Italiano sì e no. I mille problemi della lingua parlata e scritta [First ed.] 8830408352

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Italiano sì e no. I mille problemi della lingua parlata e scritta [First ed.]
 8830408352

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ITALIANO Sì E NO

I

mille problemi

della lingua parlata e scritta

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IL

CAMMEO

VOLUME 170

((

ITALIANO Sì

di

E

NO

TRISTANO

BOLELLI

LONGANESI MILANO

&

C.

LETTERARIA

PROPRIETÀ Longanesi

& C,

©

1988

ISBN

-

RISERVATA

20122 Milano,

88-304-0835-2

via Salvini, 3

Italiano sì e

no

Premessa Dopo Parole in piazza (1984) e Lingua italiana cercasi (1987), ecco Italiano sì e no che vuole, anch'esso, corrispondere al proposito di una riflessione, compiuta col minimo di pedanteria possibile, su questioni attuali della lingua italiana. Nello scambio di idee coi lettori del quotidiano La Stampa (a cui si sono aggiunti quelli della

Domenica del Corriere)

è risultato

un preciso

resse di molti per la lingua parlata e scritta e per

mi che sorgono

dalla quotidiana esperienza, in

i

inte-

mille proble-

un momento

cer-

tamente delicato della cultura nazionale caratterizzato, per quanto riguarda la lingua, dall'uscita, a getto continuo, di vocabolari di Il

grande mole, alcuni ancor

piti

enciclopedici che linguistici.

diffondersi dell'italiano in strati sempre

piti vasti

della popo-

lazione ha implicato spinte centrifughe talora allarmanti rispetto

ad un ideale di lingua che rappresenti un'espressione più moderna ma non ignara delle sue tradizioni. Spesso sono proprio i mezzi di comunicazione di massa che, invece di porsi come diffusori e mediatori di un italiano accettabile, danno tristi esempi di trascuratezza e talora di balordaggine e di ignoranza, tanto meno accoglibili in quanto diventano un modello generale. La confusione fa così nascere la curiosità di vederci chiaro.

Una lettrice americana residente in Italia mi ha scritto che io sono sciupato per il compito che mi sono proposto. A lei, che forse credeva di farmi un complimento, non posso rispondere se non con la testimonianza di lettori che mi chiedono di insistere nel proseguire un colloquio che spero possa portare qualche frutto. È ben vero che Galileo scrisse che non vi è odio maggiore che quello dell'ignoranza contro il sapere, ma anche la piccola pietra formata dalla raccolta di queste pagine che, viste insieme, tradiscono l'occasionalità, a volte la fretta e sempre la mancanza di sistematicità nella loro composizione, può essere un punto di riferimento o, almeno, un mezzo per fare sospettare che la lingua ci è stata data per esprimere chiaramente il nostro pensiero, nel bene e nel male, in un legame indistruttibile con la nostra cultura e con la nostra sostanza umana.

Ad do

ogni articolo è fatta seguire l'indicazione della prima pubblicazione. Quanpremessa S. si tratta di un rinvio al quotidiano La Stampa; men-

alla data è

DCorr. rimanda alla Domenica del Corriere. Ringrazio che hanno efficacemente indicato il contenuto degli articoli. tre la sigla

i

titolisti

Parole

Incominciamo con un gioco. Su un foglio

di carta è scritto

un

solo vocabolo: parole.

È un messaggio, contrariamente alle apparenze, ambiguo se non sappiamo a quale lingua appartenga. Infatti, se si tratta di francese, significa « parola », sia pure in un significato che piti spesso è espresso da mot e rende, al plurale, frequentemente l'italiano « enunciato » o « discorso » o, infine, « facoltà di comunicare il pensiero per mezzo di suoni articolati » (lasciando da parte altri valori tecnici); ma, se si tratta di italiano, è il plurale di « parola ».

Tutto questo vuol dire che, se non prendiamo in considerazione il tipo di lingua di appartenenza ed il contesto in cui ricorre, una voce non è assolutamente definibile e questo dà una nuova prova dell'arbitrarietà del segno linguistico. Eppure, nel caso in questione, ci

muoviamo

nell'ambito di lingue sorelle che, tutt'e

due, continuano la voce parabola, latina

che significava

«

comparazione

» e,

ma

di origine greca,

più tardi, « parabola » (evan-

gelica), infine « parola ».

Questo insegna un'altra cosa: che le parole mutano il loro sitempo e quello che una volta aveva un valore, oggi ne ha un altro. È un principio che può apparire ovvio ma ha implicazioni complesse e ha dato origine alla linguistica storica. La parola, nella sua gamma di significati, dal modesto accenno ad uno stato d'animo alla volontà di socializzare, dall'imprecazione alla preghiera, può assurgere ad un valore altissimo come nelle maledizioni e negli scongiuri, diventando strurfiento di una potenza che, nella sua inconoscibilità, pare infinita. gnificato col

Perfino la divinità può essere designata

come

« la

parola

»,

se

pensa al greco lògos che nella filosofia greca classica aveva insieme il significato di « parola » e quello di « pensiero » e nella teologia crisfiana designa Dio, il Dio fatto uomo, e nella traduzione lafina suona Verbum che ancora riproduce la voce con cui era stata da sempre indicata la parola. In principio era il si

Verbo...

Eppure quando, nella volubilità del nostro discorso, si dice di qualcosa che è stato pronunciato a vanvera: Sono solo parole... per ridurre al minimo l'importanza di una affermazione, usiamo la stessa voce. Quante volte, del resto, ci accorgiamo di aver par-

10 lato troppo,

senza costrutto, senza alcuna necessità, arrivando a

conseguenze che si ritorcono contro di noi. E quante volte diciamo che sarebbe stato meglio morderci la lingua che aver parlato. Ma c'è un aspetto della parola che è importantissimo nella storia della civiltà: la parola scritta.

Sappiamo di popoli che avevano una letteratura orale ma che non ci hanno tramandato se non pochi documenti o nessuno. Gli Etruschi, che pure hanno avuto una notevole civiltà, ci hanno lasciato solo documenti scritti che si riferiscono al mondo mortuario o magico, senza letteratura. Quanto agli antichi Galli « era cosa empia scrivere », come ci è autorevolmente attestato. Intrecci e sovrapposizioni di civiltà aspettano chi indaghi la sto-

Pare di vedere su uno schermo le impronte dei con assoluta chiarezza, ora con sfumature non facilmente percepibili. Al centro delle parole, l'uomo che riceve dall'ambiente che lo circonda gli elementi del suo linguaggio ma che, anche, crea nuovi valori, nuove prospettive con quello strumento che lo caratterizza fra tutti gli esseri viventi: uno strumento, la lingua, che gli permette di chiarire il suo pensiero ma anche di nasconderlo al suo prossimo e magari di confondere e di ingannare. Il pericolo di celare ad altri quello che abbiamo dentro di noi è presente nell'ammonizione del Vangelo di dire sempre Sì sì o no no; ma anche chi non vuole ingannare gli altri si trova, a volte, in rapporto con la sua cultura, in grande difficoltà per esprimere quello che ha dentro. Non per nulla Galileo Galilei scrisse: « Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro poria delle parole.

secoli e a volte dei millenni trascorsi, ora

chissimi

».

Anche

nella nostra quotidiana esperienza notiamo che ci sono persone che sanno esprimersi in modo da essere compresi da tutti ed altri che, pur essendo colti, non sono in grado di comunicare adeguatamente con gli altri, anche non avendo la volontà di ingannare. In questo caso non c'è, evidentemente, malafede ma solo una particolare struttura della personalità che può essere cor-

ma non completamente. Le parole sono a disposizione

retta

uso perfetto, chi non riesce ad se

di tutti;

ma

c'è chi sa farne

utilizzarle; c'è, infine chi

non

un

riesce

non a balbettare. [Elle

novembre 1987]

Parola, chi

Se

si

f? sei':

parla di parole e di lingua, pare necessario definire in

modo

non troppo oscuro che cosa è una parola senza pretendere che, avendone ogni persona un'idea intuitiva, noi possiamo sottrarci al quesito.

Diciamo, dunque, che

la

parola è la più piccola unità che

si

può usare da sola per formare una frase o un enunciato. Occorre fare subito una distinzione: ci sono delle parole autonome come albero, cane, casa, uomo che quando sono scritte o pronunciate ritagliano immediatamente nella nostra mente un loro spazio che, qualche volta, deve essere definito. Se dico padre, subito mi viene in mente chi ha generato uno o piti figli; ma padre è detto anche un frate come padre Cristoforo ed il significato si sposta immediatamente in un'altra sfera. Se dico cane, penso all'animale amico dell'uomo, ma la parola designa anche un uomo cattivo, spietato, e perfino una parte del fucile e un ferro del dentista. Ma ci sono parole non autonome come //, di, per, che hanno bisogno di accompagnarsi ad altre per acquistare un valore che da sé non hanno. I cinesi chiamano le parole autonome « piene », le altre « vuote »: è un modo comodo per fare una distinzione che anche noi sentiamo non inutile. Qualcuna delle parole vuote assume, di quando in quando, la funzione di parola autonoma: in, per esempio, diventa aggetdvo quando designa qualcosa di esclusivo, alla moda. È nota la locuzione essere in. L'uso viene - chi può dubitarne? - dall'inglese ed un vocabolario americano, compilato (sia detto di passaggio) da circa trecento persone (eppure è di mole assai piti contenuta dei nostri comuni vocabolari), definisce questo in sfacciatello con le seguenti parole: « Comprensibile solo ad un gruppo particolare o presumibilmente molto sofisticato

».

Con

questa definizio-

ne siamo lontani dall'uso di in in Domenica in che di sofisticato o di esclusivo ha ben poco, se sofisticato vuol dire « raffinato » o « ricercato ». Quale che sia stata l'intenzione di chi le ha dato il nome, Domenica in richiama, semmai, dopo tanto tempo che va in scena, altri concetti: in casa, in famiglia, in studio (televisivo), oppure in(sieme), in (contro) e simili. Abbiamo chiamato aggettivo nel caso di Domenica in una preposizione e questo mostra quanto siano difficili le definizioni assolute in fatto di grammatica.

12

.

Anche il confine fra nomi concreti (che designano come scimmia, strada, tavolo) e nomi astratti

teriali

indicano parole che designano concetti che

la

realtà

ma-

(quelli

che

mente può

afferra-

re come intelligenza, pace, amore) non è rigido. Infatti, se chiamiamo celebrità un uomo, nome astratto assume valore concreto, mentre se diciamo che un uomo ha raggiunto la celebrità il

abbiamo un

astratto che significa « fama ». sono pur sempre usi grammaticali che aiutano a distinguere i due gruppi. Le voci astratte si trovano di solito al singolare. Così diciamo la bontà, la pace, il benessere, l'amicizia. Se usiamo le amicizie ci riferiamo alle persone amiche ed il no-

Ma

me

ci

acquista, cosi, carattere concreto.

La

grammatica tradizionale ha nuove prospettive di ricerca e la grammatica come è studiata oggi è diversa da quella studiata anni fa anche se il vecchio studio grammaticale può, se adoperato con giudizio, renrelatività delle definizioni della

spinto a cercare

dere tuttora preziosi servigi. Ma le parole suscitano nel nostro animo sentimenti, emozioni, stati

È

d'animo molto

vari.

che la lingua, formata di parole, è stata data all'uomo per nascondere il proprio pensiero. È un discorso cinico che non può essere condiviso perché la lingua permette anche stato detto

di dire verità inconfutabili.

Le parole sono formate, come

tutti

sanno, da vocali e da con-

sonanti che, combinate insieme, danno origine alle lingue.

Le

combinazioni avvengono nei modi piti vari. Se prendiamo la serie di parole pazzo, pezzo, pizzo, pozzo, puzzo, vediamo che ognuna di queste parole differisce dalle altre per la presenza di una vocale; se prendiamo batto, fatto, gatto, matto, patto, ratto, tatto, ognuna di queste parole differisce per la

presenza di una diversa consonante. Entriamo, con questo, nelcompongono una lingua, nella

l'intima struttura degli elementi che

loro formazione molecolare.

Così è formata, quasi miracolosamente, ogni lingua. È l'incontro di vocali e consonanti, secondo il loro valore significativo, a dare al mezzo di comunicazione del pensiero e del sentimento che chiamiamo lingua il suo valore nella scala delle po-

umane. È una cosa mirabile che caratterizza l'uomo nella sua essenza di essere pensante distinguendolo da ogni altra creatura che vive sulla terra. tenzialità

[DCorr. 8.1.87]

La

violenza non è del « vir »

Apprendo da uno

spiritoso articolo di Gianni Vattimo, che Ida

Magli ha pubblicato

Repubblica un Discorso del fallo. L'im-

sulla

postazione del titolo è solenne e fa venire in mente il De bello gallico. Del principe e delle lettere e Dei delitti e delle pene:

intendendo diversamente quel del, si correrebbe il rischio di far il fallo possa parlare, cosa che, a quanto ne so, non è ancora venuta in mente a nessuno; ma quello che più interessa è che, sul fondamento che i maschi hanno sempre aggredito la donna, si dà un'etimologia secondo la quale la parola violenza verrebbe dal latino vir « uomo ». Oh, come sarebbe bello rispettare un po' di più la linguistica e la storia delle parole non tirancredere che

dole, povere innocenti, nelle nostre personali ideologie!

Violenza è

il

che viene da violentus « violene non da vir « uomo ». Da vir alla quale, a quanto si sa, non si

latino violentia

to », a sua volta

da

viene, bensì, virtus

vis «

forza

« virtù »,

»

possono imputare stupri o violenze sessuali in genere. Semmai, in certi periodi della nostra storia, virtù designò la capacità di fare in modo esemplare certe imprese e da qui venne, come è noto, virtuoso, rimasto nel linguaggio della musica. Già Cicerone sapeva che virtus viene da vir e dice che propria della virtus è la fortezza, i cui uffici massimi sono due: il disprezzo della morte e del dolore. Altro che violenza contro le donne! Vir vuol dire « uomo » in contrapposizione alla donna ma si tratta di un fatto puramente di lessico, visto che per dire « creatura ragionevole », in opposizione a bestia, i latini avevano homo, propriamente « nato dalla terra », « terrestre » e perciò in contrapposizione alla divinità « celeste ». La parola da cui viene violenza (per tramite di violentus), vis, voleva dire « forza ». Mettere insieme vis e virtus è semplice-

mente cosa

Un

prescientifica.

po' più pesante è

della cronaca rievocata

il

gioco sui nomi di alcuni protagonisti

da Vattimo.

Se un insegnante accusato di tentato stupro di un'allieva si chiaConficconi e un pubblico amministratore, difensore del diritto di omosessuali a radunarsi, si chiama Orecchioni, si può parlare di curiosi accidenti ed è davvero probabile che la cronaca li abbia ricordati perché siamo in tempo di vacanze agostane. Ma qui ci vorrebbe un lungo discorso sui nomi (e sui cognomi

ma

14

che dai nomi derivano), sul loro valore augurale o no, sulla realtà che essi ~ si diceva - adombrano, sulle infinite loro relazioni negli sfaccettati rapporti da essi intrecciati. Ci sono interi capitoli di retorica medioevale sui nomi. « Come si può chiamare Manente un uomo che è sempre in giro e Legista un uomo senza legge? », dice un autore delle origini. L'etimologia, cioè la pseudo-etimologia e la figura etimologica erano tenute in grande considerazione nel Medioevo. Ricordiamo Dante: Oh padre suo veramente Felice! / oh madre sua veramente Giovanna, / se, interpretato, vai come si dice! Si parla di San Domenico e se per Felice il valore è trasparente, per Giovanna bisogna sapere che il nome, ebraico, nei lessici medioevali figurava col significato di « grazia di

Come

si

Dio

».

vede, da nomi, per dir così, poco riguardosi, siamo

latino e il greco (in ad una voce iranica che vuol dire « luogo recintato » e cioè ha un significato molto più umile e terrestre di quello che si potrebbe immaginare a priarrivati al Paradiso, parola che, attraverso

cui assunse

ma

il

valore di

«

giardino

il

»), risale

vista.

