Karl Marx. La soggettività come prassi
 9788858834763

Table of contents :
Indice......Page 119
Frontespizio......Page 2
Introduzione Sull’inattualità del pensiero di Karl Marx......Page 4
1. Abolire lo stato delle cose presenti......Page 8
2. Le tesi su Feuerbach e l’antropologia di Marx......Page 13
3. Dall’astrazione determinata ai rapporti sociali di produzione. L’uomo come ente naturale generico......Page 19
4. Conclusioni: l’astrazione determinata e il metodo della tendenza......Page 22
2. I rapporti sociali di produzione e la critica dell’economia politica......Page 24
1. L’accumulazione originaria: ovvero il capitalismo come rapporto sociale determinato......Page 25
2. La cronaca dell’incontro tra capitalista e proletario......Page 28
3. Capitalismo come rapporto sociale e l’assioma della crescita infinita......Page 31
1. Lo specchio deformante dell’economia politica volgare......Page 38
2. Il lavoro astratto e il tempo di lavoro socialmente necessario......Page 44
3. La forza-lavoro e l’analitica della produzione di plusvalore......Page 47
4. Sussunzione formale (plusvalore assoluto) e sussunzione reale (plusvalore relativo) del lavoro al capitale......Page 50
5. Il segreto del valore-lavoro e l’operaio combinato......Page 57
1. Il feticismo come nucleo fondamentale dell’opera marxiana......Page 60
2. Risolvere la superstizione in storia......Page 66
3. Feticismo e soggetto della prassi: Marx oltre Marx......Page 69
4. Il feticcio della libertà individuale (o parentesi sul capitalismo contemporaneo)......Page 73
5. Logiche dello sfruttamento: incrinature tra sussunzione e imprinting......Page 79
1. Marx e lo sfruttamento capitalistico......Page 80
2. Sussunzione e impressione6......Page 83
3. Il capitalismo come movimento ventricolare......Page 87
4. La logica dell’imprinting come doppia ingiunzione......Page 90
5. Conclusioni: imprinting e feticismo......Page 95
Confessione di Karl Marx1......Page 97
1. Il metodo di Marx......Page 102
2. I rapporti sociali di produzione e la critica dell’economia politica......Page 105
3. La produzione capitalistica come produzione di plusvalore......Page 107
4. Il feticismo come teoria generale di Marx......Page 109
5. Logiche dello sfruttamento: incrinature tra sussunzione e imprinting......Page 112
6. Conclusioni (per il marxismo a-venire)......Page 114
Bibliografia......Page 115

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Federico Chicchi Karl Marx La soggettività come prassi

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2019 da prima edizione in “Eredi” aprile 2019 Ebook ISBN: 9788858834763 In copertina: illustrazione di Umberto Mischi. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Introduzione

Sull’inattualità del pensiero di Karl Marx

Dobbiamo, innanzitutto, mettere le nostre carte sul tavolo. Il lettore che voglia avventurarsi tra queste pagine sappia subito che non troverà una ricostruzione sistematica del pensiero di Marx. Non si tratta di proporre qui un testo che voglia, anche solo parzialmente, ambire alla ricostruzione o all’interpretazione esaustiva del pensiero di Marx. Non ne abbiamo né i mezzi né le possibilità. Una ricostruzione antologica del pensiero del grande filosofo tedesco richiederebbe gli sforzi di una vita, di una vita dedicata per intero all’analisi e allo studio della sua opera (e pure al modo in cui quest’ultima è stata proposta in ambito editoriale negli anni successivi alla sua morte). Molto più modestamente, quella che intendiamo presentare nelle pagine seguenti è una analisi di alcuni concetti marxiani che pensiamo essere indispensabili per la comprensione dei processi di trasformazione sociale del contemporaneo. L’eredità di Marx non può andare perduta, soprattutto se si è convinti, come lo siamo fortemente noi che scriviamo, che il tempo presente debba essere trasformato con urgenza. Ecco allora che diventa fondamentale e non rinviabile lavorare sull’inattualità – in senso nietzschiano – del pensiero marxista. Dove, per inattualità, dobbiamo assumere il tentativo di “intendere come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera”.1 Per andare in questa direzione occorre fare i conti fino in fondo con alcune questioni che hanno trovato in Marx e nel marxismo il loro naturale alveo di scorrimento concettuale. Sono le stesse questioni che ci impongono un confronto aperto con l’inattuale. Al contempo deve essere chiaro, a chi leggerà il testo, che Marx verrà qui presentato non recluso nella sua torre di avorio, ossia dentro il feudo del lessico specialistico che ha rilasciato il marxismo senza fare economie, ma nello spregiudicato confronto con pensatori cui insolitamente, o comunque non troppo frequentemente, viene accostato. Tale operazione concettuale è quella che segnerà l’originalità, se si

riuscirà a distillarla e a metterla in forma, di questo nostro breve lavoro dedicato al filosofo de Il Capitale. A chi ci riferiamo? A pensatori che appartengono a diverse collocazioni disciplinari e che ci serviranno per fare i conti e prendere una certa distanza dal marxismo, intendendo per marxismo una posizione di aderenza acritica ed esclusiva verso il lessico marxiano. Chi scrive ha una formazione sociologica, ma siamo fortemente convinti che il sapere autentico (mi si passi questa definizione pretenziosa) si produca soltanto nel momento in cui si accetta di avventurarsi al di fuori degli steccati all’interno dei quali il sapere universitario si è rintanato per comodità esplicativa, leziosità accademica e/o conformazione identitaria. Marx è prima di ogni altra cosa un pensatore della prassi umana, e quest’ultima non è mai sezionabile in parzialità disciplinari. Ogni disciplina che ci sentiremo di esplorare, per affrontare il compito di raccontare il nostro Marx e la sua eredità, sarà qui la benvenuta. L’inattualità di Marx di cui dicevamo poc’anzi è in primo luogo un’indicazione della grande capacità che il suo pensiero ha di mostrare l’elemento ideologico e artificiale di ciò che oggi tende a essere dato per scontato. In altre parole, il marxismo torna a essere apprezzabile proprio nel punto più interessante su cui si è costituito, e cioè nella fondazione della critica all’ideologia borghese, prima, e nella critica dell’economia politica, poi. L’inattualità del marxismo cui ci stiamo riferendo è allora rinvenibile nella sua insuperata capacità di rivelare il rovescio delle cose, ovvero rendere visibili le trame che attraversano la realtà tessendone le manifestazioni. Il pensiero di Marx è, infatti, un’interrogazione continua di ciò che troppo spesso tendiamo ad assumere come intrinsecamente necessario e per questo a non problematizzarlo. Dove risiede in Marx il fulcro di tale specifica predisposizione? Nella sua straordinaria attitudine a cercare di individuare l’elica del rapporto sociale vigente, di assumere la qualità dei caratteri fondamentali che orientano (anche strutturalmente) il funzionamento del sistema capitalistico e, con esso, delle sue complesse fenomenologie sociali che in suo seno si organizzano e riproducono. Innanzitutto, dunque, è la qualità dinamica di questo modo sociale di produzione che ci interessa e che cercheremo, attraverso Marx, di ricostruire di seguito. La dinamica è realizzata dal capitale in un modo assolutamente preciso: attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo. “Il lavoro vivo è sussunto e posto

come condizione della perpetuazione del valore sociale del capitale.”2 “Il lavoro è fuoco che dà vita e forma.”3 “Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.”4 Il capitale è dunque un organismo in continua trasformazione che risponde però ad alcuni presupposti (o assiomi) che non possono non ripetersi continuamente e che restano distanti dalla polemica contingente dei rapporti di forza storico-sociali che di volta in volta si producono al di sopra delle sue stratificazioni. Individuare tali assiomi a partire dalle analisi marxiane sul capitalismo sarà il nostro obiettivo principale. Esiste, potremmo dire, una sorta di inconscio del capitalismo che orienta la ragione del mondo, il modo di osservare il mondo. Qualcosa che spinge in una direzione e che attraverso i suoi fantasmi interviene a motivare le scelte e a condizionare l’estetica soggettiva. Attraversare tali fantasmi, per svelarne l’architettura e la qualità, per trasformarli e quindi superarli è stata una delle principali vocazioni di Marx. Cercheremo di renderne conto. Questo volume si costruisce sulla base delle questioni che interrogheremo a partire dal pensiero di Karl Marx. Quali sono? In primo luogo, dovremo intendere il metodo di Marx, e il primo capitolo sarà dedicato a ricostruire quelli che potremmo definire come i presupposti del suo pensiero. Il rapporto di Marx con il materialismo storico e l’idealismo saranno il punto di partenza e la chiave di violino per tentare di indicare la qualità della soggettività così come egli l’ha intesa durante il suo lungo insegnamento. Il secondo capitolo sarà invece dedicato a definire il capitalismo e le sue principali determinazioni (che strizzando l’occhio alla psicoanalisi chiameremo anche come i suoi sintomi). In particolare, cercheremo di precisare cosa il capitalismo deve continuamente ri-attualizzare per garantire nel tempo storico il suo funzionamento. Durante questo impervio attraversamento metteremo dunque in evidenza anche alcuni dei limiti che il pensatore tedesco ha manifestato nella sua lunga e attenta analisi di questo modo di produzione specifico. Nel terzo capitolo proveremo ad avviare un movimento che ha come obiettivo quello di toccare alcuni dei concetti marxiani fondamentali, non tutti ovviamente, ma quelli “catturati” e “catturabili” dentro la nostra specifica prospettiva di analisi: alienazione, forza-lavoro, plusvalore, sussunzione, lavoro vivo, lavoro astratto. Il quarto capitolo sarà invece

dedicato a ricostruire lo scheletro di una delle più entusiasmanti vicende dell’opera marxiana: il feticismo delle merci. Tale questione è a nostro avviso fondamentale per comprendere la fecondità del pensiero marxiano, e troverà qui, per questa nostra convinzione, uno spazio adeguato alla sua discussione e attualizzazione. Cercheremo in proposito anche di sostenere che la questione del feticismo non occupa in Marx una posizione marginale e secondaria rispetto al respiro complessivo della sua opera, e che, al contrario, è questa stessa riflessione, di taglio per così dire anche antropologico, che sorregge tutto il suo sforzo rivoluzionario. Nel quinto e ultimo capitolo cercheremo, infine, di indagare una teoria dello sfruttamento (e per converso della rivoluzione) a partire dai limiti della proposta marxiana. Per limiti vogliamo intendere qui non tanto una loro funzione di trattenimento della teoria bensì il punto saldo da cui oggi ripartire per spingere in avanti un pensiero che non rinunci a fare dell’altrove il suo riferimento. Questo libro è il frutto diretto e indiretto di molti incontri. In tal senso mi sento debitore, per aver ricevuto supporto e stimoli alla scrittura, nei confronti di molte persone che non posso per vastità nominare una per una. Vorrei però trasformare qui questo sentimento in un ringraziamento circoscritto almeno nei confronti di alcuni. In particolare desidero ringraziare Massimo Recalcati, Giuseppe Chicchi, Luciano Chicchi, Michele La Rosa, Alex Pagliardini, Pierre Dardot, Vando Borghi, Paolo Zurla, Stefano Lucarelli, Emanuele Leonardi, Andrea Fumagalli, Cristina Morini, Lelio Demichelis, Franco Berardi, Ana Hounie, Laura Bazzicalupo, Antonio Tucci, Nicolas Martino, Ilaria Bussoni, Anna Simone, Pino Pitasi, Maria Laura Bergamaschi e tutto il gruppo di “Pensare il rovescio”. Mia moglie Patrizia, le mie figlie Irene e Lucia, infine, last but not least, la mia gatta Dorothy. Questo libro è dedicato al compianto Pietro Bellasi, che mi ha insegnato a vedere l’arte nell’antagonismo e l’antagonismo nell’arte.

1.

Il metodo di Marx

[…] se c’è stato un momento in cui Freud è stato rivoluzionario, è nella misura in cui ha messo in primo piano una funzione introdotta anche da Marx – è del resto l’unico elemento che abbiamo in comune –, la quale consiste del considerare un certo numero di fatti come dei sintomi. J. LACAN, Il seminario. Libro XVIII, p. 18

1. Abolire lo stato delle cose presenti Quando si prende in mano per la prima volta il testo di Marx se ne resta subito impressionati. C’è un acume lirico, un sarcasmo raffinato, una pulsante voglia di convincere il lettore rispetto alla tesi proposta, tesi che viene lavorata sempre, in ogni fase del suo “insegnamento”, con una precisione metodologica e, al contempo, una capacità interpretativa sorprendenti. Eppure il suo pensiero non appare mai sopra le righe, mai portato all’eccesso, e al contrario è, senza perdere di vivacità, sempre ordinato e puntuale. A volte, mentre si legge, ci si lascia sorprendere e guidare come rapiti dalle sue argomentazioni. Si capisce subito, leggendo Marx, di essere in presenza di un pensatore acutissimo, coltissimo, capace di lasciare la sua indelebile impronta nella coscienza e nella storia del pensiero umano. Viene da aderire alle parole di Lenin quando, nel 1913, descrivendo la dottrina di Marx, commentava: “Essa è completa e armonica e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può conciliarsi con nessuna superstizione, con nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese”.1 Al di là di tale consistenza immaginaria evocata da Lenin (non mancano a dire il vero in Marx, come in ogni pensatore che possa dirsi classico, le contraddizioni e le aporie), siamo fermamente convinti che per entrare nel cuore del pensiero di Marx occorra innanzitutto individuare il suo orizzonte. L’orizzonte è al contempo lo spazio aperto e il limite all’interno del quale ci si muove per fondare l’analisi. Inoltre, tale orizzonte ci pare possa coincidere,

per approssimazione, con le peculiarità del suo metodo. Inteso però, quest’ultimo, non solo e non tanto nella sua accezione tecnica e procedurale, bensì in quella più ampia ed etimologica di cammino. Seguendo l’intuizione del filosofo francese Étienne Balibar,2 riteniamo quindi che lo spazio all’interno del quale il pensiero e il cammino del filosofo di Treviri si muovono sia circoscrivibile a partire da una questione molto precisa: la prassi. La questione della prassi tocca infatti una serie di assi portanti del pensiero marxiano su cui occorre soffermarsi prima di “inasprire” la nostra analisi sulla eredità di Marx. Gli assi cui ci riferiamo riguardano innanzitutto il rapporto del filosofo con il metodo dialettico e la tradizione hegeliana e, in secondo luogo, in forte tensione con questa, la definizione di una sua (certo non priva di aspetti controversi) antropologia, che in ogni caso metterà sottosopra, dopo la sua formulazione, il modo tradizionale di guardare al politico come spazio privilegiato del rapporto tra uomo e natura e tra uomo e storia. Di che si tratta, più specificamente? È la necessità, secondo Marx, di individuare un soggetto pratico capace di dissolvere l’ordine esistente, di rivoluzionare i rapporti sociali vigenti e, così facendo, di cambiare il modo di fare esperienza del mondo. Questo soggetto, come è noto, ha per Marx anche uno statuto collettivo e storicamente determinato: il proletariato. Ma facciamo un passo indietro e proviamo a individuare alcuni dei passaggi cruciali dell’opera marxiana, opera che a partire dagli anni quaranta del Diciannovesimo secolo trova un primo e importante momento di definizione. Il durissimo corpo a corpo che Marx intrattiene con Hegel3 a partire da quegli anni è cosa per lo più nota e non ci è possibile, ovviamente, ricostruirlo qui. È utile tuttavia sottolineare come da tale disputa, giocata su più livelli, Marx arrivò a concepire la sua nuova concezione del politico.4 Più nello specifico, come ha ben sottolineato, fra i tanti, Petrucciani,5 la critica di Marx a Hegel si precisò per la prima volta in un corposo manoscritto di commento della Filosofia del diritto hegeliana, uscito molto probabilmente nella primavera-estate del 1843.6 In questo commentario Marx, attaccando apertamente la visione sovranista e statalista di Hegel, accusò quest’ultimo di operare un rovesciamento inaccettabile tra empiria e speculazione, tra esperienza e concetto. “Questo rovesciamento del soggettivo nell’obiettivo e dell’obiettivo nel

soggettivo (rovesciamento che proviene da ciò, che Hegel vuol scrivere la storia dell’astratta sostanza, dell’idea, e che l’umana attività deve dunque apparire come attività e risultato di qualcosa d’altro, e che Hegel vuol fare agire come una immaginaria individualità l’essere dell’uomo per sé, invece di lasciarlo agire nella sua reale, umana esistenza) ha necessariamente il risultato che acriticamente viene assunta una empirica esistenza come la reale verità dell’idea […].”7 In Hegel, il giovane Marx aveva certo trovato, al di sotto del robusto camuffamento mistificatorio dell’idealismo, un viatico irrinunciabile per sostenere la costruzione della sua nascente teoria materialistica. “L’importante lavoro preparatorio di Hegel per l’indagine materialistica della società di Marx era consistito nell’aver egli visto in generale per la prima volta, in forma idealistica, questo nesso materiale e nell’averne fatto il tema di una esposizione filosofico-scientifica.”8 Si trattava per Marx di capovolgere l’idea – e questo però senza sacrificare il movimento dialettico che si realizza attraverso le contraddizioni – di un mondo storico-sociale e oggettivo che trovava in Hegel definizione solo a partire da un movimento che cadendo dall’alto verso il basso muoveva poi inesorabilmente in direzione della determinazione dello spirito assoluto.9 Il capovolgimento da operare non aveva a che fare solamente con la necessaria critica verso l’idea dello Stato che Hegel aveva posto a compimento reale del movimento terreno dello spirito assoluto, ma doveva coinvolgere anche tutte quelle manifestazioni “superiori” dello spirito come la religione, l’arte e la filosofia, che vengono spogliate da Marx “dalla loro posizione sovramondana e degradate a semplici ‘forme di coscienza sociale’, che dipendono dai rapporti materiali dell’esistenza”.10 In tal senso, la critica marxiana appare sin dalle sue prime mosse, al contempo, critica del diritto e dello Stato e critica delle sue manifestazioni ideologiche. Non è quest’ultima, come vedremo ancora, cosa di poca importanza per comprendere il pensiero di Karl Marx. Lucio Colletti nell’analizzare il rapporto tra Marx ed Hegel11 tocca, a nostro parere, un punto nevralgico della questione: la concezione di Hegel, dice Marx, “è semplicemente la rappresentazione di una separazione realmente esistente”.12 È ancora una volta la vicenda di una sostituzione, di uno stare di qualcosa al posto di qualcos’altro. “Non diversamente da come nell’idealismo la ‘mistica sostanza’ si sostituisce al soggetto reale, così nella società borghese il citoyen – ‘l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come

persona allegorica, morale’ si sostituisce al bourgeois cioè all’uomo reale.”13 È quello che Marx chiama l’universalità irreale dello Stato borghese. In altre parole: “Come le determinazioni reali si volatilizzano in determinazioni pure o razionali, come la cosa si volatilizza in ragione, ma la ragione poi esiste solo come una cosa; allo stesso modo le differenze economiche trovano la loro apparente conciliazione nel cielo dello Stato, nell’eguaglianza politica, ma questo Stato poi non serve ad altro che a ribadire e sanzionare lo stato di cose reale”.14 Tale questione marxiana è la stessa, ci pare, che tornerà quando, nelle sue opere mature, si tratterà di mostrare come l’economia politica borghese non sia animata nient’altro che dalla necessità di legittimare lo sfruttamento di una classe egemone (la borghesia) su di un’altra subordinata (il proletariato). “L’indipendenza politica è un accidente della proprietà privata.” Ne La questione ebraica,15 Marx preciserà come “nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa l’uomo egoistico, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato, e isolato dalla comunità”.16 C’è uno spazio di determinazioni reali che trova concreta espressione sociale e che non viene per nulla preso in considerazione. Ribadiamo: “L’indipendenza politica è un accidente della proprietà privata,” afferma con acume Marx, squarciando il velo della mistificazione. Ma non è tutto. Occorre, seguendo ancora una volta l’analisi di Colletti, mostrare come lo “storicismo” di Marx (che è per lo più traducibile in una sociologia di processi sociali determinati che si reiterano) non possa in alcun modo essere confuso con un diverso storicismo, ancora ancorato all’idealismo, dove contrariamente alle intenzioni marxiane “la puntualità del giudizio storico si identifica proprio con il rilievo dei tratti singolari e irripetibili che caratterizzano quel dato ambiente”.17 Si tratta per Marx di comprendere le regolarità del funzionamento della società capitalistica e delle sue diverse formazioni economico-sociali. “Ma veniamo al punto essenziale: che nesso vi è tra la critica di Marx alla logica di Hegel e la scoperta che questa logica, questa filosofia, è il ‘riflesso’ ideale della società borghese e non solo un riflesso ma anche un suo momento costitutivo, onde il superamento del regime borghese non può non comportare anche la fine della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto filosofia?”18 La tesi di Colletti pare cogliere un punto fondamentale del

rapporto tra il pensiero critico di Marx e l’hegelismo che è bene qui tenere presente: non si tratterebbe di accusare il filosofo di Stoccarda, come ad esempio fa Feuerbach, di astrattezza e formalismo, bensì di riconoscere il rapporto di queste caratteristiche con un contenuto pieno ma vizioso e surrettizio. “Ne deriva che, mentre la critica tradizionale, movendo all’idealismo l’accusa di non tener conto del concreto, del mondo, finisce in qualche modo per convalidare il principio, proprio in quanto ammette la possibilità che una filosofia si possa costituire prescindendo dalla materia […].” Che è appunto ciò che sostiene Marx quando osserva che la filosofia speculativa, “proprio in quanto vuole negare con sofismi la razionale e naturale dipendenza dall’oggetto, cade poi nella più irrazionale e innaturale servitù di fronte ad esso, di cui è costretta a ricostruire come necessarie e universali anche le caratteristiche più accidentali e individue”.19 Il punto allora non sarebbe la sterilità del metodo hegeliano ma la sua intrinseca vocazione a fare apologia dello stato di fatto. In conclusione, potremmo allora sottolineare come in Marx il pensiero, l’idea, non possa contenere tutta la realtà, non la possa esaurire tutta entro di sé, e ancora “che il predicato, pur riflettendo il soggetto, non lo esaurisca, non si sostituisca ad esso, ma rimanga appunto predicato, cioè un attributo, sua qualità, sua parte”.20 Petrucciani, facendo riferimento alle tesi di Alfred Schmidt sul concetto di natura in Marx,21 permette di fare chiarezza su questo passaggio: sarebbe l’influenza di Kant, e il modo in cui quest’ultima viene lavorata in relazione con l’idealismo hegeliano, a risultare decisiva sulla formazione della epistemologia e sul metodo del giovane Marx. Egli rifiuta infatti, contro Hegel, di far coincidere soggetto e oggetto, come se il secondo fosse diretta emanazione del primo. L’essere non può, in questo senso e con Kant, essere confuso con la sua determinazione concettuale. Al contempo, però, Marx, con Hegel, concepisce il rapporto tra i due in modo storico e reciprocamente condizionantesi. La lotta politica e sociale, l’azione soggettiva possono cambiare e modificare il mondo che ci condiziona, e queste attività, i loro effetti sul mondo, influenzano il modo in cui quest’ultimo è concepito e rappresentato. “Seguendo Hegel, Marx storicizza le categorie kantiane; andando oltre Hegel, connette più strettamente le trasformazioni dei modi di pensare con quelle del lavoro e dei rapporti sociali.”22 Torneremo a riflettere sulla questione a fine capitolo, perché a nostro parere qui si scrive un punto fondamentale del metodo marxiano. Più

specificamente, ciò che a nostro avviso appare come decisiva è l’impossibilità, secondo la concezione materialistica di Marx, di appiattire l’oggettualità del mondo, la sua natura, su quello che di quest’ultima è possibile concepire soggettivamente. La mente agisce senza esaurire o comprendere per intero la realtà. Qualcosa di autonomo resiste e non si lascia comprendere dalla storia; al contempo, però, del mondo non se ne può fare esperienza se non attraverso i processi storici. Non meno decisivo, d’altra parte e in tal senso, risulta essere quanto scrive in proposito Marx ne L’ideologia tedesca: “A nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale”,23 e ancora, poco più avanti: “La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale”.24 Quando Marx muove la sua critica alla filosofia hegeliana costruisce quindi non solo una teoria logica sulla filosofia di Hegel ma una sociologia, nel senso che la stessa filosofia di Hegel è interpretata come una diretta espressione del mondo sociale borghese. “La pratica [luogo da cui eravamo partiti nella nostra analisi, N.d.A.] è funzionale al prodursi della teoria, ma la teoria poi è una funzione della pratica.”25 Cominciamo così a intravedere sullo sfondo il concetto di astrazione determinata,26 nelle cui scivolose insenature concettuali, tra qualche pagina, dovremo avventurarci per dare conto fino in fondo del metodo di Marx. 2. Le tesi su Feuerbach e l’antropologia di Marx Per quanto rapidamente ne prenderà le distanze, è però opportuno soffermarci sull’influenza che Feuerbach ebbe nella formazione del pensiero del giovane Marx. Più in particolare, occorre interrogarsi su quanto pesò la concezione materialistica dell’autore de L’essenza del cristianesimo (1841) sulla definizione della critica marxiana contro i principi dell’idealismo teologico e speculativo. È proprio seguendo Feuerbach, infatti, che Marx trova le argomentazioni convincenti per accusare la filosofia idealistica di operare un ribaltamento fra teoria e prassi, ribaltamento che riflette l’inversione teologica del rapporto fra Dio e l’uomo nella religione, del rapporto fra il soggetto e il predicato. Il

tema della alienazione, che sarà uno dei maggiori lasciti della riflessione marxista, nasce concettualmente proprio in questo contesto, dove Marx designa la critica della religione come “il presupposto di ogni critica”.27 Tale avvicinamento teorico, che sostiene e scrive al centro del pensiero marxiano il tema del capovolgimento, per quanto negli anni dedicati allo studio della economia politica questo sarà “tradotto” nel tema delle Verrückte Formen (forme impazzite),28 lascerà un segno indelebile nel pensiero del filosofo e costituirà la base di quello che stiamo cercando di definire, seppur in termini essenziali, come il suo proprio metodo di lavoro. Attenzione, però, non si tratta certo di una vicinanza adesiva; Cesare Luporini con una battuta sintetizza nel modo migliore la questione del rapporto Marx-Feuerbach: “Massima vicinanza dunque, ma anche massima lontananza”. In ogni caso ci sembra arduo non avvedersi che senza questo suo “passaggio giovanile” difficilmente Marx sarebbe arrivato a concepire e fondare i suoi testi maturi e oggi universalmente riconosciuti come, ad esempio, Il Capitale. Seguendo questa ipotesi interpretativa (che ovviamente sappiamo possa essere considerata controversa e che può essere così sintetizzata: il tema dell’alienazione è un pilastro della critica della economia politica marxiana) è allora piuttosto scontato da parte nostra prendere subito qui le distanze dalla cosiddetta cesura che secondo Althusser (e non solo) sarebbe rinvenibile tra il Marx giovane, umanista e ancora fortemente hegeliano, e quello scientifico delle sue opere più tarde. Per quanto una “torsione” e una discontinuità non possano essere negate, a partire anche dalle evidenti trasformazioni stilistiche della sua opera – “tutta l’evoluzione è nelle parole”29 –, siamo però anche convinti che negare l’influenza fondamentale della fase giovanile su quella successiva non sia, oggi, quando la ricostruzione filologica dell’opera intera di Karl Marx è oramai piuttosto avanzata,30 una posizione sostenibile. Althusser, nel suo lavoro dedicato al pensatore tedesco, insiste nell’indicare l’esistenza di un passaggio verso un marxismo compiuto, soprattutto sulla questione del metodo – che è poi quella che più ci interessa qui approfondire – che vedrebbe il Marx giovanile, contrariamente a quello maturo, ancora prigioniero del procedimento hegeliano e dell’influenza nefasta di Feuerbach. “Certo la giovinezza di Marx conduce al marxismo, ma a prezzo di uno straordinario lavoro di sradicamento delle sue stesse origini, a prezzo di una lotta eroica contro le illusioni di cui lo nutrì la storia della Germania ove nacque, a prezzo di un’attenzione acuta alle realtà che erano

coperte da queste illusioni.”31 Althusser vede e legge, dunque, nell’opera giovanile di Marx solo un momento formativo, importante sì, ma unicamente nella sua funzione di spazio teorico di passaggio e attraversamento, da cui Marx si sarebbe progressivamente, e infine definitivamente distanziato, “una sorta di pedagogia dello spirito teorico” insomma, indispensabile alla maturazione della sua tempra e del suo formidabile stile, per metterlo nella condizione di “approdare al di qua dei suoi miti e insieme per l’allenamento che gli diede nel maneggiare le strutture astratte dei suoi sistemi, indipendentemente dalla loro validità”.32 Eppure noi siamo, diversamente da tale posizione, convinti che non sia possibile ridurre il Marx delle opere giovanili a una sorta di romanzo di formazione.33 Quello che crediamo è presto precisato: ciò che permise a Marx di capovolgere l’idealismo hegeliano dentro una idea storico-determinata di prassi e di rivoluzione, che troverà le sue coordinate scientifiche nel suo progetto successivo di critica della economia politica, si sedimenta e precisa proprio in questi anni giovanili, anche grazie al contatto con alcune suggestioni feuerbachiane. Certo, come dicevamo, non senza, al contempo, distanza negli obiettivi. Ad esempio, ci pare abbia ragione Stefano Petrucciani quando, facendo riferimento alla critica avanzata da Adorno in proposito, indica i limiti di questa complicità marxiana con il pensiero di Feuerbach: “L’importanza del testo marxiano, perciò, non è tanto da vedersi nella sua critica dell’idealismo, che ne costituisce la base metodologica; ma si dovrà cercare piuttosto nei contenuti concreti, e cioè nel modo in cui Marx si confronta con la visione hegeliana dello Stato, della società e dei loro nessi”.34 È a nostro avviso la tensione che si produce tra un certo materialismo e un certo idealismo che porterà però Marx a riconoscere nel soggetto della prassi il suo fondamentale orientamento metodologico. Questo è il punto da sottolineare e su cui torneremo, insieme al fatto, non del tutto secondario, che è proprio nelle sue opere giovanili che Marx, da acuto filosofo del diritto, costruisce la sua critica alla dottrina dello Stato moderno e il suo attacco alla proprietà privata, critica senza la cui centralità non sarebbe poi potuto avanzare granché. Secondo Marx, dunque, l’unico vero soggetto è il soggetto della prassi, o ancora, più precisamente, si potrebbe dire che il soggetto è la sua pratica.35 Secondo Balibar questo punto di vista non conduce Marx totalmente al di fuori dall’idealismo, ma piuttosto, aggiungiamo noi, lo conduce a toccare i

suoi limiti e in qualche modo a servirsene. Rappresentazione e soggetto sono i luoghi concettuali dove storicamente l’idealismo ha messo radici, e la spinta del ragionamento marxiano appare aderire ancora, seppur capovolta, a tale struttura del metodo hegeliano. “È possibile dire che Marx, identificando l’essenza della soggettività con la pratica, e la realtà della pratica con l’attività rivoluzionaria del proletariato (che fa corpo con la sua esistenza stessa), ha trasferito la categoria di soggetto dall’idealismo al materialismo. Ma è anche perfettamente possibile affermare che, con ciò, egli ha preparato la possibilità permanente di rappresentarsi il proletariato come un ‘soggetto’, nel senso idealistico del termine (e, partendo di lì, al limite, come una rappresentazione o un’astrazione per mezzo della quale di nuovo si ‘interpreta’ il mondo, o il cambiamento del mondo: non è forse ciò che accadrà quando, più tardi, dei teorici marxisti armati dell’idea della lotta di classe ne dedurranno a priori il ‘senso della storia’?).”36 Nondimeno a noi sembra corretto sostenere in proposito, come ci pare indichi anche Sandro Mezzadra,37 che la categoria di prassi sia utilizzata da Marx in funzione antiidealistica, riuscendo a tenere ferma, attraverso di essa, la centralità dell’attività pratica come luogo dell’attività sensibile umana. Sono allora le Tesi su Feuerbach il punto da trattenere per comprendere il movimento del pensiero marxiano che tenta di scrollarsi di dosso i vincoli dell’idealismo hegeliano.38 Siamo nel 1845 e l’ambito all’interno del quale il filosofo tedesco si muove è noto: da un lato sta lavorando a quelli che poi saranno conosciuti come i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e, dall’altro, il suo appassionato incontro con Engels di lì a poco lo porterà a redigere, a quattro mani, L’ideologia tedesca. Le Tesi sono una serie di sintetiche, a volte più critiche e discorsive, e a volte invece apodittiche, affermazioni che si sviluppano in undici argomentazioni. Al loro interno dobbiamo per adesso isolare l’ultima, la celeberrima undicesima. Leggiamola assieme: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, ora però si tratta di cambiarlo”. Ci concentreremo qui, navigando a ritroso, muovendo dalla XI tesi per poi passare alla VI. A partire da queste due tesi e dalla tensione che le unisce, infatti, è a nostro avviso possibile tracciare la linea di orizzonte che andiamo cercando attorno alla questione del soggetto, al fine di poter lavorare poi con maggiore consapevolezza su alcuni dei concetti fondamentali di Marx, che saranno indagati nei prossimi capitoli. Tutta la riflessione del Marx di quegli anni appare in tal senso, come

