"L'ora e l'attimo" narra - attraverso il confronto di Vico con Platone e Kant, Hegel e Nietzsche, Ga
152 92 10MB
Italian Pages 256 [252] Year 2020
Table of contents :
Introduzione
I linguaggi della storia
Vico, Kant e la topologia
Da Hegel a Vico Un itinerario filosofico
Parlare scrivendo, cantando Con Vico e Nietzsche: alla radice del linguaggio
Le “parole reali” di Idantura
L’ermeneutica tra Vico e Gadamer
Due quadri, due teologie, due mondi Vico e Benjamin
Note e discussioni
La Nascita dell’ordine*
L’infinito e la storia*
Scrivere la storia*
Incontri
Storia – Linguaggio – Natura*
Le tre edizioni della
Intervista immaginaria a Giambattista Vico
Bibliografia e Sigle
Fonti*
Indice
Vincenzo Vitiello
L’Ora e l’attimo Confronti vichiani
Zeugma
Collana diretta da:
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 9 - Classici
Vincenzo Vitiello
L’Ora e l’attimo Confronti vichiani
Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN
© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 9 - marzo 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-069-2 ISBN – Ebook: 978-88-5529-070-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Vector infinite space background. Matrix of glowing stars with illusion of depth and perspective. Abstract cyber fiery sunrise over sea. Abstract futuristic universe on dark turquoise background © garrykillian – stock.adobe.com
9
Introduzione
ἔρχεται ὥρα καὶ νῦν ἐστιν. (Gv 4,23) ὁ καιρὸς συνεσταλμένος ἐστίν. (1Cor 7,29)
L’Ora e l’attimo racconta, attraverso il confronto di Vico con altri Filosofi, la storia inquieta di una interpretazione che nel corso degli anni ha mutato la sua iniziale prospettiva di fondo. Sino a ribaltarla1. Ho “riassunto” l’intero tracciato di questa interpretazione in fieri nei due passi dell’esergo: ὁ καιρὸς, il “tempo propizio” è il νῦν, l’attimo in cui l’orizzonte totale della storia “si apre” (ἔρχεται ὥρα) e insieme si contrae (συνεσταλμένος ἐστίν). Il “contrarsi” della ὥρα nel νῦν, dell’orizzonte nell’attimo, del Tutto nella parte, s’oppone alla tradizionale concezione della “storia”, che intende il νῦν soltanto come un “momento” nel continuum della ὥρα. Si oppone, ma non la nega: l’“attimo”, il νῦν καιρὸς, che apre l’orizzonte storico, in cui esso stesso si colloca, non sorge dal passato: è il passato che sorge dal1. Un “passaggio” importante di questa mia “storia” – svoltasi in concomitanza con l’interpretazione di Vico – è rappresentato dal libro, L’ethos della topologia. Un itinerario di pensiero (2013).
10
l’“attimo”. Il passato? L’intera storia: ogni volta l’intera storia, la ὥρα. Ogni volta che “volta” c’è: genealogia e apocalisse vanno pensate insieme. Questo νῦν è la “porta stretta” (ἡ στενή ϑύρα: Lc 13,24) – il malignus aditus, per dirla con Vico, o, con Benjamin, die kleine Pforte – del “transito” dalla mathematica della storia alla visione morale del mondo umano. Qualche parola, adesso, sulla composizione del libro. Tema centrale della Sezione I: il rapporto tra linguaggio e storia, variamente articolato secondo le diverse prospettive di analisi dettate dai singoli “confronti”. Questo spiega il frequente ritorno su alcuni passi vichiani – in particolare sulla Nota 33 al De constantia philologiae – e l’insistente richiamo al Cratilo di Platone, che è al centro dell’ultimo capitolo della prima Parte (A), dedicato al confronto tra Vico e Nietzsche, e del capitolo di apertura della seconda (B): Le “parole reali” di Idantura, nel quale si mostra il legame tra la genesi “naturale”, non intenzionale, del linguaggio e la formazione delle prime comunità umane. Di qui il passaggio – mediato dal raffronto del verare-facere vichiano col concetto di Anwendung di Hans-Georg Gadamer (capitolo II di B) – alla lettura parallela di Vico e Benjamin, il cui esito è l’inversione del rapporto tra la mathesis universalis, che definisce l’orizzonte universale della storia, l’“Ora”, e l’“attimo” della sua es-posizione, tema del capitolo I di A, Vico, Kant e la topologia. Esito già prospettato nella conclusione “apocalittica” del successivo capitolo, Da Hegel a Vico. La II e la III Sezione, dedicate al confronto con autorevoli interpreti italiani di Vico – quelli con i quali ho maggiormente discusso negli anni in cui questo libro si andava componendo –, mi hanno consentito di spiegare meglio alcuni punti problematici della mia lettura “topologica” del pensiero vichiano, e, in particolare, il “passaggio” dal primato della ὥρα a quello del
11
νῦν. Un modo, questo, per indicare i miei “debiti”, e le mie “ostinazioni”. L’intervista immaginaria, con cui si chiude il libro, è come la rappresentazione onirica di questo itinerario della memoria. Chi non “sogna” di parlare, saltando i secoli, col filosofo che a ogni incontro – diretto con i suoi testi, o anche indiretto attraverso le molte interpretazioni che ha suscitato e suscita – sempre ti inquieta col mostrarti altri possibili orizzonti di pensiero? Nel castello della memoria e della fantasia, in cui mi “fingo” che Vico abiti insieme con i Grandi d’ogni tempo, mi ha introdotto un signore carico non d’anni, ma di secoli, e di futuro, quello, soprattutto, cui non si sfugge. Il suo nome? Joseph Cartaphylus: il più vero tra i tanti che s’era scelto. Napoli, 9 settembre 2019.
I I linguaggi della storia
A Mathesis universalis e storia
17
I Vico, Kant e la topologia
1 Quale la ragione filosofica della Dipintura allegorica che Vico pose sul frontespizio della Scienza Nuova seconda? Vico stesso ce lo “spiega” nei capoversi finali dell’Idea dell’Opera, che è anche più che una semplice Introduzione: Laonde tutta l’Idea di quest’ Opera si può chiudere in questa somma. […] IL RAGGIO DEL QUALE LA DIVINA PROVVEDENZA ALLUMA IL PETTO DELLA METAFISICA, sono le dignità, le diffinizioni, e i Postulati, che questa scienza si prende per elementi di ragionar i Principi, co’ quali si stabilisce, e ’l Metodo, con cui si conduce […]. E alla finfine per restrignere l’Idea dell’Opera in una somma brievissima, TUTTA LA FIGURA rappresenta gli tre Mondi secondo l’ordine, col quale le menti umane della Gentilità da Terra si sono al Cielo levate. (SN44, pp. 814-815)
Senza tale spiegazione, il riferimento alla memoria e alla fantasia del primo capoverso dell’Introduzione riuscirebbe addirittura fuorviante, riducendo il significato della Dipintura a mero strumento o mezzo mnemotecnico. Ma anche coloro i quali ritengono di spiegare la ragione per cui Vico ha “proposto” questa introduzione pittorica, visiva, richiamandosi all’uso diffuso a quel tempo di premettere a testi letterari e filosofici dipinti
18
allegorici, ne riducono l’importanza. La ragione è filosofica e nessuna esplicazione storico-culturale può farcela comprendere, ma solo la filosofia stessa. La Dipintura rappresenta – come dicono chiarissimamente i capoversi finali citati – i due movimenti descritti e ragionati nell’opera: quello dall’alto al basso, da Dio alla metafisica, alla storia delle nazioni gentili, e l’altro contrario, dall’ingens sylva a Dio, come un unico e medesimo movimento. Perché solo per il raggio di luce divina è possibile come l’uscita dei Giganti, Gegeneîs, i figli della Terra, dalla barbarie, così il successivo svolgimento della storia. E questo significa: solo per la storia ideale eterna, per il “dovette, deve, dovrà” che la filosofia definisce e dispiega, è possibile la comprensione delle storie delle nazioni che sulla ideale ed eterna «corron’ in tempo» (SN44, p. 903). Filosofia e filologia nascono insieme, sol perché senza filosofia non vi sarebbe filologia. In tanto i reperti filologici sono tali, e non “frantumi, tronchi e slogati”, in quanto hanno l’ordine – i “luoghi” – che la filosofia ad essi assegna. Le «pruove filologiche» – dice Vico – vengon dopo le filosofiche (SN44, p. 906). E certo non perché s’aggiungano ab extra, quasi “materia” bruta che la filosofia debba mettere in “forma”. La filologia è ab initio filosofia, quantunque inconscia. Ab initio – e cioè: phýsei. La conversione del “certo” nel “vero” è possibile solo perché il “certo” è an und für sich “pars veri”, come l’“auctoritas” è “pars rationis”1. Filosofia e filologia non sono due, sono una e medesima cosa. Si distinguono (perché la loro medesimezza non esclude la distinzione) come due livelli o gradi di quell’unico che è la filosofia. La Dipintura allegorica questo porta a evidenza, a visibilità. Essa dà in senso eminente l’idea dell’opera, perché mira a far vedere l’unità dei due movi-
1. Cfr. G. Vico, De uno, capp. LXXXII-LXXXIII, p. 101, e cap. XCIV, p. 109. Sul tema cfr. infra, cap. II: Da Hegel a Vico, §§ 7-9.
19
menti, dall’alto al basso e dal basso all’alto, l’unità, cioè, di vero e certo, ragione e autorità, filosofia e filologia. Ciò che la “voce” dispiega nel tempo, il disegno raffigura nella simultaneità dello spazio. L’idea dell’opera mostra, fa vedere la Scienza Nuova per quel che è: scienza mathematica della storia. Così questa Scienza procede appunto, come la Geometria, che mentre sopra i suoi elementi il costruisce, o ’l contempla, essa stessa si faccia il Mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità, quanta più ne hanno gli ordini d’intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie, e figure: e questo istesso è argomento, che tali pruove sieno d’una spezie divina, e che debbano, o Leggitore, arrecarti un divin piacere; perocchè in Dio il conoscer, e ’l fare è una medesima cosa. (SN44, p. 904).
Sono qui necessarie due precisazioni: la mathematica della storia ha a che fare non con i numeri, le linee e la superficie – ancorché, contrariamente a quanto è passato nella vulgata vichiana, Vico da buon neo-platonico non disdegna affatto il riferimento ai numeri, anche quando parla della “realità” storica, in particolare di quella corposissima che è la “realità” politica2 –, bensì con la mathesis universalis. E questo collega
2. «Ma ci piace finalmente di dimostrare, come sopra quest’ ordine di cose umane civili corpolento e composto vi convenga l’ordine de’ numeri, che sono cose astratte, e purissime. Incominciarono i Governi dall’Uno con le Monarchie Famigliari; indi passarono a’ Pochi con l’Aristocrazie Eroiche; s’inoltrarono ai Molti, e Tutti nelle Repubbliche popolari, nelle quali o tutti, o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all’Uno nelle Monarchie Civili: nè nella natura de’ numeri si può intendere divisione più adeguata, nè con altr’ ordine, che uno, pochi, molti, e tutti, e che i pochi, molti e tutti ritengano ciascheduno nella sua spezie la ragione dell’uno; siccome i numeri consistono in indivisibili al dir d’Aristotile; ed oltrepassando i tutti si debba ricominciare dall’uno; e sì l’Umanità si contiene tutta tralle Monarchie Famigliari, e Civili» (SN44, p. 1220). Si colleghi questo brano – ma molti altri ancora sarebbero da citare: dal De antiquissima alle due Risposte al «Giornale de’ letterati d’Italia», al De uno, alle varie edizioni della Scienza
20
Vico per un verso a Platone, e alla tradizione neo-platonica, per un altro a Descartes, Spinoza e Leibniz. Nonché esser estraneo al suo tempo, Vico è legato a fil doppio con esso: a fil doppio, perché il “passato filosofico” a cui consapevolmente si rapportava era quello stesso su cui poggiava la filosofia dei suoi grandi interlocutori, or nominati. Con i quali, discutendo, anche polemizzava, criticandoli. Come è ovvio che accada a chi esercita il pensiero. Ma v’è di più, e passiamo ora alla seconda precisazione: il riferimento al passato e il forte radicamento nel suo presente storico non tolgono il carattere anticipatore della sua filosofia, tutt’altro. Ci obbligano, però, a mutare il nostro principale punto di riferimento: non Hegel, Kant.
2 Troppo spesso, quando si parla di Kant e dell’Ich denke, si dimentica che questo – questo: “das: Ich denke”, non questi: “ich denke” (KrV, B 131-132, § 16) –, che questo, proprio in quanto «atto [Aktus] della spontaneità della facoltà di rappresentare [Vorstellungskraft]», è l’«unità che a priori precede tutti i concetti di unione [Verbindung]», e pertanto non “può essere” una categoria, neppure la categoria dell’unità (KrV, B 129131, § 15). Questo “Io”, o “Egli”, o “Esso (la cosa), che pensa”, questo principio di unificazione “= X” (KrV, A 346, B 404), è la funzione fondamentale della Logica trascendentale, quella funzione che distingue alla radice la logica trascendentale dalla mathesis universalis. E che non va confusa con l’ego cogito – cartesiano e non –, non essendo soggetto più di quanto non sia oggetto, per essere il principio che tiene insieme tutte le categorie che costituiscono l’orizzonte trascendentale (la mathesis
nuova – con il concetto cartesiano della vera mathesis: cfr. R. Descartes, Regulae, IV, spec. pp. 704-709.
21
universalis, il vichiano “dizionario mentale”3), nel quale ogni soggetto, come ogni oggetto, è compreso. La funzione di questo principio – di questo Io = X: la stessa definizione dell’“Oggetto trascendentale” (KrV, A 104-105)! – è in Vico ben presente: è la Provvedenza divina, quella che spiega il passaggio dall’una età della storia alle altre, e prima ancora la nascita stessa dell’ordo rerum, della storia ideale eterna. Il che significa che il Dio di Vico, se è, come anche è, il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, è prima di tutto un principio mathematico, il principio su cui si fonda la storia umana, e cioè: la comunità originaria. E come “das: Ich denke” di Kant non è rappresentabile, così il Dio di Vico supera ogni possibilità di comprensione umana. Cade qui opportuna una citazione dal De antiquissima, particolarmente se la riferiamo alla conoscenza umana della storia: Mens […] umana finita est et formata; ac proinde indefinita et informia intelligere non potest, cogitare quidem potest: quod vernacula lingua diceremus: “può andarle raccogliendo, ma non già raccôrle tutte”. (DA, cap. IV, § I, pp. 78-79)
In breve: come la “logica trascendentale” non è una “teoria della conoscenza”, ma una logica, così la teoria vichiana non è una gnoseologia, ma una logica della storia. Non concerne, se non secondariamente, l’apprendimento umano della storia, definendo invece la logica “oggettiva” della storia. Diciamo meglio: la teo-logia della storia. Già, perché non altri che Dio fa la storia. L’uomo al più può elevarsi a contemplarla. Occorre ricordare che il factum è solo la superficie della storia, la dimensione piana della figura solida? e che oltre il factum dell’uomo è il genitum di Dio4? Occorre ricordare che oltre la sin troppo citata – e quanto spesso a sproposito – definizione
3. Cfr. SN25, XLI [Capo XLIII], pp. 266-269; SN44, Degnità XXII, pp. 864- 865. 4. Cfr. DA, cap. I, pp. 14-19.
22
del verum ipsum factum, v’è quella ben più articolata e ragionata del vero come conformatio ordini rerum (“ordini” – si badi – non “rei”)5? Anche il passo della Scienza Nuova poco sopra citato6 – ove è palese la memoria “critica” della definizione perfecta di Spinoza7 – nel punto in cui parla della costruzione nel conoscere, non dimentica affatto il “contemplare”8. Vero è che l’uomo costruisce la sua storia solo nel senso che contempla in sé il costruire, l’operare, di Dio. E questo è anche il senso agostiniano di quel passo in cui Vico dice della difficoltà della mente umana di guardare in se stessa, essendo la sua vista per attrazione dei sensi corporei abituata a guardare fuori di sé, all’esterno9. La storia ideale eterna è, appunto per questo, la «Metafisica della Mente Umana» (SN44, p. 903) – ove il genitivo è anzitutto un genitivo oggettivo. La metafisica è la dimensione profonda della mente umana, è il divino dell’uomo, ciò che dell’uomo non appartiene all’uomo. Solo così è possibile per Vico dire – senza banalmente contraddirsi – che v’è una «Verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar’ in dubbio», e cioè che «questo Mondo Civile egli certamente è stato fatto [fatto!] dagli uomini» (SN44, p. 894), e insieme che la Scienza nuova è la «dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della Provvedenza, perchè dee essere una Storia degli Ordini, che 5. Cfr. De uno, pp. 35 e 47; Sinopsi, p. 5. Sul tema cfr. S. Otto, Umrisse, in part. p. 24, e V. Vitiello, FC, Parte I, cap. IV, Sez. II. 6. Cfr. SN44, p. 904 (supra, § 1). 7. Cfr. B. Spinoza, TIE, §§ 92-98; pp. 162-165. E. Cassirer ha ben chiarito l’intento della teoria spinoziana della definizione: «l’equiparazione tra ragione reale e ragione conoscitiva, cioè tra causa e ratio» (EPhW, II, pp. 113-117). Sul rapporto di Vico con Spinoza rinvio al mio Saggio introduttivo a SN, cap. II: Spinoza e Vico, pp. LIX-CXVIII. 8. Il termine ricorre spesso in Vico: cfr., ad es., Sinopsi, p. 5. 9. Cfr. SN44, Degnità LXIII, p. 876, e pp. 894-895. Sul tema rinvio a V. Vitiello, Lumi, II: «Le Origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze». Con Vico, alle origini del linguaggio, pp. 63-77.
23
quella senza verun’ umano scorgimento, o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del Gener’ Umano» (SN44, p. 901). Possiamo, allora, dire così, valendoci della distinzione del De antiquissima: l’uomo fa la storia, Dio la genera. E fin quando l’uomo fa la storia, non la conosce. Per conoscerla deve contemplare in sé l’operare, il “generare”, di Dio. Il passaggio dal “certo” al “vero” è questo passaggio dal “fare” al “contemplare”: al contemplare l’operare di Dio in lui, nella (sua?) storia.
3 E qui si mostra la grande aporia in cui si dibatte la Scienza Nuova, e che – quantunque Vico non la nasconda, e anzi in certi luoghi la evidenzi (in ciò la grandezza del suo pensiero) – non sembra sia stata messa nella giusta luce. Per farlo, torniamo alla Dipintura allegorica. Qual è il problema teorico di questa Dipintura? Come si è detto, mostrare l’unità-identità dei due movimenti da Dio alla storia, dalla storia a Dio. Questa unitàidentità è sì còlta, ma soltanto da una prospettiva: quella di Dio. Solo nello sguardo divino, e cioè nella prospettiva della Provvedenza, l’auctoritas è pars rationis e il certum pars veri. Non nello sguardo dei “pii” Polifemi, che nei tuoni e nei fulmini sentono e vedono le voci di Giove, né in quello degli eroi che cercano di “divinare” il futuro scrutando il volo degli uccelli. L’operare dei Giganti e degli eroi sarà vero quoad formam, non certo quoad materiam. Ma questa distinzione – necessaria per la Scienza Nuova – rompe l’unità dei due movimenti. Il certo e l’autorità restano fuori della verità e della ragione nelle prime due età della storia ideale eterna. Sono verità e ragione solo nella terza età, quella della riflessione tutta dispiegata, quando la mente umana riesce a piegarsi su di sé e a contemplare-vedere in sé l’agire di Dio nella storia. Quando cioè riesce a elevarsi dal factum al genitum. Ma questa esaltazione della mente umana è
24
solo apparente. Di fatto la ragione, la ragione che contempla la storia ideale eterna, non conosce che una età della storia: l’ultima, nella quale si opera la distinzione tra la verità della forma dell’operare (il timore degli dèi che porta alla costituzione delle prime famiglie) e la non-verità, l’errore, del contenuto rappresentato nell’operare (la rappresentazione di Dio come Giove tonante e saettante). La storia ideale eterna si trova così schiacciata sull’ultima età. Ma può la “mente pura” contemplare l’operare di Dio nella storia? Per poterlo fare, avrebbe bisogno di un linguaggio in cui parole e cose non fossero divise. E invece proprio lei, la pura ragione, porta a questa divisione, come Vico dice a chiare lettere: uti lingua heroica prius heroes ab hominibus diviserat, ita postea lingua vulgaris divisit philologos a philosophis. Cuius secundae observationis ea ratio est, quod, cum lingua vulgi, quia communis, rerum naturas et proprietates non significabat, philosophi in naturis rerum, philologi in originibus verborum investigandis divisi sunt; et ita philosophia ac philologia, quae ab heroica lingua geminae ortae erant, lingua vulgari, distractae.10
Su questa affermazione, che a una prima lettura non può non suscitare perplessità – debbono i filosofi investigare in naturis rerum senza far uso di parole, dacché queste son separate dalle cose? ma come è possibile ciò11? –, su questa affermazione 10. «Come prima la lingua eroica aveva diviso gli eroi dagli uomini, così dopo la lingua volgare divise i filologi dai filosofi. Il motivo di questa seconda osservazione è che, poiché la lingua volgare, in quanto comune, non riusciva a descrivere la natura e le proprietà delle cose, sorse la scissione tra i filosofi che si dettero a investigare sulla natura delle cose, e i filologi che invece investigavano sulle origini delle parole; e così la filosofia e la filologia, che erano nate tutte e due dalla lingua eroica, vennero ad essere divise dalla lingua volgare» (Nota 33 al De constantia philologiae: Notae, p. 771). 11. È pur vero che Vico sembra talora ritenere che il pensiero possa avere una vita propria indipendente dal linguaggio: ad es. là dove, per spiegare la diversità del popolo ebraico dalle altre nazioni, scrive che gli «autori [del
25
torneremo più tardi per spiegare il senso della divisione delle “parole” dalle “cose”, che ha un significato ben più profondo di quanto non appaia immediatamente. Intanto era necessario accennare anche all’aspetto linguistico dell’aporia della storia ideale eterna.
4 Volgiamoci di nuovo alla storia ideale eterna, per comprendere meglio l’aporia in cui si dibatte. Il compito che Vico si è proposto non è da poco. L’unità-identità dei due movimenti – dall’alto, o da Dio, e dal basso, o dall’uscita della storia dall’ingens sylva – implica un arduo problema logico: intendere la totalità, come totalità, nella parte. Nei termini di Vico: nel certo e nell’autorità il vero e la ragione. Il risultato però è esattamente l’inverso, e cioè: la totalità comprende la parte, la ragione l’autorità, il vero conosce il certo, ma non viceversa. E questo significa che l’unità tutto-parte non è conseguita. Perché il tutto, se non è compreso in ogni singola parte, non è unum et idem con esse. Le parti che non comprendono il tutto, restano “altre” dal tutto – distinte, estranee, “fuori” dal tutto. È ben evidente che questo problema “logico” è quello stesso che Leibniz ha affrontato nella Monadologia. (Ciò spiega perché abbiamo inteso richiamare l’attenzione sul radicamento di Vico nel suo tempo: non per una ragione “storico-culturale”, ma per una più rilevante motivazione filosofica; per capire il problema Vico). Com’è noto, Leibniz risolve la questione affermando che ogni monade è “specchio vivente” dell’universo intero, e Dio, monade suprema, specchio di tutti gli specchi12. “popolo di Dio”], quantunque posti nella stessa povertà di parlari [dei gentili], eran però illuminati dalla cognizione di un vero Dio, creatore di Adamo» (SN25, Libro III, Capo V, p. 197; cfr. altresì Capo II, p. 193). 12. Cfr. G.W. Leibniz, PNG, §§ 9-15; Monadologie, §§ 57, 67, 84-86.
26
Bene, in cosa può aiutarci la soluzione di Leibniz? A evitare lo “schiacciamento” della storia ideale eterna sull’unica età della ragione riflessa, del presente dell’età degli uomini. Ogni età – quelle degli dèi e degli eroi non meno dell’età degli uomini – deve rappresentare una prospettiva sull’intera storia ideale eterna. Ed è questa la tesi della topologia. La quale però comporta l’abbandono di un presupposto presente in Vico, ma da Vico non messo in discussione: la concezione unilineare e progressiva del tempo. Concezione che la tesi del “ricorso” non mette affatto in questione, anzi rafforza. Posto, infatti, che sia vero che col ricorso la storia torna all’inizio per ricominciare daccapo – e chi conosce un po’ la Scienza Nuova sa bene che non è vero: basti qui ricordare il confronto di Dante con Omero fatto nell’edizione del 172513 –, il nuovo processo ripete comunque le stesse tappe del precedente. La topologia libera il tempo da questa costrizione. Il tempo della topologia è aperto al passato, non meno che al futuro. Non ha una direzione, ma infinite: tante quante sono gli orientamenti che volta a volta si danno. Il tempo della topologia è comprensivo di tutti i tempi. Questo comporta un mutamento radicale nella comprensione della storia e nel modo di intendere il lavoro storiografico. Esemplifico: se nella prospettiva del pensiero politico Hegel è “contemporaneo” di Schelling – almeno in un certo periodo della sua vita: a Tübingen, giovani entrambi, avevano danzato, insieme con l’amico e sodale Hölderlin, attorno all’albero della libertà da loro eretto, esultanti del trionfo della rivoluzione in Francia –; dal punto di vista del pensiero filosofico, invece, Hegel è contemporaneo di Agostino, come Schelling di Plotino. I loro topoi speculativi sono diversi se non opposti: in Hegel è la logica del sillogismo, dell’unione che predomina pur nella 13. Alle spalle di Dante v’era “la scolastica” e “il latino”, senza di cui egli, Dante, «sarebbe riuscito più gran poeta, e forse la toscana favella avrebbe avuto da contrapporlo ad Omero, che la latina non ebbe» (SN25, p. 227).
27
disunione (die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung: Sf, p. 422), laddove in Schelling prevale il giudizio, la separazione originaria, la differenza tra Volontà e Intelletto, Natura e Spirito, Caos o Notte e Ordine o Giorno (cfr. spec. WmF). “Predomina”, “prevale” – s’è detto, ma mai in modo incontrastato: perché poi in Schelling stesso l’unione afferma i suoi diritti, come, d’altronde, in Hegel s’impone talora, sulla e contro la koinonìa sempre ricercata, la forza della differenza e della separazione (e ciò accade pur nelle opere più rigorosamente costruite, come nella Scienza della logica: ad esempio, nel passaggio cruciale dalla riflessione ponente a quella esterna o esteriore: WL, II, pp. 27-28; it., II, pp. 446-447). Ma l’approccio a Vico della topologia – fatto via Leibniz – non è occasionale (e se qualcuno riscontrasse in ciò il peccato che Vico denunzia nella IV Degnità, saremmo ben lungi dal respingerlo con disdegno). Risponde, anzi, a un’unità di intenti che qui va sottolineata. L’intento è quello definito da Vico nell’Autobiografia: la ricerca di «un qualche argomento e nuovo e grande nell’animo, che in un Principio unisse egli tutto il sapere umano e divino» (OF, p. 24). Ora l’estensione operata da Vico della mathesis universalis alla storia – che amplia il progetto di Grozio che riguardava la sola scienza del diritto (De iure, pp. 100-103) – è il primo grande tentativo di superare il dualismo tra le due forme tradizionali in cui, a partire da Aristotele, il sapere si è diviso: la logico-mathematica e l’ermeneutico-retorica. La topologia si colloca sulla medesima linea, e questo superamento cerca di realizzare attraverso una riflessione capace di mettere radicalmente in questione le categorie del tempo e dello spazio14.
14. Sul tema rinvio a miei precedenti lavori, due in particolare: Tm e FC, di quest’ultimo in part. Parte II sulla “svolta topologico-trascendentale dell’ermeneutica”.
28
Il tempo della topologia che accoglie in sé tutti i tempi e ogni direzione del tempo s’identifica con lo spazio. È il tempo che – per riprendere di nuovo Kant – «bleibt und nicht wechselt» (KrV, B 225), perché se anche il tempo cambiasse, allora avremmo bisogno di altro tempo – che non cambia ma sta – per conoscere e misurare i cambiamenti di quel primo tempo. L’argomentazione kantiana è irrefutabile. Per renderla più immediatamente accessibile possiamo dire così: non c’è tempo senza un ordine stabile che non muta. Il tempo della topologia, il tempo che si identifica con lo spazio, è questo ordine, questo tempo-ordine. Ma l’argomentazione kantiana non termina qui. Insieme con l’affermazione che il tempo non muta ma resta, c’è l’altra che non va sottaciuta. L’affermazione che dice: «die Zeit kann an sich selbst nicht wahrgenommen werden» (B 233). Infatti l’ordine del tempo muta anch’esso col mutare dei fenomeni. Se definisco “T” questo ordine e “X” il fenomeno che scorre in esso, è ben evidente che altro è “T” quando “X” è nella posizione “A”, altro quando è nella posizione “B”, “C”… “N”. “T” stesso muterà in “T1”, “T2”, “T3”… “TN”. Ma se il tempo-ordine muta col variare dei fenomeni, com’è più possibile l’“ordine” senza cui non si dà tempo? Né si elimina la difficoltà, facendo appello alla monade suprema, dacché Dio, la monade di tutte le monadi, quella che accoglie tutte le prospettive in sé, nonché essere assoluta (ab-soluta, sciolta) dalla relatività delle molteplici monadi, soffre della relatività di tutte. È più mutevole di tutte le monadi. L’ordine, nonché essere garantito, è piuttosto negato. La monade-Dio è la molteplicità pura che nega ogni ordine e stabilità. E che, pertanto, nega la possibilità del movimento stesso. Negare l’uno è negare insieme i molti; negare l’ordine è insieme negare il movimento e il tempo.
29
5 «Ma là dove è il pericolo, / cresce anche ciò che salva»15. Ciò che salva è qui la relazione uno-molti, ordine-movimento. Che non è una relazione estrinseca ai suoi termini, non è un “terzo” – direbbe Hegel –, ma è nei termini stessi che pone in rapporto, anzi è i termini stessi del rapporto. Per riprendere le formule poco sopra impiegate, il tempo-ordine “T” è sempre “T1”, “T2”, “T3”… “TN”. “Sempre” significa: “T1”, “T2”, “T3”… “TN” sono prospettive particolari, e perciò limitate, della totalità “T”, la quale è sempre tutta presente in ogni suo momento (“T1”, “T2”… “TN”), quantunque visibile solo da una determinata prospettiva. “T” non è fuori di “T1”, perché è, all’opposto, il suo contenuto. Il rapporto Totalità-parti appare, e in certo senso è, qui, invertito: è infatti il particolare e finito ad avere come contenuto la totalità e l’infinito. La particolarità e determinatezza è della prospettiva; l’indeterminata totalità è del contenuto. Qui si mostra nuovamente la completa corrispondenza di spazio e tempo. Come è possibile capire che un particolare segmento è il lato di un ottagono solo avendo la visione dell’intero poligono, così è possibile comprendere un fatto storico solo collocandolo nel suo luogo temporale specifico, resta altrimenti un frammento “tronco e slogato”. Ma collocare un fatto storico nel suo luogo temporale implica rapportarlo alla totalità degli altri luoghi. Ora questo rapporto non è qualcosa che s’aggiunga al fatto, ma è proprio del fatto, è il fatto stesso. Il segmento è un lato del poligono, se, e in quanto questo, il poligono entra a costituire l’essere del lato, se, cioè, è il lato stesso. Il medesimo vale per il tempo. Non è comprensibile l’età degli dèi se non in rapporto alle successive degli eroi e degli uomini: queste
15. F. Hölderlin, Patmos, vv. 3-4, SWB, I, p. 379.
30
ultime quindi entrano a costituire l’essere della prima, sono la prima. È per questo motivo che sopra criticavamo lo schiacciamento della storia ideale eterna sull’ultima età. Ogni età, dicevamo e ribadiamo, deve essere una visione sul tutto. E quindi deve avere il tutto – l’intero della storia – a suo contenuto. Chiaramente come il poligono osservato da un lato non è il poligono osservato dagli altri suoi lati – pur essendo sempre lo stesso poligono – così si deve dire della storia ideale eterna osservata da ciascuna delle sue distinte età. Torniamo a Kant. L’affermazione: «il tempo in sé non può essere percepito» – ora ci è chiara. Mai si percepisce la pura vuota “T”, ma sempre “T1”, “T2”, “T3”… “TN”. O, per usare il linguaggio kantiano, «il correlato costante di ogni esistenza fenomenica, di ogni cambiamento e di ogni concomitanza» è la sostanza (KrV, A 183, B 226), ciò che non muta nel mutevole. Ma attenzione: ciò che non muta nel mutevole – il sole, che è sempre lo stesso astro all’aurora, a mezzodì, e al tramonto – non lo si percepisce che nel mutevole – non v’è altro sole che quello del mattino, del mezzogiorno, del tramonto. Ma, di nuovo, il sole all’aurora è quel sole che è, in quanto non-è il sole del mezzodì e del tramonto, e questo suo non-essere gli altri soli è appunto ciò che lo costituisce, e pertanto quegli altri che esso non-è rientrano nel suo essere, ne fanno parte. Kant esprime tutto ciò nel modo più limpido, quando afferma che, potrà anche apparire paradossale, ma tutto quello che la sostanza è, è in virtù delle relazioni ch’essa intrattiene con le altre sostanze (KrV, A 284-285, B 340-342). Essendo unico l’ordine pur nella molteplicità delle prospettive, unica la sostanza pur nella pluralità delle sue relazioni e dei suoi apparimenti (Erscheinungen), Kant ne conclude che è impossibile il sorgere anche di una sola sostanza nuova. Dovremmo ammettere, altrimenti, l’esistenza di più ordini temporali svolgentesi contemporanea mente: «welches ungereimt ist», il che è assurdo – afferma lapidariamente (KrV, A 188-189, B 231-232).
31
La conclusione di Kant è quella stessa che l’episteme occidentale ha tratto sin dall’inizio della sua costituzione, e che qui vogliamo ricordare nella lingua del suo autore sommo: tautà aei, «sempre le stesse cose» (Met, XII, 1072a 8). E questo ci fa intendere che il «DOVETTE, DEVE, DOVRÀ» della storia ideale eterna non è qualcosa che possiamo elidere dalla Scienza Nuova. È il suo programma, il suo intento, la sua ragione. Solo che… Solo che la ragione epistemica non è l’unica componente della filosofia vichiana.
6 Il limite della Dipintura allegorica – s’è detto – sta in ciò, che schiaccia l’intera storia ideale eterna sulla prospettiva dell’ultima sua età. Questo limite non può esser superato formando vari quadri, ciascuno con la scena propria dell’età che doveva rappresentare. Alla serie dei singoli quadri – nella nostra esemplificazione: a “T1”, “T2”… “TN” – sarebbe comunque mancato l’elemento essenziale: il movimento dall’una all’altra scena. Da dove descrivere, da quale prospettiva disegnare questo movimento di passaggio? Non certo da una delle scene, perché in ciascuna d’esse si ha la visione delle altre solo dalla propria prospettiva. E se la “mente pura”, la ragione, non è in grado di “immaginare”, potendo “appena intendere” – come Vico stesso afferma in tutte e tre le edizioni della Scienza Nuova – il mondo degli dèi, a maggior ragione sarà incapace di pensare-dire il passaggio dall’uno all’altro mondo, dall’una all’altra età. Posto pure, come si è ipotizzato, che ogni prospettiva è un punto di vista particolare sul tutto, vero è che ciascuna è un mondo a sé. Ed è proprio per spiegare il passaggio dall’una all’altra prospettiva, e cioè la loro possibilità di comunicare, che Leibniz doveva porre oltre le infinite monadi create, finite e relative, la monade increata, infinita, assoluta. Ma questa monade è dav-
32
vero assoluta solo se non è pensata come lo specchio in cui tutte le monadi si rispecchiano, perché in tal modo anch’essa è ridotta a schema: è parte, non totalità… In che modo, allora, va pensata16? Siamo giunti al punto decisivo, che riguarda non Vico, né Leibniz soltanto, ma l’intera tradizione epistemica occidentale. Che riguarda la costituzione stessa della “logica” e la sua differenza dal linguaggio.
7 Che la logica sia nata dal linguaggio, che sia una forma di linguaggio, non deve essere neppure ricordato, la sua stessa terminologia – categoria, predicato, giudizio, sillogismo… – ce lo rammenta. Ma che forma di linguaggio è la logica, e com’è che la diciamo nata dal linguaggio? Per entrare nel problema ricorriamo a due esempi, recente l’uno, antico l’altro. Rappresentano due diversi livelli problematici della questione che andiamo trattando. Il primo, ironico sino a sembrare scanzonato, ma invero molto profondo, è tratto da Evaristo Carriego di Borges: due barattieri […] nel mezzo della sconfinata pianura russa si salutarono: «Dove vai, Daniel?» disse uno. «A Sebastopoli» disse l’altro. Allora Moshe lo guardò fisso e poi esclamò: «Tu menti, Daniel. Mi rispondi che vai a Sebastopoli perché io pensi che tu vai a Nižnij-Novgorod, ma la verità è che tu vai davvero a Sebastopoli. Tu menti Daniel!». (TO, I, pp. 245-246)
16. Su questa aporia della monadologia leibniziana cfr. V. Vitiello, CsR, Parte I, cap. I, § 7.
33
L’esempio mostra non solo la differenza tra il contenuto del dire, il significato, e l’intenzione che lo regge, sì anche la dipendenza del significato dall’intenzione. Le stesse parole, meglio: lo stesso significato può essere vero e falso, a seconda dell’intenzione del parlante. L’intenzione del parlante – s’è detto. Ma questa non è sempre decisiva. Talora l’intenzione può essere esattamente la stessa del significato, e tuttavia il senso del discorso esser completamente altro. Prendiamo ad esempio l’Edipo re di Sofocle. Qui le parole di Edipo hanno contemporaneamente significati opposti: quello che lui dice, infatti, gli si rivolgerà contro17. Il che attesta che il “senso” del significato non dipende solo, e non dipende tanto, dall’intenzione, ma da una matrice nascosta del linguaggio. Per sottrarre la “logica” alla polisemia del linguaggio Aristotele opera un taglio: separa il significato da ogni determinazione ad esso estranea. Fa del significato un tutto a sé stante. E così lo fissa. Di esso si potrà parlare d’ora innanzi come qualcosa che è quello che è e non l’opposto: tertium non datur. Di qui la grande forza della logica, sul suo terreno irrefutabile; insieme la sua grande debolezza, perché è sempre confutata e respinta dalla vita, dalla realtà. Aristotele stesso nel tentativo di spiegare il movimento non può non riammettere quel che aveva respinto: la validità della contraddizione18. E non a caso Heidegger, quando fa riferimento all’essere come Geschehen, come accadere, precisa che questo non va pensato con le categorie aristoteliche (cfr.
17. Sul tema cfr. J.-P. Vernant - P. Vidal-Naquet, ŒM. 18. Si consideri la definizione del movimento che Aristotele dà in Phys, III, 1, 201a 10-11: «l’atto [entelécheia] dell’ente in potenza [dynámei], in quanto tale (cioè: in quanto in potenza)». Ma, se l’atto esclude da sé i contrari (essere e non-essere), laddove la potenza li include (Met, IV, 1007b 26-29, e 1009a 34-36, e passim), allora il movimento (kínesis) comprende in sé contraddizione e non-contraddizione. A commento si può ben ripetere l’espressione hegeliana: die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung.
34
BPh, § 157, p. 280; it., p. 281). Ma la cosa più importante è quella che fa presente Hegel, là dove parla del linguaggio della filosofia nel quale forma e contenuto sono in contrasto, dacché lo “speculativo”, e cioè il movimento del pensare, è irriducibile alla fissità della forma19.
8 È qui che il genio di Vico si mostra in tutta la sua potenza. Dopo aver esteso la mathesis universalis alla storia, alla politica, alla morale, portando a termine un lavoro iniziato già da Grozio nella sfera del diritto; dopo aver ampliato l’ambito “schematico” del sapere tradizionale, portandovi dentro quanto la stessa tradizione aristotelica lasciava fuori – la retorica, la storia, la poesia, in breve tutto ciò che vichianamente si denomina “filologia” –, Vico si rende conto del limite dell’episteme, del linguaggio “logico”, del linguaggio ridotto a puro “significato”. È in questa ottica che va letta la su citata Nota 33 al De constantia iurisprudentis relativa alla separazione di filosofia e filologia, di parole e cose, operata dalla ragione riflessa. La “cosa”, a cui Vico qui si riferisce, non è la cosa già distinta dalla parola, la cosa che è altro dall’occhio che l’osserva, dalla mano che l’usa, dai sensi che la percepiscono; è bensì tò prágma, la cosa che è “suono e schema”, nel linguaggio di Platone, la “parola reale” o “geroglifico”, nel linguaggio di Vico20. È la “cosa” che è la parola stessa, suono e gesto insieme: il “parlare scrivendo” della voce che non accompagna ma fa tutt’uno col movimento del corpo, col gesto. La lingua eroica delle cerimonie e delle 19. Cfr. G.W.F. Hegel, PhäG, Vorrede, pp. 48-55; it., I, pp. 48-55. Sul tema rinvio a V. Vitiello, HI, Parte I, Sez. II, cap. III: La proposizione speculativa: il linguaggio della filosofia, pp. 169-180. 20. Cfr. Platone, Cratilo, 423d; G. Vico, SN44, Degnità LVII-LX, pp. 875, e pp. 943-963 e passim.
35
armi. Lingua sempre particolare e determinata, anzi singolare, nella quale ogni parola è “unica”, quella e non altra – come il grido dell’atleta che solleva il peso, l’urlo del guerriero che lancia l’arma, il lamento del sacerdote che solleva la vittima sull’ara. Queste voci sono “segnate” dai gesti che nascono originariamente con esse, e del pari i gesti dalle loro voci: talché la voce “rammenta” il gesto, anche quando questo non si vede, e il gesto la voce, quand’essa non s’ode. Questa “memoria” naturale, non intenzionale, è all’origine della separazione di parole e cose, da cui dipende la successiva tra filosofia e filologia. Ma nella parola separata dalla cosa, nella phoné che conserva memoria dello schêma, ma che non è però più essa medesima “schema”, e cioè gesto, scrittura del corpo, “parola reale”, un elemento viene meno – necessariamente. Quell’elemento che Platone nomina come terzo, il chrôma, che – dice sempre Platone – non è di tutte le cose, ma solo di alcune. Chrôma, il colore: il rosso delle passioni forti, e pur della violenza, il colore che «inquieta e infuria le bestie»; il giallo sereno e gaio della calda intimità; il freddo e triste azzurro; l’appagante verde21… Questi colori dell’anima la parola separata dalla cosa, la pura phoné, non conserva. Se è stata separata dalla cosa, è proprio perché non ne conservi traccia. Il significato “puro” è tale proprio perché purificato dalla passione, dal “colore”, dal profondo sentire. Che non è solo l’umano sentire. Nel “colore” della parola non v’è solo la passione dell’uomo. V’è dell’altro: la traccia di una passione più antica e originaria, archaica: di un sentire non più solo animale e non ancora umano, di quei Terrae filii che, uscendo dall’ingens sylva, divengono uomini, Polifemi ancora, e pur “pii”. Nel “colore” della parola è la traccia dell’originaria ek-sistenza del tempo: dell’emergere dell’ordine del tempo dal Caos della Notte pri21. Cfr. J.W. Goethe, FL, in part. Sez. VI: Azione sensibile e morale del colore, p. 193.
36
migenia, dal platonico aídion, l’infigurabile Uno che resta en ení, l’immoltiplicabile Uno che si sottrae a ogni “idea”, “forma”, “schema”, “ordine”22 – ma da cui (che non significa per cui) ogni “idea”, “forma”, “schema”, “ordine” ek-siste, vien alla luce. Nel non schematizzabile colore della parola, nella “passione” originaria che la parola-gesto, la parola-corpo, la “parola reale” o “geroglifico sonoro”, custodisce, è presente in lontananza ciò che sempre si assenta: l’eterno più antico del Cielo e del Tempo; l’eterno che è “prima” dell’aionica figura che è tutte le figure; l’aídion che è “prima” dell’ordine, “prima” dello spazio, “prima” della “sostanza” che pure si mostra solo nei fenomeni, nelle Erscheinungen. Nel “colore” della parola l’uomo “sente” l’ek-sistenza del tempo, e insieme “patisce” l’indicibile, il noumenon: l’ou-topico della topologia trascendentale.
9 Il noumenon: ciò di cui – rileva Kant – «s’ignora se sia in noi o anche fuori di noi». E a ulteriore chiarimento: ciò che si sottrae a ogni rappresentazione, come sensibile così intellettiva (KrV, A 288-289, B 344-345). Ciò che contraddice ogni “significato”, in quanto assoluto altro, altro anche di se medesimo: altro dell’altro. Come altro, così medesimo. Di questo altro, che è altro anche dall’altro, nulla è possibile dire, se non negativamente; nulla, se non che esso fissa i limiti della sensibilità e dell’intelletto. È il grande risultato della Critica kantiana, la definizione del limite del giudizio dall’interno del giudizio, della logica dall’interno della logica, dell’episteme dall’interno dell’episteme. È la smentita avant la lettre della tesi hegeliana che conoscere il limite è varcarlo. Ma, giunti a 22. Cfr. Platone, Timeo, 37c-38b, e Parmenide 137c-142a.
37
questo limite, è legittimo chiedersi: i limiti della “logica” sono i limiti del linguaggio tout court, o non v’è un linguaggio che eccede il dire proprio dell’episteme? Se per rispondere a questa domanda ci volgiamo di nuovo a Vico, è perché Vico ancora una volta ha molto da insegnarci. E non tanto per il contenuto del suo dire, ma per il suo gesto filosofico-linguistico. Quando parla dell’uscita dei Terrae filii dall’ingens sylva, e cioè della nascita della storia, e dell’ordine che regge la storia, Vico si richiama al Dio biblico, che anche dopo il peccato di Adamo non ha privato la lapsa natura umana dei semi della verità (cfr. De uno, cap. XXXIV, p. 53). Per questi “semi” il tuono di Giove incute con la paura il pudore nei primi “pii” Polifemi, e così nascono le famiglie, poi le città, le repubbliche e infine le monarchie. Come abbiamo detto, osservando la Dipintura, il Dio di Vico è insieme il Dio della Bibbia e il Dio mathematico, il principio che tiene insieme l’apparato categoriale della mathesis universalis, il principio primo della logica, dell’episteme. Ciò che regge ogni significato e ogni schema, e che è già, egli stesso “significato” e “schema”. Ma quando Vico deve spiegare in concreto com’è avvenuta l’uscita dall’ingens sylva, allora, mette da parte il significato logico, consapevole che se con questo neppure possiamo avvicinarci alla mentalità dei primi bestioni, che al più possiamo “immaginare”, ma certo non “intendere”, tantomeno possiamo intravvedere, e neppure per “lumi sparsi”, la nascita della logica, dell’ordine, della storia ideale eterna. Vico ricorre al mito di Ercole, e ci racconta la “fabula” della lotta con il leone nemeo. Ascoltiamola direttamente dalla sua voce: NELLA FASCIA DEL ZODIACO, CHE CINGE IL GLOBO MONDANO, PIÙ, CHE GLI ALTRI, COMPARISCONO IN MAESTÀ o, come dicono, IN PROSPETTIVA I SOLI DUE SEGNI DI LIONE, E DI VERGINE; per significare
38 che questa Scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole; poichè si truova, ogni nazione gentile antica narrarne uno, che la fondò; e ’l contempla dalla maggior sua fatiga, che fu quella, con la qual’ uccise il Lione, il quale, vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea; della cui spoglia adorno Ercole fu innalzato alle Stelle; il qual Lione qui si truova essere stata la gran Selva Antica della Terra; a cui Ercole, il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi Politici, i quali dovettero venire innanzi agli Eroi delle guerre, diede il fuoco, e la ridusse a coltura: e per dar’ altresì il Principio de’ Tempi, il quale appo i Greci, da’ quali abbiamo tutto ciò, ch’abbiamo dell’Antichità Gentilesche, incominciarono dalle Olimpiadi co’ giuochi Olimpici, de’ quali pur ci si narra essere stato Ercole il fondatore, i quali giuochi dovettero incominciar da’ Nemei, introdutti per festeggiare la vittoria d’Ercole riportata dell’ucciso Lione, e sì i tempi de’ Greci cominciarono da che tra loro incominciò la coltivazione de’ campi. (SN44, pp. 786-787)
Vico racconta e spiega insieme. Le due cose in uno. Ed è questo l’elemento assolutamente innovativo del suo linguaggio. Vico “mima” il mito. Fonde e confonde figure diverse e opposte. Il leone è insieme la gran selva e la fiamma che l’incendia. Ercole appare in cielo con le spoglie del nemico ucciso; l’arma, con cui uccide il leone, è l’arma stessa del leone, il suo fiato di fuoco. E questo racconto, questo “mito”, è la spiegazione del mito, la spiegazione della nascita del tempo, della pólis, della “coltura” – non certo solo dei campi, sì anche di quella che solo molti secoli dopo sarà chiamata autocoscienza, o “io”, e più tardi ancora “autocoscienza trascendentale” o das: Ich denke. Il linguaggio vichiano fonde mýthos e lógos in un mythologeîn che è l’uno e l’altro e nessuno dei due. Spiega e racconta, e dicendo anche contra/dice. Flette la parola su se stessa, e ne misura il limite. Per dire l’infigurabile gesto originario: che non è già il gesto dell’uomo, o dell’io, o della coscienza – questi sono già “significati”, o “schemi”, del linguaggio epistemico, “logi-
39
co”, “mathematico” –, ma quel gesto che è l’uscita dall’ingens sylva della pre-storia, dalla Notte che è prima del tempo, dal Caos che è prima dello spazio. Per dire – si badi – non Caos e Notte, non l’ingens sylva, ma l’uscita da questa, il movimento puro della nascita della storia, dell’uomo, della coscienza. “Movimento puro” che si sottrae alle categorie della dýnamis e dell’enérgeia, dell’ousía e dell’ón – che si sottrae a ogni categoria, a ogni schema. A ogni forma di pensiero epistemico.
