L' ombra del divino. Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce 9788820767396, 9788820767426

Il volume ricostruisce parte del complesso itinerario attraverso cui lo storicismo italiano si confronta, problematicame

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L' ombra del divino. Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce
 9788820767396, 9788820767426

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
INDICE
PREFAZIONE di Domenico Conte
AVVERTENZA
CAPITOLO I - «LA POLVERE D’ADAMO» ADOLFO OMODEO 1913-1922
CAPITOLO II - «ALL’ OMBRA DEL DIVINO» ERNESTO DE MARTINO 1953-1957
CAPITOLO III - «QUEL DIO CHE A TUTTI È GIOVE» BENEDETTO CROCE 1930-1942
INDICE DEI NOMI
Quarta di copertina

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Maria Della Volpe

L’OMBRA DEL DIVINO Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce

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DOMINI

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L A C U LT U R A S T O R I C A 50 Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore Consiglio scientifico: Joaquín Abellán, Giuseppe Cambiano, Michele Ciliberto, Domenico Conte (segretario), Alexander Demandt, Cirilo Flórez Miguel, Giuseppe Giarrizzo, Marco Mancini,

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Edoardo Massimilla (segretario), Renato Pettoello, Leon Pompa

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Maria Della Volpe

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L’OMBRA DEL DIVINO Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce

Liguori Editore

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Questo volume è stato pubblicato col contributo della Fondazione Piovani per gli Studi Vichiani e del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli Federico II (fondi 70% 2015).

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I volumi di questa collana sono sottoposti a una duplice procedura di peer review Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf ). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 – I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2017 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2017 Della Volpe, Maria : L’ombra del divino. Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce/ Maria Della Volpe La Cultura Storica Napoli : Liguori, 2017  ISBN 978 – 88 – 207 – 6739 – 6  (a stampa)   eISBN 978 – 88 – 207 – 6742 – 6  (eBook)   ISSN 1972-0688 1. Storicismo 2. Cristianesimo  I. Titolo  II. Collana  III. Serie Aggiornamenti: 25 24 23 22 21 20 19 18 17    10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE XI Prefazione

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di Domenico Conte

XVII Avvertenza Capitolo primo 1 «La polvere d’Adamo». Adolfo Omodeo 1913-1922

I. «“Res gestae” e “Historia rerum”»: la storia come attualità dello spirito, 1; II. Gesù, Paolo e la genesi della coscienza, 11; III. Il mito dell’Uomo-Dio, 27

Capitolo secondo 29 «All’ombra del divino». Ernesto de Martino 1953-1957

I. «Le porte della distanza», 29; II. «Andare sulle orme». Ernesto de Martino tra Rudolf Otto e Gerardus van der Leeuw, 31; III. «L’incantesimo della destorificazione religiosa», 49; IV. Tra storia e metastoria: il tabù del divenire, 57

Capitolo terzo 61 «Quel Dio che a tutti è Giove». Benedetto Croce 1930-1942

I. Una rivoluzione annunciata, 61; II. «L’amor che move il sole e l’altre stelle», 70; III. Un «operaio nella vigna del Signore», 77; IV. Un inno allo Spirito, 82

89 Indice dei nomi

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A Piero, che ha dato vita alla mia vita

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«Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo»

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(Paradiso, I, 37-38)

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PREFAZIONE

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di Domenico Conte

Maria Della Volpe si è già da qualche anno presentata al pubblico degli studiosi grazie alla monografia La vera storia dell’umanità. Benedetto Croce e la religione dei tempi nuovi (2010). Uno dei meriti maggiori di questo volume stava e sta nell’attenta regestazione della terminologia religiosa nell’opera di Croce, dai risultati oggettivamente impressionanti. Sulla base di questa acribica ricognizione Della Volpe lanciava quindi un’interpretazione religiosa dell’opera e della figura di Croce. Oggi la studiosa napoletana torna, con taglio più accentuatamente teoretico, sul problema per lei sempre centrale della religione proponendone l’analisi in taluni scritti di Adolfo Omodeo, Ernesto de Martino e – di nuovo – Benedetto Croce, tutti considerati come esponenti dello storicismo italiano. La scelta è interessante, anche a partire dai rapporti reciproci che avvicinarono, ma talvolta anche allontanarono, le tre importanti figure. Il legame fra Croce e Omodeo, quel legame col tempo sempre più rafforzatosi e che fece dello storico siciliano quasi – sono parole di Croce – il secondo autore della «Critica», nonché il direttore purtroppo solo in pectore, a causa della morte prematura, dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, è ben noto. Sufficientemente noti sono anche i rapporti di de Martino con Croce e Omodeo. Del filosofo napoletano il giovane de Martino divenne a un certo punto quasi allievo (un “allievo” beninteso difficile), frequentandone anche la biblioteca di Palazzo Filomarino, che gli fu di aiuto per la preparazione dei suoi primi libri, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941) e Il mondo magico (1948). Di Omodeo, de Martino fu invece allievo in senso letterale, essendosi laureato con lui, a Napoli, nel 1932, con una tesi sui Gephyrismi eleusini (che si prevede di pubblicare integralmente e di commentare in un prossimo numero dell’«Archivio di storia della cultura»). Ma anche di

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xii

PREFAZIONE

Omodeo de Martino fu allievo difficile. De Martino non accettò infatti (e fu un bene, perché altrimenti oggi non avremmo Il mondo magico) il suggerimento omodeiano di non orientare le proprie ricerche sul magismo primitivo, bensì di studiare tutt’al più quello rinascimentale. In una lettera del febbraio del 1941, Omodeo ammoniva in questo senso de Martino con parole a loro modo memorabili, perché tipiche di un determinato orientamento culturale ancor prima che di un determinato settore di studi: «a rigor di logica la storia del magismo non esiste, perché la storia si può fare del positivo e non del negativo: il magismo è una potenza di cui ci spoglia nel processo della ragione, appunto perché si rivela inadeguata e non creativa». Si tratta di parole che a De Martino rimasero impresse, e che egli volle trascrivere, testualmente e polemicamente, in una pagina del Mondo magico, interpretandole negativamente come una testimonianza della «caratteristica impotenza delle categorie storiografiche tradizionali relativamente alla comprensione del mondo magico». Ad esse de Martino tornò del resto certamente a pensare allorché scrisse il necrologio dell’antico maestro, che culmina in una pagina che vale la pena di riprendere per intera, perché è un documento decisivo dell’allontanamento da una tradizione culturale dentro la quale ci si era pur inscritti, ma verso la quale si provava ormai (1946) una palese insofferenza: In sostanza Adolfo Omodeo resta fedele alla impostazione idealistica e attualistica dello storicismo, nella forma canonica che a tale impostazione hanno dato il Croce e il Gentile. Un movimento oltre quella forma è appena enunciato nel proposito («la storia come incremento del sistema»), ma non è effettivamente eseguito nella realtà. Questo limite nasce dalla qualità stessa dell’esperienza di Adolfo Omodeo. La metodologia crociana della storiografia è nata come riflessione su una esperienza storica limitata essenzialmente a quel tratto di storia umana che va dall’Ellade ai giorni nostri. Ora è chiaro che un effettivo incremento di quella metodologia (sino al punto di un radicale rinnovamento) potrà effettuarsi solo in forza di un allargamento dell’orizzonte storiografico mercé l’inclusione di forme di civiltà assai lontane dalla nostra, le civiltà con cui si incontra la storia delle religioni, la etnologia e la paletnologia. Ecco dunque tutta la grande efficacia rinnovatrice e riplasmatrice di un esperimento volto a cimentare la metodologia storicistica in un dominio di esperienze storiche da cui essa non è nata nella sua forma attuale. Tutta una problematica nuova si fa valere nel corso di questo esperimento, mettendo a dura prova il dispositivo metodologico: ma appunto

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PREFAZIONE xiii

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per questo l’incremento reale del pensiero storicistico è assicurato secondo un’ampiezza insospettata1.

Di questa fitta ed estremamente interessante trama di rapporti troviamo però poco, nel libro di Della Volpe. Più che ad essa, la studiosa napoletana è infatti interessata a una ricostruzione accentuatamente monografica delle grandi figure al centro della sua analisi. Questo taglio fortemente monografico risulta ulteriormente acuito dalla scelta di concentrarsi, per ognuno dei personaggi analizzati, solo su di un periodo precisamente limitato della sua attività, così messo in risalto ed evidenziato, tuttavia in tal modo anche in qualche misura isolato, poiché è in quel determinato periodo che cadrebbero, per la nostra Autrice, l’elaborazione e la pubblicazione di scritti ritenuti decisivi e paradigmatici dal punto di vista dell’indagine sulla religione, la religione dello storicismo italiano. La quale, però, non fa mostra di sé in piena luce e in piena evidenza, non si manifesta a tutto tondo, ma solo attraverso scorci e squarci che sono come rivelatori di una tensione interna e di una potenzialità. Sono queste le «feritoie» di cui la Della Volpe dice, ricorrendo a un’immagine suggestiva, nella stringata avvertenza del suo volume, ovvero i luoghi in cui i suoi autori più chiaramente lascerebbero intravedere ciò che altrove rimarrebbe invece celato, forse anche a loro stessi. Evidentemente Maria Della Volpe non ama i compiti facili. Se non fosse così, la nostra Autrice non sarebbe andata a cercare le «feritoie» della religione in un trittico di autori che hanno sempre sottolineato la loro laicità e il loro immanentismo, refrattario a qualsivoglia trascendentalismo. «Il laico, laicissimo Omodeo» – si chiede Della Volpe – «col suo invocare uno Spirito che è autocoscienza d’una coscienza e non Dio, il Dio nascosto, trionfa sull’enigma del Dio che si fa uomo e dell’uomo che diventa Dio? In una parola: riesce a penetrare il mistero delle origini cristiane?» (pp. 14-15). La domanda è palesemente retorica: evidentemente no, malgrado Omodeo abbia dedicato all’argomento i suoi tre celebri volumi (che sono quelli che Della Volpe trasceglie e solo rapidamente analizza). Qui, infatti, «Gesù e i profeti paiono non profeti e apostoli di Dio ma dell’attualismo gentiliano» (p. 19): un risultato tutto sommato non sorprendente laddove si sarebbe partiti dal 1 E. de Martino, Adolfo Omodeo (23.VIII.1889 – 28.IV.1946), in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», XIX-XX, 1943-1946, pp. 255-260, qui p. 260.

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xiv

PREFAZIONE

presupposto – così Della Volpe interpreta Omodeo – che col cristianesimo «la coscienza diventa autocoscienza e Dio rinasce Spirito». Dove si vede molto bene come, nell’orizzonte dell’Autrice, il passaggio idealistico e ancor più neoidealistico da Dio allo Spirito, che nel quadro di tale riflessione stava anche a significare il passaggio dalla trascendenza all’immanenza, sia oppugnabile e da avversare. Così del resto già fecero, ai tempi dell’idealismo classico, gli esponenti della Destra hegeliana. Il titolo del secondo capitolo, dedicato a Ernesto de Martino, è anche quello che dà il titolo all’intero volume: «all’ombra del divino». Tuttavia si sbaglierebbe a inferire da ciò una centralità di de Martino in Della Volpe, a meno che non si voglia parlare di una centralità polemica. Concepire la religione come nesso mitico-rituale, «destorificazione» (un concetto, lo si dice per inciso, estremamente antistoricistico) e «pia fraus» non può soddisfare chi, come Della Volpe, ricerca le «feritorie» autenticamente religiose dello storicismo italiano. Qui va osservato che, fra gli autori studiati da Della Volpe, Ernesto de Martino è stato quello certamente più interessato e anche suggestionato dal «lato oscuro» dell’uomo. Lo dimostrano, fra l’altro, sia l’interesse per il magismo primitivo sia quello per le interpretazioni della religione concepita come il «tutt’altro», il «tremendo», il «perturbante» (l’influenza di Rudolf Otto e di Gerardus van der Leeuw su de Martino è analizzata con attenzione da Della Volpe). Ma non è questa la linea su cui l’Autrice può consentire. La quale, anche sulla scorta di predilette citazioni dantesche, di cui forse troppo pullula il suo testo, insiste molto sulla religione come «amore». Di conseguenza, ella non può apprezzare né chi consapevolmente isola la religione in uno spazio extraetico ed extramorale, né chi troppo, alla luce del «sacro», avvicinerebbe i confini tra magia e religione, così inquinando e pervertendo la religione medesima. Molto diverso, anche emotivamente diverso, è l’atteggiamento con cui Maria Della Volpe guarda a Croce, che risalta, assai più di de Martino e di Omodeo, come il vero protagonista delle pagine in discussione. Come già nel suo volume crociano del 2010, Della Volpe torna oggi, forse anche con maggiore insistenza che in passato, a riproporre la sua interpretazione religiosa del pensiero di Croce, incentrata stavolta, giusta la linea monografica del volume, su uno dei saggi più celebri del filosofo napoletano, il Perché non possiamo non dirci «cristiani» (1942). È difficile che Croce sarebbe stato contento nel vedere definito il suo scritto prima come «un atto di devozione, una professione di fede» (p. 70), quindi come «un

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PREFAZIONE xv

atto d’obbedienza e di riverenza» (p. 71), infine «come un de Trinitate» (p. 82). Tuttavia Della Volpe lo definisce enfaticamente così, insistendo anche molto sugli aspetti di assoluta novità del cristianesimo, che, pur nato in qualche modo nella storia, alla storia però, malgrado qualche resistenza finanche di Croce, felicemente si sarebbe sottratto. «Per quanto Croce, dunque, cerchi di rinserrare il cristianesimo nelle strette maglie della storia, questo ad essa sempre sfugge», scrive l’Autrice (p. 72). Del resto, di tale opportuna divaricazione della religione cristiana dalla storia Croce sarebbe stato il primo a essere perfettamente consapevole, poiché, a seguire senza preconcetti e preclusioni ideologiche il suo ragionamento, non si potrebbe «fare a meno di rilevare che il cristianesimo, nel saggio del ’42, è un evento unico, carico di una potenza tale d’aprire le acque della storia e posare la pietra miliare su cui ne è segnato l’inizio» (p. 73). Qui osserviamo che ciò non collima né con lo storicismo né con la ben nota avversione crociana per l’idea del «cominciamento». Ma per Della Volpe è molto più importante che la storia, finalmente «liberata dal pesante giogo del fato e del caso», divenga «teofania» (p. 75). E che, in conseguenza di ciò, si possa infine elevare «un inno allo Spirito» (così il titolo di un paragrafo del capitolo crociano), poiché – la frase è rivelatrice dell’impianto dell’intero volume – «lo Spirito, che è il Tutto che non tutto agguaglia, torna ad essere Dio» (p. 87). In conclusione, anche al di là dei capitoli su Omodeo e de Martino, che contengono spunti pregevoli, la seconda prova di Maria Della Volpe rilancia l’antica questione di una possibile lettura religiosa del pensiero di Croce; una questione che va di pari passo (anche se non coincide) col problema dell’utilizzazione della terminologia religiosa nel filosofo napoletano, che fu frequente e che poteva e può ingenerare qualche fraintendimento. È per questo che, in anni ormai lontani, Guido Calogero, in una determinata occasione (si trattava però solo di un «convegno di professori», come Croce ebbe a osservare con tono irrisorio), lo invitò ad abbandonare «la terminologia teologizzante che induce all’equivoco». Ma all’equivoco evidentemente non soggiacque chi di religione e di cristianesimo si intendeva davvero, ovvero le cerchie cattoliche che di Croce dapprima misero all’indice i libri, per poi tornare a condannarlo, nei necrologi pubblicati all’indomani della morte, per avere egli sostituito «il vero Dio con quello falso della sua filosofia». Napoli, ottobre 2017

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AVVERTENZA La religione occupa non piccola parte nella riflessione dello storicismo italiano, tanto che non si va lontano dal vero se si dice che proprio in essa si rifrangono i multiformi lineamenti di una poco monolitica figura. Che qui, più che altrove, rivela la problematicità, critica, di una filosofia che pur riconducendo a ragioni umane il mondo della storia, non ha potuto, e non può, non confrontarsi con quanto a quelle regioni pur sempre tenta di sottrarsi. Dunque, tra temporalità ed eternità, relatività e assolutezza del vero si dipana la riflessione storicistica italiana alla ricerca, ieri come oggi, di una forma di conoscenza, in alto senso etica e politica, che non cedendo al relativismo, sia capace di radicarsi in una religiosità non confessionale e pienamente umana. Da queste riflessioni muovono le pagine che seguono, in cui si tenta di tracciare, almeno in piccola parte, l’itinerario, complesso e controverso, attraverso cui lo storicismo italiano si prova col divino. A tal fine, la mia ricerca si è rivolta a tre figure emblematiche: lo storico del cristianesimo Adolfo Omodeo, l’antropologo Ernesto de Martino e, da ultimo, Benedetto Croce. Di questi si sono scelte pagine che mi sono sembrate come feritoie in cui si lascia intravedere quanto altrove resta celato. Queste brevi righe non possono dirsi concluse senza che io esprima un sincero ringraziamento al mio maestro, prof. Domenico Conte per gli stimoli e l’incoraggiamento che dalle nostre conversazioni ho sempre potuto trarre; e al prof. Fulvio Tessitore per la generosità e la fiducia che, da non pochi anni, ha voluto, affettuosamente, accordarmi. Napoli, gennaio 2017

M.D.V.

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CAPITOLO I

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«LA POLVERE D’ADAMO» ADOLFO OMODEO 1913-1922 «Gli dèi possono ridiventare uomini e gli uomini dèi» [Th. Mann, Le storie di Giacobbe]

I. «“Res gestae” e “Historia rerum”»: la storia come attualità dello spirito «Io sono la storia»1. Così scrive nel 1913 lo storico Adolfo Omodeo, la cui vita fu gravata e innalzata dallo sforzo, inane, di risollevare nella luce dello spirito quanto giaceva sprofondato nelle tenebre impenetrabili della natura2. Discepolo «sconfessato» di Gentile3, «collaboratore» da cui Croce non smise mai d’imparare4, Omodeo ‘varcò’ i limiti dell’Ade e ‘spezzò’ le dure catene di Cronos. Far risorgere i morti, creare il mondo5 fu l’opera, titanica, cui si votò da giovane, lui che vecchio non divenne mai. 1 A. Omodeo, «Res gestae» e «Historia rerum» (1913), in A. Omodeo, Scritti storici, politici e civili. Una diuturna polemica, a cura di M. Rascaglia, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 277-291, qui p. 278. Per il prosieguo si citerà da questa edizione. Tuttavia non è superfluo ricordare che questo scritto omodeiano sia stato ripubblicato negli «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», XVIII, 1975-76, pp. 147-166. 2 Cfr. ivi, p. 285. 3 A. Omodeo a G. Gentile, lettera del 4 dicembre 1929, in Carteggio Gentile-Omodeo, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 434-436, qui p. 436. 4 B. Croce, Adolfo Omodeo, in «Quaderni della “Critica”», 1946, pp. 1-4, qui p. 3. 5 Cfr. infra, pp. 3 e sgg.

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L’OMBRA DEL DIVINO

Uomo dal «carattere cattivo»6, dal «temperamento sospettoso ed imperioso»7, Rettore, Ministro della Pubblica Istruzione, anima del Partito d’Azione, Omodeo fu «grande storico», «storico di razza»8. Tuttavia non si può non tenere in dovuto conto, come pure è stato fatto, che egli poté tenere stretta in una sola mano tutta quanta la storia, scavalcando i limiti dei settori e non mai scivolando nelle larghe maglie delle generalizzazioni, perché fu storico e filosofo insieme: storico perché filosofo. Egli, infatti, concepì filosoficamente la storia e storicamente la filosofia. Tanto che l’opera dello storico è mutila se privata dello scandaglio del filosofo. E che sia così appare chiaro sin dal suo Gesù 9 che, insieme con gli altri due volumi sulle origini cristiane10, risulterebbe poco intelligibile, se non impenetrabile, senza il saggio del 1913 su «Res gestae» e «Historia rerum». Che è, con la sua complessa genesi e ambigua fortuna, il punto di partenza ineludibile per chi, come noi, si provi a delineare i lineamenti, a tratti brumi, della filosofia omodeiana, che poi è, come si cercherà di dire, tutt’uno con la storia. 6 E. Omodeo Zona, Ricordi su Adolfo Omodeo, Catania, Bonanno Editore, 1968, p. 16. Sul pessimo carattere di Omodeo scherza anche la moglie che riporta un tenero episodio: «Poco prima di partire avevo avuto una simpatica visita dei genitori di Omodeo. Arrivarono un pomeriggio: l’ingegnere Pietro, lombardo, alto, bonario, con una gran voce baritonale; la moglie – piccola, vestita di nero – aveva già i bei capelli ricciuti bianchissimi, l’espressione vivace e vivaci gli occhi scuri. “Figghia mia, – mi disse appena entrata, alludendo al ‘cattivo’ carattere del figlio, – pigghiati ‘na mazzara e va jettati a mari”» (Ibidem). Tuttavia come scrive Luigi Russo, riferendosi al carattere dell’amico da poco estinto: «Bisognava moderarlo, bisognava correggerlo, ma bisognava rispettarlo, lasciarlo fare, perché le sue intenzioni erano purissime […] l’accento dell’amore era più forte in lui di ogni altra nota» (L. Russo, Adolfo Omodeo è morto!, in «Belfagor», 1946, pp. 279-282, qui p. 281). 7 B. Croce a E. Omodeo Zona, lettera del 12 settembre 1946, in Carteggio CroceOmodeo, a cura di M. Gigante, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 234-235, qui p. 235. 8 E. Ragionieri, Omodeo e lo storicismo formalistico, in «Belfagor», 1948, pp. 575-578, qui p. 578. Sulla vita e sull’opera di Adolfo Omodeo si veda: M. Musté, Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico, Bologna, il Mulino, 1990. 9 A. Omodeo, Gesù e le origini del Cristianesimo, Messina, Principato, 1913. A questa seguì, nel 1923, una nuova edizione riveduta e pubblicata come primo volume della trilogia sulla Storia delle origini cristiane. Strumento importante per orientarsi nell’ambito della produzione omodeiana è il libro di M. Rascaglia, Bibliografia di Adolfo Omodeo, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1993. 10 A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I Gesù (19232); vol. II. Prolegomeni alla storia dell’età apostolica (1920); vol. III. Paolo di Tarso apostolo delle genti (1922). Ora i tre volumi sono disponibili in una bella edizione anastatica pubblicata nel 2000, per il Mulino.

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 3

Scritto in poche settimane come mosso da «una forza imperiosa»11, il breve saggio del ’13 è per certi riguardi ostico, quasi scompaginato e di non immediata comprensione, tanto che al lettore, storico o filosofo che sia, capita più di una volta di perdersi e tornare indietro nel fitto ginepraio dei ragionamenti omodeiani, non sempre condotti con rigore espositivo e chiarezza logica. Tuttavia non si possono non rilevare i motivi che hanno fatto di «Res gestae» e «Historia rerum» del ventiquattrenne allievo di Gentile, il «manifesto dell’attualismo per la scienza storica»12. Qui, infatti, «con stenti e trepidazioni infiniti»13, egli estende e prova i risultati della filosofia gentiliana al regno di Clio, facendo, così, dell’«atto puro» il canone, unico, per ogni indagine storica. Come si può ricostruire la «forma» spirituale di Gesù e degli apostoli?14 come è possibile capire chi è stato il figlio di Giuseppe per i primitivi cristiani? ovvero: come la storia che io in questo momento scrivo di Gesù aderisce a lui e alle sue opere? Diciamo meglio: come quello che è stato può tornare ad essere? Sono questi gli interrogativi che inducono Omodeo a scrivere l’«aspro lavoro»15 che doveva provare la giustezza della sua opera. Non è un caso, infatti, che, concependo il saggio sulla natura della storia con l’intento programmatico, ben presto abbandonato16, di fornire una prefazione al Gesù, egli lo scriva interrompendo la stesura di «coda del diavolo», la terza e ultima parte del volume sul falegname di Nazareth, in cui, per ricostruire lo sviluppo della tradizione su Gesù17, si confronta con la letteratura biblica. È giunto a questo punto della sua indagine, 11

A. Omodeo a E. Zona, lettera dell’1 dicembre 1912, in Id., Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi, 1963, pp. 46-47, qui p. 46. 12 F. Sciuto, La formazione giovanile di Adolfo Omodeo, in «Rivista di studi crociani», 1969, pp. 129-148, qui p. 145. La prima parte del saggio, però, è pubblicata nel 1968, sempre sulla «Rivista di studi crociani», e si legge alle pp. 450-468. 13 A. Omodeo a G. Gentile, lettera del 13 dicembre 1912, in Lettere 1910-1946, cit., p. 49. 14 Cfr. A. Omodeo a E. Zona, lettera del 17 agosto 1912, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 25-27, qui p. 26. 15 A. Omodeo a E. Zona, lettera dell’11 dicembre 1912, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 47-48, qui p. 47. 16 Cfr. A. Omodeo a E. Zona, lettera del 24 novembre 1912, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 45-46. 17 Cfr. A. Omodeo a E. Zona, lettera del 14 agosto 1912, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 23-25.

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infatti, come rivelano le lettere, che inizia a riflettere sul nesso tra res gestae e historia rerum: «[…] la storia non è esteriorità rispetto alla mente che la ricostruisce, non è oggetto che si cerchi di ricopiare, ma è interiorità del soggetto stesso […] il passato non è imposizione allo spirito, è il mio passato in cui mi riconosco condizionato, e che è nell’atto del mio pensiero; sì che lo spirito che si profonde a narrare la storia crea la storia (“historia rerum gestarum”) […] l’“historia rerum gestarum” determina il farsi della nuova storia (“res gestae”); e le «res gestae» del passato nel risolversi nella spiritualità che le rivive, entrando come elemento fattivo della storia (“res gestae”), si sviluppano nelle conseguenze, ulteriormente si determinano, acquistano un posto ognor diverso nella serie dei fatti storici»18.

Dunque, mettendo a parte dei suoi studi Eva Zona, sua futura moglie, in pagine che in non rari luoghi hanno andamento turgido se non frenetico19, unica traccia della giovane età di chi scrive, la questione della storia è posta in termini ontologici: fare è conoscere; conoscere è fare. Anzi è creare. Sicché, non si va lontano dal vero se si dice che il muro del tempo già ora inizia a sgretolarsi. Ciò che è stato non solo torna ad essere, ma per la prima volta è così com’è. Tuttavia nelle lettere scritte tra l’agosto e il novembre del 1912, il problema della storia è un pungolo costante non mai risolto se non in termini intuitivi. Per una sua risoluzione concettuale sarà necessaria la lettura della memoria crociana Storia, cronaca e false storie 20, che se poco persuase Omodeo, lo indusse, però, alla «sistemazione» del concetto di storia21. Le pagine del filosofo napoletano, infatti, spinsero Omodeo a prendere posizione sul concetto

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A. Omodeo a E. Zona, lettera del 17 agosto 1917, cit., p. 25. «“Gloria in excelsis Deo”» ed in terra ad Adolfo Omodeo, suo diligente storico» (lettera del 21 novembre 1911, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 15-16, qui p. 15). Esclamazioni simili si trovano spesso nelle lettere di questo periodo. 20 B. Croce, Storia, cronaca e false storie, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XLII (1912), pp. 32 (Memoria n. 10). La Memoria del 1912 viene ripubblicata da Croce, senza variazioni significative, in Teoria e storia della storiografia (1917), i cui primi tre capitoli, intitolati Storia e cronaca; Le pseudostorie; La storia come storia dell’universale. Critica della “storia universale”; corrispondono, proprio, alla Memoria letta all’Accademia Pontaniana da Croce durante la seduta del 3 novembre 1912. 21 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 19 novembre 1912, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 43-44, qui p. 44. 19

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di storia22. Egli voleva ormai «fermare» le «tante idee sparse» in un lavoro in cui venisse affermata, in modo risoluto, la sua posizione filosofica23. Da qui il «Res gestae» che Omodeo, non senza timori24, spedì a Giovanni Gentile, presentandolo come «un saggio filosofico» sul concetto di storia volto ad una «precisazione un po’ rigorosa d’alcuni concetti un po’ fluttuanti e non ben precisati nell’odierno movimento filosofico»25. Lo scritto piacque molto al Gentile che lo definì «corrisponde[nte] in tutto alle [sue] idee»26. Tuttavia degno di pubblicazione soltanto se vi si fosse aggiunta una nota che lo avesse messo in relazione con quello di Croce, che non solo aveva trattato prima di lui lo stesso argomento, ma che era giunto alla stessa tesi27. Ma se si confronta lo scritto del primo con quello del secondo non si potrà, come poi fece Croce28, non dissentire da Gentile le cui parole, alla luce del dopo, furono mosse più dall’affetto che dal rigore scientifico. Sicché per comprendere lo scritto omodeiano è tutt’altro che peregrino sostare, anche se solo brevemente, su quello crociano che, per l’interprete, funge come specchio nella cui immagine riflessa si coglie, al di là della somiglianza dei tratti, la luce che nella vicinanza tradisce le differenze. Com’è noto la memoria del 1912 rifluì in Teoria e storia della storiografia29, il libro che nella lunga e complessa genesi30 andò a costituire 22 Cfr. A. Omodeo a E. Zona, lettera dell’1 novembre 1912, in Lettere 1910-1946, cit., pp. 40-42, qui p. 41. 23 Cfr. ibidem. 24 «Siccome non ho avuto né modo né voglia di fare indagini sulla letteratura dell’argomento, ho un po’ la paura di portar vasi a Samo. Conosco i saggi sull’argomento del Labriola e del Croce, e rispetto ad essi sento nel mio lavoro una risoluta differenziazione: ignoro però i Suoi lavori in proposito: ed è ciò che mi fa sorgere il dubbio che tale precisazione di idee sia già stata compiuta da Lei, e che il mio lavoro possa essere tardivo. Ad ogni modo per me questo lavoro non sarà certo in ritardo: e sarei anzi lieto che le idee del maestro rifiorissero spontaneamente in me» (A. Omodeo a G. Gentile, lettera del 13 dicembre 1912, in Lettere 1910-1946, cit., p. 49). 25 Ibidem. 26 G. Gentile ad A. Omodeo, lettera del 5 gennaio 1913, in Carteggio Gentile-Omodeo, cit., pp. 36-38, qui p. 37. 27 Ibidem. 28 B. Croce, Una discussione tra filosofi amici (1913), in Id., Conversazioni critiche. Serie seconda (1918), Laterza, Bari, 1950, pp. 67-95. 29 B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1917), a cura di E. Massimilla e T. Tagliaferri, con una nota al testo di F. Tessitore, 2 voll., Napoli, Bibliopolis, 2007. 30 Il 21 dicembre 1909, Croce appunta nei suoi Taccuini: «Accettato di fare per una collezione tedesca dell’editore Mohr un libro sulla Filosofia della storia» (B. Croce,

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e a chiudere, almeno nelle intenzioni dell’autore, il quarto volume della “Filosofia dello spirito”. Qui, in pagine forse tra le più celebri della produzione crociana, il filosofo napoletano espone la teoria della contemporaneità d’ogni storia; definisce con tono fermo e parole risolute e risolutive l’autentica natura della storia distinguendola dalla cronaca – la prima «atto di pensiero», la seconda «atto di volontà»31 –; indica l’unico documento non perituro, corruttibile o alterabile – il «nostro petto»32 «crogiuolo in cui il certo si converte col vero» – su cui lo storico deve fondare la sua indagine. E ancora. Identifica la storia con la filosofia, risolvendo quest’ultima nella «conoscenza dell’eterno presente»33. Tuttavia senza indugiare oltremodo sui tanti rivoli in cui si dipana il discorso crociano, non privo di insidie per l’interprete, è doveroso sostare solamente su quelli utili al discorso che qui si vuol fare. Dunque: che cos’è la storia? e la storia della storia? qual è il rapporto tra l’una e l’altra? In una delle prime pagine della memoria del 1912 si legge che «ogni vera storia è storia contemporanea»34. Essa, infatti, precisa Croce, nasce da un «atto spirituale» e come ogni atto spirituale, è «fuori del tempo» e si «forma “nel tempo stesso”»35. La contemporaneità, allora, «non è carattere di una classe di storie […], ma carattere intrinseco di ogni storia»36; non è «distinzione cronologica ma ideale»37. Sicché «contemporanea» non è solo la storia che io faccio di un atto che compio nel momento in cui lo compio, ma ogni storia che «balza direttamente dalla vita»38, perché solo l’interesse del vivo presente può indurre ad indagare un fatto passato. Dunque, soltanto se mi occupo della questione della Taccuini 1906-1916, in Id., Taccuini di lavoro, 5 voll., Napoli, Arte Tipografica, 1987, qui vol. I, p. 183). Tuttavia soltanto nell’ottobre del 1911 stabilisce il piano di ricerche da fare. Da allora inizia un lungo periodo di intense letture, di schemi più volte fatti, disfatti e rifatti che si conclude nel settembre del 1912 con la costatazione dell’impossibilità di fare in «niun modo» un libro sulla Filosofia della storia. Gli appunti raccolti in intensi mesi di studio diventano così la base su cui Croce scrive una serie di saggi sulla storiografia e la storia della storiografia. Da qui il volume pubblicato dapprima in Germania nel 1915 e poi nel 1917 in Italia col titolo Teoria e storia della storiografia. 31 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., vol. I, p. 18. 32 Ivi, p. 23. 33 Ivi, p. 52. 34 Ivi, p. 12. 35 Ivi, p. 11. 36 Ivi, p. 13. 37 Ivi, p. 11. 38 Ivi, p. 12.

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«civiltà ellenica» o di quella della «filosofia platonica» con la stessa ansia con cui mi occupo di un «negozio che sto trattando» o di «un amore che sto coltivando» o di «un pericolo che mi incombe»39, solamente allora la storia della «civiltà ellenica» o la «filosofia platonica» assurgerà per me a storia «viva», a storia «contemporanea». Ma dire che ogni vera storia è storia contemporanea significa affermare che non tutte le storie sono vere storie. Croce, infatti, distingue – e le pagine che stiamo analizzando vanno tutte in questo senso – con una linea netta e precisa, la storia dalla non storia, giungendo così alla distinzione, «cercata invano finora», tra la storia e la cronaca: «[…] la verità – scrive infatti Croce – è che cronaca e storia non sono distinguibili come due forme di storia, che si compiano a vicenda o che siano l’una subordinata all’altra, ma come due diversi atteggiamenti spirituali. La storia è la storia viva, la cronaca la storia morta: la storia, la storia contemporanea e la cronaca, la storia passata; la storia è precipuamente un atto di pensiero, la cronaca un atto di volontà. Ogni storia diviene cronaca quando non è più pensata, ma solamente ricordata nelle astratte parole, che erano un tempo concrete e la esprimevano»40.

Ciò che è stato, dunque, torna ad essere e si rifà presente. Storia e cronaca, infatti, sono separate da un pozzo profondo ma non insondabile, perché il passato, pur sommerso, conserva un pio legame con il presente. Tuttavia affinché il prima torni dalla spelonca del tempo e ciò che è morto ritorni a nuova vita è necessario che il fatto di cui si «tesse» la storia «vibri nell’animo dello storico»41. È lo storico, infatti, a scuotere la storia, a indurre la silente storia alla parola. Essa non nasce dai documenti, «spoglie mortali», «vuote narrazioni», «cronaca» che però un giorno il nostro spirito potrà rendere di nuovo viva, rifacendola presente, ma esisterebbe anche se i documenti venissero smarriti: la sua autorità, la sua verità non può risiedere in «cose esterne» che potrebbero essere distrutte o messe in dubbio. Al cospetto di chi ingenuamente crede di «tener sotto chiave la storia» e di rivelarne a proprio piacimento «le “fonti” da cui l’assetata

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Ivi, p. 13. Ivi, p. 18. Ivi, p. 12.

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umanità potrà attingerla»42, lo storico ribatte: la storia è in noi tutti, le «fonti sono nel nostro petto»43. In noi, dunque, riposa tutta quanta la storia. In noi alberga l’unico documento vivente d’ogni storia. Da ultimo, allora, pare che il presente ponga il passato che, però, nel porlo non lo pone più come passato ma come presente, tanto che l’uno si identifica con l’altro nell’eternità dell’atto della coscienza. Ma a chi così s’ingannasse (o «illudesse»), avverte Croce: «[…] sarà impossibile intendere mai nulla del processo effettivo del pensare storico se non si muove dal principio che lo spirito stesso è storia, e in ogni suo momento fattore di storia e risultato insieme di tutta la storia anteriore; cosicché lo spirito reca in sé tutta la sua storia, che coincide poi col sé stesso»44.

La storia «contemporanea», «attuale»45 nasce da un atto spirituale perché essa stessa è Spirito. Conoscere la storia non è farla e men che mai crearla. Res gestae e historia rerum gestarum, proprio sulla scorta della teoria della contemporaneità della storia, sono intimamente congiunte, sicché le gambe dell’una giacciono intrecciate con quelle dell’altra46. Tuttavia pur nella loro unità restano irrimediabilmente distinte. Attivi42

Ivi, p. 23. Ibidem. 44 Ivi, pp. 22-23. 45 Ivi, p. 27. In più luoghi i due termini, storia contemporanea e attuale, vengono usati come sinonimi. È questo, forse, uno dei motivi che portarono Gentile a pensare che Croce avesse «saltato il fosso» e accettato «l’idealismo attuale» (B. Croce, Una discussione tra filosofi amici, cit., p. 89). 46 È interessante notare che, a testimonianza dell’importanza della questione, Croce ritorna sul problema del rapporto tra res gestae e historia rerum gestarum in uno dei Marginalia, intitolato Unità e diversità di storia e storiografia, inseriti nell’edizione del 1927 di Teoria e storia della storiografia: «Mi pare opportuno mettere in guardia contro un concetto che si ode qua e là ripetere nella recente letteratura filosofica italiana, e che afferma l’identità della storia con la storiografia, delle res gestae con l’ historia rerum gestarum. Tanto più è opportuno in quanto quel concetto offre una superficiale somiglianza con l’altro della “contemporaneità” di ogni storiografia, ossia con la tesi che la storiografia nasca da un interesse o bisogno della vita pratica […]. In questa nostra tesi, com’è chiaro, storia e storiografia sono unificate e distinte insieme, al modo stesso che, nella poesia, passione e poesia, sentimento e intuizione si unificano e insieme si distinguono nel concetto della espressione poetica o dell’intuizione lirica, che contiene il sentimento ma non è il mero sentimento, sì invece il sentimento rappresentato e convertito in verità d’intuizione, e non ha niente che vedere con l’espressione in senso naturalistico, cioè con la manifestazione e ripercussione degli affetti nella voce e nel gesto» (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., vol. I, pp. 273-274). 43

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tà teoretica e pratica, pensiero e volontà sono le due eterne forme in cui si esplica la vita dello spirito. Che è uno e pur distinto. Non esiste pensiero che non sia seguito d’azione; non esiste azione che non sia preceduta dal pensiero. Diciamo meglio: il pensiero non è concepibile senza la volontà, né questa senza quello. La memoria Storia, cronaca e false storie, trova, allora, al di là delle esemplificazioni o delle concessioni linguistiche più che concettuali fatte all’attualismo, il suo autentico nerbo nel concetto dello spirito come eterna unità nell’eternità dei distinti. E che sia così non sfuggì ad Omodeo che, non a caso, sentì, come confessò al suo «buon professore», una «risoluta differenziazione»47 tra il suo lavoro e il saggio crociano. Anche per Omodeo la storia è sempre storia contemporanea, attuale e non compendio della storia universale48. Anche per l’allievo di Gentile i fatti non sono bruti, opachi e mutoli e i documenti sono vivi e parlanti49. Anche per lui lo spirito è storia50. Tuttavia è proprio esso la pietra di scandalo, la radice prima che fa l’uno eretico all’altro. Il «Res gestae» ha un incipit assai significativo: «La storia di un personaggio non è tanto la storia dei brevi anni di sua vita, quanto (e anzi in questa seconda storia si risolve la prima) la sua storia postuma, il suo porsi come elemento incontrovertibile nella storia del mondo come problema perenne, risorgente, eternamente nuovo, da ogni soluzione: il suo esserci nell’attualità dello 47

A. Omodeo a G. Gentile, lettera del 13 dicembre 1912, cit., p. 49. Sul problema della storia universale nell’ambito della riflessione crociana si veda l’importante volume di D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, Bologna, il Mulino, 2005. 49 «Le mura di Caracalla, anche pel ciociaro carducciano, non sono certo i sassi sparsi per i sentieri della Ciociaria: anche per lui quelle pietre sono, dirò, suggellate d’umanità. Pel contadino della Rivoluzione che brucia gli archivi medievali dei signori, pel comunardo che abbatte la colonna di Vendôme, quegli archivi sono sempre spirito, sono la volontà che esige le decime, e fa distruggere i raccolti dalla selvaggina immune; quella colonna è l’orgoglio militare di Napoleone che conculca con piede di ferro il proletario. E appunto come spirito possono essere negati, ché se in quelle carte e in quella colonna avesser veduto sola carta, solo metallo, pura natura, essi non l’avrebbero bruciate, non l’avrebbero abbattuta, come non si picchia una pietra. Essi di questo spirito che è passato, celebrano la risoluzione nella loro volontà attuale» (A. Omodeo, «Res gestae» e «Historia rerum», cit., p. 285). 50 «Lo spirito è la storia nel suo interno conoscersi» (ivi, p. 278). E ancora: «poiché lo spirito è storia e ha interiormente a sé medesimo il proprio passato, tutto il mondo della propria esperienza che, se astratto dalla sintesi, è morta natura, ma nella sintesi è lo spirito istesso, lo spirito che si sviluppa e si concreta» (ivi, p. 286). 48

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spirito, nel processo del quale s’eterna. Eternamente si concreta, assurge a nuovi valori nella serie eternamente svolgentesi della storia sì che l’atto del personaggio eternamente vive, eternamente crea come l’atto di Dio»51.

Non esiste, dunque, un oggetto in sé, immutabile, impassibile, preso di per sé solo, ma esiste solo un atto del pensiero che lo pensa, tanto che l’oggetto è schiacciato dal soggetto che su di lui grandeggia. Sicché nella storia non vi sono uomini ma «personaggi», timide ombre di sogno. Esse al pari del Gesù giovanneo vivono solo nelle testimonianze che altri di loro danno. Testimonianza di testimonianze, catena di catene è la storia, dunque, che trova il perno nell’atto della coscienza che con la sua potenza diviene il dio che crea il mondo e la storia – ma non gli uomini. Non c’è più presente, né passato. Non c’è più il tempo, annientato, una volta e per tutte, una volta e per sempre, dall’attimo eterno, in cui tutto ha principio: «Nel suo concretarsi attuale lo spirito pone la sua storia accentrata nella sua attualità. Onde ogni momento di coscienza, ogni pulsazione vitale dello spirito è storia, ed è storia in duplice senso: come res gestae e come historia rerum gestarum. Ogni atto spirituale è un conoscere che è un fare, poiché non essendo la conoscenza passiva contemplazione d’un oggetto in sé, d’un mondo di idee, ma un perpetuo rinnovamento che il pensiero fa di se stesso, sì che nel momento in cui pensiamo la scienza della natura, o la storia, questa natura o questa storia pienamente rispondono alla nostra intellezione, la conoscenza è sempre conoscenza dello spirito che si fa oggetto a sé ritrovandosi nel suo oggetto, il conoscere è attività, è fare. E appunto perché la fa (e non per averla fatta secondo il principio del Vico, perché altrimenti questa storia, fatta da altri, apparirebbe non meno oscura di quel che a Vico sembrasse la natura creata secondo le arcane leggi di Dio) egli la conosce la storia, e res gestae e historia rerum gestarum vengono inscindibilmente congiunte nella sintesi dello spirito; il quale, concretandosi crea sé e la sua storia»52.

Non esiste Gesù, Giulio Cesare, Napoleone. Non esiste Adolfo Omodeo se non nell’atto del mio pensiero, che nel conoscerlo lo crea. 51 52

Ivi, p. 277. Ivi, pp. 278-279.

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 11

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E il mio Adolfo Omodeo è l’unico e vero Adolfo Omodeo. Sono io che, distruggendo i ceppi dell’Ade, gli ridò la vita. Dunque, ciò che è stato non solo torna ad essere, ma per la prima volta è così com’ è. Da ultimo, allora, lo Spirito è autocoscienza di una coscienza, di un io intento a conoscere se stesso e dunque a creare un mondo a sua immagine e somiglianza. Un dio, a ben guardare, assai impotente che profana le tombe dei morti e tratta i vivi come morti o come divinità inferiori. Questo spirito, ancora così confuso e indistinto, aveva, per ora, poco o nulla in comune con quello crociano. Uno e pur distinto.

II. Gesù, Paolo e la genesi della coscienza «Ora mi vien da pensare: che successo avrà nel mondo la mia prima opera?» È la domanda che, rifrangendosi a mezza voce nelle pieghe del dubbio e del timore, Omodeo, come chiunque si impegni in un lavoro lungo, faticoso e non di rado tormentato53, si pone in una lettera del dicembre del 1912 indirizzata ad Eva Zona54. Tuttavia se consueto è l’interrogativo del primo, inconsueto sarà il destino della seconda. La vita del Gesù, infatti, prima e dopo la morte dell’Omodeo, fu tutt’altro che semplice55.

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«Il mio studio è abbastanza monotono: vado raccogliendo il materiale: molte idee crollano, il legame stabilito fra molti fenomeni si discioglie, e intorno al mio pensiero turbina il caos di opinioni, di fantasticherie, di sentimenti del mondo religioso che io studio» (A. Omodeo a E. Zona, lettera del 28 febbraio 1911, in Lettere, cit., p. 9). Omodeo lavora senza posa al suo Gesù che col passar del tempo gli appare come un «lavoro interminabile» (A. Omodeo a E. Zona, lettera dell’11 ottobre 1912, in Lettere, cit., p. 36), «cunicolare». Un «oppressione del cuore», «un travaglio continuo» (A. Omodeo a E. Zona, lettera del 13 ottobre 1912, in Lettere, cit., pp. 36-37). E poi impazienza e insofferenza: «questa lentezza è per me ormai un martirio, e, se potessi, passerei non so quante notti insonni pur di finirlo» (A. Omodeo a E. Zona, lettera del 30 ottobre 1912, in Lettere, cit., p. 40). E momenti in cui, preso dallo sconforto, si chiede quando mai potrà dominare dall’alto il problema del cristianesimo (A. Omodeo a E. Zona, lettera del 21 ottobre 1912, in Lettere, cit., pp. 38-39). 54 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 25 dicembre 1912, in Lettere, cit., p. 53. 55 Per la storia della recezione delle opere omodeiane si veda il volume di G. De Marzi, Adolfo Omodeo: itinerario di uno storico (Urbino, Quattroventi, 1988), che se non offre un’analisi particolarmente interessante della figura e del pensiero dello studioso palermitano, ne fornisce però, una puntuale ricostruzione storica affiancata, nell’ultimo capitolo del suo volume, da un’utile Guida bibliografica degli scritti su Adolfo Omodeo.

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L’OMBRA DEL DIVINO

Pubblicato nel 1913 a Messina nella collana di «Studi filosofici» diretta da Giovanni Gentile per la casa editrice Principato, il primo volume di quella che poi sarebbe diventata la trilogia sulle origini cristiane è un libro complesso, stratificato in cui l’autore si addentra, alla fine dominandola, in una sezione del mondo antico – la storia delle religioni – vasta, oscura e ignota ai più56. Mosso da «disinteresse partigiano» e da «puro interesse scientifico»57, il Gesù trova il suo perno, mai celato, nell’intento di liberare la religione dal pesante giogo del rito58 e di definire il valore non confessionale della vicenda di Gesù59, ricostruita con l’ausilio, ineludibile, della filosofia attualistica. Tuttavia proprio i motivi che l’ispirarono sono la causa prima delle critiche che, da più parti, gli si levarono contro. In ambienti accademici, infatti, il libro di Omodeo fu definito «un composto inorganico di parti disparate tra di loro», di «poca consistenza scientifica» e il suo autore di «scarsa preparazione», tanto che il Gesù risultava, da ultimo, poco rispondente «allo stato presente della critica storica»60 . Ma le «maligne vendettuzze»61 di professori avvelenati62 appaiono poca cosa e di facile vittoria se paragonate ai giudizi provenienti dagli appartenenti al mondo ecclesiastico. 56

E. Omodeo Zona, Ricordi su Adolfo Omodeo, cit., p. 15. A. Omodeo a E. Zona, lettera del 25 dicembre 1912, cit., p. 53. 58 G. De Marzi, Adolfo Omodeo: itinerario di uno storico, cit., p. 10. 59 F. Sciuto, La formazione giovanile di Adolfo Omodeo, in «Rivista di studi crociani», 1968-1969, fasc. IV e II, pp. 450-468 e pp. 129-148, qui p. 148. 60 A., Chiappelli, recensione al Gesù e le origini del cristianesimo, in «Bollettino di letteratura critico religiosa», I, 1914, pp. 5-10. 61 A. Omodeo a E. Donadoni, lettera del 22 dicembre 1914, in Lettere, cit., p. 93. 62 Nell’introduzione al Gesù Omodeo fa il punto sulla situazione degli studi di storia religiosa in Italia, utilizzando toni che scontentarono non poco gli specialisti del settore che non poterono fare a meno di sentirsi puntato contro, con fare irriverente, l’indice. Scrive l’allievo di Gentile: «Si è spesso lamentato che in Italia gli studi di storia religiosa, e specialmente quelli sul cristianesimo, non siano riusciti ad attecchire, ed è diventato luogo comune lo spiegare, se non il giustificare, tal fatto con una mancanza di senso religioso negli Italiani. [… Ma] la caducità dei tentativi fatti per introdurre in Italia gli studi di storia religiosa si spiega benissimo per altri motivi. Questi studi, che sempre si volevano importare in Italia, non scaturivano da esigenze immediate del pensiero nazionale: erano importazioni esotiche […] gli studi religiosi in Italia, non partendo da intima necessità, ma essendo mossi dall’esteriore constatazione di una lacuna nella cultura nazionale, non uscivano mai dagli angusti limiti della recensione informatrice e pappagallesca, della conferenzuccia per gli ignoranti, o divagavano e impaludavano in lunghe e oziose diatribe fra cattolicesimo e razionalismo, logomachie senza costrutto, che distraevano dalla vera storia» (A. Omodeo, Storia delle origini cristiane. Gesù, cit., pp. XIII-XV). 57

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 13

Qui il destino del Gesù si intreccia, fondendosi, con quello del Paolo e degli Apostoli63. Omodeo, infatti, per gli sbandieratori di pii vessilli, avrebbe compiuto un’«invasione» di campo, un’«intrusione» nel sancta sanctorum della religione, impenetrabile e avvolto nel mistero per chi a quel mondo non appartiene. Sicché i suoi testi, per occhi non velati da vizi laicistici, sono «sacrileghi», zeppi di informazioni «peregrine e gratuite» e, cosa ancor più grave, possono indurre in «fatali errori» di teologia64. Giudizi, questi, che saranno l’indispensabile premessa per la sentenza di condanna, pronunciata negli Acta apostolicae Sedis dagli E.mi e Re.mi Cardinali preposti alla tutela della fede e dei costumi, nei confronti del volume omodeiano L’esperienza etica dell’Evangelio65. Tuttavia non precorrendo oltremodo i tempi, ritorniamo al Gesù e alle sue origini che mal si comprenderebbero se si tacesse l’impianto filosofico che le sottende. Sotto questo riguardo, oltre al già citato «Res gestae» e «Historia rerum», è necessario soffermarsi sulla breve ma importante recensione al Sommario di Pedagogia di Giovanni Gentile che Omodeo scrive nel 191366. Il libro del maestro viene presentato con fervore ed entusiasmo. Opera «profonda», vigorosa, «evangelica», «animatrice» e «vitale»67 che riafferma il principio gentiliano della filosofia non come elucubrazione accademica ma come consustanziale alla vita e che trova il suo autentico nerbo nel concetto di uomo. Che è ragione, coscienza. E quest’ultima non è intesa in termini quantitativi ma è «[…] l’interno germe, l’elemento costitutivo e organizzatore non solo dell’uomo come essere naturale, ma di tutta la natura, di tutto l’universo, di cui l’uomo come essere naturale è frammento: l’universo si risolve nell’atto di coscienza. È impossibile concepire la coscienza 63

Cfr. supra, n. 10, p. 2. Cfr. G. De Marzi, Adolfo Omodeo: itinerario di uno storico, cit., p.12. 65 Anonimo, Cose romane, 4) La condanna di un’opera di A. Omodeo, in «La Civiltà Cattolica», LXXV, 1924, vol. 4, p. 73. Cfr. J.M. De Bujanda, Index librorum prohibitorum, 1600-1966, Centre d’Études de la Renaissance, Université de Sherbroote, Médiaspaul Montréal, Genève, Librairie Droz, 2002, p. 63. Sulle condanne emanate dal S. Uffizio nei confronti di filosofi italiani nel ‘900, si veda: G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Bari, Laterza, 2006. 66 A. Omodeo, Il Sommario di Pedagogia di Giovanni Gentile, in «Rassegna di Pedagogia e di Politica scolastica», VII, 3-5, pp. 173-177. Ora in A. Omodeo, Scritti storici, politici e civili, cit., pp. 427-430. Per il prosieguo si citerà da questa edizione. 67 Ivi, p. 427. 64

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come epifenomeno della natura. Nulla potrebbe fecondare la cieca madre e trarre da lei la luce della coscienza: il cieco essere in eterno per la sua definizione, non potrebbe piegarsi e riflettersi nell’atto cosciente […]. Esso simile all’apostolo Tommaso, sperimentandola l’afferma, e la suggella di sé: e una volta che noi la natura, la materia, la ritroviamo suggellata dalla nostra coscienza, è vano ricercar che sia fuori della nostra coscienza quella natura e quella materia: senza quel sigillo, quella materia non sarebbe più la stessa: il suo essere è appunto in quella determinata forma: essa si crea appunto nell’atto che sigillandola di sé in essa si celebra»68.

L’uomo, dunque, come essere naturale è parte dell’universo. Anzi, ne è un «frammento». Tuttavia egli non è solo o semplicemente natura, ma su di essa si innalza dominandola. Ne è il signore. Perché, da ultimo, la natura è ‘creatura’ da lui ‘creata’. La coscienza, infatti, è l’unico atto originario, sintesi di soggetto e oggetto. È insieme coscienza ed autocoscienza, sicché l’attività teoretica non è qualitativamente diversa dalla sensazione: pensare è fare, come Omodeo scriverà, nel 1914, a Prezzolini69. Ancora una volta, allora, viene ribadito, e qui, se possibile, con maggiore forza plastica che non nel «Res gestae» e «Historia rerum», il primato attualistico della coscienza. Che è la pietra angolare, la dura roccia su cui Omodeo edifica il suo Gesù che, senza d’esso, sarebbe come una gigantesca cattedrale muta e inerme, perché priva d’altare. Ma allora, il poderoso impianto filosofico del giovane studioso siciliano riesce a supplire e a superare l’assenza di fede ‘religiosa’? il laico, 68

Ivi, p. 428. A. Omodeo a G. Prezzolini, lettera del 26 aprile 1914, in R. Pertici, Preistoria di Adolfo Omodeo, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», XXII, 2, 1992, pp. 513-615, qui p. 607. Pertici alla fine del suo saggio include quattro interessanti appendici: nel primo riporta il tema di maturità svolto dal giovane Omodeo; nel secondo il primo scritto dell’allora allievo della Scuola Normale di Pisa (recensione a Ph. Kieffer S.S., Saint Just de Susa, in «Rivista storica benedettina», 1908); nel terzo nove lettere tra Omodeo e Prezzolini; nel quarto uno sconosciuto saggio intitolato Educazione nazionale del 1920. La lettera del 1914 è particolarmente significativa per il discorso che qui si vuol fare. In essa, potremmo dire, si esplicita la ‘conversione’ omodeiana all’attualismo: «Caro Prezzolini, un tempo mi sono domandato anch’io come lei angosciosamente: che fare?[…] Ora non me lo domando più perché mi sono accorto che ricercavo un’azione concepita entro un ambito ristretto da Sturm und Drang e non m’accorgevo che era azione lo stesso lavorio di critica e di meditazione in cui maturavo, e in cui per necessità storica mi ponevo. Ora alla domanda rispondo: fare la scienza italiana: il pensiero stesso è azione» (ibidem). 69

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 15

laicissimo Omodeo, col suo invocare uno Spirito che è autocoscienza d’una coscienza e non Dio, il Dio nascosto, trionfa sull’enigma del Dio che si fa uomo e dell’uomo che diventa Dio? In una parola: riesce a penetrare il mistero delle origini cristiane? È questa l’ardua prova che deve superare non tanto e non solo il Gesù ma tutta quanta la filosofia omodeiana, che deve rivelarsi, da ultimo, potente almeno quanto un Dio onnipotente. Tuttavia prima di misurare la potenza del suo braccio, non è cosa peregrina sostare sullo scheletro che lo sostiene. Il volume del ’13, com’è noto, è una rielaborazione della tesi di laurea discussa da Omodeo a Palermo con Gentile e Columba70. Alla prima e alla seconda parte, dedicate rispettivamente al Problema religioso del giudaismo e alla Proclamazione del regno di Dio, rimaste pressoché immutate nella pubblicazione, ne fu aggiunta, per l’edizione Principato, una terza sul Problema sinottico, la lunga71 e interminabile72 «coda del diavolo», a cui Omodeo lavorò per un anno e quattro mesi73. Sotto questo riguardo si comprende subito come la ricostruzione della vicenda di Gesù, presentata dallo studioso palermitano, preceda e prescinda dall’analisi critica delle fonti che, da premessa imprescindibile, è relegata alla fine del volume, diventando una sorta d’appendice, marginale eppur necessario, per giustificare e legittimare la ricostruzione storica che si fonda, invece, su di un impianto filosofico che gli consentì di risalire dal «creduto» alla «necessità di credere»74. Ma, non precorrendo oltremodo i tempi del discorso che qui si vuol fare, ritorniamo a quello interrotto e chiediamoci: dove s’arresta lo scandaglio omodeiano che non si smarrisce nei sotterranei abissi del passato? La storia narrata da Omodeo ha origini profonde, che, da ultimo, sprofondano nella remota, ma non insondabile coscienza del popolo di Giuda, in cui sono custodite le radici del cristianesimo primitivo e quelle di tutta quanta la storia75. L’ultima duna del tempo, o, per meglio dire, la prima per Omodeo, è quella che si erge sui tempi in cui i tempi 70

Ordinario di Storia antica all’Università di Palermo e autore, tra l’altro, di un interessante saggio, intitolato, Critica storica e fede cristiana («Annuario della Biblioteca filosofica», Palermo, 1912, pp. 145-184). 71 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 14 agosto 1912, in Lettere, cit., pp. 23-25, qui p. 23. 72 A. Omodeo a E. Zona, lettera dell’11 ottobre 1912, cit., p. 37. 73 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 3 febbraio 1913, in Lettere, cit., pp. 58-59, qui p. 58. 74 A. Omodeo, Gesù, cit., p. 2. 75 Ivi, p. 1.

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L’OMBRA DEL DIVINO

degli dèi furono soppiantati dal tempo di Dio. Omodeo, qui, descrive in modo suggestivo l’‘evoluzione’ di un Dio, il Dio del deserto. Prima esotico, ceraunico, tempestoso. Poi Dio di un popolo, che intorno a lui si stringe. E infine Dio dell’universo. Un Dio che si rivela, parla, vive e ammaestra attraverso i profeti la cui predicazione si presenta più come un «ruggito appassionato» che come «divulgazione d’idee nitidamente concepite»76. È con loro, sottolinea lo studioso palermitano, che inizia una nuova religiosità il cui fine non è propiziarsi i favori di una divinità, ma affermare la gloria stessa di Dio, che è al contempo Dio del mondo e Dio di un sol popolo. La religione di Jahvè, dunque, durante il tempo, e al di là degli eventi, continua il suo sviluppo nella coscienza dei fedeli. I salmi, infatti, testimoniano una nuova immagine di Dio. Che non è più il Dio degli eserciti, la colonna di nubi e fuoco, ma è alto, immenso, creatore, unica realtà assoluta, tanto che religione significa ora dedizione assoluta all’Assoluto, i cui fini, però, sono ormai imperscrutabili. La punizione giusta del giusto sancisce, infatti, la definitiva separazione di Dio dall’uomo. Ma è nel tardo giudaesimo che Omodeo rintraccia il momento in cui la religione diviene sorda obbedienza e la vita muta imitazione della Torah. Il profeta adesso, più che avere le rivelazioni di Dio e impartirne gli insegnamenti ne avverte un bisogno disperato: i figli di Giuda hanno ormai bisogno di sentire Dio nel mondo, devono sapere che esiste una giustizia immanente e che la preghiera del giusto non si levi invano. Sicché, tra legalismo e apocalittica, tra timore e speranza, attraverso una prosa appassionata e appassionante, la coscienza religiosa si apre la via per la propria redenzione. Mentre il dio nazionale moriva tra le fiamme del tempio incendiato da Tito, dall’antica religione di Giacobbe «sprizzò fuori il principio che di sé doveva informare la vita del mondo greco-romano e vincere sotto il segno della croce le aquile romane che si erano accampate vittoriose sulle rovine di Gerusalemme»77. La nuova rivelazione di Dio allora fu conseguita78 e il mondo umano iniziò, lentamente ma inarrestabilmente, ad agire su quello trascendente79. Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti di Israele rivelò, infatti, il nucleo

76 77 78 79

Ivi, p. 6. Ivi, p. 90. Ibidem. Ivi, p. 96.

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intimo della vita religiosa: la fede che costringe Dio ad abbandonare l’alto dei cieli per dimorare nell’anima religiosa. La promessa, dunque, è ormai vicina al compimento e la sete del giusto saziata: il peccato non è più per sempre. Ma il Battista, precisa Omodeo, era ancora sulla soglia del nuovo ordine di cose. Era solo testimone di Dio. Di lì a poco sarebbe arrivato chi avrebbe condotto alla «suprema espressione la coscienza nuova» e fatto cielo e terre nuove; di lì a poco sarebbe venuto chi avrebbe rinverdito il tronco di Iesse, l’Uomo-Dio, incoronato dagli Apostoli e da Paolo Messia; di lì a poco sarebbe apparso Gesù di Nazareth. Figlio di Dio, figlio dell’uomo. Egli, sovvertendo le credenze apocalittiche, ridestò la coscienza. In lui la promessa diventa certezza e la fede, per mezzo suo, diviene viva e attiva. Dio, il Dio del deserto, il Dio oscuro, diventa, per mano sua, Dio del mondo e nel mondo: il Dio vivente. L’opera di Omodeo trova qui il suo culmine. Tuttavia non si può non dire che la storia da lui narrata, racconta sì di uomini, di uomini di Dio e di Dio, ma essa non è né storia degli uni né dell’Altro. La vera protagonista, infatti, è la coscienza e il suo lento, lungo e faticoso processo di formazione. Uomini, finanche grandi uomini, e lo stesso Dio le fanno da sfondo, sono come corpi senza di cui il suo corpo non prenderebbe forma. Sicché avrebbe fatto bene Omodeo ad intitolare il suo libro, come pure aveva pensato, Genesi della coscienza cristiana80. E che sia così appare chiaro nelle pagine omodeiane dell’opera del ’13, in cui la coscienza può essere prostrata nella polvere, affamata, assetata ma neanche Dio, nella sua onnipotenza, può annientarla. La religione israelitica, infatti, viene presentata come un dramma di coscienza, che si risolverà solo nel cristianesimo. Scrive Omodeo: «[…] la coscienza del credente che aveva bisogno di Dio, perché Dio dava i valori, reagisce su questa estrinseca divinità sino a che, riacquistata con Gesù e Paolo il senso della sua energia, trionfò nell’atto pieno della fede, e “credendo” incarnò in sé Iddio e con Dio trionfò sul mondo»81.

80

A. Omodeo a G. Gentile, lettera del 12 settembre 1912, in Lettere, cit., pp. 31-32, qui p. 32. 81 A. Omodeo, Gesù, cit., p. 38.

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L’OMBRA DEL DIVINO

È con il cristianesimo, dunque, che la coscienza diventa autocoscienza e Dio rinasce Spirito. Fu allora che venne compiuto il «primo passo verso l’immanentismo»82. È Gesù che svalutando l’escatologia giudaica, redime il mondo dal disvalore che scaturiva dall’attribuire valore assoluto ad un Dio esterno all’uomo83. È con lui che, «per la prima volta», l’uomo acquista «profondo senso di sé»84 e la vita immanente, non più sbiadita dalla luce rarefatta di sogni e fantasticherie, viene esaltata: il regno è già qui ed ora, l’uomo volendo la volontà di Dio lo edifica in questo e non in un altro mondo. Nello Spirito, allora – inteso come coscienza autocosciente – risiede il «significato» e il «valore storico» della persona di Gesù85. La sua prima rivelazione, infatti, informa di sé l’ulteriore storia che la eleverà a sempre più alta coscienza. E non solo la storia del cristianesimo ma tutta quanta la storia del mondo trasuderà di quella prima irradiazione che non s’arresterà alla vita religiosa, ma travolgerà anche la speculazione filosofica e la vita pratica86. Sicché non si va lontano dal vero se si dice che, per Omodeo, le radici della storia risiedono nel cristianesimo, che è «grazia attuale». Dal cristianesimo, infatti, trasformatosi in «senso attuale»87 di un Dio non più costipato nell’alto dei cieli, scaturisce una «fede in atto»88. E, così dicendo, siamo giunti alla norma che regola e sorregge il discorso omodeiano. Il termine «atto» nel volume del ’13 compare decine e decine di volte. Quella di Gesù, scrive Omodeo, è una «fede in atto»89; la sua «spinta interna verso l’attualità sovverte le credenze apocalittiche»90. E ancora. La rivelazione di Dio, per il falegname di Nazareth, è «attuale»91; la sua predicazione era «espressione attuale di un’energia etica»92. Dio, allora, è «volontà volente orientata verso un fine attuale»93 e la vita non contemplazione ma «volontà at82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. 151. p. 186. pp. 186-187. p. 188. p. 189. p. 193. p. 185. p. 108. p. 111. p. 115. p. 135. p. 139.

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 19

tuale». Dunque, nel discorso dello studioso palermitano, il giudaismo è espressione di una volontà voluta, mentre il cristianesimo è volontà attuale. Pertanto si legge nel volume del ’13:

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«Se è il vincere che ha valore e non l’aver vinto, se è il fare la giustizia e non l’averla fatta, se, nell’oscuro senso di Gesù, è il figliuol prodigo che attua realmente la giustizia e non il fratello maggiore, la speranza escatologica […] doveva essere eliminata, perché il regno sarebbe stato l’aver vinto e non la vittoria, l’aver vissuto e non la vita. E Satana non doveva essere distrutto, come nelle fantasie apocalittiche, col fiato della bocca del Cristo, ma eternamente schiacciato in un eterno agone»94.

E sono parole, queste, di non poco conto. Il tempo, da ultimo, sconfitto, diviene un eterno presente, fulgida aurora cui non segue mai il crepuscolo. Sicché, la storia, cui Omodeo pur dà un cominciamento temporale95, è risolta a non altro che manifestazione di una coscienza ormai cosciente, che trova nel presente, ovvero nella filosofia attualistica, pieno compimento. Tutto il discorso omodeiano tende a questo segno, tanto che Gesù e i discepoli paiono non profeti e apostoli di Dio ma dell’attualismo gentiliano. Tuttavia se è vero che «la mente dello storico crea la storia»96, allora non può stupire che le origini cristiane 94

Ivi, p. 189. «Il mito di Cristo non è arbitraria creazione, capricciosa aggiunta di un’aureola di gloria al crocifisso del Golgota, successivamente compiuta da Paolo e dagli autori degli scritti giovannei; ma necessaria profanazione, anche se in essa si trovano sussunti elementi a prima vista eterogenei, della vita religiosa instaurata dal Nazareno, sviluppo logico – di quella logica che è immanente nella storia, logica non del pensiero puro contenuto, ma della coscienza vivente – per cui l’intuizione religiosa iniziale del maestro […] in tutta la storia successiva, non solo del cristianesimo come religione particolare, ma di tutto il mondo che dal moto iniziatosi l’anno 29 a Gerusalemme risentì l’efficacia, non solo nella vita religiosa, ma nella speculazione filosofica, ma nella vita pratica, s’andò ognor più elaborando, elevando di grado di coscienza, negandosi nella lettera per affermarsi nello spirito, con lo stesso ritmo di Gesù morto e risorto, alla conquista d’un’espressione sempre più coerente, all’affermazione sempre più vigorosa dei valori dello spirito» (ivi, p. 194). Sul concetto di mito torneremo nelle pagine successive. In merito al problema della storia e dello storicismo omodeiano si vedano i saggi di F. Tessitore, Lo storicismo di Adolfo Omodeo (1975) e Omodeo tra storicismo e storicismo (1991), in Id., Contributi alla teoria e alla storia dello storicismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, pp. 95-145; pp. 147-160. 96 A. Omodeo, Gesù, cit., p. 200. Qui Omodeo precisa che lo storico non crea la storia per «assoluto disfrenato arbitrio, ma per sua intima assoluta necessità: ché ognu95

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L’OMBRA DEL DIVINO

vengano ‘create’ a immagine e somiglianza del loro ‘creatore’. Il cristianesimo è, dunque, nella ricostruzione omodeiana, il primo momento in cui si desta l’Uomo-Dio, il primo momento in cui una coscienza autocosciente imprime il suo sigillo sul mondo. Che è quanto, in termini più espliciti, Omodeo affermerà nell’Esperienza etica dell’Evangelio, un interessante saggio, ribattezzato libro97, in cui vengono travalicati, al di là delle intenzioni dell’autore, gli argini del Gesù. Qui, infatti, viene nuovamente ripercorsa tutta quanta la storia del cristianesimo che, però, è inserito nell’eterno scontro tra salvezza e castigo, luce e tenebre, bene e male. L’elemento etico del messaggio evangelico, declinato in chiave attualistica, prende ora il sopravvento nell’analisi omodeiana, e la storia universale e la storia del mondo si infrangono, altisonanti, nella storia dell’umanità, che è, poi, sempre, storia di salvezza. Essa è attraversata da una potente «energia etica» che dal Nazareno, crocifisso e risorto, all’apostolo delle genti, attraverso Lutero e la «Rinascenza», giunge a Kant: con lui si compì «la prima fase della grande rivoluzione filosofica» che indicò il «Cristo creatore del mondo» nell’uomo. Tuttavia, avverte lo studioso palermitano, c’era ancora bisogno di un ultimo lavacro purificatore che mondasse lo Spirito dallo spettro della «cosa in sé»98, ultima roccaforte del regno del trascendente, che doveva, una volta e per sempre, una volta e per tutte, cadere sotto gli strali del no nella sua interiore determinazione, nel porsi come uomo di una determinata età, figlio di una determinata civiltà, pone e dà valore al passato, da cui è condizionato, al passato che, come onda vivente, in lui confluisce, sì che il fatto che fu rivive in lui come spiritualità» (ivi, pp. 200-201). 97 A. Omodeo, L’esperienza etica dell’Evangelio, in «Giornale critico della filosofia italiana», I, 1920, fasc. II, pp. 129-141; fasc. III, pp. 259-269. Ora in Scritti storici, politici e civili, cit., pp. 15-33. (Si citerà sempre da questa edizione). Oltre alle dure critiche da parte della Chiesa (cfr. supra, nota 65 p. 13), il volume del 1920, composto dal saggio introduttivo cui qui si è fatto riferimento e dalla traduzione di alcuni passi scelti dei Vangeli, viene recensito negativamente anche da Luigi Salvatorelli che considera sostanzialmente inutile l’operazione dello studioso siciliano dal momento che, in Italia, vi sono buone traduzioni dei Vangeli. Il recensore aggiunge inoltre che nel volume dell’Omodeo manca «qualsiasi anche più modesta indicazione sui problemi critici del Nuovo Testamento» (L. Salvatorelli, recensione a L’esperienza etica dell’Evangelio, in «L’Italia che scrive», IV, 1921, p. 209). Al Salvatorelli, Omodeo replicherà in uno scritto pubblicato sul «Giornale critico della filosofia italiana» in cui lo accuserà di non aver compreso l’intento del suo volume (A. Omodeo, Una critica del prof. Salvatorelli, in «Giornale critico della filosofia italiana», II, 1921, pp. 97-99). 98 Cfr. A. Omodeo, L’esperienza etica dell’Evangelio, cit., pp. 31-32.

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 21

regno dell’immanenza. L’ultimo colpo di una battaglia iniziata millenni addietro viene inferto dalla filosofia attualistica in cui si:

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«[…] calano e si purificano i vecchi motivi etici cristiani, del dramma cosmico del bene, della redenzione, dal peccato e dalla necessità, della morte e della risurrezione che avevan palpitato nel mito di Cristo»99.

E il mito, presentato nel Gesù, sfiorato nell’Esperienza etica dell’Evangelio, diviene la vena pulsante del Paolo. L’«opus magnum»100, il lavoro «prediletto»101, la «cosa non mai tentata»102; l’opera «mille volte intermessa»103. Messo a «dormire»104 nelle giornate d’azione bellica105 e ripreso in quelle di stasi, il Paolo106 viene pubblicato, dopo dieci anni in cui era stato vagheggiato107, nel 1922. In esso Omodeo delinea dapprima, in pagine infervorate, il contesto storico in cui si inserisce l’opera dell’apostolo che vede alla morte di Gesù risorgere il Cristo e nascere 99

Ivi, p. 33. A. Omodeo a E. Donadoni, lettera del 22 ottobre 1914, in Lettere, cit., p. 94. 101 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 18 gennaio 1914, in Lettere, cit., p. 84. 102 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 6 maggio 1913, in Lettere, cit., pp. 62-63, qui p. 63. 103 A. Omdeo a E. Zona, lettera del 12 gennaio 1912, in Lettere, cit., p. 168. 104 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 4 ottobre 1916, in Lettere, cit., p. 146. 105 L’esperienza omodeiana della prima guerra mondiale meriterebbe un discorso a parte che qui, ora, non può e non si vuol fare, ma sulla quale non escludiamo in futuro di ritornare. Per ora basti dire che dell’entusiasmo, della disperazione, del coraggio eroico che accompagnarono Omodeo in una guerra alla quale partecipò come volontario, sono testimonianza, quanto mai eloquente, le lettere scritte tra il 1915 e il 1918 (A. Omodeo, Lettere, cit., pp. 97-335). Sull’esperienza della grande guerra, inoltre, lo studioso palermitano ritorna in un volume Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, pubblicato, dapprima, ‘a puntate’, sulla «Critica», a partire dal 1929 e poi, come volume, per l’editore Laterza, nel 1934. In merito a queste questioni, si veda l’interessante studio di Aldo Garosci, Adolfo Omodeo. La guerra, l’antifascismo e la storia, in «Rivista storica d’Italia», LXXVII, fasc. III, 1965, pp. 639-686. 106 Per una ricognizione sui giudizi intorno all’opera omodeiana del ’22, si vedano, oltre ai già citati lavori di Mustè e De Marzi: Anonimo, Intorno a un libro di S. Paolo del prof. A. Omodeo, in «La Civiltà Cattolica», LXXV, 1924, pp. 405-415; F. Albeggiani, recensione a Paolo di Tarso, apostolo delle genti, in «Belfagor», XII, 1957, pp. 724-730; E. Garulli, recensione a Paolo di Tarso, in «Giornale critico della filosofia italiana», XXXVI, 1957, pp. 525-529; D. Novacco, recensione a Paolo di Tarso, in «Il Ponte», XIII, 1957, pp. 957-959; G. Santonastaso, recensione a Paolo di Tarso, in «Nuova antologia», 1957, pp. 113-117. 107 A. Omodeo a E. Zona, lettera del 26 dicembre 1918, in Lettere, cit., pp. 353-354, qui p. 354. 100

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L’OMBRA DEL DIVINO

dal suo costato trafitto la Chiesa, prefigurazione dell’ordine del regno dei cieli; poi ricostruisce il processo formativo dell’evangelio paolino, che trova il suo nucleo germinale nella fede del risorto, mito fondativo della Chiesa; infine ripercorre la via che conduce Paolo al martirio e alla sua «oscura» fine. Tuttavia se questa è la trama in cui si dipana la narrazione omodeiana, non sempre chiara e a tratti quasi interrotta, l’intento ad essa sotteso è quello di sciogliere il nodo, stretto, dell’enigma paolino. Che è poi, a ben vedere, l’enigma di tutta quanta la storia umana. L’apostolo delle genti nella ricostruzione omodeiana, è, innanzitutto e soprattutto, una figura potente, dotata d’una straordinaria energia e d’una «grandezza storica immensa»108. Egli, infatti, per lo studioso palermitano, opera una delle più grandi rivoluzioni della storia e assurge a protagonista non solo della storia del cristianesimo ma di quella di tutta quanta l’umanità, tanto che con lui, scrive Omodeo: «Una coscienza nuova entra in azione e trasforma il mondo e i rapporti umani: la civiltà della chiesa subentra alla civiltà della polis; la disintegrazione della civiltà greco-romana, che è iniziata assai prima di Paolo, con Paolo cessa di essere dissoluzione anarchica nel caos, raggiunge coscienza e fine e diviene edificazione in un nuovo senso: costituzione d’un’umanità più vasta, che si rappresenta a se stessa idealmente come Cristo»109.

Paolo, dunque, è «punctum saliens», «sintesi originale della forza di Cristo», dalla cui opera nasce la chiesa e un’umanità nuova. Egli è «eroe dell’azione» e, cosa ancor più degna di nota, è il viatico necessario e non aggirabile per comprendere il «mito della salute in Cristo»110. Ma allora, chi è il discepolo se non prediletto comunque eletto? Quale enigma è custodito nella sua coscienza? Prima che Saulo rinascesse Paolo, era un apostolo del giudaismo che, formatosi alla scuola di Gamaliele111, aveva un senso profondo e abissale del peccato. Per lui, infatti, il mondo era come una Sodoma sconfinata, stretto tra peccato e morte, e Dio impenetrabile e «arcano come il fato»112. Nonostante lo studio e i mille sforzi, la legge alla quale si 108

A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., p. 1. Ivi, p. VI. 110 Ivi, p. VIII. 111 È uno dei maggiori dottori farisei dell’epoca paolina di cui si hanno poche notizie. 112 A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., p. 120. 109

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 23

era interamente votato, gli appariva inerte e impotente innanzi al male, che tutto travolge e impietosamente addenta. Ma nella sua coscienza erano custodite, ormai pronte per esser redente, tutte le promesse e i sogni del giudaismo. Sicché la visione di Damasco non fu altro che lo sbocco di un lungo travaglio religioso, in cui i pensieri, le passioni, le aspirazioni di lunghi secoli, raggiunsero l’evidenza sensibile113. Essa, che ad occhi non guariti dalla grazia pare un’allucinazione, assume «smisurata importanza nella storia del mondo»114. Infatti, dopo che Anania, nel nome del Signore, impose le mani sugli occhi di Paolo, il Nazareno, prima condannato e vilipeso, diviene per lui e attraverso di lui per l’umanità, luogo di salvezza, mezzo di giustizia e la norma, finalmente trasfigurata dal supremo comandamento dell’amore, perde il suo valore legalistico, e viene superata dalla grazia. Paolo, allora, nella ricostruzione omodeiana, non è solo prosecutore dell’opera di Gesù ma è anche redentore del giudaismo. Nella sua nuova religione viene trasmigrato tutto quanto il suo mondo culturale e religioso. Da qui il suo apostolato fatto di visioni, estasi e deliri115; da qui il suo testamento, la Lettera ai Romani, che è la narrazione di una «storia sacra»116 da cui deriva una precisa teodicea, un’antropologia e un’escatologia. L’annunzio del vangelo, infatti, è «sicurezza della salute»117, perché se è vero, predica Paolo, che tutti peccarono è altrettanto vero che tutti sono giustificati dalla grazia mediante il sacrificio di Cristo. L’ordine cosmico, pertanto, viene ora nuovamente restaurato: il progenitore dell’umana specie che condannò la sua semenza alla morte e al peccato, è soppiantato e vinto dal nuovo Adamo, sorgente di salute e salvezza. Tutto e tutti, dunque, saranno santificati dall’azione dei figli di Dio, destinati a vedere cieli e terre nuove. Ma il vangelo paolino non è solo prosecuzione e compimento del giudaismo. Esso inaugura una nuova concezione dell’uomo: per la prima volta viene definito il momento in cui l’uomo sente se stesso non più come cosa tra le cose ma come «spirito di Dio», come «Cristo»118; per la prima volta si presenta

113

Cfr. ivi, p. 61. Ivi, p. 65. 115 Cfr. ivi, p. 376. 116 Ivi, p. 380. 117 Ibidem. 118 Ivi, p. 389. 114

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«la religione dell’uomo nella sua forma superiore»119, avvolta, però, nella sua universalità germinale dalla possente luce del mito: «Il cristianesimo – scrive Omodeo – ancora non si è obiettivato in una dottrina. Paolo lo porta fuso in sé. Ben più che Ignazio egli può chiamarsi Teoforo o meglio Cristoforo. Egli vive l’incarnazione d’una sapienza superiore nell’uomo: che era l’aspirazione di tutta l’età sua, e che in diverse guise e in diversi gradi nella storia e nel mito si disegnava in Gesù, in Apollonio di Tiana, nel Cristo giovanneo. Da questo caos ruggente egli trae il mito. Come alla fantasia antica la natura appariva tutta animata da divine forze, e l’onda si adergeva nella ninfa oceanina, la nube partoriva il Centauro, così in questo nuovo entusiasmo l’interiore vita dell’anima partoriva Cristo redentore»120.

Non si va lontano dal vero, dunque, se si dice che Paolo, nelle pagine dello studioso palermitano, ha il passo di un titano e la forza primigenia di un dio. Egli ridisegna i confini dell’animo umano estendendoli alla terra. E oltre: al cosmo intero, che riordina traendo fuori dal caos il mito. E così dopo un lungo ma non peregrino itinerario, siamo ritornati al punto da cui il nostro discorso sul Paolo ha preso le mosse: il mito, cui Omodeo dedica un intero capitolo dell’opera del ’22. Si tratta di una cinquantina di pagine, complesse e assai stratificate, in cui, attraverso una prosa a tratti entusiastica ed entusiasmante, lo studioso palermitano rivela l’enigma paolino, posto, da ultimo, come pietra miliare della moderna storia umana. Qui Paolo diviene protagonista di un «dramma cosmico»121 in cui due mondi, quello della carne e dello spirito – che un giorno diventeranno uno – si fronteggiano senza posa. Ma il giorno tanto atteso, l’ora fausta è ormai prossima. L’umanità e tutta la creazione, che geme e soffre, sarà, di qui a poco, liberata dalla servitù della corruzione. È questa la speranza, costata il sangue di Cristo, che dà all’apostolo delle genti la consapevolezza di vivere nella fase crepuscolare di questo nostro mondo evanescente. Tutta la sua opera, tutta la sua forza sono volte ad accelerare l’alba del nuovo mondo, del mondo dello spirito in cui il peccato e la morte, sua avida amante, già una volta vinta, lo saranno per sempre. Egli, allora, come levatrice fatta

119 120 121

Ivi, p. 378. Ivi, pp. 377-378. Ivi, p. 151.

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 25

esperta dagli eventi, partecipa al dramma cosmico122, da cui nascerà il mondo della gloria123. Ancora una volta, dunque, e ancor più che per l’innanzi, la storia narrata da Omodeo si smarrisce o si ritrova – a seconda dei punti di vista – nelle regioni della filosofia della storia in cui il tempo, ridotto a silenzio, è schiacciato dalla potenza dell’atto. Il discorso omodeiano fin qui seguito ed inseguito, infatti, si regge sull’assunto, più volte ripetuto, che il cristianesimo paolino è esperienza di «salute attuale» i cui riti inaugurano uno «stato di grazia attuale», che è presentificazione e non prefigurazione dell’altro mondo: qui, ora e per sempre, Cristo ha vinto la morte; qui, ora e per sempre, la creatura si è riappropriata del creato; qui, ora e per sempre, la «polvere d’Adamo» è stata rivestita di luce divina. Non è allora uno sproposito dire che tutti gli elementi attualistici del Gesù, nel libro del ’22 vengono non solo ripresi ma potenziati e il dramma della coscienza, attraverso il mito, assurge a dimensioni cosmico-universali. Sicché Paolo, travolto da una «vertigine di coscienza»124 e al contempo Ermes della coscienza, nelle pagine omodeiane, viene presentato alla stregua di Gesù, anzi, se possibile, su di lui viene innalzato. Il sorgere del suo evangelio, infatti, è simile a quello del figlio di Giuseppe, tuttavia a differenza di quest’ultimo, in lui confluiscono le esperienze e le speculazioni farisaiche ignote all’uomo «indotto» di Nazareth125. È lui che fa di Gesù il Cristo. È lui che vede nella croce il riscatto del vecchio Adamo e il riequilibrarsi dell’economia cosmica. È lui che ‘trasforma’ l’uomo trafitto e schernito in un mito: il «mito del Cristo redentore», nuovo Adamo che si inserirà nella storia del mondo assumendone su di sé i peccati e così redimendola. Tutta quanta la storia, dunque, nel discorso omodeiano, assume un’«innervatura mitica»126, che trova il suo cominciamento nel mito dell’inimicizia fra Adamo e il mondo angelico127. La storia dell’uomo, così, è più antica del mondo naturale e i suoi primordi vengono posti in un’era senza tempo: quando Dio invitò le schiere celesti ad inchinarsi al cospetto della creatura fatta di polvere e terra, cui era riservata una gloria 122 123 124 125 126 127

Cfr. ivi, p. 154. Ibidem. Ivi, p. 135. Ivi, p. 157. Ivi, p. 162. Cfr. ivi, p. 163.

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superiore alle più alte gerarchie angeliche, allora ebbe inizio il dramma cosmico; allora fu ordita la prima insidia per far peccare l’uomo; allora Sammaele divenne l’angelo della morte128. E gli angeli, nella ricostruzione omodeiana, assurgono al rango di potenze intermedie, ostili all’uomo, forze corruttrici dell’ordine creato da Dio e, al contempo, strumenti della sua divina giustizia. Tuttavia il loro dominio non è per sempre: si sgretola trafitto dai chiodi della croce che decreta la morte e, dunque, la redenzione della carne e la nascita del Cristo pneumatico. «Ma», avverte Omodeo: «[…] questo dramma mitico fra i celesti, ove pare che vi sian cozzi di volontà, astuzie di sapienza e sostituzioni accorte si semplifica quando l’apostolo considera la redenzione dal punto di vista dell’eterno Iddio, nella predisposizione teologica della provvidenza. L’iniziativa delle potenze mitiche è già prestabilita da Dio. Se la legge […] rinchiude tutti nel peccato, si è perché volle Iddio rinchiudere tutti nella disubbidienza per aver di tutti misericordia»129.

Se è vero, però, che il dramma mitico è predisposto da Dio è pur vero che esso viene compiuto e risolto da Paolo che, alla fine, uccide «il mito col mito»130. È questo il segreto dell’enigma paolino. A partire da Cristo, infatti, la storia, per Omodeo, perde il suo manto mitico: Cristo è mito da cui non si genera, però, uno sviluppo mitologico. Egli, primogenito della creazione, generato e non creato dalla stessa sostanza del Padre, affiancato a Dio e in lui tendente a risolversi, è compendio e risoluzione del mito. Con lui, insiste Omodeo, l’uomo non è più in balia di spiriti, demoni o angeli, ma è ‘soggetto’ ad un Uomo-Dio della cui natura anch’egli partecipa. Attraverso il corpo e il sangue di Cristo, ogni uomo è Cristo che opera, da ultimo, una desacralizzazione del Sacro. È questa la grande rivoluzione operata dal cristianesimo e che impedisce al mito di Cristo di generare una mitologia. Sicché il dramma mitico, nelle pagine omodeiane, trova compimento in Cristo che da oggetto diviene soggetto, mito egli stesso, fondatore di un’era nuova, ricapitolazione e insieme cominciamento di una nuova storia. Una storia di salute e di salvezza in cui l’uomo, ricondotto a Dio, diventerà egli stesso Dio. 128 129 130

Ibidem. Ivi, p. 165. Ivi, p. 166.

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«LA POLVERE D’ADAMO». ADOLFO OMODEO 1913-1922 27

Con Paolo, da ultimo, il viaggio millenario della coscienza, che s’era inebriata e avvilita nelle visioni e nei sogni dei figli di Giuda, bagnata nel sangue di Gesù di Nazareth, redenta dalla croce di Cristo, giunge, almeno per ora, al suo compimento e lascia intravedere, tra la luce rarefatta dell’aurora, il meriggio dell’Uomo-Dio. Che poi è il dio-Uomo.

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III. Il mito dell’Uomo-Dio La storia, dunque, trova cominciamento nel mito e il suo ulteriore sviluppo è il compimento di quanto in quel primo fiat era solo promessa, che, però, nel compiersi si libera del suo malfermo involucro. Il mito, infatti, appartiene alla preistoria dello Spirito: soltanto attraverso insidie e pericoli, la coscienza, diventando cosciente di sé, entra, da ultimo, nella storia. Che è tutt’uno con la filosofia della storia. Essa ha l’andamento di una marcia trionfante che, pur non ammettendo soste o inversioni di rotta, non ha un andamento continuo. Ci sono momenti nella corsa millenaria dello Spirito in cui si assiste ad una straordinaria concentrazione di «energia», che esplodendo annienta la continuità storica. È questo il caso del cristianesimo che per quanto Omodeo cerchi di ancorare al contesto storico in cui sorge e alle tradizioni religiose preesistenti, non può fare a meno di definire come una religione nuova che genera un rivolgimento spirituale traboccante di forza primigenia tale da sovvertire, rivoluzionandolo, il rapporto originario Dio-UomoMondo. Di essa sono stigmatizzazioni Gesù e Paolo: giganti che con potenza titanica spalancano i portali della storia e rompono le dure catene che tenevano la coscienza avvinta. Ma cosa induce ad un rivolgimento così grande? cosa la coscienza ad una autocoscienza tanto profonda? Omodeo qui s’arresta, indicando l’ultima duna del tempo nel mito dell’Uomo-Dio. Che, però, a ben vedere, infrange le leggi del tempo e dal presente si irradia rifrangendosi sul passato, che non solo non è il totalmente altro, ma non è altro rispetto al presente. Tuttavia non poteva non essere così per chi, come lui, aveva invocato uno Spirito uno e non distinto. Non solo il Solo. Ma tutto. Tutto che tutto agguaglia. L’atto della coscienza, infatti, ontologicamente fondato sull’identità di pensare, fare, creare, genera uno Spirito ‘incosciente’: novello Narciso accecato dal suo stesso riflesso. Sicché l’uomo che è diventato dio, perché Dio

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s’era fatto uomo, corre il rischio di riprecipitare nella polvere, ritrovandosi, infine, privo di Dio e peggio ancora, spoglio d’umanità. Da ultimo, l’originaria «sete di Dio»131 da cui prende le mosse la riflessione filosofica omodeiana sulla storia, per ora, si appaga, ma non si sazia132, nell’unità indistinta tra Dio e Uomo. Estremo tentativo, questo, d’essere, nel tempo, eterno.

131 «Non credete che attraverso la selva dei commenti esegetici, delle citazioni erudite, non mi giungano vive e calde le voci degli eroi di cui mi occupo, di Gesù e del grande apostolo? E invoco, invoco con tutta intensità anche per me un’energia profonda, una fede capace dei più profondi miracoli, invoco anch’io su di me lo spirito creatore: e non nelle vecchie forme, come i vecchi credenti. Ho una sete intensa di poesia, d’operosità, di lavoro fecondo, ho sete di Dio. Non dimentichi che viviamo in un’età di poco spirito religioso, e, se nel mondo che mi circonda non arrivo a trovar requie, gli è perché deficienti ne sono i valori» (A. Omodeo a E. Zona, lettera del 24 ottobre 1911, in Lettere, cit., p. 11-12, qui p. 11). 132 Omodeo, come è noto, non s’arrestò all’attualismo. Di ciò sono testimonianza i suoi numerosi studi sul Risorgimento, su Cavour, Mazzini etc. Non si va lontano dal vero allora, se si dice che proprio perché egli radicalizzò il suo originario attualismo riuscì, da ultimo, a superarlo.

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CAPITOLO II

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«ALL’ OMBRA DEL DIVINO» ERNESTO DE MARTINO 1953-1957 «Chi discenderà nell’abisso?» [Rm 10, 7]

I. «Le porte della distanza» «All’ombra del divino si matura l’umano, e per entro il sacro si dischiude il profano e il laico»1. Così Ernesto de Martino scrive nel 1953 in un saggio su Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto. Divino, umano; sacro, profano sono i termini a partire dai quali egli, dopo aver attraversato e superato con l’ausilio dello scandaglio storicistico2 le antiche regioni del Mondo magico3, scrive e riscrive la nostra storia umana. Lasciandosi indietro, infatti, le radure magiche di Tungusi, Negrilli e Moliwai4, de Martino sprofonda in regioni ancor più profonde da cui riesce a segnare, con gesto certo e mano sicura, le colonne d’Ercole della storia umana. Che è storia di smascheramenti e rivelazioni, miti e riti. È storia di uomini che, per non smarrire la propria umanità, rinascono primitivi e si fanno selvaggi. Sicché, dalle profondità senza fondo delle origini, la storia lascia intravedere il suo andamento mitico 1 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto (1953), in Id., Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Introduzione e cura di M. Massenzio, Lecce, Argo, 1995, pp. 47-74, qui p. 63. 2 Su ciò torneremo nel prosieguo del nostro discorso. 3 E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Torino, Bollati Boringhieri, 20032. 4 Cfr. ivi.

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L’OMBRA DEL DIVINO

e, non tacendo d’essere minacciata, ad ogni passo, dal velo pesante e spesso dell’Apocalisse5, svela il fondo originario del rapporto con Dio, rivelando, così, l’unica possibilità di salvezza per l’uomo. Che è, come il primitivo, ma non più primitivo, esposto al pericolo d’essere «mangiato» e «inghiottito» dalla natura. Ma in un mondo non più magico (perché la magia appartiene ad uno stadio primitivo ma non profondo), in cui non ci sono stregoni, sciamani o «signori del limite», all’uomo, ormai immerso nella storia coperto solo dalla sua ‘nudità’, resta solamente la pia fraus della religione. Storia dell’umanità e storia della religione, ora, si fondono e si confondono al punto tale da essere la prima la seconda e questa quella. Ma allora, che cos’è la religione? e la storia della religione? In una parola, che cos’è la storia? o meglio: cosa resta della storia all’indomani del Mondo magico? Chi abbia una qualche familiarità coll’opera demartiniana sa che la religione è «nesso mitico-rituale». È una «tecnica». È «maieutica dell’umano». Tuttavia, così dicendo, si è detto poco, troppo poco, se non nulla. La religione, infatti, nella riflessione demartiniana, soprattutto in quella successiva al libro del ’486, è una categoria composita, stratificata, complessa che sembra sfuggire dalle mani dello stesso de Martino e, ancor di più, da quelle di chi con lui e attraverso lui cerca d’afferrarla. Cionondimeno i saggi Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto del 1953 e Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni del 1957 rappresentano, se non la via, almeno una via percorribile per giungere a chiarire i presupposti filosofici dell’idea demartiniana di religione, cui egli giunge attraverso un confronto critico, che in non rari luoghi assume il tono di una resa dei conti, con Rudolf Otto, Gerardus van der Leeuw e Benedetto Croce. Pubblicati dopo il 19487 ma prima del

5 Sul problema della crisi dell’Europa e delle apocalissi culturali nel complesso e tormentato itinerario demartiniano si veda D. Conte, Ernesto de Martino e la «mobilitazione dell’arcaico», in AA.VV., Ernesto de Martino tra fondamento e «insecuritas», a cura di G. Cantillo, D. Conte, A. Donise, Napoli, Liguori, 2014, pp. 95-127. 6 Per una ricostruzione del concetto di religione nel giovane de Martino si vedano i primi capitoli dell’importante volume di G. Sasso, Ernesto de Martino tra religione e filosofia, Napoli, Bibliopolis, 2001. In particolar modo si segnala il terzo capitolo dedicato alla Religione civile, in cui l’Autore vi ricostruisce il complesso, discusso e discutibile concetto di religione avvalendosi di interessanti scritti inediti. 7 Anno di pubblicazione del Mondo Magico.

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«ALL’OMBRA DEL DIVINO». ERNESTO DE MARTINO 1953-1957 31

19588, essi rappresentano, inoltre, una cerniera tra il Mondo magico e la successiva produzione demartiniana. È qui, infatti, che la magia ‘diventa’ religione. La religione tecnica. E questa l’unica possibilità d’esistenza per l’uomo e per il suo mondo. È qui, dunque, più che altrove, che lo scandaglio, prima d’essere recuperato, deve arrestarsi.

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II. «Andare sulle orme». Ernesto de Martino tra Rudolf Otto e Gerardus van der Leeuw Ha un che di significativo il fatto che, se nel libro sul Mondo magico il nome di van der Leeuw sia taciuto e quello di Otto solo sussurrato9, nei saggi su Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto e Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni il teologo di Groninga10 e quello di Marburgo11 siano i protagonisti di un complesso dialogo a partire dal quale de Martino definisce, con e contro la fenomenologia e l’irrazionalismo, i concetti di religione, storia delle religioni e storia dell’umanità. E che sia così, è, se non chiaro, almeno suggerito dai titoli dei saggi in cui i termini fenomenologia e irrazionalismo vengono congiunti a quello di storicismo. La e interposta tra i vocaboli, infatti, indica da un lato, la congiunzione, l’unione, la coesistenza di metodologie filosofiche diverse; dall’altro, l’alternativa, la scelta per uno o per l’altro partito. Sin da subito, dunque, si rivela il duplice movimento, centrifugo e centripeto, che attraversa i ‘nostri’ saggi che, se ben diversi per linguaggio e andamento, si ritrovano però uniti nel medesimo in8

Viene edito Morte e pianto rituale nel mondo antico. Nel terzo ed ultimo capitolo del Mondo magico, in cui l’Autore si confronta criticamente con i vari indirizzi che hanno animato all’interno della storia dell’etnologia il dibattito sul problema dei poteri magici, Rudolf Otto viene citato, velocemente, accanto a quanti (in particolar modo J.W. Hauer) hanno assunto, dinanzi alla questione da lui discussa, un atteggiamento di «incontrollato irrazionalismo» (E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 194). 10 Non è superfluo ricordare che Gerardus van der Leeuw, oltre ad essere stato parroco di ‘s-Herenberg e insegnante di ebraico al Gymnasium di Doetinchem, fu, dal 1918 al 1950, professore di storia delle religioni, di teologia e filosofia egiziana all’Università di Groninga. 11 Rudolfo Otto, non è peregrino qui sottolinearlo, fu professore di teologia sistematica prima presso l’Universtà di Gottinga, poi in quella di Breslavia e infine a Marburgo. 9

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L’OMBRA DEL DIVINO

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tento: definire la metodologia filosofica12, cui corrisponde una precisa visione della vita e del mondo, atta a chiarire i poco chiari concetti di religione e storia delle religioni. Ma perché de Martino sceglie come suoi interlocutori proprio Otto e van der Leeuw? Basta una veloce scorsa al saggio del ’53 per capire che van der Leeuw sia, per l’antropologo napoletano, il maggiore rappresentante della fenomenologia della religione13 e chi, con la sua «operosità scientifica» e l’«assidua riflessione metodologica»14, le ha conferito rigore ed autorevolezza. Ma non solo. A quanto, infatti, appena detto, aggiunge: «Nella fenomenologia del van der Leeuw confluiscono alcune fra le più caratteristiche correnti della vita culturale moderna e contemporanea, come la teoria dell’Erlebnis e la “tipologia” del Dilthey e della sua scuola, la fenomenologia di Husserl nel suo riadattamento alla religione per opera di Max Scheler, la tradizione del carattere autonomo e irrazionale dell’esperienza religiosa (Rudolf Otto), e infine alcuni temi dell’esistenzialismo di Heidegger e Jaspers»15.

L’opera di van der Leeuw, dunque, è compimento e inveramento di molteplici movimenti di pensiero che, sebbene disuguali, sono però accomunati, come si legge nella pagina successiva a quella appena citata, da un comune errore: l’aver voluto superare il naturalismo e lo psicologismo del positivismo non con l’ausilio della ragione storica, come 12

«In nessun dominio del sapere storico come in quello della storia delle religioni si avverte la validità della tesi crociana della identità di storiografia e filosofia e della filosofia come momento metodologico della storiografia, e se in altri domini storiografici il buon senso, o, come si dice, la sicurezza dell’istinto storico possono tenere il luogo di una esplicita e sistematica determinazione metodologica, ciò è praticamente molto più difficile in un dominio come quello storico-religioso» (E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 76). 13 Il saggio su Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto prende le mosse dalla definizione del duplice senso della denominazione fenomenologia della religione: come scienza empirica essa indica tanto un metodo per raggruppare ed ordinare i fenomeni religiosi attraverso criteri classificatori; come metodo del capire rivendica, invece, di essere non soltanto una scienza autonoma, nell’ambito delle scienze religiose, ma di essere il miglior metodo, se non l’unico, per capire la vita religiosa. Data questa definizione, de Martino colloca van der Leeuw tra quelli che intendono la fenomenologia della religione come metodo del capire (cfr. ivi, p. 47). 14 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 47. 15 Ibidem.

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vuole un sano e salutare storicismo16, ma ricorrendo all’«irrazionalità della vita»17. Sotto questo riguardo allora, van der Leeuw assurge a caleidoscopo attraverso il quale l’etnologo napoletano fa i conti con una tradizione di pensiero in cui, a suo dire, si confonde il «vero conoscere» con l’«intuizione» o, peggio ancora», con la «contemplazione di essenze e strutture ideali»18. Tuttavia, se questo è vero, è pur certo che il nome di van der Leeuw non possa essere scompagnato da quello di Otto, da cui il primo prende le mosse. Nella prospettiva demartiniana, infatti, il libro di Otto ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, che ha influenzato non soltanto la metodologia storico-religiosa ma la coscienza e la sensibilità culturale generale19, tanto che «[…] solo con la pubblicazione di Das Heilige – scrive de Martino – si inizia un periodo della storia culturale europea (o, se si vuole, euroamericana) nel quale si viene costituendo un piano di sviluppo di rapporto, di convergenza e di almeno potenziale unificazione di quanto prima o partecipava a tradizioni indipendenti o si trovava solo allo stato di accenno, di abbozzo. Questo piano è dato dal sacro, dal mito, dal rito, dal primitivo, dal magico, dalla lussureggiante varietà delle religioni dell’ecumene, viventi o scomparse che fossero. Proprio su questo piano i germi di “relativismo” culturale già presenti nell’opera di Dilthey si muovono come su un terreno particolarmente adatto al loro fruttificare; l’interesse per il lato oscuro dell’uomo è qui che trova il suo ambiente in certo senso elettivo; e i fermenti irrazionalistici che nella filosofia e nella letteratura – come nelle arti figurative – avevano già da tempo dato copiose testimonianze di sé trovano ora un luogo di raccordo, di conferma di incremento»20. 16

Cfr. ivi, pp. 47-48. Le riflessioni demartiniane in queste pagine rimandano esplicitamente ad un saggio di Guido de Ruggiero su Storicismo e pseudo-storicismo nella filosofia tedesca contemporanea (in «La Critica», XXXI, 1934, pp. 188-199 e vol. XXXII, 1935, pp. 37-50) in cui l’Autore confrontandosi con una determinata tradizione storicistica tedesca – e qui i nomi sono, tra gli altri, quelli di Dilthey, Troeltsch e Spengler – giunge alla distinzione tra uno storicismo, di matrice tedesca, deteriore, relativistico, scettico e irrazionalistico e un sano e vero storicismo che si richiama alla tradizione crociana. Questo, a dispetto dell’altro, non comprimendo l’avvenire a vantaggio del passato, non limitando l’azione creatrice dell’uomo, è realmente in grado di comprendere la storia e, con essa, la vita. 17 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 48. 18 Ibidem. 19 Cfr. E. de Martino, Furore Simbolo Valore, Milano, il Saggiatore, 1962, pp. 16-17. 20 E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini e M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2002, p. 258.

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L’OMBRA DEL DIVINO

Non si va lontano dal vero, allora, se si dice che nell’opera di van der Leeuw confluiscono e vengono ripresi tutti quegli elementi, insani, deteriori e scettici, della cultura europea, che avevano trovato il loro primo compimento, però, nel libro del teologo di Marburgo21. Entrambi, dunque, assurgono, nella ricostruzione demartiniana, ad exempla di un errato modo di intendere la religione: col ricorso all’irrazionale, per spiegare quanto è razionale, essi invece di gettar luce, alimentano «la paura del buio»22. Nondimeno al loro cospetto de Martino non può non dire: «nec cum te nec sine te». Perché al primo si deve l’aver individuato il carattere esistenziale della religione23; al secondo l’averle riconosciuto valore autonomo24. Che sono i cardini sui quali l’antropologo napoletano sostiene ed elabora la sua teoria sulla religione e sulla storia delle religioni. Sicché, prima di seguire il filo del ragionamento demartiniano nei saggi sulla fenomenologia e sull’irrazionalismo religioso, onde evitare d’essere irretiti nella fitta tela tessuta dall’autore, e per meglio comprenderne quanto esplicito ma non esplicato, converrà sostare, anche se brevemente, sul Sacro di Rudolf Otto e sulla Fenomenologia della religione di Gerardus van der Leeuw. Com’è noto, il «sacro» per Otto è il «totalmente altro», l’«estraneo»25. Il «nascosto»26. Esso, infatti, è sì spirito, ragione, volontà, onnipotenza, tuttavia i predicati razionali non ne esauriscono l’essenza, tanto da essere validi solo come «attributi di un irrazionale»27. Che è, per questo, innanzitutto e soprattutto «mysterium tremendum»28. È «majestas». «Energia». E, in quanto tale, può portare l’anima al raccoglimento ma anche a spasimi e convulsioni, che la trascinano alle più strane eccita21

Cfr. supra n. 15 e n. 20. È il titolo, suggestivo, di uno dei paragrafi di un inedito pubblicato in Storia e metastoria, cit., pp. 171-173. 23 Su ciò si vedano le pagine che Marcello Massenzio dedica all’interpretazione demartiniana dell’opera di Otto nel capitolo «Scienza della religione tra storicismo e fenomenologia nel pensiero di R. Pettazzoni, A. Brelich, E. De Martino», contenute nel suo volume su Sacro e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine, con una presentazione di C. Tullio-Altan, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 23-25 e 54-56. 24 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 66. 25 R. Otto, Il sacro (1936), Milano, SE, 2009, p. 41. 26 Ibidem. 27 Ivi, p. 18. 28 Ivi, p. 27. 22

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zioni fino a farla precipitare, da ultimo, in un «orrore spettrale e pieno di raccapriccio»29. Sicché, arcaicità, primitività e barbarie; purezza, bellezza e gloria sono i tratti che segnano il suo volto gianico che ispira, insieme, timore e raccapriccio, fascino e attrattiva30. Ma il sacro, non è solo una categoria composita, è anche un’idea a priori31 – ed è questo il dato più significativo. Facendo sua, infatti, la lezione kantiana secondo cui la conoscenza umana pur avendo inizio dall’esperienza, non derivi tutta da questa, egli giunge ad affermare che nell’esperienza religiosa si agitano sentimenti e credenze che non possono discendere in nessun modo dalle conoscenze empiriche, ma, latenti in ogni uomo, gli consentono se non di comprendere almeno di conoscere e riconoscere Dio. Alla base del ragionamento del teologo di Marburgo, dunque, c’è la convinzione che la conoscenza concettuale e razionale non esaurisca tutte le possibilità del conoscere umano, perché giace, accanto a lei, una distesa regione che ad essa si sottrae e che obbedisce a norme non meno valide o più imperfette di quelle dettate dalla ragione. È questo, per lui, il caso dell’estetica e della religione: esse non soggiacciono al dominio della logica ma a quello del sentimento che, però, come il primo è ‘organo’ di conoscenza32. Qui, se non ci inganniamo, risiede il nerbo dell’analisi di Otto che, però, non paga, avanza, spedita, nel rivendicare maggiore profondità ed esclusività proprio a quella forma di conoscenza che, risiedendo nel sentimento, non procede attraverso catene causali o strette maglie dimostrative ma cerca di sfiorare, pudi-

29

Ibidem. Ivi, p. 49. 31 Ivi, p. 127. 32 Non è superfluo ricordare qui che all’affermazione del valore conoscitivo dell’estetica è dedicato anche il primo volume della filosofia dello spirito di Benedetto Croce. Che così si apre: «La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti» (B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902, Milano, Adelphi, 1990, p. 3). Distinguendo l’intuizione, che è sempre espressione, dalle impressioni, sensazioni, sentimenti, emozioni, Croce pone l’estetica sullo stesso piano della logica: entrambe sono forme di conoscenza. Nessuna delle due signoreggia sull’altra, ma, come forme dello spirito sono l’una soltanto perché è l’altra. 30

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L’OMBRA DEL DIVINO

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camente, l’ineffabile che alla parola si sottrae33. Essa, allora, a dispetto dell’altra, non si può insegnare ma solo suscitare o destare. In una delle prime pagine del Sacro, infatti, si legge: «Invitiamo il lettore a rievocare un momento di commozione religiosa, possibilmente specifica. Chi non può farlo o chi non ha mai sperimentato tali momenti, non legga oltre. È infatti impossibile parlare di conoscenza religiosa a colui che può ricordare i suoi primi sentimenti dell’età pubere, i suoi disturbi digestivi o i suoi sentimenti sociali, ma non quelli specificatamente religiosi. È da perdonare se si sforza, con i princìpi che sono a sua disposizione di giungere il più lontano possibile, e interpreta l’ “estetica” come diletto dei sensi, la religione come una funzione d’impulsi di valore sociale o in maniera ancor più elementare. Ma l’artista che ha sentito in sé quello che è caratteristico dell’esperienza estetica, farà a meno delle sue teorie: molto più l’anima religiosa»34.

La religione, dunque, è «sentimento»35. Sentimento del numinoso. Ovvero consapevolezza della propria nullità, dell’essere solo fango e cenere al cospetto di una potenza ‘sentita’ come sovrumana36. E ancora. È «inabissamento», «sprofondamento», «annullamento» di sé37, e, come il piacere o il dolore, la capacità di avvertire il suono e la luce, di registrare lo spazio e il tempo, è un’«attitudine», una «predisposizione» dello spirito: un’idea, come s’è detto, a priori, radicata nel fundus animae dell’uomo38, che forma e informa tutta quanta la storia, da cui è generata ma non creata. Da qui, dunque, la sua assoluta autonomia e originarietà; da qui l’affermazione assiomatica che essa sia già (pur non ancora pienamente) religione nel suo primo, rozzo e grezzo aspetto:

33 La lingua, per Otto, può solo balbettare, parlando del divino. «Può tracciarne una nozione impropria e confusa con il sussidio vacillante di immagini e analogie» (R. Otto, Il sacro, cit., p. 52). E a suffragio della sua tesi cita Dante: «[…] le labbra del veggente balbettano ancora di commozione nel ricordare il contenuto positivo della visione, non raggiungibile da alcun concetto, ma appunto per questo accessibile all’esperienza del sentimento (Paradiso, XXXIII, 121-123): “Oh, quanto è corto il dire e come fioco/ al mio concetto! E questo, a quel ch’ i’vidi/ è tanto, che non basta a dicer poco”» (ivi, p. 54). 34 Ivi, p. 23. 35 Cfr. ivi, spec. p. 21. 36 Cfr. ivi, pp. 32-34. 37 Ivi, p. 70. 38 Ivi, p. 131.

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quello del sentimento dell’inquietante39, che, celebrato nella credenza e nel culto dei morti e degli spiriti, nella magia, nelle saghe e nei miti40, giunge trasfigurato, ma non sformato, nelle forme razionali delle nostre religioni. Che allora sono lo sviluppo di quanto dapprima s’è manifestato come «terrificante autosuggestione», «incubo di psicologia collettiva», indistinto e confuso culto della natura, «mania», «furore», «invasamento»41, e poi, attraverso una elaborazione razionale, morale e culturale, è giunto, nella storia, al compimento di sé42. Nell’«atrio» della storia religiosa, dunque, si agitano fenomeni singolari, confusi, primitivi, magici e mitici i cui protagonisti sono uomini43 non diversi da noi, se non fosse che per una certa imprecisione del loro pensiero, circondato ancora da un alone di sogni e di fantasie44. Guai, allora, se il nostro Dio fosse ancora il dio del deserto, tuttavia guai a negare che nel nostro Giove non siano rimasti granelli di sabbia del rosso Jahu. È un errore, infatti, il volere eliminare l’ineliminabile fondo oscuro, primitivo e irrazionale, che è il proprium di ogni religione; è un errore rinserrare la religione nell’ambito dell’etica e della morale, che da essa traggono origine ma non la originano né l’esauriscono. Tuttavia è un errore pari ai primi, identificare la religione solo con i suoi momenti irrazionali, perché in tal caso essa sarebbe solamente fanatismo e misticismo, non già religione. Dunque, solamente nell’equilibrio armonico trai i primi e i secondi termini sta il valore d’ogni religione45. Otto, da ultimo, allora, non nega la matrice razionale della religione, ma rivendica l’insopprimibile valore del suo fondamento originario46 che, per quanto irrazionale, ha dato origine, com’egli 39

Cfr. ivi, pp. 29 e 133. Cfr. ivi, p. 132 e sgg. 41 Ivi, pp. 145-146. 42 Otto non esita a definire il cristianesimo come la «più alta fra tutte le religioni mai esistite [… esso] si delinea nella fusione dei vari momenti, che riveste con forme classiche e nobili, e che si rivelano con maggior chiarezza alla nostra comprensione quanto più noi procediamo onestamente e oggettivamente a situarlo al posto suo nello studio comparativo delle religioni, riconoscendo così che nel cristianesimo è giunto a maturità – in maniera peculiare e addirittura suprema – un momento della spiritualità umana che ha per altro anche altrove le sue analogie, vale a dire il momento della “religione”» (ivi, p. 154). 43 Cfr. ivi, p. 129. 44 Cfr. ivi, p. 140. 45 Cfr. ivi, pp. 153-154. 46 A proposito del cristianesimo, la più alta forma di religione (cfr. ivi, n. 39), Otto scrive: «Sul fondamento profondo dell’irrazionalità si innalza il chiaro edificio delle sue 40

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osserva polemicamente, alla moralità, alle leggi e al diritto47. Sicché nella «potenza inquietante» che è nella magia, nei riti degli stregoni, nelle formule sciamaniche, nelle capacità profetiche dei veggenti, nel feticismo e nel totemismo48, Otto rintraccia la preistoria della religione e della nostra storia umana che, se da allora tanta strada ha percorso, tuttavia da lì, nel profondo, non s’è mai mossa: una medesima forza, una stessa potenza la sospinge, l’agita e l’attraversa al punto tale che, se è vero che la religione è generata dalla storia, non lo è il sentimento religioso, senza il quale non s’avrebbe neanche una storia umana. Che è, nonostante le differenze metodologiche non trascurabili, il punto a partire dal quale prende le mosse l’analisi di van der Leeuw sulla quale qui, più che per l’altra, è necessario soffermarsi. Se infatti, l’irrazionalismo, per noi razionalistico di Otto, lascia tracce evidenti nell’opera di de Martino, ancor di più lo farà la fenomenologia49 di van der Leeuw che, facendo sue le conquiste teoretiche del primo – ma non fermandosi ad esse -, definisce, nella sua Fenomenologia della religione, Dio come «qualcosa di diverso». Anzi come l’«assolutamente diverso»50 che, generando timore e ad uno attrazione51, «meraviglia» e «sorprende»52. Malessere fisico, tremore, spavento improvviso e allucinatorio, rispetto, umiltà, esaltazione sono gli stati d’animo provati dall’uomo al cospetto di Dio53. Che è, sopra ogni cosa, «potenza»54. È il mana melanesiano, che si rivela nella forza fisica e in tutte le forze e capacità dell’uomo; il dema dei Marind-Anim, che può produrre il bene e il male; il wakanda dei Sioux, che si confonde con la potenza irrazionale del sole, della luna o di un cane; l’hamingja degli antichi germanici, che è forza vitale, fortuna, grandezza quantitativa; la baraka pure concezioni, dei suoi sentimenti, delle sue esperienze. L’irrazionale non è che la sua trama, il suo margine, il suo involucro, attraverso cui si preserva la sua mistica profondità, senza che con ciò si decomponga e degeneri nella mistica stessa» (ivi, p. 154). 47 Ivi, p. 149. 48 Ivi, pp. 132-135. 49 Sul complesso rapporto di de Martino con la fenomenologia si veda A. Donise, Ernesto de Martino fenomenologo dell’alterità, in AA.VV., Ernesto de Martino tra fondamento e «insecuritas», cit., pp. 29-54. 50 G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, cit., p. 29. 51 Ibidem. 52 Ivi, p. 7. 53 Ivi, p. 29. 54 Ivi, p. 7.

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degli arabi, legata ad un particolare portatore, dal quale procede. E ancora. È l’indistinta potenza non nomata dei greci; l’el del popolo ebraico; lo Spirito, che nel cristianesimo da Paolo è fatto il Signore55. Essa, inoltre, rivela incessantemente la sua potenza in oggetti, persone, piante o atti. Da qui i feticci e gli amuleti (l’arca dell’alleanza del popolo d’Israele, il máhmal dei pellegrini musulmani, il tjurunga australiano, la croce cristiana); da qui gli idoli (Hermes un tempo pietra fallica posta lungo le strade e Afrodite che in principio era un semplice birillo); da qui i santi, le cui statue e reliquie, oggetto di venerazione ancora oggi, vengono ritenute miracolose. E da qui, infine, i tabù (la forma più antica dell’irrazionalità dell’imperativo categorico), che agiscono potenti in ogni religione: essi operando una sospensione della vita, sono l’unico viatico per superare i momenti critici dell’esistenza56. Che è una pericolosa avventura da cui solamente loro ci mettono al riparo. I tabù, infatti, nell’opera di van der Leeuw, sono la reazione, istintivamente calcolata, dell’individuo dinanzi a un oggetto, lato sensu, in cui si manifesta la pienezza della potenza57, al cospetto della quale, gli uomini, lungi dal restare inermi, devono prendere precauzioni. E lo fanno con la creazione spontanea di un linguaggio tabù, cui segue un cerimoniale comportamentale ispirato al medesimo. Esso, inoltre, può essere esplicito, come nella vita sessuale58, oppure oscuro e quindi necessita d’essere decretato. In quest’ultimo caso il re o un sacerdote, ovvero un «portatore di potenza», investe d’essa un qualche oggetto, proclamando che in un certo periodo si manifesterà la pienezza della potenza. Così, ad esempio, in Polinesia, l’araldo del re proclama il tabù: «Tabù – nessuno è autorizzato a uscire di casa! Tabù – nessun cane deve abbaiare! Tabù – nessun gallo deve cantare! 55

Cfr. ivi, pp. 8-11. Cfr. ivi, pp. 24-27. 57 Ivi, p. 25. 58 «Esiste cosa più ricca di potenzialità della vita sessuale? Misteriosi caratteri specifici separano la donna dall’uomo; il velo è un mezzo di difesa prima di trasformarsi in simbolo del pudore. Tutto quello che riguarda la sessualità è accentuato, sta a parte; bisogna aver cura, per esempio, di non intraprendere nessuna impresa, specialmente nessuna guerra, in condizioni di impurità sessuale; bisogna anche astenersi da ogni relazione con donne mestruanti. Talvolta quest’ultimo motivo fa escludere le donne dalle pratiche del culto: il suo potenziale si opporrebbe alla potenza cercata» (ivi, p. 25). 56

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L’OMBRA DEL DIVINO

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Tabù – nessun maiale deve grugnire! Dormite – dormite finché non è passato il tabù»59.

Tabù, dunque, indica che in un determinato luogo, in un preciso momento si è verificato un accumulo di potenza, da cui mettersi al riparo. La vita, allora, viene volontariamente sospesa. Si trattiene il respiro, si prendono precauzioni, nell’attesa che il giorno, l’ora, il momento critico passino senza suscitare l’ira e il castigo divino. Soltanto in questo modo, per van der Leeuw, si spiega perché, ad esempio, presso i Kajan la donna gravida e suo marito non possono toccare la cacciagione uccisa; perché ad ebrei e cristiani il sabato, o la domenica, o il giorno natale di Cristo è prescritto d’astenersi da ogni lavoro. Ma il concetto di tabù, elaborato da van der Leeuw sulla scorta di Otto, non rimanda solo all’idea di un Dio che è essenzialmente e costitutivamente potenza – tanto che non v’è luogo, fisico o ideale, che di Lui non porti il segno. Esso è anche e soprattutto la pietra angolare sulla quale il teologo di Groninga edifica la sua fenomenologia della religione. Tabù, infatti, è, nella prospettiva di van der Leeuw, un fenomeno. Ovvero una struttura tipica da cui deriva un’idea di religione, che investe inesorabilmente tutto il campo di possibilità dell’umano, tanto che finanche l’ateismo, in questa prospettiva, esiste solo come una delle molteplici forme storiche in cui essa si mostra60. Ma allora, 59

Ivi, pp. 26-27. In merito a questo nodo cruciale del ragionamento di van der Leeuw, è opportuno usare le sue stesse parole: «La religione della fuga è l’ateismo, senonché mai, in nessun luogo, raggiunse forma storica. Certo, vi sono sempre uomini che fuggono di fronte a Dio, ma non sono capaci di trarre dalla fuga una religione; infatti, appena sfuggiti ad una potenza, corrono a gettarsi nelle fauci della successiva. Possono passare da Dio al diavolo, ma anche il diavolo – fenomenologicamente parlando – è una specie di Dio. Possono tornare da Dio all’uomo o all’umanità, ma questa fuga li riconduce semplicemente alla potenzialità originaria […]. Un tempo vi furono anche studiosi che ritenevano senza religione i popoli primitivi, in quanto non servivano degli dèi; questa teoria, fortunatamente, è stata ormai abbandonata, non esiste un sol popolo privo di religione. L’ateismo non ha rivestito nessuna forma storica, né ai primordi della storia né in seguito: sempre e dappertutto, la religione è presente […]. Il carattere religioso dell’ateismo moderno si manifesta ancor più fortemente, ad esempio nel preteso ateismo del deismo, del naturalismo e dell’idealismo. In tutti questi casi, un altro dio prende il posto degli dèi serviti finora: la morale, l’umanità e l’idea. Ed ogni volta la loro essenza è realmente una potenzialità, nel senso religioso della parola. Il moderno ateismo comunista è nelle stesse condizioni: il sogno di un regno di Dio e la religione dell’umanità vi si sono associati in un nuovo ideale religioso, che è ateo 60

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«ALL’OMBRA DEL DIVINO». ERNESTO DE MARTINO 1953-1957 41

cos’è la religione? o meglio ancora: come si presenta quel legame totalizzante, onnicomprensivo, quale la religione è in questa prospettiva, che lega con stretti lacci l’uomo a Dio? Muovendo dalla costatazione che l’origine della religione, così come ogni fenomeno originario, sfugge alla nostra comprensione, van der Leeuw intravede nella storia un varco che gli consente di cogliere l’essenza del rapporto col divino. Che può essere compreso, a suo avviso, solo attraverso una fenomenologia della religione, che consente, col suo procedimento, di giungere alle «figure storiche» della religione61, le uniche, per lui, in cui questa vive di vita vera62. Essa, che nulla sa, e nulla vuol sapere, di cause, effetti, né tanto meno del progresso, varcando luoghi e tempi, gesti ed eventi, rintraccia nell’amuleto dell’indigeno e nella croce del cristiano una medesima religiosità, uno stesso rapporto con Dio. Sicché la religione, che per van der Leeuw, lo ricordiamo, è reale solo nelle religioni, può essere compresa unicamente attraverso una tipologia storica63. Perché tutto quello che è prima della storia, così come tutto quello che è ‘solo’ storia si sottrae alla comprensione, mentre si «mostra» solamente quanto è tra l’uno e l’altro: il fenomeno. Che è «[…] ciò che si mostra. Questo – continua il teologo – comporta una triplice affermazione: 1) vi è qualche cosa; 2) questa cosa si mostra; 3) è un fenomeno per il fatto stesso di mostrarsi. Ora, il fatto di mostrarsi interessa sia quel che si mostra, sia colui al quale viene mostrato; di conseguenza il fenomeno non è un semplice oggetto; e non è neppure l’oggetto, la vera realtà, la cui essenza sarebbe soltanto ricoperta dall’apparenza delle cose vedute. Di questo parla una certa metafisica. Con fenomeno non si intende neppure qualche cosa di puramente soggettivo, una vita del soggetto studiata da un ramo distinto della psicologia – nella misura in cui ne ha la possibilità. Ma il fenomeno è insieme un oggetto che si riferisce al soggetto, ed un soggetto relativo all’oggetto»64. soltanto se viene misurato sulla religione anteriore, ma che in sé cerca Dio anziché fuggirlo» (ivi, pp. 466-467). 61 «La religione» – scrive van der Leeuw – «è reale soltanto nelle religioni […]. In altri termini, la religione non si mostra a noi; quel che riusciamo a vedere è sempre una data religione concreta; quel che ogni volta a noi si presenta è soltanto la figura storica della religione» (ivi, p. 459). 62 Ivi, p. 461. 63 Ivi, p. 403. 64 Ivi, p. 529.

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Dunque, soggetto e oggetto non esistono presi di per sé soli, ma solo nella loro relazione, che è sempre biunivoca. Sicché, al di là dell’apparente gioco sofistico, qui si vuol dire, con forza e convinzione, che per la parte che compete all’uomo, egli può comprendere solo ciò che gli si mostra; può, come Adamo, «dare nomi» solo a quanto è diventato visibile. E, nel fare ciò, separa, raggruppa e classifica i fenomeni in «tipi ideali»65. Che, seppur non hanno realtà, né sono una fotografia di essa, tuttavia possiedono vita, senso e legge propria. Sotto questo riguardo, dunque, per van der Leeuw, la fenomenologia, che ha come unico fine quello di attestare che «di quanto fu veduto in questo mondo, si può parlare»66, è la via maestra per comprendere la realtà caotica e informe; è l’unico strumento che l’uomo possiede per non smarrirsi nelle cose o nell’ego, che gli consente di non elevarsi al di sopra di esse come un dio o al di sotto come un animale, ma di fare quanto né al primo né al secondo è dato: collocarsi accanto ad esse e guardare ciò che si mostra67. Ma se la fenomenologia è l’unico metodo atto alla comprensione del reale, qual è l’ingranaggio che fa muovere un così delicato organum? A questo interrogativo van der Leeuw risponde senza esitazioni, indicando nell’ «esperienza vissuta» la porta che ci immette nella comprensione della realtà. Essa non è vita «pura» e «semplice»68, ma è sempre condizionata ed associata ad una interpretazione. L’esperienza vissuta nuda e cruda, la vita in sé è inafferrabile tanto che le esperienze che viviamo scompaiono nell’istante stesso in cui le esperiamo. Noi, esemplifica il teologo di Groninga, siamo lontani dal noi stessi di un attimo fa o di un ventennio fa come dallo scriba egiziano, che, dunque, come il me di qualche istante fa sono allo stesso modo un altro da me69. L’immediato, allora, non è mai dato nello spazio e nel tempo, bisogna ricostruirlo e interpretarlo. Sotto questo riguardo possiamo conoscere solo quanto a noi si mostra e, si badi bene, non tutto ma solamente quello di cui abbiamo fatto esperienza. Dunque, il metodo fenomenologico, che ha come fine il descrivere quello che si rivela, non può se non trovare in Dio il fenomeno più ostico e al contempo elevato di cui si può e deve dire. Esso è l’«estremo 65 66 67 68 69

Ivi, pp. 531-532. Ivi, p. 535. Ivi, p. 534. Ivi, p. 530. Ibidem.

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limite», il «senso ultimo», l’«oltre» cui rimanda ogni conoscenza umana che, da ultimo, è sempre «religiosa»: «L’uomo che non accetta soltanto la vita, ma le domanda qualche cosa – la potenza – cerca di trovare un senso nella vita […]. Al di sopra del variopinto e del dato, l’uomo stende la sua rete, regolarmente fabbricata; vi appaiono svariate figure: un’opera d’arte, un costume, un’economia. L’uomo trasforma la pietra in statua, l’impulso in comandamento, la solitudine incolta in campo. Così manifesta potenza. Ma non si ferma: persiste a cercare, sempre più oltre, un senso sempre più profondo e più vasto. Quando sa che un fiore è bello e produce un frutto, domanda qual è il suo senso ulteriore, l’estremo significato; quando sa che sua moglie è bella, lavora e mette al mondo figli, quando riconosce di dover rispettar la donna d’altri, come vuole che sia rispettata la sua, cerca più oltre e domanda il significato ultimo. Trova così il segreto della donna e del fiore; scopre il loro significato religioso»70.

All’uomo, giunto al limitar di Dite, si rivela Dio ed esperisce che comprendere, alla fine, non è altro che essere compresi. La religione, infatti, è l’esperienza, misteriosa, di una potenza estranea, del tutto diversa che, però, venendoci incontro, si inserisce nella nostra vita. Il rigido scandaglio della fenomenologia vanderleeuwiana scopre allora, che la religione si fonda su di un’esperienza solo in parte vissuta, perché inerisce un fenomeno originario, anzi, il fenomeno originario. Che è al di là dello spazio e del tempo e che rimanda ad una rivelazione mai interamente sperimentata71. Sicché la fenomenologia si ritrova impotente nel penetrare il senso profondo del reale che, sempre, le rimane nascosto. Qui l’organum da via diviene il mezzo per indicare la Via, che si rivela, con e dopo l’epoché, alla coscienza umana: estremo bastione, ineliminabile residuo, che consente di comprendere i fenomeni e di conoscere Dio. E, giunti a questo punto, il nostro discorso può riannodarsi con quello demartiniano; i suoi molteplici fili, solo all’apparenza scompagnati, si ritrovano saldamente stretti. Ed è così, come si cercherà di mostrare, perché senza l’irrazionalismo di Otto e la fenomenologia di van der Leeuw de Martino difficilmente avrebbe tracciato i confini del 70 71

Ivi, p. 536. Ivi, p. 517.

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suo mondo magico. Ma, ancor di più, senza d’essi, probabilmente, mai li avrebbe superati. Sotto questo riguardo, infatti, va innanzitutto detto che la coscienza, per quanto non sia per l’antropologo napoletano, un possesso sicuro, è però l’ineliminabile fondo, per più versi oscuro, della storia, i cui segni, anche da de Martino – come già dai due teologi – vengono decifrati tramite la religione: solo dove, per lui, in cui si rivela il fundus animae dell’uomo, che giace però latente dietro le molteplici e mendaci fattezze di Dio. Sicché, primitivi, sciamani, stregoni, magia, miti, riti, amuleti e talismani, evocati nelle opere di Otto e van der Leeuw, rivivono prepotenti nelle pagine demartiniane, in cui il martellare incessante dei tamburi, che nei primi è un suono lontano, si fa assordante; l’odore sbiadito dell’incenso avvampa nauseante; il canto velato dei fedeli salmodia stridulo. Che è il paesaggio in cui si compie il tentativo demartiniano di rubare la divinità a Dio per farne dono agli uomini. Tuttavia, quest’atto mosso da scaltro pensiero, che non fu dell’arti di frode oblioso, viene compiuto solo dopo il 1948. Prima d’allora «l’interesse per il lato oscuro dell’uomo» e i «fenomeni irrazionalistici» trovano un terreno fertile nell’ambiente, non ancora sfiorato dalla mano di Galilei, nel quale il lettore del Mondo magico è fatto sprofondare. Qui, infatti, si racconta di uomini – idealisticamente nostri progenitori – che non sanno precisamente chi sono; di uomini il cui Io, trasognato, è meno solidamente circoscritto del nostro, tanto da confondersi, con riverente leggerezza, con quanto e quanti lo circondano. E ancora. Qui si narra di uomini che, per far fronte alle potenze numinose, organizzano la propria esistenza intorno a miti, riti e tabù. Qui, da ultimo, si dice di una realtà altra dalla nostra, ma non per questo meno reale. E di ciò si narra attraverso il ricorso ad un linguaggio che ricalca nel lessico quello heideggeriano. Tuttavia se ad esso si prestasse fede ingenua si scivolerebbe in un mondo altro da quello magico72. Perché termini come 72 Per quanto, com’è ovvio, Heidegger non sia l’inventore di termini quali «esserci» e «presenza», non si può non tenere in dovuto conto che il significato da lui attribuitogli appartiene oggi al ‘senso comune’. Nel § 9 di Essere e tempo, infatti, così scrive: «L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. I caratteri che risultano propri di questo ente non hanno quindi nulla a che fare con le “proprietà” semplicemente-presenti di un ente semplicemente-presente, “avente l’aspetto” di essere così o così, ma sono sempre e solo possibili maniere di essere dell’Esserci, e null’altro. Ogni esser-così, proprio di questo ente, è primariamente essere. Perciò il termine “Esserci”, con cui indichiamo tale ente esprime l’essere e non il che cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero […]. L’Esserci non è perciò da intendersi ontologicamente come un caso o

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esserci e presenza vengono qui utilizzati con segno opposto da quello segnato dall’autore di Essere e tempo. Sicché se non si vuole rischiare di chiamare col nome d’albero il cane e con questo quello, è bene precisare che la presenza, lungi dall’essere il modo d’essere proprio delle cose, è, invece, l’unica possibilità attraverso cui si dà il modo d’essere proprio dell’uomo. Questa inversione di segno però, sulle prime straniante, è solo il riflesso di quella ben più ampia in cui è avvolto tutto il mondo magico. Che, non a caso, si svela con la messa in discussione, o meglio ancora tra parentesi del concetto di realtà acquisito dall’umanità nel corso dei secoli. È questa, e non altre, l’operazione che consente a de Martino di dare inizio alla delicata opera di esumazione delle menti, «tutte seppellite ne’ corpi»73, dei primi uomini. Che sono sì malfermi, ma che possono, a ragion veduta, accusare il missionario Grubb74 d’aver rubato le zucche dal giardino di uno di loro, perché l’hanno visto compiere tale atto in sogno. Ma allora, che cos’è veramente reale? E cosa consente alla coscienza labile dei primitivi d’essere tanto salda e forte, come non la nostra, da rimanere desta anche quando Morfeo la stringe a sé? Un sogno, per de Martino, non vale meno della realtà. Che non è un monolite. Ma è composita, complessa, tanto che il mondo di Copernico e Newton, retto da leggi fisse, immutabili, eterne, non solo non è l’unico possibile ma non è il solo ad essere reale. Accanto ad esso v’è un altro mondo popolato da spiriti, retto da fatture e malie. L’uno e l’altro, per quanto connotati da segno opposto, convivono in un medesimo tempo e finanche in un medesimo luogo. Essi, infatti, pur non appartenendo allo stesso dominio del reale, hanno in comune, in ugual grado, il predicato d’esistenza. E, che sia così, è provato dal fatto che quando riusciamo ad andare al di là dei nostri condizionamenti culturali, quando riusciamo a conferire al nostro sguardo una forza di penetrazione almeno pari a quella che ha scardinato i principi della fisica classica che, da assoluti, sono stati riconosciuti validi solo relativamente al mondo macroscopico75, allora possiamo conoscere storicamente

un esemplare di un genere dell’ente inteso come “semplice-presenza”» (M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, Milano, Longanesi, 199914, pp. 64-65). 73 E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 7. 74 Ivi, p. 135. 75 Ivi, p. 137.

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quel mondo di cui anche Vico76 «disperava che si potesse mai fermare l’immagine»77. Diciamo meglio: mettendo tra parentesi i risultati che nel corso di decenni l’umanità ha raggiunto in merito all’esistenza dei poteri magici; mettendo tra parentesi le incrostazioni del tempo, si mostra a noi il campo di possibilità di un fenomeno che lungi dall’essere originario è, però, sempre reale: il mondo magico. Ovvero non un’età della nostra storia che, come quella augustea, illuministica o barocca hanno sì contribuito allo sviluppo della nostra civiltà, ma che questa ha poi superato lasciandosele alle spalle, ma un mondo. Che, in quanto tale, non rimanda al tempo ma all’essere. Esso, infatti, non è separato dal nostro cronologicamente, ma lo è ontologicamente. L’uomo che abita il mondo magico è altro da noi. Il suo io ondeggia. Stormisce. Vacilla. Ora è foglia. Ora è uccello. Ora è uomo. Immagine e cosa, parola e significato, nome e cosa nominata sono per lui la medesima cosa. Tuttavia la preistoria della nostra storia non comincia nella profonda notte dell’io, ma sul far del giorno, quando tra sonno e veglia, luce e tenebre stanno l’una di fronte all’altra e si mostra, seppur con contorni rarefatti, incerti e sbiaditi il mondo. Scrive infatti de Martino: «[…] il semplice crollo della presenza, la indiscriminata coinonia, lo scatenarsi di impulsi incontrollati, rappresentano uno dei due poli del dramma magico: l’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. Per questa resistenza della presenza che vuole esserci, il crollo della presenza diventa un rischio appreso in un’angoscia caratteristica: e per il configurarsi di questo rischio la presenza si apre al compito del suo riscatto attraverso la creazione di forme culturali definite. Per una presenza che crolla senza compenso il mondo magico non è ancora apparso; per una presenza riscattata e consolidata che non avverte più il problema della sua labilità, il mondo magico è già scomparso. Nel concreto rapporto dei due momenti, nella opposizione e nel conflitto che ne deriva, esso si manifesta come movimento e come sviluppo, si dispiega nella varietà delle sue forme culturali, vede il suo giorno nella storia umana»78.

76 Su de Martino e Vico si veda: R. Viti Cavaliere, La storia e il futuro dell’uomo. De Martino e Vico, in AA.VV., Ernesto de Martino tra fondamento e «insecuritas», cit., pp. 67-92. 77 E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 7. 78 Ivi, pp. 73-74.

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Ma allora che cos’è il mondo magico? Ovvero cosa si intende qui col termine «mondo»? Non è un caso che de Martino intitoli il suo libro Il mondo magico. E lo fa perché sulla scorta di Husserl e Heidegger narra la storia non di un tempo ma di un luogo che è un mondo perché in esso l’uomo vive in una «connessione di significati e di rapporti»79. Sotto questo riguardo allora, il mondo è un’unità di senso regolata e definita da comportamenti e istituti che nascono dall’angoscia di non esserci e che hanno come compito storico l’individuazione dell’io e la conseguente creazione del mondo. Ed è così perché, idealisticamente o, meglio ancora, kantianamente la rappresentazione del mondo è dipendente dalla coscienza che la coscienza (anche se incosciente) ha di sé80. Sicché una coscienza labile si rappresenterà un mondo altrettanto labile, in bilico, minacciato ad ogni passo: immenso bosco stregato, popolato da spiriti maligni che attentano l’io e che fanno sì che l’esperienza che questi ha del mondo sia sempre e solo l’esperienza di un «oltre». Che è innanzitutto e soprattutto forza. Forza che va circoscritta, piegata e addomesticata. Da qui l’istituto dello sciamano. E quello dei miti e dei riti che hanno come fine che l’io non sia inghiottito da un oltre e che il mondo non sia il dominio di un altro in tutto difforme all’io. L’«oltre» inteso qui come Dio maligno, o, meglio ancora come Spirito maligno, fatica ad essere riportato e rinchiuso nell’otre della coscienza. 79

E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 42. «Presenza garantita e mondo di cose e di eventi definiti si condizionano a vicenda: onde la crisi della presenza è anche la crisi del mondo nella sua oggettività. Pertanto, come la resistenza dell’esserci alla propria dissoluzione genera la rappresentazione e la esperienza della “influenza maligna” a cui la presenza è esposta e della “forza personale magica” attraverso cui tale influenza è combattuta e debellata, così la resistenza dell’esserci alla dissoluzione del mondo genera in primo luogo la rappresentazione e l’esperienza di un “oltre” pericoloso delle cose e degli eventi, di una loro tensione o forza, di una folla di oscure possibilità che ne travaglia l’orizzonte, e in secondo luogo la rappresentazione e l’esperienza di un ordine pragmatico, rituale, in forza del quale esplorare, esprimere e padroneggiare quell’oltre, arrestare il processo di dissoluzione, decidere l’oggettività in crisi e mantenere così su un piano definito l’ordine del mondo. Ordinariamente noi moderni partiamo dal presupposto che anche nel magismo ci sia, come nella nostra civiltà, un mondo dato a cui si faccia presente un esserci garantito: in tal guisa la magia si configura per noi ora come una “scienza falsa”, ora come “una tecnica abortiva”. In realtà il problema del magismo non è di “conoscere” il mondo o di “modificarlo”, ma piuttosto di garantire un mondo a cui un esserci si rende presente» (E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 118). 80

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Che si è fatta attraverso lotte, pericoli, sconfitte e vittorie. Si è affermata come «decisione», come «scelta» che vive in ogni nostra decisione, in ogni nostra scelta81. Tuttavia, se questo è vero, è pur certo che il mondo magico rivela che la coscienza non solo non è una realtà originaria, né una «ipotesi metafisica»82, ma che essa non è data una volta e per tutte, una volta e per sempre: è un istituto «in fieri»83, non al riparo dal divenire storico84. Sicché può ritornare ad essere mangiata, inghiottita. La sua «forza» nel corso della storia è sì cresciuta ma non tanto da poter annientare quella di un «oltre», la cui forza, primitiva e arcaica o, meglio ancora, originaria, minaccia ad ogni passo di traboccare. Da ultimo, allora, non si va lontano dal vero se dice che de Martino, qui, è ancora sulle orme di Otto e van der Leeuw. La vita dei suoi primitivi, infatti, ricalca atmosfere che rimandano esplicitamente alle opere dei due teologi. Ma non solo. Per far destare il suo mondo magico invoca un irrazionalistico «oltre». E per indurlo alla parola pratica l’epoché fenomenologica. Tuttavia col suo «storicismo eroico»85, che per lui è insieme inveramento e superamento di quello crociano, storicizza, seppur non storicamente – ovvero non cronologicamente – la coscienza umana e di rimando, storicisticamente, storicizza il Mondo magico. È solo dopo che l’antropologo napoletano invertirà il passo. Sotto questo riguardo, dunque, il confronto critico con le opere di Otto e van der Leeuw ingaggiato da de Martino dopo il libro del ’48 funge da specchio in cui si riflettono i limiti del mondo magico, ridefiniti fino agli estremi confini. 81

Cfr. ivi, p. 161. Ivi, p. 160. 83 Ibidem. 84 Cfr. ivi, pp. 159 e 160. 85 Di contro a uno storicismo «pigro», praticato dagli epigoni di Croce, de Martino oppone il vero storicismo quello «eroico» che «affonda le sue radici nella chiara coscienza che ogni “dato”, ogni “immediato”, “ogni incompreso“ risveglia la vocazione naturale della ragione storica, le segnala una limitazione attuale e le prospetta un compito di umanizzazione, di mediazione e di comprensione che può essere assolto unicamente mercé un allargamento della consapevolezza storiografica. E appunto per questo esso comporta un eroismo mentale che non conosce sosta, e che mette capo a una humanitas sempre più intima e universale» (E. de Martino, Prefazione, in Il mondo magico, cit., p. 4). Tuttavia, vale la pena sottolineare per il discorso che qui si sta tentando di fare, che in merito alla pigrizia della ragione de Martino riporta, significativamente, nel libro sulle Apocalissi, una pagina della Crisi delle scienze europee di Husserl. Cfr. E. de Martino, La fine del mondo, cit., § 226, p. 402. 82

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Eliminando la distanza del tempo, infatti, de Martino scenderà ancor più nel fondo del profondo pozzo della coscienza umana. E, per tal via, potrà dire, con e contro Otto e van der Leeuw, che uomini primitivi e galileiani sono gli uni gli altri.

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III. «L’incantesimo della destorificazione religiosa» Se nel Mondo magico, dunque, la coscienza era storicamente intesa – da qui la critica di Benedetto Croce86 – dopo d’allora, invece, essa sarà atto eterno87. Sotto questo riguardo, allora, lo storicista non crociano del ’48, cederà il passo al ‘crociano’ non più ‘storicista’ dei saggi su Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto e Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni che ora, senza indugiare oltre, analizzeremo. In essi, va subito detto, s’assiste ad una rifunzionalizzazione del primitivo. Che lungi dall’essere un fenomeno originario o antitetico rispetto al moderno è di questo non solo momento costitutivo ma da quello, nella sostanza, non s’allontana. Nei saggi del ’53 e del ’57, infatti, non s’incontrano sciamani, stregoni, né Aua, Horqarnaq o Tuglik, ma siamo introdotti nella caverna della coscienza che, seppur cosciente, perché ormai al di là dei confini del mondo magico, è comunque labile. Essa, come quella dei primitivi 86 Come è noto Croce recensì ben due volte, nel 1948 e nel ’49, il libro di de Martino, prendendone da ultimo le distanze. Se, infatti, nella prima recensione il filosofo napoletano esprime, en passant, il suo dissenso nei confronti dell’analisi demartiniana relativa alle categorie, definite dall’antropologo una «caratteristica della civiltà occidentale non applicabile alle età primitive»; nella seconda invece, la sua analisi si fa pungente e i toni molto polemici. Croce, infatti, nelle pagine del ’49, intitolate significativamente Intorno al magismo come età storica, percorre tutto il volume demartiniano analizzandolo alla luce del problema della storicizzazione delle categorie. Sicché sebbene riconosca ammirevole lo sforzo compiuto dall’antropologo napoletano nell’analisi del mondo primitivo, tuttavia il suo lavoro è, per lui, minato nelle fondamenta. Ed è così, scrive qui Croce, perché le categorie sono le «fonti supreme di tutti i concetti, condizione di tutti i giudizi». Dunque, conclude il filosofo napoletano, «pensare e narrare la storia non si può se non in virtù di quella sorta di motore immoto, che sono le categorie». Le due recensioni crociane si possono leggere comodamente nel libro demartiniano. L’autore, infatti, le ha volute porre, insieme con altre recensioni di illustri autori – Enzo Paci e Mircea Eliade – nell’Appendice al suo Mondo magico, pp. 240-253. 87 Cfr. E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., pp. 60-61. Su ciò si tornerà nel prosieguo del discorso che qui si sta tentando di fare.

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rischia di essere afferrata, se non da un albero, dalla natura che può rinserrarla nei suoi stretti antri. E dal momento che, qui e ora, non c’è più nessuno capace, col suo tamburo, di cavalcare il vento per riportarci al mondo, de Martino ricerca il modo attraverso cui l’esserci, nonostante tutto, può continuare ad essere. È questo il dramma, che si consuma tra storia e metastoria88, che i due saggi presentano e da ultimo, nella religione, risolvono. Essa allora, è il sol fil sottile che consente di non smarrirsi nei meandri labirintici dell’io. Ma allora, torniamo a chiederci: che cos’è la religione? quale il suo fondamento? e soprattutto, in che modo salva l’esserci dal pericolo di non essere? Nei saggi su Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto e Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni de Martino, sollevando, impudicamente, il velo da miti e riti che dalle profondità senza fondo delle origini sono giunti fino a noi, rivela, da ultimo, il mistero della religione. E, per fare ciò, si rivolge, come s’è detto, alla fenomenologia, all’irrazionalismo e allo storicismo. Ovvero a Gerardus van der Leeuw, Rudolf Otto e Benedetto Croce. Se dei primi due, a dispetto dell’ultimo, già si è detto, tuttavia va comunque precisato il motivo della critica demartiniana che, in virtù di un comune errore – l’aver mal inteso il concetto di religione – li accomuna. Sotto questo riguardo è necessario sottolineare, ancora una volta, che il primo, per l’antropologo napoletano, descrivendo il sacro come «un mistero che non si può spiegare»89, il mito come un «rivivere una realtà dei tempi primordiali»90 e la religione come quel fenomeno originato dalla rivelazione di un Dio (una rivelazione, questa, che, tra l’altro, «resta nascosta rispetto all’essenza»)91, lungi dal fondare una conoscenza scientifica, si immette sentimentalmente nei fenomeni religiosi, li rivive, li analizza intuitivamente e utilizza, così facendo, un metodo divinatorio, 88 A tal riguardo, ragionando su van der Leeuw ne La fine del mondo, de Martino scrive: «quando nella stessa coscienza mitica appare la coscienza della storia è gettato il seme di una contraddizione insanabile che segna, col suo progresso, l’agonia della coscienza mitica e in genere del simbolismo religioso in quanto simbolismo miticorituale. Noi siamo immersi oggi nel pieno di questa agonia, e stiamo davanti alla scelta fra metastoria e storia, fra occultamento e riconoscimento della umanità del divenire» (E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 241). 89 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 53. 90 Ivi, p. 54. 91 Ivi, p. 57.

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che è causa di una mancata distinzione tra soggetto e oggetto tanto che, conclude de Martino, nella sua Fenomenologia della religione tutto si perde in una nebbia oscura, ambigua e mistica92. Il secondo, invece, definendo metastorico il rapporto col numinoso e conferendovi valore ontologico, fa sì che la sua opera non appartenga tanto agli studi storico-religiosi «quanto piuttosto alla sfera delle dirette testimonianze da utilizzare per una storia religiosa dei nostri tempi»93. Di contro, l’ultimo, a dire dell’antropologo, ha confuso, da ultimo, lui filosofo dei distinti, la religione con l’«impegno etico», che per quanto «fortemente sentito», resta comunque limitato ad un «orizzonte umanistico e mondano»94. La sua religione della libertà95, allora, altro non è, per de Martino, se non una «concezione essenzialmente laica del mondo e della vita»96. 92

Cfr. ivi, p. 49. E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 78. Giudizio simile a quello sopra riportato viene espresso da de Martino nel saggio del 1933 su Il concetto di religione, in Id., Scritti minori su religione marxismo e psicoanalisi, a cura di R. Altamura e P. Ferretti, Roma, Nuove Edizioni Romane, 1993, pp. 47-54, qui cfr. p.50. 94 E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 84. 95 Il discorso sulla religione della libertà, che investe gran parte della riflessione crociana successiva agli anni Trenta, non può essere, com’è ovvio, qui svolto o risolto. Tuttavia vale la pena ricordare che ad essa il filosofo napoletano dedica il primo capitolo della sua Storia d’Europa in cui, in pagine suggestive e appassionate, l’intera storia umana è ricondotta sotto il vessillo della libertà. Tuttavia per quanto greci, romani, cristiani, re e imperatori, durante i secoli dei secoli, l’avessero invocata, solamente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, precisa Croce, ci si libera dalla trascendenza e la si comprende, finalmente, nella sua autentica natura. Che è quella della: «libertà spirituale della personalità storicamente determinata». È questa, dunque, ad informare e a formare tutta quanta la storia del mondo. Che, da allora, non appare più come l’opera di forze estranee all’uomo. Tuttavia se questo è vero, è pur certo che la potenza creatrice della libertà, connaturale allo spirito, che è libertà, perché «opera della libertà», consente a Croce di attribuire all’ideale liberale l’appellativo di religione. Sicché nel libro del ’32 la storia che Croce narra è il cammino, lungo e lento, di una religione. Che è per lui la vera religione. Essa, che è «nata e non fatta», da ultimo, compendia e prosegue quelle del passato (Cfr. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1932, Laterza, Bari, 19814, pp. 7-21). 96 E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 84. Alla religione della libertà il giovane de Martino aveva riservato parole ben più dure di quelle sopra riportate. Nel 1934, infatti, in un articolo pubblicato nel numero di settembre de «L’Universale», ragionando su Critica e fede l’antropologo napoletano definisce il carattere essenzialmente mitico della religione. E, così facendo, identifica nello «spirito critico» – denigratore del mito – che «chiama la sua fede, la Religione della libertà» la causa prima della decadenza del secolo decimonono (E. de Martino, Critica e fede, in «L’Universale», settembre 1934, pp. 279-292, qui p. 280). 93

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Tuttavia se fin qui s’è detto della parte destruens dei saggi, ad essa, però, segue quella construens, in cui, facendo sue le parole di Otto e van der Leeuw, de Martino definisce il sacro, seppur con segno opposto, come il «totalmente altro» e la religione «una disposizione originaria della natura umana»97, ovvero una «relazione vitale»98, che, però, non può se non essere conosciuta, e qui il teologo di Marburgo e quello di Groninga lasciano il passo a Croce, se non storicamente. Perché «unica scienza religiosa» è la storiografia delle religioni99. Sotto questo riguardo allora, lo studioso non deve cedere alla tentazione di rinunciare al problema della genesi dell’esperienza religiosa100, che, dunque, non va collocata in una sfera altra o oltre il dominio dell’uomo. Essa, infatti, non è un a priori, non un «mistero inspiegabile»101, ma è un fenomeno umano, tanto che il rapporto col numinoso, che è il punto di partenza per l’uomo di fede, è, per chi non voglia confondere la scienza con la vita in atto, solo un momento del reale processo ierogenetico102. Che allora, una volta ricostruito, sarà rivelatore delle «ragioni umane» da cui «sono nate certe e non altre potenze divine». Ma non solo: esso mostrerà in che modo e per quale motivo la «coscienza si è determinata secondo una limitazione in forza della quale stanno di fronte a lei potenze divine così e così formate»103. È questo, dunque, l’arduo compito che de Martino si prefigge di perseguire in queste pagine. E lo fa attraverso lo scandaglio storicistico che

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E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 53. Ivi, p. 57. A tal riguardo de Martino scrive: «Contro l’intellettualismo positivistico, secondo il quale la religione si riduceva sostanzialmente a una scienza infantile contesta di incredibili paralogismi da ascrivere alla immensa stolidezza umana, il van der Leeuw ha ribadito con singolare energia il carattere vitale o esistenziale dell’esperienza religiosa: e per quanto egli sia rimasto prigioniero della limitazione di questa esperienza, e non si sia quindi potuto porre il problema di rigenerarla concettualmente nel reale processo ieropoietico, noi oggi dobbiamo essere debitori anche a lui se vediamo con particolare chiarezza il carattere esistenziale del sacro, e se ormai non possiamo più ricadere nelle banalità della religione come philosophia inferior e del mito come scienza semifantastica» (ivi, p. 66). 99 Ivi, p. 57. 100 Cfr. ibidem. 101 Ivi, p. 53. 102 Cfr. E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 77. 103 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 54. 98

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«[…] abbassa la causalità a momento euristico della ricerca, e attraverso la fondamentale esigenza della mediata contemporaneità storiografica circoscrive il problema da risolvere, assegna limiti non empirici o occasionali alla ricerca, e attraverso la misurazione che gli è propria comprende l’oggetto e, al tempo stesso, perfeziona la sua stessa unità di misura. In tal modo il “primo” non si perde più nella notte dei tempi, non sfugge lungo la tangente della casualità, vanamente inseguito dalla nostra immaginazione, ma è ricondotto al suo vero centro che siamo noi stessi in quanto “misuratori” di una vicenda che ci è tanto poco estranea da coincidere, sia pure mediatamente, con la rinnovata e mai compiuta misura di noi stessi»104.

Dunque, se la fenomenologia di van der Leeuw e l’irrazionalismo di Otto consentono a de Martino di definire il proprium della religione, lo storicismo105, dall’altro canto, gli fornisce lo strumento metodologico per gettar luce su di esso e da lì rischiarare, in un sol fiato, tutta quanta la storia umana, dalle origini dei tempi senza tempo fino al presente. Lo storicismo, infatti, grazie alla teoria crociana della contemporaneità106, 104

E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., pp. 92-93. Non è superfluo ricordare che lo storicismo, di matrice crociana, cui de Martino si richiama, da quello del ‘maestro’ s’allontana, per più riguardi, ma in special modo su di un punto cruciale. Se infatti in più e più luoghi l’antropologo si riferisce alla lezione crociana è pur vero che per lui, e anche da questo punto di vista i saggi da noi presi qui in esame sono esemplificativi, lo storicismo non è una filosofia, come invece era per Croce (cfr. ad es. Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, in «La Critica», XXXVII, 1939, pp. 253-268.), ma solamente una Weltanschauung (cfr. Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 91). 106 La teoria crociana della contemporaneità della storia – che è tra le più note di Croce, e di cui sopra s’è in parte già detto ma qui conviene comunque ritornarvi – si fonda sul principio, espresso in Teoria e storia della storiografia e poi mai più abbandonato ma più volte ripreso e svolto, che, «come ogni atto spirituale», la storia contemporanea «è fuori del tempo» (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 11). Sicché travalicando quest’ultimo essa rende contemporaneo il non contemporaneo. Dunque, la contemporaneità non è il carattere proprio di una classe di storie, ma di ogni vera storia. Sua condizione, inoltre, è che il fatto di cui si tesse la storia «vibri nell’animo dello storico». Sotto questo riguardo, scrive Croce: «Quando lo svolgimento della cultura del mio momento storico (e sarebbe superfluo, e forse anche inesatto, aggiungere: di me come individuo) apre innanzi a me il problema della civiltà ellenica, della filosofia platonica, o di un particolare atteggiamento del costume attico, quel problema è così legato al mio essere come la storia di un negozio che sto trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che m’incombe: ed io lo indago con la medesima ansia, e sono travagliato dalla medesima coscienza d’infelicità, finché non riesco a risolverlo. La vita ellenica è, in quel caso, presente in me; e mi sollecita e mi attrae o mi tormenta, 105

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rende viva per de Martino la storia delle religioni che, a mezzo d’essa, è «chiamata a rigenerare nel pensiero la nascita dell’umano»107 e a restituirgli, finalmente, «la storia che è sua»108. Ed è così perché, assegnando al sacro, «storicamente determinato», la sua «reale ierogenesi», lo storicismo consente di rivelare l’origine della religione. Che non è un «nudo contatto col divino, un «rapporto in sé col numinoso»109, né rimanda ad un Bevor anteriore a qualunque storia, ma inerisce il rischio di cadere nel Bevor della storia umana: pericolo estremo, questo, di non esserci in nessuna storia. Che è, poi, l’impossibilità, radicale, di sollevarsi come uomo sull’immediatezza della natura110. È questa allora, e non il prima senza tempo, l’Oltre oltre l’uomo, «l’ultima Thule»111 in cui si nasconde l’origine della religione. Che risiede, da ultimo, nei «momenti critici del conflitto tra natura e cultura»112. Un conflitto questo in cui protagonisti e antagonisti sono i due volti di una medesima figura. Ed è così perché la natura non è qui né semplicemente naturata né tanto meno naturans, ma è la natura propriamente umana. Ovvero il fondo oscuro, silvestre, ferino dell’essere dell’esserci, che, in alcuni momenti, può straripare fino a sormontare l’uomo, e a trascinarlo in un luogo in cui la natura è ormai, o ancora, «senza orizzonte di umanità»113. È allora, durante la caccia, la carestia, la guerra e la malattia, che la presenza va precipitando nel mondo organico. Si smarrisce, s’aliena. Si perde e retrocede inorridita dinanzi all’immagine di sé riflessa, che come il sembiante dell’avversario, della donna amata, o del figlio diletto pel quale si trepida» (ivi, p.13). Dunque, è l’interesse dello storico a rendere contemporanea la storia. E quest’interesse, di certo, non manca in de Martino. Tuttavia l’impressione che si ha nelle pagine qui prese in esame è che in esse l’appello alla crociana contemporaneità della storia, che probabilmente è una dichiarazione di fede da parte di chi da quella fede in precedenza s’era allontanato, può essere inteso, forse malevolmente, non solo come il manifesto d’una appartenenza ma anche e soprattutto come uno strumento di cui de Martino s’avvale per legittimare storiograficamente e dunque scientificamente la propria analisi. Nei saggi del ’53 e del ’57, infatti, nonostante il ripetuto richiamo alla teoria della contemporaneità della storia sembra che ci sia poco o nulla della complessità teoretica, dell’humus filosofico che accompagna le analisi del filosofo napoletano. 107 E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 91. 108 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 65. 109 E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 77. 110 Cfr. ivi, pp. 78-79. 111 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 61. 112 E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 82. 113 Ivi, p. 78.

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è ormai tanto diversa dal sé di un attimo prima da essere un altro totalmente altro da sé114. Che però, non è né una figura figurata né una fiera immaginata. Ma se è così, perché il prima diventa religione e l’altro l’Oltre? Con un procedimento che nasconde echi heideggeriani de Martino sostiene che durante i momenti critici dell’esistenza rischiamo di spogliarci, quasi volontariamente, dell’individualità per diventare mera oggettualità. È così allora che durante la malattia, quando siamo in balia del dolore, sentiamo solo quello che ci duole. Anzi diventiamo proprio quel punctum dolens. Le parole, i pensieri, i sentimenti, le azioni, inchiodate al corpo s’arrestano. Derubato di queste, quasi come se non l’avesse mai possedute, l’uomo torna allora, solo a sentire. E sente solo il proprio corpo. Diventa corpo. Ovvero mera natura organica. Sicché la presenza, divenuta essa stessa un oggetto115, retrocede inorridita dinanzi ad un altro che in quanto totalmente altro gli si para davanti come forza «demoniaca e rischiosa»116. Tuttavia se prima s’arresta, poi inverte il passo. È così sul far della sera della vita umana che nasce la religione. Che, con un infingimento, arresta l’alienazione della presenza117. Isola la forza che la minaccia, la colloca in un’era senza tempo e, dopo averla depotenziata, la reinserisce, prepotentemente, nella storia, scongiurando, così facendo, «la catastrofe dell’umano»118. Scrive infatti de Martino: «[…] la vita religiosa nasce innanzi tutto come ripresa che arresta la alienazione della presenza in una configurazione definita (mito) e in un orizzonte operativo che stabilisce un rapporto con l’alienazione così arrestata e configurata (rito). In quanto tutt’altro il mito è metastoria, ambito separato dal profano, ma in quanto alienazione arrestata e configurata e al tempo stesso trattenuta in un comportamento separato da quello profano, il mito è azione drammatica rituale, e si prolunga necessariamente in essa»119.

Dunque, la religione è nesso mitico-rituale (Gesù che ridà la vista ai cechi, risuscita i morti; l’istituto dell’estrema unzione) cui corrisponde 114

E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 69. Ivi, p. 79. 116 Ivi, p. 61. 117 Ibidem. 118 Ibidem. 119 E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 79. 115

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L’OMBRA DEL DIVINO

una precisa tecnica120, quella della destorificazione religiosa. Che è il mezzo foggiato dall’uomo per combattere la lotta contro la naturalizzazione della coscienza che, tramite d’essa, evita il rischio d’essere cruda e verde. Dunque, nei momenti critici dell’esistenza, «l’incantesimo della destorificazione religiosa»121 fa sì che il tempo si rifranga infranto e l’io d’un attimo prima ceda il posto a Lazzaro di un prima che non è mai stato un ora. Sicché, solamente quando saremo venuti fuori con i piedi e le mani avvolti in bende, avremo scampato il rischio di non esserci e potremo rientrare dal tempo sacro in quello profano. Da ultimo allora, la religione non è un a priori, perché a priori è la potenza tecnica dell’uomo122, e Dio è solo lo strumento plasmato a immagine e somiglianza dall’uomo per salvarsi, non in un’altra vita ma in questa. Sicché gli altari, gli incensi e i grani sgranati non sono per un altro che abita nell’alto dei cieli, ma in noi, in ognuno di noi. L’Oltre allora, è semplicemente l’altro, e questo non altro che l’io, che pur quando imprecisato ha comunque la forza di maneggiare un’arma per salvarsi. Sotto questo riguardo, dunque, la religione è, infine, «maieutica dell’umano»123. Essa ha il potere, straordinario, d’arrestare il ritmo del divenire, di cristallizzare il tremendum in un orizzonte di cultura, di far abitare all’uomo, per un tempo che vale quanto l’eterno, un mondo che se non è magico, tuttavia da quello non è scompagnato.

120

Il carattere tecnico della religione si coglie nel fatto che in primo luogo con essa viene «istituito un modello di rappresentazione e di comportamento che segnala, ferma e riporta in sé l’alienazione stessa»; in secondo luogo essa «conferisce alla ripresa religiosa una efficacia collettiva prolungata nel tempo, cioè il carattere di tradizione culturale»; e infine opera una «mediazione dei valori culturali profani. A vari livelli di autonomia e di consapevolezza si enucleano infatti, per entro la protezione tecnica mitico-rituale, vita economica e sociale, diritto e politica, ethos, arte e speculazione, cioè l’orizzonte umanistico propriamente detto di una civiltà. In virtù di tale mediazione il rappresentare mitico e il comportarsi rituale si permeano di senso e di valore, e la storia che fu temporaneamente occultata in un sistema di simboli, riprende il suo cammino verso la coscienza» (ivi, p. 80). 121 Ivi, p. 91. 122 Ivi, pp. 84-85. 123 Ivi, p. 96.

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IV. Tra storia e metastoria: il tabù del divenire All’indomani del Mondo magico, dunque, non c’è più nessuno capace di affrontare la folle fatica di scendere nell’ombra scura da vivi per riapparire poi dal corno d’avorio. Cionondimeno l’uomo, come prima, «non è nudo nel gran mare dell’essere»124 e la storia, lungi dall’invertire il segno, rivela il suo senso. Che risiede nel principio dell’autonomia della persona. Essa, infatti, non giace prostrata sotto il pesante giogo di un dio o del mondo, che invece da lei e per lei è fatto125. Sicché se è vero che la coscienza cosciente è un possesso malsicuro che ogni volta, e quasi ogni ora, va affermato, è pur certo che la storia è il luogo in cui questo dramma inverandosi mostra la natura propria all’uomo: il «vitale»126. Che non è semplicemente la sfera del corpo e delle sue fun124

Ivi, p. 78. «Il principio dell’autonomia della persona permea di sé la civiltà occidentale e la individua storicamente fra tutte le altre. Da un punto di vista etico già nel pensiero greco è dato trovare il primo lievitare di questo grande tema della persona al centro di tutto […]. Tuttavia solo col Cristianesimo ha inizio propriamente quel vasto e complesso moto storico di graduale scoperta della persona che costituisce tuttora il nostro “destino“ culturale, e che tuttora assegna alla nostra vita di uomini storicamente determinati un compito definito. Invero nelle parole di Gesù ai Farisei “il sabato è stato generato dall’uomo e non l’uomo dal sabato: poiché il figlio dell’uomo è signore anche del sabato”, noi ravvisiamo ancora intatto, almeno nelle sue linee generali, il nostro problema. Infatti ancora oggi noi siamo impegnati a riscattarci dal “sabato”, cioè a ricondurre l’essere che ci è sopra, e ci incombe, alla libertà del fare e del plasmare umani. Non più soltanto nel dominio etico, ma in tutti gli altri domini della vita spirituale, nella teoria del conoscere come in quella dell’arte e del linguaggio, nella vita economica, giuridica e politica, nell’esperienza religiosa stessa, torna sempre a rendersi attuale il compito assegnatoci dal nostro destino culturale: il compito, cioè, di lottare contro il sabato fariseo, e di dissipare l’equivoco, sempre rinascente, per cui il prodotto dell’attività personale viene sottratto al dramma del produrre, e quindi considerato nell’isolamento del dato» (E. de Martino, Il mondo magico, cit., pp. 156-157). Cfr. anche Id., La fine del mondo, cit., § 226, pp. 401-402. Sul problema del telos della ragione e sulla natura costitutivamente razionale della civiltà europea si veda: G. Cantillo, La fedeltà alla civiltà della ragione, in AA.VV., Ernesto de Martino tra fondamento e «insecuritas», cit., pp. 171-188. 126 Per quanto de Martino erediti il problema del vitale da Croce, e nelle pagine sopra richiamate utilizza un linguaggio che ricalca quello del filosofo napoletano, è bene sottolineare che, se già in una lunga nota dello scritto del ’53, dopo aver ricostruito «il corso dei pensieri del Croce intorno al vitale», de Martino muove una tenue critica al filosofo napoletano (E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., pp. 72-73), in più di un appunto contenuto nel volume sulle Apocalissi, da lui si allontana apertamente. A tal proposito, infatti, scrive: «Si dissente comunque da lui (Croce) sul tema del vitale e dell’economico, in quanto da Croce identificati in un unico oggetto. Al 125

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zioni organiche, né solamente quella del dominio tecnico della natura, ma il «vitale esistenziale», «cioè l’unità dell’individuo come possibilità del dispiegarsi di tutte le distinte potenze operative che fanno uomo l’uomo»127. Ed è qui allora, nel «più elementare dei beni umani», che de Martino nasconde il Sacro, da cui si dischiude la religione, secondogenita gemella della magia128. Essa allora, com’era già stata per Otto e van der Leeuw, non è un’ «opinione», ma un «esistenziale», che rimanda ad una «relazione vitale». Sicché la storia delle religioni, che è il «pensiero razionale dell’enuclearsi del sacro come destorificazione mitico-rituale dai momenti critici dell’esistenza storica»129, rivela il fondamento religioso della storia. Che è, dunque, l’eterna opera dell’uomo volta a scongiurare la «catastrofe definitiva», a combattere la possibilità «di ricadere dal piano umano a quello sub-umano»130. contrario il vitale è da identificarsi nel rischio esistenziale e l’economico nella reintegrazione entro un progetto comunitario di utilizzazione» (E. de Martino, La fine del mondo, cit., pp. 668-669). E, ancora, al § 364 si legge: «La forma della prassi “più elementare” è, per Croce, quella vitale edonistica utilitaria o economica, ed è contraddistinta dalla dialettica del piacere e del dolore. Ora a me sembra che la dialettica del piacere e del dolore appartiene senza dubbio alla vitalità biologica (e alla nostra vitalità corporea) ma non può ridursi a questa dialettica anche la vita economica. L’utile economico non è soltanto il piacere, ma un calcolo di piaceri, una scelta, e una creazione istituzionale di strumenti pratici (materiali e mentali) per controllare tecnicamente la natura e piegarla ai fini pratici» (ivi, p. 655). In merito al problema della vitalità in Croce (cfr. ad es. lo scritto del ’49 Intorno alla categoria della vitalità, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952, a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1997) si veda D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, cit., pp. 211-234, e G. Cacciatore, Il concetto di vita in Croce, in «Criterio», IX, 3-4 (1991), pp. 165-201. 127 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., pp. 58-59. 128 Sul rapporto tra magia e religione scrive de Martino: «Il concetto del sacro come tecnica mitico-rituale che protegge il passaggio dal rischio di non esserci nella storia al dischiudersi di determinati orizzonti umanistici consente di vedere sotto una nuova luce la vexata questio del rapporto fra magia e religione […] l’opportunità di designare come magica o religiosa una particolare forma storica del sacro dipende soltanto dal grado di sviluppo e di complessità del processo di mediazione che è stato definito: quando prevale il momento tecnico della destorificazione mitico-rituale e l’orizzonte umanistico è particolarmente angusto (ma non mai inesistente!) il termine di magia appare più appropriato, quando invece mito e rito appaiono profondamente permeati di valenze morali, estetiche e speculative allora la designazione di religione è certamente più opportuna» (E. de Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit., p. 83). 129 Ivi, p. 90. 130 E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 59.

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Tuttavia per far sì che la storia della cultura non dilegui in quella della natura, la storia deve diventare silente. Anzi, attraverso l’«incantesimo della destorificazione religiosa», essa diviene tabù. Ed è così perché nei momenti critici dell’esistenza, quando il ritmo del divenire si fa assordante e s’assiste ad un accumulo di potenza, la vita viene sospesa. Si trattiene il respiro. Si prendono precauzioni nell’attesa che il giorno, l’ora passino senza essere ingurgitati dalla natura131. Da ultimo allora, la Weltanschauung demartiniana, che nulla sa e nulla vuol sapere di sistemi e di sistemazioni tanto da rischiare ad ogni passo di perdersi e disperdersi, trova nella religione, definita attraverso l’utilizzo di tradizioni filosofiche non sempre ben accompagnate, la tecnica che salva l’uomo dalla possibilità, umana, d’essere solo un essere naturale. Dunque, con uno sforzo titanico, se non divino, l’uomo, che sotto questo riguardo è sempre ‘primitivo’, si solleva dal limo primordiale che, sempre cerca d’afferrarlo. E se nel corso della sua storia millenaria ha elaborato innumerevoli tecniche per sopravvivere alla natura maligna dello sterminator Veseo, più di tutte ne ha escogitata una: la religione. Che però, a dispetto dell’arco e dell’aratro è un inganno. Un inganno, questo, che come il Nessuno gridato da Ulisse a Polifemo salvò la sua e salva la nostra vita.

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Cfr. supra, pp. 39-40.

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CAPITOLO III

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«QUEL DIO CHE A TUTTI È GIOVE» BENEDETTO CROCE 1930-1942 «Sentinella, quanto resta della notte?» [Is 21, 11]

I. Una rivoluzione annunciata Il 16 agosto 1942, Benedetto Croce appunta nei suoi Taccuini: «Risvegliatomi dopo la mezzanotte, sono andato a letto, ma non ho potuto riaddormentarmi presto, e non ho trovato di meglio da fare che venire meditando sul punto: Perché non possiamo non chiamarci cristiani?»1. E il 26, dello stesso mese: «Per scuotere la malinconia ho meditato e scritto il saggio su perché non possiamo non chiamarci cristiani»2. Pubblicato di lì a poco sulla «Critica»3, il saggio del 1942 nasce, come del resto tutta quanta la produzione crociana, sotto i vividi colpi dell’acre frusta del presente, ora resa più dura, selvaggia e aspra e forte dalle furie che ormai, senza posa, si abbattevano sulla terra. Sono questi gli anni in cui il Duce, dopo aver compiuto la sua marcia trionfale su Roma, promulgava il regno del Littorio, che procedeva avvinto alla sinistra opera di sciamanizzazione dell’Europa condotta dal Führer4. 1

B. Croce, Taccuini di lavoro 1937-1943, in Id., Taccuini di lavoro, cit., vol. IV, p. 367. Ivi (26 agosto 1942), p. 369. 3 B. Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, in «La Critica», XL (1942), pp. 289-297. Ripubblicato, tra l’altro, in Id., La mia filosofia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2006, pp. 38-53. Per il prosieguo si citerà da questa edizione. 4 Nel 1949, recensendo per la seconda volta il Mondo magico di Ernesto de Martino, in pagine, come sopra s’è già detto, assai più polemiche rispetto a quelle del passato 2

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L’OMBRA DEL DIVINO

Dunque, l’«età dell’oro della sicurezza» che precedette la prima guerra mondiale; quel tempo di pace, lavoro, collaborazione nazionale e internazionale è solo un’immagine sbiadita su cui «uomini rinati selvaggi e fatti automi»5 avevano forgiato, col ferro e col fuoco, un mondo saturo di lutto e sangue6. Uno spirito rapace, violento e cinico oscurava, infatti, l’Europa, assordata dal balbettio chiassoso di visionari, veggenti e scavatori di tombe, ebbri di incesto e di sangue. In ogni dove allora, si assisteva al triste spettacolo di uomini dal volto rapace e dai tratti felini, bestie da preda che, così sformati, avevano, da ultimo, «smarrito il vero Dio»7: uomini disumanati, apostoli di una religione dell’«odio», del «rancore», dell’«ingiuria», del «sospetto» e dell’«animosità»8, che adoravano chi è simia Dei, ma che Dio, poi, non è. È questo l’affresco dalle tinte brume che Benedetto Croce, in numerose pagine scritte nel decennio compreso tra il 1930 e il 19409, (cfr. B. Croce, recensione al Mondo magico, in «Quaderni della Critica», IV, 1948, pp. 79 sgg.), Benedetto Croce così scrive: «[…]negli anni che ora viviamo, grave e terribile è questo dramma e paurosa la tendenza a immergersi e sommergersi nell’irrazionale e ad alienare la propria libertà, porgendo le mani alle catene della nemica, decorando la propria malattia del nome di “necessità storica”. Invocheremo, per salvarci dalla dispersione, gli stregoni, che già abbiamo sperimentati in forma di dittatori e di Stati indifferenziati e totalitari, ed entreremo in una nuova età selvaggia per venirne fuori a capo di secoli, o, per contrario, ci stringeremo alle nostre forze interiori e con esse faremo resistenza? La risposta, nel dilemma e nel bivio, aspra, che sia, non mi par dubbia, perché la detta all’uomo il dovere e la assiste una fede che non muore. Ma la santificazione, o per lo meno la venerazione, che il De Martino coltiva per lo stregone, ponendolo a capo dell’origine della storia e della civiltà, mi dà qualche pensiero. Preferisco allo stregone il “bestione” primitivo, che, secondo il mito vichiano, allo scoppio e al lampo dei fulmini sentì in sé svegliarsi l’idea latente di Dio» (B. Croce, Intorno al magismo come età storica, in «Quaderni della Critica», V, 1949, pp. 54-63, qui p. 63). 5 M. Della Volpe, Uomini rinati selvaggi e fatti automi. La riflessione di Benedetto Croce sul corpo, in AA.VV., Dal corpo al simbolo. Ermeneutiche della corporeità, a cura di V. Bochicchio, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 107-126. 6 Cfr. B. Croce, Taccuini (26 agosto 1942), cit., p. 369. 7 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 45. 8 B. Croce, La protesta contro il «Manifesto degli intellettuali fascistici», in «La Critica», XXII (1925), pp. 310-312, qui p. 311. 9 A partire dalla conferenza oxfordense su Antistoricismo (1930), passando per la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), la Poesia (1936), la Storia come pensiero e come azione (1938), fino al saggio del’39 sul Concetto della filosofia come storicismo assoluto, Benedetto Croce dipinge il proprio tempo con colori che assumono il tono di una ‘dichiarazione di guerra’ alla Germania, disumanata, e all’Italia che si era germanizzata.

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«QUEL DIO CHE A TUTTI È GIOVE». BENEDETTO CROCE 1930-1942 63

fornisce del suo tempo. Tuttavia, se questo è vero, è pur certo che qui non s’arresta. Perché per quanto la vita gli si faccia triste e pesante il suo passo vacilla ma non inverte il segno. Di contro ad essa, infatti, continua, come meglio può, a coltivare la pianta uomo. E, di ciò è straordinaria riprova il saggio sul Perché non possiamo non dirci «cristiani». Che, va subito detto, non è l’atto di una conversione, né il documento di un aliquid novi10. Di esso, inoltre si è voluta ritrovare la genesi nel carteggio tra Benedetto Croce e la marchesa napoletana Maria Curtopassi11. Se sia così o meno è difficile e, ancor di più, poco utile a dirsi, mentre è cosa certa e degna d’interesse che la Curtopassi, donna cristiana e cattolica, dallo spirito «nobile», «severo» e «profondamente religioso»12, abbia indotto Croce ad un intenso confronto con la religione cristiana e la dottrina cattolica. Sicché questo carteggio, in cui Croce e la Curtopassi si ritrovano da lontani parenti13 ad essere intimi confidenti, è un viatico utile, che si presta a prologo, per chi voglia comprendere, senza scivolare in facili interpretazioni politiche o confessionali, lo scritto del 1942 e il nerbo dell’intera riflessione crociana sul cristianesimo.

10

M. Neiretti, Croce e i cristiani. L’inedito carteggio con Maria Curtopassi, in «L’eco di Biella», 6 agosto 2007, p. 26. 11 B. Croce, M. Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio 1941-1953, a cura di G. Russo, Milano, Archinto, 2007. 12 B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 10 giugno 1941, in Dialogo su Dio, cit., p. 37. 13 La marchesa Maria Curtopassi (Napoli 1895 – Roma 1975) e Benedetto Croce avevano una comune cugina, Luisa Croce. Che è quella che consegnando al filosofo le poesie della giovane nobildonna determina l’inizio della corrispondenza tra i due. Vale la pena sottolineare che il filosofo napoletano, sin da subito, trova i versi della Curtopassi «assai belli e schiettamente poetici» (B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 10 giugno 1941, in Dialogo su Dio, cit., p. 37) e mosso dal desiderio che siano «conosciuti più largamente (B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 23 giugno 1941, in Dialogo su Dio, cit., pp. 37-38, qui p. 47) ne scrive una recensione sulla «Critica» in cui si legge: «questa donna è andata ben in fondo di quel che è pregare, il pregare muto, con tutta la forza del proprio essere, in cui l’intensità del desiderio s’immedesima con la dolcezza dell’appagamento, l’affanno col dissolversi dell’affanno nel respiro della fiducia e della pace [...]. La parola, nella nostra autrice, è forse, talvolta, un po’ incerta, la frase intralciata, il ritmo alquanto diseguale; ma la virtù contemplatrice, o, come si suol chiamarla, l’ispirazione, è sempre presente e attiva nelle sue liriche, e fa passar sopra alle piccole fiacchezze particolari. Il suo dire non è mai vuoto» (B. Croce, Per un libro di poesia religiosa, in «La Critica», XL (1942), pp. 121-124, ora in Dialogo su Dio, cit., pp. 153-158, qui pp. 154-155).

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Al di là degli elementi psicologici, infatti, il filo conduttore dell’epistolario, intitolato non a caso Dialogo su Dio, è il tentativo, mai celato e in alcuni luoghi finanche troppo insistente, di indurre Croce a salire «l’ultimo gradino del tempio di Dio»14, per pronunciare, infine, la sua professione di fede alla Chiesa di Roma. Per la nobildonna, infatti, Croce è cattolico15. Ed è così, perché ai suoi occhi velati dalla fede, la filosofia crociana le appare edificarsi a tal punto nel cristianesimo16 e sostanziarsi così profondamente nella dottrina della Chiesa17, che ella definisce il suo autore non solo un «emulo» di Agostino e Tommaso ma uno «di loro più forte». Sicché, da ultimo, nelle lettere della Curtopassi, Croce, assurge al trono degli eletti mandati dal Signore all’umanità avvinta per compiere i prodigi dell’Altissimo18. A tanto fervore religioso, il filosofo napoletano, risponde, con pazienza e rispetto, esponendo i motivi che lo separano, de jure et de facto, dalla Chiesa di Roma. Se, infatti, non ha alcun dubbio che la civiltà e il pensiero moderno siano cristiani, perché prosecuzione dell’impulso originario che Gesù e Paolo hanno dato alla storia; se è fermamente convinto che la guerra che si sta combattendo è il proscenio su cui si inscena lo scontro tra una concezione cristiana della vita e una precristiana19; se è consapevole di «vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima»20; tuttavia è altrettanto certo dell’inesistenza del paradiso, in cui è «soppresso il travaglio del dolore senza cui non si dà vita»21, dell’inammissibilità del mistero, che è negazione del pensiero22, e soprattutto che il suo Dio non è 14

M. Curtopassi a B. Croce, lettera del 20 gennaio 1948, in Dialogo su Dio, cit., pp. 107-110, qui p. 110. 15 Cfr. M. Curtopassi a B. Croce, lettera del 21 marzo 1945, in Dialogo su Dio, cit., pp. 91-96, qui p. 95. 16 Cfr. M. Curtopassi a B. Croce, lettera dell’1 giugno 1948, cit., p. 114. 17 Cfr. M. Curtopassi a B. Croce, lettera del 12 gennaio 1942, in Dialogo su Dio, cit., pp. 39-41, qui p. 40. 18 Cfr. M. Curtopassi a B. Croce, lettera del 20 gennaio 1948, cit., p. 110. 19 B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 30 agosto 1942, in Dialogo su Dio, cit., pp. 54-55, qui p. 55. 20 B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 12 dicembre 1947, in Dialogo su Dio, cit., pp. 104-105, qui p. 105. 21 B. Croce a M. Curtopassi, lettera dell’1 febbraio 1949, in Dialogo su Dio, cit., pp. 123-125, qui p. 124. 22 Cfr. B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 30 dicembre 1942, in Dialogo su Dio, cit., pp. 60-61, qui p. 61.

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un Dio personale, ma «creatore di tutte le persone»23. È, dunque, l’obbedienza a queste verità filosofiche, inconciliabili con quelle teologali, che impone a Croce, a dispetto di quanto potesse desiderare e comprendere la Curtopassi, di farsi cristiano e cattolico. Che è, al di là degli impeti apostolici della nobildonna – e di altri con lei e dopo di lei – quanto egli espone nei non pochi scritti (non fa eccezione quello del ’42) in cui si confronta col cristianesimo, la cui dottrina non solo gli era ben nota ma, negli anni del Colleggio, gli aveva ispirato «impeti di ascetismo» e «propositi di vita devota»24. Tuttavia fu proprio allora, tra le antiche mura di largo S. Marcellino, che ha inizio la sua crisi religiosa, dal principio, accompagnata – come si legge nelle pagine del Contributo alla critica di me stesso – da molta tristezza e vive ansie, poi stemperate dal turbinio della vita che lo condusse alla matura consapevolezza d’essere «fuori affatto dalle credenze religiose»25. Sicché non desta meraviglia quanto scrive nel 1903, quando recensendo il volume di Harnack sull’Essenza del cristianesimo 26 nel primo numero della «Critica», definisce la religione del falegname di Nazareth un «fatto storico»27. In questo, che è il primo scritto crociano dedicato esplicitamente al cristianesimo, il filosofo napoletano traccia, con mano esperta, e disegna, con tratti decisi, i limiti e i confini di un evento che lungi dall’essere l’irruzione nella storia dell’umanità di una forza trascendente capace di deviare e finanche arrestare il divenire, è, al pari di tutti gli altri avvenimenti storici, la risultanza di «una serie svariatissima di azioni e reazioni»28. Non pago di ciò, però, nel 1907 Croce torna a riflettere sulla religione del re dei giudei. E lo fa in uno scritto su Cristianesimo, socialismo e metodo storico29, in cui, ripercorrendo l’opera di Georges Sorel, giunge ora a definire il cristianesimo un’«infusione di vita nuova» che, «nato da una rivoluzione», segnò il «cominciamento» di un’«era nuova»30. 23 B. Croce a M. Curtopassi, lettera del 29 aprile 1943, in Dialogo su Dio, cit., pp. 76-78, qui p. 77. 24 B. Croce, Contributo alla critica di me stesso (1926), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 20004, p. 19. 25 Ivi, pp. 20-21. 26 B. Croce, recensione ad A. Harnack, L’essenza del cristianesimo, in «La Critica», I (1903), pp. 149-151. 27 Ivi, p. 149. 28 Ibidem. 29 B. Croce, Cristianesimo socialismo e metodo storico (a proposito di un libro di G. Sorel), in «La Critica», V (1907), pp. 317-330. 30 Ivi, pp. 322-323.

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Dunque, il cristianesimo è sì un fatto storico, ovvero riconducibile entro i limiti definibili, e forse anche angusti, dell’umano da cui il trascendente, il mistero e il miracoloso vengono espunti, ma esso ha valenza cosmico-universale. Che è anche la questione intorno alla quale ruota il capitolo intitolato Storiografia medievale, contenuto nella seconda parte di Teoria e storia della storiografia. Qui, in pagine note e a tratti suggestive, Croce disegnando la curva dello sviluppo del concetto di storia all’interno dell’intero quadro della storia umana, giunge ad attribuire un rilievo tale al cristianesimo da fargli tingere con tonalità intrise di luce finanche il medioevo. Sicché la storiografia ivi prodotta, non è stata per lui, come volevano i più, la caduta in «un fosso» o il ritorno ad un mondo magico: miti e miracoli vengono in essa accolti e trasformati dal nuovo concetto di storia come «dramma spirituale dell’umanità»31. Per la prima volta, infatti, si giunse al concetto di umanità che gli antichi avevano solo sfiorato ma mai posseduto; per la prima volta la storia divenne «storia della verità»32, non più sorretta dalla fortuna o dal caso, ma guidata e governata dalla razionalità, dall’intelligenza e dalla Provvidenza; per la prima volta andò in frantumi l’idea di circolo e la storia venne intesa come «progresso»33. Dunque, da mero fatto storico il cristianesimo viene innalzato ad avvenimento cosmico-storico, per poi assurgere a evento fondativo della coscienza umana. E che sia così è evidente se si legge il breve ma denso saggio del 1939, Gesù e l’adultera. Che fu particolarmente caro a Croce, tanto da pubblicarlo prima nella «Critica», poi nel volume Poesia antica e moderna (1941) e da ultimo, nel 1951, nell’antologia Filosofia. Poesia. Storia, da lui stesso curata per la casa editrice dell’amico Riccardo Ricciardi34. Il motivo di tanta attenzione da parte del filosofo napoletano per uno scritto che conta poco più di cinque pagine, trova ragione nel fatto che in esso egli, confrontandosi con uno degli episodi più noti

31

B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 184. Ivi, p. 176. 33 Ivi, p. 177. 34 Sulla vita e sull’opera di R. Ricciardi si veda, B. Nicolini, Ricordo di Riccardo Ricciardi, Napoli, Grimaldi, 1983; AA.VV., La casa editrice Riccardo Ricciardi. Cento anni di editoria erudita, a cura di M. Bologna, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008. 32

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della cristianità35, consegue acquisizioni teoretiche sulla natura del cristianesimo che mai più abbandonò, ma sempre conservò ed ampliò. Qui, infatti, dopo aver rilevato l’irrilevanza della veridicità storica del racconto giovanneo, fa di Gesù, dell’adultera, degli scribi e dei farisei le figure in cui si inscena il dramma di una coscienza che, lungi dall’essere infelice, raggiunge, qui ed ora, il suo pieno compimento. Sotto questo riguardo, allora, viene negato qualsivoglia valore casistico e legalistico all’episodio evangelico, perché, se inteso, come pure è avvenuto, alla stregua di exemplum o di un testo dottrinario, ne resterebbe celato il vero significato. Che è custodito, per Croce, nell’atteggiamento chino e curvo di Gesù. Ed è svelato dalle sue parole: «Chi di voi ch’è senza peccato, gitti il primo la pietra contro a lei»36. Gesù allora, non espone una teoria etica, ma «ammonisce senza ammonire», «insegna senza insegnare»37, rivelando così gli antri più ascosi dell’umanità: la colpa insita in ogni uomo che fa sì che nessuno possa presumersi giusto tra ingiusti, puro tra impuri. È qui, dunque, in un tempo storico storiograficamente irrilevante, che avviene un’«approfondimento della coscienza morale»38, che allora ridestata, o forse finanche destata, è giunta, così formata e fatta, fino a noi39. Su 35

«Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv 8, 3-11). 36 B. Croce, Gesù e l’adultera (1939), in Id., Filosofia. Poesia. Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’Autore (1950), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1996, pp. 948-954, qui p. 949. 37 Ivi, p. 954. 38 Ivi, p. 951. 39 Sotto questo riguardo così si legge in un punto cruciale dello scritto del ’39: «Con siffatti atteggiamenti e riatteggiamenti dell’animo non si elaborano teorie, ma si crea la vita stessa, la nuova vita cristiana, severa e pietosa, umile ed alta, ricca di esperienze sconosciute, o quasi sconosciute, all’antica moralità, e che non si è mai più spenta nei secoli ed è giunta fino a noi e forma parte della nostra coscienza attuale». Ed è così, prosegue Croce, perché «Gesù, Paolo e gli altri che li

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ciò, seppur con passo diverso ma con medesimo segno, Croce ritorna nel 1940. E lo fa, ancora una volta, in un breve scritto Il «Beneficio di Cristo»40, in cui ripercorre la storia della fortuna di un libretto del 1542, Trattato utilissimo del beneficio di Cristo crocifisso verso i cristiani, il cui autore è un giovane benedettino – padre Benedetto Luchino41 – che, avendo conosciuto «l’angoscia dell’umana miseria e il terrore della perdizione»42, trova nella religione di Cristo l’unica via di salvezza per l’umanità. Sicché nel suo «libricciuolo», espone la dottrina paolina. Che, in un sol atto, è superamento del legalismo giudaico e innalzamento di un fenomeno particolare a evento universale. Ed è così, precisa Croce, perché il cristianesimo ha determinato «un grande accrescimento, forse il più grande, che si sia avuto nei secoli, della coscienza morale dell’umanità»43, che allora, per la prima volta poté distinguere in modo chiaro e preciso «quello che è veramente morale da quello che è utile e conveniente»44. Non è un caso che, nel 1940, Benedetto Croce presti tanta attenzione ad un libretto pressoché sconosciuto. A ben vedere, qui, attraverso un sottile gioco di specchi, nel volto del padre dell’ordine di S. Benedetto si riflette quello di ‘don Benedetto’, e nell’opera del religioso si rifrange quella del filosofo. Come già l’opera del primo45, infatti, anche quella del accompagnarono, non erano indagatori, definitori e dimostratori di concetti etici, ma creatori di ethos» (ivi, p. 951). 40 B. Croce, Il «Beneficio di Cristo», in «La Critica», XXXVIII (1940), pp. 115-125. 41 Formatosi presso gli ambienti riformatori di San Benedetto Po e di San Giorgio Maggiore, fu decano del monastero di S. Nicolò de Arenis di Nicolosi, in provincia di Catania. Fu proprio allora, durante il soggiorno in Sicilia che lavorò al Trattato. Che è, per più riguardi – è bene ricordarlo – l’espressione, più importante della Riforma protestante in Italia. 42 B. Croce, Il «Beneficio di Cristo», cit., p. 115. 43 Ivi, p. 119. 44 Ibidem. 45 Sebbene fosse molto apprezzato anche tra i prelati – il cardinale Giovanni Morone (1509-1580) lo definì un libro «molto spirituale» – il Trattato di padre Benedetto Luchino, fu dichiarato eretico e inserito nella lista dei libri proibiti. E fu così, precisa Croce, perché esso andando contro il legalismo della Chiesa di Roma, fece sì che l’uomo si ritrovasse «in diretto rapporto con Dio». Sicché continua il filosofo napoletano: «Ecco perché il Beneficio di Cristo, che faceva risuonare quella parola, incontrò subito tanto consenso, e tanto fervore destò nei cuori in Italia, dove, come dappertutto in Europa, c’era il bisogno e l’attesa della prossima riforma. Non appena si toccava in qualche modo, diretto o indiretto, cosa che la riguardasse o che vi conducesse, la corda del sentimento generale fremeva, rispondeva e partecipava. Le vecchie parole,

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secondo, nel 1932, era stata dichiarata eretica dal S. Uffizio46, e, al pari di quello, anche lui aveva polemizzato contro il carattere legalistico e mondano della Chiesa di Roma47, per affermare, infine, che nel rapporto le vecchie dottrine acquistavano un senso attuale, un senso nuovo per il riferimento stesso e per l’uso nuovo che se ne faceva. San Paolo prendeva il volto di Lutero. Già in Italia s’introducevano e si traducevano libri della riforma luterana; già si ripigliava in nuova versione italiana, messa a stampa, la lettura della Bibbia; già i sacri oratori nei pulpiti agitavano questi problemi: ed ora si possedeva quel libricciuolo, che rapiva le anime./ Ma ecco anche perché quel libricciuolo, con tutta la consimile letteratura, fu dalla Chiesa cattolica, dopo un primo momento di sorpresa, d’incertezza o di distrazione, presto dichiarato eretico, segnato nell’indice dei libri proibiti che compilò Giovanni della Casa, e ne furono ricercati e distrutti tutti i quarantamila esemplari che ne circolavano (fino a uno o due salvatisi per caso); e coloro che erano tratti innanzi al tribunale dell’inquisizione dovettero sostenere, tra le altre accuse, questa di “aver letto il Beneficio di Cristo”» (ivi, p. 121). 46 Definito «eretico nelle sue basi filosofiche», «ingiurioso e offensivo alla Chiesa e al Papato»; «focolar[e] di nichilismo», che induce i giovani alla perdita di ogni «Fede» e di ogni «moralità», il libro su La storia d’Europa (prima tra le opere di Croce ad essere stata sottoposta al vaglio delle autorità ecclesiastiche), è definito dai membri del S. Uffizio «condannabilissimo» (G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, cit., p. 147). Dopo la condanna della Storia d’Europa, anche la Filosofia della pratica, la Logica, l’Estetica, l’Etica e politica, la Teoria e storia della storiografia, la Storia d’Italia, e con loro dipoi tutte le altre opere crociane, furono sottoposte al vaglio dell’autorità ecclesiastica che, alla fine, concluse la sua indagine con l’iscrizione, nel 1934, nell’Indice dei libri proibiti dell’Opera omnia di Benedetto Croce. A tal riguardo si veda il ben informato volume di Guido Verucci, (Idealisti all’Indice, cit. In particolar modo cfr. i capitoli IV: Il Sant’Uffizio: la condanna della «Storia d’Europa nel secolo decimonono” (1932) di Benedetto Croce e l’esame dell’intera opera crociana»; IV: Il Sant’Uffizio: il formale abbinamento dei due procedimenti contro le opere di Croce e contro quelle di Gentile. La condanna dell’ «opera omnia» di Croce e di quella di Gentile) che «utilizza [...] le carte del Sant’Uffizio e illumina [...] il contemporaneo contesto culturale cattolico, soprattutto ecclesiastico, attraverso gli atti dei congressi e le riviste» (T. Gregory, E con Gentile finì all’Indice, «Il Sole-24 ore», 17. 10. 2006, p. 33). 47 In numerosi luoghi della sua produzione Croce polemizza con la Chiesa di Roma. Tuttavia, è alla Storia d’Europa che affida le sue parole più critiche. Nel secondo capitolo, intitolato Le fedi religiose opposte, definisce la Chiesa come «la più diretta e logica negazione dell’idea liberale», «tutrice di forme invecchiate e morte, d’incultura, d’ignoranza, di superstizione, di oppressione spirituale» (B. Croce, Storia d’Europa, cit., pp. 22 e 23). Ed è così, argomenta Croce, perché «il Rinascimento, che non fu un’impossibile ripristinazione dell’antichità precristiana, e la Riforma, che del pari non fu quella, non meno impossibile, del cristianesimo primitivo, ma l’uno e l’altra avviamento alla concezione moderna della realtà e della idealità, segnano la decadenza del cattolicesimo in quanto potenza spirituale; e questa decadenza non diè luogo a rigenerazione e non fu arrestata, ma, anzi, resa irrimediabile dalla reazione della Controriforma, quando venne salvato il corpo e non l’anima della vecchia Chiesa, il suo dominio mondano e non quello sugl’in-

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col divino, l’uomo trova, o ritrova, la sua coscienza morale: unico lume del suo agire. È questa, dunque, la verità che, spogliata dalle vesti della trascendenza e del mito48, fa del cristianesimo un momento topico, decisivo e cruciale per la storia spirituale dell’umanità. Il Beneficio di Cristo, da ultimo, è l’ultimo anello della catena, salda e stretta, che si unisce, senza più tramezzi, al Perché non possiamo non dirci «cristiani». E così di ponte in ponte, non d’altro parlando, venimmo lì dove eravamo partiti.

II. «L’amor che move il sole e l’altre stelle» Salutato come il manifesto di una conversione, o come uno strumento politico per un’alleanza con i cattolici in chiave anticomunista49, il saggio sul Perché non possiamo non dirci «cristiani», è, a ben vedere, un atto di devozione, una professione di fede che, travalicando le volizioni telletti, e si compié opera politica ma non religiosa». Dopo d’allora, dunque, «il pensiero e la scienza continuarono a sfuggirle; il suo grembo era in ciò colpito da sterilità come a divino castigo per aver essa peccato contro lo spirito» (ivi, pp. 23 e 24). 48 In un breve ma denso scritto del ’22, intitolato Religiosità, così scrive Croce: «Il filosofo nel negare la religione, la nega in quanto forma mitologica, ma non già in quanto fede e religiosità» (B. Croce, Religiosità, 1922, in Id., Etica e politica, 1931, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994, pp. 243-246, qui p. 243). E su ciò ritorna proprio nello scritto sul Beneficio di Cristo, in cui a proposito della verità annunciata dal cristianesimo Croce precisa che essa «non perde questa natura [di verità filosofica] perché si presenti avvolta nel mito del Dio redentore, di Cristo figlio di Dio, della sua morte per liberare l’umanità dal peccato originale, e nell’idea del mistico sposalizio dell’anima con lui e dell’azione magica di questo sposalizio». Ed è così perché, si chiede il filosofo: «Quali verità filosofiche non hanno avuto, e non hanno ancora, dal più al meno, in una o in altra veste, consimili accompagnamenti, che prestano alle dottrine sostegno e forza e agevolezza nel loro accostarsi al mondo degli umani affetti, ma che sono la parte loro estranea e caduca, che non regge al moto ulteriore del pensiero e della critica?» (B. Croce, Il «Beneficio di Cristo», cit., p. 119). 49 Un particolareggiato compendio dei giudizi che le varie parti politiche diedero del saggio crociano del ’42 è fornito dal lungo saggio di Gennaro Sasso, Perché Croce scrisse il «Perché non possiamo non dirci cristiani», 2005, in Id., Discorsi di palazzo Filomarino, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 2008, pp. 125-185. Qui, dopo un’attenta e dettagliata analisi delle pagine dedicate da Croce al cristianesimo, e dopo aver rilevato i luoghi che fanno del Perché non possiamo non dirci «cristiani» un elemento distonico nel sistema crociano, l’Autore conclude, che il filosofo napoletano non possa, in nessun modo, definirsi pensatore cristiano.

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individuali e i convincimenti personali, si impone, perché si pone come tutto quello che inerisce il vero, nella sua chiara evidenza. A riprova di ciò, basti tener presente quanto Croce scrive nel primo capoverso: «Rivendicare a sé stessi il nome di cristiani non va di solito scevero da un certo sospetto di pia unzione e d’ipocrisia, perché più volte l’adozione di quel nome è servita all’autocompiacenza e a coprire cose assai diverse dallo spirito cristiano, come si potrebbe comprovare con riferimenti che qui si tralasciano per non dare campo a giudizi e contestazioni distraenti dall’oggetto di questo discorso. Nel quale si vuole unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa denominazione è semplice osservanza della verità»50.

Dunque, ben consapevole dei fraintendimenti e delle strumentalizzazioni cui il suo saggio si sarebbe potuto prestare, Croce definisce, sin da subito, l’oggetto del suo discorso che, collocato in un piano altro o oltre, riduce quelle all’impotenza. Perché l’«osservanza della verità», cui il filosofo si appella, non è un semplice «osservare», ma è un atto d’obbedienza e di riverenza, inerente le regole, la disciplina e i riti religiosi. Issata così, ad uno, a mo’ di difesa e araldo, l’osservanza, ovvero l’observantia proietta il discorso crociano, e chi lo insegue, in un universo religioso formato e fatto dalla libertà che, proprio in quanto tale, coincide in pieno con la necessità. Il nerbo che sorregge l’intero ragionamento, infatti, è l’idea secondo cui se l’uomo è libero di scegliere la verità, la libertà che però da questa deriva lo rende libero dall’errore, ma non più libero d’errare. Sicché, a meno che non si voglia essere com’acqua ch’al mar non si cala, chi sta con observantia al cospetto del vero, non può se non riconoscersi cristiano. È questo, dunque, l’assioma – condivisibile o meno – di cui il saggio è svolgimento. Ed è da qui, inoltre, che scaturisce la problematicità del ragionamento crociano, che percorre due vie segnate da mani assai diverse. Se è vero, infatti, che in queste pagine Croce definisce il cristianesimo come il risultato di un processo storico i cui precorrimenti sono rintracciabili come per qualunque altra opera umana51, tuttavia nei luoghi topici del suo 50

B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 38. A riprova della problematicità della scrittura crociana in alcuni luoghi topici del saggio del ’42, vale la pena di riportare quanto Croce scrive a proposito del cristianesimo come «opera umana»: «[…] anche la rivoluzione cristiana fu un processo storico, 51

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scritto, quelli in cui abbandona la fenomenologia storica del cristianesimo per definirne il nucleo concettuale, la sua prosa, solitamente esemplare per incisività e chiarezza, si opacizza e si espone al rischio della contraddizione. Croce dice e non dice; afferma e poi nega. Da qui la celebre e controversa definizione del cristianesimo come «la più grande rivoluzione che l’umanità abbia compiuto»52. Una rivoluzione che gli appare così «profonda» e «irresistibile»53 che nella sua ricostruzione tutte quelle che l’hanno preceduta diventano poca cosa e tutte quelle ad essa succeduta risplendono di luce riflessa54. Così la rivoluzione della scrittura, della matematica, dell’astronomia operate nei tempi antichi; quelle della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica e del diritto prodotte dal mondo greco-romano gli si rivelano particolari e limitate; mentre quelle dell’epoca moderna gli si manifestano come semplice prosecuzione dell’impulso originario e ancora fecondo di quella cristiana. Sicché gli uomini, i geni, gli eroi che precedettero la nascita di Cristo qui sono affatto diversi da quelli nati dal suo costato, perché «in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana»55. Per quanto Croce, dunque, cerchi di rinserrare il cristianesimo nelle strette maglie della storia, questo ad essa sempre sfugge. E a nulla vale che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi. Tentativi, precorrimenti, preparazioni si sono notati del cristianesimo, come si notano per qualsiasi opera umana – per un poema o per un’azione politica». Tuttavia, se questo è vero, subito dopo aggiunge: «ma la luce che quei fatti sembrano così tramandare la ricevono di riflesso, dall’opera che si è poi attuata, e non l’avevano in sé, perché nessun’opera mai nasce per aggregazione o concorso di altre che non sono lei, ma sempre e soltanto per un atto originale e creativo: nessun’opera preesiste nei suoi antecedenti» (ivi, p. 40). 52 Ivi, p. 38. 53 Ibidem. 54 «Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica, della medicina, e di quanto altro si deve all’Oriente e all’Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precedenti antiche, ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo» (ivi, pp. 38-39). 55 Ivi, p. 39.

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«QUEL DIO CHE A TUTTI È GIOVE». BENEDETTO CROCE 1930-1942 73

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dire, in più di un luogo, che la religione nata dall’annuncio del Nazareno, non ha niente da spartire con forze trascendenti ed eventi miracolosi. Perché se non si vuole assecondare il filo del suo ragionamento, non si può fare a meno di rilevare che il cristianesimo, nel saggio del ’42, è un evento unico, carico di una potenza tale d’aprire le acque della storia e posare la pietra miliare su cui ne è segnato l’inizio. Prima d’allora, infatti, gli abitanti della terra non erano pienamente uomini e la storia era ancora avvolta dal suono della tromba di Clio: «La ragione di ciò» – scrive Croce – «è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità»56.

Dunque, al di là delle incertezze del linguaggio, il dato certo è che il cristianesimo fornisce all’umanità una «nuova qualità spirituale»: la coscienza morale. Ovvero la capacità di distinguere il bene dal male, per poter ben operare. Sicché, facendo sue le parole dell’Hermes di Burckhardt, Croce può finanche dire che prima dell’avvento del falegname di Nazareth gli uomini non erano felici, perché non erano buoni57. Ed era così, perché soltanto col cristianesimo si instaurò il concetto dello Spirito, non come «unità indifferenziata», ma «uno e distinto»58. È questa la verità del cristianesimo annunciata da Gesù. È questa la verità di cui gli uomini dell’Umanesimo, del Rinascimento e della Riforma furono continuatori. È questa la verità di cui i teorici del diritto naturale, gli illuministi, i rivoluzionari francesi furono prosecutori. È questa la verità a cui Vico, Kant, Fichte e Hegel diedero forma critica e speculativa59. È questa, da ultimo, la verità di cui il filosofo napoletano 56

Ibidem. Nella seconda delle tre note del Perché non possiamo non dirci «cristiani», Croce scrive: «Quel che i vagheggiatori del neopaganesimo non consideravano, può essere espresso con le parole che Jacopo Burckhardt pone sulle labbra dell’Hermes del Vaticano, immaginando che mediti così: “Noi avemmo tutto: fulgore di dei celesti, bellezza, eterna gioventù, indistruttibile lietezza; ma noi non eravamo felici, perché, noi non eravamo buoni”. Che è quanto dire: “non eravamo cristiani”» (ivi, pp. 50-51). 58 Ivi, p. 41. 59 Cfr. ivi, pp. 48-49. 57

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si fa annunciatore e prosecutore, tanto che definisce la religione nata dal legno del Golgota, come quell’esperienza in cui per la prima volta lo Spirito si rivela «in un sol atto sentimento, azione e pensiero»60. Che è, non a caso, la struttura in cui si articola la Forma che informa il suo storicismo assoluto. Sicché è nel nome dello Spirito, uno eppur distinto, che Croce può dirsi, e dirci, cristiani. Tuttavia qui non s’arresta. La religione di cui egli è apostolo, infatti, rimanda ad un Dio che, seppur chiamato con altro nome, è ancora quello cristiano: Egli è «Dio vivente e fonte di ogni vita»61. È «Dio d’amore»62. Con queste ultime parole che rimandano esplicitamente alla prima lettera di S. Giovanni63, si è giunti al cuore del ragionamento crociano sul cristianesimo e, dunque, sulla storia dell’umanità. Sicché è necessario chiedersi: che significa dire che Dio/Spirito è amore? Che cos’è l’amore? Al di là delle incrostazioni sentimentali e psicologistiche che hanno fatto sì che l’umanità quasi non abbia più memoria di cosa sia l’amore, quello a cui Croce qui pensa, sulla scorta dell’Apostolo, più che a un sentimento rimanda ad un concetto. O meglio ancora: è l’uno e l’altro insieme. Esso, infatti, indica l’unione, il legame razionale tra termini diversi che pur restando sé stessi, diventano una cosa sola. Questo legame non genera un termine medio, che è il risultato del calcolo di un comun denominatore; né la sintesi prodotta dall’opposizione di termini che vengono poi superati e, dunque, annientati; ma è connaturale allo Spirito e ne rivela l’intima natura: l’unità nella distinzione. E nel fare ciò svela, di rimando, la legge, razionale, che guida e governa tutta quanta la realtà, che lì trova il suo cominciamento, la sua fine e il suo fine. Sotto questo riguardo allora, l’amore – che non è un semplice attributo dello Spirito, ma è sostanziale a Dio – è il principio rivoluzionario che fa sì che il dio cristiano sia ancora il «nostro Dio»64: Egli non è solamente logos, ma Logos incarnato; non è Jahvè imprevedibile, inaudito e precettistico, ma è quel Dio «che sempre ci supera e sempre è noi stessi»65. E, l’amore è anche il principio rivoluzionario che fa del cristianesimo ricapitolazione e insieme cominciamento di una nuova storia, in 60 61 62 63 64 65

Ibidem. Ivi, p. 41. Ibidem. Cfr. 1Gv 4,16. B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 52. Ibidem.

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cui la coscienza morale, allora vivificata, si avviò, fervida e fiduciosa, ad intraprendere la lotta contro il peccato, su cui sapeva d’essere sempre vincitrice perché retta e sorretta da l’amor che move il sole e l’altre stelle. Con il cristianesimo, dunque, la storia, liberata dal pesante giogo del fato e del caso, diviene teofania in cui lo Spirito «celebra l’eterno sé stesso»66. E lo fa non come in una marcia trionfale, ma:

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«[…] come una forza che si apre la via tra le altre forze, e talora s’incaglia, tal’altra si smarrisce, tal’altra ancora avanza lenta e faticosa o perfino si lascia qua e là soverchiare dalle altre forze che non può attualmente vincere del tutto e a sé assoggettare e in sé risolvere, e nelle sconfitte si ritempra e dalle sconfitte si rialza pugnace»67.

La storia è ora dramma spirituale: l’uomo perde l’innocenza, che poi era ignoranza sulla verità del peccato che, di rimando, apre, anzi spalanca le porte alla conoscenza del bene. Sicché la riflessione sul male68 fa da sfondo, come una filigrana sottile e potente, al saggio sul cristianesimo. La verità del Dio uno e pur distinto, infatti, non può da questo essere disgiunta. Perché se è vero che Dio non è l’umanità, che Dio e l’umanità non sono la storia, ma che Dio, l’umanità e la storia sono lo Spirito; se è vero che Dio genera l’umanità e che la storia procede dall’uno e dall’altro, allora è parimenti certo che il male non è solo nella storia o semplicemente negli uomini, ma è connaturale allo Spirito. Si insinua nel suo organismo e si origina là dove tutto ha origine: nello Spirito in quanto «spirito vivente».

66

Ivi, p. 40. Ivi, p. 42. 68 Com’è noto, per Croce «il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio» (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 72). E ancora: esso è «ombra» del bene; un mezzo di cui la Provvidenza si serve per elevarci ad un bene maggiore. Tuttavia, sebbene questa convinzione resterà in lui salda, con l’incalzare degli eventi su ciò tornerà a riflettere in modo problematico più e più volte. Per quanto qui, com’è ovvio, non si possa affrontare compiutamente questa questione, non è però superfluo segnalare, alcuni scritti in cui Croce, affronta il problema del male: L’«Apologia del diavolo» e il problema del male (1943, in Id., Discorsi di varia filosofia, 1945, Bari, Laterza, 19592, pp. 183-197); L’Anticristo che è in noi (1946, in Id., Filosofia e storiografia, 1949, a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, pp. 292-298) e Il peccato originale (1950, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952, a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1997, pp.  147-149). In queste pagine, vale la pena ricordarlo, Croce, negando realtà ontologica al male ne rintraccia l’origine nello Spirito in quanto «vitalità». 67

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Tuttavia il male, qui come in tutta la riflessione crociana, non ha realtà ontologica, non si sostanzia in un principio materiale, non esiste in sé, ma solo in relazione al bene, tanto che esso stesso nel suo fondo altro non è se non bene. Il peccato69, allora, è il dolore che nasce dal distacco che avviene lungo la sottile e a volte spessa linea d’ombra, in cui si consuma il trapasso da un bene all’altro, senza il cui movimento la vita, che è incessante divenire, non s’avrebbe. Sicché, come già i Padri della Chiesa70, Croce nega che il male sia una sostanza. E da qui gli proviene la ferma convinzione che, per quanto la realtà porti impressa il sigillo del peccato originale; per quanto il primo battito della vita sia innescato nelle regioni dello spirito vivente; per quanto il respiro dell’universo lì s’inebri, tuttavia proprio su quel terreno ascoso germogliano i fiori del bene: teofania e teodicea, allora, si fondono e si confondono, tanto che l’una è solo perché è l’altra. 69 In merito al «peccato», significativamente, Croce scrive: «E poiché in questa natura dello spirito, molteplice ed una, si accende e consuma l’opposizione che nasce dalla distinzione delle forme, e, come si dice, dalla lotta del bene col male, consegue l’impossibilità per l’uomo di farsi tutto bene o tutto male. Può l’uomo vincere questi e quei mali particolari in sé stesso, ma non potrà mai vincere il male. Coloro che si propongono questo fine, entrano in un processo di follia perché vorrebbero vivere contro la legge della vita. E questo dell’unità della vita nel bene e nel male è il vero peccato originale che non ha redenzione per sangue che si versi dagli dei o dai figliuoli di Dio, almeno nel!a vita che noi conosciamo e che sola possiamo concepire (B. Croce, Il peccato originale, cit., p. 147). 70 Cfr. S. Agostino, Le confessioni, VII, 12 in cui il teologo così conclude: «Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è danno, il che non può essere, o, com’è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma può esservi asserzione più mostruosa di questa, che una cosa è divenuta migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non esisteranno del tutto; dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose buone assai».

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«QUEL DIO CHE A TUTTI È GIOVE». BENEDETTO CROCE 1930-1942 77

Infine, dunque, il peccato, seppur mai una volta e per tutte, è pur sempre ogni volta vinto. Ed è così perché il nostro Dio «nel quale siamo, viviamo e ci moviamo»71, quel Dio sorgente originaria d’ogni essere, muove il mondo. E non lo fa per capriccio o gelosia. Né per praticare la sua caccia selvaggia: ma per amore. Perché è etterno amore.

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III. Un «operaio nella vigna del Signore» Come Vico, Kant, Fichte e Hegel, Croce, dunque, è «cristiano». Cristiano non appartenente a nessuna chiesa72. Ed è così, perché come loro ha fatto «fruttificare», elaborandola con «nuovi tocchi e nuove linee»73, la verità annunciata primariamente da Gesù. Quella verità, che lui, filosofo dei distinti, non poteva, però, non distinguere dalle verità cristallizzatesi nelle chiese. Sicché di una egli è apostolo; delle altre apostata. Le pagine del Perché non possiamo non dirci «cristiani» si muovono lungo questa sottile linea di demarcazione, tanto che seppure il ragionamento in alcuni luoghi si incaglia e finanche si smarrisce, non lo fa mai su questo punto. È vero, infatti, che Croce non può non dirsi cristiano. Ed è anche vero che difese la presenza del Crocifisso nelle scuole74, fu un sostenitore dell’educazione religiosa75 e, cosa ancor più 71

B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 52. Cfr. ivi, pp. 49-50. 73 Ivi, p. 49. 74 Cfr. B. Croce, Il Crocifisso nelle scuole (1925), in Id., Pagine sparse, 4 voll., Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1929, qui, vol. II, pp. 457-458. 75 «Da questi simili dubbii [il riferimento è all’efficacia dell’insegnamento laico e di una «scuola neutra»] e considerazioni sono mossi coloro che, come me, inclinano a dare adito nelle scuole elementari all’educazione cattolica, sperandone un vantaggio per l’efficacia della scuola di stato italiana e per l’educazione del popolo italiano, e poco temendone i correlativi svantaggi e come quelli che sono facilmente corretti negli stadii ulteriori dello svolgimento spirituale e dell’educazione; e, soprattutto, ripromettendosene una migliore armonia tra educazione pubblica ed educazione di famiglia e una maggiore sincerità in tutti. In fondo, si tratterebbe di estendere alla scuola primaria quel temperamento che è già in atto nelle famiglie, dove nessun uomo che abbia senno prende a disputare l’anima dei bambini e dei fanciulli all’educazione religiosa e morale che le danno madri, nonne e zie, e i sacerdoti nei quali esse hanno fiducia. Ma, poiché mi piace essere leale, soggiungerò che il partito che io sostengo si lega strettamente alle mie disposizioni politiche e al mio antigiacobinismo e anticlericalismo» (B. Croce, Sull’insegnamento religioso nella scuola elementare, 1923, in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1926, a cura di M. A. Frangipani, Napoli, Bibliopolis, 1993, pp. 245-250). 72

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degna di nota, fu uno dei pochi appartenenti al mondo laico a prendere le parti della Pascendi Dominici Gregis76, che Pio X scrisse per custodire e proteggere «la fede trasmessa ai santi»77 dagli attacchi dei modernisti. Tuttavia, se questo è vero, è pur certo che se fu cristiano non lo fu in modo confessionale. Nel saggio del 1942, infatti, per quanto Croce, più che in altri luoghi, faccia largo uso di una terminologia appartenente alla tradizione cristiana, e definisca Gesù «cuore del suo cuore»78, ciononostante rifiuta, in modo chiaro, deciso e inequivocabile, i fondamenti su cui si edifica la professione di fede cristiana. Che sono «il regno di Dio», la «resurrezione dei morti», il «battesimo», l’«espiazione», la «redenzione»79. Ovvero i dogmi e i sacramenti che, lungi dall’essere intesi come «verità contenute nella rivelazione divina»80 e «segni di una realtà sacra che santifica l’uomo»81, sono per lui solamente la facies mitica della verità cristiana superata e inverata dal pensiero nella storia. È qui, dunque, che si definisce la cifra del cristianesimo professato da Croce che, non a caso, nel titolo del saggio del ’42 utilizza una doppia negazione e inserisce il termine cristiano tra virgolette. Come ben sa, infatti, dogmi e sacramenti non sono accidenti ma concetti certi su cui si costituisce l’identità cristiana che, qui come altrove, il filosofo non vuole violare né lacerare82. E, che sia così è riprovato da quanto aveva già scritto nel 1907 in occasione dell’enciclica di Pio X83. Qui, infatti, in poco più di due pagine, che recano il significativo titolo di Insegnamenti cattolici di un non cattolico, Croce rivolgendosi dalle colonne del Giornale d’Italia ad uno dei maggiori esponenti del movimento modernista, il biblista e teologo Salvatore Minocchi, confuta, con serrate argomentazioni, il nucleo concettuale a partire dal quale i neocattolici imbastiscono la loro polemica nei confronti della Chiesa di Roma: l’evoluzione e la mutazione dei dogmi. Di contro ad essi, in accordo col Pontefice, Croce rivendica la 76

Cfr. B. Croce, Insegnamenti cattolici di un non cattolico (1907), in Id., Pagine sparse, cit., vol. I, pp. 384-387. 77 Pio X, Pascendi dominici Gregis (1907), Roma, Edizioni Paoline, 1955, p. 1. 78 B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 50. 79 Ivi, p. 41. 80 Catechismo della chiesa cattolica, parte I; cap. II, art. 2, III, 88. 81 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, III, 60. 82 Cfr. supra nota 75. 83 Pio X, Pascendi dominici Gregis, cit.

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natura intransitiva e immutabile dei dogmi. E lo fa mostrando l’errore logico insito nel ragionamento dei modernisti che, dimenticano o vogliono dimenticare l’impossibilità di distinguere il contenuto reale del dogma dalle sue espressioni metafisiche, perché, avverte Croce, come il concetto, anche il dogma – che è un concetto – se tradotto in altra forma, muta anche di contenuto. Sicché conclude: «Liberissimi i modernisti di trasformare i dommi secondo le loro nuove idee. Anch’io uso di questa libertà; e ho trasformato per mio conto il domma della trinità e quello dell’incarnazione, e molti altri ancora, scoprendo sotto i simboli il nocciolo filosofico e mettendolo in forma razionale. Soltanto, che io ho coscienza di essere, facendo ciò, fuori della Chiesa cattolica, anzi fuori d’ogni chiesa»84 .

L’abiura alla Chiesa, e ad ogni chiesa, qui pronunciata non venne mai sconfessata. Men che mai nel saggio del 1942. Qui, infatti, come in un gioco di specchi in cui la luce da uno si rifrange all’altro, Croce si colloca tra quei cristiani genuini e autentici che sono fuori da ogni chiesa. E che la Chiesa, di rimando, non a torto, «respinge con orrore» e taccia di blasfemia85. Che è quanto avvenne alla sua morte, quando nel necrologio pubblicato su «Civiltà Cattolica» – la rivista diretta dai gesuiti e nata per volontà del papa Pio IX, con l’intento di difendere il pensiero cattolico dai nemici della Chiesa – significativamente, così si legge: «Davanti alla salma di quest’uomo […] tutti si curvano con pensoso e riverente rispetto. Ed anche noi non possiamo omettere un nostro atto di ossequio e di cristiana pietà […]. Tutta la gloria umana […] il mondo gliela riconosce ed a suo modo lo consacra all’immortalità. Ma chi considera la fama di quest’uomo nella luce inconfondibile e chiara di Dio […] non può che rifugiarsi in un fermo e doveroso riserbo […]. Se la verità è Dio, è cosa triste per noi dover ricordare che il vero Dio è stato da lui sostituito con quello falso della sua filosofia. Se la verità è la Religione rivelata e sostanziata nel cristianesimo, questa religione egli l’ha manomessa per sostituirle la falsa religione cosiddetta dello spirito. Sa la verità è la Chiesa cattolica, egli l’ha misconosciuta, l’ha relegata tra i miti […] con assiduità tenace. 84 85

B. Croce, Insegnamenti cattolici di un non cattolico, cit., p. 284. B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 49.

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[…] Tutto il nostro rispetto e il nostro amore verso l’uomo […] ma non possiamo indietreggiare davanti a quello che è la sua filosofia. Con questo netto e preciso atteggiamento del nostro spirito, mentre ci stringiamo sempre più umili e fiduciosi attorno alla nostra Madre la Chiesa, che un giorno si è trovata nella dura necessità di condannare gli errori del filosofo, ci uniamo altresì a lei nella preghiera, più amorosa e sollecita per chiedere a Dio affinché apra le braccia del suo immenso perdono a quest’anima, riscattata anch’essa dai patimenti della Croce e segnata un giorno col sigillo della Redenzione»86.

E per sottolineare ciò, la rivista gesuitica pubblica, sempre nel 1952, un articolo del padre Bortolaso, intitolato Il pensiero filosofico e religioso di Benedetto Croce, in cui la filosofia crociana, analizzata per sommi capi, viene definita relativistica, negatrice della libertà psicologica e giustificatrice87. Sicché, «dispregiatore della Chiesa»88 e affatto «incantato dall’umano», Croce non mai si levò «verso il vero Dio»89. Che è, se ben si vede, quanto, con toni mitigati dagli anni e dai tempi, padre Giandomenico Mucci ha scritto nel marzo del 2008, sempre sulla «Civiltà Cattolica». Come cinquant’anni prima, le critiche mosse e il giudizio in merito alla religiosità del filosofo napoletano è il medesimo: «[…] abbiamo escluso esserci stata in Croce una religiosità cristiana e cattolica come la si intende nella Chiesa»90. Dunque, come ben dice il gesuita, in Croce non v’è una religiosità cristiana e cattolica. Tuttavia, questo non esclude, come sottolinea lo stesso religioso, che in lui vi sia una qualche religiosità. Che è, poi, quella a partire dalla quale nelle pagine del 1942, può definirsi un operaio nella vigna del Signore91: un cristiano che, seppur lontano dalla cattedra di Pietro, ha accolto e promosso la verità annunciata da Gesù, che mostra attraverso il suo volto, il volto di Dio. Da qui deriva come un’intima necessità l’«amore verso tutti gli uomini, senza distinzioni di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio»92. 86

Morte di Benedetto Croce, in «La Civiltà Cattolica», CIII (1952), pp. 604-605. G. Bortolaso, Il pensiero filosofico e religioso di Benedetto Croce, in «La Civiltà Cattolica», CIII (1952), pp. 643-654, qui pp. 650-651. 88 Ivi, p. 653. 89 Ivi, p. 654. 90 G. Mucci, L’ultimo Croce, in «La Civiltà Cattolica», CXIX (2008), pp. 546-551, qui p. 546. 91 Cfr. B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 49. 92 Ivi, p. 41. 87

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«QUEL DIO CHE A TUTTI È GIOVE». BENEDETTO CROCE 1930-1942 81

È questa allora la professione di fede crociana che se dal cristianesimo muove, lì, però, non muore. È questa la fede professata, con fatica e sacrificio, che va sempre riaccesa e alimentata, perché è un bisogno ricorrente delle umane genti che allora, però, si presentava più che mai «pungente» e «tormentoso»93. L’appello alla religione, infatti, è il Leitmotiv della critica crociana ai tempi che prendono corpo e sangue nel decadentismo dannunziano94 prima, nel fascismo italiano95 e tedesco poi, nel comunismo dell’Unione Sovietica dopo96. Sicché, al cospetto della dura roccia dei tempi e degli eventi, il Perché non possiamo non dirci cristiani assume le fogge di un manifesto che di quello antifascista conserva l’intento, tuttavia è mosso da una più alta intenzione. E non solo per il fatto che pur essendo di entrambi l’autore, di questo è

93

Ivi, p. 52. D’Annunzio nelle numerose pagine che a lui Croce dedica assurge a simbolo della crisi spirituale e religiosa che stringe l’Italia e la Germania. Egli, infatti, viene definito dal filosofo napoletano spirito irreligioso, profeta di un nuovo vangelo in cui il vuoto si atteggia a pieno. Sicché la sua opera, per Croce, fa bella mostra della distruzione della «fratellanza ideale dei popoli in un Dio o in Cristo» (B. Croce, Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX. Gabriele D’Annunzio, in «La Critica», II, 1904, pp. 1-85, ripubblicato poi in Id., La letteratura della nuova Italia, 1914-1915, 4 voll., Bari, Laterza, 19475, qui vol. IV, p. 12). Sotto questo riguardo non è superfluo ricordare che proprio il poeta formatosi presso la cerchia Sammaruga è uno dei protagonisti, anzi, degli antagonisti della crociana Storia d’Italia (1928). Di essa cfr. in particolar modo il cap. X intitolato Rigoglio di cultura e irrequietezza spirituale. 95 Il fascismo per Croce è propugnatore di una nuova religione dell’«odio», del «rancore», dell’«ingiuria», del «sospetto» e dell’«animosità». Sotto questo riguardo sono significative le parole del Manifesto del ’25, di cui, com’è noto Croce è non solo firmatario ma autore. In esso così si legge: «[…] il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che si fa della parola “religione”; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur piegarsi» (B. Croce, La protesta contro il «Manifesto degli intellettuali fascistici», cit., p. 311). 96 Se nella Storia d’Europa Croce definisce il comunismo come una religione rivale e nemica della religione della libertà (Cfr. B. Croce, Storia d’Europa, cit., pp. 34-38), dopo d’allora i suoi toni saranno ancor più duri, polemici e preoccupati. A riprova di ciò si veda: B. Croce, Il fanatismo («Buio a Mezzogiorno», romanzo di Arthur Koestler), 1946, in Filosofia e storiografia, cit., pp. 359-363; B. Croce, La monotonia e la vacuità della storiografia comunistica (1949), in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., pp. 114-129; B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, in «Quaderni della “Critica”», VI (1950), pp. 69-77. 94

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l’unico firmatario. Ma perché si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà: a chi si è smarrito trai i suoni, i colori, le immagini, i fremiti e i sussulti di uomini sformati, ricorda che la Verità è la sola a poter rendere l’uomo veramente uomo; a chi s’è lasciato trascinare dalla ricerca del turpe, della malattia, dell’incesto, dell’impurità e della svergognatezza, rammenta che la Verità è l’Amore; a chi si sente affaticato e oppresso, perché i valori dello spirito vengono scherniti e vilipesi dalla grande industria del vuoto, ricorda che la verità, ieri come oggi, non soggiace al tempo. È eterna. Perché è l’Eterno.

IV. Un inno allo Spirito Il Perché non possiamo non dirci «cristiani», da ultimo, è come un de Trinitate. E non solo per il modo in cui è articolato il discorso su Dio. Ma anche perché i toni e l’andamento che qui assume la riflessione crociana sul cristianesimo, rimandano al fondamento dell’intero suo ragionamento: l’identità, trinitaria, di filosofia, religione e storia. Da qui la problematicità gianica del cristianesimo, che nelle pagine del ’42 è sì un fatto storico, ma che sfugge dalle mani dell’umanità e dalla stretta di Clio, diventando così esso stesso fattore della storia. Tuttavia queste feritoie nell’impianto crociano di cui il cristianesimo fa bella mostra, non vengono da qui, ma da molto più lontano. Esse vanno di pari passo con le innervature e le brumiture con cui il tempo segna la riflessione crociana sulla storia. Che è ad uno filosofia e religione. Sicché, quello che cambia negli anni non è il rapporto del filosofo col cristianesimo, ma con la religione che, con toni sempre crescenti e coloriture di volta in volta più intense, involge e travolge tutta quanta la sua filosofia. Già nel primo volume della filosofia dello spirito, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale97, in un luogo topico del suo ragionamento, Croce si confronta, seppur non problematicamente, con il problema della religione98. E lo fa nel capitolo VIII, intitolato Esclusione 97

B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cit. Per quanto concerne la problematica questione della religione in Croce, affrontata di frequente muovendo da pregiudizi ideologici o confessionali, si veda il volume di Alberto Caracciolo (L’estetica e la religione di Benedetto Croce, Genova, Tilgher, 19883) in cui la questione della religione è analizzata dapprima in relazione all’arte e poi declinata insieme col problema del male. Qui Caracciolo, dopo aver definito Croce 98

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di altre forme spirituali. Qui, dopo aver definito i momenti in cui si articola la vita dello spirito (Estetica, Logica, Utile ed Etica) nega qualsivoglia possibilità che oltre ad essi ve ne siano altri. Sicché alla religione non spetta altro attributo che quello di una forma di conoscenza «imperfetta e inferiore»99. E che sia così è attestato, per Croce, dal fatto che essa si sia sgretolata, lentamente, ma inesorabilmente, sotto il passo, impietoso, del progresso del sapere umano, per essere, da ultimo, superata e inverata dalla filosofia. Religione e Filosofia, dunque, benché siano entrambe forme di conoscenza, non si spartiscono ancora il regno del Vero, che come tale appartiene solamente alla Filosofia, la quale: «[…] toglie ogni ragion d’essere alla religione, perché le si sostituisce. Quale scienza dello spirito, essa guarda alla religione come a un fenomeno, a un fatto storico e transitorio, a uno stato psichico superabile»100.

La religione allora, non è una forma dello Spirito. Essa non inerisce il vero, il cui dominio è l’eterno, ma il tempo, tanto che, sottolinea Croce, chi in essa si attarda fa rivivere spoglie vuote prive di vita. «costituzionalmente “teologo”» (ivi, p. 177), rintraccia nella religione crociana una dimensione non speculativa ma fideistica. Tuttavia, non si può fare a meno di notare, che l’interpretazione avanzata da Caracciolo, per quanto interessante e non priva di suggestioni, inclini però eccessivamente ad una lettura cristiana del pensiero crociano. Su ciò si veda anche A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1978 e dello stesso autore L’epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffrè Editore, 1970 (in particolar modo le pagine 241-251), in cui l’Autore sostiene che alla filosofia crociana, non più feconda perché superata, non spetti alcun posto nella storia della filosofia. Ma, prosegue, per il ruolo etico e politico da lui svolto, Croce può essere inserito, tutt’al più, nell’ambito della storia della pedagogia. Sicché, conclude Del Noce, che soltanto se si recupera la dimensione religiosa della filosofia crociana, questi potrà essere inserito nel dominio della storia della filosofia. Cfr. anche A. Di Mauro, Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce (Milano, Franco Angeli, 2002), in cui l’Autore più che districare la complessa matassa dei ragionamenti crociani sulla religione sembra assecondarne l’ambiguità del linguaggio. Si veda, inoltre, l’importante volume di F. Tessitore, La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce (Napoli, il Mulino, 2012), in cui l’Autore molto riflette sul problema della religione, giungendo alla conclusione che la religiosità del filosofo napoletano, lungi dall’essere confessionale, è invece, una professione di fede laica, una «religione della ragione», che si radica su di una «grande filosofia civile». Da ultimo mi sia consentito di rimandare al mio volume su La vera storia dell’umanità. Benedetto Croce e la religione dei tempi nuovi, Firenze, Le Càriti, 2010. 99 B. Croce, Estetica, cit., pp. 81. 100 Ivi, pp. 81-82.

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Quanto appena detto viene ribadito nella già nota recensione del 1903 all’ Essenza del cristianesimo di Harnack e nel saggio intitolato Il risveglio filosofico e la cultura italiana101 del 1908. Che è l’anno, però, in cui Croce, come è annotato nei Taccuini, vive un «periodo tra di filosofia e neurastenia»102, avvinto da una «fissazione metafisica»103, tormentato da «dubbi filosofico-religiosi»104. Legge S. Agostino105, S. Anselmo106 giungendo, dopo un lungo e faticoso travaglio della mente, a una rinnovata idea di religione, cui dà voce, per la prima volta, nel saggio del 1908, che porta il titolo, significativo e per certi versi sorprendente, Per la rinascita dell’Idealismo107. Qui, in un breve scritto suggerito dalla lettura del libro di Jakob Schmidt Zur Wiedergeburt des Idealismus108, Croce, indica, con chiarezza e precisione, non scevre di coloriture polemiche, la «vera indole» del nuovo idealismo. Che è anche il suo idealismo. Esso, precisa il filosofo, ha carattere eminentemente religioso tanto che al pari di questa: «[…] nasce dal bisogno di orientamento circa la realtà e la vita, dal bisogno di un concetto della vita e della realtà. Senza religione, ossia senza questo orientamento, non si vive, o si vive con animo diviso e perplesso, infelicemente. Certo meglio quella religione che coincide con la verità filosofica, che una religione mitologica, ma meglio una qualsiasi religione mitologica che nessuna religione»109.

Siamo ormai lontani dalla tesi del 1902. Alla religione Croce attribuisce ora carattere esistenziale, vitale. Essa non è più philosophia inferior, ma è la filosofia ad essere vera religio, tanto che ora, l’una è l’altra110. Anzi, la seconda è solo perché è la prima. Sotto questo ri101 B. Croce, Il risveglio filosofico e la cultura italiana, in «La Critica», VI (1908), pp. 11-31. Poi ripubblicato in Id., Cultura e vita morale, cit., pp. 11-33. 102 B. Croce, Taccuini (7 agosto 1908), cit., p. 119. 103 Ibidem, (5 agosto 1908). 104 Ivi (22 agosto 1908), p. 121. 105 Ivi (15 luglio 1908), p. 116. 106 Ivi (5 agosto 1908), p. 119. 107 B. Croce, Per la rinascita dell’Idealismo (1908), in Cultura e vita morale, cit., pp. 33-40. 108 Pubblicato nel 1908 a Lipsia. 109 B. Croce, Per la rinascita dell’Idealismo, cit., pp. 34-35. 110 Religione e filosofia, partecipando entrambe al vero, vengono identificate. Anzi, a voler esser precisi, la filosofia vi partecipa solo in quanto religione che nega la trascendenza, ogni forma di credenza e il positivismo. Che è, con argomenti nuovi

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guardo, allora, non è un caso che, nella Filosofia della pratica111, Croce, presentando ai suoi lettori la teoria dell’accadimento, sostiene, confutando il principio immanentistico della sua filosofia, che la storia non è degli individui ma del Tutto; ovvero di Dio112. Che è quanto scrive con toni e accenti diversi nelle pagine del 1911 su Fede e programmi 113. In esse, infatti, il filosofo napoletano ripropone il sinolo di religione e filosofia, introducendo, però, elementi di novità. L’Italia, osserva qui, vive un periodo di crisi, che solamente i meno accorti possono pensare di risolvere attraverso programmi ampi, fragorosi, enfatici: essi, storditi dal «che fare», non s’avvedono che senza la scintilla della fede il fare resta muto, disperato, frenesia inconcludente, spasimo vuoto generante disorientamento, tristezza e scoramento. Ed è così perché la storia da quando è storia, chiarisce qui Croce con fare nuovo, è lotta tra fede e miscredenza. Sicché per risalire la china della «decadenza», è necessaria una rinnovata fede che è religione. Se è vero, infatti, che la «fede morale» è presente in tutti gli uomini, è altrettanto vero, però, che essa presuppone una religione, ovvero: «[…] un’assicurazione contro i danni di questa vita, presa sui fondi di un’altra. La religione o filosofia (con la quale la religione fa tutt’uno) non è questa o quella particolare religione o filosofia; ma è rispetto al passato, il diretto avversario di Croce e del suo idealismo. Nella riflessione crociana, infatti, il positivismo, lungi dal rispondere ai bisogni del tempo, ha fatto ormai il suo tempo. Esso, inoltre, ha lasciato insoddisfatti i bisogni religiosi dell’uomo. Ed è così perché offre, in cambio della Verità proclamata inconoscibile, compendi di libri di scienze naturali. Tuttavia, avverte il filosofo napoletano, tutto il mondo è ormai in cerca di «una religione». Sicché il saggio si conclude con un monito all’Italia che «non sarà grande spiritualmente se non avrà conquistato la sua propria coscienza religiosa, che è insieme coscienza filosofica» (ivi, p. 40). 111 B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica (19092), a cura di M. Tarantino e con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996. 112 La nota e controversa teoria crociana dell’accadimento recita così: «L’azione è l’opera del singolo, l’accadimento è l’opera del Tutto, l’accadimento è di Dio. O per mettere questa proposizione sotto forma meno immaginosa, la volizione dell’individuo è come il contributo che esso reca alle volizioni di tutti gli altri enti dell’universo; e l’accadimento è l’insieme di tutte le volizioni» (ivi, p. 53). Su questa cruciale e discussa problematica, che qui, per più di un riguardo, non è possibile ricostruire rimandiamo al monumentale volume di G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, 1975 e al saggio di M. Leotta, Azione e accadimento nel divenire storico, in «Rivista di studi crociani», XIV (1977), pp. 20-31. 113 B. Croce, Fede e programmi (1911), in Cultura e vita morale, cit., pp. 157-166.

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la concezione filosofica o religiosa delle cose, ossia delle cose sotto specie d’eterno»114.

La religione, dunque, che è filosofia, consente di vedere gli uomini e gli eventi non nella loro rappresentazione caduca, ma nella loro forma eterna. Tuttavia l’eterno qui non schiaccia né elimina il contingente. Perché – come aveva scritto nella Postilla all’edizione del 1909 della Logica115 – la filosofia non è sciolta dal vincolo della storia, tanto che l’una e l’altra, seppur distinte, sono la «medesima cosa»116. Dunque, se già nel 1911 Croce aveva definito i tratti della sua trinità e Dio, seppur per un attimo, aveva già mostrato il suo volto, tuttavia solamente quando la guerra solleva impudicamente il velo dalle oscure nudità dell’esistenza, gli si mostra la vera natura della storia. Nel 1924, infatti, in un celebre scritto intitolato Storia economicopolitica e storia etico-politica 117, Croce definisce quanto fino ad allora non aveva osato fare e chiama col nome di storia morale, la vera storia. Che non è «[…] né la storia del pensiero o della filosofia, né quella della poesia e dell’arte, né quella agricola, commerciale o variamente economica, ma appunto la storia della vita morale o civile che si dica di un popolo o dell’umanità in genere. E questa sola sembra la storia senz’altro, la storia per eccellenza»118.

Storia morale, dunque, che Croce, onde evitare confusioni con la storia «moralistica»119, definisce storia «etico-politica». È questa la pietra

114

Ivi, p. 163. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro (1909), Bari, Laterza, 19649. 116 Ivi, p. 210. 117 B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, in «La Critica», XXII (1924), pp. 334-341. Queste pagine sono state riedite, tra l’altro, in Etica e politica, cit., pp. 318-330. Per il prosieguo si citerà da questa edizione. Sul problema della genesi della teoria crociana della storia etico-politica si veda: G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, cit. pp. 535-559; D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, cit., pp. 31-43; G. Cacciatore, Storia etico-politica e storia della cultura, in Id. Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 109-129; G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 246-255. 118 B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, cit., p. 318. 119 Ivi, p. 322. 115

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di scandalo della filosofia crociana. Essa, che non è solo una storia ma è la Storia, infrange irrimediabilmente gli argini categoriali dello Spirito. E non solo: vi introduce un elemento di trascendenza e un fondamento ontologico. La storia etico-politica, infatti, obbedisce a «ciò che sta nel fondo dell’affermazione o richiesta più volte manifestata: che la vera storia dell’umanità sia storia religiosa»120. Sicché, così come Croce la pensa, essa è sì storia di ceti e gruppi dirigenti; è sì storia di grandi uomini (eletti, apostoli, eroi, santi, martiri) ma le loro opere e la loro vita hanno un valore «sopraindividuale». Essi incarnano tendenze ora sublimi ora infami, ora ideali evangelici ora barbarici, forze ora di progresso ora di conservazione: sono guarnigioni e sentinelle che prestano l’opera loro all’opera dello Spirito o a quella del suo eterno avversario. Tuttavia qualunque sia il partito scelto, il primo avrà, comunque e sempre, il volto rasserenante della Provvidenza e lo sguardo salvifico di Dio. Da ultimo allora, lo Spirito, che è il Tutto che non tutto agguaglia, torna ad essere Dio. Egli è l’umanità, il mondo, la natura. Tuttavia in questi non si risolve né trova compimento. Sicché da vita armonizzata e pacificata, tra sussulti e fremiti, diviene il «Christus patiens del peccato e della redenzione», che l’uomo prega, invoca e da cui s’attende aiuto. Sotto questo riguardo, dunque, il Perché non possiamo non dirci «cristiani» è, infine, la tappa ultima di questa storia dello Spirito. È un inno a Lui levato, nel nome di una religione che, perché conoscenza dell’Eterno, non potrà mai essere particolare. Ovvero confessionale. Essa, che nulla sa dell’altra vita, celebra, in questa vita lo Spirito. Vero Dio. Quel Dio che a tutti è Giove. E che, se non viene dalla fine del mondo, è venuto, però, da molto lontano.

120

Ivi, p. 328.

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INDICE DEI NOMI1 Adamo, 1, 23, 25, 42. Afrodite, 39. Agostino d’Ippona, 64, 76n., 84. Albeggiani, F., 21n. Altamura, R., 51n. Anania di Damasco, 23. Anselmo d’Aosta, 84. Apollonio di Tiana, 24. Aua, 49. Bochicchio, V., 62n. Bologna, M., 66n. Bortolaso, G., 80 e n. Brelich, A., 34n. Burckhardt, J., 73 e n. Cacciatore, G., 58n., 86n. Cantillo, G., 30n., 57n. Caracciolo, A., 82n., 83n. Cavour, C.B., conte di, 28n. Cesare, 10. Chiappelli, A., 12n. Columba, G.M., 15. Conte, D., XVII, 9n., 30n., 58n., 86n. Copernico, N., 45. Cristo, 19 e n., 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 40, 68 e n., 69n., 70 e n., 72, 81n. Cristoforo, v. Paolo di Tarso. Croce, B., XVII, 1 e n., 2n., 4n., 5-9, 13n., 30, 35n., 48n., 49 e n., 50, 51n., 52, 53n., 57n., 58n. Croce, L., 63n. Curtopassi, M., 63-65.

D’Annunzio, G., 81n. Dante, 36n. De Bujanda, J.M., 13n. della Casa, G., 69n. Della Volpe, M., 62n., 83n. Del Noce, A., 83n. de Martino, E., XVII, 61n., 62n. De Marzi, G., 11n., 12n., 13n., 21n. De Ruggiero, G., 33n. Dilthey, W., 32, 33 e n. Di Mauro, A., 83n. Donadoni, E., 12n., 21n. Donise, A., 30n., 38n. Eliade, M., 49n. Ferretti, P., 51n. Fichte, J.G., 73, 77. Frangipani, M.A., 77n. Galasso, G., 61n., 67n., 70n., 86n. Galilei, G., 44. Gallini, C., 33n. Gamaliele, 22. Garosci, A., 21n. Garulli, E., 21n. Gentile, G., 1 e n., 3 e n., 5 e n., 8n., 9 e n., 12 e n., 13 e n., 15, 17n., 69n. Gesù, 2 e n., 3, 10, 11 e n., 12 e n., 13, 14, 15 e n., 17 e n., 18, 19 e n., 20, 21, 23, 24, 25, 27, 28n., 55, 57n., 64, 66, 67 e n., 73, 77, 78, 80. Giacobbe, 1, 16.

1 Sono qui omessi, nei singoli saggi a loro dedicati, i nomi di B. Croce, E. de Martino, A. Omodeo.

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INDICE DEI NOMI

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Giannantoni, S., 1n. Gigante, M., 2n. Giovanni Battista, 16, 17. Giovanni Evangelista, 67n., 74 e n. Giuda (patriarca), 15, 16, 27. Giuseppe (santo), 3, 25. Gregory, T., 69n. Grubb, W.G., 45. Harnack, A., 65 e n., 84. Hauer, J.W., 30n. Hegel, G.W.F., 58n., 73, 75n., 77, 81n. Heidegger, M., 32, 44n., 45n., 47. Hermes, 25, 39, 73 e n. Horqarnaq, 49. Husserl, E., 32, 47, 48n. Ignazio, v. Paolo di Tarso. Isaia, 61. Jaspers, K., 32. Kant, I., 20, 73, 77. Kieffer, Ph., 14n. Koestler, A., 81n. Labriola, A., 5n. Lazzaro di Betania, 56. Leeuw, G., van der, 30, 31 e n., 32-33, 34, 38-43, 44, 48, 49, 50 e n., 52 e n., 53, 58. Leotta, M., 85n. Luchino, B., 68 e n. Lutero, M., 20, 69n. Mann, Th., 1. Maschietti, S., 75 e n. Massenzio, M., 29n., 33n., 34n. Massimilla, E., 5n. Mazzini, G., 28n. Minocchi, S., 78. Mohr (editore), 5n. Morone, G., 68n. Mosè, 67n. Mucci, G., 80 e n. Mustè, M., 2n., 21n. Napoleone, 9n., 10. Neiretti, M., 63n. Newton, I., 45. Nicolini, B., 66n.

Novacco, D., 21n. Omodeo, A., XVII. Omodeo, P., 2n. Otto, R., 30, 31 e n., 32, 33, 34-38, 40, 43, 44, 48, 49, 50, 52, 53, 58. Paci, E., 49n. Paolo di Tarso, 2n., 11, 13, 17, 19n., 21 e n., 22-25, 26, 27, 39, 64, 67n., 69n. Pertici, R., 14n. Pettazzoni, R., 34n. Pio IX, 79. Pio X, 78 e n. Prezzolini, G., 14 e n. Ragionieri, E., 2n. Rascaglia, M., 1n., 2n. Ricciardi, R., 66 e n. Russo, G., 63n. Russo, L., 2n. Salvatorelli, L., 20n. Santonastaso, G., 21n. Sasso, G., 30n., 70n., 85n., 86n. Saulo, v. Paolo di Tarso. Savorelli, A., 58n., 75n. Scheler, M., 32. Schmidt, J., 84. Sciuto, F., 3n., 12n. Sorel, G., 65 e n. Spengler, O., 33n. Tagliaferri, T., 5n. Tarantino, M., 85n. Teoforo, v. Paolo di Tarso. Tessitore F., XVII, 5n., 19n., 83n. Tito (imperatore), 16. Tommaso d’Aquino, 64, 78n. Tommaso Didimo, 14. Troeltsch, E., 33n. Tuglik, 49. Tullio-Altan, C., 34n. Verucci, G., 13n., 69n. Vico, G., 10, 46 e n., 73, 77. Viti Cavaliere, R., 46n. Zona, E., 2n., 3n., 4n., 5n., 11 e n., 12n., 15n., 21n., 28n.

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La Cultura Storica

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Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore

  1. G. Giarrizzo, La scienza della storia. Interpreti e problemi (a cura di F. Tessitore).   2. F. Lomonaco, Tolleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e Napoli nel secolo XVIII.   3. E. Schulin, L’idea di Oriente in Hegel e Ranke (a cura di M. Martirano, con una nota di F. Tessitore).   4. C. Hinrichs, Ranke e la teologia della storia dell’età di Goethe (a cura di R. Diana, con una nota di F. Tessitore).   5. A. Salz, Per la scienza contro i suoi colti detrattori (a cura di E. Massimilla).   6. E. Krieck, La rivoluzione della scienza e altri saggi (a cura di E. Massimilla).   7. G. D’Alessandro, L’Illuminismo dimenticato. Johann Gottfried Eichhorn (1752-1827) e il suo tempo.   8. A. Giugliano, Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche).   9. G. Acocella, Le tavole della legge. Educazione, società, Stato nell’etica civile di Aristide Gabelli. 10. T. Tagliaferri, La nuova storiografia britannica e lo sviluppo del welfarismo. Ricerche su R. H. Tawney. 11. P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (a cura di F. Tessitore, con due note di N. Bobbio e G. Calogero). 12. S. Moscati, Civiltà del mare. I fondamenti della storia mediterranea (con una nota di F. Tessitore). 13. E. Massimilla, Intorno a Weber. Scienza, vita e valori nella polemica su «Wissenschaft als Beruf». 14. D. Conte, Storicismo e storia universale. Linee di un’interpretazione. 15. L. Pica Ciamarra, Goethe e la storia. Studio sulla «Geschichte der Farbenlehre». 16. A. de’ Giorgi Bertòla, Della filosofia della storia (a cura di F. Lomonaco). 17. A. Carrano, Un eccellente dilettante. Saggio su Wilhelm von Humboldt (con una nota di F. Tessitore). 18. G. Ciriello, La fondazione gnoseologica e critica dell’etica nel primo Dilthey (con una nota di G. Cacciatore). 19. H. Rickert, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze dello spirito (a cura di M. Catarzi). 20. M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano Bruno (con una nota di M. Ciliberto). 21. G.A. Di Marco, Studi su Max Weber (con una nota di F. Tessitore). 22. C. Tramontana, La religione del confine. Benedetto Croce e Giovanni Gentile lettori di Dante (con una nota di N. Mineo). 23. M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico (con una nota di F. Tessitore).

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24. R. Celada Ballanti, Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz (con una nota di F. Tessitore). 25. G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati (nuova edizione a cura di M. G. Amadasi Guzzo e F. Tessitore). 26. S. Caianiello, Scienza e tempo. Alle origini dello storicismo tedesco (con una nota di F. Tessitore). 27. F. Meinecke, Aforismi e schizzi sulla storia (nuova edizione a cura di G. Di Costanzo, con una nota di F. Tessitore). 28. F. Schlegel, Filosofia della filologia (a cura di R. Diana). 29. G. Getto, Storia delle storie letterarie (nuova edizione a cura di C. Allasia). 30. P. Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti (a cura di G. Giannini, con una nota di F. Tessitore). 31. M. Kaufmann, Anarchia illuminata. Una introduzione alla filosofia politica (a cura di S. Achella e C. de Luzenberger, con una nota di G. Cacciatore). 32. G. Morrone, Incontro di civiltà. L’Islamwissenschaft di Carl Heinrich Becker (con una nota di E. Massimilla). 33. F. Gabrieli, Tra Oriente e Occidente (a cura di F. Tessitore, con una nota di R. Traini). 34. W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. I (a cura di F. D’Alberto, con una nota di F. Tessitore). 35. E. Nuzzo, Storia ed eredità della coscienza storica moderna. Tra origini dello storicismo e riflessione sulla conoscenza storica nel secondo Novecento. 36. G. Magnano San Lio, Biografia, politica e Kulturgeschichte in Rudolf Haym (con una nota di F. Tessitore). 37. S. Di Bella, La storia della filosofia nell’Aetas Kantiana. Teorie e discussioni. 38. W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. II (a cura di F. D’Alberto). 39. E. Massimilla, Tre studi su Weber fra Rickert e von Kries. 40. F. Tessitore, I fondamenti della filosofia politica di Humboldt (seconda edizione, con una lettera di N. Bobbio e una nota di C. Cesa). 41. M. Martirano, Filosofia, rivoluzione, storia: saggi su Giuseppe Ferrari (con una nota di G. Cacciatore). 42. R. Gimigliano, Come le idee agiscono nella storia. Il problema dell’“autonomia” delle idee nella sociologia della religione di Max Weber (con una nota di G.A. Di Marco). 43. D. Conte, Primitivismo e umanesimo notturno. Saggi su Thomas Mann. 44. R. Celada Ballanti, Religione, storia, libertà. Studi di filosofia della religione (con una nota di F. Tessitore). 45. G. Magnano San Lio, Ninfe ed ellissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer (con una nota di F. Tessitore). 46. R. Minuti, Una geografia politica della diversità. Studi su Montesquieu. 47. E. Massimilla, Presupposti e percorsi del comprendere esplicativo. Max Weber e i suoi interlocutori. 48. L. v. Ranke, Storia Storiografia Politica (a cura di S. Di Bella, con una nota di F. Tessitore). 49. D. Venturelli, Etica, fede e storia 50. M. Della Volpe, L’ombra del divino. Tra religione, filosofia e mito: Omodeo, de Martino, Croce

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C U L T U R A

S T O R I C A

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Il volume ricostruisce parte del complesso

itinerario attraverso cui lo storicismo italiano si confronta, problematicamente, con l’idea di religione. In questa prospettiva si analizza l’opera di tre dei suoi maggiori rappresentanti: Adolfo Omodeo, Ernesto de Martino e Benedetto Croce, approfonditi nelle interazioni con personaggi come R. Otto, G. van der Leeuw, G. Gentile e Agostino d’Ippona. Ne emerge uno scenario composito e proteiforme, in cui, muovendo dalle pagine della Storia delle origini cristiane di Omodeo, passando poi per quelle di Storia e metastoria di de Martino, giungendo, da ultimo, al Perché non possiamo non dirci «cristiani» di Croce, l’Autrice dischiude le feritoie di una filosofia che, seppur impegnata a ricondurre a ragioni umane il mondo della storia, non può fare a meno di provarsi col divino.

Maria Della Volpe è dottore di ricerca in

Filosofia e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli «Federico II». È autrice di saggi sulla cultura storiografica e filosofica dell’Italia e della Germania tra Ottocento e Novecento e di una monografia su Croce: La vera storia dell’umanità. Benedetto Croce e la religione dei tempi nuovi (Firenze, 2010).

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ISSN 1972-0688

L A