Le

parole, in verità,

miglie,

i

popoli,

i

hanno anch'esse, come

loro

alti

gli

uomimi,

le fa-

e bassi; e la loro storia, a patto di

conoscerla e di usarla con qualche competenza, è un capitolo affascinante delle vicende umane. [S.

26.8.1986]

//

Ministro contro un verbo

È COMMOVENTE tutti

chc

in

qucsto

mondo

italiano in cui ci

sentiamo

sopravvissuti a qualche triste evento, all'inquinamento del-

l'acqua di Casale Monferrato, al vino al metanolo, ai missili di Gheddafi, all'infausta nube di Cernobil, ci siano dei personaggi pubblici decisi ad azzuffarsi per questioni grammaticali o di vocabolario.

Qualcuno forse ricorderà

conducemmo

la rispettosa

ma

ferma polemica che

alcuni anni fa col presidente del Senato Fanfani sulla

opportunità di dire indagine conoscitiva quando sostenevo che ogni indagine è di per se stessa conoscitiva e che perciò quell'aggettivo era superfluo, o le osservazioni fatte alla presidente della Camera onorevole lotti a proposito di certi consigli ai parlamentari di non usare nella redazione dei progetti di legge il congiuntivo, il futuro e i verbi servili. Se il presidente del Senato rispose (e tutto finì col dono da parte sua di un volume che riproduceva i suoi quadri), un ermetico silenzio si è avuto dalla presidente della Camera, forse tradita da qualcuno dei suoi assistenti che con la grammatica italiana deve aver poco a che fare. In questi ultimi giorni si è letto che il ministro Goria ha energicamente protestato perché, in occasione dell'emissione di monete celebrative, nel testo del comunicato era scritto che si voleva commemorare il quarantesimo anniversario della Repubblica. Il ministro - se la notizia corrisponde a verità - deve essersi ricordato della

pure

in

modo

commemorazione

dei defunti e

forse eccessivo. Infatti,

si

è risentito, sia

commemorare per

il

quasi

centenario dizionario di Petrocchi significa « Ricordare, celebran-

do una

con estensione

agli avvenimenti o fatti vocabolario del Tommaseo che dava, nel 1865, il solo valore di « Ridurre a memoria, far menzione, rammemorare », con esempi fin dal '300 (e del resto il politici,

festa religiosa »

andando cosi

al di là del

verbo latino commemorare significa soltanto « Richiamare alla memoria, ricordare, citare », senza un particolare riferimento ai morti: ma chi lo sa ormai il ladno?). Certo, la lingua dei cristiani ha esteso l'uso e nel Petrocchi, appunto, si dice che in senso religioso si sentono frasi del tipo: « oggi si commemora l'Assunzione di Maria Vergine ». Venendo a vocabolari più vicini a noi, riscontriamo che commemorare è usato per « Ricordare in pubblico solennemente » e

16 lo Zingarelli



fra gli

esempi

«

Liberazione, della Repubblica

commemorare l'anniversario della qui mi vengono in mente le

» (e

parole di Renzo nello studio del dottor Azzeccagarbugli: « Pare fatto la grida apposta per me »). Uguali notizie ab-

che abbian

biamo

che non stiamo qui a citare. che cosa è scattato nella mente del ministro? L'italiano è una lingua che ha le sue stranezze, come del resto tutte le lingue del mondo. Se commemorare non è riservato ai defunti, commemorazione ha come principale significato, dice il Petrocchi, « il rammentare con lode qualche persona morta da qualche tempo ». Il sostantivo si allontana dal verbo quel tanto che basta per far venire l'idea che commemorare i quarant'anni della Repubblica voglia dire (Dio ne guardi!) che la Repubblica è morta. Ma è significativo a tale proposito il Vocabolario della lingua parlata compilato da Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, uscito orsono centotré anni, che per commemorare dia perfino « Commemorare le cinque giornate di Milano » e a commemorazione, oltre al generico « Il commemorare », porti « Breve elogio di persona da qualche tempo defunta, recitato in una solenne occasione » e come termine ecclesiastico « La orazione che si recita dal sacerdoin altri vocabolari

Ma allora,

memoria

un santo nel giorno che ricorre la sua festa ». danno i vocabolari moderni. Lo Zingarelli a commemorazione dice: « Festa, cerimonia con cui si commemora qualcosa o qualcuno » e dà come esempio la commemorazione di un illustre scomparso, ma anche commemorazione di un anniversario. Opportunamente il Grande Dizionario di Battaglia parla di commemorazioni civili e di commemorazioni religiose te in

Non molto

di

di piti

e riporta diversi esempi, fra

i

quali

il

seguente, ridanciano, di

Carducci: « Rammento i cavoli e frutte vistosissime, e prosciutti molto promettenti, perché alla commemorazione delle glorie passate vollesi unire la dimostrazione del lavoro presente in una esposizione d'agricoltura e d'industria. E fu ottimo consiglio ». È difficile che la commemorazione allietata da frutta e verdura sia stata di morti o di eventi luttuosi. Basterà, credo, ciò che si

è detto fin qui a spiegare l'atteggiamento del ministro;

le al

pensiero che

suscitare

il

to

e

il

qua-

commemorazione potessero

sospetto di una applicazione a qualcosa di scomparso

o a qualche morto, il

commemorare si

è tutto sentito ribollire. Tanto è vero che

comunicato, nella sua forma

finale,

non porta

piìi

il

famigera-

[S.

21.5.1986]

commemorare.

Le mani del potere Un

sull 'italiano

prendendo spunto da un mio articolo in cui parlavo anche se non sistematicamente, col valore di loro, auspica un intervento per introdurre in italiano un principio valido per l'esperanto: l'uniformità e l'unicità degli elementi grammaticali, obbligatorie per tutti, in modo che non ci siano piti variazioni o opzioni fra diverse forme ma tutto sia regolato per lettore,

di gli usato,

sempre.

una cosa: le lingue sono esseri vicon una loro ben individuata storia (non per nulla il libro di un grande linguista americano, W. Dwight Whitney, del secolo scorso si chiama La vita e lo sviluppo del linguaggio), mentre l'esperanto, che può aiutare la comprensione fra uomini di lingue diverse, è una specie di prefabbricato al quale non è concesso uno sviluppo (se non del vocabolario) dei mezzi grammaticali che, se si evolvessero liberamente, produrrebbero tante varianti e cioè tante sottovarietà da rendere difficile quella comprensione che è il fine ultimo del suo esistere. Se le lingue potessero essere cambiate a tavolino avremmo certamente in ciascuna di esse una maggiore uniformità. Ma chi dovrebbe procedere a tali mutamenti? Chi dovrebbe imporli? E chi accetterebbe di parlare e di scrivere diversamente da come vuole la tradizione? Forse lo Stato? E sarebbe desiderabile avere un tipo di lingua come quella di cui parla Orwell nel suo libro 19841 Finora gli interventi in vari momenti della storia si sono limiIl

lettore dimentica, però,

venti,

tati al

vocabolario.

È

il

caso dei puristi dell'Ottocento di cui esi-

stono ancora oggi epigoni con vari gradi di severità:

ma

i

puristi

non avevano alcun potere temporale. Neppure, a dire il vero, i membri dell'Accademia d'Italia, che dovevano limitarsi a consigliare,

rismi, e

con

È

durante il fascismo, parole italiane in luogo di forestietali parole erano a volte azzeccate, altre volte ridicole

risultati

che



per



furono accolti malissimo.

non certo per merito dell'Accademia, che alcune voci ebbero esito favorevole. Valgano per tutte pubblicità in vero, però,

luogo di reclame, atterraggio in luogo di atterrissage libretto in luogo di booklet. Di fronte a qualche voce assorbita sono en,

trate altre parole, particolarmente negli ultimi anni,

dall'inglese:

Una

ma non

notizia sulla

e specialmente

è di questo che vogliamo qui parlare.

Stampa, qualche tempo

fa,

riportava su cin-

18

que colonne

il

titolo:

Siena dichiara guerra alle insegne in inuna ingiunzione comunale contro

glese. Pare proprio che ci sia

parole straniere nelle insegne dei negozi. Naturalmente, da parte non è stato trascurato, come si legge nell'articolo, di

le

di alcuni,

i demoni del tempo fascista dicendo che non vi è « nessuna nostalgia per i tempi in cui il cognac veniva chiamato arzente oppure il cherry-brandy aveva il reboante nome di sangue

esorcizzare

morlacco

La lia

».

scelta dei

per cognac

- ahimè comico

due esempi si

è,

però, infelice. L'Accademia d'Ita-

limitò a suggerire

cògnàc e per cherry-brandy

ratafià di ciliege, dimenticando (e questo è l'aspetto

della vicenda) che anche ratafià è per noi di origine fran-

cese mentre in francese

la voce entrò nel secolo xvii da una lingua creola ed in essa qualcuno ha voluto vedere (anche se la cosa non pare priva di dubbi) un motto latino, rata fiat (sottinteso

conventio), « (l'accordo) sia confermato

»,

col valore di « alla no-

stra salute ».

A

Siena c'è, dunque, un'autorità comunale che ha preso posi-

zione e vedremo se e come punirà i pubblici trasgressori (stavo per dire i pubblici peccatori) come hanno fatto in Francia. Intanto su bar sembra che abbiano dovuto chiudere un occhio. Ma

mi sia concesso ancora una volta di dire che è piìi utile persuadere attraverso la scuola e i mezzi di comunicazione di massa, che punire. Resta il punto dal quale siamo partiti: se è così difficile cambiare qualche parola (le parole sono pur sempre monete di scambio fra i popoli) l'intervento su elementi grammaticali è impresa che non avrebbe nessuna probabilità di accoglimento. Forse sarà una sorpresa per molti

ma

è certo che se dal latino togliessimo tutte

il vocaboQuello che conta e che fa del latino una lingua originale è la sua struttura grammaticale, la sua fonetica, la sua morfologia, la sua sintassi.

le

voci di origine straniera (in particolare dal greco),

lario latino risulterebbe drasticamente ridotto.

[S.

19.4.1987]

//

poliglotto e

il

poliglotta

Vi è stato un massiccio intervento di lettori che mi hanno scritto che Standa non è abbreviazione di « Società Tutti Articoli Nazionali dell'Arredamento e dell'Abbigliamento », come si legge nel vocabolario di Zingarelli, ma deriva da un precedente Standard che il fascismo, nel voler italianizzare tutto, ridusse a Standa. La questione è sorta quando una lettrice mi chiese perché Standa è femminile, mentre - secondo lei - dovrebbe essere maschile, sottintendendo « magazzino ». Certo, la spiegazione dello Zingarelli, che è probabilmente tratta dal volume // siglario mondiale di enti e imprese economiche di ben 1253 pagine, edito dalla Banca Commerciale Italiana nel 1977, dà ragione del genere femminile ma la diversa origine fornita dai lettori di molte parti d'Italia, che, cioè, Standa è derivato da Standard, obbliga a cercare altrove la causa del genere grammaticale. Probabilmente si deve far i conti con « Società » ma anche bisogna far caso alla desinenza -a che, come è noto, caratterizza la grandissima maggioranza dei femminili. Ipiii tirano i meno, e su questo proverbio Giuseppe Giusti scrisse un sonetto: ma si potrebbe applicare tale proverbio alle parole per spiegare quello che con termine tecnico si chiama in linguistica « analogia

».

Non mancano

le eccezioni, parole, cioè,

che, essendo maschili, finiscono in -a {aroma, boia, collega, de-

dogma, duca, monarca, patriarca, patriota, pilota, poema, poeta, problema, teorema, vaglia e qualche altro). Sono un discreto numero, ma quanti sono i maschili che terminano in -ol Infinitamente di piti, ed ecco che non c'è da meravigliarsi se una nuova parola in -a è assunta come femminile. Ma, per non lasciare a mezzo il discorso, ci sono anche dei ma-

spota,

schili in -a

che erano originariamente

in -o\ stratega, neòfita,

autodidatta, poliglotta, prosèlita, parassita. Queste voci, se

guarda

alla loro origine

alla fine

un -o e suonare stratego,

to, prosèlito,

si

etimologica (dal greco), dovrebbero avere neòfito, autodidatto, poliglot-

parassito; e molte di queste forme figurano nei te-

sti e nell'uso con -o, tanto che il Grande Dizionario di Battaglia dà come esponente neòfito mettendo fra parentesi neòfita. Lo Zingarelli dà la voce nel modo seguente: neòfita o neòfito. Di fronte alla doppia serie di queste voci si ha l'impressione che quelle in -a siano, in generale, piìi modeme. Ma dobbiamo pur

20

La serie dei maschili dogma, monarca, ecc. sono di origine greca (ma in qualche caso, come collega, latina) non hanno ammesso forme parallele in -o ed hanno certamente influito per cambiare in -a un legittimo -o; ma a questa è forse da aggiungerenderci conto del perché del cambiamento. in -a che,

come aroma,

collega,

re un'altra ragione: l'influenza del francese.

Se autodidatto, fedele all'origine greca (autodidaktos) si è vida un autodidatta, ciò pare dovuto al fatto che in francese autodidacte è attestato fin dal 1557, mentre la nostra voce compare solo nell'Ottocento. A neòfito (dal latino tardo neophytus, che è voce greca) si affianca un neòfita quando la voce non solo designò « chi da poco ha abbracciata una religione » ma anche (e ciò avvenne alla fine del '700) « chi ha aderito da poco a una nuova idea » avendo subito l'influenza del francese néophyte, attestato fin dal 1759. Prendiamo, per un'ulteriore prova, parassito e parassita. La forma in -o è generale, dalle attestazioni più antiche fino all' 800. La voce viene dal latino parasitus che riproduce il greco paràsitos e significa etimologicamente « chi sta vicino al cibo ». Nel secolo scorso compare la forma parassita, per probabile influsso del francese parasite. Questo complicato intrecciarsi di forme mostra come anche nei problemi linguistici che sembrano piti semplici occorre riflettere per vederci chiaro. Se i giornali Stella d'Italia e La Patria di Bologna del 10 dicembre 1880 pubblicavano una dichiarazione sulle capacità di un giovane poliglotto (che era poi Alfredo Trombetti) firmata da quattro professori, due dei quali erano Giosuè Carducci e Gian Battista Gandino, la parola diventerà presto, nell'uso, poliglotta. Anche in questo caso l'etimologia era da ricercare nel greco polyglottos; ma fin dal 1639 era in agguato il francese polyglotte. I nostri poliglotto e poliglotta sono attestati da poco prima della metà del '700, cioè un secolo più tardi e non pare avventato sostenere che la voce francese abbia influito sulla vittoria di poliglotta su poliglotto sempre, tuttavia, tenendo presente, come si è detto in principio, che in italiano esistono maschili in -a. sto affiancare

[S.

22.3.19861

L 'arista È

e

il

paninaro

comc

Certe abitudini siano longeve e

si tramandigenerazione senza nessun cambiamento. Una signora ospite della rubrica televisiva Pronto, chi gioca? ha detto che V arista, la squisita schiena di maiale arrosto, prende il suo nome dal greco in cui arista significa « cose ottime », specificando che si tratta di un neutro plurale. Il nome sarebbe da attribuirsi a un dotto ecclesiastico greco in visita in Toscana nel Quattrocento. Ho sentito anch'io più volte questa spiegazione che viene annullata dal fatto che la parola arista è attestata già in Fra Giordano, predicatore pisano, vissuto fra il 1260 e il 1311 e nel Sacchetti, il ben noto novelliere e poeta trecentesco. Addio l'ecclesiastico greco e il Quattrocento! Ma, come si sa, è più facile demolire che costruire perché, al posto dell'etimo greco, non è stato trovato nulla di pienamente soddisfacente. Autorevoli studiosi hanno affacciato l'ipotesi che si tratti della continuazione della parola latina arista « resta della spiga, lisca di pesce » per una qualche rassomiglianza con la schiena del maiale ed hanno riferito la parola ad una non meglio identificata lingua del sostrato mediterraneo, di cui sarebbe testimonianza anche l'accento iniziale che contraddice l'accento latino. Questi, però, sembrano tentativi, sia pure dotti, per dire che dell'origine della parola non sappiamo niente. Di molte parole italiane, invece, conosciamo bene l'etimologia anche se di alcune recentissime non possiamo predire la durata. Immaginiamo, per esempio, che fra duemila anni qualcuno voglia sapere che cosa significhi panmaro, qualora di questa voce non si conservino le connotazioni che oggi ci fanno riconoscere in essa un tipo di ragazzi molto moderni. Di paninaro è stato autorevolmente detto che l'anno passato sia stata la parola

INCREDIBILE

no

di generazione in

nuova

di

maggior fortuna.