ancora precisa Balibar, interna all’idea di rivoluzione permanente, dove il rapporto fra reale e razionale è giocato tutto sul piano dell’antagonismo, come forza di trasformazione e costruzione del rapporto sociale. L’emancipazione, la liberazione da una condizione che vede il soggetto capovolto (alienato) deve essere cercata, come abbiamo già visto, al di là della filosofia e delle sue diverse rappresentazioni, deve essere agita e quindi incastrata in una vera e propria prassi rivoluzionaria, capace finalmente di esigere, universalmente, libertà, eguaglianza e fratellanza. Affinché questo possa accadere realiter è allora necessario individuare una forza sociale, storicamente determinata, che riconosca la sua missione di realizzare, dentro e attraverso l’esasperazione delle sue contraddizioni, il processo di dissoluzione della classe borghese. Questa forza sociale ha per Marx un nome (ma dobbiamo aggiungere un corpo) molto preciso: il proletariato. In altre parole, la pratica rivoluzionaria per potersi determinare nella storia deve coincidere col “movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente”, deve coincidere cioè con una prassi che orienta ogni suo sforzo verso l’abolizione dei privilegi borghesi e l’instaurazione di un mondo sociale nuovo che chiameremo con il nome di comunismo.39 L’accento anti-filosofico di Marx, e il suo fondamento, sono incastrati a loro volta dentro l’idea che la coscienza individuale sia sempre l’espressione di quella che potremmo chiamare una postura sociale. Lo abbiamo già visto nel corpo a corpo di Marx con Hegel, nelle Tesi su Feuerbach, la questione viene ribadita ed esplicitata. Ciò che sembra essere un elemento poco più che di dettaglio è invece decisivo e non ha mancato di infiammare il dibattito interno alle diverse scuole marxiste. In particolare è la traduzione dal tedesco, e la sua conseguente interpretazione, della VI tesi ad aver occupato per alcuni anni il centro del palcoscenico.40 La tesi in italiano è tradotta come segue: “Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali”.41 È nota la posizione di Althusser a riguardo. Il filosofo francese rivolge alla tesi un giudizio che ci sentiamo di definire addirittura impietoso: l’affermazione “l’uomo non astratto (dunque l’individuo concreto?) è l’insieme dei rapporti sociali, non ha a rigor di termini alcun senso”.42 La questione a riguardo della tesi in oggetto è piuttosto ingarbugliata, ma a nostro parere teoricamente fondamentale e dobbiamo provare a dirne

qualcosa in più. Non si tratta, nella lettura di Marx, di rigettare come per lo più insignificante, come tende a fare appunto Althusser, ogni traccia di riflessione antropologica. Al contrario occorre fare propria l’idea che il marxismo contrappone a una idea metafisica di essenza umana un’essenza umana concreta.43 Lucien Sève, agli antipodi teorici dello strutturalismo marxista, avanza e sostiene la possibilità di fondare una antropologia scientifica a partire dalla VI tesi. Per Sève è infatti possibile imputare al concetto di essenza umana una concretezza che consiste e coincide con l’insieme dei rapporti sociali. La posizione di un altro marxista “umanistico”, Adam Schaff, aiuta a osservare in modo ancor più preciso la posizione di Marx. Egli intendeva indicare attraverso le Tesi lo scopo e il senso ultimo della sua ricerca scientifica: intendeva affermare che non esiste nessuna coscienza umana che si possa produrre, in quanto tale, al di fuori di un rapporto, al di fuori, cioè, di relazioni sociali storicamente determinate e, in quanto tali, sempre contingenti.44 L’individuo è in tal senso in Marx, fin dall’inizio e sempre, caratterizzato come un individuo in rapporto (mai come un individuo isolato), in relazione, soggetto a un insieme di norme che interpellandolo lo costituiscono in quanto tale. Proprio per questa ragione, però, ogni uomo può anche agire sul mondo sociale che abita, per modificarlo e cambiare la sua dinamica trasformativa. Anche per questa ragione potremmo affermare che nell’antropologia marxiana, l’individuo – oltre a essere sempre un individuo sociale – è anche un soggetto attraversato dalle contraddizioni del sociale e immerso nell’antagonismo che in quelle incoerenze, tra dimensione pubblica e dimensione privata della vita, si producono incessantemente. Ne L’ideologia tedesca Marx chiarisce il passaggio che potrebbe forse per alcuni ancora risultare opaco: “Ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”.45 Dunque per tirare le fila, almeno in parte, non vi è dubbio che in Marx “La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini”46; d’altra parte questa stessa coscienza “in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge contro gli

uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie […], e d’altra parte è coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti, la coscienza iniziale del fatto che si vive in una società”.47 È così, seguendo questo movimento, che nell’analisi marxiana si passa “dal primo inizio, quello filosofico, al secondo, quello politico: sono del resto lo Stato e la proprietà privata i dispositivi, come oggi diremmo, che ‘trasformano gli uomini in astrazioni’ in quanto essi stessi prodotti dell’uomo astratto”.48 Cerchiamo ora di riprendere più specificamente il rapporto tra Marx e la filosofia per comprendere come tale rapporto, così controverso, possa contribuire a fare luce sul metodo di Marx. 3. Dall’astrazione determinata ai rapporti sociali di produzione. L’uomo come ente naturale generico Eccoci allora di fronte alla necessità di una definizione precisa di quello che è possibile chiamare metodo marxiano. Metodo che certamente si preciserà – lo si percepirà dappertutto – nelle opere mature di Marx, cui dovremo quindi tra poco cominciare a fare esplicito e maggiore riferimento. Ma facciamo un passo alla volta. Ci pare sia necessario innanzitutto specificare alcuni passaggi teorici che Marx costruisce in rapporto stretto e critico con la filosofia tedesca (e non solo). Il movimento concettuale che fonda il metodo marxiano dell’astrazione determinata vede innanzitutto Marx rifiutare, a partire dall’idea di prassi, l’idea hegeliana di un procedere storico che può essere compreso secondo un movimento logico che vede l’astratto precedere il concreto. Nella Fenomenologia, afferma Marx, “Hegel [giustamente, N.d.A.] intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro”.49 Il problema è però che lo stesso lavoro è per Hegel il lavoro spirituale astratto. È qui molto preciso ancora una volta Colletti, che riprendendo il Marx della prima tesi su Feuerbach sottolinea come tale concezione manchi di assumere

l’attività come una attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente e non attivamente. “In Hegel, insomma, dove è afferrato con forza l’aspetto per cui l’oggetto è oggettivazione del soggetto, questo soggetto è solo spirito, autocoscienza, e non ente naturale finito che abbia fuori di sé e che sia quindi esso stesso oggetto per altri.”50 Nel materialismo (e in Feuerbach), invece, dove la natura è riconosciuta come parte dell’uomo, si commette l’errore di non collocare quest’ultimo nella storia e nei rapporti sociali che in essa si esprimono. Come risolve Marx tale questione? Il dibattito sull’argomento è stato molto intenso e dobbiamo cercare di precisarne i passaggi fondamentali, perché altrimenti niente può essere inteso del metodo che fonda il pensiero del comunista di Treviri. Il rischio presente nel dibattito che ha preso vita tra le diverse anime del marxismo è quello di separare il tema della produzione dalla società, in altre parole di non riuscire a tenere assieme materialismo e storia, natura e rapporto umano. Quando invece è proprio questa “confusione” che fa della teoria marxiana una potentissima novità sul piano della teoria della prassi. Durante l’attività produttiva, spiega Marx, “gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e la loro azione sulla natura, la produzione ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali”.51 Come afferma in maniera efficace e al contempo perentoria Lucio Colletti, è l’intreccio di questi due processi che fornisce la chiave del materialismo storico. “Il materialismo tradizionale, che considera gli uomini come un prodotto e un risultato dell’ambiente, dimentica, dice Marx (III tesi su Feuerbach), che gli uomini modificano a loro volta l’ambiente e che ‘l’educatore stesso deve essere educato’; dimentica che non basta considerare le circostanze pratiche materiali come causa e l’uomo come effetto, ma che occorre tener presente anche il movimento inverso: giacché, come l’uomo, che è effetto, è insieme causa della sua causa, così quest’ultima è a un tempo effetto del suo effetto.”52 Per quanto ci riguarda, crediamo che sia attorno a questa simultanea e reciproca contaminazione tra soggetto e oggetto che si presenta uno degli snodi fondamentali del cammino di Marx. Proviamo a dirne ancora qualcosa, sempre seguendo il ragionamento di Colletti. In estrema sintesi: l’uomo, esito

e prodotto della causazione naturale, innescherebbe contemporaneamente anche l’inizio di un processo causale nuovo, per certi versi opposto al primo, e nel quale l’inizio non sarebbe rintracciabile nell’ambiente materiale ma nell’idea dell’uomo, nel suo progetto, nel suo spazio concettuale. Questo secondo processo, all’interno del quale l’oggetto è posto come suo scopo e punto finale, è definibile come una causalità finale, mentre nel primo caso ci trovavamo di fronte a una causalità efficiente o materiale. In questo senso, e kantianamente, il finalismo capovolge l’ordine della causalità efficiente. “Ora, la simultaneità di questi due processi, ciascuno dei quali è il rovesciamento dell’altro e che insieme concorrono tuttavia a formare quella umwälzende o revolutionäre Praxis di cui è parola nelle Tesi su Feuerbach, è non solo la chiave e il segreto del materialismo storico della sua duplice accezione, appunto di causalità (materialismo) e finalità (storia), ma consente anche di spiegare quel luogo nevralgico dell’opera di Marx che è il suo concetto di ‘produzione’ o ‘lavoro’, in quanto produzione di cose e insieme produzione (oggettivazione) di idee, produzione e comunicazione intersoggettiva, produzione materiale e produzione di rapporti sociali.”53 Questo punto sarà fondamentale per comprendere il rapporto stretto del lavoro, inteso come attività finalistica, con la produzione della soggettività operaia, che sarà contenuto specifico del secondo capitolo. Anticipiamo qui che questo significa che il lavoro e la produzione non sono secondo Marx solamente processi che tematizzano il rapporto dell’uomo con la natura, ma anche linguaggio, in altre parole, rapporti simbolici che gli uomini stringono tra di loro in società. La produzione, afferma Marx, realizza non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. Secondo il pensatore tedesco, contrariamente a Hegel, non può mai esistere identità fra libertà e necessità: la consapevolezza di essere determinati dalla storia non produce mai un effetto di libertà nel soggetto (come invece tenderanno a pensare Engels e il marxismo ortodosso della Seconda Internazionale); al contrario, questa identità rischia di inchiodarlo, il soggetto, alle necessità del potere dominante e, forse ancor peggio, a una sorta di fatalismo cosmogonico, che appare a nostro avviso del tutto estraneo al pensiero di Marx (anche se, evidentemente, non al pensiero marxista tout court). Il rapporto deve sempre contenere la possibilità della scissione,54 e se così non fosse anche per Marx, allora il Nostro non potrebbe essere definito come un rivoluzionario.

4. Conclusioni: l’astrazione determinata e il metodo della tendenza La coimplicazione che abbiamo osservato, seguendo le riflessioni di Colletti, nel rapporto tra causalità e finalismo in Marx potrebbe essere, questa volta sul piano metodologico, analizzata all’interno della tensione fra induzione e deduzione. In fondo il concetto di astrazione determinata cui si fa riferimento solitamente per indicare il metodo marxiano (che è precisato dall’autore soprattutto nell’introduzione ai Grundrisse, la cosiddetta Einleitung, del 1859) si potrebbe porre anche a questo livello. In altre parole, assumere la centralità dei rapporti sociali di produzione all’interno del metodo del materialismo storico, e quindi la compenetrazione necessaria tra causalità e finalismo, significa anche indagare come la logica del procedere dell’indagine scientifica si faccia strada nel cuore stesso del pensiero di Karl Marx. Si potrebbe, ma se davvero lo facessimo, se seguissimo tale movimento fino in fondo, commetteremmo un imperdonabile errore. è cruciale, infatti, evitare di ridurre sul piano epistemologico e gnoseologico la portata del metodo marxiano: esso si realizza e precisa solamente nella sua specifica qualità teorico-pratica, ossia nella sua capacità di informare la costruzione di nuove realtà.55 In parole semplici e in sintesi, l’astrazione determinata assume il concreto, la determinazione storica del fenomeno, come un risultato, come “sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice”56; il concreto non è quindi ingenuamente assunto come presupposto, ma come qualcosa da rappresentare attraverso una deduzione, una oggettivazione concettuale, cioè una proiezione sul mondo dei nostri preconcetti. “D’altra parte – e qui di nuovo il finalismo si riconverte nella causalità, la deduzione nell’induzione – ciò che distingue gli inevitabili preconcetti della scienza dai pregiudizi del metafisico […] è che, ‘se la teoria è un prius, d’altra parte un principio primo della scienza è che i fatti sono sovrani’.”57 La tensione che costituisce il metodo marxiano fra teoria e prassi e fra semplice e complesso resterebbe piuttosto opaca se non provassimo a fare riferimento ad altri principi che a questi si accompagnano. A questo punto occorre allora, per comprendere meglio, introdurre un secondo movimento interno all’incedere marxiano. Senza questo passo ulteriore, infatti, la nostra

determinazione della soggettività marxiana come prassi resterebbe appesa all’idealismo come un salame in una cantina piena di muffa. “L’astrazione determinata è un fatto dinamico.”58 Cosa significa? Significa che esistono gradi diversi di astrazione, e che quest’ultima è continuamente attraversata da un dinamismo interno, agitato e agito sul piano storico da una soggettività determinata. Una soggettività che si determina sia a partire dalla posizione che occupa nella produzione, sia dalla lotta (di classe) che riesce a organizzare a partire da e dentro quei rapporti sociali. Si tratta, cioè, del concreto che cerca nell’astrazione la sua determinazione.59 In altre parole: un metodo, che procede di astrazione in astrazione producendo il concreto come sintesi. Il metodo di Marx si completa solo nel suo scriversi all’interno di una vocazione, di un progetto, di un desiderio collettivo che promuove una tendenza. Il metodo della tendenza è, d’altra parte, come sottolinea opportunamente Antonio Negri, un rischio collettivo. È soprattutto “un modo di leggere il presente alla luce del futuro, per gettare progetti, per illuminare il futuro”.60 La scienza marxiana si costruisce a partire da questo movimento che sollecita e costruisce il sapere come un sapere pratico della trasformazione. È quindi nell’articolarsi dell’astrazione con la tendenza che si precisa il criterio fondamentale della metodologia marxiana, quello del praticamente vero. Il praticamente vero, in sintesi, è dunque “la scienza che diviene concetto di trasformazione, possibilità e attualità di una forza trasformativa”.61 Il concetto di astrazione determinata e il metodo della tendenza, che abbiamo qui solo accennato nei suoi tratti fondamentali, ci permette però, finalmente, di proseguire con la nostra indagine sul pensiero inattuale di Marx. Non è quindi un caso che il ragionamento marxiano sul concetto di astrazione determinata trovi la sua collocazione principale all’interno della critica dell’economia politica classica, critica che in quanto tale e per la sua straordinaria rilevanza sarà contesto privilegiato dei prossimi due capitoli di questo volume.

2.

I rapporti sociali di produzione e la critica dell’economia politica

Fin qui abbiamo cercato di chiarire le qualità del metodo marxiano. Abbiamo sostenuto, a riguardo, che è l’iscrizione della soggettività all’interno di un movimento di trasformazione del mondo che costituisce, ponendo in una tensione irriducibile dimensione epistemologica e pratica, il perno del materialismo di Marx. Il concetto del praticamente vero ne è, in un certo senso, la sintesi concettuale: “ ‘Praticamente vero’ è dunque quel punto dello sviluppo categoriale nel quale l’astrazione si focalizza e raggiunge la completezza del suo rapporto con la realtà storica”.1 Nei capitoli che seguono dovremo allora, a partire da qui, occuparci di intendere e quindi descrivere il modo in cui Marx ha delineato e messo in forma il capitalismo e le sue caratteristiche fondamentali. La nostra convinzione è che, a questo scopo, per non disorientarsi troppo rispetto al cammino che ci attende, è prima di tutto obbligatorio rintracciare un elemento di continuità interno alle diverse fasi dell’opera del filosofo tedesco. È solo a partire dall’identificazione di questo che ci sarà infatti possibile spingere il ragionamento verso quelle che in letteratura sono definite come le opere “mature” di Marx. In proposito, tale elemento è, secondo noi, rintracciabile in quella che è conosciuta come teoria del valore. Lo stesso Lucio Colletti, nel suo testo già citato su Bernstein, mette nero su bianco questa capitale questione: è chiaro come “questa concezione della teoria del valore costituisca l’elemento di continuità più profondo tra l’opera giovanile di Marx e quella della piena maturità”.2 Siamo del tutto d’accordo con lui. Attorno alla costruzione di una teorica del valore, Marx delinea, fedelmente al suo metodo, un’analisi del capitalismo che non solo ha lo scopo di mostrare il modo in cui il valore si produce e distribuisce nella società capitalistica, ma anche e soprattutto quello di rendere palese – di portare alla luce – l’inganno che la classe borghese organizza in modo incessante nei confronti della classe operaia,

velandolo sotto i (supposti e affermati come naturali) principi dello scambio di mercato. È questo lo spazio concettuale all’interno del quale ci inoltreremo, secondo un metodo che potremmo definire “a matrioska”, che muove cioè da una prospettiva di analisi più generale ed esplicativa per poi scendere, di strato in strato, al più specifico, ed essenziale, senza mai perdere di vista il rapporto con l’intero del problema indagato.3 Procederemo in tal senso seguendo le linee più taglienti di quella che è universalmente conosciuta come la critica marxiana all’economia politica classica. A questo scopo occorre però aver presente fin da subito che tale critica è proposta da Marx per lo più dopo il 1848, anno che segnò la sconfitta dei moti rivoluzionari di quel periodo. Come infatti è stato notato,4 in tale mutato contesto viene meno da parte dell’intellettuale tedesco la possibilità di lavorare all’interno di una prospettiva immediatamente rivoluzionaria, mentre si fa strada, al contempo, la necessità di portare a un livello di astrazione (e analitica) maggiore l’attività di resistenza e lotta contro la società capitalistica. 1. L’accumulazione originaria: ovvero il capitalismo come rapporto sociale determinato Louis Althusser, in un contributo dei primi anni ottanta, propone in modo suggestivo di pensare il capitalismo come l’esito di un incontro. Crediamo sia utile riprendere, seppur molto rapidamente, tale scenario, perché ha l’indubbio merito di strappare l’analisi di Marx sull’origine del capitalismo a una prospettiva deterministica e storicistica. L’idea molto efficace, anche se, beninteso, non scevra da problemi metodologici, è quella di descrivere il capitalismo come un incontro fra “soggettività” differenti (portatrici di interessi diversi e al contempo complementari), che fanno presa nella storia, inaugurando delle nuove stabilità e una nuova tendenza di sviluppo della società produttiva. Lo sfondo teorico all’interno del quale il filosofo francese si muove è quello del suo materialismo aleatorio. Crediamo, in altre parole, pur nelle distanze che ci siamo già concessi di prendere da questo autore, che per sfuggire a una lettura teleologica (potremmo dire fedelmente hegeliana?) di Marx, possa essere utile considerare alcune riflessioni proposte da Althusser sulla “misteriosa” accumulazione originaria,5 che, come è noto, è stata sorprendentemente presentata da Marx non all’inizio ma solo alla fine

del Libro primo de Il Capitale e più esattamente nel capitolo XXIV.6 Questo “fatale” incontro, secondo il filosofo francese, racconta della cosiddetta accumulazione originaria (o primitiva), il momento cioè in cui si costituisce e fissa un nuovo modo di produzione e quindi un nuovo rapporto sociale come elemento chiave per garantire la riproduzione allargata del sistema capitalistico. È del rapporto salariale che stiamo parlando. Il modo di produzione capitalistico è infatti per Marx, intendiamoci bene su questo, prima di tutto l’instaurarsi duraturo e ripetuto (durevole, direbbe Althusser) di un rapporto fra il lavoro salariato e il capitale. “In innumerevoli passaggi Marx, e sicuramente non è un caso, ci spiega che il modo di produzione capitalistico è nato dall’‘incontro’ tra il ‘proprietario di denaro’ e il proletario sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza-lavoro. Capita che questo incontro abbia avuto luogo e abbia ‘fatto presa’.”7 Ciò che va sottolineato di questo modo di intendere la determinazione del capitalismo come incontro è il fatto che esso sia il risultato (sia cioè posteriore e non anteriore) della presa degli elementi che lo definiscono. L’incontro avrebbe anche potuto non aver luogo o avrebbe potuto non far presa. Ma, come nota molto opportunamente Sandro Mezzadra facendo riferimento alle pagine del filosofo marxista, soprattutto questo incontro potrebbe accadere anche in luoghi differenti da quelli dell’Inghilterra di fine Settecento, caratterizzati dalla presenza delle leggi sulle enclosures delle terre comuni. “Quel che rimane costante tuttavia, e di cui il capitolo sull’accumulazione originaria studia la genealogia, è la radicale differenza dei due soggetti che ‘si incontrano’ – e il cui rapporto costituisce il capitale.”8 Proviamo a dirne ancora qualcosa.9 Ciò che per Marx rende possibile l’incontro fra capitale e lavoro, e quindi la formazione del nuovo modo di produzione basato sul rapporto salariale, è da un lato la dissoluzione dell’insieme delle relazioni sociali organizzate secondo le norme del sistema feudale, norme che, vincolando la produzione e lo scambio all’interno di stringenti vincoli e regolazioni commerciali, impedivano, nei fatti, la formazione dei liberi mercati delle merci.10 In particolare, l’approvazione di leggi a favore dello sfruttamento intensivo delle terre agricole e la riconversione delle stesse in aree da dedicare all’allevamento e alla pastorizia (i capi di bestiame saranno destinati ad alimentare le nascenti industrie tessili), crearono le condizioni per lo sradicamento di enormi fette di popolazione dalle loro consuete attività di

produzione e riproduzione sociale. L’impossibilità di continuare a utilizzare le risorse della terra spinse infatti milioni di persone a “liberarsi” dai vincoli di sudditanza feudale (in tal senso, Marx parla beffardamente del lavoratore salariato come di un lavoratore libero) e a cercare i mezzi per la loro sopravvivenza attraverso il solo modo a loro rimasto: la vendita della loro unica proprietà, la forza-lavoro. D’altro canto, una quantità crescente di ingenti patrimoni monetari (determinati dal commercio e dall’usura) si era resa disponibile per l’investimento produttivo in nuovi impianti di produzione industriale (in particolare per l’acquisto di terreni, strumenti da lavoro e forza-lavoro). È una questione controversa che non ha sempre messo d’accordo tutti gli storici della società industriale. In ogni caso, Marx insiste a lungo su questo punto e, ad esempio nei Grundrisse, trova modo di essere molto esplicito: “È insito nel concetto del capitale, come abbiamo visto nella sua genesi, che esso proviene dal denaro, e quindi dal patrimonio che esiste sotto forma di denaro. Nel suo concetto è insito altresì che esso si presenti come risultato della circolazione, come prodotto della circolazione. La formazione del capitale pertanto non deriva dalla proprietà fondiaria […] e neppure dalla corporazione (sebbene a quest’ultimo proposito ci sia una possibilità); ma dal patrimonio mercantile ed usuraio”.11 D’altra parte, questo patrimonio monetario ora disponibile può e deve essere fruttuosamente impiegato in nuove attività produttive, spiega Marx, solo nel momento in cui il lavoro è separato dalle sue condizioni oggettive di esistenza. In altre parole, solo nel momento in cui questo patrimonio si incontra con una sufficiente quantità di lavoro libero. “La sua formazione originaria avviene invece semplicemente per il fatto che il valore esistente come patrimonio monetario, attraverso il processo storico della dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene messo in grado, da un lato di comprare le condizioni oggettive del lavoro, dall’altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai diventati liberi […]. Ed è questo processo che permette al denaro di trasformarsi in capitale.”12 Ce ne sarebbero davvero tante, ma sono almeno due le considerazioni necessarie che con Marx dobbiamo trarre, alla luce di questo incontro. La prima riguarda la definizione di una caratteristica tanto essenziale quanto originaria del rapporto sociale capitalistico, e cioè il fatto che il processo che prende avvio con l’instaurarsi delle nuove condizioni di produzione vede il determinarsi di una progressiva separazione del lavoratore dai suoi mezzi di

lavoro da una parte, e dai mezzi di sussistenza dall’altra.13 In questo senso, come sottolinea Marx nei Grundrisse, il concretizzarsi di questo incontro è anche la storia di una separazione drammatica e feroce: la storia della progressiva separazione del lavoro (condizioni oggettive) dal lavoratore (condizioni soggettive). Anche qui è ancora una volta Sandro Mezzadra a mettere le cose in chiaro: “Nessun ‘idillio’, dunque, ma un processo che dovrebbe essere chiamato come leggiamo in Salario, prezzo, profitto (1865) – ‘espropriazione primitiva’, seguendo il quale si scopre ‘che la cosiddetta accumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi storici i quali si conclusero con la dissociazione dell’unità primitiva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro’ ”.14 La seconda deriva direttamente dalla prima: non sono stati i possessori del patrimonio in denaro a inventare il filatoio o il telaio, piuttosto bisogna osservare la storia dell’origine del capitalismo come la storia dei “filatori e tessitori, [che] con i loro filatoi e telai, caddero sotto il potere del patrimonio monetario […]. Il capitale, di suo, non fa altro che unificare le masse di braccia e di strumenti che esso trova già. Esso le agglomera sotto il suo potere. Questa è la sua effettiva accumulazione”.15 È un passaggio per noi molto significativo, perché mostra un’altra caratteristica fondamentale del capitalismo in ogni stadio del suo sviluppo (ma che oggi è forse ancora più evidente), e cioè la sua sostanziale indole parassitaria.16 2. La cronaca dell’incontro tra capitalista e proletario Cerchiamo di ricostruire innanzitutto, seguendo Marx, la cronaca e lo sfondo di questo incontro che istituisce il capitalismo come un rapporto sociale specifico, per cercare solo in seconda battuta di osservarne e sottolinearne, con maggiore approfondimento, le logiche in atto e i diversi strati che sono qui continuamente in gioco. La questione cui dobbiamo innanzitutto fare riferimento è: “Che cosa è il salario? Come viene determinato?”.17 Il rapporto sociale di produzione capitalistico si realizza, come abbiamo visto, a partire da uno scambio (una compravendita) che si compie tra due soggettività: il capitalista e il proletario. Esse sono portatrici di interessi e bisogni profondamente diversi, che risultano però fra loro complementari. Il

rapporto sociale di produzione che li lega si scrive all’interno di una mediazione monetaria specifica denominata salario. “Il salario è la somma di danaro che il padrone paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. Il padrone compera dunque il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro […]. La forzalavoro, dunque, è una merce né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, e la seconda con la bilancia.”18 Ci troviamo di fronte a un rapporto determinato (che dobbiamo comprendere bene): tanto denaro per tanto tempo di lavoro. “Di fatto, quindi l’operaio ha scambiato una merce, il lavoro, contro merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato.”19 In questo rapporto si realizza uno scambio di una merce particolare che ha un suo valore definito. Il valore di scambio della forza-lavoro si fissa così in un salario che rappresenta il suo prezzo di acquisto sul mercato. Tale merce, la forza-lavoro, è particolare perché, come dice Marx (ma su questo torneremo approfonditamente quando ci occuperemo del concetto di sussunzione), è “contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo”. Il capitalista compra, con una parte del denaro che possiede, lavoro e materie prime, e gli strumenti che ne permettono la lavorazione. “Dopo aver fatto queste compere […] egli produce soltanto con materie prime e strumenti di lavoro che gli appartengono. […]. Il salario non è dunque, una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di lavoro produttivo.”20 La precisazione di Marx è importante perché sottolinea come in cambio di un salario il lavoratore sia inserito e coinvolto in un processo le cui finalità però non lo riguardano affatto. È in un passo subito successivo del testo Lavoro salariato e capitale (1849)21 che Marx introduce a riguardo una riflessione tanto decisiva quanto disarmante per chiarezza e lucidità: “Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere”.22 Il capitalista acquista tempo di lavoro per sostenere l’accumulazione, il proletario vende il proprio tempo per necessità. Il punto su cui dobbiamo insistere, perché è qui che si scrive tutta la storia della soggettività non proprietaria catturata all’interno del nuovo rapporto sociale (la cui alienazione è al suo massimo livello di espressione), è il fatto che l’attività vitale, il lavoro, è venduto a un terzo per potersi assicurare i mezzi di sussistenza necessari alla sua sopravvivenza. È il legame tra scambio economico e sopravvivenza a diventare, nel capitalismo,

coagulo inestricabile della soggettività sociale. In questo senso “la sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita”. E in modo ancora più significativo: “Esso [il lavoro salariato] è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio”.23 Confidiamo che chi ha avuto la pazienza di leggere questo lavoro fino a qui forse si ricorderà di come, in più occasioni, abbiamo ribadito l’importanza di intendere Marx nella tensione che sagittalmente attraversa la sua opera. Nei passaggi che stiamo presentando ci sembra siano piuttosto evidenti i debiti contratti qui da Marx rispetto alle sue tesi, per lo più essenzialistiche e antropologiche, esposte nella sua principale opera giovanile: i Manoscritti economico-filosofici, poi pubblicati postumi nel 1932. Siamo fermamente convinti, permetteteci di dirlo ancora una volta, che l’opera di Karl Marx non possa essere del tutto compresa se non si assume l’intimo rapporto interno alle diverse fasi della sua opera. Certamente, come sostiene Petrucciani, non si tratta di “esaltare o respingere i Manoscritti; entrambe le opzioni sono sbagliate e antistoriche. La questione interessante da mettere a tema sarebbe piuttosto quella di capire più a fondo il significato e il valore della critica marxiana del rapporto di danaro: in che senso il rapporto di danaro può essere giudicato come il pervertimento di una più originale relazione interumana, mediata dalla parola e dalla coordinazione cosciente?”.24 Cerchiamo allora di tenere ben presente, d’ora in avanti, questo “problema” (l’instaurarsi dello stretto rapporto fra soggettività e denaro), mentre proseguiamo nella cronaca della mediazione salariale come qualità fondamentale del rapporto sociale capitalistico. Ci tornerà certamente utile. Il fatto è, afferma Marx, che il lavoro non è sempre stato una merce. “Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero.”25 Questa è la qualità fondamentale che assume il lavoro nel rapporto capitalistico. “Lo schiavo non vendeva certamente al feudatario il suo tempo di lavoro: egli era lui stesso merce. Allo stesso modo il servo della gleba vende solo una parte

del suo lavoro sotto forma di tributo al proprietario. L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. […] L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita di lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza.”26 Il progetto di Marx, quello di costruire una critica scientifica dell’economia politica borghese, ha dunque come obiettivo fondamentale quello di mostrare come questa libertà che sembra qualificare, non solo formalmente, lo spazio della mediazione salariale sia in realtà un inganno, un trucco, che una classe, quella egemone, esercita su di un’altra classe, quella subordinata, per riprodurre a suo vantaggio il funzionamento del sistema e, nel tempo storico, le sue specifiche gerarchizzazioni sociali. 3. Capitalismo come rapporto sociale e l’assioma della crescita infinita Abbiamo visto, seguendo fin qui le argomentazioni di Marx, che il capitalismo è descrivibile come un rapporto sociale, rapporto che ha caratteristiche storicamente determinate e dipendenti dallo sviluppo delle forze produttive. “Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato di uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale.”27 Tale questione è per noi tutt’altro che secondaria: la critica all’economia politica classica che Marx propone prende infatti avvio proprio da qui. Come discute il filosofo tedesco all’inizio della Einleitung del 1857, occorre rifiutare innanzitutto l’idea di Smith e Ricardo (e di Rousseau) che possano esistere attori sociali che agiscono economicamente secondo interessi che sono per natura singoli e isolati. Occorre rifiutare con fermezza metodologica quelle che Marx sarcasticamente chiama con il nome di robinsonate, riferendosi alle argomentazioni “atomistiche” degli studiosi borghesi del Diciottesimo secolo. Non esistono – non possono esistere – infatti per il filosofo di Treviri soggetti isolati dal loro contesto sociale; questi devono sempre essere necessariamente intesi nel loro rapporto reciproco: “Questa è

