La «baroccaggine» del mondo. Sui romanzi di Gadda
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INDICE
PREMESSA
I. GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO
2. IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA
3. LA MECCANICA:LA «VITA FULGIDA, VERA» CONTRO LA «FINTA»
4. UN FULMINE SUL 220: L’ANIMA PRIVILEGIATA, LA BORGHESIA E LA VITALITÀ DEL POPOLO
5. «PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE»
6. IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO
INDICE DEI NOMI
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Guido Baldi

LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO Sui romanzi di Gadda

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DOMINI

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C R I T I C A E L E T T E R AT U R A 128

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Collana diretta da Laura Di Michele

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO Sui romanzi di Gadda

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INDICE

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1

Premessa

Capitolo 1 5 Gadda narratologo: la teoria del punto di vista nel Racconto italiano Capitolo 2 18 Il Racconto italiano: fascismo e socialismo nel «caos» del dopoguerra Capitolo 3 65 La meccanica: la «vita fulgida, vera» contro la «finta» Capitolo 4 100 Un fulmine sul 220: l’anima privilegiata, la borghesia e la vitalità del popolo Capitolo 5 148 «Pasticcio» e ordine nella Cognizione: la centralità unificante del «dolore» Capitolo 6 190 Il Pasticciaccio: «barocco», romanzo primo e romanzo secondo 231

Indice dei nomi

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a Elena, Margherita, Nina, Romeo

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Il grido-parola d’ordine «barocco è il G.!» potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine». La sua secreta perplessità e l’orgoglio secreto affioravano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide. La cognizione del dolore Je riz en pleurs François Villon

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PREMESSA Nel 1972 pubblicai una monografia su Gadda nella collana Profili della Civiltà letteraria del Novecento dell’editore Mursia, diretta da Giovanni Getto, Giorgio Bárberi Squarotti e Edoardo Sanguineti. Era una delle primissime a uscire, dopo quella magistrale di Gian Carlo Roscioni del 1969, La disarmonia prestabilita, mentre sino ad allora erano comparsi solo articoli su riviste o recensioni su giornali e settimanali. Riletto oggi, quel lontano libro mi sembra ancora contenere intuizioni felici e analisi valide, che possono essere utili a definire la fisionomia dello scrittore, ma risulta anche inficiato da conclusioni e giudizi rigidamente univoci che mi paiono inaccettabili, alla luce degli sviluppi attuali degli studi, e a suo tempo furono giustamente contestati da più parti. Me ne resi conto già un decennio dopo, quando apprestai una seconda edizione aggiornata e ampliata, richiestami dall’editore, e uscita nel 1988. Non ebbi allora il coraggio e la forza di riscriverlo, correggendo le prospettive: mi limitai ad aggiungere un’appendice, che esaminava le numerose opere gaddiane inedite o difficilmente reperibili stampate nel frattempo, e segnai in una premessa il mio distacco dalle tesi dal vecchio testo. Negli anni seguenti ebbi più occasioni di pubblicare altri studi su Gadda, e precisamente sulla Cognizione, sul Pasticciaccio, sulle teorie narratologiche del Racconto italiano, con valutazioni e conclusioni molto diverse da quelle della vecchia monografia. Si è venuto così delineando a poco a poco il progetto di completare un discorso sui romanzi di Gadda, che ora vede la luce in questo volume, con in aggiunta ai capitoli appena ricordati altri capitoli, scritti espressamente, sul Racconto italiano nel suo complesso, e parimenti sulla Meccanica e sul Fulmine sul 220. Tutti i testi già pubblicati sono stati rivisti, in modo da conferire al volume una fisionomia il più possibile organica. Spero così, a tanti anni di distanza, di riuscire a proporre una diversa immagine del grande scrittore, ricuperando però quelle intuizioni che mi sembra possano conservare una certa validità: come ad esempio l’importanza centrale della teoria del «barocco», inteso come deformazione mostruosa delle cose che è frutto di un «passo falso» compiuto dalla natura e dalla storia nei loro «tentativi di costruzione»: teoria enunciata nel dialogo fra Autore ed Editore premesso alla Cognizione, che a mio avviso fornisce una chiave preziosa per capire tanti aspetti della prosa gaddiana. Il volume si concentra sui romanzi di Gadda, ma ovvia-

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PREMESSA

mente tiene conto di tutti gli altri testi, narrativi, saggistici, diaristici ed epistolari, che possono offrire spunti e basi d’appoggio per le interpretazioni, in particolare i testi inediti che sono stati pubblicati sui benemeriti «Quaderni dell’ingegnere». Come ha sottolineato Dante Isella, dopo la comparsa del Racconto italiano, della Meccanica e del Fulmine sul 220, «di contro all’immagine vulgata dello scrittore “solariano”, formatasi sulle edizioni numerate della Madonna dei filosofi […], del Castello di Udine e delle Meraviglie d’Italia, hanno pertanto preso sempre più rilievo la costanza e l’impegno di Gadda sul piano del romanzo: nei modi in cui di romanzo è lecito, nel caso suo, di parlare. Ne prende risalto la vena vigorosa che corre sotterranea dal Racconto italiano in poi, per continuare, ormai in superficie, con La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio».1 Questa immagine di Gadda romanziere, così opportunamente e autorevolmente rivendicata da Isella (a cui va il merito di aver offerto ai lettori i testi filologicamente sicuri del Racconto italiano, della Meccanica e del Fulmine), e che smentisce la tesi così categoricamente asserita da Contini per cui «l’arte di Gadda è tutta lirica»,2 mi sembra legittimare al di là di ogni dubbio uno studio concentrato proprio sui romanzi dello scrittore. Il primo capitolo esamina la teoria narrativa che Gadda affida alle note compositive del suo abbozzo del Racconto italiano, una teoria che fa risaltare le geniali intuizioni di narratologo dello scrittore, in sintonia con coeve teorizzazioni dei seguaci di Henry James sul punto di vista. Il secondo analizza il romanzo nel suo complesso, cercando di definire i rapporti di Gadda con il fascismo e di ricostruire la sua polemica antisocialista; si concentra poi sui due personaggi che incarnano le due tendenze politiche avverse, lo squadrista e dannunziano Grifonetto e l’operaio Carletto, mettendo in rilievo l’impostazione essenzialmente problematica del racconto, che non si fissa in prospettive rigide e univoche ma sa cogliere il negativo come il positivo dei personaggi. Il terzo è dedicato alla Meccanica, di cui parimenti viene indicata la problematicità, poiché esalta la libera affermazione dell’eros di due giovani contro la mortificazione imposta sia dalla chiusa mentalità borghese sia dall’ideologia socialista, ma sa mettere in luce anche gli aspetti negativi dei personaggi giovanili che di quell’immediatezza vitale sono i portatori; dall’altro lato conduce una critica serrata dei luoghi comuni della propaganda socialista, specie quelli contro la guerra, ma riesce anche a guardare con umana simpatia l’operaio socialista retto e studioso, vittima di un destino ostile. Il romanzo inoltre presenta già una serie di procedimenti narrativi che fanno presagire la costruzione di quelli della piena maturità. 1 D. Isella, Nota al testo, in C. E. Gadda, Un fulmine sul 220, a cura dello stesso, Garzanti, Milano 2000, p. 277 s. D’altronde già Gadda nell’Intervista al microfono compresa in I viaggi la morte confermava la sua fondamentale vocazione narrativa (Saggi giornali favole e altri scritti, I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Garzanti, Milano 1991, pp. 502-504). 2 G. Contini, Introduzione alla «Cognizione del dolore», in Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), Einaudi, Torino 1989, p. 20.

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PREMESSA 3

Il quarto affronta la lettura del Fulmine sul 220, in relazione ai «disegni milanesi» dell’Adalgisa che ne sono scaturiti, e cerca di portare alla luce i tre poli su cui si articola la costruzione narrativa, con le relative opposizioni che fra di essi si instaurano: da un lato un’anima spiritualmente elevata, la bellissima Elsa, che però è anche carica di sensualità e protesa verso la realizzazione di una pienezza vitale, quindi soffre della mortificante atmosfera della «tribù» borghese in cui è entrata grazie al matrimonio col nobiluomo Gian Maria Cavigioli, anziano, inabile e vitalmente inerte, e aspira a una vita più appagante sotto il segno di eros; dall’altro lato la borghesia «gentilesca» milanese, con il suo patrimonio asfittico di idee ricevute e vuoti rituali; infine la sana, gioiosa immediatezza vitale del popolo, rappresentata dal giovane garzone di macellaio Bruno, per cui Elsa prova un’irresistibile attrazione (sino al tragico finale, abbozzato e mai scritto, che dà il titolo all’opera) e dalla energica ed esuberante cognata Adalgisa. L’indagine si concentra inoltre sui procedimenti narrativi, che proseguono la linea già delineatasi nella Meccanica, con un’accentuazione parossistica che colloca il romanzo, seppur inconcluso, nell’area delle prove più mature di Gadda, come testimonia poi il volume dell’Adalgisa, certo fra i suoi capolavori. Il quinto si sofferma sulla struttura della Cognizione, che è organizzata in tre grandi sezioni, entro le quali ritorna l’opposizione esterno-interno. La prospettiva di Gonzalo emerge sistematicamente nel momento centrale di tutte e tre le parti, dando luogo a un sistema di precise simmetrie: perciò la Cognizione non è una selva narrativa caoticamente proliferante, al di sopra del «pasticcio» si propone un punto di osservazione privilegiato, un centro unificante, il «dolore» dell’eroe, portatore di coscienza critica. L’opposizione, nelle sue varie configurazioni, assume un valore assiologico, riproducendo il conflitto fra il soggetto, depositario ancora di valori autentici, e un mondo degradato, nella sua fisionomia sia storica sia ontologica. Al di là del caos si delinea quindi un ordine superiore. Anche questo soggetto eroico viene però «nella bestialità corrotto», per cui il romanzo dà luogo a una straordinaria mistione di tragico e di comico, di «atrocità» e di «futilità», di «dolore» e irrisione implacabile. Nel sesto si insiste sul doppio registro del Pasticciaccio, che per un verso ambisce alla solida costruzione narrativa tradizionale e ottocentesca, per l’altro dissolve quella costruzione attraverso una serie di procedimenti narrativi: la tendenza centrifuga e divagatoria, che annulla ogni possibilità di una struttura chiusa e compiuta e rende il senso del «garbuglio» infinitamente aperto della realtà, la fissazione ipnotica, tra irritata e affascinata, sui singoli oggetti, che dà l’idea della degradazione irredimibile del mondo, la proliferazione metaforica che restituisce l’immagine di un reale in perenne, vertiginosa metamorfosi. Il romanzo, così, si presenta in realtà come un “antiromanzo”, in cui, a differenza della Cognizione, il caos del reale non trova più moduli d’ordine che possano in qualche misura regolarlo. Tuttavia il perdersi della coscienza giudicante come effetto dell’aderenza

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PREMESSA

al bruto essere dati dei fenomeni è scongiurato, in quanto l’esplorazione del «pasticcio» reca sempre visibile in sé, nelle violente deformazioni che la caratterizzano, la presenza del «dolore», che testimonia la persistenza di una coscienza critica irriducibile alla datità del reale.3

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Torino, 3 marzo 2018 Nota. Il primo capitolo è già apparso nell’«Edinburgh Journal of Gadda Studies», 2011, e poi, con vari ritocchi, nel volume Microscopie. Letture di testi narrativi, drammatici e critici dell’Otto e Novecento, Liguori, Napoli 2014; il quinto in Aa. Vv., Carlo Emilio Gadda. La coscienza infelice, a cura di Alba Andreini e Marziano Guglielminetti, Guerini, Milano 1996, e poi nel volume Narratologia e critica. Teoria ed esperimenti di lettura da Manzoni a Gadda, Liguori, Napoli 2003; il sesto, in forma ridotta, in «Moderna», 2003, 1, poi in una redazione molto ampliata nel volume Eroi intellettuali e classi popolari nel romanzo italiano del Novecento, Liguori, Napoli 2005. Comunque i tre contributi sono stati qui rimaneggiati e aggiornati, con numerosi ampliamenti, minuziose riscritture e modifiche anche sostanziali nelle tesi di fondo. Gli altri tre capitoli sono inediti, composti espressamente per questo volume.

3 In questo quadro non ha trovato posto un esame ravvicinato e dettagliato di Retica, il romanzo progettato da Gadda durante la prigionia in Germania nel 1918, il suo primo disegno romanzesco. Il taglio che ho dato a tutti i capitoli è quello di un’analisi capillare che si addentri nel corpo del testo, esplorando le sue intime articolazioni, anche a livelli microstrutturali. Di Retica invece ci sono rimaste solo le poche pagine di un progetto, senza che lo scrittore abbia dato corpo ad esso in alcun episodio narrativo o in alcuna scena. Perciò quel metodo su quello scarno progetto sarebbe stato inapplicabile, e un discorso su di esso sarebbe risultato del tutto disomogeneo rispetto a quelli condotti sui romanzi di cui ci sono rimaste più o meno ampie porzioni di narrato. Mi sono così limitato a darne un’idea generale in nota, rimandando alle ottime ed esaurienti letture della progettata trama condotte da Paola Italia e da Cristina Savettieri.

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 1. L’inreccio e la «trama complessa della realtà» Tra le riflessioni sugli strumenti stilistici e di tecnica narrativa da impiegare, che nei due Cahiers d’études stesi fra il 1924 e il 1925 accompagnano il primo tentativo romanzesco di Gadda, il Racconto italiano di ignoto del novecento, particolarmente notevoli per la loro portata teorica generale, non solo legata alla contingenza dell’opera da comporre, appaiono quelle che si possono definire di taglio “narratologico”.1 Esse prendono l’avvio il 7 settembre 1924 (Gadda nella sua ossessione di ordine e precisione si preoccupa sempre di fornire la data e persino l’ora di stesura delle varie annotazioni, e questo ci fornisce dati preziosi per la ricostruzione del suo percorso), con la nota compositiva numero 33, a sette mesi dall’inizio dei lavori. La riflessione parte dal livello che noi diremmo della “storia” e insiste sull’esigenza di fondare il racconto su un intreccio organico e unitario, in modo che i vari personaggi non restino isolati ma risultino legati fra di loro: «Bisogna vedere un po’ di avviare e legare la materia del romanzo. – Legare i personaggi […]. Un romanzo non può isolare i suoi personaggi. È questa spesso un’astrazione esiziale alla espressione».2 Gadda si rende conto che questa esigenza rimanda a un modello narrativo arcaico, ottocentesco, che il romanzo più recente ha superato («“l’intreccio” dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano»); d’altronde l’intento di dare «una rappresentazione un po’ compiuta della società», enunciato sin dalle prime pagine del progetto affidato al Cahier, richiama parimenti i romanzi 1 Per un esame di queste riflessioni si veda G. Guglielmi, Gadda e la tradizione del romanzo, in Aa. Vv., La cxoscienza infelice. Carlo Emilio Gadda, a cura di A. Andreini e M. Guglielminetti, Guerini, Milano 1996, pp. 19 ss. (ora anche in Id., La prosa italiana del Novecento II. Tra romanzo e racconto, Einaudi, Torino 1998). 2 Citiamo da C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del novecento (Cahier d’études), a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 1983. Tutte le citazioni successive saranno parimenti tratte da questa edizione (riprodotta anche in Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vela, D. Isella, P. Italia, G. Pinotti, Garzanti, Milano 1993).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

realistici ottocenteschi, e non a caso i modelli citati espressamente sono Manzoni, Balzac, Stendhal, così come la dicitura Cahier d’études è di chiaro sapore zoliano.3 Ma Gadda obietta alla possibile accusa di essere attardato osservando che è la vita stessa a essere «un “intreccio” e quale ingarbugliato intreccio!». Quindi dal piano eminentemente sociale dei «vecchi romanzi» lo scrittore si sposta subito su un terreno a lui più congeniale, che apre più ampie prospettive, quello speculativo e metafisico: la complicazione dell’intreccio, lungi dall’essere un artificio superato, per lui non è che la riproduzione della «trama complessa della realtà». Si delinea così un motivo che sarà poi centrale, come si sa, in tutta la sua opera successiva, quello del «garbuglio», del «groviglio», del «pasticcio», su cui insisterà con agguerriti strumenti teoretici, di lì a pochi anni, nel 1928, con la Meditazione milanese. Le cui posizioni sono qui in qualche misura anticipate, rivelando come la riflessione su quei temi fosse già avviata all’altezza del progetto romanzesco: «L’intreccio non sia di casi stiracchiati, ma risponda all’ “istituto delle combinazioni” cioè al profondo ed oscuro dissociarsi della realtà in elementi, che talora (etica) perdono di vista il nesso unitario. […] La “dissoluzione” anche morale e anche teoretica è una perdita di vista del nesso di organicità». Si comprende allora l’esigenza di legare i personaggi, di non lasciarli isolati: come si è letto, sarebbe «un’astrazione esiziale alla espressione», cioè l’isolamento astratto non risponderebbe al compito che è proprio del romanzo, di riprodurre nelle sue forme la complessa trama che lega la realtà concreta.

2. Il “discorso”: il racconto «ab interiore» Subito dopo Gadda passa a trattare il piano del “discorso” e su di esso si fissa per molte delle pagine a seguire, fornendo osservazioni parimenti preziose. Il problema centrale che lo impegna e che gli crea difficoltà sia teoriche sia di pratica realizzazione è «quale deve essere il punto di vista “organizzatore” della rappresentazione complessa», cioè il modo di tradurre concretamente in discorso narrativo quell’intreccio su cui si è soffermato in precedenza, la scelta del punto di vista, dell’angolo visuale da cui devono essere osservate le azioni dei vari personaggi che lo compongono, al fine di collegarle in modo unitario: data per scontata la complessità di quell’intreccio, omologa e rispondente a quella della realtà da rappresentare, l’esigenza primaria anche a livello delle forme del “discorso” è sempre organizzare, offrire il garbuglio da un punto di vista che ne garantisca una rappresentazione organica, disciplinata da un ordine immanente. Allo scrittore si presenta allora una difficile alternativa: «se il romanzo deve essere condotto “ab interiore” o “ab exteriore”». La narrazione «ab interiore» è evidentemente quella 3 Sulla fisionomia ottocentesca del progetto gaddiano ha insistito la critica. Si vedano D. Isella, Prefazione all’ed. cit. del Racconto italiano, p. IX; G. Guglielmi, Gadda e la tradizione del romanzo, cit., p. 19; J.-P. Manganaro, Le Baroque et l’Ingénieur. Essai sur l’écriture de Carlo Emilio Gadda, Seuil, Paris 1994, p. 61; Ch. Mileschi, Gadda contre Gadda. L’écriture comme champ de bataille, Ellug, Grenoble 2007, p. 97 e p. 102.

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 7

che, con Genette, noi oggi definiremmo a «focalizzazione interna»,4 in cui tutto è presentato dalla prospettiva di uno o più personaggi. Su questo Gadda dimostra di avere le idee chiarissime: «Se la rappresentazione viene fatta “ab interiore” cioè vedendo attraverso la visione del personaggio (intendo “interiore” l’animo del personaggio), come per es. il “Piacere” del D’Annunzio, è evidente che i momenti rappresentativi del romanzo devono seguire fedelmente i momenti conoscitivi, (sia lirico-estetici, sia etici, sia teoretici) o i pratici, del personaggio». La narrazione «ab exteriore» corrisponde invece alla genettiana «focalizzazione zero»5: che noi preferiremmo sostituire con la formula «focalizzazione sul narratore», come abbiamo argomentato in un altro nostro lavoro,6 perché la voce narrativa onnisciente opera pur sempre una focalizzazione, una «restrizione di campo» dell’informazione, presentando i fatti narrati da una prospettiva particolare, non dal cosiddetto «punto di vista di Dio», all’infinito, quindi la focalizzazione non è affatto azzerata. Come si vede, Gadda dimostra acuta sensibilità e chiara consapevolezza di un problema di impostazione narrativa, quello del punto di vista, che è veramente centrale nel romanzo fra Otto e Novecento, naturalista e post-naturalista, almeno a partire da Madame Bovary;7 problema che era stato posto e variamente risolto dalla narrativa italiana, da Verga, Capuana e De Roberto a Fogazzaro, Deledda, d’Annunzio, Svevo, Pirandello, Tozzi, Borgese, ma sul piano eminentemente pratico, direttamente operativo, mentre non si può dire che in generale in campo italiano avesse ricevuto un’adeguata riflessione teorica. D’altronde l’attenzione critica alle tecniche della costruzione narrativa era e rimarrà a lungo un argomento poco sentito dalla cultura italiana, a differenza della cultura anglosassone, in cui tali problemi, proprio tra fine Ottocento e primi del Novecento, erano largamente dibattuti. Basti pensare all’assidua riflessione di Henry James, alla sua idea di un racconto interamente e rigorosamente filtrato attraverso la coscienza di un personaggio, al fine di eliminare il narratore invadente del romanzo proto-ottocentesco e al fine di una drammatizzazione integrale della narrazione, in cui lo showing avesse la prevalenza 4

G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it., Einaudi, Torino 1976, pp. 237-239. Ivi, p. 237 e p. 256. Al termine di una rapida ma precisa ed efficace sintesi di queste riflessioni di Gadda, Sandro Maxia conclude: «Gadda aveva fin dai primi anni venti intravisto pressoché tutta la casistica poi sistematizzata da Genette sotto le rubriche “voce” e “modo”» (S. Maxia, Deformare e occultare. «Quer pasticciaccio», un «romanzo della pluralità», in D’Annunzio romanziere e altri narratori del Novecento italiano, Marsilio, Padova 2012, p. 213). 6 Ci sia concesso rimandare a G. Baldi, «Narratologia della storia» e «narratologia del discorso»: appunti per una rassegna e una discussiome, in «Lettere italiane», 1988, n. 1, pp. 113-139 (ora, rimaneggiato e ampliato, come Introduzione a Narratologia e critica. Teoria ed esperimenti di lettura da Manzoni a Gadda, Liguori, Napoli 2003, pp. 3-35, col titolo Narratologia della “storia” e narratologia del “discorso”). 7 Sull’uso del punto di vista nel romanzo flaubertiano resta un classico J. Rousset, «Madame Bovary o Il libro su nulla, in Forma e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel, trad. it., Einaudi, Torino 1976, pp. 124-134. Ma già Auerbach aveva offerto un’analisi acutissima dell’uso del punto di vista in Madame Bovary: si veda Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it, Einaudi, Torino 1964, pp. 255-266, dove vengono riprodotte pagine risalenti al 1937. 5

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

sul telling;8 tesi poi riprese e sistemate da Percy Lubbock in The Craft of Fiction,9 libro che comparve poco prima del tentativo romanzesco di Gadda, nel 1921, e godette di salda fortuna, fissando praticamente nella letteratura anglosassone un canone di romanzo, quello del well-made novel (sia pur con le autorevoli riserve ed obiezioni di un grande romanziere, postosi anch’egli a trattare il “mestiere” della narrativa, il Forster di Aspects of Novel,10 del 1927), e ancora ribadito, negli anni Trenta, da James Warren Beach con The Twentieth Century’s Novel. A Study in Technique.11 È stata quindi un’affascinante sorpresa trovare tra le carte inedite di Gadda esordiente romanziere, alle prese per la prima volta con un complesso organismo narrativo, una così puntuale, lucida riflessione sul punto di vista e sulla focalizzazione. Era un problema che doveva peraltro imporsi con immediata urgenza ad ogni scrittore di quegli anni nell’accingersi alla scrittura narrativa. In effetti il romanzo postflaubertiano aveva messo definitivamente in crisi il romanzo classico, proto-ottocentesco, manzoniano e balzachiano per intendersi, in cui la diegesi era condotta da un narratore onnisciente, personalizzato, palese e largamente intrusivo, che presentava personaggi, azioni e psicologie dall’esterno e dall’alto e interveniva continuamente nel narrato con commenti, giudizi, ragguagli informativi, dialoghi col lettore, divagazioni, sentenze generalizzanti. Il romanzo del secondo Ottocento e di inizio Novecento, prima della deflagrazione prodotta nelle forme narrative da Proust, da Joyce o dallo Svevo della Coscienza (ma vanno tenuti presenti da noi anche il frammentismo lirico vociano e il romanzo futurista, con gli annessi di Palazzeschi e Bontempelli, e la personalissima configurazione narrativa dei romanzi di Tozzi) aveva abbandonato questo modulo, per adottare appunto largamente quello a focalizzazione interna, in cui tutta o quasi tutta la “storia” era filtrata dall’ottica parziale, limitata e soggettiva di uno o più personaggi: per restare alla narrativa italiana, si pensi al Piacere o al Trionfo della morte, non a caso citati da Gadda nelle sue note, a Una vita e a Senilità di Svevo, all’Esclusa o a Suo marito di Pirandello; ma un impianto analogo, di prevalente focalizzazione sull’io-personaggio anziché sull’io-narratore, si registra anche nel romanzo autodiegetico, ad esempio nel Fu Mattia Pascal.

3. Le scelte stilistiche Il problema del punto di vista, come Gadda coglie immediatamente, è connesso con quello delle scelte stilistiche che devono commisurarsi ad esso; problema da lui già affrontato nelle pagine iniziali del Cahier, nella seconda «Nota critica», che la nota 33 che stiamo esaminando richiama esplicitamente, e nella quale elencava

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H. James, Le prefazioni, trad. it., Neri Pozza, Venezia 1956. P. Lubbock, Il mestiere della narrativa, trad. it., Sansoni, Firenze 1984. 10 H. M. Forster, Aspetti del romanzo, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1963. 11 J. W. Beach, Tecnica del romanzo novecentesco, trad. it., Bompiani, Milano 1948. 9

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 9

cinque sue maniere caratteristiche: la «logico-razionalistica, paretiana, seria, cerebrale», la «umoristico-ironica, apparentemente seria, dickens-panzini», la «umoristico seria manzoniana», quella «enfatica, tragica, “meravigliosa 600”», quella «cretina, che è fresca, puerile, mitica, omerica». Ma si presenta inevitabilmente al livello dell’espressione stilistica la difficoltà già prospettata a livello di intreccio, il rischio della mancanza di unità, se il punto di vista di ogni personaggio venisse reso con uno stile particolare: «Se io scrivessi ogni intuizione col suo stile, sarei accusato di variabilità, eterogeneità, mancanza di fusione, mancanza di armonia, et similia». Nel Gadda di queste note è ossessiva la preoccupazione dell’organicità, della fusione armonica di tutti gli elementi. Era presente anche nell’appena citata nota 2: «Mi rincresce, mi è sempre rincresciuto rinunciare a qualcosa che mi fosse possibile. È questo il mio male. Bisognerà o fondere, (difficilissimo) o eleggere». Ma se ogni punto di vista deve avere uno stile commisurato, sia «fondere» sia «eleggere» risultano impossibili e la molteplicità eterogenea si impone necessariamente: e questo provoca in Gadda, così proteso verso l’unità, forte disagio (tradito da quell’ammissione, intrisa di senso di colpa, «È questo il mio male»). Difatti teme che le accuse previste di variabilità ed eterogeneità «possano essere giuste», e guarda al suo modello privilegiato, Manzoni, con un’ammirazione che appare simmetrica rispetto al senso di colpa: «Il Manzoni è tra i più omogenei. I P.S. si direbbero un’intuizione unica, continuata, fatta con un solo metallo anche formalmente». Lo soccorrono altri grandi esempi opposti di pluristilismo, Dante, che è «più variabile», Shakespeare. La variabilità shakespeariana gli sembra però più legittima perché il poeta «drammatizza»: cioè, si può interpretare, per Gadda nella scrittura drammatica i personaggi godono di maggiore autonomia rispetto al romanzo e non devono essere vincolati, nella loro espressione, alla voce narrativa unificante e armonizzante dell’autore. Egli si ripromette di fare altrettanto «finché si tratta di singole personalità»: cioè si propone, almeno a questo punto della riflessione, una narrazione drammatizzata, che è proprio ciò che è consentito al romanziere dalla focalizzazione interna, che eliminando o mettendo in sordina la presenza del narratore e affidando tutto lo svolgimento narrativo alla voce e alla prospettiva dei singoli personaggi compie un’operazione più vicina alla forma drammatica, come appunto sostenevano i teorici “jamesiani” del well-made novel. È qui in germe un’intuizione che Gadda svilupperà qualche pagina più avanti, come vedremo. Ma la soluzione è subito inficiata da una preoccupazione che si insinua nel discorso dello scrittore: «Quello che più mi preoccupa è: “la discontinuità mia propria, soggettiva, inerente al mio proprio lirismo”». A questo dubbio, accennato come en passant, sulla propria capacità di rispondere in qualità di autore a una funzione unificatrice, occorrerà tornare con attenzione, al momento di valutare l’effettiva attuazione, nel romanzo concreto, delle aspirazioni unitarie qui enunciate. Nella distinzione tra gioco «ab interiore» e «ab exteriore» occorre ancora fissare l’attenzione su un particolare uso lessicale dello scrittore. Nel primo caso, egli osserva, «vi è un lirismo della rappresentazione attraverso i personaggi. Nel

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

secondo caso vi può essere un lirismo attraverso “l’autore”». Non è facile stabilire esattamente la valenza che assume il termine «lirismo» in questa annotazione gaddiana. Ci sembra da escludere che valga esclusivamente come effusione sentimentale, o magari, in termini crociani, come «intuizione del sentimento», in quanto dalle pagine successive risulterà chiaramente che al punto di vista del personaggio e dell’«autore» Gadda assegna funzioni squisitamente conoscitive, di presa di coscienza razionale del dramma vissuto e di un suo collegamento con significati universali, come si vedrà fra poco. Ma l’uso del termine «lirismo» appare egualmente significativo, a indicare una certa presa di distanza dalle impostazioni prevalentemente obiettivanti assunte dalla narrazione in prosa. Anche se si propone di scrivere un romanzo molto “romanzesco”, inserito, sia pur con le inevitabili varianti tecniche, nella tradizione realistica ottocentesca che va da Manzoni e Balzac a Zola, con intenti di rappresentazione fedele della società e dei suoi conflitti in un preciso momento storico, il primo dopoguerra, Gadda appare indubbiamente ancora legato all’orizzonte lirico della poesia. E non c’è da meravigliarsi, tenendo conto del fatto che la sua produzione letteraria era stata fino allora quasi esclusivamente poetica (se si eccettuano il Giornale e il racconto La passeggiata autunnale, scritto durante la prigionia). D’altronde Gadda stesso nelle sue note definisce «poema» il suo romanzo e chiama «poeta» l’autore, intitola «Sinfonie» i suoi capitoli e confessa: «Difficoltà a tradurre in prosa miei vecchi versi», rivelando come matrice di certe pagine dell’opera in costruzione siano sue poesie precedenti. Così pure osserva che quando l’autore si deferisce ex professo la parte di personaggio «si ha una lirica»; quando non fa dichiarazioni «si ha altro nome letterario, ma in definitiva si ha pur sempre della lirica»; e conclude: «Da tutte queste chiacchiere si può forse vedere che grosso-modo ciò che io chiamo “gioco ab exteriore” è la lirica (lirica dell’autore) delle vecchie terminologie». A queste dichiarazioni si può aggiungere a conferma una precisazione contenuta nell’Intervista al microfono del 1950: «I primi impulsi verso la scrittura, in me, ebbero un movente lirico e descrittivo, e insieme narrativo […]. La descrizione, il desiderio di conoscere e di approfondire, si estese per gradi, specie con la guerra (1915-1918), all’indole e ai tipi e al destino degli umani, ai rapporti fra le creature […]. Il forte senso della mia personalità […] mi traeva a riuscire un lirico, piuttosto, o un satirico: la volontà di comprendere i miei simili e me stesso mi sospingeva all’indagine e a quella “registrazione di eventi” che forma, in definitiva, il racconto».12 In Gadda una vocazione narrativa stenta a districarsi da una formazione culturale e da una forma mentis lirica; e questa è fortemente condizionata dalla cultura italiana dell’anteguerra e dell’immediato dopoguerra, che in clima di frammentismo e lirismo in senso lato “vociani” assiste a una crisi dell’organismo romanzesco. Come controspinta a 12

Intervista al microfono, in I viaggi la morte (ora in Saggi giornali favole, I, cit., p. 502 s.).

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 11

queste tendenze, però, va registrata nello scrittore anche l’ammirazione fervente per I promessi sposi, insieme con le vaste letture della narrativa francese, inglese e russa dell’Ottocento, senza contare gli interessi filosofici e speculativi, che nel loro razionalismo (argomento della tesi di laurea in filosofia era Leibniz) vanno anch’essi in direzione contraria rispetto al lirismo: il risultato di queste spinte opposte è appunto questo singolare abbozzo di romanzo.

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4. La pluralità dei punti di vista Le difficoltà che si profilano dalla pluralità degli stili non mancano di riverberarsi, nella teorizzazione gaddiana, sulla pluralità dei punti di vista. Lo scrittore infatti, essendo il suo «un romanzo della pluralità», fondato su una molteplicità di punti di vista diversi di numerosissimi personaggi, inseriti in un intreccio complesso, si chiede: «Come viene il gioco “ab interiore” trattandosi di più personaggi? trattandosi anzi di moltissimi personaggi? Quali sono le possibilità di sviluppo rappresentativo e drammatico?». Si scorge di nuovo il timore di una perdita di unità e di organicità, del disperdersi del racconto in una pluralità insidiosa di punti di vista di personaggi che restano isolati, non legati in un sistema unitario. I dubbi intorno all’impostazione del racconto su tante focalizzazioni interne ai personaggi costituiscono un nodo intorno a cui Gadda continua ad arrovellarsi, nel Cahier. In primo luogo appare contrario a un integrale relativismo prospettico, come quello praticato da molto romanzo contemporaneo, determinato dall’assunzione di varie soggettività limitate come centri focali del racconto, quindi propone l’esigenza di una «sintesi» che riduca a unità la pluralità e ne tragga il significato essenziale: «La sintesi à [sic] in fine bisogno di portarsi poi fuori per il matema principe»: dove è gia accennata l’alternativa alla focalizzazione interna plurima che sarà sviluppata in seguito, «portarsi fuori», che non può avere altro significato se non dare una funzione essenziale alla figura autoriale del narratore onnisciente, che vede la materia dall’esterno e dall’alto e quindi è in grado di estrarne e chiarirne i significati più profondi («il matema principe»): in termini gaddiani, equivale a puntare sul «gioco ab exteriore», al di là della presenza pur massiccia di quello «ab interiore». Ma per ora si tratta solo di un cenno. La necessità di questo sguardo dall’esterno, che superi la visione soggettiva dei singoli agenti nell’intreccio, è motivata innanzitutto dal fatto che non tutti i personaggi possono essere al tempo stesso «gestori del dramma», «conoscitori del dramma gestito» e «riallacciatori con l’universale»: cioè non tutti possono essere al tempo stesso attori di un’azione e portatori della coscienza del suo significato, come è ad esempio l’Amleto shakespeariano. In secondo luogo il gioco «ab interiore» è «più difficile da comprendersi da parte del lettore, che tende sempre a prendere in senso assoluto e unico ciò che vede scritto, ed ad “incolparne” l’autore». Si tratta di un’osservazione di notevole acutezza: come è facile constatare,

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

è un errore ricorrente non solo da parte dei lettori comuni, ma anche dei critici di mestiere, scambiare il punto di vista soggettivo, parziale e magari inattendibile del personaggio con la prospettiva del narratore attendibile, che secondo il “patto narrativo” vigente in tanta letteratura è il portatore della verità, e attribuire certe valutazioni all’autore stesso;13 specie quando la focalizzazione interna è creata mediante lo strumento del discorso indiretto libero, che è spesso altamente ambiguo, perché in esso risuonano due voci: per cui a volte è davvero problematico attribuire con sicurezza un’affermazione al personaggio o al narratore. Un altro importante motivo di perplessità nei confronti del romanzo a integrale focalizzazione interna plurima è che «il gioco “ab interiore” affatica»; non solo, ma «oltre la fatica dei continui trapassi, esso stanca esteticamente», perché la vita «non è solo una rappresentazione “ab interiore” (= nostra intuizione, lirismo), ma anche una “intuizione nostra di intuizioni altrui, o di realtà altrui”»: cioè, se intendiamo bene, la chiusura esclusiva del racconto all’interno di una soggettività rompe quel legame relazionale tra soggettività che è proprio della vita reale e che può essere colto solo portandosi fuori dal singolo punto di vista. Ne deriva una conclusione importante: «E così essendo la vita, è bene che il romanzo dipinga forse anche “ab exteriore”, almeno in parte». Come si vede, Gadda risolve i dubbi sin qui enunciati intorno alla narrazione a focalizzazione interna affermando l’importanza del gioco «ab exteriore», cioè la funzione imprescindibile della voce autoriale del narratore eterodiegetico onnisciente, che garantisca una visione superiore e più completa della materia. È un passo decisivo, contro le tendenze dominanti al well-made novel, verso la scelta di una forma di romanzo più tradizionale, focalizzato in certa misura sul narratore: scelta che lo scrittore ribadirà con forza poco più avanti. La riflessione sul gioco «ab interiore» è ripresa da Gadda alcuni giorni dopo la stesura della fondamentale nota 33 da cui abbiamo preso le mosse, l’11 settembre 1924, nelle prime pagine di un secondo Cahier. Al problema della molteplicità dei punti di vista si affianca quello della loro variabilità interna nel tempo: «Il momento conoscitivo e in particolare il lirico possono subire e subiscono di fatto dei veri mutamenti, delle alterazioni, delle ἀλλοιώσεις, per cui anche la persona N si muta e si trasforma conoscitivamente»: un personaggio cioè può nel tempo mutare il modo in cui vede e giudica se stesso e le proprie azioni o la realtà esterna, incrementando così la pluralità di prospettive. A volte ciò è frutto di una vera e propria alterazione della personalità, sia per «ragioni interiori» sia per ragioni «esterne alla personalità stessa». Questo momento in cui il «personaggio N» «vede e giudica» un «momento n» riferendolo a un «nuovo momento n1» è un acquisto 13 Per un esempio, ci sia concesso rimandare alla nostra analisi, in Senilità, dell’immagine di Angiolina come simbolo di «salute», che è una costruzione mentale di Emilio Brentani, mentre spesso la mitizzazione è attribuita dalla critica all’autore (cfr. G. Baldi, Le maschere dell’inetto. Lettura di «Senilità», Paravia Scriptorium, Torino 1998, p. 32; e ora anche Id., Menzogna e verità nella narrativa di Svevo, Liguori, Napoli 2010, pp. 71 s.).

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 13

di autocoscienza, perché «N si è trasformato in N1». Ad esempio: «Il fanatico in politica, per successive meditazioni o studî od esperienze o per guarigione fisiomentale, si accorge dell’erroneo punto di vista n, col suo presente punto di vista n1. – E deride od accusa o altrimenti giudica il se stesso di prima, il già N». Gadda si preoccupa di mettere in evidenza la possibilità di un errore di interpretazione, che consiste nell’attribuire questo momento di autocoscienza e di giudizio del personaggio su se stesso al narratore autoriale, nel credere cioè che «il “gioco ab interiore” si trasformi in gioco “ab exteriore” o commento o altro pasticcio, per asineria dello scrittore». È una messa in guardia affine a quella già sottolineata in precedenza, riguardante l’attribuzione al narratore di ciò che pertiene al punto di vista del personaggio, e conferma l’acuta percezione degli aspetti tecnici della scrittura narrativa da parte di Gadda, la sua acribia di “narratologo”. L’esempio sopra addotto contempla un incremento di autocoscienza da parte di un personaggio, ma Gadda tiene presente anche il caso inverso, di una perdita di consapevolezza nel tempo: «Il momento n1 […] può essere più barocco e sconclusionato e miserabile di n. La serie può essere involutiva anzi che evolutiva». Comunque la preoccupazione che assilla lo scrittore è sempre quella di essere accusato di incoerenza: il mutare nel tempo del giudizio del personaggio su se stesso «non è commento né contraddizione, ma è la vita: e il romanzo che la rispecchia. Pare una verità lapalissiana, questa, eppure prevedo: “contraddizione!, incoerenza!, incertezza!, ecc.”, così i critici»: accusa che va a ferire un suo punto nevralgico, l’aspirazione alla coerenza dell’insieme e all’organicità. La conclusione che Gadda trae dalle notazioni sulla variabilità dei punti di vista dei personaggi (ma che è riferibile anche alla loro pluralità) è «relatività dei momenti, polarità della conoscenza, nessun momento è assoluto, ciascuno è un sistema di coordinate da riferirsi ad altro sistema».

5. Il «gioco ab exteriore» e la funzione del narratore autoriale Ma Gadda, si è visto, è contrario a ogni relativismo prospettico: per cui la notazione serve di passaggio per un approdo teorico determinante, l’affermazione definitiva ed esplicita della necessità del narratore autoriale come termine di riferimento della pluralità e della variabilità dei punti di vista, cioè, nel linguaggio gaddiano, della necessità del «gioco ab exteriore»:14 «Il sistema di coordinate conoscitive, che funziona da sistema fisso, è in questo caso il momento conoscitivo, 14 Osserva Marcello Carlino che, poiché «fondere» è impossibile così come «eleggere», «l’unica via d’uscita […] può essere rappresentata da una ipostasi dell’io percettore», per cui l’autore «ritorna sulla pagina con la sua percezione e il suo linguaggio in posizione di forza»: il narratore è il solo che possa «coordinare il disordine dei fenomeni». Però questo implica «un tradimento della complessità diveniente del reale» (M. Carlino, Il «Racconto italiano di ignoto del novecento» ovvero le peripezie dell’intreccio, in Aa. Vv., Gadda. Progettualità e scrittura, a cura di M. Carlino, A. Mastropasqua, F. Muzzioli, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 91).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

teoretico (in particolare lirico) dell’autore. […] Quello che è certo è che non si può prescindere dal ricettore-eiettore costituito dal poeta». E ancora su questo punto essenziale insiste nella pagina seguente: «Insomma il ricettore-eiettore autore non si può dimenticare»: evidentemente, diremmo noi alla luce degli sviluppi attuali della teoria narratologica, l’autore in quanto si manifesta entro la struttura del testo come narratore autoriale attendibile; Gadda non conosce ancora, né potrebbe conoscere, la distinzione tra autore reale, autore implicito e narratore, e usa una terminologia indifferenziata, che fa coincidere nel termine «autore» le diverse istanze. Come si vede, lo scrittore torna ostinatamente a esprimere l’esigenza di una visione unificatrice, che componga in un ordine superiore la pluralità di prospettive creata dalla varietà dei punti di vista dei personaggi. Se l’intreccio complicato e la molteplicità di modi di vedere il reale che ne è il riflesso sono deputati a mimare l’«ingarbugliato intreccio» della realtà, al di là di esso si deve pur sempre, all’interno dell’universo del testo, affermare un ordine; e a garantire quest’ordine, per Gadda, non può essere che la presenza del narratore autoriale.15 Osserva infatti che «è istintivo nell’autore il sovrapporre le sue proprie rappresentazioni e commenti a quelli dei personaggi, specie quando si tratta di collegare, organizzare la rappresentazione generale, tirare il matema principe». Torna la formula chiave «matema principe», e questa volta è esplicitamente collegata con la presenza dell’«autore». È la conferma più recisa, teoricamente chiara e convinta, di come Gadda, pur accogliendo nel progetto la tecnica della focalizzazione interna alla coscienza dei personaggi, largamente invalsa nel romanzo europeo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, rifiuti la sua applicazione integrale e totalizzante, utilizzata da tanti narratori novecenteschi. Per contro lo scrittore afferma sia teoricamente sia nella pratica concreta della scrittura la validità di un modello più tradizionale, incentrato sulla presenza del narratore eterodiegetico onnisciente, delegato dell’autore reale, che introduce sistematicamente nel narrato la sua voce e la sua prospettiva mediante i suoi commenti e i suoi giudizi, affermando così una visione superiore della materia, che faccia emergere i suoi significati essenziali:16 il modello, insomma, del tanto ammirato Manzoni. E sin dalla prima nota compositiva, che apre il Cahier in data 24 marzo 1924, si preoccupa di precisare, parlando dei personaggi a cui saranno affidati la coscienza del dramma e il suo commento filosofico, «potrò forse riserbarmi io questo commento-coscienza: (autore, coro)», di nuovo con un riferimento manzoniano, questa volta alla prefazione al Carmagnola.17 15 Non diremmo perciò, con Manganaro, che «après avoir déclaré son opposition à une pratique unifiante et prôné la multiplication des points de vue et de polarisation, Gadda abandonne assez tôt l’idée de resoudre les problèmes d’unification du récit» (op. cit., p. 68). 16 Gadda anticipa così, in opposizione al well-made novel dei “jamesiani”, la rivalutazione del romanzo focalizzato sul narratore onnisciente operata da un teorico di fondamentale importanza come W. Booth, The Rhetoric of Fiction, The University of Chicago Press, Chicago 1961 (trad. it. Retorica della narrativa, La Nuova Italia, Firenze 1996). 17 Lo ha notato R. Donnarumma, Gadda. Romanzo e «pastiche», Palumbo, Palermo 2001, p. 47.

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 15

Nonostante l’evidente influsso del romanzo naturalista zoliano, visibile, oltre che nella dizione Cahier d’études, nell’idea del romanzo come rappresentazione della società e nella convinzione dell’influenza esercitata dall’ambiente sull’individuo (ma non si dimentichi che Gadda si definirà ancora più avanti «minimissimo Zoluzzo di Lombardia»),18 lo scrittore esclude l’impersonalità naturalistica, che, sull’esempio di Flaubert, tende a eliminare l’invadenza della voce narratoriale. La conferma è immediatamente rinvenibile: in effetti i pochi passi narrativi che del progetto Gadda è giunto a redigere sono appunto narrati secondo questa tecnica e rivelano la presenza costante del narratore eterodiegetico e dei suoi commenti, talora in forme scopertamente arcaiche e manzoniane, come in questo passo: «Siamo usciti dal seminato: cosa che sarà per capitarci altre volte. Finché, dai critici, ne sentiremo delle belle. Ma il mestiere del raccontare è difficile; tenere in sesto le idee, che si sbandano come un branco di pecore! E noi in quanto cani da pastore siamo proprio dei poveri cani», dove è evidente il ricalco del luogo del capitolo XI dei Promessi sposi in cui il narratore evoca il «caro fanciullo» che a sera cerca di radunare i porcellini d’India lasciati correr liberi durante il giorno.19 Oppure la presenza massiccia della voce narrante autoriale è avvertibile nell’enfasi lirica portata all’estremo, come nell’inizio e nella chiusa della prima «Sinfonia». In queste note conclusive della riflessione sul punto di vista Gadda tende a riportare il gioco «ab interiore» e «ab exteriore» alle categorie tradizionali dei generi letterari: «Da tutte queste chiacchiere si può forse vedere che grosso-modo ciò che io chiamo “gioco ab exteriore” è la lirica (lirica dell’autore) delle vecchie terminologie. Ciò che io chiamo gioco “ab interiore”o lirismo puro dei personaggi è in fondo la drammatica»: l’affinità della narrazione a focalizzazione interna con la forma drammatica (data dalla prevalenza della drammatizzazione diretta dei fatti attraverso la percezione soggettiva contro il puro narrare, quindi dello showing contro il telling, della mimesi contro la diegesi), già accennata in precedenza, è qui affermata in modo esplicito e netto, rivelando di nuovo una certa consonanza con le teorie dei “jamesiani” intorno al well-made novel;20 anche se poi lo scrittore punta decisamente sul modello in cui domina la focalizzazione sul narratore.21 Difatti la centralità ine18

Nel saggio Tecnica e poesia, del 1940, poi in I viaggi la morte (ora in Saggi giornali favole I, cit., p. 243). Il rimando è suggerito ancora opportunamente da Donnarumma, op. cit., p. 53. 20 Lo osserva anche Cristina Savettieri, che però puntualizza giustamente: «Con Gadda siamo molto distanti dalla normativizzazione cui la critica post-jamesiana sottopone lo spinoso problema del punto di vista» (C. Savettieri, La trama continua. Storia e forme del romanzo di Gadda, ets, Pisa 2008, p. 42 s.). Sul punto di vista in Gadda si vedano anche M. A. Grignani-F. Ravazzoli, Tragitti gaddiani, in «Autografo», I, pp. 15-33, e C. Segre, Punto di vista, polifonia ed espressionismo nel romanzo italiano (1940-1979, in Intrecci di voci, Einaudi, Torino 1991, pp. 27-35. 21 Sostiene Maxia: «Non si può escludere che nel 1924 Gadda conoscesse le questioni poste da James in merito al punto di vista, e neppure che avesse letto il libro di Lubbock, ma le sue opinioni si collocano al polo opposto rispetto a quelle di James e dei suoi zelatori, per i quali lo scrittore limita le sue possibilità (compie, dice Gadda, “continui atti di ritegno”), assumendo le restrizioni di campo proprie del personaggio, mentre per lui lo scrittore si appropria, in modo saltuario o continuativo, 19

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

ludibile della funzione della prospettiva autoriale è subito da lui ribadita di nuovo, con l’osservare che, anche nel racconto a rigorosa focalizzazione interna, l’eclisse completa della figura autoriale è difficile da praticare, perché «basta una parola, un tocco, un cenno per far subito entrare l’autore». È una notazione molto acuta, che testimonia ancora una volta una naturale disposizione dello scrittore a cogliere i minimi dettagli tecnici della narrazione e ne fa davvero un narratologo ante litteram. Quanto egli rileva è confermato da infiniti esempi rinvenibili nei romanzi a focalizzazione interna tra secondo Ottocento e Novecento. Basti citare un passo di Senilità, dove si parla del rapporto fra il protagonista Emilio Brentani e Angiolina: «Gli venne la magnifica idea di educare lui quella fanciulla».22 Qui l’aggettivo «magnifica» è ambiguo, ha come due facce: da un lato riproduce il giudizio che il personaggio stesso dà del suo proposito, quindi si presenta come un frammento di oratio obliqua, ma, in quanto è riecheggiato, “citato” dalla voce narrante, si carica della sua corrosiva ironia verso gli autoinganni di Emilio, che vuole presentarsi nei confronti di Angiolina come uomo superiore, esperto della vita; basta così una parola sola, un aggettivo, a tradire il giudizio del narratore (e dell’autore reale), che con estrema economia di mezzi e straordinaria efficacia denuncia nel personaggio la debolezza e impotenza di uomo immaturo, incapace ormai ‑ per ragioni storiche oltre che individuali ‑ di coincidere con una sicura e autorevole figura paterna. Gadda osserva che si può sfuggire a questa presenza dell’«autore» nel narrato, ma soltanto «se si mantiene il puro dialogato popolare», cioè se si fonda la narrazione sul solo dialogo, appunto come nella forma drammatica. Si tratta di un modello effettivamente teorizzato e praticato in area verista, dal De Roberto dei Processi verbali.23 Gadda però, a differenza dei veristi, è convinto che «il dialogato puro e vero» implichi «l’uso del dialetto, della parlata comune», altrimenti si cade «nello sbiadito o nel resoconto». Si profila già, da lontano, l’esito dell’Adalgisa, della Cognizione del dolore, del Pasticciaccio.

6. Impulsi centrifughi e scacco delle aspirazioni costruttrici Nonostante tutte le recise affermazioni sulla presenza necessaria dell’«autore», con il compito di assicurare l’unità del testo, al di là della molteplicità dei punti di vista e delle differenze stilistiche, e di trarre il «matema principe», si insinua tuttavia in queste pagine un dubbio, un timore, che affiora un momento, en passant, nella dell’orizzonte, visivo e conoscitivo, del personaggio, senza però abbandonare mai il proprio» (Maxia, Deformare e occultare, cit., p. 214, nota 26). 22 I. Svevo, Senilità, in Id., Romanzi e «continuazioni», a cura di N. Palmieri e F. Vittorini, Mondadori, Milano 2004, p. 416. 23 «L’impersonalità assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obbiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro» (F. De Roberto, Prefazione a Processi verbali, Sellerio, Palermo 1976, p. 4).

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GADDA NARRATOLOGO: LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO ITALIANO 17

trattazione sullo stile (è un passo che abbiamo già sottolineato: «quello che più mi preoccupa è: “la discontinuità mia propria, soggettiva, inerente al mio proprio lirismo”»), ma che in realtà è il sottofondo costante di tutto il discorso, come si può presumere e contrario proprio dall’insistenza sulla necessità della figura dell’autore, che assume così uno scoperto valore esorcistico. Gadda teme, nel dar corpo al suo progetto narrativo, di non essere in grado di garantire l’unità, la coerenza, l’organicità vagheggiate nelle sue teorizzazioni, a causa dei prepotenti impulsi centrifughi che sa essere presenti in lui. E in effetti queste spinte disgregatrici agiscono puntualmente nell’organismo che va con fatica mettendo insieme. L’aspirazione costruttiva e ordinatrice, l’ambizione alla struttura narrativa solida ed equilibrata, fondata sulla presenza unificatrice della personalità dell’«autore», vanno incontro al più totale scacco: non solo perché il progetto si arena in una fase ben lontana dal compimento, ma anche perché, all’interno stesso del poco che è stato realizzato, domina la discontinuità più assoluta, con l’allinearsi di materiali eterogenei come contenuti e come tecniche rappresentative, di frammenti che non lasciano intravedere una collocazione precisa entro le linee di un intreccio, con continui salti di toni e di registri stilistici, ad onta di ogni volontà di fondere, equilibrare, unificare, ordinare in precise simmetrie. Tanto meno dai frammenti si può veder emergere una personalità di narratore autoriale che assuma una funzione organizzatrice e unificante, come viene teorizzato nelle annotazioni. Si prefigura sin dalla prima prova romanzesca di Gadda quanto avverrà sistematicamente in quelle successive. Ma se il discontinuo nel Racconto italiano può essere ancora ascritto in certa misura a un’incapacità soggettiva di costruire ed organizzare, come alcuni hanno proposto,24 più avanti si fonderà anche su una precisa visione del mondo e una teoria accuratamente elaborata, che prenderà corpo pochi anni dopo il Racconto nella Meditazione milanese,25 come la critica ha messo in rilievo sin dalla pionieristica monografia di Gian Carlo Roscioni.26 Comunque anche in seguito il caos romanzesco non sarà mai il puro prodotto di una consapevolezza teoretica della complessità non dominabile del reale. Un’interpretazione del genere, che è diffusa nell’esegesi gaddiana, rischia di peccare di eccessiva razionalizzazione, e quindi di dare un’immagine parziale dell’opera di Gadda, mortificando la forza feconda delle sue contraddizioni. L’aspirazione alla sintesi ordinatrice, che in Gadda resta sempre un’esigenza ineliminabile, anche se eternamente sconfitta e irrealizzata, urta contro potenti forze di segno contrario, che non si possono solo ridurre a una lucida consapevolezza teoretica della complessità del reale ma affondano le loro radici nel «male oscuro» dello scrittore.

24

Si vedano ad esempio Isella, Prefazione, cit., p. XXVII, e Mileschi, op. cit., pp. 98-100. Per taluni quella visione del mondo è già presente e operante all’altezza del Racconto: cfr. Guglielmi, op. cit., p. 33. 26 G. C. Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Einaudi, Torino 1969. 25

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2.

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 1. «Una rappresentazione un po’ compiuta della società» Se, a voler cogliere il suggerimento implicito nei titoli dei suoi due libri maggiori, nel complesso dell’opera di Gadda si possono individuare due filoni fondamentali, quello del «dolore» e quello del «pasticcio», cioè rispettivamente lo scavo in una soggettività tragicamente tormentata e l’esplorazione del caos oltraggioso di «non-forme»1 della realtà oggettiva, nell’avvio del progetto del Racconto italiano di ignoto del novecento sembra di poter riconoscere subito la linea del «dolore». Leggiamo infatti nell’annotazione iiniziale di carattere diaristico, redatta il 24 marzo 1924, in cui Gadda afferma il proposito di concorrere al premio Mondadori: È meglio giocare una volta un gioco disperato che vivere inutilmente la tragica, inutile vita. Sebbene le mie presenti condizioni morali e fisiche non siano le più favorevoli alla composizione, devo pure risolvermi. È vero che non sto bene. Ma quando ho avuto, quando avrò serenità nella vita? Dopo gli anni luminosi dell’infanzia, neri dolori, invincibili mali mi hanno selvaggiamente ferito. Prima che si spenga ogni luce nell’anima, voglio recare a salvamento questi disperati commentarii della tragica, terribile vita.2

Da queste ultime parole sembrerebbe di poter dedurre che il romanzo alla cui composizione lo scrittore si accinge avrà un taglio autobiografico, incentrato sulla sua soggettività e teso a dipanare, risalendo alle cause familiari e storiche, il groviglio della nevrosi individuale, magari sotto il tenue velo dell’obiettivazione in un protagonista alter ego, come il Gonzalo della Cognizione. 1

La cognizione del dolore, in Romanzi e racconti I, cit., p. 627. Le citazioni sono tratte da C. E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del novecento, a cura di D. Isella, cit. (edizione più completa di quella riprodotta poi in Scritti vari e postumi, Garzanti, Milano 1993). 2

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 19

Invece nella prima «nota compositiva», scritta lo stesso giorno, anzi alla stessa ora, troviamo una parola tematica che è decisamente un sinonimo di «pasticcio», e cioè «caos»:

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Dal caos dello sfondo devono coagulare e formarsi alcune figure a cui sarà affidata la gestione della favola, del dramma, altre figure, (forse le stesse raddoppiate) a cui sarà affidata la coscienza del dramma e il suo commento filosofico: (riallacciamento con l’universale, coro): potrò forse riserbarmi io questo commento-coscienza: (autore, coro).

Se ne deduce immediatamente che argomento del romanzo dovrà essere la realtà oggettiva, rappresentata dal dramma di figure che non coincidono con l’autore e sono dotate di personalità del tutto autonoma. Anzi l’autore, lungi dall’essere il centro soggettivo del racconto, si propone di osservare i personaggi dall’esterno e dall’alto, riservandosi la funzione di ricavare il senso filosofico della vicenda e di collegarla a temi universali.3 Fatto ancora più rilevante, poco sotto nella stessa nota questo «caos» assume una fisionomia storica, collocandosi in un tempo e in uno spazio ben determinati: Il caos del romanzo deve essere una emanazione della società italiana del dopoguerra (non immediato) con richiami lirico-drammatici alla guerra (nostra generazione) e forse al preguerra.

E qualche tempo dopo, in un’altra nota compositiva, scritta il 10 maggio, Gadda pronuncia una nuova dichiarazione d’intenti illuminante: «Mio desiderio di una rappresentazione un po’ compiuta della società». Quindi è ormai evidente che lo scrittore non intende scrivere un romanzo che esplori la dimensione del «dolore» (occorreranno altre esperienze intellettuali e biografiche, soprattutto il trauma della morte della madre, per indurlo a porre mano a un romanzo soggettivo come la Cognizione), ma vuole misurarsi con un’indagine su un terreno sociale concreto e ben definito storicamente, una contemporaneità densa di violenti conflitti, che egli ben conosce per esservi stato immerso con intensa, drammatica partecipazione. Difatti i suoi modelli sono proprio quelli del romanzo ottocentesco, inpegnato a rappresntare fedelmente i contesti sociali delle vicende e dei personaggi: i nomi che egli stesso cita esplicitamente e a cui dichiara di rifarsi sono in primo luogo Manzoni4 (a cui nel Cahier d’études è dedicato un ampio «affioramento per l’innesto in praeteritum tempus», prima stesura dell’Apologia Manzoniana che sarà 3 Ottime ricostruzioni della poetica narrativa, del progetto e della costruzione del Racconto italiano sono offerte, oltre che dalla Prefazione cit. di D. Isella, da Donnarumma, Romanzo-sinfonia, in Gadda: romanzo e «pastiche», cit., pp. 45-63, e Savettieri, Le vie al romanzo, in La trama continua, cit., pp. 11-48. 4 Sui rapporti fra Gadda e Manzoni si vedano soprattutto A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della «Cognizione del dolore», ets, Pisa 1996, F. Mattesini, Manzoni e Gadda, Vita e Pensiero, Milano 1996 e C. Leri, Il Manzoni di Gadda, in Manzoni e la “littérature universelle”, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2002.

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pubblicata su «Solaria» nel 1927), poi Stendhal, Balzac, Zola, Dostoevskij, il primo d’Annunzio del Trionfo della morte, il Fogazzaro di Malombra. D’altronde mirava ad essere un vasto affresco sociale anche il primo progetto romanzesco di Gadda, quel Retica concepito nel 1918 durante la prigionia in Germania,5 che non a caso era ispirato al modello della Comédie humaine balzachiana6 (ma di cui non fu poi scritto nessun episodio). Al centro di questa rappresentazione di un quadro di società, secondo il progetto affidato alle note compositive, devono collocarsi le grandi forze politiche che entrano in conflitto negli anni del dopoguerra, il socialismo, il cattolicesimo del Partito Popolare e il fascismo. Nei confronti del socialismo e del popolarismo il giovane Gadda nel Racconto italiano assume un atteggiamento duramente polemico, mentre al fascismo appena impostosi al potere guarda con favore, come a una forza rigeneratrice della nazione, capace di liberarla dal peso delle altre forze che, nella sua visione, trasformano l’Italia in una «palude» e la condannano alla decadenza rispetto al suo splendido passato. È singolare che in questo quadro negativo non si faccia quasi cenno alla classe politica liberale né al comunismo di ascendenza bolscevica, che pure si era distaccato dal socialismo tre anni prima (al bolscevismo si accenna invece nel Quaderno di Buenos Aires7 e poi in testi posteriori, come Dejanira Classis e Notte di luna): forse Gadda, accingendosi ad erigere la sua costruzione romanzesca, di fronte alle forze che dominano la scena vede nei liberali un residuo ormai ininfluente del passato, e come tale non meritevole di particolare attenzione, e sussume ancora i comunisti sotto la categoria generale di socialismo, senza avvertirne la specificità. Molto significativa riguardo alle posizioni antisocialiste e antipopolari dello scrittore appare la nota compositiva numero 23 del 21 luglio 1924, che precede immediatamente il primo consistente lacerto narrativo presente nel cahier, l’attacco del primo capitolo o, come lo designa Gadda, prima «Sinfonia»: Completare la I.a Sinfonia con due motivi antitetici fondamentali che prepareranno per contrasto l’introduzione del motivo fascista. Questi sono necessari e storicamente propedeutici, ma in fondo vengono ad essere uno solo, non ostante l’apparenza. Socialismo e cattolicismo (Discordanza azione-pensiero per mancanza di capacità critica nell’uno e nell’altro. Frenesia dell’assoluto e incapacità del graduale e del possibile. Incapacità di delineare i limiti critici di un pensiero, di una possibilità. 5 Il progetto è ora pubblicato a cura di Paola Italia nei «Quaderni dell’ingegnere», 2, 2003, pp. 297-308. 6 Come opportunsamnte ha mostrato Paola Italia nella sua preziosa lettura del progetto gaddiano (cfr. P. Italia, Agli albori del romanzo gaddiano: primi appunti su «Retica», in Aa. Vv., Le lingue di Gadda, Atti del convegno di Basilea, 10-12 dicembre 1993, a cura di M. A. Terzoli, Salerno Editrice, Roma 1995, pp. 179-202). Su Retica si veda anche Savettieri, Le vie al romanzo, in La trama continua, cit., pp. 20-23. 7 «Il Comando di Corpo d’Armata di Milano era costretto a consegnare gli ufficiali reduci nelle caserme in occasione degli scioperi, perché la loro presenza “non provocasse” i bolscevichi» (Quaderno di Buenos Aires, a cura di D. Isella e C. Martignoni, in «I quaderni dell’ingegnere», 2 n. s., 2011, p. 25).

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Frenosi italiana. E poi, con la magniloquenza verbale, debolezza pratica e basso scetticismo). – Si vuole l’assoluto dagli altri e si è marci loro. Debolezza dell’analisi economica pura; fisime. Mancanza del concetto di funzionalità […] e di organicità. Mancanza del concetto di dipendenza e rendimento: (nelle fortune operaie, ecc.) –

Come si vede, Gadda scorge nel socialismo e nel popolarismo cattolico gli stessi vizi di fondo, che fanno sì che, ai suoi occhi, le due forze politiche si possano considerare sostanzialmente fenomeni analoghi, nonostante l’apparente antiteticità. Ciò che allo scrittore appare essenzialmente negativo in entrambe è innanzitutto l’incapacità di accordare l’azione al pensiero, cioè di tradurre in atto principi e propositi; poi una tensione del tutto astratta verso l’assoluto e di conseguenza un’incapacità di seguire una linea d’azione graduale, aderente alla realtà di fatto, la sola che può rendere possibile il raggiungimento degli obiettivi a cui si mira. Dietro a simili critiche si può scorgere una propensione per ciò che è concreto, pratico, fattibile, che allo scrittore proviene dalla sua formazione tecnica di ingegnere ma anche dal clima della famiglia e della «conclusiva città»8 in cui è nato e cresciuto, che ha agito profondamente in lui, anche se sui miti ambrosiani dell’industriosità pragmatica scaglierà il suo feroce sarcasmo in tante pagine di satira e polemica. Per questo Gadda è insofferente delle parole reboanti e vuote: e difatti, nella sua tagliente analisi critica, si concentra sulla retorica e la magniloquenza puramente verbale tipica sia dei socialisti sia dei popolari, retorica che per lui maschera l’inettitudine ad agire o peggio un basso scetticismo, contraddittorio rispetto alle affermazioni teoriche e in definitiva paralizzante. Oltre a questo, Gadda (da lettore e ammiratore di Pareto) stigmatizza la debolezza concettuale di quelle forze politiche nell’analisi economica, che induce a considerare autentici concetti scientifici quelle che sono soltanto «fisime»: e qui probabilmente è da vedere la polemica contro i principi economici e le analisi del sistema capitalistico condotte dal socialismo, come sembra confermare il cenno ellittico al «rendimento» e alle «fortune operaie»;9 mentre quello alla «mancanza del concetto di funziuonalità» e di «organicità» sembra colpire più l’incapacità da

8 Il sintagma ricorre nella Meccanica: cfr. Romanzi e racconti, II, a cura di G. Pinotti, D. Isella, R. Rodondi, Garzanti, Milano 1989, p. 498. 9 La polemica contro il socialismo è già presente nel progetto di romanzo Retica. L’azione doveva svolgersi in Rezia, regione al confine fra Italia e Austria, ancora «irredenta». Il governo austriaco ostacola l’infiltrazione economica italiana nella regione, la costruzione di una ferrovia e la costituzione di una società elettrica e mineraria.. A tal fine si serve anche dei socialisti: un polacco, Brotewski, alleato con un agitatore socialista italiano, Mirolini, «passionato e violento, un onesto, ciuffo e cravatta» (op. cit., p 301 s.), in cui è facile riconoscere il giovane Mussolini ancora massimalista. Il governo paga anche un «giornalucolo socialista» (ibidem). I socialisti appaiono dunque come traditori, in combutta con lo straniero: per questo sono messi sullo stesso piano del clero austriacante. È un’immagine polemica che tornerà anche in Dejanira Classis, dove il bieco anarchico rivoluzionario Pesautti, nel consiglio comunale del suo paese veneto al di là del Piave, tiene discorsi austriacanti, deprecando che gli austriaci non siano arrivati «fino in fondo».

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parte dei cattolici di delineare il corretto funzionamento di un’economia capitalistica e segnatamente industriale moderna. È bene però osservare sin d’ora che, se nelle parti narrative poi effettivamente stese al socialismo è assegnato largo spazio, non avviene lo stesso per le forze cattoliche e popolari: il personaggio che secondo il progertto dovrebbe rappresentarle nell’intreccio, l’ingegner Morone, vive solo marginalmente e la sua fisionomia ideologica e sociologica non assume sufficiente rilievo, a differenza dei personaggi dell’operaio Carletto, rappresentante del socialismo, e di Grifonetto, rappresentante del fascismo, come vedremo. Il passo citato continua contrapponendo alle forze ritenute negative una forza positiva, il fascismo, come dovrà risultare dalla costruzione del romanzo: Tutto ciò farà vedere nel fascismo la reazione italiana. Una reazione netta, pratica, umana contro il nodo gordiano della balordaggine ideologica accumulata dal secolo 18.° e 19.° - La vita deve essere Vita, non una vittima delle chiacchiere.

All’inane magniloquenza verbale e all’inconcludenza pratica di socialisti e popolari, nella visione di Gadda il fascismo contrappone la concretezza umana e la prontezza pragmatica, cioè la capacità di tradurre immediatamente in azione il pensiero: quindi la nuova forza può avere una funzione catartica e palingenetica sulla nazione stremata dal dominio ideologico troppo a lungo protrattosi delle vecchie forze politiche. Infatti lo scrittore accomuna nella sua polemica tutta l’ideologia dei secoli XVIII e XIX, di cui socialismo e popolarismo a suo avviso sono eredi. Con questo morto patrimonio di idee e principi politici entra in conflitto il fascismo, che invece è portatore di «Vita». L’enfatica iniziale maiuscola, posta in antitesi alla precedente minuscola, allusiva allo squallore inerte a cui l’Italia rischia di essere condannata dall’egemonia socialpopolare, può far pensare all’azione del modello dannunziano. È vero che il giovane Gadda ammirava il Vate come scrittore e uomo d’azione,10 subendone l’influsso proprio qui nel Racconto, come dimostra la figura del protagonista Grifonetto, eroe molto dannunziano, e aveva urlato «Viva d’Annunzio, Morte a Giolitti» durante la manifestazioni interventiste del «maggio radioso»:11 però in questa celebrazione della «Vita» non sembra di poter ravvisare un vitalismo estetizzante ed irrazionalistico alla d’Annunzio. Il senso di questa «Vita» si specifica grazie al termine a cui si oppone, quindi vorrà indicare non l’abbandono ebbro e dionisiaco all’estasi sensuale e panica né il culto del «vivere inimitabile», del bel gesto eroico in spregio del filisteismo borghese, ma un vivere sociale e individuale non mortificato da vacue ideologie («una vittima delle chiacchiere»), bensì fattivo, operoso, teso alla realizzazione di precisi obiettivi, che strappino l’Italia all’inerzia paludosa del presente e la traformino 10 Sul rapporto fra Gadda e d’Annunzio si rimanda all’esauriente studio di A. Zollino, Il Vate e l’ingegnere. D’Annunzio in Gadda, ets, Pisa 1998 (per il giovane Gadda, in particolare le pp. 13-16). 11 C. E. Gadda, Il castello di Udine, in Romanzi e racconti I, a cura di R. Rodondi, G. Lucchini, E. Manzotti, Garzanti, Milano 1988, p.142.

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 23

finalmente in una «vivente patria, come nei libri di Livio e di Cesare»,12 quella che sognava il giovane sottotenente al fronte nel 1915.13

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2. Il «Quaderno di Buenos Aires» La conferma può venire dalla lettura delle pagine intitolate Il Fascismo senza dottrina, contenute nel cosiddetto Quaderno di Buenosa Aires. Qui Gadda difende il fascismo dall’accusa di non avere una dottrina politica. È illuminante la postilla nel manoscritto inserita nel margine sopra il titolo e fra il titolo e l’avvio del testo: «La dottrina segue, non prcede la Vita». Vi si nota il ricorrere della parola tematica «Vita» presente nella pagina del romanzo, enfatizzata dalla stessa iniziale maiuscola: e difatti gli argomenti trattati sono strettamente collegati a quelli dell’abbozzo narrativo. Con un discorso sottilmente ironico e antifrastico Gadda svaluta il «gelido mondo delle “dottrine” senza le anime», le dottrine come «gelida astrazione dalla vita».14 Secondo la sua visione il fatto storico, che rappresenta «l’impreveduto, cioè il verificarsi della combinazione», recalcitra sempre ad essere imbrigliato in una dottrina che ad esso preesista. «Può una dottrina nel campo empirico tener conto dei mali? Può cioè eseguire una spassionata opera diagnostica dei mali stessi? Ne dubitiamo fortemente, direi che non lo crediamo». In tal caso «è meglio non avere dottrine; ma cuori disposti a vivere nobilmente nell’impreveduto». Il che non significa vivere «alla giornata», fare tutto «a casaccio»: «Ma non disperdiamo vanamente nell’impossibile “costruzione del perfetto” le forze che possono consentire un’analisi accurata di fatti determianti ed un loro riferimento e inquadramento attualistico nella nobile somma di rapporti che costituisce la vita».15 Perciò alla dottrina astratta lo scrittore contrappone la prassi concreta e realizzatrice: non «la dottrina di Plombières, di Magenta, di Solferino», la «dottrina liberale», ma «semplicemente Cavour, la personalità Cavour, un uomo, cioè un cuore e un cervello, prima di essere la pagina di una bibbia qualsiasi».16 Su questa esaltazione della prassi concreta si innesta poi la polemica contro la vacuità parolaia, che risponde esattamente alla polemica della nota del Racconto italiano contro 12

Il castello di Udine, in Romanzi e racconti I, cit., p. 152. Anche se da questo sogno di rigenerazione e nuova vita nazionale lo scrittore, «umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità» (come scrive in Il castello di Udine, cit., p. 119), si sentiva ormai escluso. Come scrive all’amico Ugo Betti il 2 novembre 1922, pochi giorni dopo la marcia su Roma: «È inutile mentire: dal 24 ottobre 1917 a… non so quando, io ho passato una troppo cagna vita: e certe tracce non mi lasciano più. Così le schiere fasciste mi sono passate vicino come vivi acanto a un morto. Io, logicamente, avrei dovuto essere frammezzo a loro: ma bisognerebbe essere ancora sereno e forte come loro» (C. E. Gadda, L’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti 1919-1930, a cura di G. Ungarelli, Rizzoli, Milano 1984, p. 72). 14 C. E. Gadda, Il Fascismo senza dottrina, in Quaderno di Buenos Aires, cit., p. 41 s. 15 Ivi, p. 42 s. 16 Ivi, p. 43. 13

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il socialismo e il popolarismo cattolico, anche se qui il discorso è più generale e filosofico, senza diretti riferimenti politici (è impossibile stabilire con certezza il rapporto cronologico fra i due testi, ma probabilmente le pagine del Fascismo senza dottrina sono anteriori all’avvio del Racconto italiano, se pur di poco):17

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L’uomo parolaio e dottrinario dovrebbe essere fermato nella sua folle albagia di conoscere tutto, di sapere tutto, di essere sicuro di tutto sol perché tramanda di giornale in giornale di libro in libro, di concione in concione delle vane parole, il cui senso è completamente estraneo alla vita.18

Dove torna per l’ennesima volta la parola «vita», e si chiarisce bene che è lontana da ogni senso vitalistico, irrazionalistico e dannunziano, in quanto si identifica con la concretezza fattiva della prassi sociale, in contrapposizione ad ogni astrattezza dottrinaria e a ogni vacuità parolaia.19 Il discorso termina con un riferimento ai principi della Rivoluzione francese che, pieni di un senso reale al loro tempo, perché appunto non puramente teorici ma radicati in una prassi concreta, si sono trasformati nell’Ottocento e nel Novecento in parole vuote: L’ondata retorica e bagologica della grande rivoluzione arriva ai nostri giorni. Le parole e le frasi che ebbero un preciso senso politico, una determinata estensione storica nella rivoluzione, che furono una volontà eseguita, un diritto affermato, un insegnamento imparato [variante: acquisito], si protrassero, gradualmente diminuite di significato per tutto il secolo scorso, fino alla soglia della nuova apocalisse!20

In tal modo Gadda, difendendo il fascismo dall’accusa di non avere una dottrina politica, arriva a giustificare la sua irruenza iconoclasta nei confronti di tutta una sacra tradizione culturale: Bisogna proprio far atto di doverosa contrizione: bisogna proprio concedere che il fascismo ha voluto ignorare quel buon diportamento che ci procura la stima dei “superiori”. È stato un giovane miscredente, ha scritto “asino chi legge” sui più venerabili mausolei, ha usato i testi delle sacre biblioteche per accendere la fiammata della sua anima, nel gelido mondo delle “dottrine” senza le anime. E si è poi naturalmente dimenticato che bisogna andare per il mondo con una “dottrina” politica.21 17

Si rimanda alla Nota al testo, a cura di C. Martignoni, ivi, pp. 71-81. Il Fascismo senza dottrina, cit., p. 43. 19 Non parleremmo perciò, a differenza di Guido Lucchini, di «esaltazione dell’azione per l’azione, della lotta e della volontà fine a se stesse che, come è ben noto, è tratto peculiare del futurismo» e che «aveva trovato l’espressione più rozza ma anche più caratteristica in “Lacerba”» (G. Lucchini, Appunti sul «Quaderno di Buenos Aires»: tra le pagine di cronaca e di ideologia, in «I quaderni dell’ingegnere», 2, n. s., 2011, p. 174). Ribadiamo che in Gadda non vi è traccia dell’irrazionalismo che è alla base di simili posizioni attivistiche: ci sembra eloquente in tal senso l’elogio di Cavour. Il fine dello scrittore è sempre una prassi realizzatrice di precisi obiettivi politici e sociali, fondata sull’«analisi accurata di fatti determinati», sulla «diligente, l’utile ricerca»: il suo retroterra culturale è ancora la formazione positivistica. 20 Il Fascismo senza dottrina, cit., p. 44. 21 Ivi, p. 41. 18

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 25

Dove si può scorgere un ritratto in embrione dell’eroe fascista e squadrista del Racconto italiano, che esamineremo in seguito. Ma è bene precisare subito che nei confronti del personaggio, all’atto di dargli corpo e di farlo agire nell’intreccio reale, l’atteggiamento di Gadda non è semplicemente celebrativo, come potrebbero far supporre queste annotazioni del Quaderno: in realtà, al di là dell’ammirazione per lo slancio ribelle giovanile, quell’atteggiamento è più complesso e problematico, come vedremo analizzando le pagine narrative effettivamente scritte.

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3. Motivi dell’adesione di Gadda al fascismo A spingere Gadda a vagheggiare il fascismo come forza rigeneratrice della nazione sono diversi fattori: la tradizione conservatrice della famiglia e dell’ambiente milanese in cui si era formato, il patriottismo di radici risorgimentali, anch’esso riconducibile alla famiglia, come lo scrittore ricorda nel Castello di Udine,22 l’avversione ideologica violenta contro il socialismo sovversivo e negatore della patria, l’interventismo entusiasta che lo aveva spinto a partire volontario per la guerra «necessaria e santa»,23 la traumatica delusione dei suoi ideali patriottici e militari subita nell’impatto con la realtà effettuale della guerra, con l’inefficienza e il disordine intollerabile della macchina bellica, l’emarginazione e la frustrazione del reduce, «defecato» dalla realtà «merdosa» del dopoguerra,24 la rabbiosa indignazione per le aggressioni dei socialisti contro gli ex combattenti,25 i sentimenti nazionalistici (prima di iscriversi al partito fascista nel 1921, Gadda aveva aderito al partito nazionalista), il disordine sociale, gli scioperi e i conflitti esasperati degli anni postbellici, che ai suoi occhi minacciano la compagine nazionale, il timore nei confronti del collettivismo bolscevico da parte del conservatore che ha come valore fondamentale la sacralità della proprietà privata. Il fascismo allora rappresenta per lui la difesa del valore di patria, l’ordine sociale e l’efficienza dello Stato, e garantisce proprio quella compagine nazionale rendendola solida. A ciò si aggiunge (in forma in certa misura contraddittoria: ma rispecchia la contraddittorietà insita nel fascismo stesso) la carica antiborghese dell’intellettuale inquieto e declassato del primo Novecento, che sprezza il conformismo inerte e l’ottusità della sua classe di provenienza, e vede nel giovanilismo ribellistico del fascismo la ventata di irriverenza iconoclasta 22 «Il Regno d’Italia, per i miei, era una cosa viva e verace, che valeva la pena di servirlo e tenerlo su» (Il castello di Udine, in Romanzi e racconti I, cit., p. 141). 23 Giornale di guerra e di prigionia, in Saggi giornali favole II, a cura di C. Vela,. G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni, D. Isella, M. A. Terzoli, Garzanti, Milano 1992, p. 533. 24 Le due espressioni ricorrono rispettivamente nella Cognizione del dolore, a proposito di Gonzalo («Sistemati i quadri delle sue Lettere, e della sua Ingegneria, la natale Pastrufazio non poté a meno di defecarlo»: Romanzi e racconti, I, cit., p. 682 s.), e nella Vita notata. Storia, l’ultima sezione del Giornale di guerra e di prigionia («la realtà di questi anni […] è merdosa»: Saggi giornali favole, II, cit., p. 863). 25 «Bandiera rossa e sputi per chi aveva combattuto con volontà, cioè non trascinato, ma trascinante se stesso e altri» (cfr. Appunti autobiografici, in «I quaderni dell’ingegnere», 3, 2004, p. 42).

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che può spazzare via tutto quel morto peso (come si è appena letto nel Quaderno di Buenos Aires, e come rivela il personaggio di Grifonetto). Anche la violenza delle squadracce gli sembra inevitabile come giusta reazione alle violenze dei socialisti e degli anarchici contro i reduci di guerra inermi e senza colpe, «azioni […] degne delle jene e degli sciacalli», come dimostra una pagina della più tarda novella Dejanira Classis:26 Il possibile avvento del «radioso domani» […] dopo quarant’anni di onanismo politico inflitto alla nascente nazione incontrava ora impreveduti ostacoli e un’impreveduta durezza, ben più dura e secca e recisa degli immobili Carabinieri del buon tempo liberale […]. Adesso si cominciava a sentire che non c’è rosa senza spine, che non c’è roboante raduno di folla, senza possibilità temporalesche. Che al coltello al legno alla pistola, eroicamente usati contro inermi, si opponevano ormai un pugnale e un legno che la disperazione e lo sdegno rendevano non meno risoluti a ferire.

La necessità di questa reazione fascista alle violenze dei sovversivi era già stata teorizzata nel Quaderno di Buenos Aires nel 1923: A questa gente [gli italiani in Argentina] è conosciuta solo dalla lettura la tragica umiliazione dei reduci del 18, la gazzarra parolaia dei dominatori del 19 e del 20 che freschi d’impudenti energie, si accanirono contro le classi della volontà e del sacrificio, dello studio, dell’organizzazione, esauste dalle ferite morali e materiali incontrate nella guerra: è propriamente sconosciuta perciò la ribellione disperata e “necessaria” di queste classi contro tale dominio e contro le sue cause ideologiche. La ribellione prese il nome di fascismo ma la sua “necessità” è attenuata dalla distanza.27

Dove viene individuata con chiarezza anche la matrice di classe della reazione fascista, rappresentata dalle «classi della volontà e del sacrificio, dello studio, dell’organizzazione» segnate dalla guerra. In forma più metaforica e liricamente enfatica la necessità della reazione viene rivendicata da Grifonetto, nel dossier del Racconto italiano contenuto nel Quaderno: Come il domatore che si vede nel pericolo di una folle rivolta, atterrisce le inconsapevoli belve con le fiamme delle pistolate o con la crudele minaccia d’una punta incandescente, così pensava, così deve ridursi a una norma la folle cagna che s’apprestò a insevire sugli inermi e guaì di paura davanti agli armati, che né a sé né agli altri vuol riconoscere norma.28

La necessità storica del fascismo agli occhi del giovane Gadda del 1923 giustifica anche la soppressione delle garanzie costituzionali assicurate dallo Stato liberale, l’eliminazione della democrazia e della libertà di pensiero, tutte cose 26

C. E. Gadda, Dejanira Classis, in Romanzi e racconti II, cit, p. 1048 e p. 1053. Quaderno di Buenos Aires, cit., p. 25. 28 Ivi, p. 55. 27

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 27

che per lui non sono più adeguate alla realtà attuale, profondamente trasformata rispetto agli anni precedenti: I simboli e le categorie politiche dello scorso ventennio sussistono tuttavia nelle menti come espressioni della realtà odierna che viceversa s’è trasformata: lo stato, il liberalismo, le istituzioni patrie, la democrazia, il laicismo, il libero pensiero. Me lo salutate voi lo statuto quando agli ufficiali dell’esercito italiano si dava la caccia per le vie di Milano?29

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Però vedere il fascismo solo come inevitabile reazione alle violenze di sinistra per il Gadda del Quaderno di Buenos Aires è riduttivo. Nella sua prospettiva il nuovo regime deve farsi carico di tutte le questioni sociali, strappandole al monopolio della dottrina socialista, che sa affrontarle solo in chiave retorica ed emotiva, ed assumere una missione ben più vasta, sia nazionale sia universale: Il Fascismo chiede alla società civile di rivalutare sereneamente, direi scientificamente, le questioni sociali poste sul tappeto da un settantennio di Storia Europea, e di cui le dottrine socialiste si erano fatto un monopolio di dissertazione con caratteri prevalentemente emotivi. Nato coi caratteri di un moto religioso e politico, con la forza di una rivoluzione sentimentale, pare avviarsi a una profonda riesamina di tutti i fatti e di tutte le attività sociali per addivenire a conclusioni attivistiche circa la vita delle collettività nazionali e di queste nella collettività universale. – […] Esso è certamente destinato a recare un profondo rivolgimento nella vita del mondo.30

4. Dall’adesione alla polemica contro il fascismo Tenuto conto dell’aspra polemica antimussoliniana e antifascista condotta subito dopo la guerra in Eros e Priapo e nel Pasticciaccio pubblicato su «Letteratura» nel 1946, si pone il problema di quando Gadda abbia maturato le sue posizioni critiche, in così netta antitesi rispetto alle convinzioni di un tempo. In un’intervista rilasciata a Dacia Maraini nel 1968 lo scrittore sostiene: «Solo nel ’34 ho capito cos’era il fascismo e come mi ripugnasse. Prima non me n’ero mai occupato. Le camicie nere mi davano fastidio anche prima, ma era un fastidio e basta»:31

29 Ibidem. Sono posizioni che Gadda ribadisce ancora negli anni Trenta. Recensendo su «Solaria» nel 1931 La congiura di don Giulio d’Este di Bacchelli, polemizza con i «tardi pappagalli» che «poteron vedere ancora e sempre tiranni e tirannide in uno stato, come fu l’Estense, pienamente legittimo se pur autoritario» (Saggi giornali favole I, cit., p. 732): dove si può scorgere un’implicita legittimazione dell’autoritarismo dello Stato fascista. Più avanti, a proposito della dura repressione della congiura, esprime il suo consenso al «principio di realtà» sostenuto da Bacchelli, «secondo il quale ogni organismo politico, per il fatto stesso di esistere e di saper esistere, ha diritto alla vita, cioè occlude in sé ragioni di vita che devono essergli riconosciute dallo storico», e definisce la metodologia di Bacchelli «nazionalistica» (ivi, p. 738). 30 Ivi, p. 27. 31 C. E. Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, a cura di C. Vela, Adelphi, Milano 1993, p. 168.

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affermazioni inattendibili, come dimostrano l’iscrizione al partito fascista sin dal 1921, la lettera citata a Betti sulle camicie nere portatrici di vita, il passo di Dejanira Classis su pugnali e manganelli delle squadracce, la militanza nel fascio di Buenos Aires nel 1923 e la stesura delle riflessioni del Quaderno, ma soprattutto la nutrita serie di articoli giornalistici pubblicati ancora negli anni Trenta e nei primi anni della guerra, colmi di ossequio al regime, a Mussolini, al fratello Arnaldo, a gerarchi come il quadrumviro De Bono, e testimonianti un’adesione alla politica economica autarchica del regime e ad altre sue iniziative come i Littoriali del Lavoro o la fondazione dell’Istituto di studi romani.32 Non solo, subito dopo nella stessa intervista Gadda afferma: «D’altronde il libro Eros e Priapo l’ho scritto nel ’28 e mostra tutta la mia insofferenza per il regime», retrodatazione manifestamente errata, poiché il libello antimussoliniano, iniziato nel 1944, fu completato nell’immediato dopoguerra. Evidentemente Gadda si vergognava dei suoi trascorsi fascisti e spinto da sensi di colpa cercava di rimuoverli. Non è facile spiegare il brusco passaggio dagli articoli celebrativi, protrattisi sino ai primi anni Quaranta, alle feroci requisitorie antifasciste dell’immediato dopoguerra. Non sembra sufficiente chiamare in causa solo le privazioni, le traversie, i pericoli, l’impoverimento imposti dalla sciagurata guerra, e poi il trauma della sconfitta rovinosa, come si fa abitualmente. Un ripudio così improvviso del fascismo sembra inverosimile, e viene da chiedersi se un ripensamento non fosse comunque già in atto proprio negli anni del regime, e quindi se l’indicazione, contenuta nell’intervista, del 1934 come data di una presa di coscienza, depurata dalle altre affermazioni non possa avere un qualche fondamento. Un’ipotesi può essere questa: l’adesione all’idea fascista in Gadda negli anni Trenta e Quaranta continuava ad essere sincera e convinta, data la consonanza di molti aspetti di essa con le sue personali convinzioni, come si è visto, ma forse già in quel periodo lo scrittore aveva cominciato a nutrire un’insofferenza di fondo per il regime come si configurava effettivamente, nella realtà, e soprattutto per il duce e la sua retorica istrionica, per i suoi atteggiamenti esibizionistici e buffoneschi, che suscitavano deliranti invasamenti nelle masse popolari, soprattutto femminili. Lungi dal realizzare la concretezza pragmatica contro tutte le astrazioni dottrinarie e lungi dal dare vita a un sistema nazionale efficiente e ordinato, come Gadda 32 Su questi articoli si possono vedere le ottime analisi di R. S. Dombroski, Gadda e il fascismo, in Introduzione allo studio di C. E. Gadda, Vallecchi, Firenze 1974, pp. 145-168; Gadda: fascismo e psicanalisi, in L’esistenza ubbidiente. Letterati italiani sotto il fascismo, Guida, Napoli 1984, pp. 91-114, ripresi in Gadda e il fascismo, raccolto in Gadda e il barocco, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 124-140. Importante anche L. Greco, L’autocensura di Gadda: gli scritti tecnico-autarchici, in Censura e scrittura. Vittorini, lo pseudo-Malaparte, Gadda, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 51-98.. Per i testi, oltre a quelli pubblicati nell’edizione Garzanti dell’opera omnia, nella sezione Pagine di divulgazione tecnica del volume Scritti vari e postumi, esistono le raccolte Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica, Scheiwiller, Milano 1986 e I Littoriali del Lavoro e altri scritti giornalistici 1932-1941, a cura di M. Bertone, ets, Pisa 2005. Alcuni altri testi sono stati pubblicati da A. Andreini, Sudi e testi gaddiani, Sellerio, Palermo 1988, pp. 179-200.

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 29

vagheggiava nel Quaderno di Buenos Aires nel 1923, il regime si presentava come un proliferare di vacua retorica e di puri apparati scenografici, che nascondevano incompetenza, inefficienza e corruzione, e nella figura del suo capo si trasformava un un fenomeno di degenerazione psicopatologica di tipo narcissico. Agli occhi di Gadda simili aspetti del regime apparivano probabilmente come un tradimento e uno stravolgimento dei valori autentici che, proprio in obbedienza ai principi del fascismo stesso, avrebbero dovuto ispirare il governo del paese. Il fascismo perciò non poteva pretendere di porsi come alternativa all’«insufficienza», alla «palude» italiana, ma si riduceva ad essere una sua ulteriore, ennesima manifestazione. Quella di Gadda era insomma insofferenza per il fascismo com’era, nei suoi aspetti di truce e vuota carnevalata, in nome di un fascismo ideale.33 Se fosse vera questa ipotesi, lo scrittore avrebbe nutrito nei confronti del regime sentimenti affini a quelli provati per la sua classe di provenienza, la borghesia, di cui partecipava i valori, deprecando però il fatto che al presente quella classe li avesse traditi facendoli degenerare in modo vergognoso, il che scatenava la sua reazione furibonda e le sue violente invettive. Questa ipotesi, se confermata, darebbe ragione al sospetto che l’avversione profonda per il duce testimoniata dal Pasticciaccio, da Eros e Priapo e da molti altri testi, saggi, favole, lettere, non possa essere nata di colpo, soltanto dopo la fine della guerra, senza avere radici più o meno sotterranee in precedenza, nel pieno del regime (d’altronde, già sin dal 1924 nel Racconto italiano si possono riconoscere riserve nei confronti dell’attività squadrtistica e dello stesso eroe fascista, come vedremo in seguito).34 All’inizio della requisitoria di Eros e Priapo Gadda proclama: «Il mi’ rospo, tre giorni avanti di tirar le cuoia, devo pur principiare a buttarlo fuora: il rospaccio che m’ha oppilato lo stomaco trent’anni: quanto una vita!».35 In questo caso la confessione appare sofferta e sincera e, in base alle considerazioni precedenti, si è indotti a concederle credito.

33 Come efficacemente sintetizza Cristina Savettieri in un suo fondamentale contributo, «tanto il sostegno al regime, che non significava altro che fedeltà ai valori remoti, quanto il disagio di vivere in esso, convivono e si limitano a vicenda» (C. Savettieri, Il ventennio di Gadda, in Aa. Vv., Scrittori italiani tra fascismo e antifascismo, a cura di R. Luperini e P. Cataldi, Pacini, Pisa 2009, p. 26). 34 Di interpretazione molto problematica è un passo di I viaggi del capitano Gaddus. Serie Ia. Viaggio nella galassia α, del 1933 («I quaderni dell’ingegnere», 3, n. s., 2012, p. 13). In un dialogo fra un terrestre e un extraterrestre (della galassia alfa, si suppone) il primo afferma: «Credo che la volontà dell’ordine possa realmente indurre un poco di ordine nelle anime e nelle cose. Da noi uomini come Sisto Quinto, Ercole I da Este, Duca di Ferrara, e il Duce della nuova Italia, Primo Ministro del Regno, possono realmente chiamarsi degli Ordinatori d’eventi o di anime o almeno dei saggi Moderatori». La lettera del testo è celebrativa (e c’è il riscontro della recensione a La congiura di don Giulio d’Este di Bacchelli, dove di Ercole I si danno giudizi molto positivi: cfr. Saggi giornali favole I, cit., pp. 732-735), ma il contesto è tutto ironico e satirico, e può autorizzare ad avanzare il sospetto di un intento ironico e antifrastico anche in queste righe. Non si può però neppure escludere un elogio del duce solo in vista di una pubblicazione del testo. Non ci sembra comunque che vi siano elementi per un’interpretazione sicura. 35 Saggi giornali favole II, cit., p. 236. Nel manoscritto originario, seguito dall’edizione a cura di P. Italia e G. Pinotti, Adelphi, Milano 2016, si legge: «m’è rimaso in sullo stomaco».