Io penso, però, che anche le parole abbiano bisogno di

riodo di stagionatura per vedere se reggono

un pe-

tempo. Così nel 1979 segnalai la parola frichettone o fricchettone che designava giovani appartenenti a gruppi protestatari contro la società. Era voce molto usata un paio di anni prima ma dicevo che si riscontrava molto meno nella lingua scritta e parlata. Oggi chi si ricorda più dei frichettoni? A volte ci troviamo di fronte a casi in cui ci sembra di avvicial

22 narci alla realtà ma non la raggiungiamo completamente. Per esempio, un lettore sardo residente a Torino mi ha segnalato che con sardigna municipale si designa la struttura dove si distruggono i residui organici degli animali da macello. Perché sardigna, chiede il lettore, un po' contrariato dall'uso della parola che corrisponde a Sardegna. Ora io vorrei dirgli che la denominazione non è esclusiva di Torino; anzi, come egli stesso dimostra di sapere, si tratta di un nome diventato comune e che compare nei vocabolari italiani. Il Tommaseo nel suo Dizionario dice: « Luogo fuor di porta San Frediano [a Firenze, dunque], dove portavansi cavalli, muli, asini morti da scorticare » e aggiunge: « A' tempi del Menagio [il poeta, letterato ed erudito francese del '600 autore, fra l'altro, di un'o-

pera Origini della lingua italiana, 1669 e 1685], nell'ospedale luogo degli incurabili ». Sarà il caso di dire che cominciò Cicerone a mettere in guardia il fratello Quinto che era in Sardegna, contro le febbri malariche e che Marziale chiama per antonomasia Sardinia un luogo

di Firenze, Sardigna,

malsano. Di qui a spiegare passo pare breve:

sana per

triste

«

la

parola

come

fa

il

Tommaseo,

il

Forse, dice, per essere l'aria di Sardegna mal-

esalazione

».

L'ipotesi più verosimile della diffusione di sardigna è che in

voce con quel significato deteriore, presa pari pari da quegli autori classici, sia stata applicata ad un luogo forse a Firenze - e che di là si sia propagata in altri luoghi fino a diventare parola del vocabolario. Per dirne di più occorrerebbero altri particolari. Il lettore auspica che il luogo cambi nome. Ma con i nomi che hanno una storia occorre andare piano, brutti o belli che siano. Sono una testimonianza del passato e la Sardegna, così bella e salubre, non deve temere nulla da un'applica-

età umanistica la

zione così sgradevole del suo nome. [S.

5.4.1986]

È

O.K.

cioè un disastro

Il bellissimo, puntutissimo sfogo sulla lingua italiana di oggi

pubblicato tempo fa sulla Stampa da quell'eccellente scrittore che è Guido Ceronetti mi ha molto interessato anche perché alcune

cose già

le

avevo dette anch'io,

sia

pure in

modo molto meno

pittoresco. Il

10 luglio 1982 denunciai l'abusatissimo uso di dire tra vir-

con riferimento a parole e frasi che si vogliono distintesto, per ironia o per esimersi dal dare un giudizio. Ceronetti chiama orticaria l'uso di tra virgolette', io mi chiedevo come ci si comportava prima dell'abuso di questa fastidiosissima moda: eppure per secoli ci si era espressi con chiarezza e

golette

guere dal

proprietà.

C'è, poi, queir O. A', (o okey o okay) che pare davvero un pugno nello stomaco che né Ceronetti né io riusciamo a incassare con indifferenza. È un'invasione, un'onda di piena che cresce ogni giorno, dalla quale pare che non ci sia scampo: uomini e donne lo dicono ogni momento, senza sosta alcuna. Pare che un va bene o un ancor più semplice sì stiano per sparire; del resto anche in francese accadono cose simili. Mi dicono, per esempio, che sta sparendo nella lingua parlata

il

très del superlativo,

da super, tanto che non si ode piti très beau per dire bellissimo ma super beau. Ma al linguista e forse anche al non linguista può venire la curiosità di chiedere: qual è l'origine di questo imperversante e zanzaresco O.K.l Se prendiamo i vocabolari tradizionali troviamo che O.K. sarebbe l'abbreviazione di ali correa « tutto bene ». Ma c'è anche un'altra spiegazione, cioè che si tratti delle iniziali di Old Kinderhook, nomignolo di Martin Van Buren, usato durante la campagna presidenziale del 1840. Kinderhook (New York) è la località di nascita di questo personaggio che divenne sostituito

l'ottavo presidente degli Stati Uniti (1836-1840). Tale origine compare nei dizionari americani di gergo ma anche in dizionari re-

centi della lingua

cioè alla

buona

o,

comune dove

si dice che è una voce informai con un anglismo registrato in Italia negli anni

sessanta, informale.

Fra le molte altre parole che danno noia per la loro ripetitività anche per la loro estensione a campi che non sono di loro pertinenza e' h filosofia. Questa nobilissima voce, di ascendenza

ma

24 greca e latina, è usata trivialmente per esprimere il modo di vedere le cose anche nel campo pratico, così che si sente dire filosofia di un'operazione bancaria, fiJosofia di un contratto, filosofia di un calzaturificio e simili. Nella letteratura già si possono registrare alcuni usi che fanno la spia di tale intrusione, come nell'esempio seguente di Leonardo Sinisgalli: « Una filosodell'arredamento porta di necessità a distinguere l'arte dal ». Uno scrittore di qualche anno prima avrebbe detto, invece di filosofia, teoria.

fia

mestiere

Un

altro

abuso (già abbiamo detto che

è quello che continuamente

si

fa

gli abusi danno noia) ddVsLWtrbìo praticamente che

introduce quasi come un intercalare in molte frasi che ne farebbero volentieri a meno. Quando si sente dire: Questa è praticamente una minestra, parlando di una pura e semplice minestra, o Questo è praticamente sicuro, quando si parla di una cosa senz'altro sicura o Questa è praticamente la verità, di cosa del tutto vera, viene quasi voglia di domandare scherzando: e teoricamente! Anche in questo caso è la ripetitività che dà fastidio. Se praticamente fosse usato per esprimere un dubbio o si riferisse a qualcosa di simile e non di uguale, il suo uso sarebbe tollerabile. Occorrerà, alla fine, introdurre una nota di moderato ottimismo, anche se forse non persuaderà del tutto Guido Ceronetti. Mi pare di poter dire che la valanga di cioè che appestava, è il caso di dirlo, l'italiano parlato e che io denunciai vari anni fa come uno dei più spiacevoli intercalari del linguaggio giovasi

nile (retaggio degli interminabili discorsi del '68) è in fase calante.

Oggi mi pare che i giovani delle ultime generazioni usino con molto minor frequenza quel cioè che alle volte era messo al principio di un discorso, fuori, dunque, da ogni sensata collocazione. La conclusione potrebbe essere che la lingua talora riesce a riassorbire le brutture e le deformazioni che la inquinano. E questa è pur sempre una consolazione. [S.

12.4.1986]

Terzino e Innominata

A

Pisa risulta da avvisi - ahimè - mortuari che ad uno era

il nome Notturno e ad un altro Oppresso. Un'altra ancora (non so se sia viva o morta) è stata chiamata Anarchia. A Bologna si ha notizia di nomi davvero strani. In un volumet-

stato dato

to,

pubblicato con l'aiuto di un calcolatore elettronico dieci anni

due Littoria, una Littorina, una Eja il conto, un Avanti, due Engels maschi e una femmina e, addirittura, una Scioperina. Tali nomi non si trovano in un libro che contiene i nomi degli italiani, appena uscito, dell'operosissimo e dottissimo Emidio De Felice (Dizionario dei nomi italiani, edito da Mondadori) e, penso, con ragione a causa del loro relativamente scarso numero. Del resto, scherzando, si potrebbe dire che non è mai bene dare cattivi esempi in una materia in cui la bizzarria non ha arretrato di fronte alle denominazioni più strampalate. fa, si

trovano

tre Littorio,

Alala, tre Impero, ma, per pareggiare

Sono

presi in considerazione, nell'opera di

De

Felice, oltre

18.000 nomi, e che non vi siano tutti, il primo ad essere persuaso è l'autore che si tiene, ovviamente, ad un disegno ampio, anche se preciso nei particolari, tralasciando quelle stravaganti denominazioni che pure non mancano e finiscono per far parte del folclore. Ho scritto altre volte che io conoscevo a Bologna un capitano dei bersaglieri che si chiamava Clio, nome, come si

sa,

della

Musa

della storia.

di Bologna come Leonida, ed anche il De Felice lo nota, precisando che di Leonida in Italia ce ne sono 5000 come nomi maschili e, aggiunge, anche femminili. Come nel caso di Clio maschile, la vocale -o finale ha tratto in inganno i genitori ignari, così in Leonida la finale in -a ha propiziato il passaggio al genere femminile. Del resto Andrea in inglese è nome femminile al quale fa riscontro il maschile Andrew e in Italia, se ci sono 600 Clio femminili, ci sono anche 25 Clia, forma con la quale si è normalizzato qualcosa che proprio non pareva accettabile. Il libro di De Felice, ben documentato per l'origine storica dei nomi, per la strafificazione culturale delle denominazioni, ed anche per la loro frequenza (i dati sono tratti da un'elabora-

Sei

donne figurano nell'elenco

zione elettronica dei nomi degli abbonati telefonici in si

Italia),

rivolge ad un pubblico vasto che trarrà indubbio giovamento

26

accompagnano ogni singolo lemma. Tornando, per converso, ai nomi stravaganti, ricordiamo Innominata, Reclusa e Sventurina (poveretta!), ciascuno presente con un esempio a Bologna, e, per i maschi. Tubero e Calvario (pure con un esempio ciascuno). Dicevo anni fa che, di fronte a certe trovate, non si sa se ridere o piangere. Pensiamo ai guai psicologici ai quali va incontro una creatura che è immessa nel mondo col viatico di un nome stravagante come quelli che abbiamo citato. Chiamare Terzino un bambino può forse giustificarsi come un uso derivato da Terzo (ci sono 200 Terzini in Italia) ma Mediano cos'è? Vuole indicare, in una sicura programmazione, il figlio di mezzo o è voce del linguaggio calcistico? Anche Auto, Areoplano, Radio e Termo esistono al di là dei 18.000 nomi elencati da De Felice: ma che dire di chi ha ambiguamente (e forse senza averne coscienza) chiamato un figlio Amor di fallol Non invento nulla perché l'ho trovato in un elenco telefonico in Toscana. dalle considerazioni che

L'arbitrarietà dell'imposizione del

ricordare che in una

ma

nome

è cosa vecchia. Basti

commedia di Aristofane un giovane si suo nome è presente l'elemento -ippos

chia-

« caFeidìppide e nel vallo », che era proprio dei grandi personaggi, mentre nella pri-

ma

parte

si riflette

uno

spirito di

economia, anzi di firchieria, al verbo pheidomai

proprio del padre, perché Feid- è da riferire che vuol dire « risparmiare ».

Nonostante

denominazioni che si risconpersona più frequenti sono Giuseppe per gli uomini (con 1.717.000 persone) e Maria per le donne (con 2.500.000 persone): un fatto che si ripete anche a Bologna, città dalla quale abbiamo tratto gli esempi più strani e che è pur sempre esempio della continuità di una tradizione. trano in

la folle varietà delle

Italia,

i

nomi

di

[S.

6.5.86]

Epigrammi

della

mala

GERGHI, in senso proprio (ma c'è chi estende illegittimamente parola ai linguaggi tecnici e parla di gergo dei medici o dei fisici) sorgono dalla volontà di un nucleo sociale di non farsi capire. Nel passato hanno avuto, pur nelle differenziazioni dei gruppi I

la

li hanno usati, una stabilità molto maggiore di quella che hanno oggi, almeno per quanto riguarda i gerghi della malavita. Oggi esistono molti mezzi che consentono di penetrare nel mondo chiuso di chi esercita attività illecite: intercettazioni telefoniche con

che

le relative

microspie,

autorità di polizia,

le infiltrazioni di agenti, le attenzioni delle

sempre

piti

interessate al

la necessità di variare le parole,

fenomeno. Di qui

presente in ogni gruppo che

si

vale del gergo, per continuare a fruire di un linguaggio clande-

considerando una serie di esempi recentemente da lungo tempo note: per esempio, spiritosa, che designa la rivoltella, chiamata con un altro termine, noto da tempo, osso di prostino. Tuttavia,

portati all'attenzione del pubblico, si riscontrano parole già

sciutto.

Queste due denominazioni compaiono nel prezioso libro di Ernesto Ferrerò I gerghi della malavita dal '500 ad oggi, edito da

Mondadori nel 1972; ma la rivoltella si chiama anche creatura o cavallo. Cavallo è dato da Ferrerò coi significati di « tasca dei pantaloni », « complice », « cinquecento lire » (ormai certo in disuso per il basso valore di tale moneta), « fagotto della coperta di un carcerato in trasferimento », « metodo per far uscire da una grata oggetti o biglietti che devono raggiungere un'altra cella » ma soprattutto « orologio ». D significato di « rivoltella » pare dunque dovuto a quella necessità di trasformazione linguistica alla quale abbiamo accennato. La calcosa designa la « strada » fin dal tempo del libro Nuovo modo de intender la lingua zerga (di autore anonimo), che ebbe una trentina di ristampe tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento, indice sicuro di interesse per il contenuto dell'opera che si riporta ad un ambiente universitario padovano. La più antica edizione pare quella del 1545 stampata a Ferrara.

Fu

di

moda

tempo il gergo non tanto come frutto della come gioco in ambienti colti e basterebbe a proampiamene segnalato di dragon per « dottore », col in quel

malavita quanto varlo l'uso

28

dragon del gran soprano per

« dottore in legge » con un'allusione scherzosa gustosissima. Calcosa presenta il suffisso -osa, molto frequente nelle voci gergali e basterà dire che le scarpe sono dtiit fangose le carte sfogliose (ma questo termine designa anche i biglietti di banca), balioso, con una connotazione non proprio lusinghiera, il giornale, buiosa la prigione, spinosa la barba, bramosa l'amante, dannosa la lingua. Molte voci come queste hanno un'etimologia trasparente: si tratta per lo piìi di trasposizioni di significato, molto spesso spiritose. Chi per primo ha chiamato tombola gli anni di condanna, tisica una rozza sigaretta fatta a mano, la certa la morte, aveva sicuramente molto vivo il senso della metafora. E persino il sorvegliatissimo Manzoni ammise nei Promessi Sposi una voce di gergo, morto per « somma di denaro (di provenienza piìi o meno legittima) che si tiene nascosta >% quando dice: « L'oste l'agguantò subito e corse con le mani alle tasche per vedere se c'era il morto » e: « Arrivati, trovarono effettivamente in vece del morto, la buca aperta ». Con l'uso in Manzoni (anche se ci sono attestazioni prima di lui) morto è diventato di dominio pubblico, uscendo dal segreto del gergo. Come ci sono parole che si riportano a certi ambienti, ci sono voci che appartengono a determinate regioni. Il siciliano ha, per esempio, gaddu cu la pinna (gallo con la penna) per designare ,

il

carabiniere, a Bologna

i

carcerati (e

si

ricordi qui

il

bel libro

Menarini I gerghi bolognesi, Modena, 1942) chiamano cavalcanti ì pantaloni, duomo il Monte di pietà ed anche il

di Alberto

domicilio coatto.