l’apparenza, e soltanto l’apparenza estetica delle robinsonate piccole e grandi. […] Quando si parla di produzione, si parla quindi sempre di produzione a un determinato livello dello sviluppo sociale – della produzione di individui sociali”.28 E ancora, in modo ancora più chiaro nei Grundrisse: “La società non consiste di individui, bensì esprime la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro”.29 Rapporti che hanno, nel capitalismo, come primo requisito quello di dover necessariamente fare i conti, e quindi sostenere, una logica che fa perno, da un lato, sull’imperativo della valorizzazione continua del processo e, dall’altro, su di una distribuzione della ricchezza funzionale all’accumulazione proprietaria. C’è però, sullo sfondo, un’altra questione che non può più aspettare di essere chiarita e senza la quale l’analisi di Marx sul capitalismo (soprattutto nella sua cifra antropologica) non potrebbe essere pienamente compresa. Nel suo libro più importante, Il Capitale, specificamente nella Prefazione alla prima edizione,30 Marx propone un passaggio che luminosamente ci indica un’ulteriore caratteristica fondamentale del sistema capitalistico: il presentimento condiviso da tutti, anche dalla stessa borghesia, che “la società odierna non è un solido cristallo, ma un organismo capace di trasformarsi e in costante processo di trasformazione”.31 Il capitalismo è dunque sì un rapporto, ma quest’ultimo ha anche la caratteristica di essere plastico, cioè di modificarsi a seconda dei rapporti di forza tra le classi (quella borghese e quella proletaria) che danno storicamente vita alla relazione salariale. Ma forse sarebbe più appropriato dire operaisticamente, un capitalismo che si modifica a seconda della qualità della composizione di classe.32 Se infatti il capitalismo è descrivibile non come una cosa ma come un rapporto, allora nel capitalismo è presente, necessariamente (nel senso che non può essere mai del tutto evasa), un’instabilità, dovuta alla tensione sociale e politica inscritta nel cuore stesso del suo rapporto sociale di produzione. Il processo di valorizzazione che sostiene la produzione di capitale (la cui genealogia vedremo analiticamente nel prossimo capitolo) è infatti legato a doppio filo alla produzione continua (che ogni volta deve essere rinnovata) di due posizioni soggettive che, come abbiamo visto, solo nella presa del loro incontro creano le condizioni per una variazione positiva del valore immesso nel circuito economico (quello che Marx definisce con la formula D-M-D' – denaro-merce-più denaro). In altre parole, affinché la quantità di denaro investita dal capitalista possa essere

generatrice di una quantità di valore aggiuntivo, un surplus (e quindi attraverso di esso sostenere l’accumulazione), questa deve incontrare, seppur dialetticamente, una “libera” disposizione soggettiva al lavorare. La figura del capitalista e dell’operaio sono dunque entrambe logicamente necessarie per lo sviluppo capitalistico. L’una non può fare a meno dell’altra. L’operaio è infatti portatore di quella dynamis che lo rende, da un lato, mezzo indispensabile al capitalista per aggiungere valore al processo di produzione delle merci (e quindi in tal senso l’operaio è sfruttato dal capitalista) e però, dall’altro, collocato dalla sua stessa potenza in una posizione di eccentricità rispetto al capitale, di mai possibile e totale internità al processo stesso, pena, addirittura, l’esaurimento di quest’ultimo (è la regola antagonistica dello sviluppo).33 In tal senso, possiamo cominciare a descrivere la società capitalistica come uno spazio tensivo, all’interno del quale la forza-lavoro (la sua plasticità e potenza) occupa uno spazio estimo (interno ed esterno contemporaneamente) rispetto al capitale (interno, come capitale variabile, esterno come lavoro vivo). La conflittualità del rapporto capitale-lavoro (la sua asimmetria) è dunque un elemento imprescindibile del capitalismo, e il modo in cui questo viene politicamente governato, da un lato, e agitato dall’altro, è un punto di osservazione delle trasformazioni economiche e sociali davvero irrinunciabile. Da qui deriva anche l’importanza di recuperare, attualizzandolo al presente, il concetto operaista di composizione di classe, concetto in grado di osservare metodologicamente, e quindi contrastare praticamente, il processo contraddittorio, immanente e fondamentale, della società capitalistica: far sì che le insorgenze soggettive che si producono dentro questo rapporto sociale di produzione possano essere sempre ricondotte (con il minor sforzo possibile) all’interno di una logica di valorizzazione proprietaria. Alla luce di queste per noi nodali riflessioni di Marx possiamo a questo punto affermare che il capitalismo è affetto da un sintomo fondamentale, derivante dalla sua intrinseca necessità di valorizzazione continua e crescita. Ovvero la produzione di un sovrappiù. Il capitalismo si sostiene, è in grado cioè di riprodursi socialmente, soltanto se in grado di dilatare continuamente la produzione del valore e quindi attraverso di essa sostenere il suo allargamento produttivo. Con una metafora, discutibile ma che a noi pare efficace, potremmo dunque affermare che l’inconscio del capitalismo è per lo più definito, nel dispiegarsi dei suoi processi, da una pulsione che è

ciecamente rivolta a sostenere l’accumulazione, che è “preoccupata” in modo maniacale e irrefrenabile dalla produzione di un’eccedenza di valore e dalla sua riproduzione/distribuzione proprietaria. Sul piano meramente fenomenologico tale pulsione viene descritta da Marx ne Il Capitale attraverso la denuncia di uno spudorato sentimento di cupidigia – “il moto incessante del guadagnare” – della classe borghese, incapace proprio per questo di guidare la storia al di là dei suoi interessi parziali e verso il progresso del suo compimento. Incapace, inoltre, di decidere la direzione del processo di accumulazione che sembra talvolta sovradeterminare, incanalare in tal senso, anche la sua condotta: “L’autovalorizzazione del capitale – la creazione di plusvalore – è quindi lo scopo animatore, dominante ed ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo operare; in realtà, non altro che l’impulso e il fine razionalizzati del tesaurizzatore – un contenuto talmente astratto e meschino che, da un lato, fa apparire il capitalista come sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico non meno che, dall’altro, al polo opposto, l’operaio”.34 Ma non è ancora sufficiente, dobbiamo aggiungere qualcosa. La stessa pulsione, ed è questa la lezione degli economisti della scuola della regolazione,35 deve essere continuamente regolata, mediata, da istituzioni che ne frenino le inconsce vocazioni distruttive e mortifere e mantengano aperto, governabile e soprattutto fruttifero il rapporto sociale tra capitale e lavoro. Pena la distruzione dei mercati e della società in cui essi operano.36 Dice Marx: “[…] La circolazione del denaro come capitale è fine a sé stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura”.37 David Harvey, nel suo ultimo lavoro dedicato all’opera di Marx,38 fa riferimento al capitalismo e alla teoria del valore che ne descrive il funzionamento come “valore-movimento” e sottolinea l’importanza di chiarire la configurazione spazio-temporale all’interno della quale il movimento del capitale avviene. Un passaggio dei Grundrisse citato da Harvey nel suo volume è fondamentale per capire come l’allargamento continuo dello spazio dove si organizza e quindi realizza la circolazione del capitale, costituisca un principio fondamentale del funzionamento del sistema. Lo riportiamo di seguito: “Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato […]. La tendenza a creare il mercato mondiale è data

immediatamente nel concetto del capitale stesso. Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. […] La produzione di valore eccedente relativo […] richiede produzione di nuovo consumo […]. In primo luogo espansione quantitativa del consumo esistente; in secondo luogo: creazione di nuovi bisogni mediante la diffusione di quelli esistenti in una cerchia più ampia; in terzo luogo: produzione di nuovi bisogni e scoperta e creazione di nuovi valori d’uso. […] In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito”.39 Produzione ma anche circolazione, dunque. Il capitalismo si definisce dentro un ciclo allargato di riproduzione che abbisogna di essere aperto, chiuso e riaperto continuamente.40 “La circolazione e l’accumulazione del capitale si verificano in una specifica organizzazione di spazio e tempo, anche se contemporaneamente il capitale definisce e ridefinisce i tempi e gli spazi entro cui si muove.”41 Due sono quindi le condizioni che secondo Marx sono necessarie per la riproduzione allargata del sistema capitalistico: la formazione di mercati sempre più ampi (“sviluppo del mercato in mercato mondiale”) e la definizione del lavoro astratto come nuova qualità fondamentale del lavoro sociale e quindi dei processi di valorizzazione capitalistici. L’attenzione rivolta alla dimensione spaziale di sviluppo della nuova economia industriale fa di Marx anche uno dei primi “osservatori” di quel fenomeno che oggi chiameremmo con i nomi di mondializzazione dei mercati e/o globalizzazione; in ogni caso, rispetto agli obiettivi del presente lavoro, ci pare ancor più interessante e significativo sottolineare come per Marx, nell’analisi del capitalismo, sia la questione del tempo ad assumere ancor più rilevanza. Come sottolinea Harvey: “Nel Capitale, comunque, senza alcun dubbio Marx privilegia lo studio del tempo rispetto a quello dello spazio. Il valore è tempo di lavoro socialmente necessario nel mercato mondiale, il che contrasta con la molteplicità dei tempi, segnati dagli orologi concreti, che

producono valori d’uso. Mentre il plusvalore è una cosa, la divisione della giornata lavorativa in tempo di lavoro necessario ed eccedente (e la durata della giornata lavorativa che aumenta il plusvalore assoluto) è una grandezza su cui si combatte quotidianamente, con il capitale che cerca di accaparrarsi tutto il tempo di lavoro extra che può, con ogni tipo di sotterfugio, dentro e fuori del posto di lavoro”.42 La rilevanza del tempo nella società capitalistica è data, in primis, dal nesso che quest’ultimo costituisce con il tema del valore (attraverso il lavoro). Questo aspetto è molto importante perché iscrive una dimensione di commensurabilità generale che (attraverso il denaro) è in grado di realizzare l’allargamento e l’efficacia del mercato come istituzione fondamentale di legittimazione della società borghese. La concezione “industriale” del tempo, descrivibile come un movimento avanzato (e non reversibile), lineare e sequenziale, contabilizzabile e oggettivabile (macchinico) definisce la fabbrica orologio43 come dispositivo fondamentale del modello sociale capitalistico. Inoltre, come sottolineava Lukács, nel suo controverso ma per certi versi fondamentale Storia e coscienza di classe,44 la fabbrica “riduce il tempo e lo spazio ad un unico denominatore […] il tempo perde il suo carattere qualitativo, mutevole, fluido: esso si irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito da ‘cose’ quantitativamente misurabili (‘le operazioni’ reificate del lavoratore, oggettivate meccanicamente ed esattamente separate dalla sua personalità umana complessiva)”.45 Il modo di dire molto comune ancora oggi, il tempo è denaro, non nasce per caso. La stringenza e il condizionamento che tale concezione del tempo ha sulla formazione della soggettività nel capitalismo sono, diremmo, facilmente ravvisabili e difficilmente contestabili. Dobbiamo però fare attenzione e assumerli nella loro problematicità, altrimenti non ne potremmo cogliere gli aspetti reali. Ricordiamoci infatti che il capitalismo è un rapporto di sfruttamento e in tal senso non può mai darsi all’interno di una temporalità unica. L’indifferenza che il processo di sussunzione reale tenta di instaurare rispetto alla qualità dei processi sociali e della loro temporalità non può, infatti, mai darsi al di fuori della sua tendenza. Come sottolinea Antonio Negri in un suo volume dedicato alla costituzione del tempo46: “Marx coglie il passaggio dal tempo ridotto a convenzione dello spazio, a medietà, a misura dello sfruttamento, fino alla sua pura e semplice generale astrazione, e

quindi al suo inveramento mistificato, totale, nel mondo della vita quand’è la fase della sussunzione”,47 al contempo però all’interno di questo capovolgimento, dove cioè “il rapporto tradizionale tra tempo e spazio viene definitivamente rovesciato”, il tempo divenendo ora ontologicamente costitutivo della relazione sociale assume l’antagonismo del rapporto come sua intrinseca modalità di estensione. “Il tempo, quando si sostanzializza, non è meno bensì più contraddittorio”, determinando come esito inevitabile dei nuovi processi di sfruttamento la formazione collettiva di una temporalità operaia che, opponendosi al movimento di sussunzione, introduce nell’esercizio sociale dell’egemonia capitalistica nuovi antagonismi, nuove articolazioni, nuove resistenze, nuove misure del possibile. Il governo del capitale sulla vita al lavoro passa allora necessariamente dalla produzione di dispositivi temporali che pongano la soggettività, tendenzialmente (non è possibile farlo in senso assoluto), in un movimento che ha come linea di sviluppo soggettivo un processo di continua valorizzazione del corpo attraverso la partecipazione umana al lavoro.48 In breve, “gli uomini scompaiono davanti al lavoro; […] il bilanciere della pendola è divenuto la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive […], non si può più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa del tempo”.49 Si tratterà allora di comprendere come e dove questo processo estensivo di definizione di un tempo dell’indifferenza (che si scrive socialmente attraverso la generalizzazione del lavoro astratto) si rompe e inizia a produrre effetti imprevisti di eterogeneità e molteplicità temporale.50 E una volta individuate, in quel frangente organizzare una nuova politica temporale che sia, come auspicava Marx, finalmente rivoluzionaria.

3.

La produzione capitalistica come produzione di plusvalore

1. Lo specchio deformante dell’economia politica volgare Abbiamo deciso di intitolare il terzo capitolo di questo volume come la prima sezione del celeberrimo Capitolo vi inedito di Karl Marx, certamente uno dei più noti e importanti lavori del filosofo tedesco.1 La speranza è che queste nostre note che lo riguardano (del tutto interne e strumentali agli specifici obiettivi del presente volume) convincano coloro che ci leggono a buttarsi a capofitto dentro le sue avvincenti pagine; pagine che, tra le altre cose, sono indispensabili per capire la qualità della crisi del nostro presente. In questo testo, dove sono riassunte in modo chiaro e sintetico tutte le questioni presentate dal filosofo di Treviri nel Libro primo de Il Capitale, Marx ribadisce, innanzitutto, che il capitalismo deve essere inteso come un movimento incessante di accrescimento di denaro: se il capitale di partenza si presenta come una somma di valore uguale a x, questo stesso x diventa capitale se ad esso si aggiunge una quota di valore aggiuntiva (x + Δx), valore dato + plusvalore. In tal senso, “la produzione di plusvalore (che comprende la conservazione del valore originariamente anticipato) appare perciò come lo scopo determinante, l’interesse animatore e il risultato finale del processo di produzione capitalistico, ciò grazie al quale il valore originario si trasforma in capitale”.2 Il capitale è, come dicevamo, iscritto in questo movimento maniacale e ossessivo di accrescimento continuo. Il plusvalore è il suo sintomo. Questo movimento è il suo destino. Ma come si produce capitale? Come fattivamente si realizza l’accumulazione? Marx, nelle prime pagine del vi inedito, indica chiaramente che le condizioni, i presupposti che permettono il procedere reale di questa metamorfosi sono due. Il primo è che i membri concorrenti della società si fronteggino unicamente come possessori di merci; è questa la qualità

fondamentale dell’incontro fra lavoratori e possessori dei mezzi di produzione, di cui abbiamo ampiamente parlato nelle pagine precedenti. Non siamo dunque in presenza di rapporti sociali caratterizzati dall’esercizio di un potere politico assoluto e diretto sulla vita (come nel caso della schiavitù o del servaggio); questi rapporti, infatti, non sarebbero in grado di sostenere la produzione di plusvalore, non sarebbero cioè adeguati al movimento accumulatorio. La seconda condizione è che il prodotto sociale derivante dall’attività produttiva sia realizzato come merce e non come valore d’uso immediato. Affinché il processo segua questa strada occorre, allora, che durante la trasformazione della materia prima in merce vi sia uno scarto, si produca una eccedenza di valore. “A priori, in quanto somma di denaro data, x è una grandezza costante il cui incremento è quindi = 0. Nel corso del processo essa deve trasformarsi in un’altra grandezza contenente un elemento variabile.”3 Si tratta, dunque, come scrive Marx, di scoprire questo elemento e precisare il modo in cui la grandezza che all’inizio del processo appariva come costante divenga altrimenti una grandezza variabile. L’analisi proposta a riguardo è tanto articolata quanto ordinata: “La vera, specifica funzione del capitale in quanto capitale è quindi la produzione di plusvalore e questo, come apparirà in seguito, non è altro che produzione di pluslavoro, appropriazione di lavoro non pagato all’interno del processo di produzione reale; pluslavoro che si esprime, si materializza in plusvalore”.4 Tutto molto semplice? Solo in apparenza. Infatti per poter comprendere al meglio quello che accade all’interno dei nuovi rapporti sociali di produzione serve, da un lato, cominciare a introdurre nuovi concetti marxiani (l’alienazione, in primis) e, dall’altro, cominciare a fare i conti con le dense ambivalenze e talvolta aporie del discorso marxiano. Queste fanno un’importante apparizione sul palcoscenico del suo “insegnamento” nel momento in cui entra in scena il lavoro e la sua capacità valorizzante. Ecco allora, ad esempio, che la merce appare contemporaneamente secondo due diverse prospettive, che sono tra loro, nel capitalismo, inseparabili: la merce, scrive Marx, è unità immediata di valore d’uso e valore di scambio, e come la merce, il processo produttivo appare contemporaneamente come processo lavorativo e processo di valorizzazione. Soffermiamoci dunque su tale questione, domandandoci prima di tutto cosa significa parlare di valore d’uso. Lucio Colletti, in proposito, ci fornisce

una chiave interpretativa molto interessante. Nel suo Il marxismo e Hegel scrive: “La merce è un ‘valore d’uso’, una ‘cosa’, che nasconde in se stessa un’oggettività non-materiale, il ‘valore’: come il cristiano, è unità del finito e dell’infinito, unità degli opposti, essere e non-essere insieme”.5 Approfondiremo la questione del lato mistico del valore (non da tutti i commentatori è accettata l’idea che il valore si presenti come elemento “irrazionale” del ragionamento marxiano), quando nel prossimo capitolo affronteremo l’argomento del feticismo delle merci. Per adesso limitiamoci a sottolineare e a indicare come a nostro avviso (e non solo, ovviamente) vi sia qui, nella questione del doppio statuto della merce, un punto fondamentale, architettonico diremmo, del pensiero di Marx.6 Marx sottolinea, dunque, come in corrispondenza della duplicità della merce (come abbiamo visto, la merce possiede contemporaneamente una sua peculiare utilità – il suo valore d’uso – e un valore, in quanto incorpora una quantità di ricchezza astratta e generica – il suo valore di scambio) si possa riconoscere un’altra ambivalenza, questa volta però all’interno del processo di produzione. Più specificamente, nella nota a p. 7 del vi inedito, Marx, rimandando il lettore al Libro primo de Il Capitale, ribadisce come “il processo lavorativo […] è attività finalistica per la produzione di valori d’uso; appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani; condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura; condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e anzi è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana”. D’altro canto, però, nel capitalismo il processo di produzione, spiega ancora Marx, è un processo di valorizzazione, ovvero un processo il cui obiettivo non è più quello di produrre oggetti dotati di utilità sociale, capaci cioè di soddisfare i bisogni (valori d’uso), ma diversamente, il suo scopo è la produzione di valore e più precisamente la produzione di plusvalore. Afferma Marx in proposito “che c’è unità immediata tra processo lavorativo e processo di valorizzazione; e ciò nel senso che non si tratta di due processi diversi, ma di due aspetti d’un processo unico, visto una volta nella sua determinazione naturale, e un’altra volta nella sua determinazione sociale; una volta per ciò che esso ha di generico, o comune al processo produttivo in generale, indipendentemente dalla forma della società, e un’altra volta per ciò che esso ha di specifico, ossia di storicamente determinato”.7 Nella società borghese, dunque, il processo di produzione e le attività che

lo svolgono assumono una configurazione inedita. Prima di tutto, nel capitalismo i mezzi di produzione utilizzati dagli operai durante il processo di lavorazione sono di proprietà del capitalista e per questo “si ergono in quanto capitale di fronte al lavoro dell’operaio, della cui vita questo è l’estrinsecazione stessa”.8 D’altra parte però, continua Marx, è ancora l’operaio che li utilizza durante l’atto produttivo e il risultato del suo lavoro (l’oggetto di lavoro) è il sostrato materiale sul quale questa attività si rappresenta nella pratica. Diversamente, invece, succede durante il processo di valorizzazione: in questo caso “non è l’operaio che utilizza i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che utilizzano l’operaio”, ecco che si compie un vero e proprio capovolgimento tra soggetto e oggetto dell’atto di produzione. Continua quindi Marx, “non è il lavoro vivo che si estrinseca nel lavoro materiale come nel suo organo oggettivo, ma è il lavoro materializzato che si conserva e si accresce succhiando lavoro vivo, divenendo così valore che si valorizza, capitale, e come tale funzionando”.9 In questa situazione il lavoro ha allora come scopo la valorizzazione del capitale e i mezzi di produzione appaiono come inizio e fine del processo di produzione, e così il lavoro è anch’esso ridotto a mezzo per l’esecuzione di quest’ultimo. Il punto che deve essere qui evidenziato è, però, un altro, e cioè che nel modo di produzione specificamente capitalistico il lavoro “ossia l’esplicazione della ‘sostanza valorificante’, il lavoro stesso non è che mezzo alla valorizzazione e in questo senso è usato dai mezzi di produzione, che ne ‘assorbono’, ne ‘succhiano’ la quantità occorrente a tale valorizzazione”.10 Quando il lavoro si trova ridotto a mezzo di un processo che ha come fine la sua propria valorizzazione, separato dalla volontà di chi agisce, e quindi consegnato non solo alla proprietà altrui ma anche a un movimento che non gli appartiene, ecco che ci troviamo di fronte a quella che Marx definisce alienazione del lavoro. “Come sforzo, come estrinsecazione di energia vitale, il lavoro è attività personale del lavoratore; ma, in quanto creatore di valore, in quanto coinvolto nel processo della sua oggettivazione, il lavoro dell’operaio, entrato che sia nel processo produttivo, è esso stesso un modo di esistere del valore-capitale, sua parte integrante. Questa forza che insieme conserva valore e crea nuovo valore è quindi forza del capitale e questo processo appare come il processo della sua autovalorizzazione; meglio ancora, dell’immiserimento dell’operaio, che crea valore ma lo crea come valore a lui

straniero.”11 Il capitale, quindi, un definito e storicamente determinato rapporto sociale, si confonde, nell’azione di comando agita sul lavoro vivo, con i mezzi di produzione che, in quanto cose, riducono il lavoro, o meglio la capacità lavorativa vivente, al rango di una cosa. Il denaro, inoltre, che serve al capitalista per acquistare il lavoro sul mercato, fornisce a quest’ultimo la sua forma sociale, determinandolo come merce, come proprietà di una cosa. Ne deriva che “Il dominio del capitalista sull’operaio è quindi dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore, poiché le merci che diventano mezzi di dominio (ma solo come mezzi di dominio del capitale stesso sull’operaio) non sono a loro volta che risultati del processo di produzione, i suoi prodotti […]”.12 Ecco che si mostra in tutta la sua rilevanza l’inversione soggetto-oggetto che, in modo simile a quanto accade nella religione (secondo Marx), riduce l’uomo alla mercé di forze che sono indipendenti da sé. È questo il processo di alienazione del lavoro: il processo lavorativo si mostra finalmente nella sua qualità capitalistica, cioè come mero mezzo del processo di valorizzazione, “esattamente come il valore d’uso del prodotto appare solo come supporto del suo valore di scambio”. Quindi, pur avvenendo nello stesso tempo di produzione, l’identità tra il processo di lavorazione e il processo di valorizzazione non è “perfettamente verificata”, in quanto l’uno in realtà si trova a essere solamente il mezzo per il raggiungimento del fine dell’altro. Come, inoltre, sottolinea Claudio Napoleoni,13 per approfondire il rapporto tra processo lavorativo e processo di valorizzazione, la loro unità immediata nel processo di produzione capitalistico, è necessario affrontare anche un’altra cruciale questione posta da Marx nelle prime pagine del vi inedito. Nel processo produttivo capitalistico, basato sulla relazione salariale, si evidenzia, infatti, ancora una volta una critica di Marx all’economia politica borghese (o classica, come la definisce lo stesso Marx). Più specificamente, l’unità tra processo di lavoro e processo di valorizzazione apparirebbe secondo gli interpreti borghesi come un fatto naturale, come una condizione eterna del processo di produzione. “Con il che il capitale, anziché essere visto come un rapporto sociale di produzione, è visto come una cosa, cioè è identificato con i mezzi di produzione.”14 Marx è molto chiaro nella sua critica: se procediamo in questo modo, se ne potrebbe dedurre che ogni lavoro sia sempre e necessariamente un lavoro salariato, prescindendo così

dalle differenze specifiche e reali che caratterizzano invece ogni diverso rapporto sociale di produzione. “Vedremo poi come l’illusione degli economisti – per cui si scambia per processo lavorativo la sua appropriazione da parte del capitale, e quindi si trasformano senz’altro in capitale gli elementi oggettivi del processo lavorativo perché il capitale si converte fra le altre cose negli elementi materiali, oggettivi, di questo processo –, come, dicevamo, questa illusione, che negli economisti classici dura solo finché essi considerano il processo di produzione capitalistico esclusivamente sotto l’angolo visuale del processo lavorativo, nasca dalla natura stessa del processo di produzione capitalistico. Ma ci si accorge subito che è un metodo molto comodo per dimostrare l’eternità del modo di produzione capitalistico, ovvero per fare del capitale un elemento naturale immutabile dell’esistenza umana.”15 Ecco in cosa consiste lo specchio deformante dell’economia politica classica: mostrare come generale, naturale aggiungeremmo noi, inevitabile, un modo di estrazione e proprietarizzazione del valore che in realtà nasconde, sotto il velo della libertà di mercato e delle eguaglianze formali che implica, un esercizio violento e sanguinario16 di un potere storicamente determinato. Dunque ne deriva che: “Per Marx, l’ineguaglianza sociale moderna, o sfruttamento capitalistico, si produce a un tempo col pieno e totale sviluppo dell’eguaglianza giuridico-politica”17; per il filosofo tedesco quest’ultima, infatti, introduce, e in particolare attraverso il diritto di proprietà, le condizioni per l’espropriazione della ricchezza; potremmo anche dire che tale condizione di eguaglianza formale istituita dallo Stato borghese è valutata da Marx, contrariamente al pensiero socialista e socialdemocratico, dove invece tale eguaglianza è espressione di una legalità che può fungere da leva per eliminare o tentare di rimarginare le diseguaglianze sociali, la base per l’esercizio dello sfruttamento di una classe sull’altra. Non è, questa, una questione da poco. Come vedremo approfonditamente nel prossimo capitolo, questa mistificazione, la mistificazione dell’economia politica classica, è uno dei momenti di quel fenomeno più generale che Marx inchioda all’esistenza stessa del capitalismo e che definisce feticismo. Tale mistificazione è inoltre a fondamento dell’esercizio retorico attraverso cui gli economisti classici gestiscono il paradosso alla base del capitalismo. Di cosa si tratta? Del fatto, come già parzialmente anticipato, che la legge del valore, come afferma ad

esempio Adam Smith, è la legge dello scambio di mercato che funziona, e che può funzionare solamente in base alla fissazione di equivalenze di valore. “Questa legge, oltre all’eguaglianza di valore delle merci scambiate, presuppone anche, come sottolinea pure Marx, l’eguaglianza dei contraenti dello scambio. Nello scambio, infatti, i ‘possessori di merci debbono riconoscersi reciprocamente quali proprietari privati’ istituendo un ‘rapporto giuridico, la cui forma è il contratto, sia o no svolto in forme legali’. Ora il ‘paradosso’ è che, mentre la produzione delle merci diviene dominante per la prima volta solo nelle condizioni capitalistiche, proprio in questo caso in cui la legge del valore dovrebbe trovare la sua piena applicazione, essa sembra invece contraddetta dal fenomeno del plusvalore e dello sfruttamento, cioè dalla comparsa di uno scambio ineguale.”18 Non dimentichiamoci dunque, in conclusione di paragrafo, che: “Il processo di valorizzazione in quanto tale è essenzialmente processo di produzione di plusvalore, processo di oggettivazione di lavoro non pagato. È questo,” afferma Marx, “che determina specificamente il carattere totale del processo produttivo”19 capitalistico e i suoi intrinseci paradossi. Ora, quindi, per procedere dobbiamo spostare la nostra attenzione sul tema del lavoro salariato inteso come lavoro alienato. 2. Il lavoro astratto e il tempo di lavoro socialmente necessario Nel lavoro di Marx c’è un punto che non abbiamo ancora approfondito e che invece ha un peso specifico rilevante per la qualità complessiva delle nostre argomentazioni. Ci riferiamo al fatto che la dimensione sociale nel capitalismo si presenta con caratteristiche inedite rispetto al passato in quanto condizionata e quindi determinata attraverso la mediazione del prodotto. Il legame sociale non può più costituirsi a partire dalle appartenenze tradizionali di tipo comunitario, come d’altra parte la sociologia classica preciserà molto bene qualche anno più tardi di Marx.20 In altre parole e più specificamente, nel capitalismo la costituzione della società sarebbe il frutto di un movimento a posteriori rispetto al lavoro, movimento che è guidato dalla circolazione del valore delle merci. Il modo in cui la società organizza la produzione e la distribuzione del valore svolge dunque, secondo Marx, un ruolo determinante. In una società dove l’alienazione del lavoro fosse superata, al contrario, il lavoro sarebbe immediatamente sociale e la società il risultato

diretto dell’azione dei produttori, e soprattutto, così, realizzata senza la mediazione delle cose.21 Il legame sociale nel capitalismo è altrimenti il frutto dell’organizzazione ex post degli scambi tra soggetti concorrenti che, animati da interessi egoistici e privati, agiscono sul mercato nel tentativo di massimizzare il loro guadagno; il frutto delle relazioni mediate dal valore delle merci, che il denaro rende universalmente scambiabili (il denaro, cioè, è qui visto come il mezzo per la circolazione delle merci). Come ben sottolinea Petrucciani, in quest’ottica la società appare allora, feticisticamente, come il risultato dello scambio fra produttori privati e indipendenti, e assume la sua consistenza attraverso le relazioni di interdipendenza che si instaurano tra i differenti produttori (quindi solo nel coordinamento che si produce ex post). In realtà questa modalità di fare società che secondo l’economia politica classica appare come una condizione naturale e generale, spiega Marx, non è altro che una condizione storicamente determinata, che garantisce il funzionamento nel tempo del capitalismo di mercato e sostiene il suo continuo allargamento a scapito dei diversi “vincoli” territoriali dei singoli contesti di produzione. Il lavoro, socialmente determinato, nel movimento capitalistico cambia dunque di qualità. Il lavoro nel capitalismo è per Marx lavoro alienato perché assunto nella sua forma di merce e di mezzo per la creazione del valore e non invece nel suo carattere specifico e concreto, quello che “imprime al valore d’uso da esso prodotto il suo specifico marchio e ne fa un valore d’uso concreto differente da altri”.22 Quando il lavoro viene astratto da quella che è la sua particolare utilità e determinazione, quando l’esito della sua azione è una merce dotata di valore di scambio sul mercato, allora il lavoro è “lavoro indifferenziato, generale, socialmente necessario, indifferente a qualsivoglia contenuto, e quindi trova la sua espressione autonoma nel denaro, nella merce come prezzo, un’espressione comune a tutte le merci e solo distinguibile per la sua quantità”23; determinato inoltre nella sua forma privata (e non sociale) e, come aggiunge Marx, rappresentato in un prodotto determinato che deriva da quest’ultima. In tal senso nel capitalismo: “Il lavoro privato deve dunque rappresentarsi immediatamente come il suo contrario, come lavoro sociale, come lavoro astrattamente generale, che si rappresenti quindi anche in un equivalente generale. È solo con la sua alienazione che il lavoro individuale si rappresenta realmente come il suo contrario”.24 Ci resta ancora da precisare un punto. Perché per descrivere l’alienazione

Marx ricorre al concetto di lavoro socialmente necessario? Per due ragioni fondamentali: la prima ha a che fare con la diversa modulazione attraverso cui il lavoro viene erogato da ciascun produttore. L’efficienza dell’erogazione non può infatti essere uguale per tutti, quindi va considerata, necessariamente, l’abilità media che le condizioni tecnologiche delle forze di produzione storicamente determinate sono in grado di estrinsecare nel processo di produzione del valore. Questo calcolo è formalizzabile solo nel momento in cui è possibile precisare un tempo di lavoro astratto che, in quanto tale, non dipende dalle qualità singolari di ciascun lavoratore, impegnato nelle diverse aree di produzione sociale. “Il lavoro umano astratto, dunque, è la sostanza del valore di scambio e la misura della sua grandezza; i concreti e differenti lavori umani sono, invece, la fonte dei valori d’uso della ricchezza intesa non come valore e denaro ma come possibilità di soddisfare bisogni umani.”25 Nel capitalismo, come ribadisce David Harvey a riguardo, è “il tempo di lavoro socialmente necessario e non il tempo di lavoro effettivo che conta. Il ‘socialmente necessario’ comporta l’esistenza di qualche ‘mano invisibile’ o ‘legge del moto’ a cui obbediscono sia il capitalista che il lavoratore”.26 In tal senso, il capitalismo introduce nella sua retorica di giustificazione un elemento “metafisico” (feticistico), essendo animato dalla produzione di valore di scambio piuttosto che dalla soddisfazione dei bisogni sociali; il capitalismo è inoltre anche una società in cui il quantitativo ha una priorità fattuale sul qualitativo. La seconda ragione che sta alla base del concetto di socialmente necessario usato da Marx rispetto alla questione del valore prodotto attraverso il lavoro concerne, come altri interpreti hanno sottolineato,27 l’apprezzamento della merce che si produce sul mercato dei beni. Ma tale questione, che riguarda il valore di scambio di una merce oltre il tempo di lavoro speso per realizzarla, rivela nuove dimensioni del problema (rispetto alla teoria del valore-lavoro) che non possiamo approfondire; ci basti considerare qui che tale questione riguarda, nel lessico marxiano, il problema della cosiddetta realizzazione del plusvalore, e cioè la possibilità, o meno, da parte della società capitalistica di consumare effettivamente quello che viene prodotto dall’industria. Il salto mortale della merce, lo chiamava Marx. Dinanzi a noi e al nostro filo rosso argomentativo si presenta dunque il problema di capire bene come possano darsi condizioni di scambio tra valori equivalenti in un contesto in cui è il profitto, e quindi l’eccedenza, a costituire

l’imperativo del sistema produttivo. In altre parole, dobbiamo cominciare a indagare la questione del lavoro non pagato (cui non viene corrisposto un salario) che è alla base del processo di sfruttamento del lavoro. La risposta è da ricercare, in primis, nelle qualità esclusive di quella merce particolare che viene scambiata sul mercato capitalistico in virtù dell’incontro fra capitalista e proletario: la forza-lavoro. 3. La forza-lavoro e l’analitica della produzione di plusvalore Il Capitolo vi inedito presenta a p. 33 una sezione fondamentale su cui dobbiamo ora soffermarci. La sezione si intitola “Sfera della circolazione e sfera della produzione: il lavoro salariato presupposto necessario della produzione capitalistica”. In questa parte del volume Marx analizza la duplicità intrinseca al rapporto di compravendita che si realizza tra capitalista e operaio nel mercato del lavoro. “Duplice nel senso che questo rapporto, mentre per un verso è un rapporto assimilabile a qualsiasi altro rapporto di scambio, e quindi si svolge secondo la legge generale del valore e comporta lo scambio, tra questi due soggetti, di valori equivalenti, invece per un altro verso è uno scambio tra quantità ineguali di lavoro, e in questo senso si distingue da tutti gli altri atti di scambio.”28 Come spiega Claudio Napoleoni, non è possibile osservare tale questione, in apparenza contraddittoria, in modo teoricamente efficace, se non si introduce una coppia terminologica che è fondamentale in Marx: si tratta dei concetti di sfera della circolazione e sfera della produzione. Nel capitolo precedente abbiamo già descritto il modo in cui il rapporto fra capitale e lavoro si inscrive nella storia del capitalismo, ora dobbiamo cercare di precisare il modo in cui questo incontro produce degli effetti di valorizzazione, effetti che servono al capitalismo per sostenere e quindi riprodurre in modo allargato il processo di accumulazione. Secondo Marx, come dicevamo, è possibile, anzi necessario, per superare le impasse dell’economia politica classica, distinguere due fasi del processo: la prima, la compravendita della forza-lavoro, che avviene all’interno di quella che il Nostro definisce sfera della circolazione, e cioè il mercato del lavoro; e la seconda, il consumo della forza-lavoro acquistata sul mercato, che coincide con il processo di produzione vero e proprio, cioè con le attività di trasformazione della materia prima per la produzione di merci.