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Si tratta allora di cercare indizi che possano avvalorare l’ipotesi. Un indizio di questo mutato atteggiamento rispetto alle illusioni delle origini si può forse scorgere nel diverso giudizio dato negli anni Trenta su un’icona del fascismo come d’Annunzio, giudizio un tempo entusiastico e ora decisamente più severo, specie sulla vacuità teatrale degli atteggiamenti del Vate36 (uno “schermo” per alludere a Mussolini?), che si può riconoscere anche nella velenosa satira contro il poeta nazionale Caçoncellos nella Cognizione.37 Un altro indizio potrebbe essere costituito dalla presenza, sempre nella Cognizione, del Nistitúo de Vigilancia para la Noche e dei suoi odiosi ricatti, a condizione che effettivamente esso adombri il fascismo, come in genere si interpreta, sulla base delle dichiarazioni in merito fatte da Gadda stesso, nell’intervista a Dacia Maraini del 1968.38 L’affermazione però suscita qualche dubbio, visto il tentativo da parte dello scrittore, in questa intervista, di crearsi un’immagine antifascista, come si è visto.39 Semmai, come ha 36 Su questo aspetto si veda sempre Zollino, op. cit., pp. 16-18. Un documento di questa presa di distanza da d’Annunzio negli anni Trenta potrebbe essere l’abbozzo incompiuto intitolato Novella dell’egoista attaccabottoni, datato 14 settembre 1933, dove viene satireggiata la figura di un giovane, fervente dannunziano, che parla attraverso le più trite formule del superomismo del Vate, alle quali viene invece contrapposta la realtà autentica del lavoro contadino e della guerra. Nella nota iniziale Gadda si preoccupa di negare la presenza di ogni atteggiamento irriverente verso d’Annunzio e professa «al Grande Poeta e al Grande Soldato tutta la sua devota ammirazione di amatore delle lettere e di cittadino e di soldato italiano», ma la precisazione non basta a smentire l’insofferenza di fondo, e forse è da attribuire più che altro a timori di censure e polemiche in caso di pubblicazione ( cfr. «I quaderni dell’ingegnere», 5, 2007, pp. 16-21). 37 Per un’accurata disamina di una serie di altri indizi che potrebbero testimoniare un certo distacco di Gadda dal regime negli anni Trenta si rimanda a Savettieri, Il ventennio di Gadda, cit, pp. 21 ss. Comunque nelle lettere degli anni Trenta non si rinvengono dichiarazioni esplicite di un distacco dal regime: se questo distacco esisteva, anche nel privato Gadda manteneva un assoluto riserbo. Non ci pare contenga una punta di giudizio negativo l’espressione che ricorre in una lettera a Ugo Betti del 28 giugno 1927, «anno V° dell’Egira» (C. E. Gadda, L’ingenger fantasia. Lettere a Ugo Betti 1919-1930, cit., p. 113), anche se poi ritornerà nel Pasticciaccio: «…queli signori, dell’era dell’egira, l’arti papaveri de la fezzeria» (Romanzi e racconti II, cit., p. 55): nel romanzo, grazie anche al contesto (la «fezzeria»), è evidente lo sberleffo, che riproduce l’irriverenza spregiativa della voce narrante corale, popolaresca e “belliana”; nella lettera di molti anni prima invece ci sembra di vedere solo lo scherzo un po’ goliardico ma sostanzialmente innocuo fra i due ex commilitoni. Tanto meno si può scorgere un segno di distacco nella lettera a Betti del dicembre 1921 («Adesso ti do una brutta notizia! Preparati: potevo pensarci prima: ero iscritto al partito nazionalista! Adesso sono iscritto al partito fascista»: op. cit., p. 58), come invece sembra credere la Bertone, che vi ravvisa «un tenue segnale di consapevolezza» (Introduzione a I littoriali del lavoro, cit., p. 33): al contrario, le espressioni sono solo scherzose e soprattutto antifrastiche. 38 «Deve tenere presente, […] che in questo libro io ho creato una confusione narrativa, fra l’idea dei fascisti e l’idea dei vigili notturni. […] I vigili notturni insomma sono visti come fascisti» (Per favore mi lasci nell’ombra, cit., p. 171). 39 Riguardo all’attendibilità di tali affermazioni ha espresso riserve anche E. Manzotti, La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, vol. IV, II, Il Novecento. La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, p. 246. A conferma, in una precedente redazione Gonzalo riconosce nel Manganones un viso «della folla», vale a dire un sovversivo, socialista o anarchico, uno della «bieca folla» che aggrediva per le strade i reduci. Si veda in proposito sempre E. Manzotti, Nota al testo di La cognizione del dolore. Parte seconda. I e II redazione, in «I quaderni

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 31

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proposto Raffaele Donnarumma, si può scorgere nella Cognizione un’«oggettiva dissonanza col regime», poiché, se Gadda rovescia il suo odio contro una società che ha prostituito i valori, «il fascismo è sotto accusa in quanto espressione di quella società e promotore di quella degenerazione»: di qui da parte dello scrittore la ricerca «di riparo e solitudine in quella torre d’avorio costruita dai letterati fiorentini negli anni Trenta». Questa dissonanza, continua Donnarumma, non può concedere alla Cognizione una patente di antifascismo politicamente meditata, «ma certo rivela il disagio di un reazionario che, dopo aver creduto nel fascismo ed essersi tappato il naso davanti alle sue storture, è travolto ora dalla sua follia».40 Un ulteriore indizio può essere offerto, sempre nella Cognizione, da un passo come questo: Non credo nella onniscienza del vulcano Akatapulqui, […] il dio-vulcano adorato dagli Incas, il dio di zolfo e di fiamma… che giganteggia e sparacchia, là, nella tenebra…

dove si può scorgere, al di là della mascheratura criptica, un’allusione polemica a Mussolini, che, come pretendeva la propaganda, «ha sempre ragione»41 (e una conferma, se si prestasse fede alla dichiarazione dello scrittore alla Maraini, potrebbe venire dal contesto in cui queste righe si inseriscono, dove Gonzalo proclama di non creder anche alla vigilanza del Nistitúo). E va tenuto presente, riguardo a questa serie di indizi, che la Cognizione uscì su «Letteratura» in piena era fascista, dal 1938 al 1941. Non solo, ma nel dialogo fra Editore e Autore premesso al romanzo in occasione della stampa del 1963 si parla delle «calamità catastrofizzanti che l’Europa conobbe dal 1939 al 1945 e che gli intelletti meno insani dovettero già presagire a se stessi fin dal 1934-38»:42 dal che si può arguire che Gadda si annovera fra quegli «intelletti», e proclama le sue premonizioni delle catastrofi future sin da quegli anni. Ancora un indizio si può rinvenire in una lettera a Enrico Falqui del 6 ottobre 1945, sempre riguardo alla Cognizione: Lo “spagnolesimo” o “sudamericanismo” apparente non è che una forma di criptografia e di carbonarismo per eludere la censura littoria. Così quando derido gli dell’ingengere», 3, 2004, p. 29. A sua volta Peter Hainsworth nega la possibilità di un’identificazione con il fascismo, poiché il Nistitúo è «emblematic of administrative corruption», e quella di Gadda è una polemica convenzionale, «in complete accord with the policies for bureaucratic reform which Fascism publicly proclaimed and which won it a great deal of popular support» (P. Hainsworth, Fascism and Anti-Fascism in Gadda, in Aa. Vv., Carlo Emilio Gadda. Contemporary Perspectives, edited by M. Bertone and R. S. Dombroski, University of Toronto Press, Toronto Buffalo London 1997, p. 223 s.). 40 R. Donnarumma, Fascismo, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», 2, 2002. Secondo Hainsworth invece la satira della borghesia nella Cognizione era «a standard theme of ortodox Fascist writing, which continued to be rehearsed troughout the ventennio» (op. cit., p, 224). 41 Sul passo si veda G. C. Roscioni, Terre emerse: il problema degli indici di Gadda, in Le lingue di Gadda, cit., p. 24 s.). 42 Romanzi e racconti I, cit., p. 759.

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orpelli massonici, i ciondoli, ecc., mi pensavo deridere i pennacchi vari e distintivi del tragico e funerario carnovale nostrano.43

È plausibile che Gadda, in quello scorcio degli anni Trenta in cui scriveva i «tratti» del romanzo per «Letteratura», intendesse davvero deridere le esibizioni ridicole e funebremente carnevalesche del regime, che dovevano urtare la sua sensibilità, e cercasse di mascherarle in modo criptico perché temeva e detestava la censura fascista; anche se resta un margine di sospetto che l’affermazione della lettera nasca anch’essa dal bisogno di darsi un’immagine antifascista, in quel dopoguerra. Comunque, al di là di ogni vago indizio, bisogna riconoscere che negli scritti degli anni Trenta e Quaranta non si rinvengono dichiarazioni esplicite di polemica contro il regime, e nemmeno negli scritti privati.44 Nonostante ogni eventuale forma di disagio, Gadda nei suoi articoli pubblicati su vari organi di stampa si uniformava al clima generale, tenendo segreti nell’intimo i suoi veri sentimenti: sia perché accettava le collaborazioni giornalistiche soprattutto per aumentare un po’ i suoi redditi,45 quindi non vi annetteva grande importanza culturale,46 sia per timore della repressione poliziesca del regime dittatoriale. Una prova di questo timore si può trovare in un’annotazione all’abbozzo della Meccanica datato 2 gennaio 1928 (in realtà 1929), in cui lo scrittore esprime il rammarico di non poter trattare con piena libertà della socialista “Umanitaria”, nonché della 43 Lettere a Enrico Falqui e a Gianna Manzini, a cura di A. Mastropasqua, in «I quaderni dell’ingegnere», 5, 2014, p.106. 44 Mauro Bersani, osservando che nell’edizione delle Meraviglie d’Italia del 1939 Gadda «cassa tutti i brani apologetici del fascismo rispetto alle prime redazioni degli articoli per i giornali», ne deduce che «il ripensamento del fascismo da parte di Gadda avvenne proprio nei secondi anni Trenta, forse anche per l’influsso degli ambienti letterari che frequentava, generalmente antifascisti» (M. Bersani, Gadda, Einaudi, Torino 2003, p. 81 s.). È possibile, ma la cancellazione può anche essere attribuita solo a ragioni squisitamente culturali, per attenuare i legami con la realtà contingente, propri degli articoli di giornale, in un volume di maggiori ambizioni letterarie (e proprio su questo piano letterario può aver esercitato un influsso il clima dell’ambiente fiorentino). 45 Giuseppe Stellardi suggerisce «possibili concause» della pubblicazione di questi articoli tecnici negli anni Trenta e Quaranta: «necessità economica», «percepita neutralità ideologica», «sincera ammirazione per certi aspetti di progresso tecnico» della politica fascista, da parte del Gadda «maniaco dell’ordine, dell’efficienza e del lavoro ben fatto», «necessità etico-psicologica di accettare il reale, invece di sognare l’impossibile». Stigmatizza poi l’errore dei critici di «mettere in primo piano il movente e il giudizio politico», mentre per Gadda sono sempre secondari (G. Stellardi, Gadda fascista?, in Gadda: miseria e grandezza della letteratura, Cesati, Firenze 2006, pp. 139-141). 46 Gadda scrive a Lucia Rodocanachi il 26 febbraio 1941: «Per tirare avanti e per guadagnare qualcosa, ho accettato di sobbarcarmi a qualche fatica pamphletaire, tecnico-propagandistica, cavandone gloria nessuna, denaro poco, e noia molta» (Lettere a una gentile signora, a cura di G. Marcenaro, Adelphi, Milano 1983, p. 129), dove si può rilevare una certa svalutazione dell’attivita «propagandistica» e una presa di distanza, se non un fastidio: comunque in termini non politici, ma culturali; e la coinfessione è fatta in tempi non sospetti, non può essere ascritta ai tentativi di crearsi un’aura di distacco dal fascismo, come in altre dichiarazioni fatte nel dopoguerra. Anche al cugino Gadda Conti scrive il 3 febbraio 1941: «Ho fatto due articoli piuttosto fessi sul latifondo per la Nuova Antologia e Le vie d’Italia» (P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Pan, Milano 1974, p. 54).

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 33

condotta della guerra da parte delle gerarchie militari, dato il clima politico del fascismo (l’appunto è riportato da Dante Isella nella Nota al testo della Meccanica ):47 Il delicato argomento politico mi è tra mano come una moneta che non si può spendere: non posso trattarlo con quella libertà e spregiudicatezza che ne farebbero forse un lavoro di qualche pregio, anche per il suo interesse storico-drammatico generale […] Con acre maniera, che è quella che in me preferisco, vorrei dipingere tutta la balorda vita delle parole e delle passioni inutili caratteristica del nostro popolo, ecc. […] E poi non è questo il tempo propizio a una maniera che ferirebbe forse, anche se senza intenzione, i dogmi del momento.

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In una lettera a Piero Gadda Conti del 14 novembre 1929 è poi espressa la preoccupazione per le conseguenze negative che sarebbero potute derivare dal libro, se fosse stato letto da Leo Longanesi, noto per le sue simpatie fasciste: Non vorrei che poi Longanesi mi facesse mandare al confino perché, come al solito, non risparmio i generalazzi, la cui immagine in me non è disgiunta dalla straziante agonia morale che costarono le loro malefatte in guerra.48

Indubbiamente il tono è scherzoso, ma fino a un certo punto: non si può dubitare, conoscendo Gadda, che vi fossero preoccupazioni reali. Anche perché tali preoccupazioni sono confermate da un’altra nota all’abbozzo della Meccanica, questa volta, a differenza della prima, destinata non alla riflessione personale ma ai lettori del libro; in essa l’autore, per cautelarsi, dichiara di non aver mai avuto rapporti con l’Umanitaria, di non aver mai militato nei partiti politici a cui essa si appoggiava, anzi in quelli contrari, e che «la descrizione ha semplicemente un motivo d’arte».49 Ancora nel 1932 Gadda, sempre per scongiurare ogni errata e pericolosa interpretazione delle sue critiche all’andamento della guerra e all’azione degli alti comandi volle premettere alla pubblicazione su «Solaria» di tre brani del romanzo una lunga dichiarazione d’intenti, in cui precisava che esso era espressione della sua «amarezza esasperata di italiano, di nazionalista, di soldato, per il “male” che precedette l’intervento e stagnò sulla guerra, mefitico», e a sua discolpa citava la trattazione del problema degli imboscati.50 In tutte queste preoccupazioni si possono scorgere, certo, le ossessioni nevrotiche dello scrittore, ma anche se occorre fare la tara ai suoi timori non vuol dire che non avvertisse con fastidio e insofferenza il peso di un clima politico che coartava la libera espressione artistica e del pensiero. Un’altra confessione abbastanza eloquente di quei timori, che portarono a forzate reticenze, si può riconoscere in un passo dell’articolo Il Pasticciaccio, pubblicato sull’«Illustrazione italiana» nell’ottobre del 1957, poi in I viaggi la morte nel 1958:51 47 48 49 50 51

Cfr. Romanzi e racconti II, cit., p. 1195. Gadda Conti, op. cit., p. 12. Nota al testo, cit., p.1196. Nota al testo, cit., p. 1198. C. E. Gadda, I viaggi la morte, in Saggi giornali favole I, cit., p. 508

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Non ho potuto esprimere se non una parte del mio sentire, la parte ovviamente “agnostica”, o almeno quella che non avrebbe offuscato la faccia alla “gnosi” degli anni che vaporarono via dalla vita, fra il ’24 e il ’45.

E lo scrittore prosegue ricordando l’intervento censorio di un solerte funzionario del regime riguardo al primo numero di «Letteratura». Tutte queste dichiarazioni possono indurci a pensare che, in quegli articoli, si limitasse a celebrare mediante formulari rituali la politica economica autarchica del fascismo e altre sue iniziative, soprattutto di esaltazione della romanità,52 che peraltro condivideva effettivamente, senza lasciar trapelare le riserve o le insofferenze che aveva maturato per altri aspetti verso il duce e il regime. In quella pagina dell’articolo Il Pasticciaccio Gadda riporta una frase di Tacito, citata spesso anche in altri luoghi, «Per silentium ad senectutem pervenere»: nel suo caso il «silentium» era anche costituito da quegli articoli encomiastici, che non lasciavano affiorare le sue più segrete perplessità. La conferma viene da una lettera al cugino Piero Gadda Conti del 6 ottobre 1967, dove emerge il senso di colpa dello scrittore per non aver saputo trovare il coraggio di essere più libero di fronte alla dittatura: A mia tenue e, forse, insufficiente scusa valga il fatto che ero stato travolto da terribili anni (come tutti); che non avevo avuto la forza d’animo di affrontarli col necessario eroismo: che, insomma, avevo mancato a tutto, su tutta la linea. […] Molte cose ti vorrei dire prima di spegnermi, ma solo a voce, come in confessione, per non essere ulteriormente incriminato di colpe che non sono colpe e di delitti che non ho commesso. Bastano già i miei rimorsi a crocifiggermi.53

Quando poi la guerra e la sua sciagurata condotta portarono l’Italia alla sconfitta, al disastro totale, all’umiliazione, alla distruzione economica e alla miseria, i sentimenti patriottici feriti, le idealità calpestate, la presa di coscienza del fatto che il progetto di rigenerazione della patria, in cui aveva creduto, era stato clamorosamente tradito fecero erompere nello scrittore, contro i responsabili di quello sfacelo, l’indignazione e la rabbia, che furono espresse nelle violente, furibonde invettive dei Miti del somaro, delle Favole, di Eros e Priapo e del Pasticciaccio. Ma le invettive del libello e del romanzo non si limitano «ai lati più grotteschi e beceri del regime e del suo fondatore», come nota Lucchini,54 anche se certo quel tipo di 52 È significativo che in calce alla prima edizione del Castello di Udine scrivesse: «Firenze, li 14 novembre 1933 di N. S. XII “a fascibus restitutis”» (Romanzi e racconti, I,.cit. p. 115). Manuela Bertone precisa però che l’esaltazione di Roma in Gadda non ha nulla da spartire con i modi e i termini imposti dal regime, non muove «dal conformismo rituale del suo tempo», ma è «una concezione originale» che ha «radici antiche» nell’idealizzazzione della romanità tramandata dagli auctores a lui cari; dall’altro lato lo scrittore sottopone il passato a un processo di attualizzazione, «facendone un punto di riferimento concreto e tangibile per il suo tempo» (Bertone, Introduzione a I Littoriali del Lavoro e altri scritti giornalistici 1932-1941, cit., p. 31 s.). 53 Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, cit., p. 140. 54 Lucchini, Appunti sul «Quaderno di Buenos Aires, cit. p. 176.

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polemica, che insiste sugli aspetti psicopatologici del duce, ha larghissimo spazio, come reazione di un conservatore deluso55 nei suoi ideali dalla realtà meschina e turpe del regime e del suo capo, e dalle conseguenze nefaste che essa ha generato: nel Pasticciaccio la polemica attinge anche a livelli più elevati di critica politica. Essa infatti si estende a colpire l’annullamento, operato dalla dittatura, della distinzione dei poteri, fondamento del moderno Stato di diritto, la «distinzione dei “tre poteri”: che il grande sociologo […] osservando gli instituti migliori de’ romani e i più giudiziosi e recenti della storia inglese, aveva così lucidamente distinto».56 Il fascismo, impadronitosi dello Stato, passò a «conglomerare le tre balìe […] tutte tre, in un’unica e trina impenetrabile e irremovibile camorra»:57 In un tale evento «le même corps de magistrature a, comme exécuteur des lois, toute la puissance qu’il s’est donnée comme législateur. Il peut ravager l’État» (intendete ? ravager l’État !) «par ses volontés génerales et, comme il a encore la puissance de juger, il peut détruire chaque citoyen par ses volontés particulières»: particulières à lui, cioè al sullodato corps. Nel caso nostro, nel novello ravage comportato da una troppo focosa reminiscenza degli antichi bastoncelli (i quali, semmai, bastoncellavano a sensi di legge, non a sensi di teppa), il telefono si trovò bell’e impiantato a prestare, alla tripotente camorra, gli uffici eminenti d’un ufficiale portaordini controllato dallo zelo e dagli orecchi ipersensibili di un ufficiale spia.58

Il Gadda maturo, dopo l’esperienza devastante della guerra causata dalla dittatura, ricupera quei principi liberali e quell’ossequio alle garanzie costituzionali che negli anni giovanili, nelle riflessioni del Quaderno di Buenos Aires del 1923, aveva ritenuto opportuno mettere tra parentesi in obbedienza alla necessità di riportare l’ordine nel caos del dopoguerra. Nello stesso passo del Pasticciaccio Gadda sconfessa altre posizioni assunte un tempo sempre nel Quaderno di Buenos Aires, in cui difendeva il fascismo dall’accusa di non avere una dottrina in nome della sua immediatezza pragmatica; ora invece lo accusa proprio di essere stato privo del fondamento di una riflessione filosofica, e per di più mascherando così inefficienza e incapacità di concludere: le «nuove forze» fasciste «si addiedero poi senza sciuparsi nei filosofemi (primum vivere) a lastricare de’ più verbosi buoni propositi la patente via dell’inferno»59 (dove comunque è da notare che per il Gadda 1946 quelli del fascismo erano comunque «buoni propositi») 55 Secondo Riccardo Stracuzzi nella furia di Gadda contro il duce «è sin troppo facile vedere l’effetto di una delusione, la delusione sofferta di un ceto sociale conservativo, tutto dedito agli ideali del’ordine e della patria» (R. Stracuzzi, Appunti sulla militanza di Carlo Emilio Gadda, in Aa: Vv., La sfida della letteratura. Scrittori e poteri nell’Italia del Novecento, a cura di N. Novello, Carocci, Roma 2004, p. 123). 56 Romanzi e racconti II, cit., p. 80. 57 Ivi, p. 81. 58 Ibidem. 59 Ivi, p. 80.

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Un fermo rifiuto della dittatura in nome dei principi democratici e costituzionali si ritrova in un articolo di qualche anno dopo, del 1961, Date una carabina a un ragazzo…, dove Gadda accusa il fascismo di «eversione delle leggi di vita associata che assistono e confortano lo sviluppo umano e lo stato democratico definito costituzionalmente, tanto più quando una siffatta eversione venga operata con violenza sopraffattrice da un gruppo di cittadini per sottrarsi alla disciplina pubblica liberamente accettata dalla nazione».60 La sua preoccupazione di un ritorno «della violenza e dell’arbitrio» del fascismo è sollecitata dagli eventi di Algeri e di Parigi di quell’anno: «I giovani, gli “arditi”, gli spregiudicati corrono facilmente alle vie e alle armi, come coloro che dalla sorte delle armi hanno tutto da guadagnare, e non hanno nulla da perdere: come coloro che amano le armi, e l’impiego di esse amano considerare prodezze».61 Il Gadda che in Dejanira Classis celebrava il «pugnale» e il «legno» usati dagli squadristi contro le violenze dei «sovversivi» è ormai lontano. Alla sopraffazione e alla violenza fasciste, che ancora possono costituire un pericolo, contrappone una serie di valori prettamente borghesi e liberaldemocratici: «Una perenne attività logica, una seria preparazione alla vita associata, una scuola efficiente, il culto del “dovere”, il rispetto del vicino e del prossimo, una onestà naturale e nativa serbata nell’animo a dispetto del costume e del tempo mi sembrano i mezzi di cui lo scrittore e il cittadino in genere dispongono per non dare “via libera” al fascismo».62

5. L’eroe fascista: Grifonetto Nella narrazione il fascismo doveva incarnarsi nella figura del protagonista, Grifonetto Lampugnani. Ma non bisogna attendersi, sulla base delle posizioni ideologiche assunte all’epoca da Gadda, e come potrebbe far supporre un simile nome, che denuncia in modo trasparente l’ascendenza dannunziana, il ritratto celebrativo, monumentale e a una sola dimensione di un personaggio eroico e superomistico: al contrario lo scrittore ne delinea la fisionomia in una prospettiva decisamente critica e problematica. In primo luogo Grifonetto, nel progettato sviluppo della trama, deve partecipare a una spedizione punitiva di una sordida squadra fascista contro un circolo “sovversivo”, in cui resta ucciso un povero diavolo, un operaio socialista, quindi, incolpato ingiustamente del delitto, è costretto a fuggire in Sudamerica. Ma soprattutto è destinato a macchiarsi effettivamente di un delitto: il culmine tragico del romanzo, in seguito a una vicenda d’amore contrastato, dovrà essere l’uccisione della donna amata, Maria de la Garde (poi de Vendôme), seguita dal suicidio dell’eroe. Nelle note compositive Gadda accosta 60 61 62

Saggi giornali favole I, cit., p. 1181. Ibidem. Ivi, p. 1181 s.

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il delitto a quello di Giorgio Aurispa nel Trionfo delle morte e a quello di Julien Sorel in Le Rouge et le Noir. Grifonetto è dunque un eroe che è circondato da una luce criminale: tant’è vero che Gadda si impegna per varie pagine in una riflessione sull’«abnorme», rappresentato appunto dal suo eroe, che entra in rapporto dialettico con la «norma». A definire poi il carattere del personaggio Gadda dedica un’ampia riflessione progettuale nella nota compositiva 34 del 7 settembre: Si potrebbe arrivare al delitto di Grifonetto per “analogia” e cioè: egli estremamente volitivo, ma non eccessivamente critico (un po’ di follia impulsiva, o vedere la situazione di equilibrio) incontra una serie di ostacoli e di more all’azione per cui si desta in lui il senso o impulso catastrofico: (realtà analogica di molti stati precriminali). Questa serie fatale di “choc” che desta in lui la suggestione analogica può essere: dalla ricchezza alla miseria per cause non sue: (ascendenti); dalla vita alla morte di suo fratello: (nella guerra); dalla fede nella patria alla sozzura: (1919); dal sacrificio come fascista alla minaccia del carcere, e alla conoscenza dei vili motivi che hanno determinato la prima spedizione punitiva; dalla patria all’esilio; dalla fede nelle “colonie” al disdegno e forzato ritorno: (intanto comincia già a rivelarsi la stanchezza). Così alla potente delusione d’amore segue la folle tragedia: «Se nulla è possibile, che tutto finisca!». – La potenza suggestiva delle analogie è formidabile. Agisce come la suggestione dell’abisso (dove altre tragedie si verificarono e quindi deve verificarvisi anche la mia) sull’alpinista stanco.

Derivante dal modello dannunziano è il carattere «estremamente volitivo» dell’eroe (definito anche «ipervolitivo», in un altro punto), chiaramente da collegare alla volontà ferrea che è la dote precipua del superuomo. Questo aspetto risalta con evidenza anche in un frammento del dossier del Rcconto italiano presente nel Quaderno di Buenos Aires: Sognava che il suo comando sarebbe atteso ed obbedito da altri giovani, pur forti, ma meno forti di lui, pur risoluti, ma meno di lui, pur coraggiosi, ma non così freddamente e disperastamente come era lui. Allora sognava che il suo orgoglio selvaggio fosse una bellezza interiore che è il comando della Vita, che è la luce della sognante e pensante vita, della vita modificatrice ed elaboratrice della natura».63

Ma Gadda, a quanto si è letto nella nota compositiva, si preoccupa subito di segnare il limite negativo di quella volontà, sottolineando come Grifonetto sia «non eccessivamente critico»; e poco dopo aggiunge: «Lo sviluppo direzionale dei volitivi spesso implica acriticità o minore criticità»; ancora poi in una nota successiva, del 20 settembre, ribadisce: «Gli manca la visione critica della vita. È una giovane forza e pura», ma è «affetta per altro da italianesimo», cioè da un tipico difetto italiano, «l’eccessività»: «Le analogie tragiche spostano continuamente la 63

Op. cit., p. 55.

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sua sensibilità precipitandola verso il deforme delitto». Lo scrittore arriva a parlare di «un po’ di follia impulsiva», di un «impeto di generoso entusiasmo e di folle (sic) reazione» Questo tratto del personaggio è confermato anche in un appunto del dossier sul Racconto italiano contenuto nel Quaderno di Buenos Aires: «“Le cause e il carattere di un tipo che non riesce” (Sentimentali, affettive, storture di giudizio, ecc. eccessiva sensibilità, ecc. smodate reazioni)».64 Non solo, a suggellare la lontananza del personaggio da ogni monumentalità celebrativa del superomismo di tipo dannunziano e fascista interviene la sua sconfitta finale, segnata dal suicidio. L’eroe si presenta così con duplice volto, da un lato di individuo superiore, spiritualmente privilegiato e dal grande animo, dall’altro di figura ai limiti dell’abnorme criminale, priva di misura critica e inficiata da un’impulsività quasi folle. Di conseguenza lo scrittore rivela nei suoi confronti un contegno ambivalente, fatto per un verso di ammirazione sublimante e per l’altro di critica severa. I tratti degenrativi del personaggio sono fatti risalire all’azione corruttrice e pervertitrice dell’ambiente sociale. Su questo aspetto Gadda insiste subito nei primi giorni del suo lavoro, prima ancora che la fisionomia del suo protagonista prenda consistenza nelle forme che si sono appena messe in luce. Come si legge nella nota compositiva del 25 marzo, il giorno successivo all’inizio della stesura del Cahier, uno dei punti su cui si concentra la riflessione dello scrittore è costituito dalle grandi personalità che nel loro sviluppo sono state deformate e stravolte dall’«insufficienza» dell’ambiente italiano in cui si sono trovate a vivere: Uno dei miei vecchi concetti […] è l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano. […] popolo con suo marasma uccide anime grandi (reazione individuale della perversione o insufficienza sociale) […]. Vorrei quindi rappresentare nel romanzo la tragedia di una persona forte che si perverte per l’insufficienza dell’ambiente sociale. –

E più avanti, proprio nella nota 34 del 7 settembre in cui si delinea il carattere di Grifonetto, il processo degenerativo è espressamente riferito all’eroe: – L’idea della demolizione della personalità per molti ostacoli, e della acriticità di Grifonetto si presta all’idea plurale o sociale del romanzo […]. – Insufficienza ambientale (ostacoli) demolisce meravigliosa personalità. Demolizione relativamente rapida e violenta in confronto ai processi morosi del paludismo prebellico.

In effetti nella stessa nota viene delineata una serie di rapporti conflittuali dell’eroe con la realtà presente: il declassamento sociale, da una condizione di ricchezza della famiglia gentilizia alla povertà, i traumi familiari come la morte del fratello in guerra (a cui Grifonetto non ha potuto partecipare perché troppo giovane), l’idealismo patriottico che si scontra con la realtà torbida dell’immediato 64

Ivi, p. 36.

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dopoguerra, la delusione come fascista, in quanto la spedizione punitiva contro il circolo socialista si era generata per bassi motivi, la fede nelle colonie delusa dall’esperienza del Sudamerica e finita nel «disdegno» e nel «forzato ritorno». Come si può constatare, sono tutti motivi attinti all’esperienza autobiografica dell’autore stesso, se si eccettua la spedizione squadristica. E nella nota del 25 marzo sopra richiamata, subito dopo il motivo dell’«insufficienza» dell’ambiente italiano, troviamo un cenno molto significativo: «Mio annegamento nella palude brianza»; poco più avanti, dopo il richiamo alle «anime forti che rimangono impigliate in questa palude», Gadda confessa. «È questa anche la mia tragedia». Gadda costruisce l’immagine del suo eroe sconfitto utilizzando i materiali della propria esperienza in quel medesimo contesto storico. Difatti questa idea dell’anima potenzialmente grande isterilita dall’insufficienza della società italiana del dopoguerra richiama le pagine del Giornale, dove lo scontro del soggetto, fornito di doti superiori e mosso da alte aspirazioni ideali, con il caos di un periodo di conflitti esasperati, di delusioni politiche, di crisi economica assume un posto centrale ed è espresso con accenti di straordinaria intensità: La mia vita è tutto un deviamento, uno sciupio di meravigliose facoltà: potrei dire di me stesso la parola del giudice paradisiaco: la parola messa in bocca a Beatrice: questi fu tal nella sua vita nova, virtualmente, ch’ogni abito destro fatto averebbe in lui mirabil prova. Ma tanto più maligno e più silvestro si fa il terren, col mal seme, e non colto, quant’egli ha più del buon vigor terrestro.65

Al di là dello schema ancora romantico del «germe caduto in rio terreno», dell’individuo d’eccezione in conflitto con una realtà bassa e vile, si scorge in questo passo la condizione dell’ intellettuale che, nell’Italia del primo decollo industriale e poi della guerra e del dopoguerra, patisce le frustrazioni di una definitiva crisi di ruolo e non trova più un contesto sociale in cui collocarsi, un ambiente che risponda all’idea che egli ha di sé e alle sue aspirazioni di cultore dei più alti valori patriottici e umanistici. Questa proiezione di sé e del proprio scacco esistenziale in una dimensione tragica torna in termini ancora più intensi nella Vita notata. Storia, l’ultima sezione del diario, in cui sono registrati i traumi del reduce al rientro nella vita civile: Sento che i più cari legami si dissolvono, che il maledetto destino vuol divellermi dalla pure origini della mia anima e privarmi delle mie forze più pure, per fare di me un uomo comune, volgare, tozzo, bestiale, borghese, traditore di se stesso, italiano, “adatto all’ambiente”. Tutto ha congiurato contro la mia grandezza, e prima d’ogni cosa il mio animo, debole, docile, facile ad essere preso dalle ragioni altrui […] Se la realtà avesse avuto minor forza sopra di me, oppure se la realtà fosse di quelle che consentono la grandezza, (Roma, Germania), io sarei un uomo che vale qualcosa. Ma la realtà di questi anni, salvo alcune fiamme generose e fugaci, è merdosa: e in essa mi sento immedesimare ed annegare.66 65 66

Giornale di guerra e di prigionia, cit., p. 645. Ivi, p. 863.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

Il giovane intellettuale proveniente dalla solida borghesia imprenditoriale e delle professioni (il «ceto mercativo-politecnico di Milano e dintorni»67), declassato e umiliato, deluso durante la guerra nei miti compensatori dell’eroismo e del patriottismo, ancora deluso, al rientro nella vita civile, nella speranza di inserirsi con una funzione confacente al proprio valore nella compagine di una «vivente patria» e di svolgere un «lavoro proficuo alla gloria della nazione e alla sua saggezza»,68 cerca un’ultima possibile dignità costruendo la propria immagine secondo il paradigma eroico dell’ “anima bella”, proponendosi come depositario della coscienza critica e dei valori più autentici di contro a una realtà degradata, che rende impossibile la realizzazione dell’individuo nella sua pienezza umana e toglie ogni dignità al vivere. È una realtà che ha il volto storicamente definito della crisi del dopoguerra e della decadenza della borghesia italiana alla vigilia del fascismo. Tuttavia il paradigma eroico implica anche la coscienza di una totale impossibilità di agire in quella realtà, da un lato perché essa tende a svuotare e stravolgere ogni tentativo di azione ispirato ai valori puri (come prova l’esperienza di guerra), ma prima ancora perché l’individuo che dovrebbe tradurre nella «missione ricostitutrice (d’una realtà morale del mondo)» il suo rifiuto del «mondo esistente della vergogna e dell’ignavia»,69 è egli stesso inghiottito dalla miseria oggettiva, reso debole e malato nel volere. Perciò la negazione critica dell’esistente è condannata a consumarsi all’interno della coscienza del soggetto e la pienezza e la dignità del vivere si rivelano praticabili solo nel sogno nostalgico quanto sterile di un paradiso perduto di autenticità morale, di ordine civile, di nobile grandezza, che deve essere proiettato in un mitico “altrove” temporale e spaziale: «Se la realtà fosse di quelle che consentono la grandezza (Roma, la Germania)…». È questa la conclusione che suggella tutta l’esperienza registrata nel Giornale: La mia vita è inutile, è quella di un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza amore né fede. Lavorerò mediocremente e farò alcune altre bestialità. Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza, e bruto per abulia, e finirò la mia torbida vita nell’antica e odiosa palude dell’indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando le possibilità in vani, sterili sogni.70

Ma se sono numerosi ed evidenti gli aspetti che accomunano il personaggio di Grifonetto all’autore, è anche evidente la distanza che li separa. È Gadda stesso a proclamare con forza di voler costruire un eroe del tutto diverso rispetto a se stesso, anzi dotato di qualità antitetiche: tanto egli si sente «abulico», «insufficiente nel volere», come sostiene nel Giornale, altrettanto l’eroe deve essere «ipervolitivo»: 67

Il castello di Udine, cit., p. 122. Giornale di guerra e di prigionia, cit, p. 616. 69 Amleto al teatro Valle, in I viaggi la morte, Saggi giornali favole I, cit., p. 540 e p. 542. 70 Giornale di guerra e di prigionia, cit., p. 867. 68

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Il tipo che deve gestire questo pensiero non deve però assomigliare a me, avendo io anche caratteri involutivi miei personali indipendenti dall’ambiente. Deve essere un buon tipo di razza.

Quindi, se l’eroe viene essenzialmente degradato nelle sue eccezionali qualità dall’ambiente sociale, l’autore riconosce che la propria incapacità ad affrontare la realtà risale a cause preesistenti allo scontro con la realtà, intrinseche alla sua personalità e costitutive della sua stessa natura come soggetto: una segreta malattia interiore che corrode a priori ogni possibilità di azione. Per questo il forte, volitivo, dominatore Grifonetto, nonostante la sua degradazione e la sua sconfitta, appare come proiezione compensativa delle manchevolezze di chi lo ha concepito: e questo spiega il fascino che esercita su di lui. Semmai il personaggio deve essere caratterizzato dall’eccesso opposto rispetto all’abulia dell’autore, la spinta verso l’azione senza misura né limiti, senza controllo razionale: e questo chiarisce i motivi dell’atteggiamento di severo distacco critico nei suoi confronti. A questo punto allora avviene uno sdoppiamento: al primo tipo di personaggio, che Gadda chiama il «tipo A», nel piano narrativo dovrà affiancarsi un «tipo B», del tutto antitetico, quello che prenderà nome Gerolamo Lehrer e poi Gerolamo Boamo, debole, abulico, «filosofo», tarato «con la tara di guerra, ferite, psicopatie, tristezze»: questo sì personaggio che è alter ego dell’autore stesso (ma che purtroppo avrà scarsissimo spazio nelle pagine narrative effettivamente stese). A giudicare dunque dalle note compositive in cui viene delineato il carattere del protagonista, con Grifonetto Lampugnani Gadda non vuole proporre l’eroe fascista e squadrista in chiave apologetica e celebrativa. A ciò concorre anche il contesto: la spedizione punitiva contro il circolo socialista, in cui l’eroe è implicato, nelle prime intenzioni dello scrittore nasce da motivazioni poco nobili (solo in un secondo tempo sarà la reazione ad un’aggressione contro l’auto dei fascisti, tra cui Grifonetto stesso, da parte di un gruppo di giovani minatori, in conseguenza di un incidente stradale). E gli squadristi, quali compaiono in un breve lacerto narrativo rimasto irrelato, non sono affatto eroici ma al contrario vengono presentati come figure un po’ losche e decisamente grottesche. E lo stesso impeto spavaldo, violento ed eversivo del giovane protagonista, se pur contemplato con segreta simpatia per il generoso slancio ideale che lo muove, quale manifestazione di «vita» in opposizione all’ottusità filistea e conformistica dei «borghesazzi»,71 è 71 «Davanti a lui i borghesazzi, profittatori dei suoi sforzi e del suo sacrificio parlano, sermoneggiano, temono, sperano, ma nulla creano. Presi dalle opere, nulla danno all’idea. (Eccesso contrario). Operatori pazienti e pedestri e provveditori delle pedestri necessità, non sentono lo sforzo creatore dell’attività morale. Sono guardiani e custodi, anziché generosi assaltatori. -». La contrapposizione fra l’eroe e i borghesi è già delineata in un frammento del Quaderno di Buenos Aires (presumibilmente anteriore alla stesura del Racconto italiano nei Cahiers d’études). Si tratta di una riflessione di Maria in forma di indiretto libero: «Chi era Grifonetto Martello? Che cosa era venuto a fare nel mondo col suo

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

poi giudicato senza ambiguità secondo solide categorie etiche, come qualcosa di «abnorme», si è visto. Certo, dato che nel progetto ideologico e narrativo del romanzo il fascismo deve costituire la rigenerazione dell’Italia e il riscatto dalla sua «palude», è singolare che poi proprio l’eroe destinato a incarnare i valori fascisti sia tarato da quella «palude», che le sue «meravigliose qualità» siano pervertite da essa ed egli appaia un rappresentante dell’italiana «eccessvità» sino ai limiti della follia impulsiva e del crimine, che subisca una serie di traumi e delusioni e approdi alla sconfitta totale e definitiva del suicidio. È inevitabile vedervi l’indizio di qualcosa che non quadra perfettamente nel progetto romanzesco di celebrazione del fascismo e della sua necessità storica, che emerge dalle note compositive esaminate. In effetti nell’ambivalenza dell’autore verso l’eroe è racchiuso il senso profondo dell’adesione di Gadda al fascismo. Il conservatore nazionalista, e per molti aspetti reazionario, che ha il culto del passato risorgimentale, che sogna una «vivente patria», ordinata, efficiente, laboriosa, pragmatica e immune da astratti dottrinarismi, e che durante la guerra e nel dopoguerra subisce un traumatico scacco delle sue illusioni, vagheggia veramente nella «rivoluzione fascista»72 la forza rigeneratrice della nazione, proiettandovi i suoi ideali e vedendovi l’unico baluardo dei valori in cui crede, e scorge sinceramente nelle squadre fasciste la manifestazione della «Vita»: ma poi è troppo uomo d’ordine nell’intimo per non coglierne, al tempo stesso, il carattere irrazionalistico, estremistico, violento ed eversivo, per approvarne davvero sino in fondo gli atteggiamenti sprezzanti verso le istituzioni politiche e culturali e per sottoscriverne le imprese teppistiche e omicide, senza provare verso il movimento un’inevitabile, segreta diffidenza.73 Tutto ciò si esprime nel modo in cui dà corpo al progetto rappresentando concretamente il suo eroe, al di là di ogni dichiarazione ideologica esplicita e convinta di adesione al fascismo. pallido viso, e una disperata volontà: e con l’orgoglio senza carezze? Che cosa poteva fare quel ragazzo tra i mercanti, gli usurai, e i politici che rimestano il sozzo ricottone dell’umanità?» (op. cit., p. 39). 72 L’espressione è usata da Gadda stesso nel Quaderno di Buenos Aires, cit., p. 24 e p. 25: «l’ulteriore sviluppo della rivoluzioine fascista»; «Riteniamo in generale che la “Patria” rispecchi lo stato d’animo della gran parte de’ suoi lettori, per cui la rivoluzione fascista non sembra rivestire quel carattere di necessità». 73 Pur non disponendo della mole di documenti che noi oggi conosciamo, Cesare Cases sin dal 1958, dopo l’uscita del Pasticciaccio, aveva colto l’essenza del rapporto di Gadda con il fascismo: «L’antifascismo di Gadda rientra […] nei casi di quell’antifascismo di destra che del fascismo non depreca tanto lo spirito, quanto le modalità dell’attuazione, la volgarità e la barbarie, l’odor di canaglia»; per questo la realizzazione dei suoi ideali nel regime «non soddisfece punto il Nostro: al solito, l’uomo era migliore della sua ideologia» (C. Cases, Un ingegnere de letteratura, in Patrie lettere, Einaudi, Torino 19872, p. 55 e p. 54). Non c’è bisogno di dire, però, che i giudizi critici di Cases sul valore letterario dell’opera gaddiana, che non riescono a riconoscerne la grandezza, appaiono oggi del tutto sbagliati e inaccettabili. Anche Christophe Mileschi sottolinea l’ambiguità del rapporto di Gadda con il fascismo: da un lato esso è visto come «une réaction salutaire à la degradation politique, morale et sociale de l’Italie», dall’altro «Gadda est déja conscient des mobiles troubles qui sous-tendent l’action du jeune parti» (Ch. Mileschi, Gadda contre Gadda. L’écriture comme champ de bataille, cit., p. 95).

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 43

Bisogna inoltre tener conto del fatto che, accanto all’eroe fascista criminale e sconfitto e alla sua antitesi costituita dall’inetto «tipo B», Gadda prospetta anche la figura dell’individuo perfettamente e armonicamente integrato nella società, il fratello di Maria: «il tipo C, il tipo umano, buono, che trionfa delle avversità con pacatezza e ragionevolezza, si sposa, ha fatto la guerra, lavora, si contenta, ecc.», che evidentemente è da lui introdotto per soddisfare le proprie esigenze di uomo d’ordine.74 Resta da verificare in che misura questo complesso atteggiamento, fatto di sfumature difficilmente inquadrabili in precise schmatizzazioni, si trasferisca dal progetto alle pagine narrative effettivamente scritte.

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6. L’eroe in azione: contro l’autorità dello Stato liberale e della Chiesa Il primo dei due Cahiers d’études a cui è affidato l’abbozzo del Racconto italiano comprende prevalentemente note che concernono il semplice progetto dell’opera (se si eccettuano l’inizio della prima «Sinfonia», un frammento della conclusione del romanzo e altri frammenti su personaggi marginali). Solo nel secondo quaderno Gadda comincia ad affrontare in forma di vero e proprio showing la scrittura di ampie parti riguardanti sia il filone principale della vicenda sia filoni secondari che avrebbero dovuto intrecciarsi con esso, episodi che egli chiama «studi»; e poche sono le pagine rimaste in cui Grifonetto approda a un’autentica vita narrativa: un’unica sequenza infatti lo vede come attore. L’eroe (si direbbe quasi in obbedienza alle regole della tragedia classica) entra in scena di persona al secondo capitolo, o seconda «sinfonia», per usare la terminologia gaddiana. Si trova solo, nello studio della sua casa milanese, di sera, ed esamina con disprezzo e commiserazione il foglio di una sentenza della pretura che lo condanna a due giorni di detenzione con la condizionale. Era stato rinviato a giudizio per le parole violentemente offensive che, ubriaco, in compagnia di alcuni amici, aveva rivolto contro un prete. Viene così rievocata, attraverso un suo flash-back, la scena dell’udienza, e possiamo vedere finalmente in azione l’eroe fascista, azione compiuta qui attraverso la parola, la sua autodifesa di fronte al giudice. Emerge in primo luogo il disprezzo totale del giovane ribelle squadrista nei confronti delle istituzioni dello Stato liberale, la magistratura come la presidenza del Consiglio: Ricordava la scenetta e la gustosa autodifesa, davanti il magistrato, «un volgare pretore incadregato in una puzzolente pretura bonomiana». Questa sintesi del puzzo

74 Marcello Carlino vi scorge giustamente «una chiara ipoteca ideologica: il borghese Gadda è affascinato dal ribelle fascistizzato, dallo squadrista Grifonetto, e più ancora si mostra razionalmente convinto della necessità di superarlo, lui tesi, in una sintesi ulteriore. Dal fascismo squadristico al fascismo normalizzato, in doppio petto, illusoria garanzia di un ordine sociale» (Carlino, Il «Racconto italiano di ignoto del novecento» ovvero le peripezie dell’intreccio, in Aa. Vv., Gadda progettualità e scrittura, cit., p. 87 s.).

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con S. E. gli pareva doverosa sebbene la voce della coscienza lo ammonisse che il puzzo era dovuto a cause extrapolitiche, pertinenti alla qualità e quantità degli spettatori e alla solerzia degli inservienti.

La sensibile presenza della voce narrante, con l’alone ironico da essa creato intorno all’intemperanza verbale del giovane mediante la precisazione sulla «voce della coscienza», testimonia subito come l’autore non coincida del tutto, in atteggiamento apologetico, con il personaggio, ma voglia creare rispetto a lui un lieve margine di distanza critica, benché indubbiamente anche il suo giudizio sugli ultimi governi che precedettero il colpo di Stato fascista non sia per nulla positivo:75 in tal modo si misura subito concretamente quell’ambivalenza fra partecipazione e distacco che caratterizza il rapporto fra Gadda e il suo protagonista. All’ironia si aggiunge un altro elemento. Sul tavolo dinanzi a Grifonetto, nel cerchio di luce della lampada, giace un libro d’arte, aperto alla riproduzione della conversione di san Matteo di Caravaggio. E a Grifonetto sembra di essere «quello che guarda stupido, con tumide labbra, il Nazareno troppo buono (di troppo amore e senz’odio), e che tiene, ma pronta sempre, la sua lama al suo fianco». Il compiacimento con cui viene rappresentata l’identificazione dell’eroe con questa figura proterva, di giovane armato e pronto alla rissa e alle ferite, nel mondo equivoco dei bassifondi evocato dal quadro («Dopo i dadi, balzare nel mondo, nell’ombra del crepuscolo, come una saetta risfolgora la sottile lama, quante vesciche si bucano!»), rivela il fascino esercitato su Gadda da quella gioventù ribalda ma piena di vitalità (sia dal giovane del dipinto sia dal giovane squadrista), da quel mondo equivoco di luci e ombre così contrastanti. Non a caso, nelle note compositive, Gadda definisce il suo romanzo «psicopatico e caravaggesco», e afferma il proposito di dedicarlo proprio al pittore come a suo maestro. Per contro nel moto di diffidenza attribuito al giovane teppista di Caravaggio verso il Nazareno «troppo buono», evidentemente condiviso da Grifonetto (è impossibile distinguere chi pensi la frase), si può cogliere ancora da parte di Gadda la volontà di suggerire nel ragazzo dannunziano e fascista la presenza di una visione nietzschiana del Cristo, che presumibilmente, nella prospettiva dell’autore, non è del tutto positiva, e comunque è il sintomo di un’irriflessa impulsività giovanile che rischia di subire l’influsso di certe idee senza la necessaria ponderazione e misura. Si conferma ancora l’ambivalenza fra attrazione affascinata e giudizio etico distanziante che anima l’autore verso il personaggio. Come si vede, dopo tanta progettazione e tanta riflessione teorica, il passaggio alla scrittura narrativa dà subito luogo a una straordinaria complessità di piani. Grifonetto costruisce tutta l’arringa autodifensiva sull’antifrasi beffarda e sarcastica, al fine di prendersi gioco dei destinatari, con spudorata irriverenza verso le istituzioni e blasfemo sprezzo della religione. Nei suoi insulti al prete aveva 75 Ivanoe Bonomi fu Presidente del Consiglio fra il ’21 e il ’22: ciò permette di collocare la vicenda del romanzo alla vigilia della marcia su Roma.

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giocato su un doppio senso osceno, riferendosi alla basilica di san Pietro come se parlasse del noto bordello milanese di via san Pietro all’Orto: «Il Paparozzo vada in San Pedrone e accudisca pure ai suoi suffumigi, che tanto io me ne frego… e Lei non mi rompa le uova nel cavagno, perché sono più dure delle sue…», dove si può rilevare, oltre alla deformazione insultante «Paparozzo» e all’incenso ridotto a «suffumigi», la tipica formula fascista «me ne frego» e l’ostentazione pure tutta fascista di virilità, con il riferimento alla durezza degli attributi. Ora dinanzi al pretore Grifonetto afferma a testa alta che non sarebbe un artista, se avesse un così cattivo gusto da usare simili giochi di parole («Io confondere la Basilica di Michelangiolo con un fetente casino? Non sarei artista, se avessi un così cattivo gusto»): in realtà il suo discorso fa intendere tutto il contrario. Non solo, nell’argomentare si fonda su ragioni estetiche, sulla bellezza artistica del monumento, non sul valore religioso e spirituale, lasciando così emergere il suo estetismo anch’esso di matrice dannunziana. L’arringa prosegue poi con un elogio della castità del clero, proponendo un pezzo di bravura oratoria che riproduce, con perfetta padronanza del mezzo linguistico, il formulario turgido e paludato di certa oratoria devota, sempre da leggere in chiave antifrastica: «D’altronde io so di quali meriti sia fiorita la vigna, di quali opere rechi frutto la vigna dei preti». (La parte mormorava, non sapendo come interpretare questa eloquenza apologetica dal tono equivoco) «Io e tutti sappiamo con quale zelo essi inaridiscano nel rigore delle vigilie i virgulti rossi della concupiscenza. (il pretore sollevò il viso e rimase lì a bocca aperta, stupefatto: ma l’impeccabile e convinta serietà del ragazzo lo persuase a tacere. Se prendo un gambero, faccio la figura del provinciale, pensò) «Perché il solo giglio fiorisca, il giglio unico fiore!».

L’autore stesso in una nota si premura di mettere in luce il doppio senso sarcastico dell’immagine della «vigna», quindi la chiave antifrastica secondo cui va letto tutto il discorso: «Questa parola ha un doppio senso: “Et faciam te custodem vineae meae» (Matt. XX…) Ma in dialetto lombardo: “Hai trovato la vigna!». E difatti l’orazione continua con un brusco cambio di tono e di linguaggio, scoprendo all’improvviso il gioco: «La loro facciazza un po’ gonfia e paonazza e quell’andare pettoruto di taluni campagnardi non significa nulla. […] In campagna, si sa, c’è aria buona. Vedi per credere le spose di campagna». Il pubblico naturalmente coglie il senso vero di tutto il discorso, dividendosi fra l’indignazione della parte civile e il consenso dei filofascisti: «Un nuovo putiferio accompagnò questa nuova e poco pariniana trovata sulla salubrità dell’aria: la faccia del ragazzo si fece scura, cattiva. Il pubblico tricolore, parteggiando per lui, divenne violento». La chiusa dell’arringa è un crescendo di aulicità: «Sì, signor pretore; essi ad ogni atto del tempo, protocollano un nuovo alloro, lucrano una nuova palma, menando costante trionfo del Malignissimo, che vanamente cozza contro il bastione imprendibile della loro volontà: da poi che

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  Volontà se non vuol non s’ammorza   Ma fa come natura face in foco   Se mille volte violenza il torza. – Anche una volta il divino poeta esprime ciò che vi è di sublime e di eterno in un’anima religiosa».

Da questo primo ingresso in scena del protagonista emerge in piena evidenza, oltre al disprezzo del giovane fascista per le istituzioni e per l’autorità della Chiesa, anche la volontà da parte dell’autore di dotarlo di altissima cultura e di mezzi linguistici eccezionali, che qualificano l’uomo superiore, spiritualmente privilegiato, e giustificano in qualche modo il suo atteggiamento sprezzante verso tutto ciò che lo circonda. Il pastiche dello stile ecclesiastico messo in bocca a Grifonetto e la mescolanza a contrasto fra linguaggio aulico, ricco di citazioni letterarie, e linguaggio violentemente plebeo, sono assolutamente gaddiani, sintomo del fatto che qui il personaggio è un alter ego in cui lo scrittore si identifica. Salvo poi prendere le distanze dall’irruenza giovanile che induce alla perdita della misura critica e allo spregio di valori a cui si deve comunque rispetto. Il gioco construito con queste pagine è però ancora più sottile: alla figura a suo modo eroica del ribelle irriverente e spavaldo fa da contrasto una figura antitetica, quella mediocre e comica del pretore. Il quale, mentre Grifonetto parla e parla nella sua lunga ed elaborata arringa difensiva, pensa preoccupato solo all’ora che si fa tarda e al suo pranzo, sbadiglia annoiato, resta stupefatto dinanzi alle frasi auliche e alle citazioni letterarie dell’orazione, teme di fare la figura del provinciale se interviene dimostrando di non averne capito il senso, e finisce per credere che l’imputato sia «un idiota esaltato, col cervello interamente manomesso da fisime letterarie», comminandogli una condanna lieve.

8. L’eroe fascista contro il socialismo Il gioco di accostare a Grifonetto figure dalla fisionomia opposta, che introducono una tonalità più “comica”, in conrasto con la tonalità alta che connota l’eroe, continua nelle pagine seguenti. Infatti questo episodio di apertura del secondo capitolo prosegue con la visita a Grifonetto da parte di Gerolamo Boamo, il «tipo B» del progetto, il personaggio antitetico rispetto all’eroe volitivo e dominatore. Nel dialogo fra i due appare forte il contrasto fra il dimesso, impacciato Boamo, con la sua rassegnata stanchezza, e l’energia del giovane Grifonetto. Boamo, discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, ha dovuto cedere l’avito castello di Vallenera situato a Cortepiana (che sarebbe poi Sondrio, come precisa Gadda) alla famiglia de Vendôme, a cui appartiene la donna di cui Grifonetto si innamorerà, Maria. Grifonetto deve appunto recarsi a Cortepiana per dirigere i lavori di restauro del castello. Boamo vuole chiedergli, durante i rifacimenti, di risparmiare la sala della biblioteca, ornata di preziosi affreschi barocchi, così come

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barocchi sono scaffali, tavoli, sedili. È l’anima dei suoi morti che gli ha chiesto di compiere un simile passo imbarazzante. Al che anche Grifonetto richiama i suoi antenati nobili, possessori di palazzi barocchi, ed esalta la loro «prepotenza», con cui «fecero anche del bene… le cosidette opere buone…»:

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«Allora, forse, veniva voglia di farne, oggi no. Quando si è forti, quando si è prepotenti, capisce? […] tutti stanno al loro posto: a tempo perso si può giocare a scacchi, o fare del bene. Non so che ospedali, non so che doti, non so che scuole, non so che tràppole abbiano tirato in piedi quei cretini. Oggi c’è una sola opera buona in cui credo: la mitragliatrice».

Emergono pienamente dalla battuta gli aspetti fascisti della visione dell’eroe: il culto della forza, esercitata dai privilegiati persino con la prepotenza e la violenza, che fa stare tutti «al loro posto» (un’eco probabilmente delle posizioni espresse da d’Annunzio nelle Vergini delle rocce, dove si auspica che, per tenere a freno «l’arroganza delle plebi», per domare la «Gran Bestia», vengano usate «fruste sibilanti»76), il disprezzo nietzschiano per la bontà e la pietà nei confronti dei deboli, sino alla sparata finale, truculenta e provocatoria in puro stile squadrista, sulla mitragliatrice: la cui «opera buona», evidentemente, è quella di spazzare via gli oppositori, o almeno di farli tacere con il terrore, per imporre finalmente l’ordine sociale e metter fine al caos del dopoguerra. Timidamente, come è nella sua natura, l’interlocutore Boamo cerca di adeguarsi a queste idee: «Eh! già capisco capisco. Troppa licenza… Cioè. A furia di parole, hanno finito per ubriacarsi… Adesso verran fuori dei fatti…»

dove ritorna il discorso già condotto dall’autore stesso in polemica contro il socialismo e il popolarismo verbosi e inconcludenti, a cui deve opporsi la forza attiva e realizzatrice del fascismo. In una seconda versione dello stesso passo la polemica di Grifonetto contro il filantropismo arriva a coinvolgere la stessa cultura illuministica, vista come segno di decadenza e di rammollimento di una classe un tempo orgogliosamente dominatrice: «Quando passa la rabbia e una gente comincia a rammollire, ed è incapace di mettere prima a posto un cialtrone, allora viene il gusto delle letture filosofiche: si dà ascolto alle prolissità degli enciclopedisti, si prende sul serio un Beccaria, si discute circa il progresso, si fan rilegare i libri, tutti eguali: lo stemma che sui vecchi castelli soleva dire: “State attenti, carogne!” e fino il vento e fin la tempesta solevano fermarsi davanti mogi e preferivano cambiare aria, lo stemma è silografato in ex libris topacei, su goffi trattati di economia, su goffe ecloghe e vitellerie di un qualche Alamanni fesso. Per nozze, per nozze: ah! dodici sonetti o una curiosità che non importa a nessuno. La insegna d’una gente si rifugia lì». 76 G. d’Annunzio, Prose di romanzi, vol. II, a cura di N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1989, p. 19, p. 29, p. 31.

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Siamo di nuovo dinanzi a una costruzione narrativa molto sofisticata, risultante da un un complesso intreccio di piani e da un sottile gioco di sfumature. Gadda offre una perfetta mimesi dei discorsi ultrareazionari e al tempo stesso eversivi nei confronti della tradizione culturale che sono caratteristici di un fascista del 1922; ma evidentemente si tratta di una mimesi in certa misura critica. Al di là della simpatia per lo slancio attivo e generoso del giovane e per la sua giusta opposizione ai tempi, lo scrittore vuole dare un esempio degli eccessi estremistici e privi di misura a cui l’esasperazione per il caos del periodo postbellico ha portato l’idealismo giovanile. Si manifesta qui in Grifonetto quella mancanza di spirito critico che Gadda sottolineava nel tracciare inizialmente il ritratto del personaggio, nelle note compositive del 7 e del 20 settembre 1924. Certo l’autore non può condividere il disprezzo del suo protagonista per la tradizione filantropica lombarda di ascendenza illuministica,77 che giudica benevolmente persino quando viene ereditata dal socialismo, come dimostra l’elogio dell’ “Umanitaria” contenuto nella Meccanica, e tanto meno può approvare lo scherno per la filosofia e per i libri, in particolare degli enciclopedisti e di Beccaria.78 D’altro lato lo scrittore è certo d’accordo con il rifiuto di certa polverosa e asfittica cultura di un Settecento arcadico, non solo, ma presta al personaggio il suo stesso linguaggio: il discorso di Grifonetto si presenta estremamente “gaddiano”, nell’impostazione stilistica dell’invettiva (basti pensare alla folgorante metafora degli «ex libris topacei»). E d’altronde, al di fuori di questa tirata provocatoria, Grifonetto stesso appare dotato di una squisita cultura. Le sue parole sembrano pertanto il frutto di un momento di rabbia e di insofferenza, che, esasperandole oltre ogni limite, non rispecchiano a fondo le reali idee del personaggio, e a maggior ragione neppure dell’autore. Il consenso ricevuto da parte di Boamo, che ha parlato di un’ubriacatura di parole, eccita Grifonetto, che si lancia in una requisitoria contro il vizio parolaio della tradizione progressista italiana:

77 È vero che nella Cognizione Gonzalo, in questo caso pienamente portavoce di Gadda, si scaglia con feroce violenza contro le attività benefiche dei genitori, contro la donazione di cinquecento pesos per le campane e contro la madre che accoglie benevolmente in casa i villani, distribuendo loro doni vari. Ma la polemica nasce dal fatto che quelle attività benefiche, risalenti a un’illustre tradizione signorile, non corrispondono più alla condizione reale di declassamento degli «spelacchiatissimi Pirobutirro», quindi si trasformano in menzogna o peggio in ridicola parodia di quelli che in passato erano valori autentici. Non solo, ma quella ostentazione vuota di munificenza viene fatta pagare ai figli imponendo loro inaudite privazioni e assurdi rigori. Oggetto dell’invettiva dunque non è la filantropia in sé, ma questa mistificazione, intollerabile per l’eroe. 78 Nei confronti dell’autore di Dei delitti e delle pene Gadda ha senpre un atteggiamento di grande ammirazione. Nel Pasticciaccio, a proposito delle vere e proprie torture subite da Girolimoni, esclama: «Oh mani generosi del Beccaria!» (Romanzi e racconti II, cit., p. 94); e nell’articolo Immagine di Lombardia, nel fare l’elogio della cultura illuministica milanese, definisce Beccaria «l’apostolo della abrogazione dei procedimenti di tortura» (Saggi giornali favole I, cit., p. 860).

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«È quarant’anni che il mondo vive di carta e di parole: e s’è fatto un cervello cartaceo, come direbbe Galileo, un cervello parolaio… Ora se la carta stesse al suo posto, appesa dove m’intendo, pazienza. Capisce? capisce?…»

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dove la brutalità della polemica, come era tipico del linguaggio squadristico, scende sino alla volgarità scatologica, sempre come segno di disprezzo per una tradizione politica e ideologica rifiutata. Di contro alla «carta» che intristisce la vita attuale il giovane fascista, spregiatore della passività verbosa, implicitamente propone il culto dell’azione, l’attivismo energico. Poi la polemica si innalza di tono, usando argomenti di tipo ideologico, e assume un bersaglio più specifico, la propaganda socialista, e dietro di essa le istituzioni democratiche come il Parlamento: «Ma questa carta gira e imbratta le anime. Queste cose: sforzo, sacrificio, pazienza, ma nella realtà, ma nella storia, sono cose sconosciute ai trionfatori di oggi. Per loro basta stampare parole violente, mettere una cravatta rossa, non tagliarsi mai i capelli, essere eletti deputati, far che tutto vada a rovescio, vociare nei loro comizi. – E con ciò arrivano su, comandano, si dan delle arie d’apostoli, di martiri magari. E tutto un popolo, tutta una stirpe deve andare con loro. Oh! Se l’apostolato e il martirio consistessero nel far quello che fanno queste carogne! Tutte le trattorie son piene di apostoli».

L’invettiva poi continua assumendo come bersaglio l’ipocrisia e le menzogne dei predicatori, che si spacciano per apostoli e martiri della causa, mentre dietro le loro parole ci sono in realtà comportamenti opportunistici e corrotti. Ma la requisitoria non risparmia neppure chi è in buona fede: l’ideale socialista per Grifonetto è un sogno da «fumatori d’oppio», la palingenesi della società predicata dal socialismo è un’illusione irrealizzabile: «A sentirli è il nuovo mondo, la palingenesi, “redeunt saturnia regna”. Ma per alcuni è una sozza camorra; gli altri in buona fede, sono fumatori d’oppio. L’Italia è ridotta a un popolo di fumatori d’oppio comandato da tre o quattro sciacalli… Egregio Geroboamo: non lo dico per dire parole grosse. Ma io adoro la mitragliatrice. Ha letto il Laus Vitae, lei? “E il bertone ecc.”. Basta, basta! Non è possibile progredire così. Ah voi, per la fortuna delle vostre parole, per la vanità saccente delle vostre pappagorge di pseudo apostoli volete avvelenare la vita di tutti?».

Contro questo quadro di negatività, l’eroe evoca di nuovo la mitragliatrice come strumento per spazzare via tutta l’intollerabile sozzura dei tempi. Appare illuminante il riferimento letterario alla Laus vitae: nella sezione menzionata da Grifonetto, d’Annunzio descrive con compiacimento proprio una carica di cavalleria che disperde una dimostrazione di operai in sciopero, dando origine a un brutale e sanguinoso massacro. L’accenno al «bertone» riguarda invece l’invettiva in cui d’Annunzio si scaglia con immagini violentemente satiriche e ingiuriose contro il demagogo socialista in cravatta rossa che arringa la folla:

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O quanto era bello su la bigoncia il torace del bertone, angelo di bene e messagger di salute che dicea: “ La Canaglia succede all’Uomo per sempre e in pace amministra le grasce!” O quanto era bella intorno all’imperatoria pinguedine del suo collo stillante incliti sudori la porpora della corvatta! Egli era la sanie coatta in forma di vafro macaco nascosto nei panni il verdiccio pelo e chiappe callute. E le vociatrici boccute l’adoravano. Dal capo alle piante con avidi occhi elle parean tutte succiarlo quasi ei fosse tutto priàpo.79

È curioso notare che molti anni dopo proprio questo passo di Laus vitae, dove l’arringatore di folle popolari è assimilato a un «priàpo» che le ammiratrici fanatizzate vorrebbero «succiare», eserciterà un influsso su Gadda, in Eros e Priapo, per una requisitoria sferzante contro un altro demagogo, oggetto di concupiscenza sfrenata da parte delle masse femminili, demagogo questa volta di segno politico opposto (ma Mussolini, guarda caso, era proprio stato un agitatore socialista…). Lo dichiara lo scrittore stesso in una lettera a Enrico Falqui del 10 luglio 1946: Ha agito (lo vedo ora) una reminiscenza inconscia, del D’Annunzio di “Laus Vitae”, il primo libro delle “Laudi”, che ho molto letto a suo tempo e conosco in gran parte a memoria. Il “priàpo” è suo, dove descrive nello sciopero “il gran demagogo” […] Il vituperio dannunziano è osceno, ed è felice realizzazione oratoria e stilistica, e imaginifica, se non poetica.80

79 G. d’Annunzio, Maia, in Versi d’amore e di gloria, vol, II, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano 1984, p. 219 s. Un riferimento a questo passo dannunziano, con apprezzamenti sia al contenuto ideologico sia allo stile, si trova anche nel Secondo libro della Poetica, che risale all’incirca allo stesso periodo del Racconto italiano: «Il D’Annunzio acre e marchionale del Piacere – del Laus Vitae – che in epoca di piena democrazia (1890) dipinge il verdiccio pelo del bertone – del gran demagogo – il D’Annunzio ha un senso, una vendetta, uno sprezzo, un’anima, sia pure superficiale ma certa e nitida e ferma. E un meraviglioso riferimento espressivo» (C. E. Gadda, Il secondo libro della Poetica, a cura di D. Isella, in «I quaderni dell’ingegnere», 2, 2003, p. 20. 80 C. E. Gadda, Lettere a Enrico Falqui e Gianna Manzini (1944-1957), cit., p. 127 s.

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Da una simile confessione si vede come, a distanza di tanti anni, resti immutata l’ammirazione di Gadda per le soluzioni espressive usate da d’Annunzio nell’invettiva antisocialista: e non desta meraviglia, in quanto esse hanno un sapore gaddiano ante litteram e costituiscono indubbiamente un modello stilistico per le invettive dello scrittore del pieno Novecento. In tutta quest’ultima pagina della polemica contro il socialismo certamente la distanza fra autore e personaggio si attenua, sin quasi a scomparire (a parte quanto riguarda il cenno alla mitragliatrice, è legittimo supporre). Infatti il discorso di Grifonetto tocca temi trattati da Gadda stesso: sono in fondo le idee espresse nella nota compositiva 23 del 21 luglio 1924, dove lo scrittore si concentrava proprio sulla vuotezza parolaia della predicazione socialista, ma polemiche analoghe saranno riprese pochi anni dopo in lunghe digressioni di Dejanira Classis e di Notte di luna. E anche l’attribuzione al personaggio dell’entusiasmo per un testo come Laus Vitae, così caro allo scrittore, può risultare indizio di una vicinanza di idee (le Laudi erano fra i pochi libri che il giovane Gadda aveva portato con sé al fronte, e che perdette quando fu preso prigioniero a Caporetto, con suo grande rimpianto; un libro «molto letto a suo tempo», e che lo scrittore conosceva «in gran parte a memoria», come si è letto). Alla veemente tirata politica segue una nota di intenso patetismo, la rievocazione del fascista diciassettenne attirato in un agguato dai sovversivi, in nove contro uno, e ucciso a pugnalate: «Per il bene futuro, lo hanno disteso nel suo sangue. Per redimere l’umanità». Parlando l’eroe tiene lo sguardo fisso a terra, come a contemplare un corpo disteso, che mostra «un viso bianco più che la cera, baciato, nel fiore di giovinezza, da un bacio mortale, che lo aveva reso alla madre terra». Già in questo esordio narrativo del 1924 la prosa di Gadda ama trascorrere con bruschi trapassi tra livelli molto diversi, in questo caso dall’infocata requisitoria politica, intessuta magari di espressioni plebee, a toni più intimi e patetici, sino a momenti di concentrato ed enfatico lirismo. La conclusione della prima parte del discorso di Grifonetto è ancora in puro stile fascista: «Dopo ciò, Geroboamo egregio, la biblioteca dei suoi antenati capirà… è buona da far brodo», cioè il giovane architetto ostenta sprezzante noncuranza per l’antica biblioteca barocca e i suoi tesori, svalutando radicalmente le ragioni dell’arte di fronte alle impellenze della situazione politica. Sull’onda di questa dichiarazione Grifonetto arriva a rinnegare la sua stessa qualità di artista, per riaffermare ostinatamente la sua identità di uomo d’azione, quale è richiesta dai tempi nefasti, in cui l’arte con la sua dimensione ideale non può più trovare posto ed è obbligata a passare in secondo piano, lasciando il passo alle armi: «“Artista” è una parola dell’oggi, passabilmente cretina. Me ne frego di fare l’artista, con cravatta. Quel che è certo sono un uomo. Luminosi fantasmi potrebbero essere la mia vita, ma l’animo è nero. Porto una Browning nel taschino dei pantaloni».

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

Sono boutades oltranzistiche, che di nuovo, come si può supporre, Gadda vuol fare intuire non corrispondenti alle concezioni autentiche dell’eroe, che da bravo dannunziano ed esteta ha il culto dell’arte e della bellezza: si tratta di posizioni evidentemente generate dall’esasperazione, dalla rabbia e dall’insofferenza per il momemto storico, e assunte solo per un bisogno di ribellarsi, di provocare e scandalizzare. Si vede sempre in azione quella mancanza di misura, addirittura quella «follia impulsiva», che porta Grifonetto all’eccesso estremistico e che l’autore, col suo culto dell’ordine e della razionalità, non esita a stigmatizzare, nelle sue riflessioni progettuali e teoriche. Ma quando passa al vivo della rappresentazione narrativa l’autore di norma non interviene per condannare in modo esplicito: la sua impostazione critica consiste solo nel registrare mimeticamente e impassibilmente le parole del personaggio, lasciando che i suoi limiti si dichiarino da sé, attraverso la registrazione stessa. È il primo esperimento di una tecnica per così dire “flaubertiana”che lo scrittore impiegherà poi sistematicamente nelle sue opere maggiori, nell’ Adalgisa, nella Cognizione, nel Pasticciaccio: la differenza è che in quelle opere il distacco critico dall’oggetto, vale a dire i discorsi dei buoni borghesi, sarà particolarmente corrosivo, mentre qui agisce sempre una forma di ambivalenza, per cui alla critica si fonde indissolubilmente anche l’ammirazione per l’eroe e la partecipazione a molte delle sue posizioni. I discorsi politici di Grifonetto toccano uno dei nodi tematici fondamentali del romanzo, quello del contemporaneo socialismo in Italia, per cui Gadda vi insiste particolarmente, ritornandovi ancora subito dopo la rievocazione dell’assassinio del ragazzo e riprendendo certi spunti, soprattutto quello delle violenze dei sovversivi (un tema che ossessiona lo scrittore e che sarà affrontato con veemenza in Dejanira Classis, come si è visto, per rivendicare la necessità della giusta reazione violenta da parte delle squadre fasciste): «E poi, e poi, caro Geroboamo, non si tratta, no, non si tratta di parole. Non sono parole. Sono delitti, orrendi, mostruosi delitti, atroci carognate, abominazioni coperte dalla retorica della palingenesi». Ruggiva.

Di qui parte una critica radicale e implacabile alle idee di palingenesi della società sostenute dalla propaganda socialista: Ma sono i primi a non crederci. Rigenerarsi significa sacrificarsi. Al più piccolo sacrificio sono inetti. Rigenerare il suo corpo significa affrontare il gelido lavacro dell’alba, non accasciarsi nei music-halls o inebetirsi coi romanzi dell’impossibile.

Dove ritorna la polemica contro la falsità e l’ipocrisia di quella predicazione, che copre forme di bassa corruzione, e a cui viene contrapposta una visione ascetica della vita, fatta di sacrifici e rinunce eroiche. Grifonetto prosegue poi la sua requisitoria scagliandosi contro l’utopismo irrealistico dei socialisti, tema già anticipato nei cenni sui «fumatori d’oppio» e sui «romanzi dell’impossibile»:

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«Rigenerare la sua anima significa guardare il mucchio enorme del lavoro reale e ordinare un metodo reale per sviluppare una migliore realtà dalla presente realtà. Sognare non è virtù, è vizio. Come fumare per stordirsi, come farsi iniezioni esilaranti. Sconti la rapida ebbrezza con una prostrazione definitiva. La mania fantastica delle palingenesi chimeriche, tipica del secolo scorso e del nostro, è la cocaina dello spirito. È indice di impotenza morale. L’uomo morale vuole nella realtà, il frenetico si masturba nel sogno. Un partito, una setta, un cristo, che per diffondersi è costretto a mentire, a falsare dei dati inoppugnabili, a nascondere le dure verità fenomeniche non può essere che cosa morbosa e caduca. Non è scienza, non è filosofia, non è metodo, non può essere fede. È solo ipocrisia. Una feroce, un’abbietta ipocrisia, un’arcadia che suscita i bruti a delinquere, l’arcadia criminale del secolo 19°».

Qui non vi è più distacco critico dell’autore dal personaggio, e Grifonetto diviene evidentemente il portavoce di Gadda stesso.81 Difatti vi è perfetta consonanza tra le sue idee e quelle espresse in prima persona dallo scrittore nella già richiamata nota del 21 luglio. Non solo, dalle parole del giovane traspare il retroterra della solida formazione positivistica dell’ingegner Gadda: ad essa rimandano chiaramente sia il riferimento ai «dati inoppugnabili» e alle «verità fenomrniche» sia il richiamo al «metodo reale» e alla «scienza». A tradire la partecipazione dell’autore è anche l’elevarsi della forma del discorso, che, in luogo della violenza polemica, dell’invettiva volgare e delle boutades oltranzistiche e provocatorie tipiche dello squadrista, acquista la struttura logica rigorosa dell’argomentazione saggistica, “scientifica”, e il suo linguaggio sobriamente sostenuto. Prevale qui uno dei due rami dell’ambivalenza fondamentale, quello simpatetico. Grifonetto si lancia poi in un’argomentazione tesa a smontare un mito centrale del socialismo, quello del popolo come depositario di tutti i valori positivi: A sentir certuni di costoro la plebe ha gli atttributi che i preti soglion affibbiare a Dio perfetto: è pura, è bella, è sana, è santa, è degna, è saggia, è intelligente, è sensibile, è eroica. È l’universo tutto. Il resto è merda. Il resto è menzogna. No la plebe fa parte di un mondo, di un terribile mondo, in cui si intrecciano le trame della sublimità eroica e del delitto nefando, dell’amore, della sventura, dell’avidità, della speranza, della bassezza, del volere. Essa fornisce a questo mondo la materia prima da cui germinano possibili sintesi, la roh-stoff della storia. Ma la storia in quanto esprime le successioni del divenire non è storia di plebi, storia di mangiare, storia di defecare, storia di morire di peste. 81 Le critiche rivolte da Gadda ai socialisti, al di là dell’animosità che le ispira, mettono però in evidenza aspetti negativi realmente presenti nell’attività del partito. Osserva Carlo De Matteis che il socialismo contro cui Gadda infierisce è essenzialmente quello massimalista, che ha preso in mano il partito e lascia spazio a facinorosi, demagoghi e provocatori fuori controllo, indulgendo nella sua propaganda a «delirio puramente verbale». Già Turati, Tasca, Gramsci, Salvemini, Nenni, pur da diverse posizioni, mettevano allora in guardia contro il pericolo da esso rappresentato e le sue responsabilità per l’affermarsi della reazione fascista (C. De Matteis, Guerra, dopoguerra e fascismo nella narrativa giovanile di Gadda, in Prospezioni su Gadda, Giunti & Lisciani, Teramo 19852, p. 72).

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All’idealizzazione assolutizzante del popolo, per lui mistificatrice, l’eroe contrappone una visione duramente realistica del mondo come molteplicità di presenze contrastanti, in cui coesistono gli estremi positivi e nagtivi, e di cui la «plebe» è solo una delle componenti, quindi può presentarne anche gli aspetti più bassi o addirittura nefandi. Ma la esclude comunque dalla formazione del processo storico, in quanto semplice «materia» di «possibili sintesi», legata esclusivamente alla vita del corpo e incapace di elevarsi ai livelli superiori della spiritualità, mentre la storia è da lui proposta come processo spirituale, secondo una prospettiva idealistica. E forse dietro questi concetti si può intravedere anche un aristocraticismo di matrice dannunziana, che riecheggia proposizioni contenute nelle Vergini delle rocce;82 aristocraticismo che è anche dell’autore, negli anni giovanili fortemente influenzato da d’Annunzio (si ricordi la confessione del suo amore per le Laudi). Comunque posizioni del genere rendono Gadda immune da facili miti populistici, quelli propagandati da tanta letteratura “progressista” dell’Ottocento e poi, anni dopo, dalla stagione letteraria e cinematografica del Neorealismo. È necessario riconoscere che lo scrittore non resta immune dal fascino di una certa vitalità e autenticità popolare, come si può constatare in questo stesso Racconto italiano, nella Meccanica, nel Fulmine sul 220, nel Pasticciaccio, però tale fascino viene sempre problematizzato dalla consapevolezza dei reali limiti delle classi subalterne e dalla rappresentazione lucida e onesta di essi. Anche se in queste ultime pagine lo scrittore mostra di condividere le idee del personaggio, tanto da farne il proprio portavoce, non si esime tuttavia dal segnare in certi punti una distanza nei suoi confronti. Talora infatti dichiara apertamente la sua posizione e il suo giudizio: lo fa ad esempio con una nota inserita nel testo alla fine dell’episodio, dopo il passo del giovinetto ucciso in un agguato: Ricordare che Grifonetto è un po’ alterato da analogie e da morte del fratello. Accennare alla pazzia o alterazione che deve svilupparsi e arrivare al delitto.

Gadda non dimentica che, nonostante tutte le sue virtù, nonostante le idee giuste che può sostenere, Grifonetto rappresenta «l’abnorme», la degenerazione criminale di una «follia impulsiva», che è destinata ad approdare al delitto. La conferma più chiara del distacco critico viene qualche pagina dopo, al termine di un breve frammento narrativo isolato, dove l’eroe promette la protezione da parte degli squadristi al visconte de la Garde, che ha paura di una rivolta di contadini. La promessa si conclude con un moto di arroganza sprezzante verso il nobile 82 «Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico elargito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare» (G. d’Annunzio, Prose di romanzi, vol. II, cit., p. 12).

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liberale: «Credevo che i conti e i visconti e i cavalieri in genere non avessero bisogno di esser difesi da altri, come gli amministratori fascisti e piccolo borghesi della cooperativa di consumo. Ma poiché Lei vuole ad ogni costo, che il fascio si faccia sensitivo a’ suoi piagnistei, il fascio si farà. Le difenderemo le sue terre: gratis. Le difenderemo la sua vita: gratis. E quando sarà deputato potrà sputarci addosso quel che vorrà e cantare le lodi del liberalismo… fin che vorrà, del liberalismo che ha fatto l’Italia, che ha governato l’Italia… da Minghetti a…Orlando». L’autore allora postilla: «Non vogliano i nostri lettori far nostre le parole e i pensieri dei concitati: noi non siamo dei trascurabili raccontatori […]. Il nostro racconto narra cose non sempre armoniose poiché laceranti disarmonie sono nella nostra gente». Gadda in questo caso sente il bisogno di separare nettamente le proprie responsabilità da quelle del personaggio perché, dato il proprio culto per la tradizione risorgimentale, non può condividerne il disprezzo per la Destra liberale che ha fatto l’Italia (anche se è degenerata nella classe politica attuale, rappresentata qui da Orlando, il fallimentare capo del governo nelle trattative di Versailles che portarono alla «vittoria mutilata»). Ma giustifica in qualche modo l’animosità e l’estremismo verbale di Grifonetto con l’esasperazione del suo animo dinanzi alla viltà di una classe nobiliare a cui (come si è visto nei suoi discorsi a Boamo) egli attribuisce un ruolo egemonico, da esercitare, se occorre, con prepotenza e violenza, per mettere al loro posto gli insubordinati delle classi inferiori che turbano l’ordine sociale. Lo scrittore si preoccupa di giustificare anche se stesso per il fatto di rappresentare un personaggio del genere, e chiama in causa lo scrupolo di rendere il quadro fedele di una condizione storica percorsa da laceranti conflitti.

9. Il rappresentante del socialismo: l’operaio Carletto L’episodio dell’incontro tra Grifonetto e Boamo, con l’appendice del breve frammento del dialogo col visconte, è tutto quanto è stato scritto del secondo capitolo. La stesura narrativa del romanzo si arresta qui, lasciando quanto dovrebbe seguire alla fase di semplice progetto. Nel primo capitolo ha invece un ruolo importante il personaggio simmetrico e speculare rispetto a Grifonetto, destinato a rappresentare, nella struttura del romanzo, il polo antitetico del socialismo: l’operaio Carletto, il giovane che sarà ucciso dalla spedizione punitiva squadrista. È protagonista di due sequenze narrative abbastanza ampie, che occupano buona parte del capitolo iniziale, e in cui il personaggio si delinea già con una certa consistenza narrativa. Nella prima di esse, uscito dall’officina dove lavora come fabbro e meccanico, passeggia con la fidanzata Nerina al tramonto, ed è angustiato da oscuri presentimenti al vedere che il castello di Vallenera è di nuovo abitato, dopo un lungo periodo di abbandono. I suoi presentimenti sono giusti: difatti Nerina (Gadda adotta per la popolana un nome letterario e idillico, tassiano e leopardiano, dopo aver pensato di

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chiamarla Silvia) stringerà poi una relazione sentimentale con il proprietario del castello, Marco de Vendôme, il fratello di Maria, ed è destinata a sposarlo, coronando così gli ingenui sogni concepiti sulle pagine dei romanzi rosa, di cui è avida lettrice. La coppia Nerina-Marco, nelle intenzioni dello scrittore, avrebbe dovuto rappresentare la normalità serena, laboriosa e prolifica, in antitesi all’«abnorme» incarnato dall’assassino suicida Grifonetto. La vista del castello evoca nell’operaio ricordi della sua infanzia: Egli ricordava tristi racconti della sua povera infanzia: quando guardava dietro i recinti chiusi gli alberi curvi sotto il peso dei pomi, e la sera veniva, e si mangiava solo quello che c’era. E allora suo padre, che non è più al mondo, ma gli voleva bene, povero padre, allora gli raccontava che i feroci signori di Vallenera avevano istituito con frode le leggi: ed essi avevano quanto a loro bisognasse e molto di più, ed altri non avevano quanto a loro bisognava, ma molto meno. Ma questi signori si erano spenti, nelle colpe e nei vizî. Ed erano venuti altri, un po’ meno bestiali in apparenza, ma in sostanza erano porci come quelli. E siccome non c’era più tanto pericolo, come nel Medio Evo, avevano fabbricato delle case vicino alla Stazione per avere più comodo il truogolo alla portata del grifo. Però stiano attenti. Perché il pericolo può venire da un momento all’altro. Le colpe e i vizî li hanno anche loro, sì o no? Ebbene finiranno anche loro. E allora i padroni saremo noi, non altri che noi. – E quello sarà il giorno della liberazione.

Attraverso un trapasso insensibile dai discorsi del padre, rievocati da Carletto, ai pensieri del giovane stesso, si ha qui un primo saggio di indagine sulla mentalità dell’operaio socialista: i temi sono il rancore contro i privilegiati da parte di chi manca del necessario e patisce la fame, le prepotenze, i soprusi e gli arbitri degli antichi, feroci signori e il contegno solo in apparenza più umano di quelli moderni, in realtà sempre intenti a fare i propri interessi, le loro colpe e i loro vizi, la speranza utopica nel riscatto e nella liberazione dal dominio di classe. Su tale dominio si offre qui un punto di vista simmetrico e opposto rispetto a quello contenuto nei discorsi di Grifonetto, che esaltano le prepotenze e le violenze dei signori: si ha l’impressione che Gadda voglia contrapporre due eccessi estremistici equivalenti, entrambi da respingere. Ma mentre le parole dell’eroe contengono anche idee di elevato valore concettuale, elaborate con robusto vigore di pensiero e con originalità, che riproducono le convinzioni dello scrittore stesso, qui il pensiero dell’operaio è intessuto di luoghi comuni, idee ricevute, stereotipi e frasi fatte, attinti ai motivi ricorrenti e rituali della propaganda socialista, assorbiti e ripetuti acriticamente, anche se con grande partecipazione emotiva. Alla predicazione degli agitatori, quella deprecata con violenza dall’eroe fascista, rimanda evidentemente la fiducia ingenua nel sicuro trionfo della giustizia sociale: e qui Gadda vuole dimostrare gli effetti nefasti che l’irresponsabile orgia verbale socialista esercita sulle menti dei più sprovveduti culturalmente. Per contro il quadro della miseria popolare risente di schemi di un patetismo da romanzo sociale ottocentesco e deamicisiano, tanto da suscitare il sospetto che ci sia nello scrittore la volontà

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di una mimesi straniante (simile a quella esercitata sulle trame dei romanzi rosa letti da Nerina, che vengono riprodotte con compiaciuta ironia). All’odio di classe dell’operaio si aggiunge poi un altro luogo comune, l’animosità antireligiosa e atea, che, sempre per influenza della propaganda, vede nella devozione solo un’ipocrita copertura di interessi economici:

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«Bastardo mondo! E c’è ancora di quelli, di quelli che dicono che c’è Dio… Perché gli conviene, perché gli conviene, ma neppure loro ci credono. Vorrei crepar qui, se ci credono».

Un’indagine più approfondita sulla coscienza dell’operaio socialista è condotta nell’altra lunga sequenza narrativa dedicata a Carletto, in cui il giovane, che si è licenziato dall’officina per gelosia nei confronti del figlio del padrone, si reca a cercare un nuovo lavoro presso la centrale idroelettrica in costruzione nella vallata, dove è impiegato come ingegnere proprio Marco de Vendôme, e poi all’abitazione di questi nel castello di Vallenera. I pensieri dell’operaio sono dominati ossessivamente dal motivo dell’odio di classe contro i signori. Il giovane teme di trovare al cantiere «altri sfruttatori forse, e magari peggio dei primi», ma cerca di farsi animo perché «questa è una società, non sono dei padroni. Basta fare il proprio dovere e non vorranno rompere le scatole anche loro». E si fa forza richiamando la coscienza sindacale: «Che se poi te le rompono, si è in maggior numero: e la ragione dovranno capirla per forza». Mentre suda nella salita, Carletto si immerge totalmente nelle sue riflessioni, e pensa che «tutto è ingiusto nel mondo»: Ecco, da questi monti cadono le acque, che sono la nostra ricchezza. E vengono qui degli altri, che non c’entrano niente, e solo perché hanno dei soldi, e saran pieni di vizî, solo per questo e per nient’altro che questo, ce la portano via: e il boccone buono è per loro. E a noi non ci resta che lavorare, lavorare sempre, come schiavi o come dannati. Ci lasciano mangiare quel tanto che basti perché possiamo lavorare anche domani. Ma quando non siamo più buoni a lavorare, allora dobbiamo crepare, e alla svelta. Allora siamo scarpe fruste che si gettano via.

Nei confronti dell’operaio socialista Gadda usa una tecnica analoga a quella impiegata con l’eroe fascista: per dissolvere l’inanità e la falsità degli stereotipi di pensiero e di parola si limita alla semplice ma implacabile registrazione dei suoi discorsi, quasi a comporre un flaubertiano Dictionnaire, lasciando così che i limiti intellettuali e i luoghi comuni si dichiarino da sé. Ma a questo punto l’autore ritiene necessario anche un intervento critico esplicito a commento: Egli adoperava la locuzione «la nostra ricchezza» perché di una tal locuzione aveva visto servirsi anche altri, sia nei discorsi, sia nei giornali. Da sé solo non aveva mai potuto pensare che l’acqua del Devero, che come un potente martello rompe i gradoni del gneiss, e che fa paura alla famiglia dei Sassella, quando ingrossa, potesse chiamarsi ricchezza.

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E qui lo scrittore si abbandona a una divagazione sul concetto di ricchezza proprio del popolo, e vi si immerge quasi dimenticando il filo principale del discorso: Ricchezza sono i denari, tanti denari: gli anelli di oro, i terreni, la casa comoda e il pollaio bel pieno. Quando non si domanda il permesso a nessuno per tirare il collo a un paio di galletti, se ti senti un po’ di nostalgia addosso, e hai bisogno d’un brodo un po’ sostanzioso.

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Si nota un gusto digressivo che fa presentire la struttura centrifuga della futura prosa gaddiana, in particolare del Pasticciaccio (di cui pare qui quasi di sentire il sapore delle pagine in cui si evoca la cupidigia popolare nei confronti dell’opulenza dei signori). Poi viene ripreso il discorso per un po’ abbandonato: Ma dal momento che tutti dicevano che il Devero era «la nostra ricchezza», doveva essere vero. E del resto, era proprio vero: perché tutti lo dicevano che poi, quando gli impianti sono finiti, la società guadagna tutto quel che vuole. «Quando gli impianti sono finiti!».

Affiora di nuovo da un passo del genere l’insofferenza di Gadda nei confronti del luogo comune ripetuto meccanicamente e acriticamente, qui dall’opinione popolare ma in tanti altri luoghi delle sue opere dall’opinione borghese: lo scrittore aborre il luogo comune perché irrigidisce in schemi di pensiero e formule verbali stereotipate la meravigliosa molteplicità e ricchezza del reale, di cui la sua prosa aspira a riprodurre la complessità; è quindi la negazione della sua visione del mondo plurale e infinitamente complessa, come del suo ideale stilistico, che di quella molteplicita deve farsi specchio. In secondo luogo Gadda condanna i luoghi comuni perché rappresentano il falso, e la falsità, la «vanità di certe consecuzioni di parole», ha l’effetto di falsificare la vita, inducendo ad azioni sbagliate. Lo teorizza nel saggio Meditazione breve circa il dire e il fare, del 1936: Un vizio della espressione influisce nei giudizi e però negli atti d’un uomo o d’un collegio di uomini… […] E sono, taluni, bugiardi senza volere: cioè bugiardi ignari (o inconsci) della bugia nel tempo stesso che la proferiscono: per proprio errore di parlata e di lettura, per aver rifatto clamorosi gridi degli altri, come bamboli raggirati nella sicinnide. […] Il vaniloquio ingenera la non-vita, in chi vi si presta, cioè l’errore e la tenebra. […] Frasi, frasi, frasi (prive di contenuto), parole, parole, parole entrano così «nella vita delle famiglie», si propagano da una famiglia all’altra, investono i celibi amici; e tutto procede come olio per i suoi vasi e docce, nel tramite della banalità consueta. […]. Si direbbe che, in certi casi, la persona umana «si fissa» in un caramello di modi di dire, che divengono modi di essere, o addirittura l’essere.83

83 Meditazione breve circa il dire e il fare, in I viaggi la morte, compreso in Saggi giornali favole I, cit., pp. 444-451.