Lo

studio scientifico del gergo ha origini illustri in Italia: ba-

sterà dire

che fra

i

più acuti osservatori di

l'Ottocento, Graziadio liani.

Egli disse: « Ci

I.

si

Ascoli,

il

fatti

gergali c'è, nel-

più illustre dei linguisti

para dinanzi

la più strana

ita-

congerie di

figure epigrammatiche, burlesche, stravaganti, arditissime, oscene,

sacrileghe, frammiste ad altre che riflettono serio e rigoroso pensiero o

il

candore delle primitive creazioni idiomatiche

dizio che esprime perfettamente l'essenza e

il

»:

un giu-

carattere del gergo.

[S.

17.5.1986]

La

lingua

d'Omero

Giacomo Leopardi

storpiata in bocca italiana

espresse nello Zibaldone con parole indimen-

sua ammirazione per il greco di cui notò anche la capacità di indicare cose nuove. Il 15 giugno 1824 scriveva: « Tutta l'Europa e tutte le lingue hanno riconosciuto la lingua greca ticabili la

per fonte

comune

alla

quale attingere per significare esattamente

formare ed uniformare le nuove noNon per nulla Leopardi è considerato come il primo sostenitore di quelle voci che egli chiamava ed oggi continuiamo a chiamare europeismi. « Essendo adottata da tutti gli scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco... non c'è scienza, anzi neppure arte, mestiere, rettorica, grammatica, ecc. che non sia piena di greco »: sono anche queste parole le

nuove cose, per

istabilire,

menclature d'ogni genere

».

di Leopardi.

quanto mai ricettiva, tanto che uno studioso lingua mista », fu in gran parte tramite del greco e della sua civiltà a Roma, nell'Impero romano e poi nel mondo medioevale che il greco conosceva poco (Dante non lo sapeva) e nel mondo moderno, a partire dal Rinascimento. È di buon auspicio che, accanto a studi accademici che non raggiungono il grande pubblico se non per mezzo dei vocabolari etimologici, finalmente, anche l'Italia possieda il volume di Pietro Janni // nostro greco quotidiano, edito da Laterza, che è mosso da due pensieri fondamentali: quanto poco « greche » siano gran parte delle parole e delle espressioni che passano per tali; e quanto vengano appiattite le voci di origine dotta che si diffondono oggi per mezzo delle comunicazioni di massa. Quando si parla, per esempio, di androide nella fantascienza, si dimentica che anér in greco significa l'uomo come maschio perché quando l'uomo è visto come essere umano in contrapposizione agli ammali o agli dei, il greco diceva ànthropos. Pietro Janni dà molti esempi come questo e studia con impegno la storia delle parole. Nel nostro caso è forse da dire che chi, in tempi moderni, usa androide non può ricorrere ad antropoide perché, come diciamo noi linguisti, il termine è occupato e significa un'altra cosa. Lo Janni nota che né gli autori (almeno Arturo Graf, Giovanni Papini e Leonardo Sinisgalli) né i dizionari comuni segnalano l'improprietà della derivazione di Il

latino, lingua

tedesco lo chiamò

androide.

«

.

30 L'esempio che abbiamo dato è

tipico:

non diciamo emblema-

perché l'Autore ci mette in guardia sull'uso improprio di questa parola in quanto in greco emblema indicava qualcosa che

tico

messa dentro, come un innesto, e perfino una soletta di scarPassando in latino la voce assunse il significato di ornamento, decorazione con figure, mosaico ed entrò in Europa nel Cinquecento; poco dopo faceva la sua comparsa in ita-

è

pa.

liano.

Janni - professore di greco - verifica l'uso di un certo numero di grecismi in italiano e nelle lingue da cui l'italiano ha attin-

La sua indagine, qualche volta severa, è diversa da quella che potrebbe fare un linguista: non che egli abbia torto, ma il linguista è così abituato a vedere mutamenti d'uso e fraintendimenti che non si scandalizza piti e si limita a studiare i fenomeni e le ragioni del cambiamento. Janni, per esempio, ha ragione di dire che carisma e carismatico sono usati con una estensione impensabile e al di fuori del senso originario presente nella Sacra Scrittura (un illustre autore di cronache cinematografiche ha scritto che un'attrice ha « la bocca piti carismatica di Hollywood »); ma qui c'è da biasimare, piti che l'uso improprio, lo sbracato ecces-

to.

so dell'impiego del termine.

Colpiranno certamente i lettori le argomentazioni dello Janni per mostrarci che parole come cinofilo, francofilo e bocciofilo sono esempi di « grecoide », di greco fatto in casa, perché in greco nei composti yì/o- con valore verbale precede e non segue (e prova ne h filosofo), sicché bibliofilo avrebbe avuto un miglior conio se fosse stato dtiio fllobiblo come scriveva Baretti. Bisogna però tener presente che le parole formate con elemend greci non si sono mai proposte di dar vita a parole greche, ma moderne con elementi greci. Così accade che in greco moderno si abbia

che biblióphilos Per finire, una nota marginale. Lo Janni parlando di panfilo, voce d'origine greca, e di barca dice di quest'ultima che « alcuni credono erroneamente ad un understatement snobistico » e rinvia ad un mio passo. Ora io penso che barca sia troppo generico perché designa sia quella che trasporta Lucia sul lago sia quella sfarzosissima e costosissima che ordinano certi principi arabi ai canderi di Viareggio. Per quest'uUimo tipo di imbarcazioni ci sono due soluzioni: o si dice panfilo, presentato come una prescrizione del fascismo per mezzo dell'Accademia d'Italia ma già presente nel Vocabolario del Guglielmotd (1889), oppure si usa sia philóbiblos

31 yacht. In fondo, se c'è una amnistia per chi delinque, ci potreb-

be essere un'amnistia per panfilo, voce di origine greca, usata da Riccardo Bacchelli e presente in tutti i vocabolari italiani. [S.

Tuttolihri 14.6.1986]

Notizie dagli esami

Ci risiamo (e l'interesse a me pare eccessivo, soprattutto se lo confrontiamo con l'incapacità degli uomini politici di dare ai giovani un esame

serio e valido) con le notizie televisive e giorprove di maturità. Siamo arrivati al punto che alcuni grandi nomi della cultura nazionale (bontà loro) hanno proposto e svolto su un grande quotidiano componimenti di italiano su argomenti che a loro parevano eccellenti, di attualità, naturalmente, su Cernobil, su Pirandello e - immancabilmente - sul quarantennale della nostra Repubblica. Naturalmente - ed è stato, tutto sommato, molto giusto - i temi ministeriali non hanno corrisposto alle attese. Di qui le accorate notizie: i temi assegnati non si inquadrano nelle aspettative della vigilia, come se i temi debbano collimare con le intenzioni di chi si presenta alla maturità. Qualche verità, tuttavia, viene fuori dai commenti. Se è vero che molti giovani hanno giudicato i temi proposti facili a una prima lettura ma difficili da svolgere, credo che abbiano fatto una critica sagace. Ricordo che quel grande critico letterario che fu Attilio Momigliano diceva che i temi dovevano essere proposti in forma semplice perché è il modo di svolgimento ciò che conta per valutare la preparazione di un candidato. Per lui l'alunno non doveva perdere la testa a interpretare parole difficili o significati reconditi ma doveva essere messo in condizione di scrivere su un argomento chiaro e di ampio orizzonte; e quell'anno propose il tema: « La prima ottava dell'Orlando Furioso in relazione con l'argomento del poema ». Mi par di vedere le facce degli alunni di oggi e anche quelle degli esaminatori di fronte a un tema come quello. Allora i classici si leggevano e nessuno dei candidati poteva dire di essere piti

nalistiche sulle

a corto di argomenti. Si trattava di scrivere nel to possibile perché la materia esisteva e

Ecco perché

il

primo dei temi proposti a

modo

piti

corret-

non lasciava dubbi. tutti

quest'anno, quello

riguardante la parola scritta rispetto alla pluralità delle forme espressive del nostro tempo, avrebbe guadagnato in chiarezza se

proposto in forma interrogativa per sapere attrasi è imparato ad apprezzare la parola scritta, acquistando il gusto della lettura e raggiungendo la comprensione dell'opera letteraria. Insomma, se si fosse detto che la parola

non fosse

stato

verso quali esperienze

scritta

oggi è insidiata dai mezzi di comunicazione di massa e

33 si sarebbe trovato piti a suo agio. Dire che attraverso un romanzo sceneggiato si è portati a leggere l'opera mi pare pretendere troppo. Non si deve dimenticare l'appello degli scienziati americani in favore degli studi umanistici perché sono pochi i giovani che sappiano esprimere se stessi in un linguaggio decente. Il secondo tema è discutibile. È vero che la poesia del nostro

dal linguaggio dei calcolatori, l'alunno

secolo è essenzialmente lirica e che poco indulge

ma

me

al «

narrativo »?

potrebbe sostenere il contrario per molti e molti poeti. Il terzo, su accentramento e decentramento nella valutazione della destra storica, va al di là delle nozioni dei ragazzi che si presentano oggi alla maturità. Ma forse qualcuno dirà che queste mie considerazioni sono quelle di uno che la maturità l'ha sostenuta - da privatista, si noti - molto tempo fa e che non costituisce un valido precedente. Il che non esclude, tuttavia, la sicura consapevolezza che di giovani di valore ce ne sono tanti: e sono loro che spesso impongono agli insegnanti un rigore che alla fme degli anni sessanta e in quelli settanta era andato, purtroppo, del tutto perduto. Tanto è vero che l'ignoranza non ha mai pagato. Sarà,

a

pare che

si

[S.

21.6.1986]

//

per essere moderni

latino

ma non sono d'accordo con greco nell'insegnamento dei licei classici (si veda il suo articolo sul Corriere della Sera del 2 luglio scorso). È ben vero che su 28 ore settimanali i ragazzi ne dedicano almeno dieci alle lingue classiche e che leggono i classici solo nei brevi brani dei libri di esercizi. È anche probabile che tali classici non saranno mai più letti da loro nella vita. Questi cinque anni di studi sarebbero, perciò, inutili. Sono d'accordo con Citati quando dice che si è diffuso il pregiudizio che studiando greco e latino si ottenga una forma mentale privilegiata. Già Robert Browning, se non mi sbaglio, diceva che se si studia il greco si impara il greco ma se si è stupidi, tali si rimane. Però, anche ammesso che studiando altre discipline si possano capire le cose con uguale larghezza e precisione, è anche vero che ci sono altre ragioni per non abbandonare lo studio delle lingue classiche. Secondo Citati, « basta leggere gli scritti della maggior parte degli studiosi di letteratura e di storia classiche per rendersi conto che scrivono male ». A me pare, però, che Manara Valgimigli, Giorgio Pasquali, Concetto Marchesi ed anche Sono un lui sul

estimatore di Pietro Citati

valore da dare

al latino e al

molti classicisti viventi scrivano un buon italiano.

Non

è

il

caso,

mi

pare, di chiamare in causa «

allocuzioni che durano sei giorni,

tenze di tremila pagine o

i

i

gU avvocati

delle

magistrati che scrivono sen-

politici piìi tenebrosi e perplessi co-

me Aldo Moro,

che impongono ai loro partiti discorsi di otto ore » per concludere sull'inutilità dello studio delle lingue classiche. A tale modo di ragionare si potrebbe opporre che Einstein, Oppenheimer (che leggeva con facilità anche il sanscrito) e Fer-

mi hanno

Un

fatto studi classici.

punto in cui sono - solo inizialmente - d'accordo con Pietro Citati è quando dice che l'insegnamento del greco e del latino va riformato; ma i suoi rimedi (drastica riduzione dello studio grammaticale ed uso di traduzioni fedeli col testo a fronte) non mi sembrano accettabili. Una « semplice idea generale delle forme linguistiche greche e latine » non consente, a mio parere, « il piacere di risalire da una fedele traduzione al testo altro

originale

».

Perché non pensare a un miglioramento dell'insegnamento delle lingue classiche e ad un metodo che si dimostri migliore di quel-

35 del passato? Sono d'accordo sul fatto che uno studente del liceo classico debba leggere molto di più i testi (ma Citati dice:« Almeno quattro libri ddV Odissea, due di Erodoto, una tragedia di Eschilo, Sofocle e Euripide, tre o quattro dialoghi di Platone, ii

una commedia

di Aristofane,

un

testo di Aristotele,

il

Vangelo

di Giovanni, Catullo, due libri di Tacito, l'ultimo libro delle

Me-

Confessioni di Sant'Agosti-

tamorfosi di Apuleio, no »: e questo pare davvero troppo). Sfido io che col programtre libri delle

ma

proposto diventano necessarie

le traduzioni.

Io sono invece d'avviso che l'insegnamento del latino e del gre-

co debba essere storicizzato e che debba fondarsi su una conoscenza grammaticale e strutturale molto migliore di quella che si ha oggi per aprire agli studenti la via della lettura. È questione soprattutto di insegnanti che dovrebbero occuparsi di storia delle due lingue, dei diversi livelli di espressione (ricordo quanto miei studenti della Scuola Normale di Pisa si interessavano i alla lettura di Plauto, di Petronio o della Peregrinano Aetheriae). Studiare l'influenza che il greco ha avuto nella storia del latino, o la funzione essenziale del latino nella nascita e nello sviluppo delle lingue romanze e in particolare dell'italiano che, senza il latino, non si capisce nei suoi strati e nella sua struttura, dovrebbero essere punti tenuti ben presenti nello studio delle lingue classiche.

So anch'io che certi scrittori anche buoni si sono formati senza una conoscenza approfondita del latino e del greco, ma questa è un'altra questione. Quando Citati dice che « le forme del nostro stile sono quelle che sono state foggiate allora; e se vogliamo cercare di essere moderni, se vogliamo tenere il passo la scienza contemporanea, dobbiamo tentare di essere disperatamente epigoni di un greco morto ventiquattro secoli fa » ha perfettamente ragione. Ma, a mio avviso, per ottenere questo, bisogna conoscere la lingua e imparare a usare con cautela le traduzioni. Quanto a quello che ci resta dell'insegnamento liceale, vorrei domandare che cosa ci si ricorda, se non si sono fatti studi scientifici, di matematica, di fisica o di scienze naturali. L'organizzazione del pensiero e la capacità di giudizio sono debitrici verso molti stimoli che si sono poi offuscati nella nostra purtroppo labile memoria.

con

[5.

10.7.1986]

latino sopravvissuto ai barbari

//

Tutti sanno che

in Italia ci

sono

state le invasioni barbariche:

Goti cedettero ai Longobardi nel 555 e questi, con Desiderio, furono battuti dal re dei Franchi Carlo Magno nell'anno 774. La tragedia manzoniana Adelchi, con la dolce Ermengarda, è una i

delle

memorie

liceali degli italiani,

almeno

di

una certa

età.