Nella prima parte del processo, il capitalista e il proletario si fronteggiano unicamente come due uomini d’affari, il primo cui serve comprare lavoro per realizzare l’allargamento della sua attività produttiva, il secondo che abbisogna di vendere lavoro per acquistare, via salario, i mezzi di sussistenza necessari per la sua sopravvivenza. Ciò che è importante sottolineare è allora quello che in questa fase distingue il proletario dagli altri venditori di beni, e cioè “la natura specifica, il valore d’uso specifico, della merce da lui venduta”. Sul piano formale dunque non ci sono differenze: il rapporto salariale è un rapporto commerciale come gli altri che si instaura tra uomini liberi e diversamente interessati. “Ma se consideriamo l’intero capitale, cioè l’insieme degli acquirenti di forza-lavoro, da un lato, e l’insieme dei venditori di forza-lavoro, cioè l’insieme degli operai, dall’altro, allora l’operaio è costretto a vendere non una merce qualunque, ma la sua capacità lavorativa come merce, appunto perché l’insieme dei mezzi di sussistenza gli stanno di fronte al polo opposto come proprietà altrui […]. Di conseguenza ciò che già nel primo processo – cioè precedentemente alla reale trasformazione del denaro o delle merci in capitale – imprime ad essi come suggello un carattere di capitale non è né la natura di denaro del primo, né la specifica natura, il valore d’uso materiale delle seconde come mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, ma il fatto che quel denaro e quelle merci, mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, si ergono di fronte alla forza-lavoro spogliata di qualunque ricchezza materiale come potenze autonome impersonate dai loro proprietari; il fatto che le condizioni materiali necessarie alla realizzazione del lavoro sono estraniate all’operaio, anzi gli appaiono feticci dotati di volontà e d’anima proprie; il fatto che le merci figurino come acquirenti di persone.”29 Ci scusiamo per la lunga citazione ma questo passaggio di Marx è davvero illuminante ed era doveroso presentarlo per esteso. Riprendiamo il filo del nostro ragionamento: abbiamo visto che fino a quando ci troviamo all’interno della sfera della circolazione, tra il venditore di forza-lavoro e un qualsiasi altro venditore di merci, l’unica differenza ravvisabile riguarda il tipo di merce (la sua natura specifica) che viene scambiato. Lo scambio, il rapporto di concorrenza che si iscrive tra compratore e venditore di forzalavoro, nasconde, vela le differenze sostanziali interne al rapporto salariale. Affinché questo trucco, questa mistificazione dell’economia politica classica, sia possibile basta “isolare il primo processo, limitandosi a considerarne il

carattere formale”, è sufficiente cioè separare la sfera della circolazione dalla sfera della produzione. Se invece osserviamo il processo nella sua interezza notiamo che in realtà “non è l’operaio che acquista mezzi di sussistenza e mezzi di produzione; sono i mezzi di sussistenza che acquistano l’operaio per incorporarlo ai mezzi di produzione”.30 Nella sfera della produzione accade che la forza-lavoro, messa in contatto con i mezzi di produzione, è in grado di aggiungere una quantità di valore che non è stata considerata nel momento della sua compravendita. Questo avviene perché la merce scambiata è particolare, in quanto non riguarda un possesso dell’operaio, alienato in cambio di denaro, ma riguarda la vendita della soggettività stessa dell’operaio, visto che la forza-lavoro è composta da una serie di facoltà che esistono in quanto sono incorporate nell’operaio stesso e non separabili dalla sua stessa esistenza. La definizione più nota di Marx di forza-lavoro si trova nel Libro primo de Il Capitale, nel paragrafo III del capitolo IV, dedicato alla trasformazione del denaro in capitale, ed è bene averla presente: “Per forzalavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche o intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere”.31 In poche parole, il rapporto salariale è descrivibile come una compravendita di una merce viva, capace di aggiungere, proprio in quanto viva, un elemento differenziale di valore, una volta che è stata immessa nel processo di produzione immediato. Ci torneremo presto. Prima però è molto importante sottolineare il fatto che, essendo il proletario nullatenente, lo stesso si troverà nella necessità (non potrà fare altrimenti) di accettare la relazione di subordinazione che gli viene proposta in cambio della possibilità di accedere, via salario, a quelle merci che gli garantiscono la sopravvivenza (i mezzi di sussistenza). Il proletario è, infatti, per definizione un nonproprietario e non ha nulla da vendere se non la sua stessa soggettività. Il salario in tal senso, il potere di comando monetario che il capitalista possiede nei confronti dell’operaio e della sua vita, non è altro che il denaro, o meglio ancora, è rappresentato socialmente dalla somma di denaro che il capitalista può anticipare all’operaio per l’acquisto dei mezzi di sussistenza. Mezzi che come i mezzi di produzione e le materie prime sono, nel sistema capitalistico, proprietà esclusiva della classe borghese. Per riepilogare, dunque, possiamo dire che l’atto di scambio tra

equivalenti mediato dalla convenzione salariale (salario in cambio di forzalavoro) non è, per Marx, che la (seppur indispensabile) prima parte di un processo che nella sua totalità prevede un momento successivo, definito come processo di produzione reale (che è anche processo lavorativo); all’interno di tale processo diviene finalmente evidente che quanto in un primo momento appariva come uno scambio tra valori equivalenti, non è altro che un modo che una classe ha organizzato per estorcere valore a un’altra. “Quindi occorre lo scambio perché il capitalista si appropri di forza-lavoro, ma l’appropriazione di forza-lavoro non è che il tramite all’appropriazione del lavoro vivo […]; e come l’appropriazione di forza-lavoro si fa mediante il capitale variabile, così l’appropriazione di lavoro vivo si fa mediante il capitale costante.”32 4. Sussunzione formale (plusvalore assoluto) e sussunzione reale (plusvalore relativo) del lavoro al capitale Il modo di produzione capitalistico è dunque, come abbiamo appena visto, il risultato di due processi tra di loro interconnessi: il primo facente riferimento alla sfera della circolazione e il secondo alla sfera della produzione. Il processo di valorizzazione della merce è l’esito del processo di consumazione della forza-lavoro acquistata dal capitalista sul mercato. Il lavoro è l’elemento fondamentale per sostenere l’accumulazione capitalistica: una volta che viene materialmente utilizzato è infatti capace di sprigionare una sorta di energia valorizzante (lavoro vivo) che non era subito visibile nella sfera della circolazione, dove, come abbiamo più volte sottolineato, apparentemente si realizza uno scambio tra valori equivalenti secondo la legge economica del valore. “Ne segue che il lavoro salariato è condizione necessaria della formazione del capitale, presupposto necessario e permanente della produzione capitalistica.” Durante il processo di produzione che sotto il comando del capitale è, ricordiamocelo sempre, orientato da un processo di valorizzazione, “il capitalista consuma la capacità lavorativa dell’operaio, ovvero si appropria il lavoro vivo, come sangue vitale del capitale. La materia prima, l’oggetto del lavoro in generale, non serve qui che ad assorbire lavoro altrui, e lo strumento di lavoro non serve che da conduttore, da veicolo, per questo processo di assorbimento”.33 Attraverso i mezzi di produzione di cui è proprietario, il capitale assume una forma

adeguata all’assorbimento di lavoro vivo: il lavoro morto od oggettivato assorbe il lavoro vivo durante il processo di produzione. Dobbiamo ora precisare il modo mediante il quale, nel processo, si produce un valore aggiuntivo, un surplus, chiamato da Marx plusvalore. Quando la forza-lavoro viene impiegata dal capitalista nel processo produttivo, essa è in grado, in virtù delle sue particolarissime qualità viventi, di erogare una quantità di lavoro superiore a quella equivalente al lavoro necessario a produrre i mezzi di sussistenza, il cui valore è uguale al salario erogato all’operaio. Vedremo meglio in che modo, secondo Marx, empiricamente, le qualità particolari del lavoro vivo intervengono a determinare una variazione di valore-lavoro nel processo; ora, invece, concentriamoci sulle modalità attraverso cui il capitale realizza il suo profitto (plusvalore). Occorre premettere a riguardo che, secondo la teoria dell’economia politica classica, teoria con cui Marx non smetterà mai di confrontarsi criticamente, il valore di una merce è il risultato della quantità di lavoro che essa contiene,34 contiene nel senso del tempo di lavoro che è stato “speso” per la sua produzione (teoria del valore contenuto). Se allora rappresentiamo graficamente la giornata lavorativa mediante un segmento possiamo notare come questo si possa dividere in due parti: la prima, fino a una certa ora, rappresenta la parte della giornata in cui l’operaio lavora per ricostruire il valore che serve a garantirgli un salario (lavoro necessario), mentre la seconda parte descrive il tempo della giornata di lavoro (pluslavoro) che costituisce e genera il valore di cui si appropria il capitalista (plusvalore). In realtà, è ovvio, questa rappresentazione non trova un riscontro reale; infatti, come mette in risalto Pierre Macherey, “dalla prima all’ultima ora, in ogni momento in cui l’operaio attiva la propria forza lavoro, il suo tempo si compone, in una proporzione determinata, di lavoro necessario e di plusvalore, tra i quali il confine non è nettamente distinguibile; ciò è reso possibile per il fatto che la sua forza lavoro è, all’insaputa stessa del lavoratore, al quale è impossibile sapere quando lavora ancora per sé e quando non lavora più per sé, simultaneamente sfruttata secondo due aspetti, come Arbeitskraft, il cui valore è misurato dalla quantità di lavoro necessario per produrla, e come Vermögenskraft, il cui valore è misurato dalla quantità di valore che essa è in grado di produrre”.35 In ogni caso, tale rappresentazione grafica riesce a metterci nella condizione di vedere chiaramente la quantità di lavoro che non viene pagata e salarizzata

dal capitale, e quindi di determinare lo sfruttamento (inteso in questo caso quantitativamente, come quota di lavoro non pagato) cui è sottoposto l’operaio nel processo di produzione capitalistico. Nel paragrafo intitolato “Sottomissione formale del lavoro al capitale” del vi inedito, Marx introduce quindi al riguardo alcune delle sue più importanti riflessioni teoriche. È indispensabile, prima di procedere, comprenderne bene gli aspetti fondamentali. Si tenga innanzitutto conto che quando il filosofo tedesco parla di sottomissione (o sussunzione a seconda delle traduzioni) formale e reale sta in realtà riferendosi alle due diverse modalità attraverso cui il capitale produce plusvalore (assoluto e relativo). Nel cap. 14 de Il Capitale Marx ha infatti esplicitamente dichiarato che distinguere tra sottomissione formale e reale è la stessa cosa che distinguere tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo. Cosa significa e perché Marx divide la produzione di plusvalore in due diverse modalità? Vediamolo facendo un passo alla volta. A p. 52 del vi inedito, il Nostro precisa che la sottomissione formale deve essere intesa, in senso generico, come quella condizione per cui il lavoro si trova a essere inserito all’interno di un processo la cui finalità è la produzione di plusvalore, dove cioè: “Il lavoro diventa mezzo per fabbricare plusvalore”, sottomesso alla direzione e al comando del capitalista. La sottomissione formale del lavoro al capitale è in altre parole “la forma generale di qualsiasi processo di produzione capitalistico”. In un senso più specifico, però, la sottomissione formale deve essere intesa per indicare una situazione in cui il processo di lavoro non è ancora mutato tecnicamente secondo lo sviluppo delle forze di produzione. Il lavoro è già sottomesso al capitale, ma solo in senso formale, e si esercita materialmente ancora secondo le modalità che lo hanno caratterizzato prima che si instaurassero i nuovi rapporti sociali di produzione. Per dirla con le parole dello stesso Marx, occorre sottolineare come, nonostante i cambiamenti formali intervenuti, in questa fase “non si è finora accompagnata una trasformazione sostanziale nel modo d’essere vero e proprio del processo lavorativo, del processo di produzione reale”,36 anzi è opportuno evidenziare come sia nella natura delle cose che la sussunzione del lavoro avvenga e si verifichi, all’inizio, secondo una modalità concreta di produzione che è preesistente (lavoro domestico, lavoro artigianale, lavoro agricolo della piccola proprietà contadina ecc.) alla forma tecnica capitalistica. La condizione operaia, le “sue condizioni oggettive di lavoro

(mezzi di produzione) e le sue condizioni soggettive di lavoro (mezzi di sussistenza) stanno di fronte all’operaio come capitale. […] Quanto più completamente queste condizioni del lavoro gli si contrappongono come proprietà altrui, tanto più completo è formalmente il rapporto fra capitale e lavoro salariato e quindi tanto più completa è la sottomissione formale del lavoro al capitale come condizione e premessa della sua sottomissione reale”.37 Nella cosiddetta sottomissione reale, invece, lo stesso processo produttivo apparirà come trasformato e adeguato allo sviluppo delle nuove forze di produzione. “È questa l’epoca della tecnica capitalistica in senso vero e proprio, che ha il suo culmine nella macchina; infatti l’uso della macchina è la realizzazione piena della sottomissione reale del lavoro al capitale.”38 In che rapporto sono sottomissione formale e sottomissione reale? Marx indica chiaramente “come la seconda forma ingloba la prima, mentre la prima non ingloba necessariamente la seconda”. La sottomissione reale presuppone cioè sempre la sottomissione formale, ma non necessariamente è verificata la relazione inversa. Dunque, per riepilogare: il processo lavorativo sotto il comando monetario del capitale non presenta modificazioni tecniche rilevanti e continua a essere agito dal lavoratore secondo le modalità tecniche e organizzative preesistenti. Ciò che viene modificandosi è la scala (il volume dei mezzi di produzione concentrati in uno stesso spazio produttivo) del processo lavorativo. Non solo questa è molto più grande di prima, ma aumenta progressivamente, trainata dalla ricerca di quantità crescenti di plusvalore. Fino a quando lo scopo del processo rimane legato alla dilatazione della quantità di valore da produrre, ci troviamo all’interno di una sottomissione di tipo formale. Il “problema” che incontra il capitale è che l’allargamento continuo della scala di produzione è destinato a trovare dei limiti insuperabili. Ad esempio, per quanto riguarda la durata della giornata lavorativa di un operaio, che non può superare le proprie soglie di tollerabilità fisica. In altre parole, “Ad un certo punto diviene impossibile allargare ulteriormente il processo lavorativo, se questo rimane dentro le forme antiche; se si vuole ampliare il processo produttivo oltre ogni limite, non si può più mantenere al lavoro il carattere artigianale e contadino; bisogna che il lavoro sia messo, anche materialmente, dentro una legge diversa; e soltanto se sta anche tecnicamente dentro una legge diversa, allora questo aumento continuo della quantità di plusvalore, che significa aumento continuo della scala del processo lavorativo, comincia a diventare possibile”.39 Succede

allora che si modifica la forma del sistema di produzione e si realizza la sottomissione reale. Quest’ultima è descritta da Marx a p. 57 del vi inedito: allora “sorge un modo di produzione specificamente capitalistico (anche dal punto di vista tecnico), sulla cui base soltanto si sviluppano quei rapporti di produzione fra i diversi agenti della produzione, e in particolare fra capitalisti e salariati, che a tale modo di produzione corrispondono”.40 Come già anticipato, a queste due diverse modalità di sussunzione del lavoro (che possono essere considerate in senso storico ma anche in senso logico) corrispondono due diverse forme di estrazione del valore. In tal senso, Marx propone una nuova distinzione che segue e rispecchia la precedente: alla fase di sussunzione formale (che troviamo nelle fasi di produzione definite da Marx di cooperazione semplice e manifattura) corrisponde l’estrazione di un plusvalore detto assoluto, e alla fase reale (che troviamo nella grande industria) corrisponde invece l’estrazione di un plusvalore detto relativo.41 Per essere più chiari, riprendiamo il segmento di cui dicevamo poc’anzi: per aumentare la quantità di plusvalore estratto dal processo di produzione il capitalista deve intervenire tentando di modificare a suo favore il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro, e per farlo ha due differenti possibilità. La prima si realizza attraverso l’allungamento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto), cioè allungando verso destra il segmento (b), la seconda (plusvalore relativo) riducendo verso sinistra la lunghezza del segmento (a).

Nel primo caso, concretamente, si tratta di prolungare il tempo di lavoro cui viene sottomesso l’operaio durante la sua giornata lavorativa. Questo aumento progressivo incontra però, come già anticipato, un limite naturale e non può essere portato avanti all’infinito. Più nello specifico, come indica molto chiaramente Macherey, sono due i limiti che incontra il capitalista a riguardo: “Da un lato, se vuole sfruttare al massimo la potenza della forza lavoro dell’operaio almeno durante il tempo corrispondente a quello per il quale gli ha versato un salario, bisogna quanto meno che conceda un periodo di tregua, di non lavoro, dedicato non al riposo improduttivo ma al riposo riparatore e, più in generale, alle pratiche di mantenimento e di rinnovamento di questa forza lavoro […]. L’altro limite che incontra la tendenza a incrementare la produzione di plusvalore assoluto è determinato dal fatto che l’insaziabilità del datore di lavoro spinto ad andare sempre oltre in questa direzione […] genera, per la sua stessa dismisura, una resistenza42: a un certo momento, a cui chiede sempre di più […] comprendono che è nel loro interesse far fronte collettivamente per avanzare le loro rivendicazioni. […]. Nasce allora l’idea di regolamentare per legge il tempo di lavoro, in particolare di limitare la durata del lavoro dei bambini”.43 Un punto molto importante nella determinazione del plusvalore assoluto è legato al fatto che quest’ultimo avviene all’interno di una condizione tecnica data. In altre parole, il plusvalore assoluto e, insieme, la quantità di tempo di lavoro necessario a produrre i mezzi di sussistenza dell’operaio sono determinati dalla capacità tecnologica supposta come data e non modificabile. Seppur sempre in estrema sintesi, vediamo ora di seguito in cosa consta il processo di estrazione di plusvalore relativo. Innanzitutto, è opportuno ribadire e sottolineare come la sottomissione reale vada per Marx “di pari passo con le trasformazioni nel processo produttivo che abbiamo già illustrate: sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala, applicazione della scienza e del macchinismo alla produzione immediata”.44 L’applicazione della scienza alla produzione permette, evidentemente, di diminuire il tempo necessario alla fabbricazione di una merce, facendo però diminuire, di conseguenza, la quantità di lavoro presente all’interno di ciascuna. Rispetto al segmento che abbiamo sopra rappresentato, in questo caso, si libera nuovo valore proprietario per il capitalista, perché si restringe verso sinistra il segmento del lavoro necessario, diminuendo il tempo di lavoro richiesto per produrre il

valore complessivo dei mezzi di sussistenza: il valore del capitale variabile diminuisce e con esso il tempo di lavoro dedicato alla sua riproduzione sociale, tutto questo però avviene – attenzione – a parità di salario! Infatti, è il saggio di plusvalore che viene a modificarsi positivamente, cioè il rapporto fra tempo di lavoro speso a ricostituire il valore del salario erogato al lavoratore e il tempo di lavoro che è invece speso per generare il profitto del capitalista. La formazione del plusvalore relativo è dunque strettamente collegata allo sviluppo tecnologico e alla nascita del modello industriale e di fabbrica. Per dirla in modo diverso seguendo l’analisi di Macherey in proposito, possiamo affermare che, nella formazione di plusvalore relativo, è la forza-lavoro intesa non come Arbeitskraft (la forza lavoro acquistata con il salario) ma come Vermögenskraft (la forza lavoro viva e produttiva) che viene ad aumentare in virtù dello sviluppo tecnologico. “In altre parole, per incrementare il suo profitto, il capitalista conterà sulla produttività della forza lavoro in quanto ‘forza produttiva’, da cui essendo stata nello stesso lasso di tempo provvisoriamente stabilizzata la produzione di plusvalore assoluto, sarà per lui possibile trarre una quantità di valore più grande sotto forma di plusvalore relativo. È questa nozione di produttività che permette di dar conto del modo di produzione capitalistico arrivando fino al suo cuore, ossia a ciò che rappresenta il suo principio vitale, il suo motore.”45 Un’ultima importante precisazione prima di chiudere l’argomento (che avrebbe avuto bisogno di ben altro respiro argomentativo ma su cui speriamo di essere riusciti comunque a dire in modo chiaro ciò che conta): la produzione di plusvalore assoluto non cessa necessariamente di avvenire nel momento in cui si sviluppa la sottomissione reale del lavoro al capitale, anche se, come sottolinea Marx, questa situazione tende a diventare residuale, se non eccezionale. In altre parole, quando lo sviluppo della grande fabbrica automatica e del macchinismo produttivo cominceranno a descrivere e a condizionare fino al midollo le formazioni sociali del capitalismo maturo e il regime di accumulazione fordista a definirsi e imporsi anche in virtù degli incredibili tassi crescenti di produttività che è stato in grado di garantire, il modo principale di incremento del saggio di plusvalore (almeno, come vedremo in seguito, fino a che la società industriale è stata in grado di imporre la sua egemonia sociale, economica e culturale) si preciserà senza scarti rilevanti all’interno del tipo relativo. Riepiloghiamo, dunque, in chiusura di paragrafo, prima di introdurre una

ulteriore problematica, e con le parole dello stesso Marx, le questioni qui affrontate: “Certo ‘la produzione per la produzione’ – la produzione come fine in sé – entra già in scena con la sottomissione formale del lavoro al capitale, dal momento in cui il fine immediato della produzione generale diventa quello di produrre il più possibile e la grandezza maggiore possibile di plusvalore; dal momento in cui il valore di scambio del prodotto assurge a scopo dominante. Ma questa tendenza immanente del rapporto capitalistico si realizza in forma adeguata – e diviene una condizione necessaria anche dal punto di vista tecnologico – solo quando si è sviluppato il modo di produzione specificatamente capitalistico e, con esso, la sottomissione reale del lavoro al capitale”.46 5. Il segreto del valore-lavoro e l’operaio combinato In conclusione di capitolo dobbiamo tornare un momento a osservare da vicino quell’incontro fra capitalista e operaio da cui siamo partiti per descrivere la relazione salariale. Lo scopo è presto detto: dobbiamo meglio capire, spostandoci a un livello di analisi più fenomenologica ed empirica, le ragioni secondo cui questo rapporto sociale, che si stringe e fa presa, permette al lavoro e alla società di allargare ed efficientare la produzione del valore. In termini più specifici: quali sono, secondo Marx, le ragioni che determinano nello sviluppo della società industriale la centralità del lavoro libero? Personalmente siamo convinti (e svilupperemo la questione più avanti) che la libertà sia uno dei feticci fondamentali della società capitalistica, che quest’ultima si sia fin dalla sua fondazione edificata facendo leva su di una retorica e su di una pragmatica (ma c’è differenza?) della libertà (ovviamente fittizia: da leggersi come libertà di concorrere sul mercato). Ne Il Capitolo vi inedito c’è un passaggio del filosofo tedesco che anticipa in modo davvero sorprendente molte delle riflessioni sul lavoro e sulle motivazioni che ne animano l’esercizio, che saranno, tra l’altro, al centro delle teorie organizzative post-tayloristiche del secondo Novecento. Vediamolo assieme: “Paragonato al lavoro dello schiavo, questo lavoro [il lavoro salariato] diviene più produttivo, perché più intenso. Infatti lo schiavo lavora unicamente sotto il pungolo della paura esterna, non per la propria esistenza, che non gli appartiene ma gli è garantita”.47 L’attività

trasformativa di chi lavora solo perché costretto dall’imperio o dal capriccio del sovrano, ci dice Marx, non riesce a essere tanto produttiva quanto quella che è invece mossa da un interesse soggettivo liberamente esercitato. “Infatti lo schiavo lavora unicamente sotto il pungolo della paura esterna, non per la propria esistenza, che non gli appartiene ma gli è garantita; laddove il lavoratore libero è spinto e pungolato dai suoi bisogni. La coscienza (o meglio l’idea) di essere liberamente autodeterminato, di essere libero, e la sensazione (coscienza) di responsabilità48 che vi si accompagna, fanno dell’uno un lavoratore molto migliore dell’altro, perché il primo come ogni venditore di merci, è responsabile della merce che fornisce e deve fornire in una certa qualità se non vuole lasciarsi battere ed eliminare dagli altri venditori della stessa merce”.49 La forza-lavoro, le sue facoltà produttive valorizzanti, acquistate sul mercato come merce viva, trovano inoltre e immediatamente applicazione nel fenomeno cooperativo. Facciamo attenzione a questo passaggio: il capitalista compra sul mercato la forza-lavoro e poi la utilizza, la consuma, nel processo di produzione. Ma cosa si consuma esattamente? Senza dubbio, in primo luogo, la capacità trasformativa che ciascun lavoratore privato eroga quando entra in contatto con i mezzi di produzione e con l’oggetto di lavoro. Al contempo, però, il capitalista si appropria di un’altra capacità, questa volta specifica (della specie) e generica (rispetto alla specie), che si estrinseca una volta immessa nel processo di produzione complessivo. Questa capacità ha a che fare, da un lato, con la facoltà (che non viene però ovviamente calcolata nella remunerazione) di ogni operaio di attivare e gestire modalità di cooperazione sociale, qualità indispensabili a rendere massimamente efficiente il dispositivo produttivo inteso come una combinazione di più fattori interagenti su livelli e piani di complessità crescente. Dall’altro, a causa della concentrazione della forza-lavoro in un unico spazio produttivo e dell’aumento della scala del processo di lavoro, ha a che fare con la generazione di una nuova potenza produttiva sociale che proviene dalle nuove interazioni sviluppatesi, interazioni che sono anche in grado di aumentare il rendimento del lavoro dei singoli lavoratori, e per questo motivo di aumentare la produttività complessiva del processo. Più specificamente, che cosa è, dunque, la cooperazione per Marx? È “la forma del lavoro di molte persone che lavorano l’una accanto all’altra e l’una assieme all’altra secondo un piano, in uno stesso processo di

produzione, o in processi di produzione differenti ma connessi”.50 È la capacità produttiva che deriva dalla possibilità di fondere in un’unica forza complessiva gli spiriti vitali (animal spirits) dei diversi lavoratori, forza che immette quel differenziale produttivo utile a sostenere il processo allargato dell’accumulazione. Il punto è infatti che una giornata di lavoro derivante dal lavoro combinato di più lavoratori cooperanti è sempre maggiore della somma di uno stesso numero di giornate lavorative singole e individuali. “In ogni caso, la forza produttiva specifica della giornata lavorativa combinata è forza produttiva sociale del lavoro, ossia forza produttiva del lavoro sociale. E deriva dalla cooperazione stessa”, dove l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa le potenzialità della sua specie.51 È indubbiamente questo uno dei dispositivi capitalistici chiave di accrescimento di plusvalore relativo, che rende possibile oggettivare più lavoro vivo di quanto non ne sia contenuto nel capitale variabile. In altre parole, la capacità di cooperare, una volta assoggettata al piano capitalistico, realizza un dispositivo attraverso cui il capitale sottomette a sé i lavoratori: “La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato di appartenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, come membri di un organismo operante, sono essi stessi soltanto un modo particolare di esistenza del capitale. Dunque, la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale”.52 Allora, in chiusura, la questione che dobbiamo porci è se, e in tal caso secondo quali forme organizzative, è possibile immaginare una cooperazione produttiva sociale che non sia più sottomessa allo sfruttamento del capitale e sia altrimenti posta nelle condizioni di esprimersi nella sua piena e libera autonomia produttiva.

4.

