Jean Vigo. Cinema della rivolta e dell'amour fou

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Jean Vigo. Cinema della rivolta e dell'amour fou

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BIBLIOTECA O 1 LIBERTARIA Z 1

Pino Bertelli

Jean Vigo Cinema della rivolta e delVamour fou Con scritti di

Enrico Ghezzi e Alfonso Amendola

Seconda edizione riveduta ed ampliata

Edizioni La Fiaccola

Pino Bertelli, Jean Vigo. C inem a della rivolta e d ell’amour

fou, Edizioni La Fiaccola, Ragusa, seconda edizione riveduta ed ampliata, giugno 2009 (la prima edizione, è stata da noi pubblicata nel maggio del 1995, con il titolo Jean Vigo. 1905-1934. C inem a della rivolta).

Pubblicazione a cura dell’Associazione Culturale «Sicilia Punto L», vico Leonardo Imposa 4, 97100 Ragusa, sezione «La Fiaccola», via Tommaso Fazello 133, 96017 Noto (SR). www.sicilialibertaria.it E-mail: [email protected] Richieste, pagamenti e contributi vanno indirizzati a: Giovanni Giunta, via Tommaso Fazello 133, 96017 Noto (SR). Tel. 0931 894033. Conto corrente postale n. 78699766. In copertina un disegno di Massimo Panicucci.

Composizione e pellicole: emrnmB, Grafica editoriale di Pietro Marletta, via Delle Gardenie 3, Beisito, 95045 Misterbianco (CT). Tel. 095 7141891. Stampa e allestimento: Tipografia A.&G. di Lucia Amara via Agira 41, 95123 Catania. Giugno 2009.

Desiderata*

a quei ragazzi con le magliette a strisce e un sampietrino in mano... che avevano osato sparare alla luna, non per possederla, ma per donarla a chi la voleva... a quei seimila ragazzi che hanno conosciuto processi, carceri o sono stati ammazzati nelle strade di quel paese dell’infamia che non ha mai smesso di erigere forche e roghi contro gli eretici dell’eresia... a quella meglio gioventù... quando si condivideva il pane salato, le acciu­ ghe sottopesto e le utopie amorose di quel Maggio rosso e nero che ci aveva fatto cantare nelle notti di stelle ubriache, «Bella ciao», «Addio Lugano bel­ la», «L’internazionale»... e sognare, vivere e amare quelli che resteranno per sempre i migliori anni della nostra vita.

* Abiura alla dedica che avevamo scritto nella prima edizione di questo pamphlet sul cine­ ma di Jean Vigo. Ci eravamo sbagliati sul conto di quelle squallide figure della Milano da getta­ re che citavo. A volte succede. Non avevamo visto la stupidità, la mediocrità, la bassezza etica di questi frequentatori di pattumiere e di bordelli senza muri del mercimonio d ’ogni sorta... lasciamo la volgarità di questi idioti tristi alla deriva della loro misera quotidianità da marcia­ piede... Uno sputo vi seppellirà o, forse, basta una risata.

Un'annotazione fuori margine

Ogni parola, frase o frammento di questo pamphlet possono essere copiati, ma­ nipolati o détournati senza l’obbligo di citare l’autore, né l’origine del saccheggio. Il primo atto di libertà è nato con il primo gesto di disobbedienza. Siamo di quelli che hanno debuttato dalla propria fine... che hanno conosciuto il fascino degli estremi e si sono fermati a parlare con le stelle, fra i baci al profumo di tiglio e l’odore della dinamite... Per la libertà come per l’amore non ci sono catene. C’è più verità tra le gambe aperte di una puttana dabbene che in tutti i libri di filosofia, di politica, di psicologia... ammucchiati nelle teste di quei maestri succhiacazzi che bivaccano nei cessi profumati delle università, nelle cloache dei parlamenti o nelle prediche insoz­ zate del sangue inquisitore e terrorista delle chiese monoteiste.

À REBOURS'. SCHEGGE DI CINEMA di Enrico Ghezzi

Della critica cinematografica12 La critica cinematografica ha sempre aspirato alla dignità di quella lette­ raria, o di quella deH’arte. Disperatamente accusando - rispetto alle altre cri­ tiche - la mancanza di una sicurezza (almeno... relativa, cioè questioni filolo­ 1 Un’annotazione fuori margine. Il nostro saggio sul cinema in anarchia di Jean Vigo, dice ciò che abbiamo amato e amiamo dell’anarchia e dell’opera sovversiva di uno dei più grandi poeti della storia del cinema. Tutto quello che emerge dalle parole, dalle invettive, dalle nostre estreme visioni sulla bellezza e sull’amore che sono al fondo del cinema di Vigo... è scritto se­ condo il calembour delle ballate di Villon, la lingua dell’odio di Còline o le collere libertarie del dinamitardo di tutte le morali (Nietzsche), anche... e si farà comprendere quanto basta. Guy Debord ci ricorda: «i gitani considerano a ragione che la verità non vada mai detta che nella propria lingua; in quella del nemico, deve regnare la menzogna». Tutto vero. Noi che siamo stati allevati nella pubblica via (e nel buio dei cinema...) abbiamo ben conosciuto amici che hanno soggiornato in molte galere e, qualche volta, sono morti sui marciapiedi della terra con i pugni chiusi... la maggior parte di loro sono stati condannati per reati politici, tuttavia abbia­ mo molto imparato anche da chi frequentava le galere per reati comuni o insofferenze pratiche contro l’ordine costituito. In questo senso abbiamo frequentato soprattutto, poeti, ribelli e po­ veri. Ci sono sempre meno artisti, sognatori, «cani perduti senza collare»... disposti a imparare a vivere come a morire per un attimo di libertà... forse ci vorrebbe un altro Maggio ’68... per mettere fine a questa sbornia prolungata di soggezione e complicità con le mafierie della parti­ tocrazia. .. gli indesiderabili della terra sono alle porte. .. la caduta dell’Impero è annunciata. La guerra è il terrorismo dei ricchi, il terrorismo è la guerra dei poveri, diceva. Quando gli uomini si accorgeranno della loro fame di bellezza, ci sarà la rivoluzione dell’intelligenza ai quattro an­ goli del mondo. (Nota di Pino Bertelli). 2 Le schegge di cinema di Enrico Ghezzi esprimono una filosofia critica della macchina/cinema, trasmettono una libertà di coscienza, incitano a provare a sognare un po’ la fine di tutte le teocrazie culturali e, quindi, politiche. Ci portano ha riflettere che la «scatola degli ar­ nesi» della cultura è stata aperta e le nuove generazioni si sono appropriate dei linguaggi (mul­ timediali) e dei loro usi... l’opportunità è quella che ciascuno può essere protagonista della propria storia e la fantasia o l’immaginazione di sé il grimaldello con il quale poter dire a ogni irreggimentazione del pensiero, la mia parola è no! A memoria di ubriaco non si era mai imma­ ginato che l’economia del mercato globale potesse crollare come torri di sabbia... noi che desi­ deriamo senza fine la fine di ogni ingiustizia e affiliamo i sorrisi sulle bare dell’economia neoco­ lonialista, «sappiamo che la bellezza di tutto ciò che vive è la poesia a venire» (Raoul Vaneigem), e siamo indotti a lavorare (con tutti i mezzi necessari) per l’avvento di un’umanità che inaugurerà l’era dei creatori, poiché niente impedirà all’uomo di andare alla ricerca della bellez­ za e alla conquista della felicità. (Nota di Pino Bertelli).

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giche a parte) dei testi cui fare riferimento. In realtà, fondando proprio su tale insicurezza la giustificazione della propria esistenza. Nel caos apparente della produzione, stabilire i testi e qualche differenza tra di essi, fissare giu­ dizi che comunichino la distribuzione in essi dei valori (d’uso, di scambio, d’acquisto). Non è un caso né una vergogna che periodicamente riemerga (e non solo per la critica militante sui quotidiani e periodici) la questione delle stellette o delle palline nei giudizi: non è spreco assurdo di parole, ma quasi il problema centrale della critica... La trivialità e volgarità della critica cine­ matografica deriva in gran parte dallo sforzo che fa per definire e nobilitare la qualità della propria mediazione, per raggiungere un’improbabile aristo­ craticità. Mentre la critica letteraria si esercita sui testi ad essa omogenei e in genere facilmente disponibili (nel tempo e nello spazio) ma magari leggibili con qualche difficoltà o incertezza (oh, l’ambiguità del linguaggio e dei te­ sti...), quella cinematografica si trova a mediare verso testi in sé fruibili im­ mediatamente da un vasto pubblico ma non sempre raggiungibili nello spa­ zio e nel tempo. La raffinatezza della critica letteraria può inventare o sco­ prire Xambiguità anche nel testo più trasparente; il critico cinematografico, angustiato da parecchie incertezze (di carattere prettamente storiografico e conoscitivo: quante cose ci sono in un film... quanti agganci... quante per­ sone ci lavorano... da dove vengono... dove vanno...), è portato più facil­ mente a distruggere l’ambiguità (che in realtà è propria di ogni immagine cinematografica) cercando di dissolvere le incertezze stesse... Solo di recente e in rarissimi casi la critica del cinema e dei film ha accet­ tato l’umiltà baziniana rendendosi contro del nodo di problemi che anche solo l’individuaziqne di un testo chiamato film comporta. Più generalmente, le aporie affascinanti o disperanti si ricompongono presto in una pratica quotidiana, magari in una professione che spesso si permette di irridere l’acriticità della malattia cinefilitica, cioè della passione che cerca di cristal­ lizzare gli oggetti perduti o che sa benissimo di averli persi per sempre ma cerca ogni momento di abbracciarli da fantasma a fantasma. E la critica co­ me istituzione si costituisce trionfalmente sfruttando il corpo presunto (il testo), l’oggetto supposto. O meglio, più banalmente, fino a oggi era la criti­ ca ad autorizzarsi da sola, esercitandosi, a prescindere dai testi, in quanto solo essa, in fondo, era garante dei testi stessi... Il terrorismo di chi «può andare ai festival» non è più sufficiente a con­ servare la casta: e la diffusione dei dati, delle informazioni, della pubblicisti­ ca stessa, provocano un corto circuito, per cui oggi il «critico» medio ha bi­ sogno dello stesso «sussidio medio» che si offre al pubblico, in aggiunta alla possibilità ancora mantenuta di accedere più facilmente alle fonti interna­ zionali di informazioni. L’ignoranza critica (nel senso di «non aver visto quel film») non è più così frequente, il ricambio generazionale e le nuove si­ tuazioni l’hanno resa quasi intollerabile, eliminando gli scompensi un tempo legati alla diversità delle formazioni culturali e dei destini «individuali»...