10 María Zambrano, una pensadora che ha molte affinità elettive con Vico, indipendentemente dalla sua conoscenza della filosofia vichiana, ha descritto questa nascita come l’uscita dal “sacro” del “divino”, che è già immagine umana del sacro. Questa uscita non è, non può essere opera dell’uomo, che ancor non è nato. Di chi allora? Il “mito” cui ricorre il mythologeîn della Zambrano è quello di Prometeo in lotta con Giove23. Al termine del sapere logico, epistemico, mathematico, là dove il sapere che “dà ragione” si trova dinanzi al margine estremo del suo significare, s’incontra sempre un mito. Il mito “dopo” la ragione. Un “ricorso” del pensiero ancor tutto da pensare. Già, perché se prima della barbarie dei pii Polifemi – il tempo degli dèi che a stento si può intendere, ma non immaginare – v’è l’uscita dall’ingens sylva, l’emergere del tempo dal Caos, l’archaica ek-sistenza, che può esser portata alla parola mitologizzando, prima di questa ek-sistenza v’è l’Aídion. Quale il rapporto tra l’ek-sistenza del tempo, dell’ordine del tempo, e l’Aídion? e, conseguentemente, quale il rapporto tra il mythologeîn e l’Aídion? Poco sopra s’è detto che nel “colore” della 23. Cfr. M. Zambrano, HyD, Sez. I, I: Del nacimiento de los dioses, pp. 2743; it., pp. 23-38; e II: De los dioses griegos, pp. 44-65; it., pp. 39-58.
40
parola l’uomo “patisce” l’Indicibile. Quale il sentire proprio di questa “passione”? Vico ci ha condotto sino al luogo ove queste domande possono sorgere. Procedere oltre è compito nostro.
41
II Da Hegel a Vico Un itinerario filosofico
Es kommt nach meiner Einsicht, welches sich nur durch die Darstellung des Systems selbst rechtfertigen muß, alles darauf an, das Wahre nicht als Substanz, sondern eben so sehr als Subjekt aufzufassen und auszudrücken.1 Verum gignit mentis cum rerum ordine conformatio; certum gignit coscientia dubitandi secura.2 ’l Vico agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell’ani mo, che in un principio unisse egli tutto il sapere e umano e divino.3
1 Fondamentale per il nostro discorso la distinzione tra logica e gnoseologia. La prima ha come tema la verità qual è “in sé e per sé”, la seconda la conoscenza che si ha, o si può avere del vero. Il mondo moderno, a partire da Cartesio almeno, ha privilegiato la gnoseologia sulla logica. Ne è testimonianza lo stesso linguaggio, che distingue la logica come teoria della verità “oggettiva” dalla gnoseologia come teoria dell’appren1. «Secondo il mio modo di vedere, che dovrà giustificarsi soltanto attraverso l’esposizione del sistema stesso, tutto sta nel concepire e nell’esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto bene come soggetto» (G.W.F. Hegel, PhäG, p. 19; it., I, p. 13). 2. «La conformità della mente all’ordine delle cose genera il vero; la sicura coscienza [di sé] nel dubitare genera il certo» (G. Vico, De uno, p. 35). 3. G. Vico, Vita, p. 36.
42
dimento “soggettivo” della verità. È ben evidente che la distinzione dell’“oggettivo” dal “soggettivo” è fatta a partire dal secondo termine. Tra i sostenitori del “soggettivismo” dell’età moderna, Heidegger è stato certamente il più convinto; ma l’ha considerato non solo come fenomeno proprio del moderno, bensì come destino dell’Occidente, retrodatando la sua origine almeno alla ri(con)duzione platonica dell’esperienza della verità in quanto alétheia, o autodisvelamento dell’essere, a idea, a esattezza (orthótes) del vedere (Sehen) dell’uomo4. Ma questa ri(con)duzione della Logica – o teoria dell’essenza e della struttura della verità – a gnoseologia, a teoria dell’apprensione soggettiva del vero, è d’ostacolo alla comprensione come di Vico così di Hegel. Entrambi, infatti, si proposero tematicamente di compiere il processo inverso, di spiegare, cioè, l’apprensione soggettiva del vero sul fondamento della struttura o essenza della verità. Nel problema del rapporto Logica-gnoseologia – verità-conoscenza – sono implicate varie altre questioni. Per affrontarle adeguatamente è opportuno iniziare con Hegel, la cui Scienza della logica si apre proprio con la tematizzazione di questo rapporto.
2 Womit muß der Anfang der Wissenschaft gemacht werden? Con questa domanda si apre il primo libro della Scienza della logica: “con che si deve far iniziare la scienza?” (WL, I, p. 65; it., p. 51). Hegel comincia col distinguere Prinzip da Anfang, 4. Cfr. M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit, Wm, pp. 201-236; it., pp. 159-192.
43
“principio” da “inizio”. Il primo è un “oggettivo” contenuto di pensiero – l’acqua, l’ápeiron, il Noûs, l’idea… –, il secondo una “soggettiva” determinazione del pensare – l’intuizione, la sensazione, l’“io”… A prima vista questa distinzione sembra ricondurre Hegel proprio in quel processo, al quale poco sopra s’è detto che invece egli s’oppone. Ma sembra soltanto. Infatti Hegel non solo critica come non scientifico iniziare dall’intuizione intellettuale, o dall’interiore rivelazione o illuminazione, ma pone come determinazione essenziale del sapere l’unità di Principio ed Inizio, di contenuto del sapere e andamento del conoscere. Vale a dire: il primo vero è anche primo nel processo della conoscenza, in quanto ne è il fondamento (cfr. WL, I, p. 66; it., I, p. 52). Per operare questa fusione di Principio e Inizio (Prinzip e Anfang) – che è la più radicale critica della gnoseologia, in quanto risolve totalmente il processo di apprensione del vero nel processo del farsi della verità –, Hegel deve negare ogni e qualsiasi immediatezza. Scrive infatti, poche righe più sotto, che non c’è né in cielo, né in terra, né nello spirito o altrove niente che sia solo immediato o solo mediato, tutto essendo ad un tempo immediato e mediato. In breve, Hegel ci sta dicendo che la distinzione tra verità e conoscenza, verità e certezza, la distinzione tra logica e gnoseologia sorge là dove si pensa il vero come “immediato”, come qualcosa che sta “a sé”, di fronte, di contro ad altro che lo osserva dall’esterno; ma quando la verità viene correttamente intesa come processo, quella distinzione cade, di essa non c’è più bisogno. Di qui la fondamentale importanza che riveste la trattazione delle prime tre categorie della Dottrina dell’essere. In essa è in giuoco la negazione dell’immediatezza, e cioè l’affermazione della verità come farsi. Seguiamo allora lo sviluppo argomentativo secondo il quale vengono presentate le tre categorie dell’Essere, del Nulla e del Divenire (Sein, Nichts, Werden).
44 Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. – Nell’essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlar di intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla. Nulla, il puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. – Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensar nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch’era il puro essere. – Il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso, che il puro essere. Il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere non passa, ma è passato nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch’essi non son lo stesso, ch’essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta. (WL, I, pp. 82-83; it., I, pp. 70-71)
45
Adolf Trendelenburg ha duramente criticato questo inizio della Logica. L’Essere – obiettava – in quanto a sé identico, è quiete; parimenti il Nulla. Come allora da queste identità in quiete il movimento dialettico? Hegel – così continuava Trendelenburg – procede come Euclide in geometria: questi inizia dicendo “traccia una linea retta”, Hegel dicendo “pensa!”. Ma, se si resta nella cerchia del puro pensiero, non si va oltre il vuoto Essere e il vuoto Nulla, e da queste due rappresentazioni vuote non sorge, non può sorgere alcun divenire. Hegel dà l’illusione del processo solo perché, senza dirlo (stillschweigend), introduce nel puro pensiero determinazioni – come appunto il movimento – che sono di origine sensibile (cfr. LU, vol. I, cap. III, pp. 38-40 e ss.). Alle critiche del Trendelenburg Karl Werder replicò che tra Essere e Nulla non v’è solo identità, sì anche differenza, in quanto il Nulla è l’esplicazione (Erklärung) di ciò che l’Essere è, cioè Nulla; e il divenire è l’interna chiarificazione (Verklärung) del Nulla come esplicazione dell’Essere. Werder insisteva sul carattere positivo del negare: «Ogni negare è solo per noi [für uns], e soltanto l’affermare è l’operare della cosa [das Thun der Sache]». La negazione del Nulla colpisce solo il nostro dire: «solleva il velo che la singola parola per la necessità del tempo getta sull’essenza della cosa». E cioè l’isolatezza dell’Essere rispetto al Nulla è solo un effetto dell’inadeguatezza del linguaggio, costretto a dire prima “essere” e poi “nulla”. «Ma Essere è in verità solo Essere come Nulla, è essere di se medesimo, è Divenire» (Logik, pp. 49-50). V’era in Werder la precisa percezione che i termini Sein-Nichts-Werden non debbono essere presi separatamente se si vuole cogliere l’essenza del divenire; restava in lui, tuttavia, l’esigenza di mostrare che solo nel Nichts il Sein si rivela, e nel Werden il Nichts e più profondamente ancora il Sein. In tal modo conferiva comunque uno statuto a sé ai tre termini; e con ciò “analizzava” il divenire, distingueva l’indistinguibile. A non dire poi che la distinzione tra il für uns
46
e il Thun der Sache, il “per noi” e “l’operare della cosa stessa”, reintroduce dalla finestra quel che si è cacciato dalla porta: la distinzione tra logica e gnoseologia5. Werder non fu solo nel prendere le difese di Hegel contro Trendelenburg. A lui si affiancò Kuno Fischer6. Che invero criticò non solo Trendelenburg, sì anche la maggior parte degli scolari di Hegel che, come l’Erdmann, s’arrestavano alla comune rappresentazione (gewöhnliche Darstellung) di essere e non-essere (Nichtseyn), esibendoli come due vuoti concetti. Chiaro che in essi non è dato trovare alcuna differenza, ma soltanto una mera tautologia. Fischer difende Hegel anche contro Hegel: «il vero concetto del non-essere neppure da Hegel è stato esposto in modo sufficientemente chiaro [nicht deutlich genug hervorgehoben]». È che – afferma – non bisogna muovere dalle comuni rappresentazioni dell’essere e del non-essere, ma dal concetto, per comprendere l’inizio della dialettica. Il rapporto logico tra i due concetti è il seguente: il non-essere è l’immanente contraddizione dell’essere, l’essere si contraddice, poiché esso contraddice al pensiero, e se l’essere non è considerato come atto del pensare [als Akt des Denkens] (come essere pensante) allora non si può scoprire in esso contraddizione alcuna e non è possibile alcuno sviluppo dialettico. Se l’essere fosse in verità quel vacuum, quale l’assume la comune rappresentazione, allora il non-essere non potrebbe affatto designare di nuovo il vacuum, esso sarebbe per contro il non-vacuum, o nel vacuum l’horror vacui, ovvero l’immanente contraddizione del vacuum. (LMW, § 29, e Zus., pp. 64-66)
5. La distinzione tra il “per noi” e l’“operare della cosa” – forse non è superfluo anticipare in nota quanto verrà esplicato in seguito nel testo – è presente anche in Hegel, ma solo per esser tolta. 6. Sul tema cfr. V. Vitiello, HI, in particolare Parte I, Sez. II, e Parte II, capp. I e IV.
47
Ora, a parte il capovolgimento dell’operazione hegeliana – l’assorbimento della logica nella gnoseologia7 –, quello di cui qui s’avverte la mancanza è la di-mostrazione, che non manca affatto in Hegel, come vedremo tra poco, della contraddizione. Non basta dire che l’essere contraddice il pensiero, e questo quello, attribuendo all’essere, che pure è prodotto del pensiero, la quiete e al pensare il movimento. È necessario mostrare la contraddizione. Mostrarla nell’Essere. Sin nell’Essere, come necessario passare nel Nulla; e nel Nulla, come necessario passare nell’Essere. “Necessario”: che cosa vuol dire qui necessario?
3 Se adesso dalle pagine di Trendelebunrg, Werder e Fischer torniamo al testo-base di Hegel, è difficile non esser colti da un incredulo stupore. Perché si ha la strana impressione, che è invero più che una semplice impressione, che questi autori, e in particolare il primo e il terzo, non abbiano letto con la dovuta attenzione le pagine di Hegel. Quanta saggezza nell’invito di Gadamer a “sillabare” (buchstabieren) Hegel, prima di avventurarsi a criticarlo e pur a correggerlo nell’interpretarlo! (Cfr. HD, Vorwort, p. 6). Sillabando Hegel ci accorgiamo che egli non dice che l’Essere passa nel Nulla e il Nulla nell’Essere, ma che l’uno “è pas-
7. Sempre nel cit. § 29 di LMW, Fischer scrive: «Il pensare si spiega anzitutto come essere e questo essere logico come non-essere. Perciò il pensare spiega: io sono l’essere che non è». Ora il capovolgimento di senso dell’operazione hegeliana non può essere sottovalutato, perché non è lo stesso ricondurre la gnoseologia alla logica o questa a quella. Lo attesta Fischer stesso laddove parla del vacuum e dell’horror vacui, ove è palese il pericolo – il pericolo almeno – di “psicologizzare” il discorso logico. Secondo D. Henrich, Fischer nell’interpretare Hegel si spinse con decisione («mit Notwendigkeit») sulla via del neokantismo (cfr. HK, p. 83).
48
sato” nell’altro e l’altro nell’uno. È passato: übergangen ist. Vale a dire: non c’è mai dapprima l’Essere in sé che in seguito passa nel suo opposto. Il passare è già da sempre. Il senso dell’übergangen ist è ulteriormente chiarito dall’affermazione che “ciascuno di essi sparisce nel suo opposto”. Al passato dell’übergangen ist corrisponde perfettamente il presente del jedes in seinem Gegenteil verschwindet. È passato l’Essere nel Nulla, e il Nulla nell’Essere, perché ora che penso l’uno, questo sparisce nell’altro, e viceversa. Nessuno dei due sta fermo in sé. Nessuno dei due è pensabile se non come l’altro. Pensare l’uno è trascorrere nell’altro, e viceversa, in un movimento che è insieme contro-movimento8. Hegel – questo ora deve risultare chiaro – affronta il problema dell’inizio non per altro che per negarlo. Di-mostra, infatti, che il divenire è il vero Prius, che primo, vero primo, è il terzo. Che cioè non v’è “primo”, non v’è “inizio”, tutto essendo già da sempre cominciato. L’inizio è “passato”, eternamente passato, passato mai stato presente. Il che corrisponde appunto alla tesi che né in cielo, né in terra, né nello spirito, né altrove, v’è mai qualcosa che sia solo immediato o solo mediato. E questo significa che sin nell’Essere puro, immediato, semplice, semplicissimo, è, è già, il divenire. Questo, il divenire, non va cercato dopo e fuori dell’Essere, ma nell’Essere stesso. Cercato e mostrato. E qui si rivela la strategia di Hegel in questi duri passaggi dell’inizio della Logica. Strategia che consiste nel mettere in atto il più radicale tentativo di isolare l’Essere, al punto da definirlo «eguale solo a sé stesso e neppure ineguale rispetto ad altro [nur sich selbst gleich und auch nicht ungleich gegen Anderes]». Orbene, proprio questa radicale negazione di ogni relazione all’altro
8. Palesemente qui Hegel sta operando con le categorie della ri-flessione, in particolare della riflessione “ponente-presupponente”: cfr. WL, II, pp. 25-28; it., II, pp. 445-447. Sul tema rinvio a V. Vitiello, HI, Parte I, Sez. III, cap. I: Dall’essere all’essenza, pp. 185-200.
49
di-mostra la necessità ineludibile della relazione. La dimostrazione hegeliana è la prova e contrario della koinonía tôn genôn del Sofista platonico! È la prova e contrario dell’impossibilità di pensare l’Essere (o il Nulla) “prima” del divenire, di pensare un puro immediato, un inizio non ancora iniziato. E non è forse questa negazione dell’immediato, e dell’Inizio, ciò che separa Hegel da Schelling9? Si potrebbe obiettare: ma se non c’è inizio che non sia già oltre di sé, oltre l’inizio, se non c’è immediatezza che non sia già mediazione, come si spiega la critica di Hegel a quell’inizio che ha avuto tanto successo nell’età moderna – l’inizio dall’“io”? Hegel non lo critica forse perché “mediato” (cfr. WL, I, pp. 76 ss.; it., I, pp. 62 ss.)? Certo, Hegel critica questo “inizio”, mostrando che è “mediato” e non “immediato”. L’io, il puro io, ha alle spalle un lungo cammino di liberazione dall’empirico. Ma proprio questo cammino, questo processo di “purificazione” è eluso da coloro che pongono l’“io”, l’“io penso”, come l’assoluto inizio, come quel “primo” a partire dal quale tutto può darsi. In breve: Hegel critica l’inizio dall’io perché è un falso immediato, perché è una mediazione non consapevole di sé. L’inizio dall’Essere, per contro, di-mostra la negazione di ogni inizio. Di ogni immediatezza. La dialettica che si dis-piega nelle prime categorie della Scienza della logica “realizza” la mediazione dell’immediato nell’unico modo possibile: portando a evidenza la mediazione intrinseca all’immediato.
9. Non è superfluo notare che in queste pagine della Scienza della logica (WL, I, pp. 65-66; it., I, p. 52) Hegel per criticare l’intuizione intellettuale di Schelling ricorre alla stessa locuzione («wie aus der Pistole») usata nella Phänomenologie des Geistes (cfr. PhäG, p. 26; it., I, p. 22), per respingere l’immediato inizio dall’assoluto.
50
4 Se si intende questo punto, si comprende anche perché Hegel fa precedere la Logica dalla Fenomenologia dello spirito – la quale, ricordiamolo, inizia con la certezza sensibile, ovvero con l’apprensione soggettiva di ciò che è reputato vero. Il processo fenomenologico mostra come l’apprensione soggettiva sich aufhebt – si toglie – nel processo del costituirsi della verità. È sempre la verità che opera – quantunque in latenza. Già nell’Introduzione Hegel ci avverte: Ora, poiché questa presentazione [la presentazione del sapere che è compito della Fenomenologia svolgere] ha per oggetto soltanto il sapere che appare [das erscheinende Wissen], sembra [scheint] ch’essa stessa non sia la libera scienza moventesi nella sua figura peculiare.10
E al termine, trattando dello spirito assoluto – dello spirito che ha superato la distinzione soggetto-oggetto – rende manifesto che l’intero processo fenomenologico si è svolto nell’ambito della verità. L’Assoluto è l’oceano nel quale il fiume della Fenomenologia scorre, non la foce in cui riversa le sue acque. Questo dice la parousia dell’Assoluto: che esso è presente alla fine, solo perché era già al principio: «il Prius del pensiero è anche il primo dell’andamento [Gang] del pensare» (WL, I, p. 66; it., I, p. 52). La Fenomenologia mostra in concreto che e come «l’andare innanzi è un retrocedere nel fondamento, all’originario e al vero [das Vorwärtsgehen ein Rückgang in den Grund, zu dem Ursprünglichen un Wahrhaften ist]» (WL, I, p. 70; it., I, p. 56). Ed è qui evidente la “ripetizione” hegeliana dell’aristotelico rapporto tra próteron pròs hemâs e próteron tê phýsei. 10. PhäG, pp. 66-67; it., I, p. 69; corsivo mio. Sul tema cfr. L. Lugarini, Hmsf, in part. cap. V: Fondazione fenomenologica della filosofia speculativa; OH, spec. pp. 130-133, sulla diversa configurazione che il rapporto Fenomenologia-Logica assume dopo la rielaborazione della Dottrina dell’essere del 1830.
51
“Mostra in concreto”, e cioè: nella realtà della storia, dell’operare umano. Che è retto dalla “logica inconscia”, o “naturale”, che intesse tutti i nostri interessi, istinti, sensazioni, pensieri e azioni (cfr. WL, I, pp. 20 e 24-27; it., I, pp. 10 e 14-17). Logica che è la verità stessa, che dapprima in latenza e poi apertamente regge e guida le varie forme della nostra conoscenza del mondo.
5 Nell’idealismo italiano della fine dell’800 e della prima metà del ’900 il solo Bertrando Spaventa ebbe precisa cognizione di ciò che è in giuoco nel rapporto Fenomenologia-Logica stabilito da Hegel. Croce ridusse il problema di questo rapporto a una questione puramente “di scuola”, che non il filosofo Hegel, bensì il professore – e per giunta tedesco! – Hegel aveva caricato di inesistenti significati filosofici. Perché – diceva – nel circolo della filosofia si entra per ogni dove: dall’esperienza dell’arte o da quella della vita morale, o anche dalla pratica economica. Ma il problema non è quello, empirico, di come di fatto si entra nel circolo del pensiero – più semplicemente: di come e perché si comincia a riflettere, e semmai a riflettere filosoficamente –, ma l’altro, trascendentale, di dare ragione della pretesa del pensiero di far presa sulla realtà. È il problema di dare ragione dell’identità di pensiero ed essere; ovvero, per dirla con Hegel: di “provare” che l’andamento del pensiero fa tutt’uno con l’andamento della cosa stessa (Sache). Bertrando Spaventa – che Croce stimava più teologo che non filosofo – aveva invece compreso molto bene che in tanto la critica di Hegel a Fichte poteva dirsi riuscita, in quanto la dimostrazione filosofica della capacità del pensiero di far presa sul reale fosse stata anticipata dalla rivelazione fenomenologica della presenza del pensiero sin nelle più intime fibre del reale. Solo
52
così l’identità di soggetto e oggetto, ancora solo soggettiva in Fichte, sarebbe divenuta oggettiva11. Non meno di Croce, anche Gentile, che pur si richiamava al l’insegnamento di Spaventa, rimase estraneo al pensiero di Hegel e in particolare alla comprensione del ruolo della Fenomenologia nel sistema hegeliano del sapere. Non avendo inteso che il procedimento fenomenologico opera su due piani contemporaneamente, quello della “coscienza naturale” e quello del “sapere vero”, e non ad altro fine che mostrare l’unità dei due, criticò la Fenomenologia dello spirito, perché in essa il vero era ancora pensato come la mèta del conoscere, trascendente l’atto del pensare12! Neppure comprese – fuorviato pur lui dalle critiche di Trendelenburg – la confutazione hegeliana dell’inizio. Scrisse nella Riforma della dialettica hegeliana, tesi
11. In merito cfr. G.F.W. Hegel, DFS, pp. 9-138; it., pp. 1-120; B. Spaventa, Schizzo di una storia della logica, Op, II, pp. 611-678, spec. pp. 628-668, e Le prime categorie della logica di Hegel, Op, I, pp. 367-437; B. Croce, Noterelle di critica hegeliana (1912), in SH, pp. 172-180, e IH, pp. 54-70 (1949). Secondo Dieter Henrich, Bertrando Spaventa, pur evitando la via neo-kantiana imboccata da Fischer, non portò nessun effettivo contributo all’interpretazione dell’inizio della Logica, in quanto, contro le esplicite dichiarazioni di Hegel, ridusse la Logica «ad esplicazione del risultato della Fenomenologia» (HK, pp. 82-83). Il duro giudizio di Henrich si basa su una fondamentale incomprensione del tentativo di Spaventa – pienamente in linea con le indicazioni di Hegel – di spiegare il rapporto Fenomenologia-Logica. Ma sull’argomento, che non è possibile svolgere in modo adeguato nel ristretto spazio di una nota, rinvio ai miei studi su Spaventa raccolti in HI, Parte I, Sez. III, cap. II: Prima dell’Essere, pp. 201-235, e Parte II: Tra Logica e Fenomenologia, pp. 303-344 e 365-387. Purtroppo anche nell’ampio panorama delle interpretazioni di questo complesso nodo della filosofia hegeliana tracciato da H.F. Fulda nel suo classico libro, EHW, manca qualsiasi riferimento a B. Spaventa (è invece citato, ma non discusso, Croce). 12. Cfr. G. Gentile, Il metodo dell’immanenza (1913), RDH, pp. 196-132, spec. pp. 227-228.
53
in seguito variamente ripresa, che Hegel aveva “analizzato” e non “realizzato” il divenire13! Su questo punto – va detto – Croce mostrò maggiore intuito filosofico. Gli fu subito chiaro che essere e nulla sono mere astrazioni, e che il vero primo è il concreto divenire. Poté quindi respingere, non senza arguzia letteraria, le critiche à la Trendelenburg14. Purtroppo anche questa intuizione non lo stimolò ad approfondire il problema. Poco amante delle sottigliezze logico-filosofiche, che presto spregiava come teologiche, tornò a distinguere opposizione da distinzione, così negando la precedente tesi della apriorità della sintesi sull’analisi. Si condannò così a un lavoro filosofico di Sisifo, tornando continuamente sui propri passi, per dire e disdire, e poi di nuovo ridire il già detto15. Se ho ricordato questi antecedenti “hegeliani” di Croce e Gentile, è perché la loro incomprensione del pensiero di Hegel ha pesato non poco sulla loro lettura di Vico. Ci soffermeremo su questa lettura per quel tanto che è necessario ai fini del nostro discorso.
6 Cominciamo con una domanda: può considerarsi la conversione del vero col fatto il principio fondamentale della filosofia vichiana, come Croce e Gentile hanno sempre detto e ribadito, e con loro la maggior parte degli interpreti? A molti la domanda 13. Cfr. G. Gentile, RDH, pp. 20-22; TG (1916), pp. 54-57; SL, I, p. 166, e II, pp. 124-129. 14. Cfr. B. Croce, SH, pp. 18-19. 15. Il riferimento è in particolare al diverso modo di intendere il rapporto tra i cd. “distinti”, come nesso di termini co-attuali o come rapporto circolare: Croce ondeggiò tutta la vita tra queste due ipotesi, senza mai decidersi per l’una o per l’altra.
54
suonerà strana. Come chiedersi se l’“idea” sia alla base del pensiero di Platone, il principio di non-contraddizione della filosofia aristotelica, l’“Io penso” della riflessione di Kant… Eppure va posta, se vogliamo essere fedeli al dettato vichiano più che alla vulgata su Vico. Ora un fatto è certo: l’interpretazione di quel “principio” non fu la stessa in Croce e Gentile. Per Croce la conversione del vero col fatto definisce la struttura del giudizio storico in quanto legame necessario di filosofia e filologia, ed è pertanto all’origine della moderna scienza della storia. Il principio, peraltro, aveva avuto un lungo processo di maturazione. Nella «prima forma della gnoseologia vichiana» – scrive Croce – il verum ipsum factum era stato formulato per spiegare la conoscenza matematica contro l’intuizionismo cartesiano. In questa prima fase – scettica –, che per Croce coincide con il De ratione e il De antiquissima, Vico limitava la conoscenza umana alla sola matematica. Il mondo naturale resta precluso all’uomo: si physica demonstrare possemus, faceremus – ricorda Croce. E subito aggiunge: se uno e medesimo è il principio che regge la conoscenza umana e quella divina, tuttavia l’uomo non conosce che astrazioni, il suo sapere, nonché essere divino, è simia Dei. Soltanto in una seconda fase, culminante nella Scienza nuova, il verum et factum convertuntur viene posto a fondamento della conoscenza storica (cfr. FV, capp. I e II). Croce quindi vede in Vico la separazione tra sapere storico concreto e sapere astratto, o, nella sua terminologia, pseudoconcettuale, che caratterizza la moderna divisione delle scienze in Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften. Anche Gentile distingue varie fasi non della “gnoseologia”, ma della “filosofia” vichiana: dopo quella di preparazione, una seconda corrispondente, come per Croce, all’elaborazione del De ratione e del De antiquissima, e la terza segnata dal Diritto universale e dalla Scienza nuova (cfr. SV, pp. 112-113). La vicinanza a Croce non deve farci trascurare la notevole distanza:
55
Gentile ricostruisce il processo di formazione della filosofia vichiana come una lenta, e mai compiuta, liberazione dal platonismo, o meglio dal neoplatonismo. E cioè: dal dualismo tra eternità e tempo, Dio e uomo, trascendenza e immanenza. Insomma, Gentile scorge nella mancata risoluzione della filologia nella filosofia il vero limite di Vico. La violenta mescolanza che il Vico, dualisticamente, è indotto a fare, sulle orme di Platone, della considerazione speculativa (sub specie aeterni) della storia con la considerazione empirica (sub specie temporis) ha fatto della Scienza Nuova una filosofia della storia, laddove essa avrebbe dovuto esser nella forma, come è nella sostanza, e in ciò che costituisce il suo valore, una filosofia dello spirito, cioè una metafisica della realtà intesa come spirito. (SV, p. 111)
Sotto una comune terminologia – rifiuto della filosofia della storia a favore della filosofia dello spirito – Gentile e Croce dicono cose diversissime. Li separa – profondamente – la concezione del giudizio, per Croce fondato sulla distinzione, per Gentile sull’opposizione. Il che nell’interpretazione di Vico significa che per Croce verum e factum restano nell’unità distinti, come due diverse modalità del facere; laddove per Gentile il verum è il factum stesso quatenus fit – come non manca di precisare. E quando il factum non è preso nel suo farsi, allora, nonché essere identico al vero, è a questo assolutamente opposto, come la natura rispetto allo spirito, la stasi rispetto al movimento, la luce all’ombra, il morto al vivente. Non credo ci sia molto da salvare delle interpretazioni crociana e gentiliana di Vico. Quanto alla prima è già segno di radicale incomprensione parlare di “gnoseologia vichiana”. Vero è che Croce non prestò attenzione alla differenza tra i due concetti, se definì “Logica” la sua teoria del concetto puro e del giudizio storico, spiegando poi, nella successiva Teoria e storia della storiografia, che il giudizio sul passato nasce sempre da un «in-
56
teresse di vita presente» – ma questo neppure è “gnoseologia”: è psicologismo16! Quanto a Gentile, la sua lettura di Vico presenta gli stessi limiti evidenziati poco sopra nell’interpretazione della Fenomenologia hegeliana. La parte più problematica e interessante del pensiero vichiano – la distinzione tra genitum e factum, ovvero: i due piani dell’accadere storico, il divino e l’umano, e la loro co-implicazione – viene semplicisticamente criticata come non superato residuo di trascendenza. Ora è fuor di dubbio che il problema del metodo che Vico affronta nel De ratione è un problema di gnoseologia, o, più precisamente, di pedagogia della conoscenza. Muovendo dalla convinzione che l’animo è più ampio della mente, Vico sostiene che i giovani debbono dapprima apprendere la topica, e poi la critica, se non vogliono inaridire memoria e fantasia a vantaggio esclusivo dell’intelletto17. Ma, come chiarirà nell’Autobiografia, il problema supremo intorno a cui si affaticava sin dal tempo della I orazione (e qui forse Vico retrodata l’inizio della sua ricerca) riguardava il «Principio [che] unisse egli tutto il sapere umano e divino»18. Non un problema di Erkenntnistheorie, ma di Logica, non cioè il problema della soggettiva conoscenza del vero, ma della costituzione del vero in quanto tale. La precisazione è fondamentale. Muta, tra l’altro, la visione dello sviluppo del pensiero vichiano: allenta il 16. Cfr. B. Croce, LCP e TSS, cap. I. Per quanto criticabile sia questa definizione crociana, si deve pur dire che essa come lega il pensiero (storico) alla prassi, così permette di tenerli distinti, “salvando” la filosofia dall’asservimento al pensiero storico, e cioè dalla riduzione – operata dallo stesso Croce – a mera metodologia della storia. Ma sul tema si veda in particolare B. de Giovanni, LV. 17. Cfr. G. Vico, De ratione, VII, spec. p. 136. Sul De ratione rinvio a V. Vitiello, Vico nel suo tempo, Saggio introduttivo a SN, pp. XCVIII-CVIII. 18. Cfr. G. Vico, Vita, p. 36.
57
legame del De antiquissima con il De ratione, per metterlo in stretto rapporto col De uno. Possiamo ora tornare alla domanda di fondo: il verare-facere definisce la costituzione essenziale del vero?
7 Muoviamo dal testo che si apre con l’affermazione che «Latinis verum, & factum reciprocantur»19. Ad essa segue immediatamente la distinzione tra intelligere e cogitare, quello come conoscenza perfetta, pienamente manifesta, questo come quel “pensare” che è “andar raccogliendo”. Poi ancora la definizione di ratio come arithmeticae elementorum collectio, con la precisazione che di questa l’uomo non è compos, ma particeps. Sin dall’inizio Vico, basandosi sull’etimologia della lingua latina, dice che l’uomo non possiede il fare della verità (genitivo soggettivo: il verare-facere), ma solo vi partecipa. Di qui la distinzione tra genitum e factum, quello proprio di Dio, questo dell’uomo. Dobbiamo ora capire in che consiste questa partecipazione dell’uomo al fare divino, al generare. Già la distinzione tra intelligere e cogitare ci mette sulla strada. Ma Vico vuol essere estremamente preciso nella definizione dei concetti con cui opera. L’intelligere, in quanto sapere (scire) completo e manifesto, è conoscenza delle cose come sono realmente, nei loro elementi interni ed esterni, in quanto cioè – e qui Vico ricorre a un esempio matematico, geometrico, coerentemente con la definizione data della ratio – “immagini solide”; il cogitare, invece, l’“andar raccogliendo”, si ferma alla superficie delle cose, ha di esse solo un’imago plana, superficiale. L’uomo dunque parteciperebbe del verare-facere divino in quanto a lui
19. G. Vico, DA, p. 14, Su questo testo sono fondamentali gli studi di S. Otto, in particolare: Umrisse, Interprétation transcendantal, e Un assioma.
58
sarebbe dato scorrere sulla superficie delle cose. Al “generare” divino, che, procedendo dall’interno, pone in essere (“fa”) la cosa nella sua totalità, corrisponderebbe il “fare” umano che procede dall’esterno e non pone in essere, non “fa”, la cosa, ma solo la propria “immagine” della cosa. Il verare-facere divino, che è infinito, produce forme reali; il verare-facere umano solo immagini-copie, come solo può fare una mente finita. Due diverse e contrapposte modalità del “fare”, dunque? Da un lato il fare infinito, e di contro il fare finito? Dio e uomo, trascendenza e immanenza – l’uno di fronte all’altro, l’uno di contro all’altro: sarebbe questo il “platonismo” di Vico? Il “platonismo” di cui Vico non si sarebbe mai liberato del tutto? Invero questo “platonismo” scolastico (che nulla ha a che fare con Platone) fu quanto mai estraneo a Vico. E infatti, se passiamo dalla considerazione del contenuto della conoscenza, del suo “oggetto”, al “soggetto” del conoscere, ci rendiamo conto che neanche dell’ego cogito possiamo dire che è opera dell’uomo. In contrasto con Malebranche ancor più che con Descartes, Vico scrive: se Malebranche avesse voluto essere coerente con la propria dottrina avrebbe dovuto mostrare come la mente umana riceva la conoscenza da Dio, non solo quella del corpo, del quale è mente, ma anche di se stessa: cosicché non può conoscere se stessa se non si conosce in Dio. La mente, infatti, si manifesta pensando: ma è Dio che conosce in me ed è dunque in Dio che conosco la mia stessa mente. (DA, p. 109)
Il fare dell’uomo non sta di contro al fare divino, se non per un pensiero che si muove alla superficie delle cose. Nel profondo il fare umano coincide con quello di Dio, nel senso che è Dio che opera nell’uomo: Deus in me cogitat. Come nella Fenomenologia dello spirito l’erscheinendes Wissen, il sapere apparente o fenomenico, si svela alla fine vero sapere: «la libera scienza moventesi nella sua forma propria», così in Vico nel verare-facere umano si mostra alla fine il creare divino. E questo, chiaramente, non riguarda solo il lato soggettivo del
59
“fare”, la conoscenza di sé, bensì anche il lato oggettivo, la conoscenza delle cose del mondo. Ché anche l’“andar raccogliendo”, il mettere in ordine in cui propriamente consiste l’attività dell’uomo, in suo “co-agitare”, non è opera dell’uomo quanto delle idee che operano in lui. E le idee – i vera e l’ordo rerum che è proprio delle idee – sono eterne: divine, non umane. L’accusa di trascendenza, il cd. platonismo che Gentile attribuì a Vico, è solo una conseguenza della mancata comprensione del profondo spirito dialettico che animava il pensiero vichiano20. Non abbiamo ancora risposto alla domanda se è il “fare” che caratterizza l’essenza del vero. Ma una risposta pienamente motivata richiede una più ampia analisi dei testi. Dobbiamo dapprima mostrare in che modo Vico argomenta il “togliersi”, il “superarsi” (Sichaufheben) del verare-facere umano nel divino, ovvero: della conoscenza nella Verità, della gnoseologia nella Logica. O, per impiegare i termini di Vico: del “certo” nel “vero”. Passiamo quindi a dire del De uno, che al De antiquissima strettamente si connette.
8 Nel De uno, nel preciso intento di riportare il certo al vero – «certum pars veri» (p. 101) –, Vico scrive: Verum gignit mentis cum rerum ordine conformatio; certum gignit coscientia dubitandi secura. (§ 31, p. 35)
Cominciamo da questa definizione del “vero”, tutt’altro che simplex. Balza agli occhi che essa non ha nulla a che fare con la tradizionale adaequatio rei et intellectus: la conformatio è qui riferita all’ordo rerum e non alla res. Ordo rerum eterno e
20. È la stessa “incomprensione” del dialettismo tra sapere apparente e sapere assoluto della hegeliana Fenomenologia dello spirito: cfr. supra, § 5.
60
non mutevole, che ha a sé conforme una mens pur essa eterna e non mutevole: «Ea autem conformatio cum ipso ordine rerum est et dicitur “ratio”». Da questa ratio, pur essa eterna, che dice ed è la con-formità (l’identità formale) dell’ordine eterno e dell’eterna mente, deriva l’eterno vero: «Quare, si aeternum est ordo rerum, ratio est aeterna, ex qua verum aeternum est» (ibidem). Naturale chiedersi cosa sia questo eterno vero, che deriva (ex qua) dalla conformità di mente e ordine eterni. La risposta si trova nella Sinopsi del Diritto universale, ove Vico definisce vero «quod ordini rerum conformatur» (p. 5). Vero è quindi ciò che è conforme all’ordine eterno dell’eterna mente. Ciò che è conforme, è tale perché si conforma esso all’ordine, o perché è reso conforme dalla aeterna ratio (ex qua verum aeternum est)? Quale che sia la risposta, questo risulta evidente: la conformatio è “doppia”, indica insieme l’identità formale di ordo rerum e mens divina, e il rapporto veritativo della res con l’ordo rerum. La “cosa”, la res – l’“evento storico” come la “cosa naturale”, tà physei onta, factum pur questa, o meglio: genitum – è tale in virtù dell’ordine che l’accoglie. Prima è solo un non definito quod. Chiara la conclusione cui Vico giunge: verità e conoscenza sono unum et idem. Pertanto, più che di logica della storia si deve parlare di onto-logia della storia. C’è da chiedersi, a questo punto, quale spazio mai possa avere in questa prospettiva ontologica la conoscenza soggettiva, la coscientia dubitandi secura. Si è già anticipato l’intento vichiano di risolvere il certo nel vero, la conoscenza soggettiva nella oggettiva verità, ma, per poter realizzare questo intento, è necessario che i termini della distinzione che s’intende superare ci siano. Ora, quale argomento adduce Vico a prova di questa distinzione? Un argomento per absurdum: se non distinguessimo il certo dal vero e il dubbio dal falso, poiché molte cose vere sono ritenute dubbie e innumerevoli cose false considerate certe, giungeremmo a definire le medesime cose vere e false insieme, certe e dubbie allo stesso tempo. Ma l’argomento
61
non regge, perché al livello della verità ontologica, della verità quale ordini rerum conformatio, non si danno cose vere che possano apparire dubbie: nell’orizzonte eterno del vero tutto è certo, sicuro. Tanto meno si danno cose false che appaiono certe. Le cose false, a rigor di termini, non sono: ciò che non si conforma all’ordine delle cose, e cioè quanto non è “accolto”, non appartiene alla sfera dell’essere, semplicemente non è. E tuttavia, se anche l’argomento non regge, resta comunque qualcosa d’inspiegato nella definizione della verità: il quod che è “prima”, logicamente “prima” della verità, e che la verità presuppone. Quale lo statuto d’essere, la costituzione ontologica del quod che all’ordo rerum della mente divina deve conformarsi, per essere? Questa domanda torna spontaneo riproporre là dove nella Scienza nuova Vico, distinguendo le “pruove filologiche” dalle “pruove filosofiche”, afferma che queste vengono prima di quelle. E spiega: prima dell’ordo rerum – del dovette, deve, dovrà che è proprio della storia ideale eterna – non si hanno che “frantumi tronchi e slogati” (cfr. SN44, pp. 905-906). Invero non si hanno neppure questi, perché solo se si ha esperienza dell’ordine è dato avvertirne la mancanza. Ma, a parte ciò, quel che va ora sottolineato è la conseguenza dell’inversione del rapporto certo-vero – topica-critica nel linguaggio del De ratione, filologia-filosofia in quello del De constantia iurisprudentis –: la risoluzione della conscientia dubitandi secura, dell’apprensione soggettiva della verità, nella verità del sapere che è la “cosa stessa”, die Sache selbst: nell’essere-vero della storia ideale eterna. Questa la conclusione necessaria, già presente nella definizione del De uno: certum pars veri. Pars veri non perché sia un segmento del vero, non perché abbia un’esistenza propria, autonoma, nella totalità del vero, ma perché è il momento inconscio del vero, l’operare latente della verità che precede – nella storia ideale eterna – l’operare manifesto: l’operare latente, o inconscio, che si “toglie”
62
da sé nell’ascendere al vero. Un percorso, questo, che ricorda da vicino la hodós che Hegel descrive nella Fenomenologia dello spirito: il cammino dall’esperienza della coscienza alla coscienza dell’esperienza, nel quale è sempre la Verità della coscienza che opera nel profondo, dapprima in latenza, poi sempre più manifestamente, sino alla completa Offenbarung der Tiefe, alla compiuta rivelazione del Fondo dell’essere. Ed è solo per questa onnipresenza della Verità che è possibile affermare che le “pruove filologiche” vengono ultime in quanto mostrano in concreto, in re, la verità delle “pruove filosofiche”, della “realtà”, cioè, dell’ordo rerum. Abbiamo ora anche la risposta alla domanda riguardo allo statuto d’essere del quod: quanto è prima della verità non è il dubbio e/o il falso, è l’operare stesso della verità, ma inconscio. Riflettendo sul certo, piegandosi indietro sul momento precedente, la verità scopre se stessa nel suo “passato”, quando ancora non era consapevole di sé. Verum et factum convertuntur, allora, o non, piuttosto, verum et certum? Questa domanda anticipa un dubbio – solo un dubbio, per ora – e cioè: se la sfera del fatto non sia più ampia di quella certo; se il fatto non si trascini dietro un’“ombra” che alla luce del vero si sottrae. Se il quod non alluda – non alluda almeno – a quest’ombra. Ma atteniamoci, ora, a quanto s’è detto: al certum pars veri in quanto momento inconscio dell’operare della ratio, ovvero della verità in quanto assunzione del “fatto” nell’ordo aeternae historiae. Questa impostazione permette di tenere insieme due tesi che si leggono nella Scienza nuova a breve distanza di pagine, e che sembrano in forte contrasto tra loro. La prima afferma che nella «densa notte di tenebre» che avvolge «la prima da noi lontanissima Antichità» una verità si mostra, non revocabile in dubbio, e cioè che «questo Mondo Civile egli certamente è stato fatto dagli uomini» (SN44, p. 894); la seconda che la Scienza nuova è la dimostrazione che la storia è opera della Provvedenza, la quale agisce «senza verun’ umano scor-
63
gimento, o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini» (SN44, p. 901). Cominciamo col dire, per sciogliere il nodo della contraddizione, che la tesi secondo cui “questo mondo civile è stato fatto dagli uomini” non attribuisce di necessità all’umanità storica un autonomo operare, un facere e un verare distinti dal verare-facere divino; può anche dire all’inverso che nel fare umano opera non l’uomo, ma gli eterni principi che fanno la storia. Può anche dire; di fatto questo dice Vico nella Scienza nuova: questo Mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini: onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i Principj dentro le modificazioni della nostra medesima Mente Umana. (SN44, p. 894)
Il verare-facere non appartiene all’uomo, alla conoscenza e alla prassi umana. Se qualcosa può dirsi sia proprio dell’uomo, non è certo il fare – che è di Dio – ma il «contemplare» (Sinopsi, p. 5). Il contemplare l’operare divino in lui: virtù che permane anche dopo la corruzione del peccato di Adamo, se è stato possibile scrivere un’opera come la Scienza nuova che tratta appunto dell’operare della Provvedenza. Ma fermiamoci sulla forma di questo “operare”. All’essenza di Dio è propria la conoscenza che genera, la verità creatrice. Verità eterna, aeterna generatio. Ed aeterna non nel senso umano, troppo umano, solo umano, di generazione che perdura senza avere mai fine. Eterna, bensì, perché non è nel tempo: perché già da sempre avvenuta. Il circolo della storia ideale eterna, i corsi e ricorsi, il “dovette, deve, dovrà”, non ha sviluppo: è, e soltanto è. Nulla definisce il sapere storico, che è proprio della storia ideale eterna, meglio di questo passaggio hegeliano che si legge nelle Vorlesung über die Philosophie der Geschichte: Quando abbiamo a che fare con l’idea dello spirito e consideriamo tutto quanto accade nella storia solo come sua apparen-
64 za, allora, scorrendo il passato, per quanto grande sia, abbiamo a che fare solo col presente, poiché la filosofia, occupandosi del vero, ha sempre a che fare con l’eterno presente. Niente per essa è perduto nel passato, perché l’idea è presente, lo spirito immortale, e cioè non è passato né non è ancora, ma è essenzialmente ora. (VPhG, p. 105; it., p. 69; tr. mia)
Nulla – se e quando il fatto è pareggiato al certo, al momento inconscio del vero. Nulla – fin quando si pensa che il sapere storico assimili totalmente, perfettamente, il quod all’ordo rerum.
9 Ma questa “interpretazione”, verso cui inclinano non poche pagine vichiane, non è però “necessaria”. Di più: a una lettura più attenta alle pieghe, alle fratture e alle contraddizioni che rendono la Scienza nuova un testo inquieto e inquietante come pochi nella letteratura filosofica mondiale, essa si mostra unilaterale e monca – alla fine “non vera”. Mi fermo, per dar ragione di questa mia impegnativa (lo so bene) affermazione, su un punto soltanto, ma fondamentale per la comprensione della struttura a strati della Scienza nuova. Riguarda direttamente la prima età della storia ideale eterna, ma non può non coinvolgere l’intera opera, e mettere in crisi la stessa geniale intuizione dell’ampliamento della mathesis universalis alla storia. In tutte e tre le edizioni della Scienza Nuova Vico ricorda «l’aspre difficultà» incontrate per «discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani; le quali ci è affatto niegato d’immaginare, e solamente a gran pena ci [è] permesso d’intendere»21. L’esito di questo filosofico descensus Averno – che l’ha impegnato per “ben vent’anni” – pone molti problemi. Vico non solo ne è consapevole, ma ha 21. SN44, p. 899; cfr. altresì, SN25, p. 69; SN30, pp. 486, 635; SN44, p. 1099.
65
il coraggio di sottolinearlo. Certo la “difficoltà” è nella cosa stessa, nello sguardo che osa fermarsi su quella zona grigia, indefinita, che è l’estremo limite delle tenebre nel fondo della Dipintura, che il raggio della divina Provvedenza non penetra, ma sfiora appena. L’inizio appare impenetrabile quasi come la selva, se Vico, per trovare un terreno meno infido, s’allontana alquanto dalla prima origine, puntando lo sguardo su un “luogo” più vicino alle «nostre umane ingentilite nature», al tempo in cui i fieri bestioni cercarono asilo nelle Città, presso i primi cives, ad essi sottomettendosi. Ma proprio nel fermare la mente su questo luogo dove la tenebra già incontra la luce, abbandona Livio per affidarsi a Orfeo. Cerca l’“immagine” dove l’“intendere” nulla può. Ma è sin troppo consapevole, il filosofo, che il suo è un tentativo destinato al fallimento. L’immagine di Orfeo è già tutta penetrata e dominata dall’intelletto, ché alle nostre nature ingentilite è affatto niegato il “puro” immaginare. E l’intendere, anche ottenuto a gran pena, non basta. Come attesta il fatto che l’ombra dell’inizio s’espande sulla fine della prima età, confondendo i confini tra gli dèi e gli eroi, che talora s’identificano (cfr. SN44, p. 950). Vico si difende con un paragone di sicuro pregio letterario, ben noto – quello delle acque dolci dei fiumi che per lunghi tratti del mare in cui sfociano non si mischiano all’acqua salata (cfr. SN44, pp. 936 e 1063) –; ma è davvero arduo attribuire all’esempio felice un qualche valore d’argomento. Ma questi sono solo “particolari”. Necessari per introdurci, ma solo per introdurci, nel vero problema che travaglia la Scienza nuova, “toccando” il suo punto focale: l’estensione della mathesis universalis all’orizzonte della storia, geniale intuizione, che mostra, tra l’altro, la piena partecipazione di Vico al dibattito del suo tempo sul tema della “scienza”. Rilevo qui, di passaggio, che è il medesimo problema affrontato da Grozio, nel De iure, riguardo al diritto, e da Spinoza, nell’Ethica, riguardo alle “passioni”. Con la differenza, però, che l’Olandese, nonché estendere i confini
66
della mathesis universalis – superando lo schema geometrico della figura piana – tratta le passioni come punti, linee e superfici. Guarda, cioè, le passioni soltanto nel rispetto della grandezza “estensiva”, e non dell’“intensiva”. Questa, nella sistematica distinzione della natura naturans dalla natura naturata, appartiene non alle relazioni che si costituiscono tra le passioni, ma alla relazione delle passioni con la sostanza, al conatus. In breve: laddove Vico “kenotizza” l’essere nell’ente, moltiplica l’Uno nei molti, lega la provvedenza alle storie che corron’ in tempo; Spinoza riconduce – riconduce, non riduce – i molti nell’Uno, senza chiedersi “perché” da quello a questi. Per dirla con Hegel: Spinoza non porta la Sostanza a Soggetto. Neoplatonici entrambi, l’Uno non è problema per l’ebreo Spinoza (problema è piuttosto il molteplice, ma lui non l’avverte); è problema per il cristiano Vico22.
10 Infatti, in che modo è possibile sostenere l’unità delle storie che corron’ in tempo nella storia ideale eterna, poi che s’è detto che del mondo della prima barbarie, del mondo dell’immaginazione, non possiamo avere esperienza effettiva? Quale “giustificazione” è possibile dare del rapporto tra intendere e immaginare, se uno dei termini – l’immaginare, appunto – ci è impedito conoscere? Ovvero: come rendere “giusta” la nostra pretesa, la pretesa di noi uomini di ingentilita natura, di entrare nell’animo di quei lontani figli della Terra? E non è incongruo parlare riferendoci ad essi di “animo”? Ma se è incongruo parlare di “animo”, come possiamo parlare di “passioni”? Usiamo forse la parola “passione” parlando degli altri animali? Bisogna riconoscerlo: non abbiamo linguaggio per 22. Sul tema cfr., il già cit. (supra, cap. I, nota 7) Saggio introduttivo a SN, cap. II: Spinoza e Vico.
67
comunicare con loro. Con il linguaggio ci rapportiamo ad essi come a oggetti o strumenti del nostro operare. La comunicazione è esclusivamente tra di noi, “umane ingentilite nature”, riguardo all’uso che di essi intendiamo fare. La storia ideale eterna, è giocoforza riconoscerlo, non è l’orizzonte della storia: è solo la prospettiva che un tempo storico – nel nostro caso il tempo moderno – proietta sull’accadere. Ma, nel dir questo, bisogna essere attenti a evitare la contraddizione propria dello “storicismo”, che, pur quando afferma il limite della prospettiva storica, non manca di inserirla in una totalità che definisce genericamente “storia” o “divenire”23. Coerenza vorrebbe che non si parlasse di totalità, e men che mai di storia universale. L’esperienza storica, non altro che l’esperienza storica, vieta di solvere il quod nell’ordo rerum. Di ridurre il factum al certum pars veri. Il certo è solo la proiezione della verità sul fatto. È la tirannia della verità che pretende a farsi ontologia. Ma la consapevolezza, in senso alto “storica”, della distanza che separa l’intendere dall’immaginare rende vana questa pretesa. È vero: “il Diritto Romano fu un Poema serioso”; è vero: “l’Antica Giurisprudenza fu una severa Poesia” – è vero oggi. La verità è il vestito con cui il presente copre il passato – quello che chiama passato, o anche “fu”. E non può che operare così. Non la continuità, ma giusto l’opposto: la discontinuità del tempo genera storia. La storia non è; la storia è generata. È generata – e non: si genera. L’ente storico non è mai “per sé”, ma sempre “per altro”, “da altro” e “presso altro”.
23. Esemplare il caso di Croce che nell’atto stesso di definire il confine tra storia e natura, ri(con)duce questa a quella: «la natura come storia senza storia da noi scritta» (SPA, pp. 298-304). Ma anche la più “misurata” tesi di Max Weber – «La “cultura” è una sezione finita dall’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo» (MS, p. 96) – pecca, contraddicendosi, del peccato che Vico denunzia nelle prime quattro Degnità della SN (la II in particolare).
68
Questo il quod, di cui si può parlare solo a partire dall’ordo rerum. Talché l’ordo rerum nel momento stesso che si estende al tutto fissa il proprio limite. La stessa ingens sylva è tale, ingens e sylva, nella prospettiva della storia ideale eterna, ossia: della visione storica. Che, nel prendere coscienza di ciò, non nega il quod che de-finisce, de-termina, coprendolo di panni e colori suoi, della conoscenza e non di quello che il conoscere copre, anzi lo suppone possibile. Se lo negasse assolutamente, negherebbe il proprio limite; del pari se lo supponesse reale. Già, perché la differenza del fatto dalla verità concerne non anche, ma anzitutto il fatto della verità. Ciò significa che quanto la verità sa e dice riguardo a se stessa è possibile e non reale. Anche quest’ultima affermazione di verità è solo possibile.
11 Il limite, che la differenza tra l’immaginare e l’intendere pone alla verità, riguarda il futuro non meno del passato. Riguarda invero l’orizzonte tutto della storia ideale eterna, col ribaltare il rapporto tra la Hóra e il nŷn. Non la Hóra – il presente che non passa di Hegel – tiene insieme, e in sé, i molteplici nŷn, bensì il nŷn con-tiene la Hóra, è perciò è detto kairós. La “lettera” del testo giovanneo – érchetai hóra kaì nŷn éstin – è “restaurata”, esprimendone compiutamente, perfettamente, lo “spirito”: il senso più profondo. È in questa prospettiva che ci proponiamo di “leggere”, chiudendo questo “confronto” tra Hegel e Vico, la teoria dei ricorsi storici con cui termina la Scienza nuova. Motivazione non secondaria di questa lettura è la sua capacità di legare l’ultimo Libro e la Conclusione dell’Opera, in cui la suddetta teoria è diffusamente esposta e ragionata, a quanto nel finale della spiegazione della Dipintura allegorica, che introduce e riassume l’opera, Vico scrive, richiamando anche “visivamente” l’atten-
69
zione del leggitore: «LE TENEBRE NEL FONDO DELLA DIPINTURA sono la materia di questa Scienza incerta, informe, oscura» (SN44, p. 814). La “materia”, certo, che la Scienza deve elaborare, ma che non può mai, però, “consumare”, come gli animali il cibo, per citare l’esempio di Hegel. La stessa Provvedenza, pur reggendo le sorti dell’umana specie, è costretta talora ad arretrare di fronte alla potenza di questa “materia” tenebrosa, lasciando che giunga al male estremo della barbarie della ragione, perché poi si ravveda. Ma si legga questo brano di alta letteratura e profonda riflessione morale, che inizia con una considerazione “politica”: Ma se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malore; che nè dentro acconsentino ad un Monarca natio; nè vengano nazioni migliori a conquistargli, e conservargli da fuori; allora la Provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che, poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare, ch’alle particolari propie utilità di ciascuno; & avevano dato nell’ultimo della dilicatezza, o per me’ dir, dell’orgoglio, ch’a guisa di fiere nell’essere disgustate d’un pelo, si risentono, e s’infieriscono, e sì nella loro maggiore celebrità, o folla de’ corpi, vissero, come bestie immani, in una somma solitudine d’animi, e di voleri; non potendovi appena due convenire, seguendo ogniun de’ due il suo propio piacere, o capriccio: per tutto ciò con ostinatissime fazioni, e disperate guerre civili vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini; e ’n cotal guisa dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi; che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione, che non era stata la prima barbarie del senso: perchè quella scuopriva una fierezza generosa; dalla quale altri poteva difendersi, o campare, o guardarsi: ma questa con una fierezza vile dentro le lusinghe, e gli abbracci insidia alla vita, e alle fortune de’ suoi confidenti, ed amici. Perciò popoli di sì fatta riflessiva malizia con tal’ ultimo rimedio, ch’adopera la Provvedenza, così storditi e stupidi non sentano più agi, dilicatezze, piaceri, e fasto, ma solamente le
70 necessarie utilità della vita: e nel poco numero degli uomini al fin rimasti, e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e per la ritornata primiera semplicità del primo Mondo de’ popoli, sieno religiosi, veraci, e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia, e sono grazie, e bellezze dell’ordine Eterno di Dio. (SN44, pp. 1260-1261)
Dietro la descrizione di questo ricorso “felice” non vi sono i falsi circuli pagani, condannati da Agostino; c’è un forte sentimento morale, consapevole che non si può far fronte al malum mundi, alla possibilità della fine non della civiltà, ma della storia, dell’uomo – possibilità che è nella “materia” stessa dell’uomo e del tempo dell’uomo, la storia –, se non dando forma e figura a quella materia che non ha forma e figura. E donde prende, può prendere, l’umanità storica le forme e le figure, per dare un volto a ciò che la minaccia? donde, se non dal suo passato, da quel passato che già vinse le tenebre dell’ingens sylva? Si rivela qui la funzione della “storia ideale eterna”: medio necessario all’uomo – e specie all’uomo di ingentilita natura – per contrastare, proiettando nel futuro l’immagine del passato, l’ingens sylva, che sempre prospera in noi stessi e nel mondo. Torna qui utile riprendere il confronto con Hegel. Ma con altro Hegel: non l’“ontologo” della storia, ma il fenomenologo dello spirito, che proprio là dove maggiormente ne esalta l’assolutezza, più fortemente avverte la potenza che lo insidia: die lichtscheue Macht, la potenza che ha in orrore la luce. Potenza non estranea all’autocoscienza spirituale, anzi intimior intimo suo, e perciò nascosta, inconscia – ed estremamente pericolosa. Entrambi, Vico e Hegel, hanno ri-conosciuto il carattere tragico della storia umana, l’irriducibile legame dell’umano all’umbratile Terra, che insieme ti condanna e ti salva. Ma hanno affrontano la sfida dell’“ombra” in modo opposto: Hegel opponendo potenza a potenza, Vico ritraendosi, riconoscendo il limite, accettandolo.
71
Le parole finali della Scienza nuova – «In somma, da tutto ciò che si è in quest’Opera ragionato, è finalmente da conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo Studio della Pietà; e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio» – provano che nel profondo, nel più profondo, la funzione della storia ideale eterna non è logica né ontologica, ma morale. È la risposta, la risposta ultima di Vico all’apocalittica della storia: domani potrebbe non esserci domani. Ho kairòs sunestalménos estín.
73
III Parlare scrivendo, cantando Con Vico e Nietzsche: alla radice del linguaggio
Ermogene: Ma allora, Socrate, che tipo di imitazione sarebbe il nome? Socrate: Prima di tutto, come pare a me, non quando imitiamo le cose così come le imitiamo con la musica, sebbene anche in questo caso le imitiamo con il suono, e poi non quando imitiamo quelle cose che imita anche la musica, noi le denominiamo. Dico questo: le cose hanno suono [phonè] e figura [schêma] e molte anche colore [chrômá]? (Platone, Cratilo, 423c-d) Seguitarono a formarsi le voci umane con l’Interjezioni; che sono voci articolate all’empito di passioni violente, che ’n tutte le lingue son monosillabe. Onde non è fuori del verisimile che, da’ primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima Interjezione da quella di Giove, formata con la voce, pa, e che poi restò raddoppiata pape; interjezione di maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di Padre degli uomini, e degli Dei, e quindi appresso, che tutti gli Dei se ne dicessero Padri, e Madri tutte le Dee. (G. Vico, SN44, p. 959) Di Wagner musicista si potrebbe dire in generale che ha dato un linguaggio a tutto ciò che nella natura non aveva ancora voluto parlare: egli non crede che ci debba essere qualcosa di muto. Si immerge anche nell’aurora, nella foresta, nella nebbia, nel burrone, nella cima del monte, nel brivido della notte e nello splendore della luna, e scopre in loro un desiderio segreto: essi vogliono anche risonare. (F. Nietzsche, WB, pp. 490-491; it., p. 62)
74
1 Dal Faust di Goethe, Atto II, Klassische Walpurgisnacht: il savio Chirone dice a Faust: Vedo, i filologi, Hanno ingannato te come se stessi. (vv. 7426-7427)
Commento questo distico con una riflessione del giovane Nietzsche sulla filologia: È diffusa l’opinione che la filologia abbia a che fare solo con i pensieri fissati per iscritto, e perciò solo con uomini del passato e con la loro concezione del mondo, mai però direttamente con la natura. Come se essa esaminasse solo gli occhiali con cui uomini lontani vedevano il mondo. – Ma se noi cerchiamo di intendere questi uomini straordinari, insieme ai loro pensieri, solo come sintomi di correnti spirituali, come sintomi della vita ininterrotta degli istinti, tocchiamo direttamente la natura. Lo stesso accade quando procediamo fino all’origine del linguaggio. (AF, p. 188)
Alla riflessione nietzschiana faccio seguire questa considerazione di Vico: Come prima la lingua eroica aveva diviso gli eroi dagli uomini, così dopo la lingua volgare divise i filologi dai filosofi. Il motivo di questa seconda osservazione è che, poiché la lingua volgare, in quanto comune, non riusciva a descrivere la natura e le proprietà delle cose, sorse la scissione tra i filosofi che si dettero a investigare sulla natura delle cose, e i filologi che invece investigavano sulle origini delle parole; e così la filosofia e la filologia, che erano nate tutte e due dalla lingua eroica, vennero ad essere divise dalla lingua volgare. (Notae, p. 770)
Se Nietzsche spiega come e perché i filologi si siano ingannati, e abbiano ingannato, Vico chiarisce che i filologi non furono i soli a errare; con loro, e non meno di loro, hanno errato i filosofi. Ed entrambi, Nietzsche e Vico, richiamano l’attenzione sul linguaggio. Meglio, sull’origine del linguaggio. E quando
75
parliamo dell’origine del linguaggio, dobbiamo andare ancora più indietro della lingua eroica. “Più indietro” non dice qui: più “in alto”; al contrario, dice: più “in basso”. La metafora spaziale vuol indicare quanto osserva Vico nella Scienza nuova, e cioè che «le Origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze» (SN44, p. 911). Interroghiamoci, allora, anzitutto su questa “rozzezza” delle origini. La difficoltà è notevole: Vico la dichiara già nella prima Scienza Nuova (cfr. SN25, Libro I, Capo XIII, pp. 68-69), ma è sovrattutto la sua stessa opera a evidenziarla, ché non sempre egli seppe mantenersi all’altezza delle sue “scoperte”. Valiamoci dunque ancora di Nietzsche, come di un battistrada. Ma per entrare nei recessi più impervi del pensiero vichiano non basterà Nietzsche, dovremo rivolgerci ad altro e ben più “fondamentale” filosofo. Per introdurci al tema, però, Nietzsche, il giovane Nietzsche, resta la migliore guida.
2 Immediatamente prima della Nascita della tragedia, negli anni di incubazione dell’opera sua, se non più nota, certo più letta, Nietzsche scrive Die dionysische Weltanschauung, un saggio importante per noi che c’interroghiamo sulle origini del linguaggio. Nietzsche muove dalla comune nozione del “linguaggio-comunicazione”, ma subito precisa che la prima comunicazione è del “sentimento”, definito, sulla scorta di Schopenhauer, «un complesso di rappresentazioni inconscie e di stati della volontà» (DW, p. 572; it., p. 70). Non la coscienza è dunque all’origine del linguaggio; anzi essa, allontanando dall’immediatezza del sentire, ostacola la comunicazione diretta. Neppure la poesia, il linguaggio dei suoni, è comunicazione diretta, pur valendosi di rappresentazioni inconsce. Diretto è invece il linguaggio dei
76
gesti (Gebärdensprache), che dà la cosa stessa. Il sentimento del dolore si esprime direttamente nel gesto della mano che si ritrae, così come quello del piacere nel sorriso del volto. Ma proprio questi esempi rivelano che il sentire è un Doppelwesen, ha una doppia natura. Sulla scena gli attori mimano dolore e piacere che non sentono. Mimano l’immagine del dolore e del piacere, non il dolore e il piacere. Mimano non il sentire, ma la sua immagine. Il Doppelwesen cela una parte di sé; e non solo nell’imitazione, bensì nel gesto stesso. La doppiezza sta in ciò, che anche il gesto, che comunica direttamente il sentire, non è il sentire, ma la «rappresentazione concomitante [begleitende Vorstellung]» (DW, p. 573; it., p. 71). Questa radicale distinzione tra sentimento e immagine – radicale distinzione nell’unità dei due – conosce però un’unificazione più forte e intensa del gesto stesso. In un suono particolare: im Schrei, nel grido. Nel grido l’“ebbrezza del sentimento” si esprime immediatamente, direttamente: «In confronto allo sguardo, quanto più potente e più immediato è il grido» – osserva Nietzsche (DW, p. 575; it., p. 74). Il grido, e cioè: il “suono” (der Ton) che diviene “musica”. E qui “musica” non indica la forma d’arte che il nome evoca; musica qui dice di più, nomina il “suono” che è sotteso a questa forma d’arte, la sua essenza profonda, che si manifesta «soprattutto nei supremi stati di piacere e di dolore della volontà, quando la volontà tripudia oppure è mortalmente atterrita, in breve è nell’ebbrezza del sentimento [im Rausche des Gefühls]: nel grido» (ibidem). Il suono che “diventa musica” giunge là dove il gesto non arriva: Con il gesto [l’uomo] rimane […] entro i limiti della specie, ossia entro il mondo dell’apparenza, mentre col suono egli dissolve per così dire il mondo dell’apparenza nella propria unità primordiale, e il mondo di Maja scompare di fronte al suo incantesimo. (Ibidem)
77
3 Torniamo a Vico. «Gli uomini – scrive – sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati & allegri» (SN44, Degnità LIX, p. 875). Il “canto” di cui parla Vico corrisponde esattamente al “grido” di Nietzsche. Questo canto è infatti una voce monosillaba, non un suono articolato. Non è musica in quanto ritmo e armonia, bensì musica in quanto puro suono. E cioè: voce immediata della passione – o dell’ebbrezza del sentimento, von dem Rausche des Gefühls, per ripetere Nietzsche. I “mutoli” vichiani – i mutoli di cui parla la Degnità LVII – non sono, dunque, sprovvisti di voce, non sono “afoni”, ma, diversamente dagli “scilinguati”, non articolando le voci, «mandan fuori i suoni informi cantando» (SN44, Degnità LVIII, ibidem). Ed è da questi monosillabi che iniziano le lingue, come Vico spiega con l’esempio dei fanciulli, che, «quantunque abbiano mollissime le fibbre dell’istrumento necessario ad articolare la favella, da tali voci incominciano» (SN44, Degnità LX, ibidem; cfr. anche pp. 962963 e 964-965). L’esempio sta a significare che l’ontogenesi ripete la filogenesi: il singolo ripercorre le tappe del processo che nella grande storia è iniziato con l’uscita dei bestioni dalla natura – mediante il linguaggio. Ma per comprendere tutto ciò nei particolari, è necessario ben lungo discorso. Nel quale anzitutto questo è da rilevare, che diversamente da Nietzsche che intellettualisticamente separò gesto e suono, Vico ne vide chiarissimamente l’originaria unità. La voce monosillaba, il suono inarticolato iniziale, è insieme gesto, è “geroglifico”. E qui bisogna ben intendere cos’è “geroglifico” per Vico. Non la scrittura pittografica degli Egizi – ch’egli pur spesso richiama per spiegarsi con esempi –: questa appartiene a ben più tarda età della storia, come dell’umanità così del singolo uomo; e neppure i disegni, i graffiti dei primi “pii” bestioni della “storia ideale eterna”. Qui siamo – come vedremo – in un “tempo” ancora anteriore, in un tempo antecedente il tempo preistorico dell’usci
78
ta dall’ingens sylva. Siamo nel tempo di una barbarie ancor più barbara, più primitiva. Siamo ancora nell’ingens sylva. Ma procediamo con ordine. I “geroglifici” di cui qui ci parla Vico sono gli “atti o corpi”, «co’ quali si truovano aver parlato tutte le Nazioni nella loro prima barbarie» (SN44, Degnità LVII, p. 875). Facciamo attenzione: Vico qui dice che con questi atti o corpi, e cioè con questa scrittura del corpo, hanno “parlato” le nazioni nella loro prima barbarie. Parlato – dice. E va preso alla lettera. I geroglifici sono “voci monosillabe”: scrittura e suono – insieme. Non solo scrittura, né solo suono, ma insieme “suono e scrittura”, “scrittura e suono”. Al grido, che esprime l’ebbrezza della passione, s’accompagna un gesto. O, meglio: il gesto non è una begleitende Vorstellung, una rappresentazione che accompagni la voce, è la “figura” della “voce”; così come la voce è il “suono della figura”. I due – suono e figura – non si accompagnano, si coappartengono. Non c’è voce senza gesto, né gesto senza voce. In questa unità l’origine del linguaggio. Non sempre, ma certo nei momenti più raccolti e felici della sua meditazione, Vico coglie questa unità con cristallina limpidezza. Ad esempio, laddove mostra la comune origine delle “lettere” (grámmata) e delle “lingue” (cfr. SN44, pp. 943-944). “Parlare scrivendo” e “parlare cantando”, insomma, sono uno e medesimo. Perché son uno e medesimo le parole e le cose. Ma per intendere questo “uno e medesimo” – questo uno e medesimo che è alla radice di quella Nota 33 al Librum alterum del Diritto universale, citata all’inizio – dobbiamo, come s’è anticipato, lasciare Nietzsche e seguire Platone.
4 Vico ha avuto Platone come mentore e guida. Ha percorso entrambe le vie che nel Cratilo – opera tanto fondamentale, quanto fraintesa – Platone ha battuto per giungere all’essenza del linguaggio: quella etimologica, dapprima; poi quella che amo
79
definire, con espressione suggeritami dallo stesso Vico, “reale”. Seguiamole entrambe. Ma, prima di iniziare, ritengo necessario dire che Vico fu spinto a meditare sul Cratilo dalla convinzione, che ebbe non meno profonda di Nietzsche, dell’esito fallimentare dell’episteme occidentale, interamente catturata dalla lingua “pistolare”. La Nota 33 al De constantia philologiae è una riflessione drammatica su questo fallimento: non inganni il tono oggettivo, schematico, in cui viene formulata. La via etimologica, dunque. Il primo passo è quello della scomposizione delle parole nei loro elementi. L’esempio più ragguardevole, dal punto di vista dell’inventività filologica, è in Platone la scomposizione di ánthropos in anathrôn hà ópope, che significa: “quegli che riflette su ciò che ha visto”, laddove ogni altro animale non considera, non ripensa, non anathreî ciò che vede (Cratilo, 399c). Tra i molti altri esempi che si possono menzionare, ricordiamo la riconduzione di aquilae ad aquilegae e aquilex: «Così gli uomini semplici e rozzi, seguendo l’aquile, le quali credevano esser uccelli di Giove, […] ritruovarono le fontane perenni» (SN44, p. 998). Ma una volta scomposta la parola nei suoi elementi, bisogna trovare il legame tra questi e le cose. Platone riconduce theoí, gli dèi, a theîn, correre, e spiega: «i primi uomini viventi nell’Ellade, come la maggior parte dei barbari», ritennero dèi «il sole e la luna e gli astri e il cielo» che vedevano sempre correre (Cratilo, 397c-d). Vico, a sua volta, dopo aver rilevato che tutte le voci nascono monosillabe, fa risalire “Ious”, il nome latino del «re e padre degli dèi e degli uomini», «per onomatopea [al] fragore del tuono», e “Zeus”, il nome greco, al «fischio del fulmine» (SN25, p. 254). Dalla gran copia di esempi che entrambi i filosofi adducono, abbiamo scelto questi due perché evidenziano una differenza che non va taciuta. L’onomatopea, a cui Vico si richiama, fornisce certo una soluzione al problema del rapporto tra suono e cosa, ma una soluzione molto parziale. Per Giove e Zeus si può certo fare appello ai tuoni e ai fulmini, per
80
gli animali al loro verso, per gli alberi allo stormire delle fronde, ma per le pietre? Quale suono hanno le pietre, e i monti, e i corpi del cielo? le nuvole, gli astri? Platone, invece, respinge esplicitamente l’onomatopea (Cratilo 423b-c), ma esibisce una spiegazione ancor più tortuosa. Quella, ben nota, della differenza nel modo di pronunciare le lettere: la “rhô” – che si trova in rheîn (fluire), rhoé (flusso), trómos (tremore), tréchein (correre), ecc. – indica movimento, in quanto «nel pronunciarla la lingua sta ferma il meno possibile e vibra il più che può», laddove “délta” e “taû” – presenti in desmós (legame), e stásis (sosta), ecc. – fan segno alla quiete, dacché per pronunciarle la lingua deve far pressione sui denti e appoggiarvisi, sostando (426d-427b). Inutile continuare con altri esempi. È evidente l’artificiosità della dimostrazione. Difficile, se non impossibile, pensare che Platone non ne fosse consapevole. E allora? Allora dobbiamo chiederci cosa sta dietro le manchevoli considerazioni di Vico, e le artificiose argomentazioni di Platone. Perché “rhô” è la lettera del movimento, e “délta” e “taû” della stasi? Perché nel pronunciare la prima la lingua si muove, vibra, e cioè imita il movimento, contrariamente a ciò che fa pronunciando le altre due lettere: “délta” e “taû”. Il senso dell’esempio è tutto qui, come emerge chiaramente da quello che Platone dice nel seguito del dialogo, quando adduce l’esempio del gesticolare dei “muti”. Cosa fa chi non ha voce quando vuol comunicare ad altri il levarsi in alto di una foglia per un colpo di vento, o il suo cadere in basso? Alza la mano nell’un caso, l’abbassa nell’altro. Imita il fatto: non la foglia, non ciò che si muove – bensì il movimento. E come lo imita? Non altrimenti che col movimento. Imita il simile col simile. E ora Vico. A cosa allude l’“onomatopea” nel suo senso più profondo e vero? Al rapporto uomo-cosa, come s’è detto. Rapporto che si configura come espansione dell’uomo sull’intera natura. Come attestano queste espressioni tratte dal comune parlare: «lingua di mare», «braccio di fiume», «viscere della
81
Terra». A questi esempi Vico aggiunge le locuzioni antiche dei «contadini del Lazio»: «sitire agros», «laborare fructus», «luxuriari segetes», e le moderne dei nostri contadini: «andar’ in amore le piante», «andar’ in pazzia le viti», «lagrimare gli orni» (SN44, p. 933). Né pare fermarsi alla Terra questa espansione dell’umano; ne è coinvolto – se ne è fatto già cenno poco innanzi – anche il Cielo: il tuono è la voce di Giove, e la folgore il suo gesto, perché con voci monosillabe e gesti del corpo la prima umanità esprimeva le proprie passioni. Un “antropocentrismo” ingenuo sembra domini l’esperienza di mondo di quei primi uomini appena usciti, o in via di uscire, dall’ingens sylva. C’è da chiedersi, però, se, così ragionando, non siamo noi a peccare di “ingenuo” anacronismo, interpretando un passato a noi remoto con le nostre categorie, le categorie dell’età della riflessione1. Possiamo attribuire a Vico – che in tutt’e tre le Scienze nuove non ha mancato di avvertirci della difficoltà di entrare nell’“immaginazione” di quei “primi uomini” – una tale ingenuità?
5 Dopo aver menzionato vari autori e varie dottrine sull’origine del linguaggio, Vico scrive: Cotanta licenza di oppinare d’intorno all’Origini delle Lettere deve far’ accorto il Leggitore a ricevere queste cose, che noi ne diremo, non solo con indifferenza di vedere, che arrechino in mezzo di nuovo; ma con attenzione di meditarvi, e prenderle, quali debbon’ essere, per Principj di tutto l’Umano, e Divino Sapere della Gentilità.
1. Sul tema cfr. infra, B, III, §§ I.2 e II.2, sulla distinzione tra l’“antropo centrismo teologico” della lingua edenica in Benjamin e l’“antropomorfismo” dei vichiani Terrae filii.
82 Perché da questi Principj di concepir’ i primi uomini della Gentilità l’idee delle cose per caratteri fantastici di sostanze animate, e mutoli di spiegarsi con atti, o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee, quanto, per esemplo lo hanno l’atto di tre volte falciare, o tre spighe, per significare tre anni, e sì spiegarsi con lingua, che naturalmente significasse […]: da questi Principj, diciamo, tutti i Filosofi, e tutti i Filologi dovevan’ incominciar’ a trattare dell’Origini delle Lingue, e delle Lettere. (SN44, pp. 944-955)
Facciamo tesoro di questo avvertimento vichiano, meditando su quanto e Vico e Platone ci dicono, anche se non sempre in modo perspicuo. Cominciamo dall’ultima proposizione, anzi dalla sua chiusa: le «Origini delle Lingue, e delle Lettere». Lingue e lettere – come s’è detto di sopra – sono e non sono il medesimo. E cioè gesto e voce, geroglifici “corporei” e voci monosillabe – i “suoni”, le phonaí, che escono dal petto nella passione dell’agire (o anche solo nel compiere uno sforzo) – si coappartengono. Il “geroglifico” – quello che Vico chiama geroglifico – ovvero il gesto (“atti o corpi”) non è la voce: è il gesto della voce, la sua figura. Quella figura che la voce conserva anche in assenza del gesto. Quando uno non vede il gesto, ma ode il suono che al gesto appartiene, nell’udire la voce si figura il gesto. La voce, dunque, “memorizza” il gesto, la figura della voce. E parimenti il gesto, la figura della voce, conserva – “memorizza” – il suono che al gesto appartiene. Gesto, figura: morphé in greco; e morpházein dice: gesticolare. Sinonimi di morphé sono eîdos, schêma, paradeígma, e pur anche lógos – termini tutti che Aristotele adopera insieme con, o più spesso al posto di, morphé2. Il primo, eîdos – dalla radice “id” di ideîn (vedere) –, è più legato alla figura esteriore, all’aspetto, che non all’atto del gesto. 2. Cfr. Aristotele, Met, A, 983a 24 ss., 1013a 26-27; E, 1025b 28-29; Z, 1029a 2-6; Phys, B, 193a 29-31; A, B, 412a 10 ss.
83
Eîdos è propriamente l’immagine, l’icona, del gesto, l’“icona” che la voce conserva, “memorizza”, presente quindi anche in assenza del movimento del gesto, del morpházein. A questa icona mira l’“idea” platonica, che esprime proprio l’elemento “iconologico” della lingua. Icono-logico – s’è detto, per sottolineare l’icona propria del linguaggio. Quell’“icona linguistica” che Platone nomina nel Cratilo subito dopo l’esempio del movimento della mano che imita il movimento della foglia. Tutte le cose, dice infatti Platone, hanno phonè kaì schêma, e molte anche chrôma, colore. “Cose” traduce qui: prágmata, che non sono le cose semplicemente viste, osservate, le cose-oggetto di un vedere estraneo e distante; ma le cose in quanto usate, adoperate, impiegate: le cose agite. Le cose in quanto indistinguibili dalla mano che le adopera, dal senso che le avverte, dall’azione che le modifica. Le locuzioni “seno di mare”, “collo di terra”, “sangue della vite”, se assimilano il mare, la terra, la vite al corpo dell’uomo, nel contempo estendono questo all’universo mondo. Vale a dire: dietro la mimesi del movimento della mano che riproduce il movimento della foglia, o del gesto umano che ripete i gesti dell’animale; dietro l’esempio artificioso delle lettere che rinviano al vibrare della lingua o del sostare di questa; dietro l’unità di geroglifico e voce – è l’unità di uomo e cosa, di uomo e mondo; o, per esprimerci con le nostre categorie e concetti filosofici, v’è la “praxis originaria”, la “praxis trascendentale”. E questa “originaria prassi” scopre ed evidenzia Vico, quando spiega la derivazione di urbs da urbum, che nomina per sineddoche l’aratro, per il suo esser “curvo”; o quando menziona il modo di indicare il tempo «con una falce o col braccio in atto di falciare», tante volte quante le stagioni che si vogliono numerare (SN25, p. 222); o quando deduce che «quello, che fu detto Jous, Giove, e, contratto si disse Jus, prima d’ogni altro dovette significare il grascio delle vittime dovuto a Giove» (SN44, p. 977); o ancora quando rammenta che presso gli eroi latini
84
il primo significato di sum, che sarà in seguito l’astrattissimo concetto di essere, fu quello di “mangiare” (cfr. SN44, p. 1095), e presso i poeti teologi “anima” e “aria” indicano il medesimo (cfr. SN44, p. 1096); e si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ma è bene passare dall’esemplificazione, ricchissima, alla sua delucidazione teorica. Ebbene Vico, proprio laddove rileva «che ’n tutte le Lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano, e delle sue parti, e degli umani sensi, e dell’umane passioni», precisa che più vera dell’affermazione homo intelligendo fit omnia, propria della Metafisica Ragionata, è l’opposta della Metafisica Fantasticata: homo non intelligendo fit omnia – «perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente, e comprende esse cose, ma col non intendere, egli di sè fa esse cose e, col transformandovisi lo diventa» (SN44, pp. 932-933). Bisogna, però, subito aggiungere che nello stesso linguaggio originario delle “parole reali” – delle parole che sono e dicono l’unità uomo-mondo, la prassi trascendentale – v’è il seme dell’oblio di questa unità. Nell’unità di gesto e suono, di geroglifici e voci monosillabe, nel parlar scrivendo-cantando della lingua primitiva, l’elemento “iconologico”, “eidetico”, è destinato a prevalere. Il carattere naturalmente comunicativo del linguaggio porta a questa prevalenza. Il suono, la phoné, infatti, veicola l’immagine, l’icona, del gesto anche quando questo non è immediatamente presente alla vista. L’attenzione di chi ode il suono è in tal caso tutta rivolta alla immagine, all’icona che la voce reca con sé, in sé. Con l’espandersi delle relazioni interumane, tipico del progresso storico, l’elemento iconologico ha assunto sempre maggior rilievo. Scrive Vico nella Degnità LXIII – richiamata anche in seguito, a sottolinearne l’importanza (cfr. SN44, p. 895): La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori del corpo; e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intendere sè medesima.
85 Questa Degnità ne dà l’Universal Principio d’Etimologia in tutte le Lingue, nelle qual’ i vocaboli sono trasportati da’ corpi, e dalle propietà de’ corpi a significare le cose della mente, e dell’animo. (SN44, p. 876)
L’assioma enunciato nella prima proposizione trova la sua spiegazione proprio nel carattere iconico del linguaggio. La “mente” pensa le cose per lo più in loro assenza, e quindi attraverso le immagini che il linguaggio conserva di esse. E quanto più pensa “obiettivamente”, senza cioè farsi prendere dalla passione, quanto più pensa freddamente, “scientificamente”, tanto più guarda fuori di sé, ossia: tanto più si ferma al solo “significato” logico, alla pura “idea”, alla icono-logia. E pertanto vede anche se stessa – come dice la II proposizione della citata Degnità – attraverso questi stessi eíde, queste medesime “icone”. Qui Vico mostra piena consapevolezza dell’origine corporea, gestuale, come del linguaggio così del pensiero. Talché l’interiorizzazione riflessiva del linguaggio, operata dalla “mente pura”, non diminuisce affatto, al contrario potenzia il carattere “iconologico” del linguaggio e del pensiero. Ché il pensiero tanto più è “puro”, quanto più esclude dal linguaggio il lato non iconico, quanto più prescinde dall’elemento passionale, “cromatico” direbbe Platone, del linguaggio (id est: delle cose, dei prágmata).
6 Vico non sempre è all’altezza delle sue scoperte. Spesso confonde livelli linguistici diversi perché appartenenti a età e “mondi” diversi. Leggiamo la Degnità LVII, la proposizione iniziale (variamente ripetuta nel corso della Scienza nuova, e pur nel brano da noi citato qualche pagina innanzi): I Mutoli si spiegano per atti, o corpi, c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi vogliono significare. (SN44, p. 875)
86
La definizione è “doppia”: può significare due cose diverse. Nel primo significato la proposizione ci dice sia che gli afasici (i “muti” di Platone) indicano il movimento della foglia col movimento della mano, sia che le voci monosillabe dei “mutoli” (di Vico) conservano in sé i “geroglifici” (= le icone corporee, le immagini gestuali) cui sono legate da reciproca coappartenenza (da “naturali rapporti”). E questo è il primo livello dell’espressione linguistica. Ma poi v’è un secondo significato, che appartiene ad altro livello e altra età: il significato che Vico esemplifica con la vicenda del re scita Idantura, il quale, in risposta al re Dario che voleva assoggettarlo, inviò cinque “parole reali”: «una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro e un arco da saettare», significando con esse che la Scizia era la sua terra natìa e la sua dimora, ove erano i suoi dèi, ai quali soltanto era soggetto, e che con le armi avrebbe difeso la terra dai suoi coltivata (cfr. SN44, pp. 948-949). “Parole reali”, anche queste, ma non nel senso della lingua-gesto, bensì nell’altro della lingua delle insegne e degli emblemi, degli stemmi, lingua che nasce molto più tardi, dopo che l’icona si è separata dalla voce e l’uomo dalle cose e dal mondo, dopo che l’oblio ha coperto l’unità della lingua originaria, della prassi trascendentale. La lingua “reale” di Idantura è – in senso stretto – lingua eroica: la lingua delle armi e delle imprese. Ma prima di questa v’è altra lingua, che Vico non sa come distinguere dalla eroica. Lingua degli dèi? No di certo, perché non è la lingua dei poeti teologi. La difficoltà di Vico è maggiore di quella stessa da lui denunziata sin nella prima Scienza nuova. Perché non si tratta di risalire con la riflessione, che è propria della mente pura, alla prima età della storia ideale eterna – compito già di per sé, ben più che arduo, contraddittorio –, ma di spingersi più indietro ancora. All’origine dell’origine.
87
7 Torniamo alla voce primeva – der Schrei, il grido – e alla passione che in esso si esprime, si es-pone, si compie. Non è del l’uomo già uscito dalla selva, non è atto umano, ma animale, naturale. È voce dell’istinto, del sentire immediato. Dell’immediatezza che davvero non “avverte”, non percepisce l’altro. È la voce dell’impulso liberato, dell’appetito soddisfatto, della fame saziata. Qui non c’è l’“altro”, perché non c’è “oggetto”, non c’è “mondo”. L’animale, dirà Heidegger, in un significativo confronto con la ricerca biologica più avanzata degli inizi del Novecento, è weltarm, povero di mondo, non weltlos, come la pietra che è senza mondo3. Weltarm dice: l’impulso animale non distingue dentro e fuori, soggetto e oggetto, “io” e “mondo”, perché è un flusso che non si coagula, non si consolida in entità, dati, cose, in breve: non si de-termina. “Oggetto” dell’impulso – ciò che nominiamo “oggetto”, facendo intervenire le nostre categorie del pensiero riflesso, del nostro linguaggio “colto” – non è qualcosa che stia dinanzi a un “soggetto” (ed è superfluo ripetere riguardo a “soggetto” quanto s’è detto in riferimento al suo termine correlativo): l’“oggetto” appartiene alla medesima corrente cui appartiene il “soggetto” dell’impulso, è un momento di questa corrente, di questo flusso. Il processo naturale, vitale, è una relazione di termini non autonomi, distinguibili solo come momenti del processo stesso: l’“oggetto” dell’appetito sessuale dura quanto l’appetito stesso; così l’oggetto della fame. L’animale che abbandona i resti della bestia uccisa non lascia l’“oggetto” dell’appetito, ma qualcosa che gli è divenuto indifferente, che in senso pro-
3. Cfr. M. Heidegger GbM, §§ 39-63. Sull’importanza di questo “tema” in Heidegger, anche in relazione alle sue scelte politiche e antisemitiche, rinvio a V. Vitiello, Europa, Sez. III, IV: Le «due storie» di Heidegger. I Quaderni neri, spec. pp. 189 ss.
88
prio per lui “non è”; perché ciò che per lui ora “ci è” è altro appetito da soddisfare, altro impulso da liberare, il sonno, l’accoppiamento, l’evacuazione, o altro che si voglia immaginare. L’oggetto, il mondo, il mondo degli oggetti, nasce quando il riferimento dell’impulso si de-termina, quando diviene propriamente “qualcosa”: una figura stabile. E questo avviene soltanto attraverso il linguaggio, attraverso la “memoria” del linguaggio, quando nella “voce”, phoné – all’inizio solo un grido, un monosillabo – si conserva l’immagine, l’“icona” del gesto, il vichiano geroglifico. Interviene qui l’azione di quel terzo elemento del linguaggio, che Platone nomina nel Cratilo: chrôma, colore, che non ancora abbiamo considerato. Tutte le cose, prágmata, hanno phonè kaì schêma, e molte anche chrôma. Molte – non tutte. Cosa intende propriamente Platone con chrôma? Non, certo, il colore delle cose-“oggetto”, sì delle cose-prágmata: il rosso che «inquieta e infuria le bestie»; il giallo sereno e gaio della calda intimità; il freddo e triste azzurro; l’appagante verde. Così Goethe, poeta e Naturforscher insieme4. Poetico Naturforscher, capace di leggere la natura come vita e la vita come natura, fuori dei condizionamenti della scienza. Colore, qui, è “passione”. Passione: sentire immediato, sentire senza avvertire: Rausch des Gefühls, ebbrezza del sentimento, che s’esprime nel grido animale, naturale. Nel grido prima della separazione dell’icona del gesto, dello schêma, dalla voce, dalla phoné. Passione, violenta passione, qual è la paura della morte, o un incoercibile impulso. Per questa passione può nella voce fissarsi l’icona del gesto: del gesto dell’animale che ci azzanna, o dell’animale che fugge lasciando insoddisfatto il nostro appetito. La passione è come la cicatrice di una ferita, il segno che un colpo di maglio lascia sulla pietra. La voce conserva l’immagine del gesto – in assenza del gesto. Non ad-
4. Cfr. FL, spec. Sez. VI; SNW, pp. 175-203.
89
duco “cause”, non deduco. Sto semplicemente “narrando” un evento possibile. Ora, questa passione, che può essere all’origine della memoria, che può trattenere nella voce traccia del gesto, della “scrittura del corpo” – questa passione non può essa diventare immagine, icona, schema, idea, forma. Perché è colore e non: forma, schema, immagine. Perciò la scienza tanto più è oggettiva, quanto più si allontana dalla passione, dal “colore”, e si affida all’icona: quanto più “idealizza” l’icona, purificandola d’ogni pathos, d’ogni sentire. Di qui la difficoltà, se non l’impossibilità – con forza denunciata da Vico –, di risalire al linguaggio originario, all’originaria barbarie, al sentire senza avvertire. Quel sentire è chrôma, non schêma, né ri(con)ducibile a schêma. Qui il limite della storia ideale eterna.
8 Schema pur essa, la storia ideale eterna, e in senso eminente, se Vico intese raffigurarla in una Dipintura allegorica, posta sul frontespizio della Scienza nuova del 1730 quale effettiva introduzione all’opera. In questa Dipintura Vico presenta le due vie della “storia ideale eterna”, la via filosofica, o se si vuole “mathematica”, che va dall’occhio divino al petto della metafisica, alla statua d’Omero, ai vari geroglifici che segnano l’inizio dell’umana vicenda dall’uscita dalla selva della barbarie primeva, e la via filologica, o se si vuole storica, che segue il percorso inverso, esposto nei vari Libri dell’opera, ma alla luce del raggio divino. Non due vie, ma due percorsi di un’unica via, che va seguita nelle due direzioni contemporaneamente per non perdere l’unità e medesimezza di “filosofia” e “filologia”. Ebbene, proprio questo “schema”, questa iconologia fondamentale della Scienza nuova salta, alla luce dell’analisi delle “rozze” origini del linguaggio.
90
Questa analisi, infatti, ha mostrato l’origine naturale, animale, corporea del linguaggio espressivo, e cioè: della voce monosillaba, il grido, e della sua icona gestuale, in cui s’esprime l’ebbrezza del sentire, il nietzscheano Rausch des Gefühls. Del linguaggio espressivo, e anche del linguaggio comunicativo. La memoria linguistica, la memoria che conserva nel “suono” la “figura” (lo schema, l’icona) del gesto in assenza del gesto, è un fatto naturale, animale – e cioè: non intenzionale –, così come lo è il grido. E non è certo necessario, per saperlo, essere esperti in etologia animale; è sufficiente visitare un comune giardino zoologico! Ma se la prima, originaria comunicazione linguistica è “animale”, naturale, inintenzionale, allora all’origine della storia umana non v’è Dio, il disegno di Dio, raffigurato nel raggio della Dipintura allegorica: all’origine della storia dell’uomo è un fatto naturale, animale – un fatto che non rientra nel disegno mathematico della mente di Dio. La Provvedenza interviene in un secondo momento. A meno che non si voglia attribuire alla Provvedenza anche la “venere a cielo aperto” – la quale, peraltro, presuppone già la “memoria linguistica” (che, perciò, è alla radice, se non dell’istinto sessuale, certamente dell’accoppiamento degli animali superiori). Ma, se si attribuisce anche la prima comunicazione linguistica di sopra esemplata alla Provvedenza, allora anche il “voltolarsi” nel fango e nelle proprie feci, donde crebbero i Giganti, i Ghegheneîs, i Terrae filii, è da attribuirsi alla Provvedenza. Ma, così ragionando, viene meno il senso della corruzione dell’uomo, del bestiale erramento nell’ingens sylva dei figli di Cam e Iafet. Viene meno il peccato dell’uomo, e quindi anche il senso del permanere pur nella natura umana corrotta dei divini semina veri. Insomma: o si ammette che il fatto originario e originante della storia umana resta fuori del disegno mathematico della storia ideale eterna; o tutto rientra in questo “schema”, e allora né vi è peccato, né distinzione tra storia sacra e storia della gentilità.
91
9 Filosofia e filologia tornano a dividersi, o meglio: restano divise. Restano divisi vero e fatto, fatto e ragione. C’è almeno un fatto, il fatto della ragione, il fatto del sorgere della ragione che rimane irriducibile alla ragione, al disegno della ragione. Infranto il primato del verum et factum convertuntur? Molto di più: è infranta l’identità del cogito col sum. La riflessione vichiana sulla barbarie, portata attraverso l’analisi dell’origine del linguaggio alle sue ultime, ineludibili, conseguenze, mostra che all’origine della storia, nell’uscita dell’uomo dall’ingens sylva, resta comunque fondamentale la natura, il corpo animale dell’uomo. Vi è una terrestrità dell’umano che la ragione non può dedurre da sé, né ricondurre a sé, al più può narrarla, rifacendosi al mito, come Vico, quando parla della lotta di Ercole col leone nemeo, o di Cadmo che uccide l’Idra. Col segnare i limiti della ragione, Vico non solo sottrae la storia come alla concezione progressiva così a quella circolare – che pur dominano per gran parte la scena del Diritto universale e della Scienza nuova –, ma anche mostra il limite della sua “teo logia civile”. Non sono in questione gli estremi: Dio e Selva. In questione è il “medio”. Non la donna con le tempie alate che sovrasta il globo mondano: il suo sguardo ha la giusta direzione; in questione è il gioiello convesso che le adorna il petto: “riflette” il raggio divino su Omero, quando la storia è già da lunghissimo tempo “storia”. I limiti della presenza di Dio nella storia non si scorgono solo nell’età “ultima” della barbarie della riflessione, narrata nella conchiusione dell’Opera, quando alla Provvedenza non resta altro da fare che attendere il compimento della catastrofe dell’umanità storica, perché sulle rovine di questa altra storia possa ri-cominciare; questi limiti sono già all’inizio: il “salto” da natura a storia resta fuori dalla narrazione della Dipintura che introduce la Scienza Nuova.
B Linguaggio, politica, morale
95
I Le “parole reali” di Idantura
Ogni inizio è l’inizio. Non c’è niente prima, perché ogni prima è tradotto nella visione del (nuovo) inizio. (C. Sini, I, p. 109)
1 Dalla Nota 33 al De constantia philologiae: Philosophiae et philologiae dissidium unde ortum? Heic observes duo: I. Quod scriptura vulgaris, a mathesi occoepta, in philosophorum mataphysicam homines perduxit. II. Quod, uti lingua heroica prius heroes ab hominibus diviserat, ita postea lingua vulgaris divisit philologos a philosophis. Cuius secundae observationis ea ratio est, quod, cum lingua vulgi, quia communis, rerum naturas et proprietates non significabat, philosophi in naturis rerum, philologi in originibus verborum investigandis divisi sunt; et ita philosophia ac philologia, quae ab heroica lingua geminae ortae erant, lingua vulgari distractae. (Notae, p. 771)
Che la mathesis, a cui Vico fa riferimento nella prima osservazione della nota, non è la matematica dei numeri è affatto chiaro, ché non dalla scienza dei numeri gli uomini sono stati condotti alla metafisica. La mathesis chiamata in causa non è, però, nemmeno la “matematica universale” di Descartes, Spinoza e Leibniz. Vico ha certamente presenti questi autori, ma solo perché la loro “mathematica” rinvia direttamente alla ma-
96
thesis platonica1 – a quella forma di conoscenza, cioè, che non potendo derivare dal rapporto col mondo, dall’esperienza, perché ne è la condizione di possibilità, è già da sempre presente nella mente umana, anche quando opera in latenza. La “scrittura volgare”, e cioè la lingua “pistolare”, la lingua della comunicazione – ed è significativo che Vico la chiami “scrittura” –, copre quindi l’intera storia della filosofia: da Platone a Vico. Sarà, quindi, “volgare” anche la scrittura della Scienza nuova? La seconda osservazione approfondisce il “senso” – e cioè: la direzione e il destino – della lingua volgare. Volgendo ancor qui lo sguardo al passato, Vico rileva che come la lingua eroica aveva diviso gli eroi dagli uomini, così la lingua volgare ha diviso i filologi dai filosofi. Ma chi sono gli “uomini” da cui gli “eroi” si sono divisi? La risposta a questa domanda è nel cap. LXX del De uno, ove Vico parla delle “etimologie eroiche”. È un passaggio fondamentale, questo, ché segna un notevole cambiamento di rotta rispetto all’ermeneutica del De antiquissima. Dalle favolose narrazioni della lingua eroica, scrive Vico, apprendiamo sui “tempi oscuri” molto più di quanto non si possa fare col «rintracciar nei vocaboli una qualche più o meno ingegnosa e fondata simiglianza di sillabe e di letteruccie [literulae]»: apprendiamo a ricavare ex rebus ipsis et ex vero «non solo le origini alla lingua greca ed alla latina comuni, ma quelle eziandio più generali, comuni ad ogni favella» (De uno, p. 240). Non è solo un’anticipazione del Dizionario Universale della Scienza nuova; è il passaggio dall’“etimologia” alla genealogia del linguaggio; è un nuovo modo di intendere il linguaggio. Alla cui base sta la lettura del Cratilo di Platone, ove – non a caso – troviamo due “definizioni”: quella di “cosa” e quella di “uomo”, che sono indispensabili per comprendere quanto Vico intende nei passaggi qui sopra citati.
1. Cfr. R. Descartes, Regulae, pp. 698-709.
97
Cominciamo dalla prima “definizione”: ésti toîs prágmasi phonè kaì schêma hekásto, kaì chrômá ghe polloîs (Cratilo, 423d): «suono e figura son propri di tutte le “cose”, il colore di molte». Prâgma non è la “cosa-oggetto”, e neppure la “cosa-costruita”, l’“opera”, il risultato di un “fare”; prâgma è il fare stesso nella sua concretezza materiale, che solo a posteriori – un a posteriori temporale, prima che logico, e prima che “storico” – è possibile distinguere in: “soggetto” (colui che opera), “mezzo” (lo strumento impiegato) e materia lavorata. All’origine questi tre sono uno: il ramo spezzato, che il primate usa per avvicinare alla sua mano il frutto che pende troppo in altro dall’albero, fa tutt’uno col gesto del braccio, del quale è il prolungamento; così come il frutto ingerito è tutt’uno con la soddisfazione dell’appetito. In breve: non c’è soggetto, né mezzo, né oggetto; v’è un unico “movimento”, o processo: lo scorrere eracliteo della vita universale (Lebenswelt), che attraversa quell’unico “gesto” che è la soddisfazione animale dell’appetito. Al quale gesto appartiene anche l’emissione di voce che naturalmente esce dal petto di quel figlio della Terra nel mentre afferra il frutto e se ne ciba. Voce, la cui tonalità manifesta la “passione” che dà “colore” a questo fare, che è, esso, l’unico “attore”, e cioè il prâgma stesso: la “cosa” singolare, “opera operante e operata”, “operazione-azione”, in cui la Vita volta a volta si “rea lizza”. Il primate di cui qui parliamo, il “gigante”, il Gegenés, il figlio della Terra, non è “soggetto”, così come non è “oggetto” il prâgma; è un “vivente”, come la pianta, la cui vita “scorre” in essa, non però come sua “proprietà”, appartenendo la pianta alla vita e non la vita alla pianta. Ma v’è una differenza, e non da poco: alla pianta non appartiene la voce, che è invece propria dell’animale. Dell’animale che non è “uomo”; che non è ancora “uomo”. Pure a questo animale, a questo Terrae filius, appartiene qualcosa che è la condizione perché esso possa elevarsi a uomo – possibilità che tuttavia non appartiene all’animale. L’animale che s’eleva a uomo, non per sé si eleva. È un evento esterno – un evento “naturale”, conforme alla “natura”
98
dell’animale. Qui Vico è astralmente lontano da Platone, e dal suo Cratilo, seguendo tutt’altro percorso, legato alle “cose stesse”, e non più solo all’etimologia delle parole. Ciò malgrado, è bene ricordare proprio qui, nel punto in cui Vico s’allontana da Platone, la definizione di uomo “trovata” (inventa) dalla fantasia etimologica del grande Greco: l’unico animale, al quale è proprio il nome ánthropos, uomo, è l’anathrôn hà ópope, colui che riflette sulle cose che ha visto (Cratilo, 399c). Torneremo su questa definizione platonica, ma ciò che qui va subito detto è che l’animale, del quale è propria la voce, non è quegli che riflette, ancorché la voce sia la condizione di possibilità del riflettere. In che senso?
2 Il lettore di Vico non deve mai dimenticare l’ammonimento di Aristotele, che è apaideusía, mancanza di paideía, di cultura, di “formazione”, più che mera ignoranza, non saper distinguere ciò che si può da ciò che non si può dimostrare (Met, IV, 1006a 6-8). La “nascita” dell’uomo è tra le seconde, se con uomo s’intende l’animale che “riflette”, che fa uso della ragione. E infatti la ragione, che pretende di dimostrare se stessa, può far questo solo assumendo come mezzo di prova ciò che va provato. Ma c’è riflessione e riflessione. Se non è attribuibile riflessione alcuna al Gegenés che corre per l’ingens sylva della Terra ancor umida delle acque del diluvio, inteso unicamente a soddisfare i suoi appetiti, la cui voce è solo espressione del suo patire soddisfazione o mancanza; v’è riflessione, e cioè ripiegamento su di sé, in quei Giganti che all’aprirsi di un’istantanea striscia di luce nell’oscurità della Notte, presto seguita da una voce profonda e prolungata, forte tanto da far tremare la terra, «alzarono gli occhi, ed avvertirono il Cielo» (SN44, p. 918). Avvertirono – non videro soltanto. Vico ricorda Stazio: «Primus in Orbe Deos / Fecit Timor» (SN44, p. 870).
99
La paura piega il Figlio della Terra su ciò che ha visto e udito e che interpreta a partire dal proprio udire e vedere: ha udito e visto il linguaggio di Zeus, la sorda voce del tuono, l’improvvisa illuminazione del fulmine. La visione dell’Altro è insieme visione di sé: di un “sé” che nasce con questa visione. È qui il salto dall’animale all’uomo. Vico “narra” questa nascita, ma la sua narrazione spiega il perché di questa nascita, che nel Cratilo è solo “definita”. L’uomo è uomo, e cioè si piega su di sé, ri-flette, per timore. E dal timore, il pudore: per non esser visto, ha-’adam, l’Urmensch, porta la femmina nella caverna; e nelle caverne nascono le prime famiglie. Hanno voci questi uomini or nati, e son quelle che già emettevano prima di alzare gli occhi e avvertire il Cielo. Ma ora che non sono più soli, vivendo insieme con le loro donne e i loro figli, quei gesti e quei suoni che prima erano “solitari” diventano “comuni”. Il medesimo suono e il medesimo gesto comunicano a ciascuno d’essi i bisogni e gli appetiti degli altri con cui convive. Nulla di intenzionale: com’era inintenzionale l’urlo di dolore per una ferita, o di piacere per un appetito soddisfatto, così è ora inintenzionale la “comunicazione” attraverso il solo gesto o la sola voce di un dolore patito, o di un godimento rea lizzato. Voce e gesto si separano. I primi uomini apprendono a comunicare tra loro con i soli gesti: il gesto del braccio che muove tre volte la falce comunica da lontano che sono trascorsi tre cicli di mietitura. Allo stesso modo ciascun d’essi intende dalla voce se il suo vicino gode o soffre, sebbene non lo veda. Il linguaggio cambia “natura”, da solo espressivo che era, è divenuto comunicativo. Con il linguaggio muta il mondo. Ora non è più fatto di gesti e voci, di azioni, di opere-azioni; i prágmata sono ora ousíai, entità a sé stanti, “cose” che hanno una loro esistenza separata dal gesto che le ha “prodotte” e dalla voce che le ha “significate”. Sono cose, res: “oggetti” di contro a “soggetti”. Ma, pur divisi i gesti dalle voci, divenuti quelli “cose”, queste “nomi”, il vecchio legame resiste ancora.
100
Come avrebbero potuto il nome far segno alla cosa, e la cosa aver rapporto col nome, se in entrambi, nel nome come nella cosa, si fosse perduta ogni traccia dell’antico rapporto tra gesto e voce? Vero è che la forma, lo schêma, il disegno delle cose “imita” la figura del gesto corporeo, come il movimento della mano che si abbassa verso terra imita il movimento della foglia che cade (Cratilo, 422e-423b). Del pari il nome “imita” la voce originaria, anzitutto attraverso onomatopee naturali: il greco Zeus imita il «fischio del fulmine», il latino Ious il «fragore del tuono» (SN25, p. 254). Così oggi possiamo spiegare come un “nome” che non ha odore né colore né spine può indicare quella “cosa” che ha odore e colore e spine. Ma ieri il processo ha seguito il percorso opposto: non dal nome alla cosa, ma dalla cosa al nome (all’idea, schêma, espressa nel nome).
3 V’è un personaggio “storico” che Vico richiama spesso nel descrivere l’età degli Eroi: il re scita Idantura che «Dario bellum minanti, pro literis misisse murem, ranan, avem, iaculum aratrumque» (De constantia, VI, p. 473). Non parole, ma direttamente “cose” per comunicare. Parole-cose, parole-reali, come Vico le definisce (SN44, p. 848), perché son “cose”, res, che significano – per «metafore attuose», «immagini vive», «simiglianze evidenti» (SN25, pp. 251-252) – altre “cose”: l’appartenenza del re scita alla sua terra natale (la rana), dove aveva costruito la sua dimora (il topo), tratto gli auspici (l’uccello), coltivato i campi (l’aratro), e che avrebbe difesa con l’arme (l’arco). Quale il significato di questo episodio, su cui Vico torna più volte anche nelle tre edizioni della Scienza nuova? Fondamentalmente questo: che l’origine del mutamento del linguaggio, e col linguaggio del mondo, è politica.
101
Il re scita è in certo modo la metafora “eroica” kat’èxochén, in quanto racchiude in sé tutte le “metafore” che riguardano i nomi e le cose insieme, le voci che designano le azioni, e le res in cui queste si incorporarono. E come il geroglifico da scrittura originaria del corpo – il gesto sacrale del levare le braccia al Cielo, che segna con la distanza degli dèi l’umana aspirazione ad approssimarsi a loro – diviene figura del dio nel disegno stilizzato dell’animale sulla parete della caverna, e, più tardi, emblema del potere umano-divino degli Eroi, posto sulle torri e sulle porte dei Castelli, sulle cinte murarie delle Città, e impresso sulle insegne militari, sulle medaglie, sulle monete, così la voce monosillaba delle genti primeve si muta in suoni articolati, in voci distinte del parlare comunicativo, adeguandosi alla molteplicità delle cose, cui ora deve far segno, ma che sono fuor della voce. I nomi debbono pareggiare le cose anche nella loro conformazione. Alla loro figura molteplice si deve quindi adeguare l’articolazione della voce, perché essa possa esprimere, oltreché i vari aspetti delle cose – l’ousía e i sumbebekóta –, il loro “colore”: la passione che le accompagna. La “metrica” assolve a questo compito (cfr. SN44, Degnità LIXLXI). Il tempo stesso verrà “misurato” dalla parola, la parola pubblica della politica. Chiaro allora perché i “principi delle idee” e i “principi delle lingue”, che son gli stessi, non possono essere trattati distintamente – come Vico afferma nella sua Autobiografia (cfr. Vita, p. 79), criticando la I edizione della Scienza nuova. Ma dove maggiormente la medesimezza originaria di parola e “cosa” si conserva è nel diritto. Legge è parola, e diritto poesia: «Il Diritto Romano Antico fu un serioso Poema; e l’Antica Giurisprudenza fu una severa Poesia; dentro la quale si truovano i primi dirozzamenti della Legal Metafisica; e come a’ Greci dalle Leggi uscì la Filosofia» (cfr. SN44, pp. 1220-1229). È questo il momento kairologico in cui gli Eroi si separano dagli uomini. Così lo descrive Vico, unendo mito e storia, nel
102
mentre legge Livio sulla lotta tra patrizi e plebei: «con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che finora hanno ingombrato la storia favolosa de’ greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore degli dèi addimesticato le fiere e riduttele nelle città» (SN25, pp. 86-87). Sottratti alla vita di cavernicoli vaganti per l’ingens sylva in cerca di cibo e di stabilità, questi Terrae filii, ancora a mezzo tra la fiera e l’uomo, venivano accolti sotto il Cielo della Città come uomini, ma nel contempo separati come servi da quegli stessi Eroi che li accoglievano.
4 L’ingresso nella Città è l’ingresso nella storia. Non a caso segnata da una separazione, da un giudizio. Ma se è difficile considerare l’“età degli Dèì” che precede quella degli Eroi – posto che le due possano esser nettamente distinte – un’età dell’oro, anche nell’interpretazione “riduttiva” che ne dà Vico, nella quale non è estranea la nostalgia della campagna di Vatolla; è invero impossibile considerare il “salto” nell’età storica degli Eroi come “progresso”. Nella Dipintura l’aratro – massimo simbolo della Città – è posto in basso, appena fuori dalle selve e accanto all’urna funeraria, al lato opposto a quello ove dall’alto irraggia luce il divino triangolo solare; e, non a caso, sull’aratro poggia la tavola con i “principi degli alfabeti”. Città e storia, legate alla “scrittura”, nascono prossime alla selva e alla cenere: inizio e fine – insieme. Insieme lungo l’intero arco del tempo.
5 Al giudizio della lingua eroica, che ha diviso gli Eroi dagli uomini, segue – nella nota al De constantia iurisprudentis citata all’inizio – il giudizio della “scrittura volgare” che divide la filo-
103
logia dalla filosofia. È una separazione ancor più grave di quella che divideva gli Eroi dagli uomini. Perché in questa restava ancora il vincolo tra parola e cose, cose e parole: le parole reali di Idantura non erano “azioni”, non erano ancora azione, ma ne erano la promessa “reale”, la minaccia. Il pensiero si sporgeva sull’azione. A giusto titolo Vico poteva affermare «certum pars veri». Ma quando filosofia e filologia si separano, cum lingua vulgi, quia communis, rerum naturas et proprietates non significabat, in qual modo i philosophi potevano investigare in naturis rerum? Fuor delle parole, fuor della scrittura che esprime anche il “colore” delle cose, la loro vita affettiva, non ci sono che “oggetti”, “resti” di parole senza vita né corpo, segni, tracce di qualcosa di cui non abbiamo più “esperienza”. Pesante cade il giudizio di Vico sul limite della “riflessione con mente pura”, ch’è propria dell’età degli uomini, dell’età della storia ideale eterna, della storia tutta dispiegata. Ed è un giudizio che ripete in tutte e tre le edizioni della Scienza nuova. Qui cito dalla prima. Lo sguardo è rivolto al passato, alla prima età, ma è l’intero orizzonte della storia che è messo in discussione. […] intendere appena si può, affatto immaginar non si può, come dovessero pensare i primi uomini delle razze empie in tale stato, che non avevano già innanzi udita mai voce umana, e quanto grossolanamente gli formassero e con quanta sconcezza unissero i loro pensieri. De’ quali non si può fare niuna comparazione, nonché coi nostri idioti e villani che non san di lettere, ma co’ più barbari abitatori delle terre vicine a’ poli e ne’ diserti dell’Affrica e dell’America (de’ quali i viaggiatori pur ci narran costumi cotanto esorbitanti dalle nostre ingentilite nature che fanci orrore), perché costro pur nascono in mezzo a lingue, quantunque barbare, e sapran qualche cosa di conti e di ragione. (SN25, p. 69)
La differenza vichiana tra l’“immaginare” e l’“intendere” non può essere semplicisticamente ridotta all’empirica, “psicolo-
104
gica” distinzione tra il fatto vissuto e il fatto narrato2 (che tra l’altro riguarda ogni narrazione, e non solo quella dei “tempi oscuri”). Quella differenza attraversa tutte le età della storia sino alla sua massima espressione: la divisione della filosofia dalla filologia che caratterizza l’età moderna, l’età di Vico, l’età della Scienza nuova. Certo gli Eroi non immaginavano al modo dei primi uomini, né noi immaginiamo al modo degli Eroi. Nel discorso di Vico si è introdotta una differenza che non riguarda il contenuto del sapere, del verare-facere, ma la sua modalità. In questione non è lo schêma, e neppure la phoné della “cosa”, del prágma – dell’operare, del fare –; in questione è il “colore”, tò chrôma, il modo in cui è vissuto il fare. Ed è questo che la parola può dire ma non “vivere”, perché essa vive la vita che è sua, la vita del suo “presente”, non la vita del passato, che a stento “intende” ma non può “immaginare”: essa immagina sé, vive sé, è la sua immagine, il suo colore, il suo modo d’essere; e in questo, e solo in questo – nel colore del suo presente – può vivere la vita passata. Vico sa bene tutto questo. Sa bene che il certo, pars veri, non è il fatto, il facere nella sua modalità specifica; sa bene che la “scrittura” della Scienza Nuova, per quanto ricca di immagini, di “colore”, resta pur sempre “volgare”, “comunicativa”; epperò tenta di recuperare l’originaria unità di phoné, schêma e chrôma, “ripetendo” il gesto di Idantura: esibendo non suoni, ma “parole reali”: le immagini della Dipintura. Allegorica anche in questo senso.
6 Il colore del presente che dà vita al vivere storico ribalta il rapporto tra la storia ideale eterna e le storie delle singole età: non 2. Cfr. B. Croce, DF, II, pp. 19-20.
105
queste scorrono in quella, ma quella vive diverse vite nelle singole età. Non fondamento delle storie, ma “ideale” che volta a volta le singole storie si “fingono” per sopravvivere a se stesse, la storia ideale eterna ha la sola eternità che gli uomini saranno in grado di darle. Ma questo non è in potere degli uomini, ancorché sia loro dovere. Il «DOVETTE, DEVE, DOVRÀ» scandito nello Stabilimento de’ Principj (cfr. SN44, pp. 903-904) assume così il suo vero significato, ch’è morale, non ontologico – com’è esplicitamente detto nella conchiusione dell’Opera: «se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio» (SN44, p. 1264). Ma: può, la saggezza, “salvare” il mondo?
107
II Anwendung L’ermeneutica tra Vico e Gadamer
Le poche pagine dedicate a Vico in Verità e metodo – non più di quattro in un libro di quattrocentonovantacinque1, limitate peraltro a un unico testo, il De nostri temporis studiorum ratione, a parte gli occasionali riferimenti ad altre opere – non debbono coprire il rilievo che nella storia dell’ermeneutica filosofica contemporanea Gadamer attribuisce al filosofo napoletano, specie in rapporto allo storicismo tedesco: Schleiermacher e Dilthey in particolare. Rilievo che eccede la stessa analisi di Wahrheit und Methode, come risulterà dal confronto tra i due filosofi, che intendo qui svolgere, dal quale emergerà una diversa immagine sia di Vico – del Vico, certo, di Gadamer, che, peraltro, non si discosta dall’immagine tradizionale se non per l’ampiezza del contesto storico di riferimento – che di Gadamer. L’intento – è bene dirlo in anticipo – è di conseguire una più articolata comprensione del rapporto tra “verità” e “metodo”, per usare il linguaggio del filosofo tedesco, “topica” e “critica”, o anche “verisimile” e “vero”, per stare alla terminologia del pensatore napoletano, e insieme una più ampia visione del carattere e dell’esito della filosofia moderna. 1. Cfr. H.-G. Gadamer, WM, pp. 24-35; it., pp. 42-47.
108
1 Comincio col riassumere in brevi tratti la rappresentazione gadameriana di Vico. Il testo esaminato, come ho già detto, è il De nostri temporis studiorum ratione, l’ultima e più importante prolusione accademica pronunciata da Vico nel 1708 e pubblicata nel 17092. Gadamer inserisce il pensiero espresso in questa “orazione inaugurale” nella tradizione umanistica della retorica – Vico stesso, ricorda, era professore di retorica all’Università di Napoli –, risalendo prima alla cultura latina del sensus communis, poi alla grande disputa tra retori e sofisti del mondo greco. In questo dibattito, in cui si formò la paideia greca, Gadamer non prende le parti di Isocrate, ma di Aristotele. Si schiera, cioè, non a favore della retorica, ma della filosofia. Di quella filosofia che ha saputo tener distinte metafisica ed etica, sophía e phrónesis, pensiero teoretico e prudenza pratica. Che qui s’avverta la presenza di Heidegger, la tesi, cioè, del primato del Gewissen – così Heidegger traduceva phrónesis, in un Seminario sull’Etica nicomachea tenuto a Friburgo nel 1923, a cui partecipò il giovanissimo Gadamer3 – sul Selbstbewußtsein, è anche superfluo rilevare. Non è affatto superfluo, invece, rimarcare che l’inserimento di Vico in questa tradizione che scavalca l’orizzonte culturale della latinità, se permette a Gadamer di dare maggiore consistenza “filosofica” alle radici dell’ermeneutica che intende fondare “filosoficamente”, non corrisponde però al modo in cui Vico si rapportava alle sue radici. Proprio perché convinto della superiorità della prassi sulla riflessione, Vico propendeva per i Romani. Quello stesso – leggiamo nel De ratione – che ad Atene si definiva sapienza, «la conoscenza delle cose divine e umane», a Roma si pratica2. Ultima di quelle conservate; della prolusione tenuta il 18 ottobre 1719 resta, infatti, solo l’ampio stralcio riportato da Vico in Vita, pp. 16-18. 3. Che ne conservò a lungo memoria, cfr. H.-G. Gadamer, HMTh, spec. p. 171.
109
va come giurisprudenza; con questo vantaggio per i Romani, che essi prima coltivavano le «virtù civili», attraverso l’esercizio delle «magistrature civili» e dei «comandi militari», e solo in vecchiaia si dedicavano alla giurisprudenza, sicché «essi, non a parole, ma attraverso la pratica politica, conoscevano la dottrina dello Stato e della giustizia molto più a fondo dei greci» (De ratione, p. 161). Questo rilievo, in fondo marginale, serve a introdurre una riflessione sulla “lettura” di Gadamer del testo vichiano, considerato soltanto per l’aspetto che unico gli preme, quello della critica del cartesianesimo – in ciò favorito da una abbondantissima Sekundärliteratur vichiana, a partire dal libro di Croce. E valga questa citazione da Verità e metodo: Il ritorno di Vico al concetto latino del senso comune e la sua difesa della retorica umanistica contro la scienza moderna è per noi di particolare interesse; esso ci fa accedere infatti ad un momento di verità della conoscenza delle scienze dello spirito, che per la riflessione del secolo XIX non era più accessibile. Vico viveva entro una tradizione ininterrotta di cultura retorico-umanistica e non doveva far altro che rimettere in vigore il suo non ancora perduto valore. In fondo, si sapeva da tempo immemorabile che le possibilità del dimostrare e dell’insegnare razionali non esaurivano completamente l’ambito della conoscenza. Il richiamo di Vico al sensus communis appartiene in questo senso, come si è visto, a un vasto contesto storico che risale fino all’antichità e la cui sopravvivenza fino a oggi è appunto il nostro tema. (WM, p. 29; it., p. 47)
Troppo fine storico, Gadamer, per poter rivolgergli quel genere di critica che Vico formulò nella quarta Degnità: «la boria de’ Dotti, i quali ciò, ch’essi sanno, vogliono, che sia antico, quanto che ’l Mondo» (SN44, p. 858). Certo, però, la posizione del filosofo napoletano riguardo alla scienza moderna è più complessa e articolata – anche meno lineare, per non dire meno coerente – di quella solitamente esposta, e di quanto Gadamer in queste pagine si limita a ripetere. Il problema di Vico – e dello stesso Gadamer, come vedremo – non può presentarsi
110
come mera opposizione di retorica a scienza, topica a critica, immaginazione e fantasia a ragione geometrica.
2 Cominciamo col dire del De ratione. Il progetto vichiano non si limita ad affermare prima la necessaria priorità della topica rispetto alla critica, ovvero del verisimile rispetto al vero, e poi l’utilità che le due – topica e critica – si sostengano a vicenda, quella dando a questa il “materiale” su cui lavorare, questa fornendo a quella i “lumi” della ragione. Il progetto vichiano è ben più ambizioso, consistendo, essenzialmente, nell’elaborazione di una genealogia della ragione, col mostrare 1) il sorgere della ragione dall’immaginazione, e 2) l’attiva presenza dell’immaginazione – intesa come unità di fantasia e memoria – nell’operare della ragione. E già questo muta l’atteggiamento di Vico rispetto alla scienza, se non rispetto all’interpretazione cartesiana della scienza. Vico, cioè, non critica la geometria di astrattezza, anzi mostra come essa, disegnando figure, è strettamente legata all’immaginazione, al punto che gli stessi poeti possono giovarsi delle costruzioni geometriche per le loro “finzioni” («mendacia poëtica», De ratione, p. 144); ciò che egli critica è il mos geometricum qual viene teorizzato e applicato dai dotti del suo tempo, che hanno «svestito le grandezze matematiche di ogni corpulenza [omni prorsus corpulentia exuit]» (ivi, pp. 140-141). E tuttavia, proprio nel capitolo XI dell’opera, dove affronta l’argomento a lui più congeniale e del quale era maggiormente esperto, la storia del diritto e della giurisprudenza di Roma antica, Vico ribalta il rapporto topica-critica. Non è il caso di ricostruire qui l’intero ragionamento di Vico, che ci porterebbe lontano dal nostro problema, è sufficiente esporne la conclusione. Rilevato il carattere rigidamente formalistico del diritto romano in età repubblicana, Vico afferma con decisione la superio-
111
rità della legge sull’equità. La legge deve essere immutabile, e quando, come accadeva in Roma, l’interesse dello Stato, ancor più che l’intento di proteggere l’onestà di privati cittadini, sconsigliava l’applicazione della legge, allora i giureconsulti romani ricorrevano a leges singulares o privilegia, o anche a fictiones juris pur di non cambiare la norma: «i giureconsulti antichi, a differenza dei moderni, adattavano non le leggi ai fatti, ma i fatti alle leggi» (ivi, p. 167). Di qui la separazione dei giureconsulti dagli avvocati, quelli attenti a custodire la “lettera” della legge, questi a difenderne lo “spirito”. Ma la lettera – afferma Vico – è più importante dello spirito, perché è essa che dà stabilità al diritto. Perciò, quando col passaggio dalla Repubblica all’Impero venne data ai pretori la facoltà di mitigare le leggi secondo equità al fine di ingraziarsi il favore della plebe, allora la giurisprudenza venne a poco a poco sostituita dall’“equità pretoria” e «finì col divenire semplicemente conoscenza delle cose umane», perdendo l’originario carattere di «scienza del giusto» (ivi, p. 175). La decadenza della giurisprudenza portò alla decadenza del diritto: se nell’antica Roma pochissime erano le leggi e riguardavano soltanto le questioni più importanti, nell’età moderna il numero delle leggi è diventato esorbitante al punto che «riesce impossibile osservarle tutte» (ivi, p. 185). La ragione di questa decadenza sta appunto nel prevalere dell’equità, che «si riferisce ai fatti che sono infiniti» (ivi, p. 183), sull’unicità della legge; nel prevalere, cioè, dello spirito sulla lettera. Detto nella terminologia propria del De ratione: la decadenza del diritto è l’esito necessario dell’operare della “topica” fuor delle restrizioni della “critica” sino alla confusione di questa con quella. Ma Vico non si ferma alla diagnosi dei mali, ne indica insieme la terapia. Per restituire valore alla legge, è necessario «omnia pro regni natura ad civilem ordinare aequitatem»: e qui il regno è la “repubblica monarchica”, e la civilis aequitas è quella che, chiamata in Italia «giusta ragione di Stato», è più ampia dell’equità naturale, in quanto «non privata utilitas, sed commune bonum
112
suadeat» (cfr. ivi, pp. 186-189). L’inversione del rapporto topica/ critica è compiuta: la critica – la conoscenza del commune bonum, cioè: della res publica, detta “monarchica” perché “una” – deve dirigere la topica – la pratica politica volta a coordinare le molteplici utilità private, subordinandole all’utilità pubblica. È evidente: l’inversione del rapporto topica/critica “ripete” il modello della scienza moderna, il modello della mathesis universalis. Anche superfluo ricordare qui il ruolo che Descartes assegna all’immaginazione nelle Regulae ad directionem ingenii4, o della “sensata esperienza” accanto alle “necessarie dimostrazioni” nel procedimento scientifico descritto e praticato da Galilei; superfluo, perché non sono singoli particolari, per quanto rilevanti, che permettono di assimilare il metodo vichiano a quello della scienza moderna, ma è il mutamento del paradigma logico operato dalla scienza moderna che Vico, nel capitolo XI del De ratione, ribaltando il rapporto topica/critica, ha fatto suo. Sin dove consapevolmente, considerato l’insieme del testo? Non nego la legittimità della domanda. Ciononostante la lascio cadere. Perché, consapevole o non che Vico fosse della discordanza di questo capitolo col resto dell’opera, fatto è che negli scritti successivi il paradigma della scienza moderna si impone. A questo punto è necessario fermarsi a dire qualcosa di questo paradigma, e del mutamento intervenuto col passaggio dall’episteme antica alla scienza moderna.
3 Il paradigma logico dell’episteme antica, retta dal principio di non contraddizione, è quello dell’inerenza del predicato al soggetto. Principio di non contraddizione e logica dell’inerenza si sostengono a vicenda: in tanto è possibile connettere il pre4. Cfr. R. Descartes, Regulae, pp. 780-797.
113
dicato al soggetto senza contraddizione, e cioè secondo verità, in quanto il predicato esprime ciò che è proprio del soggetto, e cioè l’essere del soggetto; in tanto è possibile affermare che il predicato dice l’essere del soggetto, in quanto non contrasta con esso. Non è questo il luogo per ripetere il ragionamento attraverso cui il principio di non contraddizione venne esteso dalla logica all’ontologia – quello che qui possiamo dire, e che è funzionale al nostro discorso, è che questo paradigma è entrato in crisi quando è venuta meno l’idea dell’adaequatio intellectus et rei, poggiante sulla concezione del Dio Summum Ens che, in quanto tale, è Summum Bonum. Se l’onnipotenza del Summum Ens è tale da non poter essere limitata da nessun principio logico e ontologico, se le stesse verità matematiche sono tali solo perché volute da Dio, e Dio potrebbe non volerle più, ché in suo potere com’è il creare, così è il de-creare, allora nessun’altra possibilità resta all’uomo per accedere a una conoscenza necessaria che quella fondata sulla ragione e sui principi che ne reggono l’uso, principi che dalla ragione stessa si ricavano. La logica di questa ragione è la logica della sussunzione, per cui quello che del soggetto si conosce è ciò che il predicato, o, meglio, la connessione dei predicati, attribuisce ad esso. Fenomeno è detto il soggetto, perché esso è ciò che appare nell’orizzonte delle connessioni necessarie della ragione. Ciò che il soggetto del giudizio è in sé e per sé, “prima” e “fuori” della predicazione, non interessa propriamente la scienza. Non interessa significa: la scienza resta tal quale sia che la connessione predicativa venga intesa come la struttura ontologica del soggetto della predicazione (concezione mediante la quale si riporta il giudizio di sussunzione sotto l’egida di quello di inerenza5), sia che, invece, venga intesa come una pura for-
5. Cfr. Hegel, WL, II, Die absolute Idee, spec. p. 557 («Die Methode des absoluten Erkennens ist […] analytisch. […] Sie ist aber ebensosehr synthetisch») e ss.; it., II, pp. 942 e ss.
114
ma “applicata” al soggetto del giudizio, la cui “materia” resta “altra” e “sconosciuta”. Anche superfluo indicare i filosofi a cui fan capo le due accennate concezioni; importante, invece, dire che il moderno è caratterizzato dal continuo oscillare tra i due paradigmi, quello dell’inerenza e l’altro della sussunzione – e questo è particolarmente evidente in Vico. Nel De antiquissima italorum sapientia – ad es., dopo aver affermato che anche se Dio stesso volesse spiegarcelo, noi umani e mortali non potremmo capire in che modo l’infinito entra nel finito (e qui il neo-plotiniano Vico congiunge problemi logici, ontologici e teologici in un medesimo nodo) – spiega, o cerca di spiegare, mediante il concetto di conatus (chiaramente ripreso da Spinoza), che non è moto, ma potenza di moto, il passaggio dalla quiete divina al movimento dei corpi fisici6. Invero Vico inclina a dare al paradigma logico della sussunzione il sostegno di quello dell’inerenza, in particolare nel De uno, dove definisce il vero come conformatio mentis ordini rerum7. E lo stesso dicasi riguardo alla Scienza Nuova, nella quale la verità della storia è data dall’identità del soggetto che conosce la storia col soggetto attore della storia: per quanto spesse siano le tenebre che avvolgono «la prima da noi lontanissima Antichità» – scrive – un principio resta saldo, «che questo Mondo Civile egli certamente è stato fatto dagli uomini; onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i Principj dentro le modificazioni della nostra medesima Mente Umana» (SN44, p. 894). Certo a questa tesi segue, poche pagine dopo, l’opposta secondo cui la «Provvedenza» opera nella storia umana «senza verun’ umano scorgimento, o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini» (SN44, p. 901). Ma, quale che sia 6. Cfr. G. Vico, DA, in particolare cap. IV, § 1: De Punctis Metaphysicis et Conatibus, pp. 60-80. In merito cfr. V. Vitiello, SLN, cap. II: Il medio assente. Sul concetto di verità nel De antiquissima. 7. Cfr., De uno, pp. 34-35, cfr. supra, A, cap. III, § 8.
115
la possibile composizione di queste opposte affermazioni, un fatto è certo: il paradigma logico seguito da Vico nell’indagine sulla storia è quello moderno della sussunzione, anche quando ad esso si attribuisce un fondamento ontologico. E valga quest’ultimo riferimento alla Sezione IV del Libro I, dedicata al Metodo, ove conclusivamente è detto che le pruove filosofiche, ossia: i principi fondamentali che definiscono l’orizzonte della storia ideale eterna, vengono prima delle pruove filologiche, ossia: dell’accertamento dei fatti (cfr. SN44, p. 905). D’altronde in che, se non nella scelta del paradigma logico dell’età moderna, consiste la “novità” della Scienza Nuova? E cioè nell’estensione della mathesis universalis alla storia? Questo spiega anche perché Vico annoveri Ugo Grozio tra i suoi “auttori”, dopo Platone, Tacito e Bacone, nonostante in tutta la sua opera non sia avaro di critiche anche aspre. Fatto è che Grozio aveva anticipato la sua scoperta, estendendo al diritto la mathesis universalis. Sospendiamo il discorso su Vico a questo punto, lo riprenderemo più tardi; ora dobbiamo tornare a Gadamer per vedere se anche in Verità e metodo non accada qualcosa di simile a quanto abbiamo scorto in Vico.
3 Le pagine di Verità e metodo dedicate a Dilthey sono fondamentali per la comprensione dell’intera opera. Che Gadamer abbia avvertito in Dilthey uno spirito affine è testimoniato dai molti elementi che hanno in comune: dalla centralità del linguaggio nell’accadere e nella comprensione della storia, al primato della vita sul sapere, alla concezione della storia come tradizione. Ma proprio questa affinità impone a Gadamer di segnare con estrema nettezza le differenze. Sospetto che l’operazione non sia stata indolore. Cosa critica Gadamer di Dilthey?
116
La condivisione dell’ideale hegeliano dell’assoluta autotrasparenza della coscienza storica. Senza affatto diminuire la distanza di Dilthey da Hegel8, Gadamer critica questa assolutezza, mirando direttamente al principio “metodologico” su cui si fonda il vichiano verum ipsum factum, ripreso da Dilthey in questi termini: «La prima condizione di possibilità della scienza storica sta in ciò […], che colui che indaga la storia è quello stesso che la fa»9. Ma proprio in questa «congenerità [Gleichartigkeit] di soggetto e oggetto» Gadamer scorge la negazione della temporalità – quindi della storicità – della coscienza storica (WM, p. 226; it., p. 264). Coinvolgendo nella critica anche Schleiermacher, scrive: L’interprete è assolutamente contemporaneo del suo autore. Il trionfo del metodo filologico è proprio la capacità di comprendere lo spirito passato come presente, lo spirito estraneo come qualcosa di familiare. Dilthey è tutto compenetrato di questa idea. Su ciò fonda i diritti delle scienze dello spirito. Come la conoscenza delle scienze naturali domanda sempre a qualcosa di presente un chiarimento che questo porta in sé, così fanno le scienze dello spirito nei confronti di un testo. (WM, p. 245; it., p. 285)
La critica a Dilthey colpisce insieme Vico, mostrando Gadamer la perfetta congruenza dell’identità vero-fatto con l’idea le cartesiano e illuministico del sapere scientifico. È questo il punto in cui la separazione verità/metodo è portata all’estremo
8. «Non nel sapere speculativo del concetto giunge a compimento l’auto coscienza dello spirito, ma nella coscienza storica» (WM, pp. 233-234; it., p. 273). 9. W. Dilthey, Plan, p. 278; it., p. 373. Nella V edizione tedesca di WM (1986) Gadamer fa seguire alla citazione del passo di Dilthey questa osservazione: «Aber wer macht eigentlich die Geschichte?» (p. 226, nota 92; it., ed. Bompiani, Milano 20012, p. 453). Sul rapporto Dilthey-Gadamer rinvio a V. Vitiello, ES, Parte I: L’ermeneutica dalla storia alla topologia, capp. I e III.
117
dell’opposizione. Contro questa identità Gadamer, richiamandosi a Heidegger, afferma la Diesigkeit, la nebulosità, l’opacità della vita e della storia (cfr. HW, p. 55). Un testo, una vita, la vita d’un altro, come la propria, il testo d’un altro, come il proprio, non sono mai del tutto disvelati e compresi, ed è proprio il carattere limitato, finito d’ogni interpretazione che assicura la storicità della comprensione storica. Gadamer critica non soltanto la rankiana pretesa di “semplicemente esporre come il fatto propriamente è stato”, ma anche la più raffinata idea di Schleiermacher e Dilthey, secondo la quale l’interprete comprende l’autore meglio di quanto l’autore non comprenda se stesso. Non si tratta – precisa – di comprendere meglio, con concetti più chiari e profondi, né di portare a coscienza ciò che fu fatto inconsciamente, si tratta di comprendere anders, wenn man überhaupt versteht (cfr. WM, p. 302; it., p. 346). La “verità” ermeneutica è tutta in questo anders, in questo diversamente, e cioè: nell’alterità del verum rispetto al factum. Ma se non è possibile portare a disvelatezza completa, perfecta, un testo, una vita, a maggior ragione non sarà mai tutta disvelata la vita storica, la Überlieferung, nella quale siamo, viviamo e conosciamo gli altri e noi stessi. Storicizzare la vita, storicizzare la storia, è tutt’altra cosa che ridurre il passato al presente dell’orizzonte categoriale in base al quale esso viene interpretato: l’orizzonte di comprensione e di interpretazione della storia è esso medesimo prodotto di storia. Ciò che viene überliefert, trasmesso, dalla tradizione è anzitutto l’orizzonte di comprensione del passato come del presente e del futuro, ovvero l’orizzonte della storia tutta, che perciò è detto VorUrteil, pre-giudizio, in quanto è “prima” di ogni atto giudicante: appunto, in quanto è l’apriori di ogni giudizio. È questo il senso dell’affermazione gadameriana secondo cui «un pensiero autenticamente storico deve essere consapevole anche della propria storicità» (WM, p. 305; it., p. 350): della storicità del proprio orizzonte categoriale.
118
Non è difficile vedere nel Vor-Urteil la versione ermeneutica della mathesis universalis della storia. Versione ermeneutica, ovvero: versione storicizzata della mathesis; ovvero ancora: storicizzazione dell’apriori storico. Ed è qui che Gadamer trova la pietra d’inciampo. Pietra? Macigno, piuttosto, e ben più pesante del “così fu”, ché si tratta del “così è, e soltanto è, sempre”, senza mai “era” e senza mai “sarà”. Infatti, se è vero che ogni mondo è un mondo storico e ogni linguaggio un linguaggio storico, non è men vero che ogni mondo storico è mondo e ogni linguaggio storico è linguaggio. La linguisticità del linguaggio, la mondità del mondo, è ciò che del mondo e del linguaggio si sottrae a ogni storia e a ogni tempo storico per essere l’orizzonte infinito del tempo e della storia: l’orizzonte di tutti i possibili orizzonti, di quelli che saranno, come anche di quelli che non saranno mai. Ed è solo per questo orizzonte infinito della “linguisticità” che Gadamer può dire che «in ogni lingua c’è […] un rapporto immediato con l’infinità dell’essente» (WM, p. 457; it., p. 518). Ed è per l’identità di questo rapporto, che in ogni mutamento permane identico, che l’uomo si differenzia dall’animale10. È qui che entra in giuoco l’Anwendung.
4 L’Anwendung è concetto fondamentale nell’ermeneutica gadameriana, ché in esso esprime il massimo sforzo di storicizzare la storia. L’orizzonte di comprensione – indico qui: l’orizzonte
10. «Aver linguaggio significa un modo di essere radicalmente diverso dalla dipendenza dall’ambiente che caratterizza gli animali. Imparando una lingua straniera, l’uomo non muta il proprio rapporto col mondo, com’è invece il caso di un animale acquatico che diventi animale terrestre; l’uomo invece, mantenendo il suo proprio modo di rapportarsi al mondo, lo amplia e lo arricchisce attraverso il nuovo mondo linguistico che si appropria. Chi ha linguaggio, “ha” il mondo» (WM, p. 457; it., p. 518).
119
storico di comprensione, la lingua non la linguisticità – non vale per sé, ma per quanto ci consente di comprendere, appunto come la mathesis che è volta alla determinazione dell’oggetto e non di sé. Comprendere è adattare il principio universale al fatto singolo. Gadamer si rifà all’esperienza giurisprudenziale. L’attività del giurista non s’arresta alla conoscenza della legge, questa è solo la premessa, il presupposto del suo operare. Il sapere del giurista è un sapere pratico consistente nel saper-applicare la legge, adattandola al caso singolo e singolare. Questo sapere non ha l’esattezza della conoscenza scientificomatematica, ma la flessibilità della prudentia (phrónesis) che si forma nell’esperienza di vita. L’assenza di esattezza non è una “mancanza”, un difetto, è il carattere più proprio di questo sapere. Non ha senso chiedere al discorso di un politico il rigore di una dimostrazione matematica11, e l’ermeneutica è un sapere pratico, etico, nel senso di Aristotele. L’ermeneuta è come il phrónimos: al modo stesso che questi non sceglie il fine che gli è dato come natura, buona natura, euphyía, ma i mezzi idonei alla sua attuazione, così l’ermeneuta non sceglie l’orizzonte nel quale e per il quale interpreta la vita, il mondo, la storia. E come l’uomo virtuoso, l’euphyés, nell’attuazione del fine, l’azione virtuosa, modifica il fine, lo varia a seconda delle circostanze, pur conservandone l’identità d’essenza, così il giurista applicando la legge la adatta al caso singolo e l’ermeneuta nell’interpretare adegua l’orizzonte di comprensione al testo. Arte per eccellenza della mediazione, l’ermeneutica intreccia permanente e mutevole, legge e fatto, ordine e caso, universale e singolare, come nella vita. Talché il Vor-Urteil, il pre-giudizio (l’orizzonte storico di comprensione della storia), nel “mediare” il presente dell’interprete con il passato del testo, viene in questa mediazione pur esso “mediato”, e cioè mutato, trasformato. L’Anwendung, l’applicazione della legge al caso 11. Cfr. Aristotele, EN, A, 1094b 12-27.
120
particolare, l’adeguazione dell’orizzonte di comprensione al singolo testo, storicizza il già-storico passato e il già-storico presente, formando in tal modo un “nuovo” orizzonte di comprensione. L’Anwendung storicizza la storia, temporalizza il tempo, lasciando sempre dietro di sé un “resto”, oggetto e soggetto di sempre “diversa” interpretazione. Questo “resto” è il futuro del futuro, la possibilità che un futuro sia. La critica al principio vichiano del verum id factum si estende a Descartes, al cogito sum, al sum cogitans. Infatti, se è vero il principio che la distanza temporale non è d’impedimento per la conoscenza del passato, anzi è un vantaggio – noi oggi conosciamo di Aristotele più di quanto egli non conoscesse se stesso, perché siamo ricchi delle interpretazioni di Alessandro di Afrodisia, dei commentatori arabi, di Tommaso, di Suarez, della filologia e della filosofia otto-novecentesca –, allora non è men vero che i nostri figli conosceranno noi più di quanto noi conosciamo noi stessi. La verità è sempre futura. Ma… è futura anche la verità di quest’ultima proposizione? E cioè: sin dove può arrivare la storicizzazione della storia, la temporalizzazione del tempo? Con questa domanda, che lasciamo intenzionalmente aperta, torniamo a Vico, per vedere se anche nel suo cammino di pensiero si sono presentate difficoltà simili a quelle che abbiamo incontrato nell’itinerario di Gadamer.
5 La storia ideale eterna, la geniale estensione vichiana della mathesis universalis al mondo storico, non sembra – a Vico stesso, beninteso – capace di dar ragione dell’intera storia. E non faccio qui riferimento solo all’età più antica, ai primordi della storia che la mente degli addottrinati a stento può intendere, ma certo non immaginare – come Vico ripete pressoché con le
121
stesse parole in tutt’e tre le Scienze Nuove12 –, faccio riferimento non meno all’età di mezzo, all’età eroica, all’età che precede la lingua volgare, la lingua, cioè, “comune” della riflessione in cui è scritta la Scienza Nuova. Questa lingua può certo avere a oggetto le età che precedono quella della mente pura, ma non può ridarne il senso vero, la vita: il senso e la vita delle “parole reali”, delle parole, per fare un esempio, di Idantura, il re Scita, il quale a Dario, che gli imponeva sottomissione, rispose inviandogli, a significare il suo fiero rifiuto, una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro e un arco. Vico ne fu perfettamente consapevole: nel passaggio dalla prima alla seconda e alla terza Scienza Nuova, la sua lingua si fece più fiorita, più ricca, più barocca, come a sottrarle esattezza e precisione di scienza, e dotarla di immaginazione e passione poetica. Si approssimò al linguaggio del mito, imitandone le ambigue movenze narrative: per descrivere il disboscamento della terra operato dai primi uomini igni non ferro per la fondazione delle loro città, ricorse al racconto della maggior fatiga di Ercole, la lotta con il leone nemeo, ove non solo il leone è insieme il fuoco che incendia la selva e la selva incendiata, ma anche Ercole è uccisore del leone e insieme detentore dell’arma dell’ucciso. Raccontò gli stessi miti in forme e con significati diversi. Per dare figura alla parola pose sul frontespizio della Scienza Nuova, già nella seconda edizione, una Dipintura allegorica, in cui riassumeva l’intera opera “in idea”. Ovvero: in immagine. Nella prima Scienza Nuova Vico, nel mentre narra la storia di Roma antica, appoggiandosi alle Storie di Livio, da cui ampiamente cita, scrive: «con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che finora hanno ingombrato la storia favolosa de’ greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore degli dèi addimesticato le fiere e riduttele nelle città» (SN25, pp. 86-87). Sem-
12. Cfr. SN25, p. 69; SN30, pp. 486 e 635; SN44, pp. 899 e 1099.
122
bra che la storia di Livio fornisca il filo conduttore di questo disegno di filosofia della storia; ma non è così. Livio fornisce le prove filologiche, il contenuto “certo”, del disegno, la “materia”; ma la “forma”, in cui questa materia viene inquadrata, è data da “altro”, se il disegno si sporge ben oltre la storia romana, sin nella notte della favolosa storia greca, e oltre ancora. Da altro. Da che? Non dalla filosofia. Dal Mito, bensì, e dalla Poesia. Che sono non “sapienza riposta”, ma “volgare”, tali perché in forma fantastica narrano “fatti”: narrano la storia di quei remoti tempi oscuri, cui la ragione riflessa non giunge. Nel circolo filosofia-filologia e/o filologia-filosofia, si inserisce ora un “terzo” termine. Il mito? La poesia? Né l’uno, né l’altra: il terzo termine è l’“uso” – l’Anwendung, l’“applicazione” – che Vico fa del mito, “logicizzando” il mito e “mitizzando” il logo, in forme che per molti versi ricordano Platone. E qui non è possibile addurre un esempio, essendo l’intera Scienza nuova testimonianza viva di questo mythologeîn. L’esito di questa scrittura, che è pensiero vivente, rimette in questione radicitus la gran scoperta della mathesis universalis del mondo storico, la storia ideale eterna. Il rapporto topica/ critica, per riprendere la distinzione del De ratione, è di nuovo mutato. La topica viene dopo la critica, ma non perché la critica fornisca il quadro categoriale entro cui ordinare i fatti, il vero entro cui il verisimile può avere cittadinanza epistemica, bensì perché il verisimile ha maggior valore del vero. O, a dir meglio: perché il verisimile è l’unica forma in cui il vero può darsi. Il principio del verum et factum convertuntur ora dice l’opposto di quanto diceva nella sua prima formulazione: non il fatto è portato, elevato al vero, all’universalità del vero, dell’eterno, ma il vero è ricondotto al fatto, alla singolare singolarità del fatto. La sua universalità è solo nella “testimonianza” che dà di sé – testimonianza rivolta agli altri, la cui validità è solo nella possibile accoglienza degli altri. Nessuna universalità in sé: l’universalità del verisimile è quella e solo quella che
123
l’accoglienza degli altri gli conferisce. Non è per-sé, è per-altri: è dono d’altri. Chiaro che in questa prospettiva il “ricorso” storico non ha affatto il significato salvifico e consolatorio di una reimmersione vivificante nella barbarie, onde riemergere con nuova energia a nuova vita. Questa lettura rende certo la “superficie” della Scienza nuova, ma l’assiduo lettore dell’opera non può non avvertire il magma che si agita sotto la superficie, il senso della catastrofe che, costante, minaccia la storia, le storie che corrono nel tempo, e non meno la storia ideale eterna. Il “resto”, ciò che sta “prima” e “oltre” la storia ideale eterna, che la Dipintura allegorica raffigura nella nube che limita la luce che promana dall’occhio celeste, e che si confonde con l’ingens sylva che sta dietro la statua di Omero, l’altare e l’urna cineraria, non è promessa di salvazione, più che minaccia di morte. Non dell’individuo, della storia. Vico, pur trattenuto dalla “sua” fede cattolica, avvertì il thaûma del Sacro, deinótatos antrópoisi d’epiótatos13. E ne subì il fascino.
6 E Gadamer? Gadamer no, non parve mai attratto dal thaûma del Sacro. La sua religiosità era troppo mondana – mondana, non terrestre –, troppo storica, troppo legata al saeculum e all’uomo per essere affascinata dal Sacro, dal mistero del Sacro. In uno scritto su Heidegger, il Maestro da lui sempre venerato, sostenne che il concetto della morte non è necessario alla comprensione della finitezza di Dasein, alla descrizione- comprensione di questa è sufficiente il concetto della temporalità dell’essere14. Se riprendiamo ora, in conclusione, la 13. Euripide, Baccanti, v. 861. 14. Cfr. Il sentiero verso la svolta (1979), HW, pp. 114-115.
124
domanda lasciata in sospeso: “sin dove può arrivare la storicizzazione della storia, la temporalizzazione del tempo?”, possiamo rispondere: sino al muro del tempo, invalicabile. La verità – come sopra si diceva – è sempre futura, non il sum ma l’esse del cogito mai potendo essere raggiunto dal cogito; ma è e resta futuro la verità, perché è e resta in aeterno il tempo, e la temporalizzazione del tempo. Il macigno del tempo eterno, della Zeit, die bleibt und nicht wechselt, rappresenta un peso impossibile da sollevare per l’ermeneutica filosofica.
7 La classica serenità del volto di Gadamer, sempre più somigliante col passare degli anni a un Sophós della antica Grecia – Parmenide, direi, per la sua solare chiarezza, e non l’Oscuro di Efeso, nonostante il suo amore per il molteplice –, accostata all’inquieta, inquietante figura del suo Maestro, ricorda l’immagine di Serenus Zeitblom accanto a Adrian Leverkühn. Tragici entrambi, ma di diversa tragicità: Leverkühn per la tragedia della “follia” – simbolo nobile della ignominiosa follia di un popolo –, Zeitblom per aver saputo sopportare la vista delle due follie, prossime e opposte, dell’amico geniale e del popolo asservito al tiranno, conservando nel più profondo dolore quella Mittelmäßigkeit che è propria del phrónimos: quello che Gadamer volle essere e riuscì a essere.
125
III Due quadri, due teologie, due mondi Vico e Benjamin
In limine Due quadri: la Dipintura allegorica del napoletano Domenico Antonio Vaccaro – posta da Vico sul frontespizio della Scienza nuova per rappresentare l’“idea” dell’opera, e cioè: la duplice natura, divina e umana, della storia –, e Angelus Novus dello svizzero Paul Klee – allegoria, nell’interpretazione dettata da Walter Benjamin in Über den Begriff der Geschichte, della teologia negativa della storia. Due “pitture” tra loro distanti ancor più del tempo che divide i mondi storici in cui sono nate. Mondi tra loro lontani, spesso opposti, ma non estranei. La loro lontananza non cela la comune origine, storica solo in quanto essenziale. «Herkunft bleibt stets Zukunft»1: le nostre radici ci sopravanzano. E sono radici filosofiche e religiose, più determinatamente: teologico-politiche, quelle che nelle due immagini allegoriche sono “pensate”: nella prima la visione cristiana della storia, nella seconda l’ebraica. Ma pensate in entrambe con lo sguardo rivolto al futuro, anche quando s’inabissa nel pozzo del passato – del passato che è prima del tempo. Del tempo della storia. 1. M. Heidegger, US, p. 96.
126
Al futuro. Quale? All’incerto futuro di quella Weltweisheit, di quella pratica di mondo, fatta di phrónesis e pietas, che è stata l’espressione più elevata dell’ingegno “politico” europeo. Potrà sopravvivere questa “saggezza”, questa pia prudentia, al decadimento d’Europa, che, proprio realizzando la sua più intima vocazione – espandersi nell’intero globo –, s’è come snaturata e va spegnendosi?
I Perfino gli angeli – nuovi in ogni attimo in schiere innumerevoli – secondo una leggenda talmudica vengono creati per cessare di esistere e dissolversi nel nulla, non appena abbiano cantato il loro inno davanti a Dio.2
1 Cominciamo dal linguaggio, analizzando le diverse concezioni di Vico e di Benjamin. Per entrambi l’originaria essenza del linguaggio è l’espressione; la comunicazione vien dopo: la segue e ne dipende, positivamente e/o negativamente. Per entrambi l’espressione linguistica è della voce e del corpo, del gesto del corpo, dell’azione. Ma proprio su questo problematico rapporto tra la voce e il corpo, la distanza tra i due autori è grande, almeno quanto i “fraintendimenti” cui sono stati “oggetto” entrambe le loro concezioni. Perciò iniziamo da qui, ma non con Vico, con Benjamin, il più “metafisico” (nel senso che si chiarirà nel corso dell’analisi) nell’impostazione del problema del linguaggio. 2. Il passo di Benjamin è riportato da G. Scholem in BA, pp. 31-32, e p. 65 nota 7.
127
Per Benjamin ciò che nel (“nel” e non: “attraverso il”) linguaggio si esprime è l’“essenza spirituale” della “cosa”. Ma l’implicazione non è identificazione: ciò che dell’essenza spirituale è “linguistico” è solo quello che di essa è “comunicabile”. E ciò che è comunicabile è solo l’essenza linguistica, dacché la lingua non altro comunica che se stessa. Esemplifica Benjamin: Il linguaggio di questa lampada […] non comunica la lampada (poiché l’essenza spirituale della lampada, in quanto comunicabile, non è per nulla la lampada stessa), ma la lampada- del-linguaggio, la lampada-nella-comunicazione, la lampadanell’espressione. (ÜS, p. 142; it., p. 179)
Passaggio non proprio esemplare per chiarezza, se lo stesso autore, dopo aver affermato che «l’essere linguistico delle cose è la loro lingua» – unica affermazione chiara dell’enunciato – sente il bisogno di aggiungere che «la comprensione della teoria linguistica dipende dalla capacità» di non intendere questa proposizione come una tautologia. Subito precisando: «questa proposizione non è tautologica poiché significa: ciò che in un essere spirituale è comunicabile, è la sua lingua […], immediatamente la lingua stessa» (ibidem). È evidente: ripetendo più volte la stessa enunciazione – «la lingua comunica l’essere linguistico delle cose» –, Benjamin s’arrovella su ciò che non ha bisogno d’essere spiegato, mentre tace su quanto invece esige d’essere chiarito, e cioè cosa è da intendere con: “essenza spirituale della cosa” – nell’esempio da lui fatto: della lampada – in quanto non-identica all’essenza linguistica della cosa stessa, ovvero: in quanto non comunicabile. Detto più semplicemente: cosa resta della lampada fuori della lampada-del-linguaggio, della lampada-nella-comunicazione, della lampada-nell’espressione? Se resta qualcosa. Non credo sia necessario dire che l’importanza della distinzione è affermata anzitutto da Benjamin, affermata e insieme ambiguamente negata. Leggiamo il passo che precede quello citato:
128 La distinzione tra l’essere spirituale e quello linguistico in cui esso si comunica, è la più originaria in un’indagine di teoria linguistica, e questa differenza appare così indubitabile che anzi l’identità spesso affermata fra l’essenza spirituale e l’essenza linguistica costituisce un paradosso profondo e incomprensibile, di cui si è vista l’espressione nel doppio senso della parola lógos. Eppure questo paradosso come soluzione ha il suo posto al centro della teoria del linguaggio, pur restando paradosso, e insolubile quando è posto all’inizio. (ÜS, pp. 141142; it., p. 178)
Insomma per la soluzione – rectius: per “il paradosso come soluzione” – dobbiamo attendere lo sviluppo dell’indagine. Per quanto allo stadio attuale dell’analisi è dato capire, la lampadadel-linguaggio, e cioè: la lampada-nella-comunicazione, è l’insieme delle relazioni in cui la lampada “è”, in quanto accesa, spenta, di bronzo, sul tavolo, ecc., ovvero: la lampada della pratica quotidiana delle cose. E lo stesso va detto per la montagna e la volpe, gli altri due esempi addotti da Benjamin. Cosa comunica della montagna il linguaggio? Il profilo delle sue vette, il colore delle rocce, l’urlo del vento che scuote gli alberi… tutto quanto, insomma, diciamo della montagna in relazione ad altro: il cielo, la valle, la vegetazione, gli animali. E cosa della lepre? Qui la risposta viene immediata, ché la lepre-dellinguaggio comprende in sé anche il linguaggio della lepre, la sua “voce” oltreché il suo habitat, la tana e suoi comportamenti vitali. Espressione e comunicazione, nate “distinte”, alla fine si uniscono, si fondono. L’essenza linguistica delle cose è il loro essere-in-relazione. Resta da chiedersi, a questo punto, che cosa resta delle “cose” che non si comunica nel linguaggio, e cioè in che consiste l’“essere spirituale” della lampada, della volpe e della montagna. La risposta sembra essere: la cosa stessa, la lampada, la montagna e la volpe nel loro “esser-per-sé”, kath’hautó. L’essenza non comunicata e non comunicabile nel linguaggio è ciò che della cosa non si comunica, ciò che non partecipa sé ad altro perché non è “per la relazione ad altro”,
129
pròs álla. Ma è giusta questa conclusione, che ci pone innanzi “la lepre in sé”, “la montagna in sé”, “la lampada in sé”? Il testo di Benjamin, distinguendo l’inizio della ricerca – il paradosso: “l’identità di essenza spirituale ed essenza linguistica” – dal seguito – il paradosso stesso “come soluzione” –, sembra indicare altro. Non resta, quindi, che andare avanti nella lettura, che ci riserva non poche sorprese.
2 Il testo che andiamo leggendo reca questo titolo: Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo. La distinzione è netta – ed è la distinzione tra la lingua “nominale”, che è solo dell’uomo, e la lingua senza nomi, e in alcuni casi (la montagna e la lampada) senza suono, “inacustica”, delle altre “cose” tutte. Superfluo ricordare l’origine biblica di questa concezione: il privilegio, concesso da Dio ad Adamo, di dar nome agli animali (cfr. Gen 2,19); opportuno, invece, citare l’osservazione di Benjamin sull’uomo che “è stato fatto di terra”: È questo, in tutta la storia della creazione, il solo passo in cui si parli di un materiale del creatore in cui egli esprime il suo volere, altrimenti concepito come immediatamente creatore. In questa seconda storia della creazione la creazione dell’uomo non è avvenuta mediante la parola (Iddio disse – e così fu), ma a quest’uomo non creato dalla parola è conferito il dono della lingua, ed egli è innalzato al di sopra della natura. (ÜS, p. 148; it., p. 184)
Per spiegare l’origine del linguaggio, Benjamin è risalito all’ori gine dell’uomo e, più indietro ancora, all’origine della creazione. E tuttavia questo gran “salto” non serve a chiarire il problema. Anzi rivela che il problema dell’origine del linguaggio non è stato neppure sfiorato. È la premessa “religiosa” – la sua radice ebraica – che è d’ostacolo. Perché non si può partire dal “nome” per spiegare il linguaggio, essendo il nome,
130
o meglio: la formazione dei nomi, il “primo” problema che l’analisi del linguaggio deve affrontare. Saltando questo passaggio Benjamin finisce per spiegare il linguaggio col linguaggio. Questa la vera “tautologia” che minaccia la sua investigazione. Davvero in essa Gerusalemme oscura Atene: la Bibbia, Platone. Completamente? Sembrerebbe di sì, se si considera che il primo linguaggio nominale “è” (presente aoristico) quello di Dio. Di nuovo Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu». E qui l’aggancio al testo biblico è più forte e decisivo: l’essere l’uomo fatto a immagine di Dio comporta con l’identità della lingua divina e della lingua umana, la loro differenza. Come l’immagine della cosa non è la cosa, così il nome umano non è il nome divino: nel nome Dio crea, nel nome l’uomo conosce3; ma la conoscenza è solo il riflesso (Reflex) della creazione (cfr. ÜS, p. 148; it., p. 184). Quantunque il nome umano sia solo il “riflesso” del nome divino, all’uomo è riservata una posizione di assoluto privilegio nell’ordine della creazione4. Ma questa “posizione centrale” dell’uomo nell’universo, questo antropocentrismo cosmogo nico – s’affretta a precisare Benjamin – non è affatto “antro pomorfismo” (cfr. ÜS, p. 143; it., p. 180), perché nella parola umana – immagine del Verbo divino – è l’universo che si rivela, e cioè le cose tutte in quanto create da Dio: le cose tutte come sono per sé, kath’hautó, e non soltanto come sono in rapporto alle altre cose, pròs álla5.
3. «Der Mensch ist der Erkennende der selben Sprache, in der Gott Schöpfer is» (US, p. 149; it., p. 185). 4. «Ogni natura in quanto si comunica, si comunica nella lingua, e quindi in ultima istanza nell’uomo. Perciò egli è il signore della natura e può nominare le cose» (ÜS, p. 144; it., p. 181). Di qui la definizione del linguaggio nominale come «die Sprache der Sprache» (ibidem). 5. Chiaro che il “per sé” (kath’hautó) delle cose è ben altro dal kantiano Ding an sich, come Benjamin non manca di sottolineare: «la cosa in sé non ha pa-
131
Nessun antropomorfismo, certo, se l’uomo è l’unico ente che non ha un “per sé” singolare, la sua conocenza di “sé“ coincidendo con la conoscenza dell’universo delle cose tutte, dacché nel suo nominare sono i nomi di tutte le cose: «l’essenza linguistica dell’uomo è quella di nominare le cose», e in ciò consiste la sua essenza spirituale. L’uomo è l’unico ente in cui le due essenze – la linguistica e la spirituale – sono unum et idem6. Nessun antropomorfismo, anzi l’opposto, dacché il privilegio dell’uomo, ciò che lo colloca al di sopra della natura, consiste nel non aver forma propria, nome proprio: «l’uomo comunica la sua propria essenza spirituale (in quanto essa è comunicabile) nominando tutte le altre cose» (ÜS, p. 143; it., p. 180). Ed è nel nome di tutte le cose – e solo in questo – che «l’essere
rola», laddove la cosa “per sé” «è creata dal verbo di Dio e conosciuta nel suo nome secondo la parola umana» (ÜS, p. 150; it., p. 186). Aggiungo a ulteriore chiarimento che la cosa creata da Dio è detta qui “per sé”, kath’hautó, per evidenziare che il suo “essere” non dipende dalla relazione con le altre cose, ma, al contrario, è la possibilità di relazionarsi alle altre “cose” che dipende dal suo essere (creato da Dio e nominato dall’uomo). L’uso della locuzione greca – kath’hautó – intende sottolineare il carattere intenzionalmente antimoderno (nel fondo “aristotelico”, non platonico, prim’ancora che anti-kantiano) dell’impostazione benjaminiana del problema del linguaggio. La cura di allontanare dalla sua teoria del linguaggio ogni sospetto di antropomorfismo parla chiaro. A tal fine Benjamin non manca di “ridurre” il contributo “attivo” della nominazione conoscitiva dell’uomo: «Ma questa conoscenza della cosa non è una creazione spontanea, non accade dalla lingua assolutamente, senza limiti e infinitamente come quella divina: ma il nome che l’uomo dà alla cosa dipende dal modo in cui essa gli si comunica. Nel nome la parola di Dio non è rimasta creatrice, essa è divenuta in parte ricettiva, anche se linguisticamente ricettiva. Questa ricezione è rivolta alla lingua delle cose stesse, da cui a sua volta s’irraggia, senza suono e nella muta magia della natura, la parola divina» (ibidem). Cfr. anche la successiva nota 6. 6. L’estensione a tutte le cose dell’identità dell’essenza linguistica con l’essenza spirituale (cfr. ÜS, p. 145; it., p. 182) riguarda l’essenza delle cose come sono nel linguaggio nominale dell’uomo, che è lo stesso linguaggio della crea zione, ancorché “limitato” alla conoscenza.
132
spirituale dell’uomo si comunica a Dio» (ÜS, p. 144; it., p. 180). Benjamin ricorda il versetto 2,20 di Genesi: «l’uomo nominò tutti gli esseri “ma non si trovava per Adamo aiuto convenevole a lui”» (ÜS, p. 149; it., p. 186). Non un difetto, non una mancanza – al contrario, un pregio, il sommo pregio: nell’essere la “forma-uomo” forma di tutte le forme, ché nel linguaggio umano l’“intensità” espressiva della lingua e la sua “estensione”, il suo “contenuto”, si pareggiano. Qui davvero il Reflex pareggia ciò che riflette, la lingua umana la lingua divina: La più profonda immagine [della] parola divina, e il punto in cui la lingua umana realizza la più intima partecipazione all’infinità divina del semplice verbo, il punto in cui essa non è parola finita e non può avere luogo conoscenza [scilicet: di sé] – è il nome umano. La teoria del nome proprio è la teoria dei limiti della lingua finita rispetto a quella infinita. Di tutti gli esseri l’uomo è il solo che nomina egli stesso i suoi simili, come è il solo che Dio non ha nominato. (ÜS, p. 149; it., pp. 185-186)
Di qui la conclusione: «Il nome proprio è la comunità del l’uomo con la parola creatrice di Dio» (ÜS, p. 150; it., p. 186). Nome proprio dell’uomo, perché in questo nome sono i nomi tutti delle cose. Perché il proprio della lingua dell’uomo – dell’unico essere la cui l’essenza spirituale coincide con l’essenza linguistica – consiste nel portare a Dio le cose nominandole: dando a ognuna il suo nome. La creazione ha molti stadi; al più elevato – l’umano – spetta tradurre la lingua innominale degli stadi inferiori in lingua nominale, e così esibire innanzi a Dio le cose create, ciascuna nel suo proprio nome7.
7. «La traduzione della lingua delle cose in quella degli uomini non è solo traduzione del muto nel sonoro, è la traduzione di ciò che non ha nome nel nome. È quindi la traduzione di una lingua imperfetta in una lingua più perfetta, e non può fare a meno di aggiungere qualcosa, vale a dire la conoscenza. Ma l’oggettività di questa traduzione è garantita [verbürgt] da Dio», nel quale le due lingue sono “imparentate” (verwandt) (ÜS, p. 151; it., p. 187).
133
3 Un bel racconto, ma solo un racconto, che suscita domande, e non dà risposte. Infatti, perché questo ritorno a Dio? Perché questa inversione del processo creativo? Cosa mancava alla creazione? E perché privilegiare la parola dell’uomo sulla lingua muta delle cose? È forse la terra, la materia, che spinge verso il basso il creato? Fosse così, perché proprio l’uomo, tratto da Dio dalla terra, ha ricevuto il dono della lingua nominale per riportare a Dio il mondo naturale, che pur creato ex nihilo è diviso, nella sua lingua priva di parole, dalla propria essenza spirituale? Ma appena formulate, sorge il dubbio che queste domande siano improprie. Improprie al luogo di cui parla Benjamin: l’Eden! E nell’Eden la differenza – anche tra superiore e inferiore – non dice mancanza, ma varietà. E cosa contribuisce a questa varietà più della lingua nominale dell’uomo, che riporta a Dio la sua stessa creazione nella forma “più alta” da lui creata? Ma al primo dubbio segue un secondo, più radicale. È davvero l’Eden il luogo di cui Benjamin sta parlando? Invero nel testo s’intrecciano “luoghi” e “temi” diversi. Le parole stesse diventano polivalenti, dovendosi adeguare ai vari “luoghi” dell’analisi. Andiamo al passaggio del testo che è all’origine dei nostri dubbi e contro-dubbi. Come la parola muta nell’esserci delle cose è infinitamente inferiore alla parola denominante nella conoscenza dell’uomo, così questa – a sua volta – lo è rispetto alla parola creatrice di Dio; e il medesimo principio [Grund] vale per la pluralità delle lingue umane. La lingua delle cose può passare nella lingua della conoscenza e del nome soltanto nella traduzione; – e tante traduzoni, tante lingue, non appena l’uomo sia caduto dallo stato paradisiaco che conosceva una lingua sola. (ÜS, p. 152; it., p. 188; tr. mod.)
134
A una più attenta lettura si vede bene che Benjamin parla insieme della traduzione edenica del linguaggio muto della natura nella lingua nominale dell’uomo e della traduzione storica tra le molte lingue degli uomini, leggendo questa seconda alla luce della prima. Che l’ordine del discorso vacilli, è l’autore stesso che l’avverte, se si preoccupa di dire che, stando al dettato biblico, «la cacciata dal paradiso si verifica solo più tardi» (ibidem). L’osservazione sui tempi diversi della vita nell’Eden non toglie gli ondeggiamenti del testo, nel quale l’orizzonte prospettico muta ad libitum. E la lingua dell’uomo – nell’Eden unica lingua nominale, che conteneva i nomi di tutte le cose in sé prive di nome – è abbassata a lingua particolare che può comunicare con altre lingue, pur esse nominali, e umane, soltanto attraverso la lingua paradisiaca. Ma – ancora un “ma” – può invocarsi a sostegno dell’“oggettività” di questa seconda traduzione, umana, e solo umana, Dio? La “parentela” in Dio tra la lingua muta delle cose senza nome e il linguaggio nominale umano regge anche la “traduzione” tra le molte lingue dell’uomo? Difficile sostenerlo, se il peccato originale, da cui sono sorte le mille e mille lingue “storiche” degli uomini, ha mutato dalla radice la lingua umana, che da lingua “riflesso” della parola divina, da “espressione immediata” dell’essere per sé, kath’hautó, di tutti gli enti, di tutte le cose – dalla lampada alla montagna, alla volpe –, è divenuta parola esteriore, nome separato dalla cosa. Giudizio, sapere estrinseco, come il sapere del serpente «imitazione improduttiva del verbo creatore”» (ÜS, p. 153; it., p. 189). Difficile sostenerlo – non impossibile. Almeno per Benjamin che non abbandona mai il negativo, ma, con superiore dialettica, ponendolo in rapporto al positivo, all’assoluto positivo, non lo piega a questo, a Dio, anzi lo serba come tale, qual negativo di contro all’Assoluto, suo insopprimibile opposto. In quale “rapporto”? Nell’unico che nella prospettiva benjaminiana della “caduta” è concepibile: in rapporto negativo.
135
Se la lingua edenica di Adamo riporta nel “suono” del nome la muta natura a Dio, il peccato del primo uomo trasforma nel profondo la natura. «Comincia ora l’altro suo mutismo», segnato da più profonda tristezza. La tesi che «la natura è triste perché muta» si ribalta ora nel suo contrario: perché triste, la natura è muta. Cosa significa questa ulteriore inversione? Che la parolagiudizio, la parola del peccato originale8, che non “nomina” le cose, ma le sovradenomina, costituisce il «fondamento linguistico ultimo di ogni tristezza e (dal punto di vista della cosa) di ogni ammutolire» (ÜS, p. 155; it., p. 191). L’Überbenennung cela, infatti, l’essenza più profonda del linguaggio: «il contrasto dell’espresso e dell’esprimibile con l’inesprimibile e l’inespresso»9. Ma proprio celandola, la dis-vela, dacché nella lingua paradisiaca, nella lingua creatrice di Dio, e nel suo “riflesso” conoscitivo, la lingua di Adamo, non v’è che la luce dell’espressione compiuta, perfetta, ove anche alla muta natura il linguaggio dell’uomo, nominandola, dona suono. Invero anche in Paradiso un cenno, un cenno appena, v’è all’ombra, all’inspresso e inesprimibile: la materia da cui è tratto il primo uomo, la terra, la prôte hyle, portata a vita dal fiato di Dio. Unico rapporto del Cielo con la terra: il legame tra opposti – anche prima della caduta. E tuttavia rapporto – che muta ma non cessa dopo la caduta. Infatti la mediazione divina, che nell’Eden rende possibile la traduzione della lingua muta della natura nella lingua nominale del primo uomo, dopo il peccato linguistico originale, quando la traduzione avviene in Terra, nel tempo della storia, tra le mille e mille lingue degli uomini, è sostituita dalla “lingua pura”, die reine 8. «Das ist wirklich der Sündenfall des Sprachgeistes» (ÜS, p. 153; it., p. 189). 9. ÜS, p. 146; it., p. 183. Nella conclusione del saggio Benjamin, ritornando sul concetto, precisa: «la lingua non è mai solo comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo [Symbol] del non comunicabile. Questo lato simbolico del linguaggio è connesso al suo rapporto al segno [zum Zeichen]» (ÜS, p. 156; it., p. 192): sono qui in nuce i temi che svilupperà – come vedremo – nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels.
136
Sprache. Pura, perché «niente più intende e niente più esprime», e, solo in quanto tale, è ciò che in tutte le lingue è inteso (das in allen Sprache Gemeinte): in essa «ogni partecipazione, senso ed intenzione è destinato ad estinguersi»10. Il rapporto tra la Parola creatrice di Dio, che tutto raccoglie e ordina in sé, e il vuoto della “lingua pura”, in cui le molte lingue storiche degli uomini debbono “passare” per liberarsi – purificarsi – di sé nel tradursi in altro, è il simbolo perfetto del rapporto tra l’Essere di Dio e il niente dell’uomo: punto fermo, questo, nella inquieta e “frammentaria” meditazione di Benjamin.
II Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della Provvedenza; perchè dee essere una Storia degli Ordini, che quella, senza verun’ umano scorgimento, o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del Gener’ Umano; che, quantunque questo Mondo sia stato criato in tempo, e particolare, però gli Ordini, ch’Ella v’ha posto, sono universali, ed eterni. (SN44, p. 901)
1 Osserviamo la Dipintura allegorica: in alto a sinistra l’astro solare; all’interno del cerchio raggiante la figura perfetta del triangolo, con dentro l’occhio della sapienza che tutto vede e tutto sa. È l’“idea” – l’immagine-pensiero – del Dio Uno e Trino, fondamento del mondo e della scienza del mondo, la mathesis universalis: ma non come “due”, come lo stesso. Questa unità, 10. W. Benjamin, AÜ, p. 19; it., pp. 167-168. Sul tema rinvio a V. Vitiello, IiVP, pp. 155-175, spec, pp. 168-175.
137
questa medesimezza di mondo e sapere del mondo è “figurata” dal raggio che parte dall’occhio divino per raggiungere, al lato opposto, più in basso, il gioiello concavo che la fanciulla dal capo alato reca sul petto. Il suo sguardo mira il Sole, i piedi poggiano sul “globo mondano”, posto sulla destra dell’altare, ove si scorgono i primi segni delle religioni: il lituo, l’acqua e il fuoco. È l’allegoria della metafisica, che congiunge Terra e Cielo. Dal concavo gioiello, infatti, il raggio divino si riflette sulla statua d’Omero, collocata a sinistra, in basso, sotto l’astro solare. Ai suoi piedi giacciono i simboli dell’operare umano: l’aratro e il timone, la spada e la borsa, il fascio, la bilancia, le prime lettere dell’alfabeto latino, “il caduceo di Mercurio”. “Geroglifici” li nomina Vico, a significare la presenza della Provvedenza nella storia. All’estremità opposta, sul lato destro, un’urna funeraria, appena fuori la selva che s’intravvede dietro le immagini in primo piano della Dipintura, e così fitta da confondersi con le nubi del Cielo, che neppure i raggi dell’astro riescono a vincere: et lux in tenebris lucet, et tenebrae eam non comprehende runt (Gv 1,5). E ora “leggiamola” questa Dipintura, alla cui “spiegazione” Vico destinò, nell’ultima stesura, ben trentasei pagine. Vera, reale “Idea dell’Opera”, com’egli la definì, chiudendo l’Introduzione11: insieme immagine e pensiero, pensiero in immagine, eîdos necessario per rappresentare ciò che la voce può dire solo “dividendo”, nel prima e nel poi del tempo, l’unità dei due “movimenti”: dall’alto al basso, da Dio all’uomo, l’uno, e dal basso all’alto, dall’uomo a Dio, l’altro. Una “geometria” non detta, ma scritta, regge la Dipintura: i due raggi che uniscono l’astro divino e la statua dell’uomo s’incontrano nella Vergine dal capo alato, segnando un triangolo virtuoso, che “ripete” 11. «E alla finfine per restrignere l’Idea dell’Opera in una somma brievissima, TUTTA LA FIGURA rappresenta gli tre Mondi secondo l’ordine, col quale le menti umane della Gentilità da Terra si sono al Cielo levate» (SN44, p. 815).
138
nell’esteriorità della creazione il triangolo perfetto racchiuso nel cerchio solare. Una geometria «con tanto più di realità, quanta più ne hanno gli ordini d’intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, lineee, superficie, e figure»12. È la geometria della storia, la mathesis universalis della storia, che “opera” ben prima che le dottrine dei filosofi giungano a concepirla13. Il riflettersi del raggio divino dal gioiello concavo della Vergine che mira il sole, sulla statua di Omero, indica che il sapere degli “addottrinati” non è “primo”; all’inizio è il sapere dei “poeti”. E non dei poeti di sapienza riposta, fantasticati da Platone, ma dei poeti creatori del linguaggio, del linguaggio umano – sorto non in Paradiso, ma nelle selve. Dall’urlo animale.
2 Non dalla creazione inizia la “narrazione” di Vico, e non da Adamo e dalla cacciata dall’Eden. Il suo inizio è più tardo. Più tardo ancora del primo delitto dell’uomo contro l’uomo, del fratello contro il fratello. La “storia” narrata da Vico comincia più “in basso”, neppure dall’uomo, ma dai figli della Terra: Gegeneîs che si aggirano nella selva selvaggia del post-diluvio, in cerca di cibo e acqua, e di quant’altro serve a soddisfare i loro istinti ferini. Non hanno più nulla dell’Adamo creato da Dio a sua immagine, non le fattezze del corpo, né la parola, la voce significante. Il diluvio ha cancellato nei figli di Noè ogni traccia del “passato” che è alle spalle del tempo. Il “cristiano” Vico – che pur s’appella alla sapienza dell’antico Egitto –, per
12. SN44, p. 904. Chiaro il riferimento a Spinoza, Ethica, Parte III, Praefatio, pp. 232-237. 13. «[…] i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i Filosofi cominciaron’ a riflettere sopra l’umane Idee» (SN44, p. 903).
139
aver allontanato in un inenarrabile “ieri” il racconto che precede il diluvio14, l’unico diluvio ch’egli conosce, meriterebbe, più ancora di Solone, il giudizio del vecchio sacerdote egizio ricordato da Platone (cfr. Timeo, 21e-23d). La storia dell’uomo nella narrazione vichiana inizia, infatti, con Zoroaste, cent’anni dopo il diluvio universale15. Vero è che l’intento primario di Vico è “spiegare” la nascita dell’uomo storico. E questo intento non si realizza risalendo indietro nel tempo, ché proprio il tempo è in questione. Il tempo storico, il tempo dell’uomo. Donde, allora, iniziare? Dal linguaggio – come, s’è visto, farà Benjamin due secoli dopo Vico. Ma con una grande differenza: Vico non segue il testo sacro, non apre la Bibbia; Vico legge Platone. E con Platone spiega anche la Bibbia. Il linguaggio della Bibbia. I Mutoli si spiegano per atti, o corpi, c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi vogliono significare. Questa Degnità è ’l Principio de’ geroglifici, co’ quali si truovano aver parlato tutte le Nazioni nella loro prima barbarie. (SN44, Degnità LVII, p. 875)
Con “mutoli” Vico non intende quelli che non hanno voce (come pur s’è sostenuto, falsificando il suo pensiero16), se tutte le nazioni, come abbiamo or letto, nella prima barbarie hanno parlato con “geroglifici” – parlato e non solo “scritto” gesticolando! “Mutoli” sono coloro che, non articolando la voce, accompagnano i loro gesti con voci monosillabe: come appunto i nati dalla Terra. La separazione di voce e gesto è molto più tarda, e avviene senza intenzione alcuna quando la voce
14. Cfr. SN44, Degnità XXIII-XXVII, pp. 865-867. Delle due storie, la Sagra degli Ebrei e l’umana dei Gentili, Vico narra solo questa. 15. Cfr. SN44, Tavola Cronologica, pp. 816-817. 16. Sul tema cfr. supra, A, III, e altresì V. Vitiello, SLN, in particolare cap. III, nota 41, pp. 64-65, e Lumi, pp. 63-77.
140
da pura espressione si muta in strumento di comunicazione. In questo mutamento è all’opera la Provvedenza, che spinge la bestia vagante nell’umida selva, cui era ridotta la terra che usciva dal diluvio, a “farsi” uomo. Dio opera in latenza “dal basso”, nell’unico luogo ove può mostrarsi ai figli della Terra, servendosi, per farsi “intendere”, dei mezzi che la Terra stessa gli fornisce: il fulmine, che squarcia l’ombra della Notte, il tuono che fa tremare la terra17. Il terzo elemento – la passione – è del figlio della Terra: ora che, levando in alto gli occhi, avverte – avverte, e non più solo vede (cfr. SN44, p. 918, ed altresì Degnità LIII, pp. 873-874) – il Cielo, e trema al tremare della Terra. Ora che da bestia è divenuto uomo. Phonè kaì schêma, kaì chrôma – suono, immagine, colore, ovvero: passione18 –: i tre elementi costitutivi delle cose, secondo Platone (cfr. Cratilo, 423d-e). Cose, non oggetti, e cioè: non sostanze, ousíai, ma prágmata: opere, azioni in cui si continua la mano, il braccio, il corpo dell’uomo. Operazioni, in cui s’esprime il legame uomo-mondo. “Antropomorfismo”? Certo, dacché il nuovo nato, l’uomo, interpreta a partire da sé, dalla propria voce e dal proprio gesto, il tuono e il fulmine come linguaggio di Zeus. E, con pari certezza, non “antropocentrismo”, perché i monosillabi umani non si distinguono in nulla dalle voci animali, e se son detti “geroglifici” – segni sacri – non son tali per l’uomo, ma per la Provvedenza che opera nell’operare umano; né esprimono essi altra “forma” che quella della lingua umana. Gli stessi nomi di Zeus e di Giove si originano per 17. «[…] in tale stato d’Uomini tutti robuste forze di corpo, che urlando, brontolando spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il Cielo esser’ un gran Corpo animato, che per tal’ aspetto chiamarono GIOVE, il primo Dio delle Genti dette Maggiori; che col fischio de’ fulmini, e col fragore de’ tuoni volesse dir loro qualche cosa» (SN44, p. 918). 18. Sul nesso “colore-passione” cfr. supra, A, III, § 7, e nota 4.
141
imitazione delle percezioni sonore dell’uomo19. Il linguaggio umano resta legato alla Terra, la sua voce non ha altra estensione che quella terrena; la Provvedenza che opera in lui, è a lui ignota. Come inconsci, inintenzionali sono i suoi “passaggi” da una forma all’altra di linguaggio, da un’età all’altra della sua storia.
3 Non solo la paura di Giove tonante e fulminante condusse i bestioni a trovare protezione nelle caverne, sì anche, e non meno, il pudore (aidós)20. Cessò l’uso della Venere nefanda, “a cielo aperto”, sotto gli occhi degli dèi. Portate le loro femmine nelle caverne, i bestioni dettero vita alle prime famiglie; nacquero, di seguito, le prime tribù. Nacque: l’umanità. In questa “storia”, fondamentale fu la funzione del linguaggio. Le prime voci umane, i “monosillabi”, “parole reali” in quanto costituite di suono e gesto, resero possibile la prima comunicazione a distanza: non era necessario vedere l’azione, la voce “ricordava” la cosa – il gesto – a cui era “naturalmente” unita. Portiamo ad esempio l’episodio di Polifemo, che, accecato da Ulisse e dai suoi compagni, urla per il dolore. I Gegeneîs delle vicine caverne gli chiedono chi gli ha recato danno. “Nessuno” – risponde la bestia ferita. Allontanando così quelli che potevano aiutarlo. Esempio prezioso, perché illumina insieme l’aspetto positivo della voce – la sua maggiore estensione comunicativa rispetto alla vista –, e il negativo: l’errore causato
19. «Il padre e re degli dèi e degli uomini, per onomatopea dal fragore del tuono, a’ latini detto “Ious”, come Ζεύς a’ greci dal fischio del fulmine» (SN25, p. 254); in SN44 è detto invece che il nome “Ious” «prima d’ogni altro dovette significare il grascio delle vittime dovuto a Giove» (p. 977; cfr. anche p. 947 per il congiunto riferimento a jus, diritto). 20. Cfr. Platone, Protagora, 122c-d.
142
da quello stesso che amplia la comunicabilità, la divisione della voce dal gesto. L’evoluzione politica del linguaggio – dai segni “muti” agli “articolati” –, legata alla formazione delle comunità21, mette in luce il carattere doppio della storia umana, dacché a ogni avanzamento s’accompagna un maggior rischio di arretramento. È la comunicazione all’origine dell’errore, non l’espressione, che, come la sensazione, è al di qua del vero e del falso. Pertanto, essendo la comunicazione legata alla prassi, è la prassi all’origine dell’errore. E della verità – che, come l’errore, non è senza il suo opposto.
4 La funzione del linguaggio non s’arresta al rapporto con la pólis, invero tutto l’ordine della storia è da Vico modellato sull’evoluzione delle forme linguistiche. Le tre età, degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini, sono un gran rottame dell’Egiziache Antichità (cfr. SN44, Degnità XXVIII, p. 867) molto più nel l’immaginazione storicizzante di Vico, quella stessa che gli ha dettato la «Tavola Cronologica»22, che non un concetto operativo nell’elaborazione della Scienza Nuova, come appare chiaro nel Libro IV, nel quale la descrizione del Corso che fanno le Nazioni, ritmata sulla sequenza di “tre spezie” – di nature, costumi, diritti naturali e governi; di lingue e caratteri; di giurisprudenze, ragioni e giudizi; e di tempi, infine –, conclude con un Corollario che merita d’esser citato per esteso:
21. Cfr. supra, B, I. 22. Dal diluvio universale, anni del mondo 1656, alla II guerra cartaginese «da cui comincia la Storia certa romana», anni del mondo 3849, anni di Roma 552 (cfr. SN44, pp. 816-823).
143 Il Diritto Romano Antico fu un serioso Poema; e l’Antica Giurisprudenza fu una severa Poesia; dentro la quale si truovano i primi dirozzamenti della Legal Metafisica; e come a’ Greci dalle Leggi uscì la Filosofia. (SN44, p. 1220)
Chiaro, il linguaggio in Vico comprende l’intero mondo umano, che è linguistico nella sua essenza. Il mondo umano – s’è detto – e solo umano. Il suo orizzonte non soltanto non supera mai questo limite, ma anzi all’interno stesso del suo orizzonte il linguaggio umano è consapevole d’essere estraneo a una parte di sé, dacché la lingua “pistolare”, la lingua della più diffusa comunicabilità, può a stento “intendere” la lingua della prima età, ma certo non immaginare com’essa immaginava23. La lingua della Scienza nuova dice, dunque, di ciò che non può dire, se non “alterando”. Parla di immagini ch’essa non immagina. Ma cosa resta del linguaggio di quegli uomini, appena usciti dall’ingens sylva della prima barbarie, tutti corpo e senso, e nullo raziocinio, una volta tolta l’immagine, lo schêma? Come chiedersi: cosa resta della voce, una volta tolto il suono? Eppure tra le pagine più intense, e, non solo letterariamente, “belle”24, della Scienza Nuova, vi sono proprio quelle in cui Vico parla della prima età, l’età degli Dèi, del mondo omerico, e della successiva, l’età degli Eroi – la distinzione tra le due non è netta25 –, e questo non può non farci pensare. Evidentemente il
23. «Onde intendere appena si può, affatto immaginar non si può, come dovessero pensare i primi uomini delle razze empie in tale stato, che non avevano già innanzi udita mai voce umana, e quanto grossolanamente gli formassero e con quanta sconcezza unissero i loro pensieri» (SN25, p. 69; cfr. SN30, pp. 486 e 635, SN44, pp. 899 e 1099). 24. Nel significato platonico di ekphanéstaton (cfr. Fedro, 250d): il più manifesto, in quanto è ciò che mostra, che fa vedere, e in questo senso “vero”. 25. «La Favella Poetica […] scorse per così lungo tratto dentro il Tempo Istorico, come i grandi rapidi Fiumi si sporgono molto dentro il mare, e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso» (SN44, p. 936).
144
linguaggio della Scienza Nuova si sottrae al destino della lingua, non essendo essa, che pure è “pistolare” – lingua “scritta” della ragione riflessa –, priva di “immaginazione”. E invero la cosa balza agli occhi sin nelle prime pagine dell’Introduzione, dove Vico spiega il sorgere delle prime comunità umane ricorrendo al mito. Alla gran fatiga di Ercole che uccide il leone nemeo – che rappresenta l’ingens sylva – con la sua stessa arma, il fuoco. Il semidio e la fiera feroce si scambiano le parti: quasi la terra selvatica si portasse a cultura da sé26. Ma è nella descrizione del primo sorgere del diritto che Vico, con i suoi illuminanti ossimori – l’empia pietà del costume eroico (cfr. SN44, p. 992) – mostra il vero linguaggio della Scienza Nuova: il mithologeîn, l’unione, non la congiunzione, di mýthos e lógos, tale che il racconto, narrando, riflette, e la riflessione, riflettendo, narra. Un esempio, che non cessa di destare ammirata meraviglia, è dato in quelle pagine della prima Scienza Nuova, ove Vico nel mentre riflette sulla lotta tra patrizi e plebei nell’antica Roma, avendo sotto gli occhi i libri di Tito Livio, nomina Orfeo, al plurale: con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che finora hanno ingombrato la storia favolosa de’ greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore degli dèi addimesticato le fiere e riduttele nelle città (SN25, pp. 86-87; corsivo mio).
La poesia del mito addolcisce la “violenza” del diritto al suo sorgere. Nell’empia pietà dei legislatori delle prime póleis – «Ius optimus, ius fortissimus» (De uno, p. 125) – è da vedere l’operare nascosto della provvedenza. Ché nell’agire degli uomini v’è più di quanto è nella loro “coscienza”: «aeterni veri semina in homine corrupto non prorsus extincta, quae, gratia 26. Cfr. SN44, p. 786. Sulla “doppiezza” delle figure del mito la letteratura è sterminata; mi limito qui a citare di Paula Philippson OFM, per la “vicinanza” al nostro “esempio” di alcune sue pagine, in particolare del cap. Zeus Poseidon.
145
Dei adiuta, conantur contra naturae corruptionem» (De uno, p. 53). Il linguaggio della poesia, che è il linguaggio delle prime età, dell’eroica in particolare, narra la storia di quell’età in un narrare che è più storia “agita” (res gestae) che non “pensata”, che non historia rerum gestarum. Naturale viene qui accostare la virtù eroica descritta da Vico all’etica hegeliana, che, pur manifestandosi compiutamente soltanto alla fine, opera tuttavia sin dall’inizio, sin nel diritto astratto. Naturale e criticamente fondato, questo confronto, se si considera la radice “paolina” della religione comune a Vico e Hegel27.
III Guai! Guai! Guai a coloro che danno pietre invece di pane! (S. Lagerlöf, Jerusalem, p. 124) … se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malore… (SN44, p. 1260)
1 Perché questo “parallelo” tra la concezione vichiana del diritto delle prime età della storia – l’empia pietas degli Eroi – e l’etica hegeliana? Perché l’opposizione radicale di Benjamin a Hegel coinvolge anche Vico. Per Benjamin il diritto è violenza e solo violenza: un frammento della preistoria, che l’uomo storico ha custodito28, valendosene e perfezionandolo. Lo Stato, infatti,
27. Cfr. Gal 3,24-25. Sul tema cfr. V. Vitiello, PE. 28. «[…] l’ordine del diritto […] è solo un residuo dello stadio demonico dell’esistenza degli uomini, i cui statuti giuridici non regolavano solo le loro
146
non solo esercita la violenza, ma la sua maggior cura sta nel difendere – con la violenza – il suo esclusivo diritto alla violenza. Diritto e violenza sono sorti insieme e insieme procedono29. Questa tesi è perfettamente in linea con la teologia del linguaggio sovraesposta. Il peccato originale della lingua è il giudizio (Ur-teil): l’estraneazione, per sovradenominazione, della parola dalla cosa. La parola si pone sopra la “cosa”, estranea all’azione che giudica e condanna. La congiunzione non esprime un legame tra due – possibile o necessario che sia –, indica un’identità: «Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa». Quindi «non è l’uomo ad avere un destino […], il soggetto del destino è indeterminabile. Il giudice può vedere destino dove vuole». Non ha senso pertanto parlare, nell’esecuzione della pena, di un ristabilimento dell’ordine etico del mondo (sittliche Weltordnung)30. Questo spiega la decisa asserzione del Frammento teologicopolitico: «l’ordine del profano non può essere costruito sul pensiero del regno di Dio». E tuttavia, l’ordine profano, proprio in quanto opposto all’ordine “messianico”, può «favorire l’av-
relazioni, ma anche il loro rapporto con gli dèi, [che] si è conservato oltre l’epoca che ha inaugurato la vittoria sui demoni» (W. Benjamin, SCh, p. 174; it., p. 120). In merito cfr. l’aspra critica di B. de Giovanni: «un’intera civiltà giuridica cade […]. Il De universi juris uno principio et fine uno come rappresentazione del divenire della coscienza europea va in archivio» (KS, p. 24). Sul tema cfr. il mio intervento Da Kelsen e Schmitt a Benjamin e Vico e la replica di de Giovanni, Risposta a Vincenzo Vitiello, in «Il Pensiero», LVII, n. 1, 2018, rispettivamente pp. 157-162 e 163-168. 29. Cfr. W. Benjamin, KG, pp. 179-203; it., pp. 133-156. S’aggiunga che violento è anche il rapporto di Dio con l’uomo, ancorché di diversa violenza: la violenza giuridica, “mitica” «esige sacrifici»; la violenza divina «li accetta» (ivi, p. 200; it., p. 153). Sul tema rinvio a V. Vitiello, Lo tir’zach. La sacralità della vita nel mondo contemporaneo, in ET, pp. 113-127. 30. Cfr. G.W.F. Hegel, RPh, §§ 97-103, spec. § 100, e W. Benjamin, SCh, p. 175; it., pp. 120-121.
147
vento del regno messianico». Di qui la conclusione, necessaria, che il nichlilismo è il metodo della politica mondiale (cfr. TPF, pp. 203-204; it., pp. 171-172). Il Frammento è l’esposizione coerente della teologia di Benjamin: teologia senza provvidenza, ma non senza Dio. Nel nichilismo storico-politico di Benjamin v’è tutta la disperazione dell’ebreo ovunque in terra estraneo. E non per gli uomini, per Dio, «perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti»31. Ed è in questa disperazione che Benjamin cerca la ragione per vivere.
2 Ursprung des deutschen Trauerspiel, il capolavoro di Benjamin, è insieme la teoria e la pratica del suo metodo storico: raccogliere in una singola monade – senza uscire dalla sua singolarità storica ampliandola, anzi operando il contrario32 – il senso e il destino dell’intera storia dell’uomo, colta nella sua origine, Ursprung, essenziale: la caduta. L’età barocca è questa monade: l’età del giudizio e della sovradenominazione, della parola che nel nome della cosa “salta” la cosa; del Trauerspiel, il gioco luttuoso dell’apparenza, della pompa, del mondo ridotto a scena, a teatro, ove nulla è meno reale del reale, compresi i vizi, gli intrighi di corte, i delitti. Il mondo del nulla che si 31. Lv 25,23. A commento di questi versetti, fatto – a parte hominis – nello spirito di una “teologia” affine a quella “negativa” di Benjamin, cito il “monito” di Edmond Jabès: «Méfiez-vous des demeures. Elles ne sont pas toujours hospitalières» (LQ, p. 700). 32. Cfr., a titolo di esempio, il giudizio espresso sul Medioevo in relazione al dramma barocco: la specificità storica del primo si definisce a partire dalla prospettiva del secondo, ma questo si caratterizza in base a quello (W. Benjamin, UdT, p. 55; it., p. 67).
148
annulla, dei “sentimenti” tanto più esaltati quanto meno “sentiti” – il monarca, elevato al sole –; della parola che facendosi scrittura perde non solo la voce, e con questa il legame ancora vivo, quantunque d’estranità, con la cosa sovra-denominata, ma anche il rapporto con le altre parole, e la sua propria, interiore “unità”. Scritta, la parola si frantuma in segni. La lingua nominale si fa muta, gesto senza voce. L’uomo ha raggiunto la natura, “restando” uomo, “soggetto” di un morto sapere. Ed è qui che il giudizio di Benjamin si fa più duro: «il Rinascimento esplora l’universo, il barocco, le biblioteche» (UdT, p. 115; it., p. 140). Il confronto con Vico s’impone. È in causa il senso e il valore della “scrittura”. Torniamo alla Dipintura allegorica. Questa, s’è detto, doveva sopperire all’impossibilità della voce di presentare la “contemporaneità” dei due movimenti della teologia della storia vichiana, da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio, che caratterizza l’operare della Provvedenza. Altro limite, questo, del linguaggio, non, però, soltanto di quello “pistolare”, bensì già del simbolico, o «per simiglianze» (cfr. SN44, pp. 808, 945, e passim), proprio della precedente età eroica, nel quale s’era già divisa la voce dal gesto, la phoné dallo schêma. Ma la Dipintura, nell’atto stesso di dare figura alla voce, ne evidenziava la differenza: schêma e phoné stanno l’un l’altra di fronte. In sé sono divisi, si uniscono solo in un terzo: il lettore, che dà vita alla scrittura. Alla duplice scrittura della Dipintura e dell’Introduzione della Scienza Nuova. Alla fine, la Dipintura, in contrasto con l’intento di Vico, ribadisce il giudizio di Platone sulla scrittura: interrogati, i testi scritti si limitano a dire una cosa sola, sempre la stessa (cfr. Fedro, 275d). Sottratta la voce alla lingua, questa muore. In Benjamin la “verità” di Vico? È vero l’esatto contrario. Perché la “verità” di Benjamin non è questa cui siamo giunti – direttamente con lui, seguendo fedelmente il suo dettato; indirettamente con
149
Vico, svolgendo anche, contro lui stesso, quanto è implicito nei suoi “disegni”. La verità di Benjamin è opposta a questa or detta: la verità del linguaggio sta proprio nella lontananza dell’uomo da Dio, nell’assenza di provvidenza nella storia. Il linguaggio è vero per la non-verità del nome e della scrittura, della voce e del gesto, per la non-verità della lingua, d’ogni lingua d’uomo. È il “metodo del nichilismo” che qui s’impone: il linguaggio della “caduta”, il linguaggio dei figli della Terra, è pur sempre il linguaggio del vivente in cui parla, quale che sia la sua intenzione e la sua consapevolezza, l’assenza di Dio. È il linguaggio del Dio assente: del Dio che nell’essere “oggetto” del linguaggio, se ne rende signore, e proprio in quanto lontano, assente. Ma diciamolo con le parole dell’Ursprung, che in una monade – il dramma barocco – riesce a cogliere il senso, in se stesso diviso e contraddittorio, dell’universo storico: Il linguaggio del barocco è continuamente scosso dalle ribellioni dei suoi elementi. […] Le parole, per quanto isolate, risultano fatali. Anzi, si è tentati di dire che già il fatto per cui, così isolate, significano ancora qualche cosa conferisce al residuo di significato che conservano un che di minaccioso. Il linguaggio viene frammentato in modo tale da conferire ai suoi frammenti un’espressività diversa e maggiore. […] In ciò si esprime non soltanto la presenza di pompa, ma anche, insieme, il principio frammentatore, dissociante, della visione allegorica. […] Il linguaggio ridotto in macerie cessava in quei drammi di servire alla mera comunicazione e poneva, oggetto rinato, la sua dignità accanto a quella degli Dei, dei fiumi, delle virtù di analoghe forme naturali esaltate fino all’allegorico.33
33. UdT, p. 179; it., pp. 219-220. Per una più ampia analisi del testo, cfr. V. Vitiello, VR, I, cap. III: Dalla Tragödie al Trauerspiel: Walter Benjamin e il linguaggio della modernità, pp. 77-99.
150
3 Leggiamo ora l’interpretazione del quadro di Klee, Angelus Novus, dettata da Benjamin in Über den Begriff der Geschichte: Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frammenti. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può chiuderle. Questa bufera lo spinge inesorabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera. (CS, pp. 34-37)
È qui espressa la più dura condanna della teologia della storia, intesa come l’operare, palese o nascosto, di Dio nella storia – si chiami questo “operare” astuzia della ragione, con Hegel, o, con Vico, Provvedenza, fa lo stesso: la bufera viene dal Cielo, dal Paradiso. Ed è il Paradiso che contrasta l’angelo, che vorrebbe accogliere la “debole forza messianica” che viene dal passato. Ma il rifiuto di questa teologia del “progresso”, della continuità storica, della hegeliana Verbindung der Verbindung und der Nicht-Verbindung (Sf, p. 422), non è negazione di ogni teologia storica. Benjamin guarda la storia dalla prospettiva della “caduta”: dal basso. Ma vista dal basso la “teologia” non è la “verità” della storia, bensì lo strumento dell’operare umano: è la teologia presa a servizio (im Dienst genommen) dall’uomo34. Non la teoria, dunque, ma la prassi “scrive” la sto34. Cfr. CS, § I. «Il mio pensiero sta alla teologia – così Benjamin – come la carta assorbente all’inchiostro. Ne è completamente imbevuto, se dipendes-
151
ria35. Un pensiero, questo, già di Paolo, l’apostolo di Cristo, in cui la voce ebraica non ha mai cessato di parlare. Ma Benjamin, l’ebreo Benjamin, cita Marx: «Nell’idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico». (CS, pp. 52-53). No, non Dio regge la storia; Dio è lontano e assente, ed è da questa assenza e lontananza che l’umanità storica, l’umanità della caduta, del peccato, l’umanità di Caino fondatore della Civitas hominis, opposta alla Civitas Dei, deve cominciare per fare storia. Per fare storia nella direzione dello sguardo dell’angelo, dell’Angelus Novus. E cioè: scardinando la continuità storica – la storia progressiva dei “vincitori”: la storia che i vincitori vorrebbero opera diretta di Dio36. La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso [Jetztzeit]. Così, per Robespierre, era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva essere una Roma rinata. (CS, pp. 46-47)
Un passato carico di “adesso”, non un “adesso” carico di passato. È la debole forza messianica che l’angelo della storia avverte, ma non ha forza per accogliere. Sono necessari i Robespierre perché il “passato” dei vinti sia redento e non consegnato all’eternità dell’accaduto che è propria della concezione storicistica della storia. Parlando di questa, il linguaggio di Benjamin si fa più aspro e colorito insieme – alcune pesanti sue espressioni polemiche nei confronti dello storicismo sembrano tratte
se, tuttavia, dalla carta assorbente, non resterebbe nulla di ciò che è scritto» (PW, I, p. 588 [N 7a, 7]; it., p. 611). 35. «Il soggetto della conoscenza storica è di per sé la classe oppressa che lotta» (CS, § XII, pp. 42-43). 36. Per una più articolata trattazione del tema rinvio a V. Vitiello, Europa, Sez. III, II: «Prendere a servizio la teologia»: messianesimo e nichilismo in Walter Beniamin, pp. 147-161.
152
da alcuni Fusée di Baudelaire, un verkehrter Hegel da lui tanto apprezzato37. Vero è che la tesi che Benjamin opponeva alla concezione storicistica del tempo omogeneo e progressivo, la “dialettica nell’arresto”, poteva ingenerare equivoci. L’ossimoro era palese: «Proprio del pensiero non è solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto» (CS, § XVII, pp. 50-51). L’aveva enunciato già Schelling, nelle Lezioni di Erlangen, che qui ricordiamo per la contiguità del dettato di Benjamin a quello schellinghiano38. Una “citazione” nascosta, à la Benjamin? Non contrasta questa “ipotesi” – direi, anzi, che la conferma – la diversità d’intenti dei due autori. In Benjamin prevaleva l’aspetto pratico-rivoluzionario. Quantunque parlasse di “pensiero” e di “idee”, nel contesto di Über den Begriff der Geschichte non le idee erano in questione, o almeno non solo
37. «[Die] Hure “Es war einmal” im Bordell des Historismus» (CS, § XVI, pp. 50-51) ricorda da vicino: «L’amore è il gusto della prostituzione. Non c’è piacere tanto nobile che non possa essere riportato alla Prostituzione» (Ch. Baudelaire, Razzi, Op, p. 138; cfr. altresì Il mio cuore messo a nudo, ivi, p. 1432). 38. «Il movimento stesso è il sapere che ho di questo movimento, ogni momento del movimento e il sapere che ho di questo movimento sono infatti, attimo per attimo, una sola cosa, e questo sapere frenante, ritardante, riflettente è propriamente il sapere del filosofo, è ciò che, in quel processo, il filosofo può a rigore definire suo» (F.W.J. Schelling, EV, p. 2911; it., p. 219). Aggiungo quest’altro brano di Benjamin, da Passagen-Werk, per evidenziare, oltreché la vicinanza, la distanza tra i due autori: «Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto l’arresto dei pensieri. L’immagine dialettica appare là, dove il pensiero s’arresta in una costellazione satura di tensioni. Essa è la cesura del movimento del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. Essa va cercata, in una parola, là dove la tensione degli opposti dialettici è al massimo. Per questo l’immagine dialettica è lo stesso oggetto storico costruito nell’esposizione materialistica della storia. Essendo identica all’oggetto storico, essa giustifica la sua estrapolazione dal continuum del decorso storico» (PW, I, p. 595 [N 10a, 3]; it., pp. 617-618).
153
e non tanto le idee, quanto le “opere”, le azioni. E infatti, tornando al tema centrale del saggio, avvertì il bisogno di precisare il senso dell’“attimo storico”, il suo carattere essenziale: In realtà – scrive – non vi è un solo attimo [Augenblick] che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come una chance, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. (CS, pp. 54-55)
L’“adesso”, Jetztzeit, l’“attimo”, Augenblick, non è un momento come altri: esso è chance, che la memoria ebraica di Benjamin indica anche come la porticina da cui può entrare il Messia (CS, pp. 56-57, B), e che, quindi, noi possiamo, continuando nell’“allegoria”, nominare legittimamente: nŷn kairós, he ripè toû ophtalmoû39, per indicare la vera “rivoluzione” compiuta da Benjamin, l’effettivo ribaltamento del concetto di storia, di tempo storico, da lui realizzato. Érchetai hóra kai nŷn estin40 – viene l’ora ed è adesso: dal Vangelo di Giovanni ad Agostino, da Paolo a Hegel, è questa la concezione del tempo storico che s’è imposta nell’Occidente cristiano. La hóra – orizzonte della storia – viene adesso, nel nŷn kairós ch’è il nostro tempo, il tempo presente dell’avvento del Messia: tempo, attimo, esso stesso compreso nell’hóra che adesso, nell’attimo, appare. La “dialettica nell’arresto” di Benjamin rovescia il rapporto, perché la Hóra che comprende i molti nŷn della storia “continua”, “progressiva” – anche quello kairologico del suo avvento, dell’avvento del Messia quale rivelazione dell’orizzonte del tempo della storia –, è essa stessa compresa originariamente nel nŷn in cui “appare” e che proprio per questo è kairós.
39. Cfr. Rm 8,18; 1Cor 15,52. 40. Cfr. Gv 4,23 e 5,24-25; su questi ultimi versetti cfr. Agostino, CD, XX, 6.1.
154
La totalità dei tempi “ordinata” nel tempo uno e singolare del l’attimo. Dovessi indicare dove Benjamin ha dato la migliore “rappresentazione” di questo attimo, in cui si realizza la dialettica nell’arresto, citerei quel passo del Passagen-Werk in cui Benjamin descrive insieme il collezionista e l’allegorista – le sue due anime: Il grande collezionista è originariamente toccato dalla confusione, dalla frammentarietà in cui versano le cose in questo mondo. Era lo stesso spettacolo ad occupare tanto gli uomini dell’epoca barocca. […] L’allegorista costituisce in un certo senso l’antipodo del collezionista: ha rinunciato a far luce sulle cose attraverso la ricerca di ciò che a esse sarebbe in qualche modo affine e omogeneo, le scioglie dal loro contesto e rimette fin da principio alla propria assorta profondità il compito di illuminare il loro significato. […] Cionondimeno, però, – e questo è più importante di tutto quanto possa mai esservi di diverso fra loro – in ogni collezionista si nasconde un allegorista e viceversa. (PW, I, p. 279 [H4a, 2]; it., p. 277)
4 Torno a Vico, con un’allegoria di Benjamin: Come i fiori volgono il capo verso il sole, così, per un eliotropismo di natura misteriosa, ciò che è stato tende a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo della storia. (CS, § IV, pp. 24-25)
Dei due movimenti della grande allegoria vichiana, dominante è quello dal basso: dall’uomo a Dio. La storia ideale eterna, scandita nelle tre parole “dovette, deve, dovrà”, è “figura” – dipintura – dell’uomo. Dell’uomo che scrive la storia, e non sa – non può – scrivere le storie che corrono in tempo, se non raccogliendone i frammenti “tronchi e slogati” in una storia che non conosce movimento, in una storia picta.
155
Comprendiamo ora che la Dipintura non può essere concepita che nella “terza età” del linguaggio, quando il processo di universalizzazione dei “nomi” – dei suoni che nominano le cose – è giunto a compimento. E di questo compimento del linguaggio è allegoria la Dipintura, che raccoglie le tre età della lingua, dando in figura le astrazioni simboliche di Dio, quindi la doppia immagine, terreste e celeste, corporea ma alata, della più alta forma del sapere umano, e infine ai concreti segni delle opere dell’uomo. Non è dunque solo espressione dell’insufficienza della voce, il gran quadro della Scienza nuova, è anche il modo di mostrare che la storia ideale eterna – la Hóra, l’orizzonte della storia – non si dà se non nel tempo storico, che non è quello continuo, che “ripete” nel secolo l’immagine dell’eterno, bensì quello monadico dell’attimo, del nŷn kairós, della Jetztzeit41, in cui si rivela, volta a volta, l’immagine che l’uomo, consapevolmente o, come più spesso accade, inconsapevolmente, si fa della storia, scrivendola. Cioè: realizzandola. E la Provvedenza? Possiamo intendere la Scienza nuova, prescindendo dall’operare di Dio nella storia? No, di certo. Ma non dobbiamo neppure dimenticare l’ammonimento di Vico dettato nel De antiquissima: impiae curiositati notandi, qui Deum Opt. Max. a priori probare student. Nam tantundem esset, quantum Dei Deum se facere, & Deum negare, quem quaerunt. (DA, p. 54)
La cautela di Vico nel parlare della Provvedenza si mostra in particolare nella conchiusione della Scienza nuova (ed è difficile sottrarsi al fascino di questa scrittura): Ma se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malore; che nè dentro acconsentino ad un Monarca natio; nè vengano na-
41. L’attimo «che riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità [in einer ungeheuren Abbreviatur die Geschichte der ganzen Menschheit]» (CS, pp. 54-55).
156 zioni migliori a conquistargli, e conservargli da fuori; allora la Provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che, poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare, ch’alle particolari propie utilità di ciascuno; & avevano dato nell’ultimo della dilicatezza, o per me’ dir, dell’orgoglio, ch’a guisa di fiere nell’essere disgustate d’un pelo, si risentono, e s’infieriscono, e sì nella loro maggiore celebrità, o folla de’ corpi, vissero, come bestie immani, in una somma solitudine d’animi, e di voleri; non potendovi appena due convenire, seguendo ogniun de’ due il suo propio piacere, o capriccio: per tutto ciò con ostinatissime fazioni, e disperate guerre civili vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini; e ’n cotal guisa dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi; che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione, che non era stata la prima barbarie del senso: perchè quella scuopriva una fierezza generosa; dalla quale altri poteva difendersi, o campare, o guardarsi: ma questa con una fierezza vile dentro le lusinghe, e gli abbracci insidia alla vita, e alle fortune de’ suoi confidenti, ed amici. (SN44, pp. 1260-1261)
L’estremo rimedio della provvedenza sta nel lasciare che il male aggravandosi giunga all’ultimo grado, donde non altro si può che risalire – o morire. Nella caduta stessa la sua unica possibilità di redenzione.
5 Uno sguardo ancora alle due dipinture: sono ora l’una di fronte all’altra. Immagino gli occhi dell’Angelo aprirsi sulla Dipintura vichiana: l’attimo vede l’eternità. È un attimo l’eternità, o è eterno l’attimo? Se non è possibile una prova a priori dell’esistenza di Dio, neppure è possibile provare a priori l’inesistenza di Dio. La finitezza della mente umana non consente altro che stare nel
157
mezzo, nell’infirmitas del dubbio, che non è malattia, ma sana inquietudine di pensiero, se non si limita a guardare l’ammasso di macerie del passato, che non cessa di crescere, lasciandosi trasportare dalla bufera del Paradiso, e fingendosi un ordine storico progressivo, in cui i frammenti “tronchi e slogati” del tempo che corre si ordinano da sé, per la potenza di Dio che opera in essi. L’allegoria è opera dell’uomo, sapere dell’uomo, che nei frammenti del passato tenta, volta a volta, di individuare un “ordine”, che non altrove apprende che dal passato – come fa Vico, che rilegge il Medioevo come “ricorso” del mondo arcaico, sino a criticare l’eccesso di “dottrina” del toscano Omero; come fa Benjamin con Robespierre: «La Rivoluzione francese pretendeva essere una Roma rinata». Anche da quest’ultimo confronto appare la grande distanza tra i due filosofi. Parlando del primo è parso naturale citare Omero e Dante; del secondo, invece, s’è ricordato l’esempio di Roma antica e della Rivoluzione francese. La teologia negativa di Benjamin è fondamentalmente “politica”, epperò più combattiva: in Über den Begriff der Geschichte, ricorda con chiaro riferimento a Paolo che «il Messia viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo»42. La teologia civile di Vico è invece essenzialmente morale. “Morale”, non “etica”. Come le parole finali della Scienza nuova testimoniano: In somma da tutto ciò, che si è in quest’Opera ragionato, è da finalmente conchiudersi; che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo Studio della Pietà; e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio. (SN44, p. 1264)
Nessun “irenismo”: la scissione “ebraica” che caratterizza la teologia politica negativa di Benjamin è diversamente presente, ma non assente, nello Studio della Pietà, che “conclude” la teologia civile del “cristiano” Vico. 42. CS, § VI, pp. 26-27. Cfr. Paolo, 2Ts 2,3-9.
158
La comune radice non può essere obliata: il Discorso della Montagna (cfr. Mt 5,44-45) non cancella il giudizio di Adonai: «Eppure ho amato Giacobbe, e ho odiato Esaù» (Ml 1,2-3), se il Figlio, dopo – dopo, non prima43 – la parola del Padre che tutto accoglie e redime, torna a dividere, separare, tagliare: «non la pace sono venuto a portare, ma la spada»(Mt 10,34). Eppure – sì, ancora un “eppure” – cos’altro più dell’empia spada porta le umane belve ad esser pietose di sé stesse e d’altrui?
43. Come Dostoevskij nell’Idiota. Sulla “dipendenza” dell’interpretazione nietzscheana di Cristo dalla figura del principe Myskin cfr. l’Introduzione di Vittorio Strada.
II Note e discussioni
163
I La Nascita dell’ordine*
Un’opera prima, questa che qui presentiamo, nella quale la ricchezza dell’erudizione storico-filologica non opprime la ricerca filosofica – come purtroppo accade anche in studiosi affermati e ben avanti negli anni –, anzi l’alimenta e la stimola. Un solo esempio per cominciare: Carillo cita Francis Bacon che, prima di Vico, aveva messo in relazione i “geroglifici” con il linguaggio del corpo, i “gesti”, ma non s’arresta, soddisfatto, alla rilevazione del precedente storico. Il riferimento a Bacon è funzionale all’analisi della “genesi estetica della logica” in Vico (cfr. pp. 137-138 e la relativa nota 57) – della logica, si badi, e non solo del linguaggio. Sul problema torneremo più innanzi, nella conclusione del nostro discorso.1 Al centro di questo studio su Vico – com’è detto già nel titolo – è il concetto di “ordine”. Il che chiaramente comporta una precisa presa di posizione riguardo al problema della verità. Com’è noto due e ben diverse definizioni del vero si trovano nel filosofo napoletano: quella celeberrima dettata nel De antiquissima, che identifica vero e fatto, l’altra, meno celebrata,
* Recensione a G. Carillo, Vico (2000).
164
se non meno nota, del De uno, secondo la quale «verum gignit mentis cum ordine rerum conformatio». Carillo sottolinea la differenza: «Si profila una definizione di vero alternativa a quella del Liber metaphysicus: al vero come factum subentra il vero come ordo o, meglio, come conformità (effetto della conformatio) all’ordine delle cose» (p. 81). Non manca però di rilevare che già nel Liber metaphysicus è presente l’idea dell’ordine e che il verare-facere umano – il probare per caussas – non altro “fa” che comporre, che mettere in ordine le «parti disgiunte dell’unità» (p. 29). Ma, se l’ordine che presiede alla composizione non è dell’uomo, bensì di Dio, quale spazio d’autonomia ha l’operare umano? Carillo rileva il primato dell’ordine nel De uno, e anzi sottolinea l’opposizione di principio dell’ordine, che è eterno, al corpo, che è “caducità” e “divisione” (cfr. pp. 87-91); del De antiquissima, invece, mette in luce l’oscillazione tra divergenti posizioni. Analizzando il metodo geometrico vichiano, osserva: «Se la geometria non costruisce dal nulla il proprio oggetto ma ne rinviene il modello nella mente, il verum-factum risulta allora depotenziato – quanto meno nella sua versione radicalmente ‘attivistica’ – e subordinato a un’architettonica eidetico-contemplativa» (p. 51; cfr. anche p. 61). Certamente nel De uno l’idea dell’ordo rerum, della conformatio e del contemplare, è preponderante rispetto al Liber metaphysicus, ma anche in questo la «versione radicalmente ‘attivistica’» mi sembra più un’invenzione degli “interpreti” che non una tesi vichiana. Basti qui ricordare l’affermazione, fortemente neo-platonica, che si legge nel capitolo I, sezione II, del De antiquissima, e cioè che «Deus unus [est] ens, cetera entis [sunt] potius», e la conseguente, di pretta derivazione malebranchiana, «Deus in me cogitat; in Deo igitur meam ipsius menten cognosco» (cap. VI). In breve: non bisogna attendere il De uno per veder affermata la tesi che «scientiarun principia sunt a Deo». Ma di ciò Carillo è il primo a esser convinto, basti leggere le pagine che ha dedicato all’idea di forma e al rappor-
165
to metafisica-fisica nell’opera vichiana del 1710. Invero il suo intento è di mostrare come il tentativo, fatto nel De antiquissima, di mediare «la metafisica classica e il costruttivismo della nuova scienza» fallisca (p. 52). Il che, però, lungi dal relegare l’opera al margine della produzione vichiana, conferisce ad essa un ruolo centrale, essendo destinata a «incidere […] profondamente anche sugli esiti ultimi dell’itinerario speculativo» del filosofo napoletano (p. 55). E su questo – dopo gli studi di Stefan Otto – non si può non essere d’accordo. Chiaramente l’affermarsi della prospettiva dell’“ordine” porta Vico a elaborare una teoria della storia che è innanzitutto una Logica e solo subordinatamente una gnoseologia. Vero è che il problema di Vico non era quello di spiegare la conoscenza storica, ma di dare ragione dello svolgimento della storia, di fondarlo su un ordine eterno. L’impianto onto-teo-logico è evidente; non meno la ragione del rifiuto vichiano dell’arbitrarismo di Dio. Carillo sviluppa la sua analisi di questo aspetto muovendosi con sicura padronanza entro un orizzonte problematico molto vasto. Non potendo seguirlo in tutte le diramazioni del suo discorso, mi limito a indicare i filosofi da lui più analiticamente esaminati e discussi: Agostino e Descartes, Malebranche e Leibniz riguardo al nesso tra nosse, posse e velle in Dio; Platone, Aristotele e Tommaso per il tema “onto-logico” (centrato in particolare sul rapporto sostanza/accidente); Heidegger per il concetto di verità come alétheia; e Nietzsche per la critica al fondazionismo. Facile comprendere in questa prospettiva come la tesi avanzata o, meglio, ripresa da qualche interprete di lingua anglosassone, sul «primato della ricerca empirica» in Vico, appaia, a dir poco, “ingenua” (p. 154). Vero è che il rapporto tra filosofia e filologia – ché di questo si tratta – non è né paritetico, né circolare, come una certa vulgata vichiana si ostina a ripetere; è, al contrario, un rapporto di subordinazione: le pruove filologiche vengon dopo quelle filosofiche, afferma Vico inequivocabilmente nel capitolo sul Metodo della Scienza nuo-
166
va del 1744. All’argomento Carillo dedica pagine acute e dotte, ove tra l’altro, facendo tesoro di suggestioni derivantegli da Der Nomos der Erde di Schmitt e dall’ultimo Heidegger, spiega il carattere “spaziale” della scienza storica vichiana: Al tempo stesso Ordnung e Ortung, la scienza ritrova e localizza (alloga); e, localizzando, evidenzia strutture d’ordine, relationes in unitate, laddove, a tutta prima, sembravano esserci soltanto frammenti; il suo compito consiste nella complexio, nel ridurre ad armonia, alla «perpetua pace», il conflitto, l’ataxia dei distinti. (p. 171)
Ed è qui che si pone la domanda radicale, che riguarda Vico, e con Vico il suo interprete. Cerco di formularla nel modo più semplice e rapido possibile. L’ordine eterno fonda e comprende in sé la storia dell’uomo, degli uomini, ma può, in questo ordine – logico, mathematico – entrare anche ciò che è “prima”? Prima dell’umano, e quindi dell’ordine stesso? Sia ben chiaro, non voglio affatto ridurre l’ordine – già definito “divino” – all’uomo; non voglio affatto rinnegare quanto, appena poco sopra, s’è detto, e cioè che la teoria vichiana è una Logica e non semplicemente una gnoseologia della storia. Tutt’altro. Rimarco soltanto che proprio perché l’“ordine” è “eterno”, è difficile immaginare che se ne possa dare una genealogia, che se ne possa ricercare l’“origine”. E ove mai potesse darsi una genealogia dell’ordine, ove mai un’origine potesse concepirsi di quest’ordine – cosa mai più garantirebbe la sua certezza e stabilità? Dio? Un altro ordine, quindi. Del quale, ovviamente (e qui ripetiamo l’argomento kantiano del tempo che bleibt und nicht wechselt), non avrebbe senso chiedersi l’origine e tentare una genealogia. Il problema cioè sarebbe soltanto spostato, rinviato. Ciò che vogliamo risulti chiaro è che la tensione e contraddizione tra l’“ordine” e la “genealogia”, tra la celeste mathesis e l’affermata “rozzezza” delle origini, è nella filosofia di Vico: il libro di Carillo ha il merito di metterla in luce (e sin nel titolo). Ora è
167
su questa tensione e contraddizione che dobbiamo interrogarci. E non per altro motivo che per mostrare il “limite” dell’ordine: dell’ordine “eterno”, “divino”. Vico nomina exlegi i primitivi Giganti, in senso proprio Ghegheneîs, figli della Terra – difficile chiamarli “uomini”, anche se erano lontana, e dispersa, progenie di Noè –, erranti per quella “gran selva” – che non è meno difficile definire “mondo”, quantunque proprio Vico così la definisca (nella Sinopsi del Diritto universale) –: era caos, infatti, e confusione, non ordine. Con riferimento a questo passaggio, Carillo scrive: Quale valore annettere a «exlex»? L’epiteto, il cui antonimo è «inlex», non traduce né l’omerico ἀθέμιστος né ἄνομος, ma il platonico παράνομος (riferito a piaceri e ad appetiti fuori legge): il prefisso ex- riveste una funzione separante, evocante una trasposizione ‘fuori luogo’, una distanza dall’evento di apertura del tempo della scienza e della scienza del tempo; da quella Ortung, quell’accadimento ‘localizzante’ e ‘temporalizzante’, che traccia il confine tra forma e Caos, limite e dismisura, protostoria e non-storia, possibilità e impossibilità della scienza. (p. 185)
Il piacere dell’erudizione si sposa qui con la “felicità” del pensiero e pur della scrittura. Carillo pensa nelle parole di Vico, scava in esse per “invenire” i pensieri di Vico, i più profondi, quelli che talora restano oscuri al suo stesso autore. Invenire, per poi trascriverli, facendo chiarezza, anzitutto, e insieme individuandone il limite, le tensioni irrisolte, le aporie e i tentativi di uscirne. Interprete sempre lucido, non si fa mai dominare dalla passione intellettuale per il suo autore, epperò non manca di notare e rilevare le malcerte distinzioni presenti nell’opera vichiana, come quella tra «stato di natura e stato eslege» nel De uno (p. 400). Ma non ama far sfoggio di vana acribia, preferendo mostrare le ragioni che militano a favore di Vico, anche quando questi cela a se stesso le difficoltà in cui si dibatte. Esemplare in merito il passaggio relativo al rapporto
168
tra natura e diritto: «Vico – scrive – parla sì della natura come di una fonte del diritto (ancora “ius violentiae”, com’è ovvio) ma si affretta ad aggiungere che si tratta di una natura “heroica”, già ‘addomesticata’, ammansita dalla religione» (p. 282). Di questo atteggiamento “positivamente” critico del nostro interprete si possono citare molteplici esempi da tutto il volume, e in particolare dai tre capitoli dedicati rispettivamente al rapporto di Vico con Hobbes, con Grozio e con Selden – tre piccole monografie che potrebbero ben stare a sé, vivendo di vita propria, anche fuori dal contesto del libro. Ma bisogna pur dire che Vico poco si curò di essere “coerente”. Seguiva liberamente la varia, mutevole trama del corso del mondo col solo intento di coglierne la “logica” interna. Questa logica lo spinse a scrutare sin nel più remoto passato, quando l’intatta “natura”, la mitica “Idra di Lerna”, dominava sovrana e l’umano stentava a sorgere. Fu così che Vico, dopo aver concepito, proseguendo e ampliando il lavoro di Grozio, l’“idea” di una mathesis universalis, capace di comprendere e di ordinare, di “allogare”, tutti i frantumi “slogati” dell’umanità storica, proto-storica e non-ancora-storica, riflettendo sulla prima origine del linguaggio, “vide” (intuì, immaginò, invenit) cose che mettevano in crisi l’intera sua costruzione, e ancor più: l’intera tradizione epistemica e religiosa dell’Occidente. Vide i gesti parlanti – il “parlare scrivendo” – dei primi empi “bestioni”. Fu consapevole Vico della portata della sua scoperta? Non del tutto, se resisteva ad essa. Nella tumultuosa scrittura barocca del filosofo s’avverte l’inquietudine d’un pensiero non in pace con se stesso. Anche su questo aspetto della filosofia vichiana Carillo scrive pagine acute e dotte, confrontandosi con la migliore letteratura sull’argomento e, come si diceva all’inizio, senza fermarsi su eruditi confronti. Egli è consapevole che sul problema dei “geroglifici”, sul problema del linguaggio gestuale del corpo, si giuoca una partita decisiva per l’episteme occidentale: è in
169
questione, per riprendere la definizione iniziale, “la genesi estetica della logica”. Ma qui lo tradisce, se non il troppo amore per il suo autore, certo un eccesso di spirito analitico (o forse di fiducia nella propria ermeneutica Scharfsinnigkeit). Infatti, rilevata la separazione tra “parole” e “cose” che caratterizza la lingua “pistolare” dei filosofi (separazione denunciata da Vico stesso nella Nota 33 al De constantia iurisprudentis), e che segna la distanza tra il linguaggio epistemico – nel quale è scritta anche la Scienza nuova – e il linguaggio dei geroglifici corporei, in cui si esprime il mondo-non-mondo dei primi Terrae filii (cfr. p. 140), Carillo, per spiegare in che modo la lingua della Scienza nuova possa parlare dell’“origine”, della “prima natura”, dell’emergere dell’umano dall’ingens sylva della nonstoria, chiama in causa la Degnità LXIV (quella che riprende la proposizione 7 del Libro II dell’Ethica di Spinoza: «ordo, et connexio idearum idem est, ac ordo, et connexio rerum»), ponendo così la connessione tra le “due” lingue – e i diversi mondi – sotto il principio onto-logico della conformitas intellectus et rei. Anche qui non si può non apprezzare la finezza ermenutica dello studioso, che, soffermandosi su ogni piega del discorso vichiano, evidenzia il sostanziale mutamento che la “citazione” spinoziana subisce nel passaggio dall’edizione del 1730 alla postuma del 1744: «Vico – scrive – trasfigura in senso prescrittivo la proposizione: non più “procede”, ma “dee procedere”, dove non c’è più traccia né dell’“idem est” originario né dell’indistinzione spinoziana tra essere e dover essere e tra essere e pensiero» (p. 142). E tuttavia in questo caso abbiamo più d’una ragione per sostenere che il cammino che l’interprete di Vico ha da fare è esattamente l’opposto di quello tracciato da Carillo. Nonché cercare di sciogliere la contraddizione, renderla ancor più acuta, per cogliere il senso più profondo e “nuovo” della dottrina vichiana del linguaggio. Vico fu in contrasto con se medesimo, se contro l’idea stessa della storia ideale eterna, secondo cui la mente sorge per il
170
medio della favella dal corpo, si affannò a dimostrare lo sforzo della mente per e nel rivolgersi a sé, dopo essere stata a lungo sepolta nel corpo. Ma come poteva, essa, essere stata sepolta nel corpo, se, prima di sorgere – di sorgere come riflessione pura, e la mente non è altro che questa riflessione pura – non c’era affatto? Non aveva esistenza alcuna? Ancora troppo legato alla tradizione aristotelica del linguaggio-significato, Vico sembra non rendersi conto che la sua teoria dell’origine del linguaggio la sovverte. E non c’è da stupirsi: quella tradizione domina ancor oggi, e nella riflessione dei maggiori filosofi, da Husserl a Heidegger, a Wittgenstein, a Benjamin. Ma la “genesi estetica” (sensibile, corporea, animale) del linguaggio impone che si ricerchi la prima sorgente dell’“iconologia della mente” – delle “idee”, dei “significati” – nei gesti corporei. Nonché ritrarsi in sé, la mente deve invece portarsi “fuori di sé”, per conoscere la sua derivata, non originaria, interiorità: mnemonica mimesi del gesto, dei gesti corporei. Vico contro Vico, s’è detto; precisiamo: in contrasto non soltanto con la tradizione filosofica che per larga parte domina ancora il suo pensiero e la sua scrittura, sì anche con la tradizione religiosa che con la sua opera intendeva difendere e continuare. «Unus Ada integer vere sapiens» – aveva affermato nel De constantia philosophiae (cap. IV), eco lontana del racconto biblico di Adamo che dà nome agli animali (e alle cose tutte). Nome, ónoma, e legge, nómos – che deriva direttamente da Dio. Ma la teoria del linguaggio dei “mutoli” dice che la nascita della “sapienza” non procede dall’alto, bensì dal basso: dalla terra, dal corpo, nella cui materialità e selvatichezza si cela il Sacro. Che è più del divino, se custodisce in sé la possibilità come dell’ordine così del caos; se rende incerta – infirma – anche la “storia ideale eterna”, il “dovette, deve, dovrà”, da cui le instabili storie degli uomini, le storie che corrono in tempo, dovrebbero ricevere stabilità, e con questa ordine.
171
Ma Carillo ha avuto l’intuizione giusta, la più appropriata al tema del suo libro (“vichiano” non solo per l’oggetto), al tema cioè dell’ordine e dell’origine, quando ha scelto l’immagine di copertina: un particolare del quadro di Savinio, Oreste e Pylade. Vi si vedono ritratti due Giganti. In essi, Gea Madre si continua: gambe e tronco e braccia smisurate, enorme la mano nodosa del più piccolo dei due. Corpi che terminano in due teste minuscole. Umgekehrte Krüppel, “storpi alla rovescia”, ma in senso contrario a quel che intendeva Nietzsche: le loro teste non hanno (ancora?) occhi, né orecchie, né bocca, né naso. Eppure sembrano toccare la volta celeste. Più minuta la testa del Gigante più alto.
173
II L’infinito e la storia*
11 La sterminata bibliografia vichiana – l’ultimo contributo, il settimo, che copre gli anni 2001-2005, conta 1359 titoli, tra saggi critici, recensioni, traduzioni e riferimenti vari – è la testimonianza di una profonda cor-rispondenza del pensiero di Vico alle domande e alle inquietudini del nostro tempo. Difficile, infatti, spiegare senza tale corrispondenza il crescente interesse – storico, filologico, speculativo – per Vico in Europa, nelle Americhe, in Asia (Cina, Corea, Giappone), nel mondo ebraico. Anche in considerazione del fatto che l’“italiano barocco” delle Scienze nuove richiede molto più che una buona conoscenza della nostra lingua, peraltro poco diffusa, in ambito filosofico, oltre i confini della penisola. Ma in che consiste questa corrispondenza? Riprendo quanto in altre occasioni ho cercato di argomentare: nell’età in cui la “crisi della ragione” ha toccato tutti gli ambiti del sapere come della prassi – le scienze naturali non meno di quelle “morali”, la vita religiosa come la politica, l’etica e l’arte –, mettendo in questione lo stesso statuto d’es-
* Postfazione a G. Cacciatore, L’infinito nella storia (2009).
174
sere dell’uomo, nell’età del “nichilismo compiuto”, Vico, anche più di grandi e grandissimi filosofi a lui contemporanei o posteriori – da Spinoza e Leibniz a Hegel e Schelling, forse allo stesso Nietzsche, certo sino a Husserl e Heidegger – consente di riproporre nei loro termini originari le questioni di fondo che hanno alimentato il dibattito filosofico da Platone ai nostri giorni: dalla nascita del linguaggio alla formazione della logica e delle scienze, dal sorgere dell’idea di Dio alla costituzione della pólis, del diritto e della morale, alla genesi della storia. Tutte le questioni, cioè, che giungono alla radice di ciò che da lungo tempo siamo abituati a chiamare “uomo”. Ma… perché anche più dei grandi e grandissimi filosofi appena ricordati? Perché Vico ha mutato il “senso” della prassi filosofica. E non ha mancato di dirlo. La sua più nota e celebrata proposizione – verum et factum convertuntur –, su cui non c’è interprete che non si sia soffermato, va presa ancor più che come un’ennesima definizione “universale”, “oggettiva” della verità, da porre accanto alle tante che sono state date nella lunga storia del pensiero (filosofico e non), come espressione del suo modo di far filosofia. Simile all’esploratore di un nuovo continente, Vico si forniva di carte di viaggio, di topografie, di strumenti di osservazione, ma non esitava, lungo il cammino, a correggere e pure a riscrivere le carte che l’avevano guidato nel viaggio, a cambiare gli strumenti d’osservazione, mai però rinunciando ad essi. Di qui il sempre oscillante rapporto tra filosofia e filologia, che è difficile, se non impossibile, comporre in un “circolo virtuoso” come pur s’è tentato di fare, da molti, da troppi, e da divergenti prospettive, taluni privilegiando l’ordine della filosofia sul libero movimento della “filologia”, altri seguendo l’indirizzo opposto. La domanda che ora s’impone è questa: quale conseguenza deriva, riguardo alle molte interpretazioni del pensiero vichiano, dall’assumere il principio del verum ipsum factum non come definizione universale della verità, bensì come la testimonianza di Vico sul proprio modo di far filosofia?
175
2 Giuseppe Cacciatore è tra i maggiori “responsabili” della crescita della bibliografia vichiana, e la collana dei “Quaderni de ‘Il Pensiero’” è ben lieta di incrementarla con questo aureo libretto che, a parte il contributo specifico su alcuni temi di fondo del pensiero vichiano, come la metafisica “dualistica” di stampo neoplatonico del De antiquissima, permette di affrontare il problema della “corrispondenza” di Vico ai problemi del “nostro tempo” da una più ampia prospettiva storico-teorica. Comincio, pertanto, dal capitolo II, Vico tra Storicismo e Historismus: un saggio di storia della storiografia esemplare per vastità di riferimenti – da Cuoco a Croce, per l’Italia, da Dilthey a Troelstch a Meinecke, per la Germania –, concisione espositiva (Cacciatore va subito all’essenziale) e nettezza di giudizio. La scelta di campo è decisa: tra la lettura di Croce, che riduce la Provvedenza vichiana a un’anticipazione del concetto hegeliano della razionalità della storia, e quella di Dilthey, che «mette in risalto il rapporto problematico e non risolto tra ordine dei principi del vero e storicità delle espressioni del certo», Cacciatore non ha dubbi. Così posta la questione, neppure io avrei dubbi – non nello scegliere tra Croce e Dilthey, beninteso, ma nella scelta tra l’affermazione della razionalità della storia e l’opposta della problemacità non risolta tra l’ordine del vero e la storicità del certo. Ma è possibile ridurre la questione a questo secco autaut? Le cose sono, forse, più complicate. Nel capitolo I Cacciatore, illustrando l’irriducibilità della conoscenza divina all’umana, cita, tra l’altro, questo passaggio del De antiquissima: «In qual modo poi l’infinito sia penetrato nelle cose finite non potremmo comprenderlo neanche se Dio ce lo insegnasse, poiché […] la mente umana […] finita e formata non può […] aver intelligenza delle cose indefinite ed informi» (corsivo mio). Passaggio di incredibile coraggio: qui Vico sfida l’ortodossia cattolica, portandosi fuori dell’interpre-
176
tazione tradizionale, “canonica” del cristianesimo (basti qui richiamare l’aufertur velamen di Paolo in 2Cor 3,16; e ancora At 17,23). Ma vediamo quale conclusione ne trae Cacciatore. La “metafisica dualistica” di Vico, scrive, «ha di mira l’obiettivo filosofico della fondazione gnoseologica e della giustificazione ontologica della pensabilità del mondo umano, dei suoi processi conoscitivi, dei suoi peculiari saperi scientifici». Ha di mira – che significa? Che è un obbiettivo realizzato nella Scienza nuova, o comunque realizzabile secondo Vico, o non è, invece, l’obiettivo che nella Scienza nuova si mostra a Vico, anzitutto a Vico, “irrealizzabile”? Seguendo la prima interpretazione – quella “umanologica e anticosmologica” proposta da un gran maestro di studi vichiani, Pietro Piovani, e ripresa nello storicismo critico di Tessitore, ai quali Cacciatore esplicitamente si richiama –, ove più la problematicità della conoscenza umana? Questa interpretazione non “assolutizza” l’uomo, elevandolo a luogo originario di “fondazione gnoseologica” e “giustificazione ontologica” del mondo storico? Non sottrae la storia alla “genealogia” della Scienza nuova? Sia ben chiaro, con ciò non intendo affatto scegliere l’altro orientamento ermeneutico, quello della Ragione universale che si realizza nella storia, e tanto meno la sua versione rammodernata, la Seinsgeschichte, che esplica la storia come evento dell’Essere. Questa via, questa hodós, non è meno umana, troppo umana della precedente, anche se cerca di nascondersi dietro il velo di un’“ascosità” in nulla ascosa, dato che di essa tutto si sa e tutto si dice: che è Essere, Evento, Dono, ecc. ecc. Non resta allora che abbandonarsi allo scetticismo radicale, e percorrere sino in fondo la via “del dubbio e della disperazione” (des Zweifels und der Verzweiflung)? Un grande interprete di Vico, Enzo Paci, avvertì «dietro l’apparente calma umanistica del De antiquissima […] il minaccioso brontolio di una tempesta sempre più vicina»: il ritorno della “disperazione di Vatolla” (il riferimento è la poesia giovanile, Affetti di un disperato). Ma proprio
177
Paci ha mostrato, in Ingens sylva, come Vico abbia lottato con tutte le sue forze contro questa “misologica” conclusione. Ma quale l’approdo di Vico? È nel rispondere a questa domanda che si dividono le interpretazioni, e, tra queste, quella dello storicismo critico e l’altra dell’ermeneutica topologica, come Cacciatore nelle due Appendici mostra con rigorosa chiarezza e amicale affabilità. Quello che allora in questa postfazione intendo fare, è aprire un altro spazio di dialogo, proponendo a Giuseppe Cacciatore alcune questioni che sono maturate in me in questi ultimi anni e che hanno cominciato a prender forma dopo una “laboriosa” ri-lettura della Scienza nuova del 1725. Nel capitolo VII del secondo Libro di questa prima Scienza nuova, Vico, “narrando” la storia di Roma antica, si ferma in particolare sulla Legge delle XII tavole e sulle lotte dei plebei contro i patrizi per il riconoscimento di alcuni diritti, come contrarre “nozze solenni”, onde avere pur essi “certe discendenze”. Vico ha davanti la Storia di Livio, da cui cita. Ma, costretto dalla stessa narrazione a volgere lo sguardo più indietro nel tempo, al primo sorgere delle comunità umane, scrive: «con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che finora hanno ingombrato la storia favolosa de’ greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore degli dèi addimesticato le fiere e riduttele nelle città». La “storia certa” qui non è Livio, non è la “storia”: è la mitologia. È questa che permette di “intendere” quel che “immaginare” assolutamente non si può: la “nascita” della storia e della Città, dell’uomo stesso. La mitologia: non però la scienza mitologica, scienza tra le scienze, scienza legata al linguaggio “pistolare”, alla lingua “comune” dei concetti. Non questa mitologia, ma quella particolare forma di narrazione che è il mythologeîn vichiano, fusione di lógos e mýthos, la “creativa” scrittura della Scienza nuova. Scrittura che conserva nel suono della voce l’immagine del gesto. È in questo mythologeîn, in questa scrittura, il medius terminus tra filosofia e filologia? Sì e no, perché in esso fondendosi, cambiano entrambe carat-
178
tere: il vero di Vico è quello che Vico “fa”, “inventa” – non un concetto universale, bensì un’esperienza: una “testimonianza”. So bene che il “narrare”, a cui lo storicismo critico di Cacciatore è approdato negli ultimi anni, tutto “storico”, “liviano”, è affatto diverso dal mythologeîn vichiano qui sopra ragionato: diverso come il discorso “fattuale” dell’histoire événementielle dal parlare “metaforico”. Ma la riflessione sul mythologeîn ha una funzione solo preparatoria per portare il confronto ermeneutico intono Vico su altro piano, in altro ambito: da quello “ontologico” all’“etico”.
3 Avviandosi a chiudere il capitolo II, Cacciatore accosta, sulle orme di Meinecke, il nesso vichiano delle “strutture mentali del conoscere” con il “fare storico dell’uomo” e la “relazione kantiana” delle “forme trascendentali” con l’“esperienza”. Ferme restando le “profonde differenze” tra le due filosofie, esse rappresentano – scrive – i «due grandi orientamenti della filosofia moderna che contribuiscono a determinare in modo definitivo il ruolo dell’individualità nella storia e a dare l’avvio alla scoperta della funzione creatrice e produttrice della fantasia.» Il mio consenso sull’importanza del confronto VicoKant – depurato ovviamente da ogni discorso su “anticipazioni” e “precorrimenti” – è totale. Mi domando, però, se con esso si giunga ad altra definizione “universale” della verità, alla “scoperta” cioè del carattere fattivo, “produttivo”, performativo della verità in quanto tale, di ogni verità, dell’essenza della verità, o non, piuttosto, a riconoscere il carattere “performativo” di quella “particolare” esperienza di verità che è la scrittura vichiana, la cui “universalità” non sta nella definizione di una presunta verità “oggettiva”, di un orizzonte di senso valido per tutti, bensì nel “testimoniare”, nell’esibire, nel
179
proporre, nel porre-innanzi ad altri, quindi anche nell’offrire la propria “individualissima”, singolare esperienza. Il riferimento ultimo alla funzione creatrice e produttrice della fantasia – la “facoltà” produttrice di immagini che rende visibile la parola – mi sembra pieghi il discorso in questa direzione. In altri termini: il confronto Vico-Kant va posto non sul terreno della conoscenza, riguardando il carattere trascendentale del giudizio – la relazione predicato-soggetto (id est: forme trascendentali-esperienza) –, bensì sul terreno della “morale”, in cui l’universale (la Legge) è “posto” dal soggetto nel senso che la Legge è la testimonianza che il singolo dà della sua esperienza, universale solo per questo: che essa è l’esibizione, la “figura” che il singolo dà di sé ad altri, ad altro – figura in cui il singolo si es-pone. Qui la “performatività” della parola, del lógos, è “testimonianza”: non produzione-creazione di verità universale, formazione dell’esperienza secondo schémata universali (le forme trascendentali), ma produzione-esposizione di un’immagine di sé che ha solo quell’universalità che le compete nel volgersi ad altri, ad altro. Immagine destituita a priori di ogni pretesa ontologica, di ogni “intenzione” di corrispondenza all’essere di ciò di cui è immagine. Destituita a priori di ogni pretesa di pareggiare il cogito al sum.
4 Qui il confronto con Kant assume tutt’altro valore: è il confronto tra due esperienze del limite delle possibilità del sapere, dell’episteme, della logica. Come in Kant la quantità intensiva si sottrae all’ordine spazio-temporale, così in Vico il certo al dominio del vero. E come la quantità intensiva può essere assunta, ed è assunta, sotto il “grado”, così il “certo” nel “vero”. L’errore inizia là dove si considera l’assunzione del soggetto sotto il predicato – id est: la quantità intensiva sotto il grado, il certo nel vero – quale determinazione ontologica del soggetto. Un
180
errore che ha esercitato, e ancora esercita, un grande fascino, il fascino di una grande idea: l’elaborazione di una mathematica delle passioni. Anche Vico soggiacque a questo fascino. A lungo tentò di portare la “storia” delle umane passioni nell’ordine del “dovette, deve, dovrà” della storia ideale eterna. Ebbe il coraggio di mostrare il fallimento di questo progetto, segnando così un’insuperabile distanza da Spinoza. Ma nel perseguire quell’ideale che gli si mostrava irrealizzabile, fece dell’altro. Non anticipò pensieri futuri. Neppure – come disse, con bella immagine, De Sanctis – Vico «cercando nel passato trovava il mondo moderno», come chi «guardando indietro […] si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano». Fece altro, quello che solo i Classici sanno fare: parlando dal futuro, un futuro che resta sempre futuro, ci ha indicato un altro modo di far filosofia, di praticare la filosofia.
181
III Scrivere la storia*
11 Poche pagine su Vico resistono al tempo come quelle di Francesco De Sanctis, per il suo coinvolgimento, che la scrittura, controllata e appassionata come sempre, non manca di rivelare. Lo storico, interessato a mostrare nell’evoluzione della letteratura italiana il progressivo formarsi della coscienza nazionale, giunto a Vico vide dapprima solo l’erudito «formatosi nelle biblioteche e fuori del mondo»: «Studiò la filosofia in Suarez, la grammatica in Alvarez, il diritto in Vulteio». Di qui il giudizio, pesante come una clava, che cade sull’Autore e sulla sua Città: «L’Europa aveva Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava il De antiquissima italorum sapientia». Eppure questo «retrivo», che viene a contatto con la cultura europea e reagisce rifugiandosi nel passato, tra sapienza greca e diritto romano, «guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano». La storia della formazione della coscienza nazionale italiana aveva già conosciuto regressioni, anche in
* Prefazione a F. Valagussa, Vico (2013).
182
spiriti magni – quali l’Ariosto, «letterato in corte», paragonato a Machiavelli, «la coscienza e il pensiero del secolo» –; ma con Vico la reazione stessa, la resistenza al moderno, portava a maggiore e più profondo avanzamento: era «resistenza del genio». Il fascino delle pagine desanctisiane è tutto qui, nella loro sinuosità, ché non descrivono un semplice capovolgimento, ma una geniale implicazione di antico e moderno. Il che permette di passar sopra alla fallacia storica di quel primo giudizio. Perché, invero, ancor prima del De antiquissima Vico si era “scontrato” con la più avanzata cultura europea del suo tempo. Almeno dal De ratione, nel quale è già chiaro il gran disegno di questa filosofia che intende congiungere le due tradizioni che, divise, hanno attraversato l’intera cultura dell’Occidente: per un verso, quella retorica, che Vico riprende da Cicerone e dall’umanesimo italiano, ma che risale molto più indietro, a Isocrate, e, per l’altra, quella propriamente filosofica, iniziata da Platone e Aristotele – in duro contrasto proprio con Isocrate –, ripresa pur essa nell’umanesimo italiano, dal neoplatonismo di Ficino e Pico. Di questo suo disegno Vico parla a chiare lettere nell’Autobiografia, anticipando addirittura al tempo della prima orazione la sua ricerca di «un qualche argomento e nuovo e grande […], che in un principio unisse egli tutto il sapere umano e divino». Ma v’è dell’altro ancora nella distinzione-relazione tra “topica” e “critica” del De ratione, certo appena intravisto e non tematizzato: il complesso intreccio delle le due forme logiche che, alternandosi, implicandosi e pur contrastandosi, caratterizzano il sapere della Neuzeit: la logica dell’inerenza del predicato al soggetto (di chiara derivazione aristotelica) e la logica della sussunzione del soggetto sotto predicati (che ebbe la sua prima elaborazione nella koinonía tôn ghenôn del Sofista platonico e che Kant porterà a piena e rigorosissima formulazione teorica). E basti leggere il capitolo XI dell’opera, il più importante, che tratta del diritto e della giurisprudenza dell’antica Roma, non senza riferimenti
183
all’età dello stesso Vico, per constatare che alla fine la logica della sussunzione si impone su quella dell’inerenza, ovvero: che il rapporto tra topica e critica si inverte, affermandosi la critica come orizzonte di comprensione e, quindi, di possibilità della topica. È il primo barlume di quella che sarà la geniale intuizione vichiana: la storia ideale eterna. L’estensione, cioè, al mondo della storia della mathesis universalis. Ma perché quel primo barlume divenisse progetto teorico chiaro, fondato e dettagliato, fu necessario a Vico un lungo percorso, nel quale, com’è naturale, non mancarono mutamenti di direzione e arresti, quando non arretramenti. L’idea nuova esigeva un confronto non solo con il moderno, ma con tutta la tradizione filosofica e culturale dell’Occidente. Col neoplatonismo anzitutto, nella sua versione originaria (Plotino) e in quella cristiana (Agostino), dovendo la mathesis universalis trovar sostegno in un principio, fondamentale e assoluto. Vico percorreva coi suoi modi propri, con la sua originalità, il cammino compiuto da Spinoza: da Cartesio a Plotino, a voler indicare gli estremi di un itinerario a doppio senso. E in questo percorso il De antiquissima, nonché esser opera del passato, segna una tappa importante per la definizione del nuovo progetto, non foss’altro per l’oscillazione di Vico tra le due logiche – oscillazione che fu anche di Spinoza e di Leibniz –, che rivela il grande travaglio da cui è nata la Scienza nuova. Ma al contrario di Spinoza l’estensione vichiana della mathesis universalis non riduce l’universo umano delle passioni alla geometria dei punti, delle linee e delle superfici, conserva bensì intatta la corpulentissima materia dell’umano sentire e patire. Del resto già nel De ratione Vico aveva difeso il carattere “costruttivo” e “immaginativo” della geometria, in ciò e per ciò utile anche alla fantasia dei poeti. Tuttavia, pur segnando la distanza da Spinoza, talora con espressioni sin troppo aspre, in una delle degnità della Scienza nuova egli riprese, pur con variazioni significative, la proposizione VII del secondo libro dell’Ethica, quella che definisce
184
la medesimezza dell’ordine e della connessione delle idee con l’ordine e la connessione delle cose. Il che attesta che in Vico non meno che in Spinoza la logica della sussunzione “implica” come suo fondamento la logica dell’inerenza. E cioè: come in Spinoza la natura naturata, la totalità delle interrelazioni modali, poggia, attraverso il conatus, sulla natura naturans, la sostanza divina, così in Vico le idee, con cui la storia è pensata, sono vere, in quanto son esse che fanno la storia. Le due definizioni del vero, il verare-facere del De antiquissima e la conformatio mentis rerum ordini del De uno, si congiungono nella Scienza nuova attraverso il conatus che media tra Provvedenza divina e operare umano. Ed è qui che s’addensano i maggiori problemi della filosofia vichiana, a partire da quello del rapporto tra l’operare della Provvedenza e l’agire umano. C’è da chiedersi, però, se sono problemi della filosofia vichiana, o non, piuttosto, della filosofia della storia – s’intenda: della meditazione sulla storia – tout court. È sufficiente cambiare i termini, ponendo al posto di Provvedenza “accadimento”, semmai con la maiuscola, per designare l’universale connessione delle relazioni intersoggettive – pensieri, azioni, abitudini, istituzioni: insomma le diltheyane Wirkungszusammenhängen, di cui i singoli soggetti sono solo Kreuzungspunkte, punti d’incrocio, o al più Träger, portatori –, per venire a capo di questo rapporto? Storia ideale eterna e storie che corrono in tempo non sembra s’accordino. Vico non solo non cela questa discordia, ma ne mette in luce altri aspetti. Forse non c’è critica rivolta a Vico che Vico non si sia già mossa. E tra le molte, questa che maggiormente ferisce: se la “scienza nuova”, la mathematica della storia, è scritta con la lingua della ragione tutta disvelata, con la lingua “pistolare”, com’è possibile “comprendere” in questa, che ha diviso il verare dal facere, il mondo della prima umanità, il mondo delle “parole reali”, ove voce e gesto, phonè kaì schêma, erano non congiunte, ma il medesimo, come l’urlo di dolore è il dolore? Come far proprio nella lingua che significa,
185
che fa-segno, nella lingua della separazione di suono e cosa, il terrore dei nati dalla Terra, dei Giganti, che “avvertirono” nel tuono la voce di Zeus? Come “vivere” quel terrore nella lingua della comunicazione? Vico non solo non si tace l’obiezione, ma vi risponde. Ed è qui la sua mossa geniale. Una volta stabilito che quel mondo ancora incerto tra pre-storia e storia, animalità e umanità, si può a stento e con fatica “intendere”, ma assolutamente non “immaginare” – questa l’autocritica vichiana della ragione, capace di fissare il suo limite senza con ciò stesso varcarlo –, Vico non risponde all’obiezione con la lingua dell’obiezione, la lingua della riflessione, ma con la lingua della Scienza nuova, che è più ampia della lingua della mathesis universalis, della storia ideale eterna: perché è la lingua dell’incontro di mýthos e lógos, fusione mirabile di narrazione e ragione, quale si esplica nella molteplice e varia interpretazione dei miti che Vico offre nella Scienza nuova, ove l’etimologia del De antiquissima è “conservata” e “superata” nella genealogia del linguaggio, che ricerca la radice delle parole non in altre parole, ma nelle “cose”, nei prágmata, in cui phoné, schêma e chrôma – voce, gesto e passione – costituiscono un’unica, ancora indivisa, realtà.
2 Questo libro di Valagussa, ricco di erudizione e di pensiero, ruota intorno a questi due problemi fondamentali della filosofia vichiana: il rapporto storia-storiografia, l’uno, e storia-individui, l’altro. E questi due problemi riesce a fonderli in uno. Lo studio inizia con l’esame della discussione tra Croce e Gentile sul rapporto tra res gestae e historia rerum gestarum: fu un momento alto del dibattito filosofico italiano, che si svolse nel primo decennio del secolo scorso, per protrarsi nei decenni successivi senza variazioni di rilievo. A Croce, che sulla base della distinzione tra pensiero e prassi rimarcava la differenza
186
tra factum e verum, Gentile opponeva che il pensiero, essendo esso stesso prassi, e cioè libertà e autonomia, nulla poteva presupporre a sé. Fondandosi sul carattere autotetico del pensare, egli come riportava le res gestae a historia, così faceva dell’historia la vera e unica res gesta; integrava il vichiano verum ipsum factum, precisando: quatenus fit. Era la sua forza: il pensiero come vita. E insieme la sua debolezza: perché non riconosceva la fatticità indeducibile del pensiero, che in tanto può riportare il tutto a sé, in quanto è questo riportare. Per non riconoscere alcun limite al pensiero, Gentile finiva col negare la storia nell’eternità dell’atto del pensiero. Non l’atto è nella storia, ma la storia nell’atto. D’altra parte Croce non riuscì mai a dar ragione della distinzione della Dottrina delle categorie dalla Logica, producendo al massimo un esempio, forse suggestivo: quello del paese – l’intera filosofia dei distinti – che si rispecchia nel suo lago – la Logica –, certo manchevole, ché nel lago non si riflette il lago stesso. Valagussa, peraltro, pur rilevando il limite della filosofia dei distinti, tende a “salvare” di Croce la distinzione tra arte e filosofia, ma per ragioni che vanno ben al di là della formulazione crociana, e che l’avvicinano a Vico. Ma prima di passare a Vico, c’è dell’altro su cui Valagussa si sofferma, che merita d’essere sottolineato. Anzitutto la posizione di Omodeo che, intervenendo nel dibattito tra Croce e Gentile, scrive: «il nostro Giulio Cesare è veramente Giulio Cesare, è Giulio Cesare che ha vissuto un’esperienza storica che arriva sino a noi; che ha martellato, rifuso la sua opera per altri due millenni di storia». Era, Omodeo, distante sia dall’unità-distinzione di storia e storiografia affermata da Croce, che dall’unità-identità di Gentile; anticipava tesi che verranno molti anni dopo proposte da Gadamer riguardo alla funzione del tempo nel lavoro storiografico; ma sovrattutto riprendeva il tema del rapporto storia-storiografia a più alto livello, quello definito da Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia. Valagussa ricorda l’assunto fondamentale di Hegel: hanno storia solo quei popoli
187
che scrivono la storia. Quei popoli che hanno coscienza di sé: e non la labile coscienza dei singoli, ma la salda conoscenza di sé che si realizza nel diritto, nel costume, nelle istituzioni – nello Stato. In questo senso, determinato e concreto, reale, wirklich, scrivere storia è fare storia. Omodeo s’era avvicinato a questa concezione: il Giulio Cesare che ha martellato, rifuso la sua opera per altri due millenni di storia non è certo il Gulio Cesare di Tacito e Mommsen, è l’umanità storica. Qui storia e storiografia sono unite alla fonte, la storiografia essendo la coscienza immanente alla storia, non quella che ad essa sopravviene ex post. Coscienza che si esprime nella forma della narrazione. Qui incontriamo di nuovo Vico. Valagussa cita de Giovanni, e indirettamente Capograssi: «Non è dunque un solo soggetto che racconta il mondo di Vico […] sono le moltitudini che raccontano il mondo di Vico». Una distanza abissale separa però Vico da Hegel, pur nella comune concezione che la storia, la vera storia, è opera non di singolo, ma “di tutti e di ciascuno”. Hegel, avendo a modello Lutero e Descartes, l’autonomia della coscienza religiosa e il primato dell’autocoscienza filosofica, schiaccia l’intera storia sul presente: nega storia ai popoli privi di storio-grafia, anche se ricolmi di opere d’arte, come l’India. All’opposto Vico mira a sottrarre dall’oblio la storia più antica, le civiltà appena uscite dall’ingens sylva della pre-storia. È che della stessa narrazione i due filosofi hanno vedute opposte. La narrazione hegeliana – Valagussa ricorda in proposito quella Mythologie der Vernunft che fu tra i primi tentativi di Hegel e Schelling di “ripensare” la ragione – resta comunque subordinata al “concetto” o “idea”, come in seguito mostrerà Hegel con la Fenomenologia dello spirito, il cui fine, la “manifestazione del profondo”, è conseguita solo dalla begriffne Geschichte, dalla storia concettuale. La narrazione vichiana si basa, invece, sulla fantasia, e al principio dell’homo intelligendo fit omnia della metafisica “ragionata e astratta degli addottrinati”, antepone l’homo non intelligendo fit omnia: ove il “non intelligere”
188
non è agnoia, ignoranza, ma sapere fantastico, immaginativo, sapere poetico, ovvero creativo. È il sapere volgare e “pratico” dei Legislatori, non raffinato e “riflessivo” dei filosofi. Di qui l’ardita, stupefacente, ma profondamente vera definizione del “diritto romano antico” quale “serioso poema” e “l’antica giurisprudenza” quale “severa poesia”. Questa la “verità” originaria della poesia, e questa la storia vera, reale, scritta dai popoli e non dai singoli. Certo, però, questa non è, non può essere, la nostra storiografia, la storia scritta nell’età della riflessione e della lingua “pistolare”. Nessun moderno Orfeo è pensabile oggi – un oggi che comprende non solo noi e Vico, ma una ben più ampia distesa di tempi –, che narri dei conflitti del nostro mondo come l’antico Orfeo cantò di quelli del mondo antico. Come dunque scrivere storia, noi, uomini d’oggi, e non soltanto la nostra, sì anche la storia del mondo antico? Valagussa percorre molte strade, interrogando vari autori, da Schelling a Schlegel, a Schiller, a Ranke, a Dilthey, al variegato panorama dello storicismo “napoletano” (la scuola di Pietro Piovani). Ma il suo riferimento privilegiato è Kant. Naufragato il progetto hegeliano di pareggiare narrazione e fatto, e conseguita la consapevolezza critica che il dire non è la cosa “ma è il dire della cosa, sulla cosa”, l’ordine si rivela per quello che è, e può essere: parziale, prospettico. «L’ordine così articolato è sempre suscettibile di continue riformulazioni, integrazioni, supplementi». Come negarlo? Ma è sufficiente? Dico: è sufficiente questa conclusione riguardo a Vico? Riguardo, cioè, alla conoscenza che Vico ha principalmente di mira, la conoscenza storica? In fondo l’ordine sempre parziale, prospettico, suscettibile di integrazioni, variazioni, revisioni, è del conoscere come tale, d’ogni forma di conoscenza – ma qual è lo specifico della conoscenza storica? Qual è lo specifico “vichiano”? Risponderei: la “genealogia” dell’ordine. E qui i giuochi si riapro-
189
no – come sempre con Vico – perché con quale linguaggio è possibile ricostruire il processo di formazione dell’ordine, degli ordini? Con quale linguaggio è possibile “immaginare” il sorgere dell’esigenza stessa dell’ordine, l’esigenza che un ordine comunque ci sia? Il mythologheîn della Scienza nuova, quella mirabile fusione di narrazione e ragione che la scrittura barocca di Vico realizza nelle interpretazioni dei miti antichi, mi sembra contenga un insuperato insegnamento. Valagussa si chiede se il mythologheîn non cada pur esso nella logica dell’esclusione che caratterizza la logica retta dalla bebaiotáte arché, dal principio di non contraddizione. In fondo il mythologheîn non si pone come “alternativo” alla non-contraddizione? Certo, ma c’è alternativa e alternativa: quella che nega l’altro (nel caso dell’arché antipháseos è negata la stessa possibilità dell’altro, cioè dell’errore: è impensabile il triangolo di quattro lati), e quella che ammette la possibilità dell’altro. La plurale interpretazione del mito, dello stesso mito, è la messa in opera di questa possibilità, è la pratica conforme a tale possibilità. È quel fare, meglio: quel verare-facere, in cui si esprime la radice etica della genealogia della storia, la radice etica della Scienza nuova, che la celebre frase finale dell’opera rende totalmente esplicita: «questa Scienza porta indivisibilmente seco lo Studio della Pietà; e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio». La conclusione di Valagussa va in altra direzione. Ricordando l’ultima riflessione sul tempo di Ernst Jünger, la previsione della fine dell’età del Padre, del tramonto, cioè, della civiltà storica, scrive: «Risuona l’eco della lezione vichiana, l’eco delle fatiche ventennali profuse per avvicinarsi al muro del tempo e potersi sporgere oltre lo spazio della storia, per lasciar soltanto parlare le cose, restando in ascolto». E Kant? E l’autocritica della ragione? E i molti ordini della storia, delle storie? Il pericolo estremo, la ricaduta sempre possibile nel gorgo dell’ingens sylva, nella Dipintura collocata dietro l’urna fune-
190
raria, si tramuta alla fine in “redenzione”. Dalla storia, perché le cose parlino di nuovo. Incredibile Vico! Non cessa di inquietare, moltiplicando la sua immagine all’interno di una stessa interpretazione. «Un grand’uomo – ha scritto Hegel in un appunto giovanile – condanna gli altri uomini a interpretarlo».
III Incontri
195
I Storia – Linguaggio – Natura*
Non potevo augurare al mio libro destino migliore: accolto da Fulvio Tessitore nella prestigiosa Collana di “Studi Vichiani” con una Introduzione che è un esempio di generosa comprensione ermeneutica e rigoroso distacco critico, è stato discusso da storici illustri della filosofia, e vicologi espertissimi – da Giuseppe Cacciatore a Manuela Sanna ed Enrico Nuzzo –, e da filosofi della levatura di Carlo Sini e Massimo Cacciari. Grande la mia gratitudine; non meno, lo confesso, l’imbarazzo. Come corrispondere alla loro attenzione critica, giovandomi degli spunti di lettura che le loro puntuali analisi critiche mi hanno offerto?1 Ho scelto di ripartire da Vico, annodando intorno al tema centrale del linguaggio – «la favella essendo come posta in mezzo alla mente e al corpo», alla storia e alla natura – alcune riflessioni che riprendono i punti più discussi della mia interpretazione. Muovo dalla Dipintura allegorica, che mi appare essere la risposta di Vico alla crisi del linguaggio del suo tempo, la lingua “pistolare”, riassumibile, questa crisi, nella perdita della
* Intervento al Seminario svoltosi al Centro vichiano di Napoli – 27/10/2008 – in occasione della presentazione del libro SLN.
196
“figuratività”. La “genericità” della lingua “colta”, la sua “astrattezza” ha portato all’estremo la separazione tra parole e cose, pensiero e vita, logica e storia. E non si tratta di un “incidente” di percorso, ma di una necessità iscritta nella storia ideale eterna, nel “dovette, deve, dovrà” che la caratterizza (“il processo astrattivo – per dirla con Manuela Sanna – nasce da un vicium della mente umana, da un difetto, da una mancanza strutturale”). Per far fronte a questa crisi, e cioè: per dare a questa storia, anzitutto a questa storia “noumenica”, concretezza “schematica”, mostrando la sua immanenza nel tempo storico, Vico ha introdotto la Scienza Nuova con questa “idea”: la Dipintura. Il linguaggio figurale della Dipintura permette di osservare uno ictu le due direzioni della storia ideale eterna. Quella dall’alto al basso, da Dio alla fanciulla alata, da questa alla statua di Omero e ai segni vari della storia umana, sino all’urna funeraria posta al confine dell’ingens sylva; e l’opposta, dal basso all’alto, dalla storia che si svolge in tempo alla luce del raggio divino che la guida e sostiene, sino alla sua fonte: l’occhio racchiuso nella forma geometrica perfetta, il triangolo. Due direzioni della storia, che sono un’unica e medesima, la prima rappresentando la dimensione profonda e nascosta – “inconscia” – della seconda, della storia apparente, della storia che appare nei segni, nei simboli, nelle istituzioni degli uomini. Chiaramente la Dipintura non risolve il problema, perché se dà le due direzioni-dimensioni del movimento, non dà però il movimento stesso – questo è affidato alla voce: all’articolato discorso che es-plica, svolge in tempo quello che nel dipinto ha la fissità dello spazio. La voce, portando a parola l’immagine, le dà movimento, tempo. Ma la connessione originaria di parola e gesto, che nella lingua eroica è affidata alla potenza della passione – così Vico “legge” l’unità di phoné, schêma e chrôma del Cratilo platonico –, non trova nella Scienza nuova un corrispondente. Non può trovarlo. Per due ragioni: l’una interna alla “logica” del discorso vichiano, l’altra esterna, riguardando
197
il più ampio ambito del rapporto di Vico col suo tempo. Quella interna è rappresentata dalla mancata mediazione, tentata da Vico nel De antiquissima, tra la perfecta quiete di Dio e l’agire dell’uomo, che si riverbera nella separazione tra il genitum e il factum. Sulla centralità del De antiquissima nella mia interpretazione dell’evoluzione del pensiero di Vico hanno richiamato l’attenzione, da prospettive diverse, sia Cacciari che Manuela Sanna: è un punto su cui mi sembra opportuno soffermarmi ancora. La mancata mediazione non va presa come inopia di pensiero; ben al contrario: evidenzia l’acume di Vico, e la sua gran libertà di pensiero: lui, cristiano e cattolico, denuncia l’impossibilità della conciliazione trinitaria, l’impossibilità di tenere insieme l’aídion del Padre e l’eikón del Figlio: la mente umana – scrive – «finita et formata […] indefinita et informia intelligere non potest». Il neoplatonismo, il “neo-plotinismo” (come precisava Mathieu) di Vico si manifesta qui potentemente: non c’è passaggio da Hén a Noûs. Portato il problema nell’orizzonte della comprensione della storia, la mancata mediazione trinitaria dice: non c’è passaggio dalla storia ideale eterna alle storie che corrono in tempo. Tra la Dipintura che immobilizza in “figure” la Storia e il movimento delle umane storie – di cultura della terra e fondazioni di Città, di commerci, guerre, navigazioni… – non c’è “legame”. Le “due” storie restano divise. Restano divise conoscenza della storia e storia, voce e gesto, parola e azione. Vico non se lo nasconde affatto: la Scienza Nuova – ne testimonia il continuo lavoro di revisione a cui Vico sottopose l’opera – vive di questa scissione. Qui la profonda relazione di Vico col suo tempo, la Neuzeit, la cui “cifra” è la scissione. Che il conatus – in Vico come in Spinoza (una relazione dai molti aspetti, che qui posso appena “citare”) – non aufhebt, non “toglie”. Cacciari ha giustamente insistito su questo punto, mostrando la profondità e l’estensione della scissione che dal linguaggio s’espande al conoscere e all’agire, mostrando la consapevolezza tutta “moderna” dell’“impotenza” di
198
entrambi (felicissimo l’accenno al “mancato incontro” di Vico con Shakespeare!). In questa prospettiva l’interpretazione del mondo moderno fondato sul “soggetto assoluto”, Io o Ragione che sia – interpretazione che vanta nobile origine, Hegel, e un’eletta storia, da Heidegger a Blumenberg – non può non essere respinta come unilaterale, dacché per Cartesio dimentica Cervantes, oltre al già citato Shakespeare, o, peggio, come superficiale, se ancora si criticano Kant e Husserl per il loro “presunto” soggettivismo. È su questo ampio terreno della valutazione complessiva del moderno che va portata e discussa l’interpretazione storicistica di Vico data da Tessitore e quella umanistica prospettata da Cacciatore. La domanda che pongo è questa: è possibile – per Vico, beninteso – superare la scissione, o questa è iscritta nella struttura stessa della storia, nella costituzione della sua mathesis universalis? Per me è e resta fondamentale per la comprensione del moderno e di Vico, di Vico e del moderno, la consapevolezza dell’impotenza del linguaggio che dovrebbe narrare la storia; dell’impotenza del conoscere a comprendere l’agire e dell’agire a “fare” storia. Muovendo da questo nodo di problemi – che trovo riassunti ed evidenziati nella distinzione vichiana di genitum e factum – la mia lettura vichiana sfocia in una riflessione sul Sacro. Cacciatore mi chiede – non mi nascondo la portata della sua domanda-obiezione – se il problema del Sacro (del Sacro, non di Dio, immagine umana del Sacro) sia problema anche per Vico. Certamente, rispondo, se il problema della scissione, in primis della scissione tra eternità e tempo, è il problema del moderno – come reputo che sia. Il problema del Sacro ripropone su altro livello la questione dell’ingens sylva. Non più solo selva primigenia da cui è sorto il mondo storico – per un salto: il salto che separa la «confusione de’ semi umani», del tempo-non-tempo in cui «gli uomini nell’infame comunione non avevano propie forme d’uomini», dal minuere costitutivo della storia e della cultura –, l’ingens
199
sylva è ora l’inconscio della storia, die lichtscheue Macht, per dirla con Hegel, «la potenza che ha in orrore la luce», che è costante minaccia della storia, sempre in pericolo di ricadere non nella barbarie da cui si risorge, ma in quella che spegne la storia stessa, il tempo sempre incerto degli uomini. «Viene da chiedersi – scrive Cacciari – quali frutti avrebbe potuto trarre Heidegger dalla conoscenza di questo Vico…». Una minore “fiducia” nell’Evento che dona, direi, e sovrattutto una più ferma meditazione sul Sacro, Grazia (Gnade) e Furia (Grimm) insieme. Sul Sacro, che nelle Baccanti di Euripide ha l’umana figura di Dioniso: theòs mégas, grande dio terreno-celeste, deinótatos antrópoisi d’epiótatos, il più tremendo e il più mite verso gli uomini. Primos in orbe deos fecit timor – Vico cita Stazio nel descrivere l’empia pietas delle prime religioni. Non a caso per parlare del Sacro si ricorre al linguaggio dei poe ti. Perché il linguaggio della riflessione non sa più dire il Sacro. La lingua “pistolare” rende “oggetto” quel che nomina; eppure la mathesis universalis della storia non ha altro linguaggio che questo. In tal modo, questa la mia conclusione, l’intera storia viene schiacciata, appiattita sull’ultima età. Sini contesta questa affermazione con un argomento forte (in queste pagine solo accennato, in altre variamente articolato): le età degli dèi e degli eroi – obietta – non sono meno interne alla mathesis universalis dell’ultima età; sono pur esse “figure” della mathesis. Parimenti la lingua eroica non è che una “lingua” compresa nella lingua della mathesis. Talché, postulare una lingua eroica “esterna” alla mathesis rappresenta un inconsapevole cedimento al “rea lismo gnoseologico”. Non posso certo difendermi dall’accusa citando quel passo di Vico che si legge nella Scienza Nuova del ’25 e nelle due successive, ove Vico a chiare lettere afferma che della prima età «intendere appena si può, affatto immaginar non si può»; e non posso, perché la quaestio sollevata da Sini è di diritto e non di fatto. Replico, allora, chiedendo: se la mathesis universalis di Vico, la “scienza nuova” (non il testo, ma
200
la sua “materia”), è una forma di sapere e una “pratica” di vita tra le altre, quelle che contraddistinguono la nostra moderna scrittura storica, della quale sono “figure” la lingua degli dèi e quella degli eroi (non ripropongo qui il problema della loro incerta distinguibilità), in qual modo è possibile conoscere le altre forme di sapere e le altre pratiche di vita? Sempre solo dall’interno delle nostre? Ma già distinguere la nostra pratica da altre, la nostra forma di vita dalle altre, non esige che in qualche modo noi ci si “sporga”, o addirittura che noi si sia già sporti, “fuori” della nostra Lebensform? Questo il problema di Vico – e ora che s’è replicato all’obiezione sulla quaestio de jure, possiamo tornare al “fatto”, parlando di lui –, questo il problema che ha portato Vico dall’interpretazione del mito come sapienza riposta (De antiquissima) alla concezione che «le prime favole furon istorie» (Scienza nuova). A questo mutamento corrispose una trasformazione del linguaggio vichiano. Per parlare dell’età eroica, dell’età del mito, nell’età e dall’età della riflessione, Vico “mima” il linguaggio della “cosa” da dire, del mito, tenta il mythologeîn, l’unione di mito e ragione – progetto che verrà ripreso dagli idealisti tedeschi, pur essi tentati dalla Mythologie der Vernunft. Su questo punto la lettura vichiana di Enrico Nuzzo diverge radicalmente dalla mia. Egli scorge in Vico un’interpretazione razionale – non razionalistica, ma la distinzione è sottilissima – del mito. Credo che così si perda il senso più profondo della scrittura barocca di Vico: philosophia exercita, non tantum locuta. Perciò Vico nel Novecento ha parlato non solo nella lingua dei filosofi e degli storici, sì anche, e forse al livello più alto, come ci ricorda Cacciari, nella lingua “nuova” dei poeti “nuovi”, di Joyce e di Beckett. Un ultimo punto voglio segnare, in questa nota che sta diventando sin troppo lunga: riguarda la critica che Tessitore mi muove nell’Introduzione riguardo al “senso comune”, tema poco presente nella mia lettura. Ha ragione. È un “vuoto” che posso spiegare, a posteriori, col fatto che nella mia lettura la
201
“genealogia” della storia ha il sopravvento sulla storia. Questa spiegazione non toglie il “buco”, mi pone anzi il problema di darne un’esplicazione genealogica: fuor dalle formule definitorie, si tratta, per me, di spiegare come dalla singolarità preumana dei bestioni, la costituzione delle famiglie, delle tribù, delle Città1… Resta fondamentale, per chi scrive, quanto Vico dice al § 377 della terza Scienza nuova, parlando dei Giganti, dei Terrae filii: «alzarono gli occhi e avvertirono il Cielo». Avvertirono, non videro. Il loro animo fu perturbato e commosso. Turbato e mosso dal fulmine che illuminò per un attimo la Notte celeste, e dal tuono che fece tremare la terra. L’avvertire sorge per un evento esterno, fulmine e tuono, la lingua naturale di Zeus. Da questa lingua i pii bestioni appresero a parlare. Altro grande insegnamento vichiano: la storia non nasce ex sese, né cresce su se stessa, sorge e muta per accadimenti “esterni”. E anche finisce? I due estremi, ghénesis e phtorá, nascita e morte, talora si “toccano”: nella Dipintura il raggio divino confina con la tenebra. Nulla di più, sul tema, è lecito dire. E, forse, non solo “commentando” Vico.
1. Posso dire, oggi, che il saggio: Le “parole reali” di Idantura (cfr. supra, B, I, pp. 95-105) ha alla sua origine proprio l’obiezione di Tessitore.
203
II Le tre edizioni della Scienza nuova*
«È auspicabile che si aprano, tra filosofi e storici, nuove tensioni. Perché non si tratta di effettuare matrimoni. I programmi in competizione sono preferibili alle metodologie normative e nei singoli settori della ricerca e nei rapporti fra i diversi settori della ricerca». 1 (Paolo Rossi, I segni del tempo)
È arduo prendere la parola a conclusione di questo Seminario, dopo gli interventi di così autorevoli studiosi del pensiero di Vico e non soltanto di Vico. Cercherò di dire qualcosa sull’intenzione che mi ha guidato nell’assumere la curatela, insieme con Manuela Sanna, di questa nuova edizione delle tre Scienze nuove per la Collana dei “Classici del Pensiero Occidentale” della Bompiani. “Nuova edizione”, perché già nel 2000, come è stato opportunamente ricordato, Fulvio Tessitore, affiancato anch’egli da Manuela Sanna, sua allieva, aveva pubblicato le tre versioni dell’opera vichiana in un volume unico, che comprendeva altresì l’Autobiografia, il De antiquissima e la Sinopsi del Diritto universale.
* Intervento al Seminario organizzato presso il SUM di Napoli – 15/02/2013 – sull’edizione Bompiani delle tre SN: 1725, 1730, 1744.
204
Invero quando proposi a Giovanni Reale, allora mio Collega alla Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, la pubblicazione della Scienza nuova nella Collana da lui diretta, pensavo unicamente all’ultima versione, quella che Vico non ebbe la fortuna di vedere a stampa. A tale impresa mi spingeva il convincimento che Giambattista Vico non ha nel dibattito filosofico e politico attuale il ruolo che merita, nonostante l’interesse che il suo pensiero ha suscitato e continua a suscitare ben oltre i confini della cultura europea. La sua riconosciuta classicità è come piegata sul passato. Vico – dissi a Reale – non ha nel mondo contemporaneo la stessa presenza di Hegel e di Kant. E questo è un danno per tutti noi, perché il pensiero vichiano può insegnarci ancora molto riguardo non solo alla comprensione storica della nostra tradizione, ma anche, se non sovrattutto, all’approfondimento teorico dei problemi del nostro tempo: sulla “scissione” del rapporto potere-sapere, sul tramonto della teologia politica e più in profondità del tempo “storico”, sulla crisi del linguaggio, o, meglio, dei linguaggi, insomma su ciò che siamo soliti definire sommariamente “nichilismo”; a non dire del rapporto corpo-mente, che Vico spiega genealogicamente, ben oltre la prospettiva scientista oggi prevalente. Reale accolse la mia proposta con entusiasmo, prospettandomi l’idea di pubblicare tutt’e tre le versioni della Scienza nuova in un unico volume. Presi tempo; il lavoro richiedeva competenze filologiche che io non avevo. Gli dissi che mi sarei rivolto a un’esperta vicologa, Manuela Sanna, appunto, già curatrice dell’edizione critica della seconda Scienza nuova: se accetterà di partecipare all’impresa, ci metteremo subito al lavoro; ma ci vorranno – precisai – almeno tre anni per portarlo a termine. Manuela accolse l’invito di buon grado. Insieme ne parlammo con Tessitore, che con grande generosità mise a nostra disposizione il lavoro già compiuto da lui anni prima; ne è traccia la sua firma nelle presentazioni delle tre edizioni della Scienza nuova. Sanna ed io abbiamo lavorato in perfetto accordo sin dall’ini-
205
zio. Nel distribuirci i compiti a me toccò l’Introduzione generale all’opera e quella particolare alla prima Scienza nuova, a lei l’Introduzione alle due versioni successive del ’30 e del ’44, la storia della “fortuna di Vico”, la Biografia e la Bibliografia. Il primo confronto fu sulle Introduzioni alle singole edizioni. E fu positivo. V’era differenza di prospettiva e prim’ancora di “stile” di scrittura, ma non contrasto. Passo ora a dire della mia Introduzione generale, cercando di corrispondere ad alcune delle critiche che mi sono state mosse. Non a tutte, ché non posso e non voglio abusare dell’ospitalità del «Bollettino»: a quelle, preciso, che mi permettono di meglio chiarire l’impostazione del saggio, e quindi il mio interesse per Vico, che non è storico, pur essendo legato indissolubilmente alla storia. Nulla è più lontano da me di una teoresi che non sia nutrita di storia e non sia costantemente volta alla comprensione della storia; nulla, se non la riduzione della filosofia a “sapere storico”. Altro è comprendere la storia nell’orizzonte della filosofia – come ha fatto genialmente Vico, inimitabile modello, ma modello –, altro comprendere la filosofia nell’orizzonte della storia, come peraltro anche la comprensione filosofica della storia esige. Resta fermo, però, che l’orizzonte storico della filosofia è altro dall’orizzonte storico della storiografia. Questa distinzione mi permette di chiarire il titolo che ho dato al Saggio introduttivo: Vico nel suo tempo. Chiaramente il tempo, a cui faccio riferimento, non è quello della Napoli tra fine ’600 e prima metà del ’700, in cui visse il filosofo. È anzitutto il tempo in cui matura la filosofia di Vico, la Neuzeit, l’età moderna; è poi il più ampio tempo nel quale la stessa Neuzeit va inclusa per essere “compresa”; infine è il tempo di Vico, il tempo che Vico ha pensato nel suo originarsi, e che spiega anche il sorgere del tempo “oggettivo”, o “tempo del mondo”, in cui tutto accade: la nascita di Cristo come l’implosione di una stella. Tempo “universale”, che riteniamo essere l’unico “reale”, forse
206
perché in esso, non a caso detto “oggettivo”, scompare ogni distinzione, anche quella tra natura e storia, secondo la formula crociana della «natura come storia senza storia da noi scritta»! Il tempo in cui matura la filosofia di Vico: il tempo della scienza moderna, il tempo di Galilei e Descartes – certamente; ma non solo. È anche il tempo di Cervantes – e sono grato a de Giovanni, a Lomonaco e a Carillo, che, da prospettive diverse, hanno dato rilievo a questa “presenza” nel mio Saggio introduttivo. La storia dell’ingenioso hidalgo, infatti, è la rappresentazione “tragica” – tutta giocata, com’è, su un’ironia che, nulla risparmiando del mondo, alla fine si piega spietatamente su se stessa – del moderno; è la rappresentazione tragica della Neuzeit, in costante lotta con la scissione che la dilania, la scissione tra sapere e potere. Galilei e Descartes sono i più alti tentativi della scienza moderna di superare tale scissione. Vico ne è attratto e insieme respinto. Il De ratione vive di questa tensione. Cosa trova inaccettabile di questi «architetti di un edificio immenso»? L’astrattezza, il venir meno della corpulentissima materia del mondo (rilevo qui che la critica vichiana coinvolge anche Bacone – suo “auttore”). E tuttavia il loro metodo lo attrae. Il rapporto topica/critica, nel capitolo più importante dell’opera, l’XI, dedicato al diritto e alla giurisprudenza di Roma antica, non senza riferimento all’età moderna, si inverte: è la critica che prevale sulla topica, la Legge sull’equità, più in generale: la ragione sull’esperienza. Di qui l’elogio dei «i giureconsulti antichi [che], a differenza dei moderni, adattavano non le leggi ai fatti, ma i fatti alle leggi». Vico trova nell’antico – nei giuristi romani dell’età pre-imperiale – la forma logica propria della scienza moderna: il giudizio di sussunzione del soggetto sotto predicati, la forma “pura” della mathesis universalis. Questo, ovviamente, riduce di molto l’opposizione, tanto esaltata, di Vico a Descartes. Non solo: se per un verso mostra la totale partecipazione di Vico al suo tempo storico – la geniale scoperta della «storia ideal’ eterna», nella quale soltanto, «i
207
grandi frantumi dell’Antichità [… che] erano giaciuti squallidi, tronchi, e slogati» possono divenire fatti storici, è l’estensione della mathesis universalis all’universo della storia –, per l’altro amplia l’orizzonte storico sino a comprendere nel dibattito della scienza moderna le due “opposte” logiche di Platone e di Aristotele: quella retta dal principio del metéchein, della partecipazione dei generi, questa dall’opposto dello hypárchein, dell’appartenenza dei predicati al soggetto – che sono le prime rigorose formulazioni delle due logiche del giudizio di inerenza (del predicato al soggetto) e del giudizio di sussunzione (del soggetto sotto predicati). Enrico Nuzzo si ribella. L’interpretazione di Vitiello – obietta – sovraccarica, come sempre accade con le letture “speculative” della storia della filosofia (e, penso, non solo della filosofia), di sue proprie intenzioni e convinzioni l’autore studiato. Nonché piegarsi lui alle domande e alle soluzioni di Vico, impone le sue a Vico. Una critica, questa, che anche Cacciatore mi muove, con minor impeto e maggiore ironia. Non sono insensibile alle loro critiche, rivelatrici, peraltro, di una partecipazione sincera, “vera” alle mie ricerche. Mi chiedo, però, se si dà storia al di fuori di un orizzonte interpretativo, che certo non è mai “neutro”. Debbo ricordare loro da dove parlano? Il loro “storicismo umanologico”? Ho grande rispetto per le interpretazioni vichiane di Piovani. Reputo il suo saggio Ex legislatione philosophia un classico della letteratura vichiana, che pure ho criticamente discusso. Ma dal “pluralismo delle interpretazioni” non si esce; problematico è, però, decidere quale interpretazione riesce meglio a cogliere e rappresentare la viva mobilità del corso storico, e quale visione storica penetri più a fondo nel mondo storico. A tal fine ritengo di poter ben difendere il mio “schema teorico”, mostrando come le due “logiche” dell’inerenza e della sussunzione si incontrano, si contrastano, si intrecciano in forme sempre diverse lungo l’intero arco della storia del pensiero, filosofico e scientifico (nel Saggio introduttivo mi soffer-
208
mo su Spinoza e Leibniz, Kant e Hegel). E quanto al secondo punto, la mia “topologia”, proprio in quanto privilegia la concezione stratificata del tempo storico sulla visione orizzontale e unilineare, mi appare più vicina alla concezione vichiana della storia che non lo storicismo, pur nella sua versione “critica”. Vi sono nello stesso tempo molti tempi: quello che a Kant appariva assurdo (ungereimt) è esperienza effettiva di analisti della storia, e non di filosofi “speculativi” – e non credo sia necessario chiamare in causa Kosellek o Braudel. In ogni caso è su questo più ampio terreno “storico” che va esaminato quanto ho detto sui rapporti di Vico con Platone e il neoplatonismo, Plotino e Agostino, il linguaggio e il mito, e infine sul “barocco” della scrittura vichiana. Barocca com’era barocco Carlo Emilio Gadda, gran lettore di Vico – che protestava: «Barocco non è il Gadda. Barocco è il mondo» –; barocca come barocchi definiva i suoi “buchi” Lucio Fontana. Di qui la mia estensione della problematica vichiana ai già citati Kant e Hegel, e poi a Nietzsche, a Heidegger, a Husserl, a Benjamin. Su questo ampliamento dell’orizzonte storico al presente, Fulvio Tessitore, ancora di recente per lettera, mi ha manifestato il suo disaccordo, obiettando che io proietto “la genialità di Vico in avanti”, quasi “avesse bisogno di verifiche”. Invero la mia proiezione del pensiero vichiano in avanti non ha lo scopo di verificarne la genialità, non foss’altro perché tale proiezione sulla genialità di Vico si basa, e di essa vorrebbe che il presente potesse valersi, e non solo per capire con più ampia consapevolezza storica il proprio passato, ma per poter con più profonda coscienza del tempo aprirsi al futuro. E qui tocco l’ultimo punto: il tempo di Vico. Ne tratto nell’ultima sezione del capitolo III del Saggio introduttivo, cui ho dato il titolo – intenzionalmente ripreso da Capograssi – di Prospezioni vichiane. Già in precedenti lavori mi ero soffermato sul “limite” del concetto vichiano di mathesis universalis, il cui linguaggio, fatto di segni e non di “parole reali”, impe-
209
disce la “comprensione” del mondo “eroico”. Limite non da altri denunciato che da Vico stesso, e sin nella prima Scienza nuova. Nell’ultima edizione, ritornando sul tema, ribadisce la difficoltà di «discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani; le quali ci è affatto niegato d’immaginare, e solamente a gran pena ci [è] permesso d’intendere». Ora cos’è questo intendere senza immagine se non un’alterazione del “certo” ad opera del “vero”? Il riconoscimento vichiano del limite della mathesis universalis rimetteva in giuoco il rapporto topica/critica, certo/vero. Fulvio Tessitore – mi sia concesso un ulteriore riferimento fuor delle mura di questo Seminario –, chiudendo la sua Prefazione al mio Vico. Storia, Linguaggio, Natura, mi poneva criticamente questa domanda: “E allora: certum pars veri o verum pars certi?”. Rispondo, oggi: né certum pars veri, né verum pars certi, bensì verum pars facti, intendendo con ciò che il factum, il factum veri, il fatto della verità, è oltre la verità. E di una oltranza che resta tale, ancorché non altrove sia “esperibile” che nel vero. La mathesis non è abbandonata: è pur sempre l’orizzonte indispensabile a che i grandi frantumi dell’Antichità non restino tronchi e slogati. Ma questo ordine mathematico – ovvero: questo orizzonte di comprensione dei fatti – non inerisce ai fatti, ma li investe. I fatti sono storici non per sé, ma per l’ordine che li rende tali. È giusto, quindi, affermare che è la storio-grafia che fa la storia (affermazione, voglio qui ricordare, che si legge nelle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel!), a condizione però che si tenga distinto il fatto dal certo. Il sum dal cogito. Per dirla col linguaggio di Vico: verum et factum NON convertuntur! Conclusione che apparentemente mette Vico contro Vico, che non solo nel De antiquissima, sì anche nella Scienza nuova ha posto come principio del conoscere il verare facere. Apparentemente – dico –, dacché non si considera la distinzione tra fatto e certo che Vico, non altri che Vico, ha posto delimitando l’orizzonte della moderna scienza della storia, della scienza nuova, della scienza della Neuzeit,
210
alla quale è affatto niegato d’immaginare, e a gran pena le è permesso di intendere ciò che è fuori del suo ambito “linguistico”. Il vero pone il certo – il certo come se stesso: verum et certum idem –, non il fatto. Neppure quel fatto che esso stesso è. Per dirla con Hegel – e il riferimento alla Fenomenologia dello spirito cade a proposito – l’identità dell’esperienza della coscienza (il fatto) con la coscienza dell’esperienza (il vero) si dà soltanto nel reines Zusehen, nel «puro stare a vedere» che è proprio del concetto che si sa come concetto, ovvero: dello spirito assoluto. Nel tempo della storia factum, il factum veri, e verum restano divisi. In questa prospettiva, che rovescia il rapporto tra la storia ideale eterna e le storie che corrono in tempo – tra hóra e nŷn nei termini giovannei –, muta la stessa concezione del tempo. Il tempo di Vico è nel significato più proprio della parola, apocalittico: tempo della rivelazione del tempo come possibilità sempre possibile, mai certa, mai secura. La storia pensata non come luogo del possibile, ma come la possibilità stessa. In quanto tale il tempo storico è finito nel senso che può finire. Il ricorso vichiano non ha nulla dell’eter no ritorno: l’ingens sylva – questo il fatto irriducibile alla storia e al vero! – è minaccia costante e insuperabile, perché è la materia stessa della storia, quella materia informe, ingorda di forme, da cui la storio-grafia, la scrittura della storia, si allontana educandola, imponendole una “forma”, volta a volta una e singolare. «LE TENEBRE NEL FONDO DELLA DIPINTURA sono la materia di questa Scienza incerta, informe, oscura…». Di qui la conclusione di Vico, con cui chiudo anche la mia Introduzione: «questa Scienza porta indivisibilmente seco lo Studio della Pietà; e […] se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio». La “morale” – in senso rigorosamente kantiano – oltre la storia, perché si possa vivere, com’è nostro destino d’uomini, nella storia. Riservo la conclusione di questa nota a Biagio de Giovanni – se ne capirà la ragione. Nell’intervento al Seminario, e in forma
211
più distesa e dettagliata nell’articolo Vico e intorno a Vico apparso su «L’Acropoli» (n. 2, 2013, pp. 120-127), de Giovanni si è soffermato in particolare sul ruolo centrale che il rapporto Vico-Spinoza ha nella mia interpretazione, sia riguardo allo stretto legame che entrambi i filosofi ebbero con la tradizione neoplatonica, plotiniana in particolare, pur nella diversità delle loro “letture”, che riguardo alle due linee di sviluppo del pensiero filosofico moderno, l’una che va da Cartesio a Kant, l’altra che congiunge Spinoza a Hegel. Prodigo di generosi apprezzamenti, egli ha accuratamente segnato la distanza che divide la sua interpretazione dalla mia, non solo e non tanto riguardo ai singoli autori, quanto all’interpretazione generale dell’età moderna. Infatti, muovendo dallo stesso concetto del moderno come crisi, conseguente alla scissione del sapere dal potere, giungiamo a conclusioni opposte: per lui la scissione sapere/potere è fonte di continui superamenti, parziali, incerti, riusciti, mancati, rinnovati e rinnovabili; per me invece è phýsei insuperabile, inoltrepassabile, essendo il limite del sapere e del volere. Sostenitori entrambi del finito, de Giovanni non rifugge dall’idea spinoziana e hegeliana dell’infinito come luogo in cui il finito vive e muore, gioisce e patisce, ama, odia, lotta, cade e risorge, quando risorge… Perciò alla conclusione del mio saggio che riprende quella, poco sopra riportata, della Scienza nuova, e più in generale alla svolta morale della mia “topologia” oppone: «Hegel potrebbe richiamare forse il destino dell’anima bella, la sua volontà di non appartenere al mondo». Se non mi riconosco nella critica, perché proprio nell’avvertire che non sono del mondo, sento di essere nel mondo, capisco, però, il senso più profondo della distanza che ci separa. Che non so esprimere meglio che con un ricordo. Questo: giovanissimo lessi quel pensiero di Fichte – cito a memoria – secondo cui ciascuno ha la filosofia che corrisponde al suo carattere. Ne rimasi inorridito. La filosofia ridotta a epifenomeno della psiche o del corpo – fa lo stesso. Vecchio, inclino a credere avesse ragione.
213
Intervista immaginaria a Giambattista Vico
Sono alla porta del Castello. Mi riceve un anziano signore, dai modi cortesi e un po’ antiquati; porta il bastone, ma non per appoggiarsi, piuttosto per saggiare il terreno su cui poggia il piede, non troppo fidandosi degli occhi. La sua voce non ha accento, come di chi è abituato a cambiar tonalità e ritmo, dovendo esprimersi in molte lingue, a seconda degli ospiti e dei visitatori. Mi dice che il Castello, di cui è Direttore, è come una grande biblioteca, solo che non ha libri, ma Autori. Le loro stanze sono disposte lungo interminabili corridoi, e su diversi piani secondo una logica, che ancora non ha compreso, ma che pure dev’esserci. Mi accompagna all’appartamento di Giambattista Vico, ricordandomi, in modo cortese e deciso insieme, che il tempo concesso per l’intervista va rigorosamente rispettato. «È la regola del Castello» – dice rapidamente, prima di eclissarsi. Sono faccia a faccia col grande filosofo. Interrogante – Maestro, la ringrazio per la sua cortese disponibilità a concedermi questa intervista, a destinarmi parte del suo tempo…
214
Vico – Oh, di tempo ne ho quanto voglio; qui, al Castello, è proprio la cosa che non manca. Ne ho, ne hanno tutti quelli che l’abitano, per l’eternità… Ma non perdiamoci in inutili preliminari. A qual fine la sua “intervista”? Cosa vuol sapere che già non risulti dai miei scritti? I – Molto, in verità, perché proprio quello che ha scritto ha dato origine a un’infinità di interpretazioni, spesso opposte. In particolare, oggi che le sue opere sono tradotte, oltreché nelle lingue europee, e non solo le più diffuse, anche in ebraico e in cinese. La sua bibliografia è sterminata. V – Sì, anche fin quassù, è giunta voce di questo interesse… Mah! I – Non mi dica che la cosa non la rallegra. V – Ne avrei goduto quando vivevo nel mondo, nell’intrico di passioni, gioie, dolori, soddisfazioni e delusioni, tante delusioni, troppe. Qui, al Castello, la cosa mi è indifferente… I – Vedo, però, che ha davanti a sé una montagna di note, appunti… V – E che vuole che faccia? Continuo a meditare sulla Scienza Nuova, a fare aggiunte e correzioni. I – Un lavoro senza fine. Lo si intuiva. Lei ha scritto e riscritto la sua opera. V – Un filosofo del suo tempo, del Novecento, ha detto che si pensa sempre e solo un unico pensiero. Non posso dire lo stesso di me, avendo nutrito interessi diversi, dalla filologia al diritto, al linguaggio, al mito – ma, certo, ho avuto anch’io un pensiero dominante. No, non un unico pensiero, un pensiero dominante, intorno al quale gli altri si raccoglievano. A partire da una certa data, almeno. I – Dagli anni di elaborazione del Diritto universale?
215
V – Nell’Autobiografia ho forse anticipato i tempi. Ma credo lei abbia ragione. Il Diritto universale segna un momento importante nella mia evoluzione. I – Ma allora è vero quanto molti suoi interpreti sostengono, e cioè che la sua filosofia ha abbandonato lo studio della natura per volgersi esclusivamente al mondo degli uomini, alla storia? Come Socrate che dopo un iniziale interesse per la dottrina di Anassagora, deluso dalle indagini sulla natura, si volse al mondo degli uomini… V – No, il paragone non regge. Le due situazioni sono incomparabili. Io non ho abbandonato la fisica per la storia. Ho fatto un’operazione affatto diversa, conforme alle esigenze del mio tempo. I filosofi e gli scienziati del mio tempo, Galilei non meno di Descartes, in modi e forme diverse, erano, pressoché tutti, consapevoli che il “realismo” della scienza era un realismo “generico”, giungeva al “genere” non al singolo, coglieva il tipo non l’individuo. E questo non per una “mancanza” del sapere “fisico”, ma per la sua stessa struttura. Questo spiega il “platonismo” che ha caratterizzato la scienza moderna, e non soltanto nella sua fase iniziale. La logica della scienza moderna, della scienza fisica, sorge come reazione all’aristotelismo scolastico, meglio alla logica aristotelica. Per dirla brevemente, alla logica dell’inerenza si sostituisce la logica della sussunzione. I – Che significa questo? Vuole spiegarsi con un esempio? V – Significa quello che a partire da Galilei si è imposto nella coscienza dell’operare scientifico, e cioè che i concetti sommi con cui giudichiamo, conosciamo, le cose, quelli che chiamiamo categorie o predicati del giudizio, non ineriscono alle cose, ma sono essi che nella loro connessione determinano l’essere delle cose. Per fare un esempio, come lei mi chiede: non il movimento appartiene alla cosa, ma la cosa al movimento, cioè alla relazione che diciamo movimento. La pietra si muove – anche
216
quel gran sasso che è il nostro pianeta – per la forza di gravitazione, ovvero perché un corpo l’attrae. Ma appunto questa logica della sussunzione – riportabile a quanto Platone dice nel Sofista sulla partecipazione (metéchein) – spiega insieme la pietra che cade e la Terra che gira intorno al Sole. La medesima legge vale per fenomeni tra loro molto diversi, e pertanto non può coglierne la specificità. La legge spiega la relazione, non i termini della relazione. I – Eppure nel De antiquissima lei ha cercato di tenere insieme le due logiche, di mediarle. Perché, se è propria del solo operare divino la logica dell’inerenza: Dio è il “soggetto” che ha in sé tutte le “forme”, “da cui le cose sono”, laddove l’uomo non può che operare dall’esterno sulle cose, componendole, mettendole in ordine; tuttavia, quando l’uomo opera seguendo le idee platoniche – le forme – e non gli astratti, inerti universali aristotelici, il suo agire s’approssima all’operare divino. Comporre le cose, metterle insieme in quella che lei definisce pulchra proportio, fa dell’uomo molto più che «il Dio delle cose artificiali» – come lei anche afferma. La potenza del vero, del vero eterno, dirà nel De uno, è presente anche nell’“uomo corrotto”. Dio nell’uomo. V – Lei ha colto un problema su cui mi sono a lungo travagliato. E non ero solo. Questo problema è stato la crux del pensiero moderno. Ma anche il segno della sua grandezza. Perché il moderno non è stato grande per aver affermato – come nel secolo in cui lei è nato si è detto e ripetuto – il primato della ragione universale, e del soggetto fondamento assoluto e inaggirabile del sapere del mondo e del mondo stesso. No, non per questo, ma perché ha di continuo messo in crisi se stesso. Modernità e crisi sono tutt’uno. La mia filosofia partecipa di questa crisi totalmente. Ho scritto e riscritto continuamente la mia opera fondamentale: qualcuno ne ha contato le redazioni, salendo a nove, qualche altro a dieci. E hanno ragione. Di
217
fatto la Scienza Nuova è un’opera in fieri. Raccolgo ancor qui le mie Note e Aggiunte e Revisioni … Ma non divaghiamo, il nostro tema era… I – Il “passaggio” dalla fisica alla storia. Per citarla: quanta più realità «hanno gli ordini d’intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie, e figure». V – Non nego certo questa mia affermazione, è però necessario capire come ci sono arrivato. Anche in relazione a quanto sin qui detto. I – La seguo. V – Dunque, nel momento in cui divenni consapevole che la scienza moderna, seguendo il principio della logica di sussunzione, coglieva il generico, la trama delle relazioni che intessono la realtà delle cose, ma non le cose nella loro singola, specifica singolarità, questa e non altra, mi chiesi dove dovevo rivolgermi per cogliere la “realtà” del singolo, il suo essere. Ripetetti l’operazione già compiuta da Descartes. Anch’io operai un’inversione del cammino, e dall’oggetto osservato passai al soggetto osservatore. I – Ma, scusi, non è stato proprio lei a contestare l’inizio della filosofia cartesiana, a criticare l’ego cogito? E con asprezza senza pari, paragonando il cogito al sapere dell’incolto Sosia plautino? V – Non ritratto la critica che mossi al Signor Delle Carte. La invito, però, a esercitare la principale virtù del filosofo: la pazienza. Lei non deve aver fretta, ma seguire con calma tutti i vari passaggi del mio ragionamento. A meno che lei non stia esercitando l’altra virtù, meno virtuosa, del filosofo: la provocazione. Lei mi interrompe per provocarmi a dire quello che ama sentire da me. Le assicuro, non ce n’è affatto bisogno! Torno al problema. Il ripiegarsi della mente su di sé – anche questo ho detto in una mia degnità –, e cioè la riflessione che libera
218
la mente dall’immersione dei sensi nell’esteriorità del mondo, permette di toccare terra, di raggiungere non l’interiorità di un “soggetto” contrapposto al mondo, ma proprio l’interiorità del mondo comune, della pólis, l’interiorità, cioè la vera essenza, di quello che un filosofo d’un secolo successivo al mio definì il «fare di tutti e di ciascuno». Il ripiegarsi della mente su di sé non altro dice che il rendersi, l’umano operare, consapevole di sé. I – Qui il passaggio alla storia, e dunque il vero senso della critica a Descartes. Resta, però, un punto da chiarire. Nella critica a Descartes svolta nel De antiquissima lei dice testualmente che non ego cogito, ma Deus cogitat in me. Il medesimo non vale anche per l’operare di tutti e di ciascuno? Per la comunità umana, per le comunità umane? V – Certo, vale anche per le comunità umane. E non a caso nella Scienza Nuova parlo della provvidenza. I – Un punto, questo, sul quale la richiesta di chiarimenti è davvero senza limite… V – Ed è giusto che lo sia, perché intorno a questo tema si intrecciano vari problemi. Comincio dal più semplice, o da quello che sembra il più semplice. Nell’età di Descartes, di Spinoza, di Leibniz, la Scienza Nuova si apre con l’affermazione che «alcuna giammai al mondo fu nazion d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione». Non era un passo indietro, a un’età precritica, ben al contrario, fu un “salto” in avanti; fu il riconoscimento del carattere non originario del sapere, la consapevolezza che la filosofia non può iniziare dalla conoscenza e dalla critica della conoscenza. Non può iniziare da sé. Come scrissi in una degnità: «L’ordine delle cose umane procedette, che prima furono le selve, dopo i tugurj, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’Accademie». La Scienza Nuova è anzitutto questo, una critica della critica del sapere. Ché non si tratta di chiamare la ragione davanti al tribunale di se stessa.
219
Questo, alla fin fine, è un giuoco sin troppo facile. C’è da fare ben più che non spiegare le categorie della ragione con le categorie della ragione, c’è da ricostruire il loro processo di formazione. Ma… in che modo, con quali categorie? E con quale linguaggio? Ora, la prima cosa che va evidenziata è questa: non è possibile ricostruire un processo storico se non sulla base di un ordine presupposto alla storia. I – Di nuovo il “primato” della filosofia… Sembra che da esso non si possa uscire. V – Sembra. Sembra soltanto? Qui è in giuoco il senso stesso della filosofia. Se debba essa rigirarsi eternamente in se stessa, o non fare altro. Che cosa, e come? Un dato mi si imponeva, con la forza di un’evidenza sovrana, irrefutabile: che le pruove filosofiche debbono venir prima delle pruove filologiche, perché senza un ordine presupposto all’accertamento dei fatti – fosse anche la semplicissima ripartizione del tempo in passato, presente, futuro – non c’è possibilità di ricostruzione storica. La necessità di quest’ordine espressi sinteticamente in tre parole: “dovette, deve, dovrà”, nelle quali riassumevo la successione delle tre età della storia ideale eterna: le età degli dèi, degli eroi e degli uomini. Così ragionando, estendevo il concetto cartesiano di mathesis universalis dalla fisica alla storia. Proseguivo il lavoro già iniziato da Grozio nell’ambito del diritto. I – Non a caso Grozio è il quarto dei suoi “auttori”. Certo, però, non gli risparmia critiche nella Scienza Nuova, e anche aspre, come a Hobbes e Pufendorf – ma questi non sono suoi “auttori”. V – Beh, non risparmio critiche neppure a Platone… Nessun rapporto di pensiero è senza “critica”, se è un vero rapporto di pensiero… I – Sì, ha ragione, tuttavia altro il trattamento riservato a Grozio rispetto a Platone.
220
V – Vero. Non le oppongo che Grozio non è Platone. Le dico tutt’altra cosa. E cioè che nel profondo lo stimolo a estendere la mathesis universalis alla storia mi venne, molto più che da Grozio, da Spinoza. Spinoza è l’“auttore” innominato nella mia Autobiografia. Sa, io cattolico, nella Napoli del tempo… stringermi troppo al maledictus, nella mia sin troppo modesta situazione universitaria… Ma questi sono dettagli. Vero è che una mia degnità riprende una proposizione fondamentale dell’Ethica ordine geometrico demonstrata, la settima della seconda Parte: «l’ordine e la connessione delle cose è il medesimo che l’ordine e la connessione delle idee». Nell’ultima revisione della Scienza nuova introdussi una variante: i due ordini “debbono” procedere insieme. Ma, a parte questo, che non è certo un dettaglio, è chiaro che la mia mathematica – posso anche dire: la mia geometria – della storia non è nata senza influsso della “geometria delle passioni” dello Spinoza. Come attesta la domanda che presto mi posi: la mathesis universalis – del mondo fisico, come di quello “morale” e del mondo storico – su cosa poggia? Quale il suo fondamento? È questa la domanda di Spinoza, come peraltro di Descartes, e di Leibniz. E comune è la risposta: su Dio. E qui Dio è il fondamento non-fisico dell’ordine fisico, non-“morale” dell’ordine morale, non-storico dell’ordine storico. Nella Scienza Nuova Dio è insieme il fondamento religioso ed epistemico della storia. I – Della storia ideale eterna su cui corrono in tempo le storie delle nazioni. V – Giusto. Ma proprio qui s’appuntano le critiche – quelle che mi sono mosso, e quelle che ho variamente sentite ripetere da avversari e commentatori. Posso dire d’averli anticipati! I – Quali critiche, in particolare? V – Questa, anzitutto: la storia ideale eterna è tema della Scienza Nuova. È quindi scritta con il linguaggio della ragione ri-
221
flessa, col linguaggio dell’età nuova, del presente. Ma iscrivere l’intera storia nell’ordine pensato nel presente non appiattisce l’intero processo storico sull’ultima età? In che modo serbare, “salvare” le differenze delle età precedenti? La storia ideale eterna non nega la storicità della storia? I – È lo stesso problema del filosofo tedesco, poco sopra ricordato, a cui il suo pensiero è stato non poche volte, e a ragione, accostato: Hegel. V – Gli accostamenti, se rispettosi delle differenze, sono sempre utili al pensiero, quando interpreta altro pensiero. E debbo dire che non mi dispiacciono affatto gli accostamenti, sempreché siano plurali. In fondo la storia non scorre secondo una linea retta, e non solo perché procede per corsi e ricorsi, ma soprattutto perché non ha una sola dimensione, l’orizzontale, ha anche una dimensione verticale. Vi è una comunicazione sotterranea tra le filosofie, di cui solo raramente i loro autori sono consapevoli, e mai pienamente. Ma è bene non perdere il filo del discorso. Ci chiedevamo, poc’anzi, se la storia ideale eterna non neghi la storia, se l’ordine della storia non contrasti quello stesso che vuole esplicare, la storia. Una bella impasse. I – Come ne è uscito? V – Come ne sono uscito? Non so affatto se ne sono uscito. Posso dire quali sono stati i miei tentativi, i miei sforzi per riuscirvi. Che abbia scritto e riscritto per tutta la vita, e come vede dai miei fogli, che qui sul mio tavolo si ammucchiano, vado ancora scrivendo la mia opera unica ed esclusiva, avrà pure un senso! Fatto sta che appena intravvedevo una risposta, presto altri problemi, altre domande sorgevano. Ed erano tali da rimettere in questione il tutto, sempre. Di qui la mia inquietudine profonda, ma anche il mio sentirmi vivo. Le domande che rinascevano dalle risposte mi confortavano, erano segno di un pensiero in movimento.
222
I – Mi permetta di intervenire. I suoi lettori non senza fatica la seguono, perché la ricchezza dei temi che lei affronta e il loro molteplice intrecciarsi, talora nel giro di poche pagine, rendono difficile seguirla, si corre sempre il rischio di perdere il filo del ragionamento. V – Non nego la difficoltà, debbo però aggiungere, per dare ragione del mio modo di procedere, che proprio dall’intreccio dei problemi sorgono prospettive diverse riguardo al modo di affrontarli. E questo è proprio quanto mi è accaduto riguardo al tema che stavamo trattando. Se non si fosse intrecciato a questo problema dell’ordine della storia, insieme condizione di possibilità e impedimento effettivo alla comprensione del divenire storico, l’altro problema, che da tempo mi angustiava, riguardo alla perdita di figuratività del linguaggio riflessivo, non avrei potuto compiere quel passaggio essenziale che ha rappresentato la vera “svolta” del mio pensiero. I – Quale passaggio? V – Per risponderle debbo ricostruire l’intero itinerario da me invero più seguito, che consapevolmente tracciato. Per restituire “immagine” alle parole, immagine al linguaggio della Scienza Nuova, posi sul frontespizio della seconda edizione, l’ultima ch’io vidi pubblicata in vita, una Dipintura allegorica, che mostrava il duplice movimento della storia da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio. Duplice e uno, ché la Dipintura aveva proprio il compito di mostrare in contemporanea quello che nel linguaggio parlato può esser detto – mostrato – solo in successione. I due movimenti, infatti, sono un unico movimento, ché il raggio di luce che promana dall’occhio di Dio e, colpendo il gioiello convesso sul petto della fanciulla dalle tempie alate, allegoria della Metafisica, si rifrange sulla statua di Omero, che segna la prima età della storia, non è altro che la potenza della provvidenza che regge e governa, dirige la storia, quella appunto che scorre in tempo, la storia delle nazioni. La provvi-
223
denza è la mano nascosta di Dio, è l’architetto della storia, ma gli operai sono gli uomini. Tutto questo però è, nella Dipintura, immobile, fisso. È un fuoco dipinto, che non si muove né scalda. Il movimento vero, reale, è solo nell’Introduzione della Scienza Nuova, in quell’Idea dell’Opera, narrata dalla voce che spiegando la Dipintura, la svolge, le dà movimento. Il tentativo attraverso la Dipintura allegorica di dare figura alla voce, immagine alla parola, evidenziava maggiormente la frattura tra voce e immagine che caratterizza la lingua “pistolare”, il linguaggio scritto, alfabetico, il linguaggio della riflessione e della scienza – che dice il “genere” e manca il “singolo”. Richiamo io adesso un’affermazione del filosofo da lei già due volte citato – sa, gli abitanti del Castello si conoscono, anche se le frequentazioni sono piuttosto rare –: «noi pensiamo nei nomi, che sono rappresentazioni senza immagini». Ma, appunto, i nomi dicono il genere e non il singolo. Il problema della scienza mi si presentava come problema del linguaggio, del linguaggio nominale, del linguaggio significante. E questo comportava un mutamento d’analisi, anzitutto riguardo all’estensione, perché non si trattava più solo della nascita della scienza moderna, che è un problema storico, ma della genealogia del linguaggio, per cui non basta neppure risalire ad Aristotele e al suo principio fermissimo. Aristotele rifletteva sul linguaggio già costituito, sul linguaggio che è già voce e immagine, phonè kaì schêma; e il mio problema riguardava, invece, l’origine della connessione tra voce e immagine. Solo alla luce di questa origine, mi sarebbe stato possibile spiegare le ragioni della loro separazione. I – Questo spiega la radicale differenza tra l’etimologia del De antiquissima e l’etimologia della Scienza Nuova. Quella era tutta interna ai significati, alla formazione di parole da altre parole; questa tenta di esplicare il sorgere della voce significante muovendo dall’esperienza iniziale del mondo. Il suo percorso di pensiero ripete in qualche modo quello di Platone nel Cratilo: dal nesso tra le parole al rapporto tra le prime voci e le cose.
224
Capisco allora l’importanza del riferimento alla prima età dei tempi oscuri, e quella sua affermazione che si ripete tal quale nelle tre versioni della Scienza Nuova, e cioè che «or’ appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i Primi Uomini, che fondarono l’Umanità Gentilesca». Ma, riconosciuto ciò, come incide questo problema sull’altro della storia, sul problema del rapporto tra storia ideale eterna e storie che corrono in tempo? V – La storia ideale eterna si configura alla fine come lo sguardo del presente sul passato. È la prospettiva che il presente ha dell’intera storia, prospettiva che ammette, anzi postula, l’eccedenza del passato rispetto al presente, la trascendenza del passato. La ricostruzione della storia sulla base dell’ordine presente è solo una storia, tra le possibili, perché quando il pensiero tenta di scrutare il pozzo del passato, non può non chiedersi, disperando, se sia possibile toccarne il fondo. I – La storia si configura come una monadologia senza monade assoluta. La stessa storia ideale eterna non è che una monade, alla pari delle altre tutte: una prospettiva sull’Assoluto, non l’Assoluto. Ma questa monadologia senza la monade, che comprende tutte le monadi, non è una storia senza Dio? Che ne è della provvidenza? V – Senza Dio, se pretendiamo ridurre Dio a concetto, a nostro concetto; se pretendiamo di impadronirci di Dio con il nostro pensiero. Ma lei dimentica quel che ho detto nel De antiquissima: «In qual modo poi l’Infinito sia penetrato nelle cose finite non potremmo comprenderlo neanche se Dio ce lo insegnasse», perché «la mente umana è finita e formata, non può perciò aver intelligenza delle cose indefinite ed informi». Un pensiero, questo, che ho derivato da Plotino, e che non mi ha mai abbandonato. Se non posso estendere la storia ideale eterna oltre i confini del presente, della scienza presente, se la ragione mi porta ad affermare che in particolare dei tempi
225
oscuri della più antica antichità posso al più intendere qualcosa, ma non certo immaginarli, farmi, cioè, di essi una precisa immagine, questo non mi porta a negare valore al pensiero. Nega valore al pensiero consapevole del suo limite, della sua radicale finitezza, soltanto chi pretende all’assoluto. Sono pienamente consapevole che la mia genealogia del linguaggio, del sorgere del parlare articolato dalla voce-gesto primeva, dall’urlo del gesticolante Bestione, è un racconto, una narrazione. Come è un racconto il passaggio, o meglio il salto, dalla natura animale alla storia. Il fulmine che fa “avvertire” – avvertire, non semplicemente sentire, vedere – il Cielo, il tuono che fa tremare la terra inteso come la voce di Zeus, è un racconto. Prossimo non alla metaphysica “ragionata e astratta degli addottrinati”, bensì alla metaphysica «sentita, ed immaginata, quale dovett’essere di tai primi uomini», «ch’erano di niuno raziocinio, e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie». La provvidenza non è destino o fato, proprio perché è e resta nei confini del limitato sapere dell’uomo. Nei confini del sapere – come tale limitato. Conoscere è distinguere e ridurre: minuere, per tornare all’etimologia del De antiquissima. I – Così lei spiega la Scienza Nuova con il De antiquissima… V – Il richiamo al De antiquissima non deve celare la “novità” in cui il medesimo problema del limite del sapere si presenta nella Scienza Nuova. Che è una novità tutta interna al linguaggio. Per dire il limite del sapere, mostrandolo, ho spiegato la storia ricorrendo al mito. Lei certo ricorderà quel passaggio della prima Scienza Nuova, nel quale mentre spiego i conflitti tra nobili e plebei nella prima età di Roma, appoggiandomi a Tito Livio, cito il mito di Orfeo: «con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che finora hanno ingombrato la storia favolosa de’ greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore degli dèi addimesticato le fiere e riduttele nelle città». La scrittura della Scienza Nuova, il linguaggio in cui è scritta, non è
226
riducibile al linguaggio della scienza, al linguaggio “pistolare”. È un linguaggio diverso, un linguaggio “barocco”, che tenta di unire mito e ragione, ragione e mito. I – Un tentativo, meglio, un progetto ripreso in Germania mezzo secolo più tardi… V – Sì, la Mythologie der Vernunft, la Mitologia della ragione. Lei ama i raffronti, in particolare con lo Hegel, più volte ricordato. Sono utili, lo ribadisco, i confronti – sempreché volti non a cancellare, ma a meglio farci comprendere le differenze. E su questo punto la differenza tra la mia posizione e quella del filosofo tedesco è radicale. I – In qual senso? V – Basti prestare attenzione alle opposte vie che abbiamo seguito. La mia conclusione coincide con l’inizio di Hegel – inizio da lui presto abbandonato. Si tratta di un’opposta concezione del sapere. Hegel mira, con perfetta consequenzialità logica, all’universale, certo all’universale concreto, all’universale determinato, e cioè al singolo determinato dall’universale, dal concetto; io per contro miro al singolo fuor dell’universale, perché interessato a comprendere il sorgere dell’universale. Hegel parte dalla logica del “significato”, dalla parola significante, muove cioè dal linguaggio codificato da Aristotele; io invece mi sono interrogato sul sorgere della parola significante, e per fare ciò ho dovuto trasgredire il linguaggio della logica, della scienza, della filosofia. Il linguaggio della Scienza Nuova “mima” in qualche modo il linguaggio del mito, ne ripete il gesto. Ad esempio, là dove spiego la prima coltura dei campi, richiamandomi alla maggior fatiga di Ercole: «che fu quella, con la qual’ uccise il Lione, il quale, vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea»; «il qual Lione qui si truova essere stata la gran Selva Antica della Terra». Il leone è insieme l’ingens sylva e il fuoco di cui l’eroe s’avvale per “ridurla a coltura”. E infatti della sua «spoglia adorno Ercole fu innalzato alle Stelle». La
227
medesima figura – il lione nemeo – è se stessa e il potere che l’uccide, il fuoco. Mitica e ragionata insieme, questa “lettura” del mito non segue certo il principio della ragione riflessa: il principio fermissimo di Aristotele. I – Se ho ben compreso, questa conclusione porta a ribaltare il senso in cui è stata tradizionalmente interpretata la sua celeberrima proposizione: verum et factum convertuntur. E cioè non il fatto viene portato, “elevato”, al vero, ma giusto l’opposto, la verità è solo nel fatto. Nella contingenza del fatto. Meglio: nella possibilità del fatto. V – Sì, così sembra doversi concludere. I – E pertanto il singolo che sfugge alla presa della scienza, del sapere necessario e generico – necessario perché generico –, è il “possibile”. Questa conclusione mi riporta alla memoria quel passaggio del Sofista di Platone, in cui i figli della Terra affermano che l’essere delle cose è dýnamis, potenza, possibilità. E insieme mi rammenta la domanda che un filosofo moderno, strenuo oppositore di Hegel, il danese Søren Kierkegaard, si poneva riguardo alla storia: «Il passato è più necessario dell’avvenire? Per essere diventato reale, è forse il possibile diventato più necessario di quel che era?». V – Lei ama i confronti, particolarmente quelli che approssimano pensieri lontani… Da vero alessandrino. In fondo lo siamo un po’ tutti… Sono le ultime parole di Vico, pronunciate con un sorriso ironico e pensieroso. Un lieve tocco alla porta, e compare il volto “cortese” del Direttore del Castello. Il tempo dell’intervista è scaduto. Mi accompagna sino alla porta del Castello. Nel salutarlo, gli chiedo di ripetermi il suo nome. Invero non me l’aveva detto.
228
«Ho avuto molti nomi lungo i secoli che ho attraversato nella memoria – mi risponde –; nel secolo che mi ha riconosciuto mi chiamavo Jorge Luis Borges, ma il mio nome più vero è Joseph Cartaphylus».
229
Bibliografia e Sigle
Agostino d’Ippona: CD = De Civitate Dei, in Opere, ed. latino-italiana, V/I-III a cura di A. Trapè, R. Russell, S. Cotta, D. Gentili, Città Nuova, Roma 1978-1991. Aristotele: Met = Metaphysica, a cura di W. Jaeger, Oxford, rist. 1985; tr. it. con testo greco a fronte di G. Reale, Bompiani, Milano 20002. Phys = Physica, a cura di W. D. Ross Oxford 1950; tr. it. con testo greco a fronte di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995. A = De Anima, a cura di W. D. Ross, Oxford 1961; tr. it. con testo greco a fronte di G. Movia, Rusconi, Milano 1996. EN = Ethica Nicomachea, a cura di da I. Bywater, Oxford 1984; tr. it. con testo greco a fronte di M. Zanatta, BUR, Milano 1986. Benjamin W.: GS = Gesammelte Schriften, 7 Bde, hrsg. v. R. Tiedemann u. H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1972 ss.
230
ÜS = Über die Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, GS, II/1, pp. 140-157; tr. it. di R. Solmi, in Opere (= Op), a cura di G. Agamben, I, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, Einaudi, Torino 1982, pp. 177-193. SCh = Schicksal und Charakter, GS, II/I, p. 171-179; tr. it. di R. Solmi, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Op, II, pp. 117-124. KG = Zur Kritik der Gewalt, GS, II/I, pp. 179-203; tr. it. di R. Solmi, Op, II, pp. 133-156. AÜ = Die Aufgabe des Übersetzers, GS, IV/I, pp. 9-21; tr. it. di R. Solmi, Op, II, pp. 157-170. TPF = Theologisch-politisches Fragment, GS, II/1, pp. 203204; tr. it. di G. Agamben, Op, II, pp. 171-172. UdT = Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berliner Ausgabe 20164, p. 55; tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 19752, p. 67. BG = Über den Begriff der Geschichte, GS, I/2, pp. 693-704. CS = Sul concetto di storia, tr. it. [di BG ]con testo tedesco a fronte, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997 pp. 20-57. Questa edizione rende conto delle varie redazioni (quattro) del testo, riportando nelle note le varianti. Contiene, inoltre, la parziale tr. francese dovuta allo stesso Benjamin (pp. 63-70), i «Materiali preparatori alle tesi» (pp. 71-103) e i «Materiali dal Passagen-Werk» (pp. 105-137). PW = Passagen-Werk, GS, V, 2 Bde; tr. it., Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1986.
231
Baudelaire Ch.: Op = Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 1996. Borges J. L.: TO = Tutte le opere, 2 voll. a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1984-1985. Cacciatore G.: L’infinito nella storia (2009) = L’infinito nella storia. Saggi su Vico, Quaderni de «Il Pensiero», ESI, Napoli 2009. Carillo G.: Vico (2000) = Vico. Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale Scientifica, Napoli 2000. Cassirer E.: EPhW = Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit; ed. it., Storia della filosofia moderna, tr. di A. Pasquinelli (vol. I), G. Colli (vol. II), E. Arnaud (voll. III e IV), Einaudi, Torino 1954-1958. Croce B.: LCP = Logica come scienza del concetto puro (1908), Laterza, Bari 1947. FV = La filosofia di Giambattista Vico (1910), Laterza, Bari 1953. TSS =Teoria e storia della storiografia (1916), Laterza, Bari 1954. SPA = La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 19546. SH = Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 1948.
232
DF = Discorsi di varia filosofia, voll. 2, Bari 1945. IH = Indagini su Hegel ed altri schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1952. de Giovanni B.: KS = Kelsen e Schmitt. Oltre il Novecento, Editoriale Scientifica, Napoli 2018. LV = Libertà e vitalità. Benedetto Croce e la crisi della coscienza europea, il Mulino, Bologna 2018. Descartes R.: Regulae = Regulae ad directionem ingenii, in Opere postume 1650-2009, tr. it. con testo francese e/o latino a fronte, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2009, pp. 682-815. Dilthey W.: GS = Gesammelte Schriften, Teubner-Vandenhoeck & Ruprecht, Stuttgart-Göttingen, v.a. Plan = Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, GS, vol. VII, hrsg. v. B. Groethuysen 19736; tr. it. in Critica della ragione storica, antologia di scritti diltheiani a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1954. Dostoevskij F.: Idiota = L’Idiota, tr. it. di A. Polledro, Torino 1991, Introduzione di V. Strada, pp. V-XXVIII. Fischer K.: LMW = Logik und Metaphysik oder Wissenschaftslehre (1852), hrsg. u. eingeleitet v. H.-G. Gadamer, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1997.
233
Fulda F.: EHW = Das Problem einer Einleitung in Hegels Wissenschaft der Logik (1965), Klostermann, Frankfurt/M. 1975. Gadamer H.-G.: WM = Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 19906; tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 19832 (nuova ed., con testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 20012). HD = Hegels Dialektik. Fünf hermeneutische Studien, J. C. B. Mohr (Paul Siebek), Tübingen 1971. HMTh = Martin Heidegger und die Marburger Theologie, in Aa. Vv., Heidegger, hrsg. v. O. Pöggeler, Kiepenheur & Witsch, Köln-Berlin 19702, pp. 169-178. HW = Heideggers Wege, J. C. B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 1983; tr. it. di R. Cristin e G. Moretto, Marietti, Genova 1987. Gentile G.: RDH = La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1954. TG = Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), Sansoni, Firenze 19446. SL = Sistema di logica come teoria del conoscere, voll. 2 (1917-1921), Sansoni, Firenze 1942 (vol. II, III ed.) e 1943 (vol. I, IV ed.). SV = Studi vichiani (1914), Sansoni, Firenze 1966. Goethe J. W.: F = Faust, tr. it. con testo tedesco a fronte, a cura di F. Fortini, 2 voll., Mondadori, Milano 1980.
234
FL = Farbenlehre, ed. it. a cura di R. Troncon, il Saggiatore, Milano 1981. SNW = Schriften zur Naturwissenschaft, antologia a cura di M. Böhler, Reclam, Stuttgart 1977. Grozio U.: De iure = De iure predae commentarius, ed. it. parziale nel l’Antologia a cura di P. Negro dal titolo: I fondamenti del diritto, Editoriale Scientifica, Napoli 1997. Hegel G. W. F.: W = Werke in zwanzig Bänden, auf der Grundlage der Werke von 1832-1845, hrsg. v. E. Moldenhauer u. K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969 ss. Sf = Systemfragment von 1800, W, 1, pp. 419-427. DFS = Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, W, 2, Jenaer Schriften 1801-1807; tr. it. di R. Bodei, in G. W. F. Hegel, Primi scritti filosofici, Mursia, Milano 1970, pp. 1-120. PhäG = Phänomenologie des Geistes, hrsg. v. J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 19526; tr. it. di E. De Negri, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 19632. WL = Wissenschaft der Logik, W, Bde 5-6; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, 2 voll., Laterza, Bari 19682. RPh = Grundlinien der Philosophie des Rechte, Meiner, Hamburg 19554; tr. it. di F. Messineo (e A. Plebe, limitatamente alle Hegels Randbemerkungen), Laterza, Bari 1954. VPhG = Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, W, 12; tr. it. di G. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza, RomaBari 2003.
235
Heidegger M.: GA = Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt/M. 1975 ss. GbM = Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, GA 29/30, 1983; tr. it. di P. Coriando, Il melangolo, Genova 1992. US = Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 19755; tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973. Wm = Wegmarken, Klostermann, Frankfurt/M. 19782; tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987. BPh = Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), GA 65, 1989; tr. it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007. Henrich D.: HK = Hegel im Kontext, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1975. Hölderlin F.: SWB = Sämtliche Werke und Briefe, 2 Bde, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19895. Jabès E.: LQ = Le livre des questions, ed. it. con testo francese a fronte, a cura di A. Folin, con un saggio introduttivo di V. Vitiello, Bompiani, Milano 2015. Kant I.: Ak = Werke, Akademie Textausgabe, 11 Bde, de Gruyter, Berlin 1968. KrV = Kritik der reinen Vernunft, Ak, 1. Aufl. 1781 (= A), Bd. 4, pp. 1-252; 2. Aufl. 1787 (= B), Bd. 3; tr. it. di P. Chiodi, con impaginazione originaria, UTET, Torino 1967.
236
Lagerlöf S.: Jerusalem = Jerusalem, tr. it. di Maria Ettlinger Fano, Iperborea, Milano 1997. Leibniz G. W.: W = Werke, 7 Bde, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastadt 1985. PNG = Principes de la nature et de la grâce fondés en raison, W, I, pp. 414-439. Monadologie = Les Principes de la Philosophie ou la Monadologie, W, I, pp. 438-483. Lugarini L.: Hmsf = Hegel dal mondo storico alla filosofia, Guerini e Associati, Milano 20002. OH = Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere, Guerini & Associati, Milano 1998. Nietzsche F.: KSA = Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe, hrsg. v. G. Colli u. M. Montinari, 15 Bde, dvt/de Gruyter, München/ Berlin-New York 1988. OFN = Opere di F. Nietzsche, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano (vari anni). WB = Richard Wagner a Bayreuth, KSA, I, pp. 429-510; tr. it. di S. Giametta, OFN, IV/I, 1967, pp. 1-80. DW = Die dionysische Weltanschauung, KSA, I, pp. 551577; tr. it. di G. Colli, OFN, III/II, pp. 47-77. AF = Appunti filosofici 1967-1869. Omero e la filologia classica, ed. it. a cura di G. Campioni e F. Gerratana, Adelphi, Milano 1993.
237
Otto S.: Umrisse = Umrisse einer transzendental-philosophischen Rekonstruktion der Philosophie Vicos anhand des “Liber metaphysicus”, in Sachkommentar zu Giambattista Vicos “Liber metaphysicus”, hrsg. v. S. Otto u. H. Viechtbauer, Fink, München 1985. Interprétation transcendantal = Interprétation transcendantal de l’axiome «verum et factum convertuntur», in «Archives de Philosophie», XL, n. 1, 1977, pp. 13-39. Un assioma = Un assioma (Grund-satz) della Scienza Nuova come principio guida (Leitsatz) per la “critica della ragione storica”, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XXIIXXIII, 1992-1993, pp. 103-117. Philippson P.: OFM = Origini e forme del mito greco, tr. it. di A. Brelich, Boringhieri, Torino 1983. Rossi Paolo: I segni del tempo = I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Feltrinelli, Milano 1979. Schelling F. W. J.: SW = Sämmtliche Werke, CD-ROM © TOTAL VERLAG 1997. WmF = Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände, SW, pp. 2372-2420. EV = Erlanger Vorträge, SW, pp. 2894-2916; tr. it. di L. Pareyson, in F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano 1974, pp. 197-226.
238
Scholem G.: BA = Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 19812. Sini C.: I = Inizio, Jaca Book, Milano 2016. Spaventa B.: Op = Opere, 3 voll., Sansoni, Firenze 1972. Spinoza B: O = Tutte le opere, testi originali a fronte, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010. TIE = Tractatus de intellectus emendatione, O, pp. 103-184. Ethica = Ethica ordine geometrico demonstrata, a cura di G. Gentile, riedita da G. Radetti, tr. it. a fronte di G. Durante, Sansoni, Firenze 1963. Trendelenburg A.: LU = Logische Untersuchungen, I ed. 1840, rist. anastatica della III ed. Leipzig 1870, Olms Hildesheim 1964. Valagussa F.: Vico (2013) = Vico. Gesto e poesia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013. Vernant J.-P. - Vidal-Naquet P.: ŒM = Œdipe et ses mythes, Éditions Complexe, Bruxelles 1988. Vico G.: OG = Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Introduzione di N. Badaloni, Sansoni, Firenze 1974.
239
OF = Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Introduzione di N. Badaloni, Sansoni, Firenze 1971. Op = G. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, 2 voll., Mondadori, Milano 19992. SN = La Scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di V. Vitiello e M. Sanna, Saggio introduttivo di V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012. Le tre edizioni verranno indicate con le sigle SN25, SN30, SN44. Di SN44 cfr. anche l’edizione anastatica, con Introduzione di B. de Giovanni, Belle Époque Edizioni, Napoli 2019. De ratione = De nostri temporis studiorum ratione, tr. it. a fronte, Op, I, pp. 87-215. DA = De antiquissima italorum sapientia, tr. it. con testo latino a fronte, a cura di M. Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005. Ma cfr. anche OF, pp. 55-131, che riporta le due Risposte di Vico al «Giornale de’ letterati d’Italia», pp. 132-168. DU = Il diritto universale, OG, pp. 1-925. Sinopsi = Sinopsi del Diritto universale, DU, pp. 3-16. De uno = De uno universi iuris principio et fine uno, DU, pp. 17-343. De constantia = De constantia iurisprudentis, DU, pp. 347- 385; De constantia philologiae, DU, pp. 386-729. Notae = Notae Dissertationes, DU, pp. 731-925. Vita = Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, Op, I, pp. 5-85. Vitiello V.: Tm = Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992.
240
ES = Elogio dello spazio. Ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano 1994. VR = La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano 1994. FC = La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico, Laterza, Roma-Bari 1998. CsR = Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari 1995; tr. sp., Trotta, Madrid 1999. SLN = Vico. Storia, Linguaggio, Natura, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008. ET = L’ethos della topologia. Un itinerario di pensiero, Le Lettere, Firenze 2013. IiVP = L’immagine infranta. Linguaggio e mondo da Vico a Pollock, Bompiani, Milano 2014. PE = Paolo e l’Europa: l’incontro tra messaggio evangelico e filosofia, in G. Rossé - V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, Città Nuova, Roma 2014, pp. 151-262. Europa = Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis, Milano-Udine 2017. HI = Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia, II ed. riveduta e ampliata, Inschibboleth edizioni, Roma 2018. Lumi = Per lumi sparsi. Narrazioni d’arte e di filosofia, Moretti & Vitali, Bergamo 2018. Weber M.: MS = Il metodo delle scienze storico-sociali, Antologia a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1974.
241
Werder K.: Logik = Logik. Commentar und Ergänzung zu Hegels Wissenschaft der Logik, Berlin 1841, rist. anastatica, Gerstenberg, Hildesheim 1977. Zambrano M.: HyD = El hombre y lo divino, Fondo de cultura económica, España 1993; tr. it. di G. Ferraro, Introduzione di V. Vitiello, Edizioni Lavoro, Roma 2001. Per le opere di Platone citate nel testo si rinvia per il greco a Opera, ed. J. Burnet, voll. 4, Oxford 1979-1984, e per la tr. it. a Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20085. Per le citazioni bibliche si rinvia alla Bibbia di Gerusalemme, EDB 2013; per quelle del Nuovo Testamento all’edizione trilingue – Greco Latino Italiano – della San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1998. Per i tragici greci si rinvia a “Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie”, tr. it. con testo greco a fronte, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano 2011.
243
Fonti*1
Vico, Kant e la topologia, col titolo: Vico e la topologia, in Acta del Congreso Internacional: “Pensar para el nuevo siglo. G. Vico y la cultura Europea”, Sevilla 4-9/12/1999, ed. da Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e Stiftung Studia Humanitatis, La Città del Sole, Napoli 2001, vol. III, pp. 1179-1201. Da Hegel a Vico. Un itinerario filosofico, rifacimento del testo pubblicato in S. Otto - V. Vitiello, Vico – Hegel. La memoria e il sacro, La Città del Sole, Napoli 2001, pp. 75-157. Parlare scrivendo, cantando. Con Vico e Nietzsche: alla radice del linguaggio, in «Annuario filosofico», XVIII, 2002, pp. 89-102. Le ‘parole reali’ di Idantura, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XLVIII, n. 1-2, 2018, pp. 141-149. Anwendung. L’ermeneutica tra Vico e Gadamer, in G. Ballocca (a cura di), Tempo e Praxis. Saggi su Gadamer, Aracne, Roma 2012, pp. 41-59.
* I testi della Sezione I sono stati tutti riveduti.
244
Due quadri, due teologie, due mondi. Vico e Benjamin, in «Estetica, studi e ricerca», n. 2, 2018, pp. 231-254. La Nascita dell’ordine, in «Il Pensiero», XL, n. 1, 2001, pp. 9195. L’infinito e la storia, Postfazione a L’infinito nella storia (2009), pp. 61-68. Scrivere la storia, Prefazione a F. Valagussa, Vico. Gesto e poesia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013, pp. V-XI. Storia – Linguaggio – Natura, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XXXIX, n. 2, 2009, pp. 141-145. Le tre edizioni della Scienza nuova, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XLIV, 2014, pp. 109-115. Intervista immaginaria a Giambattista Vico, col titolo: V. Vitiello incontra Vico, Allegato al vol. 19 dell’Enciclopedia Filosofica Bompiani, RCS, Milano 2010.
Indice
Introduzione
p. 9
I I linguaggi della storia A. Mathesis universalis e storia I. Vico, Kant e la topologia
p. 17
II. Da Hegel a Vico. Un itinerario filosofico
p. 41
III. Parlare scrivendo, cantando. Con Vico e Nietzsche: alla radice del linguaggio
p. 73
B. Linguaggio, politica, morale I. Le “parole reali” di Idantura
p. 95
II. Anwendung. L’ermeneutica tra Vico e Gadamer
p. 107
III. Due quadri, due teologie, due mondi. Vico e Benjamin
p. 125
II Note e discussioni I. La Nascita dell’ordine
p. 163
II. L’infinito e la storia
p. 173
III. Scrivere la storia
p. 181
III Incontri I. Storia – Linguaggio – Natura
p. 195
II. Le tre edizioni della Scienza nuova
p. 203
Intervista immaginaria a Giambattista Vico
p. 213
Bibliografia e Sigle
p. 229
Fonti
p. 243
Zeugma
Lineamenti di Filosofia italiana | Classici Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ
1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte. 2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo. 3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello. 4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici. 5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea. 6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia. 7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile. 8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino. 9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani.
Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 9 - Classici
Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:
Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
ISBN ebook 9788855290708
L’Ora e l’attimo narra – attraverso il confronto di Vico con Platone e Kant, Hegel e Nietzsche, Gadamer e, infine, Benjamin – la storia discontinua di un passaggio epocale nella concezione del mondo storico: il passaggio dal primato dell’orizzonte universale eterno, l’“Ora”, in cui si inquadrano le diverse età della storia, al primato dell’“attimo”, in cui sono parimenti possibili sia l’inizio di una “nuova Ora” che la fine della storia dell’uomo ad opera dell’uomo. In Vico questo “passaggio”, variamente contrastato e sofferto, ma alla fine vincente, assume la figura del transito dalla mathesis universalis della storia alla visione morale del mondo umano.
Vincenzo Vitiello, professore ordinario di Filosofia teoretica, insegna attualmente Teologia politica all’Università “San Raffaele” di Milano. Ha tenuto conferenze, seminari e cicli di lezioni in Università e Istituti di Cultura europei ed extraeuropei. Suoi scritti sono tradotti in tedesco, spagnolo, francese, inglese, polacco. Nel 2012 l’Universidad Nacional “General San Martín” di Buenos Aires gli ha conferito la laurea honoris causa in Filosofia. Dirige, insieme con Massimo Adinolfi, la Rivista “Il Pensiero”. Pubblicazioni recenti: L’ethos della topologia (Firenze 2013); L’immagine infranta. Linguaggio e mondo da Vico a Pollock (Milano 2014); Europa. Topologia di un naufragio (Milano-Udine 2017); Dell’Essere e del Possibile (con Emanuele Severino, Milano-Udine 2018). Con Inschibboleth Edizioni: Hegel in Italia, Roma 20182.
€ 10,00