rimini, 15 dicembre 1547, Arezzo, Archivio Vasariano, ms. 11 (45), n. 2, cc. 5 e 7: cfr. Ch. DAVIS, Collaboratori alla stesura delle «Vite», in L. CORTI, M. DALY DAVIS et al. (a cura di), Giorgio Vasari…, cit., pp. 215-216. 9 Ne è immediato sintomo l’intitolazione della prima vita della prima parte che varia dal lapidario «Giovanni Cimabue» (1550) al didattico «Vita di Cimabue pittore fiorentino» (1568). 10 De le lettere di m. Claudio Tolomei libri sette con una breve dichiarazione in fine di tutto l’ordin de l’ortografia di questa opera, appresso Gabriel Gioito de’ Ferrari, Vinegia 1547. 11 Pauli Iovii Novocomensis Medici De Romanis Piscibus libellus ad Ludovicum Borbonium Cardinalem amplissimum, in aedibus F. Minitii Calvi, Romae 1524; cfr. F. MINONZIO, Studi Gioviani: scienza, filosofia e letteratura nell’opera di Paolo Giovio, Società Storica Comense, Como 2002, 2 voll., I, pp. 33-70. 12 J. KLIEMANN, Gesta dipinte: la grande decorazione nelle dimore italiane dal Quattrocento al Seicento, Silvana, Cinisello Balsamo 1993, pp. 37-51. 13 Paolo III e la pace tra Carlo V e Francesco I; Paolo III remunera i virtuosi; Paolo III e l’edificazione di San Pietro; Tributo delle Nazioni a Paolo III.

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segno e colore, imbibito di citazioni da una variegatissima gamma di fonti letterarie classiche 14. I due erano adusi ad esercizi comuni, inclusa la Giustizia Farnese, prova generale per Giorgio della committenza farnesiana. Né si può certo ignorare la reciproca collaborazione alla creazione del Museo gioviano, ovvero la versione a parete degli Elogi degli uomini celebri 15 che il Giovio aveva iniziato a scrivere e a pubblicare, corredati dalla versione grafica dei rispettivi ritratti, dei quali aveva avviato la raccolta ben prima di dare inizio, nel 1537, alla costruzione della villa a Borgo Vico, sulle rive del lago di Como 16. Cosimo I de’ Medici, su suggerimento di Vasari, commissionerà nel 1552 a Cristofano dell’Altissimo la copia dei 288 ritratti, la gioviana ora agli Uffizi 17. Quattro le classi di celebrità: letterati viventi, letterati defunti, artisti ed infine pontefici, re e uomini d’arme 18. La formula era basata su tre elementi costanti: in apertura il ritratto che precede una sintetica biografia (vita ed opere) dall’incipit moraleggiante, a sua volta chiusa da un epitaffio. Tale avrebbe dovuto essere il primitivo impianto delle Vite vasariane, che però non poterono essere corredate di ritratti fino all’edizione Giuntina del 1568, quando ormai il testo aveva assunto uno spessore ben diverso, molto più fattuale e dunque storico. La formula degli Elogia non è encomiastica, per la differenza che corre tra la storia e l’elogio, come ci informa lo stesso Giovio nella celeberrima lettera da lui indirizzata allo Scannapeco tra 1534 e 14

J. KLIEMANN, Gesta dipinte…, cit., pp. 46-47. L’editio princeps degli Elogia dei letterati: ELOGIA VERIS CLARORUM VIRORUM IMAGINIBUS APPOSITA QUAE IN MUSAEO IOVIANO COMI SPECTATUR ADDITA IN CALCE OPERIS ADRIANI PONT. VITA Cum Privilegio summi Pontificis, Caroli V Imperat. Regis Franciae, Illustrissimi Senatus Veneti, nec non Excellentissimorum Florentiae, & Mantuae Ducum, apud Michaelem Tramezinum, Venetiis MCXLV. Per la fortuna editoriale del testo, cfr. F. MINONZIO, Studi Gioviani…, cit., vol. II, p. 217. 16 Come precedente, non ignoto certamente al Giovio, le Imagines o Hebdomades di Varrone: cfr. A. MOMIGLIANO, Lo sviluppo della biografia greca, Einaudi, Torino 1974, pp. 96-97. 17 L. MICHELACCI, Giovio in Parnaso: tra collezione di forme e storia universale, Il Mulino, Bologna 2004, p. 228. 18 Pauli Iovii Elogia virorum bellica virtute illustrium veris imaginibus supposta, quae apud musaeum spectantur, in officina L. Torrentini, Florentiae 1551. Per la fortuna editoriale e la traduzione, cfr. F. MINONZIO, Studi Gioviani…, cit., vol. II, p. 217. 15

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1535: «l’Istoria ha luce di verità, e per questo è la maestra della vita dell’uomo. L’Encomio ha i luoghi di retorica, e loda l’uomo a bandiere spiegate». Ma la citazione più significativa da tale lettera, per riprendere il filo vasariano, si trova alcune righe oltre: Ora, l’Istoria ha una parte, la quale è lo scrivere le vite de gli eccellenti uomini, i quali la fortuna abbia fatti, o in Stati, o in arme, potenti, come gl’Imperatori di Suetonio e di Spaziano e di Lampridio, e quelli di Probo Emilio; overo che per virtù di lettere e di scienze siano stati famosi, come i celebrati da Laerzio, Plutarco e da Plinio nel libro de’ grammatici illustri 19.

La formula gioviana è ben percepibile in larga parte delle biografie della Torrentiniana, soprattutto mettendola a confronto con la Giuntina. La ben nota scansione dell’opera in tre parti o tre età accomuna le due edizioni del 1550 e del 1568, che si distinguono per numero di vite e soprattutto nella formula e nella esposizione delle notizie. La prima parte, da Giovanni Cimabue a Lorenzo di Bicci, è quella che ha subito una revisione più contenuta 20. La seconda parte dell’opera è aperta da Iacopo della Quercia sanese scultore. La Torrentiniana inizia: Infinitamente è da credere che nella vita sua provi grandissima contentezza colui che per mezzo delle fatiche fatte con la virtù sua si senta, o nella patria o fuori, onorare di dignità o guiderdonare di premio fra gli altri uomini, crescendone per lodi e per gli onori in infinito la virtù sua.

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P. GIOVIO, Lettera a Girolamo Scannapeco, in G. G. FERRERO (a cura di), Paolo Giovio Lettere, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1956, vol. I, pp. 174-179. Probo è Cornelio Nepote: T. C. P. ZIMMERMANN, Paolo Giovio and the Rhetoric of Individualiy, in T. F. MAYER e D. R. WOLFE (a cura di), The Rhetorics of Life-Writing in Early Modern Europe. Forms of Biography from Cassandra Fedele to Louis XIV, University of Michigan Press, Ann Arbor 1995, p. 47; F. MINONZIO, Studi Gioviani…, cit., vol. II, p. 227. 20 Nell’edizione Giuntina sono state aggiunte la Vita d’Arnolfo di Lapo architetto fiorentino; la Vita di Nicola e Giovanni pisani scultori et architetti; la Vita di Agostino et Agnolo scultori et architetti sanesi; sono state accorpate in una sola quelle prima distinte di Stefano Pittor fiorentino e Ugolino pittor Sanese. Alcune vite sono state ampliate

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Ciò intervenne a Iacopo di maestro Piero di Filippo della Quercia scultor sanese 21.

L’edizione Giuntina rispetto alla Torrentiniana ha un più accorto impianto tipografico. Ogni biografia è aperta dalla locuzione «Vita di» e chiusa da «fine della vita di». Nell’edizione del 1568 la prima biografia è quindi la Vita di Iacopo dalla Quercia scultore sanese il cui testo inizia molto pianamente fornendo limpida e concreta formulazione di chi fosse, da dove provenisse e cosa avesse fatto codesto senese: Fu adunque Iacopo di maestro Piero di Filippo dalla Quercia – luogo del contado di Siena – scultore, il primo, dopo Andrea Pisano, l’Orgagna e gl’altri sopra nominati, che operando nella scultura con maggior studio e diligenza cominciasse a mostrare che si poteva appressare alla natura, et il primo che desse animo e speranza agl’altri di poterla, in certo modo paregiare 22.

Tornando all’edizione del 1550 questa stessa biografia reca in chiusa l’epitaffio: IACOBO QUERCIO SENENSI EQUITI CLARISSIMO STATUARIAEQUE ART/IS PERITISS. AMANTISSIMOQUE UTPOTE QUI ILLAM PRIMUS / ILLUSTRAVERIT TENEBRISQUE ANTEA IMMERSAM IN LUCEM ERU/ERIT AMICI PIETATIS ERGO NON SINE LACHRYMIS P. 23

Tale testo non è ripreso nella Giuntina, che in chiusura aggiunge invece due brevissime biografie degli allievi dello scultore senese: Matteo lucchese e Niccolò bolognese, quest’ultimo meglio conosciuto come Niccolò Dell’Arca 24. 21

Ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 21. Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, ibidem. 23 «In onore di Iacopo della Quercia, cavaliere senense, scultore massimamente esperto e rinomatissimo, amantissimo della sua arte come è naturale per chi per primo l’abbia tirata fuori dalle tenebre in cui era precedentemente immersa, riportata alla luce e resa illustre, con devoto rispetto e non senza lacrime, gli amici posero». 24 Nella edizione Giuntina del 1568 la formula gioviana rimane per Dello Delli, Lorenzo Ghiberti, Masaccio, Filippo Brunelleschi, Donatello, Antonello da Messina, Desiderio da Settignano, Filippo Lippi e pochi altri, per essere o accantonata o 22

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Grazie all’incisivo rapporto con il Giovio dunque i modelli di riferimento per l’edizione del 1550 sono le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, in particolare per la successione di maestri ed allievi e gli aneddoti, e le Vite di Plutarco, per l’eccellenza dell’exemplum 25, ma trasmessi a Vasari tramite gli Elogia gioviani 26. Senza entrare ulteriormente nel merito della produzione letteraria di Paolo Giovio, oggetto di numerosi studi recenti, potrebbe essere più significativo dedicare una qualche attenzione a due testi molto diversi l’uno dall’altro, che Giovio e dunque Vasari ben conoscevano, ovvero, in ordine cronologico, il De Viris Illustribus di Bartolomeo Facio, che include biografie di artisti, e le Illustrium imagines di Andrea Fulvio, un trattato antiquario con la riproduzione di medaglie imperiali, corredato da brevi cenni biografici. Il Facio (1405/1410-1457) storiografo della corte napoletana dal 1446, acerrimo oppositore di Lorenzo Valla 27, ha stilato tra il 1455 e il 1457 sessantatré biografie di uomini illustri contemporanei, con dedica ad Alfonso d’Aragona 28. Giovio gli dedica un breve Elogio 29. Sette gli artisti, nell’ordine «De pictoribus» e «De sculptoribus». L’ut pictura poesis è espresso nel testo e anche nell’ordine delle biografie, quelle degli artisti seguono infatti quelle dei poeti. La chiusa del talvolta inglobata nel testo, allorché è stato ampliato da aggiunte in chiusa. Scompare tra prima e seconda edizione «Galasso ferrarese pittore» del quale Vasari era perfino riuscito a trovare che era stato «onorato dopo la morte da un amico»: ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 389. 25 P. L. RUBIN, Giorgio Vasari. Art and History, Yale University Press, New Haven & London 1995, p. 5. 26 Pavli Iovii Opera, cura et studio Societatis Historicae Novocomensis denuo edita, a cura di R. Meregazzi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 19561984, 9 voll., VIII Elogia virorvm illustrium. 27 G. ALBANESE (a cura di), Studi su Bartolomeo Facio, ETS, Pisa 2000. 28 Il testo venne pubblicato per la prima volta nel 1745: Bartholomaei Facii, De viris illustribus Liber nunc primum ex ms. cod. in lucem erutus. Recensuit, praefationem, vitamque auctoris addidit Laurentius Mehus, Giovannelli, Florentiae 1745, ed è riprodotto in edizione anastatica in La storiografia umanistica, Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), Sicania, Messina 1992, 2 voll., II, pp. 11-134. 29 Pavli Iovii Novocomensis Elogia virorum literis illustrium, quotquot vel nostra vel avorum memoria vixere, Petri Pernae, Basil 1577, p. 197.

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De Viris Illustribus offre interessanti spunti: «Ceterum praetermissa longiori disputatione de iis paucis Pictoribus, atque Sculptoribus, qui hac aetate nostra claruerunt, scrivere pergamus, ac de infinitis eorum operibus ea solum attingemus, quorum clara notizia ad nos pervenit» 30. I testi sono succinti: Gentile da Fabriano ha un talento «accomodato» in grado di dipingere ogni genere di pittura. La descrizione delle sue opere a Firenze, Siena e Venezia più che una «clara» notizia è conseguente alla visione diretta delle opere, e ne fa fede la vicenda biografica del Facio stesso, che ha molto viaggiato. Di Joannes Gallicus (Jan van Eyck), che «nostri saeculi Pictorum princeps judicatus est» 31, il testo del De Viris Illustribus esprime meraviglia per come il pittore abbia rappresentato lo specchio e il riflesso in esso. Nella rispettiva biografia Pisano da Verona (Pisanello) è apprezzato per come rappresenta le emozioni, mentre Rogerius Gallicus (Rogier van der Weyden) per avere eseguito opere singolari 32. Le epigrafiche definizioni del Facio sono di umanistica concinnitas, come lo è il lessico dell’anonimo corrispondente del Duca di Milano che, nell’elencare nel 1493 i pittori della cappella Sistina, di Botticelli dice che «le sue cose hanno aria virile» 33. Si stenta a credere che le ancor più sintetiche biografie degli scultori nel De Viris Illustribus possano essere state di qualche utilità per Vasari, essendo dedicate a tre fiorentini: Ghiberti padre (denominato Renzo), suo figlio Vittorio e infine Donatello. Due però sono gli elementi che possono far ricadere questo testo quale possibile «fonte» per Vasari. In primo luogo la conoscenza 30

B. FACIO, De Viris Illustribus…, cit., p. 100; «Quanto al resto, accantonata una più lunga dissertazione, continuiamo pure a occuparci di quei pochi Pittori e Scultori che si sono distinti in questa nostra epoca, anche se, tra le loro innumerevoli opere, a quelle sole accenneremo di cui ci sia giunta notizia certa». 31 «è stato giudicato il più grande pittore del nostro secolo». 32 M. BAXANDALL, Bartholomaeus Facius on Painting. A Fifteenth-Century Manuscript of the «De Viris Illustribus», in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 27, 1964, pp. 90-107. 33 J. KATZ NELSON, Filippino nei ruoli di discepolo, collaboratore e concorrente del Botticelli, in Botticelli e Filippino. L’inquietudine e la grazia nella pittura fiorentina del Quattrocento, Catalogo della mostra tenuta a Parigi e Firenze nel 2003-2004, Skira, Milano 2004, p. 95.

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diretta delle opere che ha consentito al Facio di farne un’attenta descrizione. Inoltre l’affermazione, a proposito di van Eyck: «putaturque ob eam rem multa de colorum proprietatibus invenisse» 34. Vasari non dedica una Vita a Giovanni da Bruggia – tale è la versione che fornisce del nome di Jan van Eyck –, ma ne tratta diffusamente sotto l’aspetto tecnico, nella Vita di Antonello da Messina, etichettandolo come il perfezionatore della pittura ad olio 35. Nel prosieguo del testo Vasari recupera l’affermazione del Facio riportando a Napoli l’inizio della storia: Costui dunque (Antonello), andando una volta per sue bisogne di Sicilia a Napoli, intese che al detto re Alfonso era venuta di Fiandra la sopradetta tavola di mano di Giovanni da Bruggia dipinta con olii che si poteva lavare e che reggeva ogni percossa 36.

Segue il racconto di come Antonello abbia poi appreso a Bruges, direttamente dal suo inventore, i segreti di tale tecnica e di come l’abbia trasmessa. Il De Viris Illustribus del Facio sono un precedente quattrocentesco delle biografie di artisti, la cui conoscenza da parte di Giorgio Vasari, seppur per l’intermediazione del Giovio, può essere ricostruita, come si è visto, sulla base di pochi spunti, quali appunto l’autorevolezza di un testo rispetto al possibile campanilismo della tradizione fiorentina. È in questa città che furono fatte le prime sperimentazioni della tecnica ad olio, grazie a Masolino (Madonna di Brema del 1423) e ancor prima al Maestro della Madonna Strauss (1404) 37, e Vasari ne avrebbe potuto menar vanto. 34 «per questo motivo si ritiene, inoltre, che egli abbia scoperto molte cose intorno alle proprietà dei colori». 35 Il primato fiorentino è affermato poche righe prima: «come provò Alesso Baldovinetti e Pesello e molti altri», ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 302. 36 B. FACIO, De Viris Illustribus…, cit., p. 102: «Eius est tabula insignis in penetralibus Alphonsi Regis» («C’è un suo quadro straordinario negli appartamenti di re Alfonso»). 37 Nel Museo Nazionale di Varsavia: L. BELLOSI, Da Brunelleschi a Masaccio: le origini del Rinascimento, in ID. (a cura di), Masaccio e le origini del Rinascimento, Skira, Milano 2002, p. 39.

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Per quanto attiene invece ai personaggi «nuovi», ovvero coloro che si erano distinti nel mondo delle lettere e delle arti, essi avevano già da tempo fatto irruzione, appunto quali uomini illustri dei quali perpetuare la memoria, in quel contesto di «borghesia concreta e pratica, ma saldamente legata ai valori dello spirito ed alla difesa della florentina libertas» espressa da Filippo Villani nel De Viris Illustribus Florentinis, composto a fine Trecento 38, a sua volta erede, sul piano letterario, del De Viris Illustribus di Petrarca 39. Ben più incisiva nel dar vita alle Vite è stata, probabilmente, la formula editoriale delle Illustrium imagines di Andrea Fulvio, date alle stampe a Roma per i tipi del Mazzocchi nel 1517 40. Il «diligentissimo antiquario», grazie alla sua profonda conoscenza di medaglie e monete antiche, con grande rigore, mise a punto la formula di «galleria» di ritratti e relativa biografia, per di più in una veste editoriale di straordinario pregio, con le incisioni delineate da Ugo da Carpi. L’opera ebbe larga fortuna editoriale tanto da essere ristampata a Lione nel 1524. Il trattato è stato il capostipite di un florido filone di «libri di ritratti», seguito in tempi brevi dagli Elogia gioviani e, a pieno titolo, benché non incluse nel corpus da poco catalogato, anche dalle Vite vasariane 41. I volumi lasciati in eredità da Vasari alla sua morte erano ben pochi sia nella casa d’Arezzo che in quella di Firenze, il che non osta che fosse nelle più che favorevoli condizioni di ricorrere alle biblioteche di tanti amici ed intendenti in ogni città, soprattutto Roma e Firenze. Tra le più note fonti che Vasari ha compulsato, con discreta certezza solo dopo il 1550, è il Proemio al Comento sopra la Comedia di Cristofo38 V. DA BISTICCI, Le Vite, ed. critica con introduzione e commento di A. Greco, Istituto del Rinascimento, Firenze 1970, vol. I, p. LII. 39 Con le derivate versioni figurative a Padova e a Venezia. 40 Illustrium imagines imperatorum, et illustrium virorum, ac mulierum vultus ex antiquis numismatibus espressi emendatum correptumque opus per Andream Fulvium diligentissimum antiquarium, Apud Jacobum Mazochium, Romae 1517. Ed. anastatica: Collegium Graphicum, Portland 1972. Cfr. anche A. FULVIO, Illustrium imagines, con nota di R. Weiss, Stab. tip. Julia, Roma 1967. 41 M. PELC, Illustrium Imagines: das Porträtbuch der Renaissance, Brill, Leiden-Boston-Köln 2002.

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ro Landino 42. Volume ancor più fortunato delle Illustrium Imagines per essere stato tirato in 1200 esemplari ed aver avuto ben sei ristampe in 16 anni, venne licenziato a Firenze il 30 agosto 1481 per i tipi di Niccolò di Lorenzo della Magna, con 20 tavole disegnate da Sandro Botticelli, e dedicato alla Signoria. Il Landino, quello «con un mantello rosso et una becca nera al collo» nella cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella 43, elenca 44 con epigrafica e folgorante definizione i Fiorentini excellenti in pictura et sculptura 45. Il testo era come si è detto accompagnato dalle incisioni di Botticelli, di cui Vasari ha una pessima opinione come illustratore: per essere persona sofistica comentò una parte di Dante, e figurò lo Inferno e lo mise in stampa, dietro al quale consumò di molto tempo […] Mise in stampa ancora molte cose sue di disegni che egli avea fatti, ma in cattiva maniera, perché l’intaglio era mal fatto 46.

Prendiamo a spunto i fiorentini «excellenti» elencati dal Landino per captare il metodo vasariano di impiego delle sue fonti. Nel 1481 il Comento mette alla pari i due fratelli Rossellino: «Restono opere perfecte d’Antonio cognominato Rosso. Et similmente di Bernardo suo fratello architecto nobile» 47. Nel 1550 il temperamento e il gusto di Vasari emergono con estrema chiarezza. Dedica una biografia ad Antonio Rossellino scultore fiorentino menzionando molto sbrigativamente Bernardo: E finalmente si morì […] lasciando un suo fratello architetto e scultore nominato Bernardo, che in Santa Croce fece di marmo la sepoltura di

42 Ed. cons. C. L ANDINO, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, Salerno Editrice, Roma 2001, 4 voll. 43 Ed. 1550 e 1568, Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 488. 44 Landino ha incluso Cimabue, Giotto, Maso, Stefano, Taddeo Gaddi, Masaccio, fra’ Filippo, Andreino (del Castagno), Paolo Uccello, fra’ Giovanni Angelico, Pesello, Pesellino, Filippo di Ser Brunellesco, Donato, Desiderio, Lorenzo Bartoluccio (Ghiberti), Antonio e Bernardo Rossellino. 45 Ricorrendo ampiamente nella introduzione di questa sezione a Plinio e anche al Villani almeno per le notizie sui pittori del secolo precedente. 46 Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. III, pp. 516-517. 47 C. L ANDINO, Comento sopra la Comedia…, cit., vol. I, p. 242.

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messer Lionardo Bruni da Arezzo, che scrisse la Storia fiorentina. Costui del continuo attese alla architettura; ma per non essere stato eccellente quanto il fratello, non se ne fa memoria altrimenti 48.

Nel 1568 già nella titolazione è evidentissimo il mutar di toni: Vita d’Antonio Rossellino scultore e di Bernardo suo fratello. Esplicita la fonte che gli ha fatto mutar d’accento: «secondo che racconta Giannozzo Manetti». Nell’intervallo tra prima e seconda edizione ha avuto tra le mani la biografia di Niccolò V, grande committente di Bernardo Rossellino 49, ed è anche riuscito a rintracciare il ritratto del Manetti nel palazzo del Proconsolo, di mano dei Pollaiuolo 50. Se il ragionamento sui modelli letterari aveva contraddistinto la prima edizione del 1550, la seconda del 1568 è stata rielaborata sulle fonti che gli suggeriva l’amico e sodale Vincenzo Borghini, passandogli i manoscritti e i libri della sua biblioteca. Pochissime volte Vasari dichiara il suo debito a un testo, ma per Cimabue, e solo nella seconda edizione, cita tra virgolette «un comentatore di Dante, il quale scrisse al tempo che Giotto vivea e dieci o dodici anni dopo la morte d’esso Dante […] il qual comento è oggi appresso il molto reverendo don Vincenzio Borghini» 51. Lo stesso testo è ripetuto, in forma abbreviata, nella vita di Giotto 52. Si tratta della citazione pressoché letterale dal cosiddetto Ottimo commento, ritenuto nei recenti studi danteschi di Andrea Lancia 53. Dei numerosi manoscritti di questo testo, considerato ottimo tanto da essere stato fra i primi spogliati per il Dizionario del48

Ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. III, pp. 393-396. «Giannozzo Manetti, nobile e dotto cittadin fiorentino, scrisse minutissimamente nella vita di detto pontefice»: ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 396; De vita ac gestis Nicolai Quinti Summi Pontificis. Cfr. F. CAGLIOTI, Bernardo Rossellino a Roma, II. Tra Giannozzo Manetti e Giorgio Vasari, in «Prospettiva», 65, genn. 1992, pp. 31-43. 50 Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 503. 51 Vita di Cimabue, ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 43. 52 Vita di Giotto, ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 117. 53 A. TORRI (a cura di), L’ottimo commento della «Divina Commedia». Testo inedito d’un contemporaneo di Dante, Arnaldo Forni Editore, Sala bolognese 1995 (ripr. facs. dell’ed. Capurro, Pisa 1827-1829), 3 voll., II, Purgatorio, p. 188. 49

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la Crusca, non è dato per ora sapere quale fosse nelle mani di Borghini e dunque di Vasari. Da questa pressoché unica citazione fatta dal biografo aretino con criteri redazionali pressoché impeccabili, è possibile far emergere un aspetto dell’autore quale artefice del suo testo, il conoscitore che verifica e vaglia ogni informazione. Quello che sembra un refuso è una correzione da intendente. Nel testo del quarto decennio del Trecento il commentatore, elencando i luoghi nei quali ha operato Giotto, scrive: «a Roma, a Napoli, a Vinegia, a Padova» 54. Il testo della Giuntina sostituisce «Vinegia» con «Vignone». Vasari a Venezia non solo c’era stato ma nel 1542 vi aveva anche lavorato dipingendo un soffitto in Ca’ Corner Spinelli sul Canal Grande e realizzando l’allestimento per la Talanta dell’amico e conterraneo Pietro Aretino in un perduto palazzo in Cannaregio. Dunque sapeva benissimo che a «Vinegia» Giotto non aveva mai lavorato, mentre «fu forzato [ad] andarsene con quel papa là dove condusse la corte, in Avignone, per farvi alcune opere» 55. Ancora la Vita di Giotto, e fin dalla edizione Torrentiniana, offre lo spunto per un corollario sul contributo degli amici e intendenti nel dar vita alle Vite. Le informazioni vengono raccolte dalla viva voce, e non solo mediate da testi o carteggi. Alludo all’intervento di conservazione degli affreschi di Giotto a Roma, ovvero al taglio del muro in San Pietro, per preservare una tale testimonianza figurativa. Ad occuparsene è stato il fiorentino Niccolò Acciaioli, conservatore di Roma 56, omonimo del tanto più illustre avo, denominato dottore da Vasari che lo conosceva e ne ha tramandato l’operato 57. Quanto ai tempi di realizzazione delle Vite, la ben nota lettera indirizzata a Cosimo de’ Medici, ad accompagnare l’invio della copia fresca di stampa della Torrentiniana, recita: «vi porgo non le fatiche 54

Cfr. ibidem (commento ai vv. 94-96 del canto XI del Purgatorio). Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 106. 56 Niccolò di Giovanni Acciaioli (1494-1565), nobile romano, Priore di Libertà per il quartiere di Santa Maria Novella nel 1530, si trasferì a Roma quando venne istituito il ducato ed è sepolto in San Gregorio al Celio: cfr. C. UGURGIERI DELLA BERARDENGA, Gli Acciaioli, Olschki, Firenze 1961. 57 Ed. 1550 e 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 106. 55

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e lo stento di duo mesi, ma quelle di dieci anni» 58. Lo stesso arco di tempo è rammentato nella conclusione di quell’edizione «nel cercare minutamente dieci anni tutta la Italia per i costumi, sepolcri et opere di quegli artefici de’ quali ho descritto le Vite» 59. La discussione sulle arti e gli artefici e la conseguente raccolta di notizie, andrebbe forse addirittura anticipata all’ingresso di Giorgio Vasari nella cerchia di Ippolito de’ Medici, alla sua prima conoscenza con il Giovio e dunque della cerchia di umanisti intorno al 1532 60. Quanto alla stesura del testo vero e proprio già nel dicembre del 1546 esso era nelle mani dell’olivetano Gian Matteo Faetani, abate del monastero di Santa Maria della Scolca a Rimini, committente di Vasari per la pala della chiesa del monastero, che si era offerto di «farlami trascrivere a un suo monaco, eccellente scrittore, e di correggerla egli stesso» 61. Pochi testi quanto le Vite sono assurti ad imprescindibile fonte nello studio delle arti, ma è solo a partire dall’inizio del Novecento che l’attenzione degli studi si è rivolta alla individuazione delle fonti utilizzate da Vasari, e dei modelli da lui adottati. Si devono allo Scoti Bertinelli nel 1905 e al Kallab nel 1908 62 le prime letture filologiche e la conseguente enunciazione dei testi compulsati da Vasari, soprattutto per ricavarne notizie. Le fonti che il biografo aretino cita esplicitamente sono relativamente poche e facilmente consultabili nella versione virtuale delle due edizioni, disponibile in rete grazie alla Scuola Normale Superiore di Pisa 63. Le fonti ricordate sono anch’esse non troppo numerose, dalle carte dell’architetto Girolamo Genga 64 ai Commentari di Lorenzo Ghiberti. Vasari ha trascorso un paio di mesi nella bottega dei discendenti, rimasta attiva e completa 58

Lettera di Giorgio Vasari da Roma a Cosimo de’ Medici a Pisa, 8 marzo 1550, in K. FREY (a cura di), Der Literarische Nachlass…, cit., vol. I, CXXXI, p. 270. 59 Ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. VI, p. 409. 60 J. KLIEMANN, La Toscana nel ’500, in L. CORTI, M. DALY DAVIS et al. (a cura di), Giorgio Vasari…, cit., p. 119. 61 L. CORTI, Vasari: catalogo completo, Cantini, Firenze 1989, p. 70, n. 50. 62 W. KALLAB, Vasaristudien, Grasser, Wien 1908. 63 cribecu.sns.it 64 Ed. 1568 Barocchi Bettarini, vol. V, p. 348.

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della collezione di «anticaglie» e della biblioteca dell’avo, fino a che Vittorio alienerà l’eredità familiare. Il manoscritto dei Commentari arriverà nelle mani di Vincenzo Borghini, che non avrebbe avuto nessuna esitazione a farlo consultare all’amicissimo Giorgio 65. Nell’edizione Giuntina Vasari ricorda Giovanni Villani e il tempo in cui «cominciò a scrivere l’istorie universali de’ tempi suoi» 66. Lo ritrae, insieme al fratello Matteo, tra gli illustri fiorentini nell’apparato per le nozze di Francesco de’ Medici. Da Giovanni Villani ha attinto la data della morte di Giotto: «Maestro Giotto, tornato da Milano […] passò di questa vita […] MCCCXXXVI» 67, frase ripresa quasi alla lettera nella Giuntina 68. Per le notizie sugli artisti fiorentini del Trecento ha invece utilizzato, senza però mai citarlo, il De Origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus, del nipote di Giovanni, Filippo, i cui capitoli «De Cimabue, Giocto, Maso, Stephano et Taddeo pictoribus» gli sono stati ben più ricca miniera di notizie 69. La sostituzione del nome andrà forse da imputarsi al suo attento consigliere Vincenzio Borghini, molto più interessato allo zio che al nipote, tanto da stilare le Annotazioni sopra Giovanni Villani 70. Della ben nota letteratura artistica fiorentina a lui di non troppo precedente non è esplicitamente ricordato da Vasari il Libro di Antonio Billi 71, benché gli fosse certamente noto, e in questo caso 65 L. GHIBERTI, I commentarii (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333), introduzione e cura di L. Bartoli, Giunti, Firenze 1998. 66 Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 10. 67 Le poche notizie su Giotto, oltre a ricordarlo come provveditore di S. Reparata, lo dicono attivo a Milano negli ultimi anni di vita: G. VILLANI, Nuova Cronica, ed. critica a cura di G. Porta, Fondazione Bembo, U. Guanda, Parma 1990-1991, 3 voll., III, p. 53. 68 Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 16. 69 G. TANTURLI, Le biografie d’artisti prima del Vasari, in Il Vasari storiografo e artista, Atti del Congresso internazionale nel IV centenario della morte, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1974, p. 275. 70 V. BORGHINI, Annotazioni sopra Giovanni Villani, ed. critica a cura di R. Drusi, Accademia della Crusca, Firenze 2001. 71 Le biografie di artisti fiorentini, scandite in tre parti, non sono ordinate cronologicamente né per arti. Le prime due parti del testo sono databili tra il 1505 e il 1515, la terza parte con i profili di Leonardo e Michelangelo al 1527-1530: F. BENEDETTUCCI (a cura di), Il libro di Antonio Billi, De Rubeis, Roma 1991.

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è la filologia che ci soccorre, mentre certamente non conobbe l’Anonimo Magliabechiano 72. Ma la peculiarità delle Vite, pur ricomponendo lo stemma delle fonti utilizzate e dei modelli ai quali Vasari si è adeguato, è ancor più evidente mettendo a confronto il testo dell’aretino con quello ben meno noto e anzi piuttosto trascurato dalla storiografia moderna, ovvero le Venti vite d’artisti di Giovan Battista Gelli 73. Il Gelli è noto soprattutto come commentatore di Dante e di Petrarca e autore di testi teatrali di una qualche fama all’epoca, quali la Circe, utilizzata dal pittore genovese Sinibaldo Scorza come «libretto» per un dipinto rappresentante Circe, Ulisse e gli animali, ora in Palazzo Bianco a Genova 74. Il Gelli è stato anche traduttore della vita di Alfonso d’Este, scritta dal Giovio e data alle stampe ne Le vite di dicenove uomini illustri, descritte da monsignor Paolo Giovio 75. Non doveva proprio essere sodale di Giorgio Vasari in quanto membro di quella cerchia fiorentina della quale facevano parte Pierfrancesco Riccio e il Pontormo. Il cortigianissimo Vasari non poteva esprimere con maggior 72

A. FICARRA (a cura di), L’Anonimo Magliabechiano, Fiorentino, Napoli 1968. Pubblicate per la prima volta da G. MANCINI, Vite d’artisti di Giovanni Battista Gelli, in «Archivio Storico Italiano», V/XVII, 1896, pp. 32-62, e nello stesso anno ristampate in volumetto: G. B. GELLI, Venti vite d’artisti, Vellini, Firenze 1896. Cfr. A. L. DE GAETANO, Giambattista Gelli and the Florentine Academy. The Rebellion against Latin, Olschki, Firenze 1976, pp. 46-47; M. DALY DAVIS, Giovan Battista Gelli, in L. CORTI, M. DALY DAVIS et al. (a cura di), Giorgio Vasari…, cit., pp. 190-191. 74 A. WOOTTON, On Circe’s Island. Subversive Power Relationships in a Painting by Sinibaldo Scorza, in «Melbourne Art Journal», I, 1997, pp. 17-24. 75 Le vite di dicenove uomini illustri, descritte da monsignor Paolo Giovio, in diversi tempi e luoghi stampate; cioè, di dodici Visconti, & di Sforza, duca di Milano. Di Leone decimo, & Adriano sesto pontefici. Di Pompeo cardinale di Ferrante Davalo marchese di Pescara. Ora nuovamente raccolte, & ordinate tutte insieme in questo volume, & tutte di correttioni, tavole, & postille adornate, appresso Giovan Maria Monelli, in Venetia 1561. La Vita di Alfonso da Este, sempre nella traduzione italiana del Gelli è spesso annessa al Commentario delle cose di Ferrara, et de’ Principi da Este, Di M. Giovambattista Girali gentiluomo ferrarese. Aggiuntovi la vita di Alfonso da Este, duca di Ferrara, descritta dal Giovio, appresso Gio. Battista, & Gio. Battista Sessa, in Venetia 1597. 73

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chiarezza la sua distanza dal saturnino Pontormo, nel mostrarsi critico su base «stilistica», per non esserlo prudentemente su base «confessionale» 76, riguardo al ciclo di affreschi che quest’ultimo aveva realizzato, grazie all’intermediazione di Pierfrancesco Riccio appunto, nella cappella maggiore di San Lorenzo, facendo comunque trasparire la grande invidia di non aver ricevuto lui la commissione. Il Gelli era amico di costoro forse in quanto di temperamento ruvidamente indipendente: «vivendomi contento nelle mie case del pane che mi viene dalla fatica delle mie mani». Era nato a Firenze nel 1498 da un vinattiere ed aveva appreso il mestiere di «calzajolo» rimanendo membro di tale arte anche quando riuscì a conquistare il favore di Cosimo I e lo stipendio di lettore di Dante. Era dotato dello stesso fiorentinissimo spirito fattivo che aveva indotto Filippo Villani a prendere in considerazione quali illustri non solo condottieri e presuli ma medici e artisti, tanto che ogni dedicatoria delle opere del Gelli è indirizzata a Mercanti: «mi sono risoluto di onorarne […] quegli uomini che sono al consorzio umano di qualche utile» 77. Gelli è cresciuto nella cerchia degli Orti Oricellari della quale facevano parte Benedetto Varchi, Jacopo Nardi, Nicolò Machiavelli, oltre agli aristocratici nostalgici del tempo di Lorenzo il Magnifico. Repubblicano mai veramente dominato dalla passione politica, di veramente modesto impegno civile, entrò nell’Accademia degli Umidi nel 1540 e quando questa fu convertita in Accademia fiorentina, continuò a farne parte 78, svolgendo al suo interno quasi ogni sua attività. L’Accademia, forse la più matura espressione della politica culturale di Cosimo I, era particolarmente incentrata sulla questione della lingua, sintetizzabile in scrivere in fiorentino e tradurvi i testi latini e greci. Il decennio più fertile per l’accademico Gelli è stato quello tra il 1543 e il 1553, in cui dette alle stampe le sue opere principali, dalla commedia La sporta, ai dialoghi I capricci del bottaio e la Circe. Nel 1553 76 M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Einaudi, Torino 1997. 77 Dedica della prima edizione della Lettura prima sopra lo «Inferno» (1549) a Giuseppe Bernardini «Gentiluomo e mercante lucchese», cfr. M. POZZI (a cura di), Trattatisti del Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1978, p. 854. 78 A. PISCINI, Gelli Giovan Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1999, v. 53, p. 14.

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venne incaricato delle letture dantesche 79. La fiorentinità della lingua, rafforzata dal recupero del testo dantesco, lo indusse a comporre le Venti vite d’artisti, solo fiorentini, che non ebbe modo di pubblicare. I giudizi che formula sugli artisti non fiorentini in altri suoi testi possono essere piuttosto severi: «E di maestro Simone da Siena non ci è memoria alcuna, che fussi di tanta fama, e oltre a di questo non si vede ancora molta arte in quelle opere che si trovano ai tempi nostri di suo» 80. È ipotizzabile che le sue Vite siano state stilate prima del 1550 e anche interrotte in quello stesso anno, per l’uscita di quelle vasariane, assai più dettagliate, articolate e non solo fiorentine. Quelle del Gelli sono molto discontinue tra loro per quantità di informazioni e dunque per lunghezza dei testi, ma soprattutto si tratta di liste di opere, senza specifico intento di commento, però con un compiacimento per i modi di dire in buona lingua fiorentina: «ne la città nostra […] quando si vuol dire che una cosa è orribile e spaventosa si dice ella par la morìa del quarantotto» 81. Fornisce note di costume: «et io ne ricordo molti dal 1512 in là stare a bottega e lavorare co’ cappucci avolti al capo et ciò dicevano fare per difendersi dall’aria, la quale dicono essere molto sottile in Firenze» 82. La successione dei primi cinque artisti è quella del Comento sopra la Comedia del Landino (Cimabue da Firenze, Giotto di Bondone da Vespignano, cittadino Fiorentino, Maso, Stefano, Taddeo Gaddi). Non tratta Masaccio, preferendo includere una brevissima nota su Masolino, conterraneo e del contado come il primo. Nello stilare le biografie non è stato sistematico né forse ha potuto completare l’impresa, che però ha dedicato all’amico carissimo Francesco di Sandro, non altrimenti noto. Le conoscenze in suo possesso sugli artisti erano ben più vaste di quanto espone nelle Venti Vite e ce lo conferma un passo del suo commento su Petrarca quando elenca, senza dimenticare quasi nessuno, in successione cronologica la scuola fiorentina che «ponendo 79 M. A. WATT, The Reception of Dante in the Time of Cosimo I, in K. EISENBICHLER (a cura di), The Cultural Politics…, cit., p. 123. 80 G. B. GELLI, Lezione sesta sopra i due sonetti che lodano il ritratto di Madonna Laura, in Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XIX, LXXIII/CCIV-CCV, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1969, p. 255. 81 ID., Venti vite…, cit., p. 46. 82 Ivi, p. 47.

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sempre l’uno piede alquanto innanzi l’altro» venne «condotta finalmente a tal termine di perfezione» da Michelangelo 83. Nelle Vite sembra più interessato a quegli artisti che ora si definirebbero tardo gotici, come Starnina, a detrimento dei prospettici come Paolo Uccello. Delle tre generazioni di Gaddi mostra di aver conoscenze che gli derivano dalla frequentazione della famiglia e si entusiasma perché Agnolo: Fece i figli mercatanti et furonsi richi di più di trentamila fiorini, tra i quali guadagnò Agnolo nella cappella di Santa Croce, della quale per esser huomo ricco et onorato fu pagato da la famiglia degli Alberti straordinariamente, et dicono alcuni che egli ne ebbe dodici milia fiorini, sì che vedete in che stima era allora l’arte della pittura 84.

Gelli ribadisce così il suo prediletto concetto che anche gli artisti «sono al consorzio umano di qualche utile». Ben diversamente da Vasari che allo stesso proposito, anch’egli ammirato dalle capacità di «dar principio a grandissima ricchezza» di casa Gaddi «oggi in Fiorenza nobilissima e in tutta la cristianità molto reputata» 85, afferma: «Agnolo si dice lasciò “ai figlioli” il valore di 50.000 fiorini o più». Questo nella Giuntina 86, mentre nella virtuosa Torrentiniana severamente stigmatizza: «Agnolo rimase benestante e traficando nelle mercanzie danari indebolì l’ingegno che all’arte da principio aveva volto per innalzarsi con la virtù» 87. Che le maniere dell’arte interessassero abbastanza poco al Gelli, rispetto almeno al conseguimento di un successo, si ricava dalla vita di Ghiberti. Sullo scultore si sofferma a lungo, conoscendo anch’egli il «libro di prospettiva che eglj compose», interrompendo la sintesi che ne trae prima dell’ultima parte del secondo Commentario, quando Ghiberti parla dell’allogagione della seconda porta, quella nota come del Paradiso 88. 83

ID., Lezione sesta…, cit., pp. 232-233. ID., Venti vite…, cit., p. 45. 85 Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. II, p. 243. 86 Ivi, p. 249 87 Ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. II, pp. 243-244. 88 Gelli si è fermato all’inizio di carta 12r.: cfr. L. GHIBERTI, I commentarii…, cit., p. 95. 84

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Nelle Venti vite il testo dedicato a Brunelleschi è lungo e dettagliato e anche in questo caso ha fatto una sintesi della Vita di Antonio Manetti 89, attingendo anche dalla Novella del Grasso Legnaiolo, dello stesso autore 90. Rispetto alla trattazione manettiana il Gelli si distingue nell’aggiunger sapidi aneddoti di tradizione orale: «Paulo matematico et astrologo in que’ tempi famosissimo» con il quale Brunelleschi aveva studiato matematica «usava dire che quando Pippo parlava, che così si chiamava allora volgarmente, e massimamente fra gli artefici, gli pareva udire san Paulo» 91. Ancora da una tradizione aneddotica ha da essere stata ricavata la storia che Gelli racconta del mancato pagamento a Donatello del monumento equestre al Gattamelata: Non avendo mentre che egli lo faceva da’ Vinitiani i denari che gli bisognavano gli ispichò una mattina il collo, per il che minacciato de’ Vinitiani dicendogli: che direstu se noi tagliassimo la testa a te? Rispose: nonnulla se voi sapessij e’ appiccarònela come farei io a lui. La quali parola intesa da loro gli dettono i denari et egli lo condusse a perfezione 92.

Mettendo in sequenza le «biografie» su Donatello, limitandosi all’attività padovana, si rileva la ripetitività della formulazione delle notizie nell’Anonimo Magliabechiano e nel Libro di Antonio Billi 93. Se ne distinguono solo Vasari e Gelli. Del secondo si è già colto il gusto per il racconto burlesco, per Vasari si può rilevare l’enfasi sulla virtù riconosciuta. Alla descrizione della maestria di Donatello nel realizzare un cavallo, come solo avevano saputo fare in antico, segue la storia della proposta formulata all’artista da parte dei padovani di farlo divenire cittadino. La novellistica e i suoi modi espressivi non sono del tutto estranei anche alle ricostruzioni biografiche di Vasari, come è stato evin89 A. MANETTI, Vita di Filippo Brunelleschi, a cura di C. Perrone, Salerno Editrice, Roma 1992. 90 ID., Novella del grasso legnaiolo nella redazione del codice Palatino 200, Accademia della Crusca, Firenze 1968. 91 G. B. GELLI, Venti vite…, cit., p. 51. 92 Ivi, p. 60. 93 F. BENEDETTUCCI (a cura di), Il Libro di Antonio Billi, De Rubeis, Roma 1991.

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GIORGIO VASARI:

DAR VITA ALLE

VITE

to da alcune sue scelte lessicali o dalla presenza di aneddoti desunti da questo filone letterario, rievocati comunque in modo espurgato. Si vedano a confronto la vita di Buffalmacco del 1550 e del 1568. Solo nella seconda in ordine cronologico, quella fiorentinizzata, sono filtrati i testi delle Novelle del Sacchetti 94. Il testo del Gelli invece è sempre esplicito e schietto, come quando riporta il commento degli Operai del Duomo fiorentino più che scettici sulla proposta della cupola avanzata da Brunelleschi: «Che ti pare egli avere a uccellare parechi fanciugli». La frase è ben più moderata nel Manetti: «Guarda quel matto che dice le tal cose». Il Gelli, non essendo artista, resta sempre sul piano dell’aneddoto, non avendo cognizione della prassi di formazione degli artisti, educati sull’esempio dei maestri che li hanno preceduti. Dice di Michelangelo che è «stato veduto più volte fissamente ragguardare» gli affreschi di Giotto. Vasari non ricorda Giotto ma del Buonarroti fornisce la puntuale indicazione: «Disegnò molti mesi nel Carmine alle pitture di Masaccio» 95. Ma anche in Santa Croce Michelangelo aveva disegnato e non solo guardato Giotto e ne fanno fede i suoi disegni giovanili. Dunque biografie in cui prevale il gusto per il racconto quelle del Gelli che inoltre da Firenze non si è mosso e che di quanto si è fatto fuori della cerchia delle sue mura ha solo sentito qualche volta raccontare, e limitatamente dei fatti di fiorentini. Ne abbiamo una prova nella vita di Andrea Orcagna che: ritrasse di naturale Guardi messo tirato con un oncino da diavoli per uno sdegno che egli aveva seco, che l’aveva di già pignorato […] la qual cosa dicono avere fatto ancora Michelagnolo a Roma avendo dipinto nel suo inferno il maestro di cerimonie del papa per avergli fatto non so che dispiacere 96.

Aveva a disposizione le stesse fonti di Vasari, ma quest’ultimo se ne è avvalso per acquisire fatti, perfezionare le notizie, esprimere giudizi anche faziosi, comunque sempre da intendente. 94

L. RICCÒ, Tipologia novellistica degli artisti vasariani, in G. C. GARFAGNINI (a cura di), Giorgio Vasari tra decorazione ambientale e storiografia artistica, Olschki, Firenze 1985, p. 197. 95 Ed. 1550 Barocchi-Bettarini, vol. V, p. 12. 96 G. B. GELLI, Venti vite…, cit., p. 46.

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L AURA CORTI

Qualche cenno sulla fama degli artisti assicurata dai letterati, come Lodovico Ariosto per Dosso Dossi 97 ad esempio, si coglie alla lettura delle Vite, ma sul perché un pittore ed architetto aretino si sia messo a scrivere l’Istoria in forma biografica credo che ce lo dica chiaramente lui stesso e fin dalla prima edizione, parlando di Leon Battista Alberti: perché l’arte col mezzo della scienzia diventa molto più perfetta e più ricca, sì perché gli scritti et i consigli de’ dotti artefici hanno in sé molto maggiore efficacia et acquistansi maggior credito che le parole o le opere di coloro che non sanno altro che il semplice esercizio, o bene o male che essi lo faccino: ché invero leggendo le istorie e le favole et intendendole, un capriccioso maestro migliora continovamente e fa le sue cose con più bontà e con maggiore intelligenzia che non fanno gli illitterati. E che questo sia il vero manifestamente si vede in Leon Batista Alberti fiorentino, il quale, per aver atteso alla lingua latina e dato opera alla architettura, alla prospettiva e alla pittura, lasciò i suoi libri scritti in maniera che, per non essere stato fra gli artefici moderni chi le abbia saputo distendere con la scrittura, ancora che infiniti ne abbiamo avuti più eccellenti di lui nella pratica, e’ si crede comunemente (tanta forza hanno gli scritti suoi nelle bocche de’ dotti) che egli abbia avanzato tutti coloro che lo avanzarono con l’operare. E vedesi per il vero, quanto a lo accrescere la fama et il nome, che fra tutte le cose gli scritti sono e di maggior forza e per tutto si acquistan fede, perché e’ siano veritieri e senza menzogne; per il che qualunque paese può conoscere il valore dello ingegno e le belle virtù di altrui molto più che per le opere manuali, che rare volte possono mutarsi da quel luogo ove elle son poste 98.

Insomma scrivendo si accresce la fama e il nome e si viene conosciuti ovunque: un modo di pensare da vero accademico e non solo dell’Accademia del disegno.

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Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. IV, p. 419. Ed. 1568 Barocchi-Bettarini, vol. III, p. 284.

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RACCONTARE CERVANTES:

LE SCELTE DEL BIOGRAFO

Le scelte annunciate dal titolo della mia relazione non sono, come si sarà notato, quelle di un biografo di Cervantes, bensì quelle del biografo, dunque di tutti i biografi, passati, presenti e futuri. In altri termini, non tratterò soltanto dei problemi che io ho riscontrato e che hanno pilotato le mie scelte venti anni fa, nel redigere una vita di Cervantes in circostanze che mi appresto a precisare 1, ma, più in generale, dei problemi che devono aver affrontato – o avrebbero dovuto affrontare – gli uomini e le donne che da più di trecento anni hanno voluto «raccontare» Cervantes, e di quelli che dovranno affrontare i loro successori. Insomma, tenterò di mettere in evidenza il senso e la portata di un’avventura condivisa: innanzitutto ricordando il contributo – assolutamente essenziale – dei miei predecessori, allo scopo di mostrare qual è la tradizione in cui mi sono inserito; in secondo luogo, cercando di precisare il mio apporto personale, senza omettere di indicarne i limiti; infine, segnalando le esigenze che a mio avviso dovranno essere alla base delle future biografie di Cervantes destinate a sostituire e a superare la mia. La storia del genere biografico è stata oggetto di numerosi studi, la maggior parte dei quali consacrati a distinguere diverse tappe nella sua evoluzione. Quello recentemente pubblicato da François Dosse, Le Pari biographique, descrive una prima età, detta «eroica», che va dalle origini alla fine del XIX secolo, durante la quale la biografia assumerebbe una funzione identificatrice, offrirebbe un modello morale edificante. Una seconda età, quella della biografia «modale», corrisponderebbe a un decentramento della singolarità del percorso ritracciato verso una prospettiva più ampia, quella di un ideale-tipo che porta il marchio del trionfo delle scienze sociali. Quanto alla tappa attuale, inaugurata nel XX secolo, sarebbe un’età 1

J. CANAVAGGIO, Cervantès, Mazarine, Paris 1986; ed. rivista e ampliata: Fayard, Paris 1997; tr. it. di C. G. Popoli: Lucarini, Roma 1988.