Una domanda che

spesso si sono posta gli storici, specialmente, anche se non esclusivamente, nel Risorgimento, è se, in molti secoli di dominazione, le popolazioni germaniche abbiano o lasciato un segno cospicuo nella nostra lingua. Carlo Cattaneo, morto nel 1869, sostenne che i Germani in Italia erano presenti in numero molto limitato e che, perciò, la loro influenza linguistica è stata modesta. Carlo Cipolla, alla fine del secolo scorso, sostenne la stessa tesi. I linguisti Clemente Merlo (scomparso nel 1960) e Giuliano Bonfante, che continua la sua attività con molto impegno, hanno ripreso la questione in tempi più recenti. Il primo, trattando soprattutto le voci di origine longobarda, notò che la maggior parte di esse si riferisce alla campagna, alla stalla, a un ambiente povero e umile. Così stamberga è la denominazione in origine della casa rurale, venuta poi a significare « casa o stanza dove è appena possibile abitare »; balco « fienile »; scuro « chiusura di finestra » (presente anche nel veneziano, in piemontese, lombardo, emilianoromagnolo ecc.), balcone, panca, scranna, scaffale, da scaffa « palchetto », pèccheri « bicchieri grandi », basoffia o bazzoffia « minestra grossolana », brandonali « alari », brunigia « cinigia », slitta, schifo « piccola barca », sono tutte parole longobarde. Voci che si riferivano all'ordinamento sociale longobardo assunsero in Italia valore spregiativo: sguattero viene da una parola che significava « guardiano, custode », sgherro da una che voleva dire « capitano, capo », manigoldo risale ad un'altra che in origine designava il « tutore ». Alcune sono di notevole importanza come le voci franche guardare, guerra, guanto. Una distinzione fra le parole di origine germanica non è sempre facile da compiere ma un criterio da considerare è che le voci con iniziale p sono longobarde, con b sono franche: panca è di origine longobarda, banca di origine franca. Ad ogni modo, riferendoci ai vari strati germanici, di origine gotica sem-

no

37 brano essere tresca, grinta, rubare, astio, albergo; longobarde sono zazzera, zanna, melma, zuffa; franche schernire e, con mediazione francese, agguato e onta. L'incertezza di una precisa localizzazione induce spesso a indicare come genericamente germaniche parole che, per il loro inserimento precoce nel latino tardo o per altre valide ragioni, non si possono qualificare con maggior esattezza. Ma ci sono studi che tendono a precisare le diverse situazioni. Per esempio, l'aggettivo bianco è probabilmente franco per la sua collocazione geografica in Italia e in Francia (lo spagnolo bianco e il portoghese branco sono dei prestiti) ed è questo il territorio dove franco è anche l'aggettivo bruno. i Franchi si stanziarono; Molte parole, come si è visto, sembrano riferirsi alla rissa o alla guerra.

Le popolazioni germaniche hanno lasciato un bel numero di nomi di luogo: Coito, Marengo, Rovigo sono di origine gotica; la Lombardia è la regione dei Longobardi e parimenti longobarde sono Olgiate, Stàffoli e Fara. Nomi di persona germanici sono Arnaldo, Bernardo, Corrado, Cherardo, Cuglielmo, Rinaldo, Ruggero, Ugo, Roberto, Rodolfo, Alberto, Arrigo (con Enrico), Carlo, Edmondo, Federico, Lamberto, Leopoldo, Ludovico e Guido. Come si vede, nell'insieme, le lingue germaniche hanno lasciato una traccia nell'italiano ma non cosi importante come ci si potrebbe aspettare. L'elemento latino ha mantenuto le sue caratteristiche ed è rimasto ben saldo nella sua sostanza. [DCorr. 5.11.1987]

prodigio delle mani

//

Pensando alle mani, la prima immagine che viene alla mente è quella di Michelangelo nella Cappella Sistina in cui le due mani, quella del Creatore e quella della creatura, sono vicine, ma già un

atto di separazione, quasi ad alludere, più che ad un saluad una esortazione ad operare, ormai, in modo personale e responsabile. La storia ha poi fatto vedere che l'uomo ha operain

to,

to,

sì,

in

modo

personale,

ma non sempre

responsabile.

Gli archeologi potrebbero dirci quante altre volte le mani han-

no avuto un significato ben preciso

nell'antichità. Io

mi

limito

a ricordare un frammento di scultura egiziana di due mani sovrapposte quasi a suggellare un patto di amicizia o di amore. Le vidi nel 1935 al

Museo

di Berlino e

fidanzata (allora c'erano anche

i

ne portai una copia alla mia che diventò

fidanzati), a quella

mia moglie. La mano è certamente una delle parti piìi espressive dell'essere umano e come tale è sempre stata considerata in molte civiltà e certamente nella civiltà indoeuropea alla quale apparteniamo. Quando parlo di civiltà indoeuropea alludo a quella

che è espressa da una famiglia della quale fanno parte gior e

il

numero latino,

il

il

mag-

delle lingue dell'India e dell'Iran, dei popoli slavi

greco, le lingue germaniche, in una serie che va,

nei continuatori moderni, dall' Adantico fino ai confini orientali dell'India.

come acutamente grande linguista francese Antoine Meillet, nomi appartenenti al genere animato da quelli appartenenti al genere inanimato: in termini più facilmente comprensibili, il genere animato è rappresentato dal maschile e dal femminile, l'inanimato dal genere neutro. I progenitori indoeuropei, per designare organi che a loro parevano attivi o ricchi di capacità propria di agire, usavano parole di genere animato (maschile e femminile) e per gli organi che non sembravano tali, il neutro. Così il fegato era di genere neutro ed altrettanto si dica del femore (chi ha studiato un po' di latino sa cosa io voglia dire). Ebbene, la mano è, in tutte le lingue indoeuropee, dal sanscrito al latino, dallo slavo al greco, al tedesco, di genere animato e precisamente femminile. E questo nonostante che nelle varie lingue il nome della mano varii e non Ebbene,

osservava

in queste lingue si distinguevano,

il

39 si

riscontri mai,

come avviene per

nome

il

di altri organi, un'i-

dentità formale delle singole denominazioni. Basterà ricordare latino

manus,

rykà:

tutti

il

greco cheir,

termini diversi,

il

ma

il

tedesco e l'inglese hand, il russo tutti animati, tutti femminili. Da

da ricavare una conseguenza del tutto naturale: la mano è sempre stata vista come un organo vivo, attivo, dotato di una capacità di azione autonoma, quasi di un organo che agisce da sé. Anche il piede è di genere animato (maschile) ma i nomi che lo rappresentano hanno una stessa radice da un capo all'altro del dominio indoeuropeo: in latino, in greco, in sanscrito, in armeno, si risale sempre alla stessa radice: ped. Questo aver conservato una radice senza alcuna innovazione è tutto il contrario di quello che è avvenuto per la mano in cui sembra che ogni lingua abbia voluto imprimere la sua originalità creando una voce nuova, quasi a segnare l'unicità della parola, simbolo e strumento tutto ciò pare

che

sia

principale della creatività

umana,

rispetto alla ripetitività dell'o-

perazione del camminare, propria di individualizzata

come

il

fare della

espressione dalla danza alla carezza, la

tutti gli

mano, al

uomini e non così

nelle sue varietà di

lavoro dell'artigiano,

al-

creazione dell'opera d'arte. In latino la

mano

era

il

simbolo della forza e dell'autorità

del marito sulla donna, del padre sulla famiglia e strumento di

Chi conosce il diritto romano sa in quante compare la mano. Manus in latino compare nel linguaggio militare ed è sinonimo di « forza », « truppa » e significa anche « opera artistica ». Prima ed ultima mano erano già espressioni latine. Ma c'è di più. Il nome della mano serve ad indicare il carattere di chi scrive e lo stile di un lotta e di lavoro.

espressioni giuridiche

artista.

In Virgilio,

quando Enea arriva a Cartagine e osserva, raffiDidone sta costruendo, i fatti di Troia, si

gurati nel tempio che dice: «

Ammira

tra sé

quale sia la fortuna della

opere Ebbene, le

città delle

degli artefici e la fatica che costano le loro opere

».

opere degli artisti che hanno istoriato il tempio sono espresse dalla parola manus che nella traduzione si perde. Non c'è da meravigliarsi che questi significati si trovino in italiano dove, anzi, si hanno anche altri valori per estensione e figuratamente. Così è della mano nelle richieste di matrimonio (in uso dal Cinquecento) e nel significato di « tinta di vernice » che ci conduce ad un'operazione artigianale di larghissimo uso. Tale valore comincia

40 Trecento e

Quattrocento con quel Cennino Cen-

in italiano fra

il

nini che è

nostro primo teorico dell'arte.

il

il

Fin dalle origini della nostra letteratura

il

riferimento all'arte

è non solo presente ma rigoglioso. Nel Ritmo di Sant'Alessio del principio del Duecento si legge: « Et era figura in illa domo (duomo, chiesa) che non era fatta per mano de homo ». L'osserva-

zione di quanto avviene in altre lingue più. In greco, e di qui l'avrà presa

usata per esprimere

« l'atto »

va cheir col significato di di Sofocle

legge: «

si

o

«

« fatto »

il

il

ci

fatto ».

opposto a

La mano vede

La mano si trova ad esprimere, manuale. La prima attestazione in

sorprende ancora di

mano è neW Iliade si tro-

latino, la parola

Già «

parola

».

NcW Aiace

ciò che è da fare

nell'attività pratica,

il

».

lavoro

italiano pare collocarsi tra

il

xv ed è del beato Giovanni Dominici in un'opera chiamata Regola del governo di cura familiare in cui si legge: « Tu lavori e mangi il guadagno delle mani tue ». Nell'Ottocento compare il conflitto del lavoro manuale con quello intellettuale che non era presente prima, quando il lavoro delle mani era secolo XIV e

il

tenuto in così alta considerazione da essere usato,

mo È

come

abbia-

per l'opera dell'artista o addirittura per l'artista stesso. un avvelenato frutto della lotta di classe la contrapposizione

visto,

del lavoro delle

mani a quello

della mente; la parola

mano perde

così la sua nobiltà, quella nobiltà che aveva persino portato alla

considerazione della mano come indice o spia del carattere dell'uomo e della sua sorte nella chiromanzia. Che l'osservazione della mano sia antica è dimostrato dalle notazioni fatte da Aristotele sul numero e la lunghezza delle linee della mano in rapporto alla longevità.

La fortuna

della chiromanzia, rimasta intatta presso alcuni

am-

ebbe fortuna nel Rinascimento, poi decadde, poi ancora risorse nel secolo scorso e in questo. Resta il fatto che la mano presenta una grande varietà di segni, quei segni che nella dattiloscopia hanno notevole rilievo nell'individuazione delle persone. Le dita di una mano sono, come si sa, un mezzo importantissimo per il riconoscimento di ogni individuo. Nell'arte e nell'artigianato le mani sono sempre il mezzo che trasmette la forma, che in qualche modo la crea. Anche in questo mondo industrializzato dove tutto pare dipendere dalla macchina, nelle sapienti mani degli artigiani risiede un'attività creatrice che, come tale, è eterna. Essere homo faber è così proprio bienti sociali,

41

umana che l'attività manuale di alto livello talvolta perde neppure in chi abbia disturbi mentali e sembra non dare possibilità di giudicare fin dove opera la mente e dove agidella natura

non

si

sce meccanicamente la mano.

[S.

12.8.1986]

Tutti

vocaboli purché d'autore

i

y

È UNA gradevole consuetudine registrare l'uscita di un nuovo volume del Grande Dizionario della lingua italiana che porta ancora

il

nome

sa del

di Salvatore Battaglia

primo autore,

la

benché, ormai, dalla scompar-

direzione scientifica sia di Giorgio Bàr-

una quindicina di redattori. Editricasa torinese Utet che continua con coraggio l'impresa che dà l'impressione di ampliarsi nel tempo. In verità questo tredicesimo volume, che va da perfallare a pozzura corrisponde a beri Squarotti, coadiuvato da

ce è

sole

la

78 pagine dello Zingarelli e comprende

la

bellezza di 1149

pagine.

Credo che a nessuno dispiaccia che la documentazione diventi sempre più ricca. La sola preoccupazione, diffusa un po' in tutvorrebbe la più prossima possi protraggono nel tempo e non si possono in alcun modo confezionare velocemente. Il materiale è sterminato. A riprova, le due voci che ho citato come la prima e l'ultima di questo volume, perfallare e pozzura, non sono registrate nel pur ricchissimo Zingarelli. Si tratta di parole disusate ma un vocabolario come questo non può ignorarle. A onor del vero, Zingarelli ha puzzura, voce alla quale il Battaglia rimanda e che significa « puzzo ». L'altra, quella iniziale, perfallare, è tratta da un'opera anfica ti,

è la data finale dell'opera che

sibile:

ma

i

pubblicata nel 1979:

ne

«

'1

meno

meo »,

si

vocabolari sono lavori che

I

volume

degli Studi di lessicografia italiana del / né mai da lei perfalla », cioè « viecomposto dì fallare. Facciamo questa

cor non parte

trattandosi di

citazione che potrebbe apparire frutto di civetteria per mostrare

quanto accurati siano gli spogli redazionali che non trascurano, come è del resto doveroso, testi pubblicati in riviste specializzate ed in tempi così recenti accanto a voci tratte da quotidiani degli ultimissimi anni. Questo pregio può procurare qualche squilibrio rispetto ai primi volumi ma la cosa pare inevitabile in considerazione dei tempi tecnici di lavorazione. Un grave problema per ogni dizionario della hngua, specialmente oggi, è il grado di accettazione delle parole scientifiche o del mondo naturalistico. Per esempio, fra pimantrene e pimelosi il Grande Dizionario comprende tredici vocaboli scientifici mentre lo Zingarelli che ha, naturalmente, altri fini ma non arretra di fronte alle voci scientifiche, ne ha tre. Si ha qui un'ulte-

43 riore to,

prova dell'ampiezza del materiale accolto dal Battaglia. Cer-

un vocabolario moderno tende sempre più a diventare anche

enciclopedia e su questo punto

si

potrebbe discutere a lungo.

Grande Dizionario verso le parole straniere è rigoroso: qui non si troverà né personal computer, né petit-four, né petit-gris népetting, né photofinish, néphysique du róle, né pick-up, né pied-de-poule tutti presenti nello Zingarelli. C'èpierrot, ma rappresentato dapierrò, con esempi di D'Annunzio e Ojetti, così come piedaterra rappresenta piedà-terre ed è riesumato dal Petrocchi; e c'è ping-pong, con esempi di Marino Moretti, CE. Gadda, Eugenio Montale, Carlo Cassola, Pier Paolo Pasolini. Insomma, l'atteggiamento verso le parole straniere è di rigida esclusione nel Grande Dizionario, a meno che non si sia verificato un processo di italianizzazione: scelta Tuttavia, l'atteggiamento del

,

,

drastica che parrà a molti severa.

gusto di leggere un vocabolario è grande e questo piacere prova leggendo il Battaglia come in nessun altro vocabolario italiano in quanto le citazioni degli autori, al di là della classificazione del materiale che a volte pare un po' ampia nelle suddivisioni di senso, illuminano la lettura. Anche il Tommaseo-Bellini e la Crusca (fermata, nell'ultima edizione, alla lettera O) presentano esempi d'autore, ma ormai queste opere sono troppo Il

si

antiche.

È nota la storielche racconta di una donna su un autobus che a uno che le domandava se scendeva alla prossima fermata rispose: « No, io perseguito », per significare, ovviamente, che proseguiva. Ebbene, che gusto nel trovare alla voct perseguitare del Grande Dizionario il seguente passo di un volgarizzamento trecentesco della Bibbia:« Perché volestù {volesti tu) fuggire, ch'io non lo Si fanno, poi, leggendo, scoperte divertenti.

la livornese

sapessi e

non

me

'1

dicesti, acciò ch'io perseguitassi

con

alle-

grezza e con cantici e timpani e ceteri? {cetre) ». Una voce con un valore oggi desueto in un testo di tanfi secoli fa rinasce in

modo autonomo

nella parola della popolana incolta di Livorno dà l'impressione, sia pure fugace, che un filo misterioso tenga unifi fenomeni disparati della nostra lingua.

ma

[5.

20.8.1986]

Quando

il

diavolo sposta Vaccento

Edoardo Sanguineti,

in un articolo sul quotidiano // Lavoro, 20 settembre, ha scritto: « A smentirli in blocco (i quotidiani e settimanali che hanno raccolto dichiarazioni entusiastiche su un libro di motti latini che sta avendo un grande successo editoriale) non c'è nemmeno da ricorrere agli errori di Pippo Baudo che

del

dice cavea per càvea e di Enrica Bonaccorti che dice puncti dolens

come ha

fatto

del 14 settembre

con sacro zelo Tristano Bolelli

sulla

Stampa

».