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In particolare nel passo del Racconto si nota l’atteggiamento di superiorità dell’intellettuale esperto nei confronti del popolano che parla solo ripetendo quanto ha sentito dire da altri: superiorità però non sprezzante né corrosiva come quella che colpisce l’aborrita borghesia milanese (e quella romana dei «signori novi de commercio»), ma piuttosto mescolata a una benevola comprensione. Si delinea verso l’operaio socialista un’ambivalenza simmetrica rispetto a quella nutrita verso l’eroe fascista, ambivalenza di cui andrà cercata conferma nel resto dell’episodio. Si introduce poi nei pensieri dell’operaio il motivo delle squadre fasciste, che si aggirano per il paese: «Erano giorni brutti per un proletario: a S. Maria c’erano in giro delle facce, che non si sarebbe mai creduto di doverle incontrare in questo mondo, col socialismo in marcia». Al caffè Bosisio, luogo di ritrovo dei borghesi in contrappposizione al circolo dell’Emancipazione, l’anarchico Molteni e un suo amico «per poco non prendevano un fracco di stangate da quei vigliacchi assassini di fascisti, che adesso a S. Maria cominciavano a darsi un po’ delle arie». L’interpretazione che il giovane dà del fenomeno fascista è quella classica proposta dalla sinistra, il fascismo come braccio armato della reazione borghese contro l’avanzata del movimento operaio, ma, filtrata attraverso la prospettiva del proletario incolto, e ridotta al livello elementare della sua mentalità, trasformata in luogo comune e in sequela di formule stereotipate: Perché dopo la guerra, quando la borghesia ha visto che il popolo non ne voleva più sapere di prepotenze e di camorre e di sfruttamenti e quelli che erano diventati milionari col sangue della carneficina, gli era venuta addosso una paura tremenda, perché sentivano che stava per sonare la loro ora: che cosa han tirato in ballo? Hanno riempito di soldi quel ruffiano d’un Mussolini, perché assoldasse dei manigoldi, che stangassero il popolo. E così era successo. La trovata era buona. Fin che dura però.-

Lo scrittore condivide certamente l’avversione per i “pescicani” e i profittatori di guerra, ma non l’interpretazione data dall’operaio del successo fascista: come sappiamo, per lui il fascismo rispondeva a una necessità nazionale, per porre rimedio al caos in cui era precipitata l’Italia nel dopoguerra, per stroncare le violenze dei sovversivi e le aggressioni ai reduci, per riscattare il paese dall’inconcludenza verbosa della classe politica al potere come dell’opposizione e avviarlo a un energico attivismo costruttivo. Ma si guarda bene dall’intervenire con commenti: a parte quello introdotto a proposito della «ricchezza» costituita dall’acqua, resta fedele alla tecnica della registrazione oggettiva, impassibile, “flaubertiana” del parlato del personaggio proletario, in modo che le storture logiche e gli stereotipi mentali emergano da sé in piena evidenza. È chiaro che Gadda aborre le idee professate dall’operaio, ma nella sua rappresentazione non vuole insistere solo sulla condanna: non mira a tracciare il ritratto negativo del proletario socialista con l’aristocratico disprezzo del reazionario «nemico del popolo» (per usare la definizione che l’opinione comune dà di

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

Gonzalo nella Cognizione). Si può confermare quell’impressione di ambivalenza che era nata sin dalle prime battute dell’episodio di cui Carletto è protagonista. Vi è senz’altro una segreta simpatia dell’autore per la sua baldanza, per il suo slancio vitale giovanile (in qualche modo simmetrico rispetto a quello di Grifonetto), per la sua schiettezza popolana, per la sua ingenuità, per la sua purezza di cuore. Che sia un «puro» a differenza di altri personaggi, sia borghesi sia popolari come l’anarchico Molteni, viene sottolineato esplicitamente: «Fare che questo Carletto, meccanico, sia il figlio dell’oste […] (Se aveva perduto il padre? E poi un oste non può essere puro come è Carletto)». Si può persino rilevare una forma di indulgenza verso il suo abbandono fiducioso a certi miti politici, che nasce dalla stretta di una condizione effettivamente misera e dalla mancanza di adeguata istruzione.84 Ma soprattutto si avverte una profonda pietà per lui, perché è una vittima: perde la donna disperatamente amata, la quale sceglierà l’uomo nobile e ricco, e sarà anche destinato a perdere la vita, nella spedizione squadristica contro il circolo socialista: in qualche modo quindi reduplica la figura del giovinetto innocente pugnalato dai sovversivi, che viene rievocato con intensa carica di pathos tragico da Grifonetto, e in un certo senso reduplica Grifonetto stesso, parimenti condannato a un destino di morte. Inoltre è un bravo lavoratore, abile nel suo mestiere, coscienzioso nel fare il suo dovere, capace di sostenere una dura fatica quotidiana. Si incarna in lui un motivo molto caro a Gadda, che nelle sue intenzioni doveva essere uno dei temi centrali del romanzo, quello del «lavoro italiano»; motivo che si concreta nella costruzione della grande centrale idroelettrica, destinata a fornire energia a una vasta regione, a illuminare le case come a muovere i treni e le macchine delle industrie. Lo scrittore non può che amare e ammirare la capacità tecnica e il paziente, eroico lavoro dei singoli che con il sacrificio di sé contribuiscono alla grande impresa, e possono essere, indifferentemente ai suoi occhi, ingegneri, quadri intermedi e operai anche addetti a umili mansioni. Per questo a Carletto va non solo la pietà ma la simpatia dell’autore. La sua polemica è indirizzata contro le idee, non contro l’uomo. La sua critica, cioè, si concentra unicamente sulle ideologie secondo lui false, ingannevoli e pericolose che, assorbite acriticamente, traviano le menti dei bravi lavoratori, ne corrompono le energie genuine e ne compromettono la sanità popolana, che invece dovrebbe essere educata allo spirito nazionale, al senso del dovere e del sacrificio in nome del bene della patria, se occorre anche prendendo le armi, come si era dimostrato nella grande guerra. Era all’epoca un Leitmotiv del pensiero nazionalista, a cui Gadda aderiva pienamente, come comprova la sua iscrizione al partito, prima del passaggio al 84 Anche De Matteis sottolinea «la simpatia umana dello scrittore» per il «povero cristo perseguitato dalla sfortuna»; non condividiamo però l’idea che «l’imparziale trascrizione dei convincimenti politici del personaggio» sembri quasi «ratificarne la logica oggettiva» (op. cit., p. 81): come abbiamo cercato di mostrare, a nostro avviso la registrazione impassibile dei pensieri dell’operaio ha una funzione critica.

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IL RACCONTO ITALIANO: FASCISMO E SOCIALISMO NEL «CAOS» DEL DOPOGUERRA 61

fascismo. Come il fascista Grifonetto non è solo un eroe positivo né tanto meno appare oggetto di univoca celebrazione, ma è anche sottoposto a critica, così la figura che rappresenta il polo sociale e ideologico opposto, l’operaio socialista, non è un eroe negativo e nemmeno solo oggetto di critica e di condanna, ma è un personaggio essenzialmente problematico, a più dimensioni. In uno scritto di molti anni dopo, Un’opinione sul neorealismo (1948), si può trovare una chiara teorizzazione della necessità di una simile impostazione problematica, non rigidamente univoca, della scrittura letteraria: secondo lo scrittore nelle narrazioni dei neorealisti risulta «quel tono asseverativo che non ammette replica, e che sbandisce a priori le meravigliose ambiguità di ogni umana cognizione… l’ambiguità, l’incertezza, il “può darsi ch’io sbagli”, il “può darsi che da un altro punto di vista le cose stiano altrimenti…». 85 C’è davvero da rimpiangere che il lavoro a un romanzo concepito così problematicamente86 non abbia prodotto che poche pagine di narrazione effettiva.

10. Il popolo lavoratore: vitalità giovanile e traviamento ideologico Un discorso analogo è possibile proporre per l’incidente fra il gruppo di minatori fermi con i loro fagotti alla curva della strada di montagna e la macchina dei fascisti, episodio che ha una funzione importante nel plot perché è all’origine della spedizione punitiva che causerà la morte di Carletto e la fuga e l’esilio di Grifonetto in Argentina (l’episodio sarà poi ripreso, con cospicue varianti narrative e stilistiche, nel racconto Notte di luna). Il gruppo di giovani operai è oggetto di una osservazione affascinata, si direbbe quasi ipnotica, come avviene a Gadda quando è colpito da una realtà dotata di un’intensa, prepotente vitalità. Quan85 Saggi giornali favole I, cit., p. 630. La stessa posizione si riconosce in I libellisti battono gli adulatori, del 1952: «L’artista in quanto tale raggiunge e esprime, per solito, una cognizione più illuminata e profonda che non quella dell’interesse di parte. L’artista discerne i due termini di un’antinomia […] I propagandisti, per solito, sono certi o si danno l’aria di essere certi che la loro tesi, il loro “termine”, è il termine etico di un dilemma in cui l’avversario rappresenta tutta la colpa, tutto il male: artisticamente vengono così a creare delle “ipostasi” gratuite, dei personaggi estremamente schematizzati, qualche volta delle fantasime o dei fantocci» (Saggi giornali favole I, cit., p. 1022 s.). 86 La Savettieri avanza una proposta molto interessante e condivisibile su un altro aspetto della problematicità del romanzo: da un lato il progetto porta a un «monologismo ideologico», teso a dimostarre la necessità storica dell’autoritarismo del regime, ma poi il romanzo lo supera attraverso la decostruzione delle forme narrative, «la moltiplicazione delle trame, la pluralità degli stili, la sovrapposizione di voci e punti di vista», che testimoniano «il carattere polimorfico e provisorio della conoscenza, della psicologia e della morale», dando luogo «alla costruzione di un insieme narrativo ideologicamente aperto». A questa altezza, continua la studiosa, Gadda non mette consapevolmente in dubbio la sua fede fascista, ma «progetta un romanzo sul fascismo che in parte smentisce i propri presupposti ideologici». Questa problematicità, conclude la Savettieri, darà le sue prove più alte nelle grandi opere successive degli anni Trenta-Quaranta, la Cognizione e i disegni milanesi dell’Adalgisa (Il ventennio di Gadda, cit., p. 17 s., p. 25 e p. 27).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

do un simile turgore vitale assume qualcosa di abnorme e di eccessivo finisce per risultare osceno, e la fissità della descrizione diventa ossessiva, rivela una ripugnanza invincibile per il carattere «oltraggioso» di quelle «non-forme»,87 che rappresentano ciò che Gadda, nel dialogo fra Autore ed Editore premesso alla Cognizione, definisce il «barocco», cioè la deformazione patologica in cui incorrono le presenze reali nel processo di evoluzione della storia-natura.88 Ma non è questo il caso: nei confronti del gruppo dei minatori non vi è ripugnanza nevrotica e rabbiosa, ma tutto al contrario una fissazione come sorpresa e compiaciuta su campioni di vigore giovanile, che è sì rozzo e primitivo ma terribilmente vitale: e la forza della vita affascina sempre Gadda, angustiato e respinto da ogni asfittico impoverimento. Lo scrittore indugia sulle «facce selvatiche», sulle «zazzere irsute», sulla «pacatezza pesante delle mosse», sulla «forza intensa e raccolta» con cui i giovani sollevano «fagotti-bauli che parevano pesare un quintale», sulla «voluttà con cui si crogiolavano al sole masticando una buona cicca», su «quel muovere dei forti muscoli scapolari, sotto la rozza giacca». La descrizione trapassa in una rievocazione dell’anno e mezzo trascorso dagli operai in alta montagna a scavare gallerie. Si inserisce cioè, sulla contemplazione del vigore giovanile, la celebrazione del «lavoro italiano», attraverso la ricostruzione della dura vita nelle baracche al gelo, con un metro e mezzo di neve otto mesi all’anno, della pesante fatica di azionare i martelli pneumatici «nella falda marcia o compatta dello gneiss, dentro il buio del monte». Al motivo del lavoro e della fatica si accompagna quello rabelaisianamente iperbolico del cibo cucinato per i lavoratori in un immane pentolone, «degno dei gusti e dei bisogni di Polifemo», di cui Gadda, con la puntigliosa e maniacale precisione che gli è propria, fornisce dimensioni e volume, dai quali si può dedurre la quantità spropositata di cibo in esso contenuta: «Diametro zero settanta, diviso quattro quadrato, moltiplicato per pi greca e poi per il fondo, che è zero cinquantacinque viene il volume. D’onde poi, chi gli piace far calcoli, il peso della farina, e quello della polenta, e quello della minestra, e quello dei tremendi ragoûts». Il motivo pantagruelico si precisa nelle polente che, «mangiate a bocconi d’un ettogrammio, dilatano la strozza a quegli uomini, come un ciottolo deglutito per distrazione dilata il collo allo struzzo. E lo si vede, che va giù. Nessuno mai è crepato», dove si scorge il compiacimento per quella sana fame che scaturisce dalla fatica, e il motivo del cibo si fonde con quello della vitalità giovanile. Il tema della quantità immane di cibo è ancora ripreso e dilatato dall’immagine della teleferica che, con i blocchi di cemento e le tavole, «tira su quarti di manzo che, percorsi gli oceani equatoriali nelle stive frigorifere, vanno a finire bolliti fra i ghiacci delle alpi retiche: tira su damigiane o botti, secondo i casi». Il fascino della realtà dotata di vitalità intensa 87

La cognizione del dolore, in Romanzi e racconti I, cit., p. 627. Ivi, pp. 759-761. Per una discussione del concetto gaddiano di «barocco» si rimanda a G. Stellardi, Il «Barocco» di Gadda, in op. cit., pp. 27-35). 88

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ha dato il via alla forza centrifuga della prosa di Gadda, che non sa resistere alla tentazione di fissarsi sull’oggetto marginale tralasciando il filo principale del discorso: un procedimento qui agli albori e destinato ai fasti delle grandi opere successive. L’autore è consapevole di aver ceduto a tale tentazione divagatoria, e se ne scusa con una dichiarazione che richiama certe movenze da romanzo ottocentesco («Siamo usciti dal seminato: cosa che sarà per capitarci altre volte: finché, dai critici, ne sentiremo di belle. Ma il mestiere del raccontare è difficile; tenere in sesto le idee, che si sbandano come un branco di pecore! e noi in quanto cani da pastore siamo proprio dei poveri cani, né, con ciò, intendiamo fare della falsa modestia»), dove, come già si è sottolineato, è ben riconoscibile il rimando al passo manzoniano del capitolo XI in cui il narratore ricorda il «caro fanciullo» intento a raccogliere a sera i porcellini d’India sbandati. Dopo tutto questo indugio affascinato sulla forza giovanile e sul motivo del lavoro ritorna però in primo piano il motivo politico, con tutte le sue esasperate tensioni conflittuali. Vedendo passare sulla strada un «giovanottello» ben vestito, uno dei «giovanottoni» proletari esce in frasi insultanti e provocatorie sui «fascisti» che sono tutti «marmotte»: «Che vengano da me, se hanno qualche cosa da dire. Perché non vengono da me? Fascisti teppisti ci caco sopra». Segue un coro di voci volgari e sguaiate: «Ne devono mangiare della polenta quelle mezzeseghe» soggiunse un altro. «Vorrei vederli in guerra, quando venivano giù i sacramenti, con il suo giovinezza». «Altro che giovinezza allora», rinforzò un quarto «…latrina e non giovinezza, latrina su tutta la linea… e farne tanta!»

A questo punto avviene l’incidente: un’auto esce dalla curva e investe i fagotti depositati a terra dagli operai, che urlando minacciosi si fanno intorno al conducente. Malauguratamente questi estrae la rivoltella (dal che si capisce che gli occupanti dell’auto sono fascisti), e allora viene afferrato da più mani e compare un coltello. In quel momento passa Carletto, che sta salendo proprio per quella strada, e si inserisce nel gruppo dei facinorosi, ma dall’auto partono alcuni colpi di pistola, mentre i fascisti tentano di trattenere la folla degli operai inferociti con la minaccia delle armi puntate. Solo l’accorrere di altra gente impedisce il degenerare della situazione (in Notte di luna sarà una compagnia di alpini in esercitazione). A stento i fascisti possono risalire in macchina e ripartire verso il paese, mentre intanto Carletto, improvvisatosi oratore, arringa la folla. Tra i soccorritori c’è un giovane scuro, di poche parole, che mormora: «Come predica bene il farabutto», e continua: «Resterà solo a vedere se continuerà per un pezzo». All’occhiello ha «un piccolo ovale di smalto, bianco, rosso, verde, con un piccolo fascio di verghe d’oro, con una piccola scure d’oro, nel campo dei caldi colori»: è Grifonetto, e le sue parole preannunciano la spedizione squadristica in cui Carletto troverà la morte.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

Nel racconto dell’episodio è evidente da che parte sta il narratore. Da un lato condanna la protervia e la violenza faziosa degli operai, presentando i fascisti dell’auto come vittime incolpevoli di un’aggressione; inoltre i minatori nel loro vociare scomposto insultano un valore sacro per Gadda, la guerra, degradandone l’immagine con riferimenti scatologici, indirizzati a profanare anche i valori patriottici, che la guerra presuppone. Dall’altro lato è eloquente il compiacimento lirico con cui allude al distintivo fascista, insistendo soprattutto sui «caldi colori» della bandiera e sull’oro prezioso delle verghe e della scure: è implicita ma chiara la volontà di presentare, attraverso immagini fisiche di immediato impatto visivo e di forte significato simbolico, il fascismo difensore del valore di patria come indispensabile alternativa alla minaccia socialista e come argine alle sue violenze. Mettendo a fianco i vari fattori, la rappresentazione dei giovani minatori e quella del loro pervertimento ideologico, a cui fa da contraltare l’alternativa fascista, risulta la problematicità con cui Gadda ln questo episodio rappresenta il proletariato socialista: come nel caso del meccanico Carletto, si combinano l’attenzione affascinata per la vitalità giovanile, per la forza sicura degli operai e per la durezza della fatica produttiva del lavoro con la condanna di idee ritenute aberranti e pericolose, che, traviando la sostanziale sanità popolare, inducono ad azioni faziose e violente.

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LA MECCANICA: LA «VITA FULGIDA, VERA» CONTRO LA «FINTA» 1. Autentico e inautentico, pienezza vitale e mortificazione, naturalità e ideologia storica La meccanica1 è la prima opera in cui, fra il ‘24 e il ‘29, Gadda riesce a concretare, sia pure con i capitoli finali lasciati in una forma solo abbozzata, un disegno romanzesco abbastanza ampiamente articolato. Sin dalle pagine iniziali appare chiaro che il romanzo respira ancora tutto nel clima delle delusioni, dei rancori, delle passioni politiche che animavano l’annotazione diretta del Giornale di guerra e di prigionia e il Racconto italiano di ignoto del novecento. La narrazione si apre con un dialogo fra due personaggi del popolo, la bellissima Zoraide ed il cugino del marito, Gildo, dove si rivela subito l’intento di creare un’opposizione di valore emblematico, che non manca di dichiararsi anche nella forma più esplicita: «Zoraide [...] volle essere vita, vita fulgida, vera, davanti la finta».2 Non solo, ma l’opposizione si reduplica poi secondo il modulo, am­piamente sperimentato attraverso varie prospettive da tanta letteratura dell’Otto e Novecento, dell’antitesi fra “malattia” e “salute”: di qui l’insistenza da un lato sullo squallore fisico di Gildo («gli occhi frusti e qualche acetoso bitorzolo, sfumato d’un alone violaceo, mettevano note da Moulin Rouge di porta Cicca in un gramo pallore»; «era il ritratto della trista salute»), e dall’altro sulla «presenza splendida e calda» di Zoraide, sui «meravigliosi capelli», «d’una luce bionda, aurata e ramata, ricchissimi, folti», sulla «floridezza proterva [...] turgida d’o1 II romanzo, la cui stesura risale al 1928-29 (salvo il capitolo 4, scritto nell’agosto del 1924), e che è rimasto non perfettamente compiuto, è stato pubblicato solo nel 1970 da Garzanti, in un testo però incompleto e filogicamente poco attendibile. Al­cuni frammenti erano già comparsi, con i titoli Le novis­sime armi (nel capitolo 3 dell’ed. in volume), Papà e mamma (capitolo 4), L’armata se ne va (capitolo 1), in «Solarla», n. 7-8, luglio-agosto 1932, poi nei volumi di racconti Novelle dal Ducato in fiamme (Vallecchi, Firenze 1953) e Accoppiamenti giudiziosi (Garzanti, Milano 1963, dove L’armata se ne va, ampliato, as­sume il titolo di Cugino barbiere). 2 Tutte le citazioni dalla Meccanica sono tratte da Romanzi e racconti II, cit.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

gni possibilità» del seno, sulla «serenità», sulla «fierezza fisica», insistenza che rivela un compiacimento sensuale suscettibile di trasferirsi nei toni del più acceso lirismo:

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Erano le proposizioni vive dell’essere, compiutamente affermate, che rendono al grembo come una corona di voluttà deglutitrice: fulgide per latte e per ambra si pensavano misteriose mollezze da disvelare per l’elisia e impudica serenità del Vecellio, con drappo di dogale porpora, e d’oro.

Righe da leggere, nonostante l’enfasi e la lieve velatura ironica creata dal livello alto dello stile, come effettiva trascrizione di una volontà di privilegiare e sublimare le zone autentiche e sane del reale in contrapposizione all’opacità squallida e mortificante dell’inautentico; e vale la pena di notare ancora, in un passo del genere, l’equazione stabilita fra autenticità, bellezza, sanità fisica e lo splendore di epoche passate della storia immortalate dall’arte («con drappo di dogale porpora, e d’oro»; nella versione di Cugino barbiere, si aggiunge anche il vagheggiamento della natura intatta, l’«abetaia» e le «marmaròle»3): ci troviamo già di fronte a uno dei cardini del sistema ideologico di Gadda e a una costante del suo modo di percepire e trascrivere la realtà. Ma l’essenziale è che l’ultima forma secondo cui si declina l’opposizione fra autentico e inautentico, costitutiva di questo prologo del romanzo, sia l’antitesi stabilita tra ideologia storica e natura irriflessa. Non è un caso che in bocca a Gildo, che rappresenta emblematicamente il polo negativo dell’inautenticità, risuonino, debitamente ridotti al livello di squallidi luoghi comuni, tutti i temi abituali dell’antimilitarismo e dell’antinazionalismo socialista: Bene lo dicono quelli che mangian di grasso e la paga la prendono buona, perché fanno l’ufficiale o il prete o scrivono su per i giornali venduti alla borghesia... […] Scrivono che la guerra ci voleva, e che adesso va come un olio, che è fino un peccato piantarla lì, da tanto che la va bene: e i cannoni in qualche modo bisogna pur goderli, si sa... Ma sicuro! […] Lavorare come forzati, e signor si… Questo è il progresso dei nazionalisti, tale e quale lo vorrebbero loro.

Sono proprio questi atteggiamenti e questi discorsi, che lo scrittore giudica sproloqui, la vita «finta» a cui Zoraide contrappone se stessa come «vita fulgida, vera». In effetti la sostanza ideologica del discorso di Gildo non sfiora neppure la coscienza della donna, che traduce ogni rapporto con il reale in termini esclu­ sivamente sentimentali e sessuali, e perciò dell’uomo che le sta di fronte percepisce non le idee, ma solo la bruttezza fisica e l’esibizionismo infantile, che provocano in lei «disgusto» e «frigidità» (atteggiamento certamente partecipato dal narratore) e sollecitano reattivamente un sogno di virilità forte, pacata, sicura («Amava immensamente nel maschio la pacatezza, la confidenza, la ragione, la forza, il 3 Cfr, Accoppiamenti giudiziosi 1924-1958, a cura di P. Italia e G. Pinotti, Adelphi, Milano 2011, p. 15: «Dall’abetaia e dalle marmaròle, con lo spiro della sera, fasto di dogale porpora: e d’oro».

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LA MECCANICA: LA «VITA FULGIDA, VERA» CONTRO LA «FINTA» 67

silenzio: e sopra ogni cosa un viso e degli occhi che dicano vigore e letizia, e sicurtà piena del volere. I forsennati, i roboanti, non meno de’ pustolosi, le erano causa di frigidità, di insoffribile tedio»). Infine, a ultimare l’operazione, si potranno leggere verticalmente i dati ricavati ricostruendo il quadro delle opposizioni su cui insiste questo dialogo iniziale; risulterà allora una significativa serie di omologie, nella colonna del negativo fra inautenticità, malattia, ideologia socialista, e, nella colonna del positivo, fra autenticità, salute, incoscienza “naturale”. Si avrà cosi, già solo da un limitato campione, il grafico delle opposizioni e delle omologie su cui si regge una parte rilevante del sistema narrativo del romanzo. A livello sintagmatico l’opera si articola in due distinte sezioni, in corrispondenza dei due diversi ambienti sociali in cui si svolge la vicenda, il popolo e la borghesia (a cui si aggiunge una terza parte, ambientata al fronte, rimasta però allo stadio di abbozzo non compiutamente elaborato). Nella prima parte, che insiste sui rapporti fra Zoraide ed il marito Luigi Pessina, l’opposizione di fondo si specifica innanzitutto, ed in forma più esplicita, come opposizione fra repressione degli istinti e mortificazione vitale da un lato, dall’altro abbandono alla libertà del godimento e all’immediata spontaneità fisiologica del vivere. Luigi, detto «el Lüisin gramm», assomma in sé tutte le virtù dell’operaio milanese modello: serio, laborioso, sobrio, abile e scrupoloso nel mestiere, lindo nella persona pur nella povertà degli abiti, risparmiatore sino al sacrificio, assetato di sapere, studiosissimo, riesce a trasformare anche l’inevitabile fede socialista, seguita con fervore idealistico e puntiglioso impegno, in un elemento d’ordine, di perbenismo, di ascetica austerità in nome della religione del lavoro: Proprio un bravo operaio: socialista, come tutti gli operai, ma serio, «istruito»: leggeva e studiava sempre. Sì, proprio un marito invidiabile. Non fumava neanche. Tutta la paga, salvo i giornali e qualche libro, era in casa. Anche all’«Umanitaria» lo apprezzavano tutti, per il suo cuore, per la sua rettitudine. […] La sua ado­lescenza era trascorsa fra «lavoro e pensiero» [...]. Netto e poveramente vestito, una cravatta da 70 centesimi gli durò venti mesi. Per sé non aveva chieduto al mondo che il cibo necessario da star in piedi, il sa­pone necessario a lavarsi. Nessuna gioia, nessun sogno vagabondo nel maggio, nessuna sbornia mai.

Di con­tro la moglie Zoraide rappresenta la pura vitalità fisiologica («serenità fisiologica del suo corpo, splendido d’una forza raccolta, pacata e indicibilmente viva»), che non tollera mortificazioni e anela spontaneamente alla pienezza del godimento («I giardini [...] erano il suo sogno, come i fiori, come i profumi: i fiori turgidi del giugno, li ardenti profumi, che mai non s’era potuta comperare, che nessuno mai le aveva regalato. Le monache li proibivano, suo marito le chiamava smorfie borghesi e diceva che basta esser netti, le mani e l’anima»), a una libera affermazione della vita attraverso l’eros: Zoraide aveva in sé la sua verità salda, la fede profonda e sola: sentiva vivere splendidamente il suo corpo certo, ch’era promesso a una gioia, che certo sarebbe

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un giorno arrivata [...]. Quel corpo stupendo, si era forzati ad ammetterlo, Dio lo aveva fabbricato per qualche suo piano o scopo [...]. A qualcosa doveva certo servire: e nell’oscura coscienza fisiologica della donna, oscura ma ferma, il qualcosa, senza troppa metafisica, diventava un qualcuno. Quel corpo era per qualcuno [...]. Nel caldo mattino il suo meraviglioso corpo viveva: il dolce sangue, su dal suo cuore, batteva giocondamente a ogni polso ed era festa, passando, a ogni vena: e i muscoli parevano agognare esultanze e fervori e remote lassitudini, che il mondo mai non sapesse, ma le sapesse il suo amore.

Per di più Zoraide, in antitesi al marito di Milano, città per eccellenza dove la rigida disciplina del lavoro reprime ogni impulso istintuale, è veneta di Castelfranco, patria di Giorgione, il pittore della luce limpida e della bellezza sognante, come Gadda tiene a far presente, ricordando la pala famosa della Vergine in trono, per sottolineare tra i due sposi, al di là dell’identità di classe, un’antitesi etnica che è come un dato di natura, e per istituire un legame fra la terra, il carattere e il destino. Il bisogno di vita e d’amore non può che configurarsi, nell’innocente visione della donna del popolo, come rifiuto della propria classe, avvertita come obiettivazione di una legge severa che, attraverso il peso del lavoro e l’abbrutimento della fa­tica, nega la gioia e la bellezza e condanna alla mortificazione e all’impoverimento vitale, allo squallore e alla rozzezza: Si, erano belli difatti i figli dei signori e della gente istruita [...]! Il gorgonzola ghiotto, grasso, piccante, concupiscibile e laudabile per meraviglie verdi del capelvenere suo, biasciato in polta fra morsi avidi e dilaceranti nel pane e sorsate di vino larghe con un gorgoglio tra le carotidi enfie, da quelli che siedono stanchi alla tavola dell’osteria, una farina ad­dosso o una fuligine unta, e han mani dure e grossi baffi stillanti, Zoraide rabbrividiva pensandoci.

Non solo, quel bisogno di vita piena non può che risolversi in un bisogno di lusso e di buon gusto, in un vagheggiamento del “paradiso” borghese e in un’aspirazione alla promozione di classe, che si identifica, ai suoi occhi, con l’approdo alla vita autentica, in un mondo saldo e certo, sereno, immune dalle angustie della vita quotidiana: Qual­che giovane studente le passava daccanto guardandola, intensamente, come un fanciullo, quasi sfiorandola: il profumo d’un attimo, d’un delicato cosmetico, le pareva il segno del mondo di loro: era il mondo delle certezze serene.

Zoraide per scrupolo si sforza di interiorizzare il conflitto oggettivo fra libero godimento e repressione e di trasformarlo, in chiave etica, in un conflitto fra passione peccaminosa e dovere coniugale («Un’altra sposa forse le avrebbe avute, le lacrime: e lei no, non piangeva. Vergogna! Con il marito al fronte. Ed era cosi bravo, poverino!»), ma in realtà è un complesso di contraddizioni che è tutto nelle cose, e da cui la coscienza del personaggio è per essenza, e di fatto, immune, tant’è vero che l’adulterio, al livello dei sentimenti reali e al di qua di

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LA MECCANICA: LA «VITA FULGIDA, VERA» CONTRO LA «FINTA» 69

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ogni obbligato scrupolo morale, è sentito dalla donna non già come colpa, bensì come l’occasione del riscatto da una condizione negativa di mortificazione vitale e di conseguente inautenticità, come possibilità di fuggire in un mondo di sogno: Con due lacrime splendide dentro le ciglia, come due gemme tenute dai graffi mentre stavano per traboccare, pensò a lui, perché lui soltanto era il suo solo pensiero. Studente o no, le piaceva, le piaceva. Pensò, ardendo della sua febbre, pensò tante cose! Di parlargli, di andare con lui nell’ombra fonda di lontane selve o giardini e con lui ne’ gaudiosi mattini approdare alle darsene fra balaustre di marmo, delle città so­gnanti! o quando i cumuli rossi delle nubi li trascina un vento invisibile e li deforma verso il remoto, come il destino fa delle anime. Ed egli le coglieva un fiore, arditamente, anche che fosse proibito, e guardandola come la guardava ogni sera le voleva mettere a forza nelle sue labbra, per interludio e pausa de’ baci, lo stelo di quel pallido fiore. Ed era un paese senza la guerra, senza i feriti, senza l’esattore della Edison, né Giolitti, né Salandra, né il mobilio del matrimonio: e non c’era né Trieste, né Trento, né l’«Avanti!», né il general Cadoma, ne il gas. Pensò, sognò a lungo: e, a volte, ne’ disperati sogni arrossiva.4

Questo mondo di sogno in cui la donna si perde, come si vede, si offre quale alternativa al caos privo di senso della realtà quotidiana, con tutte le sue piatte incombenze, e, insieme, al caos assurdo della storia, alla quale Zoraide, nella sua perfetta “naturalità”, è totalmente estranea. Proprio la tensione lirica di un passo come questo (anche se vi si può cogliere una componente ironica: ma su questo dovremo ritornare) è la spia di una partecipazione emotiva dello scrittore, della sua empatia, del suo entusiasmo di fronte alla splendida, naturale carnalità, all’esuberanza vitale refrattaria a ogni mortificazione che sono proprie del personaggio femminile. La conferma dell’immedesimazione viene dal fatto che il narratore, alla fine del passo, si prende cura di interpretare lo stato d’animo dell’eroina, il suo disperato rifiuto del caos insensato del quotidiano e della storia, dando forma a quelle che sono solo oscure sensazioni della donna, estranea a ogni legame con la realtà sociale e storica, mediante un procedimento caro alla prosa “barocca” di Gadda come l’enumerazione caotica. Ma non è tutto. Questi «disperati sogni» della popolana non possono non richiamare, per immediata associazione, i «vani, sterili sogni» su cui si chiudeva l’annotazione del Giornale («finirò la mia torbida vita nell’antica e odiosa palude dell’indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando le possibilità dell’azione in vani, sterili sogni»);5 e parimenti, grazie all’aggettivo «disperati», rimandano alla «volontà disperata» di Maria Ripamonti, la nobile 4

Preferiamo adottare la variante «disperati sogni» del manoscritto, che ci sembra più densa di significato, per i legami intertestuali con altri passi gaddiani, come vedremo. Il curatore dell’edizione, Dante Isella, riporta invece la lezione «meravigliosi», che ci sembra più banale e meno significativa. 5 Saggi giornali favole II, cit., p. 867.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

eroina della Madonna dei filosofi:

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Maria, e ciò è un po’ l’onore e il merito delle creature, non voleva ancora ridursi a credere che proprio il mondo e i cavalli e le case e i cigni de’ giardini, e le bimbe; che le guardie, i generali, i para­litici, i sacerdoti, i biglietti da cento, gli scrittori celebri, le pere e i capistazione e la prosa degli scrittori celebri, e tutto, sia proprio tutto un brutto sogno: no: sentiva bene dal più profondo dell’animo, come tutte forse le nobili e gentilissime donne della sua vecchia famiglia, che qualcosa di men che cre­tino ci doveva essere, che ci doveva essere qualcosa di vero nel mondo, anche a costo di inventarlo, di fabbricarselo con la fantasia, o con una volontà disperata.6

Dove il per­sonaggio è proposto come “anima bella” portatrice della co­scienza critica, che si scontra con il caos privo di senso e di dignità della realtà fenomenica e si protende nostalgicamente verso una zona intatta di valori puri e autentici («qualcosa di vero nel mondo»): che è appunto il paradigma eroico secondo cui Gadda tende a costruire l’immagine della propria esperienza. E analogamente al passo della Meccanica, anche qui il caos della realtà è reso attraverso il procedimento dell’enumerazione caotica. Non solo, la formula «disperata volontà» è usata da Gadda anche a proposito di Amleto, il personaggio tragico di cui in I viaggi la morte7 mette in evidenza lo stesso conflitto con la realtà e in cui ama identificarsi. Perciò si può arrivare a ipotizzare che il sognare del personaggio di Zoraide, attraverso un complesso gioco di identificazioni e di trasmutazioni, divenga vettore dell’espressione di una condizione soggettiva dello scrittore stesso, dell’affiorare di una sua intima esperienza conflittuale: lo scontro con la realtà degradata del presente, con il «caos» del dopoguerra e con l’«insufficienza» della società italiana, scontro che era stato l’oggetto del Racconto italiano, e la fuga verso l’«al di là» dei valori puri e ideali, proiettato in un passato eroico della borghesia, immune dalla meschinità e dalla degradazione, o nell’immagine mitizzata di una romanità guerriera,8 da contrapporre a quel presente come vagheggiata ma impos6

Romanzi e racconti, I, cit., p. 76. Nell’articolo Amleto al teatro Valle (Saggi giornali favole I, cit. p. 540). 8 «Oh! se non fosse la zella che c’è in giro, e sempre sarà, quanto sarebbe gioia ed ebbrezza poter sanguinare ancora all’assalto, e dal soglio e dallo schianto delle opere prese, dopo i tumefatti volti altri monti vedere, altre schiere avverse, altro cielo senza confine, altro ridente paese! [...] Fregarsene del Padreterno, confidare nel Procon­sole solo, nella cui fortuna e comando è il segno de gli dei immortali: il pacco de’ cenci liquidarlo a mano di qualche rigattiere venuto di Galilea, fra la Suburra e il Teatro di Marcello. Dimenticare ogni pianto, ne’ tra­monti rossi, dipartendosi la Flaminia senza ritorno verso le genti e il mondo infinito. Come i soldati della decima aver davanti dopo li Elveti Ariovisto, dopo Ariovisto Dumnorige, dopo Dumnorige Vercingetorige, e insino agli ultimi enormi, orripilanti, tinti nella maschera del glastro loro violetto, “horribilesque ultimosque Britannos”. Ma Cesare è polvere ed ombra: il general Canèva era lui che comandava in Libia [...]. I Britanni non si dipingono più: bevono del tè, imperterriti, sgretolando biscotti noiosi alla barbificante ac­cademia delle cinque; [...] i loro potenti incrociatori corazzati fanno libero il mare, verso tutte le terre. Da Gibilterra a Malta. Libero per loro, s’intende. Con gli ex-alleati brindisi e sorrisetti. Alla facciazza!» (queste pagine finali del capitolo II sono state rescisse da Gadda nel manoscritto, Quaderno II, e 7

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sibile alternativa. In questa complessità di piani, in questa antinomia interna alla disposizione dello scrittore verso la sua materia, è riconoscibile un atteggiamento fondamentalmente problematico, che abbiamo già riscontrato nel Racconto italiano e che, come vedremo, è la legge che regola l’intero organismo del romanzo. È anche evidente però che qui, rispetto al Giornale, si afferma un valore nuovo, non più l’impegno civile laborioso e conclusivo o l’aspirazione eroica, vagheggiati dal giovane Gadda, ma la rea­lizzazione della «vita» attraverso l’eros, e quindi si propone una nuova alternativa all’esistente, che non è più il passato mitico in cui si proietta la nostalgia di una realtà borghese «pura ed immune» dalla decadenza presente, bensì un mondo tutto fuori della storia, antitetico al primo e tuttavia idoleggiato, attraverso l’identifica­zione col personaggio, con lo stesso trasporto sentimentale; una sfera di realtà che ha in sé la sua ve­rità e la sua giustificazione etica al di qua della morale comune, l’Eden della gioia e dell’amore, che trova il suo vettore privilegiato, all’interno del sistema narrativo del romanzo, nella naturalità spontanea e inconsapevole del popolo, e in particolare della donna. Bisognerà verificare in che misura e in che forma questo valore sarà problematizzato nel resto dell’opera.

2. La critica al socialismo Però, dietro all’opposizione che si istituisce fra mortificazione e pienezza vitale, che pure s’impone con rilievo nel discorso narrativo, l’op­posizione fondamentale su cui si regge la Meccanica resta quella, già annunciata nel prologo, che si apre fra storica ideologia e naturalità irriflessa, ed è rappresentata essenzialmente, poiché Gildo è personaggio marginale, dai due poli antitetici di Luigi e Zoraide. È l’ideologia socialista di Luigi, nonostante la serietà e la rettitudine soggettive dell’operaio, riconosciute dal romanziere, il fattore negativo, perturbatore, il morbo che interviene a mortificare l’originaria “sanità” del popolo, incar­nata mirabilmente in Zoraide e nella sua spontanea aspirazione a realizzare la vita attraverso l’amore. Il fatto poi che il proletario socialista e autodidatta sia davvero malato di petto e fisicamente debole, in contrasto con la rigogliosa salute e la sensualità della sua sposa, non è che un’iperdeterminazione simbolica del sistema proposto dalla costruzione romanzesca. Ma vale la pena di notare come l’equazione fra ideologia socialista e malattia si trasferisca anche, con tutta godibile icasti­cità, in concreti emblemi: «Una licenza di quarantott’ore fra il deposito e il fronte, [...] risonò tutta d’una tossetta esangue di lui, e fu piena dei pacchi di numeri arretrati dell’ “Avanti!”», dove quei grevi pacchi, in omologia con la tosse, sono come l’obiettivazione del peso dell’ideologia che impedisce all’operaio di aderire alle istanze spontanee della vita. riportate da Isella nell’apparato critico dell’edizione della Meccanica in Romanzi e racconti II, cit., pp. 1216 s. Figuravano invece al termine del capitolo nella prima edizione del 1970, pp. 66-68).

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L’esasperazione an­tisocialista fornisce tuttavia a Gadda anche lo stimolo per un’autentica presa di coscienza critica, permettendogli, nelle acute pagine dedicate alla formazione professionale e ideologica di Luigi in seno alla Società Umanitaria, di portare alla luce le radici schiettamente borghesi di certo socialismo italiano all’inizio del secolo, impregnato dei tipici miti positivistici del filantropismo ottocentesco. Attraverso il ritratto del bravo operaio viene messa in evidenza un’eloquente serie di aspetti di quell’ideologia: in primo luogo l’ingenua e idealistica fede dell’eroe nella missione della Società, fondata sull’austera religione del dovere, del la­voro, del risparmio: Per il Luigino, la «Società Uma­nitaria» era stata come una casa alla quale disperata­ mente bussavano gli innominati fratelli d’una famiglia immensa: alla quale egli chiese il soccorso d’un’arte, da vivere ed esser degno di mangiar pane nel mondo degli uomini.

Con quella fede si fondono indissolubilmente l’impegno nello studio, fondamentale per l’elevazione morale e materiale del popolo («La sua adolescenza era trascorsa fra “lavoro e pensiero”») e una fiducia nel valore sociale del­l’istruzione, unita a un gene­rico filantropismo: Era felice di constatare che veramente bisogna crederci, anche uno “scettico” (sfoggiava la parola), nella bontà e nella necessità dell’educazione, dell’esempio, del guidare, del chiarire, del sorreggere negli anni buoni ogni nato, quando si forma, quando si «sviluppa», quando si è ancora in tempo. «Insegna­re» sentenziava, «val meglio che giudicare». «È più utile all’umanità», sentenziava, «il maestro amorevole che il giudice, la scuola che la galera». E concludeva: «Sinite parvulos venire ad me: lo ha detto il primo socialista del mondo».

E poi ancora il culto del progresso, della scienza, dell’igiene, dell’ordine, il mito del «volere è potere» e l’orgoglio dell’individuo che si innalza con le sue sole forze nella scala sociale: Gli anni migliori, per Luigi, avevano avuto uno scopo, un indirizzo; era­no stati un ardore, una volontà […] «Apprendere», lesse in un libro, «è autocrearsi». «Già» pensò: «e non lazzaronare dieci anni con il papà che ti mantiene» […] «Io sono un autodidatta», diceva al primo venuto, non appena gli paresse venuto il momento.

Su questo terreno si chiariscono allora altre mo­tivazioni profonde dell’identificazione istituita fra ideologia e mortificazione vitale, di cui è vettore Luigi, di contro alla sanità e alla prorompente sensualità di Zoraide: innanzitutto l’ideologia socialista nel caso dell’operaio è mortificazione della «vita» non solo per il suo complesso di principi politici aberranti, nell’ottica dello scrittore, ma anche nella misura in cui è permeata di spirito borghese: di quello spirito borghese per cui Gadda assume come specimen privi­legiato il modo di pensare e di vivere della “sua” bor­ghesia milanese, e verso cui ha un atteggiamento fatto al tempo stesso

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di insofferenza atrabiliare e di lucida scepsi critica. In secondo luogo quello spirito borghese assorbito dal proletario si traduce in una sfilata di frasi fatte, di stereotipi concettuali e verbali, che come sappiamo Gadda aborre perché impoveriscono e irrigidiscono la feconda molteplicità del reale e finiscono per inquinarlo con il falso. La vita della «conclusiva città», chiusa in un giro d’orizzonte angusto e gretto, sorretta dalla fede in pochi principi etici e sociali sclerotizzati in grame idées reçues, che insieme con una morale “vittoriana” contristano ogni esuberanza vitale, è ai suoi occhi la parodia e la grottesca falsificazione della vita vera, vissuta nella piena e libera espan­sione della vitalità e dell’amore, così come è la parodia di una vita sociale ispirata ad autentici valori civili, quelli che animavano la classe borghese nella sua età eroica. Per questo lo scrittore appunta implacabilmente sul­la pagina i luoghi comuni con le sue virgolette, e li allinea lungo il roman­zo quasi a comporre un flaubertiano Dictionnaire; e per questo le pagine sulla formazione professionale e ideologica del giovane operaio, ad opera di un’istituzione filantropica così tipicamente milanese come la Società Umanitaria, sono pervase dall’umorismo sottile ma caustico che filtra dai passi prima citati.

3. La problematicità della figura dell’operaio Ma quelle pagine non appaiono a una sola dimensione: anzi si presentano in una luce decisamente problematica, come in chiave problematica è tratteggiata la figura complessiva di Luigi Pessina. Al di là di ogni scepsi critica, il personaggio è osservato dall’autore con evidente simpatia. In primo luogo l’accanito impegno nello studio dopo la fatica del lavoro, il sacrificio e la rinuncia a ogni distrazione e a ogni godimento in nome della sete di sapere, accanto alla «mamma adorata che invecchiava», fanno sì che non abbia vissuto la sua giovinezza («così gli eran fuggiti, in un pensiero, i suoi giovani anni») e, se da un lato lo rendono un campione della mortificazione vitale, dall’altro gli creano intorno un alone malinconico di ascetico eroismo: e non si può escludere che l’autore si identifichi in qualche misura con il personaggio e proietti in lui aspetti della propria stessa esperienza biografica, della propria giovinezza trascorsa all’insegna dello studio e del sacrificio di ogni soddisfazione istintuale. In secondo luogo Luigi (come già il Carletto del Racconto italiano) è un puro, un ingenuo idealista, animato da una fede salda e ammirevole nelle sue idee, per limitate e sbagliate che siano. Anche se è ostile ai suoi principi politici, lo scrittore riconosce l’onestà e la sincerità con cui egli aderisce a quelle che crede verità, come la causa dell’Umanitaria («non perch’egli ne accettasse, come dall’esterno, un conforto e comandamento di bene, ma perché le idee e la fede da che scaturì quella furono a un tempo connaturata luce nella coscienza di lui, deliberata dedizione d’uomo povero e puro alla causa d’una creduta verità»). Per di più l’operaio, nonostante condivida pienamente tutta la campagna, per Gadda ignobile, condotta dall’«Avanti!» contro la guerra, non

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rifiuta di compiere il suo dovere militare e docilmente raggiunge il suo posto di combattente al fronte.9 Per di più Luigi è una vittima, segnata da un triste destino di malattia e di morte: viene mandato in guerra anche se reca evidenti i segni della tubercolosi, di cui ben presto morirà, e mentre combatte è anche tradito dalla moglie che gli preferisce l’atletico e affascinante studente borghese imboscato. L’atteggiamento dello scrittore nei suoi confronti anche per questo motivo ricorda quello verso l’operaio Carletto nel Racconto italiano, tradito dalla ragazza proletaria di cui è innamorato, che gli preferisce il nobile de Vendôme, ed è condannato parimenti a un destino di morte per mano degli squadristi. Gadda è sempre colmo di umana solidarietà nei confronti di questi proletari sfortunati e destinati al ruolo di vittime innocenti della crudeltà del mondo. Il segno più evidente dell’empatia dell’autore nei confronti dell’operaio socialista è la conclusione del capitolo III, tutta occupata da un’ampia analisi dell’interiorità del personaggio, che ne mette in risalto la profondità umana, l’elevatezza spirituale, la sensibilità delicata e lo rende meritevole del più alto rispetto e della più commossa pietà. Su queste pagine incombe costantemente l’ombra della morte, che conferisce ad esse una forte carica drammatica, elevandole quasi a una solennità tragica. Luigi, dopo la diagnosi frettolosa e superficiale, che però ha messo in luce l’infiltrazione tubercolare all’apice del polmone sinistro, col conseguente, amaramente beffardo consiglio, da parte del medico, di riposare, godere di aria e sole, mangiare bene ed evitare strapazzi, si trova ormai arruolato e in caserma. È ossessionato dall’idea dei progressi del male, che possono segnare «la tragica fine del processo morboso» quando la caverna scoprirà l’arteria: e «con l’estrema sensitività del predestinato» si vede già solo, di notte, destarsi senza più poter chiamare nessuno, «morir soffocato nella polla tepida di tutto il suo sangue». E certe definizioni mediche imparicchiate sui libri gli si rimescolano nella mente, «in una sarabanda paurosa di suoni e d’imagini», come «un galoppo vertiginoso, verso un baratro nero». L’alba mette in fuga questi pensieri tetri e li sostituisce con le consuete preoccupazioni politiche, ma viene a confortarlo l’idea di Zoraide dormiente, «a cui il roseo lume dell’aurora che reca su tutta la terra i più splendidi aspetti di giovinezza» porta «sogni meravigliosi». Il senso della visione si compendia in una formula lapidaria: «Zoraide era la vita». 9 In questo è l’antitesi studiata del cugino Gildo, che invece è presentato, con insistenza persino ridondante, come una figura assolutamente negativa, in cui si concentrano tutte le nefandezze dell’estremismo massimalista parolaio e sbruffone. Inoltre Gildo è laidamente libidinoso nel concupire la moglie altrui, la meravigliosa Zoraide, è un ladruncolo immischiato in loschi traffici ed è nel mirino di polizia e carabinieri; infine, vizio imperdonabile agli occhi di Gadda, è refrattario al dovere patriottico, nascondendo la vigliaccheria sotto la maschera ideologica del pacifismo e dell’antimilitarismo, e tenta di imboscarsi facendosi assumere come operaio in un’officina meccanica. Qui la sua turpe natura lo induce, sotto la spinta della gelosia, a scatenare un’aggressione contro lo studente amato da Zoraide, e poi, spedito al fronte, finisce per disertare, toccando così il culmine della nefandezza, ed è punito dal destino che lo fa morire sotto le bombe del nemico.

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Poi, quando si trova sul treno che lo conduce al fronte procedendo «come un funerale, adagio adagio», mentre i compagni inveiscono contro imboscati e interventisti, si ubriacano e infine cedono alla stanchezza e al sonno, Luigi si rannicchia in un angolo buio («Volle come pregare»). Il giovane operaio in uniforme allora passa in rassegna la sua vita e ne traccia come un bilancio. Piangendo riflette che il suo destino non era stato quello che meritavano «fede e ingegno, volontà, onestà». Si abbandona così a ingenue fantasie sulla funzione sociale e umanitaria che avrebbe potuto rivestire, se gli fosse stato concesso di leggere tanti libri, a suo agio: la sua voce sarebbe risuonata più forte, e i fratelli gli avrebbero detto: «Bravo Pessina! Tu sei un uomo dell’Umanità vera, dell’Umanità di domani», e forse la guerra non sarebbe neanche venuta: al centro dei suoi pensieri, in obbedienza alla fede socialista, c’è sempre non l’individuo singolo ma la salda convinzione del necessario ruolo collettivo del pensiero. Il commento del narratore a questo punto porta a livello esplicito la sua partecipazione umana e la sua simpatia, che superano ogni distanza culturale e politica: «Ingenuamente così pensava di sé, rimpiangendo i suoi sogni e le dileguanti speranze, ché dai più poveri cuori l’ultima ad uscire è l’illusione». Nonostante la coscienza dei limiti impostigli dalla sua condizione sociale, Luigi arriva persino, in nome di un’eroica dedizione al dovere e di un atteggiamento di inflessibile severità verso le proprie debolezze e manchevolezze, a incolparsi di non aver studiato abbastanza, lui che dopo un giorno di pesante lavoro andava sempre a letto con gli occhi stanchi e arrossati, mentre tutti nel quartiere erano a bere, a giocare o a dormire. Poi sfilano nella sua mente i dottori, bianchi nei loro camici, muti, senza misericordia: «La sua sorte gliel’avevano detta, per dieci lire. Erano come i libri veri, che costano dieci lire e dicono vere e tremende parole». I suoi pensieri allora, tradotti dal narratore, vengono innalzati a un tono di solenne fatalità: «E, secondo la sorte, ognuno s’incammina. Perché sua ventura abbia corso, e nessuno la impedirà». Attraverso sotterranee associazioni, la malattia evoca nella mente di Luigi i luoghi in cui i ricchi vanno a curarsi, il mare che egli non vedrà mai, i boschi sulle Alpi. A questo punto il narratore sovrappone di nuovo la sua voce a quella del personaggio, innalzando il tono verso il sublime lirico, indizio certo, ancora una volta, di una partecipazione emotiva e di una volontà di dignificazione dei processi interiori dell’umile operaio: La Liguria che dicevano sfavillante di sole, con il garofano e il basilico de’ terrazzi, con l’ulivo sul monte ed i sonanti pini d’attorno la solitudine de’ fari, sullo scoglio precipite al margine de’ favolosi giardini. […] Oppure dovevano esserci dei boschi sopra le Alpi: delle foreste immense, su di cui trasmigrano le nubi sognanti.

Luigi pensa che lui sarebbe andato a trovarne simili boschi, ma nel buio della foresta «s’incespicava forse in qualche cosa di molle»: ritorna così, lugubre e ossessivo, il tema della morte, anticipando la sorte effettiva che è in agguato nella guerra. Pagine intense come queste, che aspirano al livello del tragico, sono

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la prova più eloquente dell’alta dignità umana che lo scrittore, nonostante ogni polemica politica, vuole assegnare al personaggio proletario. Il discorso condotto su Luigi si può estendere al complesso delle pagine dedicate all’Umanitaria, che delineano il contesto storico in cui il personaggio si è formato, con la sua cultura e la sua mentalità: esse sono pervase da una pungente ironia nei confronti del filantropismo positivistico e benpensante che ispira la sua azione, ma di tale azione lo scrittore riconosce per altro verso le nobili motivazioni e tutto l’alto valore sociale, sicché la trattazione, al di là di ogni tessitura umoristica, assume in definitiva un carattere fondamentalmente elogiativo, che testimonia rispetto e persino ammirazione. È Gadda stesso a definire il proprio contegno verso l’istituzione, quando, scrivendo a Piero Gadda Conti il 14 novembre 1929, sottolinea che nel libro «c’è qualche tocco di umana simpatia per l’Umanitaria».10 Ancora più ampiamente spiega il suo atteggiamento verso la benefica istituzione in una nota stesa nell’ultimo quaderno dell’abbozzo, che, come osserva Isella, si direbbe destinata «ad accompagnare in pubblico il libro. Per una doppia giustificazione: in rapporto al clima politico nuovo, ma anche verso i sentimenti di chi nell’Umanitaria aveva creduto in tempi non lontani»:11 L’autore, a evitare possibili maldicenze, dichiara quanto segue: Non ebbe l’onore di conoscere le anime buone ed elette che dedicarono la lor vita alla causa del bene presso la Società Umanitaria; non militò ne’ partiti politici a cui l’Istituto, forse per la stessa sua indole, parve appoggiarsi, ma anzi per quanto con poco suo profitto ne’ contrari […]. Gli accenni più o meno umoristici non vogliono esser dileggio postumo (sarebbe vergognosamente il senno di poi) ma semplice affermazione di verità e diligente annotazione delle umane miserie. L’Autore dichiara comunque che tutti i sognatori in buona fede e quelli che sanno vivere e morire senza rubare possono sempre onorarlo della loro stima, quando il credessero, sicuri di esserne ricambiati.

Queste pagine, costituenti un ampio inserto che interrompe a lungo il fluire della narrazione (testimoniando, sin dalle prime prove dello scrittore, la presenza di quella tendenza irresistibilmente divagatoria e centrifuga che darà le prove estreme nelle opere della maturità: ma di ciò più avanti), vengono dunque a confermare e a potenziare la problematicità di quelle dedicate a delineare la figura del probo operaio autodidatta.

4. La polemica antiborghese Date queste radici borghesi del socialismo milanese di inizio Novecento, fatte oggetto dell’umorismo gaddiano, non c’è da meravigliarsi se, dopo la pole­mica 10 11

Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, cit., p. 12. D. Isella, Nota al testo della Meccanica, in Romanzi e racconti II, cit., p. 1196.

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antisocialista, nella seconda parte del libro viene decisamente in primo piano la polemica antiborghese. Difatti i temi su cui più vistosamente insiste ora il discorso del romanzo, assumendo come campione d’indagine un ti­pico nucleo familiare dell’agiata borghesia «gentilesca» ambrosiana, sono quelli stessi in cui prendeva corpo, nella prima parte, la critica al socialismo: la grettezza parsimoniosa, l’austerità “vittoriana”, la cristallizzazione della vita spirituale in angusti luoghi comuni e ottusi pregiudizi, cioè, in breve, la mortificazione della pienezza vitale. A questo punto però non è più possibile eludere il problema proposto sempre più insistentemente dal delinearsi del sistema ideologico del romanzo: diviene cioè necessario spiegare l’evidente rovesciamento di valori che si verifica nella Meccanica rispetto al Giornale, in conseguenza del quale il cultore della razionalità, della serietà dell’impegno civile, del rigore morale e degli ideali patriottici, trattando degli amori di Zoraide e Franco Velaschi si fa apologeta del vitalismo inconsapevole, oscuro, viscerale, del­la “natura” anteriore a ogni civiltà, spontaneamente amorale e soprattutto estranea ai valori di patria; e occorre chiarire perché riversi la sua corrosiva iro­nia sullo spirito borghese, sulla religione del dovere e del sacrificio, del lavoro e della parsimonia, sul culto dell’attività «conclusiva», dell’ordine e della precisio­ ne, dell’istruzione e del «volere è potere», bollando il tutto come mortificazione della «vita vera», proprio il Gadda che nel diario esaltava il «senso del sagrificio», «il desiderio e la passione [...] della creazione conclusiva, del lavoro proficuo alla gloria della nazione e alla sua saggezza», che si scagliava rabbio­samente contro il disordine e contro l’inefficienza del­la società italiana.12 Evidentemente, se il vitalismo e la libertà della soddisfazione istintuale sono proposti come valori, per Gadda non possono che essere valori relativi, e per contro la critica dello spi­rito borghese in nome della vita, della gioia, della na­tura e dell’amore, proiettati nella sana naturalità del popolo, è solo il primo livello di una polemica che ha motivazioni più profonde. Per averne una conferma esplicita basta leggere un passo che, sebbene notevolmente posteriore rispetto alla Mecca­ nica, risulta egualmente funzionale al discorso in essa condotto, se si tien conto della sostanziale stabilità nel tempo di un sistema ideologico come quello che sta alla base dell’iter letterario gaddiano: Codesto impeto-disciplina e’ si prolunga e dire’ si dissolve nella intera tua vita, e la pervade col sublime degli atti, singularmente premeditati, disciplinati e costruiti, e, per taluni, col sublime dell’opere, e talora col sublime delle renunzie e dell’olocausto di sé. È lo spirito eroico (con etimo da ἔρως, come eròtico): qual non vapora solo da le stragi e da la cenere de le battaglie, si anche da diuturna disciplina e mortificazione apparente: nel lavoro nel pensiero e ne l’opere. Mortificazione che è vera vita, perché illuminata da la lampade e dal liquore di Atena. Ed è tale questo impeto o impetizione eroica che a molti, mancatagli per uno accidente di natura o di storia quella donna a che avevano rivolto le cupidità migliori dell’anima, pur 12

Saggi, giornali, favole II, cit., p. 471, p. 616, p. 575.

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seguitarono in nell’impeto secondo, o impeto parallelo, o impeto non-carnale, o impeto eroico, o impeto sublimato e direi trascendente: colsono agli uomini que’ frut­ti di che, solo, la civiltà umana si regge.13

Se la «mortificazione» è «vera vita» quando è subli­mata nello «spirito eroico», appare chiaro che Gadda scaglia contro la borghesia la sua feroce critica perché la mor­tificazione vitale dominante la società borghese del suo tempo non trova la dovuta giustificazione e compensazione nella sublimazione eroica costruttrice di civiltà, a causa della decadenza che ha svuotato e ridotto a miseri luoghi comuni, incapaci d’ispirare e guidare ancora in modo autentico e degno l’azione, tutti quei valori, il senso della proprietà, della sfera privata, della famiglia, l’individualismo e l’atti­vismo realizzatore, la laboriosità, il culto del progresso e della scienza, dell’ordine, della misura e del decoro, l’austerità morale e il filantro­pismo, che erano un tempo (se storico o mitico è diffi­cile a stabilirsi) auree virtù civili, in grado di creare un armonioso equilibrio fra natura e ragione. Ed è egualmente chiaro, sempre se la «mortificazione» di­viene «vera vita» attraverso la sublimazione eroica, che c’è un senso più profondo in cui la realtà borghese è falsificazione della vita autentica, ed è il caso in cui la borghesia non sa più elevarsi al «subli­me delle opere», al «sublime degli atti, singularmente premeditati, disciplinati e costruiti», e che quindi Gadda si accanisce nella polemica antiborghese solo perché quella classe degenera rispetto al suo modello ideale e si mostra incapace di assolvere ai suoi compiti storici, alla sua missione di civiltà: come appunto i meschini Velaschi del romanzo, i genitori di Franco. Allora, davanti a questa mistificazione dell’ordine razionale e del perbenismo efficientista, a questa mortificazione vitale che non ha più alcuna motivazione e alcuna finalità, lo scrittore può fare appello al vitalismo, al libero godimento e alla spontaneità inconsa­pevole della “natura” come arma polemica in contrapposizione a quella falsificazione dei valori. Si può concludere perciò che la critica allo spirito bor­ghese e ai moduli di vita in cui esso si manifesta, ben­ché apparentemente sia condotta dal punto di vista di un vitalismo derivante da una forma di anticapitalismo romantico, cela pur sem­pre la critica da parte del borghese, che in quello spirito e in quei moduli crede fermamente, senza margini di dubbio, che è amaramente deluso al constatarne il miserevole degrado, e che rovescia su di essi la sua ironia o il suo furore solo perché li vede trasformati in grottesche e odiose parodie. Non stupirà allora di veder comparire col segno positivo, nel passo citato di Eros e Priapo, quel binomio «lavoro e pensiero» che nella Meccanica si legge nel catalogo delle più irritanti idées recues mila­nesi. Difatti questa seconda linea polemica non tarda ad emergere in piena luce, concentrandosi intorno a quel­lo che per Gadda doveva essere il banco di prova di una «vivente patria» matura e civile, la guerra, e che ancora negli anni 1924-29, in cui nasceva la Meccanica, restava per lui un nodo irrisolto di rancori, di ama­rezze, 13

Eros e Priapo. Versione originale, a cura di P. Italia e G. Pinotti, Adelphi, Milano 2016, p. 70.

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di esasperati conflitti ideologici e passionali. An­che su questo terreno borghesi e proletari si trovano accomunati nell’esecrazione dell’intellettuale interven­tista e nazionalista, a causa, questa volta, della loro sordità o, peggio, ostilità verso gli ideali della patria e della guerra. Tuttavia l’anti­patriottismo proletario è visto in una luce ben diversa da quello borghese: il rifiuto della guerra e l’estraneità all’idea di patria, nel caso dei proletari, derivano per Gadda dalle tare secolari dell’Italia, l’arretratezza ci­vile, la miseria e l’ignoranza, e non possono suscitare in lui, salvo i casi criminali come quello di Gildo, che una rabbiosa compassione («E fu insomma un miracolo di volontà e di lavoro metter in piedi qual­che cosa come un esercito in dieci mesi, magazzini vuoti riempirli, levar soldati e allinearli in quello sche­ma cosi poco neolatino ch’erano i reggimenti di linea, a certi tipi mettergli uno zaino in sulla gobba, un fucile tra mano»). Non meraviglia perciò trovare nel romanzo, come già nel Racconto italiano, la distinzione, tipica degli intel­lettuali nazionalisti, tra l’aberrante e corruttrice ideologia socialista, negatrice della patria, e le potenzialità positive, genuine e naturali del popolo in astratto, che proprio nell’ideale di patria, una volta liberatosi dalle insidie demagogiche, può trovare una nuova coscienza e un riscatto:14 La voce prima della nuova coscienza d’un popolo veniva finalmente ad affermarsi, con l’angoscia d’una crisi d’animi che certo rimarrà tipica nella storia d’Italia [...]. Sarebbe nata un’idea, destinata a contrapporsi con sacrifìcio e sangue, a tant’altre [...]. Quell’idea, dalle parvenze del lì per lì, si chiamò intervento: i suoi patroni interventisti o, nel linguaggio degli avversari, guerrafondai, avventurieri della violenza, guerristi. Né più disarmarono. Né più li mollò il noto quotidiano di che il Pessina era abbonato, e diligente lettore. […] certo però la paura vera fu una, e in fondo fu la più logica: quella che l’aspetto reale della patria potesse disvelarsi ai cuori e alle coscienze degli umili, vale a dire dei tartassati, dei farneticanti e degli analfabetoidi: quella che l’Italia potesse apparir loro non già un’allegoria neoclassica o una metternichiana espressione geografica, non una pentola fessa donde arraffar coscritti antimilitaristi verso fetenti caserme, ma final­mente un fatto, una vivente nazione. Allora gli apostoli rischia­vano il collocamento a riposo. Il «tragico evento», la «carneficina», eran deprecati non tanto in sé, quanto per le loro presu­mibili conseguenze politiche: prima e più odiosa il necessario accostamento delle plebi all’idea di patria.

Per contro la sordità borghese alle ragioni ideali della guerra non ha attenuanti agli occhi di Gadda, poiché nasce solo da motivazioni meschine ed egoistiche, il timore per la vita, la famiglia, la tranquillità, gli affari, o peggio ancora può giungere, all’estremo opposto, a mascherarsi di interventismo e di patriottismo solo ai fini della speculazione sulle forniture militari:

14 Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Samonà e Savelli, Roma 19662, pp. 70-101.

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Senti­vano già nelle ossa il rincaro delle patate; e, renitenti a’ disagi, alcuni brontolavano nella poltrona, divenuta a un tratto come un sacco di chiodi. Già vedevano altri andare a remengo gli affari, prendere il crepacuore alla vacca, languir disertata la vecchia, onorevole bot­tega. I banchieri misero interesse in certe officine mec­ caniche di che mai non avrebbero pensato di doversi occupare.

Quindi ciò che sollecita l’indignazione polemica di Gadda è ancora e sempre il fatto che la borghesia italiana ha tradito o degradato i valori che l’avevano guidata nel suo momento eroico e risorgi­mentale, nel suo slancio ascensionale e costruttivo, e si dimostra inetta a ricoprire il suo ruolo storico di classe dirigente, di elemento coesivo di una «vivente nazione» ordinata e civile. Tutta la seconda parte del romanzo, ora attraverso l’invettiva diretta, ora attra­verso la mediazione delle situazioni narrative, insiste su questi temi. Basti ricordare le pagine dedicate alla mattutina lettura del giornale da parte del notaio Velaschi, costruite sul una stridente antitesi: da un lato l’egoismo e l’indifferenza del borghese che, quando è costretto a fissar l’attenzione sulla guerra, si preoccupa solamente che essa non tocchi i suoi figli e ne rimuove deliberatamente l’aspetto reale, creando­sene un’immagine rassicurante, modellata sulle illu­strazioni di maniera, dall’altro lato l’evocazione della realtà epica ma insieme atroce della distruzione e della morte.

5. La vitalità energica del giovane eroe borghese Una volta posta, sia pure con le opportune distinzioni interne, l’omologia fra proletariato socialista e borghesia degenere, è indispensabile al sistema narrativo del romanzo che a livello borghese si reduplichi l’opposizione che si determinava a livello proletario fra Zoraide e Luigi, fra vita «vera» e «finta»: difatti si trova puntualmente che, di contro alla falsità del mondo borghese dei Velaschi, il polo dell’autenticità è incarnato dal diciottenne figlio Franco, e che tale autenticità si identifica, in antitesi alla ristrettezza mentale, alla grettezza, all’austerità “vittoriana” della famiglia, con la forza, la salute, la spontaneità fisiologica ed irriflessa del vivere.15 Il passaggio al momento positivo dell’opposizione è segnato, come di consueto, dall’elevazione del tono, che punta sensibilmente verso il livello sublime, verso l’enfasi vibrante dell’encomio: Era alto, magro, fortissimo: con caviglie di tendini soli, con gambe dove si disegnavano i fasci del cestatore o del disco­bolo; con un torace ampio e lineare quasi

15 L’opposizione è ripresa in uno dei più più rilevanti dei racconti riuniti da Gadda negli Accoppiamenti giudiziosi, San Giorgio in casa Brocchi (1931), che è tutto giocato sull’antitesi fra l’erom­pere naturale degli istinti sessuali in un adolescente della bor­ghesia patrizia e l’ambiente austero e mortificante della fami­glia, e si conclude con l’iniziazione del giovinetto da parte della rigogliosa serva di origine contadina, che rappresenta il «turgido e atroce fiore della vita» in un mondo angusto, soffocante, falso nella sua ipocrita pruderie.

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nell’anelito del­l’Adamo, risorgente dall’ombra e dai misteri cupi della Sistina; dove, a ogni volgersi, a ogni distendersi, mordeva sopra le costole dilatate il polipo sagace d’una muscolatura implacabile. Che, dipartitasi come da un ignoto suo centro, la cervice o la schiena, irraggiò pronta a ogni più rapido moto nella palestra, nella piscina.

È un ritratto che richiama irresistibilmente, specie con gli accenni al «cestatore» e al «discobolo», il gusto di certe decorazioni statuarie degli stadi dell’era fascista.16 In effetti forza e salute non sono che i corollari della funzione essenziale del personaggio, che è quella di incarnare un mito di virilità energica, sicura, volitiva e dominatrice («Nel viso era magro, le ossa duramente salienti, le labbra turgide: una fiammata di capelli so­pra la fronte. Guardava fermo le persone, salvo che i maschi, de’ quali non si curava affatto, neanche in isbaglio»: ritratto, di nuovo, dal gusto iconografico inconfondibile). Franco è insomma un piccolo superuomo fascista in embrione, che affetta con ardita noncu­ranza la sua superiorità e il suo dispregio per le creature inferiori e per gli impotenti difensori dell’ordine e della morale. In questo riprende certi aspetti del Grifonetto del Racconto italiano, e al pari di Grifonetto può essere visto come proiezione compensativa, da parte dell’autore, della propria deprecata insufficienza nella volontà, se si pensa che nel Giornale il giovane Gadda lamenta proprio che gli mancano «l’energia, la severità, la sicurezza […] proprie dell’uomo che non pensa troppo, che non si macera con mille considerazioni, che non pondera i suoi atti col bilancino, ma che agisce, agisce, agisce a furia di spontaneità e di estrinseca azione volitiva naturalmente eseguita».17 La superiorità e il dispregio dell’eroe per gli inferiori si esprimono, a dare il tocco conclusivo in questo sistema di segni, mediante il dinamismo della macchina, di cui il ragazzo è appassionato cultore (e da cui, tra l’altro, proviene anche il titolo del romanzo): Franco, con l’intelligenza e l’esperienza del meccanico, con la propedeutica della moto e con l’altra anche meglio delle macchine già guidate fuoravia imbarcando amici e ragazze, in barba a tutte le barbe: e cosi reciso e felice, insomma, in esprimere di sé

16 Giorgio Patrizi sottolinea il «composito immaginario gaddiano, nutrito di elementi classici tradizionali ma non estraneo nemmeno alla pseudo classicità primonovecentesca, quella che fornirà l’immaginario visivo alla retorica giovanilitica del regime» (G. Patrizi, Gadda, Salerno Editrice, Roma 2014, p.120). 17 Saggi giornali favole II, cit., p. 631. Che Franco Velaschi sia ammirato dallo scrittore per la sua prestanza fisica e la sua baldanza giovanile può essere confermato dal fatto che in lui si proiettano aspetti della figura del fratello Enrico, da Gadda adorato e idoleggiato proprio per la sua esuberanza vitale, in contrasto con la propria debolezza e la propria insicurezza. A tal proposito, cfr. E. Gioanola, L’uomo dei topazi. Saggio psicanalitico su Carlo Emilio Gadda, Il Melangolo, Genova 1977, p. 31. Si può notare una certa distanza fra questa pagina del Giornale e quelle del Quaderno di Buenos Aires in cui Gadda pochi anni dopo esalta non l’attivismo fine a se stesso del fascismo ma la sua concretezza pragmatica, che non esclude il pensiero e l’analisi. Ma occorre tener conto delle condizioni psicologiche in cui si trova lo scrittore al momento di usare quelle parole nel diario, schiacciato dal senso di frustrazione provato al fronte.

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la sua vita, [...] non faticò molto a raggiungere quella inimitabile performance e quasi apollinea magnificenza del dispregio, per che il guidatore di razza vien considerando le anatre ed i passanti come gallinacei superflui, ben merite­voli del loro fato immite, vista la povertà di spirito che li affligge e la goffa lentezza onde dimenano il loro inutile deretano [variante: culo], sparnazzando verso inesistenti prode a salvezza con coccodè beoti. Podagrosi, tentennanti, curvi in avanti, con bocche aperte e penzoloni la lingua, con occhi melensi sbarrati dal terrore e gambe larghe nella paralisi dell’incertezza, inveleniscono poi, a colpo fatto, di filantropia inacetita e seguitano ad argomentar prudenze e pianpiani, puritani scandolezzati, impotenti causidici.

Dove la deformazione grottesca concentra la sua forza sull’opaca bêtise del quotidiano, a cui l’eroe si contrappone come vagheggiato antidoto, bêtise inevitabilmente condensata in un’immagine del «barocco», su cui si fissa con prodigiosa abilità mimetica l’irritata e ma­niacale attenzione dello scrittore («la goffa lentezza onde dimenano il loro inutile culo, sparnazzando verso ine­sistenti prode a salvezza con coccodè beoti»):18 ma occorre riconoscere che la deformazione umoristica coinvolge inevitabilmente anche la figura dell’eroe, e di questo elemento andrà tenuto conto nel bilancio complessivo. Se da un lato Franco si contrappone all’inautenticità borghese dei genitori e alla loro povertà vitale, d’altro lato, a confermare il sistema di opposizioni e omologie che abbiamo individuato, costituisce soprattutto, la studiata antitesi del proletario Luigi, e non solo come incarnazione della forza e della salute di contro alla malattia e alla debolezza, ma anche come immedia­tezza fisiologica, irriflessa e “naturale” del vivere di contro alla tabe ideologica che, facendo intristire sui fogli dell’«Avanti!» e sui testi del socialismo il povero operaio autodidatta e nutrendo la sua mente di idee ridotte a luoghi comuni, ne contamina la spontanea energia vitale: come perfetta­mente interpreta, nella sua innocenza, Zoraide: «An­che suo marito studiava, oh! questo sì: ma studiando intristiva: certi studenti invece le pareva che studian­do si facessero saldi, dovevano avere una fibra, un’in­telligenza speciale, perché eran floridi e biondi, come cherubini disoccupati». Perciò l’amore che nasce tra Franco e Zoraide, saldando i due piani omologhi e creando una sfera di autenticità vitale che tra­scende l’inautenticità delle due classi antagoniste, viene a completare, in rigorosa circolarità, un sistema fondato su precise simmetrie. Certo anche Franco, come Zo­raide, è totalmente indifferente a quella guerra in nome dei cui valori ideali Gadda si accanisce contro borghesi e proletari. Ma l’amore gio­vanile come affermazione di vita, gioia e sanità costi­tuisce per Gadda una sfera di valore in 18 È questo un emblema del «barocco» prediletto da Gad­da, come testimonia l’immagine gemella del Pasticciaccio: «Dando di clacson addosso a un oco, il quale indugiava a paperar di culo nella via... » (Romanzi e racconti II, cit., p.192), dove il verbo assoluta­mente tautologico indica la volontà di rifare il verso alla pura presenza fisica di un oggetto, isolato in maniera accidentale nel campo del fenomenico, ma di per sé oltraggioso ed irri­tante nell’ostentazione della sua ontologica stupidità. Un em­blema affine, ed altrettanto caro a Gadda, è quello spesso ricor­rente delle galline: basti pensare all’interminabile pagina de­dicata nel Pasticciaccio alla defecazione della gallina guercia (v. oltre, cap. VI, p. 223 s.).

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certa misura auto­sufficiente, che ha in sé una sua giustificazione e una sua verità, e perciò può essere vagheggiata, se non come il patriottismo, in una forma simile: amandosi, Franco e Zoraide raggiungono un perduto paradiso di pienezza vitale che si contrappone alla miseria presente, in certo qual modo come vi si contrappone la guer­ra in cui Gadda proietta le sue speranze e le sue aspirazioni ideali.

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6. La problematicità dell’eroe vitale Però è necessario approfondire il discorso e precisare chiaramente che Franco e Zoraide non costituiscono solo, in quanto portatori del valore della vitalità naturale, il polo positivo dell’antitesi con il socialista Luigi, che rappresenta invece quello negativo dell’ideologia storica: la loro fisionomia e la funzione che ricoprono nel sistema del romanzo sono più complesse e problematiche, come è giusto aspettarsi da uno scrittore quale è Gadda. Se in Franco spiccano la vigoria fisica e l’energia giovanile non mortificata, esistono pur sempre nel personaggio evidenti aspetti negativi, che non vanno sottovalutati. Innanzitutti il suo disprezzo totale per i libri e lo studio, «per occuparsi dalla mattina alla sera di macchine, di motori, di motociclette…»: come afferma compiaciuto il padre, «dice che è stufo: stufo di marcir tutta la vita sui libri. […] Insomma non vuol più saperne di scuola, né di professori. Dice che noi in Italia si studia troppo e diventiamo tutti cretini». È vero che tale rifiuto preserva lo studente dall’intristire sui libri come il povero operaio autodidatta di cui è il contraltare e gli consente di espandere senza remore la sua forza vitale, però un simile atteggiamento ovviamente non può non pesare nella valutazione dello scrittore, che nel Giornale si compiaceva di trovare cresciuti in sé «il desiderio e la passione dello studio, dell’analisi e della indagine»,19 e che dei libri, dello studio e dell’attività intellettuale ha fatto una ragione di vita, spesso in conflitto con il lavoro ingegneresco a cui era obbligato: l’antitesi che si viene a creare con la gioventù studiosa e seria dell’operaio, fatta tutta di impegno e sacrificio (in cui, ribadiamo, Gadda chiaramente proietta la propria esperienza autobiografica), non lascia dubbi sul sistema assiologico che la sottende. Il distacco critico dello scrittore nei confronti del giovane si manifesta anche attraverso l’ironia per nulla bonaria, anzi decisamente corrosiva, con cui utilizza le parole compiaciute del padre, ironia che non si affida ad interventi espliciti e diretti, nasce invece dal semplice contrasto di quelle parole e di quelle idee inaccettabili con la presenza muta ma ben avvertibile dell’autore implicito. In secondo luogo la guida spericolata e le corse in motocicletta saranno sì il segno di una superiorità e di un disprezzo per i mediocri benpensanti, ottusi difensori dell’ordine e della moralità borghese, però se si pensa che la corsa folle e il fracasso delle motociclette e delle auto sono uno dei temi ossessivi su cui, 19

Saggi giornali favole, II, cit., p. 616.

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negli altri libri, si concentra il furore di Gadda verso la degenerazione della realtà moderna, Franco appare in un’altra prospettiva: basti ricordare le invet­tive lanciate nella Madonna dei Filosofi ed in Dejanira Classis contro le automobili «polverose e assordanti» oltre che «fanfaronesche» dei «pervenuti» e profittatori di guerra e contro le «sparanti motociclette»,20 e le pagine dedicate nell’ Adalgisa alla «pedente e sparacchiante meccanica del più triviale nove­cento».21 In effetti, come si osservava, il grottesco della scena dei vecchi pedoni terrorizzati dalla corsa del giovane non può non ritorcersi anche sull’eroe stesso, che viene inevitabilmente coinvolto nella generale atmosfera umoristica: segno che il distacco critico di Gadda colpisce anche lui. È evidente che Franco non può essere considerato da un’unica prospettiva, ma che dall’autore viene osservato contemporaneamente da prospettive diverse, persino opposte, che si fondono insieme problermaticamente. Ma l’aspetto più decisamente negativo del personaggio di Franco è che accetti senza batter ciglio, senza porsi il minimo problema di coscienza, che la famiglia influente tenti in tutti i modi di imboscarlo, facendolo assumere come operaio in un’officina meccanica. Nonostante che il giovane sia portatore comunque di altri valori, il fatto che sia indifferente agli ideali di patria e che rifiuti di compiere il suo dovere in quella guerra che Gadda ritiene l’ultima guerra del Risorgimento, da cui deve nascere una «vivente nazione», non può non subire un giudizio negativo. Uno dei motivi centrali del romanzo è proprio la polemica contro il fenomeno degli imboscati, che Gadda ritiene oltremodo deleterio per il morale delle truppe combattenti e per il buon esito della guerra. La sua importanza è testimoniata dalla già citata lettera al cugino Piero Gadda Conti, in cui, nel difendere il suo romanzo da eventuali accuse di antipatriottismo per le critiche rivolte alla condotta delle operazioni belliche, lo scrittore adduce come prova proprio «il sarcasmo contro gli imboscati», che «rivela l’amor di patria».22 Poi, scoperto e spedito al fronte, Franco compie un’impresa coraggiosa e riceve anche una medaglia: però quel gesto di portare i feriti all’ospedale sotto l’imperversare della bufera e di salvare un camion in panne sotto il fuoco nemico più che da vero eroismo nasce dalla sua irruenza spericolata e irresponsabile; non solo, ma proprio al termine del romanzo, mentre i commilitoni combattono e muoiono sulla montagna, Franco in città si gode l’amore della sua Zoraide. Va anche soppesata attentamente la sua battura finale: «“Meno male che abbiamo schivato la grana!” disse invece, con quel suo profondo buon senso, tradizionale del resto in tutta la sua famiglia». Se intendiamo correttamente il passo, del resto di non facile interpretazione, la «grana» è proprio la battaglia, quindi la battuta suona di un notevole cinismo, segno di indifferenza verso chi diversamente da lui 20 Dejanira Classis, in Romanzi e racconti II, cit., p.1049; La Madonna dei Filosofi, in Romanzi e racconti I, cit. p. 87. 21 L’Adalgisa, in Romanzi e racconti I, p. 485. 22

Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gada, cit., p. 12.

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rischia la vita o la sta perdendo. E comunque l’accomunare il «buon senso» del giovane a quello tradizionale della sua famiglia, contro cui si appunta implacabile la satira di Gadda, ci sembra piuttosto eloquente, a indicare il distacco critico dell’autore dal suo eroe.23 Anche per questo aspetto, dunque, positivo e negativo convivono nel personaggio in forma problematica.

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7. La problematicità di Zoraide Ma una problematicità analoga coinvolge anche Zoraide. Se da un lato, come si è visto, la giovane sposa è portatrice dei valori di una naturalità spontanea e di un eros non mortificato, per altro verso non mancano nella sua raffigurazione molti aspetti che la collocano verso il polo negativo del sistema costruito dal romanzo. Zoraide è totalmente estranea ai valori della patria, tutta chiusa com’è nel suo universo privato e sentimentale: e anche se, come si è detto, la libertà dell’eros per Gadda può in certa misura compensare la mancanza di partecipazione civile e può essere contemplata con favore e con compiacimento, il patriottismo resta comunque il valore supremo, irrinunciabile, e la sua mancanza non può trovare totale indulgenza. Senza contare che, tacitando facilmente ogni scrupolo morale, Zoraide tradisce il marito mentre questi sta rischiando la vita lontano da lei, al fronte. E il poveretto, in fin di vita, trascinatosi disperatamente sino alla casa dove la moglie è ospite della zia, la scopre proprio a letto con il suo amante, e muore sotto i suoi occhi in un ultimo, terribile accesso di emottisi: una scena fortemente drammatizzata, che, insieme con la pietà per la vittima del tradimento, tende a mettere in luce l’irresponsabilità colpevole della donna nel mancare ai propri doveri. Inoltre Zoraide si mostra succuba della mitologia del peggiore sentimentalismo, accattato da chissà quale lettura di romanzi popolari, presentandosi come una sorta di Bovary proletaria. È il caso allora di rileggere l’ampio passo dedicato ai «disperati sogni» della sposa frustrata nel suo bisogno d’amore e di lusso. L’autore, al di là degli impulsi all’identificazione, per cui proietta sul personaggio femminile i suoi conflitti con la realtà presente e la sua ansia di fuga in un mondo ideale, non manca di esercitare l’ironia, mediante i suoi straordinari mezzi linguistici, su quei sogni ingenui ma anche prigionieri di schemi stereotipati e risibili. L’indiretto libero tramite cui i sogni sono espressi non è una trascrizione pura e semplice dei discorsi interiori della donna proletaria, che rispetti l’idioletto peculiare di un soggetto parlante di basso livello culturale; al contrario, il passo presenta una notevole complessità di piani, come è abituale nella prosa gaddiana

23 Alberto Godioli definisce «manzoniana» l’ironia di queste righe conclusive, «dove il narratore finge di delegare a Franco Velaschi la morale del romanzo. […] La fittizia adesione al “buon senso” del personaggio è la stessa che Gadda, fin dagli incunaboli dell’Apologia, rileva nel finale dei Promessi sposi» (A. Godioli, La «scemenza del mondo». Riso e romanzo nel primo Gadda, ets, Pisa 2011, p. 94 s.).

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e come si è già avuto modo di sottolineare nelle pagine del Racconto italiano. Risalta infatti, proprio nelle zone dell’erlebte Rede, una preziosità del dettato, sia a livello del lessico sia a livello sintattico, che tende a vertici di tensione lirica. Sembra plausibile ipotizzare che tale tensione, nelle intenzioni dell’autore, oltre che veicolo dell’identificazione sia anche parodica nei confronti dei sogni della giovane, che ricalcano schemi sentimentali, situazioni e scenari tipici di certa rugiadosa letteratura rosa, e la parodia risulta proprio dall’enfatizzazione estrema, giocata con superiore maestria formale, del linguaggio liricamente Kitsch di quella letteratura. La conclusione che è legittimo ricavare è che la parodia e il rifare il verso enfatizzando trascrivono qui un distacco ironico e critico dell’autore dagli abbandoni della sua elementare creatura e dalla sua povertà culturale, debitrice degli schemi passivamente introiettati di una diffusa mentalità popolare. La riprova viene da altri passi a lei dedicati. Persino in quelli riportati all’inizio, in cui più si manifesta l’ammirazione entusiastica del narratore per la carnalità esuberante della splendida giovane, compaiono continuamente sottolineature ironiche, che conferiscono al racconto un taglio umoristico. Basta una rapida campionatura: Era seduta in un certo modo succinto e piccante da far venire l’acquolina in bocca a’ suoi non pochi ammiratori, oltreché ai più inveterati buongustai; ma lì non ce n’era nessuno. Si levò certi filuzzi del ricamo che le si eran posati qua e là nella veste, ma soprattutto in quella regione di essa che una floridezza proterva rendeva come turgida d’ogni possibilità, così almeno interpretavano gli specialisti. Da quel tristo specchio l’immagine femminea di Zoraide risfolgorava per i più cupi romanzi: un d’annunziano in ritardo ci regalerebbe seduta stante il suo spropositato capolavoro. …aveva piantato nello specchio due occhi intenti, iridati d’oro e di cénere, perfidamente taciti e calmi: cui lo specchio si dava a riprodurre implacabile, preso da un attacco di zolianesimo, funzionario della meticolosa analisi, fotografo de’ lunghi cigli e delle lor ombre d’amore: mentre se fosse stato un uomo, magari anche un novecentista, la fotografia sarebbe riuscita catastroficamente sintetica.

Sono tutti segnali inequivocabili del distacco critico dell’autore nei confronti di un personaggio per altri aspetti portatore di indubbi valori e fatto oggetto di un lirico vagheggiamento. La pagina di Gadda, nella sua problematicità, è sempre estremamente complessa, costruita su tanti piani spesso fra loro contrastanti, ricchissima di sottili sfumature, a volte ai limiti dell’inafferrabilità e dell’indefinibilità. Tirando le somme, si può forse formulare l’ipotesi che da un lato lo scrittore originariamente sia partito con l’intento di condurre una polemica contro ogni manifestazione di scarso senso nazionale, quindi contro il fenomeno degli imboscati

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e contro l’indifferenza verso la guerra, che poteva caratterizzare sia lo borghesia agiata come il popolo lavoratore, dall’altro si sia mosso con la volontà di esprimere le sua avversione contro il socialismo, contro il suo antimilitarismo, contro gli stereotipi della sua propaganda e la sua falsa demagogia. Però Gadda è uno scrittore troppo consapevole della complessità inestricabile del reale, per cui nella concreta stesura del romanzo non si arresta alla polemica politica e moralistica, che avrebbe dato luogo a un racconto a una sola dimensione, fissato in rigidi schemi: essenziale per lui è esaminare tutte le facce di quella realtà complessa. Di conseguenza, pur non rinunciando a presentare da una prospettiva critica severa l’indifferenza patriottica di Franco e di Zoraide, sa mettere in luce anche il lato positivo del loro rapporto, facendone i campioni di una rivendicazione della pienezza ed esuberanza vitale, dell’immediatezza gioiosa del vivere, contro una società gretta che reprime l’espandersi della vita, il diritto alla libera affermazione dell’eros giovanile. Quindi, al di là di ogni polemica, non può evitare di vagheggiare la spontaneità naturale, la sanità, l’energia dei due giovani.24 Lo stesso avviene con l’operaio socialista. L’antisocialismo spinge Gadda ad accanirsi contro la sequela di luoghi comuni e di stereotipi mentali tipici del socialismo, tanto più che spesso ricalcano quelli della detestata borghesia milanese e si scontrano con gli ideali patriottici. Anche in questo caso la polemica poteva risolversi in un pamphlet inteso a propagandare le idee contrarie, quindi simmetricamente schematico e sterile: invece lo scrittore sa aprirsi a considerare con simpatia l’autenticità umana e la purezza di cuore del probo e studioso operaio, segnato da una sorte crudele, e sa ricostruire con eguale simpatia, seppur venata di ironico distacco, l’ambiente storico in cui il giovane si è formato. E anche in questo caso ne scaturisce un’immagine a più dimensioni, capace di riflettere le molteplici facce di una realtà complessa. Il nuovo romanzo, che prende avvio con la stesura di un primo capitolo nello stesso 1924 in cui Gadda lavora al progetto del Racconto italiano, prosegue dunque sulla stessa strada di una rappresentazione problematica della realtà sociale contemporanea. La problematicità non coinvolge la rappresentazione della famiglia Velaschi, ma si può capire perché: in tal caso non si dà complessità di piani, è quella borghesia stessa a essere a una sola dimensione, fissata e irrigidita nei suoi meschini 24 Maurizio Grande, criticando tesi esposte nella nostra lontana monografia (Carlo Emilio Gadda, Mursia, Milano 1972), sottolineava la presenza esclusiva di un duro atteggiamento di condanna dello scrittore verso Franco e Zoraide, negando recisamente la presenza di una sua ammirazione per la vitalità giovanile dei due personaggi (M. Grande, La «meccanica» di un mito, in Aa. Vv., L’alternativa letteraria del ’ 900: Gadda, Savelli, Roma 1975, pp. 203-210). Grande aveva ragione nel sottolineare l’univocità di quella lettura, che considerava solo l’aspetto positivo dei personaggi, e difatti nella lettura odierna abbiamo cercato di problematizzare le prospettive, portando alla luce anche l’atteggiamento critico e polemico dello scrittore nei loro confonti. Restiamo tuttavia convinti che nonostante tutto li voglia presentare in una luce anche positiva. Concorda sostanzialmente con la nostra interpretazione R. Luperini, Il Novecento, Loescher, Torino 1981, p. 501.

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schemi mentali e comportamentali, per cui risulta impossibile allo scrittore individuare un’altra faccia che lasci apparire una qualche positività. Ma l’assenza di problematicità è compensata dalla felicità di una satira corrosiva. Il personaggio meno felice resta Gildo, il delinquente e disertore fisicamente e moralmente ripugnente: in lui si concentra una quantità incredibile di nefandezze, che ne fanno davvero una figura a una sola dimensione, la cui infamia iperdeterminata lo riduce ad essere un mero exemplum negativo di un’acre polemica. Ma è un personaggio che tutto sommato riveste un ruolo secondario.