À REBOURS. SCHEGGE E)I CINEMA

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La critica infatti soprawive come corporazione, istituzione, luogo rituale di potere, gruppo di persone o insieme di pratiche, ma anche non mantiene pili alcuno spazio categoriale, disperdendosi in vari tipi di operazioni e or­ ganizzazioni culturali o perpetuandosi come vischioso residuo economico... Da poco tempo la critica (cinematografica) ha cominciato a lavorare su questo, a far luce sul suo luogo e su quello del testo, a produrre un altro te­ sto sapendo che esiste un testo, supporto materiale piùo meno costituito e preciso, ma che i bordi di esso, i contorni sempre in movimento e incerti ep­ pure decisivi per definire la forma, sono affidati al rosicchio del suo lavoro da castoro, alla memoria delle sue letture e visioni, alla lettura (o visione) delle sue memorie. Del cinema di Jean Vigo Zero in condotta, Zèro de conduite, il primo dei due lungometraggi - ma è corto - meno di un’ora - di Jean Vigo. Dell’altro vedete un momento tut­ te le notti, a fuori orario. Zèro de conduite lo vedete meno: lo facciamo una, due, tre volte l’anno, spesso per riempire un vuoto. E non c’è nulla di me­ glio che questo inno al cinema più libero e più anarchico. Mandiamo questo film perché vogliamo camminare almeno sulle mani dei piedi e, prendendo come regina la forza di gravità, il costituirsi del mondo, del nostro peso, è quasi come camminare sulla testa dei re. Ecco perché anche stanotte, tra un troppo lungo e un troppo corto, non sapendo cosa mandare in onda, ripar­ te Zero in condotta. Zero in condotta perché abbiamo voglia anche noi di uscire dalla televisione, così come Vigo usciva dal cinema entrandoci, non solo perché morì giovanissimo, dopo aver girato L ’Atalante, già malato, riammalandosene ancor più, ma perché, come diceva Bunuel, il cinema non è più andato avanti. È quello e ancora quello, il cinema: quello di Zèro de conduite, quello deìYAtalante. E per andare oltre dovrebbe — e forse ci sia­ mo vicini — dovrebbe semplicemente riflettere la luce bianca. Lo schermo dovrebbe diventare bianco. È quello che tentò di fare Debord nei suoi film azzerati, situazione zero del cinema. E quello cui, forse, si avvicina il cine­ ma: lo spaccarsi del mondo che invece sta per spaccarsi all’interno, per na­ scondersi, per non essere mai più potenzialmente vero, mai più legato alla menzogna del vero, ma solo alla verità di una menzogna assoluta, diffusa col cinema sintetico, col cinema senza corpo. Ma il cinema di Vigo è, invece, il cinema che i corpi li imprigiona e subito li libera, li fa sognare, li fa cammi­ nare sulle mani. Li rallenta, reinventa il ralenti, inventa piume come modo di visione, come filtro libero, visibile. Zero in condotta per uscire dalla tele­ visione. E ancor più, soprattutto, Vigo fa partire, fa ripartire il suo cinema che è pieno di elementi fondanti: À propos de Nice sembra quasi il primo straordinario documentario su una città; Taris ou la natation è sull’acqua,

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sul nuoto, sul gesto atletico. Sono tutti film che non sono affatto agli inizi del cinema, ma sembrano ogni volta ricominciarlo, come dirà poi - che so? - Bertolucci del cinema di Pasolini. E Zero in condotta, che è un film meno perfetto òe\XAtalante, meno definitivo, ha un soggetto meno bruciante delXAtalante che cerca di fissare dentro il cinema l’impossibilità liquida del­ l’amore. L’assurdo è che l’amore debba chiudersi in un territorio, sia pure un barcone, che sembra libero e invece è ancora più chiuso, e non esiste li­ bertà, perché esiste chiusura-apertura dell’amore. Invece Zero in condotta assume i punti di vista rovesciati, sbilenchi - cattivi, anche, senza volontà di accordo col mondo - dei bambini, dei ragazzi, di quelli a cui Skolimowsky voleva affidare il cinema. Un altro grande anarchico del cinema che, venticinquenne, rispondendo alle domande di un critico che gli chiedeva del ci­ nema giovane, diceva: «Ma quale cinema giovane? Noi siamo vecchi. Il ci­ nema giovane potrebbe essere fatto dai sedicenni, dai quattordicenni, a scuola. Senza le nostre grammatiche, senza le nostre scuole di cinema. Noi siamo già troppo vecchi. Il cinema lo devono fare i bambini che vedono il cinema dall’inizio, e possono riinventare il cinema, ogni momento». E lo di­ ceva prima dell’invenzione o, meglio, prima della diffusione del video. Era­ no gli anni ’60. Ecco, il cinema non ancora in mano ai bambini, ai ragazzini ma, con Vigo, il cinema è già la mano dei ragazzini, capace di lanciare un sasso, e poi di dare una carezza infinita, di quelle che fanno piangere...

JEAN VIGO O DELL’ESTREMO SENTIRE di Alfonso Amendola*

«la critica deve essere passionale, personale, politica».

Charles Baudelaire «N ascondere to ta lm e n te una passione (o a n zi sem plicem ente il suo eccesso) è inconcepibile: n o n ta n to perché il soggetto um a n o è troppo debole, m a perché, nella sua essenza, la passione è fa tta p e r essere vista».

Roland Barthes Per q u a n ti contin u a n o a credere n e ll ’amour

fou

Torna Jean Vigo in questo fondante saggio di Pino Bertelli (che recupe­ ra, amplifica, aggiorna ed innerva di nuove sostanze tematiche un suo testo datato 1995)*1. Torna Jean Vigo con tutto il suo senso d’ebbrezza, di «amour fou», di concretezza immaginativa e di visionarietà che ha saputo nella per­ fezione delle sue quattro opere decisamente realizzare (Gilles Deleuze c’in­ segnerà in tanti casi a chiamare gli uomini di cinema: poeti2*). Torna il gran­ de «insolente» della figurazione cinematografica, e lo troviamo dentro un’angolazione saggistica ed analitica decisamente differente rispetto alle imbalsamate, «supponenti» ed «edulcorate» riflessioni di una certa tradizio­ ne critica che altro non fanno che confermare le posizioni della «storiografia * Alfonso Amendola, svolge attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Salerno ed insegna Analisi dell’Opera Multimediale presso l’Università Orientale di Napoli. È Vice-Presidente del Centro Studi sulle Rappresenta­ zioni Linguistiche dell’Università di Salerno. Si occupa di cinema, culture d’avanguardia e im­ maginari collettivi. Ha pubblicato: frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una socio­ logia della sperimentazione (2006); Per una poetica del molteplice. Dialogo con Leo de Berardinis (2007); Il desiderio preso per la gola. Modelli comunicativi tra sogno e desiderio (2008) L ’imma­ ginazione audiovisiva. Post-cinema, video-art e multimedia performativi (in corso di pubblicazio­ ne) e attualmente lavora ad una monografia su Vladimir Majakovskj. 1 Pino Bertelli, Jean Vigo. 1905-1934. Cinema della rivolta, La Fiaccola, Ragusa 1995. Tut­ te le citazioni di Pino Bertelli riportate tra virgolette rimandano all’edizione 2008. 2 Non dimentichiamo mai che i registi sono pensatori che «pensano con immagini-movi­ mento, e con immagini-tempo, invece che con concetti», Gilles Deleuze, L ’immagine-movi­ mento, Ubulibri, Milano 1984, p. 11.

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dominante» come con chiara indicazione sottolinea Bertelli a più riprese. Una posizione critica che incanta e colpisce nel profondo3 perché in Pino Bertelli ritroviamo una dimensione di riflessione che è sempre atto di since­ rità, estremo sentire, lacerazione, fuoco e finanche rabbia, consapevoli che, come lui stesso annota, «la rabbia, talvolta, ha la trasparenza della verità o dell’amore». Ritorna Jean Vigo nelle parole di Pino Bertelli e capiamo che se il Novecento è stato grande lo è stato anche perché ha avuto potenti voci come quella del parigino anarchico nato nel 1905. Jean Vigo è autore di leg­ gerezza e complessità, in cui la tensione anarchica è il viatico per mostrare le profondità del desiderio, della sensibilità pellicolare, della volontà di po­ tenza, della passione, dell’estremo come modo d’essere al mondo. Autore per visionari, per incendiari e per chi sa che il «dato reale» è un’opinione parziale in quanto a determinare il mondo e le cose è unicamente il sogno (tutto il resto è routine professionale). Ma qual è il sogno che motiva Vigo? Di certo non è soltanto l’onirismo che fu caro ai Surrealisti (che pure ben conosceva e praticava), né è tantomento il sogno di matrice analitico-freudiana (il sogno come «appagamento del desiderio») e neppure il sogno co­ me «fuga» o cose del genere appartengono al regista di Zero in condotta. Il sogno per Vigo è pratica d’esistenza, è «sovrimpressione come atto d’amo­ re»4, è inquietudine che sfugge agli obblighi, è «burla e baccano», è atto «per ri/conoscersi e ri/trovare il passato sepolto all’interno di sé e non affo­ gare nelle illusioni/delusioni del divenire» come ci ricorda Bertelli. Jean Vi­ go è un facitore/disfacitore d’immagini tra i più geniali e puri. E proprio nell’orizzonte della purezza e della genialità Pino Bertelli lo inserisce lungo un rizoma cinematografico che comprende «Luis Bunuel, Robert Flaherty, Glauber Rocha, Alexander Kluge, Jean-Marie Straub, Jean-Luc Godard, Rainer W. Fassbinder, Werner Herzog, Marco Ferreri, Thodoros Anghelopulos, Emir Kusturica... un certo Roberto Rossellini, il primo Vittorio De5 5 L’intera produzione saggistica di Pino Bertelli voracemente vive «d’incantesimi» ed as­ salti frontali. Per cogliere la tensione analitica di Pino’Bertelli, rimando almeno ai suoi scritti cinematografici: Cinema dell’eresia. Gli incendiari dell’immaginario, NdA Press, Rimini 2005; id., Dolci sorelle di rabbia. Cento anni di cinemadonna, Belfronte cultura, Livorno 2005; id., Il cinema sovversivo di Guy Debord. La società dello spettacolo, Beiforte Cultura, Livorno 2004; id. Cinegay. Omessessualità nella lanterna magica, Edizioni Libreria Croce, Roma 2002; id. Glauber Rocha. Cinema in utopia. Dall’estetica della fame all’estetica della libertà, La Fiaccola, Ragusa 2002; id., Luis Bunuel. Il fascino discreto dell’anarchia, BFS Edizioni, Pisa 1996; id., con Gianna Ciao Pointer, Marlene Dietrich. Dal taccuino di due disertori dello schermo, Traccedizioni, Piombino 1994. Ma soprattutto mi piace ricordare il testo da cui è maturato il mio dialo­ go con Pino Bertelli: Pier Paolo Pasolini. Il cinema in corpo. A tti impuri di un eretico, con scritti di Goffredo Fofi ed Enrico Ghezzi, Edizioni Libreria Croce, Roma 2001 (un libro- «compagno di viaggio» potente come la «trasparenza di un amore», un libro che non vuol essere né una ricostruzione biografica, né un saggio di tipologia accademica, bensì il «riconoscimento di un maestro di libertà»), 4 Enrico Ghezzi, paura e desiderio. Cose (mai) viste, Bompiani, Milano 1996, p. 536.

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Sica, l’eretico Pier Paolo Pasolini (su altre dissidenze poetiche, Kenji Mizoguchi, Marcel Carnè, Andrej Tarkovskij, Robert Bresson, Friedrich W. Murnau, Sergej Eizenstejn, Cari Th. Dreyer, Orson Welles, Buster Keaton, ( Iharlie S. Chaplin, Federico Fellini (degli esordi), Francois Truffaut, Dou­ glas Sirk, Ingmar Bergman, Jean Renoir, Charles Laughton, Edgar Reitz, I ritz Lang, John Ford, Jacques Tati, Akira Kurosawa, Aleksandr Dovzenko, Dziga Vertov, Derek Jarman, Guy Debord...), fino al cinema d’avan­ guardia, sperimentale, dadaista, surrealista, lettrista, underground, situazionista...» ovvero tutti quei filmaker armati di volontà titanica e totalmente dentro la dimensione del filmico come atto d’amore estremo, totale, inarre­ stabile5. Cinema simbolo di tutti gli amori (impossibili, necessari) con tanto di funamboliche ricerche di soldi per produrre i propri film e con tanto di «sublime» ed «eroico» (epiloghi tragici compresi). Tra lucidità ed anomalie, tra meraviglioso onirico e slancio allucinatorio, tra convulsione e ritmo di chi sa che la vita ha bisogno di tanto, tanto cinema. Insomma, il taglio netto verso cui ci spinge Cinema della rivolta e dell’amour fou consente alla critica cinematografica di respirare aria nuova (l’aria dell’energia e della morale anarchica), l’aria del di fuori, l’aria dei margini ed è un qualcosa che sicura­ mente darà fastidio agli abitudinari della lettura pacificata deU’immaginario cinematografico. Vigo resta il grande anticipatore della complessa visiona­ rietà emotiva e di un sempre puntuale azzardo di concretezza centrando, sviluppando e anticipando suggerimenti ed implicazioni tecnico-formali di cui soltanto ora ne possiamo comprendere intensità e bellezza. Prediligen­ do, sempre, da un lato una scelta di vera sensibilità avanguardista dove so­ gno e trauma sono vere centralità56, e dall’altro mai dimenticando una matericità e un senso del ritmo naturale delle cose, rendendo anche lui un gran­ de attuatore di quel foto realismo/illusionistico di cui Bazin parlerà per l’opera di Orson Welles7. Jean Vigo attraversa con uguale slancio il reali5 Pur condividendo in pieno l’elenco di Bertelli, devo dire che forse qualche nome mi la­ scia perplesso (Fellini) e forse qualche nome lo avrei aggiunto (Truffaut, Sirk) ma è soltanto la parzialità (inevitabile e giusta) degli elenchi d ’affezione. [Questa annotazione di Alfonso Amendola - con la quale concordo pienamente -, mi permette di dire che per quanto riguarda Federico Fellini intendevo ricordarlo soltanto per i film dell’esordio (I vitelloni, La strada, Il bi­ done, Le notti di Cabiria) e la mancanza nell’elencario dei miei cineamori di Francois Truffaut e Douglas Sirk è stata una deplorevole svista che ho provveduto a correggere. 1 quattrocento colpi è uno dei migliori film della nostra vita... anche dal punto di vista autobiografico... un’opera che mi ha fulminato sulla via del cinema in forma di poesia. Magnifica ossessione, co­ me tutta la filmografia di Sirk, mi ha buttato negli occhi la magia e i colori del cinema melò, affabulati in lingua rovescia. Pino Bertelli]. 6 «In fondo già i dadaisti e i surrealisti avevano concepito un’arte fondata sul frammento, lo choc, la sorpresa: il cinema porta a compimento le loro intuizioni. Se le inquadrature colpi­ scono lo spettatore con la stessa rapidità di uno choc, ciò ha conseguenze rilevanti sulla sua struttura psichica», Gianni Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna 1996, p. 14. 7 Cfr. André Bazin, Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, GS Editrice, Santhià 2000.

