L' etica della cenere. Tre variazioni su Jacques Derrida 9788898694181, 9788898694778

"Cenere è il nome della verità, di quel che resta della verità, del fatto che la verità è sempre nulla più di un re

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L' etica della cenere. Tre variazioni su Jacques Derrida
 9788898694181, 9788898694778

Table of contents :
Capitolo primo
Ricordo di Jacques Derrida1
Capitolo secondo La cenere ci aspetta1
Capitolo terzo Il tono e la firma L’eredità di Jacques Derrida
Note Note al capitolo primo
Note al capitolo secondo
Note al capitolo terzo
Indice

Citation preview

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Bruno Moroncini L’etica della cenere Tre variazioni su Jacques Derrida

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Point d’Orgue

Collana diretta da:

Danielle Cohen-Levinas e Carmelo Meazza

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Point d’orgue | 3

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Bruno Moroncini L’etica della cenere Tre variazioni su Jacques Derrida

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Questo libro è stato stampato con il contributo del Dipartimento di scienze umane, filosofiche e della formazione (Disuff) dell’Università degli studi di Salerno

© 2015, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: info@ inschibbolethedizioni.com Point d’orgue ISSN: 2284-2241 n. 3 - ottobre 2015 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694181 ISBN – E-book: 9788898694778 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Grey ashes... © lowe99 - Fotolia.com

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Avvertenza Il primo e il terzo capitolo riprendono testi già pubblicati. Nell’ordine: “Vi amo e vi sorrido da dove io sia” Ricordo di Jacques Derrida in Quadranti – Rivista Internazionale di Filosofia Contemporanea, volume II, n° 2, 2014; Di un tono edificante adottato di recente in filosofia. Sull’eredità di Jacques Derrida, in AA. VV., L’avvenire della decostruzione (a cura di F. Vitale e M. Senatore), Il melangolo, Genova 2011. Si ringraziano i direttori di riviste, gli editori e i curatori per aver concesso l’uso di queste pubblicazioni.

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Capitolo primo “Vi amo e vi sorrido da dove io sia” Ricordo di Jacques Derrida1 L’amore degli amanti sublunari (La cui anima è il senso) non può ammettere L’assenza che da loro fa lontane Quelle cose da cui trasse elemento. John Donne, A valediction: forbidding mourning (trad. Giovanni Giudici)

Quando il mio amico Antonio Gargano2 mi ha invitato a nome della Società di Studi Politici a ricordare uno dei grandi amici dell’Istituto italiano per gli studi filosofici come Jacques Derrida, scomparso il 9 ottobre dello scorso anno, ho subito accettato spinto da quella incoscienza che permette di affrontare situazioni che a mente fredda si eviterebbero accuratamente: già il compito – ricordare Jacques Derrida, ricordare il filosofo e l’uomo, provando attraverso una commemorazione funebre a restituirgli, certamente solo in minima parte, ciò che

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gli dobbiamo, tutti e ciascuno – è di quelli che fanno tremare le vene e i polsi. Ma in questo caso alle difficoltà insite nel ricordo addolorato e rispettoso che si deve a chi ha avuto tanta parte nella formazione filosofica di molti di noi, presenti o meno che siano in questa sala, se ne aggiunge un’altra del tutto specifica: non solo Jacques Derrida ha nel corso della sua vita e del suo percorso intellettuale tematizzato la questione del lutto e quindi della sopravvivenza, ma si è cimentato, portandolo ad un livello quasi perfetto, nel genere letterario delle commemorazioni funebri tutte le volte in cui, disgraziatamente, un amico lo avesse preceduto nella tomba. Come poter allora ricordare Jacques Derrida facendo finta di ignorare che anche su questo, come su tutto d’altronde, un maestro precede sempre l’allievo? Come sottrarsi a un confronto che anche al di là di ogni intenzione cosciente potrebbe essere letto come una contestazione che l’allievo rivolge al maestro per il solo fatto di cimentarsi su di un genere

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filosofico-letterario che quest’ultimo ha già praticato in un modo che all’allievo non può che apparire insuperabile? Ma ad aiutarci ad uscire dall’impasse è, come sempre accade, proprio il maestro: nello stesso luogo in cui Derrida consegna l’allievo alla infelicità della sua condizione dovuta al fatto che come discepolo egli è sempre «contestato dalla voce del maestro che, in lui, precede la sua», contestato cioè «come discepolo dal maestro che parla in lui prima di lui per rimproverarlo di sollevare questa contestazione e per rifiutarla in anticipo, avendola svolta prima di lui», ricorda tuttavia che «questa infelicità interminabile del discepolo deriva forse dal fatto che egli non sa, o si nasconde ancora che, come la vera vita, il maestro è sempre assente»3. Un assist formidabile questo, offerto dal maestro stesso, che permette anche a me «di rompere il ghiaccio, o meglio il rispecchiamento, la riflessione, la speculazione infinita del discepolo sul maestro. E cominciare a parlare»4 – sebbene quell’assenza

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del maestro che libera la parola del discepolo si sia tramutata oggi da meramente ideale in brutalmente reale, rischiando di rigettare l’allievo in quella infelicità che sempre lo assedia e lo blocca. Un’assenza reale che, per soprammercato, rende finita la serie delle commemorazioni funebri che Derrida avrebbe potuto scrivere dal momento che questa volta è stato lui a morire prima dell’amico reale o ideale e che farebbe apparire come irriverente e tracotante la sola idea di aggiungerne un’altra anche se giustificata dalla pietà e dal rispetto. Il che non toglie che apparirei egualmente indifferente ed immemore se, sottraendomi al compito, venissi meno ai doveri della gratitudine e della riconoscenza. Ed ancora una volta il maestro ci precede: non si deve forse al suo insegnamento la consapevolezza del double bind della legge che, mentre comanda “Tu devi!”, ingiunge sempre e comunque “Non puoi”? Tantomeno potrei accampare come scusante la difficoltà di tener conto di tutte le com-

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memorazioni funebri, di quelle solamente scritte e di quelle effettivamente pronunciate, aventi come nome d’autore e firmatario Jacques Derrida, derivante dal fatto che esse si trovano disperse in riviste, volumi collettanei, atti di colloqui e finanche giornali. L’ironia del double bind ha fatto in modo che esse fossero raccolte in un volume pubblicato per la prima volta in inglese e solo in seguito editato in francese e che ciò sia accaduto ancor prima della morte del loro autore5. In tal modo si fa manifesto che pronunciare (e scrivere) un ricordo di Jacques Derrida vuol dire aggiungere un supplemento, una coda, ad un libro già scritto, imporre una sua ideale pre o post-fazione, inserire una postilla, una nota a margine, in ogni caso sfruttare il nome, ben più famoso, dell’altro, per innalzare, celebrare, il proprio, farsi un nome sul nome dell’altro e a spese dell’altro. Ecco la lista degli amici ai quali, in nome della legge dell’amicizia secondo la quale di una coppia di amici ce n’è sempre uno che

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se ne va per primo costringendo il superstite a farsi pegno ed ostaggio, per dirla con Lévinas, della memoria dell’altro, Jacques Derrida ha dedicato un ricordo: Roland Barthes, Paul De Man, Michel Foucault, Max Loreau, Jean-Marie Benoist, Louis Althusser, Edmond Jabes, Joseph N. Riddel, Michel Servière, Luois Marin, Sarah Kofman, Gilles Deleuze, Emmanuel Lévinas, Jean-François Lyotard, Gerard Granel, Maurice Blanchot6. Ma ciò da cui vorrei partire questa mattina per commemorare Jacques Derrida sono due frasi che estraggo dalla breve introduzione che egli scrisse per l’edizione francese del libro in questione. Riportandole a voce qui davanti a voi non potrò evitare – e in verità neppure lo vorrei – quel che attiene ad ogni testo che sia scritto, come in questo caso, in prima persona, al suo carattere performativo, ossia agli effetti che produce su colui che, ad alta voce o in silenzio, lo legge e se lo dice: di diventare lui l’io che parla e prende la parola. Non potrà che risultare

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indecidibile, in primo luogo per me stesso, se colui che parla sia Derrida o chi lo sta citando con la conseguenza che quella che all’apparenza è una semplice “menzione” si trasformi in un compito o un comando, in un “Tu devi” come sempre impossibile, rivolti a chi innocentemente credeva di essere soltanto un portavoce. Ciò che provo, scrive Derrida, alla morte di chiunque, e in forma più intensa e incomprimibile alla morte di un amico o di una persona cara – anche se talvolta l’amore è assente o contrastato, fino al disprezzo o all’odio – è proprio che (non ho voglia né forza per dimostrarlo come una tesi) la morte dell’altro, soprattutto se lo si ama, non è l’annuncio di un’assenza, di una sparizione, la fine di questa o quella vita, cioè della possibilità di un mondo (sempre unico) di apparire a un vivo. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile, ed ogni volta la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita7.

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Provandomi ora a commentare queste frasi – nonostante esse si sottraggano ad un commento esaustivo per l’inesauribilità, di diritto e di fatto, del contesto – potrà apparire che io mi limiti a ripeterle o a parafrasarle tanto esse sembrano parlare da sole e non aver bisogno di aiuto e di supporto. Quando qualcuno muore, ci dice Derrida – e già la cosa si complica perché in questo caso il morto è Derrida stesso che dunque parlerebbe di se stesso dalla tomba (ma scrivere, come lui stesso ha insegnato, non è essere già postumi? già morti mentre si è ancora in vita? Ma allora cosa vuol dire vivere? e morire?) – non muore soltanto una persona e il mondo quale appariva a lei. Che il mondo sia comune non toglie che ciascuno ne abbia un’esperienza individuale, che il mondo si presenti a ciascuno di noi con una faccia diversa. Come dice Leibniz ciascuno di noi è una monade che si rappresenta il mondo costituito da tutte le altre monadi dalla sua prospettiva singolare, una prospettiva che in sè è irriducibile a ogni altra. Ciò

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vorrebbe dire però che se una certa veduta del mondo viene meno e si azzera, infinite altre restano possibili, pronte a rimpiazzare quella che si è spenta causa la scomparsa di quel centro attivo di rappresentazione che le donava la presenza. Con un altro lessico che dice però la stessa cosa, la sopravvivenza di tutti gli altri mondi rende sempre possibile il lavoro del lutto: come la fine di un mondo è compensata dalla presenza di tutti gli altri mondi, così l’elaborazione luttuosa della morte di una persona cara permette alla libido di abbandonarla al suo destino e di investire su altri oggetti d’amore. Ma è proprio questo che Derrida nega: la morte di una persona, soprattutto nel caso che la si ami, comporta la fine non di questo o quel mondo ma di tutto il mondo, di tutti i mondi possibili, e infine del mondo come la totalità di tutti i mondi. Alla morte di un amico è il mondo come totalità infinita di tutti i mondi possibili, del mondo come totalità unica anche se molteplice, a morire. Alla morte di un amico, noi anche moriamo

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e con noi muore il mondo che si apriva a noi, quello che era il nostro mondo. Se a collassare non è un mondo, ma il mondo nella sua totalità unica e infinita, allora il lutto non può che rivelarsi impossibile. E non nel senso che non ci sentiremmo più chiamati a elaborarlo alla morte dell’amico, ma in quello per cui esso diventerebbe infinito, vale a dire interminabile, come quel mondo nella sua totalità che la morte dell’altro mette in bilico. La sopravvivenza dei mondi permette a noi che di quei mondi siamo l’interfaccia soggettivo di istituirci come la memoria viva in cui il morto sopravvive se non addirittura risuscita. La rinascita del morto attraverso l’interiorizzazione nella nostra memoria presuppone che almeno noi siano rimasti in vita, che il nostro mondo sia ancora presente e in grado quindi di accogliere il ricordo del morto, concedendogli una vita in sovrappiù in modo tale che, una volta ottemperato l’obbligo della riconoscenza, egli possa essere consegnato all’oblio: dimenticato egli tutta-

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via abiterà in un distretto, forse periferico, del nostro mondo in cui avremo avuto cura di erigergli una tomba, con tanto di lapide e di dedica, e di apprestargli un culto che lo ricordi a scadenze regolari8. Se al contrario alla morte dell’amico è l’insieme dei mondi che vacilla, noi non possiamo più trasformarci nella memoria viva dell’estinto. La morte dell’amico ci trascina con sé, moriamo insieme a lui, si spegne il nostro mondo, si spegne tutto il mondo: non c’è più luogo, tranne la stessa morte, in cui ci si possa ricordare dell’amico. Come avrebbe detto Blanchot, se risuscita è per risuscitare come morente: come avviene quando sogniamo i morti e diamo così un attimo di tregua al desiderio che siano ancora vivi, ma li sogniamo malati o lontani o assenti o irraggiungibili, sempre a distanza, una distanza che per quanto possa apparire minima risulta alla fine insormontabile. Per Derrida questo carattere impossibile del lutto, questo suo soggiacere a un andamento dialettico senza composizione e

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senza sintesi, il fatto, come avrebbe detto Freud, che il lutto è sempre contaminato dalla malinconia, è la struttura fondamentale della nostra esistenza e informa di sé tutte le forme di vita che ci vedono impegnati (anche a ignorarle o a combatterle), da quelle propriamente filosofiche e culturali a quelle politiche in senso lato, a tutte le forme insomma del vivere-insieme9. L’esercizio del lutto non si limita, infatti, a mettere in risalto il carattere spettrale dell’esistere umano, ma esibisce l’impossibile stesso di cui è costituito: la ripetizione dell’irripetibile. Noi siamo obbligati a ripetere ciò che non si può ripetere: se è vero che ogni volta che un amico muore scompare il mondo come totalità unica e infinita, allora noi siamo chiamati ogni volta alla ripetizione di questa fine del mondo. Noi non ripetiamo il mondo così come quando si manifestava al morto e a noi, né tantomeno ridiamo vita al morto, bensì di entrambi ripetiamo la scomparsa totale e definitiva. Tuttavia chi è morto non può morire una seconda volta né

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ciò che è scomparso in modo infinito può scomparire ancora. Eppure ogni volta ricominciamo daccapo, incessantemente, perché c’è sempre un amico che se ne va per primo e ci consegna all’obbligo della commemorazione. Per quanto possa apparire un’occupazione risibile noi ripetiamo quello che sfugge in linea di diritto alla possibilità della ripetizione: la morte, che è ciò che si ripete più di tutto, è però sempre unica e infinita, ogni morte è come se accadesse per una prima volta che è anche l’ultima. Ripetere nel ricordo la morte dell’amico è ripetere ciò che accadendo ogni volta una sola volta non è passibile per questo di accadere una seconda volta, vale a dire di ripetersi. Con le parole di Derrida che come sempre sono più chiare di qualunque perifrasi e di qualunque tentativo di spiegazione: «Come se fosse ancora possibile la ripetizione della fine di un tutto infinito: la fine del mondo per se stesso, del solo mondo esistente, ogni volta. Singolarmente. Irreversibilmente. Per l’altro e stranamente anche per chi per

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il momento sopravvive (le survivant provisoire) e ne fa l’impossibile esperienza. Ecco che cosa può significare il “mondo”. E questo significativamente glielo conferisce solo ciò che si chiama “la morte”»10. Tutto ciò formalizza, secondo quell’esigenza di rigore che pulsa al cuore della filosofia, il più ovvio sentimento di sconforto che ci coglie alla morte dell’amico: inconcepibile ci appare che tutto possa continuare come prima, che il mondo non sprofondi nelle tenebre, che noi stessi ci si ostini a vivere. Ma se così non fosse, se non restasse nulla, chi commemorerebbe il morto, chi ne elaborerebbe il lutto, chi gli direbbe addio? Chi, in altri termini, testimonierebbe di quell’impossibile che è la morte impegnandosi nella ripetizione dell’irripetibile? È la morte stessa che invoca la sopravvivenza: ci deve essere un resto. Con una splendida invenzione linguistica che la traduzione in questo caso perde, Derrida designa questo resto che noi stessi siamo il “sopravvivente provvisorio”; provvisorio in due sensi: perché dovrebbe

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essere già morto, risucchiato nel collasso del mondo come totalità unica e infinita – e quindi la sua sopravvivenza oltre ad essere a termine è anche un sovrappiù di morte piuttosto che di vita –, e perché destinato presto o tardi a morire a propria volta11. Se c’è un sopravvivente, allora ciò vuol dire che c’è ancora mondo/un mondo; ma se un mondo sopravvive – e sopravvive anch’esso in modo provvisorio –, ciò è ancora una volta un dono della morte, l’effetto della sua impossibilità. Ciò impedisce che noi “sopravviventi provvisori” ci si possa illudere di sostituire il morto, di esserne la sopravvivenza in vita, la reincarnazione nel ricordo. Ci sottrae ai miraggi dell’addio. Questo libro, dice Derrida, questo libro che riunisce – in modo provvisorio: Derrida era ancora in vita quando il libro fu edito e avrebbe potuto scrivere altre commemorazioni ancora – tutte le commemorazioni funebri scritte per gli amici scomparsi è un libro degli addii, è un libro d’addio. Un libro che, salu-

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tando gli amici, li rinvia e si rinvia direttamente a Dio. Salutarsi con l’addio invece che con l’arrivederci significa dare per certo che non ci rivedremo mai, almeno non in questa vita; forse nell’altra quando appunto saremo tutti ritornati a Dio e vi saremo ritornati perché tutti morti, sia colui che viene salutato sia chi lo saluta con l’addio. Questa parola potente e impossibile, che Derrida utilizza in modo esplicito nella commemorazione di Levinas12, iniziando con «Da tempo, da molto tempo, temevo di dover dire Addio a Emmanuel Lévinas»13, è sì «un saluto» e forse «più di un saluto», un saluto «ogni volta unico» che è costretto a rassegnarsi «a salutare, come credo sia tenuto a fare ogni saluto degno di questo nome, la possibilità sempre aperta, cioè la necessità del possibile non ritorno, la fine del mondo come fine di ogni resurrezione», ma un saluto che non riesce ad evitare di dover postulare in fin dei conti – anche se lo dovesse fare in modo debole e non confessionale – «sia l’esistenza

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di qualche Dio sia che la fine di un mondo non sia la fine del mondo». In fondo, aggiunge Derrida, dire Dio, e quindi dire e dirsi addio, vuol dire sempre che «la morte può mettere fine a un mondo, ma non può significare la fine del mondo. Un mondo può sempre sopravvivere a un altro. Ci sono più mondi. Più di un mondo possibile. È ciò che vorremmo credere per quanto poco crediamo o crediamo di credere in “Dio”». Se però a controbilanciare questo lato tranquillizzante dell’addio si fa leva sul suo tenore tragico in cui l’addio lascia presagire il distacco definitivo e duraturo, l’impossibilità cioè della resurrezione, allora il saluto estremo tornerà ad attestare che «la morte, la morte stessa, se esiste, non lascia alcuno spazio e alcuna possibilità né alla sostituzione né alla sopravvivenza del ‘solo e unico’ che fa di ogni vivente (animale, umano o divino) un vivente solo e unico»14. Come indegno “sopravvivente provvisorio” chiamato qui a ricordare Jacques Derrida, a ricordarlo sia da vivo che da morto,

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rischiando il trionfo narcisistico o il giubilo che secondo Lacan colpisce il bambino quando riconosce la propria immagine allo specchio – l’idolo e l’ideale del suo io –, non potrò evitare di testimoniare chi e che cosa sia stato Derrida per me e ciò indipendentemente dal fatto se egli lo abbia mai saputo. Sono gli allievi che scelgono i maestri, mai l’inverso. Nessuna conoscenza diretta come altri possono vantare, nessuna frequentazione delle lezioni e dei seminari: un rapporto cartaceo, consumato quasi esclusivamente nei libri e attraverso la lettura. Nonostante ciò, Derrida è stato, per usare un’espressione heideggeriana, una delle mie situazioni d’accesso (l’altra si chiama Aldo Masullo: stanno insieme, fianco a fianco, a fare da esergo di un mio libro che anche nel titolo li evoca, Il discorso e la cenere), alla filosofia. A rischio di fare anch’io un ritratto generazionale, bisogna risalire al contesto: tardi anni sessanta, primi settanta. La voce e il fenomeno esce nel 1967, Della grammatologia anche e così pure La scrit-

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tura e la differenza, e da lì a poco vengono tradotti in italiano (nel ’68 il primo, nel ’69 il secondo, nel ’71 il terzo). A loro volta Margini della filosofia e La disseminazione sono del ’72, ma sono tradotti molto più tardi (1997 e 1989). Infine Glas è del 1974 e La carte postale del 198015. Se il proprio maestro in carne e ossa, Aldo Masullo, si apriva a sua volta un varco nel campo della filosofia avendo come autori di riferimento tra gli altri Nietzsche, Husserl e Heidegger, come evitare che un giovane apprendista filosofo quale io ero non incontrasse Derrida? Ma a formare il contesto non era solo Derrida, ma tutto ciò cui il nome di Derrida era legato direttamente o indirettamente: Freud, Lacan e la psicoanalisi, lo strutturalismo e Levi-Strauss, ed ancora Bataille, Lévinas, Blanchot. Anche di quest’ultimo la scoperta avviene in quegli stessi anni: è vero che Lo spazio letterario risale al 1955 ma, troppo giovane per leggerlo a quel tempo (avrei avuto 9 anni), approfittai della sua traduzione che usci nel ’67: e per il me di allora ciò

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significava che era tutto in contemporanea. Già con L’infinito intrattenimento andò meglio, fu pubblicato nel ’69 (e tradotto nel ’77). Mi fermo qui (per limitarmi ai francesi bisognerebbe parlare ancora di Deleuze e Foucault e ricordare le prime prove di Nancy e di Lacoue-Labarthe). Quel che conta è che tutto ciò forma un momento irripetibile di cui infatti continuiamo a fare il lutto ora che molti di quelli che ho citato sono morti senza contare che a una buona parte di essi sono dedicate le commemorazioni funebri di Derrida. Anni mirabili che dissolvevano abitudini concettuali consolidate e forse anche sclerotizzate e aprivano prospettive di pensiero impreviste e audaci. E dal momento che chi si trova all’inizio di un percorso filosofico tende a dare risalto più a quel che gli è contemporaneo che alla tradizione che gli sta alle spalle perché da questa si sente come sovrastato e ha bisogno piuttosto di un punto di vedetta da cui potersene semmai riappropriare in modo

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libero, cosa meglio della decostruzione, erede sbarazzina e scanzonata, benché logicamente rigorosa più della deduzione sillogistica, della heideggeriana distruzione della metafisica, per aprirsi un accesso nel territorio complesso e articolato del sapere filosofico? A questa che è una condizione collettiva in cui può credo riconoscersi una generazione di filosofi italiani, aggiungerò un ricordo, che pur riguardando un evento pubblico, assume per me un carattere privato, anzi privatissimo. Il primo impatto fisico con Derrida – un incontro a distanza senza conoscenza – fu una sera d’autunno del 1982 a Firenze in una chiesa sconsacrata; in quei giorni Derrida partecipava a un convegno filosofico, ma quella sera, all’interno di una rassegna di eventi culturali organizzata dal comune di Firenze e dedicata al tema della “voce”, lesse in francese, coadiuvato dalla traduzione simultanea che noi ascoltavamo in cuffia, un testo strano e bellissimo, dalla natura letteraria più che filosofica e tutta-

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via di un rigore e di una logica stringente. Il titolo che compariva sul programma era Il y a là cendre, ossia C’è là cenere16, e sarà stata l’aria religiosa che emanava dal luogo, ma mai mi era capitato di ascoltare una conferenza filosofica in un clima così raccolto, caratterizzato da un silenzio partecipe ed assorto e da una rara intensità emotiva e intellettuale. L’effetto fu tale che la cenere, la cenere di Il y à là cendre, la cenere feu cendre (fu cenere), la cenere delle mie sigarette fumate compulsivamente, la cenere che resta nei forni crematori, la cenere che si confonde con la polvere, divenne la mia ossessione per molti anni (e forse lo è ancora adesso). Fece da varco per accedere a un pensatore, Walter Benjamin, che allora non sapevo essere un autore di Derrida: all’inizio del saggio sulle Affinità elettive di Goethe Benjamin paragona l’opera d’arte quale si offre al critico convocato per interpretarla ad un rogo i cui resti – legno e cenere, ossia i ceppi pesanti del passato e la cenere lieve

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del vissuto – continuano a testimoniare che il fuoco, cui si chiedeva di bruciare tutto ciò che pesava sulla vita, non è spento, brucia ancora, cova sotto la cenere17. Ma non mi fermai lì: come ho già accennato la cenere fu chiamata a ricoprire, già dal titolo, uno dei fuochi dell’ellisse che per me forma il campo della filosofia, l’altro essendo il discorso, il logos18. Se quest’ultimo è ciò in cui si raccoglie l’essere perché se ne possa distillare l’essenza, la cenere ne attesta l’impossibilità: non c’è discorso che non finisca in cenere. Che la cenere colpisse al cuore la possibilità stessa del logos – dire l’essenza come “il passato che non passa” (Hegel) al passare dell’essere – era ciò che si annunciava nello strano titolo che, originariamente, Derrida aveva dato alla conferenza. Detta a voce la frase Il y a là cendre non ha senso o piuttosto lo rende all’istante indecidibile: “la” è insieme e indecidibilmente articolo determinativo e avverbio di luogo, “la” e “là”. Ogni volta che ci si prova a dire La cenere, ossia l’essenza della ce-

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nere, la cenere è là, dislocata, dispersa, volatilizzata. Confusa con altra cenere o con qualcosa che non è cenere ma lo sembra. Senza identità, senza nome proprio che non sia Cenere. Sempre un passo al di là. Non si può dire La cenere: non c’è una voce unica, identica, autorizzata a dirla. Il y a là cendre è infatti un dialogo a più voci, dal sesso incerto, senza nomi: una parodia del dialogo platonico di cui mentre si contesta l’intento più o meno dichiarato – arrivare all’essenza –, si conferma essere il luogo in cui, attraverso lo sfregamento dei discorsi, possa accadere che all’improvviso la verità brilli proprio come una fiamma che si “accende da fuoco che balza”. Cenere è il nome della verità, di quel che resta della verità, del fatto che la verità è sempre nulla più di un resto. Che cos’è la verità se non il fuoco che brucia, ciò che lascia il marchio, l’olocausto impossibile di cui attraverso il resto della cenere facciamo costantemente il lutto? Che commemoriamo incessantemente ad ogni morte dell’amico e del mon-

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do? Che cos’è cenere se non il nome della sopravvivenza di una verità morta, bruciata, differita, mai stata presente. E tuttavia sempre pronta a riaccendersi sia per bruciare gli assassini che per riscaldare i cuori? La verità è la causa della filosofia, è in nome della verità, infatti, che qualcosa come la filosofia si è data in un certo tempo, un certo luogo, a certe condizioni forse irripetibili nonostante il fatto che esse continuino a ripetersi anche oggi senza che si possa sapere se cesseranno mai un giorno o proseguiranno all’infinito. La filosofia ha un inizio, forse avrà una fine: quel che è certo è che è, come diceva Husserl, una posizione innaturale, che richiede la sospensione del rapporto ingenuo con mondo, la messa a distanza del mondo che improvvisamente da dimora accogliente e rassicurante si trasforma nello scenario delle lotte e degli inganni, dello scontro fra credenze e convinzioni, nella guerra fra uomini e valori. La molteplicità del mondo scade all’improvviso al rango subalterno della proliferazione delle opinioni

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prive di un fondamento ultimo, irrazionali, ossia incommensurabili tra loro e quindi oltre che in lotta anche causa scatenante della disgregazione. Contro il mondo delle doxai sta il registro della verità. Primo tempo del lutto: la filosofia è l’addio al mondo abituale, la rinuncia ai vantaggi che offre, ai piaceri che promette. Tuttavia non si tratta di abolire o cancellare il mondo, ma di rifondarlo e ricostruirlo, facendolo poggiare d’ora in poi sulla ragione. C’è nella filosofia un tratto utopico e rivoluzionario – nella polemica con Foucault a proposito del ruolo di Cartesio nel fenomeno del grande internamento dei cosiddetti folli, Derrida lo attribuisce al Cogito, al suo disegno di trasparenza assoluta e radicale – : rifare il mondo dall’inizio facendo leva su qualcosa che non appartiene al mondo sia esso il pensiero, il logos, l’uno o il bene che si situa al di là dell’essenza e dell’essere. Progetto che come ogni utopia è destinato allo scacco. Secondo tempo del lutto: la filosofia è l’addio alla sua stessa ragione

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d’essere, l’assunzione ai limiti della disperazione che il progetto che la animava e da cui prendeva abbrivio è ogni volta fallito, che non è più di un sogno. E che il sogno è finito. Commemorazione della verità che tuttavia è anche forma spettrale della sua sopravvivenza, resistenza sotto la cenere della sua forza infiammante, sopravvivenza della combustione. Era questo la cenere in cui impattai tramite Derrida una sera d’autunno del 1982. Ma era anche altro: era il resto e la sopravvivenza della verità di Auschwitz, resto e testimonianza muta dei corpi bruciati dei gasati; di cui, non lo si dimentichi, non doveva restar nulla, nessuna prova, nessuna testimonianza dello sterminio. Di questo nulla resta solo la cenere, un resto che non resta, che si disperde; un resto vulnerabile, facilmente manipolabile, di cui in ogni momento si può smentire e revocare in dubbio la testimonianza, attaccando la sua credibilità e la sua autenticità.

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Dopo l’11 settembre del 2001 la vulnerabilità si è imposta come un tema eticopolitico: l’attacco alle torri gemelle di New York ha fatto vedere come tutti, anche chi si credeva inattaccabile, sia esposto all’oltraggio, sia ostaggio dell’altro. Una condivisione della vulnerabilità che avrebbe dovuto spingere tutti a riconoscersi parte di una comune condizione umana che ci rende vittime potenziali o attuali del potere piuttosto che a tentare di dividerci fra chi è degno di memoria e di pianto e chi invece merita solo disprezzo e vendetta. Facendo quasi una critica a se stesso, Derrida aveva anticipato il carattere etico-politico della vulnerabilità nel momento in cui aveva chiamato la cenere a testimoniare della dignità umana sprofondata nelle camere a gas e nei forni crematori. Il teorico della traccia come resto di una presenza differita e mai stata presente aveva ritenuto poco pertinenti le metafore di cui si era servito fino a quel momento – «la pista di caccia, il varco, il solco nella sabbia, la scia dentro il mare, l’amore del passo

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per la propria impronta»19 –, e imputando ad esse un residuo di forza (maschile?) e di sopraffazione, le aveva sostituite con quella della cenere (posto sempre che cenere sia una metafora e non una lettera), con questo resto friabile incapace di violenza, ma di cui semmai è portata a farsi carico per liberarne il mondo. In tempi recenti è diventato di moda contrapporre un primo Derrida, responsabile di confondere la filosofia con la letteratura, irrispettoso delle buone regole accademiche, incomprensibile e ribelle, a un ultimo Derrida, dal linguaggio sorvegliato e dal pensiero sobrio, finalmente impegnato ad analizzare questioni classiche della filosofia e pronto a prender posizione sui problemi politici più attuali – dalle guerre americane alle nuove forme di potere informatico e tecnologico – dando prova soprattutto di aderire pienamente all’ideologia dominante democratica e progressista. Un Derrida finalmente ricevibile nei salotti buoni dove si formano le élites.

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Per me, tuttavia, non solo la posizione di Derrida era politica fin dai tempi della Scrittura e la differenza o della Grammatologia, ma soprattutto non è mai cambiata. La decostruzione della metafisica della presenza è di per sé un gesto politico perché la stessa metafisica è politica. Come ogni discorso che voglia ricondurre una molteplicità all’identità indicandone l’arché, anche la metafisica instaura una tassonomia, un ordine di precedenza, un sistema di differenze organizzate che rinviano a una distribuzione ineguale della ricchezza e dei diritti. Smontare il dispositivo della metafisica in tutte le sue forme e le sue trasformazioni, portare allo scoperto l’incrinatura nascosta che ne minaccia la stabilità, individuare il tarlo che la corrode dall’interno, sono modi della critica politica dei sistemi di dominio. Se decostruzione della metafisica e critica politica vanno sempre insieme, allora anche la politica rientra in quel movimento interminabile del lutto che ci obbliga a intrattenerci con lo spettro. Scelgo un passo

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da Aporie. Morire – Attendersi ai “limiti della verità”: «Niente politico, diremmo in modo economico, ellittico, e quindi dogmatico, senza organizzazione dello spazio e del tempo del lutto, senza topolitologia della sepoltura, senza relazione anamnestica e tematica con lo spirito come spettro, senza ospitalità aperta all’ospite come ghost che è tenuto presso di noi mentre, allo stesso tempo, ci tiene in ostaggio»20. Sarebbe possibile una qualunque forma del “vivere-insieme” senza una politica della memoria e una elaborazione pubblica del lutto? Senza commemorazione funebre e senza pianto per i propri morti? Se da un lato una polis è costretta a fare sempre il lutto del suo sogno di rappresentare la città perfetta, retta dalla giustizia e dalla virtù, a causa della scoperta che la sua stessa fondazione, la sua arché, ciò da cui prendeva abbrivio e legittimità, affondava in realtà nella violenza e nella prevaricazione, dall’altro deve essere pronta ad accettare che l’ospite inatteso cui deve aprirsi se non vuole inaridire possa essere

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lo spettro del passato che ritorna. Il “vivereinsieme” si fonda molto di più sul morire assieme che sullo stesso vivere. Per fortuna il “sopravvivente provvisorio” non è mai da solo. Fa parte di una comunità più vasta, potenzialmente infinita: la comunità dei “commorenti”. Questa parola potente che Derrida trova in Montaigne e che riprende in un saggio dedicato al tema del “vivere-insieme” chiedendosi se il «morire-insieme, nello stesso luogo e nello stesso momento, non (possa) essere per certuni, per quelli che per esempio Montaigne chiama i “commorenti”, la prova suprema del vivere-insieme»21, questa parola che si trova anche in Kierkegaard – i commorenti sono i componenti di una congrega davanti ai quali vengono letti in Enten-Eller sia Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno (moderna rilettura della commorente per antonomasia, cioè Antigone) sia Silhouttes –, sembra provenire in realtà da un passo della Vita di Antonio di Plutarco in cui, sotto la forma sunapothavoumenoi, designa

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una specie di associazione, setta o confraternita, denominata “Compagni di morte”, che Antonio e Cleopatra, ormai sconfitti, fondarono dopo avere sciolto quella precedente intitolata ai “Viventi inimitabili”. Vi si iscrivevano tutti quegli amici della coppia di amanti che intendessero morire insieme a loro, passando il tempo che restava in mollezze, lusso e dispendio, godendosela insomma il più possibile. Prendendo esempio dai loro antenati e prototipi Antonio e Cleopatra, sempre i commorenti attendono una morte che sanno inevitabile e vicina ma lo fanno incrementando i piaceri della vita, cercando di gustarne il sapore fino all’ultimo; in altri termini essi indeterminano il rapporto fra la vita e la morte, contaminano la vita con la morte e la morte con la vita, accomunano fino all’indiscernibilità l’esser vivo e l’esser morto: sono in tutto e per tutto dei sopravviventi. Accettare la condizione di sopravvivente provvisorio e di commorente è l’unica possibilità per apprendere infine, alla fine

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della vita, a vivere. Nell’intervista rilasciata a Le Monde poco prima di morire (sarà infatti l’ultima in assoluto), Derrida proprio in apertura liquida ogni pietosa ipocrisia: in risposta all’intervistatore che dopo aver elencato la ricchezza della sua produzione intellettuale nell’ultimo anno – il 2003 –, cambia registro e accenna sommessamente al fatto che «tuttavia, non si può nascondere, voi siete… », Derrida blocca il discorso replicando secco: «ditelo dunque, pericolosamente malato, è vero, e sottoposto a un trattamento terapeutico pesante. Ma lasciamo stare, non siamo qui per un bollettino sanitario pubblico o segreto»22. La consapevolezza della morte imminente rende lucidi inoltre in merito alla questione della ricezione: ripetendo, non so quanto scientemente un gesto nicciano, Derrida anticipa, indebitando gli interpreti futuri, il doppio vincolo che governa sempre un’eredità. «Alla mia età», dice mentre tenta di offrire un’assiomatica delle forme dell’eredità e della sopravvivenza intellettuale, «su questo punto

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sono pronto alle ipotesi più contraddittorie: vi prego di credermi, ho simultaneamente il doppio sentimento che, da un lato, per dirlo con un sorriso e immodestamente, non mi si è ancora incominciato a leggere, che, se ci sono, come è certo, molti buoni lettori (qualche dozzina al mondo, forse, e che sono dei pensatori-scrittori, dei poeti) in fondo, è più tardi che tutto questo ha una possibilità di manifestarsi; ma anche dall’altro lato, simultaneamente quindi, quindici giorni o un mese dopo la mia morte, non resterà più niente. Eccetto che per il deposito legale in biblioteca. Ve lo giuro, credo sinceramente e simultaneamente a queste due ipotesi»23. Se Derrida può antivedere lo scontro che si aprirà intorno all’eredità da lui lasciata è perché, come ha sempre sostenuto, scrivere è essere postumo, darsi per morto e sopravvivere mentre si è ancora in vita. «Mi sono sempre interessato a questa tematica della sopravvivenza», aggiunge nella stessa intervista, «il cui senso non si aggiunge al vivere

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o al morire; essa è originaria: la vita è sopravvivenza. Sopravvivere nel senso corrente vuol dire continuare a vivere, ma anche vivere dopo la morte. La sopravvivenza è sopravvivenza alla vita ma è anche sopravvivenza alla morte (...). Tutti i concetti che mi hanno aiutato a lavorare, soprattutto quelli della traccia o dello spettrale, erano legati al “sopravvivere” come dimensione strutturale e rigorosamente originaria. Essa non deriva né dal vivere né dal morire»24. Se vivere è fin dall’inizio sopravvivere, alla vita e alla morte, a una vita che muore e a una morte che sospende il suo morire, a una vita mortale e a una morte vivente, se è lo spazio, la topolitoligia della sepoltura e della resurrezione, lo spazio dell’indeterminazione fra “la vita, la morte”, allora il tempo del lutto interminabile è anche quello del massimo incremento della vita, l’approvazione della vita fin dentro la morte. In nessun altro modo l’intervista avrebbe potuto terminare se non così: «Come ho già ricordato, dall’inizio, e ben prima delle

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esperienze della sopravvivenza che sono adesso le mie, ho marcato che la sopravvivenza è un concetto originale, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo l’esistenza, il Dasein se volete. Siamo strutturalmente dei sopravviventi, marcati da questa struttura della traccia, del testamento. Ma, detto questo, non vorrei lasciare spazio all’interpretazione secondo la quale la sopravvivenza stia piuttosto dal lato della morte, del passato, che della vita e dell’avvenire. No, per tutto il tempo, la decostruzione è dal lato del si, dell’affermazione della vita. Tutto ciò che dico – a partire almeno da Pas in Parages – della sopravvivenza come complicazione dell’opposizione vita/ morte, procede in me da un’affermazione incondizionata della vita. La sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più che vita. E il discorso che faccio non è mortifero, al contrario è l’affermazione di un vivente che preferisce il vivere e quindi la sopravvivenza alla morte, poiché la sopravvivenza non

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è semplicemente ciò che resta, è la vita più intensa possibile»25. Forse è per questo che dalla nuova forma di sopravvivenza in cui dimora, nel luogo-non luogo in cui stanno i morti, Derrida, come lui stesso ha scritto prima di morire, ci ama e soprattutto ci sorride. Morto, commuore insieme a noi che moriamo con lui: formando come sempre la comunità dei vivi e dei morti.

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Capitolo secondo La cenere ci aspetta1

Tutta l’anima raccolta Quando lenta l’espiriamo In anelli molteplici di fumo Aboliti in altri anelli Attesta un sigaro che brucia Sapientemente per poco che La cenere dal suo ardente Bacio si separi Così alle labbra in coro Volano i canti Escludine sul nascere Perché vile il reale Il senso cancella con la sua esattezza La tua vaga letteratura. S. Mallarmé, Ommage. (trad. di Cosimo Ortesta)

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Il nostro mondo intero è la cenere di innumerevoli esseri viventi: e per quanto ciò che vive sia poco a paragone della totalità, pure tutto una volta è già stato trasformato in vita, e così si continua. Supponiamo una durata eterna, di conseguenza un eterno mutarsi delle materie. F. Nietzsche, Frammenti postumi, primavera-autunno, 1881

La cenere ci aspetta. “La cenere ci aspetta”. Perché ripetere due volte la stessa frase? Perché duplicarla? Perché la prima volta è semplicemente usata, la seconda, invece, menzionata, citata, messa fra virgolette alte (e qui parlando a voce sono dovuto ricorrere al gesto delle mani che per convenzione denota che ciò che si sta dicendo va inteso con le virgolette). La frase infatti mi precede, ci precede, è lì prima di noi, del nostro uso e del nostro abuso: la leggete alla fine del secondo capitolo del saggio intitolato Schibboleth – per Paul Celan scritto da Jacques Derrida nel 19842.

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La cenere ci aspetta. Questa volta non ho accompagnato l’emissione sonora con un gesto delle mani. Sta dunque a voi decidere se l’abbia pronunciata con o senza virgolette, se questa volta vi abbia voluto annunciare che la cenere ci aspetta da qualche parte, forse già all’uscita da questa sala che ci ospita, e che quindi dovete prepararvi all’incontro con la cenere come secondo San Paolo si dovrebbe essere pronti in ogni momento al ritorno di Cristo ed al giorno del giudizio, oppure se, citandovi la frase e ricordandovi che è tratta da un testo di Derrida su Paul Celan, mi stia preparando a pronunciare, preparando voi d’altro canto ad ascoltarla, una conferenza accademica sulla sua poesia e in particolare sul ruolo che vi gioca il significante, o il tema, della cenere. Poniamo che sia vera la seconda ipotesi: ciò non toglie che, privi come siete di un testo scritto, voi possiate ascoltare la frase pronunciata come un annuncio di qualcosa di reale, che accadrà fra un attimo o fra un’ora, che sta già accadendo. Che la cenere sia

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lì, da qualche parte, in attesa di voi, di noi, e che non la si potrà evitare. D’altronde anche se aveste il testo e la frase vi fosse scritta con le virgolette, alte o basse non importa, o fra apici, basterebbe un’alterazione del tono della voce con cui ve la pronuncio, perché, pur leggendola con le virgolette, la ascoltaste, vi giungesse all’orecchio, senza. Come distinguere fra uso e menzione, discorso diretto e indiretto, constativo e performativo? Come evitare il plagio insito nell’arte della citazione? Anche quando citiamo il testo dell’altro con le virgolette come separarlo da quel che volevamo dire? Citando l’altro, sono io che parlo e mi approprio dell’altro o è l’altro che parla in me espropriandomi? E la frase citata non fa corpo col testo in cui è inserita fino a confondersi con esso? Chi l’ha scritta, qual è il suo nome d’autore, come secernere il testo dal contesto? Nella brochure che riporta il programma del convegno il mio intervento è titolato così: “L’etica della cenere”. Ma ora vi dico che il titolo è un altro, che il titolo vero è:

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“La cenere ci aspetta”. Pronunciandolo l’ho pensato fra apici, così come d’altronde l’altro titolo, quello del programma. Sono entrambi delle citazioni. Ma non credo di dire qualcosa di particolarmente strano se noto che non è la stessa cosa. Citazione o meno che sia, “L’etica della cenere” è un titolo classico, indica, infatti, l’argomento che verrà trattato, il soggetto in questione, la sostanza del discorso. Invita a porsi la domanda su che cos’è la cenere, su quale sia l’essenza della cenere, perché di essa possa darsi addirittura un’etica. Ciò non cambia neppure di fronte alla possibilità che il genitivo “della cenere” possa essere contemporaneamente soggettivo-oggettivo e indicare pertanto sia in che modo e a quale titolo il discorso etico possa farsi carico della cenere (la cenere come resto dei campi di concentramento o la discussione sulla moralità o meno della pratica della cremazione rispetto alle varie opzioni religiose e laiche), sia se l’etica si fondi, per ciò che riguarda la sua assiomatica, la sua concettualità e la sua

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applicazione alle situazioni concrete, sulla cenere, sull’essenza della cenere. Se “L’etica della cenere” resta un constativo, “La cenere ci aspetta” è un performativo che si conserva tale anche se fosse una citazione. Un performativo oltretutto, come direbbe Derrida, infelice: la cenere ci aspetta forse per incenerirci. Performativo non è semplicemente quel tipo di enunciato che fa la cosa dicendola e la può fare solamente in questo modo come nei casi del battesimo e della promessa, è anche quello che trasforma il soggetto dell’enunciazione, che lo obbliga a uscire dalla neutralità e dalla immobilità della posizione teoretica spostandolo nella sfera dell’azione e della decisione. Infelice di conseguenza non è solo quel performativo che scopre a cose fatte che il soggetto dell’enunciazione non aveva le credenziali per fare quel che ha fatto: il comandante della nave battezzata era stato destituito nel frattempo con l’effetto di rendere il battesimo illegittimo; è anche quello

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che spinge il soggetto alla disperazione e allo sconcerto. La cenere ci aspetta: non appena pronunciata, la frase soggettivizza chi la dice e chi l’ascolta, li dispone nella situazione emotiva dell’attesa, della preoccupazione, forse dell’allarme. La cenere ci aspetta – al varco, dietro l’angolo; ci aspetta per annunciarci cosa? Un felicità inattesa o una disgrazia improvvisa e sconvolgente? Ci aspetta per comunicarci la salvezza eterna o la condanna a morte? Dobbiamo andarle incontro, fiduciosi e con animo grato o averne paura e cercare di fuggirla? E se ci aspettasse egualmente, incurante di tutti i nostri tentativi di evitarla? La cenere ci aspetta. Forse per farcela pagare. La frase ci giunge con un tono di minaccia: siamo forse colpevoli verso la cenere? Chiamati, come K., alla sbarra in un processo, ma senza un’imputazione chiara, evidente, ragionevole? Di quale colpa ci siamo macchiati nei confronti della cenere? Forse di averla confusa con altra cene-

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re o con la polvere? Di non averla trattenuta? Di averla dispersa al vento? Ma non è il proprio della cenere, la sua essenza, il confondersi, il disperdersi, lo svanire? Non è il proprio della cenere far dileguare l’essenza, trascinarla al fondo, disfarla, in modo che non resti nulla se non un pugno di cenere? Non è il proprio della cenere essere espropriata, non dimorare mai nel proprio, anzi non poterlo neppure mai raggiungere? Dovrebbe esservi chiaro perché scegliere “La cenere ci aspetta” come titolo al posto dell’’Etica della cenere’ esclude d’emblée la domanda classica della filosofia sull’essenza: che cos’è la cenere? Se la cenere ci aspetta allora la cenere è là; ma nel momento in cui ci verrà incontro, in cui la impatteremo, come essere sicuri che sia la stessa cenere che ci aspettava, che nel frattempo non si sia spostata, non si sia confusa con altra cenere o con altri detriti, che non sia più la cenere che era, perché anche quando era la cenere, era pur sempre là, dislocata, dispersa, inindentificabile?

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La cenere ci aspetta. Dove? Quando? Chi? Chi è che ci aspetta e perché? Chi è Cenere? Una donna, un uomo, un animale, una cosa, un angelo, un demone? Chi ci aspetta? E dov’è c(C)enere? Qui o là? E quando saremo anche noi là dov’è, dove sarà c(C) enere, ancora lì o più in là? E sarà la stessa? Quando ci aspetta? Ora o dopo, fra un momento o in un tempo indeterminato? Cenere incendia l’apparato categoriale con il quale da sempre cerchiamo di imbrigliare l’essere: cenere è qui e là, prima e dopo, sostanza e accidente. L’unica sostanza di cui è fatta cenere è di non restare, di non essere identica, ma di variare sempre, di essere sempre differente, differenza di differenza, di differire (nel senso di rinviare) il suo differire (nel senso di essere differente da un’altra cosa), di abolire la differenza mentre si differenzia. Cenere sconvolge però anche le filiere genealogiche: la cenere è ciò che resta del fuoco, di quello che il fuoco brucia, legna in un camino, corpo animale o umano in un

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sacrificio, corpo gasato in un forno crematorio, e del fuoco stesso. Ma dal momento che non resta, che non è una traccia (nemmeno cancellata), tutto è ancora lì, fuoco e materia da bruciare. Nella cenere sopravvivono il legno e i corpi, ma anche il fuoco che li brucia, che continua a bruciarli, che li brucerà per sempre e che li avrà da sempre già bruciati. La cenere attesta che il fuoco non si estingue, che l’origine non è il passato, semmai un passato che non passa e che non sarà mai presente. E che da questo passato che non passa ci viene incontro. La cenere ci aspetta e mentre aspetta brucia, marchia, colpisce dritto al cuore, grida “fuoco!”. Per il solo fatto di aspettarci, la cenere prescrive, comanda, è un imperativo etico: “Devi!” Cosa? Aspettarmi in primo luogo, stare nell’attesa, pronto ad incontrarmi. E poi bruciare. Ecco il comando: “Brucia!” E resta senza restare nella forma della cenere. Obbediscimi trasgredendomi. Non sono così tutti gli enunciati prescrittivi, non è questo il campo dell’etica? Quello delle

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decisioni indecidibili, delle decisioni che dobbiamo prendere, di cui siamo responsabili, proprio perché sono indecidibili, perché lo sfondo a partire dal quale e nel quale siamo chiamati a decidere è uno sfondo di indecidibilità? Ma l’indecidibilità, la presenza non esorcizzabile dei dissoi logoi, dei discorsi doppi, doppi non solo perché duplici e contraddittori fra di loro, ma anche perché oscillanti fra verità e falsità, fra sincerità e inganno, senza che vi sia nessun criterio per distinguere, non è indifferenza, acquiescenza, remissività morale, piuttosto responsabilità centuplicata, obbligo non rinviabile alla decisione. “Devi!”, “Non puoi”. E allora: “Devi perché non puoi”. Brucia fino a diventare cenere e fatti bruciare dalla cenere che sei diventato. Non racconterò qui di nuovo (l’ho già fatto in altre sedi3) il mio primo incontro con la cenere, il dove e quando mi ha aspettato, il Chi assunse per me il nome Cenere, il perché mi ferì in modo tale da portarne ancora i segni. Una sera d’ottobre del 1982,

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in una chiesa sconsacrata di Firenze, cenere mi venne incontro, colpendo dritto al cuore, con la voce e il nome proprio di Jacques Derrida, nella forma di una lettura pubblica in francese, coadiuvata da una traduzione simultanea che si ascoltava in cuffia, di un testo cui il programma di sala dava come titolo “Il y a là cendre”, ossia “C’è là cenere”. Da allora cenere/là cenere non mi ha mai abbandonato, non ha mai allentato la sua presa su di me. Ancora una volta non ripeterò le tappe di questa convivenza con la cenere che vanno dalla centralità accordata alla metafora del rogo nell’interpretazione dell’opera di Benjamin all’analisi dello stesso testo ascoltato a Firenze contenuta ne Il discorso e la cenere. Ma c’è una tappa, una stazione in questa via crucis della cenere, di cui finora non ho mai parlato e che qui invece, dove ho incominciato citando una frase estratta da un testo di Derrida su Paul Celan, s’impone all’attenzione: nel 1998, eco di un intervento svolto anni prima in un convegno, pubblicai un breve

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saggio dedicato nella sua prima parte a due libri di Jean-Luc Nancy, Il senso del mondo e L’«etica originaria» di Heidegger, e nella seconda parte alla poesia di Celan4. Se c’è un poeta il cui nome è legato alla cenere, anzi il cui nome è cenere, nel doppio senso che è diventato cenere e che lo si può legittimamente chiamare Cenere, questi è Paul Celan. Basterebbe il rinvio a un poema decisivo come Stretto in cui la parola che scende dall’alto per risplendere incontra e diventa cenere entrando nella notte: Scese, scese Scese una parola, scese, scese attraverso la notte, volle risplendere, volle risplendere. Cenere. Cenere, cenere, Notte Notte-e-notte. – Dall’occhio và, dall’umido5.

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Nella notte del mondo – Auschwitz – la parola poetica per continuare a cantare deve farsi cenere: il suo divenir cenere adesso, nella data del poema, le permette di testimoniare per un’altra cenere e per un’altra data, quella in cui avvenne lo sterminio, in cui si dette l’olocausto, il brucia-tutto come traduce Derrida, in cui i corpi vennero bruciati nei forni crematori, in cui il fuoco li ridusse in cenere. È lo stesso fuoco che brucia i corpi dei gasati e la parola del poeta, è la stessa cenere che testimonia per i primi e la seconda? Ma se cenere testimonia lo sterminio, nessuno testimonia per lei, nessuno attesta che la cenere è proprio quella cenere e non un’altra che vi si è confusa, un’altra cenere che il vento porta come porta i semi degli organismi geneticamente modificati che vengono a infestare le coltivazioni “naturali e biologiche”. La cenere è sempre un’altra cenere, contaminata dal principio e per principio. «Nessuno/testimonia/per il testimone»: così si chiude Aschenglorie. Ma appunto per

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questo sia gloria alla cenere (o alle ceneri: la cenere è sempre plurale e disseminata anche quando si declina al singolare o denota un solo individuo), siano attribuite alla cenere fama e splendore. Se la cenere però è degna di splendore, ciò non toglie che allo stesso tempo attesti come ogni gloria se ne vada in cenere. Da qui la difficoltà di tradurre Aschenglorie: dal tedesco all’italiano “Gloria di cenere” (Kahn e Bagnasco) o “Aureola di cenere” (Bevilacqua); dal tedesco al francese “Cendres-la gloire” (du Bouchet), “Gloire de cendres” (Lefebvre), “Gloire pour les cendres” e “Gloire aux cendres” (Derrida)6. L’inversione dei vocaboli – Ashen e Glorie – che formano il termine tedesco mostra la difficoltà di stabilire se sono le ceneri ad essere glorificate (“Gloria di cenere”, “Gloire de cendres”, “Gloire pour les cendres” e “Gloire aux cendres”) o se è la gloria che è diventata cenere (“Cendres-la gloire”). Mondo e senso prendeva le mosse dalla consapevolezza ormai acquisita di un inabissa-

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mento del mondo, della scomparsa simultanea del senso del mondo e del mondo del senso e di conseguenza della impossibilità a coniugare heideggerianamente l’etica come essere-al-mondo, come responsabilità per l’essere come essere-al-mondo, in un’epoca in cui si era divenuti, non come l’animale poveri di mondo, ma come la pietra privi di mondo, senza mondo, o in cui il mondo era divenuto cenere. Al di là della sua adesione al nazismo e all’antisemitismo, è il progetto etico indicato dalla Lettera sull’umanesimo ad uscire sconfitto se confrontato con la storia: se l’etica consiste nel lasciar essere il mondo come mondo, occorreva accettare, e responsabilizzarsi per, un mondo la cui manifestatività mostrava la sua stessa defezione e l’impossibilità di coniugare l’etica dell’esserci come essere-al-mondo, invece di abbarbicarsi ad ogni costo a un senso fosse pure il più aberrante e distruttivo. All’impasse in cui inciampa il progetto heideggeriano, contrapponevo la poesia di Celan la cui cifra peculiare era quella di accet-

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tare in pieno l’inabissamento del mondo e di torcere la lingua poetica, abituata a cantare, a glorificare, l’essere, fosse esso oggettivo o soggettivo, pubblico o privato, epico o lirico, a tal punto da condurla a cantare il niente, a dare voce a ciò che era divenuto muto, caparbiamente muto come la cenere. Un passaggio dell’Allocuzione pronunciata da Celan in occasione del conferimento del premio letterario della Libera Città Anseatica di Brema tematizza non solo il ruolo che la lingua gioca nell’esperienza poetica ma soprattutto l’esperienza che essa stessa subisce ad una svolta del tempo in cui vengono a mancare l’occasione e la materia del canto e la lingua stessa è costretta a dismettere la cantabilità: Raggiungibile e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. La lingua, essa, sì, non ostante tutto, rimase acquisita. Ma ora dovette passare attraverso tutte le proprie risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e

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mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva; ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, “arricchita” da tutto questo. Con questa lingua, in quegli anni e negli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà»7.

Il paradosso di queste parole di Celan sta nel fatto che se la lingua è rimasta come l’unica cosa ancora raggiungibile, ciò è stato reso possibile proprio dal fatto che non tentò in nessun modo di ottemperare al suo compito precipuo, dare voce e parola a quello che accadeva. In questo caso invece la lingua non prestò parola all’ammutolire orrendo e alle mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte: se lo avesse fatto si sarebbe resa complice e sarebbe realmente ammutolita, si sarebbe arresa all’ineffabile. Scegliendo il silenzio, invece, la lingua

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si arricchì di quello stesso mutismo che aveva attraversato, di modo che, riemersa alla luce dalla notte orrenda, fu capace di renderlo al linguaggio, di dire il niente, e quindi di nuovo in grado di espletare la sua funzione propria: orientarsi nell’esperienza, produrre la consapevolezza di dove si stia e di dove si stia andando e soprattutto ancorarsi nel reale. Da qui la lingua poetica di Celan: una lingua “scritta disgiunta”, una lingua separata e che dice la separazione, una lingua della pietra e della porosità, una lingua di/ del niente. Una lingua che glorifica, che innalza, che eleva e benedice, tutto ciò che striscia in basso, che si muove carponi, che si disperde senza consistenza. Una lingua che non rinuncia al suo compito: inventare i significanti adeguati alla situazione del tempo, capaci di dare eternità all’“Ormainon-più”, di trasformarlo nonostante tutto in un “Pur-sempre”. Nessuno, rosa di nulla, cenere: questi i significanti o i nomi dell’assenza di senso, di ciò che non ha nome.

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Si può addirittura pregarlo il niente: Lodato sii tu, Nessuno. Per amor tuo vogliamo fiorire. Incontro A te.

Memore di altri fiori – la ginestra contenta dei deserti e l’asfodelo, il verdognolo fiore dei morti –, memore soprattutto della rosa, il fiore dell’amore e del canto, Celan mentre eleva la sua preghiera a Nessuno, definisce la creatura sofferente una rosa di nulla (Niemandrose) in piena fioritura: Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo: la rosa di Nulla, di Nessuno8.

La cenere è una data, data e fa data, si potrebbe dire addirittura che fa epoca se non fosse che ne sospende all’istante la possibilità: ogni epoca è la sua epochè, l’impossibilità di renderne presente la verità e quindi

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il senso. La cenere ci aspetta per inchiodarci ad una data, all’anno, al mese, al giorno, all’ora in cui ci ha ghermito per obbligarci a ricordare un’altra data, quella in cui qualcosa è divenuto cenere, è bruciato fino all’osso. Per Derrida la questione della cenere non si distingue da quella della data e da quella della firma, ossia dall’unicità e dalla solitudine della testimonianza. Per un verso infatti la data indica una singolarità assoluta, l’irriducibilità dell’evento a qualsiasi forma di generalizzazione: esso è accaduto in quel punto del tempo né sarebbe potuto accadere in nessun altro. La data lo individua, ne è il nome: il 14 luglio del 1789 è la data della rivoluzione. La ricostruzione storiografica potrà dopo diluirne il carattere istantaneo, far emergere ciò che da molto prima lo stava preparando, negarne il ruolo di spartiacque storico, di interruzione e di rottura, ma alla fine la data continuerà nonostante tutto a identificare l’evento “rivoluzione francese” al di là di ogni suo legittimo reinserimento nella lunga durata e nella persistenza del passato.

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Per un altro però la data ci permette di citarlo e quindi di reiterarlo nel tempo: in ogni data successiva potrò richiamare l’evento “rivoluzione francese”, utilizzarlo in un’interpretazione, farne l’inizio luminoso di ulteriori lotte per la libertà o il principio tenebroso di dittature e totalitarismi; sempre tuttavia a partire da ciò che lo identifica come quell’evento distinto da ogni altro, vale a dire la sua data. Come singolarizza e rende unico, così la data universalizza l’evento e ne permette la ripetizione, la menzione e la citazione con e senza virgolette. Se questo è vero, ciò però vuol dire che la data possiede uno statuto logico paradossale se non contraddittorio. Nel momento stesso in cui si iscrive la data è costretta a cancellarsi, «essa deve, come scrive Derrida, dissimulare in sé qualche stigmate della singolarità per durare più a lungo di ciò che la data commemora»9. Nell’originale, dopo l’espressione “durare più a lungo”, fra due virgole Derrida scrive “cest le poème” (il traduttore italiano mette

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le parole fra parentesi) ad indicare appunto che è la poesia come commorazione della data dell’incinerazione a dover sopravvivere pur se nella forma della cenere. La sola possibilità che ha la data per assicurare il suo ritorno (revenance) è la sua cancellazione; pertanto «ciò che si deve commemorare, in una sola volta raccogliere e ripetere, è a partire da questo momento, in una volta, l’annientamento della data, una specie di nulla, o cenere»10. Non c’è commemorazione, ricordo, se non del morto, dello scomparso, del destinato all’oblio, del non ricordato perché non ricordabile. Non si dovrebbe mai dimenticare d’altronde che, in base alla volontà dei suoi stessi programmatori e esecutori, del progetto dello sterminio non sarebbe dovuta restar traccia, che nessun resto avrebbe dovuto testimoniare di quanto era accaduto: tutta l’operazione sarebbe dovuta essere a resto zero. E che la stessa testimonianza dei sopravvissuti, posto che ce ne fossero stati, sarebbe stata invalidata dalla loro stessa incredulità rispetto a quel-

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lo che avevano subito: l’esperienza del campo è infatti tale da cancellare ogni residua traccia di soggettività e quindi dell’istanza stessa della testimonianza. A meno che a testimoniare non sia la cenere proprio per il fatto di non restare, di essere una traccia che non resta ma si sperde, di essere sempre in via di sparizione. Testimonianza priva a sua volta di garante, altro senza altro dell’altro, la data dello sterminio, come d’altronde tutte le date della storia, è tale che «rischiando l’annullamento di ciò che salva dall’oblio, può sempre diventare la data di niente e di nessuno, essenza senza essenza della cenere, di cui non si sa nemmeno più ciò che vi si è consumato un giorno, una sola volta, sotto un nome proprio. Il nome condivide con la data questo destino di cenere»11. Anche i nomi bruciano: Cotto come oro, un tacere Fra carbonizzate Mani.

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Figura di sorella, grande, grigia, prossima come tutto ciò ch’è perduto: Tutti i nomi, tutti quelli Che insieme Arsero. Quanta Cenere da benedire. Quanta Terra conquistata Al di sopra Di leggeri anelli d’anima, così leggeri. Grande. Grigia. Senza Scorie. (…) Cotto come oro. Un tacere Fra carbonizzate , carbonizzate Mani. Dita, esili siccome fumo. Come corone, corone d’aria attorno - Grande. Grigia. Senza Tracce. Regale12.

Dopo aver citato Chymisch Derrida aggiunge: «C’è la cenere, forse, ma una ce-

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nere non è. Questo resto sembra restare da ciò che fu, e che fu presentemente; sembra nutrirsi o abbeverarsi alla fonte dell’esserpresente, ma esce dall’essere, esaurisce in anticipo l’essere a cui sembra attingere. La restanza del resto – la cenere, quasi nulla – non è l’esser-restante, se almeno s’intende con ciò l’essere-sussistente»13. Più che il linguaggio, è la cenere la dimora dell’essere. Se la cenere mi aspettava in un svolta del tempo databile ottobre 1982, in quale data aspettò Derrida, iscrivendosi come il suo nome – segreto? – e la sua firma – manifesta? Dieci anni prima rispetto a me e quasi venti, invece, rispetto all’occasione, in cui parlando dell’architettura di Daniel Libenskind e del suo Museo ebraico di Berlino, Derrida rievoca il luogo in cui essa s’iscrisse, vale a dire Feu la cendre. Calcolando in vent’anni la distanza temporale, può darsi che Derrida s’inganni o che non stia pensando, come afferma, a Feu la cendre, quanto a un libro come La dissémination, edito nel ’72, in cui alla fine, come dedica

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e firma, come ringraziamento e omaggio, compare quanto segue: S’écartant d’elle‑même, s’y formant toute, presque sans reste, l’écriture d’un seul trait renie et reconnaît la dette. Effondrement extrême de la signature, loin du centre, voire des secrets qui s’y partagent pour disperser jusqu’à leur cendre. Que la lettre soit forte en cette seule indirection, et de toujours pouvoir manquer l’arrive, je n’en prendrai pas prétexte pour m’absenter à la ponctualité d’une dédicace: R. Gasché, J. J. Goux J. C. Lebensztejn, J. H. Miller, d’autres, il y a là cendre, reconnaîtront, peut‑être, ce qui intervient ici de leur lecture. Décembre 197114.

Eppure in Feu la cendre, la cui stesura dovremo far risalire almeno alla fine degli anni settanta se non tra l’’80 e l’’81 (non avrei altrimenti potuto ascoltarlo sotto forma di conferenza nell’ottobre del 1982 col titolo “Il y a là cendre”), la strana dedica finale

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de La dissémination è richiamata esplicitamente: – Vi è là cenere. Quando questo accadde, quasi dieci anni fa, la frase, di per se stessa, (si) teneva a distanza. Nonostante l’apparenza e la sua stessa collocazione, la frase non comportava nessuna marca personale, nessuna firma d’appartenenza; era un po’ come se, non significando nulla di propriamente intellegibile, essa venisse incontro, da una lontananza estrema, al suo presunto firmatario, il quale non si dava nemmeno la briga di leggerla, ma la riceveva così, o piuttosto la sognava come una leggenda o un fumo di tabacco: poche parole che vi escono dalla bocca, destinate a perdersi senza possibilità di riconoscimento»15.

Ecco come arriva la cenere, come ci aspetta: viene sì come una frase, ma una frase inintelligibile, la cui consistenza logico-semantica è pari alle volute di fumo che escono di bocca, evanescenti e labili. Forme che si disfanno subito e di cui non resta traccia.

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Una frase che viene di soppiatto, all’improvviso, sorprendendo in primo luogo colui cui era destinata che si trova a scriverla senza sapere neanche lui perché e a quale titolo lo faccia. Volendo ringraziare, riconoscere e pagare il debito contratto con l’Altro/gli altri, ma consapevole d’altronde che una lettera (il libro che ha scritto e che è pronto per la stampa) può sempre non giungere alla sua destinazione (e ai suoi destinatari), con l’effetto quindi di deludere l’attesa di riconoscimento che il mittente si riprometteva dalla lettura del suo scritto, Derrida è obbligato suo malgrado a dislocare d’emblée se stesso e gli altri, ad allontanarsi e allontanarli dal cerchio magico dell’identità e della durata, in altri termini a farsi e farli cenere. La frase, attestando che cenere è là e non qui, là, ma non là dove avevamo l’intenzione di inviarla, affermando che, essendo sempre là, non si potrà mai sapere di chi o che cosa la cenere è cenere, resto di quale bruciatura, sopravvivenza spenta di quale fuoco, fatuo o no, la frase “Il y là cendre”

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è insieme e indecidibilmente il resto degli altri cui il libro viene dedicato e la firma apocrifa di colui che ringrazia. Firma sprofondata, scritta e cancellata, cancellatura di cancellatura, invisibile quasi, ma appunto per questo sempre più singolare, idiomatica fino all’idiozia, e allo stesso tempo sempre più universale, reiterabile, leggibile oltre e a causa delle cancellature. Come la scritta invincibile di Brecht che più si tentava di nascondere più diventava visibile: Al tempo della guerra mondiale in una cella del carcere italiano di San Carlo pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri, un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo: Vive Lenin! Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma scritto in maiuscole enormi. Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.

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Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri ecco che c’è scritto nella cella, in bianco: Viva Lenin! Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello si che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino, quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta: Viva Lenin! Allora i secondini Mandarano contro la scritta un muratore armato di coltello. E quello raschiò una lettera dopo l’altra, per un’ora buona. E quand’ebbe finito, c’era nella cella, ormai senza colore ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile: Viva Lenin! E ora levate il muro! disse il soldato16.

Si può costruire sulla cenere? Si impastano mattoni con la cenere? Si alzano dei muri? Si edificano dimore? O come fondamento la cenere è più inconsistente della sabbia, più mobile dell’acqua? Che allora cenere ritorni, come un fuoco mai del tutto spen-

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to, ad infestare il discorso di Derrida in occasione di una discussione sull’architettura postmoderna, che lo aspetti di nuovo nell’ottobre del 1989 mentre scrive una lettera (con audiocassetta annessa) a Peter Eisemann che dovrà essere letta (ed ascoltata) durante il convegno su “Postmodernismo e oltre: architettura come arte critica della cultura contemporanea”, organizzato a Irvine dall’Università della California e al quale non potrà essere presente in carne e ossa, non è per nulla casuale: la cenere, ossia la distruzione, è consustanziale alla costruzione architettonica. Riferendosi al concetto di rovina così come è tematizzato da Benjamin nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels e in altri testi degli anni trenta, fra cui Esperienza e povertà, ponendola in relazione con tematiche ancora attuali come quelle del rapporto fra architettura e capitale, architettura e guerra, richiamandosi anche agli scandali dell’edilizia, alla questione della residenza e addirittura agli homeless, Derrida ricorda

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in primo luogo che «ogni architettura è finita», il che significa che «porta in se stessa, in modi ogni volta originali, le tracce della sua distruzione a venire, il futuro anteriore della sua rovina» e «che è ossessionata (hantée), perfino firmata dalla sagoma spettrale di questa rovina, all’opera nel basamento stesso della sua pietra, nel suo metallo o nel suo vetro»17. Per durare un edificio, un monumento, debbono combattere la loro inevitabile usura, anticipare la loro distruzione; ma ciò implica che ne devono tenere conto, ossia che si costruisce sulla base della scomparsa, a partire dal divenirrovina di ogni costruzione. Se «nel passato, aggiunge Derrida, le grandi invenzioni architettoniche organizzavano la loro distruttibilità essenziale, la loro stessa fragilità, come una resistenza alla distruzione o come una monumentalizzazione della stessa rovina»18, quale sarà, in un’epoca di postmodernità come la nostra, la forma che assumerà la rovina, ossia il destino rovinoso che attende presto o tardi ogni costruzio-

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ne umana? Messa a confronto con la nostra attualità storica, la rovina, almeno quella di cui parlava Benjamin, non sembra abbastanza rovinosa: nonostante tutto è ancora qualcosa che resta, un monumento per quanto mutilato e deturpato. Distrutta essa è tuttavia ricordo di un’antica grandezza. Che cosa allora è in grado di testimoniare e ricordare senza tuttavia restare, senza lasciare tracce, senza essere una traccia? Se, rispetto ad un passato anche recente, il compito della nuova architettura è quello di porre a fondamento di ogni nuova costruzione la fragilità costitutiva delle cose umane, il carattere aleatorio e inconsistente di ogni tentativo di durata, se gli edifici costruiti adesso debbono ingenerare in chi li guarda e abita, piuttosto che l’ammirazione per la stabilità di cui fanno mostra, la domanda preoccupata su come fanno a stare in piedi, se essi più che al cielo sono una sfida all’equilibrio, occorrerà allora trovare un nuovo nome e e un diverso campo d’esperienza per questa acuita coscienza della

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vulnerabilità, della fragilità e della debolezza della vita storica dell’uomo. È a questo punto che cenere aspettava Derrida nell’ottobre del 1989, è qui che cade il richiamo a Feu la cendre in cui lo slittamento, il passaggio di testimone dalla traccia alla cenere, si era già del tutto consumato, in cui la traccia era bruciata e diventata cenere. Se quella formata dalla cenere è una traccia che non resta e che scompare, allora «questo sparire è proprio quello che lui chiama la traccia. Adesso ho l’impressione che il miglior paradigma della traccia, per lui, non sia affatto, come hanno creduto certuni, e forse lui stesso, la pista di caccia, il varco, il solco nella sabbia, la scia dentro il mare, l’amore del passo per la propria impronta, ma proprio la cenere (ciò che resta, senza restare, dell’olocausto, del brucia‑tutto, dell’incendio: l’incenso)»19. Le parole con cui in un’intervista Daniel Libenskind spiega il progetto architettonico del Museo ebraico di Berlino e che Derrida cita subito dopo la rievocazione della cene-

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re confermano la tesi: se si vuole costruire un monumento che ricordi la cultura ebraica, come dimenticare che essa «è stata incenerita nella propria stessa storia, nell’olocausto», come non tener conto che «la storia ebraica di Berlino non è separabile dalla storia della modernità, dal destino di questo incenerimento della storia»20? Se una costruzione, destinata a durare nel tempo, vuole essere memoria dell’olocausto (Derrida ha sempre conservato questo termine per indicare lo sterminio nazista degli ebrei, sottraendolo al contesto religioso, alla semantica del sacrificio, e leggendolo invece nel suo senso letterale come “brucia-tutto”), essa lo sarà ad una condizione: di stare sempre sulla soglia della sparizione, a un passo dal disastro, in via di incenerimento. Ma non è questo strano connubio di vulnerabilità e resistenza, di debolezza e forza, di fragilità e durata, la radice, indecostruibile, di ogni costruzione che appunto per questo è aperta a una decostruzione incessante e

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continuata? Non è la stessa vocazione del poema di trasformare, come diceva Celan, l’“Ormai-non-più” in un “Pur-sempre”? E non è infine al cuore del dispositivo stesso della scrittura, di questa enorme macchinada-scrivere che gli uomini hanno inventato per durare? A cosa serve la scrittura se non a rendere reiterabile, in linea di principio e non semplicemente di fatto, la traccia che di per sè è caduca, effimera, destinata alla cancellazione se non all’incenerimento? La scrittura ha questo di paradossale: iscrive senza incidere, quella che sembra un’incisione è solo il resto di una bruciatura. Ma è solo così che qualcosa sopravvive: solo come cenere.

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Capitolo terzo Il tono e la firma L’eredità di Jacques Derrida

Maurizio Ferraris ha di recente sostenuto la necessità di sottoporre l’eredità della decostruzione o, più correttamente, di Jacques Derrida ad un trattamento inverso a quello che Gadamer, secondo Habermas, aveva riservato a Heidegger: se in questo caso l’operazione era consistita nell’urbanizzzare il filosofo tedesco, nell’insegnargli le buone maniere, strappandolo all’ambiente contadino della foresta nera, in quello del pensatore francese si tratterebbe di produrne un imbarbarimento per sottrarlo al salotto cosmopolita, radical chic, del tutto dedito al

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politacally correct, da cui rischia di essere assorbito se non completamente fagocitato1. In altri termini, se è scaduto il tempo per presentare Derrida a casa Guermantes, è meglio condurlo nell’albergo di Jupien che lasciarlo preda del salotto Verdurin. Imbarbarire o, come anche si esprime Ferraris, indurire il salotto derridiano vuol dire separare l’eredità, posto che ve ne sia una, del filosofo francese dalla koinè culturale del postmodernismo che, dando eccessivamente retta all’enunciato nicciano secondo il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni, indetermina la differenza fra il vero e il falso come quella fra ciò che è reale e ciò che è soltanto pensato o immaginato, giungendo fino alla negazione dell’esistenza degli oggetti naturali del tutto ridotti agli schemi concettuali che ci servono a comprenderli. Se si può parlare di una eredità di Derrida essa sarà il risultato di una spaccatura portata all’interno stesso del corpo teorico del filosofo francese in modo tale che l’enunciato, pericolosamente simile a

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quello nicciano, che lo rappresenta più di tutti di fronte alla comunità filosofica, e cioè che nulla esiste fuori dal testo, possa essere riscritto in modo da subire una restrizione che però lo invera: diremo infatti non che nulla esiste fuori dal testo ma che nulla di sociale esiste fuori da esso, cioè che nulla di sociale esiste che non sia iscritto. Come Ferraris ha cercato, in un modo estremamente convincente, di dimostrare in Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce la prestazione peculiare di Derrida, la sua vera eredità, consiste nell’aver reso possibile l’individuazione, all’interno del catalogo di tutte le cose che popolano il mondo della vita, di una categoria specifica di oggetti, ossia degli oggetti sociali che si differenziano dalle altre tipologie di oggetti – gli oggetti naturali e quelli ideali – per essere degli atti iscritti, cioè per essere il risultato di atti sociali caratterizzati dal fatto di essere iscritti, vale a dire registrati su di un supporto qualsiasi, sia esso la carta, un file di computer,

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o anche semplicemente la testa delle persone2. Al di fuori di questa possibilità che iscrive a propria volta Derrida all’interno di un progetto di filosofia intesa come una metafisica descrittiva di impianto realistico di tutto ciò che esiste, quindi come un’ontologia, o non si dà in quanto tale eredità del filosofo francese o questa eredità è usurpata e come sempre dilapidata da eredi degeneri e fittizi. D’altronde è la stessa modalità con cui ci giunge il corpus degli scritti di Derrida ad essere in parte paradossale ed a gettarci nello sconforto circa l’esistenza di una sua eredità precisa e identificabile. Nella misura infatti in cui il lascito di Derrida è costituito in massima parte da una serie di testi che altro non sono che dei commenti ad altri testi della tradizione filosofica, scientifica (delle scienze umane) e letteraria della cultura europea e occidentale, si può sostenere con buone probabilità di essere nel vero che quel che riceviamo in eredità dal filosofo francese non è né una teoria com-

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patta e coerente – la decostruzione – né un repertorio di temi da approfondire e sviluppare – la scrittura, la différance, l’aporia –, bensì uno stile, e uno stile, cioè un modo di scrivere e argomentare, talmente idiomatico da farci ritenere che forse la decostruzione non sia nient’altro che lo stile di una persona che si chiamava e firmava Jacques Derrida. Una persona, oltretutto, che avendo a un certo punto cessato, come ogni persona, di esistere, ha perciò stesso smesso di firmare e quindi non lascia letteralmente nulla. La decostruzione insomma in quanto espressione di quella singolarità esistenziale che risponde al nome e alla firma di Jacques Derrida non sopravvive alla morte del portatore di quel nome e all’esecutore di quello stile. A meno che non ci si decida per una ricostruzione della decostruzione. Per chi scrive la voce di Derrida, quella voce “scritta” che si sente anche quando si legge un testo a labbra serrate3, ha sempre suonato con un tono barbaro, un tono barbaro e disarmato, o forse barbaro perché di-

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sarmato, perché espressione dello sconforto e del sentimento di impotenza, di resa incondizionata, che è proprio della posizione filosofica. Di conseguenza se appare ampiamente condivisibile la tesi di Ferraris sull’inesistenza di una teoria della decostruzione e di un repertorio di concetti e di categorie su cui continuare un lavoro di ricerca e di approfondimento – tesi che renderebbero oltretutto il discorso di Derrida del tutto consono alle regole della trasmissione accademico-universitaria –, più di un dubbio invece avvolge l’effetto finale di quella argomentazione: che essendo il lavoro di Derrida legato indissolubilmente all’idiomaticità di uno stile, alla singolarità di una firma, di un’eredità, ossia di qualcosa di cui si possa usufruire in comune, è impossibile parlare. E se fosse esattamente questa idiomaticità, questa singolarità assoluta che si incarna nella firma, l’unica eredità di Derrida? Giacché ciò che essa avrebbe di comune, di universalizzabile, sarebbe proprio l’invito o piuttosto l’ingiunzione (vedremo fra breve

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la centralità di un “si deve” nelle pratiche di pensiero di Derrida) all’idiomaticità. La quale a sua volta non sarebbe il “proprio”, ciò che rende ciascuno di noi appropriato a se stesso e agli altri, ma al contrario lo scarto, l’eccedenza, la différance di cui ciascuno è effetto in quanto differimento dell’essenza, anzi sua disseminazione irreversibile, incenerimento e perdita4. Tanto vere queste ultime affermazioni che l’esecuzione dell’idiomaticità non è nulla di naturale o spontaneo, ma il risultato, già l’effetto differito, di un contesto che nessuna ermeneutica sarà mai in grado di ricostruire integralmente e controllare in pieno. Dal che si deduce ulteriormente quanto l’idiomaticità non sia il proprio, ma l’improprio, un effetto del fuori, del fuori testo che è ancora un testo con il suo contesto e così via all’infinito. L’idiomaticità è un dispositivo: quel che infastidisce tanti lettori di Derrida e che essi bocciano come un esempio di decadenza e alessandrinismo, vale a dire l’acribia con cui per pagine e pagine rico-

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struisce il contesto in cui si trova, il luogo da cui parla, la lingua in cui si esprime e quella in cui lo recepiranno coloro che lo ascoltano, quindi i problemi di traduzione che si pongono ogni volta che si prenda la parola anche se ciò accadesse nella propria lingua e questa fosse la stessa (?) di coloro a cui ci si rivolge, non è un percorso ozioso da saltare a piè pari per gustare al più presto il succo del concetto così come si saltavano le descrizioni dei paesaggi nei romanzi di una volta per non perdere quello della storia. A parte il fatto che il concetto in sé, astratto dal contesto e dai dispositivi che servono a pensarlo, è un sacco vuoto o un palloncino pieno d’aria pronto a scoppiare alla prima sfregatura, preliminare alla sua stessa possibilità di elaborazione da parte del pensiero è l’installarsi di una voce – scritta – nella posizione filosofica: non si è naturaliter filosofi, lo si diviene, ci sono, come diceva Heidegger, delle vie d’accesso alla filosofia che implicano e richiedono prese di posizione innaturali, differimenti del desiderio, acrobazie mentali, passi falsi e stonature.

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Quindi nell’ordine: prima bisogna stabilire il luogo e interrogarsi anche, dal momento che nessun luogo è dato, è naturale, sull’aver luogo del luogo, su chi o che cosa ha luogo ogni volta che ci si trova ad occupare un luogo provenendo senza nemmeno saperlo da un altro luogo, dimenticato o differito; poi interrogarsi sulla lingua in cui si parla, sui problemi di traduzione che pone anche al proprio interno se è vero che, pur parlando una sola lingua, la nostra, noi parliamo sempre e soltanto la lingua dell’altro, un’altra lingua, e traduciamo di conseguenza incessantemente dalla lingua dell’altro nella nostra e dalla nostra nella lingua dell’altro; e infine, se c’è una fine determinabile come tale, scegliere il tono con cui articolare la nostra voce filosofica, fare le prove dell’intonazione rischiando ogni volta la stecca e i relativi fischi. Esiste un tono filosofico? E quanti toni la voce filosofica deve provare prima di trovare il suo? E siamo certi che tutti gli altri toni siano impropri e quello filosofico il solo

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ad essere appropriato? E se sì a cosa? E se fosse invece anch’esso improprio come tutti gli altri? Certo di toni ce ne sono molti. Senza nessuna pretesa di essere esaustivi possiamo contare un tono di distinzione, un tono apocalittico, un tono edificante, un tono di ragione, un tono libertino, un tono profetico, spesso un tono eroico, qualche volta frivolo, quasi mai comico. E ciascuno di essi è sempre a un passo dalla stonatura, posto che, quand’anche tenesse la nota giusta, non fosse di per sé una vera e propria stecca. Abbiamo lasciato da parte il tono di sconforto, ma se lo abbiamo fatto è perché esso è il tono di Derrida, il suo tono, quello che ci lascia in eredità. Tutto si consuma nel 1980 a Cerisy-la-Salle: intervenendo nella discussione susseguente all’intervento di Nancy intitolato La voce libera dell’uomo e rispondendo ad una sollecitazione di quest’ultimo circa il ruolo dell’il faut, del “si deve”, in filosofia, Derrida replica indicando il nesso strutturale che secondo lui lega il motivo

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della différance all’etica: se quest’ultima ha a che fare con qualcosa che si può chiamare «appello, domanda, ordine» saremo in grado di distinguere queste diverse declinazioni della frase etica soltanto in base all’intonazione. Così egli ha creduto di cogliere l’intenzione dell’intonazione con la quale l’amico, dandogli del tu, gli si rivolgeva e se Nancy gli ha detto nella forma constativa “Tu hai fatto il tuo dovere” la stessa frase è arrivata a Derrida con il tono prescrittivo “Tu devi fare il tuo dovere”. Tono obbligante ed euforico dell’imperativo – “Devi, dunque, puoi” – che si è trasformato in un istante in quello malinconico dell’impotenza e dello sconforto – “Devi, dunque, non puoi”5. Come nel caso dell’ordine platonico “Non leggermi” ad ogni comando si ubbidisce soltanto trasgredendolo e la voce filosofica di fronte a questo double bind non può che assumere un tono di détresse. Al comando della filosofia di dire la verità e di rendere ragione di quel che si dice e di come lo si dice non si può dare corso se non

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riconoscendolo come l’impossibile stesso. Dobbiamo farlo e in ciò siano responsabili, ossia rispondiamo alla voce dell’altro, all’altra voce, proprio perché non lo possiamo fare. E non lo possiamo fare non per un nostro limite o difetto ma per un carattere intrinseco della verità stessa: è la verità infatti ad essere aporetica, strutturalmente doppia, differita e sempre in via di differimento, sempre altrove, sempre fuori. Se ciò avviene è perché l’obbligo della verità viene dall’altro e tutto ciò che viene dall’altro è anche dell’altro, ossia è alterato, differente da sé, differito e messo in riserva nel momento stesso in cui si manifesta rendendosi sensibile, divenendo fenomeno per noi. Da qui la necessità che la risposta all’appello, alla domanda o all’ordine si declini secondo un dispositivo che Derrida chiama della “doppia seduta”, il quale, se da un lato rimanda alla tecnica dei dissoi logoi di sofistica memoria, dall’altro, nel momento in cui si fa scrittura, si esprime attraverso una modalità tipografica in cui, come in una

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scrittura geroglifica, il testo, distribuendosi su colonne o affiancate o poste l’una sopra l’altra, rispetta anche visivamente il carattere dicotomico del discorso filosofico. Da ciò deriva anche il fatto che i nomi propri si presentino il più delle volte in coppia – Hegel e Genet, Platone e Mallarmé, Blanchot e Schelley (tutte varianti della coppia per antonomasia: Bouvard e Pechuchet) –, che le voci si disseminino e i loro toni si moltiplichino. Se la voce filosofica prima di trovare il tono giusto, vale dire quello dello sconforto, si perde nei meandri di tutte le altre tonalità possibili, ciò si deve al fatto che la filosofia, pur tentando ogni volta di accreditarsi come un discorso unitario e gerarchico, in realtà ci giunge come un campo attraversato da conflitti, discorde, sempre pronto a collassare, in altri termini già da sempre in via di autodecostruzione. Il conflitto trapassa nel corpo del filosofo, lo spacca, lo costringe a decostruire la stessa eredità dalla quale era stato legittimato a prendere la posizione filosofica. Bisogna

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mettere la filosofia contro la filosofia, ereditare e dilapidare l’eredità, ogni filosofo è il decostruttore o l’Aufklärer di se stesso, insieme più di un tono e un tono contro l’altro. L’intervento che Derrida pronuncia durante il colloquio di Cerisy-la-Salle qualche giorno dopo quello di Nancy alla discussione del quale esplicitamente rinvia, affronta esattamente il tema del ruolo del tono in filosofia e la questione dell’eredità. Conforme allo stile di Derrida e della decostruzione anche questo testo non è altro che un commento ad un altro testo della tradizione filosofica che già dal titolo esibisce la propria vocazione parodica e dissacrante. Il titolo che Derrida dà al suo intervento infatti non è altro che quello di un tardo saggio kantiano al quale è stato sostituito solamente un termine: da Di un tono di distinzione adottato di recente in filosofia – titolo dello scritto kantiano – a Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia – titolo di Derrida6.

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Che cosa vuol dire che si può replicare il titolo di un altro, di un altro testo e di un altro autore, quasi fosse una citazione o una menzione senza virgolette, limitandosi a cambiare solo un termine? Vuol dire forse che può cambiare il tono, ma non la forma del conflitto né la scena del dissidio. Il tono può essere a seconda dei casi esaltato, distinto e pretenzioso o apocalittico, ma ad ogni svolta del tempo storico la filosofia finisce per ripetere lo scontro originario da cui ha avuto inizio: fra la verità e la doxa, fra il vero amico del sapere e chi come il sofista di possedere il sapere vero si limita a far finta. Ogni volta la filosofia si installa e si costituisce in opposizione al non filosofico in generale pronta tuttavia a riconoscerlo subito contraddittoriamente sia come il farmaco che la fa vivere, la linfa di cui si nutre, sia come il virus che la corrode dall’interno, il veleno che le guasta il sangue, la peste che la fa morire. Quel che di paradossale alberga nella ripetizione del conflitto come cornice della fi-

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losofia, ossia del darsi della filosofia come conflitto aperto, è che le parti possano invertirsi e chi appariva come il più accanito difensore del diritto della filosofia si trasformi nel suo più acerrimo nemico. Che è quanto accade nel libello kantiano in cui ad esser chiamato alla sbarra è proprio Platone, questo mistagogo «padre di ogni esaltazione mistica con la filosofia»7, che non potendo comparire in carne ed ossa, viene processato per interposta persona, attraverso un suo complice moderno, un certo Schlosser, reo di aver tradotto in tedesco, rendendole in tal modo “popolari”, le lettere del filosofo ateniese in cui ci si fa beffe dell’intelletto discorsivo e dei limiti della conoscenza umana e si illudono i poveri di spirito circa la possibilità di un accesso diretto, intuitivo e/o sentimentale, alla verità. È questo il tono di distinzione adottato recentemente in filosofia contro il quale Kant cerca di far di nuovo prevalere quello razionale, un tono cioè consapevole del carattere finito dell’intelletto umano capace di

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conoscere soltanto i fenomeni e legittimato a trattare il noumeno, cioè le idee, esclusivamente secondo un criterio regolativo e mai costitutivo, concependo le idee insomma come postulati pratici e non come realtà ontologiche. Un tono di distinzione cui si accompagna come sempre l’atteggiamento paternalista di chi legittima la propria superiorità con la scusa di voler “rendere migliori” quelli che pretende di guidare dal momento che essi, privi come sono della verità, non possono non essere anche ignari di quale sia il loro vero bene, quale l’autentico oggetto del loro desiderio. Nonostante tutto Kant non vuole fare di ogni erba un fascio, vuole distinguere: Platone da Schlosser, Platone da Platone. Fin quando quest’ultimo si comporta da buon matematico non c’è nulla da dire. I guai incominciano solo quando pretende che le idee esistano davvero oppure quando, come sostiene nelle lettere, all’elenco delle cose necessarie alla conoscenza, oltre al nome, alla descrizione, alla rappresentazio-

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ne e alla scienza vuole aggiungere anche “l’oggetto stesso e il suo vero essere”. Ora se errare è umano, perseverare è diabolico: si può chiudere un occhio su Platone, ma di fronte a Schlosser non resta che chiamare la polizia incaricata di mantenere l’ordine nel regno delle scienze8. In gioco infatti non c’è una piccola disputa fra dotti, ma il buon nome della filosofia, anzi il suo nome in quanto tale: il mistagogo lo usurpa, lo usa illegittimamente, facendolo diventare un motivo di distinzione sociale, una prerogativa speciale, la spia di una posizione di rango superiore. Bisogna soprattutto restituire al mittente quell’assurda accusa di evirazione che il mistagogo osa rivolgere ad una ragione «divenuta così debole di nervi per sublimazione metafisica che difficilmente potrà resistere nella lotta contro il vizio»9, facendogli notare che semmai a castrare la filosofia è proprio la sua idea che solo ai pochi capaci di presagire il mistero e di compiere un vero e proprio salto mistico sia concesso l’accesso alla verità, accesso che invece

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resta sbarrato a tutti gli altri, ai molti che formano il popolo. Un filo rosso lega dunque il Platone delle lettere, il Platone esaltato al mistagogo contemporaneo: entrambi fondano un club – un salotto? – di cui possono far parte solo pochi privilegiati, i già iniziati, quelli che già credono alle virtù taumaturgiche del sentimento e che quindi sono pronti a seguire il mistagogo fin sulla soglia della verità invisibile, convinti di presagire e indovinare cosa si celi dietro il velo che, ultimo ostacolo, gli cela l’oggetto sublime del loro desiderio. In effetti ciò che caratterizza il mistagogo è che mentre promette all’adepto un accesso diretto alla verità, quasi in carne e ossa, poi in realtà lo blocca sulla soglia, invitandolo a fare un salto al buio e nel buio, a presagire soltanto quel che dovrebbe trovarsi al di là del velo senza tuttavia raggiungerlo. Come il sofista antico, anche il mistagogo moderno è esperto in una sola arte, quella dei simulacri e degli inganni: egli conosce la tecnica del velo, sa che il velo induce

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necessariamente la credenza nell’esistenza di un velato anche se dietro il velo non c’è nulla, anzi proprio perché dietro il velo non c’è nulla. Insomma perché l’inganno riesca non bisogna sollevare il velo, giacché ciò mostrerebbe immediatamente che il velo non nasconde nulla e tutta la costruzione ingannevole crollerebbe all’istante. Di conseguenza se la verità è rappresentata dall’immagine di Isis, la dea velata, il mistagogo, glossa Kant, vi condurrà l’adepto tanto vicino da percepire il fruscio della veste oppure renderà il velo che la copre tanto sottile da poter presentire la presenza della divinità, ma in nessun caso la denuderà o solleverà il velo: fin quando infatti la presenza spettrale della dea resta invisibile se ne può fare e le si può far fare tutto quello che si vuole, non appena la si scopre si scopre insieme che non c’è nulla da vedere. Lo spettro scompare, si volatilizza: esso non è altro che il velo, il lenzuolo, l’immagine che il morto lascia sulla veste che ricopre il cadavere. Tolto il velo non resta nulla.

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Di questo spettro stranamente Derrida non dice nulla: non c’è nessuna sottolineatura del fatto che la verità coincida con la spettralità, che sia come noumeno, cioè un pensato senza realtà empirica, che come fenomeno, ossia una rappresentazione il cui corrispettivo nel reale anche se esistente resta inconoscibile, essa abbia in ogni caso la consistenza di un fantasma e che come un morto non del tutto morto sopravvivi venendo ad abitare, ossessionandolo, lo spazio dei viventi o dei presunti tali. Tutta la sua attenzione invece si concentra sull’accusa di castrare la filosofia che, entrambi, il filosofo illuminista e il mistagogo, si scambiano fra loro e sulla pretesa apocalittica della filosofia, cioè il suo desiderio non solo di pervenire alla verità ma di essere in grado di dirla tutta senza più resti oscuri e misteriosi, di rivelarla integralmente, renderla presente, del tutto dispiegata. Una pretesa che non è un esclusiva del mistagogo, ma che è presente anche nel filosofo.

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Tutto ciò è dimostrato da un fatto che potrebbe anche sembrare sorprendente: ci si aspetterebbe infatti da parte di Kant un abbandono rapido e condito anche da un certo senso di disgusto di tutto l’armamentario mitico e poietico adoperato dal mistatogo. E invece Kant quasi ne fosse affascinato conserva il modo di procedere di Schlosser, il suo ricorso alle rappresentazioni estetiche, il suo uso delle immagini: in particolare quella di Isis, la dea velata. Quello che cambia, ed è dal punto di vista di Kant decisivo, è il registro sensoriale cui l’immagine rimanda. Non si tratta più di tentare di vederla, di allungare la mano fino a sollevarle il velo per poi ritrarla un attimo prima che la svelatura possa rivelare il trucco da teatro adoperato dal prestigiatore per ingannare il pubblico. Si tratta di ascoltarla visto che la dea anche se da dietro un velo parla. Se la visione rischia di essere ingannevole, sia che alla fine si veda qualcosa sia che non si veda niente, la voce velata invece, mantenendo una distanza anche se minima, pone

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di fronte alla verità, di fronte alla maestosità della legge morale che impone al soggetto l’imperativo del “Tu devi”. L’asimmetria fra la dea e l’adepto, fra la legge e il soggetto, assicura sulla non ingannevolezza della voce. Ed esonera anche dal porre una serie di domande che sarebbero importune oltre che inutili: da dove viene questa voce? Viene dalla sovranità della nostra ragione oppure da qualcos’altro «la cui essenza è ignota all’uomo e che gli parla mediante questa sua ragione»10? Domanda vana appunto perché puramente speculativa e che non cambia di un palmo la questione: da qualunque parte venga alla voce della legge ci si inchina e si obbedisce. È vero che ad evitare una pericolosa sovrapposizione della posizione di Schlosser alla sua, Kant precisa che la validità della legge morale come legge di ragione va preventivamente esposta attraverso l’intelletto utilizzando dei “concetti chiari” e che solo dopo è lecito ricorrere ad una rappresentazione estetica come quella della dea visto

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che a questo punto i rischi di un’esaltazione mistica sarebbero evitati. Resta tuttavia che Kant continui a servirsi dell’immagine di Schlosser e soprattutto dell’immagine della dea velata, della dea Iside. Per quanto la voce velata della Legge, tenendo tutti i suoi sudditi alla debita distanza, eviti che qualcuno fra di essi possa prendere un tono di distinzione credendosi un privilegiato, uno che ha il diritto di sollevare il velo o almeno di far credere di poterlo fare o di averlo già fatto, e che quindi neghi alla radice la possibilità per l’uomo di pervenire ad una visione integrale della verità senza che ciò significhi castrarne la ragione, tuttavia porta a sua volta iscritta nel suo contesto – o nel suo fuori-testo, il che è lo stesso – quella condizione di evirazione che rimproverava all’arte dell’illusionista. Se a castrare la ragione è in realtà il mistagogo quando, negandole il potere intellettuale di formare dei concetti e spingendola ad avventurarsi in un impossibile possesso integrale della verità, la conduce allo scacco, ciò non toglie

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che perché la verità parli e si faccia ascoltare ed obbedire, essa debba essere stata preventivamente barrata, vale a dire castrata. Il solo fatto di menzionare la dea Iside implica al di là della volontà cosciente di Kant e del controllo che un autore può esercitare sulla sua scrittura la presa in carico del racconto mitico che all’immagine divina si accompagna e che è quello dell’uccisione di Osiride, fratello incestuoso della dea velata, dello smembramento cui viene sottoposto il suo corpo, della ricomposizione pietosa che la sorella tenta di farne e infine della mancanza incolmabile del fallo, unica parte del corpo di Osiride perduta e non più ritrovata. Che la verità parli e si dia in presenza nella voce non toglie, anzi richiede, il rinvio dell’apocalissi, il rimando a più tardi dello svelamento integrale della verità. La presenza della voce è una presenza velata, una presenza differita: la voce viene da altro, viene dall’altro, è un’altra voce. È una voce che castra, che femminilizza, che getta nello sconforto colui che è chiamato a ri-

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sponderle e a rispondere per lei, ossia a esserne ora e sempre responsabile. Responsabile del doppio regime della verità: avere l’obbligo di dirla e non poterla dire tutta, tutta in presenza, ora e qui. Come ogni filosofo che si rispetti anche Kant si spacca lunga la sua linea di frattura, patisce il conflitto fra l’Aufklärer che è e il mistagogo che rischia, suo malgrado, di diventare non appena si convinca che se non nella visione almeno nell’ascolto, se non nello sguardo almeno nella voce, la verità si dia in presenza e in suo nome sia possibile predire, razionalmente questa volta, un futuro migliore per l’umanità. Anche Kant rischia di assumere il tono della distinzione, il tono apocalittico e edificante, e se non fosse rinviato da quella stessa voce dell’altro da cui pensava di poter esser legittimato a fare previsioni alla castrazione costitutiva della posizione filosofica, al suo inevitabile tono di détresse, prenderebbe una stecca tale da costringerlo al silenzio per sempre. La filosofia non costruisce, non edifica, non fa opera: si limita

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a proseguire una decostruzione già da sempre in atto, ponendosi umilmente sulla sua scia. Se inavvertitamente da questa assenza d’opera dovessero scaturirne cambiamenti significativi nelle forme del nostro “essereassieme” non sarebbe un suo merito e farebbe bene a non gloriarsene. Il suo lascito è esclusivamente una firma, il significante scritto dell’idiozia, ciò che resta di una soggettività svanita:

Jacques Derrida

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Note

Note al capitolo primo 1. Commemorazione pronunciata la mattina del 12 gennaio 2005 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici “Gerardo Marotta”. 2. Segretario generale del suddetto Istituto. 3. J. Derrida, Cogito e storia della follia, tr. it. di G. Pozzi in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 39-40. Il passo introduce la critica all’interpretazione del pensiero di Cartesio da parte di Foucault di cui Derrida era stato discepolo anni addietro. 4. Ivi, p. 40. 5. J. Derrida, The Work of Mourning, traslated by P-A. Brault and M. Naas, Univ. of Chicago Press Bo-

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oks, 2001; J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Édition Galilée, Paris 2003. La traduzione italiana da cui si cita è stata pubblicata nel 2005 (aprile): J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Roma. Nell’edizione italiana è stata aggiunta la traduzione del breve testo che Jacques Derrida scrisse poco prima di morire perché fosse letto dal figlio Pierre durante il funerale. Il testo fu pubblicato la prima volta in Salut à Jacques Derrida, «Rue Descartes», revue du Collége international de philosophie, n° 48, Aprile 2005. 6. Un accenno alla legge dell’amicizia si trova in Memorie per Paul de Man (ed. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1995) nel punto in cui Derrida fa notare che le figure e i modi della retorica messi in risalto da de Man ricevono la loro possibilità d’essere da certe strutture paradossali come ad esempio l’inclusione, in un insieme, di una parte più grande dell’insieme stesso. Questa logica o questa a-logica «di cui non si può più dire se essa corrisponda a quella del lutto nel significato corrente del termine», regola tuttavia «tutti i nostri rapporti con l’altro, in quanto altro, vale a dire mortale per un mortale, dovendo pur sempre morire uno prima dell’altro. Sempre uno prima dell’altro» (p. 47), e dovendo quindi contenere in sé attraverso la memoria e il lutto questo altro che, in quanto altro, eccede e trascende il sé. 7. J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, cit., p. 11. 8. In Memorie per Paul de Man si legge: «Di fronte alla morte dell’altro siamo votati alla memoria, e quindi, all’interiorizzazione, visto che l’altro, fuori di

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noi, non è più nulla; noi apprendiamo che l’altro resiste alla chiusura della nostra memoria interiorizzante proprio a partire dalla luce oscura di questo nulla. A partire dal nulla di questa assenza irrevocabile l’altro appare come altro, e altro per noi, alla sua morte o almeno nella possibilità anticipata di una morte, poiché proprio questa rende manifesti i limiti di un me o di un noi obbligati ad accogliere ciò che è più grande ed altro rispetto a loro, allo stesso tempo fuori di loro e in loro» (p. 44). 9. Sul lutto ancora in Memorie per Paul de Man Derrida scrive: «L’infedeltà più mortale, persino mortifera, è forse quella del lutto possibile, che interiorizza in noi l’immagine, l’idolo e l’ideale dell’altro morto e vivente solo in noi? Oppure quella del lutto impossibile che, lasciando all’altro la sua alterità, ne rispetta l’infinita lontananza, rifiuta o si scopre incapace di assumerla dentro di sé, come nella tomba o nella cripta del narcisismo?» (p. 23). 10. J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, cit., p. 11. 11. Ricordo di passaggio che a questo tema della sopravvivenza che informa di sé tutta la sua opera Derrida ha dedicato un saggio specifico dal titolo appunto Sur-vivre (prima edizione in inglese in Deconstruction and Criticism, The Seabury Press, New York 1979, in francese in J. Derrida, Parages, Galilée, Paris 1986, ma nel frattempo tradotta in italiano da Giovanni Cacciavillani, Feltrinelli, Milano 1982) in cui cortocircuitano il romanzo o racconto lungo di Blanchot L’arrêt de mort, ossia la sentenza di condanna a morte e insieme e indecidibilmente l’arresto, la

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sospensione della sentenza di morte, e The Triumph of live di Shelley. 12. Cfr. J. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997. Il libro comprende la commemorazione vera e propria poi ristampata in Ogni volta unica, la fine del mondo e il saggio Le mot d’accueil. 13. J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, cit., p. 215. 14. Ivi, pp. 12-13. 15. E in questo caso le traduzioni sono o tardissime – Glas uscirà addirittura nel 2006 –, o parziali: di La carte postale sono state tradotte solo Il fattore della verità nel 1978 e Speculare – su “Freud” nel 2000. Recentemente è stata pubblicata una traduzione integrale di La carte postale a cura di Luana Astore, Federico Massari Luceri e Federico Viri, Mimesis, Milano 2015. 16. Poi pubblicato col titolo Feu la cendre (Fu la cenere) reso in italiano dalla traduzione di Stefano Agosti con Ciò che resta del fuoco (Sansoni, Firenze 1984). 17. Si veda il mio Walter Benjamin e la moralità del moderno, Cronopio, Napoli 2009 (Ia ed. Guida, Napoli 1984). 18. Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz, Quodlibet, Macerata 2006 (Ia ed. Guida, Napoli 1988). 19. J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, cit., p. 17. 20. J. Derrida, Aporie. Morire – Attendersi ai “limiti della verità”, tr. it. di G. Berto, Bompiani, Milano 2004, p. 54.

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21. J. Derrida, Avouer – L’impossible: «Retours”, Repentir et Réconcilation, in AA. VV., Comment vivre ensemble?, Albin Michel, Paris 2001, p. 191. 22. L’intervista di Jean Birnbaum uscita il 19 agosto 2004 si legge ora in J. Derrida, Apprendre à vivre infin, Galilée, Paris 2005, da cui cito: il passo si trova alle pagine 21-22. 23. Ivi, pp. 34-35. Previsione facile: a dieci anni dalla morte, a parte i pochi che continuano ad amarlo, la tesi prevalente nel mondo della filosofia e della intellettualità impegnata è che Derrida sia sorpassato, fuori moda, un cane morto. Allo stesso tempo ciò prepara forse una rilettura: chissà se anche questo necrologio che esce a dieci anni di distanza dal momento in cui fu pronunciato non possa far parte dell’inizio di un rilancio. 24. Ivi, p. 26. 25. Ivi, pp. 54-55.

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Note al capitolo secondo 1. Trascrizione, rivista e accresciuta, dell’intervento tenuto in occasione del convegno “Spettri di Derrida” organizzato da Maurizio Ferraris nell’ottobre del 2009 presso l’Istituto per gli Studi Filosofici “Gerardo Marotta” di Napoli. Gli atti di questo convegno sono stati pubblicati in Annali della Fondazione Europea del Disegno (Fondazione Adami), Spettri di Derrida (a cura di C. Barbero, S. Regazzoni, A. Voltolina) Il melangolo, Genova 2010. 2. Cfr. J. Derrida, Schibboleth – per Paul Celan, tr. it. di G. Scibilia, Gallio, Ferrara 1991, p. 33. Nata come una conferenza in inglese pronunciata in occasione di un «International Paul Celan Symposium» all’Università di Washington, Seattle, nel 1984, fu poi, rivista e accresciuta, edita in francese per i tipi di Galilée nel 1986. 3. Vedi supra nel primo capitolo. 4. Cfr. B. Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan, Cronopio, Napoli 1998. Per i due libri di Nancy cfr. J-L. Nancy, Le sens du monde, Galilée. Paris 1993 e L’«etica originaria» di Heidegger, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996 ristampato ora in Id., Sull’agire. Heidegger e l’etica, Cronopio, Napoli 2005. 5. P. Celan, Stretto, tr. it. a cura di M. Kahn e M. Bagnasco in Id., Poesie, Mondadori, Milano 1976, pp. 103-105. 6. Sul problema della traduzione di Aschenglorie Derrida si è soffermato in Poétique et politiques du

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temoignage, in L’Herne, Derrida, n° 83, 2004, pp. 521-539. 7. P. Celan, La verità della poesia, tr. it. di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p, 35. 8. P. Celan, Salmo, in Id., Poesie, cit, p.117. 9. J. Derrida, Schibboleth – per Paul Celan, cit., p. 32. 10. Ivi, p. 33. 11. Ivi, p. 53. 12. P. Celan, Chymisch (Metabolico), tr. it. di G. Bevilacqua in Id., Poesie, Mondadori, Milano 1998, pp. 383-384. 13. J. Derrida, Schibboleth – per Paul Celan, cit., p. 60. 14. J. Derrida, La dissémination, Seuil, Paris 1972, p. 408. Riporto la traduzione italiana di Silvano Petrosino e Marcella Odorici (Jaca Book, Roma 1989, p. 371) in cui, come si può vedere, “Il y a là cendre” è reso con “qui come cenere”: «Allontanandosi da se stessa, formandovisi completamente, quasi senza resto, la scrittura di un solo tratto rinnega e riconosce il debito. Sprofondamento estremo della firma, lontano dal centro, anzi dai segreti che vi si suddividono per disperdere perfino la propria cenere./ La lettera è sicura solo in questa indirezione, essa può mancare sempre all’arrivo: non prenderò ciò a pretesto per esentarmi dalla puntualità di una dedica: R. Gaschè, J.J. Goux, J. C. Lebensztejn, J. H. Miller, ed altri, qui come cenere, riconosceranno, forse, ciò che interviene della loro lettura».

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15. J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, cit., p. 7. Ecco l’originale: « – Il y a là cendre, quand cela fut, il y a prés de dix ans, la phrase élognait d’elle-même. Malgré sa place et l’apparence elle ne se laissait se signer, elle n’appartenait plus, un peu comme si, ne signifiant rien qui fût intelligible, elle venait de trés loin à la rencontre de son présumé signataire qui ne la lisait même pas, la recevait à peine, la rêvait plutôt comme une légende, une fumée de tabac: ces mots qui sortent de votre bouche et voint se perdre sans reconnaissance» (Ivi, p. 6). 16. B. Brecht, La scritta invincibile, tr. it. di F. Fortini in Id, Poesie, Einaudi, Torino 2005, vol II, p. 161. 17. J. Derrida, Lettera a Peter Eisemann, tr. it di F. Vitale e H. Scelza, in Id. Adesso l’architettura (a cura di F. Vitale), Libri Scheiwiller, Milano 2008, p. 212. Sul concetto di rovina in Benjamin rinvio al capitolo quinto Politica e rovine del mio Il lavoro del lutto. Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2012, pp. 135-163. 18. Ibidem. 19. J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, cit., p. 15. 20. D. Lebenskind, Interview with Daniel Libenskind Winner: the Berlin Museum Competition, in «Newsline», Columbia University, Gradiate School of Architecture, Planning end Preservation (1989), cit. in J. Derrida, Lettera a Peter Eisemann, cit., p. 214. Per altri testi di Libenskind sul Museo ebraico di Berlino si veda D. Libenskind, La linea del fuoco. Scritti, disegni, macchne, tr. it. a cura di D. Gentili, Quodlibet, Macerata 2014, soprattutto pp. 103-111.

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Note al capitolo terzo 1. M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010, in particolare pp. 5-12 e 81. 2. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009, in particolare p. 360. 3. Su questo punto mi permetto di rinviare al mio Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz, cit., pp. 91 sg. 4. Va riconosciuto tuttavia a Maurizio Ferraris di aver dato al tema della firma un ruolo decisivo nella sua teoria degli oggetti sociali come atti iscritti dal momento che la firma è il modo con cui anche il soggetto, altrimenti ineffabile, può trovare posto fra gli oggetti sociali senza doversi abolire. Resta l’impressione però che, per Ferraris, pur essendo lo stile di un uomo, l’iscrizione-espressione della sua unicità, essa non sia sufficiente per garantire un’eredità, almeno un’eredità filosofica. 5. Cfr. AA. VV., Le fins de l’homme. A partir du travail de Jacques Derrida. Colloque de Cerisy, Galilée, Paris 1981, p. 183. Per l’intervento di Nancy vedi pp. 163-182. 6. Per il testo di Derrida cfr.: D’un ton apolyptique adopté naguère en philosophie, in AA. VV., Le fins de l’homme. A partir du travail de Jacques Derrida, cit., pp. 445 sg., tr. it. a cura di A. Dall’Asta e P. Perrone in AA. VV., Di-Segno (a cura di G. Dalmasso), Jaca Book, Milano 1984, pp. 107 sg. Per il saggio di Kant

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cfr.: Von einem neuerdings erhobenen Vornehemen Ton in der Philosophie, tr. it. di F. Desideri in I. Kant, Questioni di confine, Marietti, Genova 1990, pp. 53 sg. 7. I. Kant, Di un tono di distinzione adottato di recente in filosofia, tr. it cit., p. 61. 8. Ivi, p. 66. 9. Ivi, pp. 63-64. 10. Ivi, p. 67.

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Indice

Capitolo primo “Vi amo e vi sorrido da dove io sia” Ricordo di Jacques Derrida

p. 11

Capitolo secondo La cenere ci aspetta

p. 49

Capitolo terzo Il tono e la firma L’eredità di Jacques Derrida

p. 87

Note

p. 115

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Bruno Moroncini insegna Filosofia morale presso l’Università degli studi di Salerno. Si occupa di filosofia contemporanea e in particolare dei rapporti fra filosofia e psicoanalisi. Fra i suoi libri più recenti: L’autobiografia della vita malata. Benjamin, Blanchot, Dostoevskij, Leopardi, Nietzsche, Moretti&Vitali, Bergamo 2008; Il lavoro del lutto. Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2012; Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014.

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Point d’orgue | 3

Cenere è il nome della verità, di quel che resta della verità, del fatto che la verità è sempre nulla più di un resto. Che cos’è la verità se non il fuoco che brucia, ciò che lascia il marchio, l’olocausto impossibile di cui attraverso il resto della cenere facciamo costantemente il lutto? Che cos’è cenere se non il nome della sopravvivenza di una verità morta, bruciata, differita, mai stata presente. E tuttavia sempre pronta a riaccendersi sia per bruciare gli assassini che per riscaldare i cuori? Ma Cenere era anche altro: era il resto e la sopravvivenza della verità di Auschwitz, resto e testimonianza muta dei corpi bruciati dei gasati; di cui, non lo si dimentichi, non doveva restar nulla, nessuna prova, nessuna testimonianza dello sterminio. Di questo nulla resta solo la cenere, un resto che non resta, che si disperde; un resto vulnerabile, facilmente manipolabile, di cui in ogni momento si può smentire e revocare in dubbio la testimonianza, attaccando la sua credibilità e la sua autenticità.

€ 8,00

ISBN E-book 9788898694778