Avevo già detto che Baudo l'avevo sentito personalmente ma che per Enrica Bonaccorti avevo avuto notizia da altri. Ora preciso che la notizia era sul settimanale Panorama. La sacralità dello zelo è, dunque, da condividere con altri e fra questi aggiungo Beniamino Placido che mi approva (e lo ringrazio) sulla Repubblica del 1° ottobre.

Ma la tipografia ha giocato un gran brutto tiro al Sanguineti, perché poco dopo si legge nel suo articolo che il plurale di punctum dolens è punctia dolentia. Attribuisco lo sproposito latino (semmai si dice puncta dolentia) al proto perché pare poco verosimile che un uomo dotto come Sanguineti, dissertando di latino, il latino non lo sappia. Chissà che anche lui non si persuada dell'esistenza del diavolo che, almeno in questo caso, ha messo lo zampino o la coda, a seconda di come si presenti nelle sue multiformi presenze. Della presenza del diavolo si hanno almeno indizi se si considerano le opere a stampa, quasi a punizione di chi vuole insegnare qualcosa agli altri. È il caso dello scrittore di opere linguistiche che scrisse Derselbe (che in tedesco significa « lo stesso » e veniva dopo l'indicazione di opere dello stesso autore) credendolo un cognome, e di quell'altro che citò un von Cuny avendo letto in una sua fonte v. Cuny (nome di un celebre linguista), che voleva dire « vedi Cuny ».

E non

è

forse

ispirazione

di

un diavoletto quel qui ac-

che figura (almeno così pare nelle fotografie pubblicate dai giornali) nella lapide affissa in un palazzo di Palermo dedicata ad un magistrato ucciso, di cui hanno parlatoi giornali perché i condòmini non avevano nessuna voglia che il fatto fosse ricordato sulla facciata della loro abitazione? Una delle prime raccomandazioni delle maestre ai centato

45 bambini delle classi elementari è che qui si scrive senza accento. Io ho conosciuto un celebre accademico che premetteva alla data un lì con tanto di accento trascurando il fatto che // è l'articolo determinativo maschile di terza persona plurale e vale / o gli. E l'accento? Si trattava forse di uno svolazzo dannunziano caro a quell'uomo, peraltro molto dotto, perché non posso pensare che egli lo scambiasse con li, avverbio di luogo. Che il conduttore di una rubrica televisiva abbia detto dialogai (in greco significa « dialoghi », parlando di dialogai sarà da attribuire piìi che ad un lapsus ad ignoranza del greco. Ma a notare questi equivoci (ed io lo faccio senza alcun sadismo ma col solo fine di aiutare a non spropositare), mi sono guadagnato l'epiteto di purista da parte di un giovane linguista che si ritiene molto avanzato e moderno. Se il purismo, secondo la definizione del Vocabolario di De Felice-Duro è « Teoria, dottrina o corrente linguistica e letteraria che rifiuta e condanna con un conservatorismo e un tradizionalismo intransigente l'adozione e l'uso, nella lingua letteraria colta nazionale, di parole ed espressioni, forme e pronunzie straniere, dialettali e regionali, o comunque nuove e non avvalorate da lunga e autorevole tradizione », ebbene, io non sono un purista, vaccinato come sono dalla pratica comparatistica di molte lingue e dialetti.

Fra

i

molti esempi che posso dare è che non ho esitato a usare

l'aggettivo sgarbellato, di chiara origine dialettale, col valore di «

privo di garbatezza

»,

quando non era

registrato

da alcun vo-

cabolario della lingua; che ho adoperato spreciso, che non è

ri-

portato in nessun lessico e che con piacere ho visto usato in una

prosa di quel fine francesista che fu Carlo Pellegrini. È un fatto che a chi nota sfondoni, a chi si sforza di richiamare ad un uso piti cristiano della lingua viene dato, con connotazione poco lusinghiera, l'epiteto di purista.

Ma come si fa a tacere quando un giornalista della Rai, commentando dichiarazioni del partito radicale, dice al Tg2 verso le 20,50 del 1° ottobre, che « violano certi principi »? Non è vero che il volgo vuole essere ingannato (non lo dico in latino, anche se le citazioni classiche sono tornate di moda), almeno nei fatti linguistici. [5.

7.10.1986]

La faida

delle lingue

Il Belgio, pur così progredito e civile, è affetto

da una piaga grasuo bilinguismo. Già in passato, in comunità di lingua fiamminga, se un prete in chiesa si permetteva di predicare in francese, succedevano cose poco evangeliche come botte da orbi, panche rovesciate, trambusti orrendi e probabilmente sarebbe accaduto lo stesso in una situazione specularmente vissima che è

il

inversa.

Ora

legge che un sindaco della zona di lingua francese, rifiammingo e dichiarando di non volerlo imparare, è stato destituito dal Consiglio di Stato, ma le consesi

fiutandosi di parlare in

governo pare che siano gravissime. A tanto arriva una sorta di fanatismo culturale che impone ai pubblici ufficiali di sapere le due lingue dello Stato belga. Tale situazione di assurda intolleranza era deplorata in una conversazione che ebbi alcuni anni fa, con un illustre personaggio belga, rettore di una celebre

guenze

sul

università.

La gue

città stessa di

ma con

Bruxelles, situata in zona fiamminga bilin-

prevalenza francofona, è l'emblema del disagio che

scoppia molto frequentemente nella politica del governo belga Che questo possa avvenire in uno Stato così decisamente europeistico come il Belgio è certamente una contraddizione ma non bisogna dimenticare che al fondo del problema linguistico c'è un indubbio disagio che ope all'interno degli stessi partiti politici.

pone due

culture.

L'elemento francofono che, nei suoi

scrittori,

tende sempre

piìi,

negli ultimi tempi, a integrarsi nella letteratura francese dalla quale

era abbastanza staccato per un suo peculiare regionalismo, sente

che

il

francese, al di là della sua tradizione gloriosa, è pur sem-

pre, se

non

la

lingua di cultura per eccellenza

cento e nell'Ottocento, una delle lingue

piti

come

nel Sette-

note nel mondo. L'e-

lemento fiammingo, la cui letteratura, uscita anch'essa da esperienze provinciali, ha fornito modernissime forme di espressione, scrive in una lingua che non va piti in là dell'Olanda e deve necessariamente orientarsi verso una seconda lingua se vuole farsi conoscere nel mondo. Certo, è facile dire che i fiamminghi usino il fiammingo e i valloni il francese ma la situazione, anche perché sono implicati problemi scolastici ed economici, questioni di convivenza, rap-

47 da un dissidio che è quotidiano e scoppia in crisi ricorrenti come questa, provocata da un sindaco al quale si vuole imporre di imparare una lingua che egli non vuole affatto studiare. porti di tolleranza, è minata

I

belgi sono nominati all'inizio del

De

Bello Gallico per primi

Ebbene, nell'immensa conleggi romane, non se ne trova nemmeno una che im-

nella suddivisione dei popoli gallici.

gerie di

ponga ai popoli sottomessi l'uso non valga proprio per niente per

del latino. i

Che

questa lezione

belgi e, in generale, per noi

europei, così pronti a riempirci la bocca del

nome d'Europa

e

di unità europea?

[S.

18.10.1986]

Per

tutti

i

diavoli

Del

diavolo e delle sue caratteristiche negli ultimi tempi si è parabbondantemente. L'iconografia è sterminata a riprova della popolarità del grande nemico che, pur essendo così stupido da andare a tentare nientemeno che Gesù Cristo, è poi capace lato

di astuzie raffinate, di inganni sopraffini, di intrusioni indebite

e maligne.

Può, però, venire

la curiosità di

nei dialetti italiani, al di là del

sapere

nome, per

come

viene chiamato

così dire ufficiale, che

è la continuazione del latino diabolus, voce entrata nel latino cri-

dove aveva il valore originario di « calunniatodemonio, presente anche questo nel latino tardo daemonium, anch'esso dal greco in cui aveva il significato stiano dal greco

re », affiancandosi a

forza divina del

demone

intendendo demone

antico di

«

divinità,

con molto imbarazzo dei primi

»,

come

scrittori cristiani tanto

che daemonium in Tertulliano si trova col duplice significato di « piccolo genio » e, appunto, di « demonio ». Anche nei dialetti, dal piemontese diàblu, diàu al bolognese dièvel, all'otrantino diàulu Qjàvulu, al siciliano diàvulu, la voce fondamentale diavolo ricopre tutta l'Italia attestando, così, una costanza di denominazioni che prova una penetrazione dell'idea da essa espressa in tutti gli strati popolari. La voce demonio compare, invece, qua e là in rari punti, mostrando che la sua presa nella fantasia popolare è molto più limitata di quella di diavolo che anche nella lingua italiana comune compare in un numero straordinariamente alto di locuzioni, da buon diavolo « persona mite, ingenua » a povero diavolo « povero sventurato », da bellezza del diavolo alle esclamazioni al diavolo, corpo del diavolo, per tutti i diavoli', essere come il diavolo e l'acqua santa', andare fé mandare) al diavolo', avere il diavolo in corpo (già nel Boccaccio); avere il diavolo con sé « essere fortunato »; avere un diavolo per capello « essere infuriato »; casa del diavolo « luogo rumoroso, frastuono insopportabile » ed anche « luogo lontano, sperduto »; darsi al diavolo « perdere la calma », « andare in malora »; essere come le coma del diavolo (detto di cosa che suscita tentazioni); essere più astuto del diavolo', fare il diavolo a quattro « arrabbiarsi; fare baccano »; // diavolo ci mette la coda (o le coma), detto quando le cose si mettono male; // diavolo va in carrozza (quando tuona); non

49 lo vuole né Dio né il diavolo; sapere dove il diavolo tiene la coda; saperne una più del diavolo; venire a patti col diavolo. Né mancano i proverbi: // diavolo fa le pentole ma non il co-

perchio;

quando

Un

come si dipinge; La farina del diavolo va

diavolo non è così brutto

Il

è vecchio si fa frate;

Il

diavolo

in crusca;

diavolo caccia l'altro, ecc.

Ma

le

denominazioni

dialettali del diavolo, quasi tutte

pittoresche, sono, particolarmente in certe regioni, così

rose che ci vorrebbe un libro per annotarle tutte.

A

molto

nume-

S. Vigilio

Marebbe, a Selva in Val Gardena e forse altrove il diavolo è detto « il malanno ». Nel Salento una denominazione estesa a molte località è cìfaru che è (se non si è linguisti non si indovina) « Lucifero » e si trova, accanto ad altre parole, anche tentadi

ziuna, in cui è evidente « tentatore », del resto

turi e nel

A

il

significato di « tentazione » e cioè di

rappresentato anche in Sicilia con tenta-

sardo tentadore.

ribadire che è impresa disperata voler parlare

compiutamente

delle denominazioni del diavolo nei dialetti italiani basterà os-

servare che la

il

compianto Gerhard Rohlfs nel suo Dizionario del-

Calabria ha elencato ben trentaquattro parole per designarlo.

Una

scelta è indispensabile.

Armàniu « demonio » si spiega con « animale (selvatico) », berzabuccu è chiaramente Belzebìi, brutta bestia o granbestia parla da

sé;

Caronte

ci riporta alla

quente, cibbèiu è si

«

Lucibello

mitologia classica; bruttu è elo-

»,

equivalente a Lucifero; ciràulu

riconnette all'omonima voce siciliana che significa

«

ciurma-

dore, imbroglione »,fàrfaru è voce araba (farfar « folletto ») che va col napoletano farfariello; fora-bannute è propriamente « lo

sbandato »; mahametta è nientemeno che il nome di Maometto!; mmajiditto è il « il maledetto » ed è stato interpretato come « il mai pronunziato »; muccibiello è l'Etna (il Mongibello). Piti chiaro il nimicu « nemico »; sciancu, pedetunnu « piede tondo », zoppieddu « zoppetto » che si riferiscono alla zoppaggine del diavolo; pintìssimu è il superlativo dipinto (« cattivo »); satinazzu « Satanasso »; virseriu, anche siciliano, dal francese anti-

co aversier cioè « avversario », che si presenta in italiano nella voce versiera « demonio di sesso femminile », « diavolessa » (così le donne non si lamenteranno di non essere rappresentate). In varie località settentrionali, fra le quali la stessa Milano, il diavolo si chiama giocosamente ciapìn, dunque « acchiappino », colui, cioè, che cerca di impadronirsi di qualcosa (ovvia-

50 mente dell'anima). In un punto almeno stato registrato boia, in provincia di

dalle corna « bisbetico,

», in

piemontese bsest che,

stravagante

dica l'anno bisestile o, si

aggiunge

al

della Svizzera italiana è Sondrio quel dai com « quello

».

L'origine è

come

riferito a il

sostantivo,

uomo,

significa

latino bissextus il

che

in-

giorno intercalare che

febbraio ogni quattro anni.

La credenza che l'anno congiunzione per

il

bisestile porti sfortuna è

il

punto di una lo-

significato della parola dialettale. In

anche per « diavolo » la parola bundu che alcuni hanno fatto derivare dal latino immundus « immondo », altri da vagabundus « vagabondo »; nella Valtellina mau mau, con una voce fonosimbolica che allude ad una bestia. Voglio ripetere che non ho esaurito tutte le parole che designano il diavolo nei dialetti italiani. Alcune delle parole da me date saranno forse scomparse negli ultimi anni con la diffusione della lingua letteraria ma il discusso personaggio è sicuramente presente in molte altre denominazioni che si potrebbero forse trovare ancora oggi in qualche angolo remoto della provincia italiana. calità sarda fu registrata

[S.

26.10.1986]

Un hamburger per E

traverso

così in Francia ci siamo. Chi oserà mettere nella

bi di

una tavola calda

la

parola hamburger, correrà

essere trascinato in tribunale e di perdere la causa,

lista il

dei ci-

rischio di

come

è capi-

France-Quick che, dopo aver resistito e vinto presso la Corte d'appello di Parigi, è stata ignominiosamente dichiarata perdente dalla Cassazione. tato alla ditta

di oggi. Mentre noi ci stiamo arrabattando suldiscutiamo sull'eccessiva influenza dell'angloamericano, in Francia non si scherza. Fin dal novembre 1982 e dal febbraio 1983 una rivista ha cominciato a pubblicare a Parigi la lista dei termini da evitare e delle voci da raccomandare.

La

storia

l'italiano

non è

e

L'operazione aveva

il

della lingua francese

patrocinio di un

«

Comitato per

la difesa

».

confronto con quello che faceva l'Accademia d'Italia duranfascismo si impone immediatamente. E non vale dire che fascismo era una dittatura mentre la vicina Repubblica è una

Il

te il

il

democrazia. Non lasciamoci tentare da quella visione del mondo, molto diffusa oggi, secondo la quale un'azione è riprovevole

o accettabile a seconda

di chi la fa.

Gli elenchi francesi sostenevano che design deve dirsi stylique,

un sostantivo inesistente che veniva coniato nuovo nuovo; i\ ferryboat doveva diventare bac o transbordeur, self-service, libreservice. Come faceva l'Accademia d'Italia, in certi casi ci si arrende: ed ecco proposto un drugstore per... drugstore. Così, almeno, leggo in un libro che tali elenchi riporta. Ebbene, fin qui avevamo pensato che quelle liste fossero piìi o meno dei consigli, magari un po' energici, e non degli ordini, ma ci eravamo dimenticati che in Francia c'è una legge del 1974 per la difesa della lingua francese. È ben vero che i francesi hanno accolto molto piti di noi termini americani, ma che si arrivi ad imporre dall'alto una regolamentazione dell'uso delle voci straniere appare davvero eccessivo, dimenticando che la lingua è un fatto di cultura che non dovrebbe essere condizionato da leggi. A Parigi e altrove hanno fatto dei grattacieli in vari punti dove non stanno bene ma a nessuno è venuto in mente di abbatterli per salvaguardare il carattere nazionale della Francia. Perché insistere tanto sui termini stranieri? Forse perché è più economico. Diceva un celebre filologo italiano che qualche migliaio di

52 parole straniere non lo impressionavano perché non è

il vocabodeterminare la struttura di una lingua. Non sarebbe meglio procedere ad un'opera di persuasione per un uso decente della lingua, lasciando stare quei termini che sono già entrati da tempo nel vocabolario? Come si farà ora ad ordinare un hamburger (parola già presente nei vocabolari francesi) senza sentirselo andare per traverso?

lario a

[S.