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smo, il surrealismo, l’utopia. E ciò avviene non soltanto nell’espressione, ma anche nella vita reale, che per lui è l’altro risvolto di una stessa moneta. Per questo conveniamo con Maurizio Grande quando scrive che «in questo sen­ so, si può dire che Vigo è il primo cineasta che riesca a padroneggiare l’esperienza delle avanguardie artistiche e cinematografiche, e che riesca a dare piena espansione al loro accumulo lessicale, stilistico ed espressivo, mettendolo al servizio di un nuovo modo di fare cinema»8. Vigo è anticipa­ tore di un cinema moderno, necessario, lucente anche nell’opacità, rivelato­ re e sempre consapevole, in netta leggibilità con una serie di ripensamenti tecno-culturali che troveremo nel cinema come «superamento»9. Fra sog­ gettivismo e utopia rivoluzionaria, il cineasta non vuole scegliere ed è forse questo uno degli ingredienti più originali della sua poetica. I suoi azzardi fil­ mici gli servono per entrare nel vivo della realtà e colpire le coscienze nel loro punto debole: il conformismo. Il cinema per Vigo è traccia poetica di una voce come auspicio di una società nuova, di un mondo collettivo che dopo la morte della vecchia società dovrebbe risorgere del tutto mutato. Insomma, l’opera cinematografica di Jean Vigo resta una lacerante indagatrice per tutti noi. Un’opera tanto essenziale quanto potente che ci prospetta le nostre più profonde pulsioni (anche di natura politica), facendo cortocircui­ tare emozione e totalità, donandoci un forte desiderio di seduzione ed ar­ monia (senza dimenticare il vibrare di tutte le nostre possibili e recondite perversioni). La preponderanza del tema dell’inconciliabilità del desiderio con le opprimenti architetture della vita sociale, la tempesta dei sentimenti amorosi e le patetiche illusioni del «vivere quotidiano» sono la vera sfida contro cui poderosamente si lancia il cinema di Vigo. Il malcostume bor­ ghese e la scostumatezza dei cinici, sono le coordinate da abbattere. Una demolizione che Vigo realizza attraverso l’uso di montaggi ellittici, dissol­ venze e primi piani (su tutti la scena della visione nell’acqua de L ’Atalante vera immagine-sintesi di tutto il suo grande cinema). La macchina da presa per Vigo è esplorazione e determinazione di mondo ed anima. Attraverso ogni singola inquadratura il regista francese riesce a produrre dimensioni «spettacolari» e singolari di rara intensità, riuscendo a realizzare quella scansione creativa in altri casi definita come «forbice poetica»10 ovvero l’universo di una specifica inquadratura come elemento che consente al ci-

8 Maurizio Grande, Vigo, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 35. 9 «Il cinema si fa dunque viva esperienza della tecnica in quanto riconoscimento della ne­ cessità allo stato puro, non del dover essere ma dell’esserci in quanto tale, dunque della condi­ zione stessa del desiderio. Qui il cinema appare - heideggerianamente - come luce nella radura, come luogo dell’apparire, di ciò che finalmente si lascia vedere: pensiero negativo mes­ so all’opera, energia dissipatrice applicata», Alberto Abruzzese, L ’occhio dijoker. Cinema e modernità, Carocci, Roma 2006, pp. 86-87. 10 Cfr. Bela Balàsz, Estetica del film, Editori Riuniti, Roma 1975.

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nenia di dar forma perfetta alle cose, per arrivare a scoprire come essa si basi su meccanismi che alimentano il precipuo desiderio spettatoriale: l’identi­ ficazione (ma non per bassa manovalanza psicologica... unicamente per ne­ cessità, per volontà, per bellezza, per sogno d’estremo riconoscersi). Vigo ci blocca nella bellezza dell’amour fou (o nell’irruenza dei suoi studenti ribelli) e il nostro sguardo entra in romantica empatia con l’immagine in movimento. Osserviamo ogni cosa con la prospettiva che Vigo ci propone, come se si realizzasse un dolcissimo azzeramento delle nostre volontà (o forse «sempli­ cemente» aderiamo al racconto di un padre-amico-maestro). Viviamo con ed attraverso i suoi personaggi. Lo sguardo di Taris è il nostro; il «baccano» ili Bruel, Caussant, Tabard e di tutti i «congiurati» è il nostro; la danza di seduzione di Pére Jules è la nostra. Noi siamo lo sguardo amplificato delle riprese di Vigo. Siamo dentro la definizione di montaggio della deleuziana «determinazione del Tutto» attraverso raccordi, interruzioni, fratture, senza mai dimenticare la vera valenza cinematografica ovvero «il tutto del film, l’Idea»11. Preziosa, anarchica, pura, affettiva è questa l’Idea dell’universo ci­ nematografico di Vigo. Il montaggio finale, quindi, come operazione per farla maturare quest’idea. Ogni inquadratura come produzione di «verità», come «immagine del tempo» e della storia a venire. Un’aura passionale reg­ ge la trama del cinema di Vigo e totalmente lo attraversa. Siamo dentro una concezione cinematografica che ridetermina l’uso del melodramma miscela­ to con il cinema sociale, quello politico, il docu-drama e la grande avan­ guardia, spingendo la struttura dei generi verso una serie di possibili, ulte­ riori ripensamenti12. Proponendoci Jean Vigo nel quadro di quelle grandi «anomalie» autoriali che hanno guardato con lungimiranza al concetto di frammentazione e contaminazione di stili e forme differenti13.1 quattro film di Vigo (ma a questi aggiungiamo anche i «progetti di film non realizzati», i «soggetti originali» e altre «idee e progetti»14) sono tutti sontuosamente ca­ ratterizzati dalla consapevolezza che la praticabilità, l’attuazione di un pen­ siero estremo è necessariamente dura, fatta di amarezza e sofferenza. Par­ tendo da una visione della vita come «abuso» Jean Vigo sembra affidare alle possibilità della riproduzione cinematografica la restituzione all’uomo della bellezza (ovvero della libertà). Ma questo atto di «restituzione» (molto simi­ le ad una volontà artaudiana o bataillana) decisamente non può essere paci­ 11 Gilles Deleuze, L ’immagine movimento , Ubulibri, Milano 1984, p. 44. 12 Per cogliere una prima sistematicità nell’universo dei generi cinematografici cfr. Gino Frezza (a cura di), Vino all’ultimo film. L ’evoluzione dei generi nel cinema , Editori Riuniti, Ro­ ma 2001. 13 Sui concetti di «anomalia», «frammentazione» e contaminazione rimando ad Alfonso Amendola, Vrammenti d ’immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazio­ ne, Liguori, Napoli 2006. ,4 Per una lettura di tutto questo cfr. la filmografia finale in Maurizio Grande, Vigo, cit., pp. 118-119.

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fico, poiché non è semplice «riconciliazione» ma atto militante, guerrigliero. In Jean Vigo è evidente l’insofferenza verso le costruzioni borghesi fatte di «verismo» e «psicologismo», anche per questo il suo cinema procede per accumulo di materiali linguistici differenti, per furia anarchica, per grida e celestiali approdi come in un addensarsi di acque che turbinano e poi si pla­ cano. L’inquadratura in Vigo è il frutto di una perfetta riflessione sul nitore e sulla complessità dello sguardo audiovisivo del cinema; essa è liberazione compatta e rispetto da perfezionista. Per Vigo l’immagine filmica è conqui­ sta sul campo, ritorno all’origine della vita, alla durezza, alla spietatezza, al rigore, linea attraverso la quale osare fino all’origine stessa della vita che si manifesta soltanto nella fluidità della naturalezza, luogo germinale dal quale partono tutte le cose (leggi storia, natura, amore, follia, esistenza tutta, sguardo in rivolta). Per questo nel suo cinema tutto è sempre elaborato nel­ lo slancio di un vitalismo potente e sognante. Infatti, un’estrema vitalità abi­ ta le immagini del grande cineasta francese, ma da dove nasce questa poten­ za mista a delicatezza. Una risposta a questa perfetta amalgama (di corpo e visione) sembra darcela un suo «lettore» raffinato «Qual era il segreto di Jean Vigo? E probabile che vivesse più intensamente della media della gen­ te. Il lavoro del cinema è ingrato per il suo frazionamento. Si riprendono da cinque a quindici secondi poi si sta fermi per un’ora. [...]. Sembra che Vigo lavorasse continuamente in uno stato di trance e senza mai perdere nulla della sua lucidità. Si sa che era già malato mentre girava i suoi due film e an­ che che ha girato certe sequenze di Zèro de coduite steso su un letto da cam­ po. È naturale quindi che prevalga quest’idea dello stato febbrile in cui si trovava girando. È assolutamente possibile e plausibile [...]. A un suo ami­ co che lo consigliava di non stancarsi, di risparmiarsi, Vigo rispose che sen­ tiva che il tempo non gli sarebbe bastato e che doveva dare tutto e subito. Per questo sembra plausibile che Vigo, sapendosi condannato, sia stato sti­ molato da questa scadenza, da questo tempo contato»15. Forse può sembra­ re un po’ riduttiva l’idea di un Vigo «condannato» e per questo estremo nel suo dono artistico, ma del discorso di Truffaut mi piace prendere la radice di estremo, di ultimo, di urlo violento che cerca realizzazione nell’immagine filmica... e che gioca sul rifiuto della fine e vuole dare il massimo di sé (e della propria ansia narrativa). Al di là dei grandi temi, è opportuno conside­ rare la forza delle immagini, della visionarietà, delle iperboli che Vigo utiliz­ za per il proprio canto d’energia, tramutando il proprio cinema ora infuoca­ to, incandescente, ricco di veemenza; ora tenero, emotivo, esclamativo. Su tutto, il paesaggio francese, il suo colore, le sue silenti o caotiche metropoli, il senso della solitudine o del rumore scomposto, la voce dispiegata nelle piazze o dei mari, i tetti, i caffè, le locande. Una voce, quella di Vigo, instan-

15 Francois Truffaut, Ifilm della mia vita, Marsilio, Venezia 1978, pp. 43-44.

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ziga Vertov, le ricerche formali di Làszlò Moholy-Nagy, la surrealtà anari liica di Luis Bunuel a confluire nel suo cinema e a farlo divenire un punto ili riferimento costante per tutti i dissennati sognatori della libertà senza frontiere. Vigo resta fulminato dalla radicalità visuale di Un chien andalou (1929), ili Luis Bunuel, e scriverà che questo film insegna a «saper guardare con ali occhi che non quelli abituali», poiché gli «occhi abituali» sono anche quelli posti al servizio della cecità morale, della indifferenza, della messa a morte del senso da parte di quella ideologia dominante che si maschera dieiro le pretese del «senso comune» e dietro una morale da schiavi16. La noruiiilità genera l’indifferenza e in fondo alla s/ragione dominante c’è la morte del pensiero. Occorre avere dentro di sé la forza dell’Utopia per sradicare l'acquattarsi di un’epoca delle illusioni nel vaniloquio della politica o della Irde. «L’involgarimento della vita ci fa orrore... Da ogni spettacolo cinemalografico, m’accorgo di ritornare, nonostante ogni vigilanza, più stupido e pili cattivo... Chi si conforma alla debolezza degli oppressi, ribadisce, in questa debolezza, la premessa del dominio, e contribuisce a sviluppare il grado di grossolanità, ottusità e violenza necessario per l’esercizio del domi­ nio»17. Non c’è regime che non possa reggersi senza le promesse di felicità e Ir baionette. Le rivolte sociali non hanno mirato ad infrangere l’unità dello Slato o le sante crociate delle religioni monoteiste, ma ad ottenere una di'.I diluzione più equa del potere e della ricchezza18. Non a caso la rivolta e l'alto tradimento, ovvero i delitti capitali contro l’ordine dello Stato, sono puniti con pene più severe dei reati di ordine pubblico (pedofilia, assassi­ nio, stragi...). Nella tolleranza del borghese albeggiano tutte le gogne della civiltà dello spettacolo, la sfigurazione dell’uomo passa nei parlamenti e l’insieme della società diviene anonima. La regressione della coscienza fa sopportare ogni condizionamento e il nuovo vassallaggio non ha bisogno di bravacci per te­ nere pulite le strade dalle canaglie impenitenti che voglio vivere e morire sui Involi delle osterie, nelle rovine delle chiese o sulle barricate della libertà... nel disincanto dell’eversione, ciò che scintilla è la trasparenza dell’amore e In trasfigurazione del mito. «Non c’è amore che non sia eco» (Theodor Adorno) e non c’è libertà che non sia insurrezione dell’intelligenza. Così Pier Paolo Pasolini disperdeva ne Le ceneri di Gramsci, tutti i crolli dei comuniSmi a venire: «Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci: è qui, che brucia / in ogni nostro atto quotidiano, / angoscia anche nella fiducia / che ci dà la viII

16 Vedi, Maurizio Grande, Jean Vigo, cit., p. 33. 17 Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1479, pp. 17-18.

Is Wolfang Sofsky, Rischio e sicurezza, Einaudi, Torino 2005.

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ta, nell’impeto gobettiano / verso questi operai, che muti innalzano, / nel rione dell’altro fronte umano, / il loro rosso straccio di speranza»19. Gli spi­ riti liberi sono ulcerati dalla dualità struccata del gioco e dalla solitudine dell’ascesi ereticale... i bagliori del loro pensiero libertario non seducono, rompono... ci accompagnano su una strada che non c’è... ogni eccesso di luce nasce dal blu che toglie al nero il mistero. Non dobbiamo interrogare per crescere ma interrogare per volare via da tutte le albe del sapere catte­ dratico. Capire è percepire l’ordito istituzionale intorno a noi. Ogni legge è una mortificazione della libertà. Libertà significa né dominare né essere do­ minati. La libertà è soddisfacimento dei desideri... dissoluzione di confi­ ni... distinzione tra sogni e pensieri... sostituzione di ogni “buon governo” con la condivisione delle cose... libertà non è cambiare la situazione “ogget­ tiva” ma preparare il rovesciamento delle classi, delle burocrazie, delle ge­ rarchie. .. in favore di un’umanità di liberi e di eguali. La libertà nasce dalla soppressione, ignoranza e incoscienza dell’amore. Si sviluppa o muore secondo l’accidentalità di un incontro o la distruzione della memoria (individuale e storica). La libertà che si guarda senza vedere si chiama paura. La libertà che si ascolta senza udire si chiama soggezione. La libertà che si tocca senza afferrarla si chiama ebbrezza del vuoto. Non si possono riconoscere la libertà e l’amore se non decidiamo di decidere della nostra esistenza in rapporto con il resto del mondo... Il sorgere di una so­ cietà dell’arcobaleno, multirazziale, profondamente libertaria, risplende sul tramonto dell’Occidente... Andare incontro a questa umanità senza frontie­ re, significa dare forma all’informe, immagine aU’immateriale... ri/trovare le sorgenti della fraternità, della solidarietà, dell’amicizia... ri/conoscere le origini dell’esordio comunitario... svolgere il filo incontenibile delle Vie dei Canti e delle Virtù eversive dei sogni. L’Anarchia cerca i suoi riferimenti nella «giovinezza dell’umanità; spesso dunque colpiscono i tratti infantili dei suoi grandi rappresentanti. L’anarchico sa perfettamente che cosa non vuole, come dice il nome stesso»20. L’anarchico è il custode originario, l’an­ gelo ribelle o l’apostolo radicale che morde alle fondamenta i falsi valori della società. Al posto degli dèi, l’anarchico ha posto l’uomo/la donna e al canto delle macchine preferisce le turbolenze del cuore. La libertà, come l’amore, appare in una carezza, un sorriso, una voce... è qualcosa che si sente, si percepisce, che ti ascolta... si commuove con te, per te e piange insieme ai tuoi respiri d’amore... è un sentimento profondo che fiorisce nell’oggi che è già domani... pensare la libertà è pensare l’amo­ re... colui che “tocca” l’amore porta in sé anche la libertà... la malinconia 19 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, tomo I, a cura di Walter Siti, Mondadori, Milano 2003. 20 Ernst Jiinger, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, Guanda, Milano 1998,

IL CINEMA BRUCIA! VIVA IL CINEMA!

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linsognante delle donne viene dalla disillusione di desideri di scambio... dall'incapacità dell’uomo/amante di staccarsi dal seno della madre... le donne privilegiano i rapporti conviviali con l’essere, l’uomo privilegia i rapporti superficiali col corpo. Le passioni sono state stregate sulla lama dei se­ coli e sotto la frusta schioccante dei padroni dell’immaginario, hanno finito per trasformarsi in mitologie dello spettacolo. «Tale è l’ironia del mondo al­ la rovescia che i migliori cani da guardia della teoria rivoluzionaria diventa­ no, senza cessare di abbaiare sullo steso tono, i migliori cani da guardia del potere»21. Nel sacerdozio della sinistra non c’è altra creatività che quella di leccare le proprie catene e il culo dei distruttori di ogni arte. August Strind­ berg, nel Piccolo catechismo a uso della classe inferiore, aveva compreso che occorreva demolire il Palazzo per far aria e luce dove c’era sempre stato sozzume e oscurità. «Detesto le mezze misure. Abbasso l’ordine costituito. ( io ch’io voglio è l’anarchia». Il suo libello è una provocazione e nel conIcmpo un breviario per risvegliare l’odio della classe inferiore contro la clas­ se superiore. «Tutti i legislatori hanno inventato gli dèi e i dialoghi con gli dei per tenere avvinto il popolo. Credetemi, quando abbiamo paura, allora inventiamo diavoli e inferni. Il timore ha creato gli dèi. La forza ha creato i re»22. L’utopia gli Anarca, insofferenti ad ogni forma di dominio dell’uomo da parte dell’uomo. Il ricco ruba, depreda, uccide per la sete di potere... lo Ini sempre fatto e lo farà sempre. Il povero ruba per necessità e in quesl azione ritrova il più elementare diritto di sopravvivenza. Tutto quanto si oppone e contrasta la classe dominante anticipa future cadute. La sola giusli/.ia alla quale si richiamano gli oppressi è quella che abolisce l’ereditarietà del potere, con ogni mezzo. I sovrani, i despoti, i militari... possono essere destituiti in molti modi. Ma è di una rivoluzione dell’amore della quale più hanno paura. L’assalto al cielo della classe al potere non è ancora avvenuto o è stato solo rimandato e Nietzsche23 è ancora lì a tracciare il sentiero ai viandanti delle stelle. Non sappiamo ancora amarci nel rispetto delle differenze... a volte l'amore richiede il silenzio e toccarci diviene il soffio della vita che canta le proprie insolenze oltre il quotidiano e lo spirituale. Allora la Tua gioia sarà la Mia gioia, perché come dice «Il piccolo principe» di Saint-Exupéry, «non basta guardare insieme nella stessa direzione»... occorre ritrovare il rispetto di sé, la propria identità, il proprio valore... e donarlo all’Altro/Altra... ri­ conoscere il Tuo amore implica condividere anche ciò che non capisci ma vive in Noi... Essere Noi significa aprirsi a nuovi orizzonti e andare nella di­ rezione delle stelle... la libertà (come l’amore) è prendere coscienza della 21 Raoul Vaneigem, Il libro dei piaceri, cit., p. 26. 22 August Strindberg, Piccolo catechismo a uso delle classi inferiori, Guanda, Milano 1998, p IO. 25 Vedi Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit.

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propria unicità ritrovata e del desiderio di andare a cavallo della luna... l’amore (come la libertà) vola con l’uomo sull’altalena oscillante del diveni­ re. E l’amore quando è amore, è un vizio insolente per la libertà che dà scandalo.

Capitolo quarto

L’IMMACOLATA CONCEZIONE DEL CINEMA

«Se seguissi la mia inclinazione naturale, farei saltare in aria tutto quanto». E.M. Cioran

«Se Dio ha creato “l’ineguaglianza” tra gli uomini, la Colt ha ristabilito una certa uguaglianza...». Calamity Jane, detto dei banditi senza causa del West

«Solo i maestri, i folli e i bambini osano premere i bottoni vietati». Jean Rouch

Jean Vigo e Boris Kaufman sul set di A p r o p o s ito d i N izza , 1930.

I A propos de Nice

Il primo film di Jean Vigo è un documentario, A proposito di Nizza (A propos de Nice, Point de vue documenté, 1930, 42 minuti). Lo gira insieme a ini grande operatore, Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov, maestro eversivo del cinema sovietico, ridotto al silenzio da Stalin. E un film fatto pei' “legittima difesa”, contro i valori correnti di una società in decomposimne. Da subito, Vigo riesce a mostrare che il cinema può essere poesia o una vigliaccata da milioni di dollari. «Qualsiasi film è meno fantastico della giornata di una persona qualsiasi; ma qualsiasi persona invece trova che il lilm che ha visto, e per il quale sono anche riusciti a fargli scucire due dollait, è molto più formidabile della sua vita»1. La classe dominante fa la storia non solo con i cannoni ma, più semplicemente, curando i propri affari. Le illusioni della cultura puzzano di merce. Molti la chiamano arte, altri spaz-.Hura. Non tutti stanno al giogo. Tra gli incendiari deH’immaginario, Luis lìunuel si dichiara per la rivoluzione sociale di Spagna e brucia alla base lindustria del divertimento2. L’incendio di Parigi o la rivolta dei sampietri­ ni del ’68 è la degna conclusione dell’opera devastatrice di Jean Vigo. 11 debutto cinematografico di Vigo si deve all’aiuto economico di sua moglie Lydou (Elisabeth Lozinska), figlia di un industriale di Lódz. Si erano conosciuti nel 1926, nel sanatorio di Font-Romeu. Vigo guadagnava qualcomi lavorando per il giornale «Humanité» e come correttore di bozze nella piccola casa editrice dell’amico Claude Eveline. Nel 1928 Vigo e Lydou miggiornano qualche mese a Parigi e poi vanno sulla Costa Azzurra. A Pari­ gi, Vigo era riuscito ad introdursi nella casa di produzione Franco-Film. ( Jaude Autant-Lara, Germaine Dulac e l’amico Pierre de Saint-Prix, in qualche modo, lo avvicinarono - come aiuto operatore - là dove si faceva il cinema e nasceva la favola. La salute di Vigo e Lydou peggiorava e così nel dicembre 1928 si trasfei iscono a Nizza, dalla signora Janine Champol, amica di Almereyda, era sta­ la la balia del piccolo Jean (che chiamava Nono). L’esperienza di aiuto opei .More finisce presto e Vigo si trova ancora ai margini della macchina/cine­ ma. Il 24 gennaio 1929, Jean e Lydou si sposano. Più tardi, il suocero regala alla coppia centomila franchi e Vigo compra una Debrie di seconda mano. 1 Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 49. Saint-pol-Roux scrive così della macchina/cinema: «il cinema sarà la resurrezione di una necropoli o l’invasione di una giungla. Potrebbe diventare la più formidabile delle invenzioni, mentre oggi non è che un’insegna di barbiere». Cinema vivente, Il Cavaliere azzurro, Ferrara 1984, p. 103.

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CAP. IV - L’IMMACOLATA CONCEZIONE DEL CINEMA

Durante un soggiorno per cure a Parigi, Vigo conosce Boris Kaufman, fra­ tello di Dziga Vertov (David Kaufman). L’altro fratello era Mikhail Kauf­ man3. Ricordiamolo. La scrittura fotografica di Boris Kaufman ha lasciato un segno importante non solo nella fabbricazione del cinema di Vigo, anche dopo la sua morte ha fatto vedere di che pasta sono fatti i poeti maledetti... sotto tutte le stagioni della santa puttana della macchina/cinema. Boris Kaufman è stato il direttore della fotografia di film di grande bel­ lezza autoriale come Fronte del porto (1954), di Elia Kazan; Baby Doli-La bambola viva (1956) di Elia Kazan; La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet; Splendore nell’erba (1961) di Elia Kazan; L ’uomo del banco dei pegni (1964) di Sidney Lumet; Film (1965) di Alan Schneider... Film è un piccolo capolavoro del cinema come metafora dell’esistenza. Dura soltanto 22 minu­ ti. Le luci di Kaufman illuminano l’arte monumentale e inimitabile di Buster Keaton. Il soggetto e la sceneggiatura sono di Samuel Beckett, il montaggio è addossato alla sapienza di Sidney Meyers. Alan Schneider cura la regia e porta il teatro nel cinema, ma li contamina entrambi. Film, malgrado il suo insuccesso di pubblico (la critica ne scoprirà il valore una decina d’anni do­ po. ..), è uno dei migliori esempi di cinema d’avanguardia degli anni ’60. È stata la sola volta che Beckett si è incontrato col cinematografo. Film si compone di tre sequenze prive di dialoghi e si racconta intorno al concet­ to filosofico di George Berkeley: «Essere è essere percepiti». Si tratta infatti di un personaggio che cerca di fuggire da qualcuno che lo sta osservando. Si apre con il “percepito” che cerca di sottrarsi allo sguardo del suo “osserva­ tore”. L’uomo che non vede (quasi) mai in faccia, corre velocemente lungo un strada dritta, senza traverse, come un lungo corridoio illuminato dalla luce d’estate. La seconda sequenza accade in un pianerottolo dove abita l’“osservatore”. La chiusa e la più lunga delle altre, succede nella camera dell’“osservatore”. L’uomo tenta di rimuovere dalla stanza ogni oggetto e qualunque forma di vita. Il cane e il gatto che riuscirà a buttare fuori con non poca fatica, sono una vera e propria gag in stile Keaton. Alla fine si sco­ prirà che “osservatore” ed “osservato” sono la stessa persona. Film comin­ cia con un occhio che invade lo schermo e termina con una palpebra che lentamente cala su se stesso e sul pubblico. Il primo piano di Buster Keaton sul quale si chiude il film, è indimenticabile. La surrealtà fotografata da Boris Kaufman in A proposito di Nizza, si le­ ga, e molto, alle discrepanze sintattico/visuali funzionali della rivoluzione * Boris Kaufman è stato sovente confuso con Michail Kaufman, l’altro fratello di Dziga Vertov. Uno dei maggiori studiosi di Vigo, P.E. Salès Gomès, scrive che non abbiamo certezza che Boris sia il fratello di Dziga Vertov e «può darsi che Vigo e Kaufman abbiano creato una leggenda per il gusto della mistificazione». Tuttavia, nelle nostre ricerche sui fratelli Kaufman, abbiamo trovato che gli storici del cinema parlano della famiglia di cineasti Kaufman, ed è composta da David (Dziga), Boris e Mikhail.

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uni realista dentro e fuori dell’arte, auspicate nei fogli di sceneggiatura da JeVigo. André Breton non si è fatto sfuggire l’occasione di esprimere nel ilore d’uso delle parole o delle immagini, la rifrazione dell’accidente come mciafora o accezione che nascono dal caso. «I propositi espressi non hanno Iii i line lo sviluppo di una tesi, pur trascurabile; al contrario sono defunzioiiali/.zati fin dove è possibile. Quanto alla risposta che attirano, essa è di recola completamente indifferente all’amor proprio di chi ha parlato. Le pa­ iole, le immagini si offrono solo come trampolini allo spirito di chi ascolta»4. Nel film di Vigo la contiguità tra surrealismo e cinema sociale è lol le. Vigo usa la scrittura “automatica” delle immagini contro l’ipocrisia, la decadenza, la volgarità dell’umanità che filma e disvela i significati servili dell’inconscio popolare, quanto la falsità bigotta della classe borghese. Vigo non lega però la “rivoluzione surrealista” al comuniSmo e non è so­ lo, Antonin Artaud lancia i suoi strali contro i surrealisti e li definisce un bluff. Per lui ciò che conta è capire «le metamorfosi e le condizioni interiori dell’anima». I surrealisti non lo comprendono: «Come se alla parola anima i lessi il significato infetto che loro stessi danno e come se dal punto di vista dell’assoluto potesse essere di scarsissimo interesse vedere cambiare l’arman sociale del mondo oppure vedere passare il potere dalle mani della borghesia a quelle del proletariato»5. Le violenze del potere non possono volere che dei violenti al potere. Ciò che non sparisce mai è la rivolta. I emancipazione dell’uomo è un atto di disobbedienza o non è niente. Le iilbe di fuoco c’importano meno dell’eresie che le hanno accese. Artaud, già nel 1923, in risposta a un’inchiesta lanciata da René Clair sul numero 15 di «Théatre et Comcedia illustre», diceva: «tutti i generi di film i levono ancora essere creati. 10 credo che il cinema non possa ammettere che un solo genere di film: ijiiello in cui tutti i mezzi d’azione sensuale del cinema saranno utilizzati. 11 cinema implica un rovesciamento completo dei valori, uno sconvolgi­ mento dell’ottica, della prospettiva, della logica... Il cinema ha la virtù di un i rleno inoffensivo e diretto, un’iniezione sottocutanea di morfina. Ecco peri Ite l’oggetto del film non può essere inferiore al potere d’azione del film - e deve contenere del meraviglioso»6. Sul crinale estetico del “meraviglioso” si inno succeduti autori come Dreyer, Ejzenstejn, Bunuel, Bresson, Kurosawa, browning, Welles, Bergman, Whale, Godard, Kubrick, Tarkovskij, Munk, Wujda, Rocha, Pasolini, i fratelli Marx, Jacques Tati, Buster Keaton, Chiar­ ini, forse Totò, certamente Cipri e Maresco... e i loro furori libertari sono lì, ,111

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1 Henry Behar, Il teatro Dada e Surrealista, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1976, p. 112, ' Antonin Artaud, in Maurice Nadeau (a cura di), Storia e antologia del surrealismo, Mon■lui lori, Milano 1972. Id., Del meraviglioso, Minimum fax, Roma 2001, pp. 11-12.

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CAP. IV - L’IMMACOLATA CONCEZIONE DEL CINEMA

nella storia ereticale del cinema, a futura memoria di chi non ha temuto di esprimere l’osceno del potere: «Lo spirito poetico tende sempre a una spe­ cie di tumultuosa anarchia, a una totale disintegrazione del reale attraverso la poesia» (Goffredo Fofi). Il grido all’anarchia auspicato da Artaud è ripre­ so da Jean Vigo, il solo forse (con Luis Bunuel) che ha fatto un cinema di poesia e “cantato” inni di rivolta e di libertà che hanno del meraviglioso. A proposito di Nizza è un documento sulla realtà, l’impressione di un momento diverso della realtà. E qualcosa che ha a che fare con lo sguardo e con l’insorgenza della disobbedienza. E un cinema di spiazzamento, di fatti marginali, che tende ad invadere il reale per denudarlo dei suoi feticci. Vigo aveva compreso che «i valori sono degli orizzonti (atteggiamento da viaggia­ tore), non degli strumenti. Solo dell’ideologia diventano strumenti e; come essa, incollano (adesione) la massa alle sue credenze»7. Il cinema è una fine­ stra sul mondo, è «la verità ventiquattro volte al secondo» (Jean-Luc G o­ dard). Più ancora, il cinema è un sistema di immagini e di segni corrispon­ denti a immagini-movimento e immagini-tempo e, secondo gli studi di Gil­ les Deleuze, «il cinema considerato in quanto psicomeccanica, o automa spirituale, si riflette nel proprio contenuto, nei propri temi, nelle proprie si­ tuazioni, nei propri personaggi»8. Dove finisce il cinema comincia la vita. O viceversa. La crudeltà del cinema è salutare. Si tratta del cinema «che non racconta una storia, ma sviluppa una serie di stati dello spirito che si deducono gli uni dagli altri come il pensiero si deduce dal pensiero» (Antonin Artaud). Passion, Prénom Carmen, Je vous salue Marie di Jean-Luc Godard, il fare-ci­ nema di Straub, Syberberg, Jarman, Duras o Debord... descrivono muta­ zioni, cambiamenti, bestemmie contro tutto quanto infarcisce di banalità si­ mulaceli la vita quotidiana. Immaginare non significa ricordare ma de/ritualizzare il presente del proprio dolore o fantasticare un passato dove la lu­ ce dell’amore o della fantasia ritorna a brillare negli occhi di ciascuno. L’immacolata concezione del cinema è infranta dagli insorti dell’intelli­ genza, le loro opere sono lì a mostrare che lo schermo della tolleranza è an­ che il sacrario della sottomissione. Nella surrealtà dei loro film, «i cenciaioli hanno figli che sono in realtà figli di re, figli che aprendo gli occhi confon­ dono il diadema delle madri con le foglie meravigliose delle carote. Da qualche parte nascono vipere»9, anche. Tuttavia non mettono le “manette al sorriso” e ogni storia raccontata basta alla sua struggente malinconia o desi­ derio di anarchia. Il linguaggio del cinema anarchico è apatrido, insegue la 7 Serge Daney, Il cinema, e oltre. Diari. 1988-1991, Il Castoro-La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 62. 8 Gilles Deleuze, Vimmagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 290. 9 André Breton, Paul Éluard, L'immacolata concezione, Ignazio Maria Gallino Editore, Biella 2005, p. 5.

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dolce rivoluzione” dello sguardo liberato e al fondo d’ogni “pezzo di cine­ ma” fatto (il montaggio è il cinema), i cacciatori di aquiloni non dimentica­ no mai di sottolineare che tutti gli uomini nascono liberi e uguali, pari in di­ gnità e diritti. Gli utili idioti si sono accampati a Hollywood e insieme ai lom epigoni hanno mercanteggiato l’immaginazione, e incatenato la bellezza nella simulazione e nella mediocrità. I partigiani irriducibili del cinema di iesistenza si chiamano fuori da ogni volgarità o piaggeria artistica, il loro la­ voro finisce con il creare l’amore per la verità e per l’utopia in rivolta che af­ fermano. A proposito di Nizza - come Cronaca di Anna Magdalena Bach, Germania in autunno o II popolo e i suoi fucili - è un film che fa di un’immagine un mondo e del sogno un’immagine. In questo senso, il cinema di Vigo si colleini all’opera di Ejzenstejn, Bunuel, Welles, Rocha, Pasolini o Herzog, che nell’etica cristallina delle loro utopie, riflettono le cadute del presente e i di•orientamenti del divenire. «Una società non è altro che il suo cammino ver­ so la rappresentazione. Se la macchina sociale fabbrica rappresentazioni, si fabbrica anche essa stessa, a partire da rappresentazioni, attuandosi queste come mezzo, materia e condizione della socialità»10. Vigo considera il suo cinema come un enunciato del mondo reale e in ragione della sua soggetti­ vila favolesca, onirica, eidetica, trasforma la (sua) rappresentazione epifanica in una poetica della diserzione. In A proposito di Nizza Vigo denuda i “vizi e le virtù” di un quotidiano morente e come utensili comunicazionali usa il grottesco, l’ironia, i veleni ir­ recuperabili del surrealismo, spinge la macchina da presa verso un «cinema ■odale» teso, lo vogliamo ribadire, «a risvegliare echi diversi dai rutti di quei Signori e Signore che vengono al cinema per digerire» (Jean Vigo). La vita effimera delle sale da ballo, i cagnolini, i militari, le donne della passeg­ giata lungo il mare, i fiori, i camerieri... sono intrecciati a frammenti di un’altra realtà... operai, pescivendoli, spazzini, mendicanti, ladri, puttane, il carnevale... che vanno a figurare una dialettica della conflittualità e del dipetto, dove il dolore di uno passa sul dolore di tutti. Vigo è complice di quella - banda a parte - del cinema di poesia, di quegli «insorti permanenti, marginali che, volontariamente o no, evidenzia­ no le censure d’ogni genere che pesano su chi pratica un’arte»11. Coloro che, grazie allo scandalo prodotto dalle loro opere, per le quali rischiano il silenzio, l’isolamento, la repressione... rovesciano un mondo rovesciato. I.'immacolata concezione del cinema infranta da Vigo, è non solo un pro­ cesso di enunciazione ereticale esposto contro l’iconologia della macchimi/cinema, ma è soprattutto un cinema di favola dove franano tutti i falsi moralismi. L’originalità del montaggio incrociato/metonimico fa sussultare 10 Jean-Louis Comolli, Tecnica e ideologia, Pratiche Editrice, Milano 1982, p. 11. 11 Dominique Noguez, Il cinema diversamente, Cappelli, Bologna 1979, p. 186.

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non pochi critici e storici dell’ufficialità... le donne borghesi si trasformano in manichini, i loro cappellini piumati diventano struzzi, i preti si mutano in asini, le statue volano e le ciminiere delle fabbriche sparano sul carnevale e sui pagliacci della recita. Il film parla dell’impossibile corrente da eliminare e del possibile sognato come battaglia culturale... discorso trasversale sulla nevrosi collettiva e trasfigurazione dei miti (eroi, santi, poeti, operai, casa­ linghe, puttane di buona famiglia...) che raffigurano un passato imbalsama­ to e un presente morente. Dobbiamo rivedere tutto di noi, anche le lacri­ me... là dove imperversano la fede, l’ideologia, la cultura... la mediocrità si moltiplica. A proposito di Nizza si sottrae alle umoralità avanguardistiche, alle in­ venzioni stilistiche, agli accumuli lessicali di un cinema d’“autore” che, so­ vente, dalla celebrazione di se stesso passa alla celebrazione della merce... il documentario di Vigo va a comporre un “antropologia dell’ordinario” che disvela la ragione nascosta, celata in un gesto, un’immagine, un passaggio interiore... ovunque Vigo è fuorviante, provocatorio, così inadeguato che lavora “solo” sui contrari... sputa contro la morale pubblica per testimonia­ re la sua nausea contro ogni forma di conservatorismo e autoritarismo. Autobiografia, autoritratto, confessione in pubblico... tutto vero per Vi­ go... più ancora, il suo cinema è il suo anarchismo, la sua vita profonda che si schiude sul lenzuolo bianco e interroga la conoscenza, non tanto per im­ possessarsi del futuro, quanto per infrangere i limiti dello spettacolare... Vi­ go sollecita a rompere l’argine delle convenzioni e i muri dei pregiudizi den­ tro una critica dell’esistente e un’analisi della separazione. Passaggi essen­ ziali, radicali, per incamminarsi verso quell’utopia dell’amore che permette ad ogni uomo di divenire il protagonista della propria storia. «...Bisogna sa­ per perdersi, almeno un po’, se si vuole imparare qualcosa da ciò che noi stessi non siamo...» (Friedrich W. Nietzsche). Non c’è nulla che leghi l’uo­ mo al potere come la sua stupidità. La cultura dei vigliacchi non conosce avversari, solo nemici. Infelice è l’umanità che ha bisogno di martiri e di eroi per erigere il governo della cat­ tività. Nei nostri sogni emerge sempre il folle che è in noi. Coloro che non hanno immaginazione, sognano catene... la mediocrità è il rifugio degli uo­ mini ulcerati dall’ordinario. Il primo atto di liberazione nasce con il primo atto di sabotaggio della civiltà dello spettacolo. Solo gli idioti si riconoscono nell’avvenire senza odiarlo. L’adulazione è l’arma degli stolti, corrompe solo i disperati dell’amore a pezzi... le “puttanelle della domenica” o della “di­ versità prostituita” alle opportunità ingessate nella noia, passano di uomo in uomo in cerca di comprensione e d’amore senza accorgersi di non avere mai amato né di essere state amate mai. In generale, gli uomini sono i saltimbanchi dell’imbecillità, si riconosco­ no subito perché portano sulle facce gli stessi imperturbabili destini... quel­ li dell’aridità del cuore e del disordine delle idee... sono un po’ burattini

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della stanchezza di vivere e un po’ apologeti dell’insignificanza familiare... galoppano dai miracoli dell’ottusità quotidiana verso l’epoca morta dell’in­ differenza... l’amore quando esibisce il vuoto dei pensieri non è amore... «L’amore sporca quelli che unisce» (Georges Bataille). Il riso d’amore si sgrana come sillabe d’acqua... e la tenerezza torna, dolce, calda, carezzevo­ le... sui crinali dei nostri silenzi amorosi... la felicità inventa arcobaleni e linge di blu il dentro e il fuori di noi... ovunque il mondo respira con noi e la parola diviene gesto, immagine, messaggio di un istante che nasce ogni volta che il mistero della gioia fiorisce sulle ceneri della solitudine... Ritro­ vare la presenza di sé è abitare il cielo del noi... «Bisogna amare molto per essere capaci di una tale dialettica. Bisogna amare abbastanza per generare e non ferire: amare l’altro come un tutto, amare nella sua vita senza dare a lui la propria vita. Rispettarlo come una fonte scaturita dalla sua alterità»12. I,'amore basta a se stesso e fa dei valori correnti orizzonti di macerie. A proposito di Nizza è un salto nell’utopia, cioè nella critica radicale del­ l'esistente e nel contempo, la rappresentazione di un respiro sociale di ciò che la comunità potrebbe/dovrebbe essere. Vigo fa scendere la realtà dallo schermo sulla terra... ciò che aspira con il suo film, è la conoscenza separata dalle categorie, dai generi, dalle delimitazioni del pensiero ufficiale. Per Vi­ go la conoscenza è un’aspirazione che passa attraverso il desiderio indivi­ duale di libertà... la spinta esperienziale che porta il soggetto oltre la verità dominante ed entra in possesso delle contraddizioni del dubbio e del movi­ mento interiore che sta al fondo di ogni interrogazione. Siamo nati per in­ contrare l’amore, non per possederlo. A proposito di Nizza è un risoluto manifesto audiovisuale, anti/didattico che si oppone alle sciropperie del documentarismo descrittivo, naturalista. I,'atteggiamento di Vigo di fronte alle attese del reale è deformato, devianle... dirotta i “generi” sui crinali dell’avanguardia artistica e ammicca, ca­ muffa, falsa la “verità del vero” per cogliere al volo, i lampeggiamenti, le rotture, gli strappi... dell’utopia da realizzare. La scrittura filmica di Vigo è fortemente segnata dall’origine autobiografica, tuttavia non si presenta mai come banalità letteraria o memoria dell’emarginazione... il suo sguardo ci­ nematografico dissolve, decompone, decostruisce l’insieme degli stili... ro­ vescia i segnali di lettura del conforme e reinventa così un’iconologia dei sentimenti, delle passioni, delle turbolenze che attanagliano i cuori dei dan­ nati della terra. Nelle opere dei maestri del documentario sociale, Joris Ivens, Henri Storck, Jean Rouch, Chris Marker, Robert Frank... i riferimenti al cinema di Vigo sono costanti, anche se non sempre pertinenti. Del resto, anche le pellicole di Vigo sono contaminate di citazioni, omaggi, rimandi... alla le-

Luce’Irigaray, Essere due, Bollati-Boringhieri, Torino 1994, p. 21.

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zione espressionista e alla ricerca formale di Hans Richter, Germaine Dulac, René Clair, Marcel Duchamp... che rappresentano, a tutti gli effetti, la fuci­ na estetica di una trasgressione poetica/filmica che ha frantumato la lettura abituale del film e proposto modi differenti di fare e fruire l’arte visiva. Al fondo della texitura filmica di A proposito di Nizza c’è una scelta di campo che porta lo sguardo spietato di Vigo tra i più radicali dinamitardi della società spettacoralizzata (nella fede, nell’ideologia, nella cultura...). Qui la passione politica e l’elaborazione poetica rovesciano le banalità del­ l’ordinario per andare a ri/figurare altri percorsi, passaggi, immaginari... che fanno della «pornografia della castigatezza» (Jean Vigo) l’origine della repulsione di ogni cosa che fa dell’equilibrio la distruzione e l’isolamento del desiderio. C’è al fondo dell’uomo una tensione amorosa verso l’indipen­ denza, l’individualità, la libertà di essere... e nel suo film Vigo riporta cia­ scuno a rivedersi, a ripensarsi, a riconoscersi nel vuoto delle falsità della morale corrente o a - chiamarsi fuori - dagli smarrimenti e dalle enuncia­ zioni che si trasformano in dottrine apologetiche dei delinquenti comuni (i potentati) che assoggettano i popoli al loro “verbo”. A proposito di Nizza è un gioco senza pregiudizi sull’esplosione del desi­ derio, una lezione del possibile che si innalza al di sopra dell’esistenza muti­ lata, offesa. Vigo ci insegna che solo chi impara presto a lottare per la pro­ pria libertà, capisce che non è tanto importante cambiare il mondo, quanto è importante cambiare la propria vita quotidiana. La trasparenza dei folli si butta fuori dalla totalità che è disperazione mascherata... e ciascuno, per proprio conto, oppone al disordine dello spirito, il culmine e il declino del­ l’umanità intera. «L’avvento della libertà è il tempo del riso» (Nietzsche) e Vigo è riuscito a trasferire sullo schermo i momenti estremi e la sensualità dell’innocenza che si sono tradotti in contraccolpi radicali contro la teoreti­ ca del male. A proposito di Nizza è una fucina di idee, una composizione estetica eversiva dell’immagine cinematografica. Come nel “cine-occhio” di Dziga Vertov, il cinema sociale di Vigo utilizza materiali documentari e ricostru­ zioni sceniche, strumenti tecnici, espedienti formali... per andare a scippare pezzi di eternità ai flussi storici del presente. La “verità del reale” o Ximma­ ginario dal vero (espresso magistralmente nella ritrattistica fotografica di Henri Cartier-Bresson)13 che fuoriesce dallo schermo, declassifica ogni for­ ma di lettura plebea e colta... il cinema di Vigo può essere “letto” soltanto se partiamo per un viaggio fantastico insieme al film... ci accorgeremo allo­ ra che il progetto estetico/critico di Vigo è il raggiungimento non soltanto di un cinema senza bavagli mercantili, ma di una società senza catene ideo­ logiche né religiose.

13 Henri Cartier-Bresson, L ’immaginario dal vero, Abscondita, Milano 2005.

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A proposito di Nizza esprime lo sguardo liberato da ogni equivoco mer­ cantile o artistico... è un “documentario sociale” che indica ad ogni ripresa, pezzo di montaggio, elaborazione figurativa... il punto di vista dell’autore sul cinema e sul reale che ammorba l’immaginario collettivo. Vigo è un ci­ neasta che contamina le varie situazioni delle avanguardie artistiche e coa­ pula sullo schermo un idioletto cinematografico di grande presa del reale. A Proposito di Nizza è un «film chiave, pietra miliare nell’evoluzione del cine­ ma documentario» (Henri Langlois). Il film dice che la storia degli uomini civilizzati non è che la storia delle merci e delle politiche che essi stessi pro­ ducono e nelle quali distruggono ogni forma di bellezza. Corrado Terzi è tra i primi a leggere con attenzione il cinema di Vigo, occorre dire anche, che la sua interpretazione di A Proposito di Nizza, pro­ prio non collima con quella di Vigo, quando scrive: «A Proposito di Nizza conclude l’Avanguardia, le cui ricerche, d’ora in avanti, non saranno più so­ lo formali e tecniche... Con queste ultime, in sei o sette anni, l’Avanguardia aveva dotato il cinema di un prezioso repertorio lessicale, facendolo agile e penetrante come un tempo nessuno avrebbe potuto sospettare: con questo repertorio, con questo linguaggio evoluto, Vigo fa il primo discorso adulto della Avanguardia, di essa rivelando la maturità così come la necessità di ve­ derla assorbita da una normale produzione»14. Vero Niente. Vigo, sulla scia nutoriale di Buster Keaton, Robert J. Flaherty, Cari Th. Dreyer, Sergej Ejzenstejn, Dziga Vertov, Charlie Chaplin, Vsevolod J. Pudovkin, Aleksandr I’. Dovzenko, Georg W. Pabst, Friedrich W. Murnau, Eric von Strohem, |can Renoir, Luis Bunuel... è riuscito ad affabulare un cinema che ha come finalità quella di abolire tutto quanto impedisce, ostacola, reprime l’amore dell’uomo per l’uomo. A leggere in profondità e in ordine sparso - Come vinsi la guerra (1926) ili Keaton, Nanuk l’eschimese (1923-26) di Flaherty, La passione di Giovanna il'Arco (1928) di Dreyer, Sciopero (1925) di Ejzenstejn, L ’uomo con la mac­ china da presa (1929) di Vertov, Il monello (1921) di Chaplin, La madre ( 1926) di Pudovkin, Arsenal (1929) di Dovzenko, Lulu (1928) di Pabst, No­ verata il vampiro (1922) di Murnau, Femmine folli (1921) di Stroheim, Nanà ( 1926) di Renoir, 17n cane andaluso (1929) di Bunuel... si avverte che tutte le avanguardie sono morte, perché qui c’è già il grumo belligerante della creanvità che si è fusa con la coscienza sociale, ha rovesciato o contaminato le 'normali produzioni” cinematografiche e fatto dell 'avanguardia delle idee il conflitto qualitativo dell’arte che disvela alla radice il veleno della merce, e questa trasformazione dell’esistenza si è espressa talvolta come sovversione. A guardare oltre i guinzagli mercantili della macchina/cinema, dopo la tempesta e lo slancio di Vigo, non possiamo non ricordare opere (non tutte

Corrado Terzi, A propos de Nice, in «Rivista del cinema italiano», n. 9, Roma 1953.

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ormai rese “celebri” dalle schedografiche specializzate e studiate anche nei luoghi deputati per tradire o disconoscere la grande lezione eversiva del ci­ nema), che hanno espresso una poesia delFimmaginario o un'estetica della realtà bruciando, sovente, gli esercizi estetizzanti di molta avanguardia. Co­ sì, alla rinfusa, ci (as)saltano agli occhi: Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero (1948) di Ro­ berto Rossellini; Ladri di biciclette (1948), Sciuscià (1946), Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica; Quarto potere (1941) di Orson Welles; Albergo Nord (1936), Il porto delle nebbie (1938), Amanti perduti (1945) di Marcel Carnè; La fiamma del peccato (1944), Giorni perduti (1945), Viale del tra­ monto (1950) di Billy Wilder; Il mistero del falco (1941), Il tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston; Caravaggio (1986) di Derek Jarman; Il tradito­ re (1935) di John Ford; I 400 colpi (1959) di Francois Truffaut; Fino all’ulti­ mo respiro (1960), Questa è la mia vita (1962), Bande à parte (1964) di JeanLuc Godard; Boudu salvato dalle acque (1932), La cagna (1931), La grande il­ lusione (1937), La regola del gioco (1939) di Jean Renoir; Accattone (1961), Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini; Le lacrime amare di Petra von Kant (1971), Il diritto del più forte (1974), di Werner R. Fassbinder; Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), Agnine furore di Dio (1972), L ’enig­ ma di Raspar Hauser (1974), La ballata di Stroszeck (1977) di Werner Herzog; Artisti sotto la tenda: perplessi (1968) di Alexander Kluge; Rapina a ma­ no armata (1956), Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick; L ’angelo ubriaco (1948), Cane randagio (1949), Rashòmon (1950) di Akira Kurosawa; I giorni del ’36 (1972), Il volo (1986), Paesaggio nella nebbia (1988), La sor­ gente del fu m é (2004) di Thodoros Anghelopulos; Il tempo dei gitani (1989), Underground (1995), Gatto nero, gatto bianco (1998) di Emir Kusturica; Le onde del destino (1996) di Lars von Trier; Traité de bave et d’eternité (1951) di Isidore Isou; La società dello spettacolo (1973) di Guy Debord15... e queste opere, elaborate su versanti poetici differenti, ma tenute insie­ me da un’estetica della realtà che brucia il reale e lo trascolora in storia, por­ tano sullo schermo la poesia e, spesso, fanno dello stile uno stiletto, colpi­ scono al cuore il conformismo delle idee (specie quelle che si autodefinisco­ no “d’avanguardia”). Lo stile in un’opera d’arte è la dinamica interna di ciò che esprime. E lo stile a disporre una realtà scippata all’ordinario e la poeti­ ca estetica che sparge sugli schermi della terra, senza guinzagli né padroni, è il canto più alto del comunicare (non solo) nella “fabbrica delle illusioni”. 15 Qui avremmo dovuto inserire tutta una filmografia legata al cinema delle donne fatto dalle donne... e approfondire la bellezza delle opere di Chantal Akerman, Shirley Clarke, Mar­ guerite Duras, Alice Guy, Danièle Huillet, Barbara Kopple, Marceline Loridan, Samira Makhmalbaf, Hulrike Marie Meinhof, Marta, Mészàros, Leni Riefenstahl, Leóntine Sagan, Susan Sontag... ma non è questo il luogo giusto e sarebbe piuttosto fuorviarne. Rimandiano allora al nostro studio Dolci sorelle di rabbia. Cent’anni di cinemadonna, Beiforte Cultura, Livorno 2005.

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Il sogno del cinema di Robert Desnos16, l’arte e la percezione visiva di Kndolf Arnheim17, dal significato alle scelte di Gillo Dorfles18, la semiologia del cinema di Christian Metz19, che cosa è il cinema? di André Bazin20, il lu! crnario dell’infinito di Noél Burch21, l’immagine-movimento e l’immagineicmpo di Gilles Deleuze22, il cinema e oltre di Serge Daney23... sono lì a mostrare che il cinematografo è lo spettacolo che tende a invadere il reale e organizza il reale in uno spettacolo. Certe volte però la poesia ha il soprav­ vento sulla merce e il film diviene opera d’arte. Tutto qui. Nella macchina/cinema, la censura, sempre operativa sui sagrati della morale dominante, ha deposto tutta la sua teorica istituzionale nei cantieri ilei l’ideologia della merce. Il successo al botteghino è il brevetto della cele­ brila e il vero scandalo è l’opera d’arte autentica, che è messa al bando o re­ sta fuori dal naufragio della società dello spettacolo. Va da sé che non solo un’opera d’arte si può allargare o può essere integrata da frammenti, visioni 0 insolenti ruberie di opere ormai morte per dare vita ad una nuova affabulu/ione poetica. Si può anche cambiare il senso di questi détournement «e truccare in ogni modo che si giudicherà opportuno quelle che gli imbecilli si ostinano a chiamare citazioni»24. Di più e meglio. La costruzione di una diversa opera d’arte comincia oltre la rovina dell’arte come spettacolo. «Le ilice migliorano. Il senso delle parole [delle immagini, dei suoni, dei so­ lini...] vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Stringe da vicino la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea lalsa, la rimpiazza con l’idea giusta»23. Due secoli di menzogne religiose, ideologiche e dei saperi hanno seppellito l’autenticità dell’uomo ed hanno latto della fase terminale dell’intelligenza il dominio reale dello spettacolo. 1 'uomo è l’unico essere nato davvero per essere libero, ma ovunque giace in catene o è servo della società spettacolarizzata. A proposito di Nizza è un documentario sociale o un punto di vista docu«wntato (come suggerisce il sottotitolo) che si trascolora in una sorta di an­ tropologia dei sentimenti e delle passioni e assume in modo diretto il conRobert Desnos, Il cinema d’avanguardia. 1910-1930, a cura di Paolo Bertetto, Marsilio, Venezia 1983. ’7 Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 1971. 111 Gillo Dorfles, Dal significato alle scelte, Einaudi, Torino 1973. 17 Christian Metz, La semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1973. 211 André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973. 21 Noél Burch, Il lucernario dell’infinito, Il Castoro, Milano 1994. 22 Gilles Deleuze, L ’immagine-movimento, Garzanti, Milano 1984; L ’immagine-tempo, ( pin zanti, Milano 1989. 21 Serge Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1888-1991, cit. 2J Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, turino 1995. 25 Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, Firenze 1979, p. 153.

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trasto o il dissidio nei confronti delle idee dominanti. «Per definizione, allo stato attuale del mondo borghese, un cineasta è un corpo estraneo lanciato nella macchina dei maneggi finanziari o altro, ai quali il mercato del cinema si presta. Una casa cinematografica, per paradossale che possa sembrare, s’augurerebbe per guadagnare denaro di non realizzare mai un solo film. Grandi case di produzione assoldano per un anno cineasti e li supplicano di andare in campagna a pescare per tutto il tempo. Quando, per un caso, si tratta di realizzare un film, lo consegnano al commercio come mercanzia alimentare di qualità dubbia. La frode è obbli­ gatoria. Le scatole di metallo bianco che racchiudono i film sono scatole a sorpresa, voi potete in realtà trovarvi sia colonne sonore parlanti al cento per cento che fagioli sonori. Questione di scelta. Il pubblico conosce bene il ruolo del caso nel cine­ ma. Non sceglie più i suoi spettacoli: si va al cinema a giorni fissi e mai per guardare il film. Lo sappiamo in partenza. Se questo non ci piace, non abbiamo che an­ dare a vendere fettucce»26. La soffice dittatura del conformismo continua. Ciò che costituisce il consenso generalizzato è la distruzione totale di ciò che gli si oppone. Gli uomini sembra che abbiano fondato la loro civiltà sul­ l’apologià dell’oppressione e dell’omicidio istituzionalizzati. A proposito di Nizza si apre su fuochi d’artificio e vedute aeree della cit­ tà. L’arrivo dei turisti (in abiti coloniali) è acido. Vigo usa un trenino-gio­ cattolo e dei pupazzi giungono nelle sale da gioco e sono spazzati dal ra­ strello del croupier. Ancora Nizza vista dall’alto. Il mare, le palme, uno spazzino. I preparativi del carnevale. Pupazzi e maschere giganti. Camerieri che mettono in ordine i tavolini di un grande albergo. Dalla verniciatura della bocca di una maschera si passa alla pulizia di una piccola palma in un vaso. Poi l’Hotel Rhul, il Palais de la Méditerranée e il Negresco rovesciati, la macchina da presa li raddrizza alla maniera delle comiche americane, del­ l’insolenza surrealista o, anche, secondo le teorie e le sperimentazioni del Kino-Glaz (Cine-occhio) sovietico27. Una carrellata scivola sulle ombre del­ le grate sul marciapiede. 26 Jean Vigo, in Jean Vigo, di Maurizio Grande, cit., p. 4. 27 A leggere con attenzione le varie storie del cinema, non è difficile vedere che dietro gli elogi d’occasione per Vigo si cela sempre la gogna dell’appestato, del visionario o più semplicemente dell’anarchico inviso alla morale e ai valori dell’ordine costituito. Nella “monumentale” Storta d el cinema mondiale, a cura di Gian Piero Brunetta (Einaudi, Torino 2000), A proposito d i N izza non è nemmeno citato. E del film di Vigo sembra che non si sia accorto nemmeno Je­ an Mitry, nella sua Storia d el cinema sperim entale (Mazzotta, Milano 1971), parla soltanto e in maniera impropria di Zero in condotta. Anche Amos Vogel, nel suo II cinema come arte sovver­ siva (Studio Forma, Milano 1980), non trova molte parole per A proposito d i Nizza. Nella S to­ ria del cinema di Gianni Rondolino (UTET, Torino 1988), a Vigo sono dedicate alcune righe, e A proposito d i Nizza è definito un «ampio documentario su Nizza», influenzato dalle teorie del

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La cinecamera di Vigo filma la Promenade des Anglais. Signore e signori ripresi nella loro ordinarietà. Un mendicante, un fotografo, uno spazzino e il suo carretto. Un idrovolante plana sul mare fermo. I bagnanti, i camerieri, Ir signore della “buona” borghesia si avvicendano con giochi noiosi e la preparazione della festa del carnevale. La Promenade des Anglais è affollata. I,a passeggiata più mondana del mondo è vista come una catenaria di carto­ line ironiche (qualcuno ha intravisto anche un uomo che fa il cinema e l'operatore alla manovella sembra essere Vigo). La gente ripresa, sovente guarda in macchina, qualche volta con gioia, altre volte con sdegno (Vigo e Kaufman avevano costruito una specie di sca­ glia dove nascondere la macchina da presa e, a vedere i risultati, l’intuizione r stata di grande pregio autoriale). Si vedono un invalido sulla carrozzina che vende giornali, una zingara alla quale è rifiutata l’elemosina, un cane ba­ stardo che guarda curioso l’operatore. I nobili giocano a tennis. Una corsa automobilistica. Portieri d ’albergo. Le palme. Le vele. Il cieco con la fisar­ monica. L’abbronzatura (qui il trucco del bianco che diventa nero ci sem­ bra un po’ forzato). La ragazza denudata dalla macchina da presa. Gli alli­ gatori si spanciano al sole. Gli antichi palazzi dei ricchi. Una vecchia signo­ ra della nobiltà è paragonata a uno struzzo. C’è anche una giovane donna, seduta a un bar, che muta di abito cinque volte e resta nuda sotto il sole. La cinecamera di Vigo entra nel cuore della città. Si avvicina al sudicio dei vicoli. Al mercato. Ai rifiuti. Al regno dei gatti. Entrano in campo la gente nei caffè, delle sale da ballo e i ragazzi che giocano alla “mora”. Una lavandaia, il mercato, l’incrocio dei tetti, il ragazzo con le dita mangiate dal­ la lebbra o bruciate dal fuoco? Tornano i carri del carnevale. I mascheroni sono avvicinati alle facce sfatte di signore dabbene. Dalle ombre del popolo in festa, Vigo si allontana e s’invola verso la campagna a Grasse. Lì le donne colgono i fiori che saranno gettati sui carri e poi calpestati dalla folla. Su un carro c’è la “vecchia bruttona” (che avevamo già visto sulla passeggiata) che lancia contro la cinecamera una smorfia o un sorriso da ebete. Piovono fiori anche su lei, sul suo abito bianco e sul cagnetto che stringe tra le braccia ed ha un fiore in bocca. Il carnevale impazza. Le ballerine ballano, discinte. Contrapposte a manichini vestiti all’ultima moda. Ancora mascheroni. Una

«cineocchio» di Dziga Vertov, dal documentarismo di Làszló Mohonly-Nagy e dal surrealismo. Nella Storia del cinema di George Sadoul (Einaudi, Torino 1955), lo storico avverte in A propo­ sto di Nizza, «una potenza quasi esplosiva. Oggigiorno il film è invecchiato per il suo estetismo e l’ingenuo simbolismo sessuale di certe immagini o simili abitudini. Ma rappresentò il primo documentario francese che non fosse una constatazione, ma una feroce satira che contrappone­ va l’ozio stagnante dei grandi o piccoli borghesi proprietari stravaccati al sole, le stravaganze della moda e la baraonda dei carri carnevaleschi allo squallore della Nizza vecchia». Una visio­ ne un po’ limitata quella di Sadoul. Specie per un film che è (e figura) una vera e propria carica eversiva del cinema sociale posta sotto il culo estetizzante della macchina/cinema.

A proposito di Nizza, 1930.

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parata militare. Interramento di tombe al cimitero. Ancora le ballerine (al rallentamento), delle navi. Un prete attraversa la strada (accelerato). Le bal­ lerine e il prete. Un funerale sarcastico si allunga nella strada (accelerato). Le ballerine danzano senza posa. Primi piani di vecchi. Un portiere d’alber­ go con decine di medaglie sul petto si toglie il cappello. Il lustrascarpe puli­ sce un piede nudo. Le inquadrature dal basso mostrano i passanti da una specie di occhio/pozzo sotterraneo. Nizza è colta nel candore dei suoi al­ berghi, nell’esotismo delle palme e le statue degli angeli sono filmate in mo­ do sensuale. Le allegorie non si contano. Nel cavo delle gambe di un ange­ lo, proprio vicino al sesso, c’è dell’acqua marcia. Primissimo piano di una vecchia coperta di rughe. Le ciminiere senza fumo che si trasformano in cannoni. I pupazzi giganti perdono la testa. Gli operai davanti ai forni. Un vecchio operaio ride sullo sfondo della fabbrica. Il fumo delle ciminiere im­ bratta lo schermo, poi la parola Fin. In A proposito di Nizza, la cinecamera di Vigo è una finestra sul mondo e ciò che mette a nudo non è soltanto “una riproposizione” del Cine-Occhio vertoviano... infatti, «la realizzazione del vero cine-occhio resta subordinata all’invenzione di una macchina da presa sensibile, mobile e poco ingom­ brante, quanto l’occhio umano» (George Sadoul), come quella favolesca del documentario sociale di Vigo. Il documentario sociale è appunto una specie di ribalta delle passioni, dove l'autoritarismo e la superficialità crollano. «In questo film - dice Vigo a chiusura del suo discorso sul documentario socia­ le -, per il tramite di una città le cui manifestazioni sono significative, si assisi e al processo a un certo mondo. In effetti, appena suggeriti l’atmosfera di Nizza e lo spirito della vita che lì si conduce - e, ahimè, altrove - il film ten­ de alla generalizzazione di grossolani piaceri posti sotto il segno del grotte­ sco, della carne della morte; e che sono gli ultimi sussulti di una società che si oblia fino a darvi la nausea e a farvi complici di una soluzione rivoluziona­ ria»28. La “soluzione rivoluzionaria” di Vigo è l’invito alla disobbedienza, alla rivolta, al sabotaggio di una società che soffoca, mortifica, distrugge l'amore fra gli uomini. Vigo introduce nel film non solo i suoi «sentimenti sovversivi» (P.E. SaIcs Gomès), ma figura e argomenta una profonda critica della società del­ l'apparenza. Aveva compreso che «ciascuno è figlio delle proprie opere, e come la passività si fa il letto, così dorme»29. Il suo cinema sociale o dal pun­ to di vista documentato, ha mostrato che il risultato della decomposizione catastrofica della società di classe o di quella omologata nei supermercati del consenso, sono l’unica battaglia da vincere per conoscere altri modi di abitare il mondo. 28 In Paulo Emilio Salès Gomès, Jean Vigo. Vita e opere del grande regista anarchico, cit., p|>. 68.

29 Guy Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 20.

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CAP. IV - L’IMMACOLATA CONCEZIONE DEL CINEMA

Non è l’amore di Vigo per Charlot o Clair (come in molti hanno scritto) ad affinare la sua coscienza estetica... certo i rimandi visivi a Entr’Acte (1924) di Clair o al “cinema corto” di Chaplin sono forti, tuttavia è l’anar­ chia viscerale di Luis Bunuel che fulmina Vigo e questa fratellanza libertaria 10 porta sulla strada dell’utopia possibile in forma di cinema. Il 28 maggio del 1930, Vigo presenta il suo film a Parigi, al cinema «Vieux-Colombier», in una programmazione curata da Jean Tedesco. A proposito di Nizza solleva amori e critiche nel contempo. In molti sorridono dell’anarchia eidetica che esprime, altri hanno riserve sulla “ripetizione dei temi” trattati da Vigo. I giornali «Le Soir» e l’«Echo de Paris» non si sperti­ carono in lodi ma non condannarono il film. La stampa comunista tacque. Léon Moussinac vide il film al «Vieux-Colombier» ma sul suo giornale d’«Humanité») non apparve nulla su A proposito di Nizza. Il 14 giugno, sabato, alcuni esponenti del «Groupement des Spectateurs d’Avant-Garde» (che avevano assistito alla prima proiezione di A proposito di Nizza) organizzarono una manifestazione del “giovane cinema francese”, che si svolse di nuovo al «Vieux-Colombier», dove fu invitato anche Vigo. 11 giovane regista parla dopo Jean Mitry (che presenta Un coup de dés). Il discorso che ha scritto è una specie di manifesto che titola: «Verso un cine­ ma sociale». Vigo chiarisce subito di non voler strozzare l’impeto per un ci­ nema rivoluzionario in una formula. Per lui si trattava di rompere gli schemi e il sillabario della tecnica e delle inutilità estetiche del cinematografo per portare la luce all’esistenza dell’uomo là dove regna lo spettacolo della me­ diocrità. «Al cinema - dice Vigo - trattiamo il nostro spirito con la raffinatezza che i cinesi di solito riservano ai loro piedi... Con la scusa che il cinema è nato ieri, giochiamo a fare i bambini, come quel papà che parla in bambinese per farsi capire dal figlio... un passo verso il cinema sociale consisterebbe nell’evitare di sapere se il cinema debba essere a priori muto, sonoro come una zucca vuota, parlante al cento per cento come i nostri invalidi di guerra, in rilievi, a colori, odoroso, ecc.». Vigo comprende che il cinema è domina­ to dalla “legge del divertimento” e per andare verso un cinema sociale (an­ cora), si «sarebbero dovuti risvegliare echi diversi dai rutti di quei signori e signore che vengono al cinema per digerire»30, ancora. Come esempio di cinema sociale e critica radicale dell’ordine costituito, Vigo commenta Un chien andalou (1929), di Luis Bunuel. Interpreta il film come una forza distruttrice della comune morale e ne parla così: «Un chien andalou è un’opera capitale sotto tutti i punti di vista: sicurezza della regia, abilità dell’illuminazione, scienza perfetta delle associazioni visive e ideolo­ giche, solida logica del sogno, ammirevole confronto tra il subcosciente e il 50 Jean Vigo, in Paulo Emilio Salès Gomès, Jean Vigo. Vita e opere del grande regista anar­ chico, cit., p. 77.

A PROPOS DE NICE

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u/ionale... La nostra viltà è sottoposta a dura prova, possiamo accettare mite le mostruosità commesse dagli uomini sguinzagliati sulla terra, ma non possiamo sopportare di vedere sullo schermo un occhio di donna tagliato in due da un rasoio... questa nostra viltà è messa a dura prova. Questo spetta­ colo è dunque più spaventoso di quello offerto da una nuvola che sottrae al­ la nostra vista il plenilunio?... Caven carnem... State in guardia dal cane, morde... Andare verso il cinema sociale, vuol dire quindi procurare al cine­ ma nel suo insieme un soggetto che sveglia l’interesse, un soggetto che si mitre di carne»31. Vigo è tagliente come una lama di vetro sulla lingua di un traditore o di un tiranno. Sostiene che il cinema può essere fatto contro la '.nggezione o l’indifferenza dell’immaginario plebeo al quale si rivolge e oc­ corre fare dei film che insegnino a saper guardare con altri occhi che non