Il feticismo come teoria generale di Marx

1. Il feticismo come nucleo fondamentale dell’opera marxiana Eccoci dunque arrivati di fronte alla necessità di imprimere a questo nostro lavoro un’accelerazione imprevista. Una variazione di velocità che porti il nostro registro interpretativo a toccare in modo nuovo e più intenso il rapporto tra l’insegnamento di Marx e la società capitalistica.1 Per dare seguito a questo proposito, riprendiamo allora le fila da un punto che non possiamo evitare di chiamare di nuovo in causa, seppur molto rapidamente. Che cosa è l’economia per Marx? In che modo questa entra ed è in rapporto con il sociale e con il politico? Nel discorso “volgare” sul marxismo è spesso rintracciabile una imputazione precisa: il marxismo sarebbe attraversato da una sorta di inguaribile fatalismo economico; in altre parole, il pensiero di Marx è stato, spesso e volentieri, confuso (noi pensiamo ingiustamente) con una dottrina che faceva dipendere in modo rigido e deterministico la formazione delle idee, e degli orientamenti culturali, esclusivamente da cause economiche. Piuttosto note, a riguardo, sono le parole di Engels che tentano di difendersi da quest’accusa: “Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda”.2 D’altra parte, lo stesso Engels si rende perfettamente conto che il pensiero suo e di Marx ha corso più volte il rischio di mostrare, senza “rendere giustizia agli altri fattori”, la causa economica come elemento dominante della dinamica sociale. Non sarebbero pochi i passi da citare in questo senso, anche se qui ci asterremo dal farlo, visto che siamo convinti che non sia in alcun modo possibile sostenere un’interpretazione generale del pensiero marxiano che faccia del rapporto tra struttura e sovrastruttura (e

delle loro articolazioni interne) un rapporto unilineare segnato in una precisa direzione di causa-effetto. Nel tentare di seguire un ipotetico filo rosso deterministico dell’opera marxiana si corre infatti un rischio molto alto, e cioè perdere di vista addirittura la qualità fondamentale dell’opera marxiana che, a nostro avviso, non può essere rintracciata che nelle sue qualità storicosociali e antropologiche.3 Come sottolinea a riguardo, e più nello specifico, Colletti, il rischio più grande è quello di confondere l’economia e i rapporti sociali di produzione con le tecniche e le tecnologie della produzione. In questa visione diciamo “allucinata” e fuorviante, il marxismo finirebbe così per interpretare la storia come un mero epifenomeno del cambiamento tecnico! Niente potrebbe essere più lontano da Marx e dalla nostra proposta interpretativa sulla sua opera. Infatti, “La principale conseguenza di questo modo di vedere […] è la dissociazione di ‘produzione’ e ‘società’, di materialismo e storia, la separazione del rapporto dell’uomo con la natura del simultaneo rapporto dell’uomo con l’uomo: in breve l’incapacità di intendere come – senza mediazione interumana o sociale – sia inconcepibile l’istituirsi stesso del lavoro e dell’attività produttiva”.4 Le interpretazioni della teoria di Marx (ad esempio, quelle riconducibili all’esperienza della Seconda Internazionale) che pretendono di ridurre la sua prospettiva di analisi all’interno di una dimensione, oltre che deterministica, esclusivamente economicistica e scientifica, senza tener conto delle inevitabili, oltre che qualificanti, sue implicazioni sociali, storiche ed eticopolitiche, non riescono infatti a intendere “che la teoria del valore del pensatore di Marx è la sua stessa teoria del feticismo e che, proprio in forza di questo elemento […], essa si differenzia, in via di principio, da tutta quanta l’economia politica classica”.5 Il problema di Marx era quello di comprendere le ragioni (apparentemente circolari e tautologiche) per cui il lavoro finisce per rappresentare se stesso nel valore, e perché quest’ultimo venga a precisarsi in una durata temporale scandita a sua volta dai processi di lavoro. L’economia politica classica, come abbiamo già visto, non assume la questione come fosse un problema, ma, al contrario, come un dato di fatto. In altre parole, la scienza borghese non si pone il problema del perché il lavoro umano e il suo prodotto assumano la forma specifica, e storicamente determinata, di merce. Non si pone il problema perché interessata a mostrare

e a dimostrare che il valore (e il plusvalore!), legato a doppio filo al processo di lavoro, esprimerebbe “la eterna forma naturale della produzione sociale”. La differenza di Marx rispetto agli economisti classici, la sua incessante interrogazione sulla spinosa questione del rapporto tra il lavoro umano e il valore, e quindi della mediazione che questo rapporto trova e realizza nella produzione di merci, mostra come l’intera riflessione del pensatore di Treviri, sul capitalismo e sul suo funzionamento storico-sociale, non possa fare a meno del riferimento al feticismo e ai temi, “contigui” ad esso, della reificazione e dell’alienazione, “cioè di quel processo per cui, mentre il lavoro soggettivo umano o sociale si presenta nella forma di una qualità intrinseca alle cose stesse, queste ultime a loro volta – risultando dotate di qualità soggettive o sociali proprie – appaiono per così dire ‘personificate’ e ‘animate’, quasi fossero soggetti autonomi”.6 La norma che s’istituisce come architrave della relazione sociale nel capitalismo funziona, dunque, reificando il momento costitutivo della soggettività: i rapporti sociali nel capitalismo finiscono per istituirsi solamente tra cose, sono forme dell’oggettualità “animata” e “personificata”, rapporti che così appaiono, in ogni caso, commensurabili, grazie anche alla centralità antropologica e sociale del principio di scambio. Il feticismo deve dunque essere inteso anche come norma intrinseca dell’interdipendenza tra i differenti lavori privati. In un certo senso, il feticismo rende possibile, realizza la socialità dei singoli attori economici, cioè produce un modo specifico di configurarsi del sociale. Per essere più chiari potremmo dire, con Isaak Ilijč Rubin, che “i particolari caratteri sociali attribuiti alle ‘cose’ non solo dissimulano i rapporti sociali di produzione ma anche li organizzano, divenendo il reale connettivo sociale, attraverso lo scambio e l’equiparazione dei prodotti”.7 Marx si riferisce dunque al feticismo come produzione di una figura di soggettività sulla scorta di un misticismo profano che in modo sensibile e sovrasensibile apparterrebbe al mondo delle cose. La soggettività nel capitalismo si presenta, allora, in tal senso, come uno spazio intrinsecamente e immediatamente interno al produttivo, che il lavoro (sotto le spoglie di forza-lavoro) rende commerciabile secondo le leggi di mercato descritte dall’economia politica borghese. Spazio che Marx, nel suo celeberrimo e originalissimo quarto paragrafo del Libro primo de Il Capitale, descrive come popolato da merci che appaiono e sono cose sociali. Il prodotto finito del lavoro umano si presenta, dunque, tutt’altro che come un

oggetto d’uso funzionale ai bisogni sociali, piuttosto come una cosa enigmatica “imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”, come un feticcio. Un oggetto prodotto come merce è dunque, fin dal primo momento, qualcosa che sfugge al suo mero uso, esso è iscritto in una dinamica comunicativa, simbolica e idolatrica che occulta (ma forse potremmo dire, con Derrida, distrugge fin da subito, “prima dell’appena entra in scena come merce”)8 il suo valore d’uso, ricoprendolo ideologicamente e cancellando completamente la qualità umana del lavoro in esso contenuto. In proposito, Étienne Balibar ha pubblicato qualche anno fa uno stimolante saggio9 in cui approfondisce la questione del feticismo delle merci. Il filosofo francese sottolinea prima di tutto come questa argomentazione “antropologica” di Marx, che sembra occupare uno spazio molto marginale de Il Capitale, si riveli invece come un momento fondamentale della sua riflessione sul capitalismo e la soggettività. Quest’ultima, per essere compresa e inquadrata in modo corretto, deve essere articolata all’interno dello spazio concettuale che si inscrive nell’intersezione tra la sfera economica e la sfera giuridica, in altre parole nella classica tensione aperta della modernità, quella tra economia e diritto. Vale la pena allora seguire Balibar, seppur in estrema sintesi, nella sua penetrante analisi. La riflessione di Marx in proposito risentirebbe, secondo Balibar, ancora una volta del dualismo, o se preferiamo dell’ambivalenza irrisolta, che caratterizza in modo non residuale la sua opera complessiva. In questo senso, la questione della merce risulterebbe, da un lato, ricoperta da una patina enigmatica da svelare razionalmente e metodicamente attraverso l’analisi dei processi del valore legati allo sfruttamento del lavoro, e allo stesso tempo, la merce manifesterebbe una sua magica e fantasmagorica qualità, di cui si tratta piuttosto di evidenziare “gli effetti di suggestione sugli spiriti o le anime degli individui umani”.10 Marx designa cioè al contempo, in uno stesso concetto, “un fenomeno d’espressione (un ‘geroglifico da decifrare’, una ‘lingua’ da comprendere al di là della sua originaria oscurità), e un fenomeno di simbolizzazione che comporta, nello stesso tempo, sia una dimensione di idealizzazione che una dimensione di incorporazione (i poteri straordinari che appartengono alla cosa visto che essa incarna immediatamente nella sua materialità sensibile o ‘visibile’, la potenza sociale come tale, e permettendo così a ciascuno di considerare la sua appropriazione) […]. O ancora, il primo aspetto rinvia piuttosto a quello che Marx chiama ‘l’oggettivazione delle

persone’ (Versachlichung der Personen) mentre il secondo rinvia alla ‘personificazione delle cose’ (Personifizierung der Sache)”.11 L’interoggettività che ne deriva, per seguire sempre Balibar, sarebbe allora il frutto di un tanto improbabile quanto effettivo “contratto sociale delle merci”, che ha come esito principale quello di costituire ontologicamente una soggettività, così tanto imbrigliata dentro il regno delle cose da diventare estranea a se stessa, o per dirla in modo equivalente, alienata. Ma è a questo punto del ragionamento che Balibar, seguendo il testo marxiano, aggiunge, a nostro avviso, un elemento interpretativo di grande suggestione e interesse: “Qui, ci si rivolge all’anfibologia che governa i riferimenti alla ‘persona’ nel testo di Marx. Da un lato, questa si applica a dei soggetti che precedono l’alienazione (dunque, in pratica, i rapporti mercantili), o al contrario derivanti dalla sua eccedenza ipotetica, rispetto ai loro ‘rapporti sociali’ non apparentemente ‘invertiti’ nella forma dei rapporti tra le cose. Ma dall’altro (come esposto in particolare nel capitolo II del Libro I del Capitale, ‘il processo di scambio’ di cui ho ricordato poc’anzi che si fonda per intero sulle categorie di ‘diritto astratto’ in senso hegeliano), la ‘persona’ designa l’altra faccia del feticismo delle cose, il suo ‘doppio’ umano (per non dire umanista), configurato dal diritto di proprietà e di scambio necessario alla circolazione delle merci. È per questo che io parlo di un ‘feticismo delle persone’ parallelo al ‘feticismo delle cose’: anche se per essere rigorosi secondo Marx il primo non è che un aspetto del secondo”.12 Il problema è quindi che tale forma mercificata della relazione sociale, inscritta in una finzione giuridica della libertà (la marxiana fictio iuris del contratto), nel capitalismo moderno prima e contemporaneo poi, tende progressivamente a generalizzare ed estendere il principio della misura e dell’equivalenza dello scambio (il prezzo) anche in riferimento alla soggettività stessa. Ancora di più: la persona è prodotta (esiste solo come prodotto) in modo che possa diventare portatrice dei diritti di proprietà (il cittadino borghese o, allo stesso modo, ma in negativo, il proletario) di cui necessita il mercato. È il soggetto stesso, la persona, dunque, a essere prima prodotta e poi governata, come merce (e la merce come persona) comportando la diffusione sociale di quello che Axel Honneth ha chiamato “l’oblio del riconoscimento”.13 Possiamo quindi facilmente derivarne che la produzione di merci attraverso il processo di lavoro è nel capitalismo anche e immediatamente un

processo di reificazione14: produzione speculare di una forma specifica (e perversa) di relazione sociale. Dove, per dirla con le parole di Marx, ciò che caratterizza “il lavoro basato sullo scambio privato, è che il carattere sociale del lavoro si ‘rappresenta’ come ‘proprietà’ delle cose – alla rovescia; che un rapporto sociale appare come un rapporto delle cose fra loro (dei prodotti, valori d’uso, merci)”.15 Il problema non è quindi tanto l’estensione dei principi del mercato all’intero spettro della vita sociale ma il fatto che il mercato produca un mondo sociale (e una forma di soggettività) ad esso adeguato “in quanto totalità di uomini e di cose, sotto la dominazione delle ‘cose’. E quindi anche dei ‘fantasmi’ ”.16 Per essere ancora più precisi occorre dunque evidenziare, e puntualizzare, come i capovolgimenti che il capitalismo introduce rispetto al rapporto individuo-società siano secondo Marx di due tipi, tra loro in stretta connessione: il primo descrive la progressiva dissoluzione del rapporto sociale in rapporti privati e interindividuali (che il mercato magicamente coordinerebbe tra loro); il secondo descrive invece l’inversione dei rapporti umani in rapporti tra cose (reificazione). “Ciò che importa comprendere di seguito è che, agli occhi di Marx, il secondo capovolgimento non annulla in alcun modo il primo: al contrario, è quello che permette di comprendere il perché – in condizioni storicamente e materialmente date – il feticismo è insormontabile, perché c’è un ‘enigma’, un ‘mistero’ o una ‘oscurità’, una oscurità che è impenetrabile perché si presenta nelle forme di una assoluta chiarezza”.17 Un abbaglio dunque che impedisce di agire secondo i propri interessi collettivi e che getta le fondamenta per lo sfruttamento di una classe sull’altra. Arrivati fin qui proviamo a chiudere il cerchio di questo paragrafo. Ci domandavamo all’inizio dell’interrogazione di Marx sull’origine del rapporto tra lavoro e valore nell’economia politica; uno degli interpreti più autorevoli dell’opera marxiana e in particolare del feticismo, Rubin, ha scritto in proposito: “La reificazione del lavoro come valore è l’esito decisivo a cui giunge la teoria del feticismo, che spiega l’inevitabile ‘reificazione’ dei rapporti tra persone nel capitalismo. La teoria valore-lavoro non si limita a scoprire l’oggettivazione del lavoro (come fattore della produzione) in cose che sono i suoi prodotti; ciò avviene in tutte le formazioni economiche, e rappresenta la base tecnica del valore, non la sua origine. La teoria del

valore-lavoro scopre il feticcio, l’espressione reificata del lavoro sociale nel valore delle cose”.18 Per indagare la questione del feticismo inteso come nucleo fondamentale, e potremmo dire, sempre con Rubin, come base della teoria generale dell’opera marxiana, si deve ripartire da qui. Dove questo ci porterà non è invece ancora stato chiarito del tutto. 2. Risolvere la superstizione in storia “Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose,” argomenta Marx, “è soltanto il rapporto sociale determinato dagli uomini stessi”,19 il capitalismo è cioè un modo di produzione storicamente determinato che istituisce come soggetto la merce, la proprietà privata, e come predicato l’uomo. “Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che è quindi inseparabile dalla produzione delle merci.”20 Il lavoro astratto, lavoro che ha perso le sue determinazioni concrete, è allora non tanto un’appropriazione a fini umani del mondo naturale oggettivo ma piuttosto un movimento reale del lavoro che produce, per sostenere l’accumulazione, l’espropriazione della soggettività umana. “Il che vuol dire che in una società in cui le attività individuali hanno carattere privato e dove quindi gli interessi dei singoli sono divisi e contrapposti, o come si dice, in concorrenza tra loro, il momento dell’unità sociale può valere solo nella forma di un eguagliamento astratto che prescinda dagli individui stessi.”21 Il lavoro astratto si caratterizza, in breve, per la perdita dell’individualità di chi lavora, perdita che trova come suo esito finale la traduzione della vita nel codice astratto del denaro. In questo caso il denaro è ciò che permette l’esposizione del valore (della merce) e la sua determinazione fenomenica.22 Ecco allora che con Marx la posta in gioco politica diviene molto precisa: si tratta della possibilità di mettere a tema la costituzione stessa del feticcio.23 Non è cosa facile a farsi, visto che lo stesso discorso critico che tenta di circoscriverne le qualità per contrastarlo è preso, costretto nella dinamica

materiale dei rapporti sociali di produzione, e non può che rifletterli nell’elaborazione dei suoi esercizi di pensiero critico. Come fare allora per determinare una transizione rivolta al superamento del sistema capitalistico? Occorre convincersi, ci dice Marx – e questa è a nostro avviso una delle sue più importanti intuizioni – che le determinazioni feticistiche della soggettività e del sociale possono essere superate solo se le sue visioni saranno falsificate attraverso la pratica. La lotta di classe contro lo sfruttamento è, in altre parole, l’unica via che può essere percorsa in questa direzione.24 La soggettività comunista è così una soggettività che, interrompendo la continua trasformazione capitalistica della forza-lavoro in lavoro vivo (via sfruttamento), porta e sviluppa l’antagonismo nel rapporto sociale, in modo che questo antagonismo sia capace di attivare forme nuove di agire pratico e alterare attraverso di esse il funzionamento stesso del modo di produzione e di riproduzione sociale egemone. Possiamo dunque affermare che il “feticismo” mostra che “la soluzione di un enigma teorico [è] un compito della pratica [e che] la vera pratica [è] la condizione di teoria effettuale e positiva (positive)”.25 La filosofia speculativa è dunque impotente, il suo destino può essere solo quello di restare intrappolata dentro i misticismi che i capricci sovrasensibili del regno delle merci producono incessantemente mentre il capitalismo governa la sua riproduzione sociale allargata. “Bisogna allora sostituire alla filosofia speculativa e al suo epigono, la ‘critica critica’ dei giovani hegeliani, una diversa critica: ‘l’attività umana effettuale di individui che sono membri attivi della società, che soffrono, sentono, pensano e agiscono in quanto uomini’; una ‘critica’ [che sia] nello stesso tempo pratica. [E una] critica vivente, effettuale, della società esistente, è la conoscenza delle cause ‘della decadenza’.”26 Il punto, per concludere questa parte molto importante del ragionamento sull’opera di Marx, sta allora nel sottolineare e precisare come nel pensiero del Moro il valore, la merce stessa, non è solamente “un’entità scolastica” inventata dagli economisti borghesi, ma al contrario, attraverso il denaro in processo, essa è capace di riprodurre, accrescendolo via sfruttamento, il sistema capitalistico, e in quanto tale è una realtà sociale storicamente determinata che autonomizzatasi impone la sua dinamica complessiva sulla vita degli attori sociali. Il passaggio è decisivo, cerchiamo di coglierlo nei suoi snodi cruciali. Argomenta in proposito Marx come “il paradosso della

realtà si esprima anche in paradossi verbali che contraddicono al buon senso umano, a ciò che il volgo crede e pensa, è naturale. Le contraddizioni dovute al fatto che, sulla base della produzione delle merci, il lavoro privato si rappresenta come lavoro generalmente sociale, che i rapporti fra le persone si rappresentano come rapporti tra cose e come cose – queste contraddizioni sono inerenti alla realtà, non all’espressione scolastica della realtà”.27 Il valore e la merce e i processi di reificazione che ad essi sono riconducibili hanno, osserva Marx in modo straordinariamente acuto, esistenza immaginaria, cioè puramente sociale. Un’esistenza immaginaria e tuttavia sociale!28 La realtà sociale è dunque l’esito di processi che si impongono alla soggettività anche (se non soprattutto) attraverso la condensazione di “cogenti” immaginari collettivi. Ancora una volta Balibar ha precisato la per noi fondamentale questione: “Il feticismo non è – come potrebbe essere, ad esempio, un’illusione ottica o una credenza superstiziosa – un fenomeno soggettivo, una percezione falsata della realtà. Esso costituisce, piuttosto, il modo in cui la realtà (una certa forma o struttura sociale) non può non apparire. E questo ‘apparire’ attivo (Schein ed Erscheinung a un tempo, cioè un inganno e un fenomeno) costituisce una mediazione o funzione necessaria, senza la quale, in condizioni storiche date, la vita della società sarebbe semplicemente impossibile. Sopprimere l’apparenza significa abolire il rapporto sociale”.29 Potremmo dire che l’esorcismo sulla base del quale Il Capitale inizia il suo lungo attraversamento del modo di produzione capitalistico conferma, come sottolinea Macherey, “l’ineluttabile presenzaassenza dei fantasmi ai quali nessuno sfugge, soprattutto chi vorrebbe negare il peso della loro realtà: perché queste immagini, per essere tali, non sono meno reali, ma forse più reali delle altre”.30 Ora il punto ci pare sia quello di trovare la chiave per “fare i conti” con tale realtà allucinata che rischia di diventare una prigione da cui risulta impossibile fuggire. In primo luogo, con Marx, dobbiamo allora rilanciare l’idea di una soggettività pratica che scrive la sua critica direttamente in seno alla lotta di classe. “Concludiamo questo discorso che non finisce mai di finire. Il lettore capisce anche dai brevi cenni fatti, che la ‘teoria del valore’, o più semplicemente, l’analisi stessa della merce […] non è che si possa dire che sia stata proprio veramente capita […]. Quale la ragione? La merce, e più ancora – s’intende – lo Stato e il capitale, sono processi di ipostatizzazione

reali. Ora la nostra tesi è che, essendo quelle realtà così fatte, sia impossibile intenderle appieno fino a che non si sia intesa la struttura dei processi di ipostatizzazione della Logica di Hegel. In altre parole, la critica di Marx alla dialettica di Hegel e l’analisi del capitale si tengono. Mancando di capire la prima, è impossibile capire anche la seconda.”31 La filosofia da sola è impotente perché scritta, come dicevamo, immediatamente in seno ai rapporti sociali di produzione capitalistici. Per questo, per capire Marx e praticare il marxismo, bisogna tentare di attraversare i fantasmi della merce all’interno dei quali ci troviamo intrappolati spesso senza rendercene conto. Il problema è che per farlo dobbiamo fare i conti con i limiti stessi della critica. Per rompere l’ipostatizzata unità sociale capitalistica non abbiamo, allora, altra via che praticare un antagonismo capace di inaugurare una nuova cultura del sensibile, una estetica, potremmo dire, che faccia della centralità del corpo che soffre e gioisce il suo punto di fondazione materialistico. Un antagonismo che da un lato sia in grado di mostrare la tossicità dell’immaginario spettrale che ci avvolge e, dall’altro, di suscitare l’emergenza di una soggettività imprevista. 3. Feticismo e soggetto della prassi: Marx oltre Marx Con Marx potremmo dunque affermare che il capitalismo si regge sul fantasma della merce. In altre parole, il capitalismo si determina storicamente all’interno di un processo – tutt’altro che pacifico – di traduzione della vita nella cifratura della merce. Non è un caso, infatti, che il filosofo tedesco inauguri la sua opera più nota, Il Capitale, con un capitolo dedicato al concetto di merce. “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’ e la merce singola si presenta come sua forma elementare.”32 In tal senso, poco a nostro avviso può essere compreso del capitalismo e del pensiero di Karl Marx se non s’interroga fino in fondo la questione della genealogia (in senso nietzschiano) della merce. E fin qui, però, niente di originale. Noi intendiamo aggiungere come la merce, in quanto si presenta come una fantasmagoria, un feticcio, un capriccio teologico, in altre parole in virtù della sua intrinseca spettralità, svolga l’irrinunciabile funzione di rendere articolabile e territorializzabile nel socius la pulsione fondamentale del capitalismo, pulsione che si produce, e quindi riproduce, attraverso l’estrazione di un

plusvalore dal bios. L’analisi di Jacques Lacan su questo punto è per noi inaggirabile e va rapidamente presa in esame33: “Ciò che Marx denuncia nel plusvalore è la spoliazione del godimento. E tuttavia il plusvalore è come la commemorazione del più-di-godere. La società dei consumi ha senso in quanto, all’elemento cosiddetto umano tra virgolette, viene dato come equivalente omogeneo un qualsiasi più-di-godere prodotto dalla nostra industria – un più-di-godere, in realtà, fasullo”.34 Per Lacan il capitalismo ha “imparato” a produrre quanti di godimento incorporandoli nelle merci e nelle sue qualità feticistiche per fondare la sua egemonia sociale. Per dirla in breve, e al contempo aggiungere qualcosa di nuovo al nostro ragionamento: il capitalismo non ha altra finalità che la sua perpetuazione allargata e i fantasmi che animano le merci sono il perno che rende possibile (materialmente e politicamente), via sfruttamento del lavoro vivo, tale necessità resasi autonoma dagli uomini. La merce, come abbiamo visto, per Marx è infatti una qualità della cosa, materiale o immateriale che sia, e prefigura intrinsecamente un uso, un consumo, un godimento soggettivo. Essa però è anche una quantità, una cifratura, una misura simbolica (un valore di scambio e al limite un prezzo). Nel lontano 1977, Giorgio Agamben ha scritto un saggio dove accomunava, noi crediamo in modo proficuo, la teoria del feticismo di Marx con quella di Freud.35 Ciò che del suo contributo dobbiamo trattenere qui è la compresenza, nell’analisi dei due autori classici, di un meccanismo che caratterizza il feticismo: la contemporanea presenza e assenza nella merce di stati tra loro apparentemente contraddittori. In Marx, abbiamo appena visto, in Freud “il feticcio non è un oggetto posticcio: è ad un tempo la presenza di qualche cosa e il segno della sua assenza, è e non è un oggetto. Ed è per questo che esso attira irresistibilmente il desiderio senza poterlo mai soddisfare”.36 Ed è in questa sua continua oscillazione – fort-da – tra la sua “potenza” ad agire che promette di liberare e il potere che il suo prezzo, la sua contabilità, inscrive nella soggettività, che si precisa il merito di quello che Lacan chiama il discorso capitalista (ci torneremo nel prossimo paragrafo) e – in omologia con la teoria dello sfruttamento di Marx – la sua legge del plusgodere. Ancora una volta ambivalenza della forma merce, dunque. Lo abbiamo visto: per il filosofo de Il Capitale la forza-lavoro, merce vivente, è infatti sempre e al contempo dentro e fuori il capitale: potenza del lavoro vivo e insieme necessaria energia di valorizzazione del

capitale costante. Ed è proprio nello scriversi contingente e storicamente determinato del governo di questa beanza (nella sua continua commemorazione) che si organizza il perdurare storico della società capitalistica. Marx, dunque, coglie “qualche” anno prima della psicoanalisi alcune delle più profonde modalità di “funzionamento” del feticcio.37 La merce è un feticcio che in quanto tale assicura al soggetto un punto di ancoraggio/fissazione e davanti al tempo che lo trascina, e davanti all’imprevedibilità delle relazioni umane. La merce in quanto feticcio assicura una certa permanenza (e una certa stabilità di godimento) che il soggetto attraverso l’oggetto e la ripetizione del suo consumo può facilmente realizzare. Ma a che prezzo? Al prezzo di una soggettività intossicata ed eterodiretta, che non potrà fare a meno di prodursi, patologicamente, nell’indifferenza della merce per la relazione sociale.38 La questione fondamentale che il feticcio realizza, e su cui è bene soffermarsi un secondo prima di provare a dare risposta alla precedente domanda, è la sua particolarità di stare oggettivamente al posto di qualcosa d’altro, in realtà al posto di una assenza.39 In tal senso, la merce è una sorta di territorio nel quale si scrive una specifica produzione di soggettività; la merce appare, cioè, come un campo oggettuale in cui è possibile provare a sostenere il proprio campo soggettivo, un campo di compensazione della strutturale mancanza a essere del soggetto parlante (è in tal senso oggettivazione del soggetto). Soluzione materiale e anche temporale che il capitalismo offre per tamponare l’inesistenza del rapporto sessuale, così come recita la celebre formula proposta da Lacan. La merce è però, come abbiamo visto, al contempo anche la forma con cui si produce la soggettivazione dell’oggetto. Il feticismo è cioè quel processo che definisce il legame sociale come un (naturale) rapporto cosale, come un perverso “contratto tra le merci”. D’altra parte, non è proprio quello che sosteneva anche Walter Benjamin quando descriveva l’anestetica contemplazione delle vetrine da parte del flâneur? Il fine della celebre opera benjaminiana consiste nel pensare come figura costitutiva del moderno la connessione tra città moderna (passage) e merce. Ed “È nel cuore di questa connessione che Benjamin pone la questione del feticismo”.40 La perversa qualità del feticismo in Benjamin assume, e questo ci importa qui mettere in risalto, lo stile della negazione sociale della scissione strutturale del soggetto. La morte e l’inorganico, infatti, si insediano

subdolamente nella moda e nei suoi feticci, stemperandosi fin quasi a evaporare. Come se questi fossero in grado di riparare, con una voluttuosa otturazione, prodotta per mezzo dell’irresistibile appeal dell’oggetto, l’angosciante e reale buco dell’essere (e con esso il suo debito costitutivo). E poco importa se l’esperienza del consumo maniacale della merce non sarà mai pienamente soddisfacente, al contrario! Proprio per questa ragione essa continuerà comunque a essere praticata. Il feticismo è dunque anche l’ideologia fondamentale (la falsa coscienza) della borghesia: “Così il feticismo si configura come la manifestazione di una credenza inconscia nella natura soprasensibile degli oggetti”41 dove a partire da e attraverso questi ultimi “gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano […]. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale”.42 Karl Korsch su questo aveva visto giusto: “La società borghese è la particolare forma sociale in cui proprio le relazioni fondamentali che gli uomini stringono nella produzione sociale della loro vita appaiono soltanto a posteriori alla coscienza degli interessati in questa forma rovesciata, come rapporti di cose”.43 A questa prima nostra accelerazione occorre però aggiungerne una seconda: la merce è sempre abitata dal fantasma della libertà.44 Potremmo dire che la promessa di libertà che la merce contiene è il suo fantasma fondamentale. È questo che, in effetti, la rende così “subdola” ed efficace nell’impressionare i processi di soggettivazione del moderno (via forzalavoro) e del contemporaneo (via denaro). Essa, infatti, implica nella sua fruizione/consumazione una falsa promessa: la possibilità di una tanto illusoria quanto concreta e paradossale traiettoria (per lo più inconscia) di soggettivazione, da un lato, ed emancipazione dal legame, dall’altro. In altre parole, implica la generazione di un’immagine specchio, pregna di una narcisistica autonomia immaginaria come riflesso del discorso simbolico della merce sul piano soggettivo. La merce è insomma il testo non scritto del capitale che permette di orchestrare un mondo capovolto, dove libertà e schiavitù si scambiano apparentemente di posto, dove la generalizzazione dell’oggettualità ricopre, opacizzandola, la vera natura dei rapporti sociali di sfruttamento. La merce occlude così feticisticamente la visione, la prospettiva, la potenza pratica del Comune.45

In che modo possiamo allora oggi, a duecento anni dalla nascita di Karl Marx, fare tesoro delle sue riflessioni sul feticismo? Cercheremo di seguito di darne conto, proponendo a riguardo una chiave di lettura del tutto personale. 4. Il feticcio della libertà individuale (o parentesi sul capitalismo contemporaneo) Abbandoniamo in questo paragrafo, per un momento, il nostro confronto diretto con l’insegnamento di Marx. Contamineremo il suo pensiero con quello di altri autori, questo per provare a dire qualcosa, a partire da essi e dalla loro rilevanza, sul tempo contemporaneo. Lacan, durante la nota conferenza tenutasi a Milano nel 1972,46 propose di considerare un nuovo tipo di discorso. In altre parole, un nuovo tipo di legame sociale, che si affiancava, come torsione dell’originario discorso del padrone, ai quattro che egli aveva definito qualche anno prima durante il suo celebre seminario parigino.47 Il discorso capitalista, secondo Lacan, affermava una nuova configurazione della norma sociale, incentrata non più sul fantasma nevrotico e cioè sull’inibizione e sulla disciplina delle pulsioni libidiche (come nell’argomentazione freudiana de Il disagio della civiltà).48 Al contrario, la civiltà contemporanea, secondo Lacan, si sarebbe caratterizzata per l’esistenza di una nuova economia libidinale, contrassegnata dall’occorrenza della produzione di un sovrappiù di godimento causato dall’inesorabile indebolimento dell’ordine simbolico patriarcale. Nella determinazione del soggetto il modello edipico avrebbe lasciato così il posto a una nuova configurazione normativa di tipo positivo (dispositiva), non più esclusivamente repressiva ma anche per questo più subdola e, seppur in modo diverso, altrettanto imperativa e di inclinazione maternale e oblativa. Il discorso capitalista costruisce allora, paradossalmente, uno s-legame, che ha il suo asse nel rapporto fra individui e prodotti, risultando in tal modo “indifferente com’è alle ‘faccende amorose’ portando verso una frammentazione e una instabilità crescente dei legami sociali, e lasciando gli individui sempre più esposti alla precarietà e alla solitudine”.49 È quello che Massimo Recalcati chiama con un’espressione molto efficace l’ergersi del totalitarismo dell’oggetto. Il discorso capitalista sul piano del soggetto comporta innanzitutto un effetto di falsa padronanza: offre cioè l’illusione

che il soggetto si possa riempire attraverso il consumo ripetuto dell’oggetto di godimento. In sintesi, nel contesto socio-storico capitalistico contemporaneo “il principio di realizzazione del soggetto è in rapporto al consumo dell’oggetto”.50 La questione più rilevante per il nostro percorso interpretativo è quindi la tendenza del soggetto a porsi nel capitalismo del feticismo delle merci come attore primo, come padrone incontrastato della sua agency. Nel discorso capitalista, infatti, il soggetto agisce non più determinato dalla presenza di un padrone e dalla verità dell’Altro ma dall’illusione di essere libero, di poter raggiungere, attraverso il pieno di oggetti, la sua soddisfazione, il suo pieno di godimento. È quindi il capitalismo la società del narcisismo, del culto della personalità, dell’individualismo sfrenato, dell’idiozia generalizzata, della parvenza che si fa verità.51 Proprio in questo punto del ragionamento s’innesta, allora, avvinto al tema della merce, il tema della libertà e della sua tanto incessante quanto necessaria produzione sia come retorica sistemica di giustificazione,52 sia come fondamentale disposizione individuale; il capitalismo contemporaneo, infatti, s’inscrive nelle relazioni sociali e nei desideri soggettivi attraverso una retorica sociale di esaltazione immaginaria della libertà (di godimento). Nulla del presente sociale e storico possiamo capire, a nostro avviso, se non consideriamo tale questione: cioè quella che Lacan chiamava l’insostenibile astuzia del capitalismo, basata sulla consumazione compulsiva e sulla finzione dell’Io. È qui, nel discorso capitalista, dove il potere in seno alla struttura della merce fa tutt’uno con l’economia, dove si mettono assieme vanità del godimento e capriccio della merce; è qui, nel discorso che pone l’inutilità della mediazione sociale, l’insignificanza del campo delle istituzioni e che riduce l’umano a una fittizia e disinibita unità mimetica di godimento che risiede la cifra dello smarrimento del soggetto postmoderno.53 Come ha messo in evidenza in modo mirabile Michel Foucault, la pratica di governo neoliberale si caratterizza, infatti, per la sua continua e incessante produzione di libertà (o meglio e più correttamente, del feticcio della libertà). Una libertà, quella capitalistica industriale e poi neoliberale, interna, dunque, alla logica immediata della razionalità economica. Il consumo si mostra allora come un campo privilegiato, come esperienza sociale tangibile e proprietaria di questa produzione ridondante e feticistica di libertà. Come terreno di controllo dei desideri (tradotti in bisogno di merci) e delle nuove smarrite identità

postindustriali. In fondo, potremmo dire, la produzione incessante di libertà del modello governamentale trova oggi compimento nella pervasiva iscrizione della soggettività nelle attività finanziarie (intese come nuovo motore propulsivo dell’accumulazione capitalistica) e nel consumo di prodotti simbolici come illusoria espressione di nuovi ethos identitari. La gravità della crisi che stiamo oggi attraversando ci obbliga però, in questa “accelerazione” interna alla riflessione su Marx, a interrogare il reale del capitalismo.54 La finanziarizzazione dell’economia, il farsi rendita del profitto, la tendenziale smaterializzazione della merce e l’evaporazione del lavoro come istituto centrale del valore e del riconoscimento sociale ci potrebbero infatti condurre, improvvisamente, di fronte all’evento di una soggettività che si pone al di là del fantasma della merce. Soggiace alla profondità della crisi attuale qualcosa che possa farci pensare che è finalmente possibile immaginare un suo attraversamento? Un esodo che conduca al di là del rapporto di sfruttamento? Difficile da dire. I segni di un’incrinatura del presente capitalistico sono numerosi e non mancano di interrogarci e perturbarci. Inoltre, questi potrebbero annunciare, altrimenti, l’organizzazione di una nuova strategia di funzionamento del capitalismo basata sull’alternanza tra decadenza ed euforia, tra jouissance e angoscia, tra eccitazione e ricatto.55 Come ha messo in evidenza Walter Benjamin nel suo Il capitalismo come religione: “Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono ‘giorni feriali’ non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”.56 Eppure qualcosa oggi ci suggerisce che forse è possibile agire una profanazione, guardare dritto in faccia il fondo cieco della “sacralità” del capitalismo come se quest’ultimo si fosse improvvisamente denudato, mostrando che dietro la sua impalcatura simbolica a sostegno della recita del fantasma della merce (il denaro e il rapporto creditizio, in primis) in realtà non ci sia nulla che valga la pena di adorare e trattenere: nella crisi attuale, infatti, il denaro fa fatica (ma non senza potenti rilanci) a riprodurre le sue premesse e promesse. Il denaro pare aver mostrato con la violenza della sua liscia metrica di misurazione il suo lato osceno e dissimmetrico.57 E così, paradossalmente, seguendo Massimo Cacciari, per negativo, il denaro finisce anch’esso a fare cenno a quell’“inutile” della gratuità dove si custodisce l’inconsumabile e

l’indistruttibile che continuiamo, malgrado tutto, ad avvertire nel cuore stesso della nostra ricerca di un al di là. Dov’è dunque, in conclusione, che potrebbe arenarsi il culto della merce? Su quale banco di sabbia? Ci sembra di poter dire: esattamente nello stesso punto nel quale aveva preso il largo. Georges Bataille lo aveva circoscritto in tutta la sua incandescenza già all’inizio degli anni trenta nella sua Part maudite, attraverso il concetto di dépense: “In linea di massima bisogna proprio ammettere che la vita o la ricchezza non possono essere indefinitivamente feconde e che giunge sempre l’istante in cui devono rinunciare a crescere per spendere”.58 È indubbio che il capitalismo, come argomenta Rocco Ronchi, intrattiene con la dépense un rapporto di profonda intimità.59 Da un lato, la riflessione weberiana sull’ascesi intramondana ci indica il duro, disciplinato e per certi versi ossessivo lavoro di rimozione che lo spirito del capitalismo ha messo in atto nella forma della ragione strumentale per “difendersi” nei confronti dello spreco e dei suoi “innominabili” resti osceni di godimento. Ma, dall’altra parte, la società capitalistica non ha mai fatto proprio fino in fondo, non ha mai risolto (e non potrebbe farlo, ovviamente) il rapporto con la pulsione acefala che la attraversa incessantemente. Ha tentato anzi, al contrario, di presiederla e governarla a suo vantaggio attraverso l’imperativo super-egoico al godimento, che ha continuato a pulsare come suo bordo, come suo punto estremo, fino a manifestarsi in tutta la sua incandescenza e spudoratezza nella sua attuale configurazione finanziaria e biopolitica. Dunque, potremmo dire, la dépense costituisce in un certo senso il limite essenziale del capitalismo. “Il suo punctum di crisi, ciò verso cui esso gravita, nel suo godimento ‘al di là del principio del piacere’ come fa la falena con la fiamma che la brucerà.”60 La crisi economica e politica attuale potrebbe essere allora il luogo in cui il capitalismo contemporaneo tocca il suo limite extimo, il suo reale – dove si palesa la sua folle e costitutiva “perversione”. Dove l’esercizio del potere basato sull’indebito della merce mostra la sua impossibilità a fondare un qualsivoglia legame generativo. Importante allora sottolineare come fa in modo incisivo Mario Pezzella: “Il capitale non si presenta solo come rapporto debitorio e neanche solo nella colpevolizzazione generalizzata; ma anche come causa e fondamento autogenerantesi di se stesso. Esso ha l’apparenza di un divenire, in cui ogni movimento è causa di un ulteriore incremento, e deforma la storia in una causazione predeterminata, da cui sono escluse le

azioni e le brecce della libertà. L’incremento è reso necessario per evitare l’altrimenti minaccioso stato di mancanza e di deficit – e tra questi due poli non c’è né alternativa, né discontinuità possibile: ad ogni generazione si perpetua la Cura, cioè il fantasma di una mancanza, a cui occorre supplire con una ulteriore causazione di capitale, che tuttavia riproduce potenziato lo spettro deficitario. In questa circolarità demonica si muove lo spirito inquieto del denaro”.61 Il debito non può essere saldato. Non esiste comunità e/o società che non assuma il debito (la relazione) come una sua questione costituente e costitutiva. È di grande importanza, quindi, spostare l’attenzione dal rapporto debito/credito – che nel capitalismo è misurato attraverso il potere “quantitativo” del denaro ma che, come ha mostrato Pierre Bourdieu,62 è centrale anche nelle economie simboliche basate sulla pratica del dono – alle modalità peculiari che un “discorso” pone in essere per gestire e distribuire la produzione di eccedenza (plusgodere) e strutturare le gerarchie di riconoscimento sociale. Il modo in cui l’eccedenza della produzione è organizzata nel capitalismo, secondo gli immaginari della mercificazione, sembra oggi incapace di tenere. Cosa potrebbe allora accadere? Lacan nel 1972 profetizzava lo scoppiare del capitalismo e del suo discorso: “[…] la crisi non del discorso del padrone, ma del discorso capitalista, che ne è il sostituto è aperta. Non vi dico assolutamente che il discorso capitalista sia debole, al contrario è qualcosa di pazzescamente astuto, vero? Molto astuto, ma destinato a scoppiare. Perché è insostenibile”.63 C’è dunque un’urgenza, una sporgenza da afferrare, nella fase attuale. Un’urgenza politica ed etica che non possiamo permetterci, oggi stesso, di non assumere fino in fondo. Si restringe, per fortuna e infatti, la banda di oscillazione fantasmatica che permetteva alla merce, via “colonizzazione” del plusgodere, di impressionare la soggettività nella sua astratta logica d’indifferenza incrementale. Occorre allora osare e forzare il bordo della beanza in modo da aprire uno squarcio che rimetta in gioco la possibilità del desiderio di una condivisione, di una nuova danza delle singolarità, di un fare comune che sostenga l’ardua prospettiva di un nuovo orizzonte e di un regno basato non sull’indebito della merce ma sulla ricchezza straordinaria delle nostre incommensurabili differenze. Come d’altra parte Marx ci ha indicato in tutta la sua opera, il capitalismo si fonda sullo sfruttamento e non può farne a meno. Ed è su questo tema che

dobbiamo necessariamente proseguire la nostra riflessione sul filosofo di Treviri e sulla società capitalistica attuale. Lo faremo nel prossimo capitolo, a partire dall’imprescindibile e fondativa riflessione marxiana sul tema, per poi però tentare di individuare, come abbiamo già fatto in questo capitolo dedicato al feticismo della merce, i possibili sviluppi delle sue riflessioni nel contemporaneo.

5.

Logiche dello sfruttamento: incrinature tra sussunzione e imprinting

Assumere fino in fondo il feticismo delle merci come teoria fondamentale dell’insegnamento di Marx significa, a nostro avviso, anche leggere la sua teoria dello sfruttamento sotto un’ottica diversa da quella precisatasi come più “consueta” e mainstream. Secondo quest’ultima, lo sfruttamento è per lo più interpretabile come quel processo che permette al capitale di realizzare una quantità di valore eccedente (plusvalore) grazie alla modificazione a suo favore del rapporto tra quote di lavoro non pagato e quote di lavoro pagato. Questa definizione, che è certamente corretta, è però a nostro avviso anche parziale. Essa dimentica, infatti, di problematizzare, da un lato, la logica strutturale a partire dalla quale l’estrazione del valore diviene nel capitalismo effettivamente possibile, e dall’altro, di assumere gli aspetti peculiarmente qualitativi che si determinano al fine di realizzare l’appropriazione proprietaria del valore. Secondo Marx, infatti, lo sfruttamento è un processo di estrazione del valore che, definendo un profitto proprietario, permette all’accumulazione capitalista di svilupparsi e riprodursi, attraverso il suo continuo reinvestimento produttivo. Il capitalismo, in tal senso, è certamente legato a doppio filo allo sfruttamento e senza di esso non può esistere un modo di produzione capitalistico. Per dirlo con le parole di Althusser: “Le condizioni di esistenza della società capitalistica sono le condizioni dello sfruttamento che la classe capitalistica fa subire alla classe operaia”.1 Occorre, però, approfondire ancora, anche per non incorrere in interpretazioni frettolose e riduttive della questione. Per questa ragione e per l’assoluta centralità dello sfruttamento nell’opera marxiana, cercheremo in questo ultimo capitolo di precisare, innanzitutto, il modo in cui Marx definisce il tema attraverso il concetto di sussunzione del lavoro al capitale, per poi sottolineare, intrecciandolo con la questione del feticismo delle merci,

la possibilità di individuare una seconda logica dello sfruttamento che ne permetta l’effettiva determinazione sociale. In altre parole, proporremo di seguito una lettura che, a partire dalle categorie centrali dell’opera marxiana, interpreti secondo il crescente diffondersi di una logica differente (non esclusiva ma complementare a quella sussuntoria) i più avanzati processi di estrazione del valore nel capitalismo contemporaneo. 1. Marx e lo sfruttamento capitalistico La produzione di plusvalore è, come abbiamo visto, lo scopo ultimo e finale del processo di produzione capitalistico. Marx, nel formalizzare la questione ne Il Capitale, definisce il saggio del plusvalore (s) come il rapporto tra il plusvalore (che quindi è posizionato al numeratore nella formula dello stesso) e il capitale variabile (al denominatore). Tale rapporto è chiamato da Marx anche con il nome di saggio di sfruttamento, essendo espressione del rapporto tra il lavoro non pagato (cioè il plusvalore) e il lavoro pagato (in altri termini, il valore della forza-lavoro acquistata e salarizzata dal capitalista sul mercato). È dunque evidente come il tasso di sfruttamento del rapporto capitale-lavoro risulti per Marx legato e direttamente proporzionale alla quantità di lavoro non pagato sul totale delle ore di lavoro vendute dal lavoratore al capitalista in cambio del salario. Nel momento in cui precisa il concetto di saggio di plusvalore Marx ci mette anche in guardia dalla possibilità di confonderlo con il saggio di profitto. La differenza tra il primo e il secondo è ben evidenziata da Claudio Napoleoni nelle sue Lezioni sul capitolo sesto inedito: “Nell’impostazione degli economisti volgari questo profitto è riferito all’intiero capitale, non soltanto a V ma a C + V [capitale Costante + capitale Variabile], dando così luogo ad una figura o categoria particolare, che si chiama saggio di profitto. Anzi in senso proprio, il plusvalore diventa profitto solo nell’ambito di questo riferimento al capitale complessivo […]. Il fatto stesso che contabilmente il profitto venga riferito al capitale complessivo dà tutto un certo andamento e un certo tipo di funzionamento al capitalismo; quindi bisogna tenerne conto; sia però chiaro – questo è quello che dice Marx – che, quando il plusvalore venga riferito all’intero capitale, in questo modo si copre la sua origine, perché sorge l’apparenza che sia l’intero capitale a produrre questo profitto, che capitale variabile e capitale costante siano da questo

punto di vista analoghi, siano nella stessa posizione nei confronti del profitto […]; invece, se il profitto è riferito al solo capitale variabile [come nella ipotesi marxiana], allora se ne mette in evidenza, se ne scopre, l’origine; perciò il saggio del plusvalore ha un significato molto diverso dal saggio del profitto”.2 Una volta precisata da Marx l’esclusiva derivazione dal lavoro vivo dell’eccedenza o sovrappiù che si produce in seno al processo di produzione capitalistico, diviene fondamentale per noi, rispetto al tema dello sfruttamento, approfondire il confronto di quest’ultimo con quello che possiamo invece chiamare sfruttamento precapitalistico. Secondo Marx, e questo va precisato subito, lo sfruttamento non è affatto una qualità esclusiva del capitalismo. È possibile, però, identificarne delle caratteristiche specifiche nelle forme (o logiche peculiari) che assume in seno alla società capitalistica. Napoleoni, in tal senso, mette in evidenza come tra sfruttamento precapitalistico e sfruttamento capitalistico esistano nello stesso momento motivi di continuità e discontinuità. Ci pare importante chiarire di seguito tale questione, troppo spesso sottovalutata. Nel Libro primo de Il Capitale, Marx afferma: “Il capitale non ha inventato il pluslavoro”.3 In tal senso, è corretto affermare che anche nelle diverse società (e nei loro modi di produzione corrispondenti) che hanno anticipato lo sviluppo del capitalismo, ciascuna in modo diverso a seconda delle specificità del contesto, si era in presenza di vere e proprie attività di sfruttamento, agite da una classe (egemone) sull’altra (subordinata). Quello che diventa allora importante per i nostri obiettivi è comprendere la specificità che caratterizza invece lo sfruttamento capitalistico. In proposito, la differenza fondamentale, potremmo dire, seguendo ancora Napoleoni, è che se lo sfruttamento in una società precapitalistica è sempre (in ogni tipo di società non capitalistica) orientato e al contempo limitato dalla soddisfazione di un certo numero di bisogni concreti e determinati, nella società capitalistica, e solo in questa, lo sfruttamento si presenta invece in modo piuttosto differente, secondo due elementi, tra loro strettamente collegati. Il primo riguarda il fatto che nel capitalismo lo sfruttamento non si presenta, contrariamente alle società precedenti, in modo chiaro, evidente e facilmente rilevabile. Al contrario, nel capitalismo, per poter mostrare il funzionamento delle operanti logiche dello sfruttamento, occorre svelarne la trama nascosta attraverso le analisi proposte da una scienza vera e propria: la critica

dell’economia politica. “E perché lo sfruttamento capitalistico è così poco evidente? Perché, mentre lo sfruttamento precapitalistico è diretto, nel senso che il pluslavoro si configura sempre in forme visibili, e dà luogo ad una parte del prodotto che è sempre materialmente separata dalla parte del prodotto che viene conservata dal lavoratore per mantenersi in vita, viceversa nel caso del capitalismo lo sfruttamento è indiretto, è mediato, e precisamente è mediato dallo scambio, è mediato dal valore. […] Quindi il rapporto di sfruttamento è nascosto sotto il rapporto di scambio”4 da un lato e, dall’altro, sotto lo spesso velo del diritto borghese che astrattamente indica l’esistenza di un piano di eguaglianza formale e giuridica tra i partecipanti alla vita economica e sociale. Lo sfruttamento capitalistico dunque è in primis opaco e non sempre percepito in quanto tale da chi lo subisce ogni giorno sul mercato e nei luoghi di lavoro. Il secondo e più importante elemento che caratterizza lo sfruttamento nel capitalismo ha a che fare con la coincidenza che qui e solo qui si realizza tra pluslavoro e plusvalore. È solo nel capitalismo, infatti, che il valore di scambio domina il processo di produzione, condizionandolo in tutti i suoi aspetti. Contrariamente alle società precapitalistiche, dove come abbiamo visto lo sfruttamento è circoscritto da un numero precisato di bisogni da soddisfare attraverso il consumo, “nel capitalismo questo finisce, perché il plusprodotto è un plusvalore e non serve al consumo, ma serve all’incremento del valore stesso; quindi può avere dimensioni qualsiasi e tende ad averne di sempre più ampie, di sempre maggiori”.5 Il movimento incessante che anche attraverso il denaro permette di realizzare una crescita illimitata del valore, questo movimento mai sazio, è per Marx esso stesso il capitale. Il processo di lavoro è dunque, nel capitalismo, subordinato al processo di valorizzazione, e lo sfruttamento che si realizza in esso e che presiede alla riproduzione allargata del sistema appare come un processo dinamico e continuamente in trasformazione. Va però aggiunta, in conclusione di paragrafo, una nota a margine, a nostro avviso molto rilevante: se infatti il rapporto salariale aveva certamente la funzione di attualizzare la condizione di sussunzione del lavoro al capitale, di mobilizzarla mediante il trucco del contratto, esso però portava con sé anche il “problema” di rendere inevitabilmente più visibile e ravvisabile lo sfruttamento, di collocarlo cioè in un punto preciso, di costituirne i confini. In altre parole, mentre opacizzava lo sfruttamento nella

relazione giuridica, non poteva però evitare di esteriorizzare la quota di valore eccedente che si crea nei processi di produzione. Come cercheremo di dimostrare tra poco, nel capitalismo contemporaneo lo sfruttamento ha a che fare, ancora più di ieri, con l’intimità e con la cattura di qualità soggettive che non sono ricomprese nelle cosiddette mansioni produttive tradizionali, e che quindi non possono essere ricondotte dentro i risvolti delle istituzioni salariali. Oggi lo sfruttamento, rispetto alla società industriale che interrogava Marx, agisce più in profondità e in modo ancora più subdolo. Dovremo cercare di capire quindi il modo in cui ciò effettivamente si realizza. Tra le pieghe dell’antropologia marxiana, in particolare se osservata lungo la tensione che caratterizza sagittalmente la sua intera opera, appare allora un’altra scena dello sfruttamento, un’altra logica oltre a quella sussuntoria (che è legata all’instaurarsi della relazione salariale), alla quale si accompagna senza mai poterla residuare del tutto, ma che funziona secondo dispositivi differenti (non necessariamente giuridici), “interni”, non esteriorizzati, e che usa a suo vantaggio la compiacenza soggettiva che si iscrive nei confronti di essi per estrarre e proprietarizzare quantità mai viste di valore. Il nostro compito sarà allora, di seguito, sporgendosi oltre Marx, di dirne qualcosa. 2. Sussunzione e impressione6 Come abbiamo già visto, nel Capitolo vi inedito, Marx introduce la categoria di sussunzione del lavoro al capitale secondo due modalità specifiche: la sussunzione formale e la sussunzione reale. Il concetto di sussunzione, come è noto, è stato estratto da Marx dall’opera di Aristotele e dalla Critica del Giudizio di Kant, dove la parola tedesca die subsumtion, derivata dal verbo subsumieren, cioè inquadrare in una classificazione, designa la riconduzione di un termine a un rapporto, al contempo di inclusione e di subordinazione, che gli è proprio rispetto al termine più generale. È attraverso il concetto di sussunzione che Marx costruisce e precisa la sua teoria, al contempo logica e storica, dello sfruttamento. Ciò che è importante rilevare per i nostri obiettivi è che se i concetti di sussunzione formale e di sussunzione reale sono utilizzati da Marx per qualificare due

processi differenti di estrazione del valore (rispettivamente di plusvalore assoluto e relativo) e di subordinazione del lavoro, d’altra parte, è possibile ravvisare una continuità logica tra i due tipi di sussunzione, continuità che si organizza, diciamo empiricamente, a partire dalla necessaria centralità, in entrambe, del rapporto salariale. Scrive Marx in proposito nel Capitolo vi inedito: “La ricchezza materiale si trasforma in capitale solo perché l’operaio, per poter campare, vende la propria capacità lavorativa; solo di fronte al lavoro salariato le cose che sono le condizioni oggettive del lavoro, cioè i mezzi di produzione, e le cose che sono le condizioni oggettive del mantenimento dell’operaio, cioè i mezzi di sussistenza, diventano capitale […]. Il lavoro salariato, o il salariato, è perciò una forma sociale necessaria del lavoro per la produzione capitalistica, esattamente come il capitale, il valore potenziato, è una forma sociale necessaria che le condizioni oggettive del lavoro devono assumere affinché il lavoro sia lavoro salariato”.7 In ogni caso, la contiguità appena sottolineata tra le due forme di sussunzione non impedisce di coglierne le rilevanti trasformazioni storiche, anzi permette di meglio evidenziarle. Schematizzando, possiamo infatti facilmente abbozzare una periodizzazione delle epoche del capitalismo, cioè di fasi marcate da una continuità derivante dal modo di produzione (estrazione di plusvalore e sfruttamento sono le invarianti) e da una discontinuità riscontrabile sia attraverso le differenti modalità di divisione del lavoro realizzate, sia dalla qualità dei rapporti di proprietà. Da questo punto di vista, crediamo sia possibile distinguere almeno tre tappe principali dello sviluppo capitalistico8: la prima, definibile come del capitalismo mercantilista e segnata da una divisione del lavoro di stampo manifatturiero, quindi dal primato dei saperi artigiani propri dell’operaio professionale, nonché dalla sussunzione formale, nel contesto della quale il capitale sottomette con un movimento prevalentemente estensivo qualità sviluppatesi all’esterno della sua dinamica endogena. La seconda tappa, questa volta prevalentemente intensiva, è quella del capitalismo industriale; in questo caso, la divisione del lavoro è caratterizzata dall’applicazione delle norme organizzative di tipo tayloristico (parcellizzazione del lavoro complesso in mansioni semplici e routinarie) e dalla crescente diffusione della sussunzione reale, la cui specificità risiede nel fatto che la sussunzione del lavoro al capitale si realizza a partire dal rapporto stringente fra il lavoro vivo e il lavoro oggettivato fornito dalle macchine (vi è dunque in questo contesto una

netta distinzione, e un’evidente gerarchia, tra capitale fisso e capitale variabile a vantaggio del primo rispetto al secondo). Il punto più avanzato di questa fase è inoltre certamente costituito dallo sviluppo del cosiddetto fordismo maturo, cioè l’epoca capitalistica dispiegatasi nel secondo dopoguerra ed entrata in crisi a partire dagli anni settanta del Ventesimo secolo. La sussunzione reale tipica del fordismo impone alla società del tempo un’omogeneità spaziale, temporale e soggettiva, invariabilmente fondata a partire dalla disciplina del lavoro salariato. La qualità che la produzione di soggettività deve realizzare all’interno di questo paradigma è relativamente stabile, dal momento che le due figure tendenziali che l’attraversano (proletari venditori di forza-lavoro e capitalisti acquirenti di forza-lavoro) rappresentano a uno stesso tempo le condizioni e gli esiti del processo. La terza fase è infine quella che si caratterizza per il processo di esplosione del rapporto salariale e delle sue forme di governo. Tale fase può definirsi secondo diverse etichette concettuali, come ad esempio quella divenuta “fortunata” di capitalismo cognitivo,9 che segue alla crisi irreversibile del fordismo e prevede una nuova configurazione della divisione del lavoro il cui dato caratteristico, in sintesi, è rappresentato dal ruolo motore della produzione di conoscenze a mezzo di conoscenze ed è legato al processo di crescente intellettualizzazione del lavoro. Anche in questa fase il rapporto fra attività produttiva e tecnologia è ovviamente rilevante, sebbene si manifesti in modo nuovo rispetto a prima: è possibile, infatti, parlare in proposito di un capitalismo che sposta il cuore dei processi di estrazione del valore, dal lavoro immediato alla cosiddetta intellettualità diffusa (general intellect),10 i cui circuiti di valorizzazione tendono sempre di più a caratterizzarsi in una prospettiva di tipo rentier: “A livello di ciascuna impresa, l’attività creatrice di valore coincide sempre meno con l’unità di luogo e tempo propria della regolazione dei tempi di collettivi del periodo fordista. D’altra parte, e a livello sociale, la produzione di ricchezza e di conoscenza si crea sempre di più a monte del sistema delle imprese e della sfera mercantile. Essa non può essere ricondotta all’interno della logica di valorizzazione del capitale che in modo indiretto, a partire da un rapporto di esteriorità alla produzione paragonabile per molti aspetti a una appropriazione del valore in forme di rendita”.11 Al di là delle questioni che riguardano il lungo e articolato dibattito sul

capitalismo cognitivo, e che non possiamo affrontare in questa sede, è importante almeno rimarcare come l’esplosione della dinamica salariale finisca alla fine per estinguere il suo ruolo di forza motrice della creazione di valore. Un passaggio di Christian Marazzi in proposito sottolinea con chiarezza la dinamica socio-storica di questa esplosione cui vogliamo fare preciso riferimento e su cui oggi agiscono in modo sempre più condizionante le istituzioni finanziarie: “Credo che qua il capitale stia subendo una sua nemesi storica. Ha distrutto la classe operaia fordista, questo è il miracolo che gli è riuscito; però, il capitale è per definizione, in termini marxiani, un rapporto sociale, quindi distruggere la classe operaia ha significato distruggere quella dinamica che è legata all’essenza stessa del capitale, appunto il suo essere un rapporto sociale, quello che gli permette di crescere […]. Quando il capitale ha distrutto la classe operaia così come l’abbiamo conosciuta, soprattutto l’ha distrutta attraverso la desalarizzazione, la decontrattualizzazione e le misure capillari di precarizzazione del lavoro, si è privato della possibilità stessa non tanto di creare la liquidità, ma di integrarla nel circuito economico. Il denaro viene creato per monetizzare i salari; nel momento in cui i salari non ci sono più nella forma della contrattazione e dell’ubicazione della classe operaia, si aprono le porte a un’integrazione della liquidità che va da tutte le parti, che crea rendite e reddito non nella forma di leva del consumo ma come ricchezza improduttiva, molto concentrata nelle classi alte, il famoso 1% più ricco, incapace di sgocciolare verso il basso. C’è quindi un problema serio creato dalla distruzione dell’istituzione del salario, che rende la politica monetaria destinata ad alimentare la finanziarizzazione e la concentrazione della ricchezza verso l’alto. In questo senso il problema è strutturale”.12 Marazzi rimarca il processo di distruzione dell’istituzione del salario, che per la sua rilevanza, va commentato anche nel senso della necessità di riconoscere l’attuale e radicale metamorfosi del lavoro, oggi sempre meno circoscrivibile all’interno dei suoi “tradizionali” confini industriali. Ne Il Capitale, e più specificamente nel Libro terzo, Marx ci pare intuisca in modo sorprendente la questione in gioco: “Quantunque la forma del lavoro come lavoro salariato determini la configurazione dell’intero processo e lo specifico modo della produzione stessa, non è il lavoro salariato che determina il valore. Nella determinazione del valore ciò che conta è il tempo

sociale di lavoro in generale, la quantità di lavoro che la società in generale ha a sua disposizione”.13 Quali sono, dunque, le forme che oggi assume il lavoro sociale in generale, l’attività di produzione, nel momento in cui l’istituzione salario tende sempre meno a configurarne le qualità sociali? È una questione che crediamo occorra cominciare a mettere in primo piano. Una conseguenza paradossale, ma al contempo fondamentale, dei cambiamenti del lavoro in senso post-salariale è infatti la centralità crescente della riproduzione sociale nei nuovi processi di estrazione del valore. Il tempo di lavoro, oggi, non trovando più un limite nel confine salariale, si dilata a dismisura e finisce col sovrapporsi e confondersi con le altre sfere della temporalità sociale. L’esplosione del rapporto salariale e la diffusione del lavoro al di là dei suoi confini industriali ci convince dunque della necessità di problematizzare, nell’epoca del capitalismo digitale e dell’economia delle piattaforme, la categoria di sfruttamento. Più in particolare, ci sembra esista la possibilità teorica e politica di affiancare alla marxiana logica della sussunzione una nuova logica dello sfruttamento, che abbiamo nominato impressione o imprinting, e che, secondo la nostra prospettiva interpretativa, nel capitalismo contemporaneo si fa sempre più significativa e operativa. Il salto di paradigma che la de-salarizzazione del lavoro e della produzione impone va, dunque, di seguito meglio approfondito. 3. Il capitalismo come movimento ventricolare Abbiamo visto come il capitalismo sia per Marx un organismo in continua trasformazione. La plasticità del capitalismo, intesa come la capacità di modificare continuamente le sue logiche di estrazione del valore e di riproduzione sociale attraverso la metabolizzazione delle diverse critiche che gli vengono rivolte, è una delle sue più salienti caratteristiche. La comprensione dei nodi problematici posti dagli attuali scenari post-salariali non è allora possibile se non si pone al centro del ragionamento l’analisi delle qualità strutturali del capitalismo stesso. In questa direzione pensiamo sia utile (se non addirittura indispensabile) fare un salto interpretativo e incrociare il pensiero di Karl Marx con alcuni concetti proposti da due importanti filosofi francesi del secolo scorso: Gilles Deleuze e Félix Guattari. In particolare ci riferiamo all’opportunità di leggere

il capitalismo e la sua dinamica riproduttiva attraverso il concetto di assiomatica sociale. Questa è, d’altra parte, una premessa di metodo fondamentale per iniziare a tematizzare il concetto di sfruttamento come imprinting. Il capitalismo opera spostando continuamente i propri limiti di funzionamento, assumendo le sue proprie crisi come fossero opportunità. Che cosa significa allargare dinamicamente i propri limiti? Significa decodificare e assiomatizzare contemporaneamente, “Significa che possiamo definire il capitalismo come un’assiomatica sociale”, affermava Deleuze nel 1971, l’anno precedente alla pubblicazione in Francia de L’anti-Edipo. “Il capitalismo funziona come un’assiomatica, un’assiomatica dei flussi decodificati. Tutte le altre forme sociali hanno funzionato sulla base di una codifica e di una territorializzazione dei flussi […]. Il capitalismo funziona su una congiunzione di flussi decodificati, però a una condizione, e cioè che, mentre decodifica continuamente il flusso di denaro, il flusso di lavoro ecc., esso deve introdurre un nuovo tipo di macchina – contemporaneamente e non in un secondo tempo – che non sia una macchina di codifica ma una macchina assiomatica. È così che esso arriva a fare un sistema coerente.”14 Per essere un sistema coerente e capace di risolvere il vincolo strutturale al suo sviluppo storico e sociale, il capitalismo deve continuamente oscillare tra un tempo-spazio di apertura e un tempo-spazio di chiusura. È questo movimento ventricolare, che può assumere diversi ritmi e accelerazioni a seconda delle congiunture, che definisce la qualità del processo di estrazione del plusvalore utilizzato dal capitale per “riprodursi” e quindi rendere operative le sue pratiche di espropriazione. La nostra riflessione sullo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo deve allora partire da qui: dal movimento incessante di oscillazione del capitalismo tra de-territorializzazione e ri-territorializzazione dei flussi. Dal capitalismo come macchina assiomatica. Dal capitalismo come crisi e riadattamento permanente dei suoi apparati di estrazione del valore. L’assiomatica è il litorale elastico, all’interno del quale vengono fissate, e quindi riconosciute feticisticamente, le pratiche di inclusione differenziale di scrittura della soggettività nel registro identitario della merce.15 Il capitalismo assume dunque l’assiomatica come metodo fondamentale per la sua riproduzione sociale. Più specificamente, il capitalismo è descrivibile a partire dalla qualità dinamica (o metastabile) del rapporto tra

plusvalore e sfruttamento che si realizza nelle diverse fasi del suo sviluppo. In altre parole, questo rapporto descrive una caratteristica invariante dell’assioma ma è, nella sua articolazione, elastico e mai fissato, precisato, una volta per tutte: la logica di connessione dei due termini del rapporto – plusvalore e sfruttamento – è una qualità che può essere continuamente ridefinita secondo differenti misure. I rapporti fra le logiche di estrazione del valore che presiedono al funzionamento del capitalismo si rendono dunque più o meno cogenti a seconda delle differenti e specifiche determinazioni socio-storiche. Nella società industriale ha prevalso (anche se non in forma esclusiva) la logica sussuntoria (formale e/o reale) che scrive il suo rapporto sociale fondamentale, come abbiamo più volte sottolineato, attraverso la produzione di una soggettività normalizzata in forma di forza-lavoro (che ha come sua condizione di esistenza la disponibilità di lavoro libero, non proprietario e salarizzabile). Nel capitalismo cognitivo e post-salariale, sarebbe invece, secondo la nostra proposta, la logica dell’imprinting a occupare per lo più la scena della produzione del valore. Essa istituisce il suo rapporto sociale fondamentale in modo nuovo, a partire da una soggettività prodotta attraverso un’ingiunzione alla concorrenza,16 alla libera e privata iniziativa, all’investimento (quando possibile) sull’autonomia professionale e alla re-incorporazione progressiva dei mezzi di produzione, ora per lo più costituiti di saperi e qualità relazionali, alla rappresentazione (per lo più inconscia) del mondo intero come una cosa. Questo non significa però porsi al di fuori di un rapporto di eterodirezione, rapporto che, nello scenario postsalariale, assume nuove configurazioni sostanziali, inedite e più difficili da individuare e circoscrivere. Quello che occorre aver chiaro arrivati a questo punto è che ci troviamo in un contesto dove la produzione di soggettività non ha più come obiettivo fondamentale quello di definire, pianificare, imbrigliare, quasi interamente ed ex ante, la qualità e la modalità della sua estrinsecazione produttiva. Cerchiamo di spiegarci meglio. Nella fase industriale, la logica dello sfruttamento è stata prevalentemente di tipo sussuntorio. Marx ha speso, come abbiamo visto, pagine straordinarie per descriverla e precisarla nella sua articolazione “sospesa” tra motivi economici e motivi politici e sociali. La sussunzione si è organizzata, come anche Michel Foucault ha messo in evidenza,17 a partire da un soggetto docile, disciplinato e da ortopedizzare secondo posture rigide e precostituite che sono state realizzate dentro il