19.11.1986]

E

alla sindaca

La

vecchiaia ha certi privilegi. Per quanto

zio

Dio

di

diamo un

non essere

alle scuole

Roma

sentinello

mi riguarda,

ringra-

elementari nelle quali, a quanto

vengono molte fra le piti leggiamo sui giornali) verrà probito di dire uomo della strada o diritti dell 'uomo per imporre individuo sente dire, da

si

(dalla capitale

frastornanti notizie che

umani verrà abolita la parola signorina uomo-donna e saranno imposte la pretora

della strada e diritti

nome

della parità

\

in (o

questora (o la questrice), la poeta. Non si capisce proprio se la Commissione nazionale per la parità uomo-donna, istituita due anni fa a Palazzo Chigi, scherzi

la pretrice), la

o faccia

sul serio.

Intanto quella locuzione diritti

umani contiene un aggettivo che

viene dal latino humanus, chiarissimo derivato di homo che vuol dire, salvo il vero, « uomo » e perciò non vale la pena di mutare « diritti dell'uomo ». In italiano (sembra che chi ha scritto quel-

norme non

le

schio

».

prio alla voce

uomo » non significa di per sé « maTommaseo che saggiamente scrisse, pro-

lo sappia) «

Basta aprire

uomo:

il

Dicesi tanto dell'uno quanto dell'altro ses-

«

so; e sovente adoprasi nel

cie

umana, o

re,

ma

la

natura

numero singolare per

umana

indicare la spe-

in astratto ». Parole chiare,

mi pa-

ai

componenti della Commissione nazionale.

Quanto a individuo

(della strada), la voce, oltre a significare

sconosciute

persona singola, ha assunto, ahimè, anche il valore di persona abietta e spregevole e ci sono esempi dall'età dell'Illuminismo fino a Carducci, Svevo, Bassani per non parlare della testimomianza dcWuomo, appunto, della strada che accetta, invece, questa locuzione senza sentirvi alcuna connotazione men che onesta. Se poi si deve dire dottora per una donna, in Toscana questo termine significa « donna saccente e pettegola » (Petrocchi dice opportunamente sputasentenze). Pare che ci sia l'alternativa dottrice ma chi mai l'usa? Certo dovrei sentirmi in grave colpa per aver proclamato dottore in lettere e non dottora o dottrice ogni donna che si sia laureata all'università con commissioni da me presiedute.

Una connotazione poco favorevole come nel caso di capa per capo ha indotto la Commissione a rifiutare l'innovazione: ma perché nei casi che abbiamo citato non ci ha pensato? L'odio contro la desinenza -essa per cui andrebbero abolite poe-

54 tessa (in favore di la poeta), professoressa (in favore di la pròsi spiega con l'ambiguità d'uso per cui prefettessa (ora dovrebbe dire prefetta) o generalessa (ora si dovrebbe dire generala) venivano prese per la moglie del prefetto e del generale. Il suffisso -essa, d'origine greca, è andato degenerando ma invece di generala o prefetta è ovvio che sia preferibile usare generale o prefetto al maschile. Volendo poi vedere la cosa da parte maschile, come la mettiamo con la guida, la sentinella, la spia, la recluta e simili? Se accettassimo di dire sindaca, pretora, questora e chirurga non verrà in mente a qualcuno di dire, per gli uomini, guido, sentinello, spio, reclutol Sarebbe la continuazione di una risata che

fessora) si

già

avevamo incominciato.

Chiediamo all'onorevole Craxi che, se non mi sbaglio, installò con ottime intenzioni la Commissione, se non creda opportuno non mettere confusione nella mente degli scolari e degli italiani tutti.

La

uomini e donne non ha nulla a che fare Lasciamo che la lingua evolva liberamente perché se si comincia a forzare la lingua possono perdere altre libertà. parità di diritti fra

con certe camicie si si

di forza linguistiche.

[5.

7.12.1986]

Al presente articolo ha reagito la professoressa Alma Sabatini sulla Stampa del 14 dicembre 1986 ed io ho dovuto rispondere. Per la documentazione, ecco i due testi:

Ho LETTO sulla Stampa mo un sentinelio. La poca

di

domenica 7 dicembre

l'articolo

serietà che Tristano Bolelli attribuisce ai

sione per la realizzazione della parità tra

uomo

e

E alla

sindaca dia-

componenti della Commisdonna presso la Presidenza

si può invece riscontrare nell'articolo. Questo, infatti, contiene varie inesattezze: non esiste in alcuna parte del lavoro citato da Bolelli né la parola né il concetto di « imporre »; non è vero che le componenti della commissione siano all'oscuro del doppio valore di uomo, marcato e non marcato, in quanto proprio sulla ambiguità si basa fondamentalmente il loro lavoro. Quanto al latino homo non è assolutamente equivalente 3ÌVuomo italiano, poiché in latino esisteva la forma maschile marcata

del Consiglio,

vir

che manca nella nostra lingua.

Non sono mai state da noi proposte le forme dottora, o generala; sentinella, guida, ecc., come Bolelli sa benissimo, derivano dai nomi astratti della funzione: fare la sentinella, la guida, ecc.

Migliorini)

il

che è cosa ben diversa.

(come ha spiegato a suo tempo Bruno

55 La

una camicia di forza per la donna e metterlo suggerendo, a chi ha tale interesse, come evitarlo, non espone ad alcun rischio la libera evoluzione della stessa. La presumibile ragione delle suddette inesattezze è che Bolelli non ha letto direttamente o ha letto con poca attenzione il nostro testo. D'altra parte sullo stesso numero del giornale, per fortunata coincidenza, è apparso un articolo che illustra molto meglio le caratteristiche e le finalità del nostro lavoro. Avremo il piacere di inviare a Bolelli la ricerca sul linguaggio della stampa di prossima pubblicazione, augurandoci che questa volta la legga con attenzione e senza pregiudizi. lingua, quale è, rappresenta

in risalto,

Alma della

per

la

Sabatini

Commissione Nazionale realizzazione della parità

tra uomo e donna. Presidenza del Consiglio, Roma.

A

giudicare la serietà di chi scrive devono essere chiamati

re scientifiche dei contendenti. Se

una commissione

i

installata

lettori e le figu-

da Palazzo Chi-

può avere valore imentrava nel discorso solo perché è ali 'origine di uomo (che non viene da \ìt) e di umano. Fa piacere che non si proponga dottora o generala (c'è nello Zingarelli), ma prefetta, pretora (o pretricej, questora (o

gi si rivolge alle scuole, le si attribuisce un 'autorità che positivo.

Il

latino

homo

ed altre simili ci sono o no nell'elenco? Che c'entra il fatto che senguida traggono origine dalla fiinzione? Sono dei femminili come dimostra l 'articolo che li accompagna. Poiché mi sono basato - né potevo fare altrimenti - su articoli di giornalisti seri, la signora Sabatini poteva rivolgersi prima a loro. Quando avrò il volume fra le mani, ne riparleremo. * questricej tinella e

Tristano Bolelli

*A

tutt'oggi (siamo nel 1988)

arrivato.

il

promesso

testo della ricerca

non mi è ancora

Avvocatessa è meglio

Se

si

dicesse che ci sono lingue in cui non esistono

schile e quello femminile, qualcuno potrebbe tuati

come siamo

il

genere ma-

non crederlo,

a considerare queste categorie

abi-

come qualche

cosa di essenziale. Ebbene, il gruppo di lingue al quale appartengono l'ungherese e il finlandese non conosce tale genere grammaticale.

Se anche noi parlassimo una di tali lingue non staremmo, costa succedendo, accapigliandoci per ammettere o escludere parole proposte da quelle donne che vogliono la cosiddetta parità linguistica con gli uomini come se non fosse molto piti importante conseguire una reale parità giuridica piuttosto che gram-

me

maticale.

Noi, in italiano, distinguiamo i generi maschile e femminile si possa in alcun modo predire quali siano i maschili e i femminili. Se è vero che la maggior parte dei nomi maschili finisce in -o (zio, autunno, porco, ecc.) e la maggior parte dei femminili in -a (pianta, tavola, mamma, ecc.) ci sono parole in -o che sono femminili come mano, eco, radio, ed altre e questo senza che

in -a

che sono maschili (aroma, poema, problema, vaglia).

Anche con

diretto riferimento al sesso, alcuni sostantivi

femmine

ma-

soprano) ed altri, femminili, a maschi o prevalentemente a maschi: sentinella, spia, guardia, recluta, guida. I nomi che hanno due forme, una per il maschio, l'altra per la femmina, mutano la loro parte finale: così c'è Vorso e Vorsa, il signore e la signora, il cameriere e la cameriera, l'imperatore e l'imperatrice, l'attore e l'attrice e, per indicare certi mestieri, ci sono addirittura due forme per il femminile: rammendatrice e rammendatora, smacchiatrice e smacchiatora ecc. Le professioni o le funzioni assolte dalle donne sono quelle che piti interessano la disputa alla quale abbiamo fatto cenno. Pareva pacifico che dottore e professore avessero come femminile dottoressa e professoressa', poeta e sacerdote, poetessa e sacerdotessa. Ma certe altre forme come medichessa e ministressa erano sentite come scherzose; e sindachessa e generalessa venivano attribuite alla moglie del sindaco e del generale e si propone, perciò, di scartarle per designare la donna che fa il sindaco o che schili si riferiscono a

è generale.

(//

contralto,

il

57

A questo punto le donne, mi pare, si sono divise salvo su un argomento: quello di rifiutare recisamente quel suffisso -essa, ritenuto piti o meno ingiurioso, mentre ha precedenti nobilissimi nella sua origine greca e basti dire che fin dal v -rv secolo avanti Cristo si trova la voce basilissa per designare la regina. Questa parola ha, dunque, circa duemilaquattrocento anni e si continua dalla grecità classica fino al greco moderno e, francamente, non si vede perché una donna che scrive poesie non debba chiamarsi pó)^?^^^^, una donna che studia studentessa, una donna che fa l'avvocato avvocatessa. Ma molte donne, ritenendo che la loro qualificazione non sia abbastanza riconosciuta e considerata, vogliono chiamarsi poeta, studente, avvocato. Per studente c'è, almeno, l'articolo che fa sicuro riferimento alla donna così come avviene per la presidente e la preside. È un precedente importante da considerare. Poiché in italiano nomi femminili per uomini e viceversa, come si è visto, ci sono, potrebbe anche essere ammesso che le donne, se vogliono, si chiamino col nome maschile della loro professione. Dove, però,

vengono

fuori gravi inconvenienti è nel-

l'atteggiamento di quelle donne che, sotto l'egida del Consiglio dei ministri, vogliono mutare a tal punto le cose, inviando perfi-

no i loro pensamenti alle scuole elementari, da proporre che la donna che si occupa di finanza si chiami finanziera che, come ognuno sa, una volta designava una lunga giacca a falde per uomo e ancora oggi un intingolo a base di tartufi, funghi, frattaglie e marsala: è, dunque, una parola già occupata, anzi superoccupata; o una donna che ha la funzione di pretore, pretora o pretrice; di questore, questora o questrice; o che è dottore, dottrice. Delle due proposte la meno peggio è quella in -ora che ha almeno un precedente illustre: la (madre) superiora. La desinenza

potrebbe andare per senatrice, molto più presentasono date tutte e due dallo Zingarelli). Il riferimento al latino si limita, per le forme in -trice a doctrix, che voleva dire « maestra », attestato in Sant'Agostino; le altre sono forme analogiche. Questo tirare in ballo il latino in qualche caso sa maledettamente di scusa. Anche per avvocata si è ricorso nientemeno che al latino advocata nostra della preghiera Salve Regina; ma pare che sfugga che la Madonna, chiamata advocata non ha mai fatto l'avvocato come s'intende considerando l'uso moderno. L'uso nella preghiera è figurato. Se chi si occupa di questioni linguistiche leggesse i vocabolari ve-trice

bile di senatoressa (eppure

58 drebbe che avvocata significa to della

Madonna

e,

«

patrona

familiarmente,

«

», « interceditrice » det-

donna

ciarliera e presun-

mentre avvocatessa è la donna che esercita l'avvocatura. Non si dica che non sappiamo che le lingue cambiano, ma il mutamento deve avvenire ad opera dell'uso generalizzato fra il popolo o degli scrittori, anche se questi ultimi come innovatori non sono sempre bene accolti: molte loro voci nuove cadono neltuosa

»;

l'oblio.

Quanto sono

stati

presi in giro

i

fascisti

che combattevano

le

voci straniere e chiedevano agli accademici d'Italia di proporre

come

sostitute voci italiane qualche volta ridicole? Si risponderà che sono proposte e non imposizioni: ma quando si cerca, ufficialmente, di persuadere ad adottare certi termini e si va fino nell'intima struttura della grammatica, bisogna esser pronti ad una reazione anche decisa o, più semplicemente, a non essere ascoltati.

[DCorr. 22.1.1987]

Temporale nel vocabolario

L'Italia, dopo essere stata la prima nazione in Europa ad avere

un vocabolario moderno, quello

della Crusca, la cui

prima edi-

zione è del 1612, che servì da modello a molti lessici stranieri, perdette questo primato e, nel '900, non ha avuto nulla che potesse essere opposto ai grandi, imponenti, vocabolari stranieri, frutto di studio lungo e sistematico, tanto che il ricorso al Tommaseo, risalente al secolo scorso, e ristampato qualche anno fa, è ancora necessario per le parti che ancora mancano al Grande Dizionario di Battaglia (giunto in dodici volumi, con la direzione di Giorgio Bàrberi Squarotti, alla lettera P), che finirà nell'anno Duemila. Progressi sono stati fatti nei vocabolari scolastici e nei lessici etimologici fra i quali eccelle quello di Cortelazzo-Zolli che ha

coraggio di tentare finalmente la datazione dei termini vorrebbero un po' più numerosi), di capitale importanza per la comprensione della realtà linguistica. Anche questo dizionario è arrivato, in quattro volumi, alla lettera R e si spera che il quinto esca sollecitamente. È da ricordare che nel periodo intorno alla guerra si auspicava soprattutto uno spoglio dei testi delle origini ed a tale compito, dopo molti decenni di ritardo, attende l'Accademia della Crusca che ha abbandonato da tempo le sue posizioni rigidamente puristiche per compiere un attento lavoro filologico. L'uscita del primo volume del Vocabolario della lingua italiana dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani è stata accolta festosamente. I titoli di nobiltà dell'Istituto sono ben noti. È un laboratorio nel quale prestano la loro opera moltissimi studiosi ai quali si devono, oltre alla gloriosa Enciclopedia italiana (merito indiscusso di Giovanni Gentile), il Dizionario enciclopedico, il Lessico universale, l'Enciclopedia del Novecento. Chi guida ora le sorti dell'Istituto è Vincenzo Cappelletti, dinamicissimo direttore generale. L'autore e coordinatore del vocabolario è Aldo Duro che ricordo fin da quando, giovanissimi, cercavamo di dare un volto a quel Vocabolario dell'Accademia d'Italia di cui uscì solo un volume comprendente le prime tre lettere, non tanto per le conseguenze della guerra, quanto per la troppo debole (voglio essere misericordioso) impostazione. Il Vocabolario dell'Enciclopedia italiana, che non si propone

avuto (che

il

si

60 né

Grande Dizionario

di Battaglia né il Vocabolaprevede di essere completato in quattro volumi entro due anni. Le pagine di questa prima parte sono 1037 su tre colonne. Per avere un'idea della mole, si può tener presente che le corrispondenti voci del pivi comune Vocabolario italiano, quello di Zingarelli (ultima edizione), sono comprese in 503 pagine piti piccole su due colonne. Le definizioni, che si potrebbero chiamare l'onore del lessicografo, sono per lo piti eccellenti (si veda, per dare un solo esempio, oggi molto discusso, ciò che è detto sotto avvocato, a proposito di avvocatessa e avvocata), le etimologie succinte ed accurate, il materiale molto ricco, specie per quanto riguarda le voci scientifiche, le quali danno sicuramente un tono al vocabolario facendo ricordare la fucina dalla quale esce. Delle voci straniere sono accolte quelle entrate nell'uso particolarmente, ma non di sostituire

il

rio etimologico di Cortelazzo-Zolli,

esclusivamente, nel linguaggio della scienza e della tecnica.

mancano neppure lio

certe frasi celebri

Cesare o après moi

Una menzione

le

Non

alea iacta est di Giu-

déluge di Luigi xv.

a parte meritano

in splendide tavole a colori. Si

di atelier, in cui si

come

le illustrazioni,

vedano

le

ammirano riproduzioni

molte delle quali

bellissime fotografie di quadri di

Giorgio

Vasari, di Jan Vermeer, di Gustave Courbet, di Henri Fantin-

Latour e

gli interni degli studi di artisti italiani di

oggi, Enrico

Mario Ceroli; o l'illustrazione di atletica, rappresentazione di un campo sportivo con l'indicazione degli sport che vi si svolgono; o quella di atmosfera con fotografie splendide dell'immagine della terra, di un ciclone tropicale, di Castellani, Alberto Burri,

un'aurora boreale, di aloni del sole e della luna, della nebbia, di un temporale, di un fulmine. Il Vocabolario accetta, dunque, la sfida visiva dei nostri tempi e non si raccomanda più soltanto alla consultazione o alla lettura sistematica, anche se quest'ultima resta una delle più singolari e stimolanti avventure della nostra mente. [5.

28.12.1986]

Italiano: Vavventura del '500

fa all'Accademia delle Scienze di Mosca con una delegazione dell'Accademia dei Lincei per trattare temi del Cinquecento e supponendo che gli italianisti di là conoscessero la questione della lingua in Italia, mi sono sforzato, in una relazione, di uscire dallo schema ben noto se la lingua dovesse considerarsi toscana o meglio fiorentina come voleva Niccolò Machiavelli o italiana come riteneva Gian Giorgio Trissino e di trattare piuttosto dei problemi di linguistica generale che affiorano nel Cinquecento ai margini della polemica. Quando Niccolò Machiavelli dice che una lingua modifica le voci straniere secondo la propria natura e struttura; o che ogni volta che compaiono nuove dottrine o nuove arti necessariamente vengono introdotti nuovi vocaboli di prestito che entrano a far parte della lingua; o che il mutamento linguistico è lento per la presenza di una robusta forza di conservazione; o che l'importanza della lingua letteraria è fondamentale per la continuità linguistica, non si può non convenire sulla attualità di tali affer-

Trovandomi tempo

mazioni. Sulla variabilità linguistica da luogo a luogo

si

era espresso

quando aveva detto che sono discordi nel parlare gli abitanti di due zone vicine come i bolognesi di Borgo San Felice e quelli di Strada Maggiore; ma Gian Giorgio Trissino va più già Dante

in là

ed include nel principio

uomo

la diversità di

parlare fra

uomo ed

addirittura nella stessa famiglia.

Simile parere espresse Benedetto Varchi nel quale

si

trova pre-

sente l'innegabile valore di fatto sociale da attribuire al linguaggio, principio in relazione

messo in rilievo anche da Sperone Speroni che pose cambiamento linguistico col mutamento storico-

il

sociale e sostenne l'equivalenza di ogni

mezzo

espressivo, lasciato

alla scelta personale.

Per Speroni,

il

cui pensiero nel

famoso Dialogo della lingua Pomponazzi, le lingue

italiana è manifestato dal filosofo Pietro

hanno tutte lo stesso valore, siano esse l'arabica, l'indiana come la romana e l'ateniese, in quanto « chi vorrà parlare di filosofia con parole mantovane o milanesi non gli può esser disdetto ».

Uno dei punti fondamentali nella ricerca linguistica del Cinquecento fu l'origine delle lingue moderne, particolarmente dell'italiano, del francese e dello spagnolo. Molti, in verità, pensa-

62 rono biblicamente alF ebraico come fonte delle lingue moderne: in Francia furono di quest'avviso Guillaume Postel e Etienne Guichart; in Italia il Giambullari, che vi arriva tortuosamente attraverso un intermediario, l'etrusco, che era fatto fantasiosamente risalire alla famiglia dell'ebraico.

Ma

la teoria

che più tenne

il

campo

fu l'origine del francese

dal greco per ragioni evidenti di prestigio: e basterà ricordare

queir Henri Estienne che in seguito avrebbe, in verità, sostenuto la corretta derivazione dal latino. Di questo parere furono molti in Francia, in Italia, in Spagna. Il primo esplicito riconoscimento in Italia si ha, ancora, in Sperone Speroni per il quale, secondo le parole di un suo personaggio « la (lingua) volgare non è altro che la lingua latina guasta e corrotta oggimai dalla lunghezza

tempo e dalla nostra viltà ». Siamo nel 1542 e non si può pretendere che

del

già chiaro

il

concetto di latino volgare. Fra

stel vetro vi è

lo

Speroni avesse

le intuizioni del

Ca-

quella delle tendenze generali dell'evoluzione dei

mutamenti dei suoni, per cui, se una b può mutarsi in v (come in amava per il latino amabat) la stessa consonante non può diventare una r in quanto la r è di altra natura. L'osservazione dei fenomeni dialettali è già presente in Machiavelli (è interessante che egli noti la propensione del toscano

a finire le parole in vocale come, per esempio, in pane, mentre il

lombardo e

il

romagnolo

le

finiscono in consonante, dicendo

pan). Il senese Claudio Tolomei fece osservazioni linguistiche acutissime fra le quali quella sull'aspirazione delle consonanti in toscano (la cosiddetta gorgia) e, di capitale importanza, la distinzione fra parole di tradizione popolare e parole di tradizione dotta

per cui si ha per esempio la voce popolare pieve e la voce dotta plebe da una stessa voce \2i\màplebs. Egli distingue chiaramente la natura sociale della lingua dal valore letterario acquisito ad opera degli autori. Importante è la sua affermazione: « Prima certo sono le parole, poscia gli scrittori che s'ingegnano con destrezza ed eleganza comporre insieme » e quella, fondamentale, sulla grammaticalità: « La grammatica nasce da la lingua e non la lingua da la grammatica ». Il Cinquecento si chiude con un'opera misconosciuta e travisata di un autore, Ascanio Persio, nato a Matera nel 1554 e morto a Bologna nel 1610, che scrisse il Discorso della conformità della lingua italiana con le più antiche lingue e specialmente con la

63 greca, pubblicata a Venezia nel 1592

e, nello stesso anno, ristampata a Bologna. La posizione di Persio fu sempre interpretata male. Tratti in errore dal titolo, molti studiosi anche insigni dissero che Persio faceva venire l'italiano dal greco, mentre egli sostiene chiaramente che viene dal latino. Ciò che non viene dal latino è in buona parte d'origine greca ma non secondo le errate supposizioni de-

gli studiosi francesi

cimenta

contemporanei contro

i

quali egli polemizza.

spesso esattissime: il suo capolavoro è l'etimologia di incignare « mettere in uso, rinnovare », di cui è vista l'origine nel greco kainós « nuovo », propoPersio

sta

si

in etimologie,

che precede di due secoli quella comunemente data dai vec-

chi vocabolari etimologici.

L'operetta di Persio non è sistematica guistica generale che da essi

si

ma

i

suggerimenti di

lin-

ricavano sono di grande, vivo

interesse e concludono degnamente un secolo ricco di novità anche nella linguistica.

[5.

8.1.1987]

Anche Le

Otello debuttò « scaligero

serate d'arte alla Scala,

re di Bellini

il

o di Wagner,

il

battesimo a volte contrastato a opesorgere della carriera di Giuseppe

Verdi con VOberto conte di San Bonifacio e

me

il

Nabucco e

le pri-

gloriose rappresentazioni àeìVGtello (nel febbraio di cent'anni

fa) e del Falstaff co^iiiwìxono nell'Ottocento avvenimenti di grandissimo rilievo e nel nostro secolo la tradizione si è continuata tanto che il nome stesso della Scala è uno dei maggiori simboli

della cultura italiana.

Eppure, quel nome di Scala ha dato origine ad un aggettivo, scaligero, che è stato molto contestato.

Medioevo e dendo in latino nel

La sua

origine

si

letteralmente significa « che porta la scala il

cognome

trova »

ren-

dei Della Scala, signori di Verona.

Nella settima edizione del Dizionario moderno di Alfredo Fanzini del

1935

si

legge: « Scaligero: spettacolo, artista, operaio

Deforme aggettivo che si confonde col termine storico degli Scaligeri, signori di Verona ». Ma nell'ottava edizione, del 1942, invece di « Deforme aggettivo » ecc. si legge: « Si è trasportato abusivamente a questo significato il termine storico degli Scaligeri, signori di Verona ». Perché tale cambiamento? Basta leggere il frontespizio dell'ottava edizione in cui è scritto che si tratta di opera postuma « a cura di Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini ». L'opera, condotta fino alla settima edizione dal Fanzini, era stata, dunque, riveduta da due eccellenti linguisti ai quali era molto più congeniale parlare di abuso del termine che di deformità perché è opera del linguista non tanto mettere in rilievo la bellezza o la bruttezza delle parole quanto le ragioni che le hanno fatte sorgere. Ma la storia è spesso più complessa di quanto non ci si immagini. L'aggettivo scaligero non può, in fondo, essere considerato del tutto un'appropriazione indebita dei milanesi e chi dice che stagione scaligera sarebbe, semmai, da chiamare quella di Verona, dovrebbe riflettere su alcune cose che attenuano non solo la drastica opinione di Fanzini ma anche l'affermazione di Schiafdel teatro della Scala (Milano).

fini e

Migliorini.

Infatti, la

Scala sorse nella antica area ricavata dalla demoli-

zione di una chiesa (S. Maria della Scala) fatta erigere dalla moglie di Bernabò Visconti che si chiamava Regina Della Scala, figlia di Masdno Della Scala, morta nel 1384. Dunque, qualco-

65 sa dei Della Scala c'è nel milanese scaligero, che di diritto ap-

partiene ai signori di

Verona e perciò anche a Regina Della Sca-

la;

altrimenti l'aggettivo sarebbe davvero incomprensibile. Re-

sta

una

primo ha usato scaligero applicato o no di quello che abbiamo detto? O

curiosità: chi per

teatro era consapevole

è riferito, genericamente, ai nobili scaligeri veronesi?

A me

al si

non

il dilemma. chiamò anche un celebre filologo del Cinquecento, vissuto fra il 1484 e il 1558. Nato a Riva del Garda e morto in Francia dove andò al seguito del vescovo Angelo Della Rovere, fu studente a Bologna e scrisse contro le dottrine di Erasmo ma è ricordato soprattutto, oltre che per opere naturalistiche, per un trattato sulle cause della lingua latina e per osservazioni sulla Poetica di Aristotele che ebbero una grande influenza sull'umanesimo francese. Grande filologo fu anche il figlio Giuseppe Giulio Scaligero (1540-1609). I Della Scala di Verona certo esercitavano un grande fascino perché lo Scaligero

è possibile, per ora, risolvere

Giulio Cesare Scaligero

si

pretendeva di discendere da loro senza, peraltro, che ne sussista certezza.

Coi due Scaligeri siamo molti termini di letteratura

come facciata,

in

pieno Cinquecento. È l'età in cui sonetto e madrigale o di arte

come

piedistallo, balcone o di

musica come fuga en-

trano in francese e di qui o per via diretta in altre lingue europee.

È

il

tempo

in cui dotti francesi e italiani

discutono sull'ori-

gine delle lingue e particolarmente di quelle neolatine e polemiz-

zano frequentemente

Ma, per

fra loro.

tornare agli Scaligeri veronesi e cioè ai Della Scala,

bisogna ricordare che il

dominio

di

Verona

Non

la famiglia, già

nota fin dal Mille, ebbe

dal 1277 al 1387 per poi estinguersi nel

Masdno

e ii, di Canmodeste osservazioni sull'aggettivo scaligero si trasformerebbero in un trattato di storia, cosa che non vogliamo fare, prima di tutto perché non ne abbiamo specifica competenza, poi perché della pazienza dei lettori non bisogna mai abusare.

secolo XVI.

grande

i

e

ii,

è

il

caso di parlare di

i

di Cansignorio, altrimenti le nostre

[5.

18.1.1987]

Scartoffie lombarde, inghippi

romani

e scalogne triestine Se dico la parola mugugno si può essere certi che molti italiani sanno che la sua origine è genovese; e così pesto, nel linguaggio gastronomico. Ma se dico - come si sente fin troppo spesso rompiballe, usato nella letteratura da Pavese e da Arbasino, chi può dire, se non conosce l'ottocentesco Dizionario genovese di Gasacela, che ci viene dalla Liguria? Il Gasacela traduce il termine con voci toscane, alcune delle quali sono molto pittoresche anche se poco in uso come frangicapo, frangicupola, frangisedere, che si allineano accanto al piìi frequente rompistivali eufemismo per rompiscatole, e, con ancor maggior approssimazione, a rompicordoni. E bocciare e bocciatura, che origine hanno? Piemontese, e sono diventate italiane sconfiggendo schiacciare e schiacciata, ormai ridotte a sparuti fantasmi in piccole zone della Toscana. Anche ramazza per « scopa » si diffonde in Italia dal Piemonte e così il cicchetto, quel bicchierino di vino o liquore che, in ambiente militare, è passato a designare una sgridata con un 'antifrasi molto ,

espressiva.

E

la s cartoffia che, a milioni di

uffici di tutta Italia? Si è diffusa dalla

esemplari, stipa gli

Lombardia, così come

la

guardina delle carceri, la teppa, il teppismo, e il teppista; come barabba « vagabondo, briccone » e barbone, presente in Gadda e in Covoni e nel napoletano Marotta, ma in un libro ambientato a Milano. Lombardi sono, ovviamente, mascarpone e gorgonzola, mentre lo stracchino, usato dal Manzoni, è attestato dapprima a Venezia. Risotto, ossobuco, panettone, per non parlare del grappino a chiusura del pasto, portano il marchio lombardo, così come secchione, la cui origine non è chiara e come vecchio bacucco, preceduto, tuttavia, da vecchia bacucca, che è cosa da far ridere i polli (altra espressione milanese) se è vero che si tratta in origine di una maschera del carnevale sotto la quale si cela un uomo. Queste e molte altre simili notizie fornisce in un recente libro {Le parole dialettali, editore Rizzoli) Paolo Zolli, uno dei due autori (l'altro è Manlio Gortelazzo) ai quali si deve il più importante Dizionario etimologico italiano. È molto divertente ed istruttivo farsi tener per mano da Paolo Zolli per percorrere questo viaggio fra le parole ormai da considerare italiane ma di origine

67 esempio, che naia è nato fin dal Cinquecento a Conegliano Veneto: significa originariamente « gente, razza », poi « genia » ed essere sotto la naia vuol dire « essere sotto la genia (dei superiori) ». La voce arsenale, di origine araba, si diffonde da Venezia (larzanà de' viniziani è già in Dante). Anche zattera parte dal Veneto e così laguna e estuario, anagrafe e catasto. Si noti che dialettale e conoscere, per

si

parla qui di diffusione in italiano e

come

non

di origine lontana che,

era araba per arsenale, è greco-bizantina per anagrafe e

Contrabbando e contrabbandare, gazzetta e gazzettino sono pure di origine veneziana, come giocattolo. Scalogna, invece, ha origine a Trieste. Da Roma e dall'Italia centrale vengono le forme in -aro, invece che in -aio (benzinaro, cinematografaro, gruppettaro, ecc.) ed anche sfiatino, stracciatella, porchetta e supplì. Anche impatacca e il pataccