L' esperienza religiosa di Paolo. La conversione, il culto, la politica 9788837226190

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L' esperienza religiosa di Paolo. La conversione, il culto, la politica
 9788837226190

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MAURO PESCE

L 'esperienza religiosa di Paolo La conversione, il culto, la politica

MORCELLIANA

© 2012 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71-25121 Brescia

Prima edizione: ottobre 2012

www.morcelliana.com

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronic� di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microtilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del l 5% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dell'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS, SLSI e CNA, CONFARTIGIANATO, CASARTIGIANI, CLAAI e LEGACOOP il 17 novembre 2005. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, telefax 02.809506, e-mail [email protected]

ISBN 978-88-372-2619-0 Tipografia Camuna S.p.A. - Filiale di Brescia, Via A. Soldini 25

PREMESSA

l . Da quando si costituì il Nuovo Testamento1 , le lettere di Paolo assunsero per le chiese un'importanza sempre più decisiva, il richiamo a Paolo divenne fon­ damentale2 . In molti momenti cruciali della storia delle differenti chiese cristiane si discusse a lungo sul signi­ ficato della figura e del pensiero di Paolo. Del resto, la natura stessa del Nuovo Testamento implica che sia necessario per le chiese confrontarsi con le fonti princi­ pali della vita religiosa, della pratica cristiana e della ri' È molto difficile stabilire quando il Nuovo Testamento, come raccolta normativa di

27 scritti, abbia cominciato a esistere ed essere accettato da

un numero abbastanza rilevante di chiese. Il cosiddetto canone Muratori, databile probabilmente alla fine del 11 secolo, ci testimonia per quell'epoca un elenco già abbastanza vasto di testi ritenuti normativi che ritroveremo successivamente nel Nuovo Testamento, compresi i quattro vangeli ritenuti poi canonici, ma l'elenco

è

in parte diverso da quello del Nuovo Testamento

conosciuto oggi dalle chiese cristiane. Anche Ireneo alla fine del 11 secolo considera normativi solo i quattro vangeli che saranno poi inseriti nel Nuo­ vo Testamento. Questi due punti di riferimento ci indicano quindi che alla fine del 11 secolo un processo di canonizzazione era in atto. All'inizio del 111 secolo, con un teologo come Origene ad esempio, questa tendenza alla

formazione di un canone di scritti normativi si

è certamente più rafforzata.

2 Certo, già precedentemente il richiamo a Paolo era stato fondamentale, ad esempio con Marcione alla metà del 11 secolo circa, ma si trattava pur sempre di scelte di correnti particolari all'interno dei gruppi dei seguaci di Gesù, non di quell'autorevolezza più ampia ottenuta mediante l'inserimento nel canone.

5

flessione teologica in esso contenute. La lettura di Pao­ lo invita perciò ancora oggi a chiedersi in che misura i cristiani siano fedeli alla sua pratica di vita religiosa e alle sue idee. Ma per risalire a quanto veramente Paolo aveva spe­ rimentato e pensava, è necessario esser� disposti a un esercizio di autocritica, bisogna essere liberi da atteg­ giamenti di autodifesa e di apologetica. Lo storico do­ vrà rendersi conto che non può prestare a Paolo il suo modo di pensare e il credente dovrà essere disposto a mettere in dubbio che il suo modo di considerare la vita religiosa personale, la pratica del culto e la politica cor­ risponda a quello di Paolo. In sostanza, bisogna confrontarsi con il Paolo stori­ co, non con l'immagine che - forse in modo interessato e accomodante - si è costruita volta per volta. La "conversione" di Paolo, la sua idea di culto a Dio e quale fosse il ruolo della politica dal punto di vi­ sta della nuova fede, sono tre tematiche assolutamente centrali. Esaminare la sua cosiddetta "conversione" ci pone al centro del!' esperienza religiosa personale, la quale poi deve tradursi in forme concrete di culto. Infine, la comunità cultuale, situata in una società con­ creta, deve porsi i l problema di quale uso fare degli strumenti della politica. Queste pagine affrontano, in modo molto parziale e sommessamente, questi tre nuclei fondamentali della vita religiosa. I problemi sono solo sollevati, non risol­ ti. Bisogna considerare la politica come uno strumento necessario per la diffusione della fede e la difesa delle chiese? Oppure Paolo ha un' idea diversa? È necessario 6

sacralizzare luoghi e legare il culto a spazi e oggetti ben localizzati o invece il luogo del culto, per Paolo, è solo il corpo e l 'interiorità dell'uomo? E in cosa consiste la "conversione"? Nell'adesione a un gruppo o nel muta­ mento di un'attitudine interiore? 2. Una riflessione critica sulle religioni ha investi­ to sistematicamente i testi del cristianesimo, e quindi anche le lettere di Paolo, almeno a partire dall'età mo­ derna, ma una critica sulle religioni è esistita fin dall'an­ tichità. Questa critica è di estrema importanza perché prende sul serio il fenomeno religioso e la sua rilevan­ za per la vita personale e associata. Una certa sindro­ me dello "scrittore cattolico"3 si è spesso manifestata in un atteggiamento polemico e aggressivo di fronte a quest'indagine critica, senza rendersi conto, a mio avvi­ so, di due elementi che avrebbero invece dovuto indurre a assumere un atteggiamento non di rifiuto, ma di con­ divisione, sebbene da punti di vista diversi. Questi due elementi consistono nel fatto che molto spesso la critica alla religione e alle chiese nasceva e nasce dall'interno degli stessi membri delle chiese e, in secondo luogo, che essa aiuta a ritrovare i fondamenti primi dell'espe­ rienza religiosa del cristianesimo. Veramente il pensiero deista e illuminista rappresenta una critica del cristia­ nesimo o non piuttosto ne costituisce un momento di ' J. Le Brun, Critique ou apologétique. A ' propos du statut de l 'écri­ vain catholique à l "age c/a.ssique, in A. Dierkens - F. Gugelot - F. Preyat - C.Vanderpelen-Diagre (ed s.), La croix et la bannière. L 'écrivain catholique en francophonie (XVlf-XXI' sèc/es) , Éditions de l'Université de Bruxelles, Bruxelles

2007, pp. 33-40.

7

riflessione critica dall 'interno? In una certa pubblicisti­ ca cristiana recente neoconservatrice, non solo cattolica ma anche ortodossa e protestante, si è manifestata una condanna radicale dell'illuminismo considerato come la negazione assoluta della religione. Ma si tratta di sem­ plificazioni gravi. In realtà, il cosiddetto illuminismo è un fenomeno molto differenziato al suo interno e i suoi protagonisti sono spesso dei "credenti". In ogni caso si tratta di un fenomeno in cui autoriflessione della reli­ gione su se stessa e tentativo di critica dal di fuori coe­ sistono e spesso si sovrappongono. D 'altra parte, all'interno delle nostre società, la convivenza di molte religioni e di molti modi non "religiosi" di pensare e di vivere obbliga ali ' esercizio dell'analisi critica fondata su rigorosi procedimenti di analisi filosofici, storico-religiosi, di scienze sociali e di scienze umane in genere. Nell'ultimo mezzo millennio, per esempio, una riflessione filosofica senza tregua ha sottoposto a esame uno dei punti centrali della teologia paolina e ne è stata stimolata. Si tratta di quella gran­ de tematica che si esprime nella celebre frase di Paolo circa "la fede senza le opere" Quando si va alla ricerca della figura storica di Paolo, per guardarne l'immagine scrostandola dalle ridipinture successive, anche il tenta­ tivo critico continuo della riflessione filosofica moder­ na deve essere tenuto presente. L'ultimo capitolo cerca di dare uno sguardo a questi lunghi e complessi dibattiti. o

3. Ci sono almeno tre tipi di esegesi con le quali si può affrontare la lettura delle lettere di Paolo e la com­ prensione della sua vicenda. La prima potrebbe essere

8

definita apologetica e utilizza la ricerca storica per con­ testare le critiche dei non credenti, tentando nel contem­ po una dimostrazione della verità del dogma. Questa esegesi era molto diffusa nella chiesa cattolica della fine del XIX secolo e si proponeva di combattere i risultati degli "acattolici" e dei "razionalisti" e sta ritornando in vigore oggi. Un secondo tipo di esegesi potrebbe es­ sere definito "pastorale" e/o teologico. L'atteggiamento apologetico e polemico della prima le è estraneo. Essa si propone di illustrare con metodi storici, o letterari, il senso dei testi neotestamentari affinché il loro messag­ gio possa essere compreso con frutto dai fedeli. Questa esegesi ha come obiettivo finale la comprensione dei testi neotestamentari, perché sono essi che vengono proclamati nella liturgia come parola di Dio o meditati nella lettura religiosa. È il testo che deve essere messo in luce. Ed esso appare, in ultima analisi, come parola di Dio. È ovvio che a questo tipo di esegesi è estraneo un atteggiamento di critica verso il testo. Esso evita l'in­ terrogazione critica sulla verità delle affermazioni che il testo propone, perché ciò metterebbe in pericolo la fede dei credenti. Il suo obiettivo è l'ascolto fedele del­ la "Parola". Esso si muove all'interno del dogma della chiesa e - nel caso del cattolicesimo - del magistero che costituisce il suo orizzonte ermeneutico. Si tratta di un'esegesi dall'interno di una chiesa. Esiste, però, anche un'esegesi che potremmo chia­ mare storica. Il suo scopo è comprendere i testi come prodotti storici al fine di ricostruire come le vicende narrate si siano effettivamente svolte. Si applica a qual­ siasi fonte utile (e non solo al Nuovo Testamento che è 9

una collezione che certamente non esiste nei primi due secoli). Essa cerca, tramite i testi, di ricostruire i fatti storici di cui i testi possono essere testimonianza più o meno attendibile. Per questo motivo, applica la metodo­ logia storica anche ai testi canonizzati e considerati dal­ le chiese come verità divina. Il suo orizzonte ermeneu­ tico non è offerto dal dogma o dal "magistero" perché sono entità dottrinali e istituzionali che non esistevano nel momento in cui gli scritti dei seguaci di Gesù dei primi due secoli furono prodotti. L'esegesi che presuppongo, e di cui presento in modo molto sintetico alcuni risultati nei primi tre capitoli, non è apologetica, non è pastorale, ma vuole essere storica. 4. I capitoli di questo libro si basano spesso su acqui­ sizioni che mi sembra di avere raggiunto in miei prece­ denti studi su Paolo. In particolare, mi sembra che egli abbia avuto un'influenza nella costruzione di "chiese" di seguaci di Gesù più in virtù del suo annuncio che della sua teologia. L'annuncio di Paolo e le istruzioni e precetti che egli dava alle chiese al momento della loro costituzione non sono esposti direttamente nelle lette­ re, ma sono per lo più da esse presupposti e qua e là ricordati brevemente. Le lettere non sono opere di an­ nuncio evangelico, ma solo opera di assistenza a chiese già istituite con l'annuncio. La teologia di Paolo è cosa diversa dal suo vangelo. Siccome però nelle sue lette­ re noi abbiamo soprattutto la sua teologia, è inevitabile che la lettura delle lettere da parte di persone che non avevano ascoltato il suo annuncio portasse a sopravva­ lutare la sua teologia e a trascurare quello che invece era lO

il nucleo fondante della sua attività: il vangelo. Certo, per ritrovare il vangelo del Paolo storico è necessaria un'opera di ricostruzione. Ma è il vangelo di Paolo che ha inciso nella prima storia dei seguaci di Gesù più che la sua teologia4• Sono poi convinto che in Paolo non vi sia nulla che travalichi la cultura giudaica e che egli viva in un mo­ mento in cui i seguaci di Gesù non fanno parte ancora di una religione diversa da quella giudaica5• L'identità dei seguaci di Gesù nelle chiese paoline è un'identità plurima, molteplice, che trova concetti solo giudaici per esprimersi: i seguaci di Gesù sono chiamati da Paolo "i santi", "i fratelli", categorie che ci riportano all'interno della cultura giudaica. Infine, proprio il fatto di vedere il centro dell'espe­ rienza e della riflessione di Paolo nel suo vangelo e nella sua attività di evangelizzatore e di apostolo che segue la crescita delle chiese, più che nella sua teolo­ gia, mi porta a considerare centrali lettere come la pri­ ma ai Tessalonicesi6 o le due lettere ai Corinzi7, piut4 M. Pesce, Le duefasi della predicazione di Paolo. Dall"evangelizzazio­ ne alla guida delle comunità, EDB, Bologna 1 994. ' A. Destro M. Pesce, Identità nella comunità paolina: santi e fratel­ li, in L. Padovese (ed.), Atti del/V Simposio di Tarso su S. Paolo apostolo, Pontificio Ateneo Antoniano, Roma 1 996, pp. 1 07-124. !id., L 'identité des croyants en Jésus au !" siècle: Le cas de Pau/ de Tarse. Inclusion et exclusion, in N. Belayche- S.C. Mimouni (eds.), Entre lignes de partage et territoires de passage. Les identités religieuses dans /es mondes grec et romain. "Pagani­ smes ", "judaismes ", "christianismes , Peeters, Louvain 2009, pp. 409-435. 6 M. Pesce, Ricostruzione del kerygma ai tessalonicesi sulla base di /Ts l , 9-10, in «Annali di Storia dell'Esegesi)) 2(1 985), pp. 23-47, ora in Id., Le duefasi della predicazione di Paolo, cit. 7 Id., Paolo e gli arconti a Corinto, Paideia, Brescia 1 977. -

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tosto che quella ai Romani. È l ' annuncio evangelico che deve essere preso come chiave di lettura della sua teologia e non viceversa8•

8 Nel

corso del libro limito al minimo le citazioni bibliografiche. Ricordo

qui solo i molti rigorosi saggi di alcuni paolinisti italiani a cui rimando le lettrici e lettori per approfondimenti. Giuseppe Barbaglio, ora scomparso:

La prima lettera ai Corinzi (EDB, Bologna 20052); introduzione e traduzione di san Paolo,

Lettere (Rizzoli, Milano 1997); La teologia di Paolo (EDB, Il vangelo di Dio nelle lettere di Paolo (San Paolo, Cini­ sello Balsamo 2002) ; Il pensare dell 'apostolo Paolo (EDB, Bologna 20052) ; Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Confronto storico (EDB, Bologna 2006). Tra i moltissimi studi di Rinaldo Fabris ricordo: Lettere di Paolo (Elledici, Torino 2009); Paolo. L 'apostolo delle genti (San Paolo, Cinisello Balsamo 1997); Paolo di Tarso (San Paolo, Cinisello Balsamo 2008); Prima lettera ai Corinzi (San Paolo, Cinisello Balsamo 1999); La tradizione paolina (EDB, Bologna 1995). Romano Penna ha molte corpose raccolte di saggi, tra cui: L 'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia (Paoline, Cinisello Balsamo 1991 ); Vangelo e interculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cul­ tura nel Nuovo Testamento [Parte quarta su Paolo] (San Paolo, Cinisello Bal­ samo 2001); Paolo e la chiesa di Roma (Paideia, Brescia 2009). Importante il grande commento alla Lettera ai Romani e quello alla Lettera agli Efesi­ ni (ambedue EDB, Bologna). Antonio Pitta ha scritto commenti importanti a diverse lettere di Paolo, ad esempio, alla Lettera ai Romani (San Paolo, Cinisello Balsamo 2009'), alla Lettera ai Galati (EDB, Bologna 20093), alla Seconda lettera ai Corinzi (Boria, Roma 2006), alla Lettera ai Filippesi (San Paolo, Cinisello Balsamo 2010) e diver.;i saggi, tra cui Paolo, la Scrittura e la Legge (EDB, Bologna 2009). Nelle generazioni passate bisogna ricordare Bologna 200J2);

Ernesto Buonaiuti e Adolfo Ornodeo.

12

I LA

CONVERSIONE

l . La conversione di Paolo, mito della cultura moderna cristiana? Si può dire con una certa sicurezza che la "conver­ sione" di Paolo1 abbia costituito in passato una delle narrazioni principali su cui si è costruita la nostra cul­ tura. Alcuni celebri dipinti di età moderna costituiscono in qualche modo una manifestazione plastica di questo racconto. Lo schema iconografico che vi sta alla base è diventato uno dei simboli principali dell'immaginario religioso moderno anche perché i modelli pittorici dei grandi artisti sono stati poi più volte ripetuti e rielabo­ rati in innumerevoli dipinti minori presenti in tante e tante chiese. Nella raffigurazione di Caravaggio, Paolo ci appare caduto da cavallo\ folgorato da una luce divi­ na che lo atterra nel momento stesso in cui sta agendo con forza per perseguitare la chiesa nascente, secondo ' Sulla conversione di Paolo cfr. R. Penna,

Vangelo e inculturazione, 288-296: Tre tipologie di conversione raccontate nel/ 'antichità: Po­ lemone, /zate deii 'Adiabene, Paolo di Tarso e pp. 536-580: Pentimento e conversione nelle lettere di San Paolo, la loro scarsa rilevanza soteriologica confrontata con lo sfondo religioso. cit., pp.

2 Come esempio fra molti della diffusione di questa iconografia, si veda la pala seicentesca della

Caduta di san Paolo attribuita a Carlo Bonomi che

si trova nella chiesa di San Paolo in Monte a Bologna.

13

il triplice racconto degli Atti degli Apostoli (9, 1 -9; 22,61 I; 26, 1 2- 1 8). Il fatto è che questa iconografia moderna ha rappre­ sentato per lunghi secoli non solo la conversione di Pao­ lo, ma anche - in modo indiretto - i rapporti tra ebrei e cristiani, tra ebraismo e cristianesimo. L'accecamento di Paolo è simile a quello della Sinagoga, rappresentata cieca nell'iconografia medievale. Cristo è la luce, l 'ebrai­ smo rappresenta le tenebre. La conversione è il passaggio dalla fede ebraica a quella cristiana. Ma l'ebraismo non è solo tenebra, è anche ostilità, ostilità mortale verso la chiesa e i cristiani. Paolo, come ebreo perseguita Cristo. Ma Dio lo annienta. Lo getta a terra e lo acceca. La sua potenza si rivela debolezza, la sua pretesa religione si ri­ vela cecità, il suo ardore persecutorio si rivela per quelle che è: odio verso la verità di Dio. L'ebraismo che si pre­ tende fedele a Dio non è in realtà che la sua negazione. In questa visione tutto è chiaro: la conversione di Paolo è la conversione dall'ebraismo al cristianesi­ mo. Questa immagine, quest' iconografia così diffusa e amata, è uno dei simboli del rapporto tra le due religio­ si. Gli ebrei debbono convertirsi al cristianesimo. Gli ebrei rappresentano un pericolo, una forza ostile che si scatena, quando può, contro i cristiani. L'immagi­ ne esprime perciò la necessità della conversione degli ebrei e la necessità di neutralizzare il pericolo che essi rappresentano. In realtà, tutta questa visione, che riduce la conver­ sione di Paolo a una conversione dall'ebraismo al cri­ stianesimo, non è necessariamente contenuta nell'ico­ nografia che conosciamo, e soprattutto non è contenuta 14

nel triplice racconto degli Atti

degli Apostoli.

Gli studi

biblici recenti ci hanno mostrato che si tratta di una co­ struzione culturale che per secoli è stata proiettata sulla cosiddetta conversione di Paolo la quale, nel racconto degli Atti e nella esperienza religiosa dello stesso Paolo, ebbe invece un altro significato. L a celebre iconografia moderna della conversione di Paolo che tuttora conti­ nuiamo a incontrare nelle nostre chiese e nei nostri mu­ sei richiede una rilettura critica. Una prima osservazione

è

che la caduta da cavallo

che fa parte di questa iconografia moderna ormai clas­ sica non è presente nel racconto degli Atti

li,

degli Aposto­

che non menziona affatto la presenza di un cavallo3•

L'iconografia antica passa da una visione in cui Paolo si getta a terra volontariamente a «una caduta subita, che fa di Paolo la vittima passiva di una prova da superare il cui emblema

è

la destabilizzazione»4• L'iconografia

del XII secolo porterà poi due ulteriori sostanziali mo­ difiche: la raffigurazione antropomorfica del Cristo e l'interpretazione della caduta come caduta da cavallo. Questa caduta diventa «l'archetipo della violenza subita che disarciona l'orgoglio»5•

3 Cfr. F. Boespflug, La conversion de Pau / dans l 'art médiéval, in Pau/ de Torse: XVI" Congrès de l 'A CFEB, Cerf, Paris 1996, pp. 147-168. ' F. Boespflug, La conversion de Pau/, cit., p. 151. 5 !bi, p. 164.

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2. La revisione dell'idea classica della conversione di Paolo, come sintomo di un passaggio culturale Un esame approfondito del tema della conversio­ ne di Paolo di Tarso ci pone al cuore di uno dei grandi problemi della trasformazione profonda che il mondo di oggi e quindi anche quello italiano sta attraversando. Un grande mutamento culturale è in atto, che investe alla radice le basi delle nostre tradizioni. Fra queste tra­ dizioni c'è anche la Bibbia e le origini del cristianesimo. Non si tratta di negare le nostre radici bibliche, ma di rendersi conto che il nostro modo di leggerle è stato per secoli determinato da una cultura che ora volge decisa­ mente al tramonto. Ma questa cultura, che è la nostra, e che per tanto tempo ci è apparsa come parte integrante del messaggio biblico, del messaggio di Gesù e di quel­ lo neotestamentario, in realtà non corrisponde al mes­ saggio biblico. La moderna scienza biblica, che ci permette di com­ prendere l'esperienza di Paolo alla luce del suo tempo, è pressoché concorde nell'affermare che non si può con­ siderare la conversione di Paolo nel vecchio senso di un passaggio di religione. Di una conversione dall'ebrai­ smo al cristianesimo, per Paolo, non si può più parlare6• 6 Ciò è ormai diffuso anche nelle pubblicazioni più divulgative e pastora­ li, cfr. per esempio P.-M. Beaudè, La conversion de saint Pau!, in «Lumière et Vie» 276(2007), pp. 33-43. Ciononostante, continua ancora oggi la vec­ chia idea di un Paolo convertito al cristianesimo, cfr. ad esempio A. Alvarez Valdés, Comment sefit la conversion de saint Pau!, in «La Terre Sa in te» 6, 56(2004), p. 22, che parla di «vocazione cristiana». Cito questo lavoro molto divulgativo proprio perché diffonde- su una rivista rivolta a un larghissimo pubblico - idee ormai abbandonate negli studi: «da quel momento Paolo fu

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Giancarlo Pani, nel

1 993,

in una panoramica delle

principali tendenze della ricerca di allora7, ricordava l'esistenza di una festa dedicata alla

Pauli,

Conversio Sancti

il 25 gennaio, nella liturgia latina.

«Non si tratta però di una festa antichissima poiché non se ne ha testimonianza prima del sec. x. L'antica liturgia romana conobbe, nel martirologio geronimiano, la Translatio S. Pauli apostoli, che solo molto più tardi divenne - forse perché si era perduto il significato della festa - Translatio et conversio S. Pauli in Damasco, o più semplicemente Festum in Conver­ sione S. Pauli: così si trova, per la prima volta, nel calendario della corte papale compilato nel 1227, poi nel messale dei Minoriti, e infine in quello di Pio V»8• Bisogna, anzitutto, dire che Paolo non è si mai con­ vertito. Certo, egli ha operato nella sua vita a un certo punto un cambiamento radicale e i grandi pittori dell'età moderna, nei loro dipinti, ci rappresentano plasticamen-

un 'altra persona, un uomo trasformato, fu battezzato da Anania e introdotto nella comunità cristiana del luogo [. .. ] È così che Paolo conobbe il cristia­ nesimo e divenne membro della chiesa che prima combatteva)) (ibi, p. 18). Qui Beaudè ripete quasi alla lettera le frasi che più di quaranta anni prima scriveva F. Amiot, Lire Saint Pau/, La Cordelle, Paris 1963: Paolo subito dopo la "conversione" comincia «a predicare ai suoi antichi correligiona­ ri)) (ibi, p. 63). La stessa visione acritica è presente in S. Sabugal, Analisis exegético sobre la conversion de san Pab/o, Herder, Barcelona 1976, p. 49: «Il salto esistenziale da giudeo osservante e zelante persecutore a cristiano e predicatore universale del vangelo)). 7 G. Pani, Vocazione diPaolo o conversione? La storia del cristianesimo dei primi secoli difronte all 'evento di Damasco, in L. Padovese (ed.), Atti de/l/lSimposio di Tarso su S. Paolo apostolo, Pontificio Ateneo Antoniano, Roma 1995, pp. 46-62, qui pp. 61-63. '/bi, p. 48.

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te molto bene questo cambiamento: Paolo accecato e at­ terrato. Si tratta certamente di un momento drammatico di cambiamento e di svolta nella sua vita. Paolo però non definisce mai il suo cambiamento di vita e di idee come una conversione, non usa mai la parola greca metanoia o il verbo metanoein per definire il proprio cambiamento. Per conversione, infatti, si possono intendere due cose diverse: il passaggio da una vita sregolata e im­ morale a una vita santa oppure il passaggio da una reli­ gione a un'altra. Nel primo caso si tratta di conversione morale: un passaggio dal male al bene. Nel secondo si tratta di conversione religiosa (un transito da un grup­ po religioso a un'altro). Nella parabola del Vangelo di Luca, in cui il figlio dissipatore, dopo avere sperperato tutti i suoi soldi con prostitute, decide di mettersi sulla retta via e torna a casa dal padre, si parla di una conver­ sione morale. Ma Paolo non si convertì da una pratica di vita immorale a una buona. Per questo, dobbiamo dire che, da questo punto di vista, Paolo non si è mai "con­ vertito". Di una sua conversione morale certamente non si tratta perché egli dice chiaramente nella Lettera ai Filippesi- che è sicuramente scritta da lui - che prima di credere in Gesù egli era «irreprensibile (amemptos) quanto alla giustizia che deriva dali' osservanza della legge)) (Fi/ 3,6) e la legge non significa solo un insieme di prescrizioni formali, liturgiche o rituali, ma la leg­ ge morale del decalogo che è il nucleo fondamentale di quella biblica. Si tratta, come dice Paolo stesso, della giustizia (dikaiosyne) che è la base della moralità ebrai­ ca. Da questo punto di vista morale, egli si definisce «irreprensibile)) prima di avere creduto in Gesù. 18

Il passaggio alla fede in Gesù non è quindi motivato dal bisogno di abbandonare una vita immorale. Paolo non aderisce a Gesù per cambiare vita. La sua non è una conversione etica. Non si tratta del grande peccatore che torna sulla retta via. Ma anche nel secondo senso del termine, quello re­ ligioso, non si può dire che Paolo si sia convertito. Chi abbandona la propria religione per aderire a un'altra è un apostata per i suoi antichi correligionari. Giuliano, il grande imperatore del IV secolo, che prima era cri­ stiano e poi abbandona il cristianesimo, è passato alla storia sotto il nome denigratorio di "apostata". Paolo non fu un apostata. Su questo punto l'esegesi è presso­ ché concorde. Nelle nostre ricerche, Adriana Destro e io abbiamo mostrato che Paolo definisce i seguaci di Gesù con due epiteti: i santi e i fratelli9, non con il termine "cristiani". Paolo non è un cristiano, ma un ebreo, come recenti libri più volte sottolineano10• Su questo punto dobbiamo fermarci più a lungo ed è bene che esaminiamo da vicino i testi che ce ne parla­ no. Anzitutto, cominceremo col dire che, se anche non bisogna parlare di conversione, tuttavia ciò che Paolo sperimentò fu un grande cambiamento e una grande svolta nella sua vita. Anzi, si trattò di un cambiamen­ to radicale e di grande efficacia e ricco di conseguen­ ze, sia pratiche che intellettuali. Gli Atti degli Apostoli, come abbiamo già detto, ci riportano per ben tre volte supra, nota 5. Eisenbaurn, Pau/ Was Noi a Christian. The Origina/ Message of a Misunderstood Apostle, HaperOne, New York 2009; W.S. Campbell, Pau! and the Creation o/Christian Jdentity, T&T Clark, London 2006. 9 Cfr. 10 P.

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l'evento che causò questo mutamento (9, 1 -9; 22,6- 1 1; 26, 1 2- 1 8). Lo stesso Paolo ne parla, soprattutto nel­ la Lettera ai Galati e nella Lettera ai Filippesi, ma in realtà in modo abbastanza diverso da quanto troviamo nei racconti degli Atti degli Apostoli. Lo storico dovrà quindi rivolgersi alle fonti più attendibili e mettere tra parentesi il racconto degli Atti, scritti trent'anni dopo le lettere dell'apostolo e da un autore di cui non siamo assolutamente certi che abbia conosciuto Paolo (anche se molti specialisti pensano di sì), ma che, comunque, spesso non presenta fedelmente il suo pensiero. Un punto di rilevanza estrema, se si vuole comprende­ re il cambiamento di Paolo è che esso non consiste nella negazione di qualcosa che egli faceva prima. Non sta nel cambiare uno stile di vita o una serie di credenze prima abbracciate e ora negate per potere aderire a altre. Il pun­ to non sta nella negazione. Il cambiamento consistette in un evento, un'apparizione di Gesù, una rivelazione che aveva come contenuto Gesù stesso. Paolo sapeva bene che Gesù era morto, ma ora il fatto che gli apparisse in una rivelazione straordinaria stava a dimostrargli che egli era di nuovo vivo: Gesù era risorto. Anzi, secondo Pao­ lo, fu Dio stesso a fargli apparire Gesù. Nella Lettera ai Galati Paolo scrive: «colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiac­ que di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai gentili» (Gal l , 1 5- 1 6). Il punto d'inizio del cambiamento sta in una conoscenza ottenuta mediante ri­ velazione. Paolo lo dice chiaramente nella Prima lettera ai Corinzi: ((Cristo apparve anche a me>> ( 1 5,8). È un'ap­ parizione di Gesù risorto che cambia la sua vita. 20

Prima di allora, Paolo non credeva che Gesù fosse risorto. Non approvava le idee dei suoi seguaci che an­ nunciavano la risurrezione di Gesù. Ora, invece, Paolo sa che Gesù è risorto e a questo punto sa che si sba­ gliava nel combattere i seguaci di lui. Nella Lettera ai Filippesi Paolo parla della «sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore)) (3,8). È il venire a cono­ scere che Gesù vive che lo convince che qualcosa di fondamentale è accaduto, che Dio è intervenuto nella storia degli uomini in un modo particolare e definitivo: l'inizio della risurrezione dei morti. Ma, in ogni caso, la fede nella risurrezione di Gesù non provoca un cambiamento di religione. Paolo era fa­ riseo'' e quindi apparteneva a un gruppo di ebrei che credevano nella risurrezione finale dei corpi morti, a differenza di altri ebrei che non consideravano fonda­ mentale questa credenza. Paolo, quindi, non cambia re­ ligione per credere in Gesù, ma- al contrario - diventa seguace di Gesù proprio perché rimane nella sua reli­ gione di prima e di sempre. Il Dio che gli rivela Gesù è il Dio biblico ebraico in cui egli credeva prima. Fu, in­ fatti, Dio stesso a fargli apparire Gesù, come già abbia­ mo detto. È, tuttavia, difficile sapere con certezza se si tratti in questo caso della stessa rivelazione di cui Pao­ lo parla nella Prima lettera ai Corinzi al capitolo 1 5,8. La teoria condivisa dai farisei della risurrezione dei morti è la dottrina che egli condivideva molto prima di diventare seguace di Gesù, ed è questa dottrina che gli permette di credere a Gesù. 11 Cfr. R. Penna, Vangelo e inculturazione, cit., pp. 297-322: Un fariseo del secolo I: Paolo di Tarso.

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Siccome Paolo credeva - in quanto ebreo - che alla fine dei tempi ci sarebbe stata la risurrezione dei corpi morti, quando gli apparve Gesù egli pensò che l'evento finale del mondo fosse arrivato perché Dio aveva risu­ scitato Gesù Cristo e gli aveva conferito un potere par­ ticolare nell 'attesa della fine imminente quando tutti gli uomini sarebbero risorti 12• Se Gesù era risorto, signifi­ cava che la fine di questo mondo era iniziata, perché era iniziata la risurrezione dai morti. Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, dice chiara­ mente che la risurrezione di Gesù è come la primizia, come i primi frutti che anticipano il raccolto che verrà dopo (cioè la risurrezione di tutti i morti). Con Gesù, la fine è appena iniziata, poi verrà davvero la fine: «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la v ita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primi­ zia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Biso­ gna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte» (JCor 15,20-26).

12 È solo dopo la rivelazione di Gesù Cristo che Paolo arriva a consi­ derare spazzatura (skybala) (Fi/ 3,8) le cose che prima considerava princi­ pali. Non è che queste cose siano sbagliate o da condannare, ma ora sono secondarie, potrebbero anche paradossalmente essere buttate via come spazzatura.

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Siccome era giunta la fine, Paolo comincia a pen­ sare che si dovevano realizzare gli eventi che le attese giudaiche del tempo prevedevano che si sarebbero rea­ lizzate nel periodo della fine (la risurrezione generale degli esseri umani, il giudizio universale finale e l'u­ nione dei santi con Dio nel paradiso), ma prima ancora della risurrezione generale avrebbe dovuto realizzarsi la conversione all'unico Dio ebraico di tutti i popoli non ebrei. Paolo pensava- come i profeti biblici (cfr. fs 60; 2,3-4; 25,6-9; 49,22-26; 5 1,4-5; 55,4-5; 56,3-8; 66, 1 822; Zc 8,20-23) - che, al momento della fine, tutte le genti (cioè i non-giudei) si sarebbero convertite all'uni­ co Dio. Anche da questo punto di vista, Paolo rimane un giudeo e non diventa un cristiano, non cambia religio­ ne. Egli ragiona da buon giudeo tradizionale. Che Paolo pensasse come i profeti biblici lo sappiamo da un brano della Prima lettera ai Corinzi: «Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi? Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse qual­ che non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti, giudicato da tutti ; sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorereb­ be Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi» (!Cor 14,23-25)13•

" M. Pesce, La profezia cristiana come anticipazione del giudizio esca­ tologico in JCor 14,24-25, in AA.VV., Testimonium Christi. Scritti in onore di Jacques Dupont, Paideia, Brescia 1985, pp. 379-438.

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Il testo del Libro di Zaccaria immaginava, infatti, che alla fine dei tempi i non-giudei sarebbero andati in pel­ legrinaggio a Gerusalemme convertendosi al Dio unico e vero, riconoscendo che «Dio è tra voi)). Ora questo si realizza nelle riunioni della chiesa di Corinto: quando un non-giudeo entra in una di quelle riunioni viene inter­ pellato da chi ha il dono profetico e riconosce "Dio è fra voi" esattamente come aveva previsto Zaccaria: ((Dice il Signore degli eserciti: "Anche popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l'un l 'altro: Su, an­ diamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eser­ citi; ci vado anch'io. Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a consultare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore". Dice il Signore degli eserciti: "In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti affer­ rèranno un giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi"» (Zc 8,20-23).

Quando Paolo dice che quando un non-giudeo entra nella comunità dei seguaci di Gesù si manifestano «i se­ greti del suo cuore)), ed egli «prostrandosi a terra)) adora Dio, sta implicitamente affermando che si realizza nella chiesa quanto previsto dal profeta Daniele: ((Allora il re Nabuccodònosor piegò la faccia a terra, si pro­ strò davanti a Daniele e ordinò che gli si offrissero sacrifici e incensi. Quindi rivolto a Daniele gli disse: "Certo, il vo­ stro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei re e il rivelatore dei misteri, poiché tu hai potuto svelare questo mistero"» (Dn 2,46-47).

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Come il re Nabuccodonosor si prostra e compie un atto di adorazione e riconosce che il Dio ebraico è quel­ lo vero perché Daniele ha rivelato dei misteri nascosti, così in seguito alla rivelazione dei segreti dei cuori da parte dei profeti della chiesa, i non-giudei riconoscono che il Dio vero è quello ebraico e si prostrano. In sostanza, l 'idea che emerge dalle ricerche recenti, è che Paolo vive e interpreta l'esperienza della rivela­ zione che cambia la sua vita come un fatto interno alla sua esperienza giudaica. Non si tratta di qualcosa che lo faccia uscire dal giudaismo, ma invece di qualcosa che lo orienta a prendere una strada precisa ali' interno del giudaismo stesso. La rivelazione cambia da alcuni punti di vista il suo modo di essere giudeo, ma in nes­ sun modo lo attenua e tanto meno lo abolisce e neppure lo pone in crisi. Come ha scritto Bruce Chilton: la conversione è «non dal "giudaismo" al cristianesimo, perché questi termini non significavano ancora qualcosa in contrasto l'uno con l'altrm>. Paolo fu inviato a «compiere lo sco­ po di Israele, non a distruggerlo>>, a «portare la relazio­ ne con Dio, che era privilegio di Israele, a coloro che non avevano mai conosciuto la legge di Mosè»14• Per Daniel Boyarin, il problema che Paolo aveva era quello di conciliare l 'esigenza universalistica della Legge biblica con il fatto che essa era rivolta a un solo popolo e conteneva elementi che lo spingevano a diffe­ renziarsi dagli altri. Questo problema derivava dalla sua 14 B. Chilton, Rabbi Pau/. An /ntel/ectual Biography, Doubleday, New York 2004, p. 62.

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doppia formazione filosofico - ellenistica da un lato e giudaica dall'altro. Così descrive Boyarin la conversione di Paolo: «Un ebreo entusiasta del I secolo che parla greco, un certo Saul di Tarso, sta camminando su una strada, con la mente tormentata da un problema su cui si arrovella. La Torah nel­ la quale egli crede fermamente pretende di costituire il testo rivelato dall'unico vero Dio di tutto il mondo, che ha creato il cielo e la terra e tutta l'umanità, e tuttavia il suo contenu­ to primario è la storia di un popolo particolare - quasi una famiglia - e le pratiche che prescrive sono spesso pratiche che segnano la particolarità di questa tribù, la sua tribù. Il motivo del tormento di Saul sta nella sua decisa dedizione alla verità dell'annuncio di quella Torah e alla sua pretesa di validità universale ... Mentre cammina, assorto e tormentato, ali' improvviso Saul sperimenta un momento di accecante in­ tuizione. Talmente ricca e rivelatrice che egli comprende che si è trattato di una rivelazione. Un'apocalisse. Proprio quella setta, !ungi dal meritare la persecuzione, fornisce la risposta al grande dilemma che Paolo ha di fronte. La nascita di Cristo come un essere umano e come un giudeo, la sua morte e la sua risurrezione in quanto spirituale e universale costituiva il modello e la apocalisse della trascendenza di quella Torah fisica e particolare, valida solo per i giudei grazie al suo refe­ rente spirituale e universale per tutti. In quel momento Saul era morto e Paolo era nato))15•

Boyarin pensa che la "conversione" sia stata prepa­ rata da un conflitto all'interno della coscienza culturale " D. Bo yarin, A Radica/ Jew. Pau/ and the Politics ofldentity, Universi­ ty ofCalifornia Press, Berkeley 1994, p. 39.

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greco-ellenistica di Paolo16. Egli vede nell'evento della rivelazione la soluzione del problema centrale del giu­ daismo del suo tempo: quello di una tendenza univer­ salistica frenata dal particolarismo della Torah biblica. Per Alan Segai, che scrisse un libro fondamentale nel 1 990, invece, la conversione di Paolo è un'esperienza mistica17 in cui - grazie al viaggio celeste descritto nella Seconda lettera ai Corinzi ( 1 2, 1 -4) - Paolo contempla la presenza nei cieli di un essere soprannaturale, Gesù, che è stato intronizzato da Dio in seguito alla sua mor­ te18. Gli studi recenti hanno molto approfondito questa ipotesi. L'estasi di Paolo consisterebbe in un'esperienza molto diffusa nel I secolo sia fra greci e romani sia fra i giudei. Il Somnium Scipionis di Cicerone ce ne dà un esempio dal punto di vista della religiosità stoica. Ma il giudaismo, sia palestinese sia ellenistico, è pieno di racconti e descrizioni del viaggio celeste19. Gli Atti degli apostoli nel loro triplice racconto insistono tutte e tre le volte sul fatto che Paolo cade a terra e l'iconografia sei­ centesca è stata fedele a questa descrizione. Ma il cade­ re a terra e perdere parte della coscienza, mentre la parte più nobile, l'anima o il pneuma, viene rapita in cielo (e lb

!bi, p. 122. 1 7 Cfr. R. Penna, L 'apostolo Paolo, cit., pp. 630-673: Problemi e natura della mistica paolina. 18 A. Segai, Paul the Convert. The Apostola/e and Apostasy of Saul the Pharisee, Yale University Press, New Haven 1992. 19 Cfr. testi e bibliografia in A. Destro - M. Pesce, The Heavenly Journey in Pau/. Tradition ofa Jewish Apocalyptic Literary Genre or Cultura/ Prac­ tice in A Hellenistic-Roman Context?, in T.G. Casey - Justin Taylor (eds.), Pau/ 's Jewish Matrix, Gregorian and Biblica! Press-Stimulus Books, Roma­ Mahwah 2011, pp. 167-200.

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ascolta e vede ciò che si dice e si fa nel mondo divino che sta al di sopra dei cieli), consiste proprio nell'espe­ rienza altrimenti molto nota del viaggio celeste. Paolo avrebbe così contemplato Gesù nei cieli, avrebbe visto la sua intronizzazione celeste. L'evento che ha trasformato la vita di Paolo non è stata quindi una conversione di carattere morale da una vita dissoluta a una vita rispettosa delle norme morali, non è stata neppure una conversione da una religione a un'altra. Non di conversione si è trattato, ma di una co­ noscenza nuova ottenuta in modo soprannaturale, me­ diante cioè una "rivelazione". Quella rivelazione gli diede la certezza che l 'uomo Gesù che era stato crocifisso era stato risuscitato e Dio gli aveva conferito un ruolo di signoria, dominio, potere soprannaturale che egli ora esercitava dai cieli. Questa rivelazione e questa conoscenza non allontanava per nulla Paolo dalla sua cultura giudaica, da quello che ora noi chiamiamo "religione" giudaica. Era il Dio giudaico che gli aveva concesso questa rivelazione e, del resto, "risurrezione", "regno di Dio", "rivelazione", erano tut­ te concezioni della cultura giudaica. Paolo era e rimane­ va soltanto ebreo. 3. Conclusione Io ritengo che il fariseo Paolo abbia interpretato la rivelazione ottenuta come la certezza che era iniziata la serie degli eventi che precedono l'avvento del "regno di Dio". È però fondamentale rendersi conto che la sua visione di quello che sarebbe stato il regno di Dio futuro 28

non era influenzata dal modo in cui Gesù immaginava il regno di Dio20, ma dal modo il cui egli lo aveva fino a quel momento pensato. Non era per lui una realtà mate­ riale. Paolo non immagina un regno di Dio terreno. Per giunta, egli era convinto che la fine di questo mondo sarebbe avvenuta di lì a poco e perciò egli immaginava che l'avvento del regno di Dio non sarebbe stato prece­ duto da un periodo millenaristico intermedio, come in­ vece penserà l 'Apocalisse e con essa molti altri teologi e testi protocristiani. Egli, da fariseo qual era, interpretò l'apparizione che egli ebbe di Gesù risuscitato come la prova dell'inizio della risurrezione finale degli esseri umani. In questo modo, Paolo - che non aveva conosciuto Gesù e non aveva ascoltato di persona il suo insegnamento - spo­ stava l'attenzione dal concetto di regno di Dio a quel­ lo di risurrezione. Questa era una profonda differenza rispetto a Gesù, una differenza che viene troppo poco considerata. Paolo chiamava il tipo di giudaismo che aveva se­ guito fino a allora "ioudaismos": «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo (en to ioudaismo), come io persegui­ tassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo (en to ioudaismo) la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal l , 13-14) .

20 Mi pennetto di rimandare a M. Pesce, Da Gesù al cristianesimo, Mor­ celliana, Brescia 20 Il, pp. 208-213.

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Joudaismos, però, non vuoi dire "giudaismo" - come ormai molti esegeti di oggi riconoscono2 1 • loudaismos non vuoi dire la religione dei giudei, ma un modo parti­ colare di intendere la religione giudaica, quel modo per il quale si tratta di sottolineare soprattutto la differenza tra giudei e non-giudei. Paolo ora, in sostanza, passa da un giudaismo concentrato sulla necessità per i giudei di vivere separatamente dai non-giudei in momenti es­ senziali della vita quotidiana personale e sociale, a un giudaismo che cerca invece la coesistenza tra giudei e non-giudei soprattutto nella ekklesia, nella assemblea in cui si svolge il culto a Dio, perché è giunto il momento della conversione finale dei non-giudei ali 'unico Dio. È per l 'urgenza della conversione dei non-giudei pri­ ma della fine che Paolo si dedica con estrema passione alla loro conversione alla fede nell'unico di Dio giu­ daico e al messia giudaico Gesù. Gesù si era dedicato solo alle «pecore perdute della casa di Israele>> e aveva chiesto ai propri discepoli di predicare solo ai giudei, di non percorrere le strade frequentate dai non-giudei e addirittura di non entrare neanche nelle città dei sama21 S. Mason, Jews, Judaeans, Judaizing, Judaism. Problems ofCategori­ zation in Ancient History, in è di una potenza politica impressionante. «l santi» nel linguaggio di Paolo, come abbiamo già detto nel I capitolo, è il termine che defi­ nisce i membri della ekklesia. "Santi" e "fratelli" sono i due termini che Paolo usa per chiamare i seguaci di Gesù. Il termine "cristiani" non esiste sulla sua bocca e nella sua mente26• «l santi giudicheranno il mondo» significa che la legge dei "santi", verrà applicata ai non ebrei. Questa di Paolo è un'immaginazione escatologi­ ca con forte valenza politica. Ci sarà un momento in cui la verità della ekklesia verrà imposta ai non ebrei, ma ciò avverrà solo nel momento finale. Paolo non sogna 26 A.

Destro - M. Pesce, L 'identité des croyants en Jésus au l" siècle, cit.

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di impadronirsi della società del suo tempo e instaura­ re tribunali che seguano la legge escatologica del Dio di Israele. L'affermazione che i santi giudicheranno il mondo è politica in quanto implica che il potere dei gentili sta per finire. Qui però è il punto: la condanna del potere politico dei gentili non avviene politicamen­ te, non si tratta di instaurare un potere politico del Dio giudaico e della sua legge a Corinto. Questo tenteranno di fare e faranno i cristiani a partire dal IV secolo, ma non Paolo. La condanna del potere politico dei gentili, per lui, avrebbe dovuto realizzarsi tra breve, ma solo per opera di Dio. E solo allora i seguaci di Gesù, "i santi" avrebbero giudicato il kosmos. L'atteggiamento di Paolo verso le realtà politiche era sostanzialmente giudaico. Tra il giudaismo di Paolo e il giudaismo di altre correnti, c'è però una differenza rile­ vante, se pensiamo per esempio a Flavio Giuseppe nelle Antichità Giudaiche e alla maggioranza degli ebrei della diaspora di allora, come traspare anche dagli A tti degli Apostoli che pur riflettono un'evoluzione rispetto a Pao­ lo. I giudei della diaspora cercano di ottenere diritti per vivere secondo le proprie tradizioni religiose, ma non contestano le tradizioni religiose della polis nella quale si trovano. Vogliono integrarsi27, non distruggere quelle che Parsons chiamava le basi culturali del sistema socia­ le. Secondo Parsons, infatti, le società, per essere unifi­ cate, hanno bisogno del potere politico, la cui autorità si basa su norme e leggi. Le quali tuttavia sono riconosciu27 A. Destro - M. Pesce, Conflitti di integrazione. Le prime chiese e le comunità ebraiche nella polis, in lid., Antropologia delle origini cristiane, Laterza, Bari-Roma 2008', pp. 39-63.

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te universalmente valide nella misura in cui riflettono la base culturale del sistema sociale. È la base cultura­ le, perciò, a costituire il fondamento ultimo del sistema sociale. Parsons distingue bene base culturale, sistema sociale e potere politico28• Paolo predica proprio contro le basi culturali del sistema sociale. La sua è, infatti, una predicazione anti-idolatrica. Nelle comunità ebraiche della diaspora, certo, il monoteismo era un elemento caratterizzante e differenziante. Gli ebrei della diaspora consideravano gli dèi delle altre religioni come divinità false. Il concetto di "idolatria" era stato coniato proprio dagli ebrei per deprezzare i culti delle religioni politei­ ste, ma gli ebrei della diaspora non facevano del mono­ teismo uno strumento di critica aspra con il fine di fare proseliti. Certo, si accettavano le conversioni di coloro che erano attratti dal culto sinagogale, ma il monoteismo ebraico non cercava di imporsi a scapito dei culti politei­ sti tradizionali. La predicazione paolina, invece, investi­ va radicalmente la base culturale del sistema sociale del­ lapo/is con una attiva e militante critica "anti-idolatrica" (cfr. l Ts l ,9- 1 O e Ga/ 4,8-9)29• Si tratta di una differenza rilevante. Quello di Paolo è un tipo di giudaismo molto più aggressivo del giudaismo integrativo della diaspora. Gli ebrei della diaspora vogliono integrarsi. Paolo, inve­ ce, predicando contro le basi culturali del sistema socia­ le, compiva un'azione che era indirettamente distruttri­ ce del potere politico. Se, infatti, accettiamo lo schema parsonsiano, visto che il potere politico trae la sua forza 28 Mi permetto di rimandare ancora al mio L 'inevitabile rapporto tra religioni e potere: prospettive socio antropologiche, cit., pp. 22-25. 29 M. Pesce, Le due fasi, cit., pp. 63-9 1 .

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coercitiva dalla coerenza dei propri ordinamenti con il sistema culturale (e questo sistema è sempre, in ultima analisi, religioso), investire criticamente quel sistema si­ gnifica porre in crisi anche il sistema politico, seppure in modo indiretto e non intenzionale. Possiamo concludere dicendo che esiste certamente un aspetto politico o una conseguenza politica indiret­ ta della predicazione paolina, ma questa conseguenza viene situata non nella società, ma in un momento im­ minente che dovrà realizzarsi solo a opera di Dio e non mediante un'azione "politica" dei seguaci di Gesù. In Paolo è, quindi, assente un uso politico immediato del messaggio religioso, è però implicita una minaccia po­ litica che forse si realizzerà in futuro. C'è un'altra dimensione, però, nel pensiero di Paolo, che attutisce ulteriormente la valenza politica. Si tratta del fatto che tutti i concetti politico-religiosi giudaici, e forse anche gesuani, subiscono in Paolo una trasmuta­ zione, una trasformazione: da politico-religiosi diventa­ no cosmici o mistico-cosmici. Il concetto di regno di Dio, per esempio, è fonda­ mentale per la concezione politico-religiosa biblica e giudaica nella Terra di Israele. Esso esprime un'inscin­ dibile fusione di elementi politici e religiosi che sta al cuore delle aspettative ebraiche. Dio verrà a instaurare il suo regno nel mondo. Ciò implicherà anche una fun­ zione tutta particolare di preminenza di Gerusalemme e di Israele sulle nazioni. Per Gesù l'avvento del regno universale di Dio era centrale, mentre il tema della risurrezione era seconda­ rio. Se leggiamo i tre vangeli di Marco, Matteo e Luca 90

vediamo che di "regno di Dio" o "regno dei cieli" Gesù parla moltissime volte (ad esempio più di 30 volte nel Vangelo di Luca e ancora di più in quello di Matteo, in Marco 1 4 volte) mentre di risurrezione Gesù parla solo nel dibattito con i sadducei: cfr. Mc 1 2, 1 8-27 Il Le 20,27-33 Il Mt 22,23-3 1 e forse nel discorso sul segno di Giona (cfr. Le 1 1 ,29-32; Mt 1 2,39-4 1 ; 1 6,4). Si discu­ te se le predizioni della propria risurrezione (Mc 8,3 1 ; 9,3 1 ; 1 0,34 e passi paralleli; cfr. Gv 3 , 1 4; 8,27; 1 2,32.34) siano state realmente pronunciate da lui. Quando Gesù dopo la trasfigurazione parla della sua risurrezione (Mc 9,9- l 0), i tre discepoli sembrano addirittura non capire di cosa si tratti. In tutto il pensiero di Gesù, perciò, il tema della risurrezione non sembra avere un ruolo siste­ mi co fondamentale. In Paolo, invece, avviene esattamente il contrario: il tema della risurrezione è prevalente. Quello del regno di Dio sembra abbastanza secondario ( J Ts 2: 1 2; JCor 4,20; 6,9- 1 0; 1 5,24. 50; Gal 5 ,2 1 ; cfr. Col 4: 1 1 ; 2Ts l ,5), mentre il concetto centrale, il punto di Archimede di tutto il suo pensare teologico, è la risurrezione: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ri­ cevuto: che cioè Cristo mori per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la mag­ gior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli» (JCor 1 5,3-7). «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come posso­ no dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se

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non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predica­ zione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risor­ gono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati)) (JCor 15,12- 17).

Il regno di Dio per Paolo è escatologico e celeste, questo è il punto. Perciò è "cosmico", più che politico. Non è un fatto che viene a modificare l'assetto attuale della storia. Dio eserciterà la sua sovranità non nella for­ ma di regno terreno e politico, ma come una sovranità di carattere cosmico. Anche lo strumento dell'annuncio di questo futuro regno cosmico e non terreno-politico, che è l'ekklesia, ha la natura di un'assemblea cultuale, non è un ethnos. L' ekk/esia non è il luogo della signoria di Dio sulla storia, ma il luogo della trasmissione dello Spirito di Dio ai credenti, i quali anticipano - nell'amore reci­ proco - l' eschaton, il regno futuro. Paolo distingue tra l' ekk/esia, il regno cosmico di Cristo e il regno finale di Dio: «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primi­ zia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo

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aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, per­ ché Dio sia tutto in tutti» (lCor 1 5 ,20-28).

Il "regno di Cristo" domina fino alla resurrezione di tutti gli uomini. Si tratta di un periodo intermedio du­ rante il quale regna Cristo, non la chiesa: non è il tempo del dominio terreno della chiesa ma è il tempo del Si­ gnore Gesù che sta nei cieli, del kyrios celeste. Per comprendere la natura del "regno di Dio" che inizierà quando sarà finito il "regno di Cristo", è ne­ cessario rendersi conto di cosa sia la risurrezione uni­ versale di tutti gli uomini che ne costituisce l 'inizio. Nel capitolo I 5 della Prima lettera ai Corinzi, Paolo cerca di spiegare quale sia la natura dei corpi che ri­ sorgeranno (l Cor 1 5,35-50). Si tratta di corpi "cele­ sti", in greco epourania ( 1 5,40), dotati di immortalità, aftharsia ( 1 5 ,42). Il corpo che risorge è "spirituale", in greco: soma pneumatikon. Parlare di corpi spiritua­ li, somata pneumatika, sembra una contraddizione in termini. Ma questa contraddizione nasce dal fatto che i corpi risorti vivranno nel regno di Dio finale che non è più fisico-terreno. Questo chiarisce abbastanza bene che il concetto di regno di Dio finale per Paolo è di tipo cosmico, non 93

storico e politico. Sono assenti sogni millenaristici ter­ reni. Il regno di Dio finale, dopo il regno messianico, è qualche cosa di celeste. Il politeuma (la cittadinan­ za) è celeste. La battaglia che il re messianico celeste, Cristo, deve compiere non è contro carne e sangue: è contro le potenze, l'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte. Siamo vicini al Vangelo di Giovanni, per il quale l 'obiettivo fondamentale è quello di scacciare il "Principe di questo mondo". Ciò avviene, secondo Giovanni, mediante una lotta cosmica tra il Logos che discende nel mondo, viene apparentemente annientato con la crocifissione e, attraverso la sua morte, scaccia il "Principe di questo mondo". Siamo di fronte a con­ cezioni mistico-cosmiche. Mentre, però, nel libro dell'Apocalisse, come ab­ biamo detto, sussiste un millenarismo di carattere sto­ rico e materiale, in Paolo questa prospettiva sembra eliminata. Sia il regno intermedio di Cristo sia quello finale di Dio sono destoricizzati e cosmicizzati. Que­ sta trasmutazione di concetti politico religiosi in con­ cetti "cosmici", attutisce ancora la dimensione politica del pensiero paolina. 7. Una prima modificazione strutturale, rispetto al pensiero storico di Paolo, si avrà quando la maggio­ ranza delle comunità dei seguaci di Gesù si separerà dalle comunità giudaiche e nascerà il cristianesimo come religione autonoma e autosufficiente, cosa che solo nella seconda metà del 11 secolo può essere chia­ ramente verificata. Una seconda grande modifica si avrà quando le comunità cristiane cesseranno di esse94

re delle minoranze estranee alla detenzione del potere politico e inizierà una lenta e decisa cristianizzazione dell'impero anche nelle sue istituzioni e nelle sue leg­ gi. Ma questo avverrà solo tra il IV e il VI secolo, prima che nel VII secolo l 'islam, conquistando ampie zone tradizionalmente cristiane, provochi un nuovo cam­ biamento radicale della situazione politico-religiosa. La cristianizzazione dell'impero romano e la reazione all 'islam sono due delle premesse che stanno alla base delle grandi formulazioni della teologia politica cri­ stiana in età medievale e moderna, quando in Occiden­ te i cristiani vivranno all'interno di formazioni statali cristiane, in situazioni, cioè strutturalmente differenti da quelle di Paolo. L'età successiva, quella iniziata idealmente negli ul­ timi 25 anni del XVIII secolo, caratterizzata da forma­ zioni statali tendenzialmente laiche che si basano sul rispetto dei diritti civili dei singoli, è anch'essa profon­ damente diversa da quella di Paolo, il quale viveva in una società in cui era impossibile distinguere religione e politica, laicità e religione. La situazione attuale, infine, caratterizzata da una ri­ nascita potente della funzione politica della religione è, ancora una volta, incomparabile con quella paolina, in quanto le comunità paoline e in genere tutte le prime co­ munità di seguaci di Gesù dopo la sua morte erano ben lontane dal rivendicare la funzione pubblica e politica che le religioni avevano nell' Ancien régime, ed erano ben lontane dal problema del doversi misurare con la visione complessiva della vita prodotta dall'età moder­ na e contemporanea. 95

Per tutti questi motivi un influsso della teologia po­ litica paolina storica (o se si preferisce, autentica) sulle teologie politiche cristiane dal IV secolo a oggi è sostan­ zialmente inesistente. È invece presente un tentativo continuo di giustificare teorie politiche cristiane ricor­ rendo a concezioni paoline staccate dal loro contesto e deformate nel loro significato storico originario. Ma il tentativo di legittimare teorie cristiane con puntelli ap­ parentemente paolini è ben altra cosa da un influsso del pensiero storico di Paolo. 8. In conclusione, nella sua radice il messaggio di Paolo, come quello di Gesù, è politico, perché l'annun­ cio dell'imminente avvento del regno di Dio implica concezioni e aspirazioni inscindibilmente religiose, eti­ che e politiche. Si tratta tuttavia di una dimensione po­ litica indiretta e non intenzionale perché l ' instaurazione del regno è pensata come un atto del solo Dio che si rea­ lizzerà alla fine. Paolo attutisce l 'aspetto politico della predicazione di Gesù perché alla redenzione del mondo sostituisce la risurrezione dei corpi e assegna ai con­ cetti politico-religiosi una dimensione cosmico-celeste. L'ambivalenza storica e politica, ma anche cosmica e celeste, attuale ma anche escatologica che caratterizza sia Gesù sia Paolo si manterrà sempre in tutta la storia cristiana successiva. Con la fine dell'attesa di un'im­ minente instaurazione del regno da parte del solo Dio, comincerà a prevalere l'aspirazione a una funzione po­ litica della chiesa con lo scopo di instaurare in qualche misura il regno di Dio sulla terra. Questa tendenza por­ terà a una rilettura dei testi paolini in funzione politica 96

che ne snaturerà il senso originario. Tuttavia, nella sto­ ria di tutte le chiese, a questa lettura politica si alternerà sempre una visione mistica, spirituale che, tuttavia, non riuscirà mai a prevalere o a cancellare l'aspirazione al potere, al dominio e a volte anche all'intolleranza. Ma di questa interpretazione non politica e spirituale non ho potuto parlare in queste pagine.

97

IV

«PER FEDE, SENZA LE OPERE DELLA LEGGE» (Rm 3,28)

Il pensiero moderno di fronte a una tematica teologica paolina

l . Sono convinto, come ho già detto, che in Paolo sia necessario distinguere aspetti diversi: la sua esperienza religiosa personale, la sua attività di "apostolo" che an­ nuncia il "vangelo" e si occupa delle "chiese"' a cui ha dato vita, e infine la sua teologia che riflette sopra quel messaggio, spesso all 'interno di dibattiti e contrasti im­ previsti. Tuttavia, è soprattutto come teologo che Paolo ha avuto un grande influsso nella storia delle chiese cri­ stiane. Un enorme dibattito teologico si è sviluppato per secoli, un dibattito che si è fatto più accanito in alcuni momenti cruciali. Si pensi solo al ruolo che la riflessio­ ne sulla teologia paolina ha giocato al momento della Riforma protestante. In queste pagine mi limito a commentare un passo di Paolo nel suo significato e nel suo impatto con il pensie­ ro filosofico. Si tratta della frase della Lettera ai Roma­ ni 3,28: «per fede, senza le opere della legge», che nella versione latina accettata dalla Vulgata Sisto-clementina suona: «per fidem sine operibus legis». La traduzione 1 M. Pesce, Le due fasi della predicazione di Paolo, cit.

99

latina qui è importante perché sarà la versione latina a essere presa spesso in considerazione in età moderna. Questa frase nella teologia di Paolo condensa un aspetto centrale del suo pensiero e nello stesso tempo riguarda direttamente l'esperienza religiosa. In essa, Paolo sem­ bra dire che la salvezza si ottiene per fede senza le opere che si dovrebbero compiere per eseguire i precetti del­ la Legge proclamata da Dio. La preposizione "senza" conferisce un tono radicale, assoluto, all'affermazione di Paolo che perciò è stata oggetto non solo di interro­ gazioni, ma anche di contestazioni esplicite. 2. Prima di entrare nella storia dell'interpretazione moderna di questo passo è necessario chiarire l'impor­ tanza oggi di ripercorrere alcuni momenti del confronto tra pensiero moderno e messaggio cristiano prim itivo. Pina Totaro e Tullio Gregory, sintetizzando un aspet­ to di un vasto progetto del lessico Intellettuale Euro­ peo, hanno affermato che «la lettura delle Scritture e la loro esegesi costituisce [ ... ] un momento essenziale - benché sin qui alquanto trascurato dagli storici della filosofia - nella elaborazione della storia dei concetti e nella definizione della terminologia filosofica, oltre che teologica))2 • D'altra parte, in questo processo di forma­ zione dei concetti filosofici occidentali in stretto rap­ porto con la tradizione biblica ebraica e cristiana, la fi­ losofia ha anche prodotto - a sua volta - concetti nuovi per comprendere questa tradizione. Penso per esempio 2 T.

ricerca,

1 00

Gregory, Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di Firenze 2006.

Olschki,

al concetto di monoteismo che sembra prodursi solo nel secolo nell'ambito del platonismo di Cambridge. Un concetto che oggi è al centro di un dibattito che si interroga sulla sua validità in relazione a religioni come ebraismo, cristianesimo e islam. Si tratta, del resto, di un problema che non riguarda solo la filosofia. Se guar­ diamo le scienze sociali, la sociologia e l'antropologia, verifichiamo anche in questo caso che la tradizione delle sacre scritture ebraiche e cristiane sta all'origine di non pochi concetti socio-antropologici che derivano dalla Bibbia e dalla sua interpretazione. Si pensi solo a quelli di "messianismo", "profetismo", o di "carisma". Non bisogna dimenticare che la storia comparata delle religioni, che nasce alla fine del XVII secolo come ha sostenuto Guy Stroumsa3, si manifesta anch'essa con la necessità di elaborare un nuovo sistema categoriale. Queste discipline, ma in verità tutte le discipline umanistiche, attraversano oggi un difficile processo di autonomizzazione da quell'apparato concettuale cristia­ nocentrico, nel tentativo di produrre un sistema concet­ tuale finalmente più universale in grado di comprendere - in base alla loro somiglianza e differenza - un ampio spettro di fenomeni appartenenti a tutte le culture uma­ ne. J.-Z. Smith è all 'origine di un dibattito all'interno della Society of Biblica/ Literature sulla possibilità di sostituire concetti socio-antropologici e storico-religiosi XVII

' G.G. Stroumsa, Comparatisme et philo/ogie. Richard Simon et /es ori­ gines de l 'orientalisme, in F. Boespflug F. Dunand (eds. ) Le comparatisme dans l 'histoire des religions, Cerf, Paris 1997, pp. 47-62; G.G. Stroumsa - 1. Le Brun (eds. ) Les Juift presentés aux Chretiens: textes de Leon de Modene et de Richard Simon, Les Belles Lettres, Paris 1998. -

,

,

101

a quelli teologici per comprendere comparatisticamen­ te i fenomeni religiosi del cristianesimo delle origini4• Ma l 'esigenza della filosofia e delle scienze sociali di autonomizzarsi dalle categorie concettuali che nascono in stretto rapporto con la tradizione biblica percorre la filosofia moderna e forse le tappe di questo processo di autonomizzazione potrebbero costituire uno dei criteri per sondare l'evoluzione della nostra cultura filosofica e non. Del resto, questo processo ha dei paralleli anche nell'iconografia e nell'evoluzione delle arti figurative occidentali. Quando possiamo dire che nasca un'ico­ nografia indipendente dagli influssi (diretti, dialettici o polemici) dello straordinario complesso iconografico che fa riferimento alle Scritture ebraiche e cristiane? Si pensi solo all'istinto polemico di Gauguin contro il mito ebraico e cristiano di Eva, la donna primordiale. La questione è resa ancora più complessa dal fatto che il ricorso alla tradizione filosofica e culturale greca in contrapposizione a quella ebraica e cristiana offre solo apparentemente una via di uscita dall'influsso delle Scritture ebraiche e cristiane perché l'assunzione da parte del cristianesimo della filosofia greca fa parte del­ la sua stessa formazione, si pensi a Giustino a Origene e a tutta la tradizione teologica di tipo platonico in cui esperienza cristiana e visione platonica della vita sono ' 1.-Z. Smith, Drudgery Divine. On the Comparison ofEarly Christiani­ ties and the Religions ofLate Antiquity, in 9• Ma anche l'interpretazione era­ smiana di Rm 5 , 1 2 fa subito dopo problema a Lutero. Secondo Lutero, Erasmo «non ritiene affatto che l'A­ postolo nel capitolo v della Lettera ai Romani parli del peccato originale - che tuttavia egli ammette. Ma se egli leggesse le opere di Agostino contro i Pelagiani, soprattutto sulla lettera e lo spirito, o sulla remissione dei peccati, o contro le due epistole dei Pelagiani, o contro Giuliano, scritti che si trovano quasi tutti nella parte ottava delle opere, si deciderebbe probabilmente - sulla base dell 'interpretazione di importantissimi pa­ dri come Cipriano, il Nazianzeno, lreneo, Ilario, Olim­ pio, Innocenza, Ambrogio - non solo a comprendere rettamente l'Apostolo, ma anche a dare a Agostino un credito maggiore di quanto abbia fatto finora»10• Nella contrapposizione tra Erasmo e Lutero viene alla luce con una forza drammatica particolare una questione centrale. Quale ruolo è possibile assegnare all'azione morale dell 'uomo nel suo tentativo di ottenere la sal­ vezza futura? Quale è il compito assegnato all'uomo nella sua vita terrena? Quale deve essere il rapporto tra l'atto morale affidato alla libertà e alla volontà dell'uo­ mo e l'atto di fede nell'intervento di Dio? 4. La frase di Rm 3,28 fa parte di una piccola unità letteraria che va dai vv. 3 , 1 9 fino a 3,30, e all'interno di essa va letto:

9 WABr 10

l , 70,4-7. 70,7-1 6.

WABr I,

1 06

«Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendente­ mente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testi­ moniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c ' è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mez­ zo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato esclu­ so ! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla leg­ ge della fede. Noi riteniamo infatti che l ' uomo è giustificato

per la fede senza (choris) le opere della legge. Forse Dio è Dio soltanto dei giudei? Non lo è anche dei gentili? Certo, anche dei gentili ! Poiché non c ' è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi».

Certo, il brano non si può isolare dai primi 1 8 vv. del capitolo e tanto meno da quello che giustamente Char­ les K. Barrett indicava come «tema principale» della lettera e cioè la «questione circa la giustizia di Dio in rapporto alla legge e al cristiano)), tematica che corri­ sponde anche al «nucleo del suo vangelm> 1 1 • 11

C.K. Barrett, La teologia di San Paolo. Introduzione al pensiero

1 07

Il ragionamento di Paolo non procede da una verità generale che viene poi applicata a un caso particolare. Parte invece da un fatto, da un avvenimento, del cui si­ gnificato egli si proclama assolutamente certo: «Egli (Dio) manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù>> (3,26).

(

Ciò avviene perché Cristo Gesù ha realizzato la re­ denzione. Dio infatti ha giustificato tutti «gratuitamente

per la sua grazia, in virtù della redenzione re­ (3,24).

alizzata da Cristo Gesù»

Questa ((redenzione» è stata operata, ovviamente, dalla morte e risurrezione di Gesù. Ora, quello che Pao­ lo aggiunge a questo ragionamento sono due elementi: l . per appropriarsi della giustificazione è necessaria la fede in Gesù; 2. tutti gli uomini hanno bisogno di questa redenzione perché tutti hanno peccato, cioè trasgredi­ to la legge, tutti sia giudei sia non-giudei (cioè il resto dell'umanità). Il ragionamento di Paolo nella Lettera ai Galati e anche nella Lettera ai Romani è il seguente: se la salvezza venisse sulla base dell'adempimento della legge, la morte di Cristo sarebbe inutile. Ora questo sembra dimostrato per Paolo sulla base di un fatto: che Cristo sia morto per i nostri peccati secon­ do le Scritture e poi risorto come Paolo stesso afferma dell 'apostolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1 996 (orig. ingl. Pau/. An lntro­ duction to His Thought, Chapman, London 1 994), p. 67.

1 08

in J Cor 1 5,3-5 12• Il ragionamento di Paolo, che la giu­ stificazione viene non per l 'esecuzione della legge, ma per la fede in Gesù Cristo, non parte dali' esperienza del fallimento dell'atto morale, dall'impossibilità di compi­ re il bene, sperimentata nella sua vita (come peraltro si potrebbe anche pensare sulla base del capitolo 7 della Lettera ai Romani) ma dal fatto che Dio ha deciso di inviare il suo figlio per salvare l 'umanità mediante la morte del figlio. Da questo, Paolo deduce che il com­ pimento dell'atto morale (nel suo linguaggio, l 'obbe­ dienza alla legge) in sé non è più sufficiente (e secondo Paolo non lo è mai stato). In sostanza, tra l 'uomo e la legge si frappone "Cristo Gesù", il messia Gesù. Senza di lui è impossibile diventare giusti agli occhi di Dio. Come si vede, il ragionamento presuppone una serie abbastanza importante di concezioni religiose giudaiche tradizionali (legge, peccato, giustificazione, redenzione, morte salvifica, risurrezione, fede, ma anche quella del giudizio finale) e un insieme di fatti storici interpretati teologicamente: il fatto che la morte di Gesù sia volontà di Dio e abbia effetti salvifici e che Gesù sia risorto, cioè che sia tornato in vita, da morto che era, e che que­ sto abbia un effetto salvifico13• 12 Che la frase: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici)) non sia una creazione teologica di Paolo, ma formu­ lata da ambienti di seguaci di Gesù a lui precedenti e perciò estremamente antica, sembra chiaro sia a partire dalla formula che l'introduce «Vi ho tra­ smesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevutm>, sia dal linguaggio usato che non sembra sempre tipicamente paolino. " Tralascio questioni estremamente rilevanti: liberazione da cosa? dal

1 09

Insita nel brano è anche la concezione di una più o meno universalistica concezione della salvezza. Non solo gli ebrei sono destinati alla salvezza, ma qualsiasi uomo. Scriveva Giuseppe Barbaglio14: «credere è infat­ ti una grandezza transculturale, propria delle persone che sc�ono e decidono, e non di soggetti dotati o no di qualità religiose, etniche, morali, socio-economiche (Rm 3,28))). Ma, in realtà, stabilire che la salvezza viene per la fede in Gesù Cristo restringe proprio la salvezza a quelli che credono in lui. Cioè toglie universalità al cre­ dere che non ha più per oggetto Dio solo, ma soprattutto Cristo. Nel momento in cui si pone quest'affermazio­ ne, immediatamente si eleva una differenza, si precisa un'esclusione, si crea un gruppo esclusivo. Tutt'altro che transculturale. Una questione enorme che non po­ teva che perpetuare nell'Occidente la contrapposizione ebrei e cristiani, una contrapposizione che ha attraver­ sato tutta la storia occidentale e continua a affliggerla in assenza, tutt'ora, di un'adeguata risposta alla questione ebraica da parte cristiana. In questo contesto, appare anche il tema dell'espia­ zione sacrificate, che tanti esegeti rifiutano come dot­ trina paolina, ma che comunque appare in uno dei passi più centrali di tutta la sua teologia (Rm 3,2 5 : Dio «lo ha fatto hilasterion, espiazione, mediante la fede nel suo sangue))). Questa difficoltà a ammettere un'interpre­ tazione sacrificate dell'azione salvifica della morte di peccato o dal giudizio imminente di Dio? e la fede salva anche a prescindere dalla partecipazione m isterica alla morte di Cristo nel battesimo?

EDB,

14 G. Barbaglio, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Confronto storico, Bologna 2006, p. 1 90.

11o

Gesù è legata a tutta una serie di tematiche che riguar­ dano valutazioni sul valore religioso dei sacrifici e dei riti in contrapposizione a atti religiosi ritenuti più puri e autentici o spirituali, riguarda la contrapposizione tra un culto ebraico ed uno cristiano e può ripercuotersi sulla dottrina del sacerdozio cristiano stesso15• 5 . Visto che mi concentrerò sulla frase per fidem, sine operibus legis, «per fede, senza le opere della leg­ ge>> e sulle sue ripercussioni filosofiche, mi sembra op­ portuno mostrare come questa concezione abbia avuto delle ripercussioni enormi sul modo con cui la rifles­ sione filosofica occidentale ha concepito l 'atto morale. È libero l'uomo oppure è sottoposto a forze talmente determinanti del male da non riuscire a raggiungere un comportamento morale buono? Oppure l'uomo è costi­ tuito da una natura in sé pervertita che minaccia sem­ pre di travolgere l 'intenzione morale buona e positiva del soggetto umano? Queste sono domande che sono state strettamente legate al testo paolino. Ma siccome poi Paolo nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani sembra sostenere che il compimento della legge è pos­ sibile grazie allo Spirito che viene infuso nel credente (Rm 8,9- 1 3), sembrerebbe che un vero comportamento morale sarebbe possibile solo ai credenti. Se la malva­ gità dell'uomo è superata solo dalla fede e dalla grazia, quale legittimità pubblica e civile in uno stato cristiano si potrà dare a chi credente non è, visto che la sua mo15

Cfr. il recente libro di

La concezione paolina,

G. Pulcinelli, La morte di Gesù come espiazione.

San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, almeno le pp.

364-367.

111

ralità sarà necessariamente insufficiente? Certo, Paolo afferma che la legge non è affatto abolita dalla sua ar­ gomentazione: «Togliamo dunque ogni valore alla leg­ ge mediante la fede? Nient'affatto, anzi confermiamo la legge» (3,3 1 ). Dal punto di vista di Paolo la cosa in fondo è chiara. La legge ha una funzione ineliminabi­ le: rendeèoscienti del bene da fare e del peccato che consiste nella sua trasgressione. La legge è perciò asso­ lutamente necessaria e lo è anche per altri due motivi: perché lo Spirito santo aiuta poi il credente a compierla, come già ho detto, e perché ha una funzione pedago­ gica, conduce a Cristo e a invocare la sua grazia che permette di sfuggire alla trasgressione di cui la legge ci rende consapevoli. Ma di quale legge si tratta? Della legge ebraica pro­ clamata da Dio sul Sinai nella sua totalità oppure dei suoi soli aspetti rituali? Oppure si tratta della legge naturale? Oppure di qualsiasi legge e di tutte le leggi positive delle organizzazioni statuali? Il testo della Let­ tera ai Romani, canonico e normativo per la teologia, lasciava aperte alla filosofia delle società cristiane tutte queste questioni. 6. Non si può tacere il fatto che questa complessa visione teologica sembra molto lontana dalla predi­ cazione di Gesù. Il centro della predicazione di Gesù consiste nell'annuncio della imminenza dell'avvento del regno di Dio. In attesa di questo avvento gli uomi­ ni sono invitati con urgenza a convertirsi per sfuggire all 'ira che Dio manifesterà presto nel suo giudizio fi­ nale deli 'umanità. Poi arriverà il regno di Dio e Gesù 1 12

denuncia spietatamente ogni comportamento che è in contrasto con la giustizia e la misericordia che Dio esige. Per entrare nel Regno bisogna convertirsi, biso­ gna smettere di agire male, smettere di peccare. Gesù esige sostanzialmente due atteggiamenti pratici: fare il bene ed essere disposti a perdonare le trasgressioni degli altri. In vista del giudizio finale, Dio è dispo­ sto a perdonare completamente i peccati di ciascuno, purché ciascuno perdoni agli altri le trasgressioni che essi hanno compiuto nei propri confronti16• Il centro del messaggio di Gesù è ben rappresentato da una serie di suoi detti: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc

l , 1 5);

«Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modO>) (Le

13,3).

Nel Vangelo di Matteo una delle invocazioni della preghiera del Padre nostro afferma: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori)) (Mt 6,1 2)17•

16 Sul perdono dei peccati in Gesù cfr. A. Destro - M. Pesce, Forme cul­ turali del cristianesimo nascente, Morcelliana, Brescia 20062, pp. 1 23- 1 5 1 . 1 7 DJ. Harrington, The Gospel of Matthew, The Liturgica! Press, Col­ legeville, Minnesota 1 99 1 , p. 95: «The idea of granting a release of debts appears in Deut 1 5 : 1 -2», cioè nel contesto delle leggi sull'anno sabbatico. Cfr. J. Jeremias, Il padrenostro alla luce dell 'indagine moderna (orig. ted.: Das Vater-Unser im Lichte der neueren Forschung, Calwer Verlag, Struttgart 1 976), in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1 993, p. 48.

1 13

La versione di Luca

(Le 1 1 ,4), invece del termine

«debiti», usa il termine ((peccati», conserva però la pa­ rola debitori (((perché anche noi rimettiamo a chiunque è nostro debitore»). Ciò induce a pensare che la versio­ ne di

Matteo sia quella più originaria e che Luca abbia

corretto solo una parte della invocazione senza riuscire a eliminare completamente la metafora debito/peccato che la strutturava. Probabilmente il problema sorgeva nel passaggiÒ dall'aramaico al greco. In aramaico il ter­ mine ((debitm> aveva ormai assunto da tempo, oltre al suo significato economico-sociale, anche il significato di peccato religioso. In greco, invece, la parola ((debi­ ti» forse non veicolava questa complessità di significati religiosi e sociali strettamente connessi, ed era perciò opportuno scegliere il termine «peccati» più nettamente connotato in senso religioso 18• Con questa invocazione ci avviciniamo al massimo della attendibilità storica della concezione di Gesù. In sostanza, per Gesù, ottenere la remissione dei pec­ cati da parte di Dio è possibile e non c ' è bisogno di al­ cuna espiazione. Né di alcuna funzione di Gesù nell'ot­ tenimento del perdono da parte di Dio. Gesù non media il perdono dei peccati . Per Paolo, la mediazione di Gesù Cristo è invece imprescindibile e l'uomo non può ottenere la remissio­ ne mediante l 'amore reciproco. Ma un'altra sostanzia­ le differenza o spostamento di fuoco sta nel fatto che per Gesù il regno di Dio è qualcosa che investe diretta18 Cfr. J. Jeremias, Il padrenostro.. , cit., p. 47. J. Gnilka, Il Vangelo di Matteo. Testo greco, traduzione e commento. Parte prima, Paideia, Brescia 1 990, pp. 3 1 8-324.336-346, qui p. 322. .

1 14

mente la vita sociale, si pensi alle beatitudini; riguarda la liberazione del popolo di Israele e il rovesciamento dei rapporti tra gli uomini; consiste nell'instaurazione di un nuovo ordine sociale. Per Paolo, invece, il posto centrale che aveva in Gesù il concetto di regno di Dio viene assunto dal concetto di liberazione dal peccato. Il motivo di questo spostamento sta nel fatto che mentre per Gesù al centro sta la concezione del regno di Dio e della liberazione del giubileo levitico (cfr. Le 4, 1 6- 1 9 e Lv 25,8 ss.), per Paolo al centro sta la risurrezione, come abbiamo già visto: «se Cristo non

è risorto, è vana la vostra fede e voi siete anco­

ra nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti ! » 19

(!Cor 1 5, 14-20)19•

Gli studi relativamente recenti su Paolo sono andati alla ricerca del

Paolo e il giudaismo palestinese, 1 985, ha riassunto cosi a ragione il pensiero di Paolo: �30•

Sotto la grazia, invece, «anche se certi desideri della carne, finché siamo in questa vita, lottano contro il nostro spirito per indurlo al peccato, tut­ tavia lo spirito, non consentendo a tali desideri poiché è ben radicato nella grazia e nella carità di Dio, smette di peccare»31 •

I n Agostino, la riflessione sulle condizioni dell'uo­ mo, la riflessione antropologica, diventa fondamentale: il tema paolina è interpretato con una griglia filosofico­ teologica di tipo antropologico-filosofico. l O. Mi sembra interessante notare come un altro grande classico del pensiero teologico cristiano, Tom­ maso d'Aquino, commentando questi passi paolini mo­ stri un sostanziale disinteresse per le tematiche della corruzione invincibile del cuore de il 'uomo. Tommaso è molto più preoccupato che non si escludano le opere dopo la fede: dopo la frase paolina «senza le opere della legge)), Tommaso commenta: «in modo tale tuttavia che si intenda senza le opere che prece­ dono la giustizia, non senza quelle che seguono, perché, come

30 Agostino, Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Roma­ nos, I l , secondo la traduzione di M.G. Mara, Agostino interprete di Paolo, cit., p. 1 0 1 . " Agostino, Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Roma­ nos, I l ; Mara (Agostino interprete di Paolo, ci t., p. l 02).

1 23

è detto in Giacomo 2,26: La fede senza le opere susseguenti è morta. E per questo non può giustificare» (m, 3 1 7)32 •

In sostanza Tommaso corregge Paolo con Giacomo. I l . Nel frattempo, tra l 'XI e il XII, secolo si era veri­

ficata una svolta epocale: l'introduzione del concetto di natura autonoma, su cui tanto ha insistito T. Gregory33• «La realtà nuova che il naturalismo del XII secolo aveva ri­ scoperto attraverso letture platoniche e stoiche, ermetiche e peripatetiche, si dispiegava così in tutta la sua ricchezza: la nuova idea di natura non indicava solo la presa di posses­ so del mondo fisico attraverso la ricerca della sua "legitima causa et ratio", al di là delle trasposizioni allegoriche e sim­ boliche, ma era la scoperta del valore di una realtà terrestre e "profana" che veniva a mutare anche la concezione dell'uo­ mo, la sua posizione nel mondo, il suo impegno intramon­ dano. Era nata una philosophia mundi come nuovo capitolo della storia culturale europea»34 •

Qui mi sembra particolarmente efficace la tesi che riemerge più volte nelle pagine di Gregory: 12 Tommaso D'Aquino, Commento alla lettera ai Romamfl. l· Vlll, a cura di L. de Santis e M.M. Rossi, revisione a cura di P. Siniscalco, Città Nuova, Roma 1 994, p. 2 1 4. '' T. Gregory, Mundana Sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1 992, i tre seguenti artico­ li: Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale (capitolo iniziale); L 'idea di natura nel/a filosofia medievale prima dell 'ingresso del­ la fisica di Aristotele (pp. 77- 1 1 4); La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au Xli' sièc/e (pp. 1 1 5- 1 44); cfr. la recensione di M. Pesce, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa» 33 1 ( 1 995), pp. 355-36 1 . 34 T. Gregory, Mundana sapientia, cit., p. 1 14.

1 24

«un mutamento radicale si avrà quando un diverso concetto di ratio si verrà proponendo all'Occidente latino attraverso la conoscenza di esperienze e forme di sapere estranee alla tradizione patristica e altomedievale [ . . . ] in concreto sono le traduzioni di testi filosofici e scientifici greci e arabi che fan­ no scoprire una nuova idea di natura e con essa una nuova concezione di ragione e di scienza non più rette dalle leggi, dall'ordo e dalla ratio dell'esegesi>>35 •

Per illustrare questo tema, Gregory fa più volte ri­ corso a Adelardo di Bath e a Guglielmo di Conches. Di questa vasta tematica vorrei sottolineare un argomento particolare, ma centralissimo. Forse quello centrale in senso assoluto. È la conoscenza scientifica della natura, che porta a una divaricazione tra il modo di conoscenza ispirata alla nuova ratio e un modo di conoscenza basa­ to sulla Scrittura. Due citazioni da Guglielmo di Con­ ches sono esemplari: «Non enim ad litteram credendum est deum excostasse pri­ mum hominem. [ . . . ] Sed quoniam ipsi nesciunt vires naturae, ut ignorantiae suae omnes socios habeant, nolunt aliquem eas inquirere, sed ut rusticos nos credere nec rationem quaere­ re» (Philosophia) [«Non bisogna credere alla lettera che Dio abbia tolto una costola al primo uomo - ( ... ) Ma poiché essi ignorano le forze della natura non vogliono che qualcuno le indaghi affinché tutti siano partecipi della loro ignoranza e vogliono che noi crediamo come dei bifolchi, senza cercare una ragione»]36•

JS !bi, p. I O. 36 lbi, pp. 1 3 . 1 5.89.

1 25

«Auctores veritatis philosophiam rerum tacuerunt, non quia contra fidem, sed quia ad aedificationem fidei de qua labo­ rant, non multum pertinebat)) (In Boethium) [«Gli Autori sacri non parlarono della filosofia naturale non perché fosse contro la fede, ma perché non era molto pertinente all'edifi­ cazione della fede di cui si preoccupanm>]37•

Certo, l'argomentazione per la quale la Scrittura sa­ cra, avendo per scopo l'edificazione della fede, non si preoccupa di insegnare le discipline profane è già ago­ stiniana. Ma ciò che è nuovo è l'idea di natura. Questa concezione nuova porta a una rivoluzione nel rapporto tradizionale tra il «liber naturae» e il «liber scripturae». Quest'ultimo non è più una integrazione conoscitiva perché sia possibile meglio comprendere la dimensio­ ne simbolica della natura il cui scopo è essenzialmente quello di condurre a Dio mediante la creazione. La na­ tura ha una validità e una struttura in sé. 1 2 . Durante i grandi dibattiti della Riforma prote­ stante, mentre cattolici e riformati si contrapponevano, tra l'altro, anche sull'interpretazione della giustificazio­ ne senza o con le opere della legge, e mentre riusciva­ no a volte - come nel Colloquio di Ratisbona ( 1 546) a trovare proprio sulla giustificazione un difficile accordo provvisorio, fallito poi per l 'impossibilità di intendersi su altre tematiche38, nasceva in Europa una riflessione JJ

Jbi, p.

14.

Cfr. una parte del testo nell'antologia di E. Campi, Protestantesimo nei secoli. Fonti e Documenti. l. Cinquecento e Seicento, C1audiana, Torino 1 99 1 , p. 86. 38

1 26

differente sollecitata proprio dal bisogno di distanziar­ si dalle contrapposizioni di chiese vecchie e nuove. È perciò per me particolarmente emozionante rileggere alcune pagine di Delio Cantimori nei suoi Eretici italia­ ni del Cinquecento39• Cantimori racconta40 il dialogo tra Michele Pulliano e Anton Mario Besozzi, un seguace di Bernardino Ochino e Lelio Sozzini, avvenuto nella fiera d'autunno di Zurzach nel l 564: «l due italiani si conoscevano da tempo, ma le loro relazioni erano rimaste d'affari, benché solessero spesso sedere a men­ sa insieme, quando si incontravano alla fiera di Zurzach, e

avessero spesso, prima o dopo del momento culminante della fiera, discusso di religione. Sempre per iniziativa del Besozzi; e discutevano sempre nella loro lingua, riferendosi alla Sacra Scrittura. Quando il Besozzi aveva dichiarato che il peccato d 'A damo non si era trasmesso agli altri uomini di genera­ zione in generazione, il Palliano gli aveva risposto citando il passo di san Paolo sui due uomini che avevano l'uno portato il peccato, l 'altro la grazia sulla terra. Ma il locamese aveva rifiutato l 'argomentazione, e il discorso era passato all'altro

è stata annunciata, e ci è è perché noi possiamo adempiere a quest 'obbligo; altrimenti Dio non ce l 'avrebbe proposta. Dio è buono e giusto, non ingiusto come lo volete voi». argomento, sulla legge divina: se ci

dato l 'obbligo di ubbidirle,

In queste frasi di Besozzi si fa chiara la connessione tra i due passi paolini (Rm 3 ,28: «per fidem sine operi­ bus legis» e Rm 5 , 1 2: «in quo omnes peccaverunt») nel­ la percezione della discussione teologica. Si fa strada un 39

Riedizione a cura di A. Prosperi, Einaudi, Torino 1 992. pp. 274-275.

40 /bi,

1 27

modo di interpretare e vivere il cristianesimo che è sot­ tratto sia all'ortodossia cattolica sia a quella protestante. Non c'è trasmissione del peccato di Adamo e la funzio­ ne di Gesù è quella di additare agli uomini un modo di ubbidire alla legge di Dio che tutti possono eseguire, un Dio che proclama una legge che può essere osservata, ma che è anche «buono)), cioè misericordioso nel per­ donare. Le sacre Scritture mantengono un ruolo impor­ tante, ma non così esclusivo, come fonte di verità, posto il ruolo fondamentale dell'argomentazione razionale. «"Dio è buono e giusto, ma non alla maniera in cui voi l ' im­ maginate", rispondeva il Palliano, - "perché è vero che noi uomini non siamo in grado di adempiere alla legge che Dio ci ha dato, ma egli ha mandato Cristo per pagare i nostri pec­ cati col suo sacrificio. E voi, Besozzi, potete dire di avere del tutto adempiuto alla legge?" "No, perché sono troppo uomo e debole. Ma ci sono altri, che l 'hanno adempiuta, e che posso­ no adempierla, e non soltanto Cristo" "Quali? Nominatemene qualcuno". "Volentieri, il profeta Zaccaria". E qui si sollevò una discussione sulla peccaminosità del profeta Zaccaria, sol­ levata dal Palliano, per il quale egli era più peccatore ancora di altri profeti, perché non aveva creduto ali' Arcangelo Gabriele. Il Besozzi avrebbe addotto frivole ragioni, e avrebbe addirit­ tura rifiutato di accettare la testimonianza della Scrittura, dalla

quale il Palliano traeva la conclusione che Zaccaria aveva pec­ cato di disubbidienza. Qui il fioretino s'alzò da tavola, perché era tardi, e avvertì il Besozzi che le sue dottrine erano perico­ lose per chi le sosteneva: il che gli attirò male paro)e))41 •

4 1 !bi, pp. 274-276. Una rapida sintesi del pensiero d i Fausto Sozzini, dal quale Mario Besozzi dipende, è presentata da Cantimori alle pagine 348-359 soprattutto alla pagina 352.

128

In sostanza, il periodo che inizia con la riforma pro­ testante non deve essere visto solo come un momento di reazione alla chiesa medievale e come il costituirsi di chiese separate dalla chiesa di Roma con una diver­ sa teologia e struttura istituzionale, ma anche come lo scatenarsi di una discussione libera sulle origini cristia­ ne e sull'interpretazione da dare ai testi del primo cri­ stianesimo. Per decenni l'Europa fu percorsa da ampi dibattiti. Ogni aspetto del formarsi del cristianesimo fu sottoposto a nuova indagine, rivisitato da libere do­ mande. Questa situazione di libertà di interrogazione, di ridiscussione di ogni aspetto dottrinale, istituzionale, spirituale, morale e politico, non poteva durare a lun­ go. Ben presto anche le chiese protestanti raggiunsero la propria ortodossia. Lo spazio rimasto fra le chiese, al di fuori delle chiese, per una libera e continua inter­ rogazione doveva ridursi progressivamente. Credo che oggi siano da rileggere oltre a questo libro su Gli Eretici italiani del Cinquecento (del 1 939) di Delio Cantimori, anche il libro classico di Paul Hazard, La crisi della co­ scienza europea che Giuseppe Ricuperati ha ripubblica­ to da poco presso la casa editrice UTET con una ampia introduzione42• I due libri tracciano due periodi diversi dello scatenarsi della libera ricerca anche sulle origini del cristianesimo in Europa. Perché l'esegesi del testo potesse restituire il senso del formarsi storico delle concezioni paoline sarebbe stato però necessario che le lettere di Paolo fossero stu­ diate a prescindere dal presupposto, a esse esterno, che 42

Torino 2008.

1 29

esse costituiscano un pensiero annonico al proprio inter­ no e un sistema armonico con le restanti parti del canone neotestamentario. La percezione delle diversità non ar­ monizzabili interne al canone si fa strada in età moderna a partire dalla seconda metà del XVI secolo e soprattutto nel XVIII secolo, per esempio con Griesbach43• 1 3. Mentre in Europa il dibattito cattolico-protestan­ te aveva un rilievo enorme, altre strade venivano per­ corse per creare dei sistemi di pensiero e in generale dei sistemi simbolici alternativi a quello cristiano. Verso la fine del Cinquecento, Giordano Bruno, per esempio, nella sua opera Cabala del cavallo pegaseo, del 1 58544, prendeva nei confronti di Paolo un atteggiamento fon­ damentalmente differente. Lo straordinario significato dell'opera di Bruno sta nel fatto che il cristianesimo nel suo insieme, la figura di Gesù e soprattutto il pensiero di Paolo vengono sot­ toposti a critica, sulla base di una conoscenza esegetica precisa dei testi paolini, evangelici e neotestamentari in genere. In Bruno troviamo il tentativo di rifiutare tut­ to un sistema culturale e di avviarsi verso una nuova percezione e spiegazione della realtà sociale e cultura­ le. Bruno è la dimostrazione che l 'aspirare a una nuova visione della realtà non basta. Bisogna anche criticare quella presente e bisogna criticarne, soprattutto, il siste" M.H. de Lang, De opkomst van de hislorische en literaire kritiek in de synoptische beschouwing van de evange/ien van Calvijn (1555) tot Grie­ sbach (1 774), Gegevens Koninklijke Bibliotheek, Den Haag, Leiden 1 993. G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, a cura di F. Meroi, Rizzoli, 44

Milano 2004.

1 30

ma simbolico di base, l'insieme delle concezioni consi­ derate fondamento e legittimazione del vivere comune, dall'organizzazione dello spazio e del tempo al control­ lo dei corpi. Bisogna demolire questo apparato culturale che pretende verità autonoma, pur non essendo altro che rappresentazione simbolica. Nella Cabala del cavallo pegaseo, Bruno critica in�ieme Paolo, Aristotele e Sesto empirico, esempi tutti e tre di "asinità", cioè di ignoran­ za, che secondo Bruno non può essere considerata una virtù da nessun punto di vista e va perciò combattuta: «SEBASTO: Or ecco come si distingueno le specie dell' igno­

ranza ed asinitade, e come vegno a mano a mano a conde­ scendere per concedere l 'asinitade essere una virtù necessaria e divina, senza la quale sarrebe perso il mondo, e per la quale il mondo tutto è salvo. SAULINO: Odi a questo proposito un principio per un'altra più

particular distinzione. Quello ch'unisce l ' intelletto nostro, il qual è nella sofia, alla verità, la quale è l ' oggetto intelligibile, è una specie d' ignoranza, secondo gli cabalisti e certi mistici teologi; un'altra specie, secondo gli pirroniani, efettici ed altri simili; un'altra, secondo teologi cristiani, tra' quali il Tarsen­ se la viene tanto più a magnificare, quanto a giudicio di tutt'il mondo

è passata per maggior pazzia)).

È cioè un intero panorama culturale che è sottoposto a critica, nel quale le tre componenti appaiono a Bruno non poi così discoste le une dalle altre. La critica in­ veste interi settori del sistema concettuale perché è il cristianesimo stesso a essere criticato. Tutto l'apparato concettuale deve essere privato della pretesa di verità: natura e grazia, mito delle origini e del peccato, la con131

cezione stessa di Dio. Bruno rivolge la sua critica non solo ai concetti, ma anche al sistema ecclesiastico e alla sua pretesa di dominio. La critica a Rm 3,28 «per fidem, sine operibus le­ gis» viene presentata da Giordano Bruno all 'interno e quasi come culmine di una sua analisi estremamente provocatoria: «Forzatevi, forzatevi dunque a esser asini.

O voi che siete

uomini; e voi che siete già asini, studiate, procurate, adattate­ vi a proceder sempre da bene in meglio, a fin che perveniate

non per scienze et opre, quantunque grandi, ma per fede s 'acquista4S, non per a quel termine, a quella dignità, la quale

ignoranza e misfatti comunque enormi, ma per incredulità (come dicono secondo l'Apostolo) si perde»46 .

Nella frase «non per [ ... ] opre, [ ... ], ma per fede s'acquista» risuona chiaramente la critica alla conce­ zione paolina espressa nel perfidem, sine operibus le­ gis. Per Bruno, è inconcepibile che la dignità dell 'uo­ mo si «perda» «per incredulità», per la mancanza della fede e non piuttosto per «ignoranza» o per avere com­ piuto dei «misfatti». A questo proposito Fabrizio Meroi nelle sue note os­ serva che «Bruno pensa in particolare ai riformati, cioè a coloro che riprendendo e radicalizzando le afferma­ zioni paoline, incarnano ai suoi occhi la massima de­ generazione dell'insegnamento cristianm)47• Ma è forse " Corsivo mio. 46 G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, cit., pp. 94-95. " !bi, p. 95.

1 32

più probabile che Bruno pensi semplicemente al pensie­ ro paolino in sé. Bruno non riabilita semplicemente le opere nei confronti della fede, ma muta i valori princi­ pali: conoscenza e opere creative, degne dell'uomo, co­ stituiscono il criterio di valore, non la fede. All'opposto sta l 'ignoranza e i misfatti, non l'incredulità. La mia proposta di lettura di questa critica bruniana, nel contesto di questa ricerca, è che Bruno non riesca a liberarsi della critica distruttrice e della beffa. Si vedano per esempio pagine come queste: «0NORIO: Cossì è certo, per dirti ingenuamente come l ' in­

tendo al presente. Perché nessuno deve essere inteso più ch'egli medesimo mostra di volersi far intendere; e non doviamo andar perseguitando con l 'intelletto color che fuggono il nostro intelletto, con quel dir che parlano cer­ ti per enigma o per metafora, altri perché vuolen che non l 'intendano g l ' ignoranti, altri perché la moltitudine non le spreggie, altri perché le margarite non sieno calpestrate da porci; siamo dovenuti a tale ch'ogni satira, fauno, malenco­ nico, embreaco ed infetto d'atra bile, in contar sogni e dir de pappolate senza construzione e senso alcuno, ne vogliono render suspetti de profezia grande, de recondito misterio, de alti secreti ed arcani divini da risuscitar morti, da pietre filosofati ed altre poltronarie da donar volta a quei ch'han poco cervello, a farli dovenir al tutto pazzi con giocarsi il tempo, l ' intelletto, la fama e la robba, e spendere sì misera - ed ignobilmente il corso di sua vita. SEBASTO: La intese bene un certo mio amico; il quale, avendo

non so se un certo libro de profeta enigmatico o d'altro, dopo avervisi su lambiccato alquanto dell 'umor del capo, con una grazia e bella leggiadria andò a gittarlo nel cesso, dicendogli: - Fratello, tu non voi esser inteso; io non ti voglio intendere;

133

- e soggionse eh ' andasse con cento diavoli, e lo lasciasse star con fatti suoi in pace».

L'uso continuo della beffa dimostra, a mio parere, l'estrema difficoltà a produrre un sistema di vita pratica alternativo al cristianesimo e di legittimazione concet­ tuale di esso. Con Bruno siamo al cuore della critica del sistema concettuale biblico e cristiano, ma non tanto alle soglie di una costruzione concettuale nuova, pro­ prio perché l 'opera distruttrice è assolutamente essen­ ziale e primaria. Bruno non riesce a pensare in modo nuovo se non ha prima criticato e distrutto. La strada scelta da Thomas Hobbes nel Leviatano, circa cinquantant'anni dopo, sarà molto diversa. Me­ diante l 'esegesi biblica, nel capitolo 32, Hobbes cer­ cherà di stabilire una visione nuova del testo biblico, ma considererà come norma di verità per l 'interpreta­ zione della Bibbia, l 'autorità della regina di Inghilter­ ra, capo dello stato e della chiesa anglicana. Il potere eversivo della Bibbia va arginato, ma non può essere eliminato. Bruno sembra lottare invece per un mondo senza Bibbia. 1 4. A metà degli anni Novanta del Cinquecento, veniva alla luce, in altra parte di Europa, il Chizzuch Emunah, un'opera di un ebreo karaita, ltzchach ben Abraham di Troki48• L'opera avrebbe avuto una grande 48 Johann Cristoph Wagenseil pubblicò nel 1 68 1 , in versione latina,

il

Chizzuk Emunah (sive Munimen Fidei), insieme ad altre opere, in un libro dal titolo: Tela Ignea Satanae. Cfr. l'edizione di D. Deutsch, Befestigung im Glauben von Rabbi ltzchak Sohn Abrahams s. A. neu herausgegeben mi/

1 34

fortuna all'interno del pensiero europeo. Itzchach so­ stiene che la concezione di Gesù sulla salvezza è diver­ sa da quella degli apostoli, come è presentata negli Atti degli Apostoli. Gesù chiedeva infatti «piena obbedienza alle leggi di Mosè per ottenere la salvezza»,

gli apostoli invece chiedono la fede in Gesù Cristo (Atti 1 5, 1 - 12; 1 6,30-3 1 ). La seconda parte dell'opera consiste in un esame di passi veterotestamentari per mostrare che di essi una in­ terpretazione cristiana non è corretta. L'importanza del Chizzuch Emunah, dal nostro pun­ to di vista, è rilevante perché afferma la necessità di una ricerca su ciò che poi si chiamerà Gesù storico da diffe­ renziare dal Cristo della fede successiva degli apostoli. Si pone esplicitamente il problema di quali siano le dot­ trine «veramente insegnate da Gesù». Scrive Itzchach: «abbiamo osservato che lo stesso Gesù e i suoi discepoli os­ servarono il santo sabato e che solo alcuni secoli dopo la sua morte un papa ordinò che il primo giorno della settimana e non il settimo dovesse essere tenuto come giorno di riposo. In questo modo noi dimostriamo che questa innovazione è

contraria alle dottrine autentiche insegnate da Gesù»49 •

Il Chizzuch Emunah mostra la differenza tra Gesù, vicino alla concezione ebraica, e Paolo e sostiene anche vebesserlen hebriiischen Texte { . .] vermehrt mit einer Uebersetzung { . .], Sohran, Breslau 1 873. 49 Chizzuk Emunah, 11,30.

135

la necessità di una interpretazione della Bibbia ebraica che non la pieghi a significati cristiani che le sono estra­ nei. Il presentarsi degli Ebrei come interlocutori autono­ mi all 'interno di una società europea ha fra l 'altro una condizione necessaria: quella di restituire un significato ebraico al testo della Bibbia ebraica, ma ciò è impos­ sibile senza una critica all'esegesi e all 'interpretazione cristiana. Il Chizzuk Emunah, la cui fortuna è stata poi notevole, ebbe il merito di diffondere una serie di tema­ tiche che allora cominciavano a formarsi. Prima fra tutte la necessità di ricuperare la consape­ volezza dell' ebraicità di Gesù: «È noto che in nessuna parte del Nuovo Testamento troviamo che Gesù volesse apparire come autore di una nuova legge, ma al contrario che ammettesse la durata perpetua della legge 50 di Mosè» •

In secondo luogo, appare la distinzione tra Gesù e il cristianesimo successivo. E non è un caso che uno dei punti essenziali della polemica esegetica di Isaac ri­ guardi proprio Rm 3,28. Isaac, dopo avere citato la Lettera di Giacomo da 2,14 fino alla fine del capitolo, scrive: «L'autore di questa epistola sostiene che le buone opere sono superiori alla mera fede e poi continua: "Non fu Abramo, nostra padre giustificato dalle opere quando offrì Isacco suo figlio sul l 'altare. Così anche non fu Rahab, la prostituta, giu­ stificata per le opere quando ricevette i messaggeri e li mandò 50 !bi,

1 36

Parte II, introduzione.

via per un'altra strada? Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così la fede senza le opere è anche morta". L'opinione citata qui va contro Paolo che nella sua Lettera ai Romani 3,20 scrive: "Perciò, mediante le opere della legge nessuna carne sarà giustificata". E ancora egli dice nello stesso capi­ tolo al versetto 28: "perciò concludiamo che un uomo è giu­ stificato per fede senza le opere della legge"».

Poi Isaac cita i passi di Ga/ 2 , 1 6 e l'intero capitolo 3 e infine la Lettera agli Ebrei 1 1 , 1 7 e 3 1 . Conclude: «Noi Ebrei non siamo ansiosi di dare una soluzione alle di­ screpanze che si trovano nel Nuovo Testamento e decidere se si trova una maggiore verità nell'una o nell'altra opinione. Tutte le nostre aspirazioni sono di adottare uno stile di vita conforme esattamente alla Legge santa che ci dice (Dt 6,25) che ci sarà computato come giustizia se noi osserveremo e compiremo tutti questi comandamenti»5 1 •

1 5 . Nel suo Trattato teologico-politico, successivo di circa trent'anni al Leviatano di Hobbes, Baruch Spi­ noza rovescerà completamente l'assunto di Paolo in Rm 3,28. Per Spinoza la fede è «de Deo talia sentire, quibus ignoratis tollitur erga Deum oboedientia, et haec oboedientia posita, necessario ponuntuo> [«pensare di Dio quelle cose senza le quali cade l'obbedien­ za verso di Lui, e che dall'obbedienza verso di Lui derivano necessariamente»].

" Parte 11, cap. 93.

1 37

Spinoza ne deduce alcune conseguenze: « l ) La fede è salutare, non per sé, ma soltanto in rapporto ali' obbedienza, ossia, come dice Giacomo in 2, 1 7, per sé la fede senza le opere è morta; e intorno a ciò vedi l' intero capitolo citato di questo apostolo. Segue

2) che colui che è

veramente obbediente ha necessariamente una fede vera e sa­ lutare. Abbiamo detto infatti che, posta l 'obbedienza, deve essere posta necessariamente anche la fede, ciò che anche il citato apostolo insegna espressamente in

2, 1 8, dicendo: "di­

mostrami la tua fede senza le opere e io ti dimostrerò la mia fede dalle mie opere"»52 .

Spinoza ritorna più avanti, senza dirlo esplicitamen­ te, su altre teorie e frasi paoline: «Dio perdona i peccati a coloro che ne sono pentiti. Infat­ ti nessuno è che non pecchi53, e se non si stabilisse questo principio tutti dispererebbero della loro salvezza, né avreb­ bero alcun motivo di credere nella misericordia di Dio; men­ tre colui che crede questo fermamente, e cioè che Dio per la misericordia e per la grazia con cui dirige ogni cosa perdona i peccati degli uomini, e che per questa ragione si accende maggiormente d'amore verso Dio, questi realmente conobbe il Cristo secondo lo spirito, e il Cristo è in lui» 54 •

In sostanza, per Spinoza l'uomo ha la possibilità di fare il bene. L'obbedienza alla legge garantisce la sal52 B. Spinoza, Trallato teologico-politico, traduzione e commenti di A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 1 984, pp. 346-347. 51 Corsivo mio per evidenziare la citazione implicita di Paolo. 54 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., pp. 349-350.

138

vezza. I peccati sono inevitabili, ma sono perdonati da Dio per la sua misericordia. Cristo è solo colui che inse­ gna a credere nel perdono che Dio concede ai peccatori, non colui che sostituisce l'obbedienza alla legge con la giustificazione che viene dalla fede. Libertà e pos­ sibilità di obbedire alla legge sono elementi essenzia­ li e fondamentali. Spinoza cerca di trovare nel Nuovo Testamento e in particolare nella lettera di Giacomo e in una sua lettura della Prima lettera di Giovanni una teoria che stemperi quella paolina. Non c'è nulla di più interessante, per esaminare il costruirsi della concettua­ lità filosofico-politica europea in rapporto stretto con le scritture ebraico-cristiane, che la lettura della trattatisti­ ca teologico-politica del XVII secolo (e non solo quella di Spinoza e Hobbes, naturalmente). 1 6. Nel 1 695 John Locke pubblicava la sua Ra­ gionevolezza del Cristianesimo. Mario Sina ha cerca­ to di interpretare il pensiero di Locke in quest'opera scrivendo: «Non si è più a una fase puramente critica. L'insegnamento di Cristo e degli Apostoli, contenuto negli scritti del Nuovo Testamento, è da Locke ricono­ sciuto di provenienza divina. [ . . . ] La Ragionevolezza del Cristianesimo non è più allora un'opera di filoso­ fia, ma esplicitamente di teologia, o meglio un'opera di attenta esegesi biblica))55• Certo, bisogna però do­ mandarsi quale sia il rapporto tra esegesi e filosofia, la cui compresenza è una caratteristica anche del Levia" M. Sina, Introduzione. Ilpensierofilosofico e teologico di John Locke, in J. Locke, Scrittifilosofici e religiosi, Rusconi, Milano 1 979, pp. 55-56.

1 39

tano di Hobbes, almeno nella Trattato teologico-politico di

sua parte III e IV, e del Spinoza. Il fatto è che

per fare filosofia nel XVII secolo e nei secoli avvenire fino a oggi bisogna fare anche teologia ed esegesi. Il motivo è che, nel XVII secolo e nei secoli avvenire, il sistema simbolico e l 'organizzazione sociale, in altre parole la cultura, sono sostanzialmente cristiani. Tut­ to il sistema simbolico (che, come ogni sistema sim­ bolico religioso, pretende verità assoluta e influenza potentemente il comportamento della popolazione)56 è cristiano. Senza una riformulazione radicale delle basi scritturistiche del sistema simbolico la quale abbia la possibilità di ottenere l ' assenso di una parte conside­ revole dei ceti dirigenti, non è pensabile alcuna modi­ ficazione culturale di rilievo. Sina avverte del resto: «Essa [cioè

La ragionevolezza del cristianesimo]

ri­

sente profondamente, sia nel l ' impostazione, sia nella soluzione dei problemi, dell'influsso della teologia la­ titudinaria e razionalistica inglese e dell'insegnamento dei pastori rimostranti di Amsterdam» 57• Scriveva Locke: «Non certo la legge di Mosè (la legge delle opere) è in grado di condurci alla vita, ma la legge di Cristo che è la legge della fede (Rm

3,28-3 1 ). Ora, qual è questa legge di fede [ . ]?»58•

56 Cfr. C. Geertz, Interpretations of Cultures,

1 973,

.

.

Basic Books, New York

p. 90.

51 M. Sina, Introduzione, cit., p. 56. 5' J. Locke, La ragionevolezza del cristianesimo, in Id., Scrittifìlosofìci e religiosi, ci t., p. 63.

1 40

Secondo Locke, dalla lettura del vangelo si vede che esso «fu scritto per indurre gli uomini a credere questa proposi­ zione, che Gesù di Nazareth era il Messia, credendo al quale avrebbero avuto la vita».

è il messia, que­ è l 'unica semplice verità da credere. In realtà, Locke

Non altri dogmi, ma solo che Gesù sta

riconosce che anche la credenza nella risurrezione di Gesù fa parte nella fede in lui come messia59• Confesso che non mi

è

facile capire fino in fondo

La ragionevolezza Commento, stretta­ Paolo. Ne La ragione­

l'animo e l ' intenzione di Locke ne

del cristianesimo

e nel successivo

mente esegetico, alle lettere di

volezza del cristianesimo è

nel capitolo XII che Locke

affronta, anche se con estrema brevità, il tema paolino che sta al centro di

Rm 3,28:

«Questa era la somma e la sostanza del vangelo che san Pao­ lo predicò, ed era tutto ciò che egli conosceva come necessa­ rio alla salvezza, vale a dire "pentimento e fede che Gesù è il messia"».

Ma è straordinario che - nel cap. XII de

nevolezza del cristianesimo

-

esposto a partire dai discorsi di Paolo negli

apostoli e

La ragio­

il pensiero di Paolo sia

Atti degli

non in base alle lettere di Paolo. Paolo cosi,

secondo Locke, non predica altro che quello che predi­ cava Gesù che 59 !bi,

è

così riassunto:

pp. 64 e 282-283.

141

«A coloro che accolsero Gesù, il Messia promesso, come loro re, erano perdonate le colpe passate e colmate le deficienze future, se, rinunciando alla precedenti iniquità, essi fossero entrati nel suo regno e vi fossero rimasti come suoi sudditi con una ferma risoluzione e con lo sforzo di obbedire alle sue leggi [ ... ] E non è in alcun luogo promesso che coloro che persistono in una colpevole disobbedienza alla sua leg­ ge saranno accolti nell'eterna beatitudine del suo regno, per quanto abbiano creduto in lui»60 •

Sembra qui di essere di fronte a una riduzione del pensiero paolino a quello di Gesù e degli Atti degli Apo­ stoli. Se invece leggiamo il capitolo 111, il rispetto del pensiero di Paolo, letto soprattutto nella Lettera ai Ro­ mani e in quella ai Galati è molto più serio: «l credenti cristiani hanno il privilegio di essere altresì sotto la legge della fede, che è quella legge per mezzo della quale Dio giustifica l'uomo per il suo credere, sebbene per le sue opere egli non sia giusto o equo, cioè sebbene egli sia venuto meno a una perfetta obbedienza alla legge delle opere. Dio solo giustifica o può giustificare, o rendere giusti quelli che per le loro opere non lo sono: cosa che egli fa computan­ do loro la fede come giustizia, cioè in luogo di un completo adempimento della legge»61 •

La tendenza a sorvolare questi aspetti della dottrina paolina si manifesta però nel commento alla Lettera ai Romani, dove 3,28 è lasciato senza alcun commento, mentre, in riferimento al v. 3 1 dove Paolo afferma di voler confermare la legge, Locke scrive: 60 /bi, 61

p. 399. /bi, pp. 276-277.

1 42

«La dottrina della giustificazione mediante fede necessaria­ mente suppone una regola di giustizia a cui coloro che sono giustificati dalla fede sono sottratti e prescrive anche una pu­ nizione dalla quale sono dichiarati liberi per il fatto di esse­ re giustificati. E così questa dottrina stabilisce una legge. E secondo la parte morale della legge di Mosè ciò che è giu­ sto (dikaioma) secondo Dio come l'apostolo lo chiama in un passo precedente ( 1 ,32), è confermato dal nostro salvatore e dagli apostoli nei vangeli, con punizioni connesse alla sua trasgressione»62•

In sostanza, Locke sembra sostenere che la teoria paolina non si può far scomparire, visto che è par­ te essenziale delle Scritture cristiane. La si può solo stemperare sia accentuando la necessità del rispetto della legge da parte del cristiano, sia eludendo ogni teoria sull' impossibile capacità dell'uomo di compie­ re il bene a causa di una connaturata corruzione, sia dando rilievo a tutti quegli altri passi neotestamentari contenuti negli A tti degli Apostoli e nei vangeli in cui la dottrina paolina è assente. l 7. La domanda che mi pongo è quale sia la funzione che ha adempiuto l'esegesi in autori come John Locke. E quale possa essere oggi la funzione dell'esegesi in 62 J . Locke, A Paraphrase and Notes on the Epistles of St Pau/, Edited with an Introduction by Arthur W.Wainwright, The Clarendon Edition ofthe Works of John Locke, Oxford University Press, Oxford 1987, vol. 2, p. 5 1 0. Tutta l'argomentazione di Locke ne La ragionevolezza del cristianesimo, a questo proposito, era del resto identica: la legge della fede non abolisce la legge delle opere soprattutto nella sua parte morale, ma la suppone e la confenna (cfr. la seconda edizione di The Reasonableness ofChristianity as Delivered in the Scriptures, London 1 696, pp. 1 6-22).

1 43

questo momento culturale in cui ancora dobbiamo ri­ flettere criticamente sulle nostre categorie mentali. Sarei tentato di dire che in Locke l'esegesi biblica sembra avere una funzione dialettica accanto alla fi­ losofia. Se, nella trattatistica filosofica, egli propone direttamente un pensiero per molte parti indipendente dali 'influsso teologico, in opere di teologia e di esegesi ritiene necessario usare un altro metodo, quello di cer­ care di fornire un'interpretazione delle Sacre Scritture cristiane che non le neghi, ma le legga in modo da pro­ vocare nei ceti dirigenti delle chiese un atteggiamento più favorevole alle idee espresse nella trattatistica filo­ sofica che però è quella più importante e decisiva. All'origine dell'esegesi critica moderna non sta solo un'operazione esegetica. L'esegesi critica è un prodotto di una modificazione più creativa e precedente: la crea­ zione di un modo di analisi della realtà che dalla costru­ zione categoriale biblica e filosofica greca è indipenden­ te: la scienza moderna con la sua pratica conoscitiva. Pensatori come Locke hanno condotto la loro ri­ flessione almeno con un doppio registro: quello della riflessione filosofica e quello dell'analisi esegetica del patrimonio di base della propria cultura. Forse hanno anche attinto a un'altra fonte più importante, la prati­ ca della vita e dell'esercizio di una professione. Ma a livello di analisi critica essi potevano basarsi sempre su un doppio binario. Ignorare la funzione critica della loro esegesi sarebbe probabilmente non comprenderne il pensiero. L'esegesi biblica costituisce una parte essenzia­ le della riflessione critica europea sul proprio sistema 1 44

simbolico. Il primo passo è la distinzione tra Gesù e le prime generazioni cristiane e cioè tra ciò che realmente Gesù fece e pensò e quello che di lui pensarono i van­ geli, Paolo e il resto del Nuovo Testamento. I passi suc­ cessivi consistettero nel mettere in discussione tutte le principali concezioni neotestamentarie relativamente ai rapporti tra ragione e fede, al rapporto tra esseri umani e mondo divino (nel senso di stabilire fino a che punto tale rapporto dovesse essere controllato e gestito da un ceto intermedio), al rapporto tra le esigenze etiche e le dottrine e dogmi cristiani, al rapporto tra autorità eccle­ siastica e autorità politica. Scienza, morale, politica, la stessa religione potevano costruire la propria autonomia solo nella misura in cui si mettevano in discussione le concezioni tradizionali tramite una nuova interpretazio­ ne di quell'insieme di testi - il Nuovo Testamento - che di quel sistema culturale era una delle basi fondanti. Non c'è capitolo della formazione della cultura moder­ na e contemporanea che non passi attraverso una straor­ dinaria fase di riesame del rapporto tra sistema culturale e base neotestamentaria. Per quanto riguarda l 'impatto con Rm 3,28, i pen­ satori e uomini di cultura che hanno sentito il bisogno di pensare un tipo nuovo di persona in cui la libertà del singolo fosse fondata sulla dignità della coscienza e del­ la coscienza individuale e su un'organizzazione statale rispettosa di questa libertà, si sono trovati nella necessi­ tà di criticare a fondo la concezione paolina, dal punto di vista della possibilità dell'uomo di compiere la legge, dal punto di vista della natura della legge, dal punto di vista del rapporto del pensiero di Paolo con quello di 1 45

Gesù. Si trattava anche di determinare quale rapporto quella dottrina potesse avere con la legittimazione di un ceto o comunque di un'autorità che - nelle chiese - con­ trollasse sia l'esecuzione della legge, sia la fede, sia i contenuti di ambedue. In questo processo di revisione, tutte le categorie direttamente o indirettamente connesse con il rapporto tra opere della legge e fede in Cristo dovevano essere sottoposte a riesame: peccato, giustificazione, redenzio­ ne, ma anche legge (legge naturale, legge ebraica, legge ebraica morale e legge ebraica cerimoniale, universalità o meno della legge ebraica), e perciò anche la distinzio­ ne tra ebrei e non-ebrei. Un risultato finale di questo processo non c'è. Il pro­ cesso di riesame critico mediante l'esegesi non è ancora finito. Un comportamento morale corretto è possibile senza alcun intervento della grazia divina? Esiste un rapporto necessario tra l'atto morale e una legge rico­ nosciuta collettivamente come tale o basta l'obbedienza alla coscienza interiore quantunque erronea? Questi in­ terrogativi permangono. Di fronte alla domanda se il pensiero moderno sia una creazione di carattere universale o semplicemente un momento dialettico interno al sistema culturale cri­ stiano, non so dare una risposta e forse la domanda stes­ sa è errata o mal posta. Credo, tuttavia, che il tentativo di creazione di un sistema categoriale indipendente dal­ le Scritture ebraico-cristiane sia iniziato, ma tutt'altro che terminato. Sembra che le grandi categorie cultura­ li ebraico-cristiane continuino a determinare il nostro modo di pensare anche se l 'empirismo della scienza e 146

della tecnica, e i modi di vita di una grande quantità di persone (siano questi modi di vita connessi con la dif­ fusione di una cultura tecnico-scientifica o no) paiono usciti da qualche tempo dalla cultura cristiana.

1 47

Il

SOMMARIO

PREMESSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5

............................

13

l. LA CONVERSIONE .

l . La conversione d i Paolo, mito della cultura moderna cristia­ na?, 1 3 - 2. La revisione dell'idea classica della conversione di Paolo, come sintomo di un passaggio culturale, 1 6 - 3. Conclu­ sione, 28 II. IL CULTO . . . . . . . . .

...........................

33

l . U n culto i n qualsiasi luogo, 37 - 2. I l culto e i l sacrificio secondo Paolo (Rm 1 2 , 1 -2 1 ), 41 - 3. Il corpo come tempio di Dio (2Cor 3, 1 7-4,4), 54 III. LA POLITICA

................................

IV. «PER FEDE, SENZA LE OPERE DELLA LEGGE» (Rm 3,28). Ilpensiero moderno difronte a una /ematica teologica paolina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

63

99

1 49