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«ermeneutica», l’età di una trasformazione del genere tramite l’interrogarsi sul soggetto, di un rinnovamento profondo della scrittura biografica che entrerebbe nell’era della riflessività 2. Venti anni prima di Dosse, anche Daniel Madelénat, pur con una periodizzazione un po’ diversa, aveva adottato una divisione in tre tappe – classica, romantica e moderna – a ognuna delle quali corrispondeva un determinato canone 3. Ora, pur non disponendo ancora di una storia dettagliata delle biografie cervantine, un richiamo sommario della traiettoria da esse tracciata ci porta a riconoscere, uno dopo l’altro, questi tre paradigmi. Il primo, che ha dominato la letteratura occidentale per quasi duemila anni, dal I secolo a. C. alla prima metà del XVIII secolo, si fonda sul concetto di peras, ovvero «concisione deliberata», come emerge da un certo numero di tratti caratteristici: in particolare l’ordine retorico del discorso biografico, la razionalizzazione a volte eccessiva del vissuto, l’intenzione di illustrare il carattere o la funzione a discapito della singolarità personale, la ricerca dell’esemplarità. A questo modello, rappresentato in prima istanza dalle Vite degli uomini illustri di Plutarco, corrisponde a modo suo in Spagna la Fama póstuma de Lope de Vega, composta nel 1636, all’indomani della morte di quest’ultimo, dal suo ammiratore e discepolo Juan Pérez de Montalbán 4. Modello implicito, ovviamente, per quanto l’esaltazione da parte del biografo della fantasia vitale del «Mostro della natura» finisca con l’alterare le norme del panegirico. Nel caso di Cervantes, e in assenza di panegiristi paragonabili a Montalbán, sono i suoi biografi che, a partire dal XVIII secolo, elaboreranno un tipo di narrazione conforme al modello classico. Certo, paragonando i vari saggi dei cervantisti dell’Illuminismo – Mayans y Siscar (1737), Vicente de los Ríos (1780), Pellicer y Saforcada (1800), e tra essi rientra anche Fernández de Navarrete (1819) 5 – si vede come l’informa2

F. DOSSE, Le Pari biographique. Écrire une vie, La Découverte, Paris 2005. D. MADELÉNAT, La Biographie, PUF, Paris 1984. 4 J. PÉREZ DE MONTALBÁN, Fama póstuma a la vida y muerte de Lope de Vega Carpio, Imprenta del Reino, Madrid 1636. 5 G. MAYANS Y SISCAR, Vida de Miguel de Cervantes Saavedra, Briga Real 1737; V. DE LOS RÍOS, Vida de Miguel de Cervantes (preambolo all’edizione di Don Quijote pubblicata dalla Real Academia Española), Madrid 1780; J. A. PELLICER Y SAFORCADA, Vida de Miguel de Cervantes Saavedra, Gabriel de Sancha, Madrid 1800; M. FERNÁN3

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zione di cui dispone il biografo si estenda di volta in volta, parallelamente all’accrescersi del volume dei documenti e all’approfondirsi della loro analisi critica, in un’ansia di erudizione che il XIX secolo renderà sistematica. Eppure, nonostante la trama degli eventi che hanno costellato la vita del soldato di Lepanto diventi sempre più fitta, il profilo che di lui ci viene presentato resta praticamente identico. Pur inserendosi in un contesto sempre più preciso, Cervantes ci appare, per riprendere la formula di Fernández de Navarrete, come «uno di quegli spiriti eccezionali che ogni tanto il cielo concede agli uomini per consolarli della loro miseria e della loro mediocrità» 6. Scrittore classico per eccellenza, egli trascende i cambiamenti dei gusti e delle mode senza subire, come Góngora, Quevedo o Calderón, la condanna del barocco operata dall’estetica neoclassica; ma incarna anche, agli occhi della posterità, il genio della Spagna in un momento in cui gli uomini dell’Illuminismo, preoccupati dal declino del loro paese, rivendicano il posto che questo dovrebbe avere nel concerto delle nazioni civili. Paradossalmente, questo profilo verrà offerto dalla biografia di Navarrete in un’epoca, quella di Ferdinando VII, in cui in tutto il resto dell’Europa s’impone progressivamente il paradigma romantico. Nato nella seconda metà del XVIII secolo, questo nuovo canone assegna alla biografia una finalità tanto vaga quanto esclusiva e suscettibile, in quanto tale, di diverse interpretazioni: essa deve offrire una rappresentazione «autentica» del personaggio, che si vuole cogliere allo stesso tempo nella totalità e nell’intimità. In questa linea vengono pubblicati oltremanica dei saggi suggestivi che, da Boswell a Carlyle, illustreranno la vitalità della scuola romantica inglese; e su questo stesso principio, benché con un netto scarto temporale e un livello di esigenza molto più modesto, sono basate le Vite di Cervantes che ci ha lasciato il XIX secolo spagnolo. Un Ramón León Máinez, nel 1876, arriverà a esporre nei termini seguenti l’ambizioso progetto di una biografia integrale: NAVARRETE, Vida de Miguel de Cervantes Saavedra, in appendice a M. DE CERDon Quijote de la Mancha, Imprenta Real, Madrid 1819, t. V. 6 M. FERNÁNDEZ DE NAVARRETE, Vida…, cit., , p. CCLXXI.

DEZ DE

VANTES,

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Vogliamo scoprire tutto ciò che ha a che fare con Cervantes non solo in quanto scrittore, ma anche in quanto uomo, non solo nella vita pubblica, ma anche, e preferibilmente, nella vita privata e intima. Vogliamo analizzare i suoi atti, rintracciare i suoi pensieri, esaminare i suoi moventi, giudicare le sue scelte, decifrare l’enigma delle sue passioni, conoscere perfettamente le ragioni più segrete dei suoi amori, dei suoi odi, dei suoi momenti di felicità o di tristezza in seno alle sue agitazioni domestiche. Vogliamo insomma, diciamolo in questi termini, ritrovare la fisionomia morale, intellettuale e fisica della personalità immortalata, affinché ne emerga il ritratto completo, non solo per quanto riguarda le apparenze, non solo sotto un aspetto particolare delle sue determinazioni, ma, nel modo più perfetto possibile, in tutte le tappe della sua vita: in breve, un’analisi psicologica del suo essere e una spiegazione dal vivo delle sue inclinazioni e delle sue passioni 7.

Detto ciò, tra il programma qui tracciato e la sua effettiva realizzazione restava da fare un passo gigantesco, un «salto equestre», come avrebbe detto García Lorca, che né Máinez né i suoi emuli hanno davvero tentato di fare. Tributaria delle sue illusioni, la biografia romantica – per lo meno nel caso di Cervantes – si rivelerà incapace di compiere la sua missione. Le sue smisurate aspirazioni non resisteranno agli interrogativi conseguenti alla crisi dei valori del XX secolo, e in particolare alla messa in questione dei presupposti di un genere che intendeva cogliere, attraverso vie razionali, la verità integrale di un’esistenza particolare. In compenso, dell’eredità romantica resterà la volontà di sottomettere la rappresentazione di una vita all’imperialismo della testimonianza autentificatrice, e ciò mano a mano che aumenterà il peso delle fonti nel processo di ricostruzione di quella data vita. Questa tendenza appariva già nella prima biografia cervantina accompagnata da un’analisi critica dei documenti che la completano, quella di Fernández de Navarrete. In seguito si affermerà in modo sempre più netto, tanto che la ricerca del documento finirà col conquistare piena autonomia: José María Asensio y Toledo (1866), Cristóbal Pérez Pastor (1897-1902), Francisco Rodríguez Marín (1899-1916) esplore7 R. LEÓN MÁINEZ, Vida de Miguel de Cervantes, Cadix 1876 (citato in L. ASTRAMARÍN, Vida ejemplar y heroica de Miguel de Cervantes Saavedra, Reus, Madrid 1948, t. I, p. XLIX).

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ranno così gli archivi pubblici e privati e riuniranno una massa di documenti sulla vita dell’autore del Don Quijote. La nascita, le campagne militari, la prigionia ad Algeri, le commissioni in Andalusia in qualità di munizioniere poi di esattore delle tasse, il soggiorno a Valladolid, i guai con la figlia naturale Isabelle dopo il ritorno definitivo a Madrid sono alcuni dei punti che questi studiosi hanno indubbiamente contribuito a chiarire, benché necessitino ancora di essere debitamente indagati 8. Nessuno di questi instancabili ricercatori ha tentato tuttavia di ricostruire la concatenazione di quegli eventi, il cui interesse vero e proprio sta nel modo in cui si incorporano nella sostanza stessa del vissuto cervantino. Invece della sintesi che si era in diritto di aspettarsi, l’erudizione positivista, ogni volta che si è sforzata di riunire i frutti sparsi delle sue scoperte, si è limitata a produrre compilazioni utilissime, certo, ma totalmente disincarnate. Le Efemérides cervantinas di Emilio Cotarelo y Mori (1905), come il resoconto redatto da James Fitzmaurice-Kelly col titolo sintomatico di Miguel de Cervantes Saavedra. Reseña documentada de su vida (1913-1917), costituiscono per noi dei repertori la cui consultazione rimane indispensabile e di cui si auspica l’aggiornamento; ma la somma dei fatti e delle prove che accumulano non riesce a parlarci né a prendere vita 9. La biografia romantica per eccellenza comparirà molto più tardi di quanto non ci si potesse aspettare. E non sarà tanto il racconto eccessivamente romanzato pubblicato nel 1905 da Fernando Navarro y Ledesma in occasione del terzo centenario della pubblicazione del Don Quijote 10, quanto la Vida ejemplar y heroica de Miguel 8 J. M. ASENSIO, Nuevos documentos para ilustrar la vida de Miguel de Cervantes Saavedra, Libr. de J. M. Geofrín, Sevilla 1864; C. PÉREZ PASTOR, Documentos cervantinos hasta ahora inéditos, Impr. de Fortanet, Madrid 1899-1902, 2 voll.; F. RODRÍGUEZ MARÍN, Nuevos documentos cervantinos, Real Academia Española, Madrid 1914. 9 E. COTARELO Y MORI, Efemérides cervantinas. Resumen cronológico de la vida de Miguel de Cervantes Saavedra, Tip. de la Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos, Madrid 1905; J. FITZMAURICE-KELLY, Miguel de Cervantes Saavedra. Reseña documentada de su vida, University Press, Oxford 1914. 10 F. NAVARRO Y LEDESMA, El ingenioso hidalgo Miguel de Cervantes Saavedra. Sucesos de su vida, Impr. Alemana, Madrid 1905.

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de Cervantes Saavedra, di Luis Astrana Marín (1948-1958) 11. Quest’opera monumentale, che conta addirittura otto volumi, resta ancora oggi un riferimento insostituibile per la massa di informazioni, a volte inedite, che contiene. Non per questo si è mancato, a giusto titolo, di criticarla, sia a causa del suo taglio che per i pregiudizi di cui soffre. Dal nostro punto di vista, è soprattutto da rilevare il modo in cui perpetua un tipo di approccio che si sarebbe potuto credere superato da più di mezzo secolo. Il suo autore, infatti, ha deliberatamente ignorato il paradigma della biografia moderna, apparso all’indomani della Prima Guerra mondiale e che, ancora oggi, continua ad avere uno straordinario successo. Questo paradigma, al di là delle forme transitorie che può rivestire, corrisponde all’instaurazione di nuove norme di oggettività, sia nella selezione delle modalità di conoscenza e delle finalità perseguite dalla ricerca, sia nel tipo di scrittura scelta dal biografo. Ora, nel suo accumulare dati e informazioni, Astrana Marín non elabora alcuno schema suscettibile di portarci al di là dell’immagine stereotipata di un Cervantes eroico ed esemplare al fine di farci accedere alle strutture profonde che sottendono le parole e i fatti del suo personaggio. Nel portare avanti il suo racconto con la passione di uno che intenda restituire al suo materiale il calore vitale, trasformando in soggetto il suo oggetto di studio, egli non cerca mai di dominare questa metamorfosi affettiva. Secondo le sue stesse parole, Cervantes è per lui «un uomo integrale, o piuttosto un superuomo che vive e muore stringendo tra le braccia l’Umanità» 12. In altri termini, il sentimento che anima costantemente il biografo non riesce a trasformarsi in una vera e propria comprensione della complessa personalità dell’autore del Don Quijote, irriducibile, comunque sia, alla semplice somma delle sue attività controllate e coscienti. L’impresa di Astrana è lungi dall’essere l’ultima parola in materia di biografia cervantina. Eppure, nel corso degli anni, è diventata una sorta di archetipo dal quale procedono, a livelli diversi, molte delle Vite di Cervantes lanciate da allora sul mercato editoriale. Essa 11 L. ASTRANA MARÍN, Vida ejemplar y heroica de Miguel de Cervantes Saavedra, Reus, Madrid 1948-1958, 7 tomi in 8 voll. 12 Ivi, t. I, p. CXXIV.

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è diventata nel contempo un contro-esempio per tutti coloro che hanno tentato di rinnovarne la formula. Alcuni, come Richard L. Predmore, hanno scelto di limitarsi a un racconto neutro dei fatti stabiliti, sacrificando però a un partito preso di rigore e di esattezza lo spessore del vissuto cervantino 13. Altri si sono impegnati a sistemare questi fatti in un contesto più ampio e più preciso: è quello che ha fatto recentemente Alfredo Alvar Ezquerra, forte del suo mestiere di storico, ma senza distinguere sempre in modo chiaro tra le intenzioni dell’autore e quelle dei personaggi, ridotti a meri portaparola del loro creatore 14. Infine, altri ancora, più coraggiosi, hanno tentato di andare oltre l’esteriorità dell’io cervantino per penetrare la personalità profonda dello scrittore, quale si esprime nel suo modo di essere e di agire: un compito che si sono assunti, con esiti diversi, un William Byron in Inghilterra, un Fernando Arrabal in Francia o un Andrés Trapiello in Spagna 15. Tuttavia, i tentativi di Byron e di Trapiello ci riportano entrambi, per vie oblique, al canone romantico; per quanto evidente sia lo sforzo dell’autore di accedere all’esistenza individuale del suo eroe, alla fine quest’ultima viene riassorbita nel destino di un uomo che ha dovuto lottare per anni contro una sorte avversa, prima di conoscere, a mo’ di rivincita, un’eccezionale apoteosi postuma, non paragonabile a quella di alcun altro scrittore spagnolo: un destino esemplare, probabilmente, ma, più spesso, circoscritto allo spazio esclusivo della chiara coscienza. In Un esclave nommé Cervantès, dal canto suo, Fernando Arrabal fonda su scoperte vecchie più di un secolo il racconto iconoclasta della vita di un reietto le cui imprese diventano quelle di un personaggio romanzesco – «un eroe sfuggito al suo universo tenero e crudele», come osserva Gérard de Cortanze 16 –, senza precludersi, ogni tanto, di identificarsi surrettiziamente con lui. In tutti i casi, potremmo dire, la verità essenziale del Cervantes «in sé» ha finito con l’offuscare la 13

R. L. PREDMORE, Cervantes, Dodd, Mead & Company, New York 1973. A. ALVAR EZQUERRA, Cervantes. Genio y Libertad, Temas de hoy, Madrid 2004. 15 W. BYRON, Cervantes. A Biography, Doubleday & Company, New York 1978; F. ARRABAL, Un esclave nommé Cervantès, Plon, Paris 1996; A. TRAPIELLO, Las vidas de Miguel de Cervantes, Planeta, Barcelona 1993. 16 G. DE CORTANZE, Le puzzle d’une vie, in «Le Magazine littéraire», 358, octobre 1997, p. 27. 14

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verità effettiva del Cervantes «per sé», a vantaggio di una trasfigurazione – o di una deformazione – dell’autore del Don Quijote che, se pure irrita o fa sorridere, non per questo corrisponde di meno alla ricerca, continuamente ripresa, di un’identità che ci sfugge. Questa ricerca, non potevo che farla mia, in accordo col mio obiettivo, certo, ma anche per rispondere alle attese del pubblico al quale destinavo il mio libro. Rivolgendomi tanto all’ispanista quanto al comune lettore, intendevo offrire una biografia e aggiornata e affidabile di Cervantes. Per biografia aggiornata intendo un libro che incorporasse nella sua totalità l’apporto della critica fin dal tempo già lontano in cui Américo Castro, con El pensamiento de Cervantes, che ricollocava lo scrittore spagnolo nel paesaggio intellettuale della sua epoca, aveva inaugurato l’età scientifica degli studi cervantini 17 – apporto che Astrana, sia detto incidentalmente, non aveva utilizzato se non in modo molto parziale: non solo per essersi accinto a questa impresa all’indomani della Seconda Guerra mondiale, in una Spagna ripiegata su se stessa ed esclusa dalle grandi correnti di pensiero che allora attraversavano l’Europa, ma anche per aver deliberatamente ignorato gran parte di questo apporto. E con biografia affidabile, intendo un’opera in grado di fornire, allo studioso come al dilettante, un racconto sgombro dalle leggende fiorite sulle sabbie mobili di una vita poco nota. È così che mi sono prefisso i tre obiettivi che ho indicato nella prefazione. In primo luogo, stabilire con tutto il rigore necessario ciò che si sa effettivamente del soldato di Lepanto, distinguendo ogni volta ciò che è leggendario, ciò che è verosimile e ciò che è certo. Sebbene sia lapalissiano, questo primo obiettivo merita che mi ci soffermi. Si continua ad affermare qua e là fidandosi della storia di Berganza, uno dei due cani sapienti del Coloquio de los perros, che Cervantes frequentò il collegio dei Gesuiti di Siviglia, senza che sia mai stato provato il soggiorno che avrebbe fatto nel corso della sua infanzia sulle sponde del Guadalquivir. Si dice che sia stato fatto pri17 A. CASTRO, El pensamiento de Cervantes, Centro de Estudios Históricos, Madrid 1925. In seguito quest’opera, diventata introvabile, è stata oggetto di una riedizione ampliata: El pensamiento de Cervantes, nuova edizione ampliata e con note dell’autore e di J. Rodríguez-Puértolas, Noguer, Barcelona 1972.

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gioniero dai Turchi nel golfo del Leone, all’altezza delle Sante Marie del Mare, mentre la sua cattura ebbe luogo al largo delle coste catalane 18. Si ritiene la Epístola a Mateo Vázquez un documento capitale sulla sua prigionia, mentre la sua autenticità è quantomeno dubbia e, con buona pace del rimpianto Geoffrey Stagg, tutto porta a credere che si tratti di un imbroglio ideato alla metà del XIX secolo 19. Si dichiara che Don Quijote fu scritto in prigione, quando invece, nella prefazione, ci si dice solo che fu «engendré dans une prison où toute incommodité a son siège et où tout triste bruit fait sa demeure» 20. Si attribuisce all’autore, durante l’agonia, il resto di forze necessarie per indirizzare al Cardinal Sandoval y Rojas, uno dei suoi protettori, una lettera commovente che Antonio RodríguezMoñino, principe dei bibliografi, ha mostrato essere indubitabilmente un falso 21. Farla finita con queste opinioni comunemente accettate non significava alcuna rivoluzione metodologica, ma più semplicemente equivaleva a sottoscrivere l’esigenza fondamentale richiesta da ogni resoconto critico dei fatti e delle gesta che costituiscono la trama del vissuto cervantino, pur limitandosi a cogliere questo vissuto dal di fuori. Secondo obiettivo: ricollocare nel proprio ambiente e nella propria epoca un scrittore che, sebbene sia da tutti considerato come colui che riassume il Siglo de oro, non per tutti lo incarna nella stessa maniera, in quanto per alcuni ne esprime i valori e per altri ne denuncia le contraddizioni. Su un terreno così delicato, piuttosto che propendere per una parte o per l’altra, era opportuno rimettere le cose al loro posto. Noi non identifichiamo più l’Impero degli Asburgo con l’immagine che la «Leggenda nera» a lungo ha accreditato al 18 Cfr. J. B. AVALLE-ARCE, La captura de Cervantes, in Nuevos deslindes cervantinos, Ariel, Barcelona 1975, pp. 277-333. 19 G. STAGG, The Curious Case of the Suspect Epistle, in «Cervantes», 23, 1, 2003, pp. 201-214. 20 M. DE CERVANTÈS, Don Quichotte, Première partie, Prologue, in ID., Œuvres romanesques complètes, a cura di J. Canavaggio, t. I, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 2001, p. 391; «…generato in una prigione sede di ogni scomodità e di ogni tristo rumore». 21 A. RODRÍGUEZ-MOÑINO, La carta de Cervantes al cardenal Sandoval y Rojas, in «Nueva Revista de Filología Hispánica», 16, 1962, pp. 81-89.

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di là dei Pirenei; ma neanche con quella che avevano esaltato negli anni ’50 i turiferari del nazional-cattolicesimo. Dal lavoro di grandi storici europei, da Fernand Braudel a John Elliott, e da quello dei loro colleghi peninsulari, come José Antonio Maravall o Antonio Domínguez Ortiz, è nata una rappresentazione più sfumata, ma anche più problematica, della Spagna che ha conosciuto Cervantes. Prima di tutto autore oscuro di un’avventura eroica, poi testimone lucido, se non addirittura critico, di una congiuntura di dubbi e di crisi, quest’ultimo ci appare ormai come l’interprete per eccellenza di una nazione che osserva in un momento chiave della sua storia, senza cessare di esserle solidale. Bisognava dunque mettere in risalto questo rapporto singolare tra uno scrittore e il suo tempo, per meglio apprezzare il valore della testimonianza che ci lascia. Don Quijote, lo sappiamo tutti, non è un mero documento; tuttavia, non sempre stiamo attenti al fatto che il mondo fittizio che ci offre non si limita neanche a un riflesso stilizzato del reale. Il cavaliere e il suo servitore sono, in una certa misura, la doppia proiezione di colui che li ha creati; a modo loro sono la Spagna o, più precisamente, per riprendere la bella formula di Pierre Vilar, la loro storia è «l’autocritica, commossa e amara, di un appuntamento mancato di questa Spagna con la modernità» 22. Sono anche, al limite, una parte di noi stessi, nel momento in cui ci ritroviamo in loro. Ma sono prima di tutto dei personaggi autonomi, anche se, sotto lo scalpello dell’analista, essi si spogliano della loro vita apparente per rivelarsi come esseri fatti di parole, per non dire di carta. Ultimo obiettivo, infine, e certamente il più ambizioso: andare incontro a Cervantes seguendo, per quanto possibile, il movimento di un’esistenza che, da progetto che fu mentre era vivo, è divenuta un destino che ci sforziamo di rendere intellegibile. Così si illumina la progressione di un racconto che, se ci porta dalla nascita alla morte dello scrittore, non si limita a concatenare dei fatti: anche perché le informazioni di cui disponiamo, lungi dall’essere esaustive, presentano ampie zone oscure. In effetti, ignoriamo quasi tutto degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Cervantes; in seguito, perdiamo, a più riprese, ogni traccia materiale della sua esistenza, in parti22

P. VILAR, Le temps du «Quichotte», in «Europe», 3, 1956, p. 16.

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colare tra la sua incarcerazione a Siviglia, nell’autunno del 1597, e la pubblicazione della prima parte del Don Quijote negli ultimi giorni del 1604: sette anni decisivi che lo vedono mettere in cantiere non solo il suo capolavoro, ma anche, verosimilmente, le Novelas ejemplares, come anche i primi capitoli del Persiles, il suo romanzo postumo. Da qui le leggende cui mi riferivo poco fa. Probabilmente esse riflettono il nostro desiderio di colmare costi quel che costi le lacune dell’informazione; ma traducono anche un’aspirazione più profonda: scoprire, al di là della trama degli eventi, la personalità di colui che li ha vissuti, fosse anche al rischio di farsene una rappresentazione discutibile o persino arbitraria. È evidente che non sono voluto cadere in questa trappola. Pur gettando via l’impalcatura delle supposizioni gratuite, non mi sono tuttavia limitato a una specie di inchiesta poliziesca, attenta solo alla materialità dei fatti. La logica della mia impresa si fondava su un altro postulato: descrivere una vita significava ai miei occhi costruirla; far rivivere Cervantes era, irrimediabilmente, fissarlo per l’eternità. Così, mi è parso indispensabile tenere conto di tutto ciò che permette di avvicinarsi alla sua intimità. Cercare questa intimità negli archivi era una scommessa certamente destinata al fallimento: la laconicità dei documenti che riguardano il «come» della vita del nostro eroe diventa in effetti mutismo quando tentiamo di tirarne fuori il «perché». Basti pensare alla nostra pessima conoscenza delle motivazioni all’origine delle sue decisioni più importanti: la brusca partenza per l’Italia, alla fine dell’adolescenza, anche se la si spiega con un duello della cui realtà non si è certi; l’imbarco, alla vigilia di Lepanto, sulle galere di don Juan d’Austria; il matrimonio con una ragazza di venti anni più giovane di lui, poco dopo la nascita della figlia naturale; tre anni più tardi, l’abbandono del domicilio coniugale per viaggiare per dieci anni in Andalusia; infine, il ritorno definitivo alle lettere, dopo un silenzio di quasi venti anni. Per tentare di catturare questa intimità sfuggente, non avevo altra risorsa se non tornare ai testi cervantini. Non per cercarvi l’uomo – avrebbe voluto dire inseguire un miraggio – quanto piuttosto per individuare tutto ciò che potesse illuminarlo, nella misura in cui la sua esistenza si confondeva con il lavoro di uno scrittore che, al tramonto della sua vita, riallaccia definitivamente con la sua prima vo-

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cazione. Prendendo questo partito, la mia costante preoccupazione è stata di accordare l’esatto valore a quei testi, senza farne, come altri, un uso improprio. Ciò che Cervantes ci dice di sé deve essere esaminato con estrema circospezione: nelle sue opere di finzione, certo, la cui testimonianza non è sempre stata sfruttata con discernimento, ma anche nelle pagine in cui si esprime a proprio nome. Dediche, prefazioni, poesie dalle risonanze autobiografiche, come il Viaje del Parnaso, ci offrono infatti le membra disjecta di un ritratto d’artista la cui verità, per natura, non richiede verifica. Questa analisi l’ho abbozzata ancor prima di intraprendere la mia biografia, negli articoli riuniti in seguito in una raccolta che ho intitolato Cervantes entre vida y creación 23. Tuttavia, contrariamente a ciò che ha creduto di vederci recentemente un emerito cervantista, a giudicare da una sua recensione di questo mio libro, io non ho ubbidito a ciò che egli chiama «un tentativo di estrarre la biografia dalla letteratura […] chimera non dissimile dal tentativo di Américo Castro di trovare il “pensiero” di Cervantes nel discorso dei suoi personaggi fittizi» 24. Lo dimostra ciò che ho scritto in uno di quei contributi – Cervantes en primera persona –, studio che precede di quasi dieci anni il mio Cervantès. Dopo aver esaminato le forme in cui si svela a noi il soggetto del discorso del prologo cervantino, quale si manifesta nelle prefazioni e nelle dediche, scrivevo infatti quanto segue: Tali criteri sono forse pertinenti perché prendiamo questo «io» per un essere in carne e ossa? Significherebbe cadere nella classica trappola che ci tende ogni autodiscorso. Cervantes in prima persona non è una persona reale, ma un essere immaginario, elaborato, è ovvio, a partire da elementi tratti dall’esperienza vissuta del combattente di Lepanto, ma generato da un discorso specifico e istituito come tale dallo sguardo del lettore.

Tuttavia, aggiungevo: non per questo bisogna ridurlo a una mera persona grammaticale, a quell’«io» retorico mirabilmente descritto da Benveniste, senz’altro referen-

23 J. CANAVAGGIO, Cervantes entre vida y creación, Centro de Estudios Cervantinos, Alcalá de Henares 2000. 24 J. PARR, Review, in «Hispanic Review», autumn 2004, pp. 565-566.

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te al di fuori dell’atto del discorso individuale in cui esso è pronunciato e il cui locutore è indicato da quello stesso «io» 25.

Dunque non ho preteso di estrarre la vita dello scrittore dalla sua opera – chimera che ho spesso denunciato. Anzi, quello che mi sono applicato ad analizzare è ben differente: un autobiografismo, come si dice in spagnolo, che penetra più di una volta le opere di finzione di Cervantes e ci rivela che, se è vero che non si possono confondere «biografia» e «letteratura di finzione», tuttavia la frontiera tra vita e creazione è lungi dall’essere netta quanto si potrebbe pensare a prima vista. Ecco perché non ho creduto di dover rifiutare a priori questi testi, in nome di un atteggiamento ipercritico che molto spesso conduce a un vicolo cieco chi se ne avvale. Prendiamo un solo esempio, quello della prigionia dello scrittore ad Algeri. Ne conosciamo le grandi linee, e anche un po’ di più, grazie alle indagini condotte su sua richiesta, nel 1578 e nel 1580, in cui sono raccolte le deposizioni dei suoi compagni d’armi e di schiavitù; grazie, inoltre, ai documenti che attestano le pratiche intraprese dalla sua famiglia per ottenere il suo riscatto e quello del fratello; grazie, infine, ai dati che ci offre la Topographía e historia general de Argel, pubblicata nel 1612 a nome di Diego de Haedo, ma che certi attribuiscono oggi, non senza qualche fondamento, al dottor Antonio de Sosa, compagno di prigionia di Cervantes: opera di estremo interesse, in cui si dice che i quattro tentativi di evasione dell’eroe di Lepanto «avrebbero potuto dar luogo a un racconto a parte» 26. Detto ciò, bisogna forse disdegnare la libera trasposizione che Cervantes ci ha lasciato di questa esperienza, nella forma della storia dello Schiavo intercalata nella prima parte del suo grande romanzo? Non ne sarei così sicuro. Le testimonianze dei suoi compagni furono raccolte, non dimentichiamolo, su richiesta dello scrittore in persona, preoccupato di confutare le affermazioni diffamatorie diffuse sul suo conto dai suoi nemi25

J. CANAVAGGIO, Cervantes entre vida y creación, cit., pp. 69-70. D. DE HAEDO, Topographía e historia general de Argel, Sociedad de Bibliófilos españoles, Madrid 1929, 3 voll., III, p. 165. Sulla paternità di quest’opera, cfr. E. SOLA e J. F. DE LA PEÑA, Cervantes y la Berbería, FCE, México-Madrid 1995. 26

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ci, e in particolare dal dottor Juan Blanco de Paz. Quanto a quella della Topographia, essa è inseparabile dalla requisitoria condotta dall’autore contro la città e i suoi pirati, allo scopo di scuotere l’opinione spagnola dalla sua indifferenza nei riguardi dei prigionieri cristiani e di sostenere l’azione degli Ordini redentori. In compenso, il resoconto di Ruy Pérez de Viedma, il capitano prigioniero, al di là della parte di convenzione e di affabulazione che comporta, ci restituisce, sebbene in modo obliquo, la maniera in cui Cervantes visse dall’interno un’esperienza singolare, il commercio che ebbe con Mori e Cristiani, lo sguardo che volse verso un mondo diverso dal suo: in breve, tutto ciò che non si può dedurre dagli archivi e che, in fin dei conti, costituisce per noi l’essenziale. Sfortunatamente, questo incontro fecondo tra finzione e storia, questo confronto di due punti di vista complementari non può essere esteso all’insieme delle esperienze dello scrittore. Per questa ragione principale mi sono a volte domandato se, partito alla ricerca del mio personaggio, non avessi alla fine incontrato un’ombra. Su questo punto capitale, più che su ogni altro, il mio libro può senza dubbio dar luogo al dibattito. Resta il fatto che nulla è più rischioso che l’avventurarsi sul terreno scivoloso della conoscenza dell’altro, soprattutto quando questo altro, morto da più di quattro secoli, si nasconde dietro a maschere che hanno anch’esse la loro parte di verità; quando egli non è altro che il doppio di un essere inafferrabile proiettatosi in altri tempi in un atto di scrittura; quando l’opera che ci ha lasciato, sebbene esprima i desideri e i sogni di colui che l’ha generata, oltrepassa da tutte le parti la sua avventura personale per vivere di vita propria lungo le generazioni e arricchirsi così di sensi nuovi. Di qui la mia incapacità a rispondere a domande che tuttavia non ho voluto passare sotto silenzio, a cominciare dallo spinoso problema del cristianesimo di Cervantes. Se si tratta solo di esaminare le sue idee religiose, si può, in una certa misura, riferirle alle diverse correnti che, nella Spagna del XVI secolo, hanno concesso un posto d’elezione alla devozione interiore, leitmotiv del pensiero di Erasmo, ma anche costante della tradizione francescana. Ma come uscire dal terreno delle ideologie per comprendere la spiritualità cervantina, sapendo che questa, per definizione, non poteva che trascendere le operazioni dell’intelletto? In realtà, ci sfugge irrimedia-

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bilmente, proprio come l’«io» segreto di Cervantes, un «io» irriducibile alle sue origini, che siano o meno state segnate da un’ascendenza conversa, quella dei convertiti alla religione cristiana o prima o all’indomani del bando dalla Spagna, a seguito della Riconquista, degli ebrei rimasti fedeli alla fede dei loro antenati. Come era da aspettarsi, questo non possumus a volte mi è stato rimproverato. Nella prefazione alla mia biografia, ho indicato che non intendevo penetrare per forza il mistero cervantino, dal momento che ai miei occhi le ragioni che ho appena ricordato destinavano questo tentativo al fallimento. Tuttavia, molti hanno giudicato la mia prudenza eccessiva ritenendo che io abbia così indebolito il potere sovversivo di un’opera che dissacra tutti i conformismi, perché nata dalla penna del più acuto dispregiatore dei valori istituiti. In Ascoltare Cervantes, una «biografia minima» pubblicata in italiano vent’anni fa, prima di essere tradotta in spagnolo col titolo Escuchar a Cervantes, l’ispanista transalpina Rosa Rossi ha voluto trarci d’impaccio aprendo al biografo un cantiere nuovo 27. Lungi dal limitarsi a rifiutare il profilo eroico ed esemplare del superuomo caro ad Astrana Marín, condannando così senza appello un’agiografia ormai non più attuale, ella è partita alla ricerca dell’intimità dell’autore del Don Quijote: un’intimità reputata segreta, ma nient’affatto misteriosa, e svelata aiutandosi con una «chiave» che aprirebbe l’accesso al suo «io» profondo. Ma di che chiave si tratta? Di quella della doppia differenza che esprimerebbe la scrittura cervantina: differenza sociale, legata all’ascendenza conversa dell’autore; differenza sessuale, inoltre, che Rosa Rossi analizza nella sua proiezione fantasmatica, basandosi di volta in volta sulle dichiarazioni proferite da Juan Blanco de Paz ad Algeri, sulle circostanze enigmatiche nelle quali Isabel de Cervantes fu riconosciuta dal suo presunto padre, sui rapporti quantomeno episodici che quest’ultimo sembra aver intrattenuto con una moglie rimasta senza figli, infine sulle allusioni maligne di un sonetto ingiurioso attribuito a Lope de Vega. Questo ampio riesame procede in realtà da due ipotesi espresse in precedenza: quella di Américo Castro che in Cervantes y los 27

R. IRTI ROSSI, Ascoltare Cervantes, Editori Riuniti, Roma 1987 (trad. sp.: Escuchar a Cervantes: un ensayo biográfico, Ámbito, Valladolid 1988).

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casticismos españoles aveva già rivendicato l’origine conversa dello scrittore 28; e quella di Louis Combet, autore di un Cervantès et les incertitudes du désir, che gli attribuisce una omosessualità non si sa bene se rimasta o meno latente in una Spagna in cui quel genere di gente era passibile del rogo 29. Certo, Rosa Rossi si rifiuta di attribuire allo scrittore il complesso di frustrazione, l’impotenza e il fallimento masochista che gli affibbia generosamente il nostro rimpianto collega. Tuttavia, con una prospettiva metodologica più ampia, ella supera queste opinioni frammentarie per proporci una spiegazione d’insieme del «caso» Cervantes, al crocevia tra l’analisi semiologica e l’antropologia culturale. Questa spiegazione, diciamolo chiaramente, mi sembra inammissibile, e per varie ragioni. In primo luogo, i dati su cui si fonda nell’insieme non mi sembrano sufficientemente accertati. Le mille supposizioni che possiamo fare sulle origini sospette di Cervantes – a cominciare da quello che si sa della stirpe dei Torreblanca, una famiglia di medici di Cordova alla quale apparteneva la sua nonna materna – queste mille supposizioni, dicevo, non possono sostituire una prova vera e propria; ora, fino a oggi, questa non è stata prodotta. Tra chi ha recentemente rilanciato la tesi di una origine conversa, colui che ha portato più avanti la sua inchiesta, Francisco Márquez Villanueva, si attiene a ciò che chiama «una probabilità ben fondata», per giungere alla conclusione seguente: senza pregiudizio di alcun tipo a favore o a sfavore di questa ipotesi, sembrerebbe molto più dubbio che Cervantes sia stato cristiano da sempre piuttosto che il contrario 30. Si può dire altrettanto della presunta omosessualità di un individuo che non ci ha lasciato un solo scritto di carattere intimo, e le cui testimonianze dirette sono rarissime. In tali condizioni, la lettura delle sue opere di finzione, per quanto acuta, può dare luogo a tutta una gamma di storie fondatrici; ma la sistematizzazione delle metafore ossessive che si pretende di sco28

A. CASTRO, Cervantes y los casticismos españoles, Alfaguara, Barcelona 1966. L. COMBET, Cervantès et les incertitudes du désir. Une approche psychostructurale, Presses Universitaires, Lyon 1980. 30 F. MÁRQUEZ VILLANUEVA, La cuestión del judaísmo de Cervantes, in R. REYES CANO (a cura di), Don Quijote en el reino de la fantasía. Realidad y ficción en el universo mental y biográfico de Cervantes, Fundación Focus-Abengoa, Sevilla 2004, pp. 51-74. 29

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prirvi può condurre soltanto a una tetra raccolta di fantasmi, disposti a piacere del clinico. Più ancora, fare della «differenza» cervantina una chiave esclusiva ci espone a privilegiare gli atteggiamenti discordanti o devianti dell’autore del Don Quijote, nel tentativo di ricostruirne la personalità. Come apprezzare a questo punto i suoi comportamenti più ortodossi, osservabili in diverse tappe del suo cammino? Pensiamo, per esempio, a quelle sue opere che, intorno al 1580, esaltano la missione provvidenziale della Spagna, quando il Portogallo è appena passato sotto lo scettro di Filippo II. Pensiamo anche, negli anni che precedono la morte dello scrittore, alla sua affiliazione alla Congregazione del Santissimo Sacramento, seguita dalla sua entrata nel Terzo Ordine francescano, col cui abito si farà sotterrare. Non potendo eliminare questi elementi, è forse lecito, per limitarne la portata, alterarne il significato? È questa la china lungo la quale a volte Rosa Rossi si lascia trascinare. Così, quando evoca il comportamento di Cervantes a Lepanto, mette in dubbio i termini della risposta che egli diede al suo capitano, quale viene riportata dall’alférez Santisteban, suo compagno d’armi, nell’inchiesta condotta nel 1580. Se avesse effettivamente dichiarato che preferiva, malgrado la febbre, «morire per Dio e per il suo re piuttosto che mettersi al riparo nell’interponte», l’archibugiere della galera Marquesa avrebbe manifestato, contro ogni logica, uno slancio di coraggio patriottico degno di un campione della Controriforma. Il suo innegabile coraggio, agli occhi di Rosa Rossi, non si può giudicare con simili criteri: esso rinvia piuttosto a una pulsione più oscura, come quella che ci lascia intravedere il giovane Bariato, nell’epilogo di Numance, nel momento in cui completa il sacrificio dei difensori della città gettandosi dall’alto di una torre 31. Altro esempio: Cervantes, durante la prigionia, non decise mai di farsi rinnegato. Perché? Per fedeltà alla fede cattolica? Rosa Rossi non vuole attenersi a questa spiegazione. Preferisce paragonare il suo comportamento a quello adottato da Solimano, il bambino rinnegato di El trato de Argel, una delle opere teatrali ispirate all’autore dalla prigionia. Mentre il fratello glielo rimprovera, Solimano gli volta le spalle, col pretesto che «es gran pecado / hablar tanto con 31

R. IRTI ROSSI, Ascoltare Cervantes, cit., pp. 38-39.

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cristianos» 32. Replica che, secondo lei, chiarisce la vera idea che Cervantes aveva del rinnegamento, come anche il senso che ha potuto avere per lui il suo rifiuto. Ella scrive: Allora – come sempre, ma forse allora più che mai – «rinnegare» significava perdere il gusto di ascoltare la propria lingua, di sentirla usare con tutta la ricchezza tonale e semantica di registri e varietà, dalle molteplici forme del parlato alla memoria comune di proverbi o di brani del Romancero. Condannarsi ad ascoltare ed usare per tutta la vita quella «lingua bastarda» di cui parla un personaggio del Don Chisciotte 33.

La fedeltà a una fede, quale spiegazione, cede così il posto alla semplice adesione a una cultura. Due slittamenti tra altri che permettono a Rosa Rossi di riferire atteggiamenti apparentemente ortodossi a una scala di valori diversa da quella della Spagna maggioritaria, e di accreditare la «differenza» cervantina in situazioni che, a prima vista, non sembravano le più adatte a svelarci un individuo ai margini della società del suo tempo. Infine, a voler penetrare tutti i segreti, dissipare tutti gli enigmi, sormontare tutti gli ostacoli con i quali si trova alle prese il biografo che tenta di rendere conto del funzionamento di una personalità, ci si condanna ad adottare, inevitabilmente, un modello esplicativo che trasforma l’individuo e la sua coscienza in semplice epifenomeno, una sovrastruttura riducibile a pochi elementi. Se un giorno si dimostrasse, prove alla mano, che Cervantes discendeva da nuovi cristiani, questa scoperta lascerebbe intatto tutto ciò che separa la sua visione del mondo da quella di un Mateo Alemán, l’autore del Guzmán de Alfarache, suo esatto contemporaneo, di cui si sa con sicurezza che era un converso. L’antropologia moderna può anche cercare in tutti i modi di eludere le trappole di un determinismo sommario, ma interpretare la singolarità cervantina come il prodotto di una doppia differenza, religiosa e sessuale, riconduce sempre a schematizzarla e a falsarla insieme. Cervantes, lo sappiamo, sta sem32 M. DE CERVANTES SAAVEDRA, El trato de Argel, in ID., Obras completas, a cura di A. Valbubena Prat, Aguilar, Madrid 1960, p. 136; «è un grande peccato / parlare tanto con i cristiani». 33 R. IRTI ROSSI, Ascoltare Cervantes, cit., p. 41.

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pre al di là di ogni schema riduttivo, perché del soggetto che fu da vivo non restano che proiezioni oggettivate e mediate da una scrittura. Per ascoltarlo come si deve bisognerebbe avere quell’«orecchio assoluto» che hanno certi musicisti d’eccezione. Ora, quale cervantista può pretendere di godere di un tal privilegio? Il biografo non ha quindi altra soluzione se non rinunciare alla sua impresa? Non potendo arrivare alla verità profonda dell’autore del Don Quijote, deve forse attenersi solo a ciò che è memorabile, al mero racconto di un’esistenza compiuta, col rischio di perdersi nel flusso degli eventi? Rassegnarsi a un tale partito non significherebbe soltanto redigere un bilancio fallimentare; significherebbe ridurre allo stretto necessario la «nuova biografia» che prima ho invocato con tutto il cuore; circoscriverla all’io «volgare» di Cervantes, irrimediabilmente dissociato dal suo io «creatore»; significherebbe sostenere, nella loro condanna di un genere parassita, tutti i dispregiatori della biografia, tutti coloro che, da Proust a Valéry, per citare solo questi, hanno considerato solo il «come» dell’opera letteraria, giudicando non pertinente ogni domanda sul suo «perché». Questa condanna, in seguito ripresa dallo strutturalismo, offre un incontestabile interesse epistemologico: essa abbraccia allo stesso tempo la capacità del biografo in quanto soggetto di conoscenza, il rapporto, soggettivo od oggettivo, che stabilisce con l’oggetto della sua inchiesta, e infine il supposto adeguamento tra esistenza e biografia, cioè tra un oggetto reale e un oggetto costruito. Ciò non toglie che le vite continuino più che mai a depositarsi nei libri. La biografia – e lo prova quanto è di moda oggi – prospera nel suo spazio problematico. Per riprendere i termini di Daniel Madelénat, essa mescola i sistemi con indolenza e scetticismo, senza preoccuparsi delle leggi, delle regole e delle norme. Indifferente a tutto ciò che non è l’uomo, partecipe insieme delle lettere e delle scienze umane, essa non se ne lascia mai asservire, come Childe Harold tra i suoi simili: «among them, but not of them» 34. Il metodo che raccomando non può essere, di conseguenza, un semplice catalogo di ricette empiriche; ma non può neanche essere 34

Citato in D. MADELÉNAT, La Biographie…, cit., p. 207; «tra di loro, ma non uno di loro».

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dedotto da un modello teorico, formalizzato a priori. Deve essere tutt’al più una bussola di cui dobbiamo servirci per evitare gli scogli tra i quali naviga la biografia, a uguale distanza dai due poli tra i quali si gioca il suo destino, sempre precario: tra la singolarità ineffabile di ogni esistenza individuale, e le costanti che questa discontinuità occulta; tra la discontinuità di fatto, ragion d’essere del semplice aneddoto, e l’interpretazione dei fatti, proiettata verso una generalizzazione astratta dalla pluralità dei sistemi; tra l’indeterminazione e la sovradeterminazione degli eventi che formano la trama del vissuto e possono ordinarsi solo in un numero limitato di serie, dal momento in cui si dispiega la dialettica dei motivi e dei moventi, delle intenzioni e delle pulsioni, dell’oggettivo e del soggettivo. Tale è infatti la legge di un’espansione vitale che nessuna narrazione può restituire nella sua interezza, e che impone al narratore che si avventura su questa stretta via i compromessi e i sacrifici che esige ogni forma di intelligibilità. Determinare questi compromessi dipende dalla strategia che intende adottare il biografo. Su questo punto essenziale non voglio enunciare precetti. Non mi azzarderò neppure a distinguere tra i diversi codici che mette in opera la scrittura biografica ogni volta che tenta di ricreare una vita col potere delle parole. Mi limiterò qui ad abbozzare il programma che credo necessario condurre felicemente in porto, se i cervantisti vogliono che i biografi del XXI secolo siano capaci di rispondere alle attese dei loro lettori. In primo luogo, stabilire un inventario critico dei documenti che attestano le esperienze e le azioni dell’autore del Don Quijote. J. Fitzmaurice-Kelly, come dicevo, ci ha provato quasi un secolo fa. Più di recente, K. Sliwa si è impegnato a sua volta nel compito, incorporando il frutto delle scoperte operate in questo ambito dopo la pubblicazione del libro del suo predecessore 35. Di tutti i dati di cui ormai disponiamo, però, deve ancora essere realizzato un inventario ragionato in cui di ogni documento non soltanto sia indicata la fonte, ma sia offerto anche il necessario commento critico: sull’esempio, mutatis mutandis, di ciò che ha fatto Raymond Picard per Ra35

K. SLIWA, Documentos de Miguel de Cervantes Saavedra, Eunsa, Pamplona

1999.

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cine 36. Questo corpus cervantinum diventerà così un riferimento indispensabile per tutti gli studiosi, e allo stesso tempo una base per tutte le inchieste future. In secondo luogo, ricostruire la traiettoria delle biografie cervantine da Mayans ai nostri giorni, mettendone in evidenza postulati e presupposti allo scopo di misurarne più esattamente l’apporto e i limiti. Un simile studio, tra gli altri risultati, ci aiuterebbe senza dubbio ad analizzare le rappresentazioni successive che conserviamo di Cervantes, come altrettanti tasselli di un processo di mitizzazione le cui origini si trovano nei frammenti sparsi dell’autodiscorso cervantino e, in particolare, nella famosa prefazione delle Novelle esemplari. Infine, tracciare il quadro di tutti i problemi che questa vita pone al biografo, includendo, su ogni punto controverso, una presentazione delle ipotesi avanzate, delle discussioni a cui esse hanno potuto dare luogo e delle vie che restano ancora da esplorare. Questo programma, quale ho tentato di abbozzarlo, è soltanto il preambolo alla nuova biografia cui mi riferivo prima. Ciò non toglie che costituirebbe un contributo necessario al progresso degli studi cervantini, facilitando così il compito dei miei successori. Quanto alla biografia ideale, sarà ormai chiaro che essa sarà sempre al di là di ognuna delle Vite chiamate a sostituire quella che ho pubblicato più di venti anni fa, ogni volta che un nuovo biografo, secondo la propria situazione vitale e storica, si proporrà di andare incontro a Cervantes. Questa è la lezione che ci dà quel mestiere dell’impossibile che è, secondo Kendall, il mestiere del biografo. Da parte mia, ho tentato di raccogliere la sfida; a tutti coloro che intendano darmi il cambio, sarò felice di passare il testimone.

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R. PICARD, La Carrière de Jean Racine d’après les documents contemporains, ed. ampliata, Gallimard, Paris 1961.

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SHAKESPEARE

E LA BIOGRAFIA

Forse la via più diretta per entrare nelle questioni sollevate dalle biografie di scrittori famosi è chiedersi perché ne abbiamo tanto bisogno. L’agiografia, la vita del santo quale modello per la nostra, è una risposta facile. Quando veniamo a conoscenza del pensiero di uno scrittore attraverso la sua opera, il rispetto per la sua intelligenza, la sua comprensione della psicologia umana, la sua visione del mondo, le sue idee ci fanno dare valore alla sua educazione e al suo retroterra sociale. C’è una risposta opposta: il desiderio di vedere noi stessi rispecchiati nella personalità dell’altro. Non è semplicemente il bisogno di eroi a generare il desiderio di chiarire l’identità dell’autore. Nel caso di Shakespeare, la lunga ricerca di un ritratto attendibile del volto dell’uomo è sufficiente da sola a mostrare perché ne abbiamo bisogno e a cosa ci serve. Abbiamo due raffigurazioni, entrambe eseguite non molto tempo dopo la sua morte da persone che potrebbero averlo conosciuto. Eppure nessuna delle due soddisfa il tenace cacciatore del «vero» Shakespeare. Una è l’incisione realizzata dal giovane Martin Droeshout per il frontespizio dell’in-folio del 1623; l’altro è il busto scolpito su pietra calcarea dal compagno di esilio di Droeshout, il fiammingo Gheerart Janssen, situato nella Holy Trinity Church di Stratford-uponAvon. L’effigie di Droeshout fu approvata da Ben Jonson, amico di lunga data di Shakespeare, in un verso pubblicato nell’in-folio del 1623 accanto al ritratto. L’effigie di Janssen fu realizzata per la chiesa di Stratford dove Shakespeare era sepolto e i cui frequentatori forse lo avevano conosciuto di persona. Entrambi i ritratti furono realizzati da persone residenti a Southwark, che lavoravano vicino al Globe dove potevano aver visto Shakespeare in qualsiasi momento fino al 1614, due anni prima della sua morte. Di certo il caso di Shakespeare presenta più di ogni altro il problema sollevato da tanti di coloro che rifiutano di reputare le raffigurazioni di Droeshout o di Janssen dei buoni ritratti del loro eroe. A questi scettici si aggiungono gli eccentrici che si rifiutano

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di credere che ci sia mai stato un ragazzo del Warwickshire, privo di istruzione universitaria, che possa aver imparato a scrivere bene come il genio che produsse tutti quei drammi. Per anni ho disprezzato le discussioni sulla paternità dell’opera, compiacendomi dell’idea che un uomo di origine paesana potesse essersi trasferito in città ed essere riuscito ad assicurarvisi l’immortalità. Notavo tra le caratteristiche di coloro che mettevano in dubbio la paternità delle opere shakespeariane, che uno di loro si chiamava Looney, un soprannome che, nella Nuova Zelanda della mia infanzia, si dava comunemente a un folle (abbreviazione di lunatic); inoltre osservavo che la prima a proporre Francis Bacon quale vero autore era stata una signora di nome Delia Bacon. Mi divertiva constatare che tali stranezze caratterizzavano le più stravaganti e le meno fondate nei fatti delle tante rivendicazioni provenienti da aree marginali all’attività degli studiosi. Mi sembrava particolarmente repellente poi, in quanto scelta snobistica, proporre, quale alternativa allo zotico di Stratford, il conte di Oxford. Si sa che il conte fu un drammaturgo, ma anche un pederasta, salvatosi dalle pene severe che i Tudor infliggevano ai sodomiti solo perché nobile. Egli non corrispondeva all’immagine che mi ero fatta dell’autore dei Sonetti. Notai che, pur di affermare che il genio era stato un aristocratico, gli oxfordiani dovevano ignorare il fatto comprovato che Oxford morì nel 1604, e dunque non avrebbe potuto scrivere nessuno dei drammi che si riferiscono a eventi successivi a quella data. La possibilità, poi, che sia stato Christopher Marlowe a scrivere i drammi dal suo rifugio in Italia – teoria che indusse a mettere un punto interrogativo dopo la data della sua morte nel 1593 sulla finestra a losanga del Poets’ Corner di Westminster Abbey – mi sembrava richiedere talmente tante congetture che non valeva la pena di prenderla sul serio. Come si può immaginare, riguardo a questo genere di storie che pretendono di avere qualche fondamento reale ho sempre trovato più plausibile che si trattasse di sbagli piuttosto che di cospirazione. Nel dire ciò mi dichiaro ovviamente a favore del popolare, un antisnob, e perciò desideroso di rintracciare dietro ai drammi quel minimo di istruzione indispensabile per poter scrivere che doveva aver ricevuto il figlio maggiore di John Shakespeare, balivo di Stratford-on-

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E LA BIOGRAFIA

Avon nel Warwickshire. Il nome di William non compare neanche nei registri della Stratford Grammar School, l’unico posto dove avrebbe potuto imparare l’Orazio e l’Ovidio che compaiono nei primi drammi, quel «little Latin, and less Greek» 1 che gli attribuiva Jonson nella sua elegia. Proprio come dubitavo delle letture dei sonetti quali poesie d’amore che rifletterebbero un rapporto fisico tra il poeta e il suo mecenate, un simile scetticismo mi rendeva riluttante ad accettare l’idea che Shakespeare fosse un dissidente, segretamente cattolico, che passò la gioventù quale tutore nel Lancashire dove incontrò la compagnia di attori di Lord Strange 2. La demolizione a opera di Robert Bearman della tesi secondo cui il padre di Shakespeare avrebbe nascosto il cosiddetto «Testamento spirituale» nel soffitto della casa natale in Henley Street ha cancellato la prova più solida 3, lasciando come unico sostegno l’idea alquanto bizzarra che Shakespeare si celasse sotto lo pseudonimo di «Shakeshaft», che non è certo un travestimento ingegnoso del suo vero nome. Il mio contributo personale alla biografia/mitologia è di qualche tempo fa, e con mia sorpresa sembra essere sopravvissuto alle principali prove del tempo. Durante il mio incarico di insegnamento alla Leeds University negli anni ’60, ebbi una classe di studenti che seguiva un corso in cui si collegava l’inglese alla filosofia. Studiavamo i Sonetti di Shakespeare, approfondendone alcuni del gruppo della cosiddetta «dark lady» che seguivano quelli rivolti al giovane amico. Il mio obiettivo era concludere con l’unico sonetto che tratta di religione e filosofia, il Sonetto 146, quello che comincia con «Poore soule, the centre of my sinfull earth» 4. Analizzammo prima quelli che sottolineavano la scurezza dei capelli e degli occhi della donna, e la 1

«poco di latino, e ancor meno di greco». Derivata da E. A. J. HONIGMANN, Shakespeare: the «Lost Years», University Press, Manchester 1985, la tesi è stata rilanciata recentemente da alcuni studi sulla possibile connessione tra Shakespeare e il Lancashire, pubblicati in R. DUTTON, A. FINDLAY e R. WILSON (a cura di), Region, Religion and Patronage. Lancastrian Shakespeare, University Press, Manchester 2003. 3 R. BEARMAN, John Shakespeare’s «Spiritual Testament». A Reappraisal, in «Shakespeare Survey», 56, 2003, pp. 184-202. 4 «Povera anima, centro della mia terra peccaminosa», W. SHAKESPEARE, Sonetti, a cura di A. Serpieri, trad. it. A. S., BUR, Milano 2004 (1995), p. 359. 2

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conclusione del poeta che «In nothing art thou black, save in thy deeds» 5; poi il legame dei Sonetti 133 e 134 con i Sonetti 40-42, rivolti al giovane che ha portato via al poeta la sua amata. Il 133 e il 134 contenevano il suo attacco a lei per il medesimo tradimento, argomento che usai per sottolineare le presunte «vere» origini dei sonetti. Da lì passammo al Sonetto 144, il sonetto dei «due amori», che mette in contrasto l’angelico giovane amico con la diabolica donna. Poiché volevo terminare con il Sonetto 146, il «Poore soule», chiesi agli studenti di leggere la poesia che lo precedeva, il Sonetto 145. Questo componimento eccentrico, l’unico sonetto di tutti i 154 in cui è usato un ottonario di otto sillabe invece del pentametro di dieci, si trova tra quello in cui l’io lirico si dichiara intrappolato tra i due amori e quello religioso-filosofico sull’anima e la sua terra peccaminosa. Lo cito qui secondo la grafia della prima edizione degli Shakespeares Sonnets del 1609: Those lips that Loves owne hand did make Breath’d forth the sound that said I hate, To me that languisht for her sake. But when she saw my wofull state, Straight in her heart did mercie come, Chiding that tongue that euer sweet, Was vsde in giuing gentle dome: And tought it thus a new to greete: I hate she alterd with an end, That follow’d it as gentle day, Doth follow night who like a fiend From heaven to hell is flown away. I hate from hate away she threw, And sau’d my life saying not you 6.

5

«In nulla sei tu nera, se non nelle tue azioni» (ivi, p. 329). «Quelle labbra che la mano stessa d’Amore fece / bisbigliarono un suono che diceva “Io odio”, / a me che languivo per amor suo; / ma quando lei vide il mio penoso stato, / subito scese nel suo cuore la pietà / a biasimare quella lingua che, sempre dolce, / era solita dare miti sentenze, / e così le insegnò a interpellarmi nuovamente: / “Io odio” lo cambiò con un finale / che gli seguì come il giorno gentile / segue alla notte che, simile a un demonio, / dal cielo vola via nell’inferno. / “Io odio” lo affrancò dall’odio, / e salvò la mia vita dicendo “non te”» (ivi, p. 357). 6

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I miei studenti concordarono sul fatto che la similitudine nei tre versi che precedono il distico finale sembrava un riempitivo, e poi, secondo la pratica che avevo raccomandato loro, studiarono il distico finale per vedere quanto esaurientemente concludesse l’argomentazione della poesia. Mentre la maggior parte di loro conveniva nel ritenerlo piuttosto banale, persino di un trito sentimentalismo (e lo è), io lo ripetevo tra me e me in quello che speravo fosse l’accento del Warwickshire. Era da poco uscito il grande volume di Dobson sulla pronuncia dell’inglese rinascimentale 7 e vi avevo studiato le sue argomentazioni marcatamente esitanti sui suoni vocalici in Shakespeare. Improvvisamente, il Sonetto 145 acquistò un senso quale poesia d’amore a una ragazza il cui nome suonava molto simile a «Hate-away». Poteva essere una poesia scritta per una donna che conosciamo come Ann Hathaway? L’idea centrale della poesia è alquanto laboriosa, ma è quasi priva di senso a meno che non sia stata scritta per una donna di nome Hathaway o Hattaway, pronunciato un po’ come «heert-away». Il suono vocalico per questo tipo di sillaba è notevolmente variabile. Come noto, la parola inglese che indica la pompa che abbiamo tutti nel petto oggi si pronuncia «hart», ma è scritta «heart» e la differenza rimanda a due suoni distinti della vocale. Accettare l’interpretazione secondo cui la poesia si basa su un gioco di parole col nome Hattaway comporta notevoli conseguenze, non ultima che l’autore dei sonetti fu davvero il William Shakespeare di Stratford-upon-Avon che sposò una ragazza con quel caratteristico cognome. Se è così, la poesia deve essere stata scritta dal diciottenne Shakespeare alla ventiseienne Ann qualche mese prima che la sposasse, il 28 novembre 1582, quando ella era incinta di quattro mesi. La loro prima figlia, Susannah, fu battezzata il 26 maggio 1583. L’accreditare questa idea ha una qualche influenza sulla nostra comprensione del giovane Shakespeare, e non solo per il suo uso giovanile della poesia quale mezzo per corteggiare l’amata. Questa goffa poesiola, come il matrimonio stesso che bastò a togliere a 7 E. J. DOBSON, English Pronunciation 1500-1700, Clarendon Press, Oxford 1957, 2 voll. Dopo qualche anno, Fausto Cercignani sviluppò il lavoro di Dobson specificamente su Shakespeare (F. CERCIGNANI, Shakespeare’s Works and Elizabethan Pronunciation, Clarendon Press, Oxford 1981).

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Shakespeare anche il solo pensiero di poter andare all’università (gli studenti dovevano essere celibi – bachelors – da cui il nome del primo livello universitario), ha impressionanti implicazioni. Lungi dal limitarsi a confermare il fatto che il poeta dei Sonetti fu un giovane di Stratford, la sua sopravvivenza nella raccolta completa dei 154 sonetti indica certamente che l’autore ci teneva particolarmente. Suggerisce che la teneva in tale considerazione da conservarne una copia scritta per tutto l’ultimo periodo a Stratford e la sua lunga carriera londinese, per 27 anni, finché non la pubblicò all’interno di quel miscuglio di poesie dedicate a varie donne alla fine del libro che lui o un suo amico pubblicarono nel 1609. Su cosa significasse per lui l’averla conservata possiamo solo fare ipotesi. Quando pubblicai per la prima volta, nel 1971, la tesi che la poesia fosse stata scritta per Ann Hathaway, concludevo proponendo che «forse l’aveva conservata per ragioni sentimentali» 8. Fu un imprudente tentativo di comunicare tramite l’ironia. Speravo che avrebbe attratto l’attenzione sia sulla stranezza del suo inserimento in una raccolta evidentemente derivante dalle esperienze londinesi del poeta, sia sul triste cliché dei suoi sentimenti per la moglie che la sua conservazione sembrava mettere in luce. Troppo spesso le nostre piccole ironie sono fraintese. Comunque, finché non sarà identificata un’idea centrale segreta che serva meglio a spiegare il Sonetto 145, io continuerò a leggere questi modesti versi apparentemente scritti per la futura moglie del poeta come un «fatto» verosimilmente biografico. Resta la nebbia del vasto inventario di congetture che circonda ogni fatto accertato riguardo ai nostri venerabili autori. Da ciò che si è detto, si può argomentare che Shakespeare fosse già un abile sonettista a diciott’anni, prima dei cosiddetti «anni perduti» che lo portarono alla carriera di drammaturgo a Londra e del successo dei suoi drammi che resero la sua compagnia la più grande che ci sia mai stata. Si può ipotizzare sul perché abbia conservato proprio quella particolare poesia degli anni precedenti il suo viaggio a Londra e la sua fama. I pochi fatti concreti che abbiamo su Shakespeare, i documenti relativi al battesimo e al8

A. GURR, Shakespeare’s First Poem, in «Essays in Criticism», 21, 1971, pp. 222-226.

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la morte, le sei firme, tre delle quali sul suo testamento, i vari riferimenti e le varie poesie dei suoi contemporanei su di lui, ora sembrano sassolini sulla strada passata sotto il pesante rullo compressore degli studiosi e degli adoratori di Shakespeare, che l’ha ridotta a una pista liscia di ipotesi pubblicate. Sappiamo che la donna che lui dice avergli salvato la vita nel 1582 dicendo che non lo odiava restò a Stratford mentre lui viaggiava, che lo accoglieva ogni volta che tornava per investire nella sua città natale il denaro che guadagnava a Londra, e che gli sopravvisse sei anni. Sappiamo che fece di sé un gentiluomo pagando perché suo padre diventasse un esquire nel 1596, e ottenendo lo stato nobiliare per eredità nel 1601. Nel 1697, quando Ann aveva quarantun anni, comprò la seconda casa più grande di Stratford per lei e per i suoi figli. Negli anni seguenti investì centinaia di sterline in proprietà intorno a Stratford per riceverne una buona rendita, e si ritirò a vivere lì dopo che sua madre, che pare si sia occupata dei suoi beni, morì nel 1609. Persino dopo il rientro a Stratford mantenne i suoi interessi a Londra conservando una quota nei due teatri della compagnia, il Globe e il Blackfriars, e acquistando una proprietà vicino al Blackfriars nel 1613. Sembra che abbia venduto le quote dei teatri nel 1614, dopo l’incendio che distrusse il Globe, due anni prima della sua morte all’età di 56 anni, nel 1616, e che così si sia risparmiato l’onere delle spese per la ricostruzione del teatro. La proprietà a Blackfriars finì alla figlia maggiore. Questo scheletro di fatti concreti ha attirato a sé un corpo di biografia ipotetica che supera di gran lunga quella relativa a qualsiasi altro scrittore. Solo negli ultimi dieci anni sono uscite quattro nuove biografie, insieme a una moltitudine di studi minori. Non sorprende affatto che il più grande biografo moderno, Samuel Schoenbaum, abbia cominciato la sua opera biografica scrivendo uno studio di 600 pagine, Shakespeare’s Lives 9, in cui ironizza sui precedenti biografi e su coloro che proponevano scrittori alternativi, prima di imbarcarsi nel suo William Shakespeare. A Documentary Life 10 fiduciosamente ba9 S. SCHOENBAUM, Shakespeare’s Lives, Clarendon Press, Oxford 1970. Un’edizione riveduta è uscita nel 1991. 10 ID., William Shakespeare. A Documentary Life, Clarendon Press, Oxford 1975, riedito nel 1987 col titolo A Compact Documentary Life.

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sato sui fatti. Fino a un certo limite, penosamente ampio, è sbagliato distinguere i documenti che forniscono elementi biografici «concreti» dalle congetture per le quali sono usati. La pista liscia delle congetture, oltre le molteplici ipotesi dedotte da tracce interne ai drammi, quale la celebre lettura freudiana di Hamlet, non può essere nettamente separata dai sassolini delle tracce documentarie. Ma anche le più recenti biografie post-Schoenbaum scritte da studiosi eminenti mostrano quanto il pregiudizio personale regni ancora negli ampi sobborghi della congettura e come predomini troppo spesso sulle letture e sul posto dato ai pochi fatti concreti 11. Il retroterra personale e la formazione del biografo determinano sempre la personalità che emergerà dalla sua opera. Katherine Duncan Jones, fresca di una biografia di Philip Sidney, ha cercato sollievo ai propri dolori nel ritrarre, nel suo Ungentle Shakespeare, un uomo gretto e avido che picchiava la moglie, sebbene la sua opera di scavo nel vecchio letamaio della domanda di iscrizione di Shakespeare al College of Heralds abbia aggiunto qualche nuova ipotesi alla massa di congetture, soprattutto sui rapporti tra Shakespeare e il suo mecenate, il conte di Southampton, dedicatario dei due poemetti pubblicati nel 1593 e nel 1594 12. Park Honan – biografo esperto, con un delizioso ritratto di Jane Austen alle spalle – ha trovato una solida base negli studi precedenti, ma, mancando di profondità nello studio dei drammi, non è riuscito a far molto per risolvere il mistero centrale. La sua biografia ondeggia tra banali resoconti accurati dei dettagli della vita di tutti i giorni, e l’accettazione, per quanto esitante, di alcune delle più comuni e consuete congetture 13. 11 Un resoconto piacevolmente scettico del bisogno di mitizzare e di restituire un’immagine più simile a come la prefigurano i lettori è offerto da B. LOUGHREY e G. HOLDERNESS, Shakespearean Features, in J. I. MARSDEN (a cura di), The Appropriation of Shakespeare. Post-Renaissance Reconstructions of the Works and the Myth, Harvester Wheatsheaf, London 1991, pp. 183-201. Persino loro, tuttavia, confessano di avere una preferenza per la propria ipotesi, a proposito del cosiddetto «Chess portrait», su cui Loughrey aveva scritto in B. LOUGHREY e N. TAYLOR, Jonson and Shakespeare at Chess?, in «Shakespeare Quarterly», 34, 1983, pp. 440-448. 12 K. DUNCAN JONES, Ungentle Shakespeare. Scenes from his Life, Arden Shakespeare, London 2001. 13 P. HONAN, Shakespeare. A Life, University Press, Oxford 1998.

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L’opera biografica più recente che ho letto è quella di Stephen Greenblatt. Si tratta di uno scrittore brillante nel contesto shakespeariano generale, ma in questo suo ultimo libro ha proposto anche lui un’immagine del maestro come uno specchio di se stesso 14. Approssimativamente ancorato ai fatti, e a volte sin troppo incline ad accettare le congetture come fatti, «riesce» 15 molto meglio quando tenta di identificare lo spirito dell’autore che quando vuole mostrare la concretezza giornaliera della sua vita. Come Gary Taylor ha commentato in una recensione, il libro di Greenblatt mostra che egli conosce molto bene se stesso, e ci dà un bel ritratto dell’autore quale versione di Greenblatt, benché lasci in dubbio l’ampiezza della sua conoscenza di Shakespeare. Il suo errore più evidente, subito corretto per la riedizione in Inghilterra, era che Shakespeare avrebbe avuto modo di vedere porcospini irti di aculei passeggiando nelle foreste intorno a Stratford. Alla fine, tutti questi libri ci lasciano necessariamente in uno stato di frustrazione. Tutti presentano delle lacune nella conoscenza indispensabile per questo tipo di lavoro. Nessuno di essi ci dà la sensazione di aver catturato l’intera personalità dell’autore, per non parlare di tutta la gamma di attività in cui egli fu impegnato per tanti anni. Personalmente, preferisco l’opera di invenzione di Antony Burgess, che per lo meno mostra le sue qualità di scrittore creativo portato per i giochi di parole 16. 14 S. GREENBLATT, Will in the World. How Shakespeare Became Shakespeare, Cape, London 2004. 15 [Nella versione originale inglese di questa relazione, A. Gurr usa l’espressione «it blooms» (qui tradotta con «riesce»), aggiungendo: «per così dire: si contrappone al celebre lavoro di Harold Bloom tendente all’elogio e al culto dell’eroe»; in italiano il gioco di parole non era riproducibile (n. d. t.).] 16 A. BURGESS, Shakespeare, Cape, London 1970. I limiti della biografia shakespeariana, insieme al desiderio di sfruttare gli approcci più agiografici, hanno generato molte storie romanzate intorno agli episodi della sua vita. Queste comprendono C. BRAHMS e S. J. SIMON, No Bed for Bacon, Michael Joseph, London 1941, da cui ha tratto ispirazione il film Shakespeare in Love, come anche A. BURGESS, Nothing like the Sun, Heinemann, London 1964 – che Schoenbaum trovava preferibile alla sua biografia – o altri romanzi dello stesso autore, quali Enderby’s Dark Lady (Hutchinson, London 1984).

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In fin dei conti, quello che dimostrano i numerosi tentativi di scrivere biografie di Shakespeare è quanto l’autore, e forse ogni autore, sia sfuggente. Shakespeare non ci ha lasciato carte o lettere, niente di autobiografico, a meno che non si voglia credere alle elaborate e impeccabilmente controllate affermazioni dei sonetti. Possiamo solo riflettere fiduciosamente su quanto possa giustificarsi una lettura autobiografica, o, meno fiduciosamente, su che cosa gli passasse per la mente quando lasciò in eredità alla moglie il secondo miglior letto della casa. Tutti i drammi sono stati sottoposti a enormi pressioni al fine di far emergere quale fosse la vera posizione dell’autore, come una sorta di convalida di un preciso «messaggio», celato, anche se il dramma richiede che esso resti dietro al dialogo delle voci non autoriali. Forse l’autore sfuggente, autocreatosi attraverso le sue opere di finzione, potrebbe alla fine diventare una base più attendibile per un atto di comprensione simpatetica basato sulla biografia, di quanto non sia l’autore morto, o l’autore che rappresenta il modello agiografico del biografo.

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Il caso Johnson-Boswell è un raro caso di chiasmo nella storia della biografia. James Boswell s’insedia, s’inscrive nella biografia di Samuel Johnson; la va scrivendo prima ancora della morte del Dottore. E dopo la sua morte, la riscrive e la pubblica. Fuori dal testo, già questo biografo di destino è nel vivo del dramma biografico. A sua volta il grande biografato, non ancora oggetto passivo, aveva apprestato il materiale primo. Il sottotitolo della Life of Samuel Johnson, LL. D. recita: «A Series of his Epistolary Correspondence and Conversations with many Eminent Persons; and various original Pieces of his Composition» 1. Preoccupato della sua fama postuma, il Dottore aveva ansiosamente cercato il futuro biografo tra la cerchia di amici e ammiratori. Se mai c’è stato un intellettuale con diritto pieno a entrare nell’albo degli «uomini con una biografia» – previsti da Jurij Lotman 2 – certamente questo era il Dottor Johnson. Anche tra i primi a far maturare tale diritto, a farlo crescere nella coscienza dei contemporanei. Quel diritto era diventato un fortissimo «imperativo culturale» e l’investitura del biografo ufficiale una ragione di ansia per sé e per i possibili eletti al prestigioso, ma insidioso, compito. A sessantaquattro anni, il 18 luglio 1773, ne parla con la confidente abituale Hesther Lynch Piozzi, alias Mrs Thrale, che ne prende prontamente nota nel suo taccuino – gli amici del Dottore hanno costantemente un taccuino sottomano. «And who will be my biographer (said he), do you think?». «Goldsmith, no doubt, replied I, and he will do it the best among us». «The dog

1 Boswell’s Life of Johnson, a cura di L. F. Powell, Clarendon Press, Oxford 1934, 6 voll. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione che sarà da ora in poi indicata con Life. 2 J. M. LOTMAN, Il diritto alla biografia, in La semiosfera. Asimmetrie e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di S. Salvestroni, Marsilio, Venezia 1992 (1985), pp. 181-199.

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would write it best to be sure, replied he; but his particular malice towards me, and general disregard for truth, would make the book useless to all, and injurious to my character» 3.

Lo spoglio dei possibili candidati procede nervosamente: vari nomi vengono fatti e scartati. La conclusione è degna di un tiranno da opera buffa. Per far dispetto agli aspiranti biografi, il Dottore decide di investire del compito l’amica che gli sta di fronte. Ma per un attimo. Subito arriva il ripensamento: «…or, which is better, do it myself, after outliving you all» 4. L’antico Saturno si era neoclassicamente rincarnato nel Dottore, particolarmente aggressivo specie verso il più debole della sua prole, il serafico Oliver Goldsmith, alias Goldy, alias Doctor Minor. In effetti sia la biografia di Boswell che della Thrale – ma anche quelle oggi dimenticate di Sir John Hawkins, Arthur Murphy, Fanny Burney – sono una serie di aneddoti, in cui il parlato è per se stesso evento, come se un registratore fosse aperto per ore al centro del tavolo e il Dottore fosse continuamente intervistato sugli argomenti più vari, in funzione di autorevole e originale opinion-maker. Boswell era particolarmente estroso come intervistatore. «Sir, if you were shut up in a castle and a new-born baby child with you, what would you do?»; «Pray, Sir, have you ever been accustomed to wear a nightcap?»; «What do you do with orange peel when you have eaten the pulp?»; «Pray, Sir, do you know anything of the trade of a butcher?» 5. 3 H. LYNCH PIOZZI, Anedoctes of Samuel Johnson, Alan Sutton, Gloucester 1984, pp. 13-14; «“E chi sarà il mio biografo (disse), a chi pensate?”. “Goldsmith, non c’è dubbio, risposi, è il migliore fra noi”. “Certo, quel furfante scrive benissimo, rispose, ma la sua particolare malignità nei miei confronti, e il suo totale disprezzo per la verità, renderebbero il libro inutile per tutti, e nocivo alla mia reputazione”». Qui e oltre, laddove non altrimenti indicato, le traduzioni sono mie. 4 «…o, meglio farlo da me, e dopo che sarò sopravvissuto a voi tutti, me la scriverò io stesso la mia biografia». 5 Cit. dall’introduzione di B. Evans a J. BOSWELL, The Life of Samuel Johnson, The Modern Library, New York 1952, p. XIII; «Signore, se voi foste chiuso in un castello con un neonato, cosa fareste?»; «Prego, signore, avete l’abitudine di indossare un berretto da notte?»; «Cosa fate con la buccia di arancio quando avete mangiato la polpa?»; «Prego, signore, sapete qualcosa del mestiere di macellaio?».

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Il Dottore confidò a Mrs Thrale che gli aveva persino domandato perché una mela è tonda e una pera a punta. Tuttavia in quel nido di biografi – che era anche un nido di vipere –, Boswell era il più abile a pungolarlo. In un’altra occasione, il Dottore ebbe uno scatto d’ira: «Sir, you have but two topicks, yourself and me. I am heartily sick of both» 6. La frequenza del «Sir» a inizio di frase è forse una tardiva marca del biografo per sottolineare il carattere orale dello scambio, e la distanza rituale. Si affaccia sulla domanda il profilo fintamente ingenuo dello stesso Boswell, in realtà un provocatore. È un ruolo coscientemente assunto – fa capire nella dedica della Life a Reynolds (20 aprile 1791) –, ma attraverso il quale il lettore non riesce a intravedere il volto dell’abile metteur en scène. Com’è quel volto? L’astuta Mrs Thrale, che non dimenticò di essere stata investita dell’alto compito – anche se solo per una frazione di secondo –, è sdegnata contro un innominato che, all’altro capo della stanza, scrive all’istante su un taccuino le domande rivolte al Dottore e le fulminanti risposte. E chi sarà costui se non Boswell, detto anche Bozzy? Una tardiva gelosia si era insinuata nella particolarissima relazione esistente tra lei e il Dottore, per ben sedici o diciassette anni ospite fisso a casa sua per volontà del primo marito – l’efficientissimo e simpatico uomo d’affari, Mr Thrale. Ma la presenza di quello zelantissimo biografo, che tale si era eletto motu proprio, le riesce insopportabile. È figura familiare e separata, assorto com’è nell’atto di trascrivere, un rivale, un traditore sfacciatamente insediatosi nel cuore stesso dell’intimità familiare, della confidenza tra amici, della libera conversazione tra persone che si stimano e rispettano a vicenda. Trasforma il salotto in un’aula di tribunale (Boswell era avvocato). Chi è? Un gentiluomo o un buffone? – si domanda Mrs Thrale, forte della sua doppia armatura di padrona di casa e di un vestito di seta verde cangiante che, secondo Johnson, la faceva assomigliare a un antipatico insetto. «There is something so ill-bred, and so inclining to treachery in this conduct, that were it commonly adopted, all confidence would soon be 6

«Signore, avete soltanto due argomenti, voi stesso e me. Francamente sono stufo di entrambi».

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exiled from society, and a conversation assembly-room would become tremendous as a court of justice» 7. Adam Sisman, un eccellente biografo nostro contemporaneo, ha riletto i diari e la corrispondenza di Boswell, i manoscritti della Life, la monumentale bibliografia esistente, e ha pubblicato una biografia di Boswell che si legge come un romanzo di avventura, l’avventura di una ossessione condivisa e drammaticamente straripante nei tempi e nelle persone. Cinque anni fa, all’aeroporto di Heathrow acquistai il suo Boswell’s Presumptuous Task. Writing the Life of Dr. Johnson 8, appena pubblicato, e lo lessi sorpresa e affascinata dai tormenti e dalla scarsa felicità che il prestigioso e presuntuoso compito aveva causato a Boswell. L’ultima parte della sua vita si era consumata nell’impresa: tre edizioni della Life in otto anni – la terza in quattro volumi in ottavo uscì il 18 marzo 1799 – mentre materiale nuovo, originale o fasullo, gli veniva proposto da tutte le parti, anche quando finalmente era in tipografia. Inoltre, consigli e pressioni di amici, dubbi propri, e sullo sfondo angustie familiari e finanziarie. Ma anche problemi di stile e di memoria. Johnson amava esprimersi in johnsoniano. La sua maniera di parlare era facilmente falsificabile, peggio caricaturabile: lui stesso a volte aumentava in una frase il livello sopportabile di johnsoniano. Dal 1740 il Dottore era una leggenda vivente e gli aneddoti su di lui si accumulavano, a voce o stampati. Boswell, con la sua esperienza di tribunali, sapeva valutare e scegliere. Primi esempi di leggende metropolitane, certi episodi, certe conversazioni vengono ripetute e variate al punto che lo stesso protagonista non ricorda più esattamente come siano andate le cose: ad esempio quella volta che il Dottore sbatté in testa al librario-editore Thomas Osborne un pesante in-folio – una Bibbia in greco, poi venduta a caro prezzo. Osborne, odiato per la rozzezza e l’abitudine di sfruttare i poveri giornalisti tuttofare di Grub Street, se ne vantava, e la storia si arricchì di parti7 H. LYNCH PIOZZI, Anedoctes…, cit., p. 19; «C’è qualcosa di così maleducato, e così vicino al tradimento in questo modo di comportarsi, che se fosse comunemente praticato, ogni fiducia verrebbe a cessare in società, e un salotto diventerebbe tremendo quanto un tribunale». 8 A. SISMAN, Boswell’s Presumptuous Task. Writing the Life of Dr. Johnson, Penguin, London 2000.

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colari sempre più truculenti. Dopo averlo buttato a terra, il Dottore gli avrebbe messo un piede in testa o sul collo o sul petto, declamando in versi una sfilza di insulti 9. C’era inoltre il problema della supposta infedeltà maritale di Johnson e della grottesca figura della moglie Tetty, di vent’anni più vecchia. Sia Boswell che Hawkins 10 – il primo biografo scelto da un consorzio di librai londinesi poche ore dopo la morte del Dottore – avevano letto i taccuini di Johnson senza il suo permesso, e non potevano citarli come fonte. Si trovarono d’accordo nel passare sotto silenzio le infatuazioni amorose di Johnson, sospette soprattutto nel periodo della sua amicizia con Richard Savage. Ma per quel che riguardava Tetty e la fedeltà coniugale del Dottore i due biografi diedero infine versioni divergenti. Boswell non volle che un tale difetto potesse diminuire il suo «literary Colossus», un’ombra offuscare l’esemplarità di una vita che non era mera esistenza. L’occasione per polemizzare apertamente con Hawkins è data dalla morte di Tetty, avvenuta il 17 marzo 1752. Why Sir John Hawkins should unwarrantably take upon him even to suppose that Johnson’s fondness for her was dissembled (meaning simulated or assumed), and to assert, that if it was not the case, «it was a lesson learned by rote», I cannot conceive; unless it proceeded from a want of similar feeling in his own breast 11.

Un simile argomentum ad hominem era tanto più straordinario quanto più la sua fama e fame di libertino è da lui stesso ac9

Ivi, p. 231. Sir John Hawkins (1719-1773) aveva conosciuto Johnson sin dal 1740, quando era in preparazione il Dictionary. Nel 1749 Hawkins, Johnson e pochi altri avevano formato lo Ivy Lane Club. Fu anche tra i fondatori del più famoso ed esclusivo Literary Club, a cui Boswell fu ammesso solo molto più tardi (A. SISMAN, Boswell’s Presumptuous Task…, cit., p. 78). La sua Life of Samuel Johnson fu pubblicata nel 1787, quattro anni in anticipo sulla prima edizione della Life di Boswell. 11 Life, vol. I, p. 234; «Perché Sir John Hawkins abbia voluto senza alcuna certezza persino supporre che il suo affetto per lei fosse dissimulato (volendo dire simulato o preteso), e asserire che, se non fosse questo il caso, “era una lezione imparata a memoria”, non riesco a capirlo, a meno che non nasca da moti simili del proprio cuore». 10

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curatamente trascritta nei diari. Tuttavia una vernice di perbenismo cancellò la pigra abitudine di Tetty di leggere romanzi a letto – da cui aveva presto bandito il marito – bevendo e prendendo oppio. Lo testimoniano amici del Dottore: Taylor, Garrick, Levet. Tetty «was the plague of Johnson’s life» (Taylor), «the woman was a little painted poppet; full of affection and rural airs of elegance» (Garrick) 12. La voce «Wife» nel Dictionary non è certo complimentosa. Delle donne che avrebbero potuto prendere il posto di Tetty dopo la sua morte, non è facile comprendere il ruolo reale, oltre quello dichiarato. Beryl Bainbridge ne ha fatto materia di fantasia in According to Queeney 13, un romanzo suggerito dal ritratto che Reynolds aveva fatto nel 1781 di una giovane Mrs Thrale con la figlia Hesther, alias Queeney, ancora bambina – la preferita di Johnson che le aveva dato quel soprannome. (La scena iniziale con il cadavere del Dottore appeso a un gancio, in attesa dell’autopsia, non ne ha fatto un best-seller.) Per i suoi biografi un punto oscuro, ma anche fecondo, della vita del Dottore è la sua amicizia con Richard Savage, l’intimità fra i due, le camminate notturne in una Londra deserta, la povertà condivisa. Tutto raccontato da Johnson nella lunga, commossa Life of Savage, pubblicata nel 1744, e inserita nelle Lives of the Poets – la migliore della raccolta. Richard Holmes ha voluto misurarsi con questo episodio specifico, e ne ha indagato varie versioni 14. Hawkins non aveva approvato il radicalismo del giovane Johnson, che da quelle conversazioni notturne era stato profondamente toccato. Nelle sue poesie, Savage elencava, in termini straordinariamente espliciti e in anticipo sui tempi, gli effetti odiosi dell’imperialismo inglese: il disumano commercio di schiavi dall’Africa occidentale alle Americhe, e in India le 12 D. e M. HYDE, Dr. Johnson’s Second Wife, in F. W. HILLES (a cura di), New Light on Dr. Johnson, Yale University Press, New Haven 1967 (1959), p. 136; «era la rovina della vita di Johnson»; «la donna era una bamboletta imbellettata; piena di affetto e di rurali arie di eleganza». 13 B. BAINBRIDGE, According to Queeney, Little, Brown and Company, London 2001. 14 R. HOLMES, Dr. Johnson & Mrs Savage, Flamingo, London 1994.

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brutali regole del commercio che devastavano la cultura dei nativi. Chiede giustizia e rispetto. Johnson li cita nella sua Life of Savage. Why must I Afric’s sable Children see Vended for Slaves, though formed by Nature free, The nameless Tortures the cruel Minds invent, Those to subject, whom Nature equal meant? 15 Dare not, oh! Dare not, with ambitious View, Force or demand Subjection, never due 16.

Boswell aveva scritto di Savage: a man, of whom it is difficult to speak impartially, without wondering that he was for some time the companion of Johnson; for his character was marked by profligacy, insolence, and ingratitude: yet, as he undoubtedly had a warm and vigorous, though unregulated mind, had seen life in all its varieties, and been much in the company of the statesmen and wits of the time, he could communicate to Johnson an abundant supply of such materials as his philosophical curiosity most eagerly desired; and as Savage’s misfortunes and misconduct had reduced him to the lowest state of wretcheness as a writer for bread […] It is melancholy to reflect, that Johnson and Savage were sometimes in such extreme indigence, that they could not pay for a lodging; so that they have wandered together whole nights in the streets… 17

15 Cit. ivi, p. 48; «Perché devo vedere i bruni figli dell’Africa / venduti come schiavi, benché da Natura fatti liberi, / le torture innominabili che menti crudeli inventano, / per assoggettare coloro che Natura ha fatto uguali?». 16 Cit. ivi, p. 47; «Non osare, oh! Con scopi ambiziosi / forzare o chiedere soggezione, mai dovuta». 17 Life, vol. I, pp. 161-164; «un uomo del quale è difficile discorrere con imparzialità, senza stupirsi come egli potesse per qualche tempo essere legato d’amicizia a Johnson, giacché era libertino, insolente, ingrato; di mente certo vigorosa e calda, ma sregolata; conosceva la vita in ogni sua varietà, aveva frequentato la compagnia di uomini potenti e di ingegno, e pertanto poteva offrire a Johnson quel materiale che più era caro alla sua curiosità filosofica; e la sventura e la condotta irregolare l’avevano alla fine ridotto alla estrema miseria di chi deve guadagnarsi il pane con la penna […] È melanconico considerare che Johnson e Savage erano talora in tali condizioni di indigenza, da non aver danaro per pagarsi l’alloggio per la notte,

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L’elegante, umanitario Savage precipita dalla povertà all’indigenza. Quale che sia stata la sua fedina penale – «a poet-killer with a peculiar violence in his relationships», secondo Holmes 18 –, la lealtà di Johnson lo accompagna fino alla fine. Nella Life of Savage il personaggio narrato e il narratore – Savage e Johnson – sono colti in una sorta di interazione empatica, di illuminazione etica; il voyeurismo di Boswell è in qualche modo eluso. Ma la contaminazione momentanea di esperienza viva e letteratura aveva sortito un modo nuovo di scrivere biografie, di cui i seguaci di Johnson non colsero la novità, e forse anche lui non ne fu pienamente consapevole. L’episodio più grottesco della battaglia senza quartiere tra i would-be biografi era accaduto otto giorni prima della morte del Dottore. Il 5 dicembre 1784 Johnson aveva invitato alcuni amici intimi a casa sua per ricevere insieme i sacramenti. Mentre si vestiva, si accorse di aver perso un foglio con istruzioni importanti, e Hawkins, insieme ad altri, andò a cercarlo in camera da letto. Trovò un taccuino con su scritto «Meditations and Reflections» di pugno del Dottore. Se lo infilò in tasca, insieme a uno più piccolo. Poi confidò il fatto a un amico presente, questi lo riferì a Johnson. Finita la cerimonia, Johnson, molto agitato, chiese la restituzione dei due taccuini 19. Ma Boswell non fu da meno. Fanny Burney racconta nel suo diario, pubblicato postumo, che Boswell le rivolse una perentoria quanto patetica richiesta di aiuto per completare la Life, ormai al termine. La scena si svolse in strada, e Boswell si esibì con tutta la veemenza che la sua ossessione esigeva: I want to show him on a new light. Grave Sam, and great Sam, and solemn Sam, and learned Sam – all these he has appeared over and over. Now I want to entwine a wreath of the Graces across his brow; I want to

per cui vagavano insieme per notti intere per le strade di Londra…» (G. MANGANELLI, Vita di Samuel Johnson, a cura di V. Papetti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 16). 18 Life, vol. I, p. 5; «un poeta-assassino con una particolare violenza nei rapporti». 19 Cfr. F. A. POTTLE, The Dark Hints of Sir John Hawkins and Boswell, in W. HILLES (a cura di), New Light…, cit., pp. 153-163.

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show him as gay Sam, agreeable Sam, pleasant Sam; so you must help me with some of his beautiful billets to yourself 20.

È stato detto che il Dottore ha avuto più vite di un gatto. La Life di Hawkins conta seicento pagine e, se non fosse stata vanificata dalle scarse doti dell’autore, sia umane che intellettuali, sarebbe rimasta come biografia ufficiale, rispettabile per il largo impianto simile a quello di Boswell, «life-and-times» – il quadro della cultura dell’epoca con al centro la figura dominante del Dottore. Che è stato un grande catalizzatore di biografie con autobiografie implicite. Mrs Thrale, John Hawkins, Arthur Murphy, Reynolds, Boswell, Macaulay, Carlyle rivelano se stessi, misurandosi con Johnson 21. Ma Boswell ebbe l’astuzia di costruirsi solo come voce fuoricampo, apparentemente assente, sebbene attivissimo nello sfondo. Secondo Giorgio Manganelli: Boswell era il puro essere sensibile; pronto a cogliere gesti, parole, anche frammenti di dialoghi, tutto ciò che avesse il segno caldo, sanguigno, ambiguo e volgare dell’esistenza. Di fronte a codesti indizi, quasi sanguigne e volatili prede, Boswell ha una zampata lieve e infallibile, fulminante: non idee muovono quei suoi gesti velocissimi, ma si direbbe una muscolatura da animale intellettuale, una nervatura perfetta. Alla economicità di codesto funzionamento mentale occorreva più che assenza di idee, una certa irrilevanza del mondo delle idee, onde Boswell può essere insieme pio e libertino, osceno e sentenziosamente moralistico. Anche le idee, in primo luogo quelle religiose, sono per Boswell modi di essere da apprendere come tali: incapaci dunque di contraddizione, che è categoria della logica e non dell’esistere 22.

È nell’animale-scrittore che è colta l’identità, l’ipseità – per dirla con Ricœur, Hopkins, Duns Scoto – del personaggio Boswell. 20

Cit. in A. SISMAN, Boswell’s Presumptuous Task…, cit., p. 263; «Voglio gettare una luce nuova su di lui. Sam l’austero, Sam il grande, Sam il solenne, e Sam l’erudito – in tutte queste forme è apparso più e più volte. Ora voglio intrecciare una corona di grazie per la sua fronte, voglio mostrarlo come Sam l’allegro, Sam il simpatico, Sam il gradevole; perciò mi dovete aiutare con qualcuna di quelle belle letterine che vi scriveva». 21 Cfr. D. A. STAUFFER, The Art of Biography in Eighteenth Century England, University Press, Princeton 1941, p. 411. 22 G. MANGANELLI, Vita di Samuel Johnson…, cit., p. 24.

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Ma è possibile che il Legislatore delle Lettere, il grande Can Johnson non avesse previsto la necessità di porre un rimedio al disordine delle biografia? Occorreva riconciliare l’esigenza etica della biografia tradizionale e il pettegolezzo moderno. O meglio, i suoi effetti di reale – come li chiamerà Barthes 23 – che allora erano chiamati minutiae, biographiolae. Il piacere congiunto con l’insegnamento morale è lo scopo, e perciò è più utile tramandare la memoria di persone particolari che non la caduta degli imperi – una idea che annuncia l’introversione dell’anima romantica. Con una certa sorpresa scopriamo che sulla scrittura biografica Johnson dà consigli tutt’ora preziosi in un saggio: il n. 60 del Rambler (13 ottobre 1750). Il n. 84 su The Idler (24 novembre 1759) riguarda soprattutto l’autobiografia. Furono pubblicati circa venti se non venticinque anni prima delle Lives. Per portare all’esterno l’interno, il mondo psichico interiore del biografato alla scrittura, occorre cogliere quegli accidenti invisibili, effimeri, evanescenti che si manifestano nella vita quotidiana. Thus Salust, the great master of nature, has not forgot, in his account of Catiline, to remark that «his walk was now quick, and again slow», as an indication of a mind revolving something with a violent commotion. Thus the story of Melancthon affords a striking lecture on the value of time, by informing us, that when he made an appointment, he expected not only the hour, but the minute to be fixed, that the day might not run out in the idleness of suspense; and all the plans and enterprises of De Witt are not of the less importance to the world, than that part of his personal character which represents him as «careful of his health, and negligent of his life» 24.

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R. BARTHES, L’effetto di reale (1968), in ll brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988. 24 S. JOHNSON, Selected Essays from the «Rambler», «Adventurer», and «Idler», a cura di W. J. Bate, Yale University Press, New Haven and London 1968, p. 112; «Così Sallustio, il grande maestro della natura, non ha dimenticato, nel suo resoconto su Catilina, di osservare che “il suo passo era ora rapido, ora lento”, come segno di una mente coinvolta in una qualche violenta commozione. Così la storia di Melantone ci offre una straordinaria lezione sul valore del tempo, informandoci che quando aveva un appuntamento, si aspettava che non solo l’ora, ma anche il minuto fosse fissato, in modo che il giorno non trascorresse nell’ozio dell’attesa; e tutti i progetti e le imprese di De Witt ora sono di minore importanza per il mondo, di quella parte del suo carattere che lo mostra “meno interessato alla sua salute, che alla sua vita”».

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Siamo agli effetti di reale che Barthes avrebbe individuato nella narrativa realistica, in quanto segmenti minimi privi di significato, ma proprio per questo, per la sorpresa e l’inutilità apparente della loro presenza, carichi se non altro di una dose minima di pathos. Il «dettaglio inutile» di Barthes, nel modo come è enunciato da Johnson, vacilla tra insignificanza assoluta e insignificanza apparente da cui potrebbe germogliare un significato «angolare» – per dirla con Derrida 25 – criptico, ma che resta sospeso, enigmatico. Poiché la biografia neoclassica è narrazione storica e con la storia condivide il problema della verità, il compito di riferire ciò che è realmente accaduto diventa essenziale: «poco importa allora la non-funzionalità di un dettaglio, dal momento che esso denota “ciò che è avvenuto”; il “reale concreto” diventa la giustificazione sufficiente del dire» 26. Ma Johnson, a sorpresa, fa delle riserve. Ci sono dettagli realistici che hanno convinto il biografo, ma per i posteri sono totalmente insignificanti, e ne porta alcuni esempi: l’irregolarità del polso di Addison, le opinioni di Malherbe sulle donne sessualmente libere e certe insignificanti preoccupazioni filologiche. Invece Boswell, così moderno nella sua indisponibilità alla chiusura della narrazione, ossessionato dalle minime circostanze che fluiscono spontaneamente sotto la sua penna, non lo seguirà su questa strada. La sua realtà vorrebbe non incontrare la sua rappresentazione; i pensieri contenuti nel cervello dovrebbero schiacciarsi sul foglio e lì depositarsi nella loro immediata materialità e verità. Quando, prima di partire per la Corsica, Johnson gli aveva raccomandato di riportare quanti più aneddoti possibile, gli aveva indicato una modalità di scrittura che poteva procedere indefinitivamente, una somma continua di aneddoti che, nel caso della biografia, trova la sua sutura naturale solo con la morte del biografato – se non con quella del biografo. Seguendo Plutarco, storico del dettaglio significativo, anzi pittoresco per un lettore moderno, abituato ai travestimenti minimalisti del realismo, ma forse sconcertante per un lettore suo contemporaneo, abituato invece alle proporzioni sublimi degli eventi e de25 J. DERRIDA, F(u)ori, in N. ABRAHM, Il Verbario dell’Uomo dei Lupi, a cura di M. Ajazzi Mancini, Liguori, Napoli 1992. 26 R. BARTHES, L’effetto di reale, cit., p. 156.

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gli eroi, il Dottore indicava un’uscita dalla strettoia del codice neoclassico. All’interno della conclamata universalità della natura umana, l’identità individuale si scolora e vacilla, la fattualità è svigorita. Il pessimismo, centrale all’esperienza umanistica, depotenzia il mondo. Ma l’aneddoto, questo germoglio rigoglioso della biografia neoclassica, analogo alla «variante» nella poesia eroicomica del secolo, promette varietà e novità. È la prova dell’amore del Dottore per la fantasmagoria del caso, per la seduzione dell’incorreggibile flusso del quotidiano. È il risvolto incontrollabile di quel fanatico amore per la Verità che doveva essere la regola d’oro del biografo. La malinconica constatazione del Dottore che «We are all prompted by the same motives, all deceived by the same fallacies, all animated by hope, obstructed by danger, entangled by desire, and seduced by pleasure» 27 è vistosamente contraddetta non solo dai suoi devoti biografi, raccoglitori, confusionari e ossessionati, di più aneddoti possibili, anche dissimili. Come tanti Pollicino sulle orme delle orme del gigantesco Sam, cercano le tracce del vissuto – più minuscole sono tanto meglio. (Aneddoto viene dal greco anékdotos, «inedito», opera o fatto non ancora divulgato.) Boswell si compiace di frugare fra i resti di un conoscere minimo, esistenziale, abitualmente perso. Non ha nessuna teoria in proposito, solo l’ossessione di scoperchiare la superficie, cercare quel frammento molecolare che rischierebbe di diventare invisibile, irraccontabile. Non sopporta che un atomo di vita diventi inconoscibile, rimanga inedito. La storia del Dottore che aiuta la gentildonna ad attraversare la strada, si precisa sotto la sua lente d’ingrandimento. La signora era «somewhat in liquor» 28, la monetina che gli offrì in ringraziamento uno scellino, la strada Fleetstreet. La sua visione del mondo è quella di un entomologo dell’umano. Scopre gli errori (o magari menzogne?) di altri raccoglitori di aneddoti. Mrs Thrale ha fatto un resoconto inesatto di un anedotto, e Boswell lo riferisce al Dottore. Il quale il mattino dopo impartisce una dura lezione alla signora, che invece rivendica la libertà di com27 S. JOHNSON, The Rambler, n. 60, in Selected Essays…, cit., p. 111; «Noi siamo tutti mossi dagli stessi motivi, tutti ingannati dagli stessi errori, tutti animati dalla speranza, impediti dal pericolo, invischiati dal desiderio, sedotti dal piacere». 28 «un tantino ubriaca».

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piere «little variations in a narrative» – come accade normalmente, precisa – «if one is not perpetually watching. Johnson: “Well, Madam, and you ought to be perpetually watching”» 29. Occhio soprattutto, come aveva detto Addison, e in sincronia: orecchio, mano e taccuino – gli strumenti del fotoreporter di oggi. Eppure il Dottore non si era ingannato sulla natura fittizia, retroriflessiva, infine fantasmatica della biografia che, parole sue, is produced by an act of imagination, that realizes the event however fictitious, or approximates it, however remote, by placing us, for a time, in the condition of him whose fortune we contemplate; so that we feel, while the deception lasts, whatever motions would be excited by the same good or evil happening to ourselves 30.

Niente di più lontano dalle stringhe di aneddoti che autorizzò come segni e pegni oggettivi – anzi autorevoli – di realtà. Nelle sue Lives, Johnson colloca il dettaglio insignificante, alla Barthes, in modo indimenticabile. Savage dorme tra la cenere calda della fornace, l’occhio gonfio come un uovo di Swift moribondo, la morte per indigestione di aragoste su piatto d’argento per Pope. La realtà balena nell’attimo insignificante per rendere visibile e tangibile l’atto di immaginazione: scrittore con scrittore, morituro con morituro si conoscono a fondo. Johnson viveva nello stretto spazio della scrittura e della morte. Cessata la scrittura, la morte divenne dominante. I diari finali – che lui volle fossero pubblicati – dicono, senza più filosofemi alla Rasselas, la nuda esperienza della fine. Senza pietà per se stesso, elencò i grammi di oppio, le pipì notturne, i tormenti e le preghiere. Il pensiero che invece ossessionò Boswell fino alla fine fu come riscattare Johnson dalla sua scomparsa, dal suo inaccettabile silenzio. 29

Cit. in D. A. STAUFFER, The Art of Biography…, cit., p. 417; «piccole variazioni nel resoconto»; «se uno non sta continuamente a guardare. Johnson: “Ebbene, Signora, voi dovreste stare continuamente a guardare”». 30 S. JOHNSON, Selected Essays…, cit., p. 109; «è prodotta da un atto di immaginazione che fa apparire reale l’avvenimento, per quanto fittizio, o ci si avvicina, per quanto remoto, ponendoci, per un momento, nella condizione di colui del quale contempliamo le sorti; così che possiamo sentire, finché dura l’illusione, i movimenti che susciterebbero in noi gli stessi avvenimenti, positivi o negativi».

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Queste biografie fatte di aneddoti, trovano una metafora che le sostanzia, conferisce loro senso, le rivela. Boswell è certo di aver edificato «an honourable monument» 31 – nella prefazione alla prima edizione. Nella seconda edizione, ha costruito un impero culturale: «I have Johnsonised the land, and I trust they will not only talk, but think, Johnson» 32. Mrs Thrale è quasi una derridiana ante litteram nella sua cancellazione di orizzonte. Manca il fine per cui la sua breve biografia è scritta, se non quello, pare, di diminuire il colosso di Boswell, e di mostrarne la tragica discontinuità. Si accontenta di offrire un «mosaico» così come viene, un «ritratto a lume di candela» con luci e ombre del grande Johnson – anche grandemente insopportabile, a suo dire. Chiuso nella cripta psichica di Boswell o esibito in chiaroscuro tra i ritratti di famiglia di Mrs Thrale, il Dottor Johnson ha ancora qualcosa da insegnare sulle nostre effimere certezze di viventi. E, ancor di più, su quelle dei biografi.

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«un monumento onorevole». «Ho johnsonizzato il territorio, e confido che non solo parleranno, ma penseranno, Johnson». 32

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REVANCHER À COUPS D’INTELLIGENCE»: SUL PROUDHON DI SAINTE-BEUVE

È stato un articolo di Albert Thibaudet a guidarmi verso il Proudhon di Sainte-Beuve 1, uno di quei libri di cui si conosce da sempre l’esistenza senza che si sia mai presentata l’occasione di prenderli in prestito in biblioteca. Ma oggi Proudhon e Sainte-Beuve sono trascurati. Perché tornarci sopra? Perché la biografia, genere a lungo ritenuto sospetto, è tornata di moda, perché una certa tradizione sainte-beuviana del ritratto letterario è di nuovo di attualità nella critica, perché le prime frasi del Proudhon di Sainte-Beuve mi hanno incantato ed era da tempo che non provavo tanta felicità nel leggere una pagina di prosa francese. Proudhon muore nel gennaio 1865. Sainte-Beuve, che morirà nel 1869, pubblica un ritratto di Proudhon nella Revue contemporaine da ottobre a dicembre 1865. Baudelaire ne è incuriosito. Da Bruxelles, chiede a Champfleury che glielo trasmetta sin dal novembre 1865 2, ne raccomanda la lettura a Narcisse Ancelle in dicembre 3, e scrive a Sainte-Beuve nel gennaio 1866: Que ne donnerais-je pas pour aller en cinq minutes rue du Mont-Parnasse, pour causer une heure avec vous de vos articles sur Proudhon; avec vous qui savez écouter même les gens plus jeunes que vous? Ce n’est pas, croyez-le bien, que je trouve la réaction en sa faveur illégitime. Je l’ai beaucoup lu, et un peu connu. La plume à la main, c’était un bon bougre; mais il n’a pas été, et n’eût jamais été, même sur le papier, un Dandy! C’est ce que je ne lui pardonnerai jamais. Et c’est ce que j’exprimerai, dussé-je exciter la mauvaise humeur de toutes les grosses bêtes, bien pensantes, de L’Univers.

1

A. THIBAUDET, Proudhon, Sainte-Beuve et nous, in «NRF», 1er juillet 1929, pp.

90-100. 2 Ch. BAUDELAIRE, Correspondance, t. II, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1973, pp. 543-544. 3 Ivi, p. 548.

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De votre travail, je ne vous dis rien. Vous avez, plus que jamais, l’air d’un confesseur et d’un accoucheur d’âmes 4.

Il poeta si mostra riservato sia riguardo a Proudhon, che ha frequentato nel 1848 (si veda la chiusa sarcastica della versione manoscritta del poema in prosa Assommons les pauvres!: «Qu’en dis-tu, Citoyen Proudhon?» 5), sia riguardo a Sainte-Beuve, trattato da «confessore e ostetrico d’anime», apprezzamento ambiguo. Sarà l’ultimo libro di Sainte-Beuve, l’unico su un contemporaneo, e il più personale. Incompiuto alla morte, sarà oggetto di una pubblicazione postuma da parte di Jules Troubat, il suo segretario, nel 1872 6, e sconcerta ancora oggi. Il cronista della Revue des Deux Mondes, l’economista Henri Baudrillart, professore al Collège de France, giudicava la congiunzione scandalosa 7. Thibaudet parla di una «curieuse collusion Sainte-Beuve/Proudhon» 8. Il sociologo Wolf Lepenies, in un recente bel lavoro su Sainte-Beuve, sottolinea l’«interesse inaspettato» del critico per un pericoloso agitatore politico e un oscuro teorico 9. Alle origini di una biografia, c’è sempre un incontro. Come ha potuto Sainte-Beuve appassionarsi a un nemico di classe, il padre del socialismo scientifico, un precursore di Marx, difensore dell’anarchia e campione dell’anticapitalismo, del4 Ivi, pp. 562-563; «Cosa non darei per andare in cinque minuti in rue du MontParnasse, per chiacchierare un’ora con voi dei vostri articoli su Proudhon; con voi che sapete ascoltare anche le persone più giovani di voi? / Credetemi, non è che trovi la reazione a suo favore illegittima. L’ho letto molto, e conosciuto un poco. Con la penna in mano, era un buon diavolo; ma non è stato, e mai avrebbe potuto essere, neanche sulla carta, un Dandy! Questo è ciò che non gli perdonerò mai. E questo è ciò che esprimerò, dovessi anche provocare il cattivo umore di tutti gli imbecilli, ben pensanti, de L’Univers. / Del vostro lavoro, non vi dico nulla. Avete, più che mai, l’aria di un confessore e di un ostetrico d’anime». 5 Ammazziamo i poveri!; «Che ne dici Cittadino Proudhon?». 6 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, sa vie et sa correspondance, 1838-1848, Michel Lévy, Paris 1872. 7 H. BAUDRILLART, Proudhon, in «Revue des Deux Mondes», 1er février 1873, pp. 584-616. 8 A. THIBAUDET, Proudhon, Sainte-Beuve et nous, cit., p. 100; «curiosa collusione Sainte-Beuve/Proudhon». 9 W. LEPENIES, Sainte-Beuve. Au seuil de la modernité, trad. fr. J. Étoré e B. Lortholary, Gallimard, Paris 2002 (Munchen 1997), p. 163.

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l’antistatalismo e dell’antiteismo, eppure nemico del collettivismo e partigiano dell’individualismo? Thibaudet lo tratta tuttavia da francese medio, con «une âme et des colères de propriétaire frustré» 10, proprio come Marx vi aveva visto un puro e semplice piccolo borghese. Come spiega Thibaudet, tutti i critici del XIX secolo «ont mis des rallonges importantes de critique politique à leur critique littéraire» 11. La critica letteraria conduce alla critica politica, e generalmente a una critica dogmatica, di destra se non conservatrice o reazionaria, come in Taine, Renan, Brunetière, Bourget, Lemaître, Maurras o Faguet. Tranne Sainte-Beuve, che riceve il seggio senatorio dal potere imperiale, ma che tiene alla sua indipendenza: in Sainte-Beuve, «[le] critique littéraire et la critique politique se ressemblaient plus qu’on ne croit» 12, ritiene sempre Thibaudet. Non per questo la «profonda simpatia» tra il chiassoso propagandista dell’uguaglianza e il delicato e moderato arbitro del gusto letterario risulta meno bizzarra, paragonata per esempio al tono reticente del Proudhon di Faguet 13. Fondato sulla «vertu de sympathiser par le dedans, proche parente de l’histoire naturelle et du roman» 14, il Proudhon di Sainte-Beuve è un romanzo balzacchiano dell’ambizione e del fallimento: quelli di un figlio del popolo di suprema intelligenza, che diventa tipografo, correttore, stampatore e scrittore, ma che, troppo libero per riuscire in società, torna infine alla miseria. Henri Baudrillart accosta la simpatia di Sainte-Beuve per Proudhon a quella, seppure ben moderata, che il critico aveva espresso per Baudelaire: «Le critique qui n’avait pas dédaigné d’apprécier les mérites poétiques d’un Charles Baudelaire pouvait bien jeter un re10 A. THIBAUDET, Proudhon, Sainte-Beuve et nous, cit., p. 93; «un’anima e degli scatti d’ira da proprietario frustrato». 11 ID., Les Idées politiques de la France, Stock, Paris 1932, p. 232; «hanno applicato notevoli aggiunte di critica politica alla loro critica letteraria». 12 ID., Proudhon, Sainte-Beuve et nous, cit., p. 91; «[il] critico letterario e la critica politica erano più vicine di quanto non si creda». 13 É. FAGUET, Proudhon, in ID., Politiques et moralistes du XIXe siècle, Lecène et Oudin, Paris 1900, IIIe série. 14 A. THIBAUDET, Les Idées…, cit., p. 233; «virtù del simpatizzare dal di dentro, parente prossima della storia naturale e del romanzo».

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gard curieux sur les fleurs du mal du socialisme» 15. L’autore di ciò che il cronista dei Deux Mondes chiama una «biografia», aveva forse il diritto di «contempler avec ce sang-froid de savant ou cette curiosité d’artiste et d’amateur la lave qui n’a pas cessé d’être brûlante, le volcan qui reste en pleine éruption?» 16. Sainte-Beuve non era certo stato un ardente difensore di Baudelaire, ma era già troppo per Henri Baudrillart – libero pensatore, padre del cardinale Alfred Baudrillart, futuro pétainista dell’Académie française, con cui Thibaudet lo confonde. Per questo critico benpensante, Baudelaire e Proudhon rappresentano due facce del male, e la buona società dovrebbe astenersi dal parlare di loro. Perché diavolo Sainte-Beuve si è preso questa briga sacrilega?

La sua «Vie de Rancé» Thibaudet propone una motivazione intima a questa impresa biografica posta sotto il segno della complicità. Ciò che tocca nel profondo Sainte-Beuve è la povertà di Proudhon, indigenza nella quale sarebbe potuto lui stesso cadere e nella quale si proietta. Proudhon fu un parente stretto della miseria e su questa ha costruito la sua opera: «Tout ce que je sais, je le dois au désespoir» 17, scriveva nel 1843 nella dedica al suo amico Bergmann della Création de l’ordre dans l’humanité, affermazione commentata da Sainte-Beuve e citata da Thibaudet 18. Proudhon parla di esperienza, il che strappa al critico un a parte patetico: Cher Normalien qui lisez ces pages, et qui étiez tenté de vous montrer sévère pour l’érudition hâtive et improvisée de Proudhon, vous qui avez joui

15

H. BAUDRILLART, Proudhon, cit., p. 585; «Il critico che non aveva disdegnato di apprezzare i meriti poetici di uno Charles Baudelaire poteva benissimo gettare uno sguardo curioso sui fiori del male del socialismo». 16 Ivi, p. 587; «contemplare con quel sangue freddo da erudito o con quella curiosità da artista e dilettante la lava che non ha ancora smesso di bruciare, il vulcano che è ancora in piena eruzione?». 17 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 158, nota; «Tutto ciò che so, lo devo alla disperazione». 18 A. THIBAUDET, Proudhon, Sainte-Beuve et nous, cit., p. 93.

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de toutes les facilités et de tous les instruments de l’étude […], soyez indulgent, et que ce cri désespéré rachète, à vos yeux, quelques-uns des défauts et des manquements de ce savant sans permission et sans grade 19.

Come un avvocato in tribunale, in Proudhon Sainte-Beuve difende l’autodidatta; trova circostanze attenuanti a quel dottrinario che confessava con pudore: «Je sais ce que c’est que la misère, j’y ai vécu» 20. Scusando i suoi svarioni, difende una causa e si fa giustiziere. La sua biografia – ed è proprio questo che fa orrore agli orléanisti della Revue des Deux Mondes – ha dell’apologia: Baudelaire non aveva torto a parlare di una «reazione a favore» di Proudhon. Seguendo Thibaudet, se c’è una tale affinità tra Proudhon e Sainte-Beuve è perché entrambi rappresentano una tipologia francese, culturale Sainte-Beuve, contadina Proudhon. Occupano due posti paralleli in una fisiologia della Francia. Sainte-Beuve collega infatti il temperamento violento di Proudhon alle sue radici giurassiane che gli danno la forza bruta del cinghiale. Proudhon è un «sanglier qui se rue et se roule dans la nature» 21: starebbe bene in un paesaggio di Courbet. L’immagine del cinghiale era venuta già da tempo in mente agli intimi di Proudhon. Così, l’economista Joseph Garnier lo paragonava nel 1843, recensendo una delle sue prime opere, a un «sanglier irrité distribuant des coups de boutoir sur son passage, per fas et nefas» 22. Sainte Beuve, al tramonto della sua vita, incontrò Proudhon nella maniera in cui Chateaubriand aveva trovato Rancé: «Deux intelligences, deux genres de vie spirituelle, deux âmes qui ont le sentiment d’avoir usé déjà plusieurs corps, […] et qui, dans leur besoin de re19 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 159, nota; «Caro Normalista che leggete queste pagine e che siete tentato di mostrarvi severo verso l’erudizione frettolosa e improvvisata di Proudhon, voi che avete goduto di tutte le facilitazioni e di tutti gli strumenti dello studio […], siate indulgente, e che questo grido disperato riscatti ai vostri occhi qualcuno dei difetti e degli errori di questo erudito senza permesso e senza grado». 20 Ivi, p. 83; «So che cos’è la miseria, ci sono vissuto». 21 Sainte-Beuve citato in W. LEPENIES, Sainte-Beuve…, cit., p. 168; «cinghiale che si getta e si rotola nella natura». 22 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 195; «cinghiale irritato che distribuisce grugnate sul suo cammino, per fas et nefas».

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nouvellement et d’adaptation, s’efforcent d’entrer dans un corps nouveau» 23. Per Thibaudet, il Proudhon di Sainte-Beuve fu la sua Vie de Rancé: «Sainte-Beuve entrant dans Proudhon comme il est entré dans Port-Royal, et du même mouvement, du même élan, du même fonds, […] Sainte-Beuve nous livrant dans son Proudhon comme Chateaubriand dans son Rancé les mémoires de son esprit» 24, nessuno spettacolo potrebbe appassionare di più. Il libro di Sainte-Beuve è dunque animato dalla simpatia e dall’identificazione. È una biografia creatrice, non una monografia fredda e grigia, non un’opera da erudito. Ma Sainte-Beuve ha anche un debito verso Proudhon, o per lo meno è quanto mette avanti per motivare la sua impresa, come se un impedimento di circostanza lo giustificasse per essersi azzardato a difendere un paria: ha mancato i funerali di Proudhon, come nel 1864, un anno prima, quelli di Prosper Enfantin, che aveva frequentato nella sua giovinezza sansimoniana. È che «tous deux furent enterrés un vendredi, à une heure où ma tâche hebdomadaire non terminée me retenait encore impérieusement» 25. Col pretesto di questo rimpianto, Sainte-Beuve si sarebbe messo al lavoro per, come dice, «m’acquitter autant que je le puis envers la mémoire de l’un d’eux» 26, se non di Enfantin, per lo meno di Proudhon. Innalzando un monumento al pensatore del socialismo, liquida allo stesso tempo un debito verso il sansimonismo dei suoi primi anni a Parigi, come per regolare i conti con le sue origini. Proudhon, lo ha conosciuto tardi, nel 1856 o 1857, attraverso il loro comune editore, i fratelli Garnier, e ha scoperto un uomo di23

A. THIBAUDET, Proudhon, Sainte-Beuve et nous, cit., p. 97; «Due intelligenze, due generi di vita spirituale, due anime che hanno la sensazione di aver già fruito di diversi corpi, […] e che, in un bisogno di rinnovamento e adattamento, si sforzano di entrare in un corpo nuovo». 24 «Sainte-Beuve che entra dentro Proudhon come è entrato dentro PortRoyal, e con lo stesso movimento, lo stesso slancio, la stessa forza, […] Sainte-Beuve che ci offre nel suo Proudhon come Chateaubriand nel suo Rancé le memorie del suo spirito». 25 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 3; «entrambi furono sepolti un venerdì, a un’ora in cui il mio compito settimanale non terminato mi tratteneva ancora imperiosamente». 26 «sdebitarmi per quanto possibile con la memoria di uno dei due».

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verso dalla sua reputazione di brusco e insolente, poiché tra di loro «la conversation fut toute philosophique, plus socialiste que politique» 27. Del resto, si trovarono d’accordo su un programma di «réparation et de justice pour le grand nombre» 28, Proudhon con autorità dottrinale, Sainte-Beuve per inclinazione naturale. Se c’è un paradosso per Sainte-Beuve a scrivere su Proudhon, non è forse che lo stesso Proudhon era un essere paradossale? Sainte-Beuve l’ha trovato «si conciliant et ouvert pour un homme et un lutteur de renommée si rude», ma Proudhon lo ha spiegato: «J’ai laissé ma passion à la porte», ha confidato al suo interlocutore 29. È proprio questo il punto di partenza dell’opera: quella contraddizione in Proudhon tra l’uomo privato e la reputazione, tra la dolcezza e la selvatichezza, che ha intrigato il critico. Il pensatore dell’uguaglianza scriveva allora De la justice dans la Révolution et dans l’Église, quattro grossi volumi di più di un migliaio di pagine che sarebbero usciti nel 1858, laddove era solito impegnarsi in brevi monografie. La loro conversazione riguardò la letteratura e George Sand. Ora, il grosso libro di Proudhon sarebbe stato condannato e gli sarebbe valso un esilio a Bruxelles, dove SainteBeuve gli inviò il suo Port-Royal. Proudhon lo lesse con assiduità e indirizzò una lettera all’autore. Sainte-Beuve la riporta in extenso, prima delle lunghe e numerose lettere di Proudhon trascritte nel libro, cosa che dà modo al biografo di spiegare il suo metodo: «Ayant principalement dessein de faire connaître l’homme en Proudhon, c’est avec des citations que je compte surtout procéder: il se peindra ainsi à nous dans toute sa vérité et dans son habitude même» 30. Il libro si presenterà come un’antologia della corrispondenza di Proudhon, poiché quest’ultima rivela un uomo diverso dall’opera e dall’immagine pubblica, un essere onesto, fedele, benevolo – scoperta che gli rende giustizia e lo riscatta. 27

«la conversazione fu tutta filosofica, più socialista che politica». «riparazione e di giustizia per la massa». 29 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 4; «conciliante e aperto per un uomo e un lottatore di fama così rude»; «Ho lasciato la passione alla porta». 30 Ivi, p. 7; «Essendo il mio scopo principale far conoscere l’uomo in Proudhon, intendo procedere soprattutto attraverso citazioni: in tal modo egli si mostrerà a noi in tutta la sua verità e secondo le sue stesse abitudini». 28

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Sainte-Beuve, che ha conosciuto i suoi «côtés tout pacifiques» 31, ha per lui stima e riconoscenza. Quello stesso Proudhon che sostiene, in La Guerre et la Paix (1861), che la guerra è un fattore essenziale della civiltà e che la forza è una forma della giustizia, o meglio il modo più potente per realizzarla 32, era un individuo semplice e gentile: si riconosce qui il Sainte-Beuve che Proust condannava, quello che preferiva Mérimée à Stendhal dopo aver paragonato i loro comportamenti mondani. Il suo scopo non è esporre e discuterne le dottrine, né certamente sostenerle, bensì, sulla base del suo affetto per un «homme de pensée, de lutte et d’audace» che gli era sembrato completamente diverso dalla sua pessima reputazione, «le raconter» per «faire acte de littérature jusqu’au sein de ce grand révolutionnaire» 33. Sainte-Beuve conosce il carattere inaudito della sua impresa e si spiega: «j’appelle faire acte de littérature montrer l’homme au vrai, dégager ses qualités morales, son fonds sincère, sa forme de talent, sa personnalité enfin, comme elle a su se faire respecter et même aimer par ceux qui ont approché de lui» 34. Il critico non intende fare storia o filosofia, ma letteratura, cioè fare giustizia e, nell’osare questo ritratto, fare opera di pace e di riconciliazione: «Il est bon aussi et utile de faire tomber les barrières entre les esprits et les intelligences […]; de diminuer les haines» 35 che risultano dalla reciproca ignoranza. Sainte-Beuve attribuisce un valore filantropico, fraterno, liberale, generoso, evangelico, o semplicemente umano, alla letteratura: la littérature ainsi comprise et s’appliquant à désarmer les offenses, à réduire, ne fût-ce qu’après coup, tout ce qui est guerre, hostilité, obstacle

31

Ivi, p. 12; «lati assolutamente pacifici». Cfr. É. FAGUET, Proudhon, cit., p. 150. 33 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 12; «uomo di pensiero, di lotta e di ardimento»; «raccontarlo» per «fare letteratura arrivando fino al cuore di questo grande rivoluzionario». 34 Ibidem; «ciò che io chiamo “fare letteratura” è il mostrare l’uomo così com’è, tirar fuori le sue qualità morali, la sua vera natura, la sua forma di talento, la sua personalità, insomma, come questa ha saputo farsi rispettare e addirittura amare da coloro che lo hanno avvicinato». 35 Ivi, p. 13; «È anche cosa buona e utile far cadere le barriere tra gli animi e le intelligenze […]; diminuire gli asti». 32

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[…], à lever les exclusions […], à rapprocher les sphères, est une des formes supérieures, un des résultats et des instruments de la civilisation 36.

La moderazione letteraria e filosofica di Sainte-Beuve, alla ricerca di una terza via tra moderni e antichi, la sua prudenza politica, esitante tra progresso e reazione, insomma, il suo scetticismo realista di uomo del giusto mezzo ha trovato in Proudhon la causa più singolare sulla quale esercitare la sua magistratura: apparentemente un essere il più possibile estraneo a lui, ma in realtà un fratello. La letteratura, e in particolare la biografia, ha un uso sociale: serve a sedare le lotte, a mettere d’accordo i nemici, perfino nei casi più improbabili, come quello di Proudhon.

Furore e agonia Come procede questa biografia per cogliere «l’homme au vrai […] ses qualités morales, son fonds sincère, sa forme de talent, sa personnalité» 37: prima di tutto dandogli la parola, attraverso abbondanti citazioni della sua corrispondenza – questa biografia è un montaggio commentato di lettere: «le vrai titre de mon travail pourrait être: Proudhon raconté et commenté par lui-même» 38 –, riunendo degli aspetti caratteristici o dei biografemi, come l’energia scontrosa, l’avidità, la selvatichezza, la forza della natura. Vediamo così Proudhon, da bambino e ancora da adulto, distinguersi in biblioteca per la bulimia delle sue letture. Quando a Besançon il bibliotecario gli si rivolge: «“Mais, mon petit ami, qu’estce que vous voulez faire de tous ces livres?”. L’enfant leva la tête, toisa l’interlocuteur, et pour toute réponse: “Qu’est-ce que ça 36

Ibidem; «la letteratura intesa in questo senso e applicata a disarmare le offese, a ridurre, foss’anche a cose fatte, tutto ciò che è guerra, ostilità, ostacolo […], a rimuovere le esclusioni […], ad avvicinare le sfere, è una delle forme superiori, uno dei risultati e degli strumenti della civiltà». 37 «l’uomo così com’è […] le sue qualità morali, la sua vera natura, la sua forma di talento, la sua personalità». 38 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 115; «il vero titolo del mio lavoro potrebbe essere: Proudhon raccontato e commentato da lui stesso».

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vous fait?”» 39. Al suo arrivo a Parigi, stessa risposta al sottobibliotecario dell’Istituto che osservava le sue letture estremamente disparate: «Que vous importe? et pourquoi me faites-vous ces observations?» 40. Secondo aspetto: un tic o una mania, spesso menzionati e legati alla sua povertà, tocca in modo particolare il biografo. Perfino con i suoi corrispondenti più preziosi, questo epistolografo d’eccezione è costretto a limitarsi a «lettres trop rares et qu’il était forcé de ménager à cause du port (ô misère !)» 41. Torna a lamentarsi spesso, come col suo amico Ackermann: «Je vous prie de ne m’écrire, comme je fais pour vous, que par occasion. Un port de deux francs me gêne; quand je serai riche, je vous en préviendrai par une lettre franco». Oppure: «je t’avoue qu’un port de lettre m’incommode» 42. O ancora con i suoi genitori nel 1844: «Écrivez tous deux sur feuillet simple et papier mince» 43. Questo dettaglio tocca profondamente il critico, come una sorta di colmo della miseria. Vari aneddoti illustrano l’intelligenza provocante di Proudhon e la sua risposta pronta, poiché «il aimait à étonner» 44. In un salotto, quelqu’un s’avisa de dire que quiconque ne travaille pas devrait perdre ses rentes. – Je lui dis: Monsieur, où irions-nous avec ce principe? – Et qu’y trouvez-vous à reprendre? […] – Moi, rien, mais si l’on supprime les rentes aux rentiers oisifs, il faut les supprimer encore aux rentiers qui travaillent, car s’ils sont payés pour leur travail, ils sont toujours oisifs par rapport à leurs rentes 45.

39 Ivi, p. 18; «“Ma, piccolo mio, che intendete fare di tutti questi libri?”. Il bambino alzò la testa, squadrò l’interlocutore, e per tutta risposta: “Che ve ne importa?”». 40 Ivi, p. 250; «Che ve ne importa? e perché mi fate queste osservazioni?». 41 Ivi, p. 52; «lettere rarissime e di cui era costretto a fare economia a causa della tassa postale (oh miseria!)». 42 Ivi, p. 61; «Vi prego di scrivermi, come faccio io, solo ogni tanto. Una tassa di due franchi mi mette in difficoltà; quando sarò ricco, vi avvertirò con una lettera franco»; «ti confesso che una tassa postale mi incomoda». 43 Ivi, p. 182; «Scrivete tutti e due su foglio semplice e carta sottile». 44 Ivi, p. 70; «gli piaceva stupire». 45 Ivi, p. 70; «qualcuno si azzardò a dire che chiunque non lavora dovrebbe perdere le proprie rendite. – Io gli dissi: Signore, dove finiremmo con questo principio? – E cosa avete da ridire? […] – Io, niente, ma se si sopprimono le rendite ai

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Questo creò un certo imbarazzo. Sainte-Beuve è inoltre affascinato dagli incessanti viaggi a piedi di Proudhon tra Besançon e Parigi, e, lui così sedentario, si interroga sull’effetto inevitabile di queste escursioni sulla riflessione e sulla scrittura. Proudhon – che sembra uno di quei famosi dromomani del XIX secolo tipo Nerval, uomini in marcia o in fuga, sempre a disagio nel loro mondo – si reca a Parigi per un appuntamento col suo amico Bergmann che deve presto partire per Berlino, ma lo manca per un giorno o due nell’ottobre 1840. Il suo biografo – è un’abitudine, lo abbiamo visto – prende a parte il lettore e lo impietosisce: Vous qui voyagiez alors en chaise de poste, […] qui assistiez commodément au jeu de la vie, […] soyez moins sévère pour un âpre contradicteur ; admettez que la philosophie d’un homme, d’une tête, si ferme qu’elle soit, a droit de se ressentir de cet état de labeur et de peine […] Le lendemain d’un tel voyage, si l’on se met à écrire, les jambes doivent vous remonter, ce me semble, dans le cerveau. Cela, me dit quelqu’un, ne laisse pas de changer un peu les points de vue, même en économie politique 46.

Così, tutto Proudhon si spiega con l’alto costo delle tasse postali, o per lo meno è un elemento a sua discolpa. Sainte-Beuve, che aveva chiuso i suoi Portraits littéraires con il celebre pensiero: «En critique, j’ai assez fait l’avocat, faisons maintenant le juge» 47, ritrova suo malgrado il tono del legale che difende il cliente di fronte alla posterità. Ora, ciò che egli insegue dietro ai tratti caratteristici e agli aneddoti, è la fonte di vita, il ceppo originario, l’identità singolare, l’unicità individuale del suo modello. Descrivendo l’emozione ingenua di Proudhon per aver ottenuto una pensione dall’accademia di Beredditieri oziosi, bisogna sopprimerle anche ai redditieri che lavorano, perché sono pagati per il loro lavoro, ma continuano a essere oziosi rispetto alle loro rendite». 46 Ivi, pp. 82-83; «Voi che allora viaggiavate in diligenza, […] che assistevate comodamente al gioco della vita, […] siate meno severo con un aspro avversario; ammettete che la filosofia di un uomo, di una mente, per quanto salda sia, ha il diritto di sentire gli effetti di un tale stato di affaticamento e di sofferenza […] All’indomani di un simile viaggio, se uno si mette a scrivere, le gambe devono risalirgli al cervello, credo. Questo, mi dice qualcuno, cambia un po’ i punti di vista, perfino in economia politica». 47 «Da critico, ho fatto abbastanza l’avvocato, adesso facciamo il giudice».

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sançon nel 1838 – sussidio che gli permetterà di lasciare il suo mestiere di stampatore, ma riguardo alla somma della quale SainteBeuve trova il suo entusiasmo sproporzionato –, il biografo raggiunge il suo scopo: «La conviction, la religion première de Proudhon se découvre dans ses lettres intimes […] Nous touchons le tuf, le sol primitif, la sincérité profonde qui fait la base de toute l’œuvre de Proudhon» 48. Certo, l’opera sarà spesso nefasta e condannabile, «Mais le fond de sa doctrine reposera toujours sur la couche invariable des sentiments qu’il expose ici et qu’il professera jusqu’à la fin»: l’ambizione generosa 49. Le lettere rivelano la generosità innata dell’uomo. Sainte-Beuve concluderà dunque la sua opera con questo pensiero: «je suis persuadé que, dans l’avenir, la Correspondance de Proudhon sera son œuvre capitale, vivante, et que la plupart de ses livres ne seront plus que l’accessoire et comme des pièces à l’appui» 50. Le dottrine pericolose saranno dimenticate o perdonate, e resterà l’uomo quale è svelato dalle sue lettere. Il critico distingue diverse specie di corrispondenza più o meno franca o preoccupata dell’effetto. Proudhon ci mette tutto se stesso: «Il ne pense, en écrivant, à rien autre chose qu’à la pensée même et à la personne à qui il s’adresse: ad rem et ad hominem. Homme de conviction et de doctrine, écrire ne l’ennuie pas» 51. Ecco perché nulla lo esprime meglio della sua corrispondenza, paragonata da Sainte-Beuve a quella di George Sand quanto a fecondità 52, laddove i suoi libri, rigidi e spesso confusi, sono raramente leggibili dall’inizio alla fine: «L’histoire de son esprit est 48

SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., pp. 34-35; «La convinzione, la religione originaria di Proudhon si scopre nelle sue lettere intime […] Tocchiamo il tufo, il terreno primitivo, la sincerità profonda che è alla base di tutta l’opera di Proudhon». 49 Ivi, p. 35; «Ma il fondo della sua dottrina giacerà sempre sul sostrato invariabile dei sentimenti che espone qui e che professerà fino alla fine». 50 Ivi, p. 274; «sono persuaso che, in futuro, la Corrispondenza di Proudhon sarà la sua opera capitale, viva, e che la maggior parte dei suoi libri saranno solo un complemento, quasi delle pezze d’appoggio». 51 Ivi, p. 275; «Non pensa, scrivendo, a nient’altro che al pensiero stesso e alla persona a cui si rivolge: ad rem et ad hominem. Uomo di convinzione e di dottrina, scrivere non lo affatica». 52 Ivi, p. 278.

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dans ses lettres: c’est là qu’il faut la chercher» 53, tale sarà la diagnosi finale di Sainte-Beuve. Al momento in cui a Proudhon viene concessa la pensione dell’accademia di Besançon, la sua lettera di «enfant du peuple, filius fabri» 54 all’amico Ackermann presenta la commistione tipica dell’arroganza e del candore, della grandezza e della miseria, o dell’esaltazione e della vulnerabilità, che lo caratterizza. Proudhon vi incita se stesso all’amore del popolo in una lunga prosopopea che, malgrado la grandiloquenza, tocca il suo biografo: «Proudhon, tu te dois avant tout à la cause des pauvres, à l’affranchissement des petits, à l’instruction du peuple; tu seras peut-être en abomination aux riches et aux puissants […] Souffre et meurs s’il le faut; mais dis la vérité et prends la cause de l’orphelin» 55. Sainte-Beuve disapprova comunque l’incapacità di Proudhon di distaccarsi dalla sua nascita, di elevarsi al di sopra della sua condizione per vedere il mondo più liberamente, come se restasse prigioniero del suo egotismo: C’est beau, c’est bien, c’est honnête et généreux, et celui qui s’épanchait dans l’intimité avec cette ferveur d’apôtre s’est montré fidèle jusqu’au bout à la foi de sa jeunesse. Mais je dirai toute ma pensée: il y aurait, à mon sens, quelque chose de plus élevé encore: c’est de se moins ressentir de ses origines, de savoir s’en dégager à un moment, de n’en pas tant dépendre. Le propre de la plus haute intelligence est dans un équilibre supérieur. Vous êtes fils d’artisan, c’est bien, ou plutôt ce n’est ni bien ni mal; souvenez-vous-en toujours, n’en rougissez jamais, mais ne vous en vantez pas 56.

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Ivi, p. 276; «La storia del suo spirito è nelle sue lettere: è lì che bisogna cer-

carla». 54

«figlio del popolo, filius fabri». SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 36; «Proudhon, devi votarti innanzitutto alla causa dei poveri, all’emancipazione dei piccoli, all’istruzione del popolo; forse i ricchi e i potenti ti aborriranno […] Soffri e muori, se devi; ma di’ la verità e prendi le parti dell’orfano». 56 Ivi, p. 37; «È tutto bello, buono, giusto e generoso, e colui che si sfogava nell’intimità con quel fervore da apostolo si è mostrato fedele fino alla fine alla fede della sua giovinezza. Ma dirò tutto ciò che penso: potrebbe esserci, a mio avviso, qualcosa di ancor più alto: cioè, riguardo le proprie origini, sentirne meno gli effetti, sapersene a un certo punto liberare, non dipenderne tanto. Alla più alta intelligenza è consono un equilibrio superiore. Siete figlio di artigiani, va bene, o piuttosto non va 55

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Questa lunga riflessione o digressione loda l’esperienza della povertà che è quella di Proudhon, ma insiste sulla necessità che essa non interferisca nelle considerazioni politiche e filosofiche. Il filosofo completo deve tirarsi fuori da «toutes les données du destin et du hasard», la sua intelligenza deve rompere i legami che lo inchiodano a una setta, un paese, una famiglia, una condizione, un partito, un cantone, per dirla tutta a una gleba, e raggiungere «une impartialité clairvoyante et suprême, animée d’un souffle de sympathie universelle» 57. Si percepisce l’ambivalenza di Sainte-Beuve riguardo all’argomento, car autrement, si l’on entre dans le jeu, dans le débat social avec une veine trop âpre de sentiments passionnés, intéressés, irrésistibles, on n’est plus un philosophe, on est un combattant. C’est surtout ce que fut Proudhon […] Philosophe sans cesse interrompu par les bruits du dehors et du dedans, […] il ne fut à sa manière qu’un grand tribun, un grand révolutionnaire comme il s’appelait; en un mot, il fut lui, Proudhon, et pas un autre 58.

La tautologia condensa la sfida di ogni biografia. L’attrazione del pittore per il suo modello è palese, ma essa non abolisce la distanza e non sospende ogni giudizio. Sainte-Beuve intende cogliere Proudhon allo stato nascente, nei suoi primi testi (il suo libro riguarda solo la gioventù di Proudhon, dal 1838 al 1848). Lo scritto De l’utilité de la célébration du dimanche (1839) racchiudeva già in nuce tutta la dottrina: il commento del Non rubare del Decalogo annuncia l’adagio più indimenticabile di Proudhon: «La propriété, c’est le vol», incipit della Prima memoria sulla proprietà del 1840 che è bastata a sancire la né bene né male; ricordatevene sempre, non vergognatevene mai, ma non vantatevene neppure». 57 Ivi, p. 39; «tutti i fattori che dipendono dal destino e dal caso»; «un’imparzialità lungimirante e suprema, animata da un soffio di simpatia universale». 58 Ivi, p. 40; «perché altrimenti, se si entra nel gioco, nel dibattito sociale con una vena troppo aspra di sentimenti dettati dalla passione, interessati, irresistibili, non si è più filosofi, si è combattenti. Proudhon fu soprattutto questo […] Filosofo continuamente interrotto dal rumore del di fuori e del di dentro, […] a modo suo fu solo un grande tribuno, un grande rivoluzionario come si definiva; in una parola, fu lui, Proudhon, e non un altro».

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sua fama di rivoluzionario 59. Come dice il suo biografo, «le lion s’y montre, déjà plus qu’à demi sorti du limon» 60. Ma, contemporaneamente a questa ebbrezza puerile, e altrettanto legata alle origini sociali, Proudhon soffre un’ansia terrificante. Furore e agonia costituiscono «la vera natura» dell’uomo. Proudhon è «en proie à une véritable angoisse intellectuelle» 61, di cui Sainte-Beuve moltiplica i sintomi, descrivendoci un uomo che passa incessantemente, persino nel corso di una stessa lettera, attraverso fasi di mania e di depressione: «Nous avons le mouvement haut ou bas de son esprit à tous les moments» 62, segnala Sainte-Beuve, che cita una lettera profondamente melanconica del 1840 di Proudhon all’amico Ackermann, in cui si mostra insicuro di sé e allo stesso tempo arrabbiato: je suis trop pauvre et trop mal dans mes affaires pour m’amuser à être gent de lettres […] Laissons là la littérature et les littérateurs: je suis fait pour l’atelier, d’où j’aurais dû ne jamais sortir […] je suis épuisé, découragé, prosterné […] Je suis comme un lion: si un homme avait le malheur de me nuire, je le plaindrais de tomber sous ma main. N’ayant point d’ennemi, je regarde quelquefois la Seine d’un œil sombre, et je me dis: Passons encore aujourd’hui. L’excès du chagrin m’ôte la vigueur de tête et paralyse mes facultés: je ne puis travailler, et pourtant je travaille toujours pour ne pas mourir d’ennui 63.

Sainte-Beuve è vivamente interessato da quella «disposition morale, cette sorte d’agonie» 64, quella umiliazione fiera che porta 59

Ivi, p. 44; «la proprietà è un furto». Ivi, p. 45; «il leone vi si mostra, già uscito per più di metà dal limo». 61 Ivi, p. 52; «in preda a una vera e propria angoscia intellettuale». 62 Ivi, p. 117, nota; «Abbiamo il movimento alto o basso del suo animo in ogni momento». 63 Ivi, p. 55; «sono troppo povero e mi vanno troppo male le cose per divertirmi a fare il letterato […] Lasciamo perdere la letteratura e gli uomini di lettere; io sono fatto per l’officina, da dove non sarei mai dovuto uscire […] sono sfinito, scoraggiato, prosternato […] Sono come un leone: se un uomo avesse la sfortuna di nuocermi, lo compatirei per essermi capitato tra le mani. Non avendo nemici, a volte guardo la Senna con sguardo tetro, e mi dico: Passi ancora oggi. L’eccesso della pena mi toglie il vigore mentale e paralizza le mie facoltà: non posso lavorare, e tuttavia lavoro sempre per non morire di dolore». 64 Ivi, p. 55, nota; «disposizione morale, quella specie di agonia». 60

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Proudhon a concepire il pensiero e la scrittura come vendetta o rivincita: «Il est bon de ne rien supprimer de ces cris et de ne jamais oublier, au sein de l’optimisme d’une société satisfaite, qu’il y a de ces fortes âmes étouffées et explosibles» 65. Furore e agonia: animata da questi due sentimenti antagonisti, o meglio lacerata tra i due, l’opera di Proudhon sarà in effetti punitiva. La riparazione sarà la sua ultima parola. Del suo lavoro sulla proprietà, Proudhon scrive ancora ad Ackermann, ritrovando la foga al momento di chiudere quella stessa lettera in cui si dichiarava pronto al suicidio: «Le style en sera rude et âpre: l’ironie et la colère s’y feront trop sentir: c’est un mal irrémédiable. Quand le lion a faim il rugit…» 66. Proudhon si definisce lui stesso attraverso la dualità della collera e dell’ironia sin dal 1840, come se la sua personalità già annunciasse la voce poetica dello Spleen de Paris. Ora Sainte-Beuve, giocando al magistrato equo, si appassiona a simili documenti sulla genesi di uno scritto particolarmente virulento: «quelle autopsie d’âme toute vivante cela fait, et qu’en dites-vous?» 67.

Uno Spartaco dell’intelligenza Così, due tratti principali dominano l’intelligenza di Proudhon. Sainte-Beuve li chiama ancora rivolta e convinzione: «Il faut que je tue, dans un duel à outrance, l’inégalité et la propriété», confida Proudhon, altamente cosciente della sua missione, mentre lavora alla sua prima memoria sulla proprietà 68. L’istinto della rivincita è la sua pulsione primordiale, la rivincita sulla vita, sulla società, sulla storia, la vendetta di sé e degli altri: «On sent le défi. C’est dans ces conditions irritantes et comme sous cette inspiration vengeresse qu’il 65

Ivi, p. 56, nota; «È bene non sopprimere nulla di queste grida e non dimenticare mai che, in seno all’ottimismo di una società soddisfatta, esistono queste anime forti, represse e pronte a esplodere». 66 Ivi, p. 56; «Avrà uno stile rude e aspro: l’ironia e la collera vi si faranno sentire molto: è un male irrimediabile. Quando il leone ha fame, ruggisce…». 67 Ivi, pp. 56-57; «non è l’autopsia di un’anima vivissima, che ne dite?». 68 Ivi, p. 57; «Bisogna che uccida, in un duello all’ultimo sangue, la disuguaglianza e la proprietà».

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conçut et composa son premier mémoire sur la Propriété», nota Sainte-Beuve in modo eccellente 69. Ora, queste parole «ispirate dalla vendetta», che definiscono l’ossessione di Proudhon, ci fanno penetrare nel cuore di ciò che lega il critico al biografato. Sainte-Beuve paragona la genesi di Qu’est-ce que la propriété? a quella di Paroles d’un croyant di Lamennais, opera nella quale fu coinvolto (fu lui a trovare un editore per il libro col quale Lamennais ruppe con Roma nel 1834): Il eût été, certes, curieux, d’assister à la conception des Paroles d’un croyant et d’habiter avec l’âme d’un Lamennais au moment où il se décida à ce grand acte de déchirement et de révolte; ici [grâce aux lettres], nous habitons véritablement avec Proudhon; nous le voyons tel qu’il était, avec sa confiance, avec son audace, avec sa bonne foi, avec son orgueil, avec ses accès aussi de découragement, avec ses souleurs 70 et ses soudaines défaillances, avec ses graves tendresses et son apaisement au sein de l’amitié 71.

Come per Lamennais, che Sainte-Beuve menziona spesso nel libro, l’aspirazione di Proudhon è elevata, ma non per questo egli si risparmia la ricerca dello scalpore o la minaccia. È la voglia di punire che lo aiuta a superare i suoi momenti di abbattimento. SainteBeuve ritorna spesso su questo motivo essenziale per lui di vendetta: Proudhon, dice, «avait à exercer ses représailles contre l’inégalité 69

Ivi, p. 54; «Si sente la sfida. È in queste condizioni irritanti e come ispirato dalla vendetta che concepì e compose la sua prima memoria sulla Proprietà». 70 Cfr. D. DIDEROT, Lettres à Sophie Volland, t. I, Gallimard, Paris 1950, p. 17: «Mais ce terme souleurs, qui signifie dans notre patois langrois ce serrement d’âme qu’on éprouve subitement par quelque terreur panique, est-il ou n’est-il pas françois? François ou non, peu m’importe, il dit bien ce que je veux dire» («Ma questo termine souleurs, che significa nel nostro dialetto di Langres quella stretta dell’anima che si prova all’improvviso per un qualche terror panico, è o non è francese? Francese o meno, poco me ne importa, dice bene ciò che voglio dire»). 71 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., pp. 60-61; «Sarebbe stato, certo, curioso assistere all’ideazione delle Paroles d’un croyant e convivere con l’anima di un Lamennais nel momento in cui si decise a compiere questo grande atto di strappo e di rivolta; qui [grazie alle lettere], conviviamo davvero con Proudhon; lo vediamo così com’era, con la sua fiducia, la sua audacia, la sua buona fede, con il suo orgoglio, anche con i suoi attacchi di scoraggiamento, con le sue angosce e le sue debolezze improvvise, con i suoi gravi affetti e il suo conforto in seno all’amicizia».

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qui l’écrasait» 72. Intendeva colpire la proprietà in faccia e disonorarla, e qui il sublime sfiora di nuovo il ridicolo, quando scrive all’amico Bergmann, nel momento in cui termina la sua memoria sulla proprietà: «Prie Dieu que j’aie un libraire: c’est peut-être le salut de la nation», ambizione smisurata che suscita un commento canzonatorio da parte del critico: «À ce dernier mot, vous souriez; je souris aussi» 73, perché la rivolta spinge la convinzione fino all’accecamento. Dall’impatto della tristezza e dall’orgoglio nasce l’hubris, l’illusione che il suo libello inaugurerà un’era nuova, cambierà il mondo, seguendo l’esempio dell’opuscolo di Sieyès sul terzo stato 74. Tendenza vendicativa, esercizio della rappresaglia: se SainteBeuve qualifica l’opera di Proudhon in questi termini è perché sono essenziali al suo stesso modo di procedere. Li discerne in Proudhon perché sono anche i suoi. Wolf Lepenies vede nella vendetta la «parola principale», la «parola prediletta» di Sainte-Beuve. Tutto il suo Port-Royal è costruito su di un’economia o una teologia della vendetta: Pascal vendica i giansenisti; lo stesso Montaigne, grazie alla sua onnipresenza nelle Pensées, in qualche modo si vendica indirettamente dei giansenisti; e Joseph de Maistre vendicherà i gesuiti dagli attacchi di Pascal nelle Provinciales. L’opera di Sainte-Beuve si presenta sotto il segno non del rancore o del risentimento, ma della Nemesi, che Lepenies ricollega alla visione di un mondo retto dalla legge del taglione. La critica stessa si esercita sotto forma di rappresaglia; giustiziera, essa è Nemesis humana literaria. Ma in Sainte-Beuve la pulsione vendicativa entra in conflitto col suo gusto della civiltà, la sua honnêteté, il suo profondo desiderio di armonia. La già citata clausola dei Portraits littéraires – «Da critico, ho fatto abbastanza l’avvocato, adesso facciamo il giudice» –, suggerisce una conversione verso il controllo degli istinti di vendetta e l’esercizio della magnanimità, con i quali Sainte-Beuve identifica la civiltà. Egli oppone le due figure di Chateaubriand, che passa dalla letteratura al72

Ivi, p. 62; «doveva esercitare la rappresaglia contro la disuguaglianza che lo schiacciava». 73 Ivi, p. 63; «Prega Dio che trovi un libraio: sarà forse la salvezza della nazione»; «A quest’ultima parola, voi sorridete; sorrido anch’io». 74 Ivi, p. 67.

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la politica per «frénésie vengeresse», e di La Rochefoucauld, che, una volta escluso dalla politica, passa alla letteratura dedicandosi così a una «vengeance permise» 75. In un mondo di disuguaglianze, la letteratura e la critica istituiscono dei tribunali, retribuiscono le buone e le cattive azioni, riparano le ingiustizie. La storia letteraria di SainteBeuve è secondo Lepenies «una storia di processi», «un susseguirsi infinito di revisioni e di riabilitazioni», «un vasto sistema di giustizia equilibrato», insomma «una giustizia poetica». Il critico ha trovato in Proudhon, per il quale reclama il perdono, un soggetto perfetto su cui provare la propria umanità, foss’anche canzonandolo ogni tanto, punzecchiandolo come un ragazzino terribile (ricordiamoci di Baudelaire che egli voleva buttare in acqua). L’economia psichica e sociale della retribuzione, la metafisica della rappresaglia praticata e teorizzata da Proudhon affascina Sainte-Beuve e provoca la sua identificazione con il profeta del socialismo; proiezione paradossale, si è già detto, fatta di comprensione e repulsione, attrazione e diffidenza, in uno che ha cercato di dominare la propria propensione alla vendetta attraverso la disciplina della benevolenza. Perciò, quale migliore sfida per lui di un esercizio di clemenza verso il vendicatore per eccellenza che è stato Proudhon? Così si spiega la missione che si è dato Sainte-Beuve: riabilitarlo identificandolo, dietro i suoi modi selvatici, con l’umanità stessa. Volendo essere meno condiscendenti, si può dire che se Sainte-Beuve è capace di mostrarsi tanto equo e magnanimo con Proudhon è perché tra loro non c’è alcuna concorrenza e Proudhon ha perso. Consideriamo ancora la distinzione che Sainte-Beuve faceva fin dal 1833 nei Portraits littéraires, tra l’intelligenza-gladio et l’intelligenza-specchio, a proposito dell’amico Jouffroy che era diventato per lui il modello dello specchio, del lago, dell’equanimità, dell’intelligenza serena e per questo misconosciuta, dato che il gladio trova più facilmente un pubblico: À l’égard des objets de l’intelligence, on peut se comporter de deux manières. Tout esprit est plus ou moins armé, en présence des idées, du bouclier ou miroir de la réflexion, et du glaive de l’invention, de l’action

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«frenesia di vendetta»; «vendetta autorizzata».

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pénétrante et remuante: réfléchir et oser. Le génie consiste dans l’alliance proportionnée des deux moyens, avec prédominance d’oser. M. Jouffroy disons-nous, a surtout le miroir; dans sa première période, il se servait aussi du glaive qui simplifie, débarrasse et ouvre des combinaisons nouvelles 76.

Ora, per un’interessante coincidenza, l’accademia di Besançon, avendo ricompensato Proudhon, gli diede come tutore a Parigi – accanto a Joseph Droz, perché entrambi giurassiani – Théodore Jouffroy, e il cinghiale del Giura si mostrò ingiusto nei loro confronti. «Ma philosophie et ma politique ne sauraient leur plaire» 77, constatava ben presto lui che disprezzava il loro scetticismo: «Comment irais-je m’adresser à un Jouffroy, qui n’a pas foi lui-même à la science qu’il enseigne, qui dit avec une impertinence indigne que la philosophie est chose bien creuse!…» 78. L’osservazione conduce Sainte-Beuve, nella sua missione di riparatore di torti intrapresa per guarire i suoi istinti di vendetta, a difendere la memoria di Jouffroy, anche se «à cette date, il est vrai, [celui-ci] était déjà bien découragé et bien las» 79. Sainte-Beuve non ricorda la distinzione delle due intelligenze, ma è come intelligenza capace di accettare Proudhon che egli descrive Jouffroy, il quale aveva fatto del resto «le plus grand éloge de [l’]intelligence [de Proudhon]» 80. E Sainte-Beuve 76

SAINTE-BEUVE, Jouffroy, in «Revue des Deux Mondes», 1er décembre 1833; ID., Portraits littéraires, a cura di G. Antoine, Bouquins, Laffont, Paris 1993, p. 208; «Riguardo agli oggetti dell’intelligenza, ci si può comportare in due modi. Ogni animo è più o meno armato, in presenza delle idee, dello scudo o specchio della riflessione, e del gladio dell’invenzione, dell’azione penetrante e turbolenta: riflettere e osare. Il genio consiste nella combinazione proporzionata dei due mezzi, con predominanza dell’osare. Jouffroy, diciamo, ha soprattutto lo specchio; nella sua prima fase, si serviva anche del gladio che semplifica, libera e apre nuove combinazioni». 77 ID., P.-J. Proudhon, cit., p. 53; «La mia filosofia e la mia politica non possono piacere loro». 78 Ivi, p. 58; «Come potrei rivolgermi a un Jouffroy, che non ha fiducia nemmeno lui nella scienza che insegna, che dice con un’impertinenza indegna che la filosofia è cosa molto vana!…». 79 Ibidem, nota; «a quella data, è vero, [costui] era già molto scoraggiato e molto stanco». 80 «il più grande elogio de[ll’]intelligenza [di Proudhon]».

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annovera Jouffroy tra i pensatori che hanno provato un’agonia morale prima di Proudhon, come Pascal o Chateaubriand 81. Vendicatore, Proudhon può essere ingiusto, fas et nefas: «Il aimait la guerre et la guerre l’aimait» 82, dice ancora Sainte-Beuve di questo «Spartacus de l’intelligence», come lo qualifica di nuovo 83. La rivolta di Proudhon fu dunque quella di un «enfant du peuple (plus du peuple encore que Jean-Jacques), puissant par le cerveau, sentant sa force, croyant à son idée, à demi étouffé, brisé par les choses, révolté contre elles, et avide de se revancher à coups d’intelligence» 84; in questa espressione Sainte-Beuve mette al plurale coups [colpi], come se si trattasse di pugni o, prima di Nietzsche, di colpi di martello. «Prendersi la rivincita a colpi d’intelligenza»: come definire meglio il desiderio primordiale di questi due esseri? Proudhon stesso descrive continuamente il lavoro dell’intelligenza in termini pugnaci e bellicosi: «[J]e voudrais un style d’enfer pour flageller tout ce qui me semble faux et immoral» 85. O ancora: «Il s’agit pour moi de passer le pont d’Arcole sous la mitraille, par conséquent de vaincre ou de mourir» 86, testimonianza della fortuna del mito di Bonaparte persino presso un anarchico. Ma bisogna tuttavia rispondere al lettore che resisterà al transfert, tirerà fuori la «vieille réputation vulgaire» di Proudhon e replicherà: «vous voulez m’y intéresser; mais le mérite-t-il?» 87. E se l’opera fosse falsa, senza valore? Se la sua confutazione fosse giusta? Certo, «dans ses écrits son érudition paraît trop souvent indigeste», ma «le gros de son jugement, au total, ne fait pas fausse route; son 81

SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 65. Ivi, p. 89; «Amava la guerra e la guerra lo amava». 83 Ivi, p. 101; «Spartaco dell’intelligenza». 84 Ivi, p. 65; «figlio del popolo (del popolo più ancora di Jean-Jacques), potente quanto a cervello, cosciente della sua forza, che crede alla sua idea, mezzo soffocato, spezzato dalle cose, rivoltato contro di esse, e bramoso di prendersi la rivincita a colpi d’intelligenza». 85 Ivi, p. 281; «Vorrei uno stile d’inferno per flagellare tutto ciò che mi sembra falso e immorale». 86 Ivi, p. 288; «Per me si tratta di passare il ponte di Arcole sotto la mitraglia, quindi di vincere o morire». 87 Ivi, pp. 67 e 68; «vecchia reputazione volgare»; «volete che mi interessi a lui; ma lo merita?». 82

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instinct est droit» 88. Nel complesso, Sainte-Beuve tende ad approvare, se non il versante dogmatico, per lo meno la parte critica della tesi di Proudhon sulla proprietà, cioè la sua demolizione di tutte le teorie rivali sull’argomento. Sainte-Beuve ammira il suo modo di «pousser, l’épée dans les reins, les philosophes et serrer le bouton aux économistes» 89, poiché tale era il genio di Proudhon. Nel pastiche delle Paroles d’un croyant che figura in De la création de l’ordre dans l’humanité (parte I, «La religion»), Sainte-Beuve ritiene che «la botte surtout poussée à Lamennais porte à fond» 90, secondo un’altra metafora – poco indulgente – presa in prestito dal duello. Proudhon ha avuto torto a dar fuoco alle polveri sin dalle prime parole della sua prima memoria: «La proprietà è un furto», ma Sainte-Beuve non se la prende neanche per questo, perché «[Proudhon] avait à se faire écouter avant tout, à se faire jour, à soulever comme Encelade son Etna», immagine che fa di Proudhon un temibile gigante nell’atto di misurarsi con gli dei dell’Olimpo 91. Il biografo cede dunque ancora una volta alla complicità: «Le jurassien Proudhon avait naturellement en lui et il tenait peut-être de son pays natal une veine de crânerie provocante» 92. In ogni caso viveva, sfidava, il che non è concesso a tutti: «J’entends d’ici son rire éclatant et sarcastique» 93.

«Destruam et aedificabo» Se Proudhon merita grazia, alla fine è perché è stato uno scrittore. A salvarlo è lo stile. Nuova contraddizione del personaggio: «Il y avait, en Proudhon, l’étoffe de deux hommes qui se firent continuelle88

Ivi, p. 252; «nei suoi scritti la sua erudizione sembra troppo spesso indigesta»; «il grosso del suo giudizio, tutto sommato, non sbanda; il suo istinto è retto». 89 Ivi, p. 69; «dare addosso ai filosofi e pungolare gli economisti». 90 Ivi, p. 170; «la botta inflitta soprattutto a Lamennais colpisce a fondo». 91 Ivi, p. 69; «[Proudhon] doveva farsi ascoltare prima di tutto, mettersi in luce, sollevare il suo Etna come Encelado». 92 Ivi, pp. 69-70; «Il Proudhon giurassiano aveva naturalmente in sé e riceveva forse dal suo paese natio una vena di spavalderia provocante». 93 Ivi, p. 71; «Sento da qui la sua risata squillante e sarcastica».

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ment concurrence, le savant et l’écrivain» 94. Se lo studioso può essere contestato, lo scrittore deve essere apprezzato in tutto il suo valore. Il suo latino è eccellente, prende le sue immagini dalla Bibbia e non ignora i difetti della sua scrittura, lui che non amava il suo linguaggio troppo sostenuto, misto a impudenze puerili: «Et le ton que j’affecte de prendre trop fanfaron et trop crâne: c’est un tic d’originalité» 95. Ciononostante Sainte-Beuve trova in lui un bel talento da polemista, vena che Thibaudet assocerà agli scrittori reazionari – da Joseph de Maistre a Léon Daudet – più che ai progressisti, eccetto Paul-Louis Courier. Proudhon fu un raro panflettista di sinistra. Ora, è proprio a Joseph de Maistre e a Courier che a volte Sainte-Beuve lo accomuna. Per esempio, quando in Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère (1846) – il lavoro che Marx avrebbe ridicolizzato, vedendovi all’opera uno spirito confusionario che continuava ad affrontare con noncuranza materie di cui non possedeva neanche i primi rudimenti – ripete il gesto retorico che l’aveva reso celebre, proponendo questa volta: «Dieu, c’est le mal» 96. E Sainte-Beuve a biasimarlo: «Là est le tic, l’énormité, la bravade, je ne sais comment dire, une sorte de paraphe, de signature qui s’affiche et qui saute aux yeux» 97. Proudhon è a questo titolo accostato a Maistre, il quale, «en son temps, avait eu également de ces mots choisis exprès pour être outrageux, et qui firent scandale en sens inverse. Insolence aristocratique, audace plébéienne, qu’importe l’origine ou le principe?» 98. Sainte-Beuve non esita ad accoppiare questi «deux éminents esprits» situati «en tout aux deux pôles contraires et aux antipodes», ma che hanno «du rapport et un trait commun»: «L’un souffletait du 94 Ivi, p. 88; «C’era, in Proudhon, la stoffa di due uomini che si fecero continuamente concorrenza, lo studioso e lo scrittore». 95 Ivi, p. 108; «E il tono che ostento di prendere troppo spavaldo e troppo ardito: è un tic di originalità». 96 Ivi, pp. 218 e 231; «Dio è il male». 97 Ivi, p. 231, nota; «Ed ecco qua il tic, l’enormità, la bravata, non so come dire, una specie di sigla, di firma che si esibisce e che salta agli occhi». 98 Ibidem; «a suo tempo, aveva usato anche lui parole simili scelte espressamente per essere oltraggiose, e che fecero scandalo in senso opposto. Insolenza aristocratica, audacia plebea, che importa l’origine o il principio?».

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gant l’opinion publique à la joue; l’autre, pour commencer, lui assénait un coup en pleine poitrine ou entre les deux yeux» 99. Ora, essi ebbero lo stesso precursore: proprio Rousseau il quale, «avant eux deux, avait trouvé des axiomes-paradoxes, qui mordent à tout prix et qui, tout au moins, sont des révulsifs violents» 100. Buoni e moderati nella vita privata, piacevoli e sensibili nella corrispondenza, entrambi, Maistre e Proudhon, diventano eccessivi in pubblico perché hanno «besoin de frapper fort» 101. Sainte-Beuve ritorna continuamente sulle due facce di Proudhon come di un Giano: «Non, Proudhon, malgré ses brusqueries, n’était pas le paysan du Danube tous les jours ni à tous les instants» 102. Oppure: «Il a l’expression forcenée, exterminante. Une fois soulagé de ce qu’il avait sur le cœur, l’homme était sans fiel et sans rancune pour les personnes» 103. D’altra parte, è a un Paul-Louis Courier che Sainte-Beuve paragona il suo resoconto del processo che gli procurò la sua terza memoria sulla proprietà, pubblicata nel 1842 sotto forma di una lettera a Considérant. La sua tesi estrema sull’uguaglianza lo porta «à une éloquente sortie contre les génies et les talents, à une magnifique invective» 104, seguendo un punto di vista che sviluppava a partire da una celebre pagina della prima memoria: On raconte qu’une célèbre cantatrice ayant demandé à l’impératrice de Russie, Catherine II, vingt mille roubles: – C’est plus que je ne donne à mes feld-maréchaux, dit Catherine. – Votre Majesté, répliqua l’autre, n’a qu’à faire chanter ses feld-maréchaux.

99 Ibidem; «due spiriti eminenti»; «in tutto ai due poli opposti e agli antipodi»; «attinenza e un tratto in comune»; «Uno col guanto schiaffeggiava l’opinione pubblica sulla guancia; l’altro, per cominciare, le assestava un colpo in pieno petto o tra gli occhi». 100 Ibidem; «prima di loro due, aveva trovato degli assiomi-paradossi che fanno presa a tutti i costi e che se non altro sono dei revulsivi violenti». 101 Ivi, p. 232, nota; «bisogno di colpire duro». 102 Ivi, p. 202; «No, Proudhon, malgrado la sua rudezza, non era il contadino del Danubio tutti i giorni e a ogni istante». 103 Ivi, p. 247; «Ha un’espressione forsennata, distruttiva. Una volta sgravato da quello che aveva sul cuore, l’uomo era senza fiele e senza rancore per le persone». 104 Ivi, p. 131; «a un’eloquente sortita contro i geni e i talenti, a una magnifica invettiva».

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Si la France, plus puissante que Catherine II, disait à mademoiselle Rachel: Vous jouerez pour 100 louis, ou vous filerez du coton; à M. Duprez: Vous chanterez pour 2400 francs, ou vous irez à la vigne: pense-t-on que la tragédienne Rachel et le chanteur Duprez abandonnassent le théâtre? Ils s’en repentiraient les premiers. Mlle Rachel reçoit, dit-on, de la Comédie Française, 60000 francs par année: pour un talent comme le sien, c’est un petit honoraire. Pourquoi pas 100000 francs, 200000 francs? pourquoi pas une liste civile? Quelle mesquinerie! est-ce qu’on marchande avec une artiste comme Mlle Rachel? 105

Il narratore ironico seduce Sainte-Beuve, che pure non approva la morale tratta dalla favola: Lors donc que la société, fidèle au principe de la division du travail, confie une mission d’art ou de science à l’un de ses membres, en lui faisant quitter le travail commun, elle lui doit une indemnité pour tout ce qu’elle l’empêche de produire industriellement, mais elle ne lui doit que cela. S’il exigeait davantage, la société, en refusant ses services, réduirait ses prétentions au néant 106.

105 P.-J. PROUDHON, Qu’est-ce que la propriété? Premier mémoire. Recherches sur le principe du droit et du gouvernement, Flammarion, Paris s. d., chap. III, § 7, p. 116; «Si racconta che una celebre cantante chiedesse all’imperatrice di Russia, Caterina II, ventimila rubli: – È più di quanto dia ai miei feldmarescialli, disse Caterina. – Vostra Maestà, replicò l’altra, non ha che da far cantare i suoi feldmarescialli. / Se la Francia, più potente di Caterina II, dicesse alla signorina Rachel: Reciterete per 100 luigi o filerete il cotone, e al signor Duprez: Canterete per 2400 franchi o andrete a lavorare in vigna, si crede forse che l’attrice tragica Rachel e il cantante Duprez abbandonerebbero il teatro? Sarebbero i primi a pentirsene. / Si dice che la signorina Rachel riceva dalla Comédie Française 60000 franchi l’anno: per un talento come il suo è un onorario modesto. Perché non 100000, 200000 franchi? perché non una lista civile? Che meschineria! è forse il caso di mercanteggiare con un’artista come la signorina Rachel?» (ID., Che cos’è la proprietà? o Ricerche sul principio del diritto e del governo. Prima memoria (1840), a cura di U. Cerroni, trad. it. A. Salsano, Laterza, Bari 1967, pp. 151-152). 106 ID., Qu’est-ce que la propriété?…, cit., p. 116; «Quando dunque la società, fedele al principio della divisione del lavoro, affida una missione artistica o scientifica ad uno dei suoi membri, facendogli abbandonare il lavoro comune, gli deve un’indennità per tutto quel che gl’impedisce di produrre nel campo dell’industria, ma non gli deve che questo. S’egli pretendesse di più, la società, rifiutando i suoi servizi, annienterebbe le sue pretese» (ID., Che cos’è la proprietà?…, cit., p. 151).

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Sainte-Beuve si ribella contro questo egualitarismo forsennato: Il paraît positivement admettre que, dans l’association parfaite telle qu’il la conçoit en idée, il n’y aura nulle différence d’appréciation et de mesure pour les salaires; qu’à cet égard un général ne méritera pas plus qu’un soldat, et ne sera pas traité sur un autre pied […] J’avoue n’avoir jamais pu me faire entrer dans la tête cette équivalence rigoureuse des capacités ou spécialités, et surtout n’avoir jamais pu aimer en idée et en perspective l’espèce de société qui en résulterait 107.

In ogni modo la proposta di queste belle idee nella sua terza memoria valse a Proudhon di essere perseguito a Besançon per attacco alla proprietà, incitamento all’odio del governo e di molte classi di cittadini, offesa alla religione. Egli si difese da solo e fu assolto, come riferisce ad Ackermann «avec une vérité toute pittoresque et dramatique» che piace a Sainte-Beuve: C’est la comédie à la cour d’assises; c’est du Daumier, et du meilleur. Dans le genre, Proudhon c’est aussi parfait que du Paul-Louis Courier. Certains passages, par leur belle humeur, rappellent Beaumarchais, le tout assaisonné et saupoudré de sel franc-comtois 108.

Ora, vale la pena soffermarsi un momento sulla difesa di Proudhon. Essa prefigura infatti l’influenza hegeliana che gli è stata spesso attribuita e che dovrebbe contraddistinguere il Système des contradictions économiques. Sin dal 1842, prima di incontrare Charles Grün che l’avrebbe iniziato a Hegel, interrogato su ciò di cui mi107 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 128; «Sembra realmente ammettere che, nell’associazione perfetta quale la concepisce col pensiero, non vi sarà alcuna differenza di giudizio e di misura per i salari: che a questo proposito un generale non meriterà più di un soldato, e sarà trattato sullo stesso piano […] Confesso di non essere mai riuscito a farmi entrare in testa questa equivalenza rigorosa delle capacità o specialità, e soprattutto di non esser mai riuscito ad amare col pensiero o in prospettiva la specie di società che ne risulterebbe». 108 Ivi, p. 140; «con una verità tutta pittoresca e drammatica»; «È la commedia alla corte d’assise; sembra Daumier, e del migliore. Nel genere, Proudhon è perfetto quanto un Paul-Louis Courier. Certi passaggi, per il loro umorismo, ricordano Beaumarchais, il tutto condito e cosparso di sale della Franca Contea».

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nacciava i proprietari e «qui n’était ni l’assassinat, ni le pillage, ni l’insurrection, ni le refus du travail, ni l’incendie, ni le régicide, etc., mais qui était plus terrible et plus efficace que tout cela» 109, egli suggeriva che il movimento stesso della proprietà avrebbe portato al suo rovesciamento. L’argomento assomigliava molto di più alla nozione d’inversione o di reversibilità cristiana rilanciata da Maistre che non alla dialettica hegeliana. Come dirà all’epoca del Système des contradictions, «la société marche à un état directement inverse de celui où elle est maintenant, et elle y marche par le développement des principes mêmes qui ont fait l’état actuel […] Cette inversion de la société, c’est mon système» 110. Così «certains faits, comme certaines idées, se détruisent par leur développement même», per esempio la religione che scade nella filosofia pura, o la regalità che si spegne nella democrazia, o la proprietà che tende a equilibrarsi e a organizzarsi 111. Proudhon prese in prestito l’epigrafe del Système des contradictions (ottobre 1846) dal Deuteronomio: Destruam et aedificabo 112. Proprio come la dialettica di Hegel intesa quale negazione della negazione, anche la Provvidenza maistriana si riassume così, concependo la controrivoluzione non come rivoluzione contraria, ma come contrario della rivoluzione. Proudhon definisce l’economia come metafisica in azione, parla del male e non soltanto della miseria, della Provvidenza e non soltanto del governo dell’Umanità 113. Ciò che di Proudhon piace a Sainte-Beuve, più che il parallelismo con Jouffroy o Lamennais, è il farne il pendant di Joseph de Maistre. Entrambi furono autodidatti e cultori di etimologie fantasiose 114. La sua arte del paradosso gli fa intercalare – Pace Marx! – un capitolo sul109 Ivi, p. 142; «che non era né l’assassinio, né il saccheggio, né l’insurrezione, né il rifiuto del lavoro, né l’incendio, né il regicidio, ecc., ma che era più terribile e più efficace di tutto ciò». 110 Ivi, pp. 232-233; «la società si avvia verso uno stato direttamente inverso a quello in cui si trova ora, e vi si avvia attraverso lo sviluppo degli stessi principi che hanno fatto lo stato attuale […] È questa inversione della società, il mio sistema». 111 Ivi, p. 233; «certi fatti, come certe idee, si distruggono attraverso il loro stesso sviluppo». 112 Ivi, p. 222. 113 Ivi, p. 232. 114 Ivi, p. 230.

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la Provvidenza tra il capitolo sulla polizia e le imposte e il capitolo sulla bilancia commerciale, perché «tout se tient et s’enchaîne». «On se demande à tout instant, en le lisant, si c’est une méthode, une tactique, une ironie, un jeu, une simple conviction […] Il a du malin et du diabolique, en même temps que du dialecticien subtil et délié, du logicien impitoyable» 115. Laddove quasi tutti – Baudrillart, Faguet – disapprovano la confusione e la complessità della dimostrazione, Sainte-Beuve rimane incantato dal suo «jeu périlleux» 116. Quindi il procedere tedesco del metodo, in Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère, non è altro che una maschera: Proudhon non ha bisogno di Hegel né dell’antinomia; il pro e il contro gli bastano 117. Proudhon aurait pu aussi bien pratiquer sa méthode à découvert, clairement, à la française, et la faire remonter à Pascal, qui s’était plu à mettre en relief les contradictions en ce qui est de l’homme: «Je l’élève, je l’abaisse, jusqu’à ce qu’il comprenne qu’il est un monstre incompréhensible» 118.

Insomma, Proudhon è una specie di Pascal, magari riveduto da Maistre, del cui sistema politico e religioso, del resto, Faguet diceva che non era altro che «du Pascal à outrance 119». Si comprende come Georges Sorel, pensatore della violenza, ne sia rimasto impressionato. 115 Ivi, p. 224; «tutto è collegato e si connette»; «Ci si chiede a ogni istante, leggendolo, se sia un metodo, una tattica, un’ironia, un gioco, una semplice convinzione […] Ha del malizioso e del diabolico, e allo stesso tempo del dialettico acuto e penetrante, del logico spietato». 116 «gioco pericoloso». 117 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 222. 118 Ivi, p. 223; «Proudhon avrebbe potuto benissimo praticare il suo metodo allo scoperto, chiaramente, alla francese, e farlo risalire a Pascal che si era dilettato a mettere in rilievo le contraddizioni in seno all’uomo: “Io lo innalzo, lo abbasso, affinché comprenda che è un mostro incomprensibile”». 119 «un Pascal a oltranza». Cfr. É. FAGUET, Joseph de Maistre, in ID., Politiques et moralistes du XIXe siècle, Lecène et Oudin, Paris 1891, Ie série, p. 51. Édouard Droz (1855-1923) – che non ha legami con Joseph Droz (1773-1851), l’accademico, corrispondente di Proudhon – è autore sia di un’Étude sur le scepticisme de Pascal (Alcan, Paris 1886), che vede come l’analisi non delle contraddizioni del sistema ma di un sistema di contraddizioni, sia di un’opera simpatica su Proudhon (Librairie des «Pages libres», Paris 1909).

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Una magnifica lettera del 1847 a Bergmann dimostrerà del resto che Proudhon non era vittima dei suoi accessi polemici, la cui coesistenza accanto alle sue intenzioni scientifiche non risultava né da una «faiblesse d’habitude» né da un’«erreur de jugement», ma da una magistrale teoria della «responsabilité littéraire» e della «personnalité des opinions» 120. La scelta del pamphlet diventa una necessità per colui che ha capito che le teorie non hanno nulla di astratto, che sono sempre incarnate e che non si distinguono dagli interessi: Selon moi, en matière de politique, de morale pratique, de science sociale, de tout ce qui tient à la vie active et à l’actualité des sociétés, les théories ne sont pas seulement des idées, des abstractions de l’esprit, ce sont aussi des intérêts, des influences, des coalitions, des intrigues, des personnes… 121.

Ecco perché, «sans en vouloir aux personnes, je fais nécessairement, et avec préméditation, de la personnalité» 122. Analisi ammirevole davanti alla quale ho voglia di comportarmi come Sainte-Beuve e di chiedervi di perdonargli tutto!

«Je rêve une société où je serai guillotiné comme conservateur» 123 Proudhon non fu dunque un rivoluzionario impaziente più di quanto Maistre non sia stato un indaffarato controrivoluzionario. In realtà, né il provvidenzialismo né la dialettica portano all’attivismo, bensì suggeriscono entrambi di lasciar fare e di veder venire. I due pensatori scommettono che sarà lo stesso corso delle cose a porta120

SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 229; «debolezza d’abitudine»; «errore di giudizio»; «responsabilità letteraria»; «personalità delle opinioni». 121 Ibidem; «Secondo me, in materia di politica, di morale pratica, di scienza sociale, di tutto ciò che ha a che fare con la vita attiva e con l’attualità delle società, le teorie non sono solo idee, astrazioni della mente, sono anche interessi, influenze, coalizioni, intrighi, persone…». 122 Ibidem; «senza volerne alle persone, entro necessariamente, e con premeditazione, nel personale». 123 «Sogno una società in cui sarò ghigliottinato come conservatore».

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re il cambiamento economico e politico, e la giuria di Besançon non ebbe torto ad assolvere Proudhon nel 1842: Figurez-vous l’étonnement de tous ces curieux, prêtres, femmes, aristocrates, etc., quand, au lieu d’un républicain à gilet rouge, barbe de bouc, voix sépulcrale, on vit un petit blondin, au teint clair, à la mine simple et pleine de bonhomie, à la contenance tranquille, prétendant qu’il n’était accusé que par une méprise du parquet, dont au surplus il louait le zèle» 124.

La sua dialettica della proprietà e della comunanza può anche essere presa per una dottrina del giusto mezzo 125. Secondo il suo discepolo Darimon, nella proprietà egli non condanna il capitale, bensì la rendita, il profitto e l’abuso 126. In definitiva, nulla distingue Proudhon da un adepto della Provvidenza, lui che ammette che «quelque opinion que nous nous formions du gouvernement de l’univers […] en dernière analyse les choses ont été bien disposées» 127. Sainte-Beuve arriva quasi a farne un moderato, un riformista più che un rivoluzionario, l’araldo di una Francia di piccoli proprietari. Infatti, per Proudhon, la vera rivoluzione si farà senza rottura né rovesciamento, attraverso un movimento «normal, inhérent et intime à la nature des choses» 128, senza ostilità per ciò che esiste, attraverso un’oscillazione ponderata in una società che si governa da sola, come un uomo che fosse sovrano del proprio corpo. D’AltonShée lo chiamava «le grand presbyte», capace di prevedere all’orizzonte degli anni una trasformazione che ci avrebbe messo secoli 129. 124

SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 142; «Figuratevi lo stupore di tutti quei curiosi, preti, donne, aristocratici, ecc., quando, invece di un repubblicano col gilet rosso, il pizzetto, la voce sepolcrale, comparve un biondino, dalla carnagione chiara, l’aspetto semplice e pieno di bonomia, dal contegno tranquillo, che diceva di essere accusato solo a causa di una svista della procura, di cui per di più egli lodava lo zelo». 125 Ivi, p. 226. 126 Ivi, p. 218. 127 Ivi, p. 231, nota; «qualsiasi opinione ci facciamo sul governo dell’universo […] in ultima analisi le cose sono state sistemate bene». 128 Ivi, p. 234; «normale, inerente e intimo alla natura delle cose». 129 Ivi, p. 235, nota; «il grande presbite».

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Predicando l’organizzazione del lavoro contro il libero scambio, Proudhon vuole l’ordine contro il disordine. Ecco perché, non più rivoluzionario di quanto Maistre non fosse stato controrivoluzionario – egli non aveva legato le sue sorti alla causa del conte d’Artois –, rimase, secondo la sua stessa espressione, «abasourdi», dalla Rivoluzione del 1848 130. Diffidò del ’48 come aveva disapprovato l’89, poiché la vera rivoluzione è solo economica, non politica. Una rivoluzione politica scatena la repressione e genera il dispotismo, il quale ritarderà l’inversione scontata del sistema. Proudhon precisava il suo rifiuto di precipitare l’evolversi delle cose sin dall’incipit di Qu’est-ce que la propriété?: – La propriété, c’est le vol! Voici le tocsin de 93! voici le branle-bas des révolutions!… – Lecteur, rassurez-vous: je ne suis point un agent de discorde, un boute-feu de sédition. J’anticipe de quelques jours sur l’histoire; j’expose une vérité dont nous tâchons en vain d’arrêter le dégagement; j’écris le préambule de notre future constitution 131.

Su vari piani, Proudhon fu un «conservatore» dichiarato, il che non dispiaceva certo a Sainte-Beuve che chiede, per esempio: «Qu’était Proudhon par rapport aux femmes?» 132. Il matrimonio dei suoi amici gli ispira sentimenti convenzionali 133. Sul ruolo della donna nella società, è un «un homme de la vieille société, un vieux Romain, un ennemi de l’innovation moderne. Ce partisan de l’égalité absolue n’admettait pas l’égalité possible de la femme et de l’homme» 134. In 130

Ivi, p. 237; «frastornato». P.-J. PROUDHON, Qu’est-ce que la propriété?…, cit., p. 14; «– La proprietà è un furto! ma questo è il segnale del ’93! è la parola d’ordine della rivoluzione!… / Lettore, rassicurati: non sono un agente di discordia, un sedizioso incendiario. Mi limito ad anticipare un poco sulla storia; espongo una verità di cui cerchiamo invano d’arrestare gli sviluppi; scrivo il preambolo della nostra futura costituzione» (ID., Che cos’è la proprietà?…, cit., pp. 19-20). 132 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., p. 99; «Com’era Proudhon con le donne?». 133 Ivi, pp. 188-189. 134 Ivi, p. 214; «un uomo vecchio stampo, un antico Romano, un nemico dell’innovazione moderna. Questo partigiano dell’uguaglianza assoluta non ammetteva uguaglianza possibile della donna e dell’uomo». 131

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realtà, lungi dal pronunciarsi a favore dell’emancipazione delle donne, sarebbe stato piuttosto favorevole alla loro reclusione 135. Allo stesso modo, in letteratura i suoi gusti lo portano verso i classici e segue il cliché della decadenza politica e letteraria della Francia moderna: «La littérature ne produit plus rien; la France dégringole à tire-d’aile: elle est comme l’animal qu’on vient de faire saillir… il se couche et s’endort… Plus de vertu, plus d’esprit public», decreta nel 1841 136. La solita solfa, ma sorprendente in questo radicale: riguardo alla letteratura, «il veut bien qu’on s’amuse à philosopher, mais sans chercher à démolir» come ha fatto Lamennais nei confronti della religione 137. Negli anni 1840, paventa dunque una rivoluzione 138. Tout occupé de sa guerre économique, il n’approuve pas l’opposition qui mène à renverser quand elle n’a rien à mettre pour remplacer. Il préfère encore un statu quo mauvais à un triomphe d’un jour, qui tournerait vite au désastre. Il y a, j’ose dire, un fond de bon et solide esprit jusque dans son plus outré pessimisme 139.

Insomma, Sainte-Beuve si riconosce ancora nella sua prudenza scettica e nella sua diffidenza verso quelli che sono capaci solo a metà. Nel Système des contradictions économiques, tuttavia, sembra pronto a rovesciare Louis-Philippe, che chiama «dernier roi des Français?», ma quando il suo editore gli chiede di ritirare la formula, egli esegue graziosamente, assicurando che non la intendeva come una minaccia rivoluzionaria, ma come il riassunto di tutta un’idea filosofica 140.

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Ivi, p. 215. Ivi, p. 248; «La letteratura non produce più niente; la Francia precipita ad ali spiegate: è come l’animale dopo la monta… si corica e si addormenta… Niente più virtù, niente più spirito pubblico». 137 Ivi, p. 255; «accetta che ci si diverta a filosofare, ma senza cercare di demolire». 138 Ivi, p. 245. 139 Ivi, p. 247; «Tutto preso dalla sua guerra economica, non approva l’opposizione che conduce a rovesciare quando non ha niente con cui sostituire. Preferisce ancora un cattivo status quo al trionfo di un giorno, che volgerebbe presto al disastro. C’è, oso dire, un fondo di spirito buono e solido fin nel suo più esasperato pessimismo». 140 Ivi, pp. 280-281; «ultimo re dei Francesi?». 136

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La sua prima reazione, nel febbraio del 1848, fu dunque reticente: «En voilà de jolies affaires! et comment des gens comme nous vont-ils vivre?» 141. Confiderà nel suo diario che i due mesi tra l’apertura delle Camere e la caduta del trono, intervallo durante il quale ebbe luogo la morte della madre, «furent les moments les plus tristes, les plus désolés que j’aie traversés de ma vie» 142. Repubblicano da sempre, dice, «je frissonnais de ce que je voyais approcher la République»; «Avant la naissance de la République, je portais le deuil et je faisais l’expiation de la République» 143, la quale avrebbe lasciato i lavoratori alla disoccupazione e a una miseria ancora più grande. La rivoluzione politica ha preceduto la rivoluzione sociale e ha lanciato quest’ultima nell’impreparazione, all’inverso dell’ordine naturale e «comme si la Providence avait voulu, cette fois, frapper avant d’avertir!» 144. La biografia si interrompe nel 1848, ma Sainte-Beuve riporta ancora una lettera del 1854 a Bergmann, col quale Proudhon riallaccia dopo il soggiorno in prigione e il matrimonio, dopo aver fondato una famiglia, e anche dopo il colpo di Stato e l’insediamento dell’Impero. Vi si mostra «aussi dédaigneux au fond du parti jacobin que du parti légitimiste, indifférent sur la forme politique» 145. Nella saggezza di questa lettera «simple et digne», Sainte-Beuve trova «je ne sais quoi d’antique» 146. Senza dubbio Sainte-Beuve avrà apprezzato molto – l’aveva tenuta presente per il seguito del suo studio – questa risposta di Proudhon al principe Napoleone che si stupiva delle sue contraddizioni di rivoluzionario individualista: «[J]e rêve une société où je se141

Ivi, p. 292; «Che bell’affare! e la gente come noi come vivrà?». Ivi, p. 295; «furono i momenti più tristi, più sconsolati che abbia mai attraversato in vita mia». 143 Ivi, p. 297; «tremavo nel vedere avvicinarsi la Repubblica»; «Prima della nascita della Repubblica, portavo il lutto ed espiavo le colpe della Repubblica». 144 Ibidem; «come se la Provvidenza avesse voluto, questa volta, bussare prima di avvisare!». 145 Ivi, p. 303; «profondamente sprezzante tanto del partito giacobino quanto del partito legittimista, indifferente sulla forma politica». 146 Ivi, p. 304; «semplice e dignitosa»; «un non so che di antico». 142

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rai guillotiné comme conservateur» 147. Qui c’era tutto Proudhon, per il piacere di Sainte-Beuve.

Un trattato di critica sociale Thibaudet dava una spiegazione psicologica alla curiosità di Sainte-Beuve per Proudhon: entrambi hanno subito delle umiliazioni, entrambi hanno avuto degli inizi difficili nella vita, e Sainte-Beuve si identifica con la tendenza alla vendetta di un pensatore che ha provato la miseria. Abbiamo visto un’altra finalità del progetto: la volontà di far assolvere dal tribunale della storia uno scrittore ingiustamente punito da vivo a causa delle sue maniere poco civili. Senza tornare su queste due motivazioni della biografia come transfert e come arringa, sembra proprio che Sainte-Beuve si sia lanciato nel suo ultimo sconcertante ritratto anche perché aveva trovato in Proudhon un fratello in politica, e in fondo un prudente, un moderato come lui, tutto il contrario di un dandy, come sapeva bene Baudelaire che notò la loro incompatibilità di umore in occasione di una cena in sua compagnia nel 1848: «J’observai que ce polémiste mangeait énormément et qu’il ne buvait presque pas, tandis que ma sobriété et ma soif contrastaient avec son appétit» 148. Poi, quando Baudelaire fece il gesto di pagare il conto, Proudhon vi si oppose animatamente, ma «étonna un peu» il poeta «en ne payant que strictement son dîner» 149. Sainte-Beuve si mostra spesso sensibile alle tesi di Proudhon, per esempio in una lunga pausa riflessiva verso la metà del suo racconto 150: Et moi aussi, je fais, chemin faisant, mes réflexions, à mesure que je transcris et que je cite, à mesure que j’avance dans le récit et l’exposé de cette vie, de cette existence hors cadre, de ce caractère énergique, athlétique, dont on voit toutes les nodosités et les angles, mais qui n’était peut-

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Ivi, p. 342; «Sogno una società in cui sarò ghigliottinato come conservatore». Ch. BAUDELAIRE, Correspondance, t. II, cit., p. 470; «Osservai che questo polemista mangiava enormemente e quasi non beveva, mentre la mia sobrietà e la mia sete contrastavano col suo appetito». 149 Ibidem; «stupì un po’»; «perché si limitò a pagare la sua cena». 150 Cfr. SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., pp. 164-168. 148

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être pas irréconciliable au début […] Je me suis demandé souvent pourquoi la France est le pays des révolutions et non des réformes 151.

Perché quest’uomo colto dal «sentiment profond et poignant» della disuguaglianza, ma onesto, umano, che non desidera spossessare nessuno né spera nella caduta di alcun governo, perché trovò tutti in guardia contro di lui, cosa che lo portò a «charge[r] à la baïonnette sur tous»? 152 Perché la sua idea pratica dell’associazione operaia non ebbe alcun successo? Étonnez-vous après cela si, le tempérament y aidant, la patience lui échappe: vous voulez la guerre, mes amis, vous l’aurez! […] Vous êtes des Français routiniers et légers, on sera un montagnard du Jura, «un paysan du Doubs», un Franc-Comtois intraitable. Et alors, comme on ne lui accorde rien, il demandera tout […] Et voilà une des mille raisons qui font qu’en France on n’a pas de Richard Cobden 153.

Tanto che, suggerisce Lepenies, lo studio di Sainte-Beuve meriterebbe il sottotitolo: «Ritratto di un giovane riformatore mancato» 154. La biografia tuttavia non è stata priva di effetti sul biografo. Nel tentativo interessato di riabilitazione e misericordia, Sainte-Beuve ha reso Proudhon politicamente inoffensivo, ma la sua frequentazione ha tuttavia radicalizzato il senatore dell’Impero, come testimonia 151

Ivi, p. 164; «E anche io faccio, strada facendo, le mie riflessioni, man mano che trascrivo e cito, man mano che avanzo nel racconto e nell’esposizione di questa vita, di questa esistenza fuori dagli schemi, di questo carattere energico, atletico, di cui si vedono tutte le nodosità e gli angoli, ma che forse non era irriconciliabile in principio […] Mi sono chiesto spesso perché la Francia sia il paese delle rivoluzioni e non delle riforme». 152 Ivi, p. 167; «sentimento profondo e cocente»; «ad assalti alla baionetta contro tutti». 153 Ivi, pp. 167-168; «Come stupirsi dopo tutto ciò se, grazie anche al suo temperamento, gli scappa la pazienza? Volete la guerra, amici miei, e l’avrete! […] Voi siete dei Francesi abitudinari e leggeri, lui sarà un montanaro del Giura, “un contadino del Doubs”, un intrattabile della Franca Contea. E allora, siccome non gli si concede nulla, egli chiederà tutto […] Ed ecco una delle mille ragioni per cui in Francia non c’è un Richard Cobden». Richard Cobden (1804-1865) era un uomo del popolo come Proudhon, economista, partigiano del libero scambio. 154 W. LEPENIES, Sainte-Beuve…, cit., p. 170.

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una lettera del 28 dicembre 1865 al principe Napoleone 155 che gli aveva prestato le sue lettere di Proudhon: Il n’est que trop vrai que le premier Napoléon avait dans ses conseils des régicides et des royalistes, d’anciens conventionnels et des ralliés du côté droit, qu’il les tenait en échec les uns par les autres, se servait de tous, donnait des garanties à tous […] De là une grande force, un véritable équilibre. Sous l’empire présent, cet équilibre n’existe pas. Le côté révolutionnaire, socialiste, qui voudrait se rattacher, ne trouve pas un appui suffisant, une garantie; le blanc domine, il n’y a de rouge que celui des cardinaux […] C’est absurde, c’est insensé, c’est abrutissant! on est empêché et bâillonné. Il n’y a pas d’égalité. La reculade est frappante. Elle n’est pas seulement du gouvernement, elle est de la société même, au moins dans toutes ses couches dites élevées. Le gouvernement a le tort de voir par les yeux de cette société des salons 156.

Ecco un bel programma ecumenico di ricomposizione politica alla vigilia della svolta dell’impero liberale. Sainte-Beuve si erge a difensore dell’uguaglianza e della riconciliazione nazionale. È questo che ha potuto far dire a Sorel nel 1921: «On ne fera jamais meilleure étude sur Proudhon que celle de Sainte-Beuve» 157, e ancora recentissimamente a Lepenies che il Proudhon di Sainte-Beuve è «più di una biografia», è «un trattato di critica sociale» 158, ma a che serve in Francia, paese della riforma impossibile! 155

Il principe Jérôme Napoléon (1822-1891), destinatario di queste lettere, è il fratello della principessa Mathilde, figlio di Jérôme Bonaparte. 156 SAINTE-BEUVE, P.-J. Proudhon, cit., pp. 333-334; «È sin troppo vero che il primo Napoleone aveva nei suoi consigli regicidi e monarchici, ex-membri della Convenzione e aderenti di destra, che li teneva in scacco gli uni tramite gli altri, si serviva di tutti, dava garanzie a tutti […] Di qui una grande forza, un vero e proprio equilibro. Sotto il presente impero, questo equilibrio non esiste. La parte rivoluzionaria, socialista, che vorrebbe reinserirsi, non trova un appoggio sufficiente, una garanzia; domina il bianco, e il solo rosso è quello dei cardinali […] È assurdo, è insensato, è avvilente! siamo impediti e imbavagliati. Non c’è uguaglianza. La ritirata è sorprendente. Non soltanto dal governo, anche dalla società, per lo meno in tutti gli strati cosiddetti alti. Il governo ha il torto di vedere attraverso gli occhi di questa società salottiera». 157 Cit. in D. HALÉVY, La Vie de Proudhon, 1809-1847, Delamain et Boutelleau, Paris 1948, p. 1; «Non si farà mai su Proudhon uno studio migliore di quello di Sainte-Beuve». 158 W. LEPENIES, Sainte-Beuve…, cit., p. 166.

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TRA FREUD E SAINTE-BEUVE: PROUST DI GEORGE D. PAINTER

Può sembrare un po’ anacronistico, dopo le due più recenti, monumentali biografie di Proust – quella di Jean-Yves Tadié 1, così ricca di materiale di prima mano sulla genesi dell’opera, e quella di William Carter 2, puntigliosa e veramente sterminata parafrasi della corrispondenza dello scrittore –, risalire il corso degli anni per soffermarsi su quel Proust di George D. Painter 3 che, tra il 1959 e il 1965, offrì per la prima volta ai lettori della Recherche una ricostruzione documentata e minuziosa dell’intera vita del romanziere. Ma non è forse privo d’interesse riconsiderare oggi il successo contrastato dell’opera di Painter, e la singolare divaricazione che questa stessa opera provocò tra specialisti e vasto pubblico. Si tratta di un episodio non irrilevante nella storia della fortuna di Proust e nella biografia collettiva di alcune generazioni di lettori. Ho attribuito due date diverse all’opera, perché il racconto degli anni giovanili – dal 1871 al 1903 – era stato pubblicato da Painter in un primo volume nel 1959; ma l’anno in cui la biografia finalmente completa conquistò – nel bene e nel male – tutta la sua visibilità, fu il 1965. Proprio allora vennero messe in cantiere, tempestivamente, diverse traduzioni, che sarebbero uscite nell’arco di un paio d’anni: quella italiana 4 (la prima cronologicamente), quella francese 5, alla cui cura contribuì uno studioso come Georges Cattaui, quella te1 J.-Y. TADIÉ, Marcel Proust. Biographie, Gallimard, Paris 1996; trad. it. Vita di Marcel Proust, a cura di G. Bogliolo, Mondadori, Milano 2002. 2 W. C. CARTER, Marcel Proust. A Life, Yale University Press, New Haven and London 2000. 3 G. D. PAINTER, Marcel Proust. A Biography, Chatto & Windus, London 19591965. 4 ID., Marcel Proust, trad. it. E. Vaccari Spagnol e V. di Giuro, Feltrinelli, Milano 1965. 5 ID., Marcel Proust, trad. fr. G. Cattaui e R. P. Vial, prefazione di G. Cattaui, Mercure de France, Paris 1966.

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desca 6, il cui primo volume era già apparso nel 1962. Erano tutte destinate a conquistare il mercato e ad inserirsi, grazie a numerose ristampe, nel piccolo numero privilegiato dei long sellers. Basata su diciott’anni di lavoro e sullo spoglio di una mole sterminata di memorialistica e di epistolari, l’opera di Painter affrontava la vita di Proust con una sistematicità senza precedenti. Non pretendeva, certo, di ricostruire congetturalmente precise conversazioni o singole scene, come oggi si usa. Era allora impensabile, o riservata ai feuilletons biografici televisivi, la disinvoltura con cui, per fare un esempio, la recente biografa della madre di Proust, Evelyne BlochDano, descrive una delle prime conversazioni tra il futuro padre dello scrittore e colei che diverrà sua moglie: Les mains dans les poches, adossé à la cheminée, [le docteur Proust] raconte, et Jeanne écoute. Parfois, elle regarde sa mère. Mais la physionomie d’Adèle est impénétrable. Elle est ailleurs… Nathé, lui, tient à la main un verre de cognac qu’il sirote en connaisseur. De temps à autre, il pose une question 7.

Senza introdurre dialoghi o particolari inventati di sana pianta, Painter procedeva in tutt’altro modo. Incorporava in una narrazione di ampio respiro migliaia di tessere, desunte da lettere, testimonianze e documenti di vario genere; ne risultava un mosaico che rendeva conto, sia pure con precisione ineguale e profonde zone d’ombra, di tutta la vita del romanziere, dalle vacanze infantili e dagli anni di scuola alle frequentazioni mondane, dai primi tentativi letterari alla morte della madre amatissima, dalle infelici relazioni amorose alla vita di semireclusione necessaria alla stesura della Recherche. Per la prima volta, la topografia di Illiers e dei suoi dintorni era studiata a fondo, senza però trascurare l’importanza del giardino di Auteuil; 6 ID., Marcel Proust. Eine Biographie, vol. I, trad. ted. C. Enzensberger, Suhrkamp, Frankfurt 1962; vol. II, a cura di I. Wodtke, Suhrkamp, Frankfurt 1968. 7 E. BLOCH-DANO, Madame Proust, Grasset, Paris 2004, p. 21; «Con le mani in tasca, addossato al caminetto, [il dottor Proust] racconta, e Jeanne ascolta. A volte, ella guarda la madre. Ma la fisionomia di Adèle è impenetrabile. Ella è altrove… Quanto a Nathé, tiene in mano un bicchiere di cognac che sorseggia da intenditore. Di tanto in tanto, fa una domanda».

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per la prima volta, sugli ambienti (familiari, mondani, intellettuali) frequentati da Proust nel corso degli anni, era fornita un’informazione estremamente ricca; per la prima volta trovavano posto, in un’opera destinata al vasto pubblico, il romanzo giovanile Jean Santeuil e l’incompiuto Contre Sainte-Beuve, di cui André Maurois aveva riprodotto nella sua biografia del 1949 8 splendide pagine inedite senza però essere in grado di datarle e contestualizzarle. Per la prima volta, infine, i lettori non specialisti si trovavano di fronte al dramma che André Maurois aveva scelto di eludere, benché Robert Vigneron, uno dei primi studiosi della corrispondenza proustiana, lo avesse ricostruito sin dal lontano 1937 9: la presenza della prigionia, della fuga e della morte di Alfred Agostinelli all’origine della vicenda di Albertine «prigioniera» e «fuggitiva». Il successo di pubblico, dovuto anche alle doti di narratore del biografo, fu clamoroso, e la stampa non mancò di commentarlo. Le reazioni in ambito francese furono però più sfumate e reticenti di quelle della stampa anglosassone, generalmente favorevole 10. Sulla «Quinzaine littéraire», la prestigiosa rivista di sole recensioni fondata e diretta da Maurice Nadeau, intervenne il 15 marzo 1966 Roland Barthes 11, con un articolo brillantissimo, ambivalente e paradossale. Nulla predisponeva, secondo Barthes, la vita di Proust al «prestigio delle grandi biografie»: non era una vita «adolescente» (come quella di Rimbaud), né una vita «avventurosa» (come quella di Byron); non era nemmeno una vita «titanica», come quella di Balzac, o «tragica», come quella di Van Gogh. Era la vita, nel quadro desueto della «Belle époque», di un signore di buona famiglia «mondano, 8

A. MAUROIS, À la recherche de Marcel Proust, Hachette, Paris 1949. R. VIGNERON, Genèse de Swann, in «Revue d’histoire de la philosophie et d’histoire générale de la civilisation», 15 janvier 1937. Ora in ID., Études sur Stendhal et sur Proust, Nizet, Paris 1978, pp. 308-351. 10 Si vedano la recensione entusiasta di John Davenport sullo «Spectator» del 9 luglio 1965, quella molto positiva del «Times Literary Supplement» (5 August 1965) e l’ampio studio – in difesa del biografo inglese contro le obiezioni della critica francese – di M. GRINDEA, Proust après Painter, in «Adam International Review», 310-312, 1966, pp. 6-21. 11 R. BARTHES, Les Vies parallèles, in «La Quinzaine littéraire», 15 mars 1966. Ora in ID., Œuvres complètes, t. II, 1962-1967, Éditions du Seuil, Paris 2002, pp. 811-813. 9

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ozioso, ricco», che avrebbe dovuto suscitare più diffidenza che attrazione. «Et pourtant», notava il critico «il se produit ceci: la vie de Proust est passionnante, comme le prouvent le succès du livre de Painter et le plaisir très vif, singulier même, que nous y prenons» 12. Il piacere singulier del lettore di Painter è, per Barthes, il rovescio esatto dell’ottusa esultanza del ricercatore di «chiavi» biografiche atte a «spiegare» la finzione: Lire l’ouvrage de Painter (qui a pour qualité son extrême transparence), ce n’est pas découvrir l’origine de la Recherche, c’est lire un double du roman, comme si Proust avait écrit deux fois la même œuvre: dans son livre et dans sa vie. Nous ne disons pas (c’est du moins le sentiment que j’ai eu): Montesquiou est décidément bien le modèle de Charlus, mais tout au contraire: il y a du Charlus dans Montesquiou, il y a du Balbec dans Cabourg, il y a de l’Albertine dans Agostinelli. Autrement dit (du moins avec Proust), ce n’est pas la vie qui informe l’œuvre, c’est l’œuvre qui irradie, explose dans la vie et disperse en elle les mille fragments qui semblent lui préexister; Doazan, Lorrain, Montesquiou, Wilde ne composent pas Charlus, c’est Charlus qui essaime et germe dans ces quelques figures réelles, au nombre d’ailleurs variable, que chaque biographie augmente malicieusement 13.

Nella lettura di Barthes, la biografia di Painter – lodata per la sua trasparenza, come un vetro che si frapponga, senza troppo disturbare, tra il lettore e il mondo proustiano – è una sorta di terreno 12 Ivi, p. 811; «Eppure, ecco che succede: la vita di Proust è appassionante, lo prova il successo del libro di Painter e il piacere vivissimo, addirittura eccezionale, che ci procura». 13 Ivi, p. 812; «Leggere l’opera di Painter (che ha la virtù dell’estrema trasparenza) non vuol dire scoprire l’origine della Recherche, vuol dire leggere un “doppio” del romanzo, come se Proust avesse scritto due volte la stessa opera: nel suo libro e nella sua vita. Non diciamo (o per lo meno è la sensazione che ho avuto): Montesquiou è indiscutibilmente il modello di Charlus, ma proprio l’opposto: c’è un po’ di Charlus in Montesquiou, c’è un po’ di Balbec in Cabourg, c’è un po’ di Albertine in Agostinelli. / In altre parole (o almeno secondo Proust), non è la vita che modella l’opera, è l’opera che irradia, esplode nella vita e disperde in essa i mille frammenti che sembrano preesisterle; Doazan, Lorrain, Montesquiou, Wilde non compongono Charlus, è Charlus che sciama e germina in quelle poche figure reali, dal numero del resto variabile, che ogni biografia aumenta maliziosamente».

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neutro, su cui vita e opera si confrontano in un duello cruento e ravvicinato; duello nel quale vanno entrambe in pezzi, per lasciar posto al vero idolo del momento, alla grande protagonista della teoria letteraria degli anni Sessanta, alla Scrittura. On peut énoncer autrement ce paradoxe biographique: les vies de Marcel et du narrateur constituent deux plans offerts à la dispersion des mêmes essences; mais ce qui n’est plus parallèle entre eux, parce qu’unique, confondu, identique, c’est l’écriture: c’est là où les parallèles se rejoignent 14.

Meriti e demeriti di Painter contano in definitiva ben poco allo sguardo di Barthes, più attento a quei giochi di specchi tra realtà e finzione che ogni biografia dell’autore della Recherche finisce fatalmente per innescare. Sulla «Revue de Paris», un mese dopo, Matthieu Galey afferma a sua volta che «le Marcel Proust de M. George D. Painter est un livre passionnant dont on dévore les quatre cent et quelques pages avec une espèce d’avidité qu’il serait malhonnête de nier 15»; ma le riserve che accumula, sottolineando il moralismo del biografo anglosassone e una certa sua estraneità ai codici comportamentali dell’aristocrazia francese, finiscono per sfociare in un drastico ridimensionamento della fatica di Painter, accusato di offrire ai suoi lettori «Proust vu par une fourmi» 16, cioè sepolto sotto una montagna di dettagli irrilevanti e meschini, privi d’ogni rapporto con la sua grandezza di scrittore. Una lettura nettamente più positiva uscì sul popolare «Magazine Littéraire», nel gennaio del ’67 17, a firma di Henri Godard, il futuro specialista di Céline. Godard forniva ai suoi lettori, su Pain14 Ivi, p. 813; «Questo paradosso biografico può essere enunciato altrimenti: le vite di Marcel e del narratore costituiscono due piani offerti alla dispersione delle stesse essenze; però ciò che tra loro non è più parallelo, perché unico, confuso, identico, è la scrittura: lì le parallele si toccano». 15 M. GALEY, Proust vu par une fourmi, in «Revue de Paris», avril 1966, pp. 126131; «il Marcel Proust di George D. Painter è un libro appassionante, le cui quattrocento e qualche pagina si divorano con una specie di avidità che sarebbe disonesto negare». 16 «Proust visto da una formica». 17 H. GODARD, L’Insupportable Proust, in «Le Magazine Littéraire», 3, janvier 1967.

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ter, una serie di dati precisi (i diciott’anni di lavoro da lui consacrati a Proust, la sua figura professionale di bibliotecario della British Library) per poi finire, come Barthes, con l’elogiarne, un po’ ambiguamente, la «trasparenza». Oltre alla chiarezza della narrazione, alla giustezza di tono e all’intelligenza, erano encomiabili in Painter, secondo il recensore, soprattutto «la modestia e l’eleganza». Era grazie a queste doti che, a forza di squisito understatement, il biografo-bibliotecario si produceva in un’ardua e prestigiosa performance: riusciva, autentico capolavoro di discrezione, a farsi dimenticare dai propri lettori. Farsi dimenticare dagli specialisti è però impresa ben più difficile: lo avrebbe imparato a sue spese, qualche decennio dopo, David Bellos, il biografo di Perec, al censimento dei cui errori (veri e presunti) l’associazione Georges Perec dedicò addirittura un intero, acrimonioso fascicolo. Senza arrivare a tanto, il mondo dei «proustiani» ufficiali, a metà degli anni Sessanta, dichiarò guerra a quel temerario outsider che era il bibliotecario George Duncan Painter, e spiegò contro di lui tutte le proprie batterie in un’autentica battaglia campale. Mentre un flusso sempre più numeroso, e sempre più internazionale, di appassionati esplorava, con la nuova biografia alla mano, giardini, pasticcerie e cucine di Illiers, alla ricerca della finestra della zia Léonie e del cortile dove Ernestine-Françoise sgozzava i polli, il «Bulletin des Amis de Marcel Proust», la «Revue Littéraire de la France» e «Modern Philology» davano inizio alle ostilità, aprendo il fuoco senza risparmio. Dalle pagine, all’epoca sovente agiografiche, del «Bulletin», Henri Bonnet denunciò il «partito preso» denigratorio di Painter. Il biografo britannico aveva osato attribuire a Proust un’inclinazione all’isterismo («abominable névrose de simulation» 18, chiosava il recensore); non si era poi peritato di mostrarlo «tormentato» dal «complesso di Edipo» 19, evidentemente considerato da Bonnet come una rara e degradante patologia. 18 H. BONNET, La Biographie de Painter, in «Bulletin de la Société des Amis de Marcel Proust et des Amis de Combray», 1967, p. 585; «abominevole nevrosi di simulazione». 19 Ivi, p. 584.

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Bref, Proust appartiendrait à la psychologie pathologique ou à la pathologie mentale – à cela près qu’il avait du génie! Mais le génie de Proust, son œuvre l’atteste, n’est pas le génie d’un névrosé, si tant est que semblable sorte de génie existe! C’est le génie de l’être le plus intelligent peutêtre qui ait existé! C’est le génie d’un homme lucide qui s’est mieux connu que quiconque 20.

A quest’accusa di ostinato accanimento nella denigrazione, se ne aggiungeva un’altra, forse ancora più grave, perché implicava importanti conseguenze nell’interpretazione dell’opera: Painter si era permesso di distaccarsi dalla parafrasi rispettosa e letterale dell’etica e dell’estetica del romanziere, per cercar di coglierne il sostrato incosciente. A tale intenzione sacrilega bisognava assolutamente reagire. Lo avrebbe fatto nel 1971 proprio Henri Bonnet, nella nuova edizione del suo M. Proust de 1907 à 1914 21. Con più diligenza che perspicacia, fedele alle linee generali della sua thèse degli anni Quaranta 22, si sarebbe sforzato di liberare i dati biografici d’ogni alone trouble, di ogni ambivalenza, di ogni tensione profonda, per riformularli nel contesto di una metafisica dell’arte depurata da ogni intrusione materialistica e da ogni dissonante tragicità. Per il momento, nell’autunno del ’67, due recensioni spiccarono sulle altre per ampiezza e severità: quella di Robert Vigneron 23, anziano professore dell’Università dell’Illinois, e quella di Jacques Bersani 24, che a Proust avrebbe dedicato una preziosa antologia del20 Ivi, p. 590; «Insomma, Proust apparterrebbe alla psicologia patologica o alla patologia mentale – per quanto avesse del genio! Ma il genio di Proust, e la sua opera lo attesta, non è il genio di un nevrotico, ammesso che esista una simile specie di genio! È il genio dell’essere forse più intelligente che sia mai esistito! È il genio di un uomo lucido che ha conosciuto se stesso meglio di chiunque altro». 21 ID., Marcel Proust de 1907 à 1914 (avec une bibliographie générale), Nizet, Paris 1971. La prima edizione, con il titolo Proust de 1907 à 1914. Essai de biographie critique era stata pubblicata presso lo stesso editore nel 1959. 22 ID., Le Progrès spirituel dans l’œuvre de Marcel Proust, Vrin, Paris; t. I, Le Monde, l’Amour, l’Amitié, 1946; t. II, L’Eudémonisme esthétique de Proust, 1949. 23 R. VIGNERON, La Méthode de Sainte-Beuve et la méthode de M. Painter, in «Modern Philology», November 1967, pp. 133-151. 24 La si veda in «Revue d’Histoire Littéraire de la France», oct.-déc. 1967, pp. 874878. Riprodotta in J.-Y. TADIÉ, Lectures de Proust, Armand Colin, Paris 1971, pp. 110-118.

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la critica 25. Pittoresco nelle invettive e nelle facezie rabelaisiane, l’interminabile articolo di Vigneron (venti pagine, corredate di note in caratteri minuscoli) brandiva contro Painter la bandiera del metodo di Sainte-Beuve, per nulla desueto, secondo il battagliero filologo, e non menomamente scalfito, sempre secondo lui, dalle obiezioni «acide» e interessate di Proust. Data l’inconsistenza della teoria proustiana dell’«io creatore» contrapposto all’«io mondano», teoria adottata da Proust, secondo Vigneron, nel vano sforzo di dissimulare le proprie tare e i propri vizi, bene aveva fatto Painter a cercar di ricostruire in ogni particolare la vita dell’uomo Proust, utilissima a chiarire i procédés del Proust scrittore. Nella sua ricostruzione, però, Painter aveva dato prova di insufficiente acribia e, soprattutto, aveva utilizzato a man bassa due saggi dello stesso Vigneron, del ’37 e del ’46-’48 26, senza citare sempre esplicitamente la sua fonte. Come ho già accennato, nel suo saggio del ’37 Genèse de Swann, Vigneron aveva considerevolmente rivoluzionato quel che si sapeva della biografia di Proust. Basandosi sullo studio della corrispondenza, aveva messo in luce il ruolo di Alfred Agostinelli nella vita del romanziere tra il 1908 e il 1914, vedendo per primo nel giovane autista-segretario il principale modello di Albertine. L’identificazione era ricca di conseguenze complesse, perché la fuga e la morte di Agostinelli, facendo pirandellianamente irruzione nel romanzo che Proust stava scrivendo, ne avevano modificato radicalmente la fisionomia: tutto l’«episodio» di Albertine prigioniera e fuggitiva non era previsto nel piano originario della Recherche. Trent’anni dopo questa sua scoperta capitale, Vigneron se la vedeva in qualche modo sottratta da Painter, che la divulgava in un’opera di risonanza mondiale: non gli restava che scagliare contro di lui, dalle pagine prestigiose ma non frequentatissime di «Modern Philology», la rivista dell’Università di Chicago, tutte le sue folgori e le sue scomuniche, d’altronde di scarsa efficacia perché fondate su una conoscenza ancora molto lacuno25

J. BERSANI, Les Critiques de notre temps et Proust, Garnier, Paris 1971. Per il saggio del ’37, si veda la nota 9. R. VIGNERON, Structure de Swann: Balzac, Wagner et Proust, in «French Review», May 1946; ID., Structure de Swann: Combray ou le cercle parfait, in «Modern Philology», February 1948. I due saggi sono ripresi in ID., Études sur Stendhal et sur Proust, cit., pp. 414-497. 26

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sa e rudimentale dei manoscritti proustiani e su ipotesi spesso caduche e cervellotiche (come quella dell’anteriorità di molte pagine del Contre Sainte-Beuve rispetto ai Pastiches del 1908 27). Ben altra risonanza rispetto alle folgori alquanto arrugginite di Vigneron era destinato ad avere l’articolo di Jacques Bersani sulla «Revue d’Histoire Littéraire de la France». Al consueto oblio cui vanno incontro le recensioni delle riviste accademiche lo sottrasse infatti Jean-Yves Tadié, riproducendolo nella sua antologia critica Lectures de Proust, pubblicata nella fortunata collezione U2 di Colin nel 1971. L’antologia proponeva, contrapposti, la prefazione in cui Painter esplicita il proprio metodo, e le obiezioni di Jacques Bersani; il curatore, Tadié, ben lungi dal restare equidistante, nell’introdurre i due brani spiegava all’ignaro lettore che nella biografia di Painter «le comportement de Proust est démonté, expliqué par une psychanalyse à deux sous, un freudisme de bazar, un scientisme que l’on eût cru démodé» 28. Jacques Bersani usava un linguaggio infinitamente più cauto e muoveva critiche che, a causa della loro estrema genericità e dell’assenza di esempi precisi, restavano anodine: Painter non aveva vagliato con cura sufficiente le proprie fonti; si era troppo accanito nell’identificazione dei modelli di ogni personaggio; aveva confuso a più riprese episodi della Recherche ed episodi della vita del suo autore e infine, con l’aiuto della psicoanalisi, aveva trasformato in un «dramma», anzi in un «mélodrame», il «romanzo famigliare» di Marcel Proust, i suoi rapporti con la madre e il fratello e la sua omosessualità. Bersani (seguito, o forse sollecitato da Tadié) insinuava a questo proposito che Painter si fosse ispirato a una mediocrissima opera del 1956, di Milton L. Miller 29, senza d’altronde citarla per arrogarsi il merito di una discutibile originalità. In realtà, il pesante meccanicismo con cui Milton L. Miller cerca di dimostrare la propria 27

ID., La Méthode de Sainte-Beuve et la méthode de M. Painter, cit., p. 140. J.-Y. TADIÉ, Lectures de Proust, cit., p. 104 (il corsivo è mio); «il comportamento di Proust viene smontato, spiegato da una psicoanalisi da quattro soldi, un freudismo da bazar, uno scientismo che avremmo ritenuto fuori moda». 29 M. L. MILLER, Nostalgia. A Psychoanalytical Study of Marcel Proust, Kennikat Press, Port Washington (N.Y.) 1956. 28

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tesi, tirando in ballo tutto l’arsenale della più scontata simbologia psicoanalitica, è quanto di più lontano si possa immaginare dal metodo discreto e meditato di Painter: l’equivoco di Jacques Bersani e di Tadié è dovuto al fatto che tanto Miller quanto Painter percepiscono alle origini della Recherche l’emergere di un dramma psicologico irrisolto, in cui trovano posto sentimenti di colpa e pulsioni ambivalenti verso la madre e verso il fratello. A questo nodo conflittuale problematico, la vulgata proustiana in onore tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta imponeva di contrapporre la visione rigorosamente spiritualistica e drasticamente sublimata di Henri Bonnet: per Proust «le bonheur est dans la connaissance des vérités esthétiques» 30. Raggiunto questo «bonheur» nel Temps retrouvé, Proust poteva morire appagato e fiero di aver sacrificato la sua vita peritura ad un’opera d’arte immortale. A che scopo complicare questa gratificante constatazione con qualche «dramma» sotterraneo? Non a caso Benjamin, Adorno, Georges Bataille e Giacomo Debenedetti mancano dall’indice dell’antologia di Tadié del ’71, in cui trova posto l’attacco di Jacques Bersani a Painter: quattro autori variamente consapevoli della lezione freudiana sono messi da parte – come il non freudiano, ma inquietante, René Girard, passato egualmente sotto silenzio – per non incrinare la pacificata stabilità di una lettura spiritualista orientata verso quello che Bonnet aveva definito «l’eudemonismo estetico» di Proust, vale a dire il perseguimento consapevole di una superiore felicità attraverso l’ascesi dell’arte. Ai guastafeste freudiani (o girardiani) troppo sensibili a tematiche sulfuree come la profanazione e il matricidio, Tadié rispondeva citando un’affermazione del venerabile settecentista Robert Mauzi, tratta da una sua recensione di qualche mese prima ad André Vial e a Deleuze: «Les pages capitales du Temps retrouvé éclairent parfaitement l’origine de la Recherche. Et pas un mot n’y laisse entendre que cette origine serait à chercher du côté d’un conflit entre les aspirations morales et les fatalités intimes» 31. La teoria 30 H. BONNET, Le Progrès spirituel dans l’œuvre de Marcel Proust, t. II, L’Eudémonisme…, cit., p. 193; «la felicità sta nella conoscenza delle verità estetiche». 31 R. MAUZI, Les Complexes et les signes. Diversité et convergence de la critique proustienne, in «Critique», février 1966, p. 159. Cit. in J.-Y. TADIÉ, Lectures de

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estetica esplicita di Proust, estrapolata dalla complessità del suo mondo immaginario e dalle ambiguità del suo discorso romanzesco, diventava in questa prospettiva la Verità suprema e inattaccabile che ogni saggio critico, ogni ricerca biografica e filologica doveva costantemente portare alla luce, in un percorso tautologico dei più deludenti. Era l’ortodossia, rassicurante e senza sorprese, che gli officianti del «Bulletin des Amis de Marcel Proust et de Combray» custodivano con candore, lealtà e un pizzico di fanatismo. Prima che un declino inarrestabile la travolgesse, votando all’oblio le ponderose opere di Henri Bonnet e trasformando inaspettatamente Tadié in un adepto tanto tardivo quanto entusiasta delle teorie girardiane 32, quell’ortodossia trovò nella biografia di Painter il suo oggetto fobico, e lo combatté fermamente; poi scivolò insieme a lui negli intermundia dove riposano le opere critiche passate di moda, mentre il centro della scena veniva conquistato dai problemi genetici, dalla decifrazione e dalla datazione dei Cahiers, dalla messa a punto dell’edizione della Pléiade in quattro volumi destinata a fornire agli studi proustiani, con i suoi testi inediti e i suoi ammirevoli apparati, un nuovo punto di partenza. Dall’ormai lontano 1966 molte nuove e voluminose biografie di Proust sono venute ad allinearsi sui nostri scaffali: quella di Ghislain de Diesbach, nutrita di nuove fonti sugli ambienti mondani frequentati da Proust 33; quella di Roger Duchêne, con informazioni inedite sulla situazione economica del romanziere alla morte dei genitori 34; quella di Jean-Yves Tadié, che ha saputo trarre profitto dalla ricostruzione della genesi della Recherche emersa dalla nuova Pléiade, diretta dallo stesso Tadié; quella di Edmund White, sintetica e penetrante 35; quella di William Carter, scrupolosamente aderente alla corrispondenza del romanziere. Alle fonti utilizzate da Painter, si sono Proust, cit., p. 148; «Le pagine capitali del Temps retrouvé chiariscono perfettamente l’origine della Recherche. E neanche una parola lascia intendere che questa origine debba ricercarsi nella direzione di un conflitto tra le aspirazioni morali e le intime fatalità». 32 Cfr. J.-Y. TADIÉ, Marcel Proust, cit., p. 765. 33 G. DE DIESBACH, Proust, Perrin, Paris 1991. 34 R. DUCHÊNE, L’Impossible Marcel Proust, Laffont, Paris 1994. 35 E. WHITE, Proust, Weidenfeld & Nicolson, London 1999.

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aggiunti gli Écrits de jeunesse 36, che hanno cambiato non poco la situazione delle conoscenze sull’adolescenza di Proust, ben meno platonica e innocente di quel che si credeva; si è aggiunta l’edizione della sterminata corrispondenza dovuta a Philip Kolb 37, e sono state pubblicate molte fondamentali ricerche sui Cahiers e i Carnets, a quella data ancora mal noti. Come opera di consultazione, la biografia di Painter è ormai superata e inutilizzabile: la massa dei suoi contenuti informativi ricompare, aggiornata, emendata e integrata, nelle biografie di Tadié e di Carter. Resiste invece singolarmente al tempo l’incantesimo della sua scrittura narrativa, non eguagliato da nessuno dei successori, e ancora estremamente godibile. I titoli dei capitoli denunciano, certo, quello che è il difetto capitale dell’opera: l’indebita sovrapposizione al vissuto di elementi mutuati al romanzo. Il capitolo consacrato agli amici del Proust ventenne si intitola SaintLoup; quello dedicato a due sue amiche, Marie Nordlinger e Louisa de Mornand, Visite di Albertine; un episodio poco chiaro della sua liaison con Agostinelli diventa (come nella Prisonnière) la Desolazione al levar del sole. Adottando una démarche inversa rispetto a quella di Sainte-Beuve, che si serviva della biografia dell’autore per spiegarne e giudicarne l’opera, Painter si serve della Recherche come di uno stampo in cui cala sistematicamente tutti i dati che riesce a raccogliere sulla vita reale di Marcel Proust. Là dove lo stampo rischia di restare vuoto, perché manca materiale, il biografo supplisce con l’immaginazione. Se il baffuto Agostinelli non può aver fornito tutti i tratti di Albertine, è certamente esistita una «fanciulla di Cabourg», il cui ricordo è confluito nell’immagine della «fanciulla in fiore»; su questa fanciulla Proust ha molto probabilmente nutrito progetti matrimoniali, e così via. Eppure non è soltanto per il fascino di una narrazione che non conosce frettolosità né monotonia che l’opera di Painter, pur bisognosa di correzioni e aggiornamenti, si impone come una lettura an36

M. PROUST, Écrits de jeunesse, a cura di A. Borrel, Institut Marcel Proust International, Paris 1991; trad. it. Scritti giovanili, a cura di B. Piqué, con introduzione di A. Beretta Anguissola, Mondadori, Milano 1992. 37 Correspondance de Marcel Proust, a cura di Ph. Kolb, Plon, Paris 1970-1993, 21 voll.

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cora importante all’appassionato di Proust. È, paradossalmente, per l’elemento che più urtò i critici alla fine degli anni ’60 e che sollecitò l’impiego delle espressioni più offensive: «freudismo da bazar, psicoanalisi da quattro soldi, scientismo fuori moda». In nulla debitore dell’uso grossolano della simbologia psicoanalitica caratteristico di Milton L. Miller, il freudismo discretissimo di Painter legge la vita famigliare di Proust, il suo rapporto con il fratello e con la madre, come un tessuto di ambivalenze irrisolvibili, e di questo tessuto ci lascia intuire l’intimo legame con il sentimento tragico della vita presente nella Recherche. Straziato, come il Proust di Walter Benjamin, dalla nostalgia della «felicità prima e originaria 38», il protagonista della biografia di Painter non ha nulla della trionfalistica ed appagata immagine convenzionale del «Grande Scrittore». È un personaggio difficilmente incasellabile nel rassicurante dizionario dei luoghi comuni della critica benpensante; di questo non possiamo che continuare ad essere grati al volenteroso bibliotecario del British Museum, che volle dedicargli diciotto anni della sua vita.

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W. BENJAMIN, Per un ritratto di Proust (1929), trad. it. A. Marietti, in W. BENJAAvanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, p. 30.

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Il biografo di d’Annunzio 1 ha all’attivo una messe esorbitante di documenti. È la fama precoce dello scrittore a produrre l’eccezionale conservazione che comprende persino gli anni dell’adolescenza, poiché già il sedicenne, ancora collegiale, ha saputo far parlare di sé divenendo un «caso» letterario. Del resto il divismo sarà poi la chiave di un successo che punta a ogni costo sulla mescolanza di arte e vita secondo il dettame del più celebre degli assiomi dannunziani: «bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte». A norma di quel dettame, tutti gli eroi del narratore sono trasparenti alter ego, mentre la poesia lirica – Alcyone in testa – assume spesso la forma del diario, preludio sicuro della memorialistica (dalle Faville al Notturno, dal Libro ascetico al Libro segreto) con la quale d’Annunzio concluderà il suo annoso protagonismo. Incline dunque all’autobiografia, il primo divo dell’Italia postunitaria, che conta sul feticismo per raggiungere un pubblico ormai di massa (non c’è chi non abbia conservato anche la minima traccia che lo riguardi), soccorre inoltre il biografo attraverso vezzi e vizi che lo caratterizzano. Al di là delle censure dei benpensanti, gli amori leggendari e i debiti a catena, altrettanto leggendari, si rivelano infatti provvidenziali ai fini documentari. Basti pensare che nel vivo della passione il seduttore scrive all’innamorata di turno più di una lettera al giorno, come accade, per esempio, con Giselda Zucconi, la fidanzata fiorentina degli anni 1881-1882, o con Barbara Leoni, l’amante del lustro 1887-1892, e così di seguito con la Duse, Alessandra di Rudinì, Giuseppina Mancini, Olga Levi, Luisa Casati, Luisa Baccara… Disponiamo così di circostanziate notizie quotidiane, psicolo1 [Segnaliamo che Annamaria Andreoli adotta la grafia d’Annunzio, in linea con la maniera di firmarsi del poeta. Il resto del volume è uniformato all’uso più comune della D maiuscola (n. d. c.)]

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giche e logistiche, dove non mancano preziose informazioni intorno alle opere immancabilmente ispirate via via dalle belle Muse. E agli abnormi carteggi sentimentali si sommano quelli con i famigliari, gli amici e gli editori, che da un lato consentono controlli incrociati nel caso non infrequente che il nostro Casanova abbia mentito destreggiandosi nella schermaglia amorosa, dall’altro completano l’autoritratto, con dettagli di sicuro rilievo, qualora s’intenda ricostruire (e gli editori, in particolare, saranno all’altro capo del filo) l’autopromozione dell’oculato manager di se stesso. Quanto ai debiti, il biografo non può che plaudire alle rovinose mani bucate di d’Annunzio: chi non paga dissemina infatti innumerevoli testimonianze dei propri acquisti. Disponiamo perciò – e non è di poco conto – dei fitti elenchi dei libri che il lettore onnivoro ha avuto a credito da librai disposti a pazientare per un certo tempo. Troppo a lungo elusi, faranno poi piovere fatture su fatture, tanto più dettagliate quanto più a lungo il debito non viene onorato. Ci è allora consentito di ripercorrere il progressivo concrescere della biblioteca dannunziana, che oggi conta un lascito di trentacinquemila volumi. E specie quando, dopo cambiali e protesti, le insolvenze finiscono in tribunale, possiamo pedinare in lungo e in largo il rovinoso consumatore del superfluo, su cui si abbatterà, giocoforza, la scure del sequestro con conseguente regesto d’ufficio di tutto ciò che contengono, volta a volta, le dimore ingloriosamente abbandonate. Inutile sottolineare la rilevanza dei tribunali ai fini biografici: se al processo per adulterio aggiungiamo l’asta giudiziaria, abbiamo accumulato una documentazione di interesse incalcolabile. Così, durante il triennio napoletano (1891-1893), della travagliata vicenda amorosa con Maria Gravina, maritata con il conte Anguissola, apprendiamo ogni risvolto grazie ai verbali di cancelleria, l’escussione dei testimoni, le arringhe dell’accusa e della difesa. In quale giorno i due amanti hanno avviato la relazione? Dove – nella casa di lei, in quella di lui o in albergo – e con quale frequenza si incontrano? Per l’accertamento di circostanze minute e minutissime, sfilano sul banco processuale cameriere, vetturini, fornitori e condomini a informarci persino intorno alla marca del vino che surriscalda la già alta temperatura della passione adulterina che non per nulla raggiunge

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le «conseguenze estreme», locuzione eufemistica con la quale il cancelliere registra lo stato di gravidanza di Maria Gravina. Non diversamente, il sequestro, nel 1890, di tutto ciò che contiene il pied-à-terre romano di via Gregoriana ci permette di risalire agli albori del collezionismo dannunziano: ci resta un elenco addirittura autografo dei mobili e dei ninnoli che allora vanno in fumo. O ancora: il sequestro della Capponcina, la villa quattrocentesca nei dintorni di Firenze che d’Annunzio abita dal 1898 al 1910, non solo comporta l’inventario degli arredi di cui si precisano costi e provenienza, ma la vendita all’asta che ne deriva è oggetto di cronache dettagliatissime che invadono per intere settimane la grande stampa. E le riprese, per giunta, di una troupe cinematografica ci restituiscono qualcosa di più del nudo elenco. Va da sé che in entrambi i casi – adulterio o sequestro – entra in gioco l’interminabile corrispondenza con gli avvocati, prodighi di buoni consigli. Sempre a proposito del sequestro della Capponcina, poiché la bancarotta era nell’aria, l’avvocato Francesco Coselschi suggerisce al debitore di mettere in salvo alcuni oggetti di valore. Così non andrà disperso il Sogno di Polifilo, prezioso incunabolo, dono della Duse; verrà poi preservata l’automobile «Florentia», blindata in un hangar, mentre l’editore Leo Olschki diviene il custode dei manoscritti delle opere, debitamente elencati, intorno a cui prospera da tempo il commercio. La situazione non cambia allorché alle provvide disavventure del dandy subentrano le gesta eroiche del guerriero. Come un bagno lustrale, la Grande guerra farà un giorno rinascere d’Annunzio: indossati i panni del salvatore della Patria, il poeta-soldato è veramente il «milite noto» dell’immane conflitto di massa. Non desta sorpresa: gli eventi eccezionali che lo vedono stratega di numerose imprese lo inducono intanto a redigere quasi quotidianamente il diario che soccorre le estese relazioni allo Stato Maggiore, prodigo con lui di onorificenze. E un diario ha redatto anche il suo attendente, Italo Rossignoli, in modo che ci è dato conoscere anche i risvolti privati dell’eroe che nella sfida della morte acuisce – è scontato – le proprie propensioni erotiche. Nel cortocircuito di pubblico e privato le lettere a Olga Levi, «la mia rosa di guerra», s’intrecciano a quelle con piloti, generali o ammiragli.

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I soli Archivi del Vittoriale, la sontuosa cittadella lacustre dove d’Annunzio ha concluso i suoi giorni, custodiscono oltre un milione di lettere; e di lettere anche indebite, che dovrebbero, cioè, trovarsi presso il destinatario e non presso il mittente. Ma accade che, già celebre come divo del Parnaso, il combattente, che ha protratto la guerra, fra il 1919 e il 1920, con l’impresa fiumana, abbia aggiunto celebrità a celebrità. Chiunque possieda qualche testimonianza intorno al Comandante della «Città di vita», che tiene in scacco l’esercito italiano avendo puntati su di sé gli occhi del mondo intero («D’Annunzio c’est la lune!» dice Clemenceau del Comandante di Fiume), ne farà tesoro. Il commercio degli autografi dannunziani non è mai stato così florido come quando amici e conoscenti, segretari e amanti, nella crisi del dopoguerra, immettono sul mercato un’enorme quantità di carta scritta. Non di rado, il reduce glorioso, con il petto coperto di medaglie, si trasforma da venditore in acquirente. Nel 1922, già di stanza a Gardone, acquista, per esempio, le lettere inviate quarant’anni prima a Giselda Zucconi, che le propone all’antico innamorato dicendosi caduta in povertà. Non acquisterà invece quelle inviate a Barbara Leoni, forse perché ormai – siamo nel 1935 – il Casanova in disarmo ha sin troppo allargato i cordoni della borsa: una beffarda punizione alla quale si rifiuta di sottostare. Non si deve comunque credere che l’abbondanza dei documenti sia di per sé giovevole al biografo. A parte l’arduo problema della selezione, il pregiudizio ha spesso inquinato la ricerca fra una quantità francamente scoraggiante. Quando si considera d’Annunzio un esteta eclettico e superficiale, orecchiante delle mode e plagiario rapace, molte vie di reperimento risultano precluse. Secondo la maggior parte dei biografi, troppo inclini ad aderire alla leggenda sulla quale lo scrittore stesso ha fondato il proprio successo di massa, il nostro viveur non avrebbe frequentato che salotti mondani e belle dame, sperperando il tempo negli sport e nel consumo del superfluo. In realtà, d’Annunzio ha frequentato, e scambiato una corrispondenza ancor oggi in gran parte negletta con bibliotecari, archivisti e soprintendenti, «sgobbando» nello studio «più del gobbo Leopardi», come ama celiare. Non c’è appunto erudito che il poeta o il prosatore o il drammaturgo non abbia interrogato serratamente,

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specie accingendosi al conio linguistico falso-antico che caratterizza la sua opera, dalle Laudi in avanti. Le chiome di Ermione auliscono, e non «profumano», nella celeberrima Pioggia nel pineto, perché il poeta ha recuperato la nostra grande poesia delle Origini grazie a «consulenti» d’eccezione quali Francesco Novati o Angelo Solerti, senza i quali mai avrebbe composto pièces antiquarie come Francesca da Rimini o il Martyre de Saint Sébastien, quest’ultimo nella lingua d’oïl lodata da Lanson. Oltremodo significativi sono gli scambi epistolari con i bibliotecari. Attraverso il dialogo con Annibale Tenneroni, in forze alla Nazionale di Roma, sodale strettissimo dagli anni Ottanta fino alla guerra, possiamo ricostruire le letture di d’Annunzio quasi giorno dopo giorno. Non solo, quando si tratta di libri rari, esclusi dal prestito, il solerte amico ne ricopia interi capitoli. Ma con il crescere della fama i bibliotecari saranno disposti a fare per lui eccezione, corrispondendo a ogni sua richiesta. Così il direttore della Marucelliana e Laurenziana di Firenze, della Marciana di Venezia, dell’Ambrosiana di Milano, per i quali a variare saranno solo le formule captatorie che d’Annunzio conia con inventiva inesauribile: «Aiutatore cortesissimo», «Fratellevole soccorritore», «Generoso custode»… Per non dire poi delle relazioni intime con Corrado Ricci e Giacomo Boni, l’uno soprintendente e l’altro archeologo (relazioni d’obbligo per un esteta), e conseguente dialogo fittissimo intorno a restauri e recuperi nell’Italia che va elaborando la prima legiferazione sui beni culturali e paesaggistici, anche le amicizie in ambito religioso appaiono tanto remote dal peccatore incallito da non essere neppure menzionate. Al contrario, nell’ambito del francescanesimo che per d’Annunzio è tutt’altro che una posa, alla base com’è della sua ideologia politica, del «socialismo» umanitario che ha un faro nel «poverello di Assisi». Mentre la biblioteca del Vittoriale è attrezzatissima quando si tratta di san Francesco, nel 1924, Padre Pio da Pietralcina, le cui stimmate gli hanno procurato allora non poche contestazioni da parte del Sant’Uffizio, viene raggiunto dal d’Annunzio impareggiabile scopritore di talenti. La lettera con la quale lo invita a raggiungerlo al Vittoriale la dice lunga sugli umori del Vate durante i primi anni del trionfo fascista, all’indomani del delitto Matteotti. Si sente emarginato, escluso dalle leve del comando che gli spettereb-

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be per i meriti di guerra e per la fede patriottica in cui non è secondo a nessuno. Attraverso relazioni intrecciate durante il soggiorno del 1917 nella «Puglia piana» (da Gioia del Colle è appunto decollato il raid su Cattaro), ha conosciuto Padre Pio al quale si rivolge in questi termini: So da quante favole mondane, o stupide o perfide, sia offuscato l’ardore verace del mio spirito. E per ciò m’è testimonianza della tua purità e del tuo acume di Veggente l’aver tu consentito a visitarmi nel mio Eremo, l’aver tu consentito a un colloquio fraterno con colui che non cessa di cercare coraggiosamente sé medesimo. Caterina la Senese mi ha insegnato a «gustare» le anime. Già conosco il pregio della tua anima, Padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà come quando dall’inconsueto innesto prevedeva il fiore e il frutto inconsueti (28 novembre 1924) 2.

Eccezionale, dunque, non solo per quantità, la documentazione intorno alla vita di d’Annunzio emerge imponente quando si sgombra l’indagine dai pregiudizi. È questa la prima operazione del biografo, al quale spetta il compito ingrato di deludere il lettore avvezzo alle leggende così diffuse e annose che mal sopportano la smentita. Basti pensare, che proprio il pregiudizio sembra aver impedito a tutt’oggi la ricostruzione minuta dei rapporti tra d’Annunzio e Mussolini, ricostruzione cruciale non solo per la biografia del Poeta ma per la storia del Novecento.

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Lettera edita in A. ANDREOLI, D’Annunzio, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 136-137.

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Che cosa è che spinge i biografi a scrivere biografie, e noi a leggerle? Il desiderio di scorgere il daimon, non il signor Gillespie o il signor Waller, bensì Dizzy e Fats. James Hillman La biografia è una forma più alta di finzione. Peter Costello Quanto ai biografi, che si arrangino… Mi prefiguro con gioia le cantonate che prenderanno. Sigmund Freud Non si preoccupi della mia anima. Pensi piuttosto a cogliere bene la mia cravatta. James Joyce

Fra logica, epistemologia e narratologia Negli anni ’70 del secolo scorso si sviluppò un dibattito sullo statuto logico-semantico del discorso di finzione. Il primo e più rilevante contributo di quel dibattito fu un articolo di John Searle, dove il linguista americano sosteneva che sia chi compie asserzioni vere nel discorso serio che chi compie asserzioni fittizie nel discorso di finzione compie l’identico atto linguistico di fare asserzioni. La differenza logica che passa fra storia e finzione sarebbe solo nell’intenzione illocutiva dell’emittente: chi compie asserzioni fittizie in un testo narrativo di finzione, a differenza di chi compie asserzioni vere in un testo storico, giornalistico, biografico, autobiografico, ecc., secondo Searle fa mo-

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stra di fare asserzioni, anche se non lo fa con l’intento di ingannare. Naturalmente, le due situazioni differiscono anche dal punto di vista pragmatico: mentre nel discorso di finzione sono sospesi gli impegni e le regole di sincerità, nel discorso vero quelle regole e quegli impegni non possono essere elusi. Lo statuto pragmatico della finzione, insomma, garantisce all’emittente (esterno) una immunità non consentita dallo statuto pragmatico del discorso vero 1. Negli stessi anni alcuni teorici della storiografia, in scritti ormai classici, si soffermavano sul «fare storia» e sulle peculiarità discorsive del testo storico 2. Questi scritti privilegiavano una prospettiva epistemologica ma aprivano anche su considerazioni di tipo narratologico, segnalando l’aspirazione del discorso storico a organizzarsi, dal punto di vista narrativo e retorico, in modo non diverso dal discorso di finzione. Nonostante questa apertura, tuttavia, questi scritti ignoravano del tutto il contemporaneo dibattito sullo statuto logico del discorso di finzione, mancando dunque di tentare una connessione fra le due facce della questione. La narratologia, infine, ha quasi del tutto ignorato il problema fino alla pubblicazione, nel 1991, di un libro di Genette che include un capitolo intitolato Racconto di finzione, racconto fattuale 3. Riprendendo il saggio di Searle, Genette discute il problema dello statuto narratologico (ma anche logico) del discorso vero sulla base delle categorie teorizzate nel suo Discorso del racconto per concludere che ordine, durata e frequenza non presentano differenze nei due tipi di discorso, mentre i luoghi della divergenza narratologica sarebbero il modo e la voce: il modo per il fatto che «soltanto 1 J. SEARLE, The Logical Status of Fictional Discourse, in «New Literary History» 14, 1975; trad. it. in «Versus», 19-20, 1978, pp. 148-162. Searle aggiunge che ciò che rende possibile il far mostra di del discorso di finzione è la sospensione delle regole che correlano parole ed enunciati al mondo, sospensione che abilita «il parlante a usare parole col loro significato ordinario senza assolvere agli impegni normalmente richiesti da questi significati» (ivi, p. 156). 2 Cfr. P. VEYNE, Comment on écrit l’histoire, Éditions du Seuil, Paris 1971; G. R. ELTON, The Practice of History, T. Y. Crowell, New York 1970; e soprattutto H. WHITE, Metahistory, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1973. 3 G. GENETTE, Fiction et diction, Éditions du Seuil, Paris 1991; trad. it. Finzione e dizione, Pratiche, Parma 1994.

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la finzione narrativa ci dà un accesso diretto alla soggettività d’altri» in quanto «non si può indovinare con certezza che quel che si inventa» 4; per quanto riguarda la voce, Genette afferma senz’altro che l’emittente del testo storico coincide con l’autore anagrafico e dunque, traducendo le riflessioni di Searle in termini narratologici, giunge alla medesima conclusione pragmatica: il racconto fattuale implica «l’adesione seria dell’autore a un racconto di cui assume la veridicità» 5. In fin dei conti, Genette concede al discorso storico una limitata libertà a organizzarsi narrativamente come il discorso di finzione ma da una parte gli nega la possibilità della introspezione e dunque la modalità dell’onniscienza e dall’altra lo vincola senza eccezioni a un assoluto impegno di verità 6. 4

Ivi, pp. 62-63. Ivi, p. 70. Genette distingue, per la verità un po’ frettolosamente, casi in cui A=N e casi in A≠ N, e pone nella prima categoria il racconto storico, autobiografico e biografico. A me pare, tuttavia, che il quadro enunciazionale da lui delineato non sia privo di problemi. Come ho sostenuto altrove, in un’opera di finzione, un Autore delega una «figura» interna al testo a compiere asserti e atti di riferimento. Ma mentre l’Autore sa che gli atti linguistici che fa compiere al Narratore non sono veri (non hanno, cioè, un riferimento nel proprio mondo), il Narratore, rispetto all’universo della storia, al di fuori della quale non ha alcuna esistenza, non partecipa alla finzione, anzi dice la pura verità e compie riferimenti pieni e, rispetto a quell’universo, verificabili (a meno che non dichiari esplicitamente di dire il falso, che sarà comunque falso sempre rispetto al mondo possibile della storia che narra). Inoltre, dal punto di vista narratologico, lo sdoppiamento degli emittenti sembra doversi applicare anche nel caso del racconto di fatti veri. È, semmai, rispetto al mondo referenziale dell’autore, e dunque da un punto di vista pragmatico, che la responsabilità degli emittenti non può, nel caso del racconto vero, essere scissa. Cfr., in proposito, P. PUGLIATTI, Raccontare la storia, in L. INNOCENTI, F. MARUCCI e P. PUGLIATTI (a cura di), Semeia. Itinerari per Marcello Pagnini, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 39-49. Certo, l’Autore del testo vero può consentire che l’emittente del suo testo dica cose non sufficientemente provate o che occulti percorsi di senso o che serializzi il racconto in modo tendenzioso o addirittura che dica cose che sa non vere; e tuttavia sa che tali manovre hanno un effetto pragmatico al di fuori del testo; in sede giudiziaria o anche soltanto in sede critica non potrà far valere il principio narratologico che scinde la responsabilità di Flaubert da quella di Emma Bovary o la responsabilità di Tolstoj da quella di Anna Karénina. 6 Non pare a me, tuttavia, che la riflessione sia proseguita e gli ambiti che pareva volessero farsene carico – quello logico-semantico, quello epistemologico delle teorie della storiografia e quello narratologico – hanno ripreso ad ignorarsi e ad ignorare un terreno da molti punti di vista ricco di potenzialità. D’altronde, la stes5

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Il dialogo a distanza fra Searle e Genette conferma quella che pare essere un’opinione dominante: e cioè che mentre lo statuto del racconto di cose inventate è considerato ambiguo, quello del racconto di cose vere è considerato scevro da problematicità. La conclusione di Genette, infatti, come prima quella di Searle, lascia il problema dello statuto logico-semantico del discorso vero appiattito sul principio di referenzialità: il valore di verità del discorso storico, in altri termini, avrebbe una implicita (e indiscussa) conferma nell’esistenza nel mondo degli enti nominati e degli eventi raccontati. Ma, pur ammettendo che questa conclusione risolva tutte le perplessità su quella categoria di testi, per la verità assai variegata, che chiamiamo «storia», non pare che lo stesso possa dirsi dell’ibrido della biografia, una forma che continuamente tende a superare i confini della storia per entrare nel dominio della finzione. E tutto sommato non è vero ciò che Genette sostiene a proposito della categoria di «modo», e cioè che il racconto di cose vere esclude «l’accesso diretto alla soggettività dei personaggi» 7. Al contrario, uno degli aspetti che più avvicinano il genere biografico alla condizione del romanzo è proprio il fatto che l’elemento cardine della biografia è il suo organizzarsi intorno alla categoria di personaggio; un fatto che tende ad avallare la tentazione del voyeurismo introspettivo, quella tentazione che, come ha detto Nabokov, fa del biografo uno «psicoplagiario» 8.

L’impegno di erudizione Vi è, tuttavia, da considerare una importante particolarità che caratterizza il racconto di storie vere rispetto al racconto di finzione, sa narratologia, almeno nella sua forma classica (quella genettiana, per intenderci), ha oggi perso credito e dunque anche i problemi che fino a qualche decennio fa sembravano essere sul terreno si sono dissolti in favore di interventi di natura quasi-filosofica che ne mettono in discussione categorie che sembravano da tempo assestate, proponendo in fin dei conti una riflessione ampiamente autoreferenziale. 7 Almeno in assenza di una giustificazione, senza la quale, precisa Genette, il lettore sarebbe autorizzato a pensare: «Che ne sa?» (G. GENETTE, Finzione e dizione, cit., pp. 62-63). 8 L. EDEL, Writing Lives. Principia Biographica, W. W. Norton, New York 1984, p. 21.

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particolarità che investe sia il testo storico che il testo biografico. Il discorso storico è caratterizzato da peculiarità di metodo che funzionano pragmaticamente come manovre veridittive. Lo storico e il biografo devono non soltanto «dire il vero», cioè asserire cose che hanno o hanno avuto un referente nella realtà, ma anche dimostrare che ciò che dicono è vero. E la dimostrazione passa attraverso l’uso di certi gesti che costituiscono il «metodo storico», quei gesti che Le Goff raduna nel concetto di «obbligo di erudizione». Dice Le Goff che non si ha storia senza erudizione, cioè senza il ricorso a quegli strumenti che ci consentono il superamento del «limite del mezzo secolo o del secolo raggiunto dai testimoni oculari e auricolari e dalla trasmissione orale del passato» 9. L’erudizione che rende la storia scientifica e il racconto affidabile, dunque, è quella che privilegia il documento e diffida della testimonianza. Lo storico deve mostrare nel testo la propria attività di ricerca che, testualmente, si configura come ricorso al documento 10. È proprio a partire dall’impegno di erudizione che esaminerò brevemente tre biografie di Joyce scelte per la loro dislocazione temporale e dunque per il diverso metodo adottato sia nella raccolta di documenti che nel modo in cui il personaggio è delineato. L’idea centrale della mia riflessione è che i tre testi illustrano un percorso esemplare della scrittura storica: a mano a mano che ci si allontana dagli eventi da raccontare si assottiglia il ricorso alla testimonianza (diretta o indiretta) e si impone maggiormente il ricorso al documento; correlativamente, come si vedrà, col crescere della distanza temporale si accentua la modalità descrittiva a spese di quella narrativa, si ampliano i contorni e l’informazione erudita che riguarda i contesti, dunque gli indizi e le prove circostanziali; si infittiscono, insomma, gli elementi di una storia indiretta e cartacea, che punta più sui documenti impersonali che sulla testimonianza personale. Questo percorso illustra quello che indicherei come «il paradosso del testimone 9 J. LE GOFF, Prefazione a Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982, p. XI [pp. IX-XVIII]. Il volume raccoglie i saggi apparsi nella Enciclopedia Einaudi preceduti da una introduzione originale. 10 Va da sé che anche un narratore di finzione può raccogliere testimonianze e riprodurre documenti. Può farlo, appunto: non è, a differenza dello storico, obbligato a farlo.

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oculare», che è ugualmente operante nel testo storico, in narrativa e perfino nelle corti di giustizia, dove il testimone oculare dei fatti propone ciò che è stato definito «rappresentazione debole», contro la «rappresentazione forte» costituita dalla prova documentale 11. Insomma, la strategia del testimone oculare, una delle più parziali e inaffidabili nel racconto di finzione, in quello storico o biografico produce, proprio perché parziale e inaffidabile, la modalità testuale che più si avvicina alla narrativa di finzione.

1939: la biografia «in presa diretta» e il paradosso del testimone oculare Bisogna morire nel corpo perché nasca lo scrittore. Michel de Certeau

James Joyce, dello scrittore americano Herbert Gorman, fu commissionato dallo stesso Joyce e fu pubblicato nel 1939, l’anno della pubblicazione di Finnegans Wake. Alcune informazioni paratestuali fungono da elementi autenticanti del testo: negli «Acknowledgements» che chiudono il volume troviamo un ringraziamento a Joyce, in questi termini: «Allo stesso James Joyce sono grato per la pazienza con la quale ha risposto alle mie domande, per la sua tranquilla indifferenza nei confronti delle mie deduzioni e delle mie ipotesi e per il permesso di pubblicare suoi scritti inediti o rari» 12. La biografia si 11

Jeanne Clegg discute il tema del testimone oculare nella narrativa di Defoe in connessione con l’evoluzione dei metodi di prova impiegati nelle corti di giustizia inglesi nell’arco del Settecento, dove alla progressiva svalutazione della affidabilità della testimonianza seguì l’assunzione della prova di fatto. Cfr. J. CLEGG, Evidence and Eye-Witness in Defoe, in «Textus», XI, 2, 1998, pp. 261-288. Le espressioni weak representation e strong representation sono tratte da A. WELSH, Strong Representations. Narrative and Circumstantial Evidence in England, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1992. Di Clegg si veda anche, su un tema analogo, Reforming Informing in the Long Eighteenth Century, in «Textus», XVII, 2, 2004, pp. 337-355. 12 H. GORMAN, James Joyce, Farrar & Rinehart, New York 1939, p. 348; corsivi miei. Qui e altrove, se non altrimenti specificato, le traduzioni sono mie.

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conclude con due frasi in corsivo e una data: «È impossibile mettere la parola fine alla biografia di un uomo vivente. Dunque, questo libro si interrompe qua. 15 novembre 1939» 13. Nel gennaio del 1941, si lavora, in Inghilterra, ad una ristampa della biografia di Gorman. Il 13 dello stesso mese Joyce muore a Zurigo. L’iscrizione sulla non finitezza del testo che conclude il racconto rimane ma vengono aggiunti due elementi: un sottotitolo che recita A Definitive Biography e una nota dell’editore: «James Joyce è morto a Zurigo il 13 gennaio del 1941. Questa biografia, che è stata approvata da Joyce, è stata scritta nel 1939. Questa nota è stata aggiunta all’ultimo momento, a stampa quasi completata. Gennaio 1941» 14. Le due manovre aggiunte servono evidentemente come dichiarazioni di autenticità. Ci dicono esplicitamente: questo libro non è più un testo completabile ma fino al punto in cui è stato interrotto è definitivo e lo è perché è stato approvato da Joyce. Il suo valore di verità è, dunque, indubitabile. Come vedremo, le cose non stanno per niente in questo modo. È noto che Gorman lavorò a stretto contatto con Joyce e che ebbe occasione di parlargli e di corrispondere con lui. Si potrebbe pensare, quindi, che egli sia il più «obiettivo» dei biografi dello scrittore. Eppure è noto che Joyce determinò aggiunte, impose omissioni e dettò interpretazioni precise anche contrarie a ciò che in seguito sarà considerata la verità dei fatti (pretese, ad esempio, che Gorman indicasse sempre Nora come «moglie» e impose un ritratto fortemente idealizzato del padre) 15. La sorveglianza che esercitò sul testo si spinse fino alla correzione delle bozze della prima edizione perché nessun particolare potesse sfuggirgli. Quanto, poi, a ciò che 13

Ivi, p. 347. H. GORMAN, James Joyce. A Definitive Biography, The Bodley Head, London 1941, p. non numerata. Nel seguito di questo articolo le citazioni sono tratte da quest’ultima edizione. 15 Richard Ellmann, il secondo biografo di Joyce, ebbe modo di consultare le carte di Gorman, ora custodite nella Croessmann Collection della Southern Illinois University. Nella sua biografia, Ellmann pubblicò una lettera a Gorman, datata 6 giugno del 1939, nella quale si elencano una serie di modifiche che Joyce impone al suo biografo, pena il mancato consenso alla stampa. Ellmann commenta e aggiunge ulteriori informazioni nelle pagine successive. R. ELLMANN, James Joyce, Oxford University Press, Oxford 1983 (Zürich 1959), pp. 723-726. 14

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Gorman indica nei ringraziamenti come «deduzioni» e «ipotesi», il testo ne è letteralmente costellato, così come è disseminato di espressioni dubitative che appaiono spesso anche in contesti in cui la testimonianza di Joyce avrebbe potuto facilmente risolvere il dubbio. Gorman, ad esempio, parla della vita matrimoniale di John Stanislaus Joyce e Mary Jane Murray come di «un matrimonio dal quale nacquero sedici o diciassette figli» 16; ancora più sorprendente, Gorman lascia un punto interrogativo su un elemento che, se risolto, avrebbe sciolto un problema vitale nello studio dell’avantesto di Ulysses, e cioè il modo in cui Joyce assemblò le moltissime note e gli appunti disseminandoli poi nel testo. Su questo punto, Gorman si chiede, non solo distaccandosi dall’oggetto della propria scrittura ma anche inventando una distanza temporale fittizia per giustificare l’impossibilità di risolvere il dubbio: «Come sia riuscito ad assemblare le moltissime annotazioni è un vero rompicapo poiché il metodo apparentemente casuale con cui compilava gli indici e li incrociava sembra impossibile per uno scrittore che aveva così seri problemi di vista» 17. Le espressioni che indicano una distanza fittizia dall’oggetto della biografia sono, d’altra parte, frequentissime. Alludendo ad alcuni esperimenti poetici giovanili Gorman dice che i quaderni in cui erano raccolti «sembra che siano andati persi negli anni che seguirono» 18. Il verbo speculate occorre assai frequentemente, in contesti in cui la supposizione avrebbe potuto essere facilmente risolta («è interessante avanzare congetture sui motivi del suo interesse per Ben Jonson») 19; assai frequenti sono, poi, le espressioni dubitative, manovre tipiche della modalità narrativa del testimone oculare anche nei testi di finzione quando il narratore si spinge a indovinare gli stati d’animo dei personaggi: «Quanto Joyce sapesse o si curasse di tutto ciò è un mistero»; «Mentre il treno si allontanava sbuffando dalla stazione di Zurigo Joyce deve aver sospirato un po’»; «deve aver capito quanto inutile fosse la sua continua lotta contro i Filistei»; «quali saranno state le sue emozioni per quella felice liberazione?»; 16 17 18 19

H. GORMAN, James Joyce. A Definitive Biography, cit., p. 11. Ivi, p. 236. Ivi, p. 68. Ivi, p. 94.

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«È possibile che egli si sia chiesto quale sarebbe stato il suo destino negli anni a venire» 20. In questi casi Gorman sembra percepire la necessità di smettere la veste di testimone quasi-oculare, forse intuendo la maggiore autorevolezza del racconto che pone il suo oggetto a distanza per meglio comprenderlo 21. Al contrario, le notazioni psicologiche sono presentate con la modalità narrativa dell’onniscienza. All’età di 11 anni Joyce è descritto come «un fanciullo piuttosto serio e attento […] che si adeguava con impazienza all’obiettivo ineludibile della comprensione» 22; il Joyce adolescente è descritto in intima lotta fra le pulsioni del corpo e gli insegnamenti dei precettori gesuiti: La pubertà giocò un ruolo importante nelle battaglie mentali di questo periodo. Con il risveglio del corpo mutò tutto il quadro della vita e il giovane si trovò a dover affrontare una terribile lotta di riorientamento in una vita in cui tutti i valori erano cambiati. Gli ammonimenti dei precettori acquistarono un significato più profondo mentre il corpo e la mente si impegnavano in una lotta inaspettata 23.

Mentre durante l’anno trascorso a Roma, Gorman si spinge a immaginare che «la sensazione di soffocare nel vuoto lo ossessionava» 24. Alcuni elementi sono presentati come derivati da fonti testimoniali, ma il testimone non è quasi mai menzionato. Anche in questi casi, Gorman sembra frapporre una certa distanza, dando al lettore l’impressione di riferire fatti non verificabili. Le espressioni che introducono questi frammenti sono del tipo: «Esistono ricordi fuggevoli di Joyce, immagini rimaste nella memoria di chi lo conobbe a quel tempo»; «Esiste un’immagine di lui»; «quelli che lo ricordano»; «veniva spesso visto»; «Amici di questo periodo affermano»; «uno di loro ha un ricordo di Joyce» 25, ecc. In questi casi, l’as20

Ivi, rispettivamente pp. 106, 130, 217, 245 e 287. Vi sono, infatti, momenti in cui è possibile leggere fra le righe un qualche suggerimento di Joyce, che però non è mai indicato come la fonte delle informazioni. 22 H. GORMAN, James Joyce. A Definitive Biography, cit., pp. 40-41. 23 Ivi, p. 47. 24 Ivi, p. 187. 25 Ivi, rispettivamente pp. 63, 113, 48, 237, 280 e 280-281. 21

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senza della fonte testimoniale rende la rappresentazione ancora più debole, mentre rafforza il carattere congetturale che in altri casi è esplicitamente dichiarato. Ma la manovra più singolare, e quella che più avvicina il testo di Gorman alla condizione del romanzo, è il brano che conclude la biografia: la scena immaginata (e dichiarata come tale) di una serata in casa Joyce a Parigi, dove gli amici si sono riuniti per festeggiare il compleanno dello scrittore, il 2 febbraio del 1939. La scena, fortemente idealizzata, descrive un’atmosfera di perfetto agio borghese soffuso, discreto e privo di ostentazione, in toni che nessun biografo dopo la morte di Joyce userà e con notazioni palesemente ricercate (e forse suggerite dallo stesso Joyce) per completare il ritratto dell’artista maturo come perfetto gentiluomo i cui tratti distintivi sembrano essere la sobrietà e la modestia. È qui, nel frammento meno vero e verificabile, e anche meno verosimile, che per la prima volta il biografo rende omaggio a Nora, finora quasi del tutto ignorata, che finalmente può indicare senza mentire come «Nora Joyce», al tempo stesso disegnando fra lei e il marito l’improbabile ritratto di un’unione senza ombre: Nora Joyce, lo sguardo degli occhi azzurri rivolto agli ospiti seduti dalla sua parte del tavolo, i capelli grigi acconciati con cura che le conferiscono un aspetto quasi regale, il contegno impeccabile e sicuro, spira intorno a sé una gaiezza che a tratti suscita la curiosità del marito. Lui allora tende la testa verso l’altra parte del tavolo e chiede: «Che cosa ha detto?» e sorride ancor prima di ricevere la risposta 26.

La conclusione della serata, che chiude anche la biografia, ha un tono non meno falso: È passata mezzanotte e il momento di separarsi (ritardato il più possibile) è arrivato. Joyce è in piedi accanto alla porta e augura la buona notte ai suoi ospiti che, avviandosi giù per le scale e verso la notte, gettano ancora uno sguardo indietro e vedono, ferma al di sopra di loro, la figura alta e snella di un grande gentiluomo e di un grande scrittore 27.

26 27

Ivi, p. 345. Ivi, p. 347.

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1959: l’obbligo di erudizione nella grande biografia di Richard Ellmann L’idea di riscrivere la biografia di Joyce si presentò a Ellmann nel 1947, quando la moglie di W. B. Yeats gli mostrò uno scritto inedito in cui il marito raccontava il suo primo incontro con Joyce 28. L’idea iniziale, dunque, nasce da un’intervista e da un documento o meglio da ciò che Ellmann considera un documento. Si tratta, certo, di una fonte scritta, e per di più di una fonte connotata da un fascino particolare e che presentava intanto la possibilità di riscrivere Joyce attraverso i grandi scrittori che lo avevano incontrato. E tuttavia, il documento che dà l’avvio alla biografia di Ellmann non è qualitativamente più attendibile della testimonianza orale su cui si fonda gran parte della biografia di Gorman. Uno degli equivoci che attraversano il libro di Ellmann è anzi proprio quello di aver presentato come erudizione la «rappresentazione debole» della testimonianza, in un momento, fra l’altro, in cui il mito era già in parte assestato e dunque era assai probabile che le narrazioni – specie quelle degli scrittori contemporanei – al mito si conformassero. L’apparato «testimoniale» di Ellmann è certamente impressionante. In due successive visite in Europa (nel 1953 e nel 1954) egli raccoglie una quantità imponente di interviste raggiungendo forse tutte le persone ancora vive che avevano conosciuto Joyce, dal fratello Stanislaus alle sorelle al figlio Giorgio ai parenti di Nora agli artisti, scrittori, critici e intellettuali che lo avevano visto all’opera e spesso aiutato nelle situazioni più diverse, e infine agli amici che a Trieste, a Zurigo e a Parigi lo avevano accompagnato fin nelle ore piccole in giro per i bar e i ristoranti o erano stati, come Frank Budgen, testimoni della tormentosa stesura di Ulysses 29. Svevo e Dujardin non ci sono più, ma Ellmann intervista le mogli, che forniscono vo28 R. ELLMANN, James Joyce, cit., p. IX. Ellmann dice anche di aver cominciato a lavorare sistematicamente alla sua biografia solo nel ’52 (ibidem), completandola nel ’59. È singolare che il biografo non faccia mai notare di aver impiegato per scrivere il suo libro lo stesso tempo che Joyce impiegò per scrivere Ulysses. 29 Cfr. F. BUDGEN, James Joyce and the Making of «Ulysses», Indiana University Press, Bloomington 1960 (New York 1934).

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lentieri testimonianze per lo più di seconda mano, forse più interessate al destino letterario dei mariti che a quello dello stravagante dublinese. Ha inoltre a disposizione il corpus delle lettere di Joyce e quelle a lui indirizzate fino ad allora conosciuto, di cui qualche anno dopo curerà la pubblicazione 30. Da Stanislaus Ellmann raccoglie i fogli di My Brother’s Keeper, la biografia di Joyce o piuttosto l’autobiografia all’ombra del fratello, lavoro non finito che il critico pubblicherà dopo la morte di Stanny nel 1958 31; e raccoglie anche da lui il prezioso quaderno dell’inedito Giacomo Joyce che pubblicherà nel ’68 32. Nelle due successive edizioni del libro Ellmann ringrazia una cinquantina di persone da lui intervistate o che, proponendosi come «imprenditore» della sua stessa opera, chiese ad altri di intervistare. Raccoglie così una quantità impressionante di ciò che considera senza esitazione «fatti», proponendoli al lettore con una modalità retorica della certezza assai più perentoria della modalità dubitativa ed esitante di Gorman. Ma ci sono altre trappole in cui Ellmann tende a cadere: la prima e più rischiosa è l’aver desunto fatti biografici dalle opere narrative di Joyce. Si tratta, certo, di una tentazione assai frequente nel lettore di Joyce, specie quando ci si imbatte in A Portrait of the Artist as a Young Man nella Telemachia o nel Giacomo Joyce. Ma Ellmann accompagna l’identificazione con un errore narratologico banale: quello, cioè, di confondere il soggetto che parla nel testo con l’autore. 30

Parte delle lettere di Joyce erano state pubblicate a cura di Stuart Gilbert (Letters of James Joyce, Faber and Faber, London 1957). Lo stesso anno Ellmann cura la pubblicazione di un volume di Selected Letters (The Viking Press, New York 1957) e anni dopo ne curerà una ulteriore raccolta in due volumi (Letters of James Joyce, Faber and Faber, London 1966). Sembra che a tutt’oggi più di mille lettere di Joyce rimangano ancora inedite. 31 S. JOYCE, My Brother’s Keeper, The Viking Press, New York 1958, fu pubblicato a cura di Elmann con una Prefazione di T. S. Eliot. Il libro, che si interrompe al racconto del ventiduesimo anno di età di James, ha il valore di una indagine sugli effetti – per lo più disastrosi – della personalità di Joyce sulla psiche del fratello e sulla sua stessa vita; al tempo stesso, come dice T. S. Eliot nella Prefazione, «lo stesso Stanislaus, in questo libro, diventa ai nostri occhi interessante quanto il fratello» (p. VIII). 32 Giacomo Joyce by James Joyce, a cura di R. Ellmann, The Viking Press, New York 1968. Opportunamente, date le peculiarità dell’organizzazione grafica del manoscritto, Ellmann ne pubblica riproduzione in facsimile.

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Non a caso, la confusione avviene soprattutto nel commento al Giacomo Joyce, forse la più enigmatica delle opere joyciane e quella sulla quale di più si è esercitato il biografismo voyeuristico nel tentativo di individuare la donna triestina oggetto di un innamoramento da parte del soggetto che parla nel testo 33. Assai spesso, inoltre, Ellmann tende a dare una colorazione di verità a ciò che è soltanto verosimile, come nelle molte occasioni in cui traduce in puntigliosi dialoghi le reminiscenze delle persone intervistate 34. Ma soprattutto la biografia non riesce a mantenere ciò che promette. La prima, felice, frase dell’introduzione («Dobbiamo ancora imparare ad essere contemporanei di Joyce») è seguita da una impegnativa dichiarazione di intenti: Questo libro si addentra nella vita di Joyce per metterne in rilievo lo stretto, continuo rapporto fra avvenimento esteriore e attività letteraria. La vita di un artista, ma soprattutto la vita di Joyce, differisce da quella degli altri in quanto gli eventi, nella misura in cui si impongono alla sua attenzione, divengono fonte d’arte 35.

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R. ELLMANN, James Joyce, cit., pp. 344-345. A differenza di quanto avviene per tutte le altre opere di Joyce, la bibliografia critica sul Giacomo Joyce è assai ridotta e spesso rivolta agli spunti autobiografici. Fanno eccezione i seguenti articoli: R. BROWN, Eros and Apposition: «Giacomo Joyce», in «Joyce Studies Annual», 1990, pp. 131-141; V. MAHAFFEY, «Giacomo Joyce», in Z. BOWEN e J. F. CARENS (a cura di), A Companion to Joyce Studies, Greenwood Press, Westport (Conn.) 1984, pp. 387-420; D. PALLOTTI, «An Order in Every Way Appropriate». The Spatial Arrangement of «Giacomo Joyce», in P. PUGLIATTI (a cura di), Mnema. Per Lino Falzon Santucci, Armando Siciliano, Messina 1997, pp. 293-316. Al Giacomo Joyce fu dedicata una intera sessione del XVI James Joyce Symposium (Roma, 14-20 giugno 1998), con contributi di P. Pugliatti, E. Frattaroli, G. Martella e D. Pallotti. Cfr. The Jamesy Session: «Giacomo Joyce», in F. RUGGIERI (a cura di), Classic Joyce, «Joyce Studies in Italy», 6, Bulzoni, Roma 1999, pp. 291-352. 34 Cfr., ad esempio, alle pp. 382-383 le battute di dialogo desunte da conversazioni con alcuni ex-allievi triestini di Joyce nonché da un’intervista a Livia Svevo. John McCourt, l’ultimo in ordine di tempo dei biografi di Joyce, elenca i rilievi mossi alla biografia di Ellmann fin dal 1959 da eminenti studiosi quali Hugh Kenner e William Empson (J. MCCOURT, James Joyce: gli anni di Bloom, Mondadori, Milano 2004, p. 6; I edizione: The Years of Bloom. James Joyce in Trieste 1904-1920, Lilliput Press, Dublin 2000). L’edizione italiana, dalla quale qui e altrove cito, è stata ampliata con un capitolo iniziale su Gli anni di Dublino e un capitolo finale intitolato Autunno a Parigi. 35 R. ELLMANN, James Joyce, Feltrinelli, Milano 1964, p. 13. Qui e altrove i brani citati in italiano sono tolti da questa traduzione.

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Ma è proprio nell’obiettivo di far interagire la vita e l’opera e più ancora la vita e la poetica che la biografia di Ellmann, almeno in gran parte, fallisce. Sommerso dalla enorme mole delle notizie raccolte, il critico americano si abbandona alla narrazione del dettaglio aneddotico spesso assumendo l’opera a testimone di eventi o, peggio, deducendo eventi e notizie da particolari delle opere, un procedimento d’altra parte ampiamente impiegato anche da Gorman. Gorman aveva scritto al suo editore americano: «Non scriverò mai più una biografia di una persona vivente. È un lavoro troppo difficile e ingrato» 36. Ellmann non è più condizionato dagli interventi di Joyce né dalla opacità creata dalla sua stessa presenza; si trova nella condizione quasi ideale per poter trasformare il suo oggetto in scrittura; quella condizione che Michel de Certeau discute acutamente nel suo L’Écriture de l’histoire descrivendo la storia come gesto che esclude la corporeità dell’altro e dunque come gesto che specificamente pone a distanza per comprendere 37; al contrario, l’impegno di Ellmann va proprio nella direzione opposta, quella della ricerca della corporeità e della presentificazione dell’altro. Piuttosto che distanziare il suo oggetto (come in un certo senso aveva tentato di fare Gorman) Ellmann tenta di avvicinarlo facendolo, per così dire, «rivivere». Per di più, al contrario di quanto aveva tentato di fare Gorman, Ellmann presenta se stesso come testimone: l’ultimo testimone, forse, di persone e oggetti ancora vivi e raggiungibili che avevano in qualche momento sfiorato la «verità» della vita di Joyce o delle vite di Joyce che ciascuno di loro aveva «ricreato» 38. Probabilmente Ellmann non si rese conto di aver raccolto, più che dei fatti sulla 36

Lettera a John Farrar, 14 settembre 1937. Citata ivi, p. 797. M. DE CERTEAU, L’Écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. it. La scrittura della storia, Il Pensiero Scientifico, Torino 1977. 38 Vi sono, tuttavia, momenti in cui il critico si trova di fronte a verità bifronti o addirittura molteplici. Dell’incontro di Joyce con Proust a casa del romanziere inglese Sydney Schiff, Ellmann riferisce sei diverse versioni (la prima, indiretta, riportata da Wiliam Carlos Williams, si trova nell’autobiografia dello scrittore, la seconda in uno scritto autobiografico di Margaret Anderson, la terza in una lettera che Mrs Schiff, moglie dell’ospite della serata, riferì allo stesso Ellmann, nonché tre diverse versioni dello stesso Joyce: ad Arthur Power, a Jacques Marcanton e a Frank Budgen): R. ELLMANN, James Joyce, trad. cit., pp. 508-509. È chiaro che su quell’episodio la mitografia si è esercitata più che su altri e Ellmann correttamente riferisce tutte le versioni acquisite. 37

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vita di Joyce, una miriade di frammenti autobiografici da altre vite che, più o meno significativamente, quella vita avevano incontrato. E dunque non poté apprezzare quello che è forse l’effetto collaterale più interessante del suo libro: e cioè che, lungi dal proporre la «verità» di una sola vita, apre sull’impossibilità di assicurarne ai lettori una versione definitiva. Un destino che, come presto ci si accorgerà, segna anche irrimediabilmente il testo di Ulysses.

Verso lo studio dei contesti Nonostante le molte critiche avanzate al lavoro di Ellmann, è parso per molti anni che andare oltre i risultati da lui raggiunti fosse impensabile. E negli anni successivi alla pubblicazione della sua biografia solo correzioni e precisazioni parziali appaiono nelle riviste specializzate, ancora una volta affidate alla testimonianza. Inoltre, Ellmann stesso pubblica, nel 1982, una seconda edizione riveduta sulla base di «nuova informazione […] sulla maggior parte degli aspetti della vita di Joyce: i suoi scritti e il suo atteggiamento verso di essi, le sue esperienze di amore e desiderio, le sue pene domestiche, le sue idee politiche» 39. Dopo questa seconda edizione era forse soprattutto il metodo di Ellmann che pareva difficile rivedere. Egli aveva sfruttato tutte le fonti testimoniali esistenti e pareva che si fosse così più di chiunque altro avvicinato ai «fatti»; inoltre era diventato una sorta di esecutore testamentario di importanti documenti (il libro di Stanislaus, molte delle lettere, il Giacomo Joyce 40) di cui aveva pubblicato apprezzabili edizioni. Passano, quindi, anni prima che una nuova generazione di studiosi decida di rivedere su basi metodologiche diverse la biografia di Joyce. La strada è aperta da un volume di Peter Costello pubblicato nel ’92 41. Il libro è presentato come complemento rilevante alla biogra39

Ivi, p. XII. Del quaderno che contiene il manoscritto di Giacomo Joyce, pubblicato in facsimile da Ellmann nel 1968, si sono del tutto perse le tracce e si è pensato per molto tempo che fosse segretamente custodito dallo stesso Ellmann. 41 P. COSTELLO, James Joyce. The Years of Growth: 1882-1915, Pantheon Books, New York 1992. 40

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fia di Ellmann, focalizzandosi sullo «Irish background» di Joyce e della sua famiglia. Le credenziali esibite da Costello sono la sua conoscenza approfondita della città di Dublino, della sua cultura, della sua storia e del suo clima politico che, dichiara il critico, gli permettono di collocare le azioni, gli scritti e le convinzioni di Joyce nell’ambiente in cui lo scrittore nacque e si formò 42. Nonostante lo sforzo descrittivo, tuttavia, non siamo ancora alla svolta metodologica. Costello, non meno di Ellmann, si perde nella ricerca minuziosa di «modelli tolti dalla vita reale» che a suo dire confluiscono nelle opere, discutendo soprattutto personaggi ispirati a membri della famiglia della madre di Joyce 43; e presenta come scoperta epocale la sua idea che il personaggio di Leopold Bloom non sia modellato su un ebreo dublinese ma su un presbiteriano di Belfast. Costello si ferma soprattutto sugli anni di Dublino e abbozza appena gli anni a Trieste, concludendo il racconto al momento della partenza di Joyce dalla città austriaca. La novità del suo libro, tuttavia, sta nell’aver spostato l’attenzione dal centro ai margini, dando rilievo alle storie familiari e soprattutto al clima politico e religioso, alle atmosfere, alle relazioni sociali, all’impronta culturale, insomma, della Dublino tardo-ottocentesca e dei primi anni del nuovo secolo. L’importanza attribuita al contesto e documentata attraverso il lavoro di archivio più che attraverso testimonianze (del resto non più attingibili) rappresenta, credo, una revisione di non poco conto nel senso dell’«obbligo di erudizione» di cui parla Le Goff e apre all’ultimo esperimento biografico del quale cercherò brevemente di dare conto. Nel 2000 appare la più recente biografia di Joyce, James Joyce. The Years of Bloom di John McCourt. L’autore, un dublinese che da parecchi anni vive a Trieste, dichiara nella Premessa all’edizione italiana del libro di avere cercato di mettere in discussione una affer42

È interessante che Costello ponga in epigrafe un brano da Benjamin che sembra sfidare l’estraneità transatlantica di Ellmann: «Lo stimolo superficiale, l’esotico, il pittoresco ha ripercussioni solo sul forestiero. / Per ritrarre una città chi ci è nato deve avere altri, più profondi motivi – motivi di chi viaggia nel passato invece che nella distanza spaziale. / Il libro di un nativo sulla propria città non può che scaturire dalla memoria: lo scrittore non ha trascorso là invano la fanciullezza». 43 Cfr. soprattutto il capitolo su The Dead (P. COSTELLO, James Joyce…, cit., pp. 23-53).

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mazione attribuita a Stanislaus, che cioè «a Jim Trieste non aveva dato nulla» 44. In modo assai più convincente di quanto abbia fatto Costello, McCourt inverte il metodo di Gorman e di Ellmann: piuttosto che derivare la biografia dalle opere, costruisce uno spazio e una motivazione per l’opera ricercandone i presupposti contestuali. Soffermandosi sul carattere mitteleuropeo della Trieste del primo Novecento, su ciò che a un abitante di una «hibernian metropolis» non poteva non apparire marcatamente orientale, McCourt traccia un «ritratto di “Tarry-Easty”» (la Terra dell’Est di Finnegans Wake) evocandone le componenti mediterranee ed ebraiche, le mescolanze eclettiche di stili, i traffici del porto, le mode stravaganti: L’atmosfera orientale di Trieste, sincera e falsa, reale e stereotipata, faceva sí che una varietà pittoresca di mercanti di spezie, frutta, tappeti, molti dei quali nei costumi tradizionali – come un ebreo turco, venditore di ninnoli, dal nome «Michelin de la Forchete» – potessero stare fianco a fianco con le giovani signore alla moda, disinvolte nelle loro jupes-culottes all’ultimo grido, o nei pantaloni all’orientale, creati nel 1911 dal sarto parigino Paul Poiret, che avevano suscitato una generale indignazione e critica nelle altre città europee 45.

A questo punto della lettura è impossibile non evocare le fantasticherie sull’oriente di Bloom nel quarto episodio di Ulysses: Somewhere in the East: early morning […] Wander through awned streets. Turbaned faces going by. Dark caves of carpet shops, big man, Turko the terribile, seated crosslegged smoking a coiled pipe. Cries of sellers in the streets. Drink water scented with fennel, sherbet. […] The shadows of the mosques along the pillars […] A mother watches from her doorway. She calls her children home in their dark language. High wall: beyond strings twanged 46.

44 J. MCCOURT, James Joyce: gli anni di Bloom, cit., p. 3. Il riferimento all’affermazione di Stanislaus si trova in S. CRISE, Epiphanies & Phadographs: Joyce e Trieste, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1967, p. 22. 45 J. MCCOURT, James Joyce: gli anni di Bloom, cit., p. 102. 46 J. JOYCE, Ulysses, Annotated Students’ Edition, Penguin, Harmondsworth 1992, p. 68; «In qualche luogo dell’Oriente: mattina presto […] Vagare per strade all’ombra di tende. Volti in turbante che passano accanto. Oscure caverne di nego-

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Ma «Tarry-Easty», che secondo McCourt giocò anche un ruolo chiave nel destare l’interesse di Joyce per l’ebraismo, era anche un crocevia di lingue diverse, dove il dialetto locale era la lingua franca ma dove convivevano molti altri dialetti italiani e anche armeni, turchi, maltesi, ungheresi, sloveni, cechi e greci; e dove il settimanale satirico «La coda del diavolo», dice McCourt, «amava usare una varietà di lingue mischiate in modo pungente in un giocoso guazzabuglio» che non può non ricordare quello di Finnegans Wake. Il giornale, dice McCourt, «pubblicava articoli e lettere scritte in slavo italianizzato, tedesco triestinizzato e in friulana infrancesata» 47, cosicché, conclude il critico, è possibile affermare che «la lingua di Finnegans Wake è come una versione esagerata, proiettata su vasta scala, del triestino» 48. McCourt dedica spazio anche alla città come stimolo e via d’accesso, per Joyce, al socialismo: la stessa scuola Berlitz dove Joyce insegnò, i caffè da lui frequentati, e poi eventi rilevanti come le conferenze di Labriola e di Guglielmo Ferrero, gli scioperi, la presentazione, nel maggio del 1905, de L’albergo dei poveri di Gorki che i giornali riportano come avvenuta in un clima surriscaldato in cui si inneggiava alla liberazione dello scrittore, sono tutti eventi che possono aver costituito per Joyce vie d’accesso alle idee socialiste, manifestate da lui soprattutto in alcune lettere inviate da Roma al fratello nel 1907. Più curioso ancora, McCourt mostra che il nazionalismo, che nel contesto irlandese Joyce aveva avversato tacciandolo di bieco provincialismo, lo coinvolse per qualche tempo nella forma dell’irredentismo triestino. Come ha giustamente notato Rosa Maria Bosinelli, lo stile di McCourt è caratterizzato dal modale may, un modale che esclude la

zi di tappeti, un omone, Turko il terribile, seduto a gambe incrociate a fumare una pipa dalle grandi volute. Grida di venditori per le strade. Bere acqua aromatizzata al finocchio, sorbetto […] Le ombre delle moschee lungo le colonne […] Una madre sta a guardare dalla soglia. Chiama i figli a casa nella loro lingua oscura. Muro alto: oltre esso, corde pizzicate» (ID., Ulisse, trad. it. G. De Angelis, Mondadori, Milano 1960, p. 80). 47 J. MCCOURT, James Joyce: gli anni di Bloom, cit., pp. 110-111. 48 Ivi, p. 112.

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garanzia di verità preferendo suggerire piuttosto che asserire. È anche vero, d’altra parte, che in questo testo, come nota ancora Bosinelli, «il protagonista è spesso solo uno dei tanti personaggi che popolano la città» 49. Si è tentati di concludere con un rilievo quasi ovvio sulla dimensione in qualche misura postmoderna di questi recenti esperimenti biografici. La poetica del frammentario, l’intertestualità che mette a confronto «testi» di natura e materia diversa, l’attenzione dislocata dal soggetto, e infine la consapevolezza della parzialità e provvisorietà di ogni sforzo biografico, la coscienza, cioè, del fatto che a nessuna vita è possibile dare una forma definitiva, fanno pensare ad una poetica che tende a sfumare i contorni e a decostruire i dogmi. E tuttavia, la coscienza del valore relativo di ogni storia si coniuga, in queste ultime prove, con una forte nostalgia per la storia e per l’obbligo di erudizione che essa comporta.

Fra il daimon e la cravatta Commentando un brano di Michael Holroyd sui nemici della biografia, che affermano che se si vuol salvare l’opera bisogna stare alla larga dai biografi, James Hillman parla di «conflitto archetipico tra opera e vita» e afferma: «È il daimon […] l’elemento antibiografico, è il daimon che può sentirsi offeso dalla vita sulla terra, anche se tutte le sue energie sembrano dirette a toccare terra e a espandersi nel mondo» 50. Il daimon, prosegue Hillman, è «nemico delle narrazioni razionali che lo spiegano liquidandolo con i fatti». Il biografo, dunque, «è uno scrittore fantasma, se non addirittura un ac-

49

R. M. BOLLETTIERI BOSINELLI, Triestine Salad Days, in «James Joyce Broadsheet», 59, June 2001, p. 1. 50 J. HILLMAN, The Soul’s Code. In Search of Character and Coding, Random House, New York 1996; trad. it. Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, Adelphi, Milano 1997, p. 236. Sono grata a Enrico Frattaroli per avermi segnalato il libro di Hillman. Il lavoro citato da Hillman è M. HOLROYD, Literary and Historical Biography, in A. M. FRIEDSON (a cura di), New Directions in Biography, University of Hawaii Press, Manoa 1981.

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chiappafantasmi, che cerca di catturare le ombre invisibili presenti nelle evidenze di una vita» 51. Di Joyce sappiamo che volle di sé una biografia romanzata, che costrinse l’autore ad alterare le evidenze della sua vita occultandone alcune e deformandone altre e che approvò gli spunti di pura finzione attraverso i quali il suo primo biografo trascrisse il suo genio. Queste scelte sembrano conformarsi alle omissioni e agli pseudoricordi che Hillman indica come falsificazioni necessarie del genere autobiografico o della biografia che sappia, appunto, cogliere il daimon e non tenti di mortificarlo con le narrazioni razionali. Ma di Joyce ci viene anche trasmesso un atteggiamento apparentemente opposto. Ellmann ci racconta che nel maggio del 1924 Joyce posava malvolentieri per un giovane pittore dublinese che aveva insistito per ritrarlo. Joyce aveva fatto notare al pittore di avere forti obiezioni alla riproduzione della sua immagine ma aveva alla fine consentito perché – come scrisse in una lettera a Harriet Shaw Weaver – alla domanda se volesse dipingere lui o il suo nome il pittore aveva dato la risposta giusta («Disse che voleva dipingere me») 52. Ma durante una delle sedute, aggiunge Ellmann, quando il pittore aveva cominciato a filosofeggiare «dell’importanza per l’artista di cogliere l’anima del suo soggetto», Joyce gli aveva detto: «Non si preoccupi della mia anima. Pensi piuttosto a cogliere bene la mia cravatta» 53. Un semplice aneddoto, forse deformato dagli amici che lo raccontano, ansiosi sempre di riferire – o di inventare – battute folgoranti con le quali tentano, appunto, di catturare il codice dell’anima. Oppure l’episodio è «vero», nel senso che davvero coglie un frammento di quel codice svelando la consapevolezza, da parte di Joyce, dell’aporia che investe irrimediabilmente ogni gesto che tenti di riprodurre, insieme ai fatti, il daimon; o, ancora, l’episodio potrebbe rivelare la paura che il ritratto davvero catturi l’anima, che sveli irrimediabilmente la «figura nel tappeto». E, a ben guardare, le falsifica51

J. HILLMAN, Il codice dell’anima…, cit., p. 236. Letters of James Joyce, cit., pp. 214-215. Credo che si debba intendere «lui» come «l’aspetto esteriore» e «il suo nome» come «il daimon». 53 R. ELLMANN, James Joyce, trad. cit., p. 645. 52

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zioni avallate dall’artista e il rifiuto di esporre la sua anima non sono gesti in contrasto. Leggiamo, per concludere, ancora Hillman, che ci aiuta a risolvere l’apparente contraddizione: Falsificazioni e vanterie non sono mere coperture, fantasticherie, mitomania. Dicono della paura di una perdita, la paura di essere colonizzati, ridotti in schiavitù da un sistema normalizzatore, il quale, catturando la nostra anima nella biografia, potrebbe rivelarsi troppo forte e portarcela via 54.

54

J. HILLMANN, Il codice dell’anima…, cit., p. 239.

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FRANCESCO ORLANDO

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LA PERSONA E IL TESTO: CONTESTI, ALLUSIONI, RETICENZE, TRASFIGURAZIONI

1. È per guadagnare tempo che mi permetto di cominciare con una autocitazione, da una lettera aperta a Romano Luperini, direttore della rivista «Allegoria»: Se volessi rappresentarmi con una metafora quella cosa misteriosissima, e in sostanza mai studiata, che è la creazione letteraria, lo sai cosa vedrei? Un colabrodo. I residui di carne, ossa, verdure starebbero per il vissuto dell’autore: sono loro, certo, a dare al liquido tutto il suo sapore; ma di fatto dal colabrodo loro non passano, restano necessariamente al di qua; e un brodo buono deve poter essere bevuto e assaporato senza preoccuparsi per nulla dei residui nel recipiente. Se noi studiosi ci preoccupiamo di quei precedenti, facciamo una cosa lecita, spesso utile, ma grazie a Dio non c’è capolavoro che sia destinato a specialisti, che non coinvolga un pubblico molto più largo e più ingenuo. Tutto quel che rivendico è che non dobbiamo mai, né studiosi scaltriti né ingenuo pubblico, far confusione. Non dobbiamo scambiare il brodo coi residui, il liquido col solido, l’immaginario col vissuto 1.

Il riconoscimento che sono quei residui a dare al liquido tutto il suo sapore, anche se non passano dal colabrodo, traduce una posizione non contraddittoria e non eclettica ma proprio perciò neanche ovvia, come credo sia la mia. Una posizione secondo la quale, da una parte, il testo trascende, sostituisce, smentisce, abolisce la persona d’autore; d’altra parte però sta in intimo e profondo rapporto col mondo, lo guarda, lo rivela, lo interpreta. Non è quindi affatto autoreferenziale, ma è sì autosufficiente. Di che cosa parlerò oggi, allora? Parlerò di come talvolta l’opera conservi e rappresenti qualcosa di ciò che essa non è più, di ciò che era quando non era ancora se stessa. Parlerò cioè di alcuni casi di confine, in due diversi generi letterari o meglio gruppi di generi, 1

«Allegoria», 32, maggio-agosto 1999, p. 135 [pp. 134-137].

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in cui (per usare la mia metafora) c’è qualcosa di più che passa dal colabrodo, ci sono diciamo dei residui. In simili casi l’opera, senza abdicare a niente della sua autosufficienza, anzi forse proprio per garantirsela, assume e integra entro di sé momenti di quella genesi da cui è pur dovuta passare, prima di arrivare a trascendere, sostituire, smentire, abolire la persona d’autore.

2. Faccio dapprima esempi relativi alla poesia lirica. Al bel libro di un giovane italianista, Claudio Giunta, attingo un concetto che vi è fissato non tanto in senso direttamente storico, quanto astrattamente a scopo di comprensione storica. Se canzoniere significò dapprima un manoscritto che includeva componimenti di autori vari, ecco ciò che invece lo studioso sceglie di chiamare con questa parola: una raccolta di liriche, per lo più di carattere soggettivo (cioè, nel Medioevo, amoroso), scelte e ordinate dall’autore, in cui il significato dell’insieme, del libro come unità, non sia espresso soltanto dalla somma delle sue componenti ma anche dalla struttura, cioè dall’ordine secondo il quale i vari testi si succedono nel libro 2.

Facciamo nostra la definizione, e una serie di significative esclusioni sarà subito chiara per quanto riguarda fioriture liriche anteriori a una certa svolta. Vicino alle origini della nostra cultura, non rispondono alla definizione i frammenti di Archiloco, di Saffo, di Anacreonte; e ciò, sebbene in essi un maestro come Bruno Snell abbia trovato di che dare, al quarto capitolo d’un suo libro famoso, il titolo seguente: Il primo rivelarsi dell’individualità nella lirica greca antica 3. Nemmeno è pertinente il Liber di Catullo, dato che l’ordinamento dei suoi centosedici carmi, sia esso dovuto all’autore o ad altri, non risponde «a criteri cronologici o di contenuto, ma unica2

C. GIUNTA, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Il Mulino, Bologna 2002, p. 429. 3 B. SNELL, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, Claassen Verlag, Hamburg 1955 (1946); trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963.

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mente metrici» 4; se la raccolta dà malgrado tutto inevitabilmente un’impressione di cronistoria, questa si presenta sparsa, distorta, quasi impossibile da ricostruire. E nemmeno serve pensare ai trovatori provenzali. Mi riporto alla bella analisi che Alberto Varvaro ha fatta di una lirica cortese del trovatore più antico, Guglielmo IX d’Aquitania (Pos vezem de novel florir); dove leggo che l’esperienza amorosa individuale è trasformata «da accadimento singolo, privo di rilevanza e di significato, in modello esemplare verificato nel suo valore proprio dalla ripetibilità e compartibilità da parte di altri individui, e perciò dotato di ben altro rilievo». Il poeta evita il rischio, dice ancora Varvaro, di farsi affascinare dalla propria situazione individuale e di rimanervi legato, preda di quell’occasionale particolarismo che agli uomini del tempo appariva assolutamente futile e gratuito, inadeguato all’elaborazione letteraria anche al livello elementare della memoria autobiografica 5.

Quando e come si passò, dall’insignificanza dell’accadimento singolo, a qualcosa che parrebbe storicamente incompatibile: la promozione dell’autobiografico entro il testuale? Secondo Giunta, salvo precedenti dubbiosi 6, il primo canzoniere della nostra tradizione nel senso da lui definito è la Vita nova. «Nessun codice letterario obbligava, o anche solo suggeriva a Dante di inserire nella Vita nova una così grande quantità di elementi tratti dalla vita» 7. Non luoghi simbolici, ma, sia pur senza che Firenze venga nominata, luoghi concreti e determinati della città; non situazioni-tipo dell’amore cortese, ma, a far progredire l’intreccio, fatti di vita quotidiana; intorno alla vicenda sentimentale, altri eventi, esperienze, personaggi, com’è proprio dell’autobiografia. Neppure nella morte stessa di Beatrice, sebbene si possa attribuire ad essa un valore simbolico, si può ricono4 G. B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’impero romano, Le Monnier, Firenze 1989 (1987), p. 118; e cfr. C. GIUNTA, Versi a un destinatario…, cit., p. 433. 5 A. VARVARO, Letterature romanze del Medioevo, Il Mulino, Bologna 1985 (cap. III, L’esperienza lirica), pp. 170-171. 6 C. GIUNTA, Versi a un destinatario…, cit., pp. 433-434. 7 Ivi, p. 436.

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scere qualcosa che fosse, prima di Dante, un luogo comune della poesia 8. Venendo a Petrarca e al canzoniere per eccellenza, i Rerum vulgarium fragmenta, della loro elaborazione sono state ricostruite ben nove fasi: da una raccolta di ventitré componimenti verso il 1336, alla sistemazione del 1373-1374 poco prima della morte del poeta 9. Sintetizzando all’estremo il più autorevole studio recente sull’argomento, direi che in sostanza Marco Santagata prospetta nel capolavoro petrarchesco, come novità storico-letteraria, la possibilità e la coesistenza di due livelli di lettura a scelta. «I “frammenti” non si ridussero mai, è vero, a semplici tasselli di un organismo che li ingloba condizionandone il senso, ma neppure la loro fruizione isolata poté prescindere del tutto dal contesto di senso di cui il libro li circonda» 10. Mi pare di poter osservare allora che la recezione qual era stata pianificata, la lettura integrale di tutti i componimenti uno dopo l’altro, resterebbe idealmente più vicina al vissuto, alle premesse della genesi dell’opera ma è la scelta di gran lunga più rara nella prassi, nella fortuna reale dell’opera. Una lettura parziale a piacere, che prelevi cioè dall’insieme un componimento per volta, tratta invece il testo come più autosufficiente, più liberato nell’immaginario ed è questa la scelta comune, la più frequente di gran lunga. Saltando su due secoli di fortuna europea del modello petrarchesco, vado a quello che chiamerei il più famoso groviglio problematico del rapporto fra l’uomo e l’opera, in ogni tempo: ai Sonetti di Shakespeare. Continuo ad appoggiarmi ai migliori specialisti; nell’introduzione alla sua edizione tradotta, Alessandro Serpieri fa acutamente il punto fra le due opzioni che per secoli hanno diviso la critica: da una parte riscontri biografici e «storia», dall’altra finzione letteraria più o meno assoluta. E scrive: Troppo nuova, anticonvenzionale […] è l’avventura di questo canzoniere, perché se ne possano rifiutare tutte le tracce di un coinvolgimento

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Ivi, pp. 436-439. G. FERRONI, Storia della letteratura italiana. Dalle origini al Quattrocento, Einaudi, Torino 1991, p. 256. 10 M. SANTAGATA, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel «Canzoniere» di Petrarca, Il Mulino, Bologna 1992, p. 11. 9

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personale, e quindi biografico anche se sarà sempre e comunque errato farne una «storia» a pieno titolo. Il segreto dell’opera […] è anche extratestuale, che lo si voglia ammettere o no… 11

Personalmente mi accontento di un minuscolo sondaggio, su due soli versi dallo straordinario impatto emotivo a inizio di sonetto: «Your love and pity doth the impression fill / Which vulgar scandal stamped upon my brow…» 12. Mi sembra difficile contestare separatamente ciascuna delle tre affermazioni seguenti, sebbene mi renda conto di quanto è paradossale ammettere contemporaneamente la verità di tutte e tre: 1) questi versi non possono non alludere a una qualche tragica e contingente esperienza precisa; 2) l’esperienza a cui essi alludono è, e di sicuro resta per sempre, non precisabile; 3) per subire o patire o godere la potente espressività dei versi, quell’esperienza è, ed è sempre stata, non necessaria da precisare. In altre parole il testo si presenta insieme, inestricabilmente, lacunoso nel senso e autosufficiente così com’è. Fu nella stessa epoca (piaccia o no chiamarla barocca) che si verificarono fenomeni nuovi, e per noi interessantissimi, nei titoli assegnati alle poesie. Succede non solo che essi si allunghino e si complichino, ma che così facendo prendano a carico informazioni essenziali, di cui quindi preventivamente viene scaricato il testo. Per esempio, un grande e celebre sonetto di Góngora sarebbe ben poco comprensibile se non leggessimo come titolo, prima del primo verso: De un caminante enfermo que se enamoró donde fué hospedado 13; lo verificherete da voi se vi date la gioia di leggere l’intero sonetto. Meno comprensibile ancora sarebbe uno dei migliori sonetti marinisti, di Giacomo Lubrano (1619-1692), senza i riferimenti botanici, pittorici, topografici, geografici, dati in anticipo tutti e soltanto nel titolo 11 W. SHAKESPEARE, Sonetti, a cura di A. Serpieri, testo inglese a fronte, Rizzoli, Milano 1991, p. 19. 12 N. 112, vv. 1-2; «Il tuo amore e la tua pietà cancellano quel marchio / che la volgare calunnia stampò sulla mia fronte…» (ivi, pp. 290-291). 13 L. DE GÓNGORA Y ARGOTE, Obras completas, Aguilar, Madrid 1956 (1943), p. 462; Di un viandante infermo che s’innamorò là dove fu ospitato. Il sonetto è datato 1594.

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esplicativo: Cedri fantastici variamente figurati negli orti reggitani. In direzione di che cosa orienterebbe l’immaginazione del lettore, altrimenti, la stravaganza stupenda del noto attacco? Rustiche frenesie, sogni fioriti, deliri vegetabili odorosi, capricci de’ giardin, Protei frondosi, e di ameno furor cedri impazziti… 14

Il testo che nomina frenesie, deliri e capricci come altrettanti soggetti grammaticali, e sembra che invece rivolga loro dei vocativi, risulterebbe in mancanza del titolo assai più letteralmente frenetico, delirante e capriccioso. In altre parole, avremmo a fine Seicento qualcosa come metafore il cui piano dei comparanti vela e sopprime il piano dei comparati – qualcosa che un giorno basterà di per sé a rendere stabile l’oscurità della poesia, ma che non apparirà in tale forma sino a Mallarmé, e non diventerà ordinaria prima del Novecento. Nella prima metà dell’Ottocento, una volta che si furono rese definitive la privatizzazione del letterario e la monumentalizzazione del privato – ne riparleremo –, spesso l’informazione biografica aleggia intorno al testo, nel non detto o nel detto a metà. Mi fermo su un caso eminente e particolarmente esemplare. Les Contemplations di Victor Hugo, pubblicate nel 1856 ma in parte scritte assai prima, sono divise in due parti: Autrefois, Aujourd’hui. Sotto entrambi questi sottotitoli si leggono fra parentesi le rispettive date: 1830-1843, 1843-1855; ognuna delle poesie della raccolta, del resto, reca la sua (benché spesso artificiale) data. Nel Libro IV che apre la parte seconda, si legge fra la seconda poesia e la terza – quasi fosse il titolo d’una poesia non numerata: 4 septembre 1843. Ma sotto non c’è altro che una fila di puntini 15; è il giorno in cui la figlia maggiore del poeta, Léopoldine, era annegata nella Senna a Villequier. La frattura di questo evento, dividendo in due la raccolta, ne detta la struttura 14

Opere scelte di G. B. Marino e dei Marinisti, vol. II, I Marinisti, UTET, Torino 1962 (1949), p. 416. Le Scintille poetiche o Poesie sacre e morali di Lubrano apparvero nel 1690. 15 V. HUGO, Œuvres poétiques, t. II, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1967, p. 643.

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per intero. Non basta che il lutto trovi espressione in tutto il Libro IV, con risultati altissimi, e torni a ispirare molto più in là la poesia conclusiva; quei puntini, quella poesia non numerata e non scritta, tracciano fra testo e testo la cicatrice dell’inespresso, l’assoluto del dolore privato. Fu proprio l’anno dopo, nel 1857, che un poeta di vent’anni più giovane pubblicò Les Fleurs du Mal. Si sa che con questa raccolta ha termine l’immediata riferibilità romantica del dettato al vissuto, che in essa l’io si esprime e si qualifica prevalentemente per analogie e comparazioni (Je suis comme…, Je suis…). Di conseguenza Baudelaire ha strutturato la raccolta fino a farne un canzoniere, secondo la definizione da me mutuata più sopra; ma l’ordine stavolta non è cronologico, non segue né le date di composizione né un racconto. Di due delle poesie (nove in tutto) prive di titolo, la XCIX e la C, Baudelaire scriverà a sua madre: Vous n’avez donc pas remarqué qu’il y avait dans Les Fleurs du Mal deux pièces vous concernant, ou du moins allusionnelles à des détails intimes de notre ancienne vie, de cette époque de veuvage qui m’a laissé de singuliers et tristes souvenirs, l’une: Je n’ai pas oublié, voisine de la ville… (Neuilly), et l’autre qui suit: La servante au grand cœur dont vous étiez jalouse… (Mariette)? J’ai laissé ces pièces sans titres et sans indications claires parce que j’ai horreur de prostituer les choses intimes de famille 16.

Più tardi rievocherà in un’altra lettera alla madre la stessa epoca rievocata nella poesia XCIX, incluso il nome di luogo (Neuilly: i diciannove mesi trascorsi all’età di sette anni in esclusiva familiarità con lei, fra la morte del padre e il suo secondo matrimonio) 17. È un paragrafo tale che si può ben parlare, secondo la mia concezione estensiva della letteratura, di due espressioni che attingono a un’esperien16

Ch. BAUDELAIRE, Correspondance, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1973, t. I, p. 445. Lettera dell’11 gennaio 1858; «Non avete dunque notato che c’erano nei Fiori del male due poesie che vi riguardano, o almeno allusive a particolari intimi della nostra antica vita, di quell’epoca di vedovanza che mi ha lasciato singolari e tristi ricordi, – l’una: Non ho dimenticato, vicina alla città… (Neuilly), e l’altra seguente: La serva dal gran cuore di cui eravate gelosa… (Mariette)? Ho lasciato queste poesie senza titoli e senza indicazioni chiare perché ho orrore di prostituire le cose intime di famiglia». 17 ID., Correspondance, cit., t. II, p. 153. Lettera del 6 maggio 1861.

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za sola; cosa importa che l’una sia in versi, l’altra in prosa confidenziale? Restando ai versi, se entrambe le poesie successive in questione avessero un titolo, la funzione di esso potrebbe anche essere analoga a quella dell’epoca barocca: espellere dal testo informazioni che il testo non cessa di presupporre. L’assenza di titolo e di «indicazioni chiare» fa invece da compromesso, fra l’antiromantico «orrore di prostituire le cose intime» e la necessità di dar loro espressione. Se in queste due poesie si parla del privato, come se ne parla? Per una delle ultime volte, con la stessa diretta trasparenza che non sollevava problemi a Hugo; per la prima volta, con oscurità non da metafora ma da reticenza, come avverrà tanto spesso nel Novecento. Mallarmé, nato altri vent’anni dopo, inaugurò l’oscurità a base prevalentemente metaforica. 1866: la Ouverture [dite ancienne] d’Hérodiade era destinata a restare non finita e inedita 18. Davvero è raro che in un tale stato d’incompiutezza un testo si riveli così sovranamente bello, a dispetto della frastornante pluralità di lezioni. È lecito, mi chiedo, metterne la novità di linguaggio nei termini appena usati a proposito di Baudelaire: dire cioè che mai prima si era espulsa tanta informazione da un testo che non cessa di presupporla? I temi maggiori, paesaggio d’autunno, agonia d’una vergine, imagerie clericale desueta, rimandano tutti e tre a dati biografici trasfigurati in quanto tali, e nondimeno certi: la morte della sorellina tredicenne alle soglie dell’autunno, l’anteriore comunione nella fede tra lei e il fratello maggiore di due anni, la morte di Dio per lui come conseguenza traumatica del lutto. Dati biografici e basta? No. Ci soccorre entro la dimensione letteraria l’esistenza di un unicum, per posizione, nella storia della poesia: il compito da casa assegnato al liceale quindicenne per le vacanze natalizie dopo la perdita. Era fortunatamente a tema libero, e Mallarmé ragazzino si è dato fin da allora il suo, o meglio i suoi temi. Sola esile trama, la fantasticheria di resurrezione fantasmatica d’una giovane morta dalla sua tomba coperta di neve; ma, anche al di là, è inesauribile la riserva di anticipi rispetto alla coeren18 S. MALLARMÉ, Œuvres complètes, t. I, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1998, pp. 135-137 (primo stato manoscritto, 1866), 137-139 (stato corretto poi abbandonato, 1866-1898), 1095-1101 (trascrizione del manoscritto con stratificazioni tipograficamente evidenziate).

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za interna dell’opera matura a venire. Lessicalmente, hanno già il loro significato mallarmeano avverbi e aggettivi come jadis, antérieur, autrefois, ancien, antique, vieux. Tematicamente, l’inverno prelude alle drammatizzazioni dell’autunno e del tramonto, il fantasma alle apparizioni smaterializzate fino a sublimazioni astrali, la bara a quegli altri rettangoli di transizione metafisica che saranno finestre, specchi e la stessa «pagina bianca». Ideologicamente, più alla lontana, Dio messo in questione prepara la grandiosa sostituzione storica fra religione e arte dedotta come necessaria in futuro 19. L’anno prima della morte, Mallarmé affermerà di passaggio: «Le poëte puise en son individualité, secrète et antérieure, plus que dans les circonstances» 20. Tutto quel che avrà poetato dopo il 1866 non cessa di presupporre informazioni che costituiscono il nucleo dell’individualità segreta e anteriore, ma la cui espulsione precisamente vieta ogni trasparenza al testo, gli impone una densa opacità figurale. Sotto questo aspetto, i versi del 1866 distano meno da versi del 1906, 1966, 2006 che dalle poesie in cui, sette anni prima, Mallarmé diciassettenne imitava lo Hugo delle Contemplations – per dare espressione, una seconda volta dopo la prosa scolastica, a un altro lutto privato.

3. Passiamo alla narrativa, in versi o in prosa, o alla prosa autobiografica; nel primo caso, comunque, a quei tipi di narrativa che giocano formalmente con un io, e/o sostanzialmente con imparen19

Ivi, pp. 452-465, e cfr. p. 1345. Il titolo è Ce que disaient les trois cigognes (Ciò che dicevano le tre cicogne); ben più tardi, Mallarmé ha aggiunto sul manoscritto: Narration sur un sujet libre en «Seconde ou Troisième» du Lycée de Sens (Racconto a tema libero in «Seconda o terza» del Liceo di Sens); ma deve trattarsi della terza (anno scolastico 1857-1858), essendo impensabile che la scrittura non sia posteriore alla morte della sorellina (31 agosto 1857). Cfr. F. ORLANDO, Mallarmé e la fede perduta (lettura di «Sainte»), e Le due facce dei simboli in un poema in prosa di Mallarmé, in ID., Le costanti e le varianti. Studi di letteratura francese e di teatro musicale, Il Mulino, Bologna 1983. 20 S. MALLARMÉ, Œuvres complètes, t. II, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 2003, p. 666 (Sur l’influence des lettres scandinaves); «Il poeta attinge alla sua individualità, segreta e anteriore, più che alle circostanze».

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tamenti all’autobiografia. Va da sé che l’esempio precursore debba essere il rapporto fra la persona e l’opera di Torquato Tasso. Come non succedeva affatto in Petrarca, come succederà invece spesso nei romantici, circostanze di vita eccezionali si affiancano al dono creativo nel diventare costitutive della fama. Il fenomeno comincia da un grande testimone contemporaneo, Montaigne, che nel 1580 visitò il poeta rinchiuso all’ospedale di Sant’Anna, e ne parla nel più esteso degli Essais: la Apologie de Raimond Sebond famosa per corrosivo relativismo. «J’eus plus de despit encore que de compassion, de le voir à Ferrare en si piteux estat, survivant à soy-mesmes…». È mentre discorre di contiguità fra gli estremi della saggezza e della follia che Montaigne rammenta l’incontro; e qualifica ciò che ha visto con quattro o cinque frasi ossimoriche o antifrastiche, di cui cito solo: «cette exacte et tendue apprehension de la raison qui l’a mis sans raison»; «cette rare aptitude aux exercises de l’âme, qui l’a rendu sans exercise et sans âme» 21. Era già la contraddizione di cui, in età romantica, si fa interprete Leopardi. Nello Zibaldone, il 17 giugno 1821, annovera Tasso fra gli «ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo», vanificandone la fecondità «a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione». Segue la pretesa secondo cui, sbrigativamente detto, l’uomo sarebbe stato superiore all’opera: «i suoi componimenti, quantunque bellissimi, certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre sommi italiani, a niuno de’ quali egli fu realmente minore» 22. Viene da chiedere: forse che per esser pari a sé e ai sommi poeti come poeta, Tasso non avrebbe dovuto parlare di Goffredo e di Satana, di Rinaldo e di Armida, ma solo di se stesso? Strano a dirsi, è proprio quanto una volta ha rivendicato lui in persona, naturalmente non nel poema ma in una delle sue liriche più belle, 21 MONTAIGNE, Essais, II, XII, in ID., Œuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1962, pp. 471-472; «Provai ancora più dispetto che compassione, nel vederlo a Ferrara in uno stato così pietoso, sopravvivente a se stesso…»; «quel preciso e teso protendersi della ragione che l’ha fatto diventare senza ragione»; «quella rara attitudine agli esercizi dell’anima, che l’ha reso senza esercizio e senz’anima». 22 G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, Garzanti, Milano 1991, vol. I, pp. 715-716.

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la canzone incompiuta del 1578 Al Metauro (O del grand’Apennino…): «Or che non sono io tanto / ricco de’ propri guai che basti solo / per materia di duolo? / Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?» 23. Il che sembra quasi equivalere a un Madame Bovary, c’est moi in versi sublimi, da parte dell’autore d’un grande poema epico. Dove alla quarta ottava del primo canto, dopo la protasi e l’invocazione, viene la dedica al duca di Ferrara: «Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli / al furor di fortuna e guidi in porto / me peregrino errante e fra gli scogli / e fra l’onde agitato e quasi absorto…» 24. Mi rifaccio stavolta a Sergio Zatti, che ha interpretato in minuziosa profondità la coerenza interna della Gerusalemme liberata: questo riferimento autobiografico, l’unico in tutti e venti i canti, comporta un’assimilazione nascosta fra l’io e più d’uno dei venturi personaggi – anch’essi malauguratamente erranti. Quasi due secoli dopo, è con Rousseau che il compiuto e definitivo avvento dell’individuo mette in crisi, fra tante altre cose, la tradizione classico-rinascimentale dei generi. Ne nasce, paradosso solo apparente, un massimo di divaricazione: da una parte, non si danno opere complete eterogenee quanto le sue, riguardo appunto ai generi di scrittura. Due Discours filosofici se non antropologici, Du Contrat social testo di teoria politica, La Nouvelle Héloïse romanzo epistolare, Émile trattato di pedagogia, Les Confessions autobiografia d’un tipo del tutto nuovo, senza parlare degli altri scritti a fondo autobiografico, di quelli di poetica, di linguistica, di musicologia… E sarebbe impossibile stabilire cosa sia più importante o se qualcosa abbia una priorità ideale. Nello stesso tempo, però, ogni riga d’una qualsiasi di queste opere singole, neanche un po’ meno di quanto potrebbe accadere nel quadro di opere complete più omogenee, è inconfondibilmente sua. Ed è così da subito, ancor prima che la celebrità del personaggio Jean-Jacques venga ad assicurare unità alla produzione del poligrafo genialmente dilettante. Certo non è un caso, in tanto decentramento bilanciato da una ferrea centralizzazione, se proprio il gruppo di scritti autobio23

Vv. 48-51: T. TASSO, Poesie, Ricciardi, Milano-Napoli 1952, p. 815. S. ZATTI, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Il Saggiatore, Milano 1976, pp. 93-94; cfr. T. TASSO, Poesie, cit., p. 4. 24

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grafico è rimasto il più godibilmente attuale fino ai nostri giorni: si pensi a quell’intenerimento su infimi ricordi d’infanzia che sembra presupporre uno spostamento di emozioni, dal pathos cristiano della morte alla nostalgia d’una primaria ricchezza vitale 25; o, nel seguito delle Confessions, all’incredibile sequela di impieghi, mestieri, incontri ed esperienze che sublima il trasformismo picaresco nella disponibilità del parvenu finito grand’uomo; o all’apertura terribile delle Rêveries du promeneur solitaire, una volta che il grand’uomo è finito paranoico – tra delirante e chiaroveggente: «Me voici donc seul sur la terre…», con quel che segue 26. Ma lui vivo, in attesa che gli scritti autobiografici diventassero pubblici, e furono tutti postumi, andiamo a vedere come l’uomo poteva già ripetutamente firmare altre delle sue svariatissime opere nel presentarle, cioè ogni volta sulle loro soglie. Discours sur les sciences et les arts, 1750, prima che cominci la Parte Prima: «quel que soit mon succès, il est un prix qui ne peut me manquer: je le trouverai dans le fond de mon cœur» 27. Du Contrat social ou Principes du droit politique, 1762, prima che cominci il capitolo primo: «On me demandera si je suis prince ou législateur pour écrire sur la politique? Je réponds que non, et que c’est pour cela que j’écris sur la politique» 28. Julie, ou La Nouvelle Héloïse, 1761, prefazione: «Ce livre […] doit déplaire aux dévots, aux libertins, aux philosophes: il doit choquer les femmes galantes, et scan25

Cfr. F. ORLANDO, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici, con una postfazione di S. Zatti, Pacini, Pisa 2007 (Padova 1966), pp. 19-20, 39, 43. 26 J.-J. ROUSSEAU, Œuvres complètes, t. I, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1960, p. 995; «Eccomi dunque solo sulla terra…». Da qui in poi, in tutte le citazioni da Rousseau, modernizzerò e regolarizzerò l’ortografia. 27 ID., Œuvres complètes, t. III, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1964, p. 6; «quale che sia il successo che avrò, c’è un premio che non può mancarmi: lo troverò nel fondo del mio cuore». Nel Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, 1755, la natura prende il posto dell’io e lo situa simmetricamente all’opposto: «Tout ce qui sera d’elle, sera vrai: il n’y aura de faux que ce que j’y aurai mêlé du mien sans le vouloir», ivi, p. 133 («Tutto ciò che le apparterrà, sarà vero: non ci sarà di falso che ciò che vi avrò mescolato del mio senza volere»). 28 Ivi, p. 351; «Mi si domanderà se sono principe o legislatore per scrivere sulla politica? Rispondo di no, e che è per questo che scrivo sulla politica».

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daliser les honnêtes femmes. À qui plaira-t-il donc? Peut-être à moi seul…» 29. Émile ou de l’Éducation, 1762, prefazione: On croira moins lire un traité d’éducation, que les rêveries d’un visionnaire sur l’éducation. Qu’y faire? Ce n’est pas sur les idées d’autrui que j’écris, c’est sur les miennes. Je ne vois rien comme les autres hommes; il y a longtemps qu’on me l’a reproché. Mais dépend-il de moi de me donner d’autres yeux, et de m’affecter d’autres idées? Non» 30.

Arrivava dunque ben preparato, quando lo si poté leggere postumo e Rousseau era ormai da tempo l’idolo dei lettori, l’ambizioso proposito che apre le Confessions: «Je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple, et dont l’exécution n’aura point d’imitateur. Je veux montrer à mes semblables un homme dans toute la vérité de la nature; et cet homme, ce sera moi». Un uomo da mostrare ai suoi simili, e in tutta la verità della natura, dovrebbe valere quale rappresentante della specie; un rigo dopo, proprio questo è smentito categoricamente: «Je ne suis fait comme aucun de ceux que j’ai vus; j’ose croire n’être fait comme aucun de ceux qui existent» 31. Ma i tempi sono maturi, il gioco è sicuro – gioco inconsapevole, si capisce: più l’individuo si ostenta unico e abnorme, più la sua unicità è idonea a farsi norma per altri individui, ognuno dei quali si propone a uno a uno, e che solo dal numero sono resi una massa. Ognuno troverà un premio in fondo al suo cuore, sarà il solo a cui il suo libro piaccia, 29 ID., Œuvres complètes, t. II, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1961, pp. 5-6; «Questo libro […] deve dispiacere ai devoti, ai libertini, ai filosofi: deve urtare le donne leggere, e scandalizzare le donne perbene. A chi piacerà dunque? Forse a me solo…». 30 ID., Œuvres complètes, t. IV, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1969, p. 242; «Si avrà l’impressione di leggere meno un trattato sull’educazione, che le fantasticherie di un visionario sull’educazione. Che farci? Non è sulle idee degli altri che scrivo, è sulle mie. Non vedo niente come gli altri uomini; è da tanto che mi è stato rimproverato. Ma dipende da me darmi altri occhi, e assegnarmi altre idee? No». 31 ID., Œuvres complètes, t. I, cit., p. 5; «Concepisco un’impresa che non ebbe mai esempio, e la cui esecuzione non avrà nessun imitatore. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quell’uomo, sarò io»; «Non sono fatto come nessuno di coloro che ho visti; oso credere che non sono fatto come nessuno di coloro che esistono».

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scriverà di ciò a cui non è autorizzato, non potrà farci niente se ha i propri occhi e le proprie idee. Tutti diversi, tutti uguali. Nato più di cinquant’anni dopo, il visconte di Chateaubriand con la sua opera ripete e capovolge il modello del cittadino di Ginevra; lo aggiorna ulteriormente alla mobilità sociale degli scombussolati tempi che quel modello aveva affrettato. Identico nei due casi è il contrasto fra eterogeneità dei generi di scrittura e unità inconfondibile assicurata dall’io – da un io interno alle opere complete, prima che da un uomo celebre nella vita. L’opera più famosa, Génie du Christianisme, è un’apologia religiosa profondamente rinnovata; Atala e René, che ne facevano parte ma ne furono staccati, sono due romanzi brevi; Les Martyrs tentano tutt’altra narrativa, un’epopea cristiana in alta prosa; il monumentale capolavoro è naturalmente di nuovo autobiografico, e postumo per progetto, i Mémoires d’Outre-Tombe; pure autobiografia sono per loro impianto i racconti di altrettanti viaggi, in America, in Italia, da Parigi a Gerusalemme e viceversa; e ci sono scritti politici, scritti di critica letteraria, la vita del riformatore trappista Rancé… L’autore non diventa meno personaggio di Rousseau, ma è qui che s’innesta la differenza. Rousseau era nato e morto sotto l’antico regime; Chateaubriand sarebbe propriamente impensabile se quando aveva ventun anni non fosse scoppiata la Rivoluzione. La sua scrittura non presuppone speculazioni da philosophe, bensì viene esercitata per così dire nella storia, e non tarda a fare di lui un uomo pubblico. Il Génie coincide nel 1802 con la ratifica del concordato fra Napoleone e la Chiesa; il libello De Buonaparte et des Bourbons, nel 1814, con l’abdicazione di Napoleone. 1833, «prefazione testamentaria» ai Mémoires tuttora in corso: «J’ai rencontré presque tous les hommes qui ont joué de mon temps un rôle grand ou petit à l’étranger et dans ma patrie, depuis Washington jusqu’à Napoléon…» ecc.; «Je me suis mêlé de paix et de guerre; j’ai signé des traités, des protocoles et publié chemin faisant de nombreux ouvrages»; «J’ai fait de l’histoire, et je pouvais l’écrire» 32. Se ha pub32 CHATEAUBRIAND, Mémoires d’Outre-Tombe, t. I, Garnier, Paris 1989, pp. 843844; «Ho incontrato quasi tutti gli uomini che hanno recitato ai miei tempi una parte grande o piccola all’estero e nella mia patria, da Washington fino a Napoleone»

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blicato opere, si badi, è stato cammin facendo. E il protagonista rivale con cui idealmente si misura è Napoleone, di cui nei Mémoires narra magnificamente la vicenda. Ora, avevano fatto storia più di lui Cesare, Augusto, Luigi XIV, Napoleone stesso, e scrivendone si erano assicurato un posto grande o piccolo anche in letteratura; così come, con rilievo politico minore e letterario maggiore, Tucidide o Machiavelli o il cardinale di Retz… E benché il solo Cesare si annulli nel ruolo pubblico fino a parlare di sé in terza persona, nessuno aveva usato di quel ruolo per poter dire io con la stessa pregnanza soggettiva che in una scrittura a tema privato. Nessuno era stato maestro innovatore e precursore d’intimità individuale – un’intimità nient’affatto separata, ecco cos’è nuovo, dalla dimensione storica. Si può dire che preesistevano due diversi tipi di malinconia: da sempre, quella della caducità universale a fondo religioso; dopo Rousseau, quella del tenero ricordo personale. Chateaubriand le fonde in una, o ne inventa una terza, che chiamerei malinconia storica. I Mémoires vogliono evocare l’avvicendamento di situazioni e persone alla luce dell’eterna precarietà umana, e il bisogno da cui nascono di rivivere il passato è radicato nella parte individualmente più antica cioè infantile di esso; insieme, però, quel bisogno è proporzionale a una coscienza d’inaudita irreversibilità della storia recente. La rievocazione deve risalire indietro non solo rispetto all’età dell’autore, dai quarantun anni dell’inizio di redazione (1809) ai settantatré del compimento (1841), ma anche rispetto a una successione di regimi e alla violenta cesura d’una rivoluzione. Lontani due volte, ispirano le pagine più indimenticabili i ricordi di adolescenza nel castello di Combourg, smisurato e quasi vuoto eppure sfondo domestico di abitudini quotidiane. Il romanzo gotico inglese aveva sancito, nei suoi castelli spettrali, l’estraneità delle classi nuove all’eccesso di spazio delle vecchie dimore; e la decadenza nobiliare sarà oggetto prediletto di rappresentazione per tutto l’Ottocento, in una narrativa europea destinata a masse di lettori borghesi. Ma Chateaubriand memorialista resterà (fino al Gattopardo di Lampedusa, che è però un romanzo, e del secolo dopo) il ecc.; «Mi sono occupato di pace e di guerra; ho firmato trattati, protocolli e pubblicato cammin facendo numerose opere»; «Ho fatto storia, e potevo scriverla».

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solo nobile decaduto che si faccia soggetto anziché oggetto di scrittura, che guardi dall’interno la propria famiglia e dimora 33. Se accenno adesso un confronto con Goethe, nato a metà strada circa fra Rousseau e Chateaubriand, è per mettere meglio in rilievo la singolarità comune a costoro, l’entità dei residui d’uomo incorporati nella loro opera. In narrativa, il prototipo del protagonista insoddisfatto e irrequieto, dell’«anima sensibile» preromantica era stato Saint-Preux nella Nouvelle Héloïse di Rousseau; quarant’anni dopo, il René del breve romanzo omonimo di Chateaubriand gli somiglia. Frattanto però Goethe aveva creato Werther (1774), Faust (dal 1775), Wilhelm Meister (1777), l’immaginario Torquato Tasso (1790: «einen gesteigerten “Werther”» 34). Pure, accanto a ogni protagonista aveva messo un contrappeso dialettico, un personaggio complementare: il calmo e pratico Albert, il diabolico razionalista Mefistofele, il commerciante Werner, il cortigiano Antonio. Non si può certo dire che sia un io vistosamente soggiacente a tenere insieme la sua opera – senza confronto più obiettivata. La molteplicità di essa non è minore che in quegli altri casi, ma consiste in primo luogo nella capacità di grandeggiare in tutti e tre i tradizionali generi forti, lirica, teatro e narrativa (come poi riuscirà a Pus]kin, e già meno equamente a Hugo o al nostro periferico D’Annunzio). È d’obbligo citare il passo da Dichtung und Wahrheit, il capolavoro autobiografico che non manca neanche stavolta, in cui è rivelata la precoce tendenza «dasjenige was mich erfreute oder quälte, oder sonst beschäftigte, in ein Bild, ein Gedicht zu verwandeln und darüber mit mir selbst abzuschliessen…». Se l’opera come prodotto la fa finita con l’io, come intendere quanto Goethe afferma poche righe più sotto: tutte le sue cose pubblicate «sind nur Bruchstücke einer grossen Konfession» 35, che l’autobiografia tenta ora di completare? Non 33

Cfr. F. ORLANDO, Infanzia, memoria e storia…, cit., pp. 99-125; ID., Temps de l’histoire, espace des images, in J.-C. BERCHET e Ph. BERTHIER (a cura di), Chateaubriand mémorialiste. Colloque du cent cinquantenaire, Droz, Genève 2000, pp. 109-118. 34 J. P. ECKERMANN, Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens. 1823-1832, Aufbau-Verlag, Berlin 1956, p. 323; «un Werther aumentato». 35 J. W. GOETHE, Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, II Teil, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1962, p. 66 (Siebentes Buch); «a trasformare quel che

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lo si può certo intendere in senso testuale, come sottinteso imposto al lettore, parte necessaria della sua comprensione; solo in senso psicologico, relativo alla creazione e ai suoi effetti catartici, ossia solo dal lato dell’autore. E questo può essere vero per qualsiasi produzione artistica, anche tutte le innumerevoli volte che un autore non lo rivela. Goethe dichiara un’identificazione tra io e personaggio anche accennando alla genesi, per esempio, del Faust: «Auch ich hatte mich…», «Ich hatte es auch…» 36. Ma annuncia quasi come un movente dell’impresa autobiografica stessa il ripensamento della genesi del Werther 37. Cioè del libro per eccellenza soggettivo, iniziale, e in quanto tale catartico: sia per il tema del suicidio, così ossessivo nell’esemplarità moderna della letteratura inglese 38; sia per l’inedita riduzione da dialogo a monologo della formula epistolare, che aveva dominato il romanzo europeo del secolo. «Mag er sich […] äussern, so wird es durch Briefe geschehn; denn einem schriftlichen Erguss, er sei fröhlich oder verdriesslich, setzt sich doch niemand unmittelbar entgegen»: ogni ragionevole risposta non dà che un’occasione di ostinarsi al nevrotico rinchiuso in sé, e le lettere dell’amico destinatario di Werther sono omesse 39. Goethe racconta con sincera lucidità qual era stata, oltre ai condizionamenti di modelli sociali e codici letterari, la combinazione non meno favorevole fra un doppio vissuto proprio e un tragico vissuto altrui (il suicidio del giovane Jerusalem) 40. A manoscritto pronto, già alle prime letture da parte di amici, insorge però un contrasto fra intenzioni inversamente dirette: «Wie ich mich nun aber dadurch erleichtert und aufgeklärt fühlte, die Wirklichkeit in mi allietava o mi tormentava, o comunque mi occupava, in immagine, in poesia, e così farla finita con me stesso…»; «sono solo frammenti di una grande confessione». 36 Ivi, p. 186 (Zehntes Buch); «Anch’io mi ero…»; «Io pure avevo…». 37 ID., Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, III und IV Teil, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1962, p. 91 (Zwölftes Buch). 38 Ivi, pp. 124-130 (Dreizehntes Buch). 39 Ivi, pp. 123-124 (Dreizehntes Buch); «Se desidera […] esprimersi, sarà per lettera: poiché a un’effusione scritta, che sia gioiosa o irritata, nell’immediato nessuno si oppone». 40 Ivi, pp. 91-95 (Zwölftes Buch), 131-132 (Dreizehntes Buch).

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Poesie verwandelt zu haben», gli amici fanno la confusione di credere che invece «man müsse die Poesie in Wirklichkeit verwandeln». Non solo con l’estrema tentazione di rivivere in proprio il romanzo sino a spararsi alla fine 41, ma anche in modo meno letterale e alla lunga meno innocuo: so wollten sie sämtlich ein für allemal wissen, was denn eigentlich an der Sache wahr sei; worüber ich denn sehr ärgerlich wurde, und mich meistens höchst unartig dagegen äusserte. Denn diese Frage zu beantworten, hätte ich mein Werkchen, an dem ich so lange gesonnen, um so manchen Elementen eine poetische Einheit zu geben, wieder zerrupfen und die Form zerstören müssen… 42

Sono già i termini della futura protesta di Proust contro SainteBeuve. Purtroppo il biografismo sia ingenuo che erudito si è dimostrato così recidivo, da allora, da incoraggiare meno il giusto furore di Goethe giovane che la pessimistica rassegnazione di lui autobiografo maturo: «Man kann von dem Publikum nicht verlangen, dass es ein geistiges Werk geistig aufnehmen solle. Eigentlich ward nur der Inhalt, der Stoff beachtet…» 43. Il più anziano dei grandi romantici inglesi, Wordsworth, compì con The Prelude un tentativo unico, l’autobiografia in versi: morale, culturale, ma non priva di squarci fattuali e descrittivi, di riferimenti anche storici dato che fu in Francia fra il 1790 e il 1792. Mancò nel suo caso, con la risonanza europea, l’emergere di un personaggio giocato a cavallo fra opera e vita – come nei casi di Rousseau e Chateaubriand, e non di Goethe. Nessuno invece più di Byron, come 41 Ivi, p. 133 (Dreizehntes Buch); «Come però io adesso mi sentivo alleviato e chiarificato per aver trasformato la realtà in poesia»; «si debba trasformare la poesia in realtà». 42 Ivi, p. 137 (Dreizehntes Buch); «volevano tutti quanti sapere, una volta per tutte, cosa c’era di vero nella faccenda; io me ne arrabbiai molto, e fui per lo più sgarbatissimo nel dichiararmi contro. Per rispondere alla domanda infatti avrei dovuto prendere la mia piccola opera, su cui avevo tanto meditato per dare unità poetica a elementi così numerosi, sfilacciarla di nuovo e distruggerne la forma». 43 Ivi, p. 135, e cfr. p. 138 (Dreizehntes Buch); «Non ci si può aspettare dal pubblico che debba accogliere con l’intelletto un’opera intellettuale. In realtà si badò solo al contenuto, alla materia…».

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tutti sanno, incarnò compiutamente e clamorosamente quel tipo di personaggio. A prima vista può sorprendere, dato che l’opera di Byron – come quella di Goethe e a differenza dai casi di Rousseau e Chateaubriand – si distribuisce tutta tra lirica, teatro e narrativa, sempre in versi. Di manoscritti memorialistici ce ne furono, ma finirono bruciati a due riprese, nel 1809 da lui ventunenne durante il viaggio che ispirò Childe Harold’s Pilgrimage, nel 1824 da altri dopo la sua morte (a quanto pare soprattutto per quel che confessavano di omosessuale) 44. Il Pilgrimage è mal classificabile tra i generi letterari: diario di viaggio in stanze spenseriane anziché in prosa, turistico, esotico, lirico, ironico, poverissimo di narrazione personalizzata; del protagonista, cioè dell’io, vi si parla in terza persona. Eppure è difficile non supporre che almeno il dato fondante della partenza si ponga quale rinvio autobiografico, tanto più in quanto le cause, dissolutezza, libertinaggio, sazietà, disgusto della patria, un unico vero amore proibito, sono accennate evasivamente e non verranno mai riprese dopo. «Yet oft-times in his maddest mirthful mood / Strange pangs would flash along Childe Harold’s brow / As if the memory of some deadly feud / Or disappointed passion lurk’d below» 45. Da tempo, una generale preferenza per il capolavoro in cui il cinismo romantico imboccò la via dell’umorismo, Don Juan, ha eclissato il successo travolgente del Pilgrimage nel 1812 – e, nel 1813-1814, della serie di racconti che chiamerei fatale-orientale: The Giaour, The Corsair, Lara. Comunque, nel trovare datati quei racconti seri si avrebbe torto, lo vedremo subito, di definirli melodrammatici. Nel Giaour (sottotitolo A Fragment, «disjointed fragments» secondo l’Advertisement), il protagonista a cavallo fa la sua prima apparizione arrestandosi solo un istante, e da lui non trapelano solo odio e furore: «But in that instant o’er his soul / Winters of Memory seem’d 44 F. MACCARTHY, Byron. Life and Legend, Farrar, New York 2002, pp. XII-XIII, 87, 105, 238, 369-370, 538-539. 45 BYRON, Childe Harold’s Pilgrimage, in The Poetical Works of Lord Byron, University Press, Oxford 1959, pp. 180-181 (stanza VIII, ma cfr. stanze II-VI); «Pure, spesso, nei suoi umori di più folle gaiezza / Strani spasimi balenavano sulla fronte del giovane Aroldo / Come se il ricordo d’una qualche contesa mortale / O d’una delusa passione vi si appiattasse dietro».

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to roll, / And gather in that drop of time / A life of pain, an age of crime» 46. Seem’d, parvero: il narratore lo guarda dall’esterno; è mediante pronomi interrogativi che lo introduce, «Who thundering comes on blackest steed…?», che ne indaga ulteriormente i sentimenti, «What felt he then…?» 47. Quando lo ritroviamo monaco ortodosso, di lui dicono altri monaci: «And here it soothes him to abide / For some dark deed he will not name»; poi il narratore: «The flash of that dilating eye / Reveals too much of times gone by»; e lui stesso: «The very crimes that mar my youth, / The bed of death – attest my truth!» 48. Senso di colpa talmente misterioso da precedere o trascendere ogni motivazione narrativa, ammetterne solo di brevi e frammentarie. Il personaggio fatale esprime il meno possibile se stesso; le voci narranti ne congetturano l’interiorità, non essendo in grado di svelarla. Nel Corsair, e in Lara che è una continuazione, si mantiene la costante tematica, la colpa indefinita e remota di gioventù 49; s’intensifica la costante fra grammaticale e narratologica, i pronomi e avverbi interrogativi. Chi è? che ha commesso? quando, dove, perché? «But who that CHIEF…?» 50; «What had he been? what was he, thus unknown…?» 51; e spesso «What…?», «why…?», «whence…?», «where…?» 52. Ma in quei terzi anonimi ed ignari alla cui prospettiva dovrebbero corrispondere 46

ID., The Giaour. A Fragment of a Turkish Tale, in The Poetical Works of Lord Byron, cit., p. 255, vv. 261-264; «Ma in quell’istante sulla sua anima / Inverni di memoria parvero trascorrere, / E raccogliere in quella goccia di tempo / Tutta una vita di pena, tutta un’era di delitti». 47 Ivi, p. 254, v. 180; p. 255, v. 267; «Chi giunge tonante su nerissimo destriero…?»; «Cosa provò egli allora…?». 48 Ivi, p. 259, vv. 800-801; p. 260, vv. 834-835; p. 263, vv. 1188-1189; «E qui lo conforta rifugiarsi / Per qualche oscura azione cui non dà nome»; «Il lampo di quest’occhio se si dilata / Rivela troppo di tempi trascorsi»; «I delitti stessi che macchiano la mia gioventù, / Il letto di morte – attestano che dico il vero!». 49 Ivi, p. 281, The Corsair I, vv. 211-212, 246; p. 304, Lara I, vv. 67-68, 77-78, 83-84, 85-94; p. 309, Lara I, vv. 482-483, 488-489; p. 309, Lara II, vv. 455, 504-505, p. 310, vv. 526-530, p. 317, vv. 450-453, p. 318, vv. 538-539. 50 Ivi, p. 278, The Corsair I, v. 61; «Ma chi è questo CAPO?». 51 Ivi, p. 307, Lara I, v. 295; «Che cosa egli era stato? che cosa era, così sconosciuto?». 52 Ivi, p. 280, The Corsair I, vv. 179, 181; p. 303, Lara I, vv. 12, 44; p. 312, Lara II, v. 50, p. 313, vv. 143-144, p. 318, vv. 528, 530; «Che cosa…?»; «perché…?»; «donde…?»; «dove…?».

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tali interrogativi, chi volete che sia adombrato se non inorriditi e affascinati lettori, appassionatamente curiosi? E curiosi di che altro se non della vita d’autore – di quell’autore il cui esibizionismo introvertito, il cui provocatorio eccesso di discrezione mira precisamente a sollecitare la loro indiscrezione? 53 Mi piace chiudere su un così obliquo effetto autobiografico; nascente non da confessione, tanto meno da effusione romantica o immediatezza melodrammatica, bensì dal contrario: da fosche, patetiche e subdole figure di reticenza.

53 Nella Prefazione al Pilgrimage, e relativa aggiunta, è più maliziosa di quanto una tradizione non prevedesse la presa di distanze da Harold: «personaggio fittizio», «figlio dell’immaginazione», ma anche «supremamente detestabile» (ivi, p. 179). La dedica del Corsair spinge la sfida sino ad ammettere l’identificazione fra protagonista e autore: se questi ha deviato nella «tetra vanità» di dipingersi dal vero, il risultato è plausibile dal momento che è sfavorevole; non desidera che altri, se non intimi, lo credano migliore delle creature della sua immaginazione (ivi, p. 277).

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I Libri dell’Associazione Sigismondo Malatesta

Studi di letterature comparate e teatro (prima serie) Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Francesco Fiorentino

1. Il romanzo tra i due secoli (1880-1918) a cura di Paolo Amalfitano (1993) Saggi di: M. Bongiovanni Bertini, R. Ceserani, F. Erspamer, G. Farese, F. Marenco, M. Modenesi, S. Perosa, P. Pugliatti 2. Realismo ed effetti di realtà nel romanzo dell’Ottocento a cura di Francesco Fiorentino (1993) Saggi di: A. M. Carpi, A. Castoldi, M. Colummi Camerino, F. Fiorentino, G. Iotti, F. Marucci, G. Merlino, F. Moretti, F. Orlando, S. Sabbadini 3. Il valore del falso. Errori, inganni, equivoci sulle scene europee in epoca barocca a cura di Silvia Carandini (1994) Saggi di: F. Angelini, A. D’Agostino, D. Dalla Valle, S. Ferrone, N. Fusini, A. Lombardo, F. Marenco, F. Orlando, M. G. Profeti, A. Serpieri, F. Vazzoler 4. La tradizione dell’umorismo nero di Stefano Brugnolo (1994)

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5. Scene, itinerari, dimore. Lo spazio nella narrativa del ’700 a cura di Loretta Innocenti (1995) Saggi di: P. Amalfitano, A. Castoldi, A. Chiarloni, P. Colaiacomo, G. Fink, G. Mazzacurati, F. Moretti, A. Pizzorusso, A. Principato, S. Romagnoli 6. Proust e la cultura anglosassone di Carlo Lauro (1995) 7. Sui primi poeti del Novecento: la generazione degli anni Ottanta a cura di Giuseppe Merlino (1995) Saggi di: M. Bacigalupo, A. Berardinelli, C. G. De Michelis, P. V. Mengaldo, I. Porena, M. Richter, S. Sabbadini, G. Sacerdoti 8. Meraviglie e orrori dell’aldilà. Intrecci mitologici e favole cristiane nel teatro barocco a cura di Silvia Carandini (1995) Saggi di: E. Cancelliere, S. Carandini, P. Fabbri, G. Fasano, D. Gambelli, V. Gentili, P. Petrobelli, G. Sacerdoti, F. Taviani 9. Raccontare e descrivere. Lo spazio nel romanzo dell’Ottocento a cura di Francesco Fiorentino (1997) Saggi di: R. Ceserani, F. Marenco, F. Moretti, C. Pagetti, A. Serpieri, P. Tortonese, L. Villa, E. Villari, L. Zagari 10. Chiarezza e verosimiglianza. La fine del dramma barocco a cura di Silvia Carandini (1997) Saggi di: R. Ciancarelli, C. De Seta, M. Fagiolo dell’Arco, F. Fiorentino, R. Giomini, L. Innocenti, A. Lombardo, V. Papetti, J. Rousset, G. Violato, N. von Prellwitz

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11. Le configurazioni dello spazio nel romanzo del ’900 a cura di Paolo Amalfitano (1998) Saggi di: P. Amalfitano, V. Amoruso, M. Bongiovanni Bertini, V. Coletti, A. Gargano, A. Lavagetto, M. Lavagetto, F. Malcovati, G. Mochi, S. Sabbadini, S. Teroni 12. Il personaggio romanzesco. Teoria e storia di una categoria letteraria a cura di Francesco Fiorentino e Luciano Carcereri (1998) Saggi di: R. Ascarelli, M. Botto, F. Brioschi, M. Domenichelli, F. Fiorentino, G. Grilli, P. Hamon, R. Luperini, A. Varvaro 13.14.15. Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea fra ’500 e ’600 a cura di Silvia Carandini (2000) Saggi di: P. Amalfitano, F. Angelini, G. Aquilecchia, S. Arata, E. Bonfatti, R. Camerlingo, C. Corti, D. Dalla Valle, G. Forestier, M. Fusillo, A. Gareffi, H. Gatti, G. Grilli, M. Lombardi, S. Mamone, F. Marenco, C. Mazouer, B. Papasogli, M. Plaisance, P. C. Rivoltella, S. Rufini, G. Sacerdoti, A. Serpieri, E. Tamburini, R. Tessari, S. Zatti 16. Il giudizio di valore e il canone letterario a cura di Loretta Innocenti (2000) Saggi di: H. Bloom, L. Bolzoni, A. Castoldi, C. Corti, L. Dällenbach, E. Franco, F. Marenco, F. Moretti 17. La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud di Stefano Brugnolo (2001)

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18. La poesia dell’età romantica. Lirismo e narratività a cura di Andreina Lavagetto (2002) Saggi di: M. R. Alfani, G. Cacciavillani, P. Colaiacomo, S. Corrado, P. Gibellini, A. Guyaux, G. Iotti, F. Rognoni, L. Rossi 19. Il ritratto dell’artista nel romanzo tra ’700 e ’900 a cura di Enrica Villari e Paolo Pepe (2002) Saggi di: G. Baioni, P. Boitani, A. Boschetti, S. Calabrese, M. d’Amico, M. Palumbo, S. Perosa, G. P. Piretto, G. Rubino, P. Tortonese 20. La trama nel romanzo del ’900 a cura di Luca Pietromarchi (2003) Saggi di: A. Boscaro, A. Cagidemetrio, A. Compagnon, C. Corti, C. Gorlier, S. Perosa, L. Pietromarchi, E. Pittarello, G. C. Roscioni 21. Il tragico nel romanzo moderno a cura di Piero Toffano (2003) Saggi di: P. Amalfitano, A. Asor Rosa, A. M. Carpi, B. Clément, I. Duncan, F. Fiorentino, F. Marenco, G. Paduano, C. Segre, V. Strada, P. Toffano 22. Le emozioni nel romanzo. Dal comico al patetico a cura di Paolo Amalfitano (2003) Saggi di: P. Amalfitano, C. Benedetti, A. Chiarloni, M. Domenichelli, M. T. Giaveri, H. Godard, A. Guyaux, A. Portelli, A. Redondo, P. Tortonese, E. Villari, S. Zatti

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23.24. La scena ritrovata. Mitologie teatrali del Novecento a cura di Delia Gambelli e Fausto Malcovati (2004) Saggi di: F. Angelini, S. Arata, U. Artioli, C. Corti, C. G. De Michelis, M. Fazio, M. Fusillo, L. Innocenti, A. Landolfi, F. Malcovati, F. Marotti, D. Millet-Gérard, G. Paduano, P. Puppa, D. Rizzi, S. Saïd, F. Taviani, A. Tinterri 25. Il bene e il male. L’etica nel romanzo moderno a cura di Paolo Tortonese (2007) Saggi di: F. D’Intino, T. Eagleton, P. Glaudes, F. Gregori, P. Jourde, G. Mazzoni, J. M. Pozuelo Yvancos, D. Rebecchini, J. Wertheimer

continua in due diverse collane: Studi di letterature comparate (seconda serie) Studi di teatro e spettacolo (seconda serie)

Studi di letterature comparate (seconda serie) Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Francesco Fiorentino

1. A. Hamilton, M. G. Lewis I quattro Facardin. Racconto orientale a cura di Chetro De Carolis (2008)

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2. La biografia a cura di Chetro De Carolis (2008) Saggi di: A. Andreoli, M. Bongiovanni Bertini, J. Canavaggio, A. Compagnon, L. Corti, C. Frugoni, A. Gurr, F. Orlando, V. Papetti, P. Pugliatti, A. Varvaro 3. La Storia nel romanzo (1800-2000) a cura di Marinella Colummi Camerino (di prossima pubblicazione) Saggi di: C. Barbanente, A. Beretta Anguissola, P. Berthier, D. Del Corno, G. Mariani, M. Meriggi, J. Molino, D. Rizzi, J. Urrutia, E. Villari, F. Zambon 4. L’eroe e l’ostacolo. Forme dell’avventura nella narrativa occidentale a cura di Sergio Zatti (di prossima pubblicazione) Saggi di: S. Brugnolo, M. A. Doody, M. Fusillo, A. Gargano, G. Merlino, G. Paduano, S. Perosa, R. Trachsler, S. Zatti 5. Il corpo e la sensibilità morale nel ’700. Letteratura e teatro in Francia e Inghilterra a cura di Gianni Iotti e Maria Grazia Porcelli (di prossima pubblicazione) Saggi di: P. Amalfitano, A. Castoldi, C. Corti, M. Delon, P. Frantz, C. Imbroscio, L. Innocenti, G. Iotti, M. G. Messina, G. Mochi, O. Mostefai, M. G. Porcelli, A. Violi 6. Il paganesimo nella letteratura dell’800 a cura di Paolo Tortonese (di prossima pubblicazione) Saggi di: G. Chamarat-Malandain, S. Corrado, F. D’Intino, P. Labarthe, B. Marchal, L. Pietromarchi, D. Rizzi, P. Tortonese, F. Vercellone, E. Villari, S. Zenkine

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Studi di teatro e spettacolo (seconda serie) Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Loretta Innocenti

1. Le passioni in scena. Corpi eloquenti e segni dell’anima nel teatro del XVII e XVIII secolo a cura di Silvia Carandini (di prossima pubblicazione) Saggi di: M. I. Aliverti, S. Argentieri, M. Bayard, C. Bologna, S. Castelvecchi, B. Craveri, P. Frantz, G. Giordano, J. Lichtenstein, F. Marenco, F. Pedraza Jiménez, R. Raffaelli, E. Sala di Felice

Studi sul cinema Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Franco Monteleone

1. Il racconto tra letteratura e cinema a cura di Lucilla Albano (1997) Saggi e interventi di: L. Albano, G. Amelio, G. Bertolucci, I. Bignardi, G. Fink, C. Garboli, M. Grande, R. La Capria, M. Martone, G. Merlino, P. Ortoleva, M. Rafele, L. Ravera, F. Scarpelli, G. Tinazzi 2. Modelli non letterari nel cinema a cura di Lucilla Albano (1999)

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Saggi e interventi di: A. Abruzzese, A. Aprà, S. Bernardi, B. Bertolucci, E. Dagrada, G. De Vincenti, G. Frezza, M. M. Gazzano, P. Montani, M. Rafele, P. Terni 3.4. Il cinema che ha fatto sognare il mondo. La commedia brillante e il musical a cura di Franco La Polla e Franco Monteleone (2002) Saggi e interventi di: J.-L. Bourget, R. Campari, V. Caprara, E. Comuzio, R. Durgnat, J. W. Finler, L. Gandini, G. Gosetti, E. Guzzo Vaccarino, F. La Polla, F. Malcovati, A. Masson, I. Moscati, G. Muscio, P. Ortoleva, A. Sapori, V. Zagarrio 5. Science Fiction a cura di Franco Monteleone e Cecilia Martino (2003) Saggi e interventi di: G. Canova, G. Cremonini, M. Fadda, V. Fortunati, F. La Polla, C. Pagetti, P. Rouyer, R. Runcini, V. Sobchack, M. Spanu, M. W. Bruno 6. Il Melodramma a cura di Elena Dagrada (2007) Saggi di: L. Albano, M. Bongiovanni Bertini, G. Biancorosso, J. H. Delamater, T. Elsaesser, S. Miceli, D. Nasta, E. Sala, G. Spagnoletti, M. Tedeschi Turco, C. Viviani

continua in Studi di teatro e spettacolo (seconda serie)

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Studi inter artes Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Loretta Innocenti

1. L’Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000) a cura di Paolo Amalfitano e Loretta Innocenti (2007) I. Dal Settecento al Novecento Saggi di: P. Amalfitano, M. Baridon, M. Bernardini, T. Betzwieser, L. Caterina, M. Delon, G. Ducrey, F. Fido, F. Fiorentino, M. Girardi, A. Gonzáles-Palacios, A. Grosrichard, A. Guarnieri Corazzol, J. Harris, L. Innocenti, G. Iotti, B. Jobert, K. A. Jürgensen, G. Lacambre, N. Leask, R. Leydi, J. MacKenzie, J. Maehder, F. Marenco, B. Moore-Gilbert, C. Mossetti, L. Omacini, A. Ottani Cavina, G. Paduano, C. Peltre, S. Perosa, L. Pietromarchi, A. Pinelli, M. Pogacnik, J. Ridley, F. Rubellin, D. Saglia, J. Sasportes, N. Savarese, G. Scarcia, P. Tortonese, G. Wood, L. Zagari II. Il Novecento Saggi di: G. Banu, S. Carandini, A. M. Carpi, A. Castoldi, J. Chen, M. De Marinis, V. Di Bernardi, L. Galliano, H. Godard, G. Grilli, A. Guetta, E. Guzzo Vaccarino, F. La Polla, Kii-Ming Lo, J. Maehder, J. Majeed, J.-H. Martin, D. Millet-Gérard, N. Misler, P. A. Morton, A. Narain Lambah, J.-P. Naugrette, M. R. Novielli, H. U. Obrist, B. Picon-Vallin, L. C. Pronko, P. Roger, M. Rowell, I. Sagiyama, E. Sánchez García, M. Sebregondi, M. Speidel, I. Spinelli, I. Stoianova, A. Tatlow, F. Taviani, D. Tomasi, M. Treib, R. Vescovi, A. Vettese, P. Williams, L. Zecchi

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2. Queneau: la scrittura e i suoi multipli. Storie, grafi, scienze e fiori… a cura di Chetro De Carolis e Delia Gambelli (di prossima pubblicazione) Saggi di: P. Bertetto, C. Bologna, C. De Carolis, M. Emmer, P. Fournel, D. Gambelli, H. Godard, A. M. Jaton, M. Pistoia, M. Sebregondi, C. Zambianchi, I. Zanot

Studi di scienze economiche, storiche e sociali Collana diretta da Marina Colonna e Enzo Mingione

1. L’età di Papa Clemente XIV. Religione, politica, cultura a cura di Mario Rosa e Marina Colonna (di prossima pubblicazione) Saggi di: L. Bartolini Salimbeni, C. Canonici, F. Di Marco, D. Gallo, I. L. Gatti, N. Guasti, G. Imbruglia, A. Nacinovich, S. Nanni, R. Randolfi, M. Rosa, A. Silvestrini, P. Stella

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