cosiddetto paradigma salariale. Nella fase attuale di sviluppo del capitalismo, globale e finanziarizzato, tale logica appropriativa non risulta più sufficiente a corrispondere alle necessità dell’assioma fondamentale. Occorre precisare allora la qualità di una nuova modalità di sviluppo in cui il funzionamento del rapporto di produzione si caratterizza non più attraverso la generalizzazione di rigide aspettative normative sul lavoro, bensì attraverso un impasto di poteri che sì, interdicono, ma anche sollecitano, nutrono e al contempo orientano in modo efficace e preciso le condotte soggettive. Ciò che resta ancora in gran parte da chiarire è però cosa accade nel momento in cui la soggettività entra nella sfera produttiva investita da una logica di esercizio del potere per lo più impressiva e quindi non più prevalentemente sussuntoria. Come si ri-articolano i rapporti sociali di produzione? Cosa accade alle prassi di sussunzione formale e reale che caratterizzano il capitalismo che Marx aveva fin dall’inizio indagato? E che rapporto si stabilisce tra sussunzione e imprinting? 4. La logica dell’imprinting come doppia ingiunzione La plasticità del sistema capitalistico non è ovviamente senza limiti. In questi anni di crisi economica globale è stato possibile, infatti, intravedere in suo seno il determinarsi di profonde incrinature. Queste riguardano, a nostro avviso, anche la necessità che il sistema capitalistico ha di presiedere ai rapporti fra le diverse logiche di sfruttamento che lo caratterizzano (e che devono continuamente cercare di riprodursi all’interno di una certa coerenza reciproca). Ad esempio, la cosiddetta economia reale e i suoi interessi, basati sulla realizzazione di profitti legati allo sfruttamento del lavoro, non sono sempre compatibili con la rendita finanziaria e il suo crescente strapotere globale. Il capitalismo deve costantemente organizzare un modo per comporre i loro fragili e irregolari confini; deve trovare continue forme di mediazione tra i diversi ambiti di estrazione del valore, in modo che la crescita possa stabilizzarsi e si favorisca l’appropriazione proprietaria della ricchezza prodotta. In poche parole, si tratta di determinare una compatibilità fra le logiche dello sfruttamento operanti lungo il ciclo riproduttivo del sistema capitalistico. È a partire da questo ragionamento che siamo convinti che oggi individuare nell’istituzione salario il punto di contraddizione fondamentale del sistema – e quindi limitarsi a criticare la sola logica di

sussunzione – non sia più sufficiente per fondare una prassi politica critica che possa dirsi lungimirante ed efficace. Il problema è in tal senso discernere in modo chiaro il salto di analisi che il funzionamento di nuove logiche estrattive di valore, come quelle impressive, oggi implica. L’espressione imprinting – è bene dirne qualcosa – richiama immediatamente alla memoria gli studi dell’etologo austriaco Konrad Lorenz ma, al di là di questo, ciò che deve essere preso a riferimento per intenderne la logica è il processo di sviluppo della pellicola fotografica: quando questa viene sottoposta a un’esposizione controllata di luce, su di essa si imprime un’immagine, detta latente, proprio perché la creazione di un’immagine stabile sarà soggetta a ulteriori passaggi secondo un’ampia gamma di possibilità, comunque però all’interno dei confini stabiliti dall’immagine latente. Con la precisa finalità di comprendere il modo di funzionare dell’imprinting possiamo anche rifarci alla locuzione latina nihil obstat quominus imprimatur, spesso abbreviata nel semplice imprimatur, espressione della quale l’autorità ecclesiastica si serviva per autorizzare la stampa dei libri. Centrale è in questo caso l’idea di un limite/soglia stabilito (arbitrariamente) ex ante senza indicare con ciò una specifica conclusione al processo di produzione. In altri termini, il libro può sviluppare qualsiasi argomento purché questo non violi la dottrina cattolica. Si tratta dunque, nell’imprinting, di attivare una ingiunzione di tipo negativo, che pone un limite al cui interno, tuttavia, tutto è concesso. Similmente, l’imprimatur del capitale stabilisce ex ante (e sempre arbitrariamente) un limite/soglia al di là del quale tutto è concesso. A questo punto occorre allora domandarsi in che modo l’imprinting istituisca una vera e propria logica dello sfruttamento. Per dare una risposta dobbiamo tenere presente che lo sfruttamento, nel capitalismo, ha per definizione a che fare con la necessità del sistema di appropriarsi di un valore al fine di reinvestirlo per sostenere e rilanciare il proprio processo accumulativo. Lo sfruttamento, potremmo dire, per essere tale deve avere una intrinseca qualità produttiva. L’imprinting si configura dunque in tal senso come un dispositivo biopolitico e ideologico18 di governo della soggettività, che agendo direttamente sui processi di soggettivazione definisce l’illusione di un campo aperto e ampio di possibilità di scelta per il soggetto (configurando in tal senso una falsa prospettiva di autonomia), mette in altre parole in scena un’apertura che, per quanto non visibile chiaramente al

soggetto, è nei fatti limitata e funzionale alla sola valorizzazione capitalistica. Come ha messo ben in evidenza Pierre Macherey a partire dai lavori dell’ultimo Althusser, qui “l’ideologia, essendo stata rimaterializzata, si presenta non in forma restrittiva e reattiva, ossia per difetto, ma al contrario come ciò che fa pensare e agire ‘concretamente’. La sua funzione è fondamentalmente produttiva, e proprio per questo, […] il suo statuto non è constatativo ma performativo: essa è prima rispetto ai fatti dei quali sembra rendere conto”.19 Si tratta insomma di mettere in discussione, come fatto, ad esempio, dalla “scuola” inaugurata da Althusser, l’idea che i processi economici possano essere separati dai processi politici e, di conseguenza, che il tema del valore e della sua produzione in sovrappiù possa trovare sempre (in ogni condizione storica) “soluzione” solamente attraverso la relazione circoscritta dal lavoro salariato di fabbrica. Per dirla con il lessico e la prospettiva che stiamo proponendo: si tratta di mettere in discussione il fatto che la logica sussuntoria (del lavoro al capitale) sia sempre e comunque l’unica modalità che il capitalismo è in grado di darsi per l’estrazione di plusvalore. Il concetto di imprinting crediamo possa invece contribuire a gettare luce su quei processi di sfruttamento che, pur mantenendosi all’interno di una fissata gerarchia che vede prioritario il processo di valorizzazione sul processo di lavorazione,20 il valore di scambio sul valore d’uso, non sono articolati necessariamente all’interno delle istituzioni salariali e, a livello più ampio, sulla produzione sociale di lavoro salariato. Il precisarsi contemporaneo della logica impressoria (della soggettività al capitale) permette, infatti, al capitalismo di estrarre valore secondo due vantaggi fondamentali: il primo riguarda la possibilità di approfondire il campo del vivente che viene immediatamente orientato alla valorizzazione del capitale (non limitandosi a estrarre valore da ciò che entra nel processo come lavoro salariato ma dall’intero spettro delle risorse viventi)21; il secondo dipende dal fatto che le soggettività al lavoro, ricomposte ora secondo una logica di esasperata frammentazione interna, sono rese meno conflittuali e resistenti rispetto alla possibilità di allineare i loro comportamenti alla mission del capitale. Su questo secondo aspetto dobbiamo però aggiungere che, sebbene l’ingiunzione alla vision capitalistica avvenga attraverso l’imprinting prodotto ex ante, la validazione economica del processo di riproduzione generale del sistema non può invece che avvenire ex post. In tal senso, per quanto una

soggettività sia “impressionata”, in divenire rimane sempre in parte indeterminata (e questo è funzionale anche allo sfruttamento della plasticità e della capacità attiva del lavoro vivo) e il capitalismo si trova per questo “costretto” a mantenere una tensione sempre aperta, che ovviamente si precisa non senza produrre (anche se oggi sempre più difficilmente organizzabili) resistenze e conflittualità. Infine, è necessario precisare come accanto all’ingiunzione negativa dell’imprinting (lo stabilimento di una soglia e non di un codice “ortopedico” di comportamento) vi è sempre all’opera anche un’ingiunzione positiva che incita/impone al soggetto di conformarsi quanto più possibile all’imperativo del godimento della sua (in realtà fittizia) autonomia (imprinting come foucaultiano dispositivo “liberogeno” di una governamentalità interventista, di “una società orientata non verso il mercato e l’uniformità della merce, ma verso la molteplicità e differenziazione delle imprese”22). Ecco allora precisarsi la doppia ingiunzione imperativa del capitalismo contemporaneo: 1. sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia, purché 2. la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale e nelle sue metriche convenzionali in continuo mutamento. In altre parole, si tratta di un’inclusione differenziale basata sull’apparente paradosso di un controllo sociale che si esprime attraverso la produzione di libertà, di un dispositivo di governo che organizza la produzione sociale incitando all’autonomia soggettiva. In ultima istanza, l’imprinting dischiude una logica di sfruttamento al di là della relativa omogeneità necessaria al dispiegarsi della dinamica salariale: esiste una specifica forma di subordinazione che trae linfa dall’indefinitezza, piuttosto che venirne minacciata. In questo senso, l’imprinting, il precisarsi della sua centralità nel capitalismo contemporaneo, segna anche una significativa riconfigurazione dei rapporti sociali di produzione. D’altra parte, occorre ribadire come sussunzione e imprinting non siano caratterizzati da un rapporto di esclusione reciproca; al contrario, ciò che caratterizza il loro rapporto sono la compresenza e la continua loro riarticolazione a seconda delle condizioni generali e contingenti del sistema. Per riassumere, in conclusione, potremmo dire che l’imprinting agisce sulla (e produce la) soggettività attraverso una logica che non ha più a che fare con la forma sociale del lavoro salariato ma che anzi vede le componenti riproduttive della vita (affetti, emotività, relazioni, amorevolezza e cura) divenire indispensabili per la generazione di plusvalore. Ovviamente all’interno di alcune specificità di produzione le pratiche di sfruttamento

continueranno – apparentemente – a essere organizzate per lo più secondo una logica di tipo sussuntorio, basata sul rapporto salariale, come ad esempio in alcuni contesti di produzione manifatturiera derivati dall’esternalizzazione produttiva. In realtà, le modalità attraverso cui il valore viene qui prodotto e poi appropriato sono a nostro avviso, in ogni caso, profondamente influenzate e quindi determinate nella loro configurazione economica e sociale (secondo modalità che varieranno da contesto a contesto) dai processi impressori largamente diffusi nel capitalismo globale. Il complesso rapporto fra sussunzione e imprinting può essere meglio descritto facendo ricorso a una figura topologica: nel nastro di Möbius, due superfici sembrano stare su due facce diverse, eppure l’una è in continuità con l’altra. Il passaggio dall’una all’altra faccia del nastro sarà sempre solo apparente essendo il nastro in realtà composto da una sola superficie. Per questo è anche impossibile tracciare un confine chiaro e distinto tra una logica e l’altra. Non si deve però con questo neppure intendere l’imprinting come ciò che permette di configurare una forma totalizzante e senza pieghe del potere. Esso, infatti, porta necessariamente con sé delle fragilità, su cui è possibile agire politicamente, ad esempio nel punto di cucitura tra le due diverse estremità che formano il nastro prima della torsione che lo configura. Nella cucitura necessaria a costituire la qualità della superficie stessa della striscia si individua – in termini deleuziani – un’incrinatura, una faglia, una disgiunzione possibile che rende visibili, e quindi opponibili, le due logiche dello sfruttamento, dispiegate sulla superficie del nastro. Negli spazi di “naturalità” che vengono definiti dal processo di imprinting a livello della soggettività sono date le condizioni affinché le azioni siano immediatamente valorizzanti e, in quanto tali, conformi all’assioma fondamentale. Nel caso del capitalismo attuale, il nesso plusvalore/sfruttamento è riprodotto (nella sua condizione ideale) non secondo una logica di sussunzione, attraverso la mediazione del nesso salario/lavoro, ma per lo più seguendo un’altra logica. Lo sfruttamento per imprinting, infatti, non abbisogna che il capitale variabile sia definito secondo il criterio della compravendita della forza-lavoro; l’unica cosa che conta è che la soggettività sia produttiva di valore, nella forma e secondo le operazioni di “traduzione” che le circostanze assumono come per lo meno soddisfacenti. In altre parole, l’elemento inedito delle modalità di sfruttamento dischiuse dalla crisi del paradigma fordista – basato, ricordiamo,

sulla sua capacità intensiva di espansione della produttività del lavoro – non può essere compreso, secondo la nostra ipotesi, unicamente dentro la modalità sussuntoria. Infatti il paradigma della sussunzione, pur nella sua indiscutibile elasticità – che Marx era riuscito a prevedere – circoscrive il principio di sfruttamento entro i confini oramai divenuti stretti del cosiddetto lavoro subordinato, e quindi del nesso lavoro-salario. Questo nesso è oggi, come abbiamo cercato di dimostrare, insufficiente per dare conto del complesso spettro di pratiche di sfruttamento e appropriazione proprietaria del valore attive nella società capitalistica contemporanea. 5. Conclusioni: imprinting e feticismo Il tema del feticismo delle merci e, con esso, il processo di cosificazione o reificazione del mondo è, nella definizione concettuale dell’imprinting, fondamentale in quanto istituisce esteticamente il piano sul quale la soggettività viene prodotta e si determina come subito orientata a pratiche che si definiscono in seno alla logica del valore di scambio. È appunto in tal senso essenziale collocare la teoria del feticismo al centro dell’opera marxiana, in generale, e al centro del tema dello sfruttamento, in particolare: in questo modo è infatti possibile mostrare come, oltre che precisare un metodo quantitativo di determinazione di quote rilevanti di lavoro non pagato, lo sfruttamento sia sempre e comunque anche un metodo qualitativo di impressionare la vita in un certo modo. Senz’altro si potrebbe affermare in proposito che il concetto marxiano di sussunzione sia in realtà già di per sé sufficiente a descrivere l’articolazione tra qualità e quantità, perché capace di ricomprendere nel suo ambito non solo le dimensioni tecniche ed economiche dello sfruttamento ma anche quelle sociali, politiche e perfino antropologiche (pensiamo ad esempio al concetto di alienazione di Marx). Questa affermazione, per lo più condivisibile, al contempo mostra, a nostro avviso, ogni giorno che passa tutti i suoi limiti. La stringente parentela della sussunzione con l’istituzione salariale (così come abbiamo cercato di mostrare) impedisce, infatti, di osservare con chiarezza, a partire da essa, l’emergere nel capitalismo contemporaneo di modalità inedite, originali e rilevanti di estrazione del valore e conseguentemente di sfruttamento del lavoro vivo.23 Descrivere il modo in cui tali modalità oggi si organizzano dentro l’assioma capitalistico è una necessità teorico-pratica non più

rimandabile. Per farlo siamo convinti che occorra con Marx, ma al contempo oltre Marx, portare la nostra attenzione al modo in cui oggi la soggettività (nei tempi dispiegati del digitale e dei sempre più pervasivi dispositivi mediali) viene prodotta feticisticamente e secondo quali logiche specifiche venga sfruttata producendo un incollamento sempre più adesivo alla qualità della produzione (di tipo postindustriale) del valore.24 Trattasi, d’altro canto, di una eredità di intenti, forse quella più stringente, che ci deriva oggi più che mai dal genio dello stesso Karl Marx.

6. Conclusioni (per il marxismo a-venire)

Confessione di Karl Marx1 DOMANDE La qualità che apprezzate di più Il vostro tratto caratteristico La vostra idea di felicità La vostra idea di infelicità Il difetto che siete più propensi a scusare Il difetto che vi ispira la massima avversione La vostra antipatia La vostra occupazione preferita I vostri poeti preferiti Il vostro scrittore preferito I vostri eroi preferiti La vostra eroina preferita Il vostro fiore preferito Il vostro colore preferito Il vostro nome preferito Il vostro piatto preferito Il vostro detto preferito Il vostro motto preferito RISPOSTE in generale, la semplicità; negli uomini, la forza; nelle donne, la debolezza l’unità del fine la lotta la sottomissione la fiducia accordata alla leggera il servilismo Martin Tupper andare in cerca di vecchi libri Shakespeare, Eschilo, Goethe Diderot Spartaco, Keplero Gretchen l’alloro il rosso Laura-Jenny il pesce

nulla di umano mi è estraneo dubita di tutto

Leggendo le numerosissime lettere che Karl Marx regolarmente scriveva ad amici e parenti2 si scopre, quasi inaspettatamente, un uomo di grande sensibilità, fragile fisicamente e al contempo indomito rispetto alla necessità di studiare e comprendere a fondo il funzionamento della società industriale. Quello che colpisce in modo particolare è la preoccupazione e l’emotività con cui l’uomo Marx affronta le difficoltà economiche e le vicissitudini della sua vita quotidiana e familiare. Eppure questo “piccolo uomo” impegnato a fare i conti con le ingiustizie subite e le miserie della propria vita ebbe la forza di scrivere le opere che più hanno influenzato la storia della civiltà moderna. Non crediamo sia possibile oggi fare a meno dell’eredità di Marx. Il tempo che viviamo ci costringe a rilanciare l’idea e la necessità di una radicale trasformazione del mondo. Rinunciare ad agitare lo spettro e a organizzare una prassi che sia indirizzata a realizzare un cambiamento profondo dell’ordine costituito e delle sue attuali gerarchie consegnerebbe inevitabilmente la nostra democrazia a una deriva tragica. Inutile, crediamo, fare l’elenco delle terribili contraddizioni che la società globale capitalistica reca con sé: sono drammaticamente sotto gli occhi di tutti. D’altra parte il pensiero di Marx è tanto necessario quanto da solo insufficiente a sostenere una pratica politica che abbia ancora la motivazione a dirsi e a farsi rivoluzionaria. La società attuale è molto cambiata rispetto al contesto che vedeva l’innalzarsi delle ciminiere sullo skyline e sui destini del mondo e che Marx ha così mirabilmente descritto nella sua opera. Le norme che sostengono il funzionamento del capitalismo e producono, investendola, una soggettività ad esso adeguata, hanno oggi modificato il loro orientamento. I processi di estrazione del valore che permettono di realizzare la crescita economica non sono più unicamente riconducibili allo sfruttamento intensivo della forza-lavoro salariata. La centralità della finanza, la diffusività della rete digitale, la concorrenza sfrenata che la globalizzazione porta con sé reintroducono al centro del funzionamento del capitalismo (accanto al profitto) il tema della rendita, con tutto ciò che essa comporta in termini politici e sociali, oltre che economici.3 Lo sfruttamento ha in tale contesto nuovi dispositivi di effettuazione, più subdoli ed estesi. Occorre urgentemente comprenderne la logica. In questo volume abbiamo cercato di sostenere la tesi che il marxismo, se

vuole sopravvivere a se stesso, deve accettare di essere contaminato, e che Marx deve essere letto anche al di là delle sue principali e più consuete tracce interpretative. In sostanza, bisogna evitare di fare della sua ricchissima e preziosissima eredità un monumento, o peggio ancora, un inutile soprammobile da spolverare ogni tanto per riporlo sull’immobile della politica attuale. Occorre, al contrario, pensare all’opera di Marx come a una freccia del nostro arco, da scagliare e conficcare nel cuore tachicardico del presente. Il Marx che intende percorrere il Ventunesimo secolo deve necessariamente prendere coscienza dei suoi confini e incrociarsi, senza il timore di perdere la sua originaria purezza, con altre interrogazioni critiche. E così anche attraverso di esso sperimentare la costruzione di nuove forme istituzionali e organizzare nuove pratiche di conflitto in seno alla politica democratica. Quali sono gli elementi fondamentali (di merito e di metodo) della teoria di Marx cui non possiamo rinunciare per portare avanti tale compito? Innanzitutto, siamo fermamente convinti che occorra prendere sul serio e fare propria la sua metodologia fondamentale, aderire cioè a quella che Antonio Gramsci definì, riferendosi proprio all’opera di Marx, una filosofia della prassi. In tal senso, occorre rifiutare, come abbiamo più volte ribadito nelle pagine di questo volume, una lettura determinista ed economicista del pensiero marxiano. Questo è un passaggio fondamentale che, se venisse pienamente assunto, permetterebbe di attribuire il giusto peso al concetto di rapporti sociali di produzione e alla questione ideologica nell’opera del pensatore tedesco. “Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture, il che non è piccola affermazione di ‘realtà’.”4 A partire da qui, riprendere poi la teoria del feticismo delle merci e usarla come strumento per scavare le fondamenta del nuovo pensiero critico avenire. Il motivo di questa urgenza è presto detto: l’importanza e l’irrinunciabilità della lotta allo sfruttamento. Siamo convinti (e speriamo che questo sia emerso nelle pagine del libro con sufficiente chiarezza) che sfruttamento e feticismo delle merci identifichino nel pensiero di Marx i medesimi processi, anche se gli stessi sono posti su livelli di astrazione differenti: per capire come funziona oggi il primo occorre capire come si inscrive, nello spazio della soggettività, il secondo. Di seguito, in

conclusione, cercheremo di precisare, ancora una volta, le nostre convinzioni in proposito. Isaak Ilijč Rubin, nei suoi fondamentali Saggi sulla teoria del valore di Marx, ci offre in tal senso la chiave per ribadire la nostra tesi sullo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo. C’è un passaggio del suo volume che vorremmo sottolineare: “Ora poiché la merce è destinata allo scambio fin dal momento della sua produzione, il produttore, già a livello di produzione diretta, prima dell’atto dello scambio, equipara il suo prodotto con una determinata somma di valore (denaro), e il suo lavoro concreto a una determinata quantità di lavoro astratto”5; e soprattutto “Questa equiparazione deve preliminarmente avvenire ‘nella coscienza’, per potersi poi realizzare nello scambio effettivo”.6 La forma sociale del lavoro nel capitalismo prende le forme del lavoro astratto. “Ora, il problema sta nella differenza tra ‘esistenza materiale’ e ‘funzionale’ delle cose, tra prodotto del lavoro e sua forma sociale, tra cose e rapporti di produzione tra persone ‘concresciuti’ alle cose, espressi cioè nelle cose. Ciò che si rivela è dunque la connessione inseparabile tra la teoria del valore di Marx e i suoi principi metodologici generali, formulati nella teoria del feticismo delle merci […]. Abbiamo a che fare con un rapporto umano che acquista la forma di cosa e in questa forma si collega al processo della distribuzione sociale del lavoro. In altre parole si tratta della reificazione di un rapporto di produzione tra persone.”7 Seguendo tale interpretazione possiamo osservare la dimensione qualitativa dello sfruttamento capitalistico: esso si definisce nella possibilità di inscrivere il rapporto sociale dentro il fantasma della merce. Per usare il lessico che abbiamo presentato nell’ultimo capitolo di questo volume: di imprimere la soggettività dentro la trama sociale che la merce costruisce per la sua produzione/circolazione. Ed è proprio per questa ragione che, come afferma Rubin, occorre non solo non sottovalutare ma anche valorizzare la profonda qualità sociologica dell’opera di Marx. “Marx pone in primo piano il lato qualitativo, sociologico del valore.”8 La dimensione quantitativa dello sfruttamento (le quote di lavoro astratto non pagate all’operaio) emerge, allora, solo grazie alla sua dimensione qualitativa. La sussunzione non si realizza che in stretta relazione con l’impressione della vita nella logica sociale della merce. Comprendere come la logica della sussunzione e la logica dell’impressione entrano in relazione tra loro è il compito di una nuova critica dell’economia politica, ancora in gran parte da costruire. Il compito di

chiunque non voglia rinunciare a progettare un modo nuovo per vivere in comune. Un modo per disincantare e smontare le scenografie fantasmatiche (e le false promesse ad esse appiccicate) della merce, e quindi ritrovare l’entusiasmo e la gioia per fare esperienza di tempi e spazi condivisi, capaci di sostenere la costituzione di una nuova dismisura soggettiva. Un modo per indicare la sintassi di un agire capace di assumere il valore secondo inedite finalità sociali, al di fuori e finalmente oltre il tempo e la logica dello sfruttamento.

Note

Introduzione. Sull’inattualità del pensiero di Karl Marx 1 Nietzsche F., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 2007, pp. 4-5. 2 Negri A., Marx oltre Marx, manifestolibri, Roma 1998, p. 120. 3 Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. I, p. 365. 4 Id., Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 5-6. 1. Il metodo di Marx 1 Lenin V.I., Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, trad. it. in Opere scelte in sei volumi, Editori Riuniti, Roma-Mosca 1974, vol. I, p. 42. 2 Balibar É., La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 1994. 3 Meritano di essere qui citati, a riguardo, due volumi che si occupano del parricidio di Marx nei confronti di Hegel. Pur non sempre in accordo con gli esiti della riflessione che qui viene presentata, pensiamo però che i volumi siano molto significativi da un punto di vista epistemologico e metodologico. Ci stiamo riferendo ai due lavori di Roberto Finelli, il primo intitolato Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004, e il secondo Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014. 4 “Il dibattito sulle opere giovanili di Marx è prima di tutto un dibattito politico,” sottolinea Althusser nel suo Per Marx. Althusser L., Per Marx, trad. it. di F. Madonia, Editori Riuniti, Roma 1967. 5 Petrucciani S., Marx, Carocci, Roma 2009. 6 Marx K., Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Marx K., Engels F., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 3-53. 7 Ivi, p. 17. 8 Korsch K., Karl Marx, trad. it. di A. Illuminati, Laterza, Bari 1969, p. 200. 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 202. 11 Colletti L., Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969. 12 Marx K., Opere filosofiche giovanili, a cura di G. della Volpe, Rinascita, Roma 1950, p. 111. 13 Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 115. 14 Ivi, p. 117. 15 Marx K., La questione ebraica, in Un carteggio del 1843 e altri scritti giovanili, trad. it. di R. Panzieri, Rinascita, Roma 1954. 16 Ivi, p. 71. 17 Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 120. 18 Ivi, p. 121. 19 Ivi, pp. 121-122. 20 Ivi, p. 123.

21 Schmidt A., Il concetto di natura in Marx, a cura di R. Bellofiore, Punto Rosso, Milano 2018. 22 Petrucciani S., L’irriducibilità dell’oggetto, in “il manifesto”, 13 aprile 2018. 23 Marx K., Engels F., L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 8. 24 Ivi, p. 13. 25 Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 127. 26 “Relazione di pensiero ed essere nella filosofia, relazione tra filosofia e mondo, relazione tra le parti costitutive del mondo: questa la struttura dell’astrazione determinata o scientifica. Cioè passaggio dal pensiero, dalla filosofia, al concreto: quindi deduzione; ma deduzione che implica ed ha a fondamento un passaggio dal mondo alla filosofia, cioè dal concreto all’astratto. Perciò analisi-sintesi, induzione-deduzione, circolo dal concreto all’astratto e dall’astratto al concreto, che cade e si risolve, infine, nel passaggio dal concreto al concreto.” Ibidem. 27 Come ben precisa Karl Korsch (Korsch K., Karl Marx, cit., p. 192), la critica avanzata da Marx in questo periodo alla religione, espressa a partire dalle tesi di Feuerbach, deve essere anche compresa alla luce dell’insediarsi in Prussia, in quegli stessi anni, di un governo fautore di politiche religiose, reazionarie e antiliberali. 28 Cfr. Bellofiore R., Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione: sulla (dis)continuità Marx-Hegel, in “Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità”, n. 5, ottobre 2013, pp. 42-78. 29 Althusser L., Per Marx, cit., p. 44. 30 Concordiamo con Marcello Musto quando sottolinea come “l’ortodossia marxista-leninista impose un’inflessibile monismo che non mancò di produrre effetti perversi anche sugli scritti di Marx”. La ricostruzione dello sterminato archivio dei frammenti marxiani non è certamente cosa facile, e probabilmente è destinata a durare ancora a lungo, se non a rimanere incompiuta. Se non altro, però, molte delle forzature che subì nel tempo oggi cominciano a essere chiarite. Il primo tentativo di pubblicare gli scritti completi di Karl Marx, com’è noto, risale agli anni venti del secolo scorso, quando David Borisovič Rjazanov, direttore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca, avviò la pubblicazione in lingua originale dell’opera completa del filosofo tedesco. Il nome dato a tale imponente operazione editoriale è Marx-Engels-Gesamtausgabe (Mega). Lo stalinismo, nel momento in cui cominciò a esercitare la sua intransigenza sulla società e sulla politica sovietica, impedì il lavoro degli studiosi dell’istituto, tanto che lo stesso Rjazanov fu destituito, condannato alla deportazione nel 1931 e giustiziato nel 1938, e il progetto Mega venne interrotto pochi anni più tardi. Dei quarantadue volumi previsti, solamente dodici furono dati effettivamente alle stampe. Nel 1975, inoltre, è iniziata la pubblicazione in Germania, per mano degli Istituti per il marxismo-leninismo sovietici e tedeschi, del progetto Mega2. Nel 1990, dopo il crollo del socialismo reale, il progetto è passato sotto la direzione della Fondazione internazionale Marx-Engels (Imes). Gli obiettivi del rinnovato progetto sono straordinariamente importanti e anche grazie alla possibilità di accedere a parti, non irrilevanti, dell’opera marxiana fino ad oggi inaccessibili, rappresenta la concreta possibilità di chiarire molti dei passaggi interni al pensiero del filosofo di Treviri. Sull’importante progetto Mega in Italia è fondamentale il lavoro che ha svolto e che sta svolgendo Roberto Fineschi. Si veda a riguardo, oltre ai suoi numerosi articoli sul tema, il suo Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA), Carocci, Roma 2008, dove il lavoro attorno ai progetti Mega e Mega2 è ricostruito nel dettaglio e con estrema chiarezza. Per Fineschi ci troveremmo oggi, alla luce dei lavori della Mega2, di fronte a un nuovo autore, un nuovo Marx, tutto ancora da scoprire. 31 Althusser L., Per Marx, cit., p. 65. 32 Ivi, p. 67. 33 Rispetto a questa cruciale questione, sono fondamentali le riflessioni e le analisi proposte negli anni sessanta del secolo scorso da alcuni autori che si formarono nel contesto dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte. Come sottolinea Petrucciani, tra i frutti migliori di questa “nuova” stagione di

ricerca tedesca sui testi marxiani è doveroso ricordare almeno il lavoro di Helmuth Reichelt, HansJürgen Krahl, Alfred Schmidt, e soprattutto Hans-Georg Backhaus. Non essendo questo il luogo dove poter approfondire il contributo di questi autori che diedero origine (soprattutto quest’ultimo) a quella che è nota con il nome di Neue Marx-Lektüre, rimandiamo, in proposito, agli importanti lavori di Riccardo Bellofiore e Tommaso Redolfi Riva. Più specificamente su Backhaus, segnaliamo il testo di Redolfi Riva, Teoria del valore e ricostruzione dialettica. H.G. Backhaus e la critica dell’economia politica, in H.G. Backhaus, Dialettica della forma di valore, a cura di R. Bellofiore e T. Redolfi Riva, Editori Riuniti, Roma 2009. Una raccolta di testi e di ricerche di Backhaus è stata recentemente proposta da Mimesis (2018) sotto la direzione di Bellofiore e Redolfi Riva, con il titolo Ricerche sulla critica marxiana dell’economia. Allo stesso modo è, crediamo, più che condivisibile la posizione espressa da Lucio Colletti che argomenta come nei Manoscritti del ’44 di Marx “è sciolto il nodo che dà significato al concetto di ‘rapporti sociali di produzione’, – questa vera summa della rivoluzione teorica prodotta da Marx”. Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 388. 34 Petrucciani S., Marx, cit., p. 26. 35 Balibar É., La filosofia di Marx, cit. 36 Ivi, p. 39. 37 Mezzadra S., Nei cantieri marxiani, manifestolibri, Roma 2014. 38 Althusser non sembra avere dubbi rispetto all’influenza che ebbe Feuerbach sulla formazione del giovane Marx: “Io penso che il confronto tra i Manifesti e le opere giovanili di Marx mostri con molta evidenza che Marx, per due o tre anni, fece letteralmente propria la problematica stessa di Feuerbach, che vi si identificò profondamente e che, per capire il significato della maggior parte delle affermazioni di questo periodo, anche di quelle che riguardano specificatamente la materia dell’ulteriore riflessione marxiana (per esempio la politica, la vita sociale, il proletariato, la rivoluzione ecc.) e che quindi potrebbero sembrare a pieno diritto marxiste, bisogna mettersi al centro di questa identificazione e coglierne bene tutte le conseguenze e tutte le implicazioni teoriche”. Althusser L., Per Marx, cit., p. 65. 39 Balibar É., La filosofia di Marx, cit. 40 Su questo è ancora oggi insuperato l’acceso dibattito epistolare tra Adam Schaff e Lucien Sève riportato in Marxismo e umanesimo, a cura di A. Ponzio, Dedalo libri, Bari 1975. 41 Marx K., Tesi su Feuerbach, in Marx K., Engels F., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 189. 42 Il commento è riferito in: Sève L., Marxismo e teoria della personalità, a cura di M. Miegge, Einaudi, Torino 1973. 43 Su questo si veda, in un’ottica sartriana, ancora il volume di Lucien Sève Marxismo e teoria della personalità, cit. 44 Schaff ritiene che la traduzione dal tedesco della VI tesi sia viziata da un grave errore. L’espressione presente nella versione originale della VI tesi, das menschliche Wesen, non andrebbe infatti tradotta con l’essenza umana ma con l’essere umano. E questo ristabilirebbe a suo parere la chiave interamente materialistica del progetto marxista. 45 Marx K., Engels F., L’ideologia tedesca, cit., p. 30 (corsivo nostro). 46 Ivi, p. 21. 47 Ibidem. Non arriva Marx a intravedere con una certa lucidità un soggetto diviso come quello che, solo più tardi, nel Novecento preciserà la psicoanalisi? E quindi ad abbozzare una sorta di primordiale teoria delle pulsioni? Il rapporto fra la psicoanalisi e Marx meriterebbe certamente, a nostro avviso, un supplemento di attenzione e ricerca. 48 Mezzadra S., Nei cantieri marxiani, cit., p. 39. 49 Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 378. 50 Ibidem.

51 Marx K., Lavoro salariato e capitale, a cura di V. Vitello, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1960, p. 48 (corsivo nostro). 52 Colletti L., Introduzione, in Bernstein E., I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968, pp. XXXI-XXXII. 53 Ivi, p. XXXII. 54 Negri A., Marx oltre Marx, manifestolibri, Roma 1998, p. 70. 55 Cfr. Vinci P., Astrazione determinata, in Libera Università Metropolitana (a cura di), Lessico Marxiano, manifestolibri, Roma 2008, pp. 53-64. Vinci sottolinea opportunamente come la fortuna italiana del concetto di astrazione determinata sia legata all’opera di Galvano della Volpe (maestro di Lucio Colletti). In particolare il filosofo imolese la teorizza all’interno del circolo concreto-astrattoconcreto. 56 Marx K., Introduzione alla critica dell’economia politica, a cura di M. Musto, Quodlibet, Macerata 2010, p. 35. 57 Colletti L., Introduzione, cit., pp. XLII-XLIII. 58 Negri A., Marx oltre Marx, cit., p. 73. 59 Ibidem. 60 Ivi, p. 74. 61 Ivi, p. 75. 2. I rapporti sociali di produzione e la critica dell’economia politica 1 Negri A., Marx oltre Marx, manifestolibri, Roma 1998, p. 75 (corsivo nostro). 2 Colletti L., Introduzione, in Bernstein E., I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968, pp. LVI-LVII. 3 Occorre tenere sempre presente che per Marx il vero oggetto della conoscenza è il fenomeno sociale considerato nella sua interezza, e quindi il capitale va sempre inteso come fosse una totalità. 4 Basso L., L’uomo come zoon politikon. Società, comunità e associazione in Marx, in “Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità”, n. 5, ottobre 2013. 5 Lo stesso Althusser definisce l’accumulazione originaria l’autentico nucleo del Capitale (Althusser L., Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000, p. 109). 6 Su questo singolare aspetto, e cioè il fatto che Marx aspetti la fine del Libro primo de Il Capitale per introdurre una teoria sull’“origine” del modo di produzione capitalistico, è indispensabile fare riferimento alla lettura proposta da Sandro Mezzadra nel suo La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, ombre corte, Verona 2008. Si vedano in particolare le pp. 127-154. 7 Althusser L., Sul materialismo aleatorio, cit., pp. 106-107. 8 Mezzadra S., La condizione postcoloniale, cit., p. 143. 9 Su questo argomento è imprescindibile il riferimento al testo di Macherey P., Il soggetto delle norme, ombre corte, Verona 2017, in particolare si veda il secondo capitolo (pp. 43-128). 10 Zurla P., Karl Marx: lavoro, macchine e grande industria nella produzione capitalistica, in La Rosa M., Rizza R., Zurla P., Lavoro e società industriale. Da Adam Smith a Karl Polanyi, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 33-69. 11 Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 135. 12 Ivi, pp. 137-138. 13 Zurla P., Karl Marx, cit., p. 40. 14 Mezzadra S., La condizione postcoloniale, cit., p. 134. 15 Marx K., Lineamenti fondamentali, cit., p. 139. 16 Facciamo qui riferimento in primis, ma non solo, alla famosa tesi di Mario Tronti sulla

cosiddetta “rivoluzione copernicana” dei rapporti tra capitale e lavoro: “Valore-lavoro vuol dire allora prima la forza-lavoro poi il capitale; vuol dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla forza-lavoro, in questo senso valore misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è condizione del capitale”. Tronti M., Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, pp. 224-225. 17 Marx K., Lavoro salariato e capitale, in Marx K., Engels F., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 330. 18 Ivi, p. 331. 19 Ibidem. 20 Ivi, pp. 332-333 (corsivo nostro). 21 Il testo è composto da cinque articoli apparsi nell’aprile del 1849 sulla “Neue Rheinische Zeitung” (“Nuova Gazzetta Renana” di Colonia). Gli articoli sono di fondamentale importanza perché si tratta del primo tentativo sistematico di Marx di spiegare scientificamente il processo di sfruttamento capitale-lavoro, all’interno di una società basata sul rapporto salariale. 22 Marx K., Lavoro salariato e capitale, cit., p. 333. 23 Ibidem. 24 Petrucciani S., Marx, Carocci, Roma 2009, p. 77. 25 Marx K., Lavoro salariato e capitale, cit., p. 334. 26 Ibidem. 27 Id., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 186. 28 Id., Introduzione alla critica dell’economia politica, a cura di M. Musto, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 11, 13. 29 Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, p. 242. 30 Id., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, cit. La Prefazione è stata scritta da Marx nel luglio del 1867. 31 Ivi, p. 19. 32 Il concetto di composizione di classe è forse il concetto più significativo elaborato dalla corrente marxista denominata operaismo, nata in Italia nei primi anni sessanta sotto la guida carismatica di Raniero Panzieri. In particolare il complesso ma fondamentale concetto di composizione di classe si riferisce al rapporto tra la trasformazione tecnica e organizzativa del lavoro e i livelli di coscienza e di pratiche di conflitto, spontanei e/o soggettivi della classe operaia. Un’implicazione che deriva dal riconoscimento della lotta operaia come elemento imprescindibile nella determinazione dello sviluppo capitalistico è l’immediata politicità (e quindi centralità) del cosiddetto lavoro vivo. 33 Negri A., Marx oltre Marx, cit., pp. 171-201. 34 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, a cura di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 21. 35 Tra i molti riferimenti bibliografici possibili sulla scuola della regolazione indichiamo quello che riteniamo il più esemplificativo: Aglietta M., Regolazione e crisi del capitalismo, in Aglietta M., Lunghini G., Sul capitalismo contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 9-76. 36 In tal senso il capitalismo non è mai in alcun modo riducibile al principio dello scambio e al suo modello principale di organizzazione: il mercato. Il capitalismo è sempre un campo di tensioni aperte dove sono necessariamente presenti apparati di Stato che presiedono e permettono di stabilizzare il funzionamento altrimenti disordinato e distruttivo dei mercati. Il modo in cui è stata governata (e superata?) l’ultima crisi economico-finanziaria è, ci pare, una prova evidente di quanto andiamo affermando. 37 Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, cit., p. 168. 38 Harvey D., Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018.

39 Marx K., Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a cura di G. Backhaus, 2 voll., Pgreco, Milano 2012, pp. 374-377. Quest’aspetto peculiare del sistema capitalistico sarà ripreso e sottolineato, più di un secolo dopo, da Deleuze e Guattari nei loro lavori su capitalismo e schizofrenia. In particolare ci riferiamo a quel processo che i due autori francesi definiscono come deterritorializzazione continua che accompagnerebbe e qualificherebbe lo sviluppo della società capitalistica. Sul tema torneremo nell’ultimo capitolo di questo volume. 40 Su questo argomento (ma non solo) consigliamo la lettura dell’intelligente e utilissimo libretto di Christian Marazzi, Che cos’è il plusvalore?, Casagrande, Bellinzona 2016. 41 Harvey D., Marx e la follia del capitale, cit., p. 134. 42 Ivi, p. 139. 43 Si veda ad esempio Butera F., L’orologio e l’organismo, Franco Angeli, Milano 1984. 44 Su questo si veda Colletti L., Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969, in particolare le pp. 317356. 45 Lukács G., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, pp. 116-117. 46 Negri A., La costituzione del tempo. Prolegomeni, manifestolibri, Roma 1997. 47 Ivi, p. 42. 48 Su questo tema sono da recuperare le riflessioni di Marcuse sul principio di prestazione nel suo Eros e Civiltà. Si veda in proposito: Chicchi F., Simone A., La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017. 49 Marx K., Miseria della filosofia, Rinascita, Roma 1949, pp. 44-45 (corsivi nostri). 50 “L’originalità del paradigma marxiano consiste nel fatto che qui il tempo è costitutivo, è tempo della costituzione, tempo della composizione. Quindi il paradigma è ontologico. In Marx il tempo comincia ad apparire come misura del lavoro […] ma, mano a mano che la lotta di classe procede e l’astrazione del lavoro si afferma, il tempo diviene sempre più interiore alla composizione di classe fino ad essere il motore della sua stessa esistenza e della sua specifica configurazione.” Negri A., La costituzione del tempo, cit., p. 43. 3. La produzione capitalistica come produzione di plusvalore 1 Il testo è stato scritto da Marx tra il giugno 1863 e il dicembre 1866, ma pubblicato, postumo, molti anni dopo la sua morte, addirittura nel 1933. Le ragioni per cui Marx (e poi anche Engels) decise di non pubblicare subito il volumetto, insieme al Libro primo de Il Capitale, non sono del tutto chiarite e non crediamo utile, a causa della “complessità” della questione, proporre qui solo alcune “frettolose” congetture a riguardo. Ci limitiamo a dire che nelle intenzioni originarie di Marx il Capitolo vi avrebbe dovuto chiudere, sintetizzandole, le analisi teoriche del Libro primo de Il Capitale, svolgendo in tal senso una funzione di cerniera tra le argomentazioni presentate in quest’ultimo e il processo di circolazione del capitale, tema cui è dedicato il Libro secondo. Segnaliamo inoltre che nel febbraio del 2018 per l’editore La città del sole di Napoli è uscita una nuova edizione italiana del volume, curata e tradotta da Giovanni Sgrò. Oltre all’ottima introduzione del curatore, questa operazione editoriale è significativa perché, pur non modificando sostanzialmente le precedenti traduzioni italiane, tiene conto del testo stabilito dai curatori del volume 4.1 della seconda edizione della Mega. 2 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, a cura di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 5. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 6. 5 Colletti L., Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969, p. 429. 6 Scrive ancora Colletti: “Marx, horribile dictu, accetta l’argomento che il ‘valore’ è un’entità metafisica, e solo si limita a osservare che un’entità scolastica è qui la cosa, cioè la merce stessa, il

valore, e non il concetto con cui lui, Marx, ha descritto come la merce è fatta! […] Questa società delle merci e del capitale è, dunque, la metafisica, il feticismo, il ‘mondo mistico’ […]. ‘Quando parliamo della merce come materializzazione del lavoro – nel senso del suo valore di scambio –, con ciò intendiamo – scrive Marx [in Teorie sul plusvalore] – unicamente un modo di esistenza della merce immaginario, cioè puramente sociale, che non ha niente a che fare con la sua realtà corporea. Un’esistenza immaginaria e tuttavia sociale! […] La merce e più ancora – s’intende – lo Stato e il capitale sono processi di ipostatizzazione reali”. Ivi, pp. 431-432. Colletti vuole qui metterci in guardia da una critica (quella hegeliana in primis) che non riesce a mettere in discussione le stesse categorie di analisi di cui si dota, non riuscendo così a evitare di specchiarsi nella realtà all’interno della quale si produce il proprio ragionamento. 7 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito di Marx, Boringhieri, Torino 1972, p. 27. 8 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 18. 9 Ibidem. 10 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., p. 30. 11 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 19. 12 Ivi, pp. 20-21. 13 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., pp. 27-32. 14 Ivi, p. 27. 15 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 29. 16 Non giudichi il lettore esagerata questa definizione marxiana, basti pensare infatti alle conseguenze sociali che la proletarizzazione avrà a partire dal Diciottesimo secolo sulla vita di milioni di persone, o ancor di più ai processi (ancora oggi in atto e visibili soprattutto nei flussi migratori) di colonizzazione e neocolonizzazione agiti da parte delle potenze capitalistiche sulle popolazioni ancora non salarizzate e/o industrializzate. 17 Colletti L., Introduzione, in Bernstein E., I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968, p. LXIII. 18 Ibidem. 19 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 22. 20 Cfr. tra i tanti esempi possibili: Durkheim É., La divisione del lavoro sociale, Ed. di Comunità, Milano 1977. 21 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., p. 40. 22 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 32. 23 Ivi, p. 24 (corsivo nostro). 24 Ibidem. 25 Petrucciani S., Marx, Carocci, Roma 2009, pp. 183-184. 26 Harvey D., Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018, p. 65. 27 Cfr. Carandini G., Un altro Marx, Laterza, Roma-Bari 2006. 28 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., p. 52. 29 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., pp. 34-35. 30 Ivi, p. 35. 31 Id., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 184. 32 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., p. 65. 33 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 39. 34 Sarebbe opportuno introdurre qui la differenza tra lavoro contenuto e lavoro comandato che Marx riprende dalla economia politica classica per formulare la sua teoria del valore-lavoro, differenza che aveva visto Smith e Ricardo impegnati in una celebre querelle. Alla luce degli obiettivi di questo

lavoro preferiamo però, a riguardo, limitarci a rimandare a Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., pp. 13-25. 35 Macherey P., Il soggetto delle norme, ombre corte, Verona 2017, pp. 144-145. 36 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 53. 37 Ivi, p. 59. 38 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito, cit., p. 71. 39 Ivi, p. 77. 40 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 57. 41 In particolare è dedicata alla questione la terza sezione del Libro primo de Il Capitale. Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, cit., pp. 195-340. 42 Ricordiamoci sempre che il capitalismo è un “dinamico” rapporto sociale di produzione. 43 Macherey P., Il soggetto delle norme, cit., pp. 146-147. 44 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 69. 45 Macherey P., Il soggetto delle norme, cit., p. 148. 46 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 71. 47 Ivi, p. 65. 48 Non ricorda questo passaggio, in modo sorprendente, il modo in cui si costruisce il paradigma neoliberale dell’impresa di sé, intesa come meccanismo chiave di iscrizione della soggettività nel capitalismo contemporaneo? Non aveva Marx già capito che il trucco, l’illusione dell’autonomia soggettiva che si produce sul mercato, sarebbe stato un elemento fondamentale e irrinunciabile della società capitalistica e della sua ideologia? Su questo si veda il testo di Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. Si veda anche Chicchi F., Simone A., La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017. 49 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit., p. 65. 50 Id., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. II, cit., Editori Riuniti, Roma 1970, p. 22. 51 Ivi, p. 26. 52 Ivi, p. 30. 4. Il feticismo come teoria generale di Marx 1 In questo capitolo, diversamente da quelli precedenti, proveremo a intrecciare le nostre riflessioni sul pensiero di Marx con i temi che coinvolgono l’analisi del capitalismo contemporaneo. Questo anche nella speranza di mostrare come l’analisi del presente non possa in alcun modo prescindere dalle categorie lasciateci in eredità dal filosofo tedesco. 2 Lettera di Engels a Bloch del 21 settembre 1890. In Marx K., Engels F., Sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1949, p. 75 (corsivo in parte nostro). 3 “Tutto il materialismo storico – a ben vedere – è in nuce qui. L’impossibilità di separare ‘economia’ e ‘società’, ‘natura’ e ‘storia’, ‘produzione’ e ‘rapporti sociali’, ‘produzione materiale’ e ‘produzione di idee’, ha la sua radice qui o non si saprebbe dove.” Colletti L., Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969, pp. 383-384. 4 Colletti L., Introduzione, in Bernstein E., I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1968, p. XXXI. 5 Ivi, p. XLIV. 6 Ivi, p. XLV. 7 Rubin I.I., Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, Milano 1976, p. 9. 8 Derrida J., Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 202. 9 Balibar É., Citoyen Sujet et autres essais d’anthropologie philosophique, Puf, Paris 2011. In

particolare le pp. 315-342. 10 Ivi, p. 320 (traduzione nostra). 11 Ivi, pp. 320-321 (traduzione nostra). 12 Ivi, p. 338 (traduzione nostra). 13 Honneth A., Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, Meltemi, Roma 2007, p. 55. 14 Non è possibile qui non fare riferimento alla celebre e controversa opera di György Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973: “L’essenza della struttura di merce è già stata spesso messa in rilievo. Essa consiste nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini” (p. 108). 15 Marx K., Storia delle teorie economiche. iii, Da Ricardo all’economia volgare, Einaudi, Torino 1971, p. 144. 16 Balibar É, Citoyen Sujet et autres essais d’anthropologie philosophique, cit., p. 337 (traduzione nostra). 17 Ivi, p. 326 (traduzione nostra). 18 Rubin I.I., Saggi sulla teoria del valore di Marx, cit., pp. 60-61 (corsivo nostro). 19 Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 86. 20 Ibidem. 21 Colletti L., Introduzione, cit., p. LVI. 22 Si veda su questo Bellofiore R., Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione: sulla (dis)continuità Marx-Hegel, in “Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità”, n. 5, ottobre 2013, pp. 42-78. 23 Sperando che dietro al feticcio capitalista non si nasconda solo un nuovo feticcio… ma questa è un’altra storia che qui non possiamo percorrere. Si veda su questo tema, ad esempio, Lyotard J.F., Economia libidinale, Pgreco, Milano 2012. Ma anche il noto testo del 1977 di Romano Màdera, Identità e feticismo, riedito ora per la casa editrice Mimesis con il titolo Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (2018). 24 È tutto qui, ci pare, il tema del parricidio di Marx nei confronti di Hegel. 25 Come Marx precisa nei Manoscritti economico filosofici del ’44. Citato in Basso L., Raimondi F., Soggettività e oggettività in Marx: fra ideologia e feticismo, in Basso L., Basso M., Raimondi F., Visentin S. (a cura di), Marx: la produzione del soggetto, DeriveApprodi, Roma 2018, p. 115. 26 Citazione di Marx e Engels riportata e commentata in: Basso L., Raimondi F., Soggettività e oggettività in Marx: fra ideologia e feticismo, cit., pp. 115-116. 27 Marx K., Storia delle teorie economiche. iii. Da Ricardo all’economia volgare, cit., p. 431. 28 Si veda su questo Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 432. 29 Balibar É, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma 1994, pp. 74-75. 30 Macherey P., Marx dematerializzato, o lo spirito di Derrida, in Derrida J., Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, Milano-Udine 2008, p. 31. 31 Colletti L., Il marxismo e Hegel, cit., p. 432. 32 Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, cit., p. 49. 33 “Il plusgodere è apparso nei miei ultimi discorsi in funzione d’omologia rispetto al plusvalore marxista. Dire omologia, è dire esattamente che il loro rapporto non è d’analogia. Si tratta pur della stessa cosa. Si tratta della stessa stoffa, in quanto si tratta del tratto di forbice del discorso”, Lacan J., Le Séminaire. Livre xvi. D’un Autre à l’autre (1968-1969), Seuil, Paris 2006, p. 45 (traduzione nostra). 34 Lacan J., Il seminario. Libro xvii. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino

2001, pp. 96-97. 35 Agamben G., Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, pp. 39-70. Su questo si veda anche il bel saggio di Pizza G., Oltre il feticismo della merce culturale, in Balsamo M., Faletra M., Pizza G., Feticcio, Grenelle, Potenza 2017, pp. 31-110. 36 Agamben G., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 307. 37 La bibliografia che tratta dei rapporti fra Marx e la psicoanalisi è davvero molto vasta, renderne conto qui sarebbe purtroppo impossibile. Rimandiamo a questo scopo, ma la scelta non è affatto esaustiva, a: Bruno P., Lacan passeur de Marx. L’invention du symptôme, Érès, Toulouse 2010. 38 Teniamo presente che Freud indica nel feticismo una situazione caratterizzata da una divisione psichica (Spaltung), nel senso che il soggetto si trova a aderire contemporaneamente a credenze tra loro contraddittorie. In altri termini, il feticista si comporterebbe ripudiando l’esperienza e continuando a comportarsi a prescindere dal sapere ottenuto da essa. Scrive a riguardo Octave Mannoni: “Ciò che viene in primo luogo ripudiato è la smentita che una realtà infligge a una credenza. Tuttavia […] il fenomeno è più complesso e la realtà constatata non è senza conseguenze. Il feticista ha ripudiato l’esperienza in base alla quale le donne non hanno fallo, però non conserva la credenza che esse ne abbiano uno, conserva un feticcio, proprio perché ne sono prive. Non solo l’esperienza non viene cancellata, ma diventa per sempre incancellabile, lascia uno stigma indelebile che segna il feticista per tutta la vita”. Mannoni O., La funzione dell’immaginario: letteratura e psicoanalisi, Laterza, Bari 1972, pp. 5-29. Inoltre, come precisa sempre la psicoanalisi freudiana, nel feticismo “la cartografia psichica si riduce a un’immagine fissa [una imago] che decide del destino delle relazioni del soggetto, delle sue percezioni, del suo sguardo, delle sue vicende storiche […]. L’imago priva il soggetto di una storia possibile iscrivendolo nella storia di un altro, obbligandolo a sognare i sogni di un altro, a vivere gli interdetti e i progetti di un altro”. Balsamo M., Estensioni della problematica feticistica, in Balsamo M., Faletra M., Pizza G., Feticcio, cit., pp. 133-134. Su questo tema, qui solo accennato, si veda tra i tanti il bel testo di Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, Quodlibet, Macerata 2008. 39 Secondo Freud, come è noto, il feticcio (spesso riconducibile a oggetti indossati dalla donna) è il modo che il soggetto ha di negare l’inesistenza della donna fallica: “L’instaurarsi del feticcio sembra piuttosto caratterizzato da un altro processo, il quale fa venire in mente l’arresto di ricordi nell’amnesia traumatica. Come in quella anche qui l’interesse viene come bloccato a metà strada, ed è probabilmente l’ultima impressione, quella che precede l’evento perturbante e traumatico, a essere trattenuta a mo’ di feticcio. In questo modo il piede o la scarpa, o una parte di essi, devono la predilezione feticista ad essi rivolta al fatto che il maschietto, nella sua curiosità, ha cercato di spiare, dalle gambe in su, il genitale femminile. I capi di biancheria intima, eretti così spesso a feticci, fissano l’attimo della spoliazione, l’ultimo in cui si poteva ancora credere alla donna fallica”. Freud S., Feticismo, in Opere. Vol. 10: Inibizione, sintomo e angoscia (1924-1929), Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 494. 40 Desideri F., Teologia dell’inferno. Walter Benjamin e il feticismo moderno, in Mistura S. (a cura di), Figure del feticismo, Einaudi, Torino 2001, p. 177. 41 Basso L., Raimondi F., Soggettività e oggettività in Marx, cit., p. 125. 42 Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, cit., p. 106. 43 Korsch K., Karl Marx, trad. it. di A. Illuminati, Laterza, Bari 1969, p. 122. 44 Il riferimento implicito al famoso film di Luis Buñuel del 1974, intitolato Le fantôme de la liberté, non è qui del tutto casuale. 45 Su questo tema, seppur da prospettive tra loro diverse, è doveroso segnalare i tre seguenti volumi: Vercellone C., Brancaccio F., Giuliani A., Vattimo P., Il Comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia politica dei beni comuni, ombre corte, Verona 2017; Dardot P., Laval C., Del comune o della rivoluzione nel xxi secolo, DeriveApprodi, Roma 2015; Hardt M., Negri A., Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.

46 Riportata in Contri G.B. (a cura di), Lacan in Italia 1953-1978, Lacan en Italie, La Salamandra, Milano 1978. 47 Si veda in particolare: Lacan J., Il seminario. Libro xvii, cit. 48 Freud S., Il disagio della civiltà, Einaudi, Torino 2010. 49 Soler C., Lacan, l’inconscio reinventato, Franco Angeli, Milano 2010, p. 191. 50 Recalcati M., La clinica del vuoto, in Ramaioli I., Cosenza D., Bossola P.E. (a cura di), Jacques Lacan e la clinica contemporanea, Franco Angeli, Milano 2003, p. 107. 51 Cfr. Alemán J., Larriera S., Los discursos, in Alemán J., Larriera S., Lacan: Heidegger, Miguel Gómez, Málaga 1998, p. 134. 52 Sul concetto di giustificazione si veda Boltanski L., Thévenot L., De la justification. Les économies de la grandeur, Gallimard, Paris 1991. 53 Chicchi F., Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2012. 54 Pagliardini A. (a cura di), Il reale del capitalismo, et al./Edizioni, Milano 2012. 55 Si veda su questo tema il bellissimo contributo di Mura A., Dall’economia del debito all’economia dell’angoscia: il paradigma dell’indebitamento al tempo dell’austerity, pubblicato in Leoni F. (a cura di), Re Mida a Wall Street. Debito, desiderio, distruzione tra psicoanalisi, economia, filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 193-210. 56 Benjamin W., Il capitalismo come religione, Il melangolo, Genova 1985, p. 43. 57 Cfr. Piketty T., Il capitale nel xxi secolo, Bompiani, Torino 2014. 58 Bataille G., La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 2015. 59 Ronchi R., Il reale del capitalismo. Bataille e Lacan, in Pagliardini A. (a cura di), Il reale del capitalismo, cit., pp. 126-145. 60 Ivi, p. 141. Si veda in proposito anche il cap. 4 del volume di David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 80-100. Scrive Harvey: “Valore e anti-valore sono fra loro in rapporto, nella circolazione del capitale, in molti modi diversi. Il ruolo dell’anti-valore non è sempre di opposizione, ha un ruolo fondamentale anche nel definire e garantire il futuro del capitale. La lotta contro l’anti-valore tiene sveglio, per così dire, il capitale. Il bisogno di redimere l’anti-valore è una forza che impone attenzione alla produzione di valore” (ivi, p. 86). 61 Pezzella M., La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito, in “Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità”, n. 5, ottobre 2013. 62 Si vedano per esempio le illuminanti riflessioni di Pierre Bourdieu, nel paragrafo “La doppia verità del dono”, in Bourdieu P., Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 200-211. 63 Lacan J., Del discorso psicoanalitico, in Contri G.B. (a cura di), Lacan in Italia 1953-1978, cit., pp. 47-48. 5. Logiche dello sfruttamento: incrinature tra sussunzione e imprinting 1 Althusser L., Marxismo e lotta di classe, in Althusser L., Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 61. 2 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito di Marx, Boringhieri, Torino 1972, pp. 138-139. 3 Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, vol. I, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 255. 4 Napoleoni C., Lezioni sul capitolo sesto inedito di Marx, cit., p. 141. 5 Ivi, p. 143. 6 I paragrafi 2, 3 e 4 di questo capitolo riprendono e rinnovano alcune parti significative del primo capitolo del volume Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, edito dalla

casa editrice ombre corte di Verona (2016). Tale capitolo in quell’occasione è stato da me redatto insieme a Stefano Lucarelli ed Emanuele Leonardi. Il merito e il demerito di quanto sarà scritto nei paragrafi cui ci siamo appena riferiti deve dunque essere, seppur parzialmente e senza una responsabilità diretta, condiviso con loro. Rimandiamo inoltre a tale volume per un eventuale approfondimento degli argomenti trattati. 7 Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, a cura di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 36-38 (corsivo nostro). 8 Vercellone C., Lavoro, distribuzione del reddito e valore nel capitalismo cognitivo. Una prospettiva storica e teorica, in Chicchi F., Roggero G., Lavoro e produzione del valore nell’economia della conoscenza. Criticità e ambivalenze della network culture, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 3154. 9 Nel contesto italiano la tesi del capitalismo cognitivo è stata principalmente discussa dopo la pubblicazione del libro, a cura di Carlo Vercellone, Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, manifestolibri, Roma 2006, che traduce e integra un testo francese uscito nel 2003. Tra le riviste occorre menzionare due numeri speciali dedicati al tema dello “European Journal of Economic and Social Systems”, il primo pubblicato nel 2007 a cura di A. Fumagalli e C. Vercellone, il secondo a cura di Lebert e Vercellone edito nel 2011. Più di recente, nel 2013, è uscito il numero speciale di “Knowledge Cultures” – rivista diretta da Michael Peters – a cura di S. Lucarelli e C. Vercellone (2013). Quest’elenco è ovviamente parziale e non rende affatto giustizia ai tanti lavori pubblicati in Italia sull’argomento, negli ultimi anni. 10 Il concetto di General Intellect è stato introdotto da Marx nel celebre Frammento sulle macchine dei Grundrisse (Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II). Riportiamo di seguito il passaggio maggiormente significativo a riguardo: “Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso. […] Il capitale diminuisce il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato” (p. 403). 11 Vercellone C., Lavoro, distribuzione del reddito e valore nel capitalismo cognitivo, cit., p. 45. 12 Marazzi C., Diario della crisi, ombre corte, Verona 2015, pp. 20-21. 13 Marx K., Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, vol. III, a cura di M.L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 299. 14 Lezione del 16 novembre 1971 di Deleuze nel suo corso che si teneva a Vincennes: www.webdeleuze.com/textes/195, consultato l’ultima volta in data 28 ottobre 2018. 15 Chicchi F., Dissolvenze e insolvenze. Il fantasma e l’indebito della merce, in Leoni F. (a cura di), Re Mida a Wall Street, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 177-192. 16 Su questo tema è obbligatorio citare il volume di Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. 17 Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993. 18 Su come la biopolitica descriva un tratto fondamentale del capitalismo contemporaneo rimandiamo in particolare ai numerosi e fondamentali lavori dedicati al tema da Laura Bazzicalupo. 19 Macherey P., Il soggetto delle norme, ombre corte, Verona 2017, p. 48.

20 Su questo si vedano i primi paragrafi del capitolo VI inedito di Marx (Marx K., Il Capitale: Libro i, capitolo vi inedito, cit.). 21 Su questo è importante, anche se gli esiti del suo ragionamento non convergono totalmente su quelli che sono qui proposti, il volume di Fumagalli A., Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, DeriveApprodi, Roma 2017. 22 Michel Foucault, nel suo seminario al Collège de France intitolato Nascita della biopolitica, indica nell’incapacità di gestire i “dispositivi liberogeni” una delle cause della crisi del liberalismo classico (pratica di governo che “consuma libertà”), e che porterà più tardi al precisarsi e al progressivo definirsi di una governamentalità neoliberale che di quei dispositivi, situati in questo caso nel contesto di un radicale antinaturalismo, farà (e tutt’ora fa) un largo uso. 23 A riguardo è molto interessante e utile il recente dibattito sviluppatosi attorno al concetto di “digital labor”. Rimandiamo per un approfondimento sul tema all’eccellente e importante volume di Casilli A., En Attendant les robots, Seuil, Paris 2019. 24 Cfr. Chicchi F., Il fantasma è la finzione dell’Altro. Riflessioni sparse sulla spettralità del contemporaneo, in Siciliano A., Chicchi F. (a cura di), Pensare il rovescio. Psicoanalisi in movimento, Gaalad, Giulianova 2018, pp. 211-221. 6. Conclusioni (per il marxismo a-venire) 1 In Inghilterra e in Germania, nell’Ottocento, era consuetudine fare un gioco che consisteva nel chiedere ai propri cari e conoscenti di riempire un questionario con alcune domande di carattere personale. Queste sono le confessioni di Karl Marx, rinvenute nell’album di famiglia della figlia Laura. Sono state pubblicate nel 1923 da David Borisovic Rjazanov. Noi le ricaviamo dal testo Ti amo Jenny. Lettere di amore e amicizia, edito da Shake, Milano-Rimini 2011. 2 Lettere raccolte sempre nel volume Ti amo, Jenny, cit. 3 Su questo resta insuperato il testo di Marazzi C., Finanza bruciata, Casagrande, Bellinzona 2009. 4 Gramsci A., Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 437 (maggio 1930). 5 Rubin I.I., Saggi sulla teoria del valore di Marx, Feltrinelli, Milano 1976, p. 59. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 60. 8 Ivi, p. 61.

Bibliografia

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Indice Introduzione. Sull’inattualità del pensiero di Karl Marx 1. Il metodo di Marx 2. I rapporti sociali di produzione e la critica dell’economia politica 3. La produzione capitalistica come produzione di plusvalore 4. Il feticismo come teoria generale di Marx 5. Logiche dello sfruttamento: incrinature tra sussunzione e imprinting 6. Conclusioni (per il marxismo a-venire) Note Bibliografia