8. I procedimenti della costruzione narrativa Documento acquistato da () il 2023/04/27.

8.1. Il Dictionnaire dei luoghi comuni Per un altro verso, nell’impostazione del racconto, La meccanica, in quanto compagine narrativa sostanzialmente compiuta e ampiamente articolata, sviluppa procedimenti narrativi che erano già presenti nel Racconto italiano, per quanto in misura embrionale, data la frammentarietà e l’incompiutezza dell’abbozzo, e apre la strada alle costruzioni più complesse dei romanzi della piena maturità. I fenomeni che ci interessa mettere in evidenza sono: la mimesi critica dei luoghi comuni e delle idee ricevute, sia dei personaggi borghesi sia di quelli proletari, la tendenza centrifuga e divagatoria, la fissazione per così dire “ipnotica” su singoli particolari del reale, apparentemente insignificanti, e l’uso dell’enumerazione caotica. Si è già sottolineato nel Racconto italiano come Gadda, per manifestare il suo atteggiamento critico impietosamente caustico verso luoghi comuni e idées reçues, rivelanti angustia mentale, meccanica passività ripetitiva, poverà culturale, bêtise, pregiudizi ottusi, si limiti a registrare con impassibile crudeltà le parole e i pensieri dei personaggi, senza alcun intervento giudicante, in modo che attraverso la pura mimesi la nefandezza si denunci da sé. Nella Meccanica il procedimento si fa più consistente dal punto di vista quantitativo e accresce ulteriormente la sua forza corrosiva. La poetica sottesa alla compilazione di questo ideale Dictionnaire (che poi Gadda perseguirà strenuamente lungo tutto il suo itinerario narrativo) è enunciata nel passo della Meditazione breve circa il dire e il fare (1936), in cui sono lodati quegli scrit­tori che «levano talora l’edificio del giudizio sopra una sola frase o parola accattata sagacemente e poi diabolicamente inserita nel testo, a dileggio ed a confusione de’ frodatori [...]. Il loro scherno e la loro polemica, in questi casi, hanno una radice che si potrebbe dir filologica: ed è radice diritta. La frode si rivela dal suo nome, come il ladro dal marchio che gli è stato impresso a fuoco sulla fronte: ed essi, per denun­ciare la frode, ne danno a conoscere il nome».25 La stessa tesi è ripresa anche in Lingua letteraria e lingua dell’uso (1942): «Vi furon genti 25

Cfr. I viaggi la morte, in Saggi giornali favole, I, cit. p. 452.

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e persone individue che seppero benissimo irridere alle fole con il linguaggio delle fole medesime. […] Rifare il verso! quali sottili misure si dimandano per una cotanta operazione!».26 Può ancora soccorrere la nota che sottolinea la perfida mimesi dei discorsi della borghesia milanese in Quattro figlie ebbe e ciascuna regina (1942):

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In questo disegno milanese «su cartone vecchio», alla tentata rappresentazione di un «interno», si sono voluti adibire, a tratti, i modi mentali e i modi idiomatici propri de’ personaggi che in quell’interno esagitavano il loro spirito vitale. L’orditura sintattica, le clausole prosodiche, l’impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio, devono perciò ritenersi funzioni mimetiche del clima, dell’aura di via Pasquirolo e del Pontaccio: che dico, dell’impetus e dello zefiro parlativo i quali dall’ambiente promanano, o prorompono. E ciò non soltanto nel dialogato, ma nella didascalia e nel contesto in genere, quasicché a propria volta l’autore si tuffi nella bagnarola e nell’acqua medesima ove poco prima erano a diguazzare i suoi colombi.27

È forse il caso più evidente in cui il linguaggio gaddiano, nella sua particolarissima qualità mimetica, assume un’acuta funzione critica. Si è già avuto modo di esemplificare questo uso a proposito della sequela dei discorsi di Gildo al capitolo I, che riproducono tutti gli stereotipi della propaganda socialista, in particolare contro la guerra, il militarismo e la borghesia. Ma luoghi comuni analoghi ritornano sulle labbra di Luigi, come sappiamo assiduo e diligente lettore dell’«Avanti!», che per lui è fonte di verità come il Vangelo e di cui ripete religiosamente frasi e concetti: solo che mentre Gildo nel pronunciare quelle frasi ostenta l’atteggiamento tracotante e sbruffone del delinquente da bassifondi, e quindi è evidentemente bersaglio di un’esecrazione senza possibilità di appello, Luigi nel proporre quei luoghi comuni rivela tutta la sua sincera, ingenua fede di puro di cuore, e ciò fa sì che essi siano registrati con quella indulgenza compassionevole e quella ironica bonarietà, venata di fondamentale simpatia, che come si è verificato connota l’atteggiamento dello scrittore verso il bravo operaio. Per cui, più che l’indignazione e il crudele compiacimento nell’appuntare quelle che Gadda ritiene assolute idiozie, si può percepire il sorridente distacco del narratore, che vuole indurre analogo atteggiamento nel lettore. Ad esempio Luigi, dopo aver esaltato, sulla scorta delle idee pedagogiche ricorrenti nell’opinione comune progressista, «la bontà e la necessità dell’educazione, dell’esempio, del guidare, del chiarire, del sorreggere negli anni buoni ogni nato, quando si forma», sentenzia solennemente in conclusione: «Sinite parvulos venire ad me: lo ha detto il primo socialista del mondo», ricorrendo a una frase fatta ampiamente diffusa negli ambienti socialisti dell’epoca. Oppure ripete con sicurezza inattaccabile da ogni dubbio quanto ha letto sull’«Avanti!», cioè che «il paese, profondamente socialista, non avrebbe mai e poi mai consentito alla guerra, alla carneficina del proletariato». 26 27

Ivi, p. 493 s. L’Adalgisa, in Romanzi e racconti I, cit., p. 374.

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Degli slogan profusi dal giornale socialista contro la guerra Gadda redige un elenco puntiglioso, come se provasse un amaro e rabbioso gusto, in questo caso privo di ogni indulgenza, nel rimestare quella materia:

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Intestazioni, titoli, sottotitoli, colonne e vignette, fu, mesi e mesi, una gioia dell’orecchio, una festa degli occhi. Ogni sforzo venne tentato, per impedire l’«evento». E […] i grossi pezzi eran volti contro gli «zuccherieri», i «siderurgici», i «libici», gli «sciacalli monturati di Salandra», la «delinquenza bestiale della malemerita», la «teppa di San Fedele», e i «lupanari nazionalisti», circa le quali entità fisiche o metafisiche sarebbe arduo di recare giudizio.

Come si vede, l’indignazione dello scrittore è tale da indurlo a venir meno per un momento alla sua tecnica abituale di registrazione impassibile, per cui non riesce a trattenere gli interventi sarcastici di commento all’inizio e alla fine dell’enumerazione. I quali commenti poi si trasformano in un discorso molto serio, nella già ricordata professione di fede nella funzione necessaria e sacrosanta della guerra, capace di far sì che «l’aspetto reale della patria potesse disvelarsi ai cuori e alle coscienze degli umili» e divenisse «finalmente un fatto, una vivente nazione»; per cui lo scrittore velenosamente insinua che la «carneficina» venisse deprecata dai socialisti non tanto in sé, quanto per le sue conseguenze politche, «prima e più odiosa il necessario accostamento delle plebi all’idea di patria»: qui la polemica del nazionalista contro le posizioni antipatriottiche del socialismo pacifista e internazionalista si fa esplicita e dura. Ma più feroce, si direbbe quasi goduta nella sua implacabile crudeltà, è la registrazione delle idee ricevute, delle frasi fatte, dei pregiudizi che ricorrono nel pensiero e nelle parole dei borghesi. Da questo punto di vista il notaio Velaschi, il padre di Franco, è un campione esemplare. Il personaggio viene tenuto sotto il fuoco dell’osservazione di Gadda nella lunga sequenza in cui si incontra con l’industriale Magnoni, nel tentativo di imboscare il figlio nell’officina di questi. Sulla sua bocca compaiono frasi fatte altisonanti, questa volta attinte alla stampa borghese benpensante e conservatrice, quel «Corriere» di cui lo stimato professionista è lettore fedele: «Dalla patria, bisogna pur dirlo a voce alta, abbiamo tutto, no? alla patria, in certi momenti, tutto dobbiamo». In questo caso l’apoftegma solenne, che nella sua disposizione chiastica tradisce la sua fonte nella prosa retorica di qualche opinionista influente, stride con la realtà di fatto, denunciando l’ipocrisia del buon borghese, che nell’atto di enunciare quel nobile principio sta proprio cercando con tutte le forze di sottrarre il figlio al suo dovere di combattente per la patria. E il Velaschi continua a infiorare il discorso di dichiarazioni che rivelano solo paura, vigliaccheria ed egoismo dinanzi alla prospettiva della guerra, anche se mascherati da idee politiche moderate, di equilibrato buon senso: «E poi, forse, forse, anche l’Austria… in fin de’ conti, deve pensarci un po’ su… Scommetto che è ancora in tempo…. L’Austria, bisogna riconoscerlo, è qualche

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cosa in Europa, ha una storia, una tradizione, non le sembra?; non vorrà mica ostinarsi, per quattro sassi, e buttar tutto a mare. Certo è che da noi si grida troppo, troppo. Stordiscono. Sono quattro ragazzi scalmanati, da prendere a scapaccioni».

L’atteggiamento dell’autore implicito che si cela sotto questa registrazione apparentemente neutra è facilmente intuibile, se si pensa che vengono definite «quattro sassi» le terre irredente, che Gadda riteneva dovessero essere riportate al sacro suolo della patria dalla guerra, intesa come nuova guerra di indipendenza al pari di quelle risorgimentali («Guerra per l’Indipendenza anno 1916», reca sul frontespizio il secondo quaderno del Giornale),28 e se si tiene presente l’entusiasmo patriottico con cui il giovane studente aveva partecipato alle manifestazioni del «maggio radioso», gridando «Viva D’Annunzio!»: quindi noi sappiamo che cosa sono per lo scrittore quelli che il borghese filisteo giudica quattro ragazzi scalmanati da prendere «a scapaccioni». Dalla lettura del «Corriere» il notaio Velaschi trae una visione rassicurante delle operazioni belliche in corso e ricava la fiducia che le cose procedano nel migliore dei modi, egoisticamente contento che i suoi figli non siano coinvolti, e della guerra ha in mente le rappressentazioni oleografiche di certe stampe che adornano le pareti delle trattorie di campagna. Ma anche qui lo scrittore non riesce a trattenere l’indignazione, e contrappone a questa visione falsa e ipocrita la realtà terribile delle battaglie, la devastazione apocalittica dei bombardamenti, l’orrore delle carneficine: Nessuno aveva lasciato sospettare al notaio Velaschi che il «nemico» si trasfigura per lo più in atroci sibili ed ululati celesti, cui seguono schianti irriproducibili con secca arsura de’ nitrati: e una nebbia nasconde i compagni. I cocùzzoli paiono gli òmeri fumanti e il fumante vertice dell’Encelado. […] E mentre guardiamo i pini divelti, (dopo ululati), irradiare dai cùmuli bianchi, o neri, e chiudiamo poi gli occhi davanti la grandine che proruppe dal detonante cratere, sotto il piede che s’è legato dentro un groviglio sentiamo che c’è un qualchecosa di stanco, qualchecosa che fa ciàk. Due passi ancora e infarinati le mani aride ci inginocchiamo e chiniamo a scuòtere, a richiamare: ma dalla bocca sudano un filo di sudor rosso e il capo è pesante, stanco: gli occhi sono fermi nella faccia discolorata, non conoscono, non vedono più. Più là, meglio è non guardare nemmeno.

Come si vede, passando dalla realtà mediocre e “comica” della vita borghese, che sollecita gli acidi corrosivi del suo sarcasmo, alla realtà tragica della guerra, Gadda sente la necessità di imprimere una brusca svolta al suo linguaggio, elevandolo di colpo ai vertici del sublime. L’atrocità del primo contatto con i cadaveri viene invece comunicata solo attraverso una sensazione fisica, resa con 28

Saggi giornali favole II, cit., p. 527.

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l’espressione onomatopeica, cislinguistica, che appartiene al linguaggio umile: essa pare quindi entrare in contrasto con la tragicità della scoperta della morte, ma proprio grazie al contrasto vale in realtà a potenziarla.

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8.2. La tendenza centrifuga Un’altra caratteristica della prosa della Meccanica che anticipa le costruzioni narrative future è la tendenza centrifuga e divagatoria. Ad ogni momento del racconto il narratore non sa resistere alla tentazione di cogliere gli spunti offerti da un particolare o da un evento citato e si abbandona senza remore alla spinta dell’estro, seguendo altre vie che lo trascinano anche molto lontano dal punto di partenza e dimenticando per lunghi tratti il filo principale della vicenda e i propri personaggi. Così ad esempio il verbo «andare», che nel capitolo I compare nel dialogo fra Zoraide e Gildo, nell’accezione allora corrente di «andare al fronte», è l’occasione per una lunga digressione sul canto risorgimentale Addio mia bella addio, sulle battaglie della prima guerra di indipendenza, in particolare su quella di Curtatone e Montanara, evocata per vividi scorci, sulla sconfitta di Novara e le sue pesanti conseguenze, sino a un ironico inno sulla libertà presente. La stessa ampia trattazione sulla Società Umanitaria, che pure ha il fine essenziale di ricostruire il contesto in cui si è formato un personaggio principale come Luigi Pessina, diviene poi sproporzionata, nella sua amplissima estensione, rispetto all’esile trama del capitolo II e finisce per assumere un valore autonomo e la fisionomia di un vero e proprio saggio storico a sé inserito nel romanzo (magari sull’esempio dei venerati Promessi sposi). Per di più nella sua ricostruzione il narratore non si mantiene ai semplici dati fondamentali e non sa resistere al piacere di evocare aneddoti curiosi e figure colorite, come la professoressa ninfomane che palpeggia il vecchio catarroso appena uscito dalle toilettes dell’istituto e poi seduce il giovane delinquente epilettico, o di ricostruire con benevola ironia la mentalità positivistica della direttrice e il suo stile molto datato, attraverso citazioni del suo libro di memorie. Al termine della lunga divagazione l’attenzione dello scrittore si concentra sulla «Casa degli emigranti», sempre fondata dall’Umanitaria, che aveva il compito di assistere i lavoratori italiani in transito per Milano verso i paesi del Nord Europa, e la rievocazione dà vita a quadri animati e godibili, come quello dedicato all’attività dei barbieri emigrati, vera digressione entro la digressione, in una sorta di gioco delle scatole cinesi: Molti, tra barbe e specchiere, insaponate vertiginose. Sbàttere con uno sparo ampio le sue salviette pseudo-vergini, svolazzando indafarati nella ripesca de’ cosmetici e degli arricciabaffi, riflettuti negli specchi millanta, senza scivolar mai: vispi e cerimoniosi al paltò, inimmaginabilmente fertili nello spifferamento imbutiforme de’ ringraziamenti, agglutinata la vittima in un vortice di titoli cavallereschi e accademici.

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È un lacerto molto significativo, molto gaddiano, che fa già presentire vicini L’Adalgisa, la Cognizione, il Pasticciaccio: sbalordisce il prodigioso virtuosismo mimetico con cui lo scrittore sembra “rifare il verso” alla realtà, fissandosi come ipnotizzato su un frammento casuale di essa quasi fosse dotato di caratteri unici, straordinari, che lo rendono affascinante. Sotto il fuoco di un obiettivo implacabile, gesti, atteggiamenti, movimenti caratteristici, resi con precisione meticolosa, balzano vivi con un’estrema immediatezza visiva. Al risultato concorrono necessariamente le scelte linguistiche, come lo stile nominale, inteso a rendere la rapidità fulminea dei gesti, o il grandinare di metafore che si sommano e si fondono tra loro, lo «sparo» delle salviette, la loro dubbia verginità, la voce che nei ringraziamenti a raffica risuona come in un imbuto, i clienti-vittime inghiottiti come da un vortice di titoli cavallereschi e accademici e insieme presi come in una trappola vischiosa («agglutinata»). Dal tono divertito di quadretti come questo lo scrittore passa di colpo alla rappresentazione altamente drammatica degli emigranti che, allo scoppio della guerra, sono scacciati dalla Germania e vengono ad affollarsi nella «baraonda» della stazione centrale di Milano. L’attenzione ora si concentra sul caos di questa terribile situazione umana, che si trasforma in una scena allucinata: Quella divenne una tregenda d’inferociti e di disperati, in agguato de’ convogli, ancora durante manovra da un binario all’altro, con tutta la pena e l’ingombro de’ lor pacchi, bottiglie vuote, parallelepipedi in sulle spalle stracche e fagotti sferoidi in procinto di sfasciarsi, donne scarmigliate e nasali con bimbi ignudi, neri, a fargli far piscia e cacca dentro i binari, urlando i manovratori neri ed unti per salvarle dal treno imminente; direttissimi con novantotto minuti di ritardo che arrivano a quattro per volta con un sorgere improvviso de’ fari dentro l’incendio de’ perduti tramonti, incedevano poi lenti, sibilanti, esausti; […] e quattro per volta scaricavano su d’una sola banchina torme di bipedi e cumuli di accatastati bauli e tutta una maramaglia ancora da tutti i Gottardi e Sempioni.

Si riconosce in questo passo un tema che sempre fissa l’attenzione di Gadda, quello del caos, del «pasticcio», ma qui esso viene declinato in forme diverse dal consueto, non quale manifestazione dell’«orrendo, logorante disordine»29 della realtà fenomenica, naturale e storica, che scatena la nevrastenia rabbiosa dello scrittore, come nel Giornale, né quale esplosione di una gioiosa esuberanza vitale, come nella Festa dell’uva a Marino, bensì quale esempio di una sconvolgente tragedia umana, che può suscitare solo orrore e pietà. Ricorrono però, nonostante tutto, le caratteristiche costanti di queste rappresentazioni del «pasticcio»: l’accumulo di oggetti degradati, il tentativo di riscattarne la turpitudine attraverso una geometrizzazione delle forme (i «parallelepipedi» e i «fagotti sferoidi»), la realtà escrementizia, che del caos è sempre l’equivalente simbolico («fargli far piscia e cacca»). 29

Saggi giornali favole II, cit., p. 575.

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Sulla condizione dei profughi fermati alle porte di Basilea e costretti ad accamparsi in un prato al confine tedesco, «mandra parcata nell’uragano», Gadda insiste ancora con tocchi di straziato pathos:

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Più d’una partorì nella terra, come una belva: fra i pianti tormentosi de’ pupi màdidi arrivò della cioccolatta, poi latte in iscatole; ma la pioggia orribile fu tutta la notte sopra quei corpi di donne: e la mammia estratta perché la ghermisse il cucciolo avido, incontrava, prima, la sferza gelata della tempesta.

Sono poche righe di concentrata tensione, con immagini di intensa essenzialità che possono far pensare agli storiografi classici o a certe pagine manzoniane (tutti testi sempre ben presenti nella memoria di Gadda). Una tipica divagazione gaddiana è ancora quella che, all’inizio del capitolo V, prende avvio da un esile pretesto, il campanile di Santa Maria Podone, più basso delle case circostanti per colpa del «progresso» che erige edifici a molti piani. Di qui, senza formule di trapasso, con un volo vertiginoso lo scrittore si lancia nella rievocazione di un nobile ed eroico tempo medievale, immergendosi idealmente in esso: Quando la Fede, sopra la maglia di ferro, crociava la tunica de’ cavalieri a lato il Carroccio, pronti; e da sotto i carri falcati certi arfasatti cagnazzi s’ingegnavano scorticar le zampe ai nemici, cavalli e non cavalli. Nella bruma crepuscolare, tra l’abetaia e le fontane, l’arco lombardo: il terraggio, la fossa, il muro: con guardia della torre e della pusterla: con il campo lodigiano lì fuori, pronto, fuochi lividi nella bruma notturna. Ma la rabbia di Milano arse in incendi rossi sul fiume, ché la compagnia della morte aveva finalmente funzionato: e il römischer Kaiser deutscher Nationen lo avevan ribaltato di cavallo, dimenticandolo poi subito al suo destino comasco, tanto che risuscitò. […] Oggi è invece l’epoca de’ prestiti appo i benefattori di Wall Street: con piano regolatore e tassa sul valore locativo.

Compare qui un altro tema costante della prosa gaddiana, la rievocazione del passato come segno di una nostalgica, disperata volontà di fuga da un presente degradato, manifestazione dello squallore di una quotidianità falsa e priva di senso (un presente che qui, in contrasto col Medioevo, si manifesta nelle forme di Wall Street, del piano regolatore e della tassa sul valore locativo), verso un cosmo virtuale di valori positivi, verso un paradiso perduto e incontaminato di ordine razionale, di autenticità, di eroica dignità, che si offre come misura trascendente di giudizio su ogni realtà negativa. Questa tensione di fuga si esprime attraverso un’intensificazione lirica del linguaggio, che punta decisamente al sublime attraverso il lessico aulico e arcaico, a cui si aggiunge una scrittura fortemente ellittica, allusiva, ermetica. Questa tendenza centrifuga non scaturisce evidentemente solo dalla bizzarria e dal capriccio umorale ma ha radici più serie e profonde, da riconoscere, come ha

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proposto la tradizione critica, nella visione complessiva dello scrittore, che genera in lui il bisogno di tentare di rendere sulla pagina un’immagine della complessità del mondo, del «gnommero» o «garbuglio» (Gadda già lo teorizzava, come si ricorderà, nelle note compositive del Racconto italiano, a proposito dell’intreccio romanzesco). Ha perciò una genesi e una funzione affini a quelle della ricerca della problematicità quale è emersa da queste prime prove narrative, risponde cioè all’esigenza di esplorare sempre i vari piani del reale, anche tra loro contraddittori; risulta perciò affine anche alla repulsione per ogni stereotipo di pensiero e di parola, che costringa quel reale in schemi impoverenti, asfittici e falsificanti. È una tendenza che farà le sue prove più alte e più complesse nel Gadda maturo, soprattutto quello del Pasticciaccio. Documento acquistato da () il 2023/04/27.

8.3. La fissazione microscopica La tendenza divagatoria può presentarsi in una forma peculiare, di cui si sono già incontrati campioni significativi nel passo dedicato ai barbieri e in quello sul caos della stazione: ogni tanto il narratore, dimenticando anche in questo caso la linea centrale della vicenda, si fissa nella contemplazione di singoli frammenti, accidentalmente isolati nel campo del reale e in sé insignificanti, come se fosse affascinato dal loro puro esserci, massiccio, greve e stolido, o in altri casi dalla loro vitalità esuberante ed eccessiva, o ancora dal loro carattere turpe e disgustoso. Il reale appare allora consistere in un «campo oltraggioso di non-forme», per usare l’icastica espressione attribuita a don Gonzalo,30 sembra ridursi a una proliferazione di entità mancanti di ogni intrinseca ragion d’essere, prive di ogni rapporto con un modello ideale che conferisca loro senso e diritto di esistere. È un fenomeno che rivela un rapporto difficile e doloroso con gli oggetti in assoluto, che Gadda razionalizza nella già richiamata teoria del «barocco», affidata al dialogo fra Autore ed Editore premesso alla Cognizione del dolore sin dalla prima edizione in volume del 1963: cioè la teoria che definisce la deformazione patologica e mostruosa che, nello svolgersi del processo storico e naturale, contamina le cose stesse, facendole deviare dalle «entelechie» elaborate dall’ordine di natura. È il caso, ad esempio, della paglietta «ad ali spioventi» del notaio Velaschi: Una volta, rapitagli da una folata di città, la paglietta schivò per miracolo vero la zampa anteriore destra di un enorme cavallo della ditta Fratelli Gondrand, che, fermo da tre ore sui quattro piedi, s’era dato a ingannar il tempo con uno scalpito lento, quasi ritmico. Ma siccome questo mastodontico quadrupede, non ostante avesse la bella coda intrecciata, come le trecce d’una educanda di lusso, aveva appena finito di concedersi un suo spettacolare sollievo, la paglietta la si era mezzo infradiciata di dentro e di fuori, che poi gocciolò per un pezzo e bisognò lavarla e sbiancarla e diede gran da fare in casa. 30

Romanzi e racconti I, cit. p. 627.

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Il particolare e l’episodio non hanno alcuna incidenza funzionale nella dinamica dell’intreccio, sicché l’indugio risulta assolutamente gratuito. E sembrerebbe avvolto da un un’atmosfera comica e rispondere solo all’intento di conferire al ritratto del personaggio un taglio umoristico, ma, a guardar bene, il fondo del procedimento narrativo è molto serio: il dettaglio rimanda a tutta una visione della realtà come «pasticcio», privo di moduli d’ordine che possano conferirgli senso e dignità, ed ha le basi non solo nelle private nevrosi dello scrittore ma in un complesso di concezioni filosofiche profondamente elaborate, quelle che nello stesso giro di anni Gadda andava affidando alla Meditazione milanese; quindi il procedimento tradisce un rapporto ambivalente con la realtà, come se lo scrittore fosse respinto dall’opaca consistenza degli oggetti e al tempo stesso fosse affascinato dalla loro «oltraggiosa» presenza, tanto da non riuscire a staccare da essi lo sguardo e provasse una sorta di voluttà a immergersi nella loro bruta materialità. Non è un caso che l’episodio abbia al centro una realtà escrementizia, fatta oggetto di un’insistita contemplazione: in questo rapporto problematico col reale le cose sembrano trasformarsi in materia immonda, che disgusta e attrae al tempo stesso (o in altri casi sembrano affette da un osceno turgore priapico: e di ciò abbondano esempi nel Pasticciaccio, basti ricordare i piedi enormi di don Corpi che «priapavano» fuori della veste talare come «du affari proibbiti»).31 Un esempio significativo è anche la descrizione di cavallo e cocchiere del carro funebre al funerale di Luigi, che è anch’essa perfettamente gratuita, priva di ogni funzione nello svolgimento del plot: Benché avesse ventotto anni e tutti e due gli occhi velati dalla cataratta, da cui veniva fuori inoltre come una marmellata di susine, il cavallo riuscì a trascinare il carro, il feretro e il cocchiere e la sua propria gualdrappa nera e paraocchi fino alla chiesa. La gualdrappa era listata d’argento e sulla testa del nonagenario quadrupede oscillava a ogni passo un pennacchio nero, che non si capì bene che cosa potesse simboleggiare. […] Con il suo cilindro nero acquazzone e coccarda, il cocchiere fu tenuto d’occhio da tutti nella tema da un momento all’altro di averne a portar via due invece che uno: ma non rotolò di cassetta, ché anzi le redine messegli in mano per un doveroso rispetto alle tradizioni locali riuscì a reggerle fino alla chiesa.

Dove si può notare di nuovo l’indugio tra disgistato e affascinato sul particolare escrementizio, la «marmellata di susine» che fuoriesce dagli occhi del decrepito cavallo. Ma eguale attenzione microscopica meritano altri particolari, la 31 Romanzi e racconti II, cit., p. 135. Le radici remote dell’insistenza ossessiva sulla tematica scatologica si possono cogliere in un testo di autoanalisi cone Una tigre nel parco, del 1936, dove Gadda narra uno scontro traumatico infantile con la realtà escrementizia (Saggi giornali favole I, cit., p. 76; ma l’episodio era già presente nel Fulmine sul 220, riferito a uno dei figli di Adalgisa). Nello stesso testo, al tema scatologico si affianca anche la fissazione sul turgore priapico di certe forme della realtà: «Odori corrotti scaturivano dai rotti muri: i fili alti e tesi dell’erba, a giugno, portavano in sommo una spica granita […]: erano esseri pieni e turgidi, all’apice della loro vitalità, eretti nel sole» (ivi, p. 78).

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gualdrappa nera listata d’argento, il pennacchio nero, il cilindro e la coccarda del cocchiere. Da rilevare anche la forza icastica della metafora fortemente sintetica, si direbbe di gusto analogico, del cilindro «nero acquazzone», che crea una fulminea identificazione fra due oggetti fra loro molto distanti logicamente, il copricapo e le nere nubi annuncianti tempesta (ma il gioco implicito nella metafora è più complesso, probabilmente ispirato da una volontà di rifare il verso ironicamente ai procedimenti futuristi, dato il giudizio non positivo che Gadda dava di essi). Nell’Adalgisa, nella Cognizione, nel Pasticciaccio fenomeni del genere si motiplicheranno, sino a occupare una parte rilevante del narrato.

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8.4. L’enumerazione caotica Una variante particolare del procedimento consiste nella fissazione non su un oggetto singolo, ma su una congerie di oggetti disparati che si trovano casualmente accumulati insieme. È il caso della cassetta degli attrezzi di Franco Velaschi, indizio della sua passione per le riparazioni meccaniche, alla quale il narratore dedica una cospicua, si direbbe goduta pausa descrittiva: Il frugare in una scatola di legno piallato e sudicio, a scomparti, che contenesse viti e madreviti usate, bulloni unti, lamette di rasoio, candele scompagnate, chiodi di scarpe da montagna frusti mescolati con matassine di trecciuole di rame, pezzi di cordoncino isolato o anche malamente scabbioso, qualche bottone di madreperla, qualche fondo vetrato di scatola di fiammiferi, qualche penna di pollo rotta in due, per untare, e qualche spazzolino da denti consunto destinato in vecchiaia alle candele e a’ magneti, il frugare pazientemente in questo repertorio gli dava ore fuggevoli, liete…

È il procedimento molto barocco dell’enumerazione caotica, di cui si è già visto un esempio nella descrizione dei profughi alla stazione di Milano, e prima ancora nel moto di disgusto di Zoraide e di Maria Ripamonti per lo squallore della realtà quotidiana. Di nuovo l’effetto dell’accumulo è a prima vista comico, data l’accozzaglia di oggetti desueti e frusti, la cui conservazione appare bizzarra e ridicola, ma in realtà anche qui si riconosce un fondo molto serio: l’insistenza descrittiva denuncia la percezione tra allarmata e indignata del caos irredimibile del mondo, di quel disordine che nella visione angosciata di Gadda affligge la realtà materiale come quella sociale, e si proietta in una dimensione ontologica, metafisica. Anche nel caso dell’enumerazione caotica la contemplazione del disordine si accoppia con la percezione offesa, oltre che dell’accumulo di oggetti, di una realtà degradata, turpe e ripugnante, come nel caso del cortile dell’officina presso l’abitazione di Zoraide: Nel cortile c’era una latrinetta piccolo-borghese adorna di merlature feudali di parte guelfa, per spender meno, con un usciòlo di legno, da sotto il quale, per intoppi e mala pendenza, era sgorgato un liquido verdastro oleoso, fluorescente,

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

dove galleggiavano mozziconi di sigaretta, pezzi di giornale fradici e altri residui di consistenza varia: c’erano barili di ferro, latte di benzina sfiancate, dei giovanotti, un platano: e qua e là giravano alcune automobili di modello un po’ antiquato.

Dove si possono notare, nell’accumulo delle realtà più disparate, due aspetti rilevanti: la consueta fissazione sulla realtà escrementizia, immagine di una deiezione irreparabile del mondo, e la presenza umana («dei giovanotti»), citata come casualmente nell’elenco, sicché si riduce a oggetto insignificante fra tanti altri, senza alcuna gerarchia di valore, senza che appaia dotata di maggiore importanza e dignità, segnale di irreparabile reificazione dell’umano.

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8.5. Il narratore Tutti i procedimenti sin qui esaminati presuppongono una figura di narratore eterodiegetico fortissima, una sua presenza incombente nella gestione dell’atto narrativo. Dietro la tendenza centrifuga e divagatoria non vi può essere che un io sovradimensionato, dilagante, che ha il sopravvento su ogni sviluppo lineare e ordinato del plot da romanzo “ben fatto”, ponendosi continuamente in primo piano e spingendone ai margini gli agenti e gli eventi. Così pure il gioco metaforico e metamorfico, la fissazione microscopica, l’accumulazione caotica, la mistione e lo scontro di disparati livelli linguistici spingono in piena luce la presenza del soggetto che conduce il discorso narrativo, il mago che mette in atto quei prodigi con i suoi artifici. Potrebbe sembrare in contrasto con queste tendenze la registrazione impassibile dei discorsi, senza interventi espliciti della voce narrante, ma in realtà anche in questo caso la mimesi presuppone la presenza, fortemente operante seppur occulta, di un soggetto che seleziona e rifà il verso mirando ad ottenere precisi effetti. Nelle note al Racconto italiano Gadda rivendicava la funzione essenziale del narratore esterno al narrato, accanto alla visione «ab interiore», cioè alla focalizzazione interna ai personaggi. Ebbene, nella Meccanica sembra non solo restare fedele a quel principio, ma travalicarne di gran lunga i limiti, se si vuole ancora ottocenteschi, portandone l’applicazione alle estreme conseguenze, a un culmine già vicino al parossismo e alla rottura. Difatti La meccanica conserva ancora tracce ben visibili di una costruzione romanzesca di impostazione sostanzialmente tradizionale, tardo naturalistica,32 intesa a tracciare un quadro ben documentato (si pensi alle pagine sulla Società 32 Come puntualizza la Savettieri, nella Meccanica «la lezione zoliana, pur assunta in maniera non ortodossa, resta fondante, vale a dire che costituisce ciò che rende il romanzo tale» (Savettieri, La trama continua, cit.., p. 55); poi però precisa: «Il modello romanzesco di riferimento, vale a dire il romanzo realista, fa da base a un progetto narrativo che approda a soluzioni molto distanti» (ivi, p. 91). Anche Donnarumma afferma che nella Meccanica «l’impronta naturalista è inequivocabile» ( Donnarumma, Gadda: romanzo e «pastiche», cit., p. 171), però in altra sede sottolinea le profonde differenze fra l’impostazione narrativa di Zola e quella di Gadda (R. Donnarumma, «Riformare il concetto di causa». Gadda e la costruzione del racconto, in Gadda modernista, ets, Pisa 2006, p. 52).

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LA MECCANICA: LA «VITA FULGIDA, VERA» CONTRO LA «FINTA» 99

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Umanitaria) di una realtà locale nelle sue articolazioni popolari e borghesi, collocata su un preciso sfondo storico,33 dove appunto il narratore eterodiegetico deve avere un ruolo basilare; ma in realtà a una lettura attenta mostra come da quel modello si allontani in altre direzioni, in primo luogo grazie all’impianto problematico e alla complessità di piani che si è cercato di portare alla luce, poi grazie a tutti quei procedimenti narrativi che anticipano le opere future, nelle quali gli schemi ottocenteschi, sia pur ancora riconoscibili, saranno nettamente superati: di conseguenza nel romanzo si può già intravedere in embrione l’ “antiromanzo”,34 o per lo meno i presupposti che condurranno ad esso. Ed anche il plurilinguismo di Gadda è già qui in azione, come dimostrano, nei vari esempi riportati, i bruschi salti di livello stilistico, dal tono colloquiale e “comico” al sublime lirico e tragico, e anch’esso contribuisce già a mettere in crisi le strutture narrative tradizionali.

33 Secondo Maurizio Grande in Gadda, fin dalla Meccanica, «il “mondo” o la cosiddetta realtà extralinguistica in genere […] sembrano darsi come “copie” di enti e di relazioni propri di una scrittura posta come un primum ineliminabile. Un primum (e un unicum infine), la scrittura, che serve non già a istituire una o più relazioni tra oggetti e lingua o tra mondo e linguaggio, ma piuttosto a costituire una realtà assolutamente primaria di cui il “mondo esterno” o i “referenti” appaiono sì come presupposti, ma anche soltanto come tali, e con questa funzione logica riduttiva»; per cui si dà «una svalutazione della forza e del “valore” delle cose rispetto alla realtà totalizzante del linguaggio» (Grande, La «meccanica» di un mito, cit., p. 189). Ci sembra una lettura che attribuisce a Gadda una fisionomia eccessivamente d’avanguardia e non tiene conto delle radici della sua scrittura in un terreno ottocentesco, radici visibili soprattutto in questo romanzo, in cui il rapporto con la «realtà extralinguistica», con il mondo sociale e storico, conta moltissimo, come prova la centralità del tema della guerra e degli imboscati, un nodo per Gadda di bruciante interesse. È una lettura che appare troppo condizionata dal clima culturale degli anni Settanta in cui è nata, inpregnato di formalismo e strutturalismo, e che oggi risulta inaccettabile. 34 Contiamo di precisare il senso di questa formula, che diamo appunto tra virgolette, nel capitolo sul Pasticciaccio.

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UN FULMINE SUL 220: L’ANIMA PRIVILEGIATA, LA BORGHESIA E LA VITALITÀ DEL POPOLO 1. Il «primo getto» 1.1. L’anima privilegiata Già nel «primo getto» della stesura del Fulmine sul 220, che risale al 1932 e presenta ancora la fisionomia di una semplice novella, si delineano in modo chiaro le componenti essenziali della sua costruzione, che si articola su tre polarità, un’anima privilegiata, la borghesia e il popolo. In primo luogo spicca una figura femminile, la giovane sposa del nobiluomo Gian Maria Cavigioli, la quale via via assume vari nomi, ma nella seconda stesura si chiamerà definitivamente Elsa (e così la designeremo sin d’ora, per comodità e chiarezza). I suoi tratti rimandano per alcuni aspetti all’immagine di Zoraide nella Meccanica (di cui peraltro, significativamente, eredita per un breve tempo il nome), evocando di conseguenza le tematiche del romanzo precedente. È infatti connotata soprattutto dalla bellezza straordinaria e da una calda sensualità: ma a differenza che nella popolana tale sensualità è accompagnata più da dolcezza e gentilezza di atti e pensieri che da prepotente esuberanza carnale, ed inoltre la giovane delle classi alte è repressa dall’educazione familiare e dall’influsso dell’ambiente borghese in cui vive, che maschera di ordinata razionalità il moralismo “vittoriano” e sessuofobo: La sua dolce figura, piena d’impreveduti atti e moti che ci inducevano a crederla come un premio pieno d’oblio dopo la cattiva sintassi e le virtù degli agnati, era fatta d’una generosa ed appassionata vivezza del corpo e del viso, tutto mollezze recondite quello e questo tutto delicata ragione.

Come si vede, sin dalle prime battute della narrazione viene in primo piano l’antinomia tra la «vivezza», cioè la forza vitale del personaggio, e il peso condizionante delle «virtù» degli «agnati», cioè del loro moralismo bacchettone e della loro mentalità ristretta, che tendono a spegnerla; e l’antinomia si traduce anche in cifra fisica, nel contrasto tra le «mollezze recondite» del corpo e la «delicata ragio-

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UN FULMINE SUL 220: L’ANIMA PRIVILEGIATA, LA BORGHESIA E LA VITALITÀ DEL POPOLO 101

ne» espressa dal viso, la quale evidentemente è frutto dell’educazione e dell’abito mentale tipico della sua classe (come il passo espliciterà nella seconda stesura). A distanziare Elsa da Zoraide si aggiunge poi un’elevatezza di sentimenti che la innalza decisamente al di sopra del contesto in cui è collocata e le conferisce come un privilegio spirituale. Quindi, mentre le intrusioni nell’intimo di Zoraide portano alla luce i suoi ingenui sogni di Bovary proletaria e sprovveduta, e i suoi pensieri e sentimenti sono modellati sulle letture di chissà quali romanzi popolari scadenti, l’interiorità di Elsa, grazie a quel privilegio spirituale, si colloca al un livello nettamente più alto e resta immune da degradanti contaminazioni esterne. È vero che la sensibilità culturale della donna borghese rivela dei limiti, come denuncia il romanzo nella cui lettura è immersa, ma si sale comunque di un gradino rispetto ai romanzi rosa di Zoraide (e a quelli della proletaria Nerina nel Racconto italiano), al livello midcult di una letteratura più pretenziosa, «uno de’ più bei romanzi della nostra letteratura militante», come Gadda insinua maliziosamente, di un qualche immaginario epigono di d’Annunzio o di Fogazzaro. Però il personaggio nel resto della narrazione non è sottoposto a quella sistematica problematizzazione, attraverso la contrapposizione di positivo e negativo, di cui è fatta segno l’eroina della Meccanica, e nemmeno è bersaglio di commenti ironizzanti e stranianti, si conferma un personaggio sostanzialmente ideale. La delicatezza dei sentimenti fa di lei una figura quasi angelicata: ma non si instaura un contrasto con la sensualità, perché anche questa contribuisce a creare la fisionomia ideale della donna, in quanto le conferisce, come si è sentito, «generosa e appassionata vivezza», cioè fa di lei una creatura piena di vita. Il narratore vagheggia scopertamente il suo profilo, rivelando una volontà di nobilitazione: «Una luce di dolcezza e di poesia» emana da sotto i suoi «cigli neri»; «Carità, gentilezza e vivezza facevano della signora Margherita la stella mattutina de’ poveri e degli sconsolati; il suo viso era paragonato spesso a quello delle Madonne». I suoi pensieri sono costantemente rivolti ai poveri, con una sollecitudine caritatevole che è indizio di una ricca umanità. Per lei «il cuore degli umili, avvinto dalla gratitudine, è come un fiore e la bontà della povera gente è il più lieto conforto nel cammino della vita…». Il suo tipo femminile possiede quindi molti aspetti che caratterizzano figure idealizzate in altri romanzi e racconti di Gadda, come Maria de Vendôme nel Racconto italiano, Maria Ripamonti nella Madonna dei Filosofi, Liliana Balducci nel Pasticciaccio. Anche il tono lirico e alto che caratterizza sovente i passi a lei dedicati assume una funzione del tutto diversa da quella che si riconosce in analoghi passi dedicati a Zoraide, non ha una finalità parodica e ironica mescolata a quella celebrativa, ma al contrario tende ad esprimere solo l’adesione empatica e il trasporto idealizzante del narratore dinanzi alla creatura privilegiata. A Zoraide l’eroina del Fulmine viene però accomunata da un altro aspetto essenziale: la sua sensualità, oltre che dall’ambiente in cui è cresciuta e dall’educazione, è mortificata da un matrimonio sbagliato. Per Zoraide la mortificazione è

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

costituita dal marito malato e debole, l’operaio autodidatta serissimo che intristisce sui libri e non si concede mai uno svago, e inoltre dal peso opprimente dei suoi ideali socialisti, rappresentato icasticamente dal peso fisico del pacco di numeri arretrati dell’«Avanti!» che la donna è costretta ad accumulare mentre Luigi è al fronte. In misura per certi versi analoga anche la carnalità di Elsa è compressa da un marito malato e debole di corpo: il nobiluomo Gian Maria Cavigioli è molto più anziano di lei e affetto da una sciatica che quasi lo immobilizza, e inoltre è dotato di scarsa virilità e quindi viene meno alla sua funzione primaria di fecondatore; né il primo marito, di cui Elsa è rimasta presto vedova, era dotato di maggior forza virile («La sua calda sensibilità di donna bella, d’antico vigore e dolcezza, che il povero Carlo aveva fin troppo amata e il nob. Gian Maria si era dimenticato di fecondare»). Questo contrasto fra desiderio sessuale (chiaramente finalizzato alla maternità) e frustrazione, nella donna prende corpo in immagini estremamente concrete nella loro urgente fisicità. La moglie insoddisfatta è ridotta a fantasticare sulle gambe poderose dei calciatori, ammirate nelle foto sui quotidiani o nei cinegiornali Luce, a contrasto con le gambette misere del marito. Dai toni lirici e sublimanti si scende così, con l’affacciarsi della figura maritale, a toni comici e grotteschi: Le gambe di suo marito, di Gian Maria, erano d’un bel giallo, tra l’alabastro e l’avorio, con pochi peli ma sentiti, tra il pollo e il fico d’india: non erano varicose però; erano magre e poco propense, purtroppo, a quella vibratilità così nervosa e meravigliosamente allusiva che fermava tanto facilmente il suo sguardo, nel “Luce”, su quelle del terzino destro, del centro sinistro e del corner, Juventini o Ambrosiani o Bolognini che fossero, non ricordava…

Questa frustrazione costituisce il tormento segreto della donna, e l’analisi di esso riporta la narrazione ai toni più elevati e intensi a lei appropriati: Si accasciò sulla seggiola, pensando a Gian Maria. Mai come in quel momento le sembrò che il destino le avesse conceduto la vita, una così gioconda e fragile vita, solo per mortificarla e per deriderla, atrocemente, moltiplicare sopra il suo pianto la derisione e la beffa.

1.2. La borghesia «gentilesca» La mortificazione di Elsa, però, non nasce solo dallo scarso vigore virile del marito, un peso determinante possiede anche il fatto che Gian Maria è il luogo geometrico di tutte le tradizionali «virtù» della borghesia «gentilesca» milanese: la plumbea «serietà», l’attaccamento fanatico alle tradizioni e più prosaicamente alla «care abitudini», la mentalità ristretta e meschina, la chiusura in un sistema di grame idee ricevute e di pregiudizi incancreniti, la «solidità», che è invece rigidità al limite della necrosi spirituale, la povertà culturale (la sua lettura prediletta è il «Guerin Meschino, e per lui i concerti al Conservatorio, a cui Elsa lo costringe ad abbonarsi, sono un supplizio che cerca di evitare con ogni pretesto). Per

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questo, a differenza del suo omologo nella Meccanica, il marito di Zoraide, che è guardato da Gadda con occhio critico ma anche con forte simpatia umana, il nobiluomo è rappresentato senza alcuna simpatia, anzi con feroce spirito satirico, come tutto il suo ceto. Insieme al marito, l’ambiente della famiglia, la ramificata e intricatissima «tribù» delle parentele, analogamente pesa sulla povera malmaritata, soffocando con il moralismo asfittico e arido la sua spontanea vitalità e le sue esigenze naturali. Quando Elsa entra nella famiglia i suoi membri sono a disagio dinanzi alla sua «calda e serena bellezza», alla «freschezza della sua carnagione», al suo «fare sciolto e allegro», e restano totalmente insensibili dinanzi a così prorompente avvenenza, capace di turbare e sedurre chiunque abbia un minimo di sensualità («Soltanto l’inclita schiatta dei Lattuada poteva far vista di niente, davanti a lei, e parlare del bel tempo che farà presto, speriamo, e domandarle come stava la mamma»). La giovane sposa proietta questa rigida chiusura dell’ambiente borghese in un’immagine materiale che assume una valenza simbolica ed è destinata a ricorrere quasi ossessivamente nelle pagine del romanzo, nelle sue varie stesure, i cappotti neri rigorosamente abbottonati: «Vedeva quei paltò neri carichi di solidità lombarda, sul marciapiede: non ci mancava un bottone, lustri e neri tutti i bottoni». Questi «paltò» sono come la simbolica corazza delle incrollabili certezze in cui la borghesia si chiude, ma al tempo stesso sono anche un guscio vuoto, perché dietro a tutta quella serietà, a quella autorevole solidità, ci sono solo miseria morale, povertà umana e ottusa bêtise. Su questa chiusa mentalità Gadda rovescia il suo caustico sarcasmo, tutto giocato sulla figura dell’antifrasi, cioè su una finta identificazione con il punto di vista e il modo di ragionare dell’oggetto della rappresentazione: La famiglia da cui discendevano Donna Ernesta e suo fratello il nob. Gianmaria Cavigioli, era una delle più distinte famiglie della nostra vecchia e cara Milano. Gente ancora di vecchio stampo, intendiamoci, ossia, quel che è giusto è giusto: non si può pretendere di rimanere sempre allo stesso punto, una nazione moderna deve pure evolversi, deve progredire […] la serietà, la dirittura del carattere, quel bisogno di fondarsi sul solido, quei principi sani e nello stesso tempo moderni, che sono la più sicura base della famiglia e nello stesso tempo della società: che sono l’«arra», come diceva la Perseveranza.

Ma talora l’antifrasi ironica cade per lasciare il posto alla requisitoria esplicita e implacabile. Dopo aver celebrato la «gentilezza e vivezza» di Elsa, nel passo prima citato, il narratore prosegue: Mentre tutti della sua casa erano inclini a quella serietà e a quelle virtù globali che rendono così assenti certi ceti borghesi dai dibattiti primi della vita collettiva; dono primo e divino la parola, che è fatta per dire l’animo e per sentire bei verbi ben coniugati, ma certe persone serie credono che sia un imbroglio de’ venditori ambulanti su fiera; e avevano verso la gente quel tono di distacco che consegue

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all’idea d’una superiorità metafisica, mentre si tratta semplicemente d’un paltò scuro e d’una congenita incapacità morale e civile a ricordarsi che la vita è una < >, non una < >, d’una ottusa trascuranza de’ doveri primi e perentori […]: e non salutavano per via se non chi fosse pari loro, cioè serio come loro, impaltonato come loro, inutile come loro nella storia degli uomini.

Spicca in piena evidenza, in questo passo dell’appena abbozzato e sommario «primo getto», l’opposizione dal forte valore assiologico tra le due polarità antitetiche e incompatibili - l’anima privilegiata e il ceto borghese dell’ «industre città» – che costituisce uno dei pilastri reggenti l’intera architettura del romanzo. Ma qui poi il discorso si amplia ulteriormente. Il narratore smaschera quella «serietà» che è la «virtù» tanto vantata dalla borghesia ambrosiana: essa non è che incapacità di far parte di una comunità civile (di una «vivente patria», come Gadda dirà nel Castello di Udine).1 Incapacità che si manifesta nel non saper usare lo strumento primo della comunicazione fra cives, la parola, impiegata con proprietà e correttezza: quelle «persone serie» si mostrano sospettose verso chi sa parlare, che viene considerato individuo cialtronesco e pericoloso, capace solo di abbindolare e truffare al pari dei ciarlatani delle fiere. Come simbolo di tale chiusura alla comunicazione torna l’immagine della chiusura nel guscio dei «paltò» rigorosamente abbottonati. L’asserragliarsi all’interno del clan ristretto si ammanta di una presunta «superiorità metafisica» sugli altri ceti, ma essa non è che esclusione dalla «vita», che rende quella classe inutile «nella storia degli uomini». È un giudizio severissimo, secco, tagliente, perentorio. Ed è significativo che in questa requisitoria ricompaia il termine «vita», così centrale nella Meccanica (benché purtroppo qui nel manoscritto la frase che ne definisce l’essenza non sia completata): anche in questo romanzo si affaccia l’opposizione tra le esigenze della vita (che abbraccia una gamma vasta di manifestazioni, dall’apertura comunicativa fra gli uomini alla realizzazione dell’individuo sul piano del sentimento e dell’eros), e un contesto sociale negatore della vita, mortificante e opprimente. Nell’opposizione fra Elsa e il suo ambiente familiare e sociale si riproduce l’opposizione centrale del romanzo precedente, fra l’autenticità, l’immediatezza gioiosa del vivere (il «fare sciolto e allegro» di Elsa: non è un caso che il termine chiave che ricorre spesso a suo riguardo sia proprio «vivezza», insieme con l’aggettivo «vivo») e l’inautenticità, l’aridità borghesi, mascherate dietro falsi valori.2

1

Romanzi e racconti I, cit., p. 152. Dante Isella indica come «costante» e «costitutiva» nel primo Gadda l’opposizione tra la borghesia milanese, con «la sua plumbea religione del lavoro» e «il culto retorico di una morale soffocante», e «la ribellione dei vividi diritti della natura, il bisogno insoffocabile di credere in un mondo più vero» (D. Isella, Gadda e Milano, in Le lingue di Gadda, cit., p. 57 s.). Isella però insiste anche sul «momento lirico-elegiaco», in cui si esprime l’amore di Gadda per la sua città: «il comico e l’elegiaco, la satira e la lirica nascono insieme» (ivi, p. 61). 2

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1.3. La vitalità del popolo Al polo negativo rappresentato dalla borghesia milanese, oltre alla forza dell’eros incarnata nella donna e alla sua elevatezza spirituale, si oppone ancora un’altra polarità: il popolo con la sua esuberanza vitale, ma a un livello diverso, comico, mentre Elsa è connotata da un livello alto, talora sublime. Si ripropone dunque un sistema affine per certi aspetti a quello della Meccanica. L’opposizione risalta proprio in immediata contiguità sintagmatica con l’immagine dei borghesi chiusi nei loro cappotti neri, ed è introdotta dall’ingresso in scena della figura dello Zavattari, il vecchio da anni incaricato di lucidare i parquets di casa Cavigioli, che è un bell’esempio di schiettezza e genuinità popolaresca. Ma non solo di genuinità: pur essendo molto anziano, lo Zavattari è ancora vivificato dalla forza dell’eros, quella che manca alla «tribù» borghese. Non solo vanta il suo vigore di gioventù («avevo un’aria, uno spirito, un non so che, on quaicoss che tütt i tosann se voltaven…»), ma osa anche avanzare rispettose galanterie verso la bella padrona di casa: E aveva per lei certe delicate uscite, forse nella ruvidezza loro un po’ più accettabili dei pronostici meteorologici dei Cavigioli, forse, è vero, un po’ più impertinenti: ma com’è bello, a volte fantasticava, come è bello anche un po’ d’impertinenza, anche se i Cavigioli faranno finta di non capire. Oh! impertinente Gianmaria non lo era affatto: un po’, poverino, la sciatica; lui, invece, il vecchio Zavattari, un giorno forse che La Confidenza e la grappa e lo spazzettone gli erano andati un po’ insieme, era arrivato a dirle, perfino, che se fosse stato come era giovane, a pulire i pavimenti, in casa sua non ci sarebbe venuto… impossibile… impossibile… o fare un qualche sproposito… o rinunciare…

Dove l’opposizione fra la vitalità del popolo e la povertà vitale dei borghesi è giocata allo scoperto, mediante l’adozione della prospettiva del personaggio femminile che si colloca fra i due estremi in conflitto, e poi lasciando la parola al popolano stesso. Ma a veicolare il tema della vitalità popolare è in primo luogo il giovanissimo garzone del macellaio, Bruno, che, rimasto disoccupato, entra in casa Cavigioli per sostituire il vecchi Zavattari nella lucidatura dei parquets, e che, nel progetto romanzesco, dovrebbe divenire con Elsa il protagonista di un’impossibile storia d’amore, destinata a tragica fine. Che sia il rappresentante della forza istintuale dell’eros è denunciato subito dalla battuta con cui entra in scena, ancora adolescente, quando assiste all’uscita di chiesa di Elsa che ha appena sposato il nuovo marito: «“L’ha sposaa el Cavigioeu… commentò un garzonaccio, “ma quella lì l’era mej se la trovava on cavicc…”». La malizia popolaresca del ragazzo coglie immediatamente l’inadeguatezza virile del marito dinanzi alla bellezza sensuale della donna. Ed è caratteristica del popolo la volgarità sboccata del frasario e dell’immagine, che però è anche indizio di una totale libertà dalla pruderie repressiva propria del costume borghese, e quindi possiede una forza d’urto contestatrice

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nei confronti di ogni rigidezza moralistica. Difatti la battuta suscita l’indignata protesta della signora Vigoni, il nume tutelare della famiglia e il baluardo dei suoi incrollabili valori, che subito pensa di ricorrere all’autorità («voleva chiamare una guardia»). E come risposta riceve una risata dal ragazzo e una nuova insolenza oscena da parte sua, poiché pronuncia il cognome Vigoni «in un certo modo», cioè, evidentemente, sostituendo la labiodentale sorda a quella sonora iniziale, con un’irriverente allusività sessuale. Nei quattro anni seguenti al matrimonio «s’era fatto un giovane», e suscita l’attenta ammirazione di Elsa mentre sale di corsa le scale per portare la carne, con «i potenti muscoli» che «mangiavano quattro a quattro i gradini». La sua immagine è filtrata dalla prospettiva della donna, che sofferma a lungo i suoi pensieri su di lui; e la fantasticheria, non a caso, viene immediatamente dopo quella sulle muscolose gambe dei calciatori, che le evocano per contrasto le gambette misere e semiglabre del marito. Incontrandolo poi al parco, Elsa nota: «Era un bel ragazzo sano, pieno di sangue», sempre in sottinteso confronto con l’esangue e infermo Gian Maria. E quando lo accoglie in casa, in vista della sua assunzione, si estasia «della robustezza di lui, lineata ne’ calzoni di grossa lana, ne’ calzettoni dove si disegnava potente il muscolo». Oltre alla forza fisica ciò che del giovane proletario affascina la signora borghese insoddisfatta è l’allegria, di contro alla «serietà» del marito, che in realtà è aridità interiore, incapacità di abbandonarsi ai sentimenti e agli impulsi più spontanei, una corazza difensiva contro l’urgere inquietante della «vita» che è tipica del suo ceto sociale. Il giovane, incontrando Elsa nel parco, con la sua intuitività irriflessa coglie subito l’infelicità della donna e, per contro, il suo bisogno di una vita piena e gioiosa: «“Pensavo… così… che lei non ha l’aria d’essere felice… le piace l’allegria non è vero?...”». La signora borghese ritiene giusto reagire all’impertinenza del popolano che non sta al suo posto, ma in realtà ne è attratta, e soprattutto la presenza del giovane forte le dà sicurezza, scaccia le paure suscitate dalle ombre solitarie del parco all’imbrunire. Nell’incontro a casa di lei, di cui non vi è più traccia nelle stesure successive, e che segna un po’ l’inizio della relazione, Bruno osa baciarle la mano, e le chiede di poterle baciare anche gli occhi, la bocca, ma la donna reagisce indignata, e allora dinanzi al diniego il giovane se ne va, deluso e offeso. Il distacco improvviso piomba Elsa nello sgomento, perché ai suoi occhi si profila il rientro nella solita vita, con tutto il suo squallore, da cui il ragazzo proletario poteva promettere un riscatto: Un terrore la prese, anni senza luce le ritornarono nell’anima e nella memoria, docilità casalinghe, la sua scatola di lavoro piena di bottoni con l’agoraio e i ditali d’ogni qualità, superstiti a tutte le giacche, a tutti i paltò… Quei bottoni sarebbero sopravissuti anche a lei, anche l’orologio di casa, che esalava lo sciroppo windsoriano del suo carillon mentre dalla contrada milanese saliva il richiamo dello strascée o del venditore di scope «oeh, scoinoni, oeh, scoinoni».

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Ritorna l’immagine dei «paltò» e dei bottoni, sempre assunti a simbolo della chiusura soffocante del mondo borghese. Ma in quegli oggetti minimi e insignificanti della quotidianità, come pure nel suono melenso del carillon e nelle grida consuete dei venditori che giungono dalla strada, si proietta tutta la piattezza dell’esistenza della donna all’interno del matrimonio borghese. È un passo di notevole finezza, nella sua capacità di caricare realtà banali di profonde implicazioni, e può richiamare alla memoria la scena famosa del pasto in cui madame Bovary scopre tutta l’amarezza della sua vita coniugale proprio dinanzi agli oggetti squallidi del quotidiano: Mais c’était surtout aux heures des repas qu’elle n’en pouvait plus, dans cette petite salle au rez-de-chaissée, avec le poêle qui fumait, la porte qui criait, les murs qui suintaient, les pavés humides; toute l’amertume de l’existence lui semblai servie sur son assiette, et, à la fumée du bouilli, il montaient du fond de son âme comme d’autres bouffées d’affadissement.3

Si profila dunque, già da questo «primo getto» inconcluso, una tematica analoga a quella della Meccanica, la relazione extraconiugale tra due esseri pieni di vita come riscatto dalla mortificazione imposta da un ambiente grigio e sconfortante, ma dal punto di vista sociale qui il rapporto si dà in simmetria rovesciata: là la relazione era tra la procace popolana e il bel giovane borghese, qui tra la signora borghese e il robusto e vitale ragazzo proletario. Come Elsa è per certi aspetti l’equivalente borghese di Zoraide, così Bruno ripropone in chiave popolana la figura di Franco Velaschi.

1.4. L’abbozzo del finale Il «primo getto», nonostante la vicenda si arresti proprio alle prime battute, anzi agli antefatti, quando la relazione fra Elsa e Bruno non è nemmeno cominciata, fornisce anche un breve abbozzo del finale, di cui non vi sarà più traccia nelle stesure successive. I due amanti, che si sono incontrati in un capanno abbandonato in piena campagna, restano uccisi e carbonizzati da una linea ad alta tensione colpita dal fulmine, che si è abbattuta su di loro (da cui il titolo del romanzo). Un fatto subito risalta in queste pagine conclusive: mentre la precedente parte scritta della trama è percorsa da una vena di simpatia per il nascere e l’espandersi gioioso dell’impulso erotico nei due futuri amanti, e il loro rapporto è considerato da uno sguardo complice del narratore e dell’autore implicito, questo abbozzato explicit è invece giocato su note cupe e tragiche, come se quella fine segnasse l’abbattersi di una nemesi e di una punizione sui reprobi, ed è tenuto su uno stile alto che punta all’enfasi del sublime. Il discorso indugia a lungo sulla bufera che infuria con vento e fulmini e scoppi spaventosi di tuono. Elsa nonostante tutto si 3

G. Flaubert, Madame Bovary, a cura di É. Maynial, Garnier, Paris 1961, p. 61.

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abbandona alle ardenti e audaci carezze dell’amante, ma ha come il presentimento di un castigo che incombe, dopo la gioia sensuale:

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Le parve, orrore! che la misericordia di una mente infinita oltrepassasse ogni legge, porgesse, prima del castigo, un attimo della fulgida vita […]. Forse l’ora meravigliosa della dedizione e della rapina sarebbe scontata da un’eternità buia. Così fosse.

Si tratta di un monologo interiore della donna, in forma indiretta, quindi il senso del castigo incombente dopo il momento di piacere e di vita piena è da ascrivere alla sua percezione soggettiva. Evidentemente lo scrittore vuole mettere in evidenza come, al momento della trasgressione, si scatenino fatalmente in lei tutti i sensi di colpa creati dall’educazione e dalla vita trascorsa in un contesto sociale repressivo. L’immagine successiva, «una luce immensa risfolgorò dentro al tugurio, come se la spada dell’Arcangelo subitamente vi fiammeggiasse», che ripropone l’idea di un castigo inflitto alla trasgressione, potrebbe ancora appartenere alla prospettiva del personaggio e rientrare nella sindrome del suo senso di colpa, ma (come invece sembra suggerire l’immagine della «spada dell’Arcangelo) potrebbe anche essere assegnata alla voce narrante stessa, che osserva la scena dal di fuori, e in tal caso l’idea del castigo sarebbe da attribuire a lui: la struttura discorsiva è ambivalente, se non ambigua, e l’attribuzione non è decidibile con certezza. La conclusione, al contrario, adotta una prospettiva evidentemente del tutto esterna, neutrale, e sceglie la secchezza del referto cronachistico, che arieggia lo stile dell’articolo di giornale, quindi non propone più l’idea della colpa e del castigo: «Il terzo conduttore decedeva dalla torre di sostegno verso un casotto abbandonato e sfasciato. Fu allora che l’ingegner Perego avvertì la polizia, perché dentro semiusti due corpi orrendi apparvero stranamente avvinti, nella turpitudine della morte». Questo finale luttuoso pone problemi interpretativi di non facile soluzione. Anche se l’idea di un castigo che viene a sanzionare una colpa fosse tutta attribuita al personaggio stesso dell’adultera, ciò non toglie che oggettivamente la relazione trasgressiva è colpita da una fine orribile: ed è l’autore che ha scelto quel tipo di conclusione. Quindi si profila comunque un contrasto con l’atteggiamento di simpatia nei confronti dei due amanti che si è prima sottolineato, ed è un contrasto difficilmente spiegabile. A meno che la sanzione naturale del fulmine non sia da intendere come la trascrizione simbolica della sanzione di condanna che, al di là della simpatia del narratore, inevitabilmente sarebbe stata inflitta agli amanti da un’intera società arcigna e ottusamente moralistica, o in altri termini come la proiezione metaforica dell’impossibilità sociale di quell’amore trasgressivo delle regole, che mai avrebbe potuto trovare un adempimento felice in quel contesto. La catastrofe finale, insomma, sarebbe un modo per conferire un’aura tragica all’esclusione e alla condanna severa che comunque sarebbe stata inflitta ai due amanti dalla comunità. La volontà di collocare il finale in un clima di tragedia è confermata dal diagramma dell’intreccio a forma di parabola disegnato da Gadda nelle note compositive, dove, dopo l’«Impostazione», lo «Sviluppo (catastrofe in po-

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tenza)» viene indicata una «catarsi tragica», con esplicito riferimento alla categoria aristotelica. Non ci sembra proponibile invece una spiegazione che rimandi a una natura matrigna, persecutrice malvagia e crudele delle sue creature, che intervenga a spezzare un’illusione umana di felicità e di realizzazione vitale: tale interpretazione presupporrebbe una concezione di tipo sadiano o leopardiano di cui non si rileva traccia nel romanzo, ma nemmeno nel macrotesto dell’opera di Gadda. Resta però da osservare che, nonostante l’aura tragica introdotta dalla morte e nonostante il livello stilistico sublime dello scavo introspettivo entro il personaggio femminile, proprio quella morte in sé, nelle sue modalità specifiche, rivela anche qualcosa di grottesco. Non si ha solo la sanzione del fato attraverso il fulmine, che può rimandare a tutta un’illustre tradizione, magari classica, ma entra in gioco anche la tecnologia moderna, e per di più una tecnologia poco funzionale: apprenderemo dalla terza stesura che l’incidente è dovuto al fatto che i cavi sono stati rosicchiati dai topi, per l’incuria e l’inefficienza di chi dovrebbe garantire la sorveglianza della centrale elettrica (a quanto pare l’ingegner Valerio Cavigioli). Per cui il modo in cui avviene la morte dei due insinua la nota del comico nella nemesi tragica: gli amanti abbracciati nella morte sono un tema poetico e sublime, ma la morte causata dalla caduta di un cavo dell’alta tensione rosicchiato da dei topi abbassa inesorabilmente il livello, per cui quella morte risulta tragica e comica insieme.4 Ad agire è forse la volontà tipicamente gaddiana di fondere il tragico con il comico, quella volontà che poi farà le sue prove più alte nella Cognizione. Potrebbe confermarlo un altro elemento. Al capo opposto rispetto a questa conclusione, l’incipit del «primo getto» è la negazione di ogni statuto tragico e punta decisamente sul comico satirico. La prima scena, sull’asse cronologico della fabula, si colloca dopo la luttuosa conclusione della vicenda amorosa: cioè il racconto parte dalla fine, con una vistosa anacronia rispetto alle pagine successive, che riprendono la vicenda degli amanti dall’inizio. Dinanzi al commissario di polizia siedono i parenti più stretti di Gian Maria Cavigioli e di Elsa, convocati per cercare di chiarire le cause della misteriosa morte della donna con il garzone del macellaio. E la narrazione di questa scena gioca sul dato grottesco del groviglio inestricabile delle parentele della buona borghesia milanese, dinanzi a cui il meridionale commissario Lo Cascio resta disorientato e inebetito, poi sul proliferare di tipici cognomi ambrosiani, sul particolare ridicolo delle continue e differentemente rumorose soffiate 4 Un altro dato contrastante con la sostanza tragica del finale può essere costituito da una certa somiglianza fra la sorte di Elsa e Bruno e la “tragedia” di Mayerling, che, come fonte di «brividi eschilei nelle penne dei più quotati reporters di tutta Europa» e di un testo di un tal «Giuseppe Arciduca», tra le letture predilette dei borghesi frequentanti il Circolo Filologico, attira nel romanzo l’irrisione di Gadda, specie per il diluvio di luoghi comuni di quella prosa e la ripetizione del concetto di «nèmesi storica», di origine carducciana, idolo polemico ricorrente dello scrittore. Su questa materia si rimanda a A. Godioli, Riso e catastrofe: «Un fulmine sul 220», in «La scemenza del mondo», cit., pp. 100-102. Secondo Godioli nel «Giuseppe Arciduca» è da riconoscere Giuseppe Antonio Borgese, autore di un libro, La tragedia di Mayerling, pubblicato da Mondadori nel 1925.

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di naso dei presenti in lacrime. Anche il legame a distanza di questo incipit con il finale tragico sembrerebbe dunque rivelare la volontà, da parte dello scrittore, di fondere insieme tragico e comico.5 È un’ipotesi suggestiva, che non appare infondata, ma lo stato di abbozzo sommario e provvisorio di questa conclusione, unito all’incompiutezza del racconto (si ricordi che tutto questa materia scompare nella seconda e più ambiziosa stesura) e di conseguenza complicato dalla mancanza di tutto un contesto che potrebbe meglio illuminarne le ragioni, rende difficile, se non impossibile, trovare risposte certe e definitive.

2. La seconda stesura Documento acquistato da () il 2023/04/27.

2.1. Elsa personaggio focale: privilegio spirituale ed esclusione La seconda stesura, risalente al 1933-1935, è molto più ampia del «primo getto», che nelle intenzioni dello scrittore doveva avere il taglio breve del racconto, e punta decisamente al romanzo, come testimonia il fatto che si presenta già articolata in capitoli. Nel piano dello scrittore dovevano essere cinque, e precisamente La crisi domestica, Pane al disoccupato, Un’orchestra di 120 professori (suddiviso a sua volta in due parti), Nuove battute sul Politecnico vecchio, La pianura elettrica. Di questi sono relativamente compiuti i primi tre (ma la prima parte del terzo, che corrisponde al Concerto di centoventi professori dell’ Adalgisa, si interrompe presto, subito dopo l’ingresso di Elsa e del nipote Valerio nella sala del Conservatorio), e da essi si intravede l’avvio dell’intreccio narrativo, con gli antefatti della relazione fra Elsa e Bruno; il quarto si risolve in una ouverture e in poche pagine iniziali sul trasferimento del Politecnico, e i personaggi non vi compaiono; del quinto non resta traccia. Di una terza stesura, del 1936, rimane un primo capitolo, Vita difficile nei prati di San Colombano, con un avvio tutto diverso, incentrato sulla costruzione di una centrale elettrica, che introduce la bieca figura di un ruffiano, destinato nel progetto a ricattare Elsa. È tutto quanto resta del disegno romanzesco. In questa seconda stesura, quella da cui meglio si può desumere la trama narrativa, la condizione di Elsa, giovane donna frustrata dal rapporto col marito anziano e poco virile, arido e tedioso, non è più presentata in modo così diretto ed esplicito come nel «primo getto», ma è trattata in modo più indiretto, deli5 Godioli invece nega che esista la dimensione tragica nel romanzo. Ipotizza che Gadda rida della tragedia che «dovrebbe costituire il nucleo drammatico del Fulmine», per cui «dietro l’ironia si scorge il sospetto che tutto sia ridicolo nella Milano dei Cavigioli»; afferma poi che «il romanzo gira a vuoto su un’impalcatura tragica la cui credibilità è messa in forte dubbio» e condivide la tesi della Savettieri sul «tono ironico con cui Gadda segue le vicende di Elsa e di Bruno» (op. cit., p. 102 s.). La nostra ipotesi, per quanto non sostenibile con assoluta certezza, è diversa: cioè che Gadda voglia davvero elevare la morte finale a una dignità tragica, quindi il tragico sia effettivamente presente nella conclusione del «primo getto», ma intimanente, inscindibilmente fuso con il comico, in un impasto unico, come è proprio della scrittura gaddiana.

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catamente allusivo. Ritornano tuttavia sostanzialmente i temi di fondo: in primo luogo quello della bellezza della donna, di cui anche qui nella prima presentazione viene accentuata la calda sensualità, insieme con il bisogno d’amore e l’impulso verso la «pienezza vitale»: Donna Elsa, cara e dolce donna! […] soleva addormentarsi su quel romanzo, ogni notte, con così turgide labbra che pareva esalassero, senza autorizzazione del nob. Gian Maria, un invito d’amore.

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Però, come nel «primo getto», a contrasto con questa spontanea carica sensuale si profila subito il peso repressivo dell’ambiente sociale: Queste labbra ella se le mordeva come poteva di quando in quando […] a rattenerne quella provocante gonfiezza, che lo specchio le diceva impudica. C’era in que’ labri una offerta inconscia, a cui si sforzava di contraddire sguardo ardente e un po’ malinconico, a tratti ardito ma quasi sempre contenuto, profondamente esercitato dall’educazione e dall’ambiente a significare purità di propositi e moderazione di desiderî […]. Non c’era in lei nessun distacco dalla comunità consueta del tipo, ma perfezionamento di questo verso una singolare alacrità e pienezza vitale. Che poi, a tratti, pareva decedere in una forma di accoramento tenero e subito, come se subiti pensieri le dicessero che la strana favola del desiderio moriva…

È la donna stessa a mortificare la propria carnalità e a reprimere il desiderio, ma solo perché ha introiettato i divieti imposti «dall’educazione e dall’ambiente», come lo scrittore mette in evidenza con tutta chiarezza. Compare già in questo passo, collocato nel secondo capitolo, il tema della malinconia e dell’accoramento generati dalla repressione, che sarà la nota dominante del personaggio di Elsa, condannata all’infelicità nonostante la forza vitale che la anima; e questo determina la sua chiusura in se stessa, a consumare l’infelicità solo nella sua intimità gelosa, senza mai aprirsi all’esterno (solo la sensibilità acuta della cognata Adalgisa saprà intuire il suo segreto). La tendenza della seconda stesura è di conferire alla figura dell’eroina maggiore rilievo, e al tempo stesso di accentuare lo scavo nella sua interiorità inquieta e tormentata. Per questo la focalizzazione interna al personaggio femminile avrà ampio spazio, con la registrazione minuziosa dei suoi pensieri e dei suoi moti affettivi, in forme anche narrativamente molto sofisticate, come avremo modo di vedere. Un fulmine sul 220 nel progetto dell’autore è un romanzo di costume, che ricostruisce con precisione e ricchezza di dati il quadro di un ceto sociale e di un milieu ben individuati e lo sottopone a una satira spietata, ma vuole essere per certi aspetti anche un romanzo psicologico, un roman d’analyse.6 6 Sappiamo che Gadda conosceva Bourget e aveva dedicato attenzione al suo tipo di narrativa, proprio in vista delle propria produzione. Donnarumma ricorda che Gadda nel Giornale e nel Racconto italiano se lo raccomanda come modello (Donnarumma, Gadda: romanzo e «pastiche», cit., p. 51). Gadda legge Le disciple, lasciatogli da Tecchi, nel Lager di Celle, come si ricava dal Giornale del 22 dicembre 1918

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

Spicca maggiormente, in questa stesura, l’elevatezza spirituale del personaggio femminile, che si manifesta nell’impulso caritativo verso i meno fortunati. È anzi proprio questo impulso a spingere Elsa verso Bruno, ma è chiaramente un alibi che le consente di far passare al vaglio della sua severa coscienza l’attrazione che prova per il giovane. L’esplorazione di queste ambiguità della coscienza conferma la fisionomia di “romanzo psicologico” che è in parte attribuibile al Fulmine. L’episodio in cui l’interiorità del personaggio assume particolare rilievo è quello del concerto, a cui Elsa assiste accompagnata dal nipote, il giovane ingegnere Valerio: ed è anche l’episodio in cui si manifesta nella forma più acuta il contrasto fra l’anima privilegiata e l’ambiente sociale. Il conflitto è in primo luogo fra la donna e il suo accompagnatore, il quale rivela tutta l’angustia mentale che per lo scrittore è tipica dei prodotti sfornati dal Politecnico milanese: in particolare ne è un sintomo la taccagneria di non pagare il taxi alla zia ma di voler a ogni costo prendere il tram per raggiungere il Conservatorio, col pretesto della sua comodità, poi la corsa affannosa da lui intrapresa, in gara accanita con il resto della «società musogònica», per accaparrarsi i posti in sala, senza curarsi di lasciare indietro la sua compagna, comportamento che tradisce uno spirito di competizione meschino ed egoistico, oltre a una maleducazione poco cavalleresca. Un simile atteggiamento suscita una reazione disgustata nella donna: Un urto, come di disgusto e di rabbia, ferì Donna Elsa nell’animo mentre il suo cavaliere diceva lasciandola addietro ormai di due passi: «…facciamo presto… zia… se no non troveremo da sederci… » La volizione del volitivo giovane involveva già nel suo velle la fuggitiva labilità degli eventi.

Qui bersaglio della satira è un’altra «virtù» tipica della borghesia ingegneresca milanese, la volitività del carattere, che non deflette mai nella tensione verso il suo fine, e il sarcasmo è affidato alla sproporzione assoluta che si crea fra la dizione aulica, affidata a mezzi retorici sofisticati, come il poliptoto, l’allitterazione, il lessico latineggiante dantesco,7 l’astratto per il concreto, e la mediocrità dell’oggetto in questione. Poi Elsa, mentre scende la balconata dietro il suo cavaliere, si sente al centro degli sguardi pettegoli dell’intero pubblico in sala – che già malignamente sospetta chissà quale tresca incestuosa fra zia e nipote – e soffre di questa silenziosa persecuzione, che in modo del tutto ingiusto e immotivato viene a turbare il suo diritto alla pace: (Saggi giornali favole II, p. 831). E nel Cahier d’études I, nell’«elenco di letture da fare per la redazione del romanzo. Motivazione. 26 marzo 1924», si legge al punto 8: «Per il delitto eventualmente “ Le Disciple” di Bourget» (Scritti vari e postumi, cit., p. 573). Ma nell’interesse per quel tipo di romanzo gioca un ruolo essenziale anche Dostoevskij, da Gadda molto amato, che difatti troviamo citato al successivo punto 9: «Sto leggendo Dostojewskij – bene!». Dostoevskij era la figura centrale di quel romanzo “alla slava”, che divenne di moda negli ultimi decenni dell’Ottocento, come alternativa al romanzo naturalista. 7 Da Paradiso, XXXIII, v. 143: «ma già volgeva il mio disire e il velle».

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Donna Elsa le pareva di dover piangere: ecco discendeva dietro Valerio la balconata e già la guardavano tutti, tutte! Perché non doveva avere anche lei la sua pace? Il suo cavaliere era un tipo normalisssimo, un parente, un ingegnere, un bravo ragazzo.

L’effetto oppressivo e soffocante di quella malevola attenzione è reso attraverso il mero elenco di cognomi tipicamente milanesi dei componenti la «tribù» (un artificio caro a Gadda e più volte ripetuto nel corso del romanzo), che rende il senso di una rete a maglie ferree tesa a imprigionare la vittima senza possibilità di scampo:

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Ahi! che la tribù dei Cavigioli-Lattuada-Ghiringhelli-Perego-Rusconi-Corbetta-Frigerio era al completo: mobilitati i lorgnons più affettuosi delle «amiche» e delle cugine seconde e terze: e quelli «ha! ha!» delle meno prevedibili zie.

La malignità si materializza in un oggetto emblematico, i «lorgnons», detti «affettuosi» per pura antifrasi, puntati sul bersaglio. L’oggetto simbolico ma reale è poi sostituito da uno metaforico, il «testone» del «capo tribù», il «senatore, professore, scrittore e coltivatore di melanzane a Barlassina», brandeggiato come «torre di plancia» verso Elsa, paragone che evoca l’immagine ostile e minacciosa dei cannoni di una corazzata. A questo punto si ha la più significativa focalizzazione sull’interiorità dell’eroina, attraverso cui viene portato alla luce tutto il suo dramma: la cacofonia degli strumenti dell’orchestra che si stanno accordando assume nella visione della donna infelice e tormentata una valenza simbolica, le sembra alludere alla sua dissociazione intima: Allora presero ad essere dolore e tedio per lei, parvero a lei le forze dissociate della sua vita, o anzi della Vita col V maiuscolo, della vita di tutti

dove la prospettiva soggettiva estende l’immagine simbolica dalla persona singola ad abbracciare la condizione umana universale. A contrasto, si affaccia nella mente di Elsa l’alternativa capace di offrire una possibilità di riscatto da quella condizione di «dolore e tedio», l’immagine di Bruno («Pareva non veder nulla, nessuno. O forse vedeva uno andare sufolando per una strada solitaria a un incontro, e poi battersi a pugni ferocemente con un rivale»), che però purtroppo si associa con l’episodio increscioso della rissa raccontato da Adalgisa. E qui allora scattano in lei i condizionamenti ambientali, per cui quella che in realtà è la vittima, che aspira giustamente alla soddisfazione dei suoi diritti naturali, viene invasa dal senso di colpa, che induce in lei il bisogno di riconoscere il valore del contesto sociale in cui vive e di uniformarsi ai suoi codici: Ma no! Ella non doveva vedere né conoscere le cagioni ignobili. E poi no! quella gente dirigeva i suoi atti ad un fine, un unico spirito la comandava, un’anima: coronata di stelle, la Protettrice proteggeva la sua gente, la Salvatrice avrebbe salvata la gente. Lei, lei sola, era stata strappata via dall’anima comune, come la stanca foglia il vento, dalla chioma tempestosa del faggio. […]

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La tribù era nobile, forte, sana: la sua vita era giusta. La sua vita era un motivo reale nella partitura del destino.

Contro il suo sentire più profondo e autentico l’eroina si impone il rispetto e l’ossequio verso quella stessa comunità che è la causa del suo fallimento esistenziale e delle sue sofferenze, e che invece vuole vedere come depositaria della nobiltà d’animo, della forza, della sanità, della giustizia. E in conseguenza della contrapposizione conflittuale si sente esclusa dall’armonia di quella comunità e meritatamente reietta.8 Si può scorgere qui una forte identificazione dello scrittore con il personaggio, anzi una proiezione in esso della propria condizione soggettiva, poiché anche Gadda si sentiva respinto ed escluso dalla comunità in cui pure era nato e di cui faceva parte nominalmente, e viveva dolorosamente l’esclusione e l’emarginazione, rovesciandola in senso di colpa.9 Ne sono significativa testimonianza diversi testi, sin da una prosa come Preghiera, compresa in quegli Studi imperfetti che furono le prime pagine pubblicate da Gadda, su «Solaria», nel 1926: Ho pensato molte volte di voi, poveri morti. […] Quando cammino, mi pare che non dovrei. Quando parlo, mi pare che bestemmio; quando nel mezzogiorno ogni pianta si beve la calda luce, sento che colpe e vergogne sono con me. Perdonatemi! Io ho cercato di imitarvi e di seguitarvi: ma sono stato respinto. Certo è che commisi dei gravissimi errori, e così non fu conceduto che potessi inscrivermi nella vostra Legione. Così mi sono smarrito.

È una pagina altissima, dalla forte tensione tragica, in cui il soggetto, il portatore del «dolore», viene in primo piano, denunciando con accenti inten8 Il passo corrispondente dell’Adalgisa chiarisce ulteriormente il senso di questa esclusione, che qui è affidato a notazioni alquanto criptiche: nasce anche in Elsa dal sentirsi infeconda, negata alla maternità, mentre la collettività è una produttrice feconda e inesausta di nascite. L’episodio del Concerto di centoventi professori (che nel Fulmine si interrompe proprio qui) prosegue infatti con l’immagine della «fabbrica dei bàmboli e bàmbole» che «funzionava “in pieno”, “senza un attimo di sosta”, mandata a tre turni»: «formidabile fucina di uomini e di energie, ecco offriva sul mercato della vita i suoi nati» (C. E. Gadda, L’Adalgisa. Disegni milanesi, a cura di C. Vela, Adelphi, Milano 2012, p. 205). Le pagine dedicate nell’Adalgisa a questa fecondità generativa sono ambigue: da un lato si sente una sincera volontà celebrativa, dall’altro però è avvertibile anche il distacco ironico. Per la frustrazione della maternità negata l’Elsa del Fulmine e dell’Adalgisa anticipa Liliana Balducci nel Pasticciaccio (a tal riguardo si veda M. Bignamini, Mettere in ordine il mondo? Cinque studi sul «Pasticciaccio», clueb, Bologna 2012, pp. 115-120, e G. Pinotti, Su Elsa, Liliana e la confraternita dei malinconici, in «I quaderni dell’ingegnere», 4, n. s., 2013, p. 280). 9 Commenta acutamente Rinaldo Rinaldi: «Gadda potrebbe davvero dire a questo punto, sotto il segno dell’esclusione dalla vita e dell’inappagamento degli istinti, “Madame Cavigioli c’est moi”» (R. Rinaldi, Gadda, Il Mulino, Bologna 2010, p. 63).

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si il peso del senso di colpa, legato al puro esistere, che grava su di lui. Nel romanzo, che impone un’impostazione più oggettivata, Gadda affida invece il tema del «dolore» a un alter ego in cui proiettare i suoi conflitti interiori. Di nuovo autobiografica è una prosa come Dalle specchiere dei laghi, del 1941: Tutte queste immagini erano vere nella vita degli altri. Tutti erano agiati, laboriosi, e da senno. Ero solo: con misere vesti. E al ristare d’ogni folata gli aspetti della mia terra. Avrebbe dovuto riescir madre anche a me, se non era vano il comandamento di Dio, come riescì a tutti, al più povero, al più sprovveduto, e financo al deforme, o a chi risultò inetto a discernere. Ma il dolce declino di quei colli non arrivò a mitigare la straordinaria severità, il diniego oltraggioso, con cui ogni parvenza del mondo soleva rimirarmi. Ero dunque in colpa, se pure contro mia scienza. Nella luce comune, di certo, avevo inosservato gli obblighi, gli infiniti obblighi; ignorato la legge, la legge che atterrisce, che punisce, che uccide. Nessun obbligo, nessuna legge angosciava il libero cuore degli altri. Se altri avesse lasciato dondolar la gamba, bimbo irrequieto, o avesse tentato di stropicciarsi le mani diacce da poter sostenere la sua penna, di certo non sarebbe incorso nelle ammonizioni «illuminate», poi nelle punizioni feroci, distruggitrici, nascoste ai lumi e ai lampioni d’ogni umana cognitiva.

Qui il senso di esclusione e il conseguente senso di colpa si calano da una dimensione più metafisica ed esistenziale a una dimensione sociale: si delineano le cause materiali di quella esclusione, il declassamento, la povertà, che hanno estromesso il soggetto dal ceto di origine; ma affiorano anche le radici psicologiche e familiari, l’inaudita severità repressiva che ha fatto del «bimbo irrequieto» un disadattato, un inetto alla vita, che a tutti gli altri, anche ai più immeritevoli, elargiva invece i suoi doni. Le accuse sono riprese nelle terribili requisitorie di don Gonzalo contro i genitori, la cui educazione rigidamente repressiva aveva «straziato il bimbo», imponendogli divieti terrificanti e rinunce dolorose. Sono gli stessi principi repressivi che dominano l’ambiente in cui è collocata l’eroina del Fulmine, e di cui essa diviene vittima: il legame della finzione romanzesca con il vissuto reale dello scrittore (che nella Cognizione si rispecchia direttamente) si fa palese. Il senso di esclusione del soggetto rispetto a una società in cui tutti hanno invece la possibilità di godere di certi beni è il tema di fondo del grande delirio di don Gonzalo, originato dalla vista della povera cena che lo aspetta. E le immagini di questa «turpe risacca» che si affolla convulsamente per raggiungere il suo posto nella vita costituisce il Leitmotiv ossessivo dei pensieri dell’eroe, che toccano davvero vertici di parossismo delirante: Questo mare senza requie, fuori, sciabordava contro l’approdo di demenza, si abbatteva alle dementi riviere offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca. […] Tutti, tutti entravano nella luce: li avvolgeva la luce della vita, versata sulle loro teste unte dai pazienti alternatori della Cordillera. […]

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Tutti avevano la loro vita, la loro donna: e si erano lasciati varare: ed erano in condizione di essere presi sul serio.

Se tutti trovano la loro sistemazione, opposta è la sorte dell’eroe: «Sistenati i quadri delle sue Lettere, e della sua Ingegneria, la natale Pastrufazio non poté a meno di defecarlo». Dinanzi a questo trionfo della stupidità non resta all’escluso che l’arma della negazione, che però significa condannarsi a un’esclusione ancora più totale, negare a sé anche tutte le possibilità della vita. Ad accomunare le due esclusioni, quella dello scrittore e quella del personaggio femminile, non sono tanto le ragioni sociali (Elsa non è né declassata né impoverita) ma un privilegio interiore, una più elevata sensibilità, che inducono a sentirsi irreparabilmente diversi e per questo colpevoli, ma d’altro lato anche ad avvertire come intollerabili la bêtise dominante, la chiusura mentale, la grettezza, la volgarità. Al personaggio lo scrittore concede l’illusione di un’alternativa e di un riscatto nell’eros, anche se destinata a dissolversi tragicamente; al suo avatar don Gonzalo invece riserva solo la più feroce solitudine, devastata dalle nevrosi (che corrisponde alla propria esperienza biografica).

2.2. Il conflitto interiore dell’eroina All’episodio del concerto segue la lunga sequenza narrativa in cui Elsa attende la cognata al parco (molto più lunga della corrispondente sequenza nell’Adalgisa). Vi domina ancora sistematicamente la focalizzazione interna sul personaggio: benché i turbamenti nati al concerto da cui si è appena allontanata persistano, risorgono in lei gli impulsi profondi che la spingono verso la soddisfazione del desiderio. L’occasione è offerta dai complimenti (da Gadda spagnolescamente detti «piropos») rivolti alla sua bellezza dai giovani che passano nel parco, nel pomeriggio domenicale. I complimenti le suscitano tante emozioni perché è già in uno stato di eccitazione. Non viene ancora detto il motivo, ma lo si apprenderà di lì poco: Elsa sa che in quel pomeriggio incontrerà al parco il giovane Bruno, ed è tutta protesa nell’aspettativa dell’incontro. I giovani passanti sono dunque sentiti, nel suo intimo, come un’anticipazione della figura attesa, sono gli «umbriferi prefazi» di essa, per così dire: Un orgasmo strano s’era impadronito di lei: forse il passato, forse, invece, il futuro. Il tumulto incontenibile delle sue sensazioni l’agitò tutta; ella reluttò alle misericordi carezze della consuetudine, selvaggiamente: nuovi gridi irruppero in lei. Un orgasmo come di febbre. Ma la traversavano momenti improvisi di pace, d’una serenità così alta e certa, che pareva il traboccare della gioia.

Si manifesta un conflitto interiore fra un bisogno di novità, di rottura con la vita solita, che è accompagnato da ansia, e l’immagine in fondo tranquillizzante delle abitudini consuete, ed Elsa lotta contro quest’ultima prospettiva con un impeto di ripulsa violento, «selvaggiamente», pervasa da un orgasmo febbrile;

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mentre la prospettiva opposta di un appagamento del desiderio le dà a momenti una sensazione di serenità e di gioia. È rilevante notare come questo momento cruciale dell’esperienza interiore dell’eroina dia luogo a una forma espressiva che tende allo stile alto, liricamente sublime: è l’indizio della complicità del narratore, della sua partecipazione alla vita intima del personaggio, che lo induce a circonfonderlo di una luce ideale, nobilitandone la fisionomia. In questo caso lo stile va in direzione contraria rispetto alla rappresentazione dell’ambiente borghese, che invece è giocata sempre sui toni satirici e comici, a volte attraverso la sottile ironia e l’antifrasi, a volte mediante l’invettiva scoperta e violenta. Il conflitto interiore fra bisogno di rottura e consuetudine si trasferisce in cifra fisica, nel contrasto fra corpo e viso: Tutta arditezze recondite il corpo, e il viso tutta delicata ragione, meravigliosamente finta: non da lei finta, povera signora, inconscia nella sua solitudine, ma dalla conscia e protettiva socialità.

E ancora, poco più avanti, il conflitto si proietta nel simbolo materiale dei capelli, che nella loro massa folta e abbondante rappresentano i «sogni» sensuali, mentre nell’acconciatura ordinata alludono alla volontà «bene educata» che frena e costringe gli impulsi entro le regole: Dal cappello i capelli si lasciavano scorgere e ne uscivano in parte né corti né lunghi, ma folti, dorati e moltiplicati: come sogni per sé fuggenti, che la volontà bene educata costringesse, raccoltili in una «maniera».

Il conflitto è quello noto, tra la sensualità che è protesa verso la sua soddisfazione, spingendo la donna alla trasgressione, e il peso repressivo della società. Il primo passo si è già letto in parte nel «primo getto», ma qui è decisamente esplicitato il fatto che in Elsa la disposizione al controllo razionale e l’ossequio alle regole sono il frutto di un influenza costrittiva dell’educazione e dell’ambiente, da lei introiettata, quindi la «ragione» che traspare dal suo volto è «finta», non spontanea, del tutto artificiosa. Allora anche in questo caso contro le sue irrequietudini ribelli si erge l’immagine dei membri della comunità: La loro affabilità milanese poggiava sul solido, sul vero sentimento. Si erano autoaddomesticati in una conversazione piena di misura e di senno, di equilibrio e di fondo, senza gli sbilanci inutili dei passionali, dei marsigliesi: un po’ asciutta, forse, talora, come gli gnocchi quando gli manca il sugo. Le variazioni e i passaggi più interessanti riguardavano il tempo e la nebbia «Ma già, ma sicuro».

«Misura», «senno», «equilibrio», solidità sono qui evocati antifrasticamente per mettere al contrario in evidenza, in quella comunità cittadina, la povertà vitale, l’incapacità di provare passioni vive, considerate «inutili», l’aridità, l’angustia mentale, che si traducono nella banalità della conversazione corrente e nella ripetizione di triti luoghi comuni.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

Mentre sui viali del parco cala il crepuscolo, Elsa spia ansiosa l’arrivo di Bruno. Per tacitare il senso di colpa suscitatole da questa attesa ricorre ancora all’alibi della carità fatta a un affamato:

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Aveva aiutato un povero diavolo, nel di cui viso, negli occhi, raggiava la vita, vanamente. Quell’impeto giocondo dell’affamato le pareva avesse il disperato senso d’un sogno, null’altro senso.

Come si vede, però, dalla speciosa giustificazione traspare il senso vero della sua benevolenza caritatevole verso il «povero diavolo»: in Bruno «raggiava la vita». Ricorre per l’ennesima volta il termine, che appare davvero come chiave d’accesso al senso della vicenda: nel giovane ad affascinare la donna è proprio quell’impulso vitale, quello slancio a godere le gioie sensuali, che a lei è negato dall’ambiente familiare e sociale. Ma al tempo stesso si accompagna la consapevolezza che quella prospettiva di riscatto rappresentata dal ragazzo è vana e irrealizzabile, è da relegare solo nella dimensione del sogno. Durante il colloquio con la cognata, gli occhi di Elsa continuano a seguire Bruno, che passa e ripassa davanti a loro sulla sua bicicletta. Adalgisa, acuta ed esperta della vita, coglie subito questi sguardi e ne capisce il senso, poiché conosce l’infelicità della cognata, e nei suoi confronti scatta in lei una «fraterna dolcezza», che invita alla confessione. Vorrebbe vederla felice, la ritiene sprecata in quel legame matrimoniale, con la sua giovinezza e la sua bellezza. E, sulla base della propria esperienza di intrusa nella «tribù» e perseguitata dalla sua malevolenza, invita apertamente Elsa a non reprimere il desiderio, a cogliere quella felicità di cui ha diritto, non curandosi dei pregiudizi e della mentalità ristretta della sua cerchia, verso cui lei ostenta il massimo disprezzo («Sta allegra, divertiti intanto che sei ancora a tempo: non pensarci, non essere così triste […] Soltanto, sceglilo bene… Càtel foeura cont i occ avert… Ma non dargli soddisfazione di prender sul serio tutto quello che dicono… di credere al loro stemma… alla loro superbia… sono dei marchesi minchioni…»). Ma queste parole così aperte e così sagge non fanno che acuire il senso di colpa di Elsa, che nel discorso della cognata sembra di percepire «il fiato peccaminoso della rivelazione», e prova vergogna a veder svelato il suo segreto. Tuttavia, poiché Bruno ripassa pedalando lento, le pare, mentre lo guarda, «un pensiero inesorabile e fulgido scaturito dalla folla tediosa dei viventi». L’incontro con Adalgisa, pur suscitando sensi di colpa, assume per Elsa una funzione tutto sommato euforica, mentre, dopo l’allontanamento della cognata con i suoi ragazzi, l’incontro successivo con lo Zavattari ottiene un effetto opposto, disforico. Al passaggio di un carro funebre elettrico, «ombra silente», il vecchio si lancia in pessimistiche considerazioni, «filosofando con la lingua legata», poiché è un po’ alticcio: O prest o tardi l’è quel lì ch’el ne riva in la porta, cont i coronn… […] Perché a quel lì ghe scapen no nanca i sciori… i scioroni cont el parché lüster… i sciorononi

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con giò tant de cera… de rompes magara ona quaj gamba…» Non gli venne in mente di citare l’Orazio.

È la tipica mistione gaddiana di comico e tragico. La macchietta popolaresca e dialettale suscita certo il sorriso (e il narratore non manca di intervenire ironicamente evocando, a contrasto con la dialettalità dell’operaio culturalmente sprovveduto, il ricordo alto dell’«omnes eodem cogimur» oraziano), ma al tempo stesso si carica di sensi ben più seri e profondi: il richiamo alla morte assume qui un valore simbolico, allusivo al destino luttuoso che incombe sui due amanti, in questo momento felice in cui il loro sentimento sta solo sbocciando. Grazie a questi discorsi del vecchio mezzo ubriaco, sulle illusioni ora coltivate dalla donna intorno a un riscatto dalla sua infelicità si stende un’ombra cupa. Elsa sembra cogliere oscuramente il presagio funesto: «Ma quei motti la rattristarono, la sgomentarono». Ne trae un invito al carpe diem e alla trasgressione, che però su quello sfondo funebre perde ogni slancio gioioso e si avvolge di pesante tristezza: «Ama la tua stagione e il tuo giorno!» Così le parve significassero, in una rovina d’ogni legge. Confermavano il disperato incitamento dell’Adalgisa: tutto, nel mondo, avrebbe confermato la verità.

Difatti segue un indiretto libero di Elsa in cui la figura del vecchio perde ogni aspetto macchiettistico e comico e, filtrata attraverso la prospettiva della donna, assume una sublimità tragica, evocata dall’idea della morte che presto lo attende: Oh! La mano del vecchio tremava, levandosi: povera mano oramai, quella che aveva stretto un giorno, senza remissione, la dolcezza felice dell’amorosa: implorava ora pietà dalle macchine. Il giudizio gli si decomponeva in parole infantili, vani frantumi… balbettamenti… Il potente ordito dell’anima demandava i suoi fili alla morte…

Si diparte di qui una sorta di monologo interiore, sempre in forma indiretta, in cui si affollano disordinatamente nella mente della donna immagini e ricordi d’infanzia: al centro si collocano i baci della mamma, già presaga della propria futura morte, in un paesaggio di «frumenti infiniti», su cui trasvolano «con celeri ombre le nuvole», al cui passaggio «un brivido percorreva la mietitura», mentre «l’assiuolo, dalle solitudini repentinamente oscurate, intermetteva il suo remoto singhiozzo». L’ombra improvvisa delle nuvole, la solitudine dei campi e il brivido delle messi possiedono senz’altro un significato simbolico, gravido di cupi presagi, e anche il verso dell’assiuolo richiama suggestioni funebri e dolorose, probabilmente per il ticordo della lirica pascoliana («e c’era quel pianto di morte… / chiù»).10 A queste immagini disforiche si sovrappone la figura di Bruno, come garanzia di sicurezza, che può dare senso alla vita: «Ma, se Bruno l’accompagnava, tutto, dal mondo, come dalle campagne annuvolate faceva testimonio d’una verità». Segue 10

G. Pascoli, L’assiuolo, in Myricae, a cura di G. Nava, Salerno Editrice, Roma 19912, p. 190.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

un monologo in forma diretta, tenuto su un livello stilistico ancora più sublime, di fortissima tensione lirica, testimonianza come sempre di un’empatia e di una volontà di nobilitazione da parte del narratore nei confronti del personaggio spiritualmente privilegiato. È come se una voce parlasse dentro di Elsa, rivolgendole solenni e oscuri ammonimenti:

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Uno sgomento parlava in lei: «Prescegli», disse, «nell’ora d’ombra e di luce, la efimera pubertà del papavero, cogli il fiore d’un giorno, soccombi al momentaneo vigore del tuo destino… Non darai prole» disse «alla mummia regale di Tut-Ankammen. […] Guarda alle rame dei cipressi che sono l’arborea similitudine della tua vicenda… bevono il polline dai rudi venti, l’aprile! E nelle gole nere della notte ululerà celibe il tempo, il tuo tempo finito. Davanti, come un volo di corvi, gli arrancano l’ore caste, scheletrite befane della morte».

Torna il motivo del carpe diem («cogli il fiore d’un giorno», che sembra echeggiare l’invito edonistico, laurenziano e polizianesco, a cogliere la rosa), insieme all’ammonimento a sottomettersi alla potenza del suo destino che agisce in quel momento, e anche l’immagine dei cipressi, alberi cimiteriali che però «bevono il polline dai rudi venti», suona come un richiamo alla fecondità e alla generazione; mentre a queste immagini positive si contrappongono altre immagini cupe e disforiche, che rappresentano la realtà che attende la donna se non obbedirà all’invito: il suo tempo «celibe» e «finito», «l’ore caste», «befane della morte», evocanti invece la negazione del’eros come destino di infecondità, che apre la strada al vuoto e all’inutilità della vita, e al suo approdo ultimo nella morte. Queste pagine dedicate ai presagi funebri incombenti sui futuri amanti e ai monologhi interiori dell’eroina, che nella loro complessità strutturale sanno quasi di avanguardia, sono di alto valore e di forte suggestione; e suscita rammarico il fatto che poi Gadda le abbia sacrificate nel «disegno» dell’Adalgisa ricavato da questo episodio del parco.

2.3. La satira antiborghese La struttura compositiva già delineata con la sua gerarchia assiologica nel «primo getto» si riproduce puntualmente nella seconda stesura. Al polo positivo, rappresentato dall’anima privilegiata e spiritualmente elevata, i cui moti interiori per lunghi tratti costituiscono il centro focale del racconto, si contrappone il polo negativo della borghesia milanese. Nelle più ampie dimensioni della nuova redazione la satira antiborghese assume anch’essa proporzioni più ingenti. Abbiamo già avuto modo di sottolinearne aspetti significativi là dove il carattere oppressivo di quell’ambiente sociale viene contrapposto in immediata antitesi alla figura dell’ “anima bella”, ma spesso la satira si espande in forme più autonome, o comunque, a partire da quella contrapposizione di fondo, si sviluppa e si amplifica ulteriormente. Gli aspetti su cui si concentra il sarcasmo caustico e a volte feroce dell’autore sono quelli già emersi dall’opposizione con l’eroina: la serietà, la solidità, l’attacca-

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mento alle virtù tradizionali, la povertà vitale, l’aridità, la sordità umana, l’incapacità di provare passioni vive, l’assenza totale di sensualità contrabbandata per saggezza ed equilibrio.11 La mancanza di sensualità è anche incapacità di sentire il fascino della bellezza (come prova l’indifferenza del parentado che, dinanzi all’avvenenza prorompente di Elsa, non sa far altro se non parlare di banalità insignificanti), oppure diviene decisamente pruderie “vittoriana” e stolido pregiudizio nel condannare ogni trasgressione, anche solo immaginata, come dimostra il pettegolezzo malevolo intorno a Elsa e al nipote, che partendo dalla signora Vigoni si estende a tutta la «tribù». A questo si aggiunge il culto dei riti collettivi, come i concerti al Conservatorio, che si riducono appunto a vuota ritualità sociale, priva di ogni retroterra culturale autentico, in cui anzi si manifesta tutta la chiusura mentale di quella classe, oppure ancora spicca l’attaccamento alle abitudini domestiche, che assurgono a una sorta di sacralità. A tal proposito un episodio significativo nella sua comica meschinità è quello ricordato da Adalgisa quando Elsa afferma che il marito la «adora»: Non le riusciva di vedere il cognato in funzione di adoratore, piuttosto lo vedeva a tavola con una severa dignità e sospensione in tutta la faccia, corrucciato per il lesso senza la sale, per i rapanelli troppo rapati, con via cioè tutto il fiocco, e tutto il codino. Ricordò un piccolo litigio di lui con la moglie, a proposito della coda dei ravanelli: la Maria […] credendo proprio de fa polito, aveva sfrondato e decaudato i ravanelli della cima e della radice, del verde e del bianco, riducendoli, da fronzuti e tricolori che erano, ad essere delle pallottoline rosse, ridicole. Il vecchio sangue lombardo, a quella veduta, era insorto con inusitata energia. L’evirazione del gatto non avrebbe suscitato uno sdegno simile in Jean Jacques.

La satira assume modi pariniani, mediante il contrasto fra la materia assolutamente futile, ridicola, e la dignificazione del tono («il vecchio sangue lombardo»), e mette in luce come dietro la facciata di serietà e «severa dignità» del nobiluomo vi siano solo povertà umana e sostanziale bêtise. Ma, al di là della godibilissima comicità, si scorge un tema molto serio: quella borghesia «gentilesca» è priva di ogni duttilità vitale, è chiusa e irrigidita nei suoi schemi, per così dire necrotizzata, incapace di aderire al mutamento, al divenire della realtà. Un altro passo può costituire un utile complemento chiarificatore: 11 A questa rappresentazione polemica è affine l’abbozzo di novella Un matrimonio sfumato, risalente agli inizi del 1932 (ora in «I quaderni dell’ingegnere», 5, 2007, pp. 5-13). Nella prima parte, che sarà poi sviluppata nel racconto La fidanzata di Elio, compreso nel Castello di Udine, i temi toccati sono l’impoverimento vitale, la repressione austera delle pulsioni, l’angustia mentale, che si emblematizzano nella figura della giovane Luisa Rusconi, rigorosamente priva di ogni sensualità, gelida come il marmo, di una precisione maniacale in ogni sua attività, artistica come culinaria. La seconda parte, non ripresa nella Fidanzata di Elio, è una furibonda requisitoria contro la borghesia milanese, incapace di elevarsi a classe dirigente, insensibile a ogni sollecitazione culturale e letteraria, che disprezza le attività intellettuali, commisera e ritiene pazzo chi si dedica agli studi e celebra soltanto le attività pratiche e produttive dell’industria.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

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L’abitudine, la «cara abitudine», «le mie care abitudini», erano il bozzolo prediletto dove s’imbozzolavano tutti della famiglia, i cugini, il nipote, lo zio Agamennone, «quasi animal di sua seta fasciato», la signora Vigoni: il nob. Gian Maria poi neanche parlarne, stretto e rappreso nelle sue abitudini, come la nave del Duca nelle gelate cataste dell’Artide.

Qui la polemica va al cuore del problema, tocca temi profondi, di centrale importanza nella cultura novecentesca: l’immagine del nobile Cavigioli irrigidito nelle sue abitudini come la nave prigioniera dei ghiacci polari sembra riprendere certi temi pirandelliani, la «forma» delle convenzioni sociali che uccide il libero, continuo fluire della «vita» nei rapporti umani, impoverendo tragicamente l’esistenza individuale (d’altronde anche alla base della visione di Gadda, come di quella di Pirandello, si può scorgere una forma di vitalismo); oppure viene alla mente la polemica condotta da Svevo nella Coscienza contro i cosiddetti «sani», per la tetragona immobilità con cui sono piantati nel mondo, rifiutando ogni movimento e ogni cambiamento, fissi nelle loro incrollabili certezze, come il padre di Zeno e la moglie Augusta; si può anche ricordare il valore attribuito da Zeno alla mobilità e alla mutevolezza, come unico antidoto a tale sclerotizzazione necrotica: Già credo che in qualunque punto dell’universo ci si stabilisca si finisce coll’inquinarsi. Bisogna moversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.12

E ancora nelle ultime pagine Zeno insiste sul fatto che è necessario «moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gli incancreniti».13 In un mondo «originale», cioè privo di senso,14 cristallizzarsi in una forma immobile e chiudersi nelle proprie certezze incrollabili è davvero letale, significa «inquinarsi» di «veleni» mortali. L’unico «contravveleno» è appunto il «moversi», la mutevolezza continua, che impedisce quell’irrigidimento destinato a portare a una sorta di rigor mortis ancora in vita. La povertà vitale dei borghesi si fa anche chiusura culturale in un asfittico e peraltro fasullo municipalismo. Gadda è impietoso nell’irridere l’entusiasmo per il «Guerin Meschino» di questa borghesia ambrosiana, persuasa che «anche il cranio d’un ingegnere può costituire buon ricetto alle Muse di via Solferino»: Bello è il veder un ingegner Cavigioli seduto, onninamente dimentico delle filettature normali dei bulloni Whirthworth, seduto, dico, in attitudine pregustante e poco dipoi pienamente assaporante, con sotto al naso la «poesia milanesa», dentro il di cui ricco e assortito folklore egli pescherà compiaciuti i più gustosi modi del nostro vecchio dialetto, i più rari come «pü in alt» e «bizar» e «bambin». Sono così 12

Svevo, Romanzi e «continuazioni», cit., p. 958. Ivi, p. 1082. 14 A proposito della vita «né brutta né bella» ma «originale» di cui parla Zeno, ci sia concesso rimandare al nostro Memzogna e verità nella narrativa di Svevo, cit., pp. 144-149. 13

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rari e così gustosi questi modi, e così autentici che soltanto i nostri poeti dialettali li usano e tutti contenti come pasque se ne imbrodolano felicemente il bavaglino.

La polemica prosegue assumendo come bersaglio il culto delle lingue straniere, «che oggi è la base»:

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Subito dopo le scienze esatte che servono a tirar su così sbagliate case in Milano, i Cavigioli amavano coltivare le lingue, salvo beninteso che l’italiano. Essi accudivano a studiare il tedesco dalla prima giovinezza, cominciando con la fräulein, e perseveravano poi a studiarlo tutta la vita: tralasciando però di commettere l’imprudenza di arrivare a impararlo, con che non avrebbero più potuto perseverare a studiarlo.

Dove, oltre alla prigionia nel luogo comune, è irriso il culto borghese dell’impegno serio nel raggiungere un fine. La chiusura culturale si manifesta anche nei gusti della «società musogonica» che si affolla al concerto: La sala in ogni posto gremita. Ivi la società musogonica s’aduna a purgare i suoi peccatuzzi, con l’udire quelli bellissimi di Igor Strawinski. «Oportet un eveniant scàndala». E l’ebreo russo dal nome polacco, approdato nella villa di Sguizzera, gli procurava giusto quel zinzino di scandalo che gli ci vuole: da potersi ella adeguatamente scandolezzare. Da potersi chi crede indignare e sul sedile contorcere. Oppure compiacere, rammaricare della idiozia passatista, da poter comunque bofonchiare, protestare, zittire, sibilare, muggire, aborrire l’orrore. O rabbiosamente plaudire. Poi una qualche partitura di Franco Alfano, delle più «solide», delle più «equilibrate» riconduce le anime alla ragione, le pecorelle verso l’ovile: quando non gli rimanga sullo stomaco, come un mezzo chilo di polenta rafferma.

A questa miseria culturale si aggiungono l’esterofilia e lo scarso senso patriottico, come dimostra il nobile Cavigioli: In gioventù egli aveva avuto fede nell’intelligenza dell’imperatore Guglielmo, perché non bisogna pensare che sia vero tutto ciò che i giornali raccontano. Anche alla Regina Vittoria serbava una stima commista di ammirazione… Le sole creature che non aveva mai degnato della sua benevolenza eran quelle che lo Stato italiano muniva di titoli, perché difendessero le ragioni dello Stato Italiano. Queste stesse ragioni il nob. Gian Maria le trovava poco fondate, mentre quelle tedesche, inglesi e francesi erano per lo più fondatissime. La sua serietà e la sua cioccolatta gli facevan ritenere che tutta questa scenografia dell’Italia fosse un po’ una montatura, e che un Cavigioli potesse tutt’al più sorriderne e compatire alle effusioni degli scalmanati, viceversa il Kaiser era, evidentemente, una persona seria.

Se si pensa alle convinte posizioni patriottiche e nazionaliste di Gadda, si può intuire quanta avversione, quanta esecrazione si celino dietro l’ironia apparentemente bonaria. Anche perché gli «scalmanati» (lo stesso termine usato dal notaio Velaschi della Meccanica) che suscitano il compatimento sprezzante del nobiluomo sono i giovani interventisti che manifestano in piazza nel «maggio radioso», tra cui lo studente Gadda urlava entusiasta «viva d’Annunzio» e «morte a Giolitti».

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Altro segno di chiusura entro l’ambito di poche certezze inscalfibili è il culto tributato da questa borghesia al Politecnico milanese: Credevano, prima che in ogni altra cosa, nel «Politecnico di Milano» del quale asserivano con un’alzata di spalle la superiorità indubbia sul «Politecnico di Torino», sul Valentino, gli altri addirittura non potevano essere presi in considerazione. «Io sono il tuo Politecnico, e tu non avrai altro Politecnico avanti di me». Gli zii ci giuràvano, vi aspiravano ansiosi i nepoti nel primo fiore della loro pubertà elettrotecnica. L’aula per il disegno di macchine […] l’aula, quell’aula, era l’elisio dei loro vent’anni rigorosamente maxwelliani. Ad essa si era fissato per sempre il loro complesso erotico puberale. […] Ammetiamo che in premio de’ loro buoni diportamenti Iddio lasci scegliere a loro. Dove preferiscono, dove vogliono trascorrere le vacanze dell’eternità […]. Giuro che sceglieranno l’aula di disegno di macchine, dalla quale, in un cinquantennio, uscirono miopi ventottomila ingegneri.

La chiusura mentale si manifesta naturalmente nella ripetizione di luoghi comuni e idee ricevute, che Gadda, al suo solito, appunta implacabilmente sulla pagina, come il «povero Carlo», il marito entomologo di Adalgisa, fissa i coleotteri con uno spillo nelle sue teche. Se ne può comporre un ricco florilegio (che diverrà ancora più ricco nell’Adalgisa). Alcune di queste «milanesissime moralités»15 sono adespote, riflettono semplicemente la dóxa, la communis opinio: «Non si può pretendere di rimanere sempre allo stesso punto, una nazione moderna deve pur evolversi, deve progredire»; «La serietà, la dirittura del carattere, quel bisogno di fondarsi sul solido, quei principi sani e nello stesso tempo moderni, che sono la più sicura base della famiglia e nello stesso tempo della società: che sono l’ “arra”, come diceva la Perseveranza». Altre sono messe in bocca a persone precise, ad esempio il nobile Gian Maria, imprenditore nel ramo del cioccolato, della pasta, delle saponette, che ha dedicato tutta la sua vita agli affari e proclama solennemente il suo credo fondamentale: «“Siamo venuti al mondo per lavorare!” diceva ai giovani, con bella vivacità»; e lo ribadisce spesso, con opportune variazioni e con la necessaria dose di deprecatio temporum: «…Siamo venuti al mondo per lavorare, e non per fare i lazzaroni sul Corso… dalla mattina alla sera… come usa adesso…». Oltre al lavoro, l’idea della famiglia è «il suo chiodo»: «Lo scopo della vita è la famiglia, è la continuazione!», salvo poi non essere in grado di fecondare la giovane sposa, per scarsa libido oltre che per scarso vigore virile. Per quanto riguarda il binomio «famiglia» e «lavoro», centrale nella visione della borghesia ambrosiana, esso nell’Adalgisa darà luogo alla pagina straordinaria in cui viene riprodotta la sequela interminabile dei necrologi del «Corriere» dedicati al «Grand’Ufficial Dottor Ingegner Maurizio Rinaldoni Senatore del Regno», che in tal modo si sdoppia e si moltiplica «in una serie infinita», «come fosse un’ameba»; 15

La festa dell’uva a Marini, in Il castello di Udine (Romanzi e racconti I, cit., p. 234).

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e il narratore commenta: «Impossibile sperare nella variante «lavoro e famiglia, data la gerarchia degli affetti».16 Oltre alla famiglia e al lavoro, i luoghi comuni prediletti da questa borghesia riflettono il suo culto della scienza. È soprattutto il ragionier Carlo Biandronni, raccoglitore di minerali ed entonologo dilettante, a esprimere il suo entusiasmo per la conoscenza della natura: «La natüra domà dervì i oeucc, l’è talment varia… talment infinida…», dove il ricorso al dialetto, con la sua forza di deformazione comica, contribuisce a mettere in evidenza il ridicolo del luogo comune. Pur restando sempre fedele a questo assioma, Carlo arriva però a prender coscienza della necessità della specializzazione, per restare al passo con i tempi moderni: Dapprima aveva tentennato, aveva svolazzato nel campo infinito: «La natüra l’è talment granda, talment infinida!» Poi, a poco a poco, aveva preso a ragionare, a restringersi: trovò che bisogna «specializzarsi», saper resistere alle tentazioni dissolvitrici dell’Enciclopedia. «Siamo nel secolo della specializzazione», diceva autorevolmente.

Il buon «ragionatt», sempre ispirato dalla sua osservazione scientifica della vita degli insetti, si lancia poi in un peana dedicato al principio del risparmio, incontrando la piena approvazione degli ascoltatori, ma il fattore esilarante della riproduzione di questo discorso e che il suo punto di partenza è la pallina di sterco laboriosamente preparata dall’ateuco, lo scarabeo stercorario, in cui la femmina depone l’uovo: «…Ogni generazione spiana la via alla generazione seguente… […] spiana la via ai venturi, gli prepara il nido… » Così disse, pur intuendo che il nido in discorso non era un vero e proprio nido, nello stretto significato della parola. «È il sogno di poter allevare i nostri figli nel benessere… nell’orgoglio di sapersi nostri figli… valendoci della fatica… dei risparmi sacrosanti di tutta una vita…» «Propi inscì! Ben detto», rincalzarono tutti. Scopersero poi, felicitandosi reciprocamente della scoperta con dei nuovi «ben detto! volevo dirlo anch’io», che i risparmi, per l’appunto, possono essere paragonati al… alla…: alla pallottola.

Lo sfondo scatologico su cui si proietta questa serie di sani e saggi principi, e soprattutto l’equiparazione implicita dei risparmi alla materia escrementizia, vale a dissolverne la serietà e la dignità in una pungente irrisione, e ad avvolgere chi li professa in una dimensione di ridicolo senza scampo. Anche il «povero Carlo» si offre dunque come campione tipico della borghesia milanese e della sua mentalità, ma nei suoi confronti l’atteggiamento del narratore è diverso da quello assunto verso il resto della «tribù» e in particolare del nobiluomo Cavigioli: la satira non è così acre e distruttiva ma rivela un fondo di simpatia. E la ragione è evidente: il ragioniere, nonostante la mente imprigionata nei luoghi comuni del suo tempo e della sua classe, è un uomo vivo e vitale, fisicamente esuberante, pieno di slanci 16

L’Adalgisa, cit, pp. 211-213.

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generosi e spontanei, non un essere inerte, stento e vitalmente impoverito come gli altri borghesi, presenta cioè un fondo di genuinità popolaresca. Il luogo comune può assumere forme visive, figurative, associandosi con il cattivo gusto e la piatta retorica. È il caso delle immagini allegoriche che decorano il pannello del Politecnico con i ritratti dei laureati:

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Una femmina piuttosto innocua in veste di Scienza o di Patria o giù di lì, coi seni buoni e ben proporzionati, oh! quanto a questo non c’era da ridir nulla, e in testa una corona murale, una stella. – Qualche volta invece si tratta di un giovane dall’aria un tantino citrulla, ma abbastanza ben proporzionato anche lui, seminudo, col solito lenzuolo, oppure nobilmente evirato, ed ha però una fiaccola in mano, essendoché, poveraccio, ha da figurare il Genio Umano o il Progresso e qualche altro salame del genere. Dalla fiaccola, è ovvio, dato che siamo in sede elettrotecnica, sprizzano lampi e scintille come dalla pistola al magnesio del fotografo.

Dove si può leggere un perfido sberleffo, tradotto in forma iconica, alla mitologia più trita della civiltà positivistica, su cui ancora poggia la sua visione del mondo il «ceto mercativo-politecnico» dell’«industre città».

2.4. Gadda e la borghesia Per quanto riguarda il rapporto di Gadda con la borghesia milanese, la definizione più corrente è affidata alla formula «odiosa-amata». In effetti è evidente un’ambivalenza, se non una vera e propria contraddizione, nell’atteggiamento dello scrittore verso quel contesto sociale: la satira feroce e l’irrisione implacabile provengono da un suo membro, da chi fa parte proprio di quel ceto ingegneresco la cui mentalità viene messa alla berlina (non a caso nello sterminato elenco delle famiglie che frequentano il Circolo Filologico figura anche un «Gaddus»). Di quella classe in realtà lo scrittore partecipa i valori fondamentali, essendo un conservatore e un uomo d’ordine. Ma la contraddizione è più apparente che reale. I valori a cui Gadda è fedele sono quelli della «vecchia classe», che, come si legge nel Castello di Udine, «nonostante i miei giambi, è stata una realtà, delle più attive e più solide, nella vita economica e morale della patria», ed era contrassegnata da «una tradizione di signorile gentilezza, di misura e di ritenuto gusto e giudizio»;17 quella classe liberale che è stata protagonista del Risorgimento e del governo dell’Italia appena unificata, e di cui hanno fatto parte membri della sua famiglia. Come viene detto sempre nel Castello di Udine, «anche per fare il quarantotto c’è voluto un po’ di posate d’argento. Il Regno d’Italia, per i miei, era una cosa viva e verace, che valeva la pena di servirla e tenerla su».18 La difformità di questi giudizi rispetto alla satira del Fulmine non nasce dunque da capricciosi mutamenti d’umore o da mancanza di coerenza: l’insofferenza 17 18

Romanzi e racconti I, cit., p. 159. Ivi, p. 141.

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rabbiosa di Gadda per la borghesia del proprio tempo si origina dal constatare un suo allontanamento da quell’aurea (e mitica) età, una degenerazione, e quindi un tradimento di quei valori.19 Le antiche virtù si sono ridotte a vuoti e inerti luoghi comuni o peggio si sono rovesciate in vizi ridicoli, che suscitano nello scrittore irritazione atrabiliare oltre che sdegno etico e civile: il patriottismo si è trasformato in chiusura municipalistica, il senso civico in un arroccamento a difesa dei privilegi del clan, la solida serietà in rigidità paralizzante, in immobilismo prigioniero delle «care abitudini» e di riti insulsi, la laboriosità in affarismo cinico ed egoistico, teso al profitto a ogni prezzo e unito a vera e propria spilorcaria, il rigore morale in perbenismo benpensante e in sessuofobia ottusamente attaccata ai suoi tabù,20 il saggio equilibrio dei moderati in conservatorismo cieco e meschino, gli interessi culturali e artistici in fruizione puramente gastronomica di prodotti midcult, con il conseguente rifiuto di prodotti letterari e artistici più validi (si pensi agli entusiasmi per la «poesia milanesa» del «Guerin Meschino» e il rigetto infastidito e sdegnato di Stravinskij), la cultura tecnica e scientifica di dignitosa tradizione positivistica in stereotipi e in miti acritici largamente diffusi, come quello del «noster Politecnic» (anzi «Politèknik», come Gadda scrive nell’Adalgisa, per straniare attraverso la grafia la frase fatta). È questa borghesia non più all’altezza del suo compito egemonico che diviene il bersaglio della satira gaddiana, proprio in nome dei suoi valori più autentici, verso cui si protende la disperata nostalgia dello scrittore.

2.5. Svalutazioni della vicenda amorosa rispetto alla satira Secondo Dante Isella «il vero oggetto» dell’interesse narrativo di Gadda in questo romanzo «non è ovviamante, o solo in piccola parte, l’affabulazione romanzesca dell’amore di Elsa e di Bruno (una passione che ricalca quella della splendida Zoraide e di Paolo nella Meccanica), ma la rappresentazione satirico-grottesca dell’odiosa-amata società lombarda».21 Non ci sembra un’interpretazione accettabile: dalle analisi sin qui condotte speriamo sia risultato evidente che la storia dei due amanti, e in particolare il personaggio di Elsa, assumono un’importanza essenziale come polarità dell’opposizione su cui si regge la struttura del roman19 Donnarumma osserva che in Gadda non ha corso il mito di «una Milano del passato superiore a quella del presente» e ricorda che è la Milano d’anteguerra quella contro cui si è battuta Adalgisa, quella delle stoltezze socialiste e delle trame degli imboscati contro cui polemizza la Meccanica, oppure è la città nell’epoca positivistica ad essere bersaglio di satira nella lunga nota dell’Adalgisa. Riconosce però che «se proprio deve cercare una stagione mitica del passato milanese, allora Gadda celebra il ruolo che Milano ha avuto nel Risorgimento» (Donnarumma, Gadda e Milano: mito e demistificazione, in Gadda modernista, cit., p. 144 s.). Tutto il saggio è prezioso per la ricostruzione del rapporto dello scrittore con la città natale e la sua borghesia. 20 Alla vicenda di Elsa si deve accostare, come indispensabile complemento, anche quella di San Giorgio in casa Brocchi, in cui l’adolescente di buona famiglia, vittima del clima sessuofobico che vi regna, è salvato dalla procace e disponibile servetta. 21 D. Isella, Nota al testo, in Un fulmine sul 220, cit., p. 296.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

zo, e quindi sono anch’essi «vero oggetto» dell’interesse narrativo di Gadda. La polemica contro la società milanese, oltre alla rappresentazione satirica diretta, passa anche attraverso la narrazione della vicenda amorosa, in quanto la figura di Elsa costituisce l’antitesi e la negazione della soffocante piattezza dell’ambiente in cui è immersa (e lo stesso vale per il personaggio popolare del garzone di macellaio, con la sua esuberanza vitale). Il legame amoroso, proponendo la forza dell’eros contro il perbenismo “vittoriano”, rappresenta la ricerca di un riscatto da quell’atmosfera mortificante. Quindi la satira antiborghese e la storia d’amore sono strettamente legate, tematicamente e funzionalmente, fanno parte di una struttura unitaria e organica. Il romanzo presenta un sistema narrativo coerente, in cui ogni elemento ha una sua importanza e una sua ragione imprescindibile, in rapporto con gli altri. Anche Giuliano Cenati sottovaluta la vicenda adulterina di Elsa e Bruno, sostenendo che «a una trama romanticamente un po’ scontata, […] Gadda ha preferito il perfezionamento dell’analisi satirica».22 Ribadiamo invece che la vicenda dei due amanti è una componente fondamentale dell’analisi critica condotta da Gadda sulla società milanese, ed è da essa indisgiungibile. È vero che la materia in astratto è «romanticamente scontata»: effettivamente il tema della donna delle classi alte, malmaritata e insoddisfatta, che cerca un riscatto nella relazione con un prestante giovane proletario è un tópos molto frequentato, e non solo in letteratura, ma anche nel teatro e nel cinema. Ma l’importante è poi come lo scrittore concretamente tratta quella materia, quali significati vi immette: e ci pare che la tematica che Gadda affida alla vicenda amorosa del romanzo sia ricca di spunti penetranti e profondi, per niente scontati. Non è poi quasi il caso di ricordare i procedimenti narrativi complessi e sofisticati e l’uso originalissimo delle mescolanze linguistiche, che basterebbero da soli a riscattare anche i contenuti più banali, se ce fosse bisogno, perché i significati passano in prima istanza attraverso le scelte formali. Una svalutazione della vicenda romanzesca si può riconoscere parimenti nel saggio sul Fulmine di Raffaele Donnarumma.23 Di conseguenza del suo discorso, peraltro di alto livello per approfondimento critico e vigore argomentativo, non ci paiono condivisibili alcuni punti. Insistendo sulla definizione del Fulmine come «satira» dal carattere «nichilista» in contrapposizione al «romanzo», Donnarumma sostiene che Gadda «non ha amore né interesse per la realtà in sé», quindi «il Fulmine si arresta perché le vicende dei suoi personaggi non meritano, in fondo, troppa attenzione. […] In effetti, quale personaggio del Fulmine può pretendere di affermarsi alla nostra attenzione?».24 In realtà il Fulmine sul 220 non è solo satira, è anche romanzo (o almeno aspira strenuamente ad esserlo: ma questo è un altro 22 23 24

G. Cenati, Disegni, bizze e fulmini. I racconti di Carlo Emilio Gadda, ets, Pisa 2010, p. 44. Donnarumma, Satira e romanzo: «Un fulmine sul 220», in Gadda modernista, cit., pp. 85-89. Ivi, p. 86 s.

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UN FULMINE SUL 220: L’ANIMA PRIVILEGIATA, LA BORGHESIA E LA VITALITÀ DEL POPOLO 129

discorso), con una vicenda chiaramente delineata, una protagonista, Elsa, centro focale di molte parti della narrazione, la cui interiorità è indagata con autentica attenzione, una comprimaria della statura di Adalgisa, un sistema tematico organizzato studiatamente su varie polarità in opposizione, con una linea di fondo ben in evidenza, l’esaltazione della «vita», dell’intensità vitale contro l’impoverimento borghese (e, almeno virtualmente, il rimando a un’età aurea in cui la borghesia era ancora depositaria di valori). Se è vera la ricostruzione del sistema paradigmatico che abbiamo tentata, non si può affermare «l’assenza di una dialettica interna fra valori e disvalori a cui Gadda satirico non crede», la mancanza di «un centro di senso positivo» contro il tema dominante della satira antiborghese.25 Negando questo conflitto interno, Donnarumma nega anche il pluristilismo del Fulmine:26 che invece a nostro avviso sussiste, ed è proprio garantito dalle parti in stile alto che riguardano il polo positivo costituito da Elsa, in conflitto con lo stile basso delle parti satiriche contro la borghesia. Sull’importanza della vicenda dei due amanti in conflitto con il contesto borghese propone una diversa prospettiva pure Cristina Savettieri, secondo cui l’adesione del narratore è «spesso incrinata, eccessivamente patetica o grottesca o declinata secondo una tonalità sublime di marca letteraria esibita: un’inclinazione satirica non risparmia i due amanti, a cominciare proprio dall’incipit del “Primo getto” che si configura come una deliberata negazione del tragico che dovrebbe sostanziare la loro morte. E del resto l’opposizione tra il destino dei due amanti e le ragioni di una morale ottusa è messa in parentesi e svilita»; a riprova la studiosa cita un passo del «primo getto»: «Lottare contro le virtù politecniche dei Cavigioli era impossibile».27 Ma si può obiettare che il fatto che la lotta sia vana e destinata alla sconfitta non toglie nulla al valore dell’opposizione assiologica: al contrario l’opposizione fra i due amanti e la «morale ottusa» del milieu, lungi dall’essere «svilita», ne esce rafforzata, e diviene la struttura portante del romanzo. Inoltre non vediamo come il gioco pluristilistico possa «incrinare» l’adesione alla vicenda amorosa: semmai ne è una manifestazione evidente, grazie, come si diceva, alla contrapposizione dei toni alti, riservati a Elsa, e dei toni comici, riservati alla satira antiborghese; né ci sembra di poter ravvisare un’«inclinazione satirica» nei confronti di Elsa, almeno nella seconda stesura, dove la donna è costantemente presentata in chiave seria come anima privilegiata e dove non vi è più traccia di quell’incipit grottesco (di cui comunque si è già tentato di definire la valenza nella fusione tipicamente gaddiana di tragico e comico). Il saggio della Savettieri è molto importante, e mette a fuoco aspetti fondamentali del romanzo, ma su questi punti non ci sentiamo di concordare. 25

Ivi, p. 89. Ivi, p. 95. 27 C. Savettieri, Il «caso possibile», in La trama continua, cit., p. 111. Condivide questo giudizio limitativo Pinotti, Su Elsa, Liliana e la confraternita dei malinconici, cit., pp. 277-279. 26

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

2.6. Il popolo

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Anche in questa più ampia ed elaborata stesura la terza polarità, chiamata a opporsi alla borghesia milanese, è rappresentata dal popolo, in primo luogo da Bruno.28 Contro l’impoverimento vitale dei borghesi rappresenta la vitalità esuberante e la forza fisica. La sua fame di vita e la sua sanità gagliarda si compendiano nell’immagine del bicchiere di vino tracannato golosamente, che suscita in Elsa un senso di giocondità: Bruno aveva esitato un po’, col bicchiere a mezz’aria, come cercando di ricordarsi o immaginarsi quali fossero i modi del sorseggiare propri alla buona società: poi si decise a tracannar d’un fiato tutto il bicchierozzo. Donna Elsa con cuore giocondo poté vedere il fiotto decedere per sorsate piene giù in quella gola potente, saluberrima, irrorandola d’un così umano benefizio, e le stille tinger gli angoli dei labbri già vermigli.

È inevitabile allora che nella mente della donna sorga l’immagine della gola del marito: Le venne in mente, per contrasto, il pomo d’Adamo di suo marito quando faceva la barba e, verso la fine della cerimonia, il pomo rasato si copriva d’un garbato velo di magnesia. Suo marito portava colletti a risvolto, da frak, propri del patriziato […] Nei ritratti di famiglia sia i colletti, sia il pomo testimoniavano dell’alto sentire dei Cavigioli.

Il confronto fra le due gole mette in risalto il contrasto fra la spontaneità senza inibizioni del popolano e la rigidezza ingessata del marito, chiuso nella corazza del contegno imposto dalla tradizione nobiliare. Ma non solo: la golosità del giovane entra in forte opposizione, virtualmente, anche con i brodini scipiti e i lessi senza sale che costituiscono abitualmente il pasto del nobiluomo, così come la potenza dei «fasci di muscoli» delle sue gambe, che gli consentono di salire di slancio le scale, si contrappongono alle gambette alabastrine del Cavigioli, doloranti per la sciatica, un confronto qui ripreso dal «primo getto» e ulteriormente potenziato. Si ripresenta l’opposizione fra salute e malattia, già centrale nella Meccanica, che è l’equivalente fisico e concreto dell’altra opposizione fondamentale, tra la

28 Donnarumma, se riconosce che in Gadda «i ceti popolari si presentano talvolta come portatori di valori alternativi» alla borghesia, puntualizza poi opportunamente che lo scrittore «è piuttosto estraneo a tentazioni populiste». Infatti «la Milano popolare non è una Milano da idillio. Bruno, il garzone dell’Adalgisa, è simpaticamente canagliesco, ma pur sempre canagliesco» (e a maggior ragione, aggiungeremmo, il Bruno del Fulmine: si pensi alla sua rissa violenta con il bieco Visconti per ragioni di donne); vengono citati inoltre il Gildo della Meccanica, «mezzo teppista», e Luigi Pessina, «incrostato di luoghi comuni filantropici» (Donnarumma, Gadda e Milano, cit., p. 143 s.). Per questa visione pluriprospettica e problematica delle figure popolari rinviamo al discorso condotto nel precedente capitolo sulla Meccanica.

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«vita fulgida, vera» e quella «finta».29 Per Elsa nel viso e negli occhi del giovane «raggiava la vita». In questa direzione la «vampa di capelli scuri» che irrompe dalla fronte di Bruno rima idealmente con l’analoga «fiammata di capelli sopra la fronte» di Franco Velaschi, di cui eredita la funzione, con inversione della provenienza sociale. Il proletario è qui la vita autentica, di contro a quei simulacri sbiaditi, a quelle «parvenze non valide», a quelle «non-forme» che sono i borghesi, incapaci di uniformarsi a un’«entelechia» e di assurgere a una forma definita al culmine di una loro evoluzione, restando così entità «barocche», per usare la formula di Gadda, deformi e risibili, oltre che deprimenti. Proprio in questa chiave evoluzionistica, come prodotto perfetto di un processo evolutivo, è considerato Bruno dalla prospettiva di Elsa, in un suo monologo interiore (filtrato però attraverso la voce dell’autore), che si colloca subito dopo l’importante pagina dedicata ai ditischi, colma di ammirazione per il lungo processo che ha fornito a quegli insetti una forma perfettamente idrodinamica, ha dato luogo al loro «laborioso integrale isoperimetrico»: Bruno ripassò, alto e calmo, sulla sua bicicletta. Anche il suo sangue, traverso i millenni, doveva aver comportato e risolto tutta una serie di problemi infinitesimali. Gli imponderabili atti e moti, le intime e quasi impercettibili volizioni, le profonde elezioni dell’istinto, le oscure deliberazioni, «les petites perceptions», s’erano lentamente stratificate ed accumulate in una persona. L’oscuro tendere, l’oscuro volere, l’oscura fermezza, l’oscura fede: l’oscura fatica, l’oscura negazione e ripudio delle cose abominevoli, la scelta degli atti vitali, il raggiunto essere, alfine!, come di chi emunto alfine risorga nel giorno dalla tomba infernale della miniera. Questa è la creazione e la vita. La pacchiana discorsività degli atti finiti, dei pensieri distesi, non è se non ordinaria pratica, non è creazione, non è euresi, ma godimento e ripetizione.

È una pagina fondamentale, e non per nulla sarà conservata nell’Adalgisa. Vale a illuminarne meglio il significato il discorso che segue, con la polemica già esaminata contro le «care abitudini», il «bozzolo» dove si «îmbozzolavano» tutti della famiglia, e contro il Cavigioli chiuso nelle sue abitudini come una nave prigioniera dei ghiacci dell’Artide: la collocazione stessa di questo monologo dell’eroina mette in piena evidenza che Bruno è l’antitesi di quella borghesia e l’antidoto contro la sua negatività, perché mentre essa è incapace di mutare, di evolversi, il giovane popolano è proprio il punto culminante di un movimento di trasformazione verso il meglio, e mentre quella classe è un caso patologico di «barocco», cioè del bloccarsi e dell’«impaludarsi» del processo storico-naturale, egli, nella sua perfezione fisica e vitale, ne è l’esatto contrario.

29 Come giustamente osserva Cristina Savettieri, «l’opposizione conflittuale tra maschera sociale e verità istintuale è […] uno dei temi privilegiati dell’intero Gadda narratore, a cominciare dal San Giorgio, passando dalla Cognizione fino al Pasticciaccio» (Savettieri, La trama continua, cit., p. 116).

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Oltre alla forza e alla sanità, altre qualità del giovane vengono alla luce: come la salacità sfrontata del linguaggio, libera da tutte le pudibonderie del moralismo borghese (tornano qui la battuta sul «cavicc» che occorrerebbe a Elsa e la deformazione oscena del cognome della signora Vigoni); o l’irriverenza del «discolo», pronto a farsi gioco della vecchia serva sorda, che non capisce nulla di ciò che egli dice e sorride (e in questo caso la riproduzione mimetica del dialetto contribuisce a rendere il senso dell’immediatezza e genuinità vitale del ragazzo): «Te ghee de rid, o veggiabbia? […] Asom mangià la minestra che poeu vo in lett… e ti però te vet in del to…»); oppure la disinvoltura con cui appella «canapioni» i figli di Adalgisa, dal naso spropositato, senza remore e senza timori reverenziali dinanzi alla “signora”; e ancora l’«impeto giocondo» e l’allegrezza con cui affronta la vita, la generosità con cui difende la barbona pazza dalle molestie dei ragazzini, la galanteria romantica con cui accompagna Elsa al parco, dove vorrebbe offrirle due rose, una rosa e una bianca, la sicurezza protettiva con cui calma le sue paure di essere aggredita nel buio. Sono tutti comportamenti che danno il senso di una spontaneità dell’agire e di una libertà da ogni schema, al contrario della borghesia, paralizzata dalle sue rigide regole di comportamento sociale. Al polo della vitalità popolare si colloca anche Adalgisa. Ora, in conseguenza del matrimonio, è diventata una signora, anzi si è sforzata «con una coerenza ammirevole, con una tenacia e una razionalità che ebbero […] del sublime a diventare una borghese perfetta, una “signora” al cento per cento», ma per le origini è «donna di popolo», «una bella e vivace ragazza del nostro popolo», «sana e buona e con la lingua sciolta: e piuttosto prepotentella», «sempre vivace e lucida, prepotente e docile. Sana e calda era già per suo conto». L’aggettivo «calda» si riferisce alla forza sensuale che la anima, alla sua prepotente e procace carnalità, che assicura gioie di focosi amplessi al vigoroso ragionier Carlo, anche prima del matrimonio ufficiale. Proprio per questa genuinità e vivacità popolaresca, per questa libertà da ogni tabù borghese, si contrappone con energia alla chiusura mentale della «tribù», di cui ha sperimentato sulla sua pelle l’acida malevolenza classista, quando ha osato sposare uno dei suoi membri. Data la sua provenienza popolare, e per rivalsa contro i suoi ottusi persecutori, rifiuta i pregiudizi moralistici dell’ambiente, e per questo, colto grazie al suo intuito e alla sua esperienza il segreto di Elsa, la sua infelicità coniugale e l’attrazione provata per l’aitante garzone, sta subito dalla parte della cognata, e nel lungo colloquio che si svolge nel pomeriggio domenicale al parco la invita a «divertirsi» sinché è giovane e bella, a non essere schiava delle convenzioni; né, data la sua lingua sciolta, ha imbarazzi a esprimere il suoi pensiero in tutta libertà. Anche lei, dunque, è rappresentante di una forza vitale, di una generosa autenticità contro la sbiadita umanità che costituisce l’habitat borghese della metropoli lombarda.

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3. I procedimenti narrativi

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3.1. La tendenza centrifuga Compaiono regolarmente nel nuovo romanzo i procedimenti narrativi che si sono individuati nella Meccanica, e anche qui, come già si notava nel romanzo precedente, essi rivelano la presenza massiccia di un narratore eterodiegetico che conduce il gioco con supremo virtuosismo. Oltre alla registrazione di luoghi comuni e stereotipi, su cui ci siamo già soffermati esaminando la rappresentazione della borghesia milanese, in primo luogo spicca la tendenza centrifuga e divagatoria, però in questo campo è possibile distinguere due tipi di strutture digressive. La prima si ha quando è la voce narrante stessa che approfitta di ogni minimo spunto per fuggire verso vie laterali rispetto a quella centrale del racconto, lanciandosi a volte in una sequenza divagatoria di cui non si individua la direzione e non si scorge il punto d’arrivo. Indicativo è il primo capitolo della seconda stesura (specie in una seconda redazione, La crisi domestica, che complica ancora la prima, La moglie del Cavicchio): sostanzialmente il capitolo dovrebbe incentrarsi sulla cessazione dell’attività da parte della «Confidenza» e sulla conseguente assunzione di Bruno come lucidatore dei parquets, punto di partenza della relazione con Elsa e quindi momento d’avvio di tutto l’intreccio romanzesco; ma il narratore si guarda bene dal limitarsi a poche, essenziali indicazioni su questo antefatto, per passare poi alla vicenda vera e propria: al contrario indugia a lungo sulla colorita figura del vecchio Zavattari, il fedele lucidatore precedente mandato dalla «Confidenza», sul suo amore per la grappa piemontese invecchiata, sui suoi ricordi di una gioventù eroticamente vivace, poi sul fallimento della «Confidenza» stessa, che obbliga i Cavigioli a cercare un altro lucidatore, sulle attività truffaldine della Banca di Milano che hanno provocato il dissesto, lasciando agli azionisti solo pile di volumi dell’«Epopea rapsodica» della casa Savoia, sul nuovo piano regolatore di Milano e sulle demolizioni che inducono il macellaio Testori a chiudere la bottega e a licenziare il garzone Bruno; e poi ancora sul trasloco dei Cavigioli, sulla comica figura della serva brianzola che dà la colpa della sua gravidanza al «rubinetto» (cioè all’acquaio) del nuovo appartamento, che crea troppa umidità, sulle attività di Bruno che per sbarcare il lunario si accontenta di lavoretti occasionali come un trasloco, con l’esilarante episodio del pitale che rotola per le scale. La narrazione procede con un ritmo ampio e disteso, e ogni argomento su cui il narratore si sofferma rivela da parte sua il gusto assaporato dell’indugio. Nel secondo capitolo la vicenda dovrebbe finalmente avviarsi, con l’incontro fatale di Elsa e Bruno, ma subito dopo l’ingresso in scena dell’eroina il narratore non sa resistere alla tentazione di dedicare più pagine al romanzo che la donna sta leggendo, e si dilunga a illustrarne personaggi e trama, tipici della narrativa di consumo con pretese letterarie, noi diremmo midcult, mettendone in evidenza con ironia corrosiva e si direbbe con crudele compiacimento il carattere del tutto

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stereotipato. Quando poi compare Adalgisa, che è venuta a far visita alla cognata, la narrazione prende subito una via laterale, concentrandosi su particolari non certo essenziali alla consequenzialità del plot, i nasi spropositati dei figli, le loro scorribande nei prati suburbani, i giochi avventurosi e soprattutto l’episodio, che non ha alcuna funzione nello svolgimento dell’intreccio, dello scontro di uno di loro con la materia escrementizia, mentre avanza a quattro zampe nell’erba fingendo di essere una tigre, episodio che sarà in seguito argomento della prosa Una tigre nel parco nelle Meraviglie d’Italia. Il terzo capitolo, il più lungo e denso (tanto che nell’Adalgisa darà argomento a ben tre «disegni»), dovrebbe prendere le mosse dal concerto a cui assistono Elsa e il nipote Valerio: ma prima si inseriscono lunghi indugi sul Circolo Filologico milanese, sulle letture dei suoi membri, sull’affollamento delle toilettes nell’«ora topica» del dopopranzo del sabato, sul russare dei lettori appisolati e sulle fantasie che su quel rumore intessono i gatti sul lucernario della sala; poi viene il racconto dell’incidente occorso a Bruno sul triciclo delle consegne, con lo spargimento di tutto il carico di cioccolato sulla via e con la reazione furibonda del padrone, il nobile Cavigioli. E quando poi finalmente Elsa e Valerio si avviano verso il Conservatorio, il narratore si concede ancora l’indugio divertito sui tifosi di Guerra e Binda, che per strada ascoltano le notizie della corsa ciclistica diffuse dalla radio, poi sulla gara della «società musogonica» per raggiungere i posti in sala. Un’amplissima digressione, che si incunea nello svolgimento della vicenda di Elsa e Bruno, interrompendola a lungo prima che i due personaggi ricompaiano, è poi il ritratto che viene tracciato di Adalgisa, dalle origini popolari ai trionfi nei teatri lirici di second’ordine sino al matrimonio borghese, con inserzioni autobiografiche, in cui la figura nel narratore stesso viene ad affiancarsi al personaggio, da lui conosciuto negli anni giovanili. Al ritratto di Adalgisa si affianca in parallelo quello del «povero Carlo», ma si tratta di un caso diverso, appartenente a una seconda tipologia, come vedremo. Tipico poi è il finale di questo terzo capitolo, in cui il narratore, abbandonati i personaggi, si sofferma sulla libera uscita dei soldati delle più varie armi, che vanno come all’assalto nel parco, e infine sul «concerto» degli amanti che si scambiano effusioni tra le ombre protettive dei viali, e che Gadda assimila al concerto dei centoventi professori con cui il capitolo si è aperto, chiudendolo così in una sorta di struttura circolare. Tutta una digressione è infine il capitolo quarto (o meglio quanto ne è stato scritto), che dopo un’ouverture lirica si incentra totalmente sulla costruzione del nuovo Politecnico, senza che ricompaia alcuno dei personaggi. Imprimendo al suo racconto questo ritmo digressivo, Gadda sembra collegarsi con le tendenze centrifughe tipiche della tradizione narrativa umoristica, che ha come capostipiti Sterne e Jean Paul e prosegue nella linea “scapigliata” lombarda da Rovani a Dossi. Ma non si può dimenticare che anche Pirandello indica come caratteristica peculiare dell’umorismo proprio l’andamento digressivo, il non sapersi limitare a un filo narrativo lineare e univoco, in obbedienza a una

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visione della realtà plurivoca e multiprospettica, consapevole della «materialità della vita […] così varia e complessa», della sua «imprevedibilità», dell’«abisso che è nelle anime»: «di qui quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere».30 Allora non c’è bisogno di ricordare che anche la visione della realtà di Gadda, sia pure partendo da altre premesse filosofiche, quelle affidate alla Meditazione milanese, ha alla base l’idea della complessità e assume come emblemi il «garbuglio» e lo «gnommero», il gomitolo aggrovigliato e inestricabile: dal che si capisce che in ogni modo, con una simile visione, seguire quel filo lineare e unico è impossibile. Già nelle note compositive del Racconto italiano, si è visto, lo scrittore riconduceva la complessità della costruzione narrativa alla complessità del reale (è la vita stessa, sosteneva, a essere «un “intreccio” e quale ingarbugliato intreccio!»): la complicazione del plot, attraverso le infinite vie centrifughe delle digressioni, per lui non è che la riproduzione della «trama complessa della realtà». Per provare a sbrogliarla il soggetto conoscitivo non deve tentare di risalire dall’effetto alla causa secondo un percorso lineare, ma ricostruire l’intricata «rete delle concause», la «molteplicità delle causali convergenti», come si dirà nel Pasticciaccio:31 di qui nasce la proliferazione digressiva, nel cercare di seguire le infinite maglie di questa rete, che come viene affermato nella Meditazione non è a due dimensioni, stesa su una superficie piana, e nemmeno a tre dimensioni, ma a dimensioni infinite:32 L’ipotiposi della catena delle cause va emendata e guarita, se mai, con quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni (superficie) o a tre dimensioni (spazio-maglia, catena spaziale, catena a tre dimensioni), sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti.33 30 L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie e scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1960, p. 159. 31 Romanzi e racconti II, cit., p. 16. 32 A tal proposito Cristina Savettieri avanza una considerazione importante: la digressione, a differenza che nella Meccanica, in cui serve «a definire meglio i caratteri e le azioni dei personaggi», nell’ottica di un romanzo nelle intenzioni ancora naturalista, nel Fulmine «non ha più alcun rilievo funzionale, non serve a definire lo sfondo entro cui le vicende si svolgono»: ciò perché la ricostruzione della rete infinitamente complessa delle concause, che «nel “Primo getto” non ha alcuna effettività, costituisce invece il connettore della seconda stesura»; in essa «questi movimento di costruzione delle concause della narrazione viene progressivamente accentuato e rinforzato». Nel passaggio da una versione all’altra i nuclei narrativi vengono sottoposti «a ulteriori ampliamenti e arricchimenti di spunti digressivi»; «ogni segmento narrativo si apre a tutti quelli in esso implicati, innescando un movimento centrifugo inarrrestabile (Savettieri, Il caso, le cause: psicopatologia della narrazione, in La trama continua, cit., p. 125 s.). Il saggio della Savettieri è fondamentale per la ricostruzione di questo retroterra filosofico del narrare gaddiano. Così come R. Donnarumma, «Riformare la categoria di causa». Gadda e la costruzione del romanzo, in Gadda modernista, cit. pp. 29-75, in particolare, per la «serie delle concause» nel Fulmine, pp. 55-59. 33 Scritti vari e postumi, cit., p. 650.

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Risalta allora, come conseguenza di queste considerazioni, una differenza fondamentale del Fulmine rispetto all’Adalgisa: mentre nel romanzo la lunga serie digressiva iniziale, il fallimento della «Confidenza», la truffa della Banca di Milano, il nuovo piano regolatore, il trasloco dei Cavigioli, il licenziamento del garzone del macellaio, la serva che resta incinta, lo Zavattari che smette di lavorare, l’assunzione di Bruno come lucidatore, serve a ricostruire le molteplici cause del fatto che si pone al centro dell’intreccio, l’incontro di Elsa con Bruno, nel «disegno» Quando il Girolamo ha smesso…, in cui tutta questa materia confluisce, venendo a mancare la vicenda centrale le digressioni perdono addirittura il legame con il «fatto», di cui dovrebbero spiegare le «concause», non hanno più un punto d’arrivo, si impongono in totale autonomia, offrendo solo l’immagine di un mondo appunto come «groviglio di relazioni» legato a «grovigli infiniti». La seconda tipologia della tendenza centrifuga si ha invece quando si inserisce il punto di vista del personaggio, e da questo, non dalla voce del narratore, si diparte la serie divagatoria. Il caso più esemplare si ha quando Elsa, nella sequenza in cui la donna, al parco, è in attesa dell’arrivo della cognata, diviene per un lungo tratto il centro focale del racconto. È una sequenza narrativa vuota, in cui non si producono eventi, ma si ha solo la serie di percezioni sensoriali del personaggio con la libera catena associativa dei pensieri che da esse si origina. È un tipo di narrazione che non ha più nulla da spartire con la linearità di un discorso narrativo di tipo realisticonaturalistico, tutto incentrato su catene consequenziali di fatti, e semmai può far pensare alle costruzioni di rottura dell’avanguardia primonovecentesca, alla Woolf se non a Joyce (poiché non si arriva al vero e proprio stream of consciousness, ma si è vicini). Diverso è invece il caso del lungo flash-back che rievoca la figura di Carlo, il marito di Adalgisa: la fonte della visione in questo caso è direttamente la voce di Adalgisa stessa, che racconta a Elsa le sue esperienze di vita, ma la narrazione segue vie più tradizionali, nel ricostruire un personaggio a tutto tondo, che finisce per balzare con grande rilievo dalla pagina, con le sue manie scientifiche e gli ingenui entusiasmi da entomologo dilettante, ed è avvolto da una bonaria, godibilissima atmosfera umoristica.

3.2. Le fissazioni microscopiche Come già nella Meccanica, il gusto digressivo si manifesta spesso nella concentrazione dello sguardo del narratore su un particolare oggetto, magari all’apparenza insignificante, contemplato con una fissità quasi ipnotica, come se l’osservatore fosse affascinato dalla sua totale stoltezza e mancanza di senso o dalla sua oltraggiosa deformità e turpitudine, e si accanisse su di esso nel tentativo di denunciarle, o di carpirne il segreto. Siamo sempre nell’ambito della teoria gaddiana del «barocco», cioè di quella sorta di degenerazione che colpisce gli oggetti allontanandoli dalle «entelechie» elaborate dal processo naturale o storico. Gli esempi potrebbero essere numerosi. Un caso significativo è l’indugio sul cavallo che traina la carrozza della signora Vigoni al parco, sui suoi larghi zoccoli, sui ferri, sui paraocchi «lustri e fune-

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rei» della «donchisciottesca bestia», che diviene lo spunto per un’ampia rievocazione di atmosfere cavalleresche e ariostesche (nell’Adalgisa l’indugio si dilaterà in misura abnorme a ben tre pagine). Talora queste fissazioni microscopiche sono sollecitate dalla stupidità inerte di un oggetto materiale, come il pitale che durante il trasloco operato da Bruno rotola per tutta la rampa delle scale, con un fracasso infernale, inseguito dai pazzi latrati di un cane lupo; talora invece si appuntano su realtà immonde e disgustose, come la barbona pazza e nana, lurida in modo indicibile, con il lercissimo cane randagio che la insegue per i prati suburbani, o l’ateuco che spinge la pallottola di sterco, o il topo morto nella cui carcassa banchetta la colonia di insetti necrofori. Ma particolarmente esemplare è il caso della statua di Saturno che Adalgisa ripulisce su una tomba del cimitero monumentale vicina a quella del marito: Il vecchio fannullone, di prospetto (per quanto avesse l’aria un po’ rimminchionita) era però perfettamente in regola: gli erano cresciute due serpentesche basette, come ad un garibaldino ottantasettenne, e molto simili infatti a quelle dell’on.le Giuseppe Marcora, ma assai più lunghe, anzi addirittura interminabili. Le regioni boschive della di lui persona erano drappeggiate da un lenzuolo in marmo massiccio e, ad ogni buon conto, anche dalle due code di quelle due millenarie basette: né c’era da credere al vento, che potesse levar via le difese del panno, o del pelo.

La statua è ispezionata minuziosamente da Adalgisa: …trovò che la falce era a posto, non meno della clessidra e del lanternino; ma dei licheni verdi insistevano invece a popolargli quell’altra falce, tra le due natiche, d’una scandalosa flora criptogamica.

Quest’attenzione microscopica dello sguardo del narratore è chiaramente suscitata dalla natura «barocca» dell’oggetto, che ne fa un perfetto prodotto del cattivo gusto borghese, risibile ma anche urtante (come le figurazioni allegoriche nei ritratti dei laureati al Politecnico). Si tratta di un «barocco» per così dire sociale, che nasce cioè dall’opera umana, da un «passo falso» compiuto dal processo storico; ma ad esso si affianca un «barocco» di origine naturale, nato da un errore della natura nel produrre le sue creature, che dà origine a forme eccessive nel loro sviluppo abnorme e proliferante: in questo caso le basette «serpentesche» e interminabili, o il lichene sulle natiche del Saturno (ma nella visione di Gadda, come ci avverte sempre il dialogo fra Autore ed Editore nella Cognizione, natura e storia vengono sostanzialmente a identificarsi).34 Adalgisa, nella sua popolaresca

34 Gadda chiama natura e storia «tutto ciò che si manifesta come esterno a noi e alla nostra facoltà operativa, alla nostra responsabilità mentale e pragmatica», e prosegue: «La natura e la storia, percepite come un succedersi di tentativi di ricerca, di conati, di ritrovati […] avviene fáccino a lor volta un passo falso, o più passi falsi: che nei loro conati, vale a dire nella ricerca e nell’éuresi, abbino a incontrare la sosta o la deviazione “provvisoria” del barocco, magari del grottesco» (Romanzi e racconti I, p. 761.

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energia e nella sua pratica efficienza, interviene a sanare in parte questa deformità, grattando via con grande impegno e fatica il lichene verde cresciuto nelle parti esposte a nord. Altro esempio tipico di questo «barocco» di origine sociale sono gli edifici del nuovo Politecnico milanese:

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I nostri architetti si prodigarono alle geniali strutture: la Formen und Farben alle forme, ai colori: tutti intonati nel razional secolo, dal cioccolatto-Nubia al verde-pisello. I pinnacoli del Kremlino sovrastano e adombrano, pur dominando ogni cosa, principalmente la vaccheria svizzera della Scuola Superiore di Agricoltura: è un edificio, il Kremlino, de’ più necessari allo sviluppo delle scienze e delle tecniche.35

Queste mostruosità architettoniche anticipano quelle descritte nella Cognizione, nel passo famoso sulle «villule» della Brianza, dove ritorna il Cremlino come termine di paragone del Kitsch: Altre ancora si insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rapanelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso policroma, e cioè squamme d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà celesti. Cosicché tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Alhambra e il Kremlino.36

Un ulteriore esempio sono proprio le fotografie dei laureati al Politecnico: o più precisamente Gadda si concentra su un preciso particolare, che scatena la sua repulsione irritata, il crescere di chiome e barbe prolisse sulle teste e sui volti di quei giovani, secondo la moda del secolo precedente: Si tratta, per i primi anni, di «gruppi» con i pantaloni senza la piega e una gran fiorita di cravatte, barbe, mustacchi. […] I laureandi, (oggimai laureatissimi), ne vedi pochi e stenti ne’ primi quadri, bracati, vagamente garibaldoidi, o qualcuno in aria d’un Mefistofele lendenone di via Pasquirolo, e vanno poi moltiplicandosi e vitalizzandosi con una progressione iperbolica. Sono spesso occhialuti e taluni già calvi: o, se non calvi, allora invece talmente capelluti e straniti da parere addirittura demèmori: come eremiti o come lo stravolto Battista in lendeni e in pelle d’agnello, dei deficienti, cui solo un intervento di terzi, o del parroco, potesse indurre a farsi tagliare i capelli. «Cinq ghèi! barba e cavej!»

Come sempre, a suscitare l’ambivalenza fra repulsione sdegnata (da notare l’insistenza sulla presunta presenza di lendini tra tutto quel pelo) e attrazione affascinata, che induce alla fissazione ipnotica, è un proliferare incontrollato e 35 A questo edificio fa riferimento anche una lunga nota dell’articolo Pianta di Milano-Decoro dei palazzi, del 1936, compreso nelle Meraviglie d’Italia, nel quale ritorna la rassegna della variopinta popolazione cosmopolita che lo abita (cfr. Saggi giornali favole, I, cit., p. 60; per il passo corrispondente del Fulmine, si veda a p. 210 dell’ed. cit.). 36 Romanzi e racconti I, cit., p. 585.

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abnorme, cioè appunto una deformazione «barocca» della realtà (il pensiero allora corre alle lunghissime basette della statua di Saturno al cimitero). Ma si dà un caso opposto di queste contemplazioni microscopiche, quando esse si fissano su un oggetto che non è «barocco», non è prodotto da un passo falso della natura o della storia, ma al contrario è un esempio di realtà che risponde esattamente alla sua «entelechia»: è il caso dei ditischi che il ragionier Carlo cerca di catturare in un acquitrino: Quelli intanto bucarono via l’acqua come siluretti felici, scampati nei roridi verdi regni tra i capegli dell’erbe e dell’alghe: salvi dal loro profilo ellittico o parellittico, che segna, credo, un minimum di resistenza idrodinamica, un optimum della forma natante. E devono aver raggiunto quest’ottimo nella pertinace evoluzione della discendenza, in un loro amore del meglio e poi del perfetto, educendo dalla grossolanità primigenia il garbo del capo, del corsaletto e dell’elitre, sforzandosi di tendere, di tendere ad ogni costo all’ellisse, così almeno direi: dentro paludi e gore dimenticate di fiumi, risolvendo traverso le generazioni e i millenni il loro laborioso integrale isoperimetrico.

Sotto le apparenze di una divagazione gratuita che insiste su un oggetto insignificante, il passo riveste invece un’importanza fondamentale (oltre ad essere particolarmente felice e giustamente famoso): vi si riconosce il nucleo centrale della visione gaddiana della realtà, vi si coglie cioè lo struggente protendersi di Gadda verso un ordine ontologico che coinvolga tutto il reale, in cui ogni cosa funzioni perfettamente, senza passi falsi e deformazioni nei processi evolutivi, dando origine a forme anch’esse perfette, che realizzino un modello ideale, in opposizione al «caos oltraggioso di non-forme» che è il mondo. E non importa se queste forme si realizzano nelle sembianze di piccoli insetti che vivono in ambienti remoti e umili come paludi e gore, esse bastano a ridare fiducia nella possibilità di trovare un’alternativa e un antidoto a quel caos intollerabile. A differenza che nella Meccanica, nel Fulmine la fissazione microscopica non dà origine al procedimento dell’enumerazione caotica di oggetti disparati. Essa è però in qualche modo sostituita dalla goduta elencazione dei cognomi tipici della «tribù» milanese, con tutti i complicatissimi intrecci di parentele che ne derivano. Tali elenchi hanno l’analoga funzione di dare il senso del «garbuglio» e del «gnommero», di una realtà caotica, follemente proliferante, labirintica, in cui ci si perde. Un bell’esempio è quello dei frequentatori della biblioteca del Circolo Filologico: Il commesso di turno ha un bel rintuzzare gli assalti degli aggressivi Cavigioli che, avidi d’ogni sapere, gli sottopongono le loro richieste 3.° piano, concomitanti con quelle dei Pèrego, dei Maldifassi, dei Corbetta, dei Rusconi, dei Ghiringhelli e dei Lattuada. Soci del Filologico sono due Corbetta, tre Pèrego e sei Cavigioli: fra le schede verdi e le bianche il valente bibliotecario si irretisce ne’ diversi indirizzi degli omonimi: il Pèrego di via Giulio Carcano si chiama Filippo e il Pèrego di via Filippo Carcano si chiama Giulio. Il Pèrego di Piazzale Giulio Cesare non si chiama né

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Giulio né Cesare, ma Pompeo. […] La esavalente famiglia è imparentata con altre famiglie esavalenti della vecchia Milano, tanto che ne è venuta un’arnia: e le api di quest’arnia, di sabato, mellificano al Filologico. Cognati dei Pèrego, cugini dei Maldifassi, nipoti dei Lattuada e pronipoti dei Corbetta, legati in seconde nozze coi Rusconi, in seconda cognazione coi Ghiringhelli, e in terza con altra casata di cui mi sfugge il patronimico, d’altronde notissimo, facile è il pensare che cosa sia per i Cavigioli il gomitolo degli zii e delle zie, dei consuoceri e delle consuocere, dei cugini secondi e terzi e delle cugine quarte e quinte, coniugate a loro volta con altri degnissimi elementi della popolazione milanese. L’autore stesso di queste note è convinto di esser cugino dei Cavigioli; solo non può precisare in che grado. Alcuni Cavigioli sono zii delle loro suocere e altri tre di essi, poi, nipoti dei loro gèneri; sono addirittura suoceri e zii della propria nonna.

La citazione è molto ampia, ma era indispensabile riportare il passo quasi nella sua interezza per dare l’idea dell’intrico in cui Gadda si avvolge tra divertito e spaventato. Nell’elenco spicca la metafora del «gomitolo»: il fatto è molto significativo, perché siamo di fronte a una chiara prefigurazione del «gnommero» del Pasticciaccio. In conseguenza di tutti questi procedimenti la progettata struttura romanzesca, che ambiva con sincero impegno a una ricostruzione realistica di un ambiente sociale in una precisa epoca storica, puntava a creare intrecci solidi, in cui agissero personaggi psicologicamente ben individuati e caratterizzati a tutto tondo, e mirava a instituire un sistema tematico fondato su precise opposizioni interne, come già avveniva nella Meccanica si frantuma, si disgrega, si disperde. Anche qui dietro al romanzo comincia a delinearsi l’ “antiromanzo”. E le ragioni andranno individuate già a questa altezza in due ordini di fattori: in primo luogo un fattore per così dire “filosofico”, legato alla visione del mondo gaddiana, quell’impossibilità di «chiudere il sistema» conoscitivo teorizzata nella Meditazione milanese, il fallimento inevitabile d’ogni tentativo di ricostruire la rete totale delle concause e il groviglio delle relazioni, che minacciano di estendersi all’infinito e sfuggono di mano allo scrittore, dando luogo a una deriva narrativa che non si può più a tenere insieme e rende impraticabile la costruzione del romanzo;37 dall’altro lato l’urgere di pulsioni nevrotiche, che giocano comunque un ruolo importante nell’ispirazione dello scrittore: quella «nevrastenia» già acutamente indicata da Contini alla base dello stile gaddiano sin dal 1934.38 Ma avremo modo di riprendere il discorso più ampiamente. 37 Su questo si rinvia a Donnarumma,Gadda modernista, cit., passim, e a Savettieri, La trama continua, cit., pp. 128-131: «La sovradeterminazione diventa il mezzo attraverso cui la trama si espande ipertroficamente, innescando un blocco narrativo dovuto a un’eccessiva saturazione di fatti, che disarticola le gerarchie e distrugge gli ordini di senso del romanzo» (ivi, p. 131). 38 Savettieri polemizza giustamente contro «quella pervicace acquisizione della nevrosi gaddiana come primum della sua scrittura» (La trama continua, cit., p. 113). Certamente la nevrosi non è il primum della scrittura di Gadda, e affermarlo rischia di essere gravemente riduttivo (oltre a presentarsi come un lombrosismo in ritardo): però è necessario riconoscere che è una componente importante, come punto d’avvio, come energia motrice dell’elaborazione letteraria, che la trasforma in scrittura e creazione.

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3.3. La vertigine metaforica e metamorfica Come si sarà notato, la fissazione sul «barocco» genera di regola una proliferazione metaforica. La semplice rassegna di questo grandinare di metafore e paragoni è impressionante. Tornando al passo sulla statua di Saturno, il vecchio è «disteso sul duro, come un disoccupato in un prato («in un terreno da vendere» nell’Adalgisa); la donna gli si mette intorno a pulirlo «con una certa impazienza affannosa: quasi ad un lattante a cui urgessero improrogabili cure», con «la mobilità e la sicurezza di movimenti d’una nurse diplomata», e lo guarda severamente, «come un ghibellino guarderebbe un dissenterico di parte guelfa» (e si può notare il sottofondo scatologico che è alla base di tutte questi paragoni riferiti alla pulitura delle natiche della statua); le basette del Saturno lo fanno somigliare a «un garibaldino ottantasettenne» (mentre nell’Adalgisa sono interminabili «come certe anguille sott’acqua, che non si sa dove diavolo gli vada a finire la coda, o la testa»); le pudenda sono «regioni boschive della di lui persona», e non si può pensare che il vento possa levar via il lenzuolo di marmo che le nasconde; le natiche ricoperte di licheni sono rivolte a Settentrione «come le mura di Milano nei Promessi sposi». Per ripulirle Adalgisa usa un raschietto ricurvo, ma «di borotalco non ci fu bisogno» (con una ripresa dell’immagine escrementizia del «lattante»); mentre raschia, le dita le si fanno tutte verdi «come d’una tritura di prezzemolo»; mentre si china la collana nera da lutto penzola «verso la chiamata gravitale del Profondo. Quasiché la mano di Persefone tenebrosamente si sporgesse a volere per sé quei gioielli». Lo stesso procedimento si riconosce nei ritratti dei laureati, dai quali, poiché i giovani guardano «con l’aria imbambolata del matematico», promana «un’aura di Pio Asilo», e, nonostante «la teda-spinteròmetro e le scitille del Genio al magnesio», si pensa «al Beato Cottolerngo, alla carità del suo doloroso instituto»; inebetiti dal calcolo integrale, sono «vuoti di memoria come altrettanti Canella»; per contro i Galli di Viridumaro, «al confronto di questi lor capelluti nepoti», dovevano essere «dei pettinatissimi e gelatinosi efebi». Anche nel passo dedicato ai tifosi di Guerra e Binda i milanesi sono «discendenti di Belloveso e cugini di Viridumaro»; gli altoparlanti, «come sonore cornucopie», rovesciano «sulla testa alle nobili folle tutta la felice abbondanza della loro nomenclatura»; i tifosi sono «invasati dal dèmone della prosa bellica»: «Era una guerra incruenta ed era un Guerra pedagno»; «il complesso celtico e il longobardico ribollivano ed esplodevano in fonismi neo-insubrici. I Galli Gesati e i Boi, e i Cimbri marmellati da Mario ne’ Raudii o rivoltati nel Tanaro, dicevano forse, al confronto, la sospirosa canzone del Petrarca». A voler redigere un inventario delle metafore e dei paragoni esteso a tutto il romanzo l’elenco risulterebbe smisurato: ci limitiamo a citare ancora gli esempi più gustosi ed esilaranti. La richiesta di comperare il sale da parte della domestica brianzola dei Cavigioli diventa un sillogismo, le cui premesse sono «disposte in bell’ordine, prima la maggiore, poi la minore, e dopo dieci minuti il sillogismo o addirittura il sorite si concludeva nel modo più soddisfacente sotto il bel cielo di Lonbardia con

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la constatata necessità di ricomperare “la sale”». Le toilettes del Circolo Filologico sono «luoghi meditativi», la sosta al loro interno «esercizi spirituali» che lucrano «indulgenza plenaria ai più restii», e la conclusione del processo evacuatorio è il «dominus vobiscum», che «dai penetrali» si annuncia con «una nobile e fragorosa cateratta»; i gatti sul lucernario, al russare di uno dei soci appisolato, pensano che nel «misterioso mausoleo» sia sepolto lo spirito del cane Flock, che aveva abitato quel palazzo, «il loro defunto persecutore, il loro Artaserse, il loro truce Nabuccodonosor». Nella sala del Conservatorio le ghirlandette che adornano l’organo sono «come dei merletti che la signora Direttrice avesse disteso ad asciugare sulle canne» (nell’Adalgisa «merletti, a non dir peggio, che la mogliera del portinaio vi avesse disteso ad asciugare», con netto abbassamento di dignità del termine di paragone e con una maliziosa allusività). I centoventi professori dell’orchestra cominciano a «tirare le budella ai violini e ai violoni», i contrabbassi, appena sfiorati con la bacchetta, «ti rispondono dal ventre clamorosi e profondi come se avessero dentro un purgante»: una di quelle immagini scatologiche così care allo scrittore (nell’Adalgisa l’immagine è ampliata e intensificata: «Archetti pazzerelloni, elettrizzati da quel po’ di colofonia, vellicavano appena l’augusto inguine dei contrabbassi, che questi contraccambiavano con lauti, coscienziosi borborigmi, quasi ci avessero dentro un purgante»). Il cappello della barbona nana è «una sorta di focaccia rotonda», greve di penne avvolte in cerchio «come il cappello d’un piumato hidalgo che si fosse metamorfizzato a tortino di carciofi». Gli zoccoli del cavallo attaccato alla carrozza della signora Vigoni sono «larghi, piatti e rotondi come quattro foglie di ninféa» (nell’Adalgisa si aggiunge: «galleggiavano ognuna per un attimo sullo stigio padule del macadàm»), e il cavallo in sé si trasforma in «un animale mitologico», «da combinarne quand’era giovane incanti e galoppi, e in groppa ferrati rapitori saraceni od amanti pallidi, oltre la eco perduta delle valli, nella fuga delle quadrupedate foreste. Poi era sostato anelante, stallando presso la polla delle fontane incantate»; «pensionato d’antichi poemi», «era un cavallo araldico, sfuggito di mano a Cosimo Tura». La coccarda del cocchiere sembra «una conchiglia nerastra, che fosse destinata a una natura morta, in compagnia di pochissimi fichi e di due penne stilografiche» (nell’Adalgisa: «pareva un echinoderma nerastro, di quelli che il pittore abbandona alla spiaggia in una luce irreale, sulla battìma d’una natura morta, con fondo»). Le donne scosciate sul retrosella delle motociclette «spetazzanti» lasciano dietro di sé «la scia celeste o rosea d’una sciarpa di tulle, come da una ciminiera il fumo: e sotto la scia della puzza». Lo sguardo acuto di Adalgisa che indovina il segreto di Elsa è «come una fiocina lanciata al momento giusto in groppa al merluzzo», e «l’argenteo dardo» effettivamente raggiunge «il guizzo argentato dell’animale». L’«atra rüera» di casa Biandronni, che accoglie i detriti dei minerali spezzati dai ragazzi, è «come la bocca d’un domestico Erebo». Gli insetti necrofori che brulicano nel topo morto paiono «calafati in bacino, al carenaggio d’un puttanone di quelli “che navicar non ponno”», e poiché banchettano dentro di esso e poi si accoppiano, il tutto diviene «un banchetto totemico, un’agape sacrificale», un’«orgia a pancia

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UN FULMINE SUL 220: L’ANIMA PRIVILEGIATA, LA BORGHESIA E LA VITALITÀ DEL POPOLO 143

piena». La malefica signora Vigoni, al centro dei suoi «mercredi», pare «il ragno, nel centro de’ suoi radiati poligoni». Il carro funebre elettrico che passa lungo il parco, «visto dal cielo, avrebbe potuto parere un coleottero elettrificato, un Necrophorus ad accumulatori». Le «complicate e attorte figure» che si intravedono dietro i cespugli dei viali, nel buio sono «come delle maioliche da soprammobile, come dei neri Sèvres che la notte fingesse di dimenticare nel suo magazzino di ricetto», e a Bruno fanno venire in mente il Laocoonte visto in casa Cavigioli; sembrano poi «un’orchestra furtiva» che «animasse quella povera selva»: e sulla metafora del «concerto», in studiata simmetria con quello dei «centoventi professori», lo scrittore indugia per un’intera pagina. Abbiamo abbondato nell’esemplificazione per dare un’idea del lussureggiante gioco metaforico che percorre tutto il romanzo, contribuendo a conferirgli la sua fisionomia peculiare, inconfondibile. Alla base si può certo riconoscere la volontà di dare il senso della rete di infinite relazioni di tutto con tutto, del «groviglio» e «garbuglio» che per Gadda costituisce la realtà. Poiché gli esempi si accumulano come generati da una fonte inesauribile, il gioco metaforico restituisce l’idea di un reale multiforme e caotico, in perenne metamorfosi, in cui le varie presenze trapassano incessantemente le une nelle altre, in una ridda vertiginosa che lascia come smarriti. È evidente che questo gioco va nella stessa direzione delle spinte centrifughe e rimanda alla medesima visione della realtà. Ma metafore, paragoni e similitudini rispondono anche, si direbbe, al bisogno di redimere il «barocco» che è nelle cose, o almeno di occultarne l’oltraggiosa presenza, stolta e assurda o ripugnante, travestendo quelle cose in infiniti altri aspetti da esse lontanissimi, impensati, attraverso una sorta di shock, di sorpresa, che dovrebbe renderle irriconoscibili. Quegli artifici producono insomma un effetto di straniamento, grazie a cui oggetti comuni e banali, presentati da un’ottica “strana”, perdono la loro consueta identità (si pensi solo al passo in cui le evacuazioni nelle toilettes del Circolo Filologico, cioè delle disgustose realtà scatologiche, assumono le sembianze del rito religioso).39 Però, a ben vedere, proprio il travestimento metaforico contribuisce a concentrare sull’oggetto l’occhio implacabile dell’osservatore e finisce al contrario per potenziare all’estremo limite la turpe consistenza del particolare isolato dal campo fenomenico, dilatandone a proporzioni parossistiche l’immagine. Nel gioco metaforico si può dunque riconoscere nuovamente una dimensione teoretica, che ha le basi nella “filosofia” di Gadda, e una dimensione invece viscerale, che ha le radici nel «male oscuro», nel suo rapporto difficile con la realtà intera. Sui legami reciproci tra queste due dimensioni nella scrittura gaddiana occorrerà riflettere, e lo faremo dopo aver esaminato anche l’ultimo capolavoro, in cui tale rapporto si presenta come più urgente, il Pasticciaccio.

39 Nell’Adalgisa l’effetto di straniamento è ancora più pronunciato, grazie all’ampliamento del passo e all’accentuazione del lessico aulico e prezioso.

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3.4. «Pasticcio» e «dolore», comico e tragico Nel turbinare metaforico si impone certo la dimensione umoristica, perché queste metafore e questi paragoni sono sempre godibilissimi, esilaranti, suscitano regolarmente il riso. Ma non è un riso disteso, bonario, liberatorio: dietro è dato di scorgere, oltre alla “filosofia” gaddiana, qualcos’altro di molto serio e profondo: un rapporto conflittuale, doloroso con la realtà, come si è appena detto, una dimensione tragica dell’esistenza. Dietro cioè all’esplorazione del «pasticcio», del mondo fenomenico caotico, aggrovigliato e pieno di oggetti “baroccamente” deformi e ripugnanti, si coglie sempre la presenza del «dolore», di un soggetto che soffre, quello che sarà rivelato dal capolavoro di Gadda, La cognizione del dolore (ma che era già ben visibile nel Giornale di guerra e di prigionia, nel Castello di Udine, in tutte le pagine in cui venisse in primo piano la dimensione autobiografica). Il «dolore» del soggetto nel Fulmine non è tematizzato direttamente, come in quelle opere, ma è pur sempre possibile individuarlo dai suoi effetti, da quel modo abnorme di rapportarsi alla realtà e di rappresentarla. Per cui si può dire che al comico di queste pagine si accompagna sempre la presenza virtuale e sotterranea del tragico, quello destinato ad erompere nel grande romanzo, che comincerà a essere concepito proprio a partire dal 1936 (sulla spinta del trauma della morte della madre), in continuità cronologica con il Fulmine. Anche qui nel Fulmine, dunque, è legittimo individuare la mistione di comico e di tragico che fa la grandezza della scrittura di Gadda, benché all’apparenza domini l’immagine del «pasticcio» e il «dolore» sembri assente, come sarà poi nel Pasticciaccio. Ma proprio la fusione di comico e tragico è l’essenza del vero umorismo, stando alle teorizzazioni di Pirandello: Anche una tragedia, quando si sia superato col riso il tragico attraverso il tragico stesso, scoprendo tutto il ridicolo del serio, e perciò anche il serio del ridicolo, può diventare una farsa. Una farsa che includa nella medesima rappresentazione della tragedia la parodia e la caricatura di essa, ma non come elementi soprammessi, bensì come proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffe ombre d’ogni gesto tragico.40

E Gadda sicuramente sarebbe stato d’accordo, come prova la dichiarazione illuminante del suo alter ego don Gonzalo: «Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro»:41 dove «scherno» e tragicità sono uniti in un binomio inscindibile. Ma già nella nota che accompagnava la pubblicazione di tre brani della Meccanica su «Solaria» nel 1932 Gadda scriveva: «Non è nel mio modo la denuncia diretta del mio dolore. Talvolta esso va travestito di scherno».42 40

Pirandello, Ironia, in Saggi, poesie e scritti varii, cit. p. 995. Romanzi e racconti, I, cit., p. 704. 42 Riportato da Dante Isella nella Nota al testo della Meccanica, in Romanzi e racconti, II, cit., p. 1198. 41

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UN FULMINE SUL 220: L’ANIMA PRIVILEGIATA, LA BORGHESIA E LA VITALITÀ DEL POPOLO 145

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4. Il Fulmine e L’Adalgisa La vicenda dell’amore fra Elsa e Bruno, che costituisce il filo narrativo centrale del «primo getto» e dei primi tre capitoli della seconda stesura del Fulmine sul 220, occupandone anche quantitativamente una parte cospicua, nel passaggio ai Disegni milanesi dell’Adalgisa è stata sostanzialmente soppressa, tranne solo qualche vago accenno. Di conseguenza la tematica che abbiamo analizzata, il conflitto fra l’anima privilegiata e un ambiente sociale angusto e opprimente, fra la sensualità e il bisogno di vita della giovane moglie insoddisfatta e il benpensantismo mortificante della borghesia milanese, è quasi completamente scomparsa. Ne scaturisce una serie di altre differenze di grande rilievo: Elsa, da personaggio di statura protagonistica, si riduce a figura alquanto marginale. Ne consegue ancora che spariscono i lunghi tratti impostati a focalizzazione interna, in cui viene condotta l’esplorazione minuziosa dei moti interiori dell’eroina e che fanno sì che il Fulmine, oltre che un romanzo di costume e di satira sociale, sia anche un roman d’analyse. Peraltro, pure la figura di Bruno è fortemente ridimensionata, limitandosi a presenza fuggevole sia in rapporto a casa Cavigioli (l’incidente del triciclo) sia nella sequenza del parco, col risultato che viene meno tutto il significato attribuito al giovane in opposizione alla povertà vitale borghese. La polemica contro la borghesia ambrosiana non si impernia più su quel conflitto, traendo alimento dal contrasto con l’anima femminile elevata e con la sanità del popolo, ma è affidata quasi esclusivamente alla rappresentazione diretta della realtà sociale. Rimane qualche rapida intrusione nell’interiorità del personaggio femminile, come il passo in cui al concerto Elsa legge nelle dissonanze dell’orchestra l’immagine delle forze dissociate e stridenti della propria vita e si sente esclusa, lei sola, dalla comunità; o il momento in cui, nell’incontro con Adalgisa, appare inquieta e nervosa sino alle lacrime, o ancora il passo in cui Bruno, nel monologo interiore della donna, viene presentato come il prodotto perfetto di un lungo processo evolutivo. Ma, privati di tutto il contesto, questi residui perdono la loro funzione e il loro significato originari. Senza contare che risultano pressoché enigmatici per un lettore che non conosca la trama del romanzo da cui quei «disegni» provengono: chi legge coglie solo vagamente che la giovane donna è infelice e interiormente tormentata, senza conoscerne i motivi, ed è indotto solo a sospettare una certa attrazione verso il ciclista, che continua a passare sulla sua bicicletta, ma niente di più.43 43 Data le perdita di questa ricchezza tematica nel passaggio fra i due testi e dato il ridimensionamento di una figura interessante come quella di Elsa, non condividiamo il giudizio severo di Clelia Martignoni sulla storia di Elsa e Bruno nel Fulmine in confronto all’Adalgisa: «Il tratteggio della relazione risulta in effetti molto più convincente in ciò che se ne conserva nella lampeggiante, allusiva, velatura che conosce tra i racconti dell’Adalgisa, tra detto e non detto, desiderato, inespresso e taciuto, piuttosto che non nel suo impacciato sviluppo dentro il Fulmine, tra stentata pittura realistica e difficoltà dialogiche» (C. Martignoni, Leggere l’«Adalgisa» arretrando a «Un fulmine sul 220», in «I quaderni dell’ingegnere», n. 5, 2007, p. 166). Speriamo invece, nelle pagine precedenti, di aver messo in rilievo gli aspetti validi dell’abbozzo di romanzo.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

È inevitabile allora porsi il problema del perché Gadda abbia lasciato quella materia, così ricca di interesse, negli abbozzi incompiuti e inediti del romanzo, senza trasferirla in qualche modo nei «disegni» dell’Adalgisa da esso ricavati. La risposta più immediata e più semplice è che il tentativo di costruzione romanzesca, con tutto il suo plot ben congegnato, fallisce inesorabilmente, come spesso avviene nei progetti narrativi di Gadda, quindi nel suo stato frammentario e incompiuto diventa irrecuperabile. Allo scrittore non resta che prendere la decisione di prelevarne alcuni frammenti e di svilupparli in forma di quadri intesi a delineare il costume, la mentalità, persino il linguaggio caratteristici di una certa società in un certo periodo di anni: l’intreccio romanzesco allora perde la sua ragione d’essere, non ha più modo di trovarvi posto. La raccolta di «disegni» diventa qualcosa di nuovo, risponde a tutt’altro progetto, che non ha più nulla a che fare con quello originario del romanzo, va in tutt’altra direzione. Resta certo la volontà accanita di condurre una satira dell’odiosamata (più odiosa che amata?) borghesia milanese, ma Gadda decide di perseguirla con altri mezzi: non attraverso la costruzione di personaggi inseriti in un’articolata vicenda e attraverso il sistema di opposizioni che li coinvolge, ma principalmente mediante semplici descrizioni di aspetti di quella società, di abitudini, di tic verbali e di luoghi di incontro, rappresentazioni lontane da ogni organicità costruttiva. I residui di trama che vedono ancora in azione Elsa, Bruno, Adalgisa, sono assorbiti entro questo nuovo tessuto e si uniformano alla sua struttura. Ancora, più che attraverso i mezzi contenutistici di una rappresentazione in qualche modo ancora legata a un’idea ottocentesca di romanzo, realistica e naturalistica, l’obiettivo è perseguito attraverso mezzi formali. Quei procedimenti che pure sono già presenti in larga parte nel Fulmine, ma nelle intenzioni ancora subordinati all’intreccio romanzesco, nell’Adalgisa divengono autonomi, svincolati da ogni idea costruttiva, si impongono in primo piano diventando il centro della composizione; non solo, ma subiscono un’intensificazione sia quantitativa, nella loro proliferazione irrefrenabile che tocca vertici iperbolici, parossistici, sia qualitativa, nella bizzarria estrosa e sorprendente degli accostamenti più impensabili («accoppiamenti» davvero molto «giudiziosi», per il loro esito estetico), nella vertiginosa tendenza centrifuga e divagatoria, nella fissazione microscopica sui dettagli, nella abbagliante pirotecnia metaforica, nella mescolanza dei più vari livelli linguistici. A ciò si aggiunge la selva lussureggiante delle note, che si dipartono da ogni punto dei «disegni» verso infinite direzioni divergenti, e vengono a costituire un vero e proprio testo secondo, parallelo al primo. L’addio all’idea di costruzione di un plot è confermato dall’inserimento di «disegni» estranei al corpo originario del romanzo, provenienti da altri contesti (e guarda caso in larga parte da altri romanzi rimasti inconclusi), Notte di luna dal Racconto italiano, Navi approdano al Parapagàl e Strane dicerie contristano i Bertoloni dalla Cognizione del dolore, mentre Quattro figlie ebbe e ciascuna regina e Claudio disimpara a vivere sono racconti estravaganti, anche se il primo è più affine per ambiente e personaggi alle pagine tratte dal Fulmine.

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Ma, se queste considerazioni hanno certamente un peso, resta comunque il sospetto che la soppressione della vicenda d’amore nell’Adalgisa sia anche il risultato di una censura. Forse la storia della relazione non solo sentimentale ma carnale fra la signora dell’alta borghesia insoddisfatta del marito e un robusto e rozzo garzone di macellaio, nonché la giustificazione, anzi la celebrazione dell’adulterio come affermazione di «vita» autentica contro la «finta», come riscatto dalla soffocante atmosfera di quel contesto borghese, potevano apparire a Gadda troppo audaci, troppo scandalose (anche se ben lontane da descrizioni esplicite alla Lady Chatterley’s lover). Erano tipici di Gadda timori del genere:44 ne fa prova, insieme a molti altri esempi,45 la censura sistematica delle espressioni troppo crude operata rispetto al testo originario nella prima edizione in volume di Eros e Priapo, del 1967 (come testimonia il benemerito lavoro filologico di restauro della redazione del manoscritto condotta da Paola Italia e Giorgio Pinotti per la nuova edizione Adelphi).46 Anche per questo, forse, lo scrittore preferì non riprendere tutta quella materia, e la lasciò sepolta negli scartafacci del romanzo non concluso. Nei Disegni milanesi permane il conflitto di fondo tra l’inautenticità della borghesia e l’autenticità sana ed esuberante del popolo, ma esso è affidato solo alla presenza dello straordinario personaggio di Adalgisa, certo molto meno scandaloso e compromettente: difatti proprio le pagine dedicate alla sua storia passano integralmente e fedelmente, con non molte varianti, dalla seconda parte del capitolo terzo del Fulmine ai «disegni» Al parco in una sera di maggio e L’Adalgisa. E proprio a lei è intitolato il nuovo libro.

44 Come scrive Giorgio Patrizi, in Gadda «è una preoccupazione ben nota a biografi e editori l’autocensura tesa a moralizzare il testo» (Patrizi, op. cit., p. 204 s.). 45 Racconta Giulio Cattaneo che Gadda scrisse per una trasmissione radiofonica la presentazione di una raccolta di sonetti del Belli, e dinanzi alle rimostranze delle dattilografe offese dalle oscenità «emendò i sonetti già scelti cambiando “puttana” in “mondana” e così via», con grave disappunto del curatore Giorgio Vigolo (G. Cattaneo, Il Gran Lombardo, Garzanti, Milano 1973, p. 56). 46 C. E. Gadda, Eros e Priapo, cit.

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» Premessa Anche la Cognizione del dolore, secondo il modulo consueto della produzione narrativa gaddiana, si presenta a prima vista come romanzo “esploso”, in cui la rigorosa struttura originariamente progettata dall’autore si disgrega in una miriade di frammenti (come «un bassorilievo minutamente lavorato che, per una ragione o per l’altra, fosse andato in pezzi», suggerisce Emilio Cecchi),1 a rendere il senso del «garbuglio» inestricabile del reale. Eppure, dietro al coacervo frammentario, si intravede non solo un essenziale intreccio narrativo,2 ma anche una ricerca di simmetrie strutturali: dal disordine emerge un’esigenza di ordine. Innanzitutto si può osservare che l’intera costruzione narrativa si regge su una grande opposizione paradigmatica, che si potrà indicare, provvisoriamente e schematicamente, come eroe vs realtà degradata; un’opposizione che, in termini topologici (e Lotman ci ha insegnato la pregnanza significante di ogni modellizzazione spaziale),3 si specifica come villa vs paese, interno vs esterno, spazio chiuso vs spazio aperto; in termini assiologici, come «dolore» vs «pasticcio», valori vs disvalori, consapevolezza intellettuale («cognizione») vs «oceano della stupidità», «atrocità» vs «futilità»; nei termini delle categorie stilistiche, come tragico vs comico. Ma ai fini di una ricostruzione dell’ordine sotteso al disordine sarà più produttivo cercare come queste opposizioni si manifestino, con varia fenomenologia, lungo l’asse sintagmatico del testo, tenendo presente come esse si traducano, sul piano del concreto “discorso” narrativo, nel gioco delle focalizzazioni e dei punti di vista. 1

Nella recensione alla Cognizione del dolore apparsa sul “Corriere della Sera” il 25 maggio 1963. Lo ricostruisce con esemplare chiarezza Emilio Manzotti nell’ Introduzione a C. E. Gadda, La cognizione del dolore, edizione critica commentata a cura dello stesso, Einaudi, Torino 1987, pp. X-XXIII. 3 Il rimando è ovviamente a Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, trad. it., Mursia, Milano 1972, in particolare le pp. 261-273, e a Ju. M. Lotman-B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, trad. it., Bompiani, Milano 1975, pp. 143-248. 2

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» 149

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1. L’eroe visto dall’esterno Ciò che subito colpisce, e che non può non essere denso di significato, è che un eroe della statura di Gonzalo compaia in scena molto tardi nella costruzione narrativa, dopo almeno una cinquantina di pagine dall’inizio del racconto. Per questo lungo tratto la narrazione indugia, in modo apparentemente ozioso, sulla rievocazione di un minuto mondo provinciale, dai tratti inequivocabilmente bozzettistici ed aneddotici. In apertura la voce narrante eterodiegetica, con toni bonariamente ottocenteschi, manzoniani, ricostruisce lo scenario naturale e sociale della vicenda, i costumi dell’immaginario Maradagà1, lo «scandaletto rurale» del paese di Lukones, insistendo sulle gustose figurine del «sordo di guerra» Pedro Manganones alias Gaetano Palumbo, della lavandaia Peppa, della pescivendola Beppina, della Pina, moglie nana del becchino, del commerciante di stoffe compaesano del Palumbo, sugli orrori Kitsch delle «villule» lukonesi, sui casi curiosi connessi con la villa Bertoloni (il fantasma del vate Caçoncellos), sul colonnello medico Di Pascuale: è tutta una sezione che, presa in sé, ad una prima e superficiale lettura, si presenta nei termini di un comico godibile ma anche futile, svagato, che sembra rispondere solo ad una volontà di divertimento del narratore, remota da ogni più alta responsabilità conoscitiva e letteraria.4 Sarebbe veramente difficile, da questo esordio in tono minore, congetturare i livelli vertiginosi a cui il libro verrà assurgendo in seguito. Un primo avvicinamento alla figura dell’eroe si ha con l’ingresso in scena del dottore. Attraverso la serie dei monologhi (espressi in forma indiretta libera) che occupano la sua mente nel percorso verso la villa, dove è stato chiamato per una visita al figlio della Signora, comincia a delinearsi la fisionomia di Gonzalo.5 Il dottore, facendo passare l’eroe attraverso il filtro della propria ottica, lo appiattisce però al livello della propria mediocrità piccolo borghese, riducendo il grande motivo del «dolore» e del «male invisibile» alle «ubbìe» e alla «fifa di morire» di un ipocondriaco e prospettando prosaicamente, come rimedio ideale, solo il matrimonio (possibilmente con una delle figlie zitelle del dottore medesimo). Richiamate dalle riflessioni del dottor Higueróa si affacciano poi le dicerie del paese sulla figura di Gonzalo: attraverso questo filtro di secondo grado l’eroe subisce così un’ulteriore, drastica deformazione, tramutandosi in un «misantropo»,

4 In realtà, come ha mostrato Aldo Pecoraro, le pagine sul Manganones-Palumbo sono tramate in filigrana dal motivo tragico della guerra e delle ferite da essa lasciate nei reduci, nonché dalla polemica sdegnata contro i falsi invalidi di guerra, appena dissimulata sotto l’impianto comico-bozzettistico (cfr. A. Pecoraro, Gadda, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 88-93; dello stesso si veda anche Gadda e Manzoni. Il giallo della “Cognizione del dolore”, cit.). 5 Per un’analisi attenta della funzione del dottore in rapporto al personaggio di Gonzalo si veda V. Baldi, Reale invisibile. Mimesi e interiorità nella narrativa di Pirandello e Gadda, Marsilio, Venezia 2010, pp. 113-143.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

in un «nemico del popolo», se non addirittura in un «vigilato della gendarmeria».6 Intorno alla sua persona si costruisce una vera e propria leggenda popolare, che lo trasfigura in un essere mostruoso, di mitica malvagità e turpitudine, macchiato di tutti i vizi e dei più vergognosi peccati capitali. Ai filtri degradanti del buon senso piccolo borghese e del meschino, malevolo pettegolezzo del paese, si aggiunge infine il filtro costituito dall’ottica della Battistina, incontrata dal dottore sulla strada della villa: emergono così, dalle parole della donna, le paure della vecchia madre per le minacce del figlio, la sordida, maniacale avarizia di questi, gli scoppi di furore insensato contro ogni intruso che penetri nella villa, contro il ritratto del padre, calpestato selvaggiamente in un clamoroso, sacrilego oltraggio. Il personaggio si ammanta di una luce sinistra, a suo modo grandiosa, da cui però non va mai disgiunta la nota del grottesco, del comico, della parossistica deformazione caricaturale, che fa affiorare inesorabilmente gli aspetti ridicoli dei suoi deliranti accessi. Dopo un così insistito indugio, con l’arrivo del dottore alla villa si ha finalmente l’ingresso in scena dell’eroe in persona, proprio in chiusura del secondo capitolo (o «tratto», per usare l’originaria terminologia gaddiana) di questa prima parte del romanzo. Alla sua comparsa, e poi durante il lungo rituale della visita, Gonzalo viene ancora visto dall’esterno, dalla prospettiva del distaccato e obiettivo narratore eterodiegetico, e viene descritto minuziosamente, secondo le buone regole del romanzo ottocentesco, nel suo aspetto fisico, nei suoi gesti e nei suoi comportamenti esteriori, senza intrusioni nella dimensione psicologica. Già dall’aspetto esterno, dalla cifra puramente fisica, il narratore coglie indizi significativi di un’interiorità tormentata, dolente, ma, per una temporanea rinuncia all’onniscienza, si limita a trarne deduzioni congetturali (a cui si associa qualche intromissione dell’ottica positivisticamente riduttiva del dottore): «Pareva […] d’essersi dimenticato del male. “le mal physique”, in questo caso: il male visibile»; «Gli occhi si rattristarono ancora, a poco a poco mutò d’espressione, come al rinascere d’un pensiero doloroso che fosse momentaneamente sopito; in tutto il volto si leggeva uno sgomento, un’angoscia, che il medico tra sé e sé non esitò un minuto ad ascrivere “a una nuova crisi di sfiducia nella vita”; o anche, certo, “ai postumi della disfunzione gastrica che lo aveva tanto disturbato l’altr’anno”»; «Gli occhi parevano desiderare e nello stesso tempo respingere ogni parola di conforto. Una opacità imperscrutabile e, si sarebbe detto, una ottusità generale del sensorio facevano la nota di quiescenza in quella fisionomia senza rilievo»; «In quel momento gli occhi parvero significare la certezza della povertà, guardare con dignità disperata la solitudine»; «Un accoramento inspiegabile gli teneva il volto e anzi quasi la persona».

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Tutte le citazioni dalla Cognizione del dolore sono tratte da C. E. Gadda, Romanzi e racconti I, cit.

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» 151

2. La svolta: l’imporsi della prospettiva dell’eroe

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Si inseriscono poi ancora le chiacchiere del dottore, che, nella sua ottusità piena di buone intenzioni, vorrebbe trascinare il solitario malato nell’anima a svaghi e distrazioni, come ad esempio una gita con la propria figlia Pepita, disinvolta guidatrice di automobili. Ma proprio queste chiacchiere, e più esattamente il racconto dell’incidente della Pepita, che ha investito un contadino con i suoi formaggini, costituiscono finalmente l’occasione per l’affiorare dell’interiorità dell’eroe, nella forma del pensiero indiretto libero: Il figlio dové concedere ai formaggini di entrare anche loro nel cerchio doloroso della appercezione. Era il bagaglio dei mondo, del fenomènico mondo. L’evolversi di una consecuzione che si sdipana ricca, dal tempo: tra i fasti del campanone sottoscritto, oblato: (da òbfero, òbtuli). […] Li sistemò come poté, i formaggini, in quel campo oltraggioso di non-forme: in quel caravanserraglio d’impedimenti d’ogni maniera: cicale cipolle zòccoli, bronzi ebefrènici, José7 paleo‑celtici, Battistine fedeli lungo i decenni, gozzocretine dalla nàscita: tutto l’acheronte della mala suerte brodolato giù dal senno e dal presagio dei padri, che vi leggevano ilari, giulivi, in quel fiume di catrame, la cara normalità della contingenza, la ingenuità salubre dei costume villereccio. […] Ma tutto, del tempo, gli diveniva stanchezza, stupidità.

Si verifica a questo punto una svolta fondamentale nella costruzione narrativa. Se finora, per un lungo tratto, Gonzalo era stato visto solo dall’esterno, dal punto di vista mediocre e riduttivo del medico o da quello malevolo e deformante dei pettegolezzi di paese, ora la narrazione, con un totale ribaltamento di prospettive, con una rotazione a centottanta gradi del punto di vista, assume l’ottica dell’eroe stesso: il lettore ha finalmente la possibilità di penetrare nella sua sfera interiore. Si vengono così a determinare due movimenti paralleli e concomitanti: sul piano spaziale un percorso dall’esterno all’interno della villa, sul piano della prospettiva dalla focalizzazione esterna alla focalizzazione interna a Gonzalo. La sua interiorità diventa il centro focale del racconto, il punto da cui viene colto tutto il reale. Se prima, osservata dall’esterno, la sua figura era deformata, stravolta, degradata nel grottesco e nel comico, ora l’eroe può dire le sue ragioni, imporre nel narrato il suo modo di vedere le cose. Il fatto è davvero determinante: il lunatico, il risibile ipocondriaco, il solitario gravato da tutti i vizi più ignobili, il «tristo figlio» che si accanisce ferocemente sulla vecchia madre e profana la memoria del padre con i suoi deliranti quanto ridi7 Mentre Emilio Manzotti nella sua edizione (Einaudi, Torino 1987), riprodotta nel I volume cit. dei Romanzi e racconti, adotta l’onomastica italiana dell’originaria redazione di «Letteratura», preferiamo ripristinare l’onomastica ispanizzata delle edizioni in volume del 1963 e del 1970: ci sembra più corretto, perché rispondente all’ultima volontà dell’autore. La stessa scelta è compiuta dai curatori della nuova edizione del romanzo, Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela, per i tipi di Adelphi, Milano 2017.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

coli accessi d’ira, si rivela un eroe portatore di coscienza contro l’irredimibile, ontologica stupidità della realtà sociale e naturale, l’anima bella che si scontra dolorosamente con il caos del «fenomènico mondo», col «pasticcio» proliferante e «oltraggioso» di «non-forme» che lo costituisce. Come si può rilevare dal passo appena citato, nello scatto furibondo dell’intelligenza offesa il «garbuglio» ripugnante si offre attraverso il caratteristico procedimento dell’enumerazione caotica, che, allineando senza ordine né gerarchia una molteplicità di presenze disparate, vuole mimare la disgregazione del reale, smascherarne la turpitudine con la nuda menzione degli oggetti che lo compongono. Da questo primo affiorare si può subito intuire il senso e la funzione che assume nel romanzo la presenza dell’ottica dell’eroe, in opposizione alla realtà fenomenica che lo circonda: è l’affermazione della consapevolezza intellettuale, del giudizio critico, della dignità spirituale di contro ad una pluralità di forme contingenti inerti, opache, non riscattate da un ordine, da una superiore necessità, «barocche», e perciò intollerabilmente false, totalmente prive di senso e di valore. A questa rotazione del punto di vista corrisponde anche un vertiginoso salto stilistico: dal livello “basso” e irrimediabilmente comico che pertiene allo spazio del paese si passa alla dimensione sublime e tragica del «dolore». Il «dolore» dell’eroe deflagra al contatto con il «pasticcio» della realtà fenomenica esterna, ma questo conflitto non è che il punto terminale di una lunga catena di traumi, che ha le sue origini in una più remota lontananza. In immediata contiguità con l’invettiva contro il caos insensato di «cicale cipolle zòccoli» e «bronzi ebefrènici» viene allo scoperto anche una delle radici essenziali del «dolore», il rapporto ambivalente con la madre, fatto di amore deluso, rancori e odi immedicabili, atroci rimorsi. Questa dinamica del «dolore» si intravede già nell’esplosione di gelosia nei confronti del nipotino del Di Pascuale, a cui la madre prodiga le dolcezze un tempo negate al figlio: «Sono stato un bimbo anch’io», disse il figlio. «Allora forse valevo un pensiero buono... una carezza no; era troppo condiscendere... era troppo!», e l’ira gli tornava nel volto, ma si spense.

Ma poi le scaturigini oscure del «dolore» affiorano alla luce nel racconto del sogno:8 … Un sogno… strisciatomi verso il cuore… come insidia di serpente. Nero. Era notte, forse tarda sera: ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione… né il rimorso; né chiedere perdono di nulla… di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre… carezzarla… oh! aiutarla… […]

8 Sul sogno di Gonzalo si veda la bella analisi di R. S. Dombroski, La dialettica della follia: per un’interpretazione sociale del dolore gaddiano, in Aa.Vv., Gadda: progettualità e scrittura, cit., pp. 143-156.

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» 153

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E il sogno, un attimo!, si riprese in una figura di tenebra… là!… là, dove sono andato or ora, ha visto? al cantone della casa… Ecco, vede? là… nera, muta, altissima: come rivenuta dal cimitero. […] Nulla disse: come se una forza orribile e sopraumana le usasse impedimento a ogni segno d’amore: era ferma oramai… Era un pensiero… nel catalogo buio dell’eternità… E questa forza nera, ineluttabile… più greve di coperchio di tomba… cadeva su di lei! come cade l’oltraggio che non ha ricostituzione nelle cose… Ed era sorta in me, da me!… E io rimanevo solo.

Gadda, nella sua scaltrita consapevolezza psicanalitica,9 sa bene che «sognare è fiume profondo, che precipita a una lontana sorgiva, ripùllula nel mattino di verità». Il senso del sogno è costituito appunto dal materializzarsi, nella «figura di tenebra», nera, altissima, velata, «come rivenuta dal cimitero», degli oscuri impulsi omicidi verso la madre, respinti con orrore dalla coscienza, che danno origine a insostenibili sensi di colpa. Il fantasma si presenta al figlio, devastato dai rimorsi e consapevole che ormai è impossibile porre riparo alle colpe e ottenere perdono, come un muto atto d’accusa. Gonzalo sa che è colpa anche solo pensare al delitto, senza consumarlo, come risalta da un frammento non inserito nel testo, che appartiene a un monologo in forma indiretta del personaggio: E la cosa o l’atto pensato è più vero dell’accaduto o dell’eseguito. E Dio vede il pensiero, l’immaginato. E anche se non vedesse, si rifiutasse di vedere, (ché tutto può, Dio), l’immaginazione, il delirio rimarrebbero e l’anima si perde nell’immaginare, non nel compiere. […] Ogni prassi è un’immagine. Ma ogni immagine è già l’attuato orrore, è il male, il termine, il limite che ci esclude da Dio.10

Gli impulsi omicidi e i sensi di colpa del figlio costituiscono la cellula germinale del libro, nato proprio dal trauma provocato in Gadda dalla morte della madre nel 1936, e ne segnano la segreta trama narrativa.

3. Il primo monologo delirante Lo scavo alla ricerca delle radici del «dolore» tocca il punto più alto nel delirante monologo incentrato sul motivo dell’«io», «il più lurido di tutti i pronomi»,11 che è il momento culminante della iniziale focalizzazione sulla prospettiva dell’eroe e 9 Un giudizio limitativo sull’uso gaddiano degli strumenti psicanalitici propone invece G. Lucchini, Gadda lettore di Freud, in L’istinto della combinazione. Le origini del romanzo in Carlo Emilio Gadda, La Nuova Italia, Firenze 1988, pp. 109-121. 10 Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 570. 11 Sui deliri di Gonzalo si vedano le puntuali precisazioni di E. Manzotti, “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. IV, t. II, cit., pp. 254 s.; in particolare per la polemica contro l’ «io» cfr. le pp. 261-265. Quella di Manzotti ci sembra una delle letture più intelligenti ed esaurienti del romanzo gaddiano.

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si colloca esattamente al centro di questa Parte prima del romanzo. Qui emerge come all’origine della mancanza di pietas di Gonzalo verso la madre, delle sue ambivalenze tra amore e odio, giochi una parte importante la durezza dell’educazione infantile, che aveva «straziato il bimbo», negandogli ogni dolcezza affettiva ed ogni soddisfazione istintuale, facendogli patire «íl freddo e la fame», contribuendo a generare in lui quel male dell’anima che l’aveva trasformato in un diverso, dolorosamente isolato dalla trama dei rapporti umani, afflitto da «idee coatte» e tormentose ossessioni (anche se le radici di questo male affondano in una «lontananza più tetra», restano tutto sommato insondabili nella loro profondità, che nessuna logica di causa riesce a esaurire a fondo): ... Quelle menadi scaravoltate a pancia all’aria... col batacchio per aria... Bestie pazze! per cui ho patito la fame, da bimbo, la fame! Cinquecento pesos! cinquecento: di munificenza pirobutirrica: cinquecento pesos!… con la maglia rattoppata... i geloni ai diti... i piedi bagnati nelle scarpe... i castighi! perché i diti gelati non potevan stringere la penna... col mal di gola sul Fedro... con sei gradi di amor paterno addosso... e un fumo da far inverdire le meningi... perché il caro batacchio venisse buono... buono agli inni e alla gloria... il batacchio... a intronare la cara villa, con le care patate, nel caro Lukones... a romperci i timpani per quarant’anni ...

Ma ciò che scatena la «turpitudine pazza» di Gonzalo, i suoi accessi furibondi, e torna ossessivamente nei suoi deliri, è il fatto che quelle durezze e quelle rinunce patite nell’infanzia fossero imposte dalla costruzione della villa (con la relativa assunzione del contadino a completare l’immagine del «feudo» signorile), dai gesti munifici dei genitori, capaci di donare cinquecento pesos d’anteguerra per le campane del paese, dalla loro mania di tentare imprese agricole insulse come quella della coltivazione delle pere butirro («mattane georgiche e pirobutirriche del padre», vengono definite in una nota costruttiva).12 La villa, i peones ossequiosi, le campane, le pere di spalliera erano tutti simboli in cui i genitori proiettavano le loro aspirazioni al prestigio sociale, alla superiorità e al decoro padronale e signorile, cioè, come si esprime Gonzalo in termini psicanalitici, il soddisfacimento delle loro «cariche narcissiche». Quei simboli, poiché la famiglia era di fatto declassata a una squallida condizione piccolo borghese, non avevano più alcuna base reale, e tanto meno al simulacro della proprietà corrispondeva un’autentica funzione sociale dei proprietari che lo legittimasse e gli conferisse un senso, compensando e giustificando anche le durezze repressive e le rinunce istintuali imposte in suo nome. Quindi ciò che Gonzalo giunge a cogliere, sia pur nelle forme apparentemente viscerali e deliranti delle sue parossistiche invettive, è un nodo problematico veramente centrale, di fondamentale portata: i genitori si illudevano di detenere un’immutata importanza nella compagine della società, di essere gli eredi e i 12

Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 556.

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» 155

continuatori di una stagione aurea della borghesia liberale italiana, e quindi perseveravano ostinatamente a coltivare i miti della proprietà, della reputazione, del decoro padronale, della munificenza signorile, dell’egualitaria condiscendenza e della filantropica benignità verso i subalterni, di origine prettamente illuministica e lombarda, delle imprese agricole razionali, anch’esse tipiche della tradizione lombarda sette‑ottocentesca, ma non si rendevano conto che si trattava ormai di miti svuotati dalla realtà del processo storico, che stridevano in modo ridicolo con la meschinità degli «spelacchiatissimi» Pirobutirro. In tal modo trasformavano in menzogne, o peggio in grottesche parodie quelli che in un passato anteriore alla decadenza della vecchia classe egemone erano valori autentici, che avevano il compito di regolare con ordine e dignità la vita di una comunità civile. Insomma, ciò che Gonzalo (e diciamo pure Gadda, data la coincidenza quasi perfetta della fisionomia dell’autore con quella del suo eroe) ha sperimentato nella durezza assurda di una educazione repressiva non è altro che la decadenza della borghesia italiana post‑risorgimentale: perciò, nella Cognizione, l’esplorazione delle radici del «dolore» culmina, in definitiva, nel cogliere oggettivamente il fatto che il trauma infantile subìto all’interno della famiglia, che ha dato un impulso essenziale all’originarsi del male interiore, era già uno scontro con 1’«insufficienza dell’ambiente sociale» italiano,13 cioè precisamente lo stesso trauma destinato a ripetersi, a contatto diretto con la realtà sociale esterna alla famiglia, prima nell’esperienza della guerra e poi al rientro nella vita civile (quando il reduce era stato escluso dalla società milanese), e a prolungarsi immutato sino al presente nell’insofferenza rabbiosa dell’eroe per la stupidità e la falsità dell’ambiente famigliare e sociale che lo circonda.14 La menzogna che è insita nell’essenza stessa della vita della sua famiglia non è che il campione significativo di una più vasta degradazione, di una mancanza di autenticità che investe l’intera società, in tutte le sue articolazioni di classe: una degradazione che si offre all’indignatio di Gonzalo nello specimen della provincia «lukonese» (leggi brianzola) in cui vive. L’atteggiamento dell’eroe è ferocemente negativo verso l’intera compagine sociale. La sua negazione si esercita con eguale furore sia sui proprietari borghesi sia sui contadini: entrambi sono falsi perché non corrispondono alla funzione che dovrebbero avere in una «vivente nazione», in una compagine sociale e nazionale degna di questo nome, degna di un passato glorioso, che invece pare tramontato per sempre. È questo il senso dell’indugio sui futilissimi pettegolezzi intorno alla guardia notturna, sulle varie figurine che

13 L’espressione compare nel Racconto italiano di ignoto del novecento: cfr. Scritti vari e postumi, cit., p. 397. 14 Non diremmo perciò, con Gianfranco Contini (cfr. Introduzione alla «Cognizione del dolore», cit., p.17), che le motivazioni delle accuse di Gonzalo alla famiglia siano «clamorosamente insufficienti, quando non futili», che il suo risentimento si avvalga di «considerandi gretti e grotteschi»: il critico non riesce a vedere le implicazioni sociali profonde e di determinante rilevanza dei traumi psicologici (che, comunque, possono apparire futili a parte obiecti, mai a parte subiecti).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

popolano lo scenario «villereccio» della vicenda, poi sul pullulare delle ville, vera materializzazione della stupidità e dell’inautenticità del mondo borghese, sul mediocre buon senso del dottore e sulle dicerie popolari che deformano la figura di Gonzalo. E già nel primo accesso di rabbia e di disgusto, che viene provocato dall’immagine dei «formaggini» e si accanisce contro «cicale cipolle zòccoli, bronzi ebefrènici, José paleo‑celtici, Battistine fedeli lungo i decenni, gozzocretine dalla nàscita», le manifestazioni della bêtise borghese e della bêtise contadina, dell’intrinseca falsità di entrambi gli strati sociali, come si vede si accumulano caoticamente, a creare un’unica, indifferenziata e perciò più intollerabile immagine del «pasticcio» del «fenomènico mondo». Il nucleo centrale della rappresentazione che Gadda vuole dare della società nella Cognizione è proprio la denuncia di questa falsità delle varie forme della vita sociale: lo scrittore lo afferma esplicitamente in quel dialogo tra Autore ed Editore che, premesso al romanzo sin dalla prima edizione in volume del 1963 in funzione di introduzione, ne costituisce la più illuminante chiave di lettura: La sceverazione degli accadimenti del mondo e della società in parvenze o simboli spettacolari, muffe della storia biologica e della relativa componente estetica, e in moventi e sentimenti profondi, veridici, della realtà spirituale, questa cérnita è metodo caratterizzante la rappresentazione che l’autore ama dare della società.

Tant’è vero che l’eroe, nel capitolo VIII della Parte seconda, affermerà di esercitare la sua funzione di portatore della coscienza critica proprio nel negare le «parvenze non valide» in cui si rapprende il vivere sociale («La sua secreta perplessità e il suo orgoglio secreto affioravano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide. Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di denaro»). Ma poi la degenerazione e l’inautenticità delle «non-forme» si trasferisce dal piano sociale e storico a quello ontologico e metafisico. Nella visione di Gadda‑Gonzalo questa falsità è spiegata con la teoria del «barocco», inteso come «passo falso» compiuto dalla «natura» e dalla «storia» (anzi, dalla «storia biologica») nel succedersi dei loro «tentativi di ricerca, di conati, di ritrovati», che dà origine a forme mostruose, grottesche e ripugnanti, teoria che non a caso è formulata nello stesso dialogo tra Autore ed Editore sopra ricordato. Nel romanzo, quindi, borghesi e contadini risultano «non‑forme», «parvenze non valide», e sono fatti segno del furore di Gonzalo, in quanto manifestazioni del «barocco», di un’intima, patologica degenerazione che colpisce la realtà fenomenica, in quanto prodotti di un errore compiuto, nell’elaborare le sue forme, da un processo sociale inteso come processo naturale e biologico, quindi realtà contingenti intrinsecamente false perché non rispondenti alle loro «entelechìe», ai modelli perfetti premeditati per esse dall’ordine di natura, la cui pretesa di proporsi come individualità definite e compiute, di possedere un senso e una dignità, è oscena e inaccettabile e non può che suscitare ira e scherno.

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Per questo Gonzalo, nel culmine del suo delirio, si accanisce sull’esibizionismo narcisisticamente impudico dell’io, una forma vuota a cui non corrisponde alcuna realtà vera: «... L’io, l’io!... Il più lurido di tutti i pronomi!... [...] Io, tu... Quando l’immensità si coagula, quando la verità si raggrinza in una palandrana... da deputato al Congresso, ... io, tu... in una tirchia e rattrappita persona [...] Quando l’essere si parzializza, in un sacco, in una lercia trippa, i di cui confini sono più miserabili e più fessi di questo fesso muro pagatasse ... che lei me lo scavalca in un salto... quando succede questo bel fatto ... allora... è allora che l’io si determina, con la sua brava mònade in coppa, come il càppero sull’acciuga arrotolata sulla fetta di limone sulla costoletta alla viennese... Allora, allora ! È allora, proprio, in quel preciso momento, che spunta fuori quello sparagone d’un io... pimpante... eretto... impennacchiato di attributi di ogni maniera... paonazzo, e pennuto, e teso, e turgido... come un tacchino... in una ruota di diplomi ingegnereschi, di titoli cavallereschi... saturo di glorie di famiglia... onusto di chincaglieria e di gusci di arselle come un re negro [...] oppure saturnino e alpigiano, con gli occhi incavernati nella diffidenza, con lo sfinctere strozzato dall’avarizia, e rosso dentro l’ombra delle sue lèndini... d’un rosso cupo [...]. L’io d’ombra, l’animalesco io delle selve... e bel rosso, bello sudato... l’io, coi piedi sudati... con le ascelle ancora più sudate dei piedi... con l’aria bonna nel c... tra le cipolle e le pere di spalliera... vindice del suo diritto... come quel ladrone là... che è tutta mattina che ha da levar il seme alle cipolle! ... » . Col mento, le mani in tasca, fece segno verso il peone.

Come si può constatare, la «barocca» turpitudine dei borghesi è posta in immediata contiguità, a comporre un perfetto dittico, con quella contadina. Nella visione nevrotica e delirante dell’eroe l’ostentazione dell’inautenticità si identifica con immagini di turgore fallico oscenamente esibito (l’io «eretto», «paonazzo», «teso» e «turgido») o con repulsive immagini scatologiche («lo sfinctere strozzato dall’avarizia», «coi piedi sudati», «con le ascelle ancora più sudate dei piedi», «con l’aria bonna nel c ... »): come sempre in Gadda, la tumescenza priapica diviene l’emblema prediletto della mostruosità e dell’esibizionismo impudico degli oggetti «barocchi», mentre la materia escrementale assume il valore di simbolo della loro intrinseca degradazione, della loro connaturata falsità.15 Se la negazione delle false forme sociali condotta dall’eroe si manifesta essenzialmente come scontro con il caos di «parvenze» del mondo fenomenico, come denuncia della sua degenerazione in termini ontologici e psicanalitici, tuttavia, come si può constatare nella pagina citata, nel suo delirio Gonzalo coglie anche la dimensione più precisamente sociale di quella inautenticità: si tenga presente l’indignazione suscitata dall’ostentazione borghese di vuoti e grotteschi simboli 15 La presenza di un «codice scatologico» nella Cognizione del dolore è sottolineata da G. Patrizi, La cognizione e il dolore: momenti del testo gaddiano, in Aa.Vv., L’alternativa letteraria del ‘900: Gadda, cit., p. 181 (ora in Prose contro il romanzo. Antiromanzi e metanarrativa nel Novecento italiano, Liguori, Napoli 1996, p. 116). Sull’ossessiva presenza del motivo escrementale in Gadda insiste con notazioni acute anche G. Leucadi, Il naso e l’anima. Saggio su Carlo Emilio Gadda, Il Mulino, Bologna 2000, passim.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

di prestigio sociale («una ruota di diplomi ingegnereschi, di titoli cavallereschi... saturo di glorie di famiglia») e dalla sordida avarizia contadina. Dietro il furore contro la molteplicità caotica degli oggetti fenomenici, contro l’inerte stupidità e la disgustosa opacità delle forme contingenti, non riscattate da un «ordine naturale delle cose», furore che può sembrare originato da una pura insofferenza nevrotica, sublimata in termini ontologici, si scorgono le radici più profonde del conflitto e del rifiuto, lo scontro con una determinata degenerazione sociale.

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4. Lo scontro con la realtà sociale e storica È possibile infatti riconoscere, nel romanzo, la polemica contro processi storicamente ben individuati, che lo scrittore coglie chiaramente anche al di là della cerchia limitata della propria famiglia e dell’ambiente provinciale. Innanzitutto le posizioni antiborghesi di Gonzalo si articolano su due piani distinti. Può essere utile ricorrere, come chiave di lettura, al passo del Castello di Udine in cui Gadda, tessendo l’elogio della «ricca borghesia milanese», che è stata «una realtà, delle più attive e più salde, nella vita economica e morale della patria», sente il bisogno di precisare: «Parlo della vecchia classe, non di quella così variopinta, venuta su all’ultimo, a ministrar case luride e riscuotere fitti arpagònici».16 Infatti nella Cognizione la polemica si esercita in primo luogo contro i discendenti degeneri di questa «vecchia classe», contro la borghesia «gentilesca», che agli occhi di Gadda appare immeschinita, impoverita spiritualmente e indegna delle sue tradizioni, al punto da invilire ormai a ridicole parodie quelli che nel passato erano valori autentici ed auree virtù civili: perciò dei «feudatari lukonesi» vengono scherniti l’attaccamento alla «sacra privata inchiavardata proprietà», la ristrettezza delle idèes reçues e l’avarizia, che si maschera con i miti ormai insulsi, seppur risalenti ad un’illustre tradizione lombarda sette‑ottocentesca, della salubrità campestre, della spartana semplicità di vita, della scientifica igiene, del pratico utilitarismo, dell’accorto risparmio. Nei Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus, risalente al 1933, l’obiettivo polemico era già chiaro: «I discendenti de’ vecchi signori intristirono nelle democratiche giostre, nel corso delle quali vennero tra le nuvole de’ molti coriàndoli quasi al tutto disarcionati. Altri infetidirono nel commercio del borbonzola, sorta di odorosissimo e pedagno escremento venato d’un suo borbomiceto verde-azzurro che ne fa ghiotti i deglutitori sua»:17 dove è sintomatico l’accostamento fra il processo degenerativo della vecchia classe signorile e l’escremento, che nel sistema delle figurazioni gaddiane è l’emblema prediletto della degradazione della realtà storica e naturale. Di contro alla «vecchia classe» si profilano invece i «pervenuti» brulicanti per le strade e nei ritrovi della grande città, gli arricchiti che nel dopoguerra hanno 16 17

Romanzi e racconti I, cit., p. 159. Romanzi e racconti II, cit., p. 955.

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fatto fortuna con i mezzi più indecorosi e sospetti ed hanno distrutto tutti i valori autentici, sostituendo ad essi nuovi pseudo‑valori, l’arrivismo senza scrupoli, il facile guadagno, l’esibizione volgare dei simboli di un falso prestigio sociale, come le fragorose automobili.18 Nei confronti dei contadini, invece, al di là delle manifestazioni maniacali e grottesche di ripugnanza e di insofferenza di Gonzalo, si può cogliere la reazione delusa ed offesa dell’intellettuale umanista dinanzi ad un ceto che non arriva a coincidere con le sue idealità civili e che resta abbrutito a una condizione semianimalesca, esclusa dalla dignità e dall’intelligenza, e per di più accompagnata da una sordida avidità materiale, che nega i valori della laboriosità, dell’onestà e del rispetto e si trasforma in spudorato latrocinio, mascherato dalla rivendicazione dei diritti del lavoratore. Risulta chiaro allora perché a Gonzalo la vita sociale che lo circonda appaia in termini metafisici come «campo oltraggioso di non‑forme» ed in termini morali e psicologici come il trionfo di un osceno esibizionismo narcisistico: la «vecchia classe» è una parvenza non valida e non corrisponde più alla sua «entelechìa» perché non è più all’altezza del suo ruolo di classe dirigente, nel senso più ampio dell’espressione, materiale e spirituale, e quindi trasforma in parodie l’attaccamento alla proprietà e l’ostentazione dei simboli di preminenza sociale perché ad essi non corrisponde più quella effettiva ricchezza di funzioni nella società che, in un passato immune dalla decadenza, garantendo ordine e dignità alla vita della comunità intera, creando un clima «di signorile gentilezza, di misura e di ritenuto gusto e giudizio»,19 secondo lo scrittore dava una base reale e un significato autentico al prestigio e legittimava quella che ne era la condizione materiale, la proprietà («Anche per fare il quarantotto c’è voluto un po’ di posate d’argento», si legge sempre nel Castello di Udine).20 Di contro alla borghesia tradizionale, in una posizione opposta e complementare, la nuova borghesia di «pervenuti» e profittatori, per Gadda, non possiede e non potrà mai aspirare a possedere un’autentica funzione sociale, una missione di civiltà, né potrà mai assumere la dignità di una vera classe dirigente: quindi, accanendosi ad esibire prestigio e importanza, trasforma la propria stessa esistenza in una scandalosa menzogna. Sul versante opposto della scala sociale, anche i contadini sono «non‑forme» perché non corrispondono, né potrebbero corrispondere, ad alcuna «entelechìa», perché, restando chiusi nel loro gretto egoismo utilitaristico, non possono assolvere alla funzione che spetterebbe al popolo lavoratore in un’ordinata compagine civile, dove tutti i ceti dovrebbero compiere il loro dovere nel rispetto reciproco. 18 Secondo Gian Carlo Ferretti, però, l’ottica di Gadda «comporta la caduta di ogni possibile distinzione tra vecchia e nuova classe», che nella loro brutale stupidità finiscono per equivalersi (G. C. Ferretti, Ritratto di Gadda, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 92. 19 Romanzi e racconti I, cit., p. 159. 20 Romanzi e racconti I, cit., p. 141.

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5. La funzione sacrale della casa

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L’ultima parte del primo delirio di Gonzalo si concentra ossessivamente sul motivo del «muro» troppo basso e facile da scavalcare, salvaguardia insufficiente della proprietà. Pertanto a prima vista l’eroe, che pure si accanisce con tanto furore sull’attaccamento dei borghesi alla proprietà privata, indizio del loro impoverimento spirituale, sembra contaminato dallo stesso male, coinvolto nella stessa degradazione: ... Il muro è gobbo, lo vedo, e anche le anime dei morti lo scavalcherebbero... dei poveri morti! per tornare a dormire nel loro letto... che è lì, bianco... come lo hanno lasciato al partire... e par che li aspetti... dopo tanta guerra!... È storto, tutto gobbe: lo so: ma il suo segno, il suo significato rimane, e agli onesti gli deve valere, alla gente: deve valere. Per forza. Dacché attesta il possesso: il sacrosanto privato privatissimo mio, mio!... mio proprio e particolare possesso... che è possesso delle mie unghie, dieci unghie, delle mie giuste e vere dieci unghie!...

In realtà l’attaccamento alla proprietà, nella complessa costellazione di significati che fanno capo al personaggio, assume un valore più profondo e una funzione peculiare: come rivela in maniera evidente il passo citato, con la sua insistenza sul motivo del «ritorno dei morti», ciò che sta realmente a cuore a Gonzalo non è tanto la proprietà nella sua dimensione economica, quanto, al di là di essa, il “nido” geloso e protettivo, chiuso e impenetrabile al mondo esterno, proprio quel “nido” che la «demenza» dei genitori, protesi ad inseguire i loro miti di prestigio sociale e di superiorità padronale, aveva distrutto in anni lontani, negando ai figli ogni dolcezza affettiva ed ogni soddisfazione istintuale, imponendo assurde privazioni. Dopo lo «strazio» subito negli anni dell’infanzia, dopo l’esperienza della guerra e la morte del fratello, il reduce Gonzalo, emarginato dalla società maradagalese e tormentato dal suo male interiore, aspira solo a ricostituire un tardivo simulacro del “nido” negato: la stupida villa, che lo aveva reso impossibile, deve ora, secondo le sue fantasie di malato, trasformarsi in un rifugio per la madre e il figlio superstite, difendere dalla volgarità del mondo esterno la loro solitudine, il loro dolore, le loro memorie, la loro attesa che l’anima dell’altro figlio morto in guerra ritorni a ricostituire i legami affettivi che non erano potuti esistere nella loro pienezza in passato: «Dentro, io, nella mia casa, con mia madre [...]. Via, via! fuori!... fuori tutti. Questa è, e deve essere, la mia casa... nel mio silenzio... la mia povera casa... ». Lui e sua madre dovevano soli entrare e resistere; e attendere. Le loro anime dovevano, sole, aspettare come il ritorno di qualcheduno, negli anni... di qualcheduno che non aveva potuto finire... finire gli studi... O forse aspettavano soltanto il volo dei gentile angelo modellato dalla notte, dalle palpebre mute, dalle ali d’ombra... [...]. Nella casa, il figlio, avrebbe voluta custodita la gelosa riservatezza dei loro due cuori soli.

Quindi l’attaccamento fanatico ed esclusivo di Gonzalo alla proprietà non è assimilabile a quello che egli irride nei genitori e negli altri proprietari lukonesi, poi-

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ché implica una visione mistica, si direbbe pascoliana,21 del “nido” entro cui devono stringersi tutti i familiari, anche i morti, in un vincolo non solo cementato dal sangue e dagli affetti, ma anche dal dolore e dalla morte. Solo che, nel meccanismo della nevrosi, la ricerca di una compensazione della dolcezza e del calore mai conosciuti nell’infanzia è fatalmente indotta a riprodurre la natura delle forze repressive che avevano reso impossibile il “nido” e si risolve in un risarcimento desublimato e coatto nella scelta dei simboli sostitutivi: se il “nido” era stato sacrificato al mito ormai vuoto della proprietà borghese, ora la proprietà viene caricata dei significati del “nido”, e su di essa si rovesciano i sentimenti gelosi che al “nido” erano destinati: perciò i rovelli ossessivi di Gonzalo, la determinazione a chiudere totalmente la villa al mondo esterno, il culto del muro, simbolo della proprietà sacra e inviolabile, il furore nei confronti della madre che introduce, con benevola affabilità, tutti i «villici» dei dintorni, il terrore dei ladri e degli assassini che nottetempo possono insinuarsi in casa, non sono che gli ultimi e disperatamente grotteschi tentativi di difendere il “nido” da ogni intrusione che lo profanerebbe, compromettendone la mistica funzione.22 Tali tentativi, proprio per il loro carattere simbolico e coatto, vengono portati da Gonzalo fino in fondo con assoluto rigore; e se i genitori, aggrappati ai loro miti di prestigio signorile, avevano sperperato denaro in gesti di munificenza (le campane) e in assurde imprese agricole (le pere butirro), ora il figlio con la sua avarizia non fa che ricercare una soddisfazione simbolica, l’unica ormai concessagli dal «male oscuro», al desiderio di calore e di affetto un tempo inappagato. In un frammento non incluso nella redazione del romanzo pubblicata si legge: Il senso feroce ed esclusivo della proprietà era in lui un’idea coatta, un delirio della immaginativa, originato assai probabilmente dalle lunghe esclusioni patite, inquantoché tutti avevano “ereditato”, sia pure soltanto delle pillacchere di stupida benevolenza (anche narcissiche), dai suoi generanti, o genitori, come più comunemente li chiamano, all’infuori di lui medesimo.23

Per questo rovescia le sue furie disperate e insieme ridicole (si manifesta qui quella commistione fra tragicità del «dolore» e comicità che caratterizza tutti i 21 Cfr. G. Bárberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna, Messina-Firenze 1966, pp. 10-71. 22 In Una tigre nel parco Gadda mette in evidenza la centralità di questo bisogno di rifugio in uno spazio rigorosamente chiuso e dell’esclusione di ogni estraneo nella sua esperienza biografica, e lo riferisce al rapporto con la madre, nella vita intra-uterina: «E l’amore delle torri, dei fossati, delle chiuse a alte mura, il sogno dei castelli, e tutte in genere le imaginative, per me così veementi, di casa, di protezione, di chiusura, di porta sbarrata, di mura della città, di corpo di guardia, di esclusione degli sconosciuti dalla città e dalla casa, sono riferibili, dicono, ad un lontano richiamo, ai battiti superstiti della prima vita, memoria di quel divenire che ancora s’implicava in una vita potente e provvida: e la bellezza materna si consumava nell’adempimento» (Saggi giornali favole I, cit., p. 77). Il “nido” in effetti non è che una proiezione simbolica del grembo materno. 23 Il frammento è riportato in appendice dell’edizione della Cognizione del dolore curata da E. Manzotti, cit., p. 513.

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parossismi di Gonzalo, e che è la cifra che connota sistematicamente il personaggio) sulla madre per i suoi poveri sperperi, per la sua generosità verso i peones, verso il contadino della villa, sporco e parassita, verso il nipotino del colonnello, a cui dà gratuitamente lezioni e regala frutta e dolci.24 Ma la villa non possiede solo questa funzione affettiva, viscerale: il suo significato simbolico, nel sistema delle opposizioni paradigmatiche che sorreggono la struttura romanzesca, è ancora più vasto. Il suo spazio sacrale, rigorosamente chiuso verso l’esterno,25 nei rovelli interiori di Gonzalo assume anche la funzione di difendere l’ “anima bella” ferita e sofferente, l’eroe portatore della consapevolezza e dei valori, dall’«oceano della stupidità» che preme appena al di là dei suoi confini, dal proliferare invadente di «non‑forme» oscene, dalla «vergogna», dall’«ignavia», dalla «bassezza» della realtà sociale circostante.26 La solitudine entro il baluardo inviolabile della villa deve offrire all’eroe l’ultima possibilità di vivere una vita autentica, di preservare la dignità, la superiorità spirituale, l’intelligenza e la cultura contro la falsità, la volgarità, l’ignoranza, l’angustia soffocante dei luoghi comuni che dominano nella realtà esterna (nel silenzio e nella solitudine Gonzalo si dedica alla lettura di Platone, e sogna di «scrivere una postilla al Timeo», «per gli stipendi di nessuno»);27 gli deve permettere, lontano dal «sabba» e dalla «bestialità» contaminatrice, di continuare ad esercitare, sia pure in forma tutta negativa, preclusa all’azione e condannata a consumarsi solo nel chiuso della coscienza, una funzione critica nei confronti della degradazione del mondo esistente. 24 L’avvertita consapevolezza delle dinamiche inconsce che è sottesa alle pagine della Cognizione ha stimolato costantemente letture del romanzo in chiave psicanalitica, con strumenti di vario tipo e con esiti interpretativi diversi. Ci limitiamo a segnalare quelle che ci sembrano più significative, che talora arrivano a conclusioni diverse dalle nostre (ma non necessariamente incompatibili): Dombroski, Introduzione allo studio di Carlo Emilio Gadda, cit., pp. 91-112; Gioanola, L’uomo dei topazi. Saggio psicanalitico su Carlo Emilio Gadda, cit. (di impianto freudiano; dello stesso si veda Discutendo, contro Giuseppe Petronio, di psicoanalisi e letteratura a proposito del libro su Carlo Emilio Gadda intitolato «L’uomo dei topazi», in «Otto/Novecento», n. 1, 1986); R. Rinaldi, La paralisi e lo spostamento. Lettura della «Cognizione del dolore», Bastogi, Livorno 1977 (di impianto junghiano); P. Girolami, La coscienza di Gonzalo: nevrosi e scrittura nella «Cognizione del dolore», in Aa.Vv., Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a cura di A. Dolfi, Bulzoni, Roma 1993, pp. 415-443; D. Wieser, «D’un fraterno lutto» (appunti per una lettura freudiana di Gadda), in Aa.Vv., Le lingue di Gadda, cit., pp. 81-148; Dombroski, Gadda e il barocco, cit., pp. 81-102; E. Gioanola, Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari, Jaca Book, Milano 2004. 25 Sulla villa come luogo «secluso», «eremo-rifugio» e «prigione-tomba» si vedano le considerazioni di Manzotti, La cognizione del dolore, cit., pp. 277-279. 26 Per l’opposizione, centrale nella Cognizione, tra spazio esterno e spazio interno alla casa, da considerare come ricerca di «un baluardo contro le offese e le aggressioni del mondo esterno», sentito come «quanto mai avverso e ostile», si vedano le interessanti osservazioni di F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, Einaudi, Torino 2001, pp. 245-264 (le espressioni citate sono alle pp. 252-253). 27 La casa, sottolinea Luperini, è per Gadda il luogo «di un raccoglimento ancora umanistico volto alla difesa dal mondo esterno: un’immagine della solariana cittadella delle lettere» (R. Luperini, La “costruzione” della «cognizione» in Gadda, in L’allegoria del moderno, cit., pp. 273 s.). Dello stesso si veda anche Un appunto: la casa e l’opposizione interno-esterno nelle «Occasioni» e nella «Cognizione del dolore», in L’autocoscienza del moderno, Liguori, Napoli 2006, pp. 107-114.

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6. Ancora la bêtise del mondo provinciale Dopo il picco di intensità tragica (venata però inesorabilmente di grottesco, come si può cogliere dalle citazioni) segnato dai deliri coatti di Gonzalo, il diagramma del racconto in questa Parte prima ridiscende verso il livello minore dell’aneddotico e del comico. Nell’ultimo capitolo sono ancora di scena le angosce del figlio per la possibile violazione della casa da parte di ladri e assassini, e i timori, pervasi di ambivalenze, per la madre, ma questi motivi non si addensano più nelle forme grandiosamente deliranti del capitolo precedente, si distendono al contrario nei toni pacati e quotidiani della conversazione con il medico intorno al Nistitúo de Vigilancia para la Noche. Questa sequenza dialogica possiede in qualche modo una funzione di passaggio dai toni alti della sezione centrale della Parte prima a quelli bassi della sezione finale. La Parte prima si conclude infatti con l’aneddoto, golosamente e ampiamente narrato dal pettegolo dottore, riguardante lo smascheramento della falsa invalidità del Manganones alias Palumbo da parte del colonnello Di Pascuale: l’eroe scompare di scena e ritorna in primo piano una mediocre materia bozzettistica. La fine della parte si salda dunque con l’inizio. Dalla fondamentale opposizione paradigmatica binaria eroe vs mondo esterno si origina così, sull’asse sintagmatico, la struttura ternaria del primo grande segmento narrativo del romanzo: in apertura si colloca la rievocazione del clima dell’ambiente di provincia, della sua ontologica stupidità, che si offre come campione altamente probatorio del «pasticcio» della realtà sociale e del mondo fenomenico tutto; al centro spicca l’intensità tragica del «dolore» dell’eroe, che al «pasticcio» si contrappone come ultimo depositario della coscienza critica e dei valori; infine trionfano nuovamente la piattezza e la bêtise del mondo provinciale. Oltre che la successione sintagmatica della “storia”, in forma ternaria si dispiega anche l’organizzazione formale del “discorso” narrativo, nell’alternanza dei punti di vista: all’inizio, poiché il racconto si concentra sulla realtà esterna allo spazio della villa, lo stesso eroe viene visto solo dall’esterno, con effetti di deformazione e di straniamento; poi la prospettiva si sposta all’interno della sua coscienza, ed egli diviene il centro focale del racconto, il punto da cui proviene la visione; infine, con un nuovo cambio di prospettiva, il racconto torna a fissarsi sulla realtà esterna all’eroe e allo spazio sacro della casa.

7. L’eroe visto dall’ottica della madre La costruzione narrativa si ripresenta in forma sostanzialmente omologa nella Parte seconda: si delinea di nuovo, sull’asse sintagmatico, una successione ternaria tra prospettiva esterna, interna ed esterna rispetto al centro ideale costituito dall’eroe. Va rilevata però una variante significativa, in confronto alla Parte prima: il punto di vista esterno da cui è presentato Gonzalo all’inizio non è più quello dal basso del pettegolezzo paesano e del dottore, della stupidità del «costume

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villereccio», ma un punto di vista alto, quello dell’altra figura protagonista del conflitto tragico, la madre, ed è una prospettiva che si colloca anch’essa entro lo spazio sacrale della villa. Anche in questa seconda parte, come nella precedente, l’eroe all’inizio non compare in scena: il centro focale del racconto è in apertura costituito dalla vecchia signora. Si propone così l’altra faccia del «dolore»:28 lo strazio della madre per il figlio minore morto in guerra, la sua solitudine nella grande casa, le sue paure e le sue ossessioni, il senso di una minaccia incombente da parte di esseri sconosciuti, che si materializza simbolicamente nell’uragano scatenatosi sulla villa. Per questo, atterrita, la madre scende giù nelle viscere della casa, nel buio, alla ricerca di un rifugio, «come un animale ferito»: ma la tenebra si presenta come un’ancor più angosciosa oggettivazione del «maIe», della «rancura», del «tanto odio» che essa sente rivolti contro di sé, e che prendono corpo nell’insidia dello scorpione. Quello dei terrori della vecchia signora, che si chiude ossessivarnente in casa come per difendersi da un’imprecisata minaccia proveniente dall’esterno, è uno dei motivi conduttori del libro, e si collega al gran tema del matricidio che ne costituisce il nucleo. Il «male» però non viene da fuori, si annida nel cuore stesso della casa, che dovrebbe essere il baluardo e il rifugio nei confronti del mondo esterno. Le paure della madre per indefiniti pericoli che vengono dal di fuori sono in realtà la mascheratura delle paure per gli impulsi ostili ed omicidi che essa sente annidarsi nel «tristo figlio». È una verità che la madre respinge dalla coscienza, attraverso il rito coatto di barricarsi in casa ogni sera, ma nel profondo essa avverte da dove giunge realmente la minaccia. Il figlio non è per ora menzionato, nel monologo espresso in forma indiretta libera che occupa la sezione iniziale di questa Parte seconda, ma ne è il centro nascosto. Da questa oscura consapevolezza proviene tutto l’orrore che pervade il personaggio della madre, e di qui deriva l’alone tragico che la circonda.29 La nota della tragicità del «dolore», che scaturisce dal conflitto tra figlio e madre e dal tema del matricidio, accomuna le due figure centrali del romanzo; ma mentre il tragico di Gonzalo si fonde sempre con una comicità sogghignante, straziata e risibile insieme, il livello stilistico che pertiene alla madre è quello di un’elevatezza portata agli estremi confini del sublime. Nell’orrore, la vecchia signora immagina «senza sperarlo il soccorso, la parola di un uomo, di un figlio». Affiora pertanto alla sua coscienza, arrecandole sollievo, il nome del figlio superstite, Gonzalo: attraverso la sua prospettiva si riaffaccia così, indirettamente, la figura dell’eroe. Nel monologo interiore della madre il gran tema dell’ambivalenza è presentato dall’altra parte, da una prospettiva speculare rispetto 28 Il valore dell’alternanza dei punti di vista è stato ben colto da C. De Matteis, Oltraggio e riscatto. Interpretazione della «Cognizione del dolore», in Prospezioni su Gadda, cit.: «Alla madre è riservato il privilegio di un secondo punto di vista con la funzione di un piano alternativo di motivazioni che non sono quelle del figlio» (p. 22). 29 Sulla figura della madre nella Cognizione cfr. Manganaro, Le Baroque et l’Ingénieur, cit., pp. 226-241.

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a quella di Gonzalo: al groviglio di odio‑amore che domina il figlio corrisponde simmetricamente la confusa mescolanza di paura e profondo amore che pervade la madre nel pensare a lui. Si ripropone, come si vede, il gioco dei punti di vista su cui si reggeva la Parte prima: anche qui, inizialmente, per un ampio tratto l’eroe è del tutto assente dal narrato, poi la sua figura compare attraverso la mediazione dei pensieri o dei discorsi di altri, vista dall’esterno. Ma se la prospettiva meschina e malevola del paese deformava grottescamente l’immagine dell’eroe, qui al contrario la prospettiva della madre è essenziale per metterne a fuoco alcune caratteristiche fondamentali: nel ricordo materno si profila Gonzalo al ritorno dalla guerra, con il suo silenzio e il suo riserbo di anima ferita, il suo rifiuto di ogni occasione mondana in cui esibire le glorie conquistate, l’isolamento a cui la società indifferente e implacabile lo condanna («sistemati i quadri delle sue Lettere, e della sua Ingegneria, la natale Pastrufazio non poté a meno di defecarlo»), la sua «severità cupa», che evoca «le lontane figure del Misanthrope e dell’Avare», il «tedio» segreto che lo tormenta. E un ritratto partecipe, commosso, che integra e conferma quello che era scaturito dalle parole stesse dell’eroe, nei suoi precedenti deliri. Sono come due facce della stessa figura che vengono a combaciare: l’esterno, visto attraverso lo sguardo amoroso e dolente della madre, viene a completare l’interno. Però a livello paradigmatico si innesca anche un conflitto fra questa figura sublime della mater dolorosa, connotata da amore immenso per i figli misto a strazio per le loro sorti, anche per quella del superstite, e l’immagine della famiglia ottusamente, sadicamente repressiva e persecutrice nei confronti di Gonzalo, che aveva provocato i guasti psicologici del bimbo, immagine che scaturisce dal rancore feroce della vittima. Grazie al fatto che per un largo tratto narrativo a dominare è il punto di vista della madre, la prospettiva di Gonzalo, quando scatena il suo furore rabbioso sulla demenza dei genitori e sulle cariche narcissiche che erano alla base delle privazioni inflitte al figlio in nome del «feudo», appare deformante, parziale, non del tutto attendibile, in qualche misura viziata dalle sue ossessioni deliranti, perché non tiene conto di quell’amore materno che pure sussisteva dietro ai comportamenti della Signora. Il gioco costruito dallo scrittore è estremamnte raffinato e complesso: questa alternanza conflittuale di punti di vista contribuisce ad assicurare alle pagine della Cognizione la loro straordinaria, problematica profondità. E, poiché il furore di Gonzalo spesso si avvolge nel ridicolo, il conflitto diviene un fattore essenziale di quella fusione di tragico e di comico che costituisce il nucleo fondamentale del romanzo. Ma su questo punto sarà necessario ritornare con maggiore attenzione. All’inizio del secondo capitolo di questa seconda parte Gonzalo ricompare personalmente in scena, ma ancora visto dall’esterno, attraverso l’ottica materna. Significativamente la sua figura, che si staglia nel vano della porta, è percepita come «l’ombra di uno sconosciuto»: la madre, inconsciamente, identifica Gonzalo con l’ombra ostile da lei temuta nelle sue angosce, quell’ombra che di lì a poco entrerà veramente nella casa a dar compimento al matricidio, e che non è altro se

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non la proiezione e la materializzazione degli impulsi profondi del figlio. Sempre attraverso il punto di vista della madre ritorna il motivo delle «bizze e ubbìe» dell’eroe e vengono proposti due esempi dei suoi accessi di «turpitudine pazza» che si ripetono come «un tristo rito»: prima la maledizione che coinvolge la villa, la memoria del padre che l’ha costruita, con tutta la serie dei padri e delle madri sino ad Adamo, ed insieme il generale Pastrufacio, Lukones, campane, Serruchón, ville, «calibani gutturaloidi della Néa Keltiké»; poi le escandescenze contro le galline che non fanno uova, definite «lesbiche, e tr…», e contro il «gallo bardassa» (la gallina è un emblema dell’ontologica stupidità del reale che è prediletto da Gadda, come prova una famosa pagina del Pasticciaccio). Questa immagine di Gonzalo coincide perfettamente con quella che già era emersa nella parte precedente, ma si aggiunge un elemento in più, l’elemento soggettivo introdotto dalla prospettiva da cui l’immagine è presentata: la paura della vecchia signora di fronte a alla violenza di questi eccessi. E qui affiora pienamente alla superficie della narrazione, attraverso la presa di coscienza della madre, il nucleo più segreto del tragico conflitto: il «sentimento non pio», il «rancore profondo» del figlio, una «perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere», che sembra «riuscire alle occasioni e ai pretesti da una zona profonda, inespiabile, di celate verità: da uno strazio senza confessione»; un rancore che viene «da una lontananza più tetra», come se tra figlio e madre «ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce di ogni guerra: e d’ogni più spaventosa morte». Anche attraverso l’ottica della madre, quasi con le stesse parole, si ripresenta il «male oscuro», il «male invisibile» su cui già si chiudeva il ritratto di Gonzalo tracciato dalla voce narrante al termine del capitolo I della Parte prima: Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere di una vita, più greve ogni giorno, immedicato.

8. Un nuovo delirio dell’eroe: la «turpe risacca» dei «pervenuti» Gli squarci dell’interiorità di Gonzalo che si offrono attraverso la prospettiva della madre preparano il riaffermarsi del punto di vista dell’eroe come centro focale del racconto. In esatta simmetria con la Parte prima l’ottica di Gonzalo si impone attraverso uno dei suoi grandi deliri, che viene ad occupare la zona centrale di questa Parte seconda costituendone la Spannung, il culmine di tensione tragica. Anche qui il delirio deflagra al contatto con la realtà oggettiva, con il «pasticcio» del mondo esterno, ma porta poi alla luce le radici più segrete del «dolore» che corrode la vita interiore dell’eroe. Oggetto del furore di Gonzalo è la «turpe risacca» dei «pervenuti» che negli anni del dopoguerra, in un tempo di rapidi cambiamenti capaci di sconvolgere assetti di vita consacrati da antiche tradizioni, hanno raggiunto ricchezza e status sociale grazie ai mezzi più spregiudicati e ignobili. L’immagine di

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«maree» di individui dalle origini più varie alla frenetica, folle ricerca di fortuna in un contesto sociale in ribollimento si costruisce, nel delirio di Gonzalo, attraverso un proliferante e caotico processo di accumulo, inteso a rispecchiare il caos di una società che ha infranto quei moduli d’ordine che dovrebbero permettere alla vita di una «perfetta città» di comporsi entro linee armoniche e decorose, regolate dall’intelligenza, dalla cultura, dal buon gusto, dalla signorile gentilezza: Maree d’uomini e di femmine! con distinguibile galleggiamento di parrucchieri di lusso, tenitrici di case pubbliche, fabbricanti di accessori per motociclette, e coccarde. [...] Tale gli appariva fortuna, nel Sud‑America. Tempestoso mare addosso le zattere sbatacchiate delle genti sperse, slavate, con sargassi di cinesi o di bracci di negri fuor dal ribollire delle onde: armeni, russi, bianchi e rossi, arabi che s’eran conquistati una scialuppa col coltello alla mano, levantini veri con un carico, sulla spalla, di tappeti finti, di Monza [...]. I salumai grassi, come baffuti topi, insaccatori di topi; torreggianti sul loro marmo alto, con mannaia, i macellai‑scimitarra; o paonazzi sensali, nel foro, a bociare sobre el ganado; o bozzolieri in marsina tumefatti dalla prosopopea delle virtù keltikesi al completo, con undici bargigli, se pure inetti a spiccare una sola zeta dai denti: elettrotecnici miopi come carciofi: preti (presbiteriani) in abito da ballo, droghieri brachischelici con le brache piene di saccarina contrabbandata; ingegneri cornuti, medici delle budella, e dei rognoni, e specialisti del perepepé: guardie giurate, ladri, gasisti, ruffiane asmatiche, stuccatori e stuccatrici d’ogni risma! [...] Questo mare senza requie, fuori, sciabordava contro l’approdo di demenza, si abbatteva alle dementi riviere offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca.

La «risacca» appare «turpe» perché è vista con gli occhi del reduce respinto dalla società al rientro nella vita civile, dopo aver patito in guerra infiniti rischi e indicibili sofferenze, dell’intellettuale declassato e impoverito, che per questo guarda con rancore il brulicare di nuovi ceti nel mondo postbellico, trascinati da un vortice euforico da cui egli resta escluso. Non per nulla il delirio si origina dalla contemplazione della povera cena e delle squallide suppellettili domestiche, a cui si associa il ricordo delle privazioni infantili e delle vacue presunzioni dei genitori: Era, in ogni modo, tutto quello che il padre e la madre avevano ritenuto bastevole, dopoché utile, alla vita, al progresso, alla felicità dei figli. Eppure avevano ben conosciuto anche loro, cane il diavolo! quali mai tessere, o biglietti d’invito, qual sorta di pentàcoli o di talismani unti valevano verso le porte, in disserrare ai mortali, e fino ai pitecàntropi‑granoturco, i battenti istoriati d’oro e d’avorio massiccio, le girevoli portiere degli Odéons.

La duplice matrice di questo delirio, lo sdegno per la violazione dei valori più alti e la rabbia dell’emarginato, rendono ragione della violenza estrema con cui Gonzalo (e dietro di lui lo scrittore) si scaglia contro il caos sociale. Con un radicale ribaltamento di prospettive rispetto alla precedente sequenza dominata dal punto di vista della vecchia signora, i difficili rapporti famigliari sono di nuovo visti con gli occhi del figlio, della vittima della mortificazione istintuale,

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che ha modo così di rivendicare la sua verità, contro quella della madre, in una sorta di indiretto contraddittorio a distanza. Il «male oscuro» e il «rancore profondo», che alla madre restano nella loro essenza ultima impenetrabili, rivelano ancor più allo scoperto le loro motivazioni. Ma l’intellettuale Gonzalo, seppur impoverito, proviene comunque da un ceto un tempo agiato, ricco di dignità e di decoro, e perciò guarda all’ascesa sociale di ceti inferiori, al rapido crescere della ricchezza ottenuto con mezzi dubbi, come alla violazione di un perfetto modello di vivere civile, di una sacra gerarchia di valori. Per questo torna qui alla luce la polemica contro la falsità delle «non‑forme», già alla base del grande delirio di Gonzalo che costituiva il centro della Parte pima. Infatti le pagine notissime che ritraggono i parvenus nei ritrovi mondani e al ristorante, attraverso un’abbagliante pirotecnia di giochi verbali, di metafore fantasiosamente grottesche e di scontri di livelli stilistici si fissano con furibonda indignazione sul motivo dell’esibizione narcisistica di forme inautentiche, sui simboli vuoti del successo, della ricchezza, del prestigio, a cui non corrisponde un’effettiva funzione nella società, in grado di conferire a quei ceti la vera dignità di una classe dirigente, e che quindi trasformano l’esistenza della nuova borghesia in una vergognosa, intollerabile menzogna: dal «sifone virilmente mingente» che conferisce «una tal quale gravità» al gesto dei signori che siedono a tavola, «petto in fuori, busto eretto, incartonati nello arnese d’amido dello smoking quasi nel cerotto e nel turgore supremo della certezza e della realtà biologica», vantando, con voce baritonale, «immaginarie notti e lucri di diamanti rivenduti (ma non mai esistiti)», sentendosi «sodali […] nella usucapzione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro deretano», e compiacendosi della «presenza degli altri, desiderata platea»; all’illusione «d’un attimo di potestà marchionale» suscitata dall’ossequioso appellativo di «signore» elargito dai camerieri in frac, sino ai polsini con gemelli d’oro, alle dita «aristocratiche» e alla sigaretta «col bocchino di carta d’oro» esalante «tenui volute, elegantissime», tenuti «alti e invidiabili davanti la virile cera di digestione», che costituiscono il sogno dei garzoni di barbiere. Queste figure per Gonzalo-Gadda sono pure apparenze esteriori non degne di essere considerate forme compiute e a pieno titolo, superfici fasulle che nascondono dietro di sé il vuoto, non persone vere e proprie ma «manichini ossibuchivori», che si esauriscono solo nell’atto di ostentare se stessi agli occhi di altri manichini come loro, «desiderata platea», intenti al rito disgustoso di ingurgitare cibo. Si è richiamato giustamente l’espressionismo crudele di un Grosz, ma vengono alla mente anche gli hollow men di Eliot.

9. Il tragico eroe della negazione Proprio in chiusura di questo grandioso delirio, in cui con più corrosiva violenza Gonzalo aggredisce la degradazione della realtà contemporanea, smascherando-

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ne la turpitudine, si delinea la sua fisionomia di anima bella, che si erge titanicamente a sfidare questo trionfo di «parvenze non valide», di «vane immagini», di mere apparenze menzognere che popolano la società, e si propone come ultimo baluardo di quei valori autentici, la dignità e l’indipendenza dell’individuo, la nobiltà dello spirito, l’intelligenza, la cultura, l’amore della verità, che il caos oltraggioso del mondo attuale minaccia di contaminare, sommergere e cancellare:

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La sua secreta perplessità e l’orgoglio secreto affioravano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide. Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di denaro.

Non a caso Gonzalo è qui designato con un termine che sottolinea la sua nascita aristocratica, la sua appartenenza a illustri tradizioni nobiliari, l’«hidalgo», in contrasto con gli oggetti della squallida vita quotidiana, che testimoniano la bassezza della realtà in cui è costretto a vivere: «Lo hidalgo era nella sala, davanti lume e scodella». Nella serie di «battute da interpolare» leggiamo una dichiarazione che vale a illuminare questa posizione di implacabile giudice assunta dall’eroe: Il giudizio […] era una tenaglia onde la realtà valutata gli diventava preda sotto alle unghie. Il giudizio era in lui prassi: e cioè giudicando agiva, sentiva di agire, agiva moralmente, prendeva, attanagliava la realtà giudicata e la stritolava in polvere di quello che ell’è veramente, cioè un bischero, pulverulento nulla.30

Gadda insiste con disperato accanimento nel tentativo di conferire una statura eroica al suo personaggio, di affidargli il compito di rappresentare la coscienza critica e il giudizio di fronte ad un reale inautentico ed opaco, privo di ogni senso e di ogni dignità, e per questo connotato con la consueta cifra degradante e repellente dell’escremento: Cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo lezzo di meretrice. O invece attuffarla nella rancura e nello spregio come in una pozza di scrementi, negare, negare: chi sia Signore e Principe nel giardino della propria anima. Chiuse torri si levano contro il vento.31

30

Si veda sempre l’Appendice a La cognizione del dolore, a cura di E. Manzotti, cit., p. 567. Osserva Luperini: «Costretto a scegliere fra il “bacio bugiardo della Parvenza” o invece “attuffarla nella rancura e nello spregio” (e quindi “negare, negare”), tra rassegnazione e negazione, Gonzalo non ha dubbi e sceglie la via della negazione, che è anche negazione di sé […]. La “cognizione del dolore” coincide con questo sostanziale nichilismo […]. L’autocontestazione della letteratura giunge non solo alla sua negazione come prodotto sociale, ma anche alla negazione di una sua vita separata e alternativa, in sé conclusa e autosufficiente» (R. Luperini, Nevrosi e crisi dell’identità sociale nella «Cognizione del dolore», in «Problemi», n. 60, 1981, p. 71 s.; su questo argomento cfr. anche il successivo contributo di Luperini, La “costruzione” della «cognizione» in Gadda, cit., p. 275). 31

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È un dilemma che ricorda quello di Amleto, l’eroe tragico tanto amato da Gadda.32 E come avviene per il personaggio shakespeariano, il compito eroico di Gonzalo, il rivendicare le ragioni della conoscenza e del giudizio, assurge ad una forma di esercizio ascetico, o addirittura di martirio, che spinge l’eroe sino alla negazione di sé. Il rifiuto di omologarsi alla realtà degradata, il contrapporsi ad essa per negarla, comporta di necessità la rottura dei rapporti col mondo, l’isolamento feroce («chiuse torri»), quindi il rifiuto di vivere, anzi la negazione delle ragioni stesse della vita, che in qualche modo è l’equivalente di un destino di morte, come è proprio dell’eroe tragico:33 Ma l’andare nella rancura è sterile passo, negare vane immagini, le più volte, significa negare se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio, a certi momenti, è lacerare la possibilità: come si lacera un foglio inturpato leggendovi scrittura di bugie. Lo hidalgo, forse, era a negare se stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro.

Se, nel delirio che immediatamente precede, dalla congiunzione del «pasticcio» oggettivo e del «dolore» soggettivo dell’eroe che lo contemplava scaturiva quella commistione di tragico e di comico, di sublime e di grottesco (lo «scherno […] dei disegni e delle parvenze» e la «maschera tragica») che è la cifra destinata a connotare inevitabilmente Gonzalo, in questo passo la sublimità tragica del «dolore» come effetto della conoscenza e come fonte di conoscenza (la «cognizione del dolore», appunto) viene affermata in tutta la sua purezza.34 32 Nell’alternativa tra rassegnarsi alla menzogna della «Parvenza» e negarla e combatterla la Savettieri ha colto una ripresa del monolgo di Amleto nella prima scena del terzo atto: «To suffer / the slings and arrows of an outraegous fortune / or to take arms against a sea of troubles, / and by opposing end them» (La trama continua, cit., p. 168 s.). 33 Siccome il dilemma di Gonzalo riproduce quello di Amleto, si può constatare la sua identificazione con il personaggio della tragedia shakespeariana quale è delineato nell’articolo Amleto al teatro Valle, del 1952 (ma la passione di Gadda per quel testo risale a molti anni prima, come provano le sue carte): «Il non essere è adattarsi alla vita e alla turpe contingenza del mondo, l’essere è agire, adempiere al proprio incarico (alla propria missione) andando, sia pure, incontro alla morte»: nello scontro dell’eroe con la «turpe contingenza del mondo» lo sbocco inevitabile è la morte (cfr. Saggi, giornali favole I, cit., p. 542) 34 In una delle «note compositive» del romanzo si trova una precedente redazione di questo passo fondamentale, da cui si ricava che Gonzalo annoverava anche se stesso nell’ambito della «vita non valida» e si escludeva dai «veramente degni» di «usufruire della possibilità», «con spietato coraggio» (Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 557). Questa autoesclusione dai «meritevoli» crea un problema: contraddice infatti l’immagine che tutto il romanzo, ma soprattutto il passo di cui ci stiano occupando, offre di Gonzalo, come eroe depositario dei valori puri che si contrappone a un mondo degradato e ignobile e lo rifiuta sdegnato, dall’alto della sua superiorità spirituale; e per di più una simile affermazione non appare coerente con la sovrapposizione della figura di Amleto, come è delineato da Gadda nell’articolo citato, cioè l’eroe che, dotato di superiori facoltà di conoscenza e di giudizio, lotta contro «il mondo esistente della vergogna e della ignavia» (Saggi giornali favole I,

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10. Il peone, oggetto «barocco», e il «pasticcio» della realtà esterna In chiusura della Parte seconda, dopo la focalizzazione interna proposta dal lungo delirio di Gonzalo, la prospettiva torna a collocarsi all’esterno dell’eroe. Il racconto infatti si concentra sulla figura del peone di casa Pirobutirro, che entra ad interrompere uno slancio di tenerezza con cui il figlio, per un istante, supera i suoi rancori abbracciando la madre. Al sublime che connota l’eroe si sostituisce di nuovo, come al termine della Parte prima con l’indugio sul Manganones, il livello basso e comico della realtà provinciale, la sua mediocre dimensione bozzettistica. Ma non si tratta solo di uno squarcio di divertito descrittivismo aneddotico. Il peone assume tanto rilievo in quanto rappresenta la degradazione della realtà fenomenica, ridotta a pura materia bruta, greve e inerte, non riscattata dalla luce di alcuna «ragione ordinatrice di fatti necessari». Il peone, insomma, non è che una «non-forma», un oggetto «barocco», un campione estremo della «baroccaggine» del mondo isolato tra il proliferare caotico degli altri aspetti fenomenici, una cosa immonda contemplata dal narratore con disgusto ma anche con una sorta di fascinazione ipnotica, che lo induce a fissarsi in modo abnorme, ossessivo, sui tratti più repellenti dell’oggetto. E, come sempre, l’escremento si propone quale emblema di questa ontologica degradazione della realtà: di qui l’insistenza del discorso, morbosa ed affascinata insieme, sulle «frittelle di letame secco» che si disquamano di sotto agli zoccoli del contadino «con un acciacchìo di nàcchere pedagne», sulla sua «esibizione olfimica di valerianati, formiati e capriliti», sull’«asprigno olezzo, l’afrore dei di lui piedi e ascelle, e qualcos’altro». È evidente che l’ottica del narratore, fissandosi su questo personaggio, non fa che riprodurre quella di Gonzalo, dominata dalle sue ossessioni cit., p. 540 e 542). Inoltre contraddice anche la redazione definitiva accolta nel romanzo, in cui la negazione delle «parvenze non valide» è attribuita appunto non a chi vi è anch’egli coinvolto, ma a chi è «Signore e Principe nel giardino della propria anima», è in grado di attuffarle nella pozza di escrementi ed è paragonato alle «chiuse torri» che «si levano contro il vento»: immagine eloquente di una sdegnosa superiorità, di chi non si fa contaminare dalla bruttura, ma si pone eroicamente in posizione alternativa e irriducibile rispetto alla «Parvenza» (e la chiusura nella torre richiama la chiusura di Gonzalo nello spazio sacro della villa, baluardo contro l’urgere della stupidità). La contraddizione si può sciogliere osservando che, in quella prima redazione, Gadda attribuisce la propria esclusione dai meritevoli alla visione soggettiva, distorta e inattendibile di Gonzalo, scorgendone la genesi nel suo senso di colpa. Difatti l’applicazione a se stesso della «negazione» è definita «l’orribile, l’incaritatevole suggerimento del senso di colpa scatenato nella sua disperata infanzia dalla ferocia dei suoi assassini» (Ibidem). Ciò fa supporre che, al di là di questa visione distorta del personaggio, in realtà anche all’altezza di questa redazione Gonzalo sia per Gadda l’eroe tragico che come Amleto si contrappone alla turpitudine del mondo: difatti, non a caso, il passo è rubricato come «tema amletico». Non solo, ma il seguito del passo nega che Gonzalo abbia ragione di sentirsi in colpa, perché «quale colpa recava in sé il puro fiore del bimbo, se non quella d’essere anima troppo più ricca di quante peppòfore isterie e sadismi e oscenità di gozzuti ventriloqui lo circondavano» (Ibidem): dove è confermata la superiorità spirituale dell’eroe rispetto al mondo che lo circonda, rappresentato dalla durezza repressiva della famiglia e dalla realtà immonda della campagna. Quindi nella precedente redazione non si può ravvisare una difformità nella raffigurazione dell’eroe rispetto alla redazione definitiva.

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e dalle sue nevrotiche repulsioni; è in realtà con gli occhi dell’eroe che il peone viene contemplato: in tal modo il motivo del «dolore», che appare ora sostituito da quello del «pasticcio», è riproposto implicitamente, perché sempre il «pasticcio» reca in sé visibile l’impronta del «dolore» che presiede alla sua esplorazione. Sotto le sembianze del contadino il «pasticcio» della realtà esterna si insinua a contaminare lo spazio sacro della villa, il rifugio entro cui l’eroe vuol rinchiudersi per difendere la sua solitudine, la sua sofferenza, la sua nobiltà spirituale. Questo spazio sacro in un frammento non inserito nel testo definitivo è assimilato da Gadda all’interiorità dell’ anima stessa dell’eroe: Il possesso doveva essere uno sputo in faccia alla folla che invadeva la sua casa, la sua anima. […] Il domicilio era sacro. Nessun valerianato umano doveva profanare la dimora elisia delle mosche immortali, dei ritratti. […] Nessuno doveva poter entrare nella sua anima. Per aver l’onore di sperare di adire al limen della sua anima… domanda in carta da bollo da 200 lire, come le pratiche della Cassazione [corsivi nostri].35

Per questo, in uno dei suoi accessi di collera furibonda, Gonzalo lo estromette con violenza, in una sorta di rito purificatore. Viene così suggerito un motivo fondamentale, che verrà poi sviluppato subito dopo nei due «tratti» aggiunti nell’edizione del 1970. La Parte seconda si conclude infine con un’ulteriore evocazione, a ripresa di quella già proposta alla fine della Parte prima, del muro di cinta troppo basso, insufficiente a preservare lo spazio sacrale della casa, e con una descrizione della scena che si apre immediatamente al di là di esso. È di nuovo lo spazio del mondo fenomenico esterno, delle «non‑forme», quindi si presenta con l’aspetto del «pasticcio» proliferante, reso attraverso l’accumulazione caotica di oggetti vili e degradati, accostati come casualmente, senza essere riscattati da alcuna gerarchia d’ordine: Di là dal muretto, una stradaccia. Ghiaiosa, a forte pendenza, con lùnule di piatti infranti, e d’una scodella, tra i ciòttoli, od oblìo d’un rugginoso baràttolo, vuotato, beninteso, dell’antica salsa o mostarda.

E, inevitabilmente, la degradazione ontologica del reale si compendia nella cifra dell’escremento, su cui lo sguardo del narratore viene a fissarsi, con la consueta repulsione mista a fascinazione ipnotica: Tratto tratto anche, sotto il livido metallo d’un paio di mosconi ebbri, l’onta estrusa dall’Adamo, l’arrotolata turpitudine.

Risalta in piena evidenza la serie di artifici stilistici che si accumulano nel breve passo, a mettere in rilievo l’importanza essenziale che esso assume, nell’ottica gaddiana: lo stile nominale caro alla prosa lirica novecentesca, l’ardito trapasso analogico 35

Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 519.

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di gusto ermetico del «livido metallo» dei mosconi, l’uso preziosamente metonimico degli astratti «onta» e «turpitudine» in luogo del concreto, gli aggettivi esornativi, il participio latineggiante «estrusa», l’antonomasia «dall’Adamo». Il linguaggio aulico e poetico dovrebbe assumersi il compito di riscattare il reale dalla sua degradazione, di indicare un altrove ideale, in cui resistano ancora ordine, autenticità, dignità, ma in realtà sortisce l’effetto opposto e, lungi dal riscattare l’oggetto, si risolve in strumento di una fissazione ossessiva su di esso, contribuendo a dilatare mostruosamente la sua fisionomia, a mettere ancora più in luce la sua disgustosa consistenza. Un’immagine della stupidità irredimibile e del «barocco» degli oggetti, che si aggiunge immediatamente all’escremento e ne fornisce un equivalente, è la macchina, «qualche puttanona d’automobile sfiancata dagli strapazzi, dagli anni» che percorre la stradaccia e sembra avventarsi «contro l’assurdo, ruggendo, strombazzando, schioppando, sparando sassi da sotto le gomme, lacerando coi ruggiti del motore e con gli strilli de’ suoi sbatacchiati Argonauti‑donne il tenue ragnatelo di ogni filosofia». Come si vede, con l’accenno finale alle meditazioni filosofiche di Gonzalo rese impossibili dal frastuono di una modernità volgare e stolta, si ripropone ancora una volta il conflitto centrale del libro, tra lo spazio esterno e quello interno, tra la degradazione del mondo sociale e fenomenico e la dignità tragica dell’eroe intellettuale. Nelle ultime righe, che chiudevano la prima edizione in volume del 1963 (e quella comparsa originariamente su «Letteratura»), riappare poi fuggevolmente il motivo del «dolore», nel suono dell’incudine che viene riecheggiato dal monte, e che sembra conferire al motivo una portata cosmica («Il rimando del monte precipitava sulle cose, dal tempo vuoto deduceva il nome del dolore»).

11. La terza parte: la profanazione dello spazio sacro della casa A confermare la legge costruttiva fin qui individuata, anche il terzo grande segmento narrativo del romanzo, costituito dai «tratti» aggiunti nell’edizione del 1970,36 presenta la stessa struttura ternaria dei due precedenti, scandita sulla successione di piani esterno‑interno‑esterno, con una sequenza iniziale concentrata sul «pasticcio», una centrale dominata dalla prospettiva dell’eroe ed una finale in cui il protagonista è assente e la marea montante della «stupidità» sociale e ontologica viene ad occupare tutto il quadro, sommergendo il «dolore».37 36 Sulla tripartizione dell’architettura narrativa nella Cognizione, di cui i «tratti» aggiunti nel 1970 dovevano costituire una terza parte, cfr. la meticolosa ricostruzione della genesi dell’opera in Manzotti, La cognizione del dolore, cit., p. 221. Che i due «tratti» aggiunti costituissero nelle intenzioni originarie di Gadda una terza parte del romanzo è confermato da un appunto conservato tra le «note costruttive», probabilmente della fine del 1937, in cui è stabilito un «bilancio pagine» in previsione del futuro volume: «3a Parte=”Nuova serie” – I due cugini. Pagine 1-27» (riportato da E. Manzotti nell’ed. cit. della Cognizione, p. 539, e anche in “La cognizione del dolore”: di alcuni problemi testuali, in Aa.Vv., Gadda. Progettualità e scrittura, cit., p. 127). 37 Alla nostra lettura è stato rimproverato «qualche eccesso di schematizzazione» (Savettieri, La trama continua, cit., p. 157): ma ci sembra innegabile che queste simmetrie siano in re, nella struttura oggettiva del romanzo, e che quindi sia necessario metterle in evidenza.

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In apertura si ricrea il clima piattamente aneddotico dei fatterelli e delle chiacchiere di paese, riportate attraverso il racconto del peone e della lavandaia: le pressioni del Nistitúo sul cavalier Trabatta, che non vuol piegarsi al ricatto, il furto intimidatorio perpetrato nel suo castello. Poi si verifica l’invasione della villa Pirobutirro da parte della folla di contadini che la madre, in obbedienza alla sua generosità e alla sua condiscendenza signorile, introduce in casa come in una periodica cerimonia di omaggio feudale, soffermandosi a discorrere benevolmente con gli umili, accogliendo le loro semplici offerte in natura (i funghi, il pesce), assegnando lavori domestici e distribuendo mance. Puntualmente la realtà escrementale (con i corollari equivalenti della sporcizia e del fetore) è la cifra che, nella minuziosa, insistita descrizione, connota la repellente bêtise del mondo fenomenico esterno: l’orina del cagnetto pulcioso, le «frittelle di letame compresso», desquamatesi di sotto agli zoccoli del peone e finite «a pan moin nella piscia», il «pesce morto, fetente», i funghi che ricordano l’odore dei piedi, le galline che entrano e zampettano per casa, l’afrore che promana dai buoni popolani, che Gonzalo sospetta essere infestati da miriadi di pulci. Ma a ben vedere si verifica qui una svolta di capitale importanza nel racconto: i due poli dell’opposizione centrale, villa‑paese, interno‑esterno, in precedenza disgiunti, vengono a riunirsi; il «pasticcio» esterno, sotto forma della «pluralità sconcia» dei villici, entra di prepotenza nello spazio sacro della casa, contaminandolo, profanandolo. L’invasione di questa folla compromette irreparabilmente la sua funzione di difendere i legami gelosi che uniscono i vivi e i morti, di salvare la solitudine e la dignità dell’eroe, il severo rigore della sua vita intellettuale, il suo «dolore» e l’atmosfera tragica che si riverbera dal suo male interiore.

12. Il terzo grande delirio: i traumi dell’infanzia e il tema del matricidio Di qui prende le mosse un ultimo grande delirio di Gonzalo, regolarmente, come nelle altre due parti, collocato al centro dell’intero segmento narrativo. La repulsione suscitata da quella folla di presenze sudice e maleodoranti richiama all’eroe antiche ossessioni infantili, sempre segnate dalla ripugnanza per odori disgustosi, che a loro volta si collegano al tema ricorrente dell’escremento, con tutte le sue ben note valenze simboliche: L’antica ossessione della folla: l’orrore de’ compagni di scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della «ricreazione», il diavolìo sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in ordine, a due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga: alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore.

E poco più avanti: Il naso, certo, adesso valeva di più dell’anima. Le percezioni olfattive gli avevano bruttato gli anni, gli autunni, i mesi di scuola…

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La collettività; gli altri; il plurale maschile… L’interminabile processione verso la piscia… Dai condotti intasati di croste di croconsuelo si diversava sulle scale di beola nerastra.

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Si apre così una catena di associazioni libere e casuali, si direbbe, come in una sorta di incontrollato stream of consciousness espresso nelle forme dell’indiretto libero, in cui si fondono e si identificano lo stile del personaggio e quello del narratore:38 dai disgusti infantili, con un brusco trapasso apparentemente privo di motivazioni, scaturisce il ricordo di traumi più recenti, quelli del reduce di guerra, che per disdegno degli uomini si era isolato dalla collettività e a cui la folla “sovversiva” aveva dato ferocemente la caccia per le strade della città: Il disgusto che lo aveva tenuto fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il disprezzo che nei mesi dopo la guerra aveva rivolto alle voci dei cosiddetti uomini. Per le vie di Pastrufazio s’era veduto cacciare, come fosse una belva, dalla loro carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno.

Riaffiora così un tema che era stato ricorrente nel primo Gadda, nella Vita notata. Storia, nel Quaderno di Buenos Aires, in Dejanira Classis. Con un nuovo trapasso improvviso le associazioni mentali sotterranee riportano al nodo centrale della sofferenza dell’eroe, il «feudo» familiare, la villa, che era stata la causa di tutte le privazioni materiali e affettive patite da bambino, e che si associa al simbolo delle pere butirro coltivate dal padre; a loro volta queste si collegano a una figura femminile, che sta a rappresentare tutta la popolazione della provincia con la sua bêtise, e a cui, per una sorta di antonomasia, viene attribuito un nome emblematico, proveniente da Carlo Porta: Gli anni! e il feudo persisteva sul colle […]. Le pere butirro si appesantivano dentro la scarfagna dorata dell’autunno, dure come sassi: finché San Carlo, improvvisamente, adoperando bene il nasone le conquista alla bava di Donna Paola Travasa. […] E, per il futuro, pere: peri di spalliera, che portano, aiutando San Carlo, pere butirro. […] Un elisio di pere butirro era, secondo il Marchese, il futuro… L’umanità, senza dubbio, sotto i dorati raggi dell’autunno tendeva alle butirro… […] gli parve impossibile che la sua vita fosse venuta filmandosi di un simile sciocchezzaio. Gli parve impossibile che le cariche narcissiche de’ suoi generanti si fossero risolte nelle butirro, nei José, nel campanile di Lukones, quando avevano due creature, nel Serruchón a denti di sega.

Le pere come si sa sono anche il simbolo della stupidità dei genitori, e quindi sono l’occasione per lo scatenarsi dell’insofferenza rabbiosa di Gonzalo:

38 Come ben puntualizza Raffaele Donnarumma, «nella Cognizione, la voce manzoniana dell’ historicus è, in realtà, la voce di Gonzalo sopra Gonzalo, la ragione di Gonzalo oltre Gonzalo: troppo fitto è il sistema interno di rimandi e troppo urgente la materia autobiografica perché non si veda nel narratore un doppio del protagonista» (Donnarumma, Gadda. Romanzo e “pastiche”, cit., pp. 53 s.).

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Tutto il calice dello sciocchezzaio: giù tutto, hop! Fino alla feccia. […] Tutta la scempiata, tutto il zoccolante residuo degli anni doveva esser solo, a contare, a valere, nel mondo. Ed era nella sua casa ora, il consorzio, come lo aveva sognato, pre sagito il Marchese: «Per i miei figli, la villa, le pere, per i miei figli».

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Tra le immagini grottesche e ridicole evocate dalla rabbia e dallo sdegno si insinua però la nota tragica della morte del fratello, che con la sua sublimità anche stilistica stride in modo parossistico con la meschinità di quel mondo stolto: Peccato che uno, si fosse buttato in aria, l’aria bonna, a quel modo: ma la gravitazione aveva funzionato, il 9,81, con due fili rossi sui labbri dalle narici, e gli occhi aperti, dentro cui si spegneva il tramonto… […]. Il consorzio: come lo amavano papà e mamma, dentro casa, con zoccoli dei cari peoni e peonesse; gutturavano le loro variazioni, rutti indoeuropei al 100/100 dopo il tripudio di arrovesciate, pazze, propagandanti Fede, campane: dalla torre. Cinquecento, cinquecento ante-guerra. Il batacchio-clitoride era la gloria, enorme, del paese festante. Cinquecento pesos; cinquecento. Solo cinquecento. La sua maglia, del figlio quando aveva quattordici anni, contro il soffio della tramontana, che al ginnasio la chiamàvano Borea, aveva quattro finestre aperte, grandi così. E poco bisognava mangiare, per crescere sani, smilzi. Ma per il futuro la villa, la villa.

Le idee coatte di Gonzalo si aggirano intorno a pochi temi ossessivi, il rumore degli zoccoli dei contadini, che sono quasi la trascrizione fisica della loro riduzione a materia bruta e inerte, le loro voci dialettali e gutturali, collegate in qualche modo a una fisicità scatologica («rutti inoeuropei»), il frastuono delle campane che richiama gli sperperi folli della famiglia e di conseguenza le privazioni inflitte ai figli. La rabbia di Gonzalo si scatena perché tutta quella sconcia e repellente «pluralità» di presenze ha osato invadere lo spazio della casa, che doveva restare gelosamente inviolabile e nella quale dovevano richiudersi la madre e il figlio, legati dal loro dolore, in attesa del ritorno dell’anima del defunto: Dentro casa, ora. Popolo e pulci, di cui si commoveva la mamma, dopo che il suo figlio minore, nei lontani anni, aveva guardato gli accorsi. Con occhi lucidissimi, aperti. Aperti, fermi. Nello stupore del sogno senza più risposte. […] Nella sala dove lui e sua madre dovevano soli entrare e resistere; e attendere. […] Nella casa, il figlio, avrebbe voluto custodita la gelosa riservatezza dei loro due cuori soli.

I pensieri di Gonzalo, in questo flusso ininterrotto, ritornano come a ondate successive sugli stessi nodi dolorosi: la presenza della «turpe invasione» richiama ancora gli anni infantili, segnati dall’educazione sbagliata e devastante: Il Marchese padre, amorosamente, ogni mattino, gli preparava lui stesso la refezione: nel cestello scemo, ch’era la delizia aereata e purtuttavia parallelepipeda degli igienisti e dei genitori dell’epoca. Una fetta di bue lesso, detto spagnolescamente mannso, cioè creatura ammansita, stopposa come una cima di canape frusta che perda i trèfoli, con sopravi un pizzichetto di sale di cucina: sale serruchonese e

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pastrufaziano: un panino. Non mai un frutto né un dolce, dacché il Marchese padre era preoccupatissimo d’ogni possibile indigestione del figlio, e anche soltanto immaginata. E il bottiglino dell’acqua e vino. Col turacciolo. Guai se il bimbo avesse smarrito il turacciolo. Ore d’angoscia, in certi giorni tristi, per il ricupero del turacciolo: sullo smarrito sughero severità sibilante della maestra, che entrava allora con sopraccigli sollevati, in uno stato di tensione sadica, bavando internamente. Le implorazioni del figlio riuscirono vane. Guai se il turacciolo fosse rotolato sotto l’ultimo banco dell’ultimo quartiere, dopo aver traversato leggero leggero, tutta la classe tra l’odore e lo scalpito degli 82 piedi. «Io sono il tuo turacciolo e tu non avrai altro turacciolo avanti di me…».

È una pagina mirabile per la carica di di rancore e trattenuto furore che Gadda riesce a riversare sui particolari più futili (il «cestello scemo», il «mannso», il «pizzichetto di sale di cucina», il «turacciolo»), che divengono i simboli tangibili della sordidezza, della mediocrità, della ristrettezza di vedute della famiglia borghese, ammantate di severa austerità e rigida morale. Al tempo stesso emerge da parte dei genitori l’attaccamento a pregiudizi tanto radicati quanto insensati, che danno luogo a rituali ridicoli. Sono tutte notazioni che certo suscitano il riso, ma che al tempo stesso rivelano un fondo serio e tragico, per la sofferenza profonda, immedicabile che quei comportamenti familiari hanno provocato nel bambino, segnando tutto il suo futuro. Vengono messi alla berlina, con caustico sarcasmo, anche i principi educativi ottusamente autoritari e repressivi della famiglia e della scuola, che pretendono di unire al rigore una illuminata pedagogia moderna, tipica di una tradizione illuministico-positivistica lombarda, attenta all’igiene e al benessere dei fanciulli: I suoi educatori erano stati grandi e soprattutto perspicaci e sensibili, come tutti gli educatori. Sparta: detta anche Lacedèmone: Sparta e, nello stesso tempo, una certa moderna e pastrufaziana latitudine di visuali. Anche il bottiglino dell’acqua e vino, anche il turacciolo, al Signorino.

A contrasto, si profila l’immagine di una vita infantile proletaria tutta diversa, immune dalle costrizioni e dalle inibizioni del costume borghese, allegramente ribelle e spavaldamente spregiatrice di ogni autorità, che Gonzalo vagheggia con la disperata nostalgia dell’impossibile: Mentre molti poveri esseri vagabondavano soli, o a branchi, nei prati, laceri, allegri, con via il culo dei calzoni, senza il bottiglino, senza il turacciolo… E tiravano sassi col tirasassi, zànchete, ai passerotti, al parco. E piantano, sotto ai ponti, merde mandorlate, e sulle rovine dei fortilizi spagnoli… sgretolate come torroni secchi, imbibite come babà… Li rincorre il vigile; con quali risultati! L’Autorevole…

Qui l’escremento assume un aspetto ambivalente: se da un lato è oggetto della consueta ripugnanza fisiologica che origina una contemplazione fissa e ossessiva, mista a sdegno per la violazione dell’ordine e delle norme civili, dall’altro diviene anche il simbolo di un’anarchica libertà dai vincoli di una società oppressiva.

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Con un ultimo trapasso improvviso, attraverso concatenazioni misteriose di pensiero, il flusso rievoca infine un altro trauma infantile, lo scontro del bimbo con la festa del carnevale: E i caroselli e le magíe fruste dei bastioni spagnoleschi, di carnevale, erano disagio e onta tra i soprusi della folla, nella nuvolaglia triviale dei coriandoli. Un disagio, un’angoscia, riducevano il bimbo impaurito al collasso. […] Il bimbo implorava da Dio la fine dell’allegrezza. Manate di farina di gesso negli occhi, se l’allegrezza doveva essere quella, la rifiutava. […] Una musichetta nasale veniva fuori dal perno del macchinone […]. Più tardi negli anni quella musica celestiale gli ritornò con gocce di luna tersissime, ed era la Norma. Ma allora dalla giostra, gli pareva la musica del cenciume, del naso brodoso, della rivolta, dei torroni, dei colpi di gomito, delle frittelle, delle arachidi brustolite che precipitano il mal di pancia alle merde. Il poema sperato con una fanciulla rosa in cima al trapezio, che invia baci, anche al bimbo, a lui, a lui, gli naufragava nell’odore dei mandorlati scadenti nella chiara d’ova mucillaginosa… beh! che schifo. Lo zucchero filato, nelle manacce dell’energumeno, lo atterriva. […] Ma nulla si salvava dal lezzo, dal dialetto orribile, dalla braveria… dai coriandoli, dai gusci d’arachide e di castagne arrosto, dalle bucce di naranza, dette pelli. Mandorlati rosa, croccanti, e ragazze si inturpivano, agli occhi del bimbo, nello svanire d’ogni gentilezza… Quella, che il bimbo pativa, non era la festa di una gente, ma il berciare d’una muta di diavoli, pazzi, sozzi, in una inutile, bestiale diavolería…

È un’altra pagina mirabile, per la carica di angoscia e paura che riesce a conferire alle realtà più banali, che assurgono a una significazione più alta e risultano dotate di un elevato tasso di figuralità. La baraonda chiassosa e triviale della festa, la pluralità dei corpi addensati nella folla, che sono la negazione di ogni principio d’ordine, di ogni forma di civiltà, di buon gusto, di «gentilezza», di elevazione spirituale, divengono l’immagine del caos e della degradazione del mondo. La reazione del soggetto che si colloca di fronte al reale, il bambino di allora, è quella consueta, fatta di repulsione e disgusto, di istintivo, violento rifiuto, a cui si sovrappone l’indignazione etica dell’adulto che rimemora quell’«orrendo, logorante disordine» (per usare le parole del Giornale). Corollari del caos sono il sudiciume, gli odori e il frastuono. La repulsione per cibi rozzi e preparati senza alcun rispetto per l’igiene evoca naturalmente l’immagine dell’escremento («precipita il mal di pancia alle merde»), l’emblema privilegiato del «pasticcio». In quella universale degradazione persino la «melode elisia» di Bellini trasmessa dalla giostra si trasforma in una «musichetta nasale», irriconoscibile. Il sogno di un amore innocente, infantilmente idealizzato e proiettato nella figura della trapezista, naufraga miseramente, contaminato dalla presenza degli odori nauseabondi. La stessa realtà linguistica, il «dialetto orribile» che risuona sulle bocche della folla, diventa l’equivalente di un oggetto «barocco» e disgustoso.

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Ma tutto questo terzo delirio di Gonzalo dà origine a pagine davvero straordinarie: dal punto di vista formale innanzitutto, per la la sapienza costruttiva con cui è reso, sia pure nell’indiretto libero, il movimento disordinato del flusso di coscienza, che ricupera dal passato una serie di immagini atttraverso la catena di libere associazioni, ma anche dal punto di vista tematico, per la ripresa dei temi chiave dell’esperienza dell’eroe e per la ricerca delle radici remote del «dolore». Sono motivi che nel romanzo si ripresentano continuamente,39 ma non tanto perché si sommano frammenti narrativi che non sono stati rifusi in una struttura compatta, eliminando ridondanze e ripetizioni: la ripetizione possiede in realtà un insostitui­ bile valore espressivo, poiché riesce a rendere il carattere ossessivo dei processi interiori dell’eroe, che tornano insistentemente, con sempre immutata angoscia, ad aggirarsi intorno a pochi nuclei dolorosi. E sistematicamente l’esecrazione di Gonzalo si rovescia sulla falsità, oltre che sulla stupidità, dell’esibizione di prestigio signorile dei genitori, a cui non corrisponde più nulla di reale e che li riduce al livello delle «parvenze non valide» pullulanti nella realtà fenomenica al di fuori della villa. Allo «sciocchezzaio» si unisce poi lo strazio della morte del fratello, il senso di inutilità di tutto il proprio percorso esistenziale («Un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni... »), in fondo al quale si disegna solo l’esito della morte: Sapeva benissimo che cosa sarebbe arrivato dopo tutta la fatica e l’inutilità, dopo la guerra e la pace e lo spaventoso dolore; in fondo, in fondo a tutto, c’era, che lo aspettava, il vialone coi pioppi, liscio come un olio. Coi pioppi dalle tergiversanti foglie, nella bionda luce, il viale della Recoleta, in asfalto, dove gli scarafaggioni elettrificati ci scivolavano sopra in silenzio che parevano nere ombre già loro.

Dinanzi all’invasione della massa di villani una «rabbia infernale» invade l’eroe, e da essa scaturisce una sadica fantasia compensativa, il sogno di purificare a raffiche di mitragliatrice lo spazio sacro profanato. La rabbia si sfoga invece contro la madre, che, rinchiudendosi «nella ricchezza profonda e silente dell’essere, per non conoscere l’odio: di quelli che tanto amò», assurge alla dignità di una figura antica, come sottolinea il paragone con Cesare che leva «la toga al capo, davanti la subita lucentezza delle lame». Tocca qui il punto massimo di intensità il motivo tragico del matricidio, concretandosi nelle feroci minacce del figlio: «Avrebbe voluto inginocchiarsi e dire: “perdonami, perdonami! Mamma, sono io!”. Disse: “Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e loro...”». A questa Spannung segue una rottura definitiva: il figlio rinuncia a trovare rifugio nello spazio ormai profanato della casa, cede dinanzi al montare della marea della realtà degradata che minaccia di sommergerlo e fugge scomparendo dalla scena: è questo l’estremo scacco da lui subito nel conflitto con la deiezione del mondo 39 Sul significato della ripetizione nelle opere gaddiane, e segnatamente nella Cognizione, cfr. N. Lorenzini, Gadda, la ciclicità, la «deformazione», in Le maschere di Felicita. Pratiche di riscrittura e travestimento da Leopardi a Gadda, Manni, Lecce 1999, pp. 129-136.

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esterno, e segna anche la cancellazione della sua prospettiva dal racconto. Nella parte finale l’eroe è quindi assente dal narrato, come nella sequenza d’apertura, in una chiusura circolare della struttura del romanzo (che, pur non finito, ha egualmente una sua compiutezza).

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13. L’estrema profanazione della casa Nel secondo dei «tratti» aggiunti nel 1970, quello che chiude il romanzo conducendolo vicino allo scioglimento, dopo la tensione tragica del delirio di Gonzalo e delle sue minacce alla madre, il tono, in obbedienza alla legge di simmetria che governa tutta la struttura dell’opera, ridiscende con un brusco stacco verso i livelli del mediocre bozzettismo provinciale: si ha infatti la lunga sequenza narrativa dedicata alle due guardie private assoldate dal cavalier Trabatta, che, messe in allarme da rumori sospetti, esplorano le vicinanze del castello e finiscono per penetrare nella villa Pirobutirro, trovando la vecchia madre ferita a morte. La scena con cui si conclude quanto resta della Cognizione dovrebbe essere l’ultimo atto della “tragedia” costruita dalle oscure fantasie omicide del protagonista, che vengono ad oggettivarsi nell’indefinita ombra dell’assassino insinuatosi in casa, invece si rovescia in una radicale profanazione del tragico. Intorno alla figura della madre morente può ancora essere ricreata l’aura tragica e sublime del matricidio, soprattutto con il ricorso all’immagine del capo velato («Una coperta di lana [...] nascondeva quasi completamente il guanciale e il capo della dormente»), che richiama di nuovo la figura di Cesare dinanzi al pugnale di Bruto poco prima evocata.40 Ma una profanazione degradante, definitiva, è operata dalla folla dei soccorritori che irrompe nella villa, dalle «egutturazioni dei cavernicoli, stanati per quell’allarme dagli antri illuni del sonno», dalla moltitudine degli «oranghi» che zoccolano per casa, lanciandosi avvertimenti «con un va e vieni di voci per lo più monosillabiche, epigastriche, a urti, a urli, o tutt’al più bisillabe, ma in tal caso ossitone, a spari, a scoppi… Una folla dalla gola ossitona latrava e ingigantiva nella notte, con pantaloni pericolanti, quadrupedanti zoccoli, sui ciottoli cro, cro, zoccoli... zoccoli, zòkur, triangoli di luce, fumo e smoccolature di lanterne e giornali al suolo, buttativi dall’irrompere di una ventata». Come rivela l’accumulazione caotica di realtà degradate, la folla è segnata dallo stigma inconfondibile del «pasticcio» e del «barocco». Una realtà «barocca» sono anche le voci dialettali, su cui Gadda insiste con ossessiva fascinazione, quella abitualmente da lui riservata agli oggetti deformi, eccessivi, mostruosamente impudichi: il «dialetto orribile» era uno dei motivi della straziata rievocaione dei

40 In una nota costruttiva Gadda scrive: «Il senso tragico del matricidio deve essere soltanto nel terrore degli ultimi momenti della madre, che pensa al figlio come all’esecutore: ma poi esclude lei stessa, morendo. E nell’angoscia del figlio che pensa che la madre abbia potuto sospettare di lui» (Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 555).

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traumi della propria infanzia da parte di Gonzalo. I villani portano il loro frastuono e il loro fetore sin nella camera dove giace la moribonda: così l’immagine tragica della morte e del matricidio entra in urto violento con la presenza trionfante della «pluralità sconcia» profanatrice. L’«oceano della stupidità», la «turpe risacca» delle «parvenze non valide» contamina lo spazio sacrale della casa, la marea del «pasticcio» del mondo fenomenico sale sino a inghiottire il «dolore».

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14. Tragico e comico Terminata l’esplorazione della struttura narrativa del romanzo, è giunto il momento di chiedersi quale funzione e quale significato assuma, nella costruzione del messaggio, il gioco di prospettive per cui il racconto, configurandosi in una ricorrente impostazione ternaria in ciascuna delle tre grandi sequenze narrative, si concentra prima sulla realtà esterna all’eroe, poi sulla sua interiorità e infine ancora sul mondo esterno, con la successione sull’asse sintagmatico di blocchi incentrati sul mediocre bozzettismo provinciale e di altri dominati dalla soggettività del protagonista e dal motivo del «dolore».41 Si è osservato che da parte di Gadda, nel delineare la figura di Gonzalo, vi è un’aspirazione al tragico, al sublime, in contrapposizione a una realtà vile, all’inautenticità di un mondo fenomenico privo di senso; un’aspirazione nutrita da una disperata nostalgia per i valori puri, l’autenticità dei vivere, la nobiltà spirituale, l’intelligenza, la cultura, la dignità civile. L’ansia di sublime si rivela nella statura eroica che lo scrittore tende a conferire al suo personaggio, l’anima bella che si erge a sfidare la turpitudine del «pasticcio», come pure nella tensione del «dolore», che è come il segno della sua superiorità spirituale rispetto alla realtà degradata e della sua funzione di conoscenza e giudizio.42 In questa prospettiva anche il sentimento ambivalente che lega il figlio alla madre, i gesti clamorosamente dissacratori verso la memoria del padre, gli oscuri impulsi omicidi, le «efferate minacce» che infondono nella vecchia signora paura 41 Queste rigorose simmetrie nella costruzione del romanzo ci sembrano la smentita più evidente della tesi di Contini sul frammentismo lirico della Cognizione (Contini, Introduzione alla «Cognizioone del dolore», ora in Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), cit., p. 19 s.). Quelli che Contini definisce «straordinari pezzi di bravura (dove importa l’esser pezzo non meno che la bravura» (ivi, p. 19), come il trionfo dei borghesi al ristorante e la «risacca» degli arricchiti, in realtà sono organicamente inseriti in una precisa struttura narrativa e da essa non decontestualizzabili. 42 La definizione del tragico che è proposta da Giorgio Bárberi Squarotti, anche se non è riferita alla Cognizione, si attaglia alla figura di Gonzalo: il tragico cioè come protesta e lotta «contro la necessità (di Dio, della storia, della società, della vita, ecc.), per un riferimento a un diverso sistema o ordine di valori rispetto a quello che si è consolidato, sia contemplati nel passato, sia ipotizzati nel futuro, sia anche continuamente richiamati nel presente a raffronto della volgarità, della sordità, della decadenza, dell’impraticabilità di questo» (G. Bárberi Squarotti, Il tragico nel romanzo, in Le sorti del tragico. Il novecento italiano: romanzo e teatro, Longo, Ravenna 1978, p. 29).

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e sgomento, possono assurgere, nel mondo chiuso della villa e del “nido”, remoto dalla realtà esterna e denso di valenze mitiche ed archetipiche, ad una tetra dignità e grandezza. Perciò sulla figura del figlio matricida in potentia possono sovrapporsi le immagini dei grandi matricidi (effettivi o solo in pectore) della tragedia antica e moderna,43 Oreste e Amleto, e sulla madre minacciata dal «rancore profondo» del figlio le immagini di re Lear («Con una mano, allora, stanca, si ravviava i capelli sbiancati dagli anni, effusi dalla fronte senza carezze come quelli di re Lear») o, come si è già visto, di Cesare dinanzi al pugnale di Bruto, oppure ancora, attraverso la mediazione della tragedia shakespeariana, di Veturia, la madre di Coriolano («Una figura di tenebra... là!... là! [...] Veturia forse, la madre immobile di Coriolano, velata...»). A riscontro, come si è visto, nell’analisi dell’Amleto condotta nel saggio di I viaggi la morte Gadda proietta nell’eroe shakespeariano i tratti essenziali di Gonzalo: la solitudine eroica, i rabbiosi deliri in cui si scaglia contro la mediocrità che lo circonda («Ogni volta il personaggio era solo nella sua grandezza, tragicamente monologante o perfino delirante [...] di fronte alle schiere dei mediocri, degli informi»), il rifiuto e la negazione del «mondo esistente della vergogna e della ignavia», la «disperata volontà» di ricostituire al di là di esso «il rinnovato mondo della ragione» e la «realtà morale del mondo», cancellando «il male e l’obbrobrio», «riaprendo al futuro la sua possibilità, la sua verginità».44 A confermare il processo di sublimazione eroica a cui è sottoposto Gonzalo, occorre rilevare che la sua figura è il punto di riferimento di tutta una serie di allusioni, più o meno esplicite, ad illustri personaggi della letteratura e della storia: esplicitamente richiamati sono don Quijote, il «Misanthrope» e l’«Avare», i Borgia; ma soprattutto in una nota costruttiva del libro Gonzalo, specchiandosi, si vede guardare «calmo, gonfio, impercettibilmente crudele nella bonarietà sorridente […] come Rodrigo Borgia nel ritratto spaventoso di Raphael Sanzio guarda meditando un suo dubbio efferato»,45 dove, nell’assimilazione alla figura tenebrosa di un mitico malvagio, si trasferiscono i sensi di colpa che devastano il personaggio, come Gadda si preoccupa di precisare:

43 La struttura tragica della Cognizione è sottolineata da Roscioni, La disarmonia prestabilita, cit., pp. 107-109; sul tema ‘amletico’ si veda, dello stesso, La conclusione della «Cognizione del dolore», in «Paragone», n. 238, 1969, pp. 88 s. Sui caratteri che accomunano il figlio e la madre alle grandi figure del teatro tragico classico e a quelle shakespeariane, in particolare Amleto, insiste anche De Matteis, op. cit., pp. 27-33. Ai rapporti tra Gonzalo e Amleto dedica considerazioni approfondite Dombroski, Gadda e il barocco, cit., pp. 85-88. Importante è il contributo di Manuela Bertone, che parla di «riscrittura» di Amleto da parte di Gadda, o addirittura di «scrittura» di un suo Amleto, come documenta con un’ampia analisi (M. Bertone, «Nel magazzino, nel retrobottega del cervello / Within the book and volume of my brain»: per l’Amleto di Carlo Emilio Gadda, in Aa. Vv., Meditazione e racconto, a cura di C. Savettieri, C. Benedetti, L. Lugnani, ets, Pisa 2004, pp. 104-136). 44 Cfr. Saggi giornali favole I, pp. 539-542. 45 Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 569.

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Fare che egli, in stato d’ossessione, veda sé nello spechio secondo questa immaginaria (delirante) interpretazione. N. B. Questo autoritratto, nel giuoco drammatico, deve esprimere: a) il senso di colpa e di rimorso preventivo. b) il carattere delirante e meramente immaginario della sua vendetta.46

Ancora. A ribadire la volontà di costruire il libro su un paradigma di tragedia, volontà che Gadda stesso dichiara apertamente quando parla di «senso tragico del matricidio»47 e di «tragiche e livide luci», tutte le zone in cui vengono in primo piano le figure della madre e del figlio (spesso indicati così, con il nudo sostantivo comune, a sottolineare il loro valore archetipico, di protagonisti di un mito tragico), sono sottoposte ad un intenso processo di nobilitazione stilistica, che aspira evidentemente al sublime. E forse per lo stesso motivo, quasi in rispondenza alle buone regole tragiche, la comparsa di Gonzalo all’inizio è a lungo indugiata e preparata dai discorsi dei personaggi secondari, come se fosse appunto l’eroe di una tragedia che deve entrare in scena solo al secondo atto.48 Ma Gadda è troppo lucido, troppo consapevole per ritenere che il tragico e il sublime, in pieno Novecento, nell’età del moderno, possano essere ancora proposti innocentemente nella loro assoluta purezza, senza correre il rischio del Kitsch.49 Si capisce allora la funzione assunta, nella parte iniziale del romanzo, dal punto di vista basso della collettività paesana, del dottore, della Battistina: passando attraverso quel filtro deformante la figura dell’ eroe viene fortemente straniata, ogni sua aspirazione alla dignità tragica viene fatta scontrare con il comico, con la degradazione del ghigno grottesco. Ma una funzione del tutto analoga assume, nel seguito del racconto, il semplice accostamento, sull’asse sintagmatico, di blocchi narrativi dedicati a Gonzalo e di altri dedicati a figurine e a episodi della minuta vita paesana, il Manganones alias Palumbo, finto 46

Ibidem. Ivi, p. 555. 48 Maria Antonietta Terzoli, nell’esaminare gli aspetti che accomunano la Cognizione al tragico (il finale luttuoso, il matricidio come nell’Orestea), osserva che Gonzalo «ha proprio i caratteri che Aristotele nella Poetica (13, 3) prescrive per i personaggi della tragedia» (M. A. Terzoli, Preistoria della «Cognizione», in Alle sponde del tempo consunto. Carlo Emilio Gadda dal «Giornale di guerra» al «Pasticciaccio», Effigie, Milano 2009, p. 64 s.). 49 Raffaele Donnarumma osserva come Gadda abbia chiaro che «il sublime, o grande stile della tradizione, è ormai menzogna» e come il tentativo gaddiano di attingere ad esso (in particolare nel quinto tratto della Cognizione) sia «votato da subito a far naufragare la possibilità del sublime codificato dalla tradizione» (R. Donnarumma, Gadda e il sublime. Sul quinto tratto della «Cognizione del dolore», in «Italianistica», 1, 1994, p. 53). Sul carattere necessariamente contaminato del tragico moderno si vedano: F. Bertoni, «Un grido nella tenebra»: l’ombra del tragico nel «Pasticciaccio», in Aa. Vv., Un meraviglioso ordegno. Paradigmi e modelli nel «Pasticciaccio» di Gadda, a cura di M. A. Terzoli, C. Veronese e V. Vitale, Carocci, Roma 2013, p. 124 s.; C. Savettieri, Tragedia, tragico e romanzo nel modernismo, in «Allegoria», 63, gennaio-giugno 2011, pp. 45-65 (la studiosa parla di «intreccio di tragico e modi del riso» per Gadda, Pirandello e Svevo, e sostiene che la «tragicità» rischia di apparire fasulla «se non emerga per contrasto con il ridicolo e il grottesco»: ivi, p. 63); P. Szondi, Saggio sul tragico, trad. it., Einaudi, Torino 1999, p. 74 . 47

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

sordo di guerra smascherato dal colonnello Di Pascuale, il peone, il furto nel castello del cavalier Trabatta, l’orda di «oranghi» zoccolanti che invadono la villa nell’ultima sequenza del romanzo. L’ontologica, irredimibile bêtise di questa realtà istituisce un contrappunto stridente con l’aura tragica e sublime creata dai grandi deliri dell’eroe, in cui viene alla luce, nella sua straziata violenza, il motivo del «dolore». Tutta questa materia, presa in sé, sarebbe assolutamente futile e resterebbe nei limiti di un mediocre e piatto bozzettismo provinciale: ma assume appunto significato e valore nel sistema complessivo della costruzione narrativa, come polo essenziale e insostituibile di un’opposizione di centrale importanza, rivestendo la funzione di straniare un tragico ormai impraticabile nella sua incontaminata purezza.50 Ma lo spazio del tragico non è solo sottoposto all’urto con la realtà ad esso esterna e antitetica: i germi della contaminazione sono già presenti al suo interno stesso, proprio nel personaggio principale della “tragedia” che vi si dovrebbe svolgere, quella del «dolore» e delle sue remote radici, che veicolano il tema del matricidio perseguito dagli impulsi profondi dell’eroe: se Gonzalo è continuamente proiettato in una dimensione favolosa e leggendaria e collocato in una luce di nobile grandezza, d’altra parte il ridicolo e il grottesco fanno parte dell’intima essenza della sua figura. Lo si coglie già sin dalla sua prima presentazione: Nella sua villa senza parafulmine, circondato di peri, e conseguentemente di pere, l’ultimo hidalgo leggeva il fondamento della metafisica dei costumi.

Dove spicca lo stridente contrasto fra la nobile figura dell’«ultimo hidalgo» sprofondato nelle sue ardue letture filosofiche e il contesto mediocre e prosaico della sua vita, evocato dall’umile realtà degli alberi da frutto. Che d’altro lato non sono frutti qualsiasi, visto che compaiono nel nome stesso del suo casato: e difatti il contrasto si ripresenta anche nello stesso nome dell’eroe, che se da un lato evoca illustri ascendenze aristocratiche e spagnolesche («Egli discendeva in linea maschile diretta da Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, stato già governatore spagnolo della Néa Keltiké e resosi anche troppo noto, alle istorie, per la sua sete di giustizia, la levatura altissima, la magrezza del volto, l’animo punitivo, l’inesorabile e predace governo»), dall’altro si collega proprio con l’emblema più risibile della stupidità borghese dei genitori, dello «sciocchezzaio» in cui si è venuto «filmando» il «costume villereccio»: le pere butirro (senza contare 50 Osserva Luperini: «Il tragico non può più essere ripetuto: può solo essere citato […]. Il presente è quello della meschinità quotidiana […]. Il presente è Gonzalo, non Oreste: Gonzalo sogna di uccidere e non uccide, mentre a compiere il delitto è un meschino agente del Nistitúo […]. La tragedia è costretta a declinare nella cronaca bassa» (Luperini, La “costruzione” della «cognizione» in Gadda, cit., pp. 271 s. In proposito ci sia concesso di rimandare anche alla nostra monografia, Carlo Emilio Gadda, Mursia, Milano 1972, da cui abbiamo ripreso in questo saggio alcuni spunti, ma da cui divergiamo oggi per quanto riguarda il rapporto fra tragico e comico.

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» 185

l’immagine del “tino” in cui fermenta il mosto, e che richiama le propensioni etiliche della famiglia).51 Inoltre il comico pervade nelle intime fibre anche quelle zone del romanzo in cui il motivo tragico del «dolore» dovrebbe imporsi in tutta la sua purezza, i tre deliri dell’eroe che costituiscono il centro dei tre grandi segmenti narrativi in cui si articola il romanzo. Alla sofferenza dell’eroe, provocata dal contatto con il «pasticcio», al suo nobile e titanico contrapporsi alla degradazione che lo circonda, si mescola irrimediabilmente il ridicolo della sua mediocre condizione sociale, delle sue manie e delle sue ossessioni. Perciò, dietro l’aristocratico profilo dell’«ultimo hidalgo», chiuso nel suo austero isolamento, nel suo sdegnoso rifiuto del mondo e immerso nelle sue meditazioni filosofiche, dietro l’immagine del figlio che consuma nel profondo il delitto di Oreste e di Amleto, riaffiora di continuo la figura squallidamente piccolo borghese dell’ingegnere che vive del suo «misero stipendiucolo», angustiato dalle ristrettezze economiche, il cui attaccamento alla proprietà, nonostante l’oscuro retroterra simbolico e coatto, non è oggettivamente dissimile, visto dall’esterno, da quello ottuso e gretto degli altri proprietari lukonesi; dello scapolo quarantacinquenne maniaco e lunatico, i cui parossistici accessi d’ira nascono dai motivi più futili e ridicoli (la stilografica che perde inchiostro, la sveglia che suona inaspettatamente, la sporcizia ed il puzzo del contadino, il suono fragoroso delle campane, il repellente «croconsuelo»). «Uscire indenni dal sabba non ci è dato», scrive Gadda in Come lavoro:52 la tragedia al suo interno stesso, prima dello scontro con il mondo esterno, si intride di mediocre e volgare commedia. L’eroica dignità di Gonzalo non può che mescolarsi con il «grottesco psicopatologico» (come già avverte l’«Editore» nel dialogo premesso al libro). La nevrosi può essere tragica soggettivamente, per la sofferenza che produce, per la «fusione di futilità e di atrocità»53 che determina, infondendo una carica di tensione intollerabile nei motivi esterni più lievi e insignificanti, ma oggettivamente, nella manifestazione dei suoi sintomi, nell’estrinsecazione dei suoi meccanismi, appare fatalmente meschina e risibile e instaura un inevitabile contrappunto con ogni tentativo di dignificazione letteraria: perciò Gonzalo, se è nobile ed eroico visto dall’interno della sua coscienza, non può che apparire grottesco quando è 51 L’aspetto ridicolo del cognome è accentuato in un frammento non accolto nel testo, dove si parla della «marchionale famiglia Pirobutirro Del Tino Del Fiasco», e poi del padre come «François Pirobutirro Nasobibone del Tino del Fiasco Garganella», con scoperta allusione all’amore del genitore per le copiose libagioni (Appendice a La cognizione del dolore, ed. cit., p. 516). Leucadi osserva inoltre che «Gonzalo, nome shakespeariano, spagnolo, nobile», è anche «consonanza e paronomasia perfetta del formaggio escremento. Gorgonzola include Gonzalo»; «Per l’ultimo e peggiore dei Pirobutirro» Gadda sceglie «un nome immondo e repellente. Il nome di un escremento […]: avvilisce un personaggio-ombra, lo riduce a incarnazione puzzolente e nefanda, senza possibilità di redenzione» (Leucadi, Il naso e l’anima, cit., pp. 220 s.). 52 Saggi giornali favole I, cit., p. 429. 53 L’espressione ricorre nel Giornale di guerra e di prigionia: cfr. Saggi giornali favole II, cit., p. 778.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

calato nella realtà e visto dall’esterno, con gli occhi «degli altri». E se l’atmosfera in cui è immersa la narrazione nelle zone a focalizzazione interna tende al sublime perché è quella, stravolta e parossistica, del mondo mentale del protagonista, tormentato da impulsi inconfessabili e da un insostenibile senso di colpa, i gesti e i fatti esterni in cui prende corpo sono quelli più futili e banali del quotidiano. Lo scrittore per un verso ha un atteggiamento partecipe nei confronti del suo personaggio (che è anche un suo alter ego), testimoniando un’intensa immedesimazione emotiva, ma per altro verso lo guarda anche sempre dall’esterno, prendendo le distanze da lui, straniandolo e sottolineando quanto di abnorme, folle e degno di riso vi sia nei suoi accessi furibondi. La voce narrante infatti, che abitualmente identifica la propria ottica con quella del personaggio, adottandone la forma mentis e persino il linguaggio (in parti del tutto narratoriali, al di fuori dei confini degli indiretti liberi), se ne distacca poi puntualmente per giudicarlo con la fermezza implacabile del referto scientifico, che si carica di valenze comiche e parodistiche: «Idee coatte cerchiavano quel cranio della loro corona di ferro. Uno psichiatra soltanto, e al conoscere in dettaglio lo strazio della miserevole biografia, avrebbe potuto applicare un cartiglio al male»; «Forse il suo era quello che Sérieux, Capgras, e altri psichiatri contemporanei, hanno efficacemente chiamato “delirio intepretativo”»; oppure sottolinea impietosamente il carattere del tutto infantile delle sue ubbie: «Come, anche a non volerlo, d’un bimbo si finisce a sorridere: quando nel più infernale de’ suoi capricci, nel delirare della rabbia, nel pestare i piedi, tra perle di lacrime e strilli fino alle stelle, rugge “va via, brutto” a tutti quanti lo vorrebbero calmare con una carezza: e mette in allegria tutti quanti». Il rapporto fra tragico e comico, nella Cognizione, non si estende dunque in una direzione sola: tra i due poli si instaura un movimento biunivoco. Se il punto di vista dell’eroe, portatore della conoscenza e del giudizio, strania la realtà esterna e la presenta in una luce critica, denunciando la turpitudine che si cela dietro la sua apparenza bonaria e normale («la cara normalità della contingenza»), a sua volta la futilità della realtà provinciale, famigliare e quotidiana e il grottesco insito nell’eroe stesso straniano la tragicità della sua figura. In tal modo i due livelli su cui si muove la scrittura gaddiana nel romanzo, da un lato la proiezione eroica di un’esperienza biografica infelice in un paradigma di tragedia, accompagnato dalla tensione stilistica verso il sublime, dall’altro il bozzettismo comico e l’aderenza mimetica al particolare minuto e insignificante, proprio perché collocati in una struttura oppositiva, acquistano un altissimo valore (lo stesso discorso vale per la figura della madre morente, in opposizione alla folla che invade la villa). Tragico e comico, «futilità» e «atrocità», giocati l’uno contro l’altro nell’alternarsi dei punti di vista e nella successione sintagmatica dei diversi blocchi narrativi, ma anche all’interno dell’eroe stesso, finiscono per problemtatizzarsi a vicenda: se la nobiltà del «dolore» denuncia l’infamia del «pasticcio», la comicità bozzettistica del «pasticcio» segna i limiti esterni e interni della sublimità del «dolore», evocando l’altra ineludibile faccia

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della realtà. Se l’esperienza dell’intellettuale «preso a calci dal destino»,54 nobilitata nella dignità dell’anima bella, e la nostalgia disperata di un passato immune dalla decadenza fungono da reagenti capaci di far emergere la «stupidità», la «vergogna» e la «bassezza» di una realtà degradata, gli aspetti della personalità, gli accadimenti meschini e ridicoli della vita quotidiana del protagonista e i particolari squisitamente bête dei mondo provinciale in cui è immerso costituiscono il necessario contrappunto di ogni aspirazione al tragico. Il tragico nella Cognizione non viene dunque negato, è importante sottolinearlo, conserva la sua autenticità e il suo valore, il comico che lo affianca non arriva a comprometterlo irrimediabilmente e a dissolverlo: solo che la tragicità non viene più imposta nella sua totale purezza, che sarebbe un’operazione mistificatrice, ma è vista nei suoi necessari rapporti conflittuali col comico e in qualche modo completata da esso, dando così luogo a una visione binoculare e più esaustiva, più aderente alla realtà effettuale del mondo.55 Della necessità di questa intima mistione lo scrittore è ben consapevole, come prova la dichiarazione illuminante del suo alter ego don Gonzalo, in quel passo chiave su cui ci siamo già soffermati: «Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro»: dove «scherno» e tragicità sono uniti in un binomio inscindibile. Ma, come si è visto, già nella nota che accompagnava la pubblicazione di tre brani della Meccanica su «Solaria» nel 1932 Gadda scriveva: «Non è nel mio modo la denuncia diretta del mio dolore. Talvolta esso va travestito di scherno».56 Potrebbe leggersi dunque come dichiarazione di poetica e autodefinizione della propria arte anche il giudizio espresso su Villon: «La battuta “Rido nel pianto”, “Je riz en pleurs”, è stata assunta a motto critico, a etichetta della poesia di Villon […]. Una meravigliosa capacità di sghignazzare fra le lacrime, la risata che si alterna alla preghiera, alla pietà filiale: la voce più vera del dolore, la desolata contemplazione del proprio destino», dove ricorre una parola chiave densa di significazione nella scrittura gaddiana, «dolore». E ancora Gadda insiste su «questa ineguagliata attitudine a cangiar di tono da una strofe all’altra, da un verso all’altro – questa mescolanza – così drammaticamente iridata – di pathos e di scherno»,57 dove compare un’altra parola chiave, «scherno». Gli addendi dell’operazione gaddiana, proprio entrando in parossistico stridore fra di loro, nella struttura narrativa dell’opera arrivano a fondersi in una dialettica, 54 L’espressione ricorre in Un’opinione sul neorealismo, in I viaggi la morte (Saggi giornali favole I, cit., p. 629). 55 Riteniamo di dover correggere in tal senso le conclusioni del capitolo sulla Cognizione nella nostra antica monografia (Carlo Emilio Gadda, cit., p. 126 s.) e nella prima redazione di questo stesso saggio («Pasticcio» e ordine nella «Cognizione del dolore», in Aa. Vv., Gadda: La coscienza infelice: Carlo Emilio Gadda, cit., pp. 122-125, poi in Narratologia e critica. Teoria ed esperimenti di lettura da Manzoni a Gadda, cit., pp. 244-248), dove si sostenva che nel romanzo lo scontro con il comico, dissolvendo il tragico, vale a metterne in luce l’impraticabilità nella modernità. 56 Riportato da Dante Isella nella Nota al testo della Meccanica, in Romanzi e racconti II, cit., p. 1198. 57 Je meurs de seuf au près de la fontaine, in I viaggi la morte, ora in Saggi giornali favole I, cit., p. 527.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

problematica unità,58 dando luogo a esiti eccezionali nel panorama della nostra letteratura novecentesca.59

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15. La funzione ordinatrice della prospettiva dell’eroe Il fatto che i materiali rispondenti ai due livelli fondamentali, «pasticcio» e «dolore», si dispongano, come si è verificato, secondo precise simmetrie, col ritorno puntuale, in ciascuno dei tre grandi segmenti che compongono il romanzo, del gioco di prospettive tra esterno, interno ed esterno rispetto all’eroe, in costante successione lungo l’asse sintagmatico, consente ancora un ultimo ordine di considerazioni. La Cognizione del dolore non è il coacervo caotico dei materiali di un romanzo “esploso”, come è stato detto e come potrebbe apparire a prima vista, e non è nemmeno una selva narrativa follemente proliferante: al suo interno si delinea un ordine al di là del caos. Al di sopra della marea del «pasticcio», che suggerisce una visione caotica, frammentata e labirintica del reale, si propone un punto di osservazione privilegiato, un centro unificante, il «dolore» dell’eroe, per quanto straniato e problematizzato. Per questo la prospettiva di Gonzalo emerge sistematicamente nel momento centrale di tutt’e tre le parti, generando quel rapporto oppositivo con il «pasticcio» che si è sottolineato. Anche se il tragico non può più legittimamente imporsi nella sua purezza, il «dolore» si offre comunque come struttura portante, come modulo d’ordine della materia del romanzo,60 e 58 Come scrive la Savettieri, «il contenuto tragico in sostanza si esprime in forme grottesche o, quanto meno, nella mescolanza col grottesco, probabilmente perché l’elemento conflittuale, per Gadda, non può sostanziarsi in forme stilistiche monolitiche. […] Il modo alto-mimetico, entro cui si inscrivono le scritture tragiche, per Gadda in sostanza ha un legame organico con il suo opposto, vale a dire il modo basso-mimetico, che comprende in sé la satira e le scritture umoristiche»; e conclude: «senza “contaminazione grottesca” nessun tragico ha luogo» (Savettieri, Il romanzo e la cognizione: i modi del tragico, in La trama continua, cit., p. 141 e p. 144). Anche Giuseppe Stellardi, in polemica con Luperini, sostiene che «l’essenza della tragedia» permane intatta nonostante l’ironia, lo stile basso, la satira (Stellardi, Gadda tragico?, in Gadda: miseria e grandezza della letteratura, cit., p. 106). 59 Non siamo d’accordo perciò con le valutazioni di Manzotti, il quale definisce «non del tutto felice» il rapporto tra certi aspetti dell’invenzione narrativa caratterizzati «da un po’ gratuito naturalismo rappresentativo» e «i grandi temi generali e individuali, l’autobiografia dolorosa, gli excursus etici e lirici e patetici», concludendo: «il “naturalismo” o “realismo” residuo della composizione e del trattamento insomma non si confanno del tutto alla tragica rappresentazione per exemplum del destino dell’uomo» (Manzotti, La cognizione del dolore, cit., p. 324). 60 Non ci pare quindi del tutto legittimo parlare di un «eclissarsi delle strutture narrative», di un loro «essere sommerse da materiali apparentemente irrilevanti», di un loro «abdicare a porsi come principio regolatore di un “progresso” narrativo» (Manzotti, Introduzione alla Cognizione del dolore, ed. cit., p. XXIII). A considerazioni analoghe alle nostre giunge invece Francesco Paolo Botti, che nella Cognizione coglie «un’individualità percettiva e organizzatrice», la «coerenza di un progetto interpretativo, quello del protagonista-narratore», e conclude: «Distante dalla dilapidazione policentrica delle prospettive che caratterizzerà il Pasticciaccio, questo è, ancora, un romanzo del soggetto» (F. P. Botti, Gadda o la filologia dell’apocalisse, Liguori, Napoli 1996, p. 162).

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«PASTICCIO» E ORDINE NELLA COGNIZIONE: LA CENTRALITÀ UNIFICANTE DEL «DOLORE» 189

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quindi come alternativa giudicante alla realtà rappresentata. Al centro del romanzo si pone una coscienza ordinatrice, che concentra in sé le linee divergenti di un mondo il cui senso si è dissolto e assume il peso del giudizio attraverso l’indignatio e il furore. Proprio la centralità della soggettività giudicante, di cui l’eroe è depositario, e l’opposizione che si instaura tra essa e le presenze opache del «pasticcio», garantiscono alla narrazione un approfondimento conoscitivo e critico, una problematicità nel rapporto con il reale. Un discorso diverso occorrerà fare per il Pasticciaccio, come vedremo nel capitolo successivo.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 1. Il «romanzo romanzesco» 1.1. Gadda e il romanzo A partire dagli esordi giovanili sino alla sua ultima prova narrativa, il Pasticciaccio, è chiaramente ravvisabile in Gadda un’ostinata ambizione affabulativa, una volontà di costruire trame solidamente romanzesche, popolate di personaggi a tutto tondo, secondo moduli riconducibili alla tradizione realistico-naturalistica ottocentesca. Gadda stesso, nel 1950, fornirà la più chiara ricostruzione della genesi delle sue aspirazioni al romanzo: I primi impulsi verso la scrittura, in me, ebbero un movente lirico e descrittivo, e insieme narrativo […]. La descrizione, il desiderio di conoscere e di approfondire, si estese per gradi, specie con la guerra (1915-1918), all’indole e ai tipi e al destino degli umani, ai rapporti fra le creature […]. Il forte senso della mia personalità […] mi traeva a riuscire un lirico, piuttosto, o un satirico: la volontà di comprendere i miei simili e me stesso mi sospingeva all’indagine e a quella “registrazione di eventi” che forma, in definitiva, il racconto. Capii che dovevo stringere entro più severi limiti la descrizione e l’invettiva, e far posto nelle mie note alla immatricolazione dei “tipi” umani, dei “personaggi”, umani o mitici o bestiali, e delle loro impagabili vicende.1

Dove è rivelatore il ricorrere di espressioni come «desiderio di conoscere e di approfondire», «volontà di comprendere i miei simili e me stesso», «indagine», «registrazione di eventi», «racconto», «immatricolazione dei “tipi” umani», «personaggi». Significativamente, sin dal 1929, all’epoca dei suoi primi approcci alla narrazione, Gadda scriveva nelle note compositive di Dejanira Classis, o Novella seconda: Mio desiderio di essere romanzesco, interessante, Dumas, Conandoyliano: non nel senso istrionico (Ponson du Terrail) ma con un fare intimo e logico. Orgasmo inespresso emanante dal racconto. Piuttosto Conan Doyle, ricostruttore logico. 1

Intervista al microfono, in I viaggi la morte (ora in Saggi giornali favole I, cit., pp. 502 s.).

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 191

[…] In tal caso non basta lo schema tragico del processo Pettine puro e semplice. Occorre complicarlo romanzescamente. La tragedia “matricidio” mi condurrebbe a fare della ossessione e dello psicologismo tipo “le disciple” di Bourget, “la sonata a Kreutzer” di Tolstoi. In questa novella io voglio movimento romanzesco, sherlockolmesismo, per diverse ragioni: 1.°) interessare anche il grosso pubblico. E cioè arrivare al pubblico fino attraverso il grosso: doppia faccia, doppio aspetto. Interessare la plebaglia per raggiungere e penetrare un’altezza espressiva che mi faccia apprezzare dai cervelli buoni. È un metodo editoriale che richiede qualità (Manzoni – Pr. Sposi), ma un buono e difficile metodo. Voglio provare. 2.°) Il pubblico ha diritto di essere divertito. Troppi scrittori lo annoiano senza misericordia. Bisogna dunque riportare in scena anche il romanzo romanzesco. 3.°) Non è detto che la vita sia sempre semplice, piana, piatta. Talora è complicatissima e romanzeschissima. Occorre provare anche ciò. 4.°) Voglio fare sulla novella una prova per arrivare poi al romanzo.2

È una dichiarazione di poetica di fondamentale importanza, ricca di spunti, davvero illuminante nella prrospettiva della futura attività di romanziere intrapresa da Gadda. Lo scrittore punta alla narrazione coinvolgente, che incateni l’attenzione del lettore e lo trascini senza soste sino alla conclusione, sulla scia dei più popolari romanzieri ottocenteschi, ma ambisce anche a una rigorosa costruzione logica, e per questo il modello preferito appare Conan Doyle. Affiora così l’interesse per il “giallo” che sarà un filone rilevante della produzione gaddiana, e che perciò fa presentire sin da ora i due romanzi maggiori. Interessante poi è il rifiuto del puro psicologismo, tipico del roman d’analyse (non a caso viene citato Le disciple), anche se l’analisi psicologica non verrà affatto esclusa, come proveranno sia il Fulmine sul 220 sia la Cognizione e il Pasticciaccio: la psicologia, che resta un elemento essenziale, deve essere integrata dal movimento, dall’azione. Il coinvolgimento del grosso publico però è solo un primo obiettivo, quello finale è raggiungere il pubblico più colto e di gusti più elevati, che sappia apprezzare le capacità costruttive ed espressive dell’autore: il modello è sempre il venerato Manzoni. L’intreccio complicato, in effetti, non è solo un mezzo per conquistare i lettori, ha una sua motivazione ben più profonda: deve rispecchiare la complessità della «vita». È un concetto di centrale rilevanza nella visione di Gadda, che già era posto alla base del progetto del Racconto italiano. La misura breve della novella, quale doveva essere Dejanira Classis, non è che una prova per arrivare poi a questa struttura molto più complessa e più ampia che è propria del romanzo. L’aspirazione alla struttura narrativa organica e ben congegnata emerge poi, nel secondo dopoguerra, da un altro testo fondamentale, Un’opinione sul neorealismo, del 1948. Vi ritorna l’esigenza di un racconto che affascini e incateni il lettore 2

Romanzi e racconti II, cit., p. 1317 s.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

dall’inizio alla fine: Gadda confessa di aver sempre chiesto al romanzo «quel tanto di fascinoso mistero o di appassionata pittura dei costumi e delle anime che soli potevano aiutarmi a perseverare nella lettura; una probabilità e una improbabilità bilanciate nella mia ansia di lettore, e finalmente precipiti verso una soluzione, una liberazione impreveduta…». Non vuole poi che «cose, oggetti, eventi» valgano per sé, «chiusi nell’involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini»: esige che valgano «in una aspettazione, in una attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati»: in altri termini ciò che è oggetto di narrazione deve essere inserito in una costruzione organica. Lo scrittore depreca che questa organicità «non emani dalla catena crudamente obiettivante della cronaca neorealista». Secondo lui nella narrativa del neorealismo «ogni fatto, ogni quadro» è ridotto a «nudo nocciolo» , è «grano di un rosario dove tutti i grani sono giustapposti ed eguali di fronte all’urgenza espressiva»: Enumerati in serie, infilati in una filza, questi fatti avvicinati così per «asindeton» non vengono coordinati in una consecuzione che valga a più profondamente motivarli, a disporli in una architettura, quella che essi realmente ebbero…

La conclusione è che «la poetica neorealistica riesce a un racconto astrutturale, granulare», cioè il contrario di quella «architettura» narrativa organica e strutturata a cui Gadda mira.3 A queste prese di posizione teoriche si affiancano le attestazioni di profonda ammirazione per i romanzieri ottocenteschi, artefici di grandi edifici narrativi. In primo luogo Manzoni, fatto oggetto di frequenti richiami da parte di Gadda sin dal work in progress del Racconto italiano del 1924 (dove è contenuta una prima redazione dell’Apologia manzoniana, destinata poi ad essere pubblicata nel 1927 su «Solaria»), e citato ancora come modello di rappresentazione realistica all’estremo opposto dell’arco della sua attività narrativa, in un’intervista del 1963, l’anno di uscita della Cognizione del dolore: «Il motivo precipuo della mia ammirazione per il Manzoni è da ricercare nel preciso e assoluto spirito di realtà con cui lui ha ritratto i caratteri, specialmente i caratteri degli umili»4. L’ammirazione si estende agli scrittori naturalisti e veristi. Nel saggio Tecnica e poesia, del 1940, definendosi «minimissimo Zoluzzo di Lombardia»,5 Gadda mette in evidenza le radici naturalistiche del suo narrare e con l’iperbolica professione di modestia testimonia l’alta considerazione in cui tiene il modello; e ancora in un’intervista del 1967 tributa un convinto omaggio «all’ingegno, all’arte, allo spirito veridico, al valore documen-

3

Un’opinione sul neorealismo, in I viaggi la morte (Saggi giornali favole I, cit., p. 629). Intervista televisiva per il «Prix international de littérature»1963, in «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, cit., p. 90. 5 Saggi giornali favole I, cit., p. 243. 4

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 193

tario, alla immane fatica di Emilio Zola».6 In un’altra intervista del 1957 era stata la volta di Verga. Respingendo il parallelo del Pasticciaccio con l’Ulysses joyciano, proposto da alcuni critici, Gadda sente il bisogno di precisare: «Non ho inteso di ambire a esperimenti intellettualistici e disperati come il nome di Joyce può far pensare. Umilmente, come è logico, ho creduto di portare avanti un lavoro che Verga ha fatto per la Sicilia usando il dialetto»,7 dove sembra di cogliere l’intento di fornire con il suo romanzo una rappresentazione del milieu sociale romano che guardi al modello della Sicilia verghiana, con la variante dell’uso del dialetto, da Verga escluso, a caratterizzare con maggiore precisione e immediatezza il colore locale. In effetti, ancora in un’intervista del 1967 Gadda sottolinea la sua «fissazione realistica» nello scrivere il Pasticciaccio, che lo ha spinto «a identificare con precisione i luoghi, le strade, le piazze, insomma la topografia, a precisare l’ambiente».8 A conferma, in un’altra intervista dello stesso anno, ribadisce: «Sono un uomo dell’Ottocento», e ancora, rispondendo a Moravia sempre nel 1967: «Sono una scatola cranica del perento Ottocento, del vecchio positivismo».9 Anche mettendo in conto una buona dose di autoironia, tipicamente gaddiana, non si può negare che queste affermazioni abbiano un fondamento, e non solo nel mondo intenzionale e programmatico dello scrittore.

1.2. Il Pasticciaccio: romanzo poliziesco e di costume Passando alla lettura del Pasticciaccio dopo aver percorso questa serie di dichiarazioni non può destar meraviglia il riconoscervi consistenti manifestazioni di questa ambizione al romanzo: in primo luogo nell’aspirazione all’ intreccio ben congegnato, garantito dall’assunzione dello schema dell’indagine poliziesca, in cui tutti i tasselli siano collocati al posto giusto, con la scoperta successiva e ben dosata di indizi che a poco a poco rivelino ciò che sta dietro il duplice crimine, sino a stringere il cerchio intorno all’assassino10 (il mancato compimento della trama non era certo programmato, anzi a lungo e con fatica, almeno a quanto si desume dalle lettere, Gadda si accanì nel tentativo di terminare il libro); in secondo luogo nella tendenza al romanzo di costume e di critica sociale, proiettato su un preciso sfondo 6

Cenere di martiri, in «Per favore…», cit., p. 127. Bussiamo all’uscio di casa dei nostri scrittori. C. E. Gadda, in «Per favore…», cit., p. 50. 8 Felice chi è diverso, in «Per favore…», cit., pp. 133 s. 9 Gadda pensa alla morte come a una definitiva liberazione, in «Per favore…», cit., p.144, e Gadda risponde a Moravia, ivi, p. 150. 10 Secondo Francesco Paolo Botti, nello sperimentalismo gaddiano il “giallo” diviene un’allegoria del romanzo moderno d’avanguardia (cfr. F. P. Botti, Le metamorfosi del “giallo”, in Gadda o la filologia dell’apocalisse, cit., pp. 67-125). Sulle valenze assunte dal racconto poliziesco nel Pasticciaccio sono da vedere altresì le acute considerazioni di S. Maxia, Deformare e occultare. Il «Pasticciaccio», un «romanzo della pluralità», in «Moderna», 1999, n. 1, pp. 101-123 (ora in D’Annunzio romanziere e altri narratori del Novecento italiano, cit., pp. 187-229). Sul Pasticciaccio come «giallo infinito» cfr. A. Pietropaoli, Nei dintorni del «Pasticciaccio». Gadda, Pirandello e il giallo, in «Sinestesie», 2004, n. 1, pp. 80-85. 7

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

storico e politico, popolato di figure e di ambienti ritratti con vividezza corposa e visiva. È avvertibile infatti l’intenzione di offrire in primo luogo, attraverso lo svolgersi del racconto poliziesco, lo spaccato di un preciso strato della società romana, la buona borghesia, magari con quarti di nobiltà, mescolata con funzionari statali, alti gradi militari e «signori novi de commercio», che è l’ambiente in cui avvengono i due crimini posti al centro del plot romanzesco, il furto dei gioielli della contessa Menegazzi e l’assassinio di Liliana Balducci (nella seconda parte invece si ha l’indagine su un altro strato sociale, il popolo della campagna romana, su cui insisteremo più avanti). Questa volontà si incarna in personaggi tipici, quali il Balducci, con la sua sanguigna e grossolana vitalità, la sua avidità sessuale di «cacciatore in utroque» e il suo attaccamento geloso alla proprietà, o il cugino della vittima, Giuliano Valdarena, bel giovane elegante, proteso verso una brillante carriera e al tempo stesso compiaciuto tombeur de femmes, alle quali sa abilmente estorcere denaro; due figure che balzano dalla pagina a tutto tondo soprattutto grazie all’ampia, insistita registrazione del loro parlato, durante gli interrogatori della polizia, con una mimesi di sbalorditiva vivezza delle minime inflessioni verbali, capaci di tradire una mentalità, un ethos. Intorno a questi due personaggi di maggior spicco, che occupano anche il maggior spazio narrativo, si addensa tutta una galleria di figurine borghesi, ritagliate con maestria: il timido commendator Angeloni, solitario celibe col vizio della gola che la paura mette nei guai, il gottoso generale Barbezzi-Gallo che ama gli entretiens alcolici (e probabilmente anche erotici) con la compiacente e polputa portinaia Manuela Pettacchioni, la contessa Menegazzi, vedova inconsolabile terrorizzata e affascinata insieme dalla prospettiva delle «servizzie» che le possono venire inflitte da qualche rapinatore. Emerge poi con grande rilievo dal narrato il parroco don Corpi, in tutta la sua possente corporeità, contrassegnata soprattutto dai particolari delle mani e dei piedi enormi, così come nella sua fisionomia ideologica di direttore spirituale della povera Liliana, ben consapevole delle turbe psicologiche della donna. Ma la statura di un vero e proprio personaggio assume il palazzo di via Merulana 219, il «palazzo dell’oro» elevato a mito dalla fantasia popolare, edificio che vive sulla pagina nella sua greve fisicità di edificio umbertino, fondale insostituibile, per lunghi tratti del racconto, dello svolgersi delle indagini e dello scorrere di figure umane evocanti il milieu, e che con la sua grigia bruttezza diviene come il correlativo oggettivo della presunzione e al tempo stesso della soffocante ristrettezza di idee di quella borghesia gelosa del proprio status sociale. Questa forza impressiva posseduta da un edificio, che acquista un rilievo protagonistico nel narrato assurgendo a una dimensione emblematica, richiama irresistibilmente un modello naturalistico illustre, il romanzo Pot-bouille di Zola, che ha anch’esso al centro un dignitoso palazzo d’abitazione dove si intrecciano i mediocri casi di una serie di figure borghesi (e che a sua volta richiama, in simmetria rovesciata, lo squallido casermone popolare di rue de la Goutte d’or, sfondo costante delle vicende dell’Assommoir).

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 195

La volontà di rappresentazione realistica si concentra ancora intorno a un altro emblema materiale, legato per contiguità metonimica al palazzo, quello dell’oro e delle gemme, che nel racconto si innalza a uno straordinario rilievo fantastico, come correlativo oggettivo dell’avidità e del culto del denaro che connota l’ambiente borghese: a caricarsi di questo valore emblematico è soprattutto la massiccia catena d’oro con il ciondolo di diaspro sanguigno su cui tanto indugia la narrazione, gioiello di famiglia che Liliana regala al cugino, a far da pendant alla pietra analoga del suo anello. Se l’oro e le gemme lievitano fantasticamente nella mitopoiesi popolare, eguali valenze mitiche assumono nell’ottica borghese, esemplarmente rappresentata dalla famiglia di Liliana e Giuliano, che con il furto delle gioie si vede privata della propria essenza stessa: Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Le cognazioni umane, le gentes, al dirompere d’una tensione demoniaca di che vadano lacerati in modo così drastico i certificati in-folio dello stato civile, demo o parrocchia, e le lunghe, occhiute cautele del vivere, le genti, in quel punto, tendono a ripetere in diritto, se pur non ci arrivano in fatto, la cosa prestata […]. Era una splendida figliola, ed era un cofano di gioie: l’una e l’altra maturati dagli anni. Era una figliola, con una scatoluccia: di cui loro, i Valdarena, avevano affidato ar marito la chiavicina […]. Renda sicchè, renda il mal tolto, sto babbione de cacciatore, de viaggiatore in tessuti. Quale uso ha fatto della bellezza? o quale spreco? di tanto gentile bellezza? e de li paoli? de li paoletti, belli pure loro? Indove l’ha mannati a sbatte, li paoli? E queli marenghi cor galantomo brutto? Queli marenghini gialli gialli tonni tonni de quanno nun c’era ancora sto Pupazzo a palazzo Chiggi, a strillà dar balcone come uno stracciarolo? Ce n’aveva quarantaquattro, Lilianuccia, quarantaquattro contati: che facevano cin cin dentro a un sacchetto de seta rosa, de li confetti der matrimonio de nonna. Che pesaveno più loro che du rognoni a Natale […]. Che ne ha saputo combinà, sto viaggiatore apoplettico, della tenera carne? e del gruzzolo? che le è connaturato? Già, già, del mucchietto? legatole da una ruminazione pervicace del tempo, dalla virtù economica della gente prestante? Così come quelle tepide carni le erano discese da cumulata veemenza delle generazioni, dopo aspri mattini.11

Dove si può notare che l’attaccamento all’oro e ai preziosi, nel suo più diretto significato economico, si fonde col senso geloso degli oscuri legami del sangue, lungo la discendenza della gens, della stirpe, restituendo l’immagine d’una organizzazione sociale in cui, sotto una superficie di modernità, sedimentano ancora strutture psicologiche arcaiche, barbariche e tribali (sulle quali ha modo di esercitarsi, sotto il velame del pastiche linguistico, l’acuta indagine antropologica dello scrittore). Questo ritratto della borghesia romana viene a comporre un ideale dittico con la rappresentazione della borghesia milanese consegnata alle pagine della Meccanica, del Fulmine sul 220, dell’Adalgisa e della Cognizione del dolore. La borghesia romana non differisce nella sostanza ultima dall’aborrito ceto borghese ambrosia11

Tutte le citazioni del Pasticciaccio sono tratte da Romanzi e racconti. II, cit.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

no, quindi anche in questo caso Gadda si trova di fronte a perfetti campioni di quello strato sociale un tempo legittimamente egemone e ora degradato e invilito dalla presente decadenza (oltre che contaminato dall’intrusione di «pervenuti» e «pescicani»), che nelle altre opere era oggetto privilegiato della sua indignatio di intellettuale umanista, strenuo difensore dei valori di una idealizzata civiltà borghese del passato: la cultura, la dignità, il decoro, il buon gusto, l’ordine, la disciplina, l’onesta e fattiva operosità. Ma pur sulla base di un comune giudizio severo e impietoso sull’avidità materiale, la rozzezza, l’incultura, la ristrettezza mentale, la pochezza morale, l’esibizione narcisistica di una dignità civile non posseduta, che trasforma queste figure in una serie di «parvenze non valide», di falsi simulacri (si ricordi, a riscontro dei personaggi di Balducci e Valdarena, la terribile rappresentazione dei «manichini ossibuchivori» nella Cognizione), il ritratto della borghesia romana nel Pasticciaccio si differenzia per un aspetto di rilievo: mentre la borghesia milanese attira la satira crudele dello scrittore in quanto incarnazione esemplare di repressione dei bisogni istintuali, di mortificazione e di impoverimento vitale, la borghesia romana spira comunque un senso di ricca vitalità, di pienezza ed esuberanza, di opulenza, di «lautezza e scioltezza del vivere». Su questo diverso modo di rappresentare un campione di società borghese si riverbera il mito, caro a Gadda, della paganità, della rigogliosa naturalità del popolo latino12 (che agisce parallelamente anche sull’immagine delle classi subalterne). Se dunque di fronte all’impoverimento vitale della borghesia milanese scattava in Gadda, insieme al furore satirico, un senso di uggia deprimente, la sua reazione di fronte a questo “pagano” rigoglio romanesco è semmai, al contrario, lo stupore, l’inquietudine per un’urgenza di vita eccessiva, debordante, vagamente impudica. Ma su questo aspetto dovremo ritornare, da un’altra prospettiva.

1.3. Il popolo Il quadro sociale, e di conseguenza la costruzione romanzesca, appaiono divisi in due parti simmetriche, costituite da cinque capitoli ciascuna: se la prima parte è dedicata all’indagine sull’ambiente borghese cittadino, la seconda è occupata dall’esplorazione del mondo popolare della campagna romana. Nella rappresentazione di questo strato sociale vengono a convergere vari tipi di sollecitazioni. In primo luogo si può osservare un gusto del canagliesco e del picaresco, il compiacimento di frugare entro un pittoresco e sudicio sottobosco di piccola malavita, di miseria, 12 Come ha indicato Cesare Cases, a Roma Gadda trova «la possibilità di vivere, almeno in superficie, al di fuori della stretta del capitalismo, […] dove perfino il demone del denaro assume aspetti amabilmente pittoreschi, lubrichi, stravaganti […]; sbollì l’atro umore gaddiano, e il Nostro scoprì che esisteva un modo di vivere nel capitalismo senza soffrire troppo di esso» (cfr. Cases, Un ingegnere de letteratura, in Patrie lettere, cit., p. 57). Una contrapposizione polemica fra l’impoverimento vitale della borghesia lombarda e la pienezza esuberante che connota le popolazioni del centro Italia si riscontra anche nel racconto La fidanzata di Elio, compreso nel Castello di Udine.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 197

di prostituzione, di degradazione umana (su cui probabilmente agiscono, oltre a modelli naturalistici e al romanzo picaresco barocco, suggestioni figurative, provenienti dal culto gaddiano di Caravaggio: si ricordi la pagina sulla Vocazione di san Matteo nel Racconto italiano). Il personaggio in cui più scopertamente si manifesta questa tendenza è la ruffiana Zamira, l’orrida e oscena megera che gestisce l’equivoca tintoria-locanda dei Due Santi, in cui alle attività alla luce del sole si affiancano l’arte della magia e lo sfruttamento della prostituzione delle giovani campagnole impiegate come lavoranti. All’intento naturalistico di scandagliare il fondiglio della società si sovrappone il gusto del rimando letterario, in quanto Zamira discende evidentemente dalla Celestina della Tragicomedia de Calisto y Melibea, come è confermato dalla pagine saggistiche dedicate da Gadda al celebre testo spagnolo, Rappresentare la «Celestina», raccolto in I viaggi la morte. Si scopre anche una segreta volontà di proporre simmetrie interne, in quanto il rapporto della vecchia con le sue lavoranti reduplica, in forma laidamente degradata, il rapporto di Liliana Balducci con le “figlie” adottive: la malinconica ossessione della signora dagli elevati sentimenti, passando dalle zone alte a quelle basse della società, si rovescia nell’ambiguo attaccamento della ruffiana alle sue protette, del cui corpo fa mercato. In definitiva, nelle due figure femminili si incarnano due immagini antitetiche della Madre, una sublimata e idealizzata, oggetto di una contemplazione adorante (soprattutto attraverso gli occhi del personaggio alter ego dell’autore, Ingravallo), l’altra stregonesca e turpemente stravolta: la Madonna e la Maga-Puttana. Ma comunque, al di là dell’antitesi, su entrambe le figure si proiettano impulsi aggressivi: se per Zamira essi si manifestano nell’accanumento insistito sui suoi aspetti più repellenti (come il «bucio» della bocca sdentata e salivante, dalla chiara allusività sessuale), per Liliana, ancora più scopertamente, si rivelano nell’atroce delitto di cui è resa vittima e nella descrizione ripetuta con ipnotica fissità della sua orrenda ferita e del suo cadavere (senza contare che già la sua disposizione patologica costituiva un cospicuo attentato alla sua sublimità angelicata). Dietro a tutto ciò è facile scorgere i traumi personali dello scrittore e i suoi rapporti problematici con la figura materna, che forniscono materiali alla creazione artistica e attraverso l’elaborazione letteraria si trasformano in temi ricorrenti della sua opera. Se nella Cognizione quel groviglio esistenziale era affrontato direttamente, nel tema del matricidio, qui, sfumato ormai dalla lontananza nel tempo, viene dissimulato nel tessuto di una narrazione apparentemente tutta oggettivata.13 Alla rappresentazione del pittoresco-canagliesco si associa poi la contemplazione affascinata della vitalità prorompente («le oscure e vivide ragioni della vita») di quel popolo laziale, rappresentato soprattutto da figure di giovani, maschi e femmine, di cui vengono messi continuamente in rilievo la splendente bellezza, 13 Sul motivo del matricidio nel Pasticciaccio ha pagine molto acute Elio Gioanola, L’uomo dei topazi, cit., pp. 220-242 (considerazioni riprese in Carlo Emilio Gadda e l’impossibile «giallo» del «Pasticciaccio», in Psicanalisi, ermeneutica e letteratura, Mursia, Milano 1991, pp. 295-304).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

la sanità, il vigore fisico, la carnalità esuberante. Esemplare in questa direzione è la descrizione di Ines Cionini, la giovanissima prostituta fermata dalla polizia: Era molto bella, a rimirarla […]: e bianca nel volto e nella gola tra le gore e sfrangiature del sudicio. Con tumidi, rossi labbri: quasi di silfide bambina, ma precocemente infastidita dalla pubertà: e alquanto ondulativa nel volgersi, o nel porgere, e dogliosa di volumi […] come d’un inoppugnabile incarico, d’una soma greve, eterna: impostale da libito antico della Natura […]: emanava da lei, con il notato olezzo, il senso vero e fondo della vita dei visceri, della fame. E del calore animale.

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Ad essa risponde, come un’ideale rima a distanza, quella di Assunta, la serva di casa Balducci: Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de’ suoi giorni, che avrebbero a essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch’ella pareva scagliare audacemente all’offesa.

L’equivalente maschile di questa pienezza vitale è offerto da Diomede Lanciani: Un viso di quelli, proprio, che il quindicinale «Difesa della razza», quindici anni dopo, avrebbe recato a testimonianza di arianesimo splendido: della gente latina e sabellica. Per copia conforme: sì. Era biondo, certo: la foto lo asseriva: un volto maschio, un ciuffo! La bocca, un taglio diritto. Sopra al vivere delle gote e del collo du occhi fermi, strafottenti: che promettevano il meglio, alle ragazze, alle serve, il peggio a’ loro depentolati risparmi. Un tipo spavaldo, fatto per essere accerchiato e conteso, inseguito e raggiunto, e poi rigalato un po’ da tutte, secondo le disponibilità di ciascuna. Uno da rappresentare in bellezza il Lazio e la sua gioventù, al Foro Italico.

Il «ciuffo» lo associa idealmente a un altro personaggio popolaresco, proposto quale rappresentante di una vitalità prepotente: il Bruno del Fulmine. I nomi attribuiti da Gadda a questi personaggi popolari forniscono un indizio illuminante: Clelia, Virginia, Lavinia, Camilla, Diomede, Enea (i cui genitori si chiamano Anchise e Venere), Ascanio, tutti nomi che richiamano la classicità, come se in questi giovani rinascesse il vigore dell’antica razza latina (con le sue ascendenze greche), quella latinità che Gadda ammirava come esempio perfetto di civiltà e di forza. Un’altra descrizione dell’Assunta, vista attraverso gli occhi estasiati di Ingravallo, vale come conferma: La serva, più aspra, aveva un’espressione severa, sicura, due occhi fermi, luminosissimi, quasi due gemme, un naso diritto con il piano della fronte: una “vergine” romana dell’epoca di Clelia […]. Cercò di reprimere l’ammirazione che l’Assunta destava in lui: un po’ come lo strano fascino della sfolgorante nipote dell’altra volta: un fascino, un imperio tutto latino e sabellico, per cui gli andavano insieme i nomi antichi, d’antiche vergini guerriere e latine o di mogli non reluttanti già tolte a forza ne la sagra lupercale.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 199

Un passo del Palazzo degli ori, il trattamento cinematografico ricavato dal Pasticciaccio, costituisce il miglior commento a questa componente tematica, perché propone in forma molto diretta ed esplicita, quasi didascalica (data la finalità del testo), quanto nel romanzo resta nell’implicito della tessitura del racconto: In genere tutti i personaggi giovani, maschi e femmine, devono essere molto avvenenti, a significare la floridezza e bellezza della popolazione laziale, non ostante la povertà. Questa giovane bellezza è assetata di vita e di… gioielli, detenuti dai ricchi».14

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A riscontro, è istruttivo leggere quanto Gadda scriveva nel Castello di Udine, a commento della gioia vitale rivelata dalle scene popolari della festa dell’uva a Marino (non a caso nella stessa zona dei Castelli romani in cui si svolge anche questa parte del romanzo): Sento che questa terra è più pagana della Citeriore e finisco con ripetermi una millesima volta che pagana nel mio proprio gergo vuol dire latina.15

L’aura classica che circonda queste figure, pur senza cancellare per nulla la loro colorita fisionomia popolare e dialettale, contribuisce a proiettarle in una dimensione di mito e a riscattarle così in qualche modo dalla bassezza e dalla volgarità di un’esistenza di miseria e di delinquenza: alla puntigliosa esplorazione realistica si sovrappone l’incoercibile impulso gaddiano al «sogno», che, al di là di una realtà degradata e vile, induce a vagheggiare un’alternativa nobile ed eletta, in cui rifugiarsi per medicare le ferite inferte dallo scontro con il mondo fenomenico. Come per il rapporto tra la borghesia romana e quella milanese, anche in questo caso risalta la differenza tra l’atteggiamento di Gadda verso la plebe laziale e quello verso la plebe rurale brianzola della Cognizione: se qui i popolani sono campioni di bellezza e «pagana» esuberanza vitale, i contadini dell’altro romanzo sono fatti segno della più feroce ripulsa da parte del narratore, come esseri primordiali, rozzi e ottusi («calibani gutturaloidi», «oranghi»), degradati a oggetti immondi, a materia disgustosa (si pensi all’insistenza sull’afrore che promana dal peone di villa Pirobutirro, sulle «frittelle di letame» che si «disquamano» dai suoi zoccoli «con un acciacchìo di nàcchere pefagne», sulla folla di villani maleodoranti che contaminano lo spazio sacro della casa). Semmai la procace bellezza delle popolane di Roma e dintorni può essere accostata a quella della veneta Zoraide della Meccanica e l’energia vitale dei giovani maschi a quella del garzone del macellaio nel Fulmine. Ma la conclusione del passo citato dal Palazzo degli ori, sulla bramosia di gioielli da parte dei popolani, è significativa anche perché apre la prospettiva di un altro filone tematico perseguito nel Pasticciaccio: il tema sociale, il conflitto tra i poveri e i ricchi. Anche in questo caso il trattamento cinematografico, con la sua dizione così elementare e didascalica, porta in piena luce ciò che nel roman14 15

Il palazzo degli ori, a cura di A. Andreini, Einaudi, Torino 1983, p. 42. Romanzi e racconti I, cit., p. 233.

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zo è espresso in maniera più sfumata e lasciato per gran parte nelle pieghe del racconto. L’esecrazione che Gadda nutre in modo trasparente per la borghesia dei «pescicani» e dei «pervenuti» si accompagna a una simpatia per questi giovani belli, ricchi solo di forza carnale e legittimamente assetati di vita, che devono lottare con la miseria e guardano all’ostentazione di ricchezza dei borghesi con giustificata invidia e avidità. Nel liberale conservatore Gadda (a volte decisamente reazionario), cultore geloso dell’ordine sociale, si cela una componente di populismo, che lo induce a rappresentare con partecipazione simpatetica i personaggi dei diseredati e le lotte da essi affrontate per appropriarsi dei beni della vita, destinate inesorabilmente alla sconfitta (una tematica presente già sin dal lontano Racconto italiano di ignoto del novecento: si ricordi la figura dell’operaio Carletto). È però un populismo che presenta un volto del tutto diverso da quello della contemporanea letteratura neorealista “di sinistra”, in quanto Gadda, al di là di ogni fascino subito a causa dell’esuberanza vitale, non idealizza affatto il popolo, facendone il portatore di tutti i valori positivi, ma ne problermatizza sempre l’immagine, grazie alla consapevolezza dei limiti e degli aspetti negativi delle classi subalterne. Questa simpatia per i popolani laziali si manifesta anche con la compiaciuta mimesi della loro parlata (mimesi che già solo per questo trasporto si allontana dai canoni della scientifica registrazione naturalistica del linguaggio come elemento del colore locale): a personaggi come Ines Cionini, Lavinia Mattonari o Ascanio Lanciani sono assegnati lunghi tratti di puro dialogo diretto, in cui dallo scrittore il dialetto viene assaporato golosamente, si direbbe, nei suoi suoni, nei suoi ritmi sintattici e nelle sue immagini vivide. La meticolosità con cui Gadda condusse la revisione del dialetto romanesco per la pubblicazione del romanzo in volume, con l’aiuto di parlanti locali, non è da ascrivere solo a scrupolo filologico o alla precisione dello «Zoluzzo», ma al gusto di immergersi in quell’universo linguistico, che era il correlativo verbale della vitalità sensuale dei popolani. Anche qui risalta il contrasto col rapporto istituito da Gadda nella Cognizione con la parlata lombarda, definita «dialetto orribile» per i suoni che a lui risultavano urtanti, gutturali e ossitoni. Si pensi solo alla scena in cui gli abitanti di Lukones scavalcano il cancello e invadono la villa alla notizia dell’aggressione alla Signora: Nel baccano agilulfo-celtico, per quanto fasciato dalla notte, avvertimenti che potevano infilzarsi come polli sulle punte di quegli schidioni del cancello o bucarsi la pancia, intorcolarsi la trippa sulle punte, stessero attenti!, e allora appunto i nomi trippa, büsekka, plurale tripp, büsekk. E poi lazzi e meraviglie ironiche per la torcia, che cosa è successo e proteste e nuove egutturazioni dei cavernicoli, stanati per quell’allarme dagli antri illuni del sonno. Un va e vieni di voci, per lo più monosillabiche, epigastriche, a urti, a urli, o tutt’al più bisillabe, ma in tal caso ossitone, a spari, a scoppi… Una folla dalla gola ossitona latrava e ingigantiva nella notte…16

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Romanzi e racconti I, p. 751.

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L’avversione per la parlata dialettale è consustanziale a quella per le persone, i villici brianzoli, qui definiti «cavernicoli». Quella lingua è registrata con «indicibile ripugnanza», con la repulsione fisiologica che lo scrittore riserva al caos degli oggetti degradati, alle materie immonde e all’escremento (illuminante è la metafora dei «borborigmi» impiegata a designarla). E il segno dell’avversione è costituito dal bisogno di straniare e distanziare le parole mediante la deformazione grafica («büsekka», «büsekk»), come già avveniva nell’Adalgisa, ad esempio con un impagabile «tchapàll».

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1.4. La dimensione storica: il fascismo L’ambizione a creare il quadro di costume, l’affresco sociale, nel Pasticciaccio si estende inoltre alla dimensione politica e storica, evocando accanto al piano degli eventi privati, in ossequio al più collaudato modulo della tradizione romanzesca realistica, anche il piano di quelli pubblici: la Roma che Gadda pone al centro della sua indagine è immersa nell’atmosfera dell’epoca fascista e i richiami al regime contrappuntano insistentemente il dipanarsi della trama narrativa. Ma questo sfondo storico non è certo fatto oggetto di ricostruzioni documentarie e informative, secondo lo schema caro al romanzo storico scottiano e manzoniano, né drammatizzato con l’inserimento dei personaggi di finzione all’interno dei grandi eventi pubblici, come può avvenire nel romanzo naturalista e verista (la rivoluzione del ’48 nell’ Éducation sentimentale, il colpo di stato del 2 dicembre nella Fortune des Rougon, la battaglia di Sédan e la Comune nella Débâcle, i moti del ’21 e del ’48 nel Mastro-don Gesualdo); piuttosto, more gaddiano, la storia, sotto forma di excursus inseriti nel tessuto narrativo, diviene spunto per le furibonde invettive dello scrittore, che adibisce al compito di aggredire l’oggetto aborrito tutte le armi più micidiali del suo espressionismo linguistico.17 Per questo la polemica si concentra soprattutto nella rabbiosa, esasperata deformazione caricaturale della figura fisica del duce. A tal fine lo scrittore ricorre all’artificio della regressione nel punto di vista spontaneamente, “naturalmente” 17 Secondo Carla Benedetti Gadda inserisce gli excursus sul fascismo non tanto come sfondo storico dei fatti, per una loro precisa ambientazione: piuttosto il legame con la narrazione va cercato nell’interesse intorno all’indagine sul male. In quanto mosso dagli stessi impulsi erotici che provocano il delitto, il fascismo «si caratterizza come immagine (“similitudine”) del male, lo stesso su cui si indaga […]: il dato delitto-furto e il dato fascismo sono legati per analogia: il secondo è similitudine del primo, e, contemporaneamente, dello stesso meccanismo erotico che converge in entrambi»; l’indagine si sposta «verso un “male” concomitante, esterno ma non estraneo ai delitti» (cfr. C. Benedetti, Una trappola di parole. Lettura del «Pasticciaccio», ets, Pisa 1980, p. 93 e p. 96). Quindi, per la studiosa, dell’attualità del fascismo viene fatto da Gadda un uso metastorico, a indicare le radici del male presenti in ogni tempo, in ogni individuo e collettività, inestirpabili. L’osservazione sul legame tra fascismo e delitto, costituito dall’eros deviato, è valida e acuta, però a nostro avviso il carattere storico del regime, e conseguentemente della polemica gaddiana, non viene cancellato dall’allargarsi del significato alla dimensione metatemporale.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

beffardo, crudele e deformante della plebe romana, di cui mutua il linguaggio libero e graffiante (ma su questo aspetto dovremo soffermarci più avanti). All’estremo opposto lo scrittore mette in campo gli strumenti più sofisticati della psicologia, uniti a un lessico di livello alto, oscillante tra il tecnicismo scientifico e l’elezione squisitamente letteraria, per denunciare, in nome di un’aurea tradizione umanistica e liberale e dei valori della ragione e dell’etica, gli aspetti irrazionalistici dell’attivismo fascista e i torbidi impulsi erotici che stanno alla sua base:

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La psiche del demente politico esibito (narcisista a contenuto pseudo-etico) aggranfia il delitto alieno, reale o creduto, e vi rugghia sopra come belva cogliona e furente a freddo sopra una mascella d’asino: conducendosi in tal modo a esaurire (a distendere) nella inane fattispecie d’un mito punitivo la sudicia tensione che lo compelle al pragma: al pragma quale che sia, purché pragma, al pragma coûte que coûte.

Oppure, mediante gli stessi strumenti linguistici, porta alla luce le componenti erotiche morbose ed aberranti del rapporto che lega al duce le masse femminilizzate (indagine che negli stessi anni viene portata alle estreme conseguenze in Eros e Priapo): Il crimine alieno è “adoperato” a placar Megera anguicrinita, la moltitudine pazza: che non si placherà di così poco: viene offerto, come laniando capro o cerbiatto, a le scarmigliate che lo faranno a pezzi, lene in salti o mamillone ubique e voraci nel baccanale che di loro strida si accende, e dello strazio e del sangue s’imporpora. Gli occhi spiritati dell’eredoluetico, nonché luetico in proprio, la mandibola da sterratore analfabeta del rachitoide acromegalico riempivano di già l’Italia illustrata: già principiavano invaghirsene, appena untate de cresima, tutte le Marie Barbise d’Italia, già principiavano invulvarselo, appena discese d’altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d’Italia: in vel bianco, redimite di zàgara, fotografate dal fotografo all’uscire del nartece, sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore.

In pagine come queste Gadda impiega in modo acuto strumenti psicanalitici applicandoli alla psicologia delle masse, ma immette anche una carica violentissima di atrabiliare umoralità, che lascia facilmente intravedere forti pulsioni misogine se non ginofobe (le Menadi scatenate che dilaniano il capro o il cerbiatto). La requisitoria contro il regime, come si è già avuto modo di indicare, tocca poi aspetti più propriamente politici, come gli effetti devastanti sulla compagine dello Stato provocati dalla fusione dei tre poteri («le tre balìe da Carlo Luigi de Secondat de Montesquieu con sì chiaroveggente capa sceverate») in «un’unica e trina e impenetrabile e irremovibile camorra»: in tal caso l’esecrazione umorale lascia il posto all’argomentazione giuridica, fondata sui principi basilari dello Stato liberale moderno.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 203

1.5. Il romanzo psicologico

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Accanto alla pittura realistica dei milieux sociali e dello sfondo storico, nelle intenzioni che presiedono alla costruzione del Pasticciaccio si può riconoscere la volontà di proporre il romanzo psicologico, l’ambizione all’analisi, attraverso strumenti scientifici, dei grovigli profondi della psiche. Questa tendenza si presenta col personaggio di Liliana Balducci, nell’insistenza sul suo desiderio frustrato di aver figli che si trasforma in una sorta di «follia malinconica», inducendola a proiettare il suo affetto sulla serie delle «nipoti» adottive e a cadere in una mania oblativa, in cui si cela un impulso autodistruttivo, suicida. L’analisi viene condotta anche attraverso le riflessioni emotivamente partecipi del commissario Ingravallo, qui delegato e portavoce dell’autore18 e dotato della sua stessa competenza psicanalitica (legge «libri strani» - è facile intuire quali – e usa una terminologia «da medici dei matti»): Quel dare, quel regalare, quel dividere altrui! pensò Ingravallo. […] Quel buttare, quel dissipare come petali al vento o come fiori nel ruscello tutte le cose che più contano, le più tenute a chiave, le lenzuola! contrariamente alle leggi del cuore umano che, se regala, o regala a parole, o regala il non suo, finirono per rivelargli, a don Ciccio, l’alterazione sentimentale della vittima: la psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima: quasi, proprio, una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos: cioè una brama di riprincipiar da capo: dal primo possibile: un “rientro nell’indistinto”.

Nella ricostruzione del commissario questa tendenza autodistruttiva si è manifestata anche al momento del delitto, in quanto è come se Liliana si fosse offerta alla brutale aggressione dell’assassino e alla lama che le squarciava la gola, in una sorta di libido di morte, in un morboso cupio dissolvi. Non avendo potuto darle figli, il marito decade «a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili», e al rapporto coniugale subentra una forma di omoerotia sublimata, celata dietro il rapporto “materno” istituito con le “figlie” sostitutive: È allora che la povera creatura si dissolve, come fiore o corolla, già vivida, che renda al vento i suoi petali. L’anima dolce e stanca vola verso la crocerossa, nell’inconscio “abbandona il marito”: e forse abbandona ogni uomo in quanto elemento gamico. La personalità di lei, strutturalmente invida al maschio e solo racchetata della prole, quando la prole manchi accede a una sorta di disperata gelosia, e nel contempo, di sforzata συμπαθία sororale nei confronti delle cosessuate. Accede, potrebbe credersi, a una forma di omoerotia sublimata: cioè a una paternità metafisica: la dimenticata da Dio – e Ingravallo smaniava ormai di dolore, di rancura – accarezza e bacia nel sogno il ventre fecondo delle consorelle. 18 Su Ingravallo come «trasparente, e insieme parodizzata, proiezione romanzesca della inquieta “ragione letteraria” di Gadda», cfr. le considerazioni approfondite di G. Bonifacino, Il groviglio delle parvenze. Studio su C. E. Gadda, Palomar, Bari 2002, pp. 247 ss.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

In questa esplorazione della psiche patologica del personaggio si può rilevare l’autentico impegno scientifico di Gadda,19 che scaturisce dalle sue letture freudiane,20 compiute tra l’altro in un periodo, gli anni Trenta, in cui la psicanalisi era ritenuta tabù, disprezzata e respinta sia dalla cultura fascista sia da quella idealistico-crociana. Però, come si è letto nelle dichiarazioni su Dejanira Classis, Gadda rifugge dal puro psicologismo, dal roman d’analyse in quanto tale, alla Bourget, che si ingorghi in minuziose quanto statiche analisi dell’interiorità, vuole sempre inserire l’analisi nella dinamicità dell’intreccio, composto di eventi e d’azioni; difatti l’indagine su Liliana non è condotta dal narratore esterno, arrestando il fluire della narrazione, ma è in qualche modo “drammatizzata” dall’impiego del filtro della coscienza di un personaggio che agisce all’interno del plot, anzi di più personaggi, in quanto il ritratto psicologico della donna risulta non solo dalle riflessioni di Ingravallo ma anche dagli ampi discorsi del marito, di Valdarena, di don Corpi: solo all’interno di questa più ampia e dinamica struttura lo scrittore ritiene che l’esplorazione della psicologia del personaggio debba avere un ruolo e un rilievo fondamentali. Non solo, proprio perché inserita in quella struttura dell’azione, la psicologia del personaggio non resta un dato irrelato e assolutizzato, sciolto da ogni legame esterno, si offre al contrario come un complesso di impulsi collegato organicamente al contesto sociale e storico, condizionato dai suoi influssi, di cui riflette in sé gli effetti, pur senza che siano fatti agire rigidi determinismi ambientali in chiave naturtalista. Dalla narrazione, secondo le direttrici del realismo ottocentesco, di Manzoni, Balzac, Stendhal, Flaubert, a cui come sappiamo Gadda guarda come a grandi modelli,21 risalta chiaramente che Liliana è come è perché è il prodotto di una certa forma di educazione e di determinate dinamiche familiari, all’interno della famiglia d’origine e del rapporto coniugale, tipiche di un milieu sociale, il “generone” romano, e di un dato momento storico, la Roma di inizio secolo (la donna è sulla trentina e l’azione si svolge nel 1927). 19 Donnarumma tuttavia osserva che la psicaalisi nel Pasticciaccio non assicura affatto la comprensione totale della realtà. Si ha «un paradossale incontro fra pandeterminismo nel campo dell’agire umano, e indeterminismo nel campo dell’interpretazione dei fatti: se nel primo caso tutto è comprensibile e spiegabile alla luce di leggi date, nel secondo tutto va spiegato e compreso alla luce di leggi che non è detto si abbiano» (Donnarumma, «Riformare il concetto di causa»: Gadda e la costruzione del racconto, in Gadda modernista, cit., p. 68). 20 Per una puntuale ricostruzioine delle fonti freudiane del discorso di Gadda nel Pasticciaccio, cfr. F. Amigoni, La più semplice macchina. Lettura freudiana del «Pasticciaccio», Il Mulino, Bologna 1995, pp. 68-106. Un giudizio limitativo sull’uso gaddiano degli strumenti psicanalitici propone invece Lucchini, Gadda lettore di Freud, in L’istinto della combinazione, cit., pp. 109-121. 21 Della scena di Le Rouge et le Noir riportata all’inizio del capitolo All’hôtel de la Mole, Auerbach afferma: «Essa sarebbe press’a poco incomprensibile senza l’esattissima e particolarissima conoscenza delle condizioni politiche, sociali ed economiche d’un ben determinato momento storico, cioè a dire della Francia poco prima della rivoluzione di luglio» (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, cit., p. 221).

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 205

Ne deriva anche una problematizzazione dell’eroina femminile. Liliana da un lato è una figura fortemente idealizzata, un’anima privilegiata, superiore spiritualmente al contesto mediocre in cui vive, dotata di sensibilità e di sentimenti più elevati, collocandosi in una galleria di personaggi femminili ideali che comprende Maria Ripamonti della Madonna dei Filosofi ed Elsa Cavigioli del Fulmine sul 220. Lo denuncia in modo trasparente il suo nome, che evoca i gigli e il loro candore, simbolo di purezza, e lo testimonia anche una serie di rimandi alla figura della Vergine. D’altro lato però, alla scepsi impietosa dello scrittore, effettuata sia in prima persona sia attraverso il personaggio alter ego, questa figura sublimata è fatta scendere dal suo piedistallo e appare afflitta dai limiti e dalle debolezze dell’umanità comune, anzi addirittura si rivela nella sua personalità patologicamente turbata. Documento acquistato da () il 2023/04/27.

1.6. Il «fabbricante di madonne» Abbiamo insistito su questi aspetti perché essi costituiscono una componente essenziale del Pasticciaccio, da cui non si può prescindere. Bisogna fare attenzione a non ridurre il romanzo solo ai suoi aspetti formali, allo sbalorditivo gioco pirotecnico del “pasticcio” linguistico (come spesso è avvenuto da parte della critica:22 molto meno comunque negli anni più recenti) e ai procedimenti narrativi originalissimi, dimenticando che cosa dice per concentrarsi solo sul come. Certo, anche attraverso il come passa il che cosa, ma una concentrazione esclusiva sulla lingua, sullo stile e sulle tecniche narrative rischia di produrre una lettura mutilata, dimidiata, di un romanzo così ricco, in cui convergono tanti impulsi, dando origine a una straordinaria complessità di piani. Condividiamo quindi pienamente quanto ha osservato Cesare Segre: 22 Un significativo esempio di lettura del Pasticciaccio come puro «gioco verbale», in cui «il procedimento è più importante del referente», è costituito da M. Ponzi, Alcuni appunti su ironia e straniamento nel «Pasticciaccio», in Aa.Vv., L’alternativa letteraria del ’900: Gadda, cit., pp. 143-154. Le tesi sono riprese in La tecnica della digressione nella struttura del testo gaddiano, in Aa.Vv., Gadda. Progettualità e scrittura, cit., pp. 169-180: «La trama è per lui soltanto un pretesto, una scusa, un surrettizio e fittizio sostituto di un non-narrato, ovvero, come è stata definita, l’ “assenza dell’oggetto”». La sua prosa è «in ultima analisi una forma di metalinguaggio, in cui il linguaggio parla se stesso, gioca con le sue allegorie, si rincorre in un gioco di specchi, trasferendo tutto il senso non già al referente – che non ha significato determinante – bensì all’assenza, al non detto, al non-raccontato, vale a dire al gioco stesso, al linguaggio» (ivi, p. 170 s.). Per il critico, Gadda non vuole «ottenere profondi ritratti psicologici attraverso l’analisi puntigliosa e meticolosa di personaggi emblematici, né rispecchiare realtà di fatto – storico sociali o ideali»: «l’analisi, la critica, la denuncia vanno reperiti non nel materiale poetico che usa, bensì nel modo di strutturare tale materiale» (Alcuni appunti cit., p. 143). Al contrario, come prova la serie di dichiarazioni che abbiamo riportato, Gadda crede nella trama e nei personaggi: ma intervengono poi altri fattori, all’interno (come l’impossibilità di ricostruire la rete delle concause) e all’esterno, a rendere problematica quella fiducia e a disarticolare il racconto, come vedremo più avanti. Ponzi conduce una lettura di Gadda con schemi critici troppo “d’avanguardia” (come rivelano i continui riferimenti a Benjamin) e trascura le forti radici ottocentesche, realistiche e naturalistiche, del «minimissimo Zoluzzo di Lombardia» e dell’uomo «del perento Ottocento». Inoltre tradisce la sua soggezione a un clima dominante negli anni Settanta, ai principi dei formalisti russi, per i quali i contenuti non sono che «motivazione dell’artificio».

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Gadda è sensibilissimo al fascino del romanzo. […] Ciò risulta dal continuo impegno a tracciare un quadro storico, una traversata della società. […] La rivoluzione gaddiana non consiste dunque solo nell’esaltazione dell’espressionismo e della plurivocità, ma nella costruzione di un mondo romanzesco di tipo ottocentesco (diciamo alla Balzac o alla Dickens o alla Zola, nomi che cita effettivamente fra i suoi modelli), usando i materiali della tradizione che Bachtin chiama menippea o lucianesca. Chi si limita a vedere nell’opera di Gadda una grande impresa linguistico-stilistica, non comprende pienamente il senso della sua attività narrativa. Egli è un grande pittore di Milano e di Roma nella prima metà del secolo XX, e la maestria linguistica gli fornisce strumenti di eccezionale efficacia; strumenti, comunque.23

D’altronde è Gadda stesso a metterci sull’avviso, a suggerirci di non leggere il Pasticciaccio solo come gioco formale, ma a fare attenzione anche ai contenuti proposti, ai quali lo scrittore annette molta importanza e che vuole siano presi in attenta considerazione. È questo il senso, ci pare, di una dichiarazione presente proprio nell’articolo pubblicato sull’ «Illustrazione italiana» nell’ottobre 1957 a proposito del Pasticciaccio: Un problema estetico, ed etico, mi ha sempre scavato l’anima: a me, sì, che venni imputato di calligrafismo, di barocchismo. Qual è il grado di adesione interna, di accensione intima nei confronti del tema, che induce ad opera l’artista, che gli guida la mano sulla tela? Sì: la mano e il pennello? Crede, e spera, nella Madonna, il fabbricante di madonne? […] Vero è che il racconto non è tutto, forse non è nulla, per la sapienza orchestrante i toni, i colori. I pittori adducono a loro giustificazione d’avere inteso dipingere: ma insomma la Nunziata è pur sempre la Nunziata e non è un cavallo.24

Gadda esige dunque che la lettura del suo romanzo non si fermi al livello formale, ma dedichi attenzione anche al «tema», che non è un puro pretesto, in sé irrilevante, per gli esercizi funambolici e barocchi con la lingua, ma è trattato con «adesione interna», con «accensione intima»: il «fabbricante di madonne» crede davvero nella Madonna.

2. Il romanzo di secondo grado 2.1. Il «barocco» Certo però che il Pasticciaccio, al di là della sua sostanza di romanzo che si vuole “romanzo”, è anche uno strenuo esercizio formale. Tanto che sul romanzo di primo grado, quello che narra le vicende, dipinge i milieux e analizza le psicologie con serio, autentico impegno conoscitivo realistico in termini tradizionali, si so23 C. Segre, Le tre rivoluzioni di Carlo Emilio Gadda, in Ritorno alla critica, Einaudi, Torino 2001, pp. 72 s. 24 Il Pasticciaccio, in I viaggi la morte (Saggi giornali favole I, cit., pp. 509 s.).

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 207

vraordina un romanzo di secondo grado, costituito dall’intreccio babelico di voci appartenenti ai più diversi livelli linguistici,25 dal deflagrare continuo dei giochi verbali, dall’uso di tutta la multiforme gamma delle figure retoriche, metafore, similitudini, metonimie, paronomasie, allitterazioni, figure etimologiche, onomatopee, fonosimbolismi e così via. Vi si aggiunge la struttura centrifuga che frantuma la narrazione col proliferare di infinite tendenze digressive, omologo al proliferare delle voci. A ogni momento Gadda sembra dimenticare intreccio e personaggi, è come trascinato e inghiottito da un vortice incessante e inesauribile di divagazioni. Qualunque oggetto entri nel suo raggio visuale gli offre l’occasione per allontanarsi in direzioni divergenti, per insistere in lunghe, puntigliose descrizioni, per abbandonarsi a serie di associazioni come casuali, a costruzioni fantasiose e bizzarre. La struttura romanzesca sembra esplodere e disgregarsi in una miriade di frammenti isolati, collegati solo sotterraneamente da fili misteriosi, e sfocia infine inevitabilmente nell’incompiutezza dell’intreccio romanzesco. Di conseguenza, come è scorretto non prendere in considerazione il “romanzo primo”, così la lettura non può ovviamente esimersi dal porre sotto il fuoco dell’attenzione il “romanzo secondo”, se non vuole condannarsi a una speculare mutilazione. Il problema primario che evidentemente si pone, dinanzi al fenomeno Pasticciaccio, è capire perché si scateni questa proliferazione del romanzo di secondo grado che, nato dal romanzo di primo grado, finisce per entrare in conflitto con la stessa matrice da cui è uscito, per disgregarla e negarla, imponendosi prepotentemente nella propria autonomia.26 La risposta viene cercata abitualmente

25 Sulla plurivocità della narrazione del Pasticciaccio si veda C. Segre, Punto di vista, polifonia ed espressionismo nel romanzo italiano (1940-1970), in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, cit., pp. 27-34, che opportunamente accosta le soluzioni gaddiane alle teorie di Bachtin. 26 È bene però sottolineare che il Pasticciaccio resta pur sempre un romanzo. Giustamente la Benedetti stigmatizza i giudizi critici secondo i quali la tensione stilistica della pagina gaddiana agisce in direzione contraria alla tensione narrativa (C. Benedetti, Carlo Emilio Gadda e la gioia del narrare, in Aa.Vv., Le emozioni nel romanzo. Dal comico al patetico, a cura di P. Amalfitano, Bulzoni, Roma 2004, pp. 194-196). Non è vero, infatti, che Gadda sia scrittore di “pezzi” e che si limiti «a dilatare e giustapporre “poemetti in prosa”» (P.V. Mengaldo, Fu un vero narratore?, in Giudizi di valore, Einaudi, Torino 1999, p. 119). Semplicemente, i libri di Gadda introducono una formula di romanzo rivoluzionaria rispetto a quella tradizionale, realistica e naturalistica, egemone dal Settecento a tanta parte del Novecento. La tensione stilistica disgrega la struttura tradizionale del romanzo, ma dà vita a un diverso tipo di organismo romanzesco. D’altronde affermare che la torsione espressionistica del linguaggio «non è compatibile con alcuni principi costitutivi della narratività» (V. Coletti, La standardizzazione del linguaggio: il caso italiano, in Il romanzo, cit., vol. I, La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 328) significa postulare un modello assoluto di “romanzo” su cui misurare tutta la produzione narrativa, che è un’operazione priva di senso: le vie del romanzo sono infinite, come dimostra la storia ormai lunga del genere. Gli “antiromanzi” sono la negazione di un tipo di romanzo, ma fanno pur sempre parte del genere romanzo. Anche Lucio Lugnani insiste su «una narratività che resta a pieno titolo tale» nei romanzi di Gadda, in polemica con chi li pone «in termini di nonnarratività o di antinarratività» (L. Lugnani, «Pezzi di bravura» e discorsività narrativa (sul VI tratto della «Cognizione»), in Aa. Vv., Meditazione e racconto, cit., p. 45).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

dalla critica27 nelle teorie filosofiche gaddiane, segnatamente in quelle affidate sin dal lontano 1928 alla Meditazione milanese, ma operanti lungo tutto l’arco della produzione dello scrittore: la negazione della «grama sostanza», del dato come entità finita e chiusa in sé (il «pacco postale chiuso e inceralaccato») e la sua definizione come groviglio di relazioni, legato da infiniti «filamenti» a grovigli infiniti. Secondo tali interpretazioni, quindi, i fenomeni che connotano il labirinto romanzesco del Pasticciaccio, la pluralità di voci e di livelli linguistici, il caleidoscopio dei giochi verbali, le incoercibili spinte centrifughe, il non finito, si originano dalla volontà ostinata di dare il senso della complessità, del «garbuglio», di restituire un’idea della rete di relazioni che si diramano dall’oggetto, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di «chiudere il sistema», di costruire il sistema che integri tutti i sistemi, di «mettere in ordine il mondo». La ricerca della pluralità relazionale si rivela in definitiva antagonistica rispetto alla costruzione del «romanzo romanzesco», finisce per dissolverlo. Per questo il romanzo, inteso nel senso ottocentesco, realistico e naturalistico, come riproduzione di un reale ordinato, retto da catene consequenziali lineari, appare in definitiva impossibile da realizzare. La spiegazione è indubbiamente valida, tanto l’accostamento tra le meditazioni di Gadda e la sua prassi narrativa risulta immediato ed evidente, tuttavia a nostro avviso non esaurisce interamente il problema ed esige alcune integrazioni. Ulteriori motivazioni vanno cercate in un’altra concezione, di assoluta importanza anch’essa nell’opera di Gadda, e che quindi può fornire una ulteriore chiave preziosa per capire gli aspetti più originali della sua scrittura: la concezione di quello che egli chiama «barocco», che peraltro è pur sempre legata al nucleo centrale del suo pensiero. La teorizzazione relativa si trova, come è noto, nel dialogo tra Autore ed Editore premesso alla prima edizione della Cognizione nel

27 I testi che ci sembrano fondamentali sono Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, cit., e Benedetti, Una trappola di parole, cit., a cui va aggiunto, della stessa, Gadda e il pensiero della complessità, in Aa. Vv., Gadda. Meditazione e racconto, cit. In quest’ultimo saggio, però, la Benedetti introduce una fondamentale correzione alle tesi di Roscioni, che hanno influenzato molta critica successiva. Roscioni sostiene che in Gadda è presente l’aspirazione a ricostruire un sistema di sistemi che integri tutti gli altri, un eroico sforzo di mettere ordine nella realtà; la Benedetti invece ribadisce con fermezza che tale aspirazione non sussiste, anzi è contraria a tutto lo spirito della Meditazione milanese, dove si insiste continuamente sui limiti della conoscenza, sull’errore di presumere di avere a che fare con la totalità. Ne è anche derivata l’attribuzione alla scrittura di Gadda dell’ambizione di ordinare in una conoscenza, addirittura in una storia, il «mostruoso groviglio» del reale, donde poi il fallimento e l’inevitabile frustrazione. Mentre per Gadda questo vagheggiamento è folle e foriero di sciagure. Gadda ha il «senso della complessità», non la presunzione di contemplare da un unico punto di vista la totalità (ivi, pp. 26-30). Le pagine della Benedetti costituiscono una preziosa messa a punto del problema. Importanti in questo campo sono anche le ricerche di Donnarumma, Gadda modernista, e di Savettieri, La trama continua, più volte già citate. Prospettive inedite e interessanti offre il volume di F. Longo, Gadda ingegnere e scrittore. Una lettura sistemica della «Meditazione milanese», Edizioni dell’Orso, Alessandria 2016.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 209

1963,28 uno dei documenti di poetica più importanti fornitici da Gadda, che sarà utile rileggere. All’accusa ricorrente: «Barocco è il G.!», lo scrittore risponde: «Barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».29 Vale a dire che «il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata “comunemente” dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che siano»; quindi barocco e grottesco non sono «ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia».30 Infatti nel «barocco» si dovrebbe riconoscere «uno di quei tentativi di costruzione, di espressione che meglio si possono attribuire alla natura e alla storia, chiamando natura e storia tutto ciò che si manifesta come esterno a noi e alla nostra facoltà operativa, alla nostra responsabilità mentale e pragmatica»: La natura e la storia, percepite come un succedersi di tentativi di ricerca, di conati, di ritrovati, d’un’Arte o d’un Pensiero che trascendono le nostre attuali possibilità operative, o conoscitive, avviene fàccino a lor volta un passo falso, o più passi falsi: che nei loro conati, vale a dire nella ricerca e nell’éuresi, abbino a incontrare la sosta o la deviazione “provvisoria” del barocco, magari del grottesco.31

Gadda stesso fornisce poi esempi illuminanti di queste «soste» o «deviazioni», di questi «passi falsi» del processo naturale e storico. Sul piano della storia, propone le figure di Mussolini e di Napoleone: «La grinta dello smargiasso, ancorché 28 Riteniamo non condivisibile la scelta operata nella sua edizione della Cognizione (Einaudi, Torino 1987, ma poi riprodotta anche in Romanzi e racconti I, cit) da Emilio Manzotti, che relega questo dialogo nell’ Appendice, seguendo la vulgata inaugurata dall’edizione uscita nella collana degli «Struzzi» nel giugno 1971. Dalle lettere emerge inequivocabilmente che lo scrittore intendeva premettere il dialogo al testo del romanzo, e d’altro lato non ci sono prove che l’edizione degli «Struzzi» corrisponda all’ultima volontà dell’autore, visto che ancora due mesi dopo, nell’agosto dello stesso 1971, uscì una ristampa nei «Supercoralli» dove il dialogo era posto come premessa al pari che nella princeps del 1963 e nell’edizione ampliata del 1970. Anzi, è più plausibile che la sistemazione dell’edizione negli «Struzzi» risponda non alla volontà dell’autore ma a scelte meramente editoriali, coerentemente con la pubblicazione in una collana economica rivolta a un più largo pubblico, perché dà rilievo prioritario al vero e proprio racconto, relegando tutto il resto in un’appendice; invece i più lussuosi «Supercoralli», destinati ad altro livello di lettori, possono rispettare la collocazione originaria. La scelta non è affatto indifferente: relegare in un’appendice un testo come il dialogo equivale a misconoscere la fondamentalissima portata di quelle pagine, che, contenendo la teoria del «barocco», sono indispensabili per capire la scrittura gaddiana; tant’è vero che lo scrittore le aveva premesse all’opera con l’intento evidente di orientarne la lettura (per un’esauriente discussione del problema si rimanda a C. Fagioli, Per una nuova edizione critica della «Cognizione del dolore», in «Allegoria», XII (2000), n. 36, pp. 38-64). Sorprende poi che il dialogo sia posto in appendice anche nella nuova edizione della Cognizione curata da Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela, Adelphi, Milano 2017, cioè che si accolga passivamente una vulgata che ha scarsi fondamenti. 29 Romanzi e racconti I, cit., p. 760. 30 Ibidem., 31 Ivi, p. 761.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

trombato, o il verso “che più superba altezza” non ponno addebitarsi a volontà prava e “baroccheggiante” dell’autore, sì a reale e storica bambolaggine di secondi o di terzi»;32 sul piano della natura, accumula sulla pagina una mirabolante enumerazione caotica di oggetti «barocchi»:

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Un violoncello è uno strumento barocco; un contrabbasso, meglio che andar di notte; un femore, coi relativi còndili, è un osso barocco; idem un bacino; il ghiandolone fegato è una polta barocca; il sedere del manichino femmina della grande sarta Arpàlice è un manichino barocco; la gobba del dromedario è barocca; le trippe del pretore Mamura, panzone barocco, erano trippe barocche; gli enunciati del trombone in fa (chiave di basso) sono enunciati barocchi; i fagioli, le zucche, i cocòmeri oblunghi sono altrettante scorribande, verso il barocco, della entelechia delle zucche e dei cocòmeri quali natura tuttavia li elabora.33

Tutti questi vari aspetti contingenti della realtà, prescelti come accidentalmente nel campo del fenomenico, secondo Gadda per colpa di quei «passi falsi» e di quelle «deviazioni» si sono allontanati dalle forme, dalle cause finali, dalle «entelechie» a cui tende, nei suoi «tentativi di costruzione», l’ordine di natura (o, come nel caso dello «smargiasso», la storia, che costituisce con la natura un inscindibile binomio), e sono come deformati da una mostruosa degenerazione interna. Per questo le cose, anche le più comuni e insignificanti, possono apparire come afflitte da un eccessivo turgore vitale, offensivo per chi le guarda avendo in mente un equilibrio e un’armonia del cosmo, oppure sembrano ridursi a materia immonda che non può non suscitare disgusto. Secondo Gadda è avvenuta insomma una frattura irreparabile tra le cose e il senso, il particolare e l’universale: le cose non appaiono più inserite in un ordine che conferisca loro un senso e una dignità, una ragione necessaria, e ciò, come già teorizzato nella Cognizione, le rende «non-forme», «parvenze non valide» e false,34 contraffazioni teratologiche che suscitano sdegno ed esecrazione. Solo pochi oggetti privilegiati possono sfuggire a questi processi di degenerazione e, nelle loro forme armoniche e perfettamente definite, che rimandano a un ordine mirabile del cosmo, nella loro assoluta autenticità, valgono a far maggiormente risaltare la trionfante deformità del «barocco» che si moltiplica incontrollato intorno ad esse e la sua irrimediabile inautenticità. Si è già visto, nel Fulmine, il caso dei ditischi, gli insetti che nei millenni dell’evoluzione sono riusciti a definire il loro «laborioso integrale isoperimetrico» e raggiungere la loro perfetta forma ellittica idrodinamica, e qui nel Pasticciaccio è il caso dei bellissimi gioielli ritrovati nel pitale entro il casello di Casal Bruciato, tra un coacervo di squallide cianfrusaglie35 (non a caso in un pitale, che, con la sua allusione scatolo32

Ivi, p. 760 Ibidem. 34 Romanzi e racconti I, cit., rispettivamente p. 627 e p. 703. 35 Il significato dei gioielli come emblema di un ordine del mondo è stato indicato da P. Citati, Il male invisibile, in «Il menabò», 1963, n. 6, pp. 26 s. 33

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gica, in contrasto con le gemme rimanda alla degenerazione del reale in materia immonda, escrementizia):

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Rubino e smeraldo si nominarono corporalmente sulla povertà bigia del panno, o del liso, nel chiuso, muto splendore che è connaturato all’autonomia di certi esseri e ne significa la rarità, la dignità naturale e intrinseca: quella mineralogica virtù che per mentiti squilli ed ammicchi è trombettata tanto, nei trombettosi carnovali, da tanti culi di bicchiere, quanto, in detti deretani, inesistente del tutto. Il corindone, pleòcromi cristalli, si appalesò tale di fatto sul bigio-topo dell’ambienza, venuto di Ceylon o di Birmania, o dal Siam, nobile di una sua strutturante accettazione, o verde splendido o rosso splendido, o azzurro notte, anche, un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria ogni gemma, ed opera individua, dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido Al2 O3 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio.

Come si vede, la perfezione formale delle gemme, la loro intrinseca autenticità (sottolineata dall’iterazione «verace» - «veracemente»), la loro «dignità naturale», «premeditata da Dio», oltre che con il pitale spiccano a contrasto, in praesentia, con la «povertà bigia del panno» che copre il letto di casa Mattonari, col «bigio-topo dell’ambienza», e, virtualmente, con i «culi di bicchiere», i gioielli falsi, emblemi di «barocca» inautenticità, esibiti nei «trombettosi carnovali», a loro volta emblemi della degradazione del reale, del caos e del sudiciume che lo contaminano (come sappiamo dai deliri di Gonzalo).

2.2. Oggetti «barocchi» e spinte centrifughe A Gadda il mondo appare popolato da una serie infinitamente proliferante di oggetti eccessivi, o deformi, mostruosi, su cui lo scrittore non può fare a meno di concentrare di continuo, come per un bisogno ossessivo, la sua irritata, indignata attenzione, arrivando a dimenticare la linea principale del racconto. Di questi oggetti, di conseguenza, sono costellate le sue pagine. È questa una spinta potente da cui si genera il vortice inesauribile di digressioni che contrassegna la sua scrittura e, dopo l’andamento più lineare dell’inizio, disperde il racconto in infinite direzioni diverse, sbriciolandolo come in un pulviscolo di frammenti a se stanti, da cui solo con uno strenuo impegno il lettore può ricostruire la linea centrale della vicenda.36 Il narratore del Pasticciaccio si fissa spesso su un particolare minimo, apparente36 Amigoni ha osservato che nel Pasticciaccio il tempo della storia è scandito con cronometrica precisione per giorni e poi, alla fine, per ore, quindi non mima il «garbuglio», presentandosi in una perfetta linearità (op. cit., pp. 40-43). Ma si può aggiungere che, se è preciso e rettilineo il tempo della storia, il tempo del discorso è quanto mai sinuoso, aggrovigliato, labirintico, data la serie infinita di divagazioni e di spinte centrifughe, di indugi e di ingorghi del racconto. Si rispecchia cioè nel rapporto tra tempo della storia e tempo del discorso quella tensione tipicamente gaddiana tra la disperata nostalgia di un ordinato dominio sul reale e il trionfo incontrastabile del «pasticcio», tra romanzo primo e romanzo secondo.

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

mente futile e inessenziale all’economia narrativa, e sotto la sua lente implacabile il dettaglio si dilata a proporzioni abnormi, sovvertendo ogni gerarchia d’importanza fra gli oggetti e venendo a occupare tutto il quadro. Certe realtà ritornano con insistenza maniacale sotto l’attenzione del narratore, come le rotondità posteriori del giovane carabiniere che accompagna il brigadiere Pestalozzi nell’indagine sui gioielli rubati, o il vello fitto e scuro, «pìceo», che ricopre il capo di Ingravallo, o il «bucio» osceno della bocca sdentata di Zamira; in altri casi invece l’oggetto che attira l’attenzione compare una volta sola ma su di esso l’occhio si sofferma come affascinato per lunghi tratti, come avviene esemplarmente con i due madornali alluci degli apostoli effigiati sul misero tabernacolo di campagna ai Due Santi, con la gallina guercia che irrompe nell’antro della Zamira e con la sua defecazione, con il treno che arriva al casello di Casal Bruciato sbuffando, salutato dai latrati folli del cane e dallo starnazzare delle galline, col pitale già ricordato e le carabattole di cui è ricolmo, con la frusta-fallo del barrocciaio: La frusta gli veniva fuori dalle dieci dita incavagnate che la reggevan lasca: e pareva stelo di bandiera dal suo bicchiere, a un balcone, o la tacita canna del pescatore sopra il silenzio del lago: e nemmeno poggiava a terra pel manico, ma invece che a terra in una piegatura supervacante (immediatamente sotto al gilé di pelo) che i pantaloni formavano al riunirsi: talché gli sgorgava dall’imo inguine, come un fusto faunesco che a mano a mano si fosse allungato in pieghevole vermena, e in un sottile ricadente sverzino: quasi un dispositivo brevettato, un suo proprio e personale organo, antenna o canna, attributo disgiuntivo del radioamatore-pescatore, o conducente.

Con ogni evidenza, sono tutti oggetti che Gadda isola nel campo fenomenico perché gli appaiono «barocchi». Per questo lo scrittore si concentra in modo ossessivo sui particolari minuti e apparentemente insignificanti, descrivendoli con microscopica precisione, come se ne fosse ipnotizzato e si accanisse caparbiamente a scoprire il segreto della loro oscena presenza, della loro oltraggiosa mancanza di senso, oppure come se volesse immergersi fra di essi per rifare loro il verso, per mostrare trionfante tutta la loro opaca, irredimibile stupidità, oppure ancora, come nel caso della frusta-stelo di bandiera-canna da pesca-fallo faunesco-antenna, volesse dissolverli inghiottendoli in un vortice metamorfico (ma di ciò più avanti). Non è un caso che gli oggetti prediletti appaiano affetti da una sorta di turgore priapico, come appunto la frusta, o gli alluci spropositati dei due santi, «i due ditoni insuperbiti» che «si proiettavano, si scagliavano in avanti», «ti davano, così appaiati, dentro un occhio, a momenti», o i due enormi piedi di don Corpi che «priapavano fuori dalla vesta che pareveno du affari proibbiti», o il «mentulare della scucchia» della vecchia al casello (col malizioso gioco verbale fra mento e mentula), o lo sfilatino «podentemente imbottito» dell’agente Pompeo, oppure siano connotati dalla cifra repellente dell’escremento, come la gallina che defeca, la vecchia che non riesce a controllare lo sfinctere alla vista dei carabinieri, il pitale. Quindi l’impulso centrifugo che disgrega la struttura romanzesca, causato dalla fissazione

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allucinata sui singoli particolari, non deriva solo dalla strenua volontà di percorrere i grovigli di relazioni del reale e di restituirne sulla pagina la complessità, ma anche da questa percezione irritata, offesa, indignata del «barocco» che alberga nelle cose. L’accumularsi di questa serie interminabile di oggetti «barocchi» finisce per rendere l’idea del reale come di un coacervo caotico che si riproduce all’infinito, in cui sono crollate tutte le gerarchie e tutti i moduli d’ordine, e la struttura disgregata e proliferante del romanzo viene a costituirne il simulacro. Strettamente collegato con il motivo del «barocco» è quindi il motivo del «pasticcio», centrale nel romanzo, come indica il titolo, che in prima istanza, al livello del romanzo di primo grado, allude ai fattacci di cronaca nera che danno avvio al “giallo”, ma al livello del romanzo di secondo grado si riferisce a questo più vasto significato, connesso con l’immagine che Gadda con la sua scrittura vuole restituire del reale. In definitiva, quindi, il “romanzo secondo” che nel Pasticciaccio si sovrappone alle architetture tradizionali del “romanzo primo”, realistico e naturalistico, è una sorta di avventura all’esplorazione del caos del mondo fenomenico, popolato dal dilagare incontrollato di «non-forme», di «parvenze non valide». Se Gadda ha robuste radici nella cultura dell’Ottocento e a quell’ambito guarda ancora nel concepire il disegno del suo romanzo, con la sua acutezza critica non può non avvertire il mutamento d’orizzonte novecentesco, non può non percepire il crollo dei moduli d’ordine che garantivano le certezze del «mondo di ieri»,37 la dissociazione irreversibile tra le cose e il senso, il trionfo definitivo dell’inautenticità e della reificazione, e quindi anche l’impraticabilità delle vecchie forme narrative nella loro salda compattezza originaria. Il caos degli oggetti può anche, in certi casi, assumere l’aspetto gioioso della sfrenata, pantagruelica abbondanza, come nella descrizione del mercato di piazza Vittorio, percorso dal Biondone in cerca di Ascanio: Involtato nel turbine degli inviti e degli incitamenti alla compera e in tutte le conclamazioni di quella festa formaggia, trascorse piano piano davanti le bancarelle abbacchiare, oltrepassò carote e castagne e attigue montagnole di bianco-azzurrini finocchi, baffosetti, nunzi rotondissimi d’Ariete: ivi insomma tutta la repubblica erbaria, dove alla gara dei costi e delle profferte i novelli sedani già tenevano il campo: e l’odore delle bruciate in sul chiudere pareva, da pochi fornelli superstiti, l’odore stesso de l’inverno fuggitivo. Su molti banchi gialleggiavano, oramai senza tempo e senza più stagione, le arance in piramidi, noci, nelle ceste, susine di Provenza nere, lustrate col catrame, susine di California.38 37 È il titolo del libro di Stefan Zweig, da Gadda recensito su «Il Mondo» di Firenze il 7 luglio 1945 (poi in I viaggi la morte, ora in Saggi, giornali favole I, cit., pp. 595-599). 38 Questa descrizione compiaciuta del mercato può ricordare la vertiginosa elencazione di verdure, frutti, carni, pesci, formaggi, attenta a tutte le varie forme, a tutti i colori e odori, che si accumula nelle pagine del Ventre de Paris di Zola dedicate alle Halles (e probabilmente Gadda aveva ben presente il romanzo zoliano mentre scriveva questo passo). In effetti anche in Zola la descrizione non è semplicemente “naturalistica”, nel senso di una precisione soltanto documentaria: si può cogliere nel Ventre un’immersione vorace, intensamente sensuale, nella sterminata, debordante ricchezza del reale in tutti i suoi aspetti fenomenici.

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In questa contemplazione del «pasticcio» si può scorgere un’ambivalenza da parte dello scrittore, in quanto quella vitalità esuberante delle cose lo affascina per certi versi, suscitando il vagheggiamento voluttuoso della fecondità inesauribile della natura, della sua ricchezza debordante di energie creatrici e di forme molteplici, per un altro verso invece proprio l’eccesso vitale e la proliferazione incontrollata di forme appaiono sospetti, inquietanti, impudichi e suscitano la sua diffidenza, proponendosi anch’essi come manifestazioni del «barocco» che attenta a un ordine geometrico e rassicurante delle cose. È la stessa ambivalenza che si è riscontrata nei confronti dell’eccessivo vitalismo «pagano» del popolo latino: non a caso un atteggiamento del genere era già presente nel brano del Castello di Udine dedicato al «pandemonio» gioioso della festa dell’uva a Marino.

2.3. «Barocco» e mescolanza linguistica La teoria del «barocco», se può contribuire a illuminare l’eziologia delle tendenze centrifughe che disgregano il “romanzo primo”, vale anche a gettare ulteriore luce sulla mescidazione dei livelli linguistici. La mescolanza continua del dialetto (prevalentemente quello romanesco) e della lingua colta, aulico-letteraria o tecnicoscientifica, in passi contigui o spesso all’interno della stessa frase, è certo il dato più macroscopico e vistoso che caratterizza l’ingens silva, il labirinto del “romanzo secondo”.39 Per motivare il suo uso del dialetto Gadda insiste soprattutto su ragioni stilistiche, sulla ricerca di un più alto grado di vivezza e di autenticità espressive, in contrapposizione alla lingua dell’uso normale, codificata e standardizzata. Afferma lo scrittore in una rubrica di risposte ai lettori sul settimanale «Epoca» sin dal 1956: L’uso del romanesco rientra nel desiderio, nella necessità quasi fisiologica di ricorrere, per il dialogo nel romanzo, per il parlato nel cinema, all’uso del dialetto in genere. Il dialetto, molto più felicemente della cosiddetta lingua, si avvicina alle urgenze espressive dei personaggi. La vivezza nativa del nostro sentire e del nostro opinare è mal coercibile dall’imperio dei cretini. Il dialetto è, spesso, una felice

Si tratta di uno Zola “barocco”, o, se si vuole, decadente, per così dire “dannunziano” (sempre che non sia d’Annunzio ad essere “zoliano”). Per un confronto del passo del Pasticciaccio con la descrizione delle Halles nel Ventre de Paris, si veda Bignamini, Mettere in ordine il mondo?, cit., p. 24 s. 39 Sulle componenti del lessico di Gadda resta fondamentale P. Gelli, Sul lessico di Gadda, in «Paragone», 1969, n. 230, pp. 52-77; importanti sistemazioni offrono P. Marinetto, Mito e parodia attraverso il linguaggio di C. E. Gadda, in Profili linguistici di prosatori contemporanei, Liviana, Padova 1973; A. Birtolon, Proposta per una nuova classificazione del linguaggio nel «Pasticciaccio», in Storia linguistica dell’Italia del Novecento, Bulzoni, Roma 1973, pp. 41-46 ; P. Gibellini, Romanesco e ottica narrativa nel «Pasticciaccio», in «Paragone», n. 308, 1975 pp. 75-92; G. Cavallini, Lingua e dialetto in Gadda, D’Anna, Messina-Firenze 1977; C. De Matteis, Dal pasticcio al “pastiche”: appunti per uno schedario della lingua del «Pasticciaccio», in Prospezioni su Gadda, cit., pp. 90-112; M. Fratnik, L’écriture détournée. Essai sur le texte narratif de C.E. Gadda, Meynier, Torino 1990, pp. 189-265; A. Turolo, Teoria e prassi linguistica nel primo Gadda, Giardini, Pisa 1995; L. Matt, Gadda. Storia linguistica italiana, Carocci, Roma 2006.

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scappatoia per la verità, per la “vera” opinione. Il dialetto è sostanza vitaminica, di fronte alla avitaminosi dell’accademia. La scienza, la ragion pura, la critica possono, e talora devono, usare il linguaggio tecnico. Ma la rapida pittura del dialogista, del narratore, del commediografo deve accostarsi al linguaggio del popolo vivente.40

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Le stesse motivazioni ricorrono in un’intervista successiva all’uscita del Pasticciaccio, del 1959: Nel valermi del dialetto e nel cercare le forme espressive del dialetto, per un lavoro narrativo, io ho creduto di poter attingere a una fonte d’espressione immediata, originaria e talora più efficace delle forme razionali della lingua comune, in quanto il dialetto nasce da una più spontanea e ricca inventiva, sia dell’individuo creante la lingua, sia della collettività. […] Nel caso del mio lavoro io ho subìto il fascino del romanesco, nel suo momento sorgivo, inventivo, in quanto a me non romano anche la frase consacrata in un determinato senso, appariva nel suo sorgere originario. Il fatto che io abbia usato anche il romanesco, nel mio lavoro narrativo, è da considerare come un tributo di simpatia vitale per questo valore idiomatico.41

Il concetto è poi ripreso in un’altra intervista rilasciata ad Alberto Moravia nel 1967: L’uso di un idioma composito mi è derivato dalla tema di perdere qualcosa della dovizia o dell’esattezza o del vigore espressivo delle genti parlanti, o di taluni “aspetti regionali” delle loro parlate.42

Sono motivazioni che indubbiamente hanno un peso fondamentale, però non possono esaurire la complessa eziologia della Sprachmischung gaddiana. Per cercare di vedere più a fondo sarà indispensabile preliminarmente esaminare i vari usi narrativi che del dialetto vengono fatti nel Pasticciaccio. Il dialetto viene innanzitutto impiegato come riproduzione della parlata di specifici personaggi, attraverso il discorso diretto oppure mediante forme indirette, che però del parlare diretto conservano tutte le coloriture e le movenze. E sin qui possono sembrar agire le ragioni “realistiche” di una resa immediata del colore ambientale, interpretazione che potrebbe essere avvalorata dalle stesse dichiarazioni gaddiane sopra riportate. Ma ciò che conta, e che costituisce senza dubbio il tratto più peculiare del Pasticciaccio, è che il dialetto romanesco compare per lunghi tratti anche in zone che non sono riferibili a discorsi dei personaggi. In altri termini, a usare il dialetto è la voce narrante stessa, quella che, secondo le regole tradizionali del racconto eterodiegetico, dovrebbe rispecchiare il livello culturale e linguistico dell’autore.43 40

Saggi giornali favole I , cit., p. 1144. Ho subìto il fascino del romanesco, in «Per favore…», cit., p. 69. 42 Gadda risponde a Moravia, ivi, p. 150 s. 43 Stefano Agosti parla di «dissipazione della voce narrativa, la quale, nel testo, non gode di nessuno statuto linguistico proprio, ma risulta, per così dire, alienata nella vociferazione babelica della rappresentazione» (S. Agosti, Gadda ossia Quando il linguaggio non va in vacanza. Cinque studi, Il Saggiatore, 41

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Talora, quando questa voce si inserisce fra discorsi di personaggi ben individuati, può nascere un’ambiguità, che dà luogo a difficoltà di attribuzione degli enunciati, genera cioè il dubbio su chi stia effettivamente parlando in dialetto, se il narratore o un personaggio. Ma ben più spesso ambiguità non si creano e la dizione dialettale è da attribuire senza dubbi alla sola voce del narratore eterodiegetico. È come se in questi casi prendesse la parola un ideale popolano romanesco, o, se si vuole, un coro di parlanti popolari anonimi (la «collettività fabulante»), che si assumono il ruolo di narratori e introducono nel narrato la loro peculiare maniera di vedere e interpretare i fatti, oltre che di esprimersi.44 È da escludere, ci sembra, un fenomeno di “regressione” paragonabile a quello che si verifica in Verga: l’autore dei Malavoglia usa l’artificio di una voce narrante interna al mondo popolare rappresentato (che peraltro evita rigorosamente il dialetto) per ottenere l’ “eclisse” dell’autore dal narrato, cioè la perfetta impersonalità, che deve esprimere il suo pessimismo materialistico. Ovviamente nessuna di queste motivazioni è valida per Gadda, anche se, come abbiamo sentito, lo scrittore può guardare a Verga quale modello di ricostruzione realistica di un ambiente sociale. Come ha giustamente osservato Guido Guglielmi, mentre «la scrittura naturalistica produce un effetto di impersonalità dissimulando il proprio artificio», la scrittura di Gadda «produce un effetto contrario attraverso la insistita ostentazione del proprio artificio»:45 non l’eclisse dell’autore è l’effetto delle operazioni linguistiche di Gadda, ma semmai l’urgere incalzante della sua presenza, l’ipertrofia della sua persona che conduce il gioco con sbalorditivo virtuosismo. Inoltre se Verga regredisce entro la prospettiva di un narratore popolare perché ritiene di non avere il «diritto di giudicare»,46 e di norma quella prospettiva risulta in misura più o meno accentuata inattendibile, Gadda al contrario usa proprio la voce del narratore romanesco, a suo modo molto attendibile, come strumento di un giudizio critico sulla materia narrata. Milano 2016, p. 12; corsivo dell’autore). Contesta questa affermazione Luigi Matt, secondo cui essa vale per molte pagine del romanzo, ma non per tutte (L. Matt, La «vasta caciara del sinfoniale»: il caleidoscopio delle voci nel «Pasticciaccio», in Aa. Vv., Un meraviglioso ordegno, cit., p. 241). Mauro Bignamini a sua volta distingue due voci narrative, una corrispondente all’autore e una romanesca, e individua cinque diverse tipologie nei loro rapporti (Bignamini, op. cit., pp. 83-110). 44 Sul fenomeno, si veda il persuasivo studio di E. Cane, Il discorso indiretto libero nella narrativa italiana del Novecento, Silva, Roma 1969, p. 114; cfr. inoltre Gibellini, op. cit., pp. 86-89, e Segre, Ritorno alla critica, cit., p. 70. 45 G. Guglielmi, I paradossi di Gadda, in La prosa italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1986, p. 224. Pasolini parla di «tipi d’uso dialettale di specie verghiana, implicanti cioè una regressione dell’autore nell’ambiente descritto», ma poi sottolinea la discriminante dell’oggettività perseguita da Verga (P. P. Pasolini, Il Pasticciaccio, in Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960, p. 319); un accostamento alle tecniche verghiane è proposto anche dalla Cane, ma con la sottolineatura delle cospicue differenze: mentre l’operazione in Verga è «in funzione oggettiva» e rappresenta «la compiuta adesione dello scrittore al suo mondo», Gadda resta sempre ben distinto dal suo narratore romanesco, «tant’è vero che si riserva sempre la possibilità di parlare e narrare direttamente» (Cane, op. cit., p. 103 e pp. 114 s.). 46 L’affermazione, come è noto, ricorre nella Prefazione al ciclo dei Vinti (cfr. I Malavoglia, ed. critica a cura di F. Cecco, Il Polifilo, Milano 1995, p. 5).

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Allora una chiave preziosa per capire questo comportamento così particolare è a nostro avviso da individuare nella teorizzazione gaddiana della «maccheronea» spontanea del popolo. Leggiamo nel saggio Fatto personale…o quasi, risalente al 1947, cioè proprio al periodo della nascita del Pasticciaccio, e raccolto in I viaggi la morte: La maccheronea polverizza e dissolve nel nulla ogni abuso che d’ogni modo e forma del ragionare e del dire venga fatto, per entro le parole della frode […]: la maccheronea costituisce limite, e siepe, e rete, che ricinge e assiepa e delimita l’imbecillità del concetto, e con lei quella di chi ridice, nell’ecolalia d’un ebefrenico, vane glomerazioni di parole […]. Il popolo, al ragionar che fa nelle su’ piazze e ne’ broli e nelle bettole, secerne continuamente la su’ maccheronea, come un perpetuo sudore».47

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Ancor più chiara è l’enunciazione a proposito del Belli, in un saggio del 1945: La parlata di popolo – e più che mai nel Belli – segna l’affiorare di uno spostamento spastico della conoscenza dal tritume delle correnti obbligative. […] Attinge ai limiti egualmente dolorosi ed ugualmente fecondi d’un conato di rivendicazione gnoseologica e d’un dissolvimento della inanità nella maccheronea. Gestore di quest’epos è il popolo.48

Da queste affermazioni si può dedurre che il modello prioritario a cui Gadda guarda per questa voce che, al di là dei discorsi dei personaggi, narra parlando romanesco è proprio la voce che si ascolta nei sonetti del Belli,49 per cui legittimamente quel narratore potrà definirsi “belliano”, e parimenti belliano l’uso del dialetto che a lui va attribuito. Il dialetto romanesco, che reca naturalmente con sé l’ottica beffarda e irriverente del popolo, diviene uno strumento critico capace di mettere crudelmente in luce l’irrazionalità, l’imbecillità, la frode, l’eccesso di esibizionismo narcisistico, la vuotaggine vanesia di tutto un periodo storico e di un ambiente sociale, cioè appunto opera «un dissolvimento della inanità nella maccheronea», che assume un valore di «rivendicazione gnoseologica». Infatti il filtro deformante di quest’ottica plebea esercita la sua azione in primo luogo sul duce e sul regime fascista, mettendone in evidenza gli aspetti più turpi e ripugnanti: Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, dopo un anno e mezzo de novizzio, del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno già l’occhiatacce, 47

Saggi giornali favole I, cit., p. 496. Arte del Belli, ivi, pp. 555 s. 49 Sui rapporti di Gadda con Belli cfr. Gelli, op. cit., p. 63 s., e Gibellini, op. cit., pp. 75-86; inoltre, dello stesso, Gadda e Belli, in Il coltello e la corona, Bulzoni, Roma 1979, pp. 164-181. Va precisato però che, dal punto di vista strettamente linguistico, il romanesco del Pasticciaccio non è quello dei sonetti di Belli, bensì quello del primo Novecento. A riguardo si veda L. Matt, Profilo grammaticale del romanesco di «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana», in «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», XXIV, 2010, pp. 195-232, e, dello stesso, «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana». Glossario romanesco, Aracne, Roma 2012. 48

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er vommito de li gnocchi: l’epoca de la bombetta, de le ghette color tortora stava se po dì pe conclude: co quele braccette corte corte de rospo, e queli dieci detoni che je cascaveno su li fianchi come du rampazzi de banane, come a un negro co li guanti.

La prospettiva elementare ma acuta dell’ipotetico popolano romanesco coglie, straniandolo col suo secolare disincanto, il grottesco esibizionismo dell’oratoria e della mimica del dittatore, ma anche il contrasto che si instaura tra quella rozza volgarità e l’apparato esteriore tradizionale del potere, l’abbigliamento da ministro dell’era liberale, una maschera che ben presto sarebbe stata dal duce dismessa. Tuttavia dietro l’immagine delegata del plebeo romano si profila egualmente quella dello scrittore, che, attraverso quella mediazione, ripropone la sua fondamentale visione della realtà: Mussolini, così rappresentato, si rivela affine alle figure umane ridotte a «manichini» che vengono aggredite con eguale crudeltà nella Cognizione (d’altronde, come si è verificato, sempre attraverso un filtro linguistico dialettale il duce è definito «sto Pupazzo»): quindi, mediante queste modalità di raffigurazione, appare ascritto anch’egli, implicitamente, alla categoria delle «parvenze non valide», dei falsi simulacri dietro cui c’è solo il vuoto; cioè si denuncia come oggetto «barocco», al tempo stesso risibile e oltraggiosamente ripugnante. E difatti l’ostinazione con cui il narratore si accanisce su di lui è del tutto analoga alla fissità ipnotica, tra affascinata e disgustata, con cui sono appunto contemplate le realtà «barocche» mostruosamente deformi. A riprova, nel dialogo fra Editore e Autore premesso alla Cognizione, nell’elenco degli oggetti «barocchi» figura al primo posto, come si è visto, «la grinta dello smargiasso, ancorché trombato».50 Ma il dialetto risulta anche uno strumento potente, anzi lo strumento per eccellenza di quella scepsi impietosa della ricca borghesia romana che è uno degli obiettivi del romanzo. Un significativo esempio può essere costituito dalla presentazione di Giuliano Valdarena, l’impenitente e fortunato seduttore: Lui sapeva puranche fare. Ci aveva un bindolo, uno specchietto a rota, un suo modo così naturale e così strano, ar medesimo tempo… che te le incantava co gnente. Dava a divedere de trascuralle, o di sentirsene magari annoiato: troppe, troppo facili! d’aver sottomano ben altro. Faceva er maschietto tosto, o er tu-mi-stufi, certe volte, o er superbioso: o er signorino de casa de famija scerta der generone de via de li Banchi Vecchi: o l’uomo d’affari, che nun cià tempo de stà a discorre. Siconno. Così, come je girava. Intonato ar vestito che ciaveva addosso. Come je veniva l’ispirazzione der momento. Siconno si ciaveva sigherette cor bocchino d’oro, o si nun ce l’aveva pe gnente, o si ce l’aveva appena crompe, ma nazzionale che puzzeno. Giocava a fa er cocco. Antre vorte ghiribizzoso come una banderola. Sicché allora le trascurava, ma già! le sore frasche.

50

Romanzi e racconti I, cit., p. 760.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 219

Visto dal basso, con l’occhio acuto e disincantato del popolano ideale, il giovane bellimbusto risalta in tutto il suo squallore morale e in tutta la sua vuotaggine.51 Una conferma di questa valenza assunta dal dialetto romanesco messo in bocca al narratore eterodiegetico viene dalla sua stessa distribuzione spaziale all’interno della costruzione narrativa: infatti il narratore “belliano” domina nella prima parte del romanzo, quella appunto dedicata agli ambienti borghesi, mentre si riduce al minimo nella seconda parte, dove vengono alla ribalta gli ambienti sottoproletari.52 In queste zone non si pone l’esigenza della «maccheronea», della critica corrosiva alla borghesia, e il dialetto è affidato non al narratore ma al discorso dei personaggi veri e propri, che attraverso di esso esprimono il loro essere autentico. Proseguendo però la lettura di questa pagina dedicata al ritratto di Valdarena, ci si scontra con un subitaneo, vertiginoso salto di livello, dalla maccheronea popolare al linguaggio aulico e sublime: Si concedeva dopo lungo reluttare o dopo interminato anelare e basire della vittima, strascicandone l’estuoso abbandono o sfibrandone l’indocilità renitente mediante una erogazione di pseudo-sintomi (in realtà suggerimenti) alternati a contrasto, a sì e no. M’ama nun m’ama. Te vojo nun te vojo. E comunque alle predestinate e rare, e con arcana delibera elette, si concedeva: come la Salute Eterna in Giansenio. Talora, per contro, in una repentina violenza: e nella totale concussione d’ogni verisimile. Là, proprio, dove ognuno aveva voltato altrove l’oroscopio. Zàn! Lasciandosi cadere a piombo alla maniera del nibbio sulla più contumace di tutto il gallinaio: quasi a punirla (o a rimeritarla) con quel fulgurante diavolìo: a riscattarla da una debilità recondita nel di lei essere, da una ignominia… anteriore a quella prelazione magnificatrice.

Si ha così un perfetto esempio di quell’attrito parossistico di livelli stilistici opposti che è la caratteristica saliente della scrittura del Pasticciaccio. Il problema sarà valutare senso e funzione dell’improvvisa immissione del linguaggio aulico e letterario nel contesto dialettale (con il recupero inopinato del dialetto in qualche enclave). Gadda stesso ci dà un’indicazione preziosa insistendo sulla funzione di burla che può essere assunta dal livello sublime del linguaggio: 51 Oltre a questo narratore “belliano” Luigi Matt individua altre due modalità nell’uso del romanesco non ascrivibile al punto di vista e alla voce dei personaggi: una forma di adeguamento mimetico all’orizzonte linguistico dei personaggi, un rifar loro il verso, come nella descrizione fisica di don Corpi, oppure una forma di compendio di ciò che dice o pensa una pluralità di persone, un “coro”, come nella descrizione del cadavere di Liliana, in cui paiono intrecciarsi i punti di vista di vari agenti anonimi (Matt, La «vasta caciara del sinfoniale», cit., pp. 235-237). 52 Anche Garboli osserva: «Nella prima parte del Pasticciaccio regna il gusto di far parlare il coro, una pubblica voce ideale e bassa che corre per le strade e non può essere riferita a nessuno in particolare, mentre nella seconda parte, scritta dieci anni dopo, il Narratore torna più volentieri a raccontare in terza persona» (C. Garboli, Due furti uguali e distinti, nel volume collettivo Il romanzo, vol. V, Lezioni, cit., p. 556).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

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In codesti giochi e burle ch’io dico [sta parlando degli scrittori satirici], la lingua illustre è talora adibita a predisporre l’orditura medesima della burla. È il valido liccio di fondo a cui si appoggerà l’opera: dico il disegno del simulare, o del mordere.53

È effettivamente la funzione esercitata nel passo riportato, come in molti altri analoghi: la forzatura verso l’alto del livello stilistico, attraverso la sproporzione clamorosa che si instaura con l’oggetto (ineffabile è ad esempio l’evocazione della «Salute Eterna in Giansenio» a proposito del concedersi del dongiovanni), ottiene un effetto straniante analogo, in direzione opposta, all’uso del livello basso del dialetto, diviene al pari di esso strumento di irrisione, denuncia, severa e ferma presa di distanza critica. Ma l’uso “belliano” del romanesco da parte del narratore eterodiegetico, quale «maccheronea» intesa al «dissolvimento della inanità», seppur dotato di grande rilevanza nell’economia del racconto non è esclusivo: si possono riconoscere numerosi tratti in cui l’aggressione satirica contro uno specifico oggetto non appare l’obiettivo perseguito dallo scrittore e in cui si direbbe che scatti soltanto l’impulso a rifare il verso, se così si può dire, all’ambiente rappresentato. In tali casi sembra che il dialetto usato dalla voce narrante assuma la stessa funzione posseduta dalla riproduzione del parlato di personaggi specifici, rispondendo a un intento di mimesi del colore locale. E forse davvero questo è l’intento a livello del “romanzo primo”: resta da vedere quale sia il senso di quella mimesi al livello del “romanzo secondo”. Così, al pari dell’uso del dialetto in funzione “belliana”, anche l’impiego satirico del linguaggio colto da parte della voce narrante non esaurisce l’intera gamma delle occorrenze: resta un ampio numero di casi in cui l’elevarsi del livello stilistico appare a prima vista privo di motivazioni oggettive, e quindi nasce la tentazione di vederlo come il frutto di un puro gusto del gioco verbale, di un estro bizzarro ed estemporaneo. Naturalmente è una tentazione a cui occorre resistere. In effetti, a nostro avviso, in un caso come nell’altro, per l’uso non satirico sia del dialetto sia del linguaggio aulico e iperletterario, una motivazione si può trovare sempre nell’ossessione gaddiana per il «barocco» che contamina il mondo. Il ricorrere del linguaggio dialettale, nel parlato dei personaggi come nel discorso del narratore, se si escludono i casi di uso a fini di «maccheronea» prima sottolineati, rivela certo un impulso mimetico che in partenza ha punti di contatto con una poetica naturalistica (la ricreazione di un certo colore locale), ma poi dà origine a una mimesi di tutt’altra natura, che non ha più nulla a che fare con il naturalismo ottocentesco: si tratta di una mimesi che non risponde al bisogno di una riproduzione fedele e precisa del dato oggettivo, ma ha un’eziologia tutta soggettiva, è sollecitata dall’irritazione e dall’indignazione non per un bersaglio singolarmente individuato di polemica, in questo caso, ma per la degenerazione della realtà in assoluto, scaturisce dalla volontà ostinata di rifare il verso alla realtà in quanto tale, 53

Lingua letteraria e lingua dell’ uso, raccolto in I viaggi la morte (cfr. Saggi giornali favole I, cit., p. 494).

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 221

nella sua semplice, bruta presenza, per farne emergere tutta l’intollerabile, ontologica stupidità. In questa luce sia i lunghi tratti in cui sono riprodotti in forma diretta o indiretta libera i discorsi in romanesco (o, in certi casi, in molisano o napoletano) dei personaggi borghesi e proletari, sia i passi anch’essi insistiti in cui a parlare è il narratore dialettale diciamo così “ecolalico”, se per un verso possono rispondere all’intento di riprodurre la fisionomia di un ambiente e la sua forma mentis, per un altro divengono puri “pezzi” di realtà, lacerti prelevati dal campo del fenomenico, né più né meno degli oggetti materiali su cui si fissa con accanimento maniacale lo sguardo del narratore, che lo affascinano perché «barocchi». Si tratta spesso, però, di un «barocco» un po’ particolare: in molti casi quei lacerti di realtà linguistica dialettale sono sottoposti al fuoco insistito della lente dello scrittore non tanto perché mostruosamente deformati od oscenamente repellenti, ma perché dotati di un eccesso di forza vitale. Questa forza è sì assaporata golosamente da Gadda, come si è constatato, ma proprio per il suo eccesso debordante e impudico non può che apparire al tempo stesso sospetta e inquietante, lontana da un’aurea misura, cioè appunto «barocca». Tra l’ambiente «latino», «pagano», e la sua espressione linguistica si stabilisce nell’ottica gaddiana una perfetta equivalenza: come «barocco» è l’oggetto, così lo è la sua manifestazione verbale. E in entrambi i casi scatta un atteggiamento ambivalente, fra attrazione affascinata e repulsione. Di contro a questa tendenza a immergersi nella pluralità delle realtà «barocche», che dà origine alla mimesi dialettale, permane in Gadda un bisogno disperato di ordine, di senso, di autenticità: e questo (esclusi sempre i casi di puro uso satirico contro un particolare oggetto che suscita la sua riprovazione etica o politica, come Valdarena o Mussolini) dà origine all’introduzione del livello stilistico alto. Bisogna però ancora distinguere due diverse direzioni in cui si muove questo uso del linguaggio colto. In certi casi lo stile aulico, prezioso, arcaico, poetico o tecnico-scientifico si instaura in presenza di oggetti particolarmente turpi, repellenti od osceni, come a voler prendere sdegnosamente le distanze da essi, a segnare un moto di ripulsa disgustata, oppure in qualche modo a riscattarli dalla loro degradazione, evocando al di là della loro greve, opaca materialità un’alternativa in un cosmo di ordine e di dignità, di cui la lingua illustre è come la formula magica d’accesso. È il caso della vecchia al casello di Casal Bruciato, che alla vista dei carabinieri sul luogo dove sono nascosti i gioielli rubati ha un’improvvisa evacuazione indotta dalla paura: Nel frattempo, senza darlo a divedere tuttavia, si sforzava jugular l’evento, quello, dei tre soprastanti, che più paventava e aborriva nel tormento dei visceri: con raccomandarsi di preghiera in brucio a Sant’Antonio di Padova miracolatore amorosissimo a tutti noi, anche però in una ai buoni uffici (nel trascorso di lei tempo automatici) del plesso emorroidale medio, plexus haemorroidalis medii. Pervenne infatti alla deliberata strizione dei più quotati anelli rettali, se pure estenuati da vecchiezza. Non del tutto inoperanti, per quanto via via sempre più fatiscenti negli anni, le cosiddette valvole di Houston, principe la supervalvola di Kohlrausch, né

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le semilunari di Morgagni. […] La provvidenziale carenza, sotto al cavallo della vecchia, di quel paio di correttivi tubulari della nudità che i nostri più esquisiti reporters sogliono oggi chiamare “indumenti intimi”, consentì all’evento di snocciolarsi a marciapiedi inosservato dai due Branca.

Qui il linguaggio astrusamente tecnico-scientifico assume la stessa valenza del lessico illustre e letterario, rispondendo alla volontà di straniare l’oggetto e di prendere le distanze da esso. Però, come si può constatare, queste componenti colte sortiscono un effetto ambiguo: lungi dal riscattare l’oggetto finiscono per risolversi in strumenti di quella fissazione ipnotica su di esso a cui si è già fatto riferimento, e contribuiscono quindi a dilatare mostruosamente la sua immagine, a metter ancora più in evidenza la sua turpitudine. La disgustosa consistenza del particolare posto al centro dell’attenzione non viene affatto cancellata, al contrario risulta sottolineata ed esaltata all’eccesso. Quindi, oltre a rispondere al bisogno di consentire una presa di distanza, il linguaggio “alto”, con un movimento in direzione opposta, fa sì che l’osservatore si immerga fino in fondo nella materia immonda: per questo aspetto, allora, lo stile aulico assume una valenza non molto lontana da quella del dialetto. Per altri versi, anche se non si fa satira vera e propria, è un uso che presenta una qualche affinità con quello satirico e parodico di cui si è trovata la teorizzazione nella saggistica di Gadda e la messa in pratica in pagine come quella dedicata al ritratto di Valdarena. In altri casi invece il linguaggio colto ed eletto perde il contatto immediato con la realtà, si risolve in puro slancio lirico, è solo fuga disperata verso l’altrove dei valori intatti, della bellezza, di cui la realtà presente è la vergognosa degenerazione. Questo tipo di lirismo connota soprattutto gli indugi di contemplazione paesistica. Un esempio significativo è fornito dalla descrizione dell’alba, del cielo e delle nuvole, alla partenza del brigadiere Pestalozzi da Marino: Era l’alba, e più. Le vette dell’Algido, dei Carseolani e dei Velini inopinatamante presenti, grigie. Magia repentina il Soratte, come una rocca di piombo, di cenere. Di là dai gioghi di Sabina, per bocchette e portelli che interrompessero la linea­ tura del crinale, il rivivere del cielo si palesava lontanamente in sottili strisce di porpora e più remoti ed affocati punti e splendori, di solfo giallo, di vermiglione: strane lacche: nobili riverberi, come da un crogiuolo del profondo. […] Di là, da dietro a Tivoli e a Càrsoli, flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, con falsi-fiocchi di zafferano, s’avventavano l’una dopo l’altra a battaglia, filavano gioiosamente a sfrangiarsi […]. Labili, cangevoli fuste, bordeggiavano a quota alta e irreale, in quella specie di sogno capovolto che è il nostro percepire, dopo il risveglio ad alba, bordeggiavano la scogliera cinerina delle motagne degli Equi, la nudità dealbata del Velino, antemurale della Marsica.

La tessitura preziosa del passo risulta da una varia serie di componenti: il lessico raro («affocati», «cangevoli», «cinerina», «dealbata»), lo stile nominale («Magia repentina il Soratte»), metafore e paragoni («come una rocca di piombo, di cenere», «strane

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 223

lacche», «come da un crogiuolo del profondo», «flottiglie di nubi», «arricciolate», «s’avventavano… a battaglia», «filavano gioiosamente», «cangevoli fuste», «bordeggiavano», «la scogliera cinerina delle montagne»), l’uso metonimico dell’astratto per il concreto («il rivivere del cielo», «la nudità dealbata»), l’intenso gusto coloristico («grigie», «piombo», «cenere», «porpora», «solfo giallo», «vermiglione», «zafferano», «cinerina», «dealbata»). Lo stesso nudo elenco dei nomi dei monti possiede una sua forza evocativa, e compare inoltre un termine, «sogno», che è la parola chiave di questa tendenza, costante in Gadda, a fuggire dalla realtà verso un altrove più nobile. L’impiego di addendi della miscela linguistica così lontani fra loro come il dialetto e la lingua illustre può suscitare una riflessione generale. Gadda comunque, sia quando usa il dialetto sia quando usa il linguaggio letterario o scientifico, non affronta mai direttamente l’oggetto, attraverso uno strumento linguistico perfettamente trasparente: facendo parlare il suo narratore in romanesco oppure nelle forme più elette e preziose, in fondo “cita”, fa ricorso alla “parola d’altri”. Non può mai compromettersi immediatamente con il reale, deve sempre passare attraverso una mediazione, un filtro. La parola che deve indicare le cose non può mai essere “vergine”, deve sempre essere il prodotto di un riuso. Anche la citazione è un modo di tenersi a distanza dal reale «barocco», che suscita l’invincibile repulsione dello scrittore. Quindi in fondo anche il dialetto, che sembra tradire l’impulso ad immergersi nella realtà degradata, proprio in quanto “citazione”, simmetricamente rispetto al linguaggio aulico, rivela una presa di distanza, una volontà di straniamento. Salvo poi l’instaurarsi della sperimentata ambiguità, per cui gli strumenti prescelti per distanziare si risolvono in un’immersione ancora più totale nella marea montante delle «non-forme».

2.4. Il gioco metaforico Alla reazione nei confronti del «barocco» che si annida nel reale si può far risalire parimenti il pirotecnico gioco di metafore e di paragoni che deflagra continuamente nelle pagine del Pasticciaccio (come di altre opere gaddiane, si è visto, ma qui in misura più esasperata). Anche queste figure retoriche, in quanto sostituiscono l’oggetto proprio con altre immagini, si direbbe rispondano al bisogno di redimere le cose dalla loro degenerazione, o almeno, se il riscatto è impossibile, alla volontà di occultare la loro ripugnante e offensiva presenza, travestendole in infiniti altri aspetti da esse lontanissimi, impensati, attraverso una sorta di shock, di sorpresa che dovrebbe renderle irriconoscibili, o addirittura cancellarne la presenza. Un esempio mirabile è il gioco che si instaura intorno alla defecazione della gallina guercia: Una volta a terra, e dopo un ulteriore co co co co non si capì bene se di corruccio immedicabile o di raggiunta pace, d’amistà, la si piazzò a gambe ferme davanti le scarpe dell’allibito brigadiere, volgendogli il poco bersagliresco pennacchietto della coda: levò il radicale del medesimo, scoperchiò il boccon del prete in bellezza: diaframmò al minimo, a tutta apertura invero, la rosa rosata dello sfinctere, e plof! la fece subito la cacca […]: un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini come

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i grumi di solfo colloide delle acque àlbule: e in vetta in vetta uno scaracchietto di calce allo stato colloidale pure isso, una crema chiara chiara, di latte pastorizzato pallido, come già allora usava. Di tutta quell’aerodinamica, naturalmente, e del conseguente sgancio del gianduiotto, o boero che fosse, la Zamira ne profittò pe non risponne.

Gadda si fissa con tanto abnorme intensità su questo oggetto perché per lui è un perfetto esempio di realtà «barocca»: la gallina guercia si carica di un valore emblematico, diviene il simbolo della deformazione del reale, della sua ontologica stupidità, della sua mancanza irrimediabile di senso e di dignità, della sua materialità turpe e disgustosa. Non è un caso che l’obiettivo principale della fissazione sia la defecazione dell’animale: l’escremento, si sa, è un motivo che torna ossessivamente nelle pagine di Gadda, a rappresentare la degradazione estrema della realtà, il suo allontanarsi dai modelli ideali. Proprio per questo l’oggetto immondo è costretto a passare attraverso un caleidoscopio abbagliante di trasformazioni, percorrendo i campi più diversi del reale: quello militare (il pennacchietto «poco bersaglieresco», «aerodinamica», «sgancio»), quello scientifico-tecnologico («radicale», «diaframmò al minimo», «i grumi di solfo colloide delle acque àlbule», «allo stato colloidale»), quello vegetale («rosa rosata»), quello gastronomico («boccon del prete», «cioccolatinone», «crema chiara chiara», «latte pastorizzato pallido», «gianduiotto», «boero»), quello artistico («intorcolato alla Borromini»). Però anche in questo caso, come si vede, proprio il travestimento contribuisce a fissare sull’oggetto la lente implacabile del narratore e finisce così per potenziare al massimo grado la turpe consistenza del particolare isolato, per dilatarne a proporzioni abnormi l’immagine. In tale direzione è esemplare anche il passo sulla frusta retta dalla «dieci dita incavagnate» del barrocciaio, a cui abbiamo già dedicato attenzione per altri motivi: il banale oggetto originario, sotto il fuoco dell’attenzione del narratore e preso nel vortice metamorfico delle metafore e dei paragoni, si trasforma via via in «stelo di bandiera» inserito nel «suo bicchiere, a un balcone», nella «tacita canna del pescatore sopra il silenzio del lago», in un «fusto faunesco che a mano a mano si fosse allungato in pieghevole vermena, e in un sottile ricadente sverzino», in un «dispositivo brevettato», in un «personale organo, antenna o canna», «attributo disgiuntivo» del barrocciaio, che di conseguenza si trasforma a sua volta in «radioamatore-pescatore». Al di là del tentativo di mascherare il «barocco», il risultato ultimo di questa pioggia metaforica è l’imporsi dell’immagine di una rete di infinite relazioni di tutto con tutto, di quel «groviglio» e «garbuglio» che per Gadda costituisce la realtà. Infatti, poiché esempi del genere si moltiplicano come prodotti da una fonte inesauribile, il continuo gioco metaforico rende l’idea di un reale multiforme e caotico, in perenne metamorfosi, in cui le varie forme trapassano incessantemente le une nelle altre, in una ridda vertiginosa che lascia smarriti: oltre a mettere in evidenza la degenerazione «barocca» delle cose restituisce quindi, con angosciosa urgenza, il senso del «pasticcio», l’immagine di un mondo labirintico, proliferante all’infinito, in cui è impossibile ripristinare un ordine e un senso.

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2.5. Il «barocco» e la «grama sostanza» Se, come ci sembra emergere con evidenza dagli esempi addotti, il pastiche gaddiano nasce, oltre che dalla esplorazione della pluralità relazionale del dato, anche dalla percezione del «barocco» che è nella realtà oggettiva, si apre un problema: poiché Gadda nega la sostanzialità delle cose e per lui ogni aspetto fenomenico è un grumo di relazioni inserito in una coinvoluzione infinita di sistemi, come può, accanendosi contro il «barocco» inteso quale «passo falso» e «deviazione», deprecare che le cose si allontanino dalle forme perfette a cui tendono nei loro «tentativi di costruzione» la natura (o la storia, che ne è per lui l’equivalente)? La risposta può essere questa: è vero che Gadda contesta teoreticamente la sostanzialità degli oggetti e la possibilità di una totalità conclusa, cogliendo l’instabilità e l’apertura precaria del reale, però, una volta stabilito che così è la realtà, non si appaga affatto della conclusione, ne prova anzi angoscia e dolore, vorrebbe che la realtà fosse diversa. C’è in lui una nostalgia disperata di un ordine armonico del cosmo, in cui tutto raggiunga una compiutezza, trovi collocazione e senso. In un mondo plurirelazionale, fatto di un’infinità aperta di sistemi che si implicano fra loro, pur da lui lucidamente definito, Gadda non si colloca affatto in modo pacificato, con una serena, o stoica, accettazione della sua datità: sogna invece forme concluse, perfette, stabili, inserite in un ordine organico, nel disegno di un kósmos superiore.54 Pur avendo perfetta consapevolezza dell’impossibilità di «chiudere il sistema», di «mettere in ordine il mondo», e della follia di presumerlo, prova uno struggente bisogno di quella chiusura, di una totalità. Cogliendo l’instabilità del reale, sente la necessità di fondamenti ultimi, di sostanzialità. La sua scrittura, sia nella componente bassa con cui aggredisce il reale, sia in quella alta con cui tenta di riscattarlo o di fuggire da esso, nasce dallo scontro con un mondo infinitamente aperto e mobile, caotico e labirintico, e dal «dolore» dell’impossibilità di un ordine e di una totalità definita. Dallo stesso scontro derivano parimenti sia la disgregazione delle strutture narrative sia l’aspirazione al romanzo come organismo perfettamente strutturato, armonico e compiuto, che a sua volta origina il tentativo di ricupero delle forme tradizionali di racconto. Ma anche l’ordine romanzesco, simbolico, è impraticabile, anche in quella sfera agiscono le stesse spinte disgregatrici, e l’impresa è fallimentare in partenza. C’è dunque un legame di fondo tra la «grama sostanza», il dissolversi delle cose nelle loro plurime relazioni, e il «barocco»: la deformità «barocca » delle cose non è che un modo di manifestarsi della loro intrinseca incompiutezza, della loro mancanza di sostanzialità; e la reazione sdegnata e irritata dello scrittore di fronte ad 54 Questa nostalgia è puntualizzata anche da Alba Andreini: «In principio per Gadda c’era l’ordine […]. Il pasticcio attuale […] si capisce solo sullo sfondo di vera, primigenia, armonia da cui si distacca. Di quell’ordine corrotto si può avere ora soltanto nostalgia» (cfr. Andreini, Storia interna del «Pasticciaccio», in Studi e testi gaddiani, cit., p. 100).

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

esso implica sempre la nostalgia di quella sostanzialità e di quella compiutezza impossibili. Ne deriva una conclusione di grande rilievo: la mescolanza di voci e di livelli stilistici, la dissoluzione centrifuga della struttura narrativa, il vortice metamorfico, se nascono anche dalla percezione del «barocco», non sono solo l’equivalente formale di una fredda, asettica indagine filosofica, ma l’espressione esasperata di un conflitto con la realtà oggettiva che coinvolge sia l’intelligenza teoretica sia gli impulsi più profondi dell’essere. Nell’accanimento contro il «barocco», infatti, è da scorgere non solo l’effetto di una teoria ma appaiono evidenti anche reazioni umorali, viscerali, di ripugnanza ossessiva, maniacale verso la molteplicità di aspetti opachi e disgustosi del mondo fenomenico, ripugnanza che ha le radici nel nodo di nevrosi dello scrittore, nel suo rapporto traumatico e doloroso con il reale in tutte le sue forme. In Gadda vi sono certo una lucida consapevolezza teoretica e uno strenuo impegno di riflessione filosofica, che nutrono la scrittura, però non si può negare che l’impossibilità di una sintesi ordinata dei dati reali e di una conseguente armonica costruzione romanzesca scaturisca anche dal «male oscuro» dello scrittore, che è alla base della componente ossessiva dei fenomeni più caratteristici della sua prosa. Il fatto è che quel male costituisce una fonte straordinaria di ispirazione artistica, capace di suggerire tutto un modo di vedere la realtà e, al momento dell’elaborazione letteraria, di deformarne i dati secondo estri, umori, furori, dando vita a immagini, procedimenti narrativi, soluzioni stilistiche. Un’interpretazione dell’opera gaddiana che puntasse solo sulla consapevolezza concettuale e filosofica dell’autore per spiegare la fisionomia unica della sua scrittura (come avviene talora nelle indagini critiche) peccherebbe di eccessiva razionalizzazione e quindi rischierebbe di restituire un’immagine parziale di Gadda, mortificando la forza feconda dei suoi conflitti. La sistemazione teoretica, razionale, e la spinta che sorge dai grovigli interiori, attraverso il processo della scrittura letteraria che traduce tutti quei materiali grezzi in forma, si fondono sempre indissolubilmente, con un effetto di potenziamento e di arricchimento reciproci. In questo senso, senza cadere in rozzi determinismi positivistici e lombrosiani, si può dire che, insieme alla tensione conoscitiva, la nevrosi sia la “musa” di Gadda (lo aveva già colto perfettamente Contini sin dal ’34, recensendo Il castello di Udine, nel sottolineare «quanto di risentimento, di passione e di nevrastenia covi dietro al fatto del pastiche»).55

2.6. Il Pasticciaccio, la Cognizione e il «mare dell’oggettività» Anche nell’altro grande capolavoro di Gadda, La cognizione del dolore, si possono riscontrare impulsi centrifughi, fissazioni ipnotiche su singoli particolari inessenziali e vortici metamorfici, però, al di là della marea del «pasticcio», che anche in quel romanzo suggerisce una visione caotica, frammentata, labirintica del reale, 55

G. Contini, Primo approccio al castello di Udine, ora in Esercizî di lettura, Einaudi, Torino 1982, p. 151.

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 227

si colloca un punto di osservazione privilegiato, un centro unificante: il «dolore» dell’eroe, il quale, per quanto straniato e problematizzato, si propone pur sempre come depositario della coscienza critica e dei valori di fronte a un mondo degradato e turpe. Si è visto che la prospettiva di don Gonzalo si afferma sistematicamente al centro di tutte e tre le parti che compongono il romanzo, ergendosi in un rapporto radicalmente oppositivo nei confronti del «fenomènico mondo». Anche se il tragico e l’eroico si fondono fatalmente col comico, il «dolore» di Gonzalo si offre comunque come alternativa giudicante a ciò che è dato e quindi come struttura portante, come modulo d’ordine della materia frammentata e caotica del romanzo. Dal disordine affiora una possibilità di ordine, seppur sempre insidiata dall’urgere delle forze disgregatrici. Nel Pasticciaccio, al contrario, non vi è nessuna coscienza che si ponga come centro unificante della struttura romanzesca e come alternativa al caos. Non assurge a una funzione paragonabile a quella di don Gonzalo il commissario Ingravallo, per quanto sia “filosofo” e portavoce dell’autore stesso, enunciatore, sulla soglia del romanzo, della teoria del «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero», della «molteplicità di causali convergenti» che contribuiscono a determinare le «inopinate catastrofi», e per quanto sia poi ancora, nel corso della narrazione, autore di altri importanti interventi riflessivi. Un ruolo di centro focale del racconto sembra essergli assegnato all’inizio, nella sequenza del pranzo in casa Balducci, che è tutta presentata attraverso il suo punto di vista, ma già le indagini successive sul furto dei gioielli vedono compromessa questa rigorosa centralità focale, e più ancora la compromettono i lunghi interrogatori riguardanti l’assassinio, dove dominano i discorsi di altri personaggi, Valdarena, Balducci, don Corpi, Ines Cionini. Nel seguito del racconto Ingravallo compare poi alquanto marginalmente, come osservatore e testimone più che come protagonista, e spesso come personaggio oggetto da parte dell’osservazione del narratore eterodiegetico, non come personaggio soggetto, centro focale e fonte di provenienza della visione (si ricordi ad esempio la lunga sequenza dedicata al suo risveglio, al capitolo decimo, dove i suoi soli gesti sono posti sotto il fuoco di un’osservazione minuziosissima), per scomparire del tutto nei capitoli ottavo e nono, dedicati alle indagini dei carabinieri ai Due Santi e a Casal Bruciato. Per contro viene alla ribalta una folla di personaggi delle più varie classi sociali, e di conseguenza si inserisce nel narrato una babele di voci e di punti di vista disparati. Se manca un personaggio focalizzatore centrale, non vi è neppure un narratore onnisciente che possa costituire un punto di riferimento stabile, orientando in modo sistematico e coerente la prospettiva sulla materia narrata: si tratta al contrario di un narratore camaleontico, proteiforme, che muta continuamente fisionomia, presentandosi effettivamente, in qualche caso, come onnisciente, “manzoniano”, ma più spesso, lo si è visto, come voce plebea, dal basso, o come voce lirica e aulica, con continue mescolanze e sovrapposizioni o improvvisi spiazza-

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LA «BAROCCAGGINE» DEL MONDO

menti e trapassi;56 non solo, ma un simile narratore, con le sue bizzarre digressioni, lungi dal costituire un fattore aggregante e unificante è all’origine delle deviazioni centrifughe che dissolvono l’organicità del racconto. Lo stesso narratore, quindi, reca in sé le caratteristiche del «pasticcio», invece di erigere un argine contro di esso. Il «pasticcio» della realtà fenomenica domina incontrastato e viene ad occupare tutto il quadro. Non sembra esservi posto per una coscienza che assuma sistematicamente un compito unificatore e concentri in sé le linee divergenti di un mondo il cui ordine e il cui senso si sono dissolti. In questo si potrebbe scorgere un attenuarsi della coscienza critica dello scrittore, del suo atteggiamento antagonistico contro il caos del reale, e l’affermarsi di una stanchezza più rassegnata, frutto delle traumatiche esperienze della guerra e dell’immediato dopoguerra, di cui resta traccia nelle confessioni affidate all’epistolario. Per questa ragione il Pasticciaccio, se da un lato, portando più avanti rispetto alla Cognizione il processo di disgregazione delle strutture romanzesche tradizionali, può apparire maggiormente in linea con le tendenze dell’avanguardia novecentesca e presentarsi come un “antiromanzo”,57 dall’altro reca in sé anche il rischio di una resa al «pasticcio», di un perdersi della coscienza giudicante nel «mare dell’oggettività» (per usare l’espressione di Calvino, che tra l’altro è riferita anche al Pasticciaccio58), come segno della reificazione trionfante nell’autunno della modernità, come effetto di un’aderenza immediata, non criticamente riscattata, alla pluralità indifferenziata dei fenomeni nel loro bruto essere dati. 56 Su questo aspetto offre puntuali osservazioni la Benedetti, Una trappola di parole, cit., pp. 73 ss. Anche l’organizzazione dello spazio narrativo va nella stessa direzione. Come ha osservato Federico Bertoni, la scenografia della Cognizione è «monocentrica, irresistibilmente statica e centripeta», mentre l’ambientazione del Pasticciaccio è «estesa, diffusa, dinamica, centrifuga […]: tutto sembra ampliarsi, ramificarsi, intrecciarsi: tutto lo spazio romanzesco tende a configurare una planimetria espansiva, senza un unico centro» (Bertoni, La verità sospetta, cit., pp. 264 s.). Si può ancora osservare che la Cognizione ha al centro lo spazio interiore del soggetto, del «dolore» (si ricordi che Gonzalo identifica l’interno della villa con la sua «anima»), mentre nel Pasticciaccio trionfa lo spazio esterno, quello del «pasticcio». 57 In realtà Gadda è lontano dalla poetica e dalle soluzioni dell’avanguardia storica e tanto più della neoavanguardia. Si usa perciò il termine “antiromanzo”, tra virgolette, solo nel senso di una narrazione che viola radicalmente le convenzioni di una tradizione romanzesca, in questo caso il romanzo “ben fatto” ottocentesco. Come scrive Lugnani, Gadda «deprime o comprime un certo tipo di narratività (ad esempio quella tradizionale del romanzo realistico o del romanzo pseudoautobiografico) a tutto vantaggio d’un altro tipo di narratività, che peraltro non è neppure quella dell’anti-romanzo o dello sperimentalismo», ed «è giocata sul continuum d’una affabulazione narrativa e discorsiva multiplanare e plurivoca» (Lugnani, «Pezzi di bravura» e discorsività narrativa , cit., p. 45). È Gadda stesso a segnare esplicitamente la distanza che separa il Pasticciaccio ad esempio da Joyce, rispondendo in un’intervista a una domanda sui critici che hanno stabilito un parallelo con l’autore dell’Ulysses: «Non ho inteso di ambire ad esperimenti intellettualistici e disperati come il nome di Joyce può far pensare», e prosegue affermando di aver creduto di portare avanti un lavoro «che Verga ha fatto per la Sicilia usando il dialetto» (intervista al «Corriere d’Informazione» del 13-14 dicembre 1957, in «Per favore, mi lasci nell’ombra», cit., p. 50). 58 I. Calvino, Il mare dell’oggettività, in «Il menabò», 1960, n. 2 (poi in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 44 s.).

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IL PASTICCIACCIO: «BAROCCO», ROMANZO PRIMO E ROMANZO SECONDO 229

Tuttavia questo rischio, pur essendo maggiore che nella Cognizione, dove la centralità della soggettività giudicante dell’eroe e l’opposizione che si instaura tra essa e le presenze del «pasticcio» garantiscono alla narrazione una forte problematicità nel rapporto col mondo, è egualmente evitato da Gadda nel Pasticciaccio (come già osservava appunto Calvino).59 Il pericolo di perdersi totalmente nel «mare dell’oggettività», di appiattirsi sulla riproduzione della reificazione oggettiva, è scongiurato dal «dolore», anche se in forma indiretta e implicita: infatti l’ esplorazione del «pasticcio» reca pur sempre visibile in sé, nella violenta deformazione che la caratterizza, l’impronta del «dolore» che presiede all’avventura entro il mondo delle «non-forme»; proprio il pastiche testimonia la presenza di una coscienza critica che resta irriducibile alla datità del reale e fa riferimento a un cosmo di valori puri, di verità fondamentali, da contrapporre al caos della realtà fenomenica. La coscienza giudicante non è tematizzata, offerta in atto nel campo del romanzo attraverso un personaggio, come nella Cognizione, ma è implicita nell’occhio che contempla la materia narrata, nella voce narrante che rovescia su di essa tutti gli acidi corrosivi del suo linguaggio.60 «Pasticcio» e «dolore», come avvertono i titoli dei due capolavori di Gadda, sono due direttrici costantemente presenti nella sua opera. Non solo: se gli oggetti «barocchi» su cui si accanisce l’attenzione del narratore sono irrimediabilmente “comici”, questa comicità è profondamente intrisa di sofferenza, ha dietro di sé sempre la reazione esasperata di chi osserva il caos insensato del mondo. Perciò benché, a differenza della Cognizione, nemmeno il tragico sia tematizzato direttamente nella compagine narrativa in una figura patagonabile a quella di Gonzalo, anche nel Pasticciaccio si può riconoscere la fusione di tragico e di comico che è la cifra caratterizzante della scrittura gaddiana.

59 «Roma, vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte, civiltà, sozzure, magnificenze, non è mai stata così totalmente Roma come nel Pasticciaccio di Gadda, dove la coscienza razionalizzatrice e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora. Ma da questo sprofondamento dell’autore e del lettore nel ribollire della materia narrata nasce un senso di sgomento: e questo sgomento è il punto di partenza di un giudizio, il lettore può in grazia d’esso fare un passo in là, riacquistare il distacco storico, dichiararsi diverso e distinto dalla materia in ebollizione» (ibidem). 60 Benché convinti di una sostanziale differenza tra la Cognizione e il Pasticciaccio, riteniamo eccessiva la dicotomia proposta da Rinaldo Rinaldi, che per il primo romanzo parla di «scrittura di profondità», sorretta da una rigorosa ansia di conoscenza (e fin qui siamo perfettamente d’accordo), mentre nel secondo scorge una «scrittura di superficie», segnata da un più gratuito divertimento linguistico, da una «pura meccanica combinatoria», in cui «si stempera l’originario impegno etico e gnoseologico» (R. Rinaldi, Il romanzo come deformazione (autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, Arbasino, Mursia, Milano 1985, segnatamente le pp. 257-261; ma queste tesi erano già presenti nel primo studio gaddiano del critico, La paralisi e lo spostamento, cit., pp. 133-140). Per una critica alle posizioni di Rinaldi cfr. Botti, op. cit., pp. 126 ss. Giustamente, a nostro avviso, Botti osserva che quello gaddiano è «un gioco disperato», che «si colora, quando non ne sia visibilmente esagitato, dell’incandescenza sottintesa del dolore. Acquista senso come riverbero necessario di una zona accerchiante di orrori sofferti, arabesco flamboyant che lussureggia contro uno sfondo di tenebre» (ivi, p. 131).

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INDICE DEI NOMI* Agosti S., 215, 216 Amalfitano P., 207 Amigoni F., 204, 211 Andreini A., 4, 5, 28, 199, 225 Andreoli A., 5 Ariosto L., 137 Aristotele, 109, 183 Asor Rosa A., 30, 79 Auerbach E., 7, 204 Bacchelli R., 27, 29 Bachtin M., 206, 207 Baldi G., 7, 12, 122, 184, 187 Baldi V., 149 Balzac H. de, 6, 10, 20, 204, 206 Bárberi Squarotti G., 1, 161, 181 Beach J. W., 8 Beccaria C., 48 Belli G. G., 147, 217 Benedetti C., 182, 201, 207, 208, 228 Benjamin W., 205 Bersani M., 32 Bertone M., 28, 30, 31, 32, 182 Bertoni F., 162, 183, 228 Betti U., 23, 28, 30 Bignamini M., 114, 214, 216 Birtolon A., 214 Bonaparte N., 209 Bonifacino G., 203 Bonomi I., 44 Bontempelli M., 8 Booth W., 14

Borgese G. A., 7, 109 Borgia R., 182 Botti F. P., 189, 193, 229 Bourget P., 111, 112, 191, 204 Calvino I., 228, 229 Cane E., 216 Capuana L., 7 Caravaggio (Merisi M.), 44, 197 Carducci G., 109 Carlino M., 13, 43 Cases C., 42, 196 Cataldi P., 29 Cattaneo G., 147 Cavallini G., 214 Cavour C., 24 Cecchi E., 148 Cecco F., 216 Cenati G., 128 Cervantes M., 182 Citati P., 210 Coletti V., 207 Conan Doyle A., 191 Contini G., 2, 140, 155, 181, 226 D’Annunzio G., 7, 8, 20, 22, 30, 36, 37, 38, 47, 49, 50, 51, 54, 101, 214 Dante, 9, 39 De Amicis E., 56 De Bono E., 28 Deledda G., 7 De Matteis C., 53, 60, 164, 182, 214

* Per venire incontro alle esigenze dei lettori, si riportano non solo le pagine in cui è indicato in modo esplicito un nome, ma anche quelle in cui risulta evidente un riferimento ad esso, ad esempio attraverso una perifrasi o la citazione dell’opera di un autore.

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INDICE DEI NOMI

De Roberto F., 7, 16 Dickens Ch., 9, 206 Dolfi A., 162 Dombroski R. S., 28, 31, 152, 162, 182 Donnarumma R., 14, 15, 19, 31, 98, 111, 127, 128, 129, 130, 135, 140, 175, 183, 204, 208 Dossi C., 134 Dostoevskij F., 20, 112

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Eliot Th. S., 168 Eschilo, 182, 183 Fagioli C., 209 Falqui E., 31, 50 Ferretti G. C., 159 Flaubert G., 7, 15, 52, 57, 59, 73, 85, 88, 101, 107, 201, 204 Fogazzaro A., 7, 20, 101 Forster E. M., 8 Fratnik M., 214 Gadda Conti P., 32, 33, 34, 76, 84 Garboli C., 219 Gaspari G., 25 Gavazzeni F., 25 Gelli P., 214, 217 Genette G., 7 Getto G., 1 Gibellini P., 214, 216, 217 Gioanola E., 81, 162, 197 Giolitti G., 22 Girolami P., 162 Godioli A., 83, 109, 110 Gramsci A., 53 Grande M., 87, 99 Greco L., 28 Grignani M. A., 15 Grosz G., 168 Guglielmi G., 5, 6, 17, 216 Guglielminetti M., 4, 5 Isella D., 2, 5, 6, 17, 18, 19, 20, 21, 25, 33, 50, 69, 71, 76, 104, 127, 144, 187 Italia P., 4, 5, 20, 29, 66, 78, 147, 151, 209 James H., 2, 7, 15 Jean Paul (Richter J. P.), 134 Joyce J., 8, 136, 193, 228

Lawrence D. H., 147 Leibniz G. W.,11 Leri C., 19 Leucadi G., 157, 185 Longanesi L., 33 Longo F., 208 Lorenzini N., 47, 50, 179 Lotman Ju., 148 Lo Vecchio Musti M., 135 Lubbock P., 8, 15 Lucchini G., 22, 24, 34, 153, 204 Lugnani L., 182, 207, 228 Luperini R., 28, 87, 162, 169, 184, 188 Manganaro J.-P., 6, 14, 164 Manzoni A., 6, 9, 10, 11, 14, 15, 19, 149, 191, 192, 204 Manzotti E., 22, 30, 148, 151, 153, 161, 162 169, 173, 188, 189, 209 Maraini D., 27, 30, 31 Marcenaro G., 32 Marinetto P., 214 Martignoni C., 2, 20, 24, 145 Mastropasqua A., 13, 32, 50 Matt L., 214, 216, 217, 219 Mattesini F., 19 Maxia S., 7, 15, 16, 193 Medici L. de, 120 Mengaldo P. V., 207 Mileschi Ch., 6, 17, 42 Molière (Poquelin J.-B.), 182 Moravia A., 193, 215 Mussolini A., 28 Mussolini B., 21, 28, 29, 30, 31, 34, 35, 50, 201, 202, 209, 217, 218, 221 Muzzioli F., 13 Nava G., 119 Nenni P., 53 Nietzsche F., 44, 47 Novello N., 35 Orazio, 119 Orlando L., 2 Orlando V. E., 55 Palmieri N., 16 Panzini A., 9

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INDICE DEI NOMI 233

Pareto V., 9, 21 Parini G., 121 Pascoli G., 119, 161 Pasolini P. P., 216 Patrizi G., 81, 147, 157 Pecoraro A., 19, 149 Pietropaoli A., 193 Pinotti G., 5, 21, 25, 29, 66, 78, 114, 147, 151 Pirandello L., 7, 8, 122, 129, 134, 135, 144, 183 Poliziano A., 120 Ponzi M., 205 Porta C., 175 Proust M., 8

Stellardi G., 32, 62, 188 Stendhal (Beyle H.), 6, 20, 37, 204 Sterne L., 134 Stracuzzi R., 35 Svevo I., 7, 8, 16, 122, 183 Szondi P., 183

Rabelais F., 62 Ravazzoli F., 15 Rinaldi R., 114, 162, 229 Rodocanachi L., 32 Rodondi R., 21, 22 Rojas F. de, 197 Roscioni G. C., 1, 17, 31, 180, 208 Rousset J., 7 Rovani G., 134

Ungarelli G., 23 Uspenskij B., 148

Salvemini G., 53 Sanguineti E., 1 Savettieri C., 4, 15, 19, 20, 29, 30, 61, 98, 110, 129, 131, 135, 140, 170, 173, 182, 183, 188, 208 Segre C., 15, 205, 206, 207, 216 Shakespeare W., 9, 11, 170, 182 Silvestri A., 5

Tacito, 34 Tasca A., 53 Tecchi B., 111 Terzoli M. A., 20, 25, 183 Tozzi F., 7, 8 Turati F., 53 Turolo A., 214

Vela C., 5, 25, 27, 114, 151, 209 Verga G., 7, 193, 201, 216, 228 Veronese C., 183 Vigolo G., 147 Villon F., 187 Vitale V., 183 Vittorini F., 16 Wieser D., 162 Woolf V., 162 Zola É., 6, 10, 15, 20, 98, 192, 193, 194, 201, 206, 213, 214 Zollino A., 22, 30 Zweig S., 213

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Critica e letteratura

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Collana diretta da Laura Di Michele

 1. N. Merola, N. Ordine (a cura di), La novella e il comico. Da Boccaccio a Brancati   3. V. Roda, I fantasmi della ragione. Fantastico, scienza e fantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento   4. E. Giordano, Il labirinto leopardiano II. Bibliografia 1984-1990 (con una appendice 1991-1995)  5. A. M. Di Martino, “Quel divino ingegno”. Giulio Perticari: un intellettuale tra Impero e Restaurazione   6. B. Pischedda, Il feuilleton umoristico di Salvatore Farina   7. G. A. Camerino, L’invenzione poetica in Leopardi: Percorsi e forme   8. L. B. Alberti, Deifira, analisi tematica e formale a cura di A. Cecere   9. L. B. Alberti, De statua, introduzione, traduzione e note a cura di M. Spinetti 10. M. Lessona Fasano, Le ragioni della letteratura. Scrittori lettori, critici 11. D. Della Terza, M. D’Ambrosio, G. Scognamiglio, Tradizione e innovazione. Studi su De Sanctis, Croce e Pirandello 12. G. Ferroni, Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro 13. M. D’Ambrosio, Futurismo e altre avanguardie 14. F. Minetti, Voce lirica e sguardo teatrale nel sonetto shakespeariano 15. A. M. Pedullà, Il romanzo barocco ed altri scritti 16. V. Sperti, Écriture et mémoire. Le Labyrinthe du monde de Marguerite Yourcenar 17. G. Cacciavillani, La malinconia di Baudelaire 18. M. M. Parlati, Infezione dell’arte e paralisi della memoria nelle tragedie di John Webster 19. L. Di Michele (a cura di), Tragiche risonanze shakespeariane 20. E. Ajello, Ad una certa distanza. Sui luoghi della letterarietà 21. P. Pelosi, Guido Guinizelli: Stilnovo inquieto 22. M. Del Sapio Garbero (a cura di), Trame parentali/trame letterarie 23. E. Giordano, Le vie dorate e gli orti. Studi leopardiani 24. G. Pagliano (a cura di), Tracce d’infanzia nella letteratura italiana fra Ottocento e Novecento 25. M. Dondero, Leopardi e gli italiani. Ricerche sul «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani» 26. F. Fiorentino, G. Stocker (a cura di), Letteratura svizzero-tedesca contemporanea 27. A. R. Pupino, La maschera e il nome. Interventi su Pirandello 28. R. Mallardi, Lewis Carroll scrittore-fotografo vittoriano. Le voci del profondo e l’«inconscio ottico»

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29. V. Gatto, Benvenuto Cellini. La protesta di un irregolare 30. L. Strappini (a cura di), I luoghi dell’immaginario barocco 31. V. Sperti, La parola esautorata. Figure dittatoriali nel romanzo africano francofono 32. P. Pelosi, Principi di teoria della letteratura 33. S. Cigliana, Futurismo esoterico. Contributi per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento 34. G. A. Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa 35. AA.VV., La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palemo. Volume I: L’Ottocento 36. L. Di Michele, L. Gaffuri, M. Nacci (a cura di), Interpretare la differenza. 37. E. Ettorre, R. Gasparro, G. Micks (a cura di), Il corpo del mostro. Metamorfosi letterarie tra classicismo e modernità 38. T. Iermano, Esploratori delle nuove Italie. Identità regionali e spazio narrativo nella letteratura del secondo Ottocento 39. M. Savini (a cura di), Presenze femminili tra Ottocento e Novecento: abilità e saperi 40. A. M. Pedullà (a cura di), Nel labirinto. Studi comparati sul romanzo barocco 41. AA.VV., La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo. Volume II: Il Novecento 42. E. Salibra, Voci in fuga. Poeti italiani del primo Novecento 43. E. Rao, Heart of a Stranger. Contemporary Women Writers, and the Metaphor of Exile 44. E. Candela (a cura di), Letteratura e cultura a Napoli tra Otto e Novecento 46. G. Baldi, Narratologia e critica. Teoria ed esperimenti di lettura da Manzoni a Gadda 47. R. Mullini, R. Zacchi, Introduzione allo studio del teatro inglese 48. C. De Matteis, Filologia e critica in Italia fra Otto e Novecento 49. G. Pagliano (a cura di), Presenze femminili nel Novecento italiano. Letteratura, teatro, cinema 50. T. Iermano, Raccontare il reale. Cronache, viaggi e memorie nell’Italia dell’OttoNovecento 51. S. Baiesi, Pioniere in Australia. Diari, lettere e memoriali del periodo coloniale 17701850 52. M. Freschi, L’utopia nel Settecento tedesco 53. V. Intonti (a cura di), Forme del tragicomico nel teatro tardo elisabettiano e giacomiano 54. A. R. Pupino (a cura di), D’Annunzio a Napoli 55. S. Caporaletti, Nel labirinto del testo. “The Signalman” di Charles Dickens e “The Phantom ’Rickshaw” di Rudyard Kipling 56. D. Monda, Amore e altri despoti. Figure, temi e problemi nella civiltà letteraria europea dal Rinascimento al Romanticismo 57. G. A. Camerino, La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper

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58. 59. 60. 61. 62. 63.

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64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87.

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ISSN 1972-0645

C R I T I C A

E

L E T T E R A T U R A

Le letture di Gadda si sono soprattutto con-

centrate sulla lingua, poi sul pensiero filosofico: questo volume, pur dando il necessario rilievo anche a tali aspetti, si addentra nel vivo dei romanzi gaddiani per portare alla luce le loro concrete tematiche: i traumi della guerra e del dopoguerra, i rapporti problematici col fascismo, la satira antiborghese, la celebrazione della pienezza vitale contro ogni mortificazione, il vagheggiamento dei valori del passato contro un presente ignobile, l’analisi del «dolore» del soggetto e l’esplorazione del «pasticcio» del mondo fenomenico, la fissazione irritata e affascinata sul «barocco», la fusione di tragico e di comico. Ampio spazio è riservato all’indagine sulle strutture del racconto: le tendenze digressive e centrifughe, l’intreccio babelico di voci e punti di vista, il gioco metaforico e metamorfico, che dissolvono ogni aspirazione a una costruzione organica tradizionale.

G

uido Baldi (1942) ha insegnato letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino. Si è occupato di opere narrative, di teoria narratologica, di scrittura drammatica e di didattica della letteratura. Ha pubblicato volumi su Manzoni, Rovani, Verga, d’Annunzio, Pirandello, Svevo, Gadda, oltre a saggi sugli stessi autori e su altri dell’Otto e Novecento. Le sue opere più recenti sono: Microscopie. Letture di testi narrativi, drammatici e critici dell’Otto-Novecento, Liguori, Napoli 2014, e La sfida della scuola. Crisi dell’umanesimo e tradizione del dialogo, Paravia, Torino 2016. In copertina: Bernardo Bellotto, Villa Melzi d’Eril a Gazzada, Pinacoteca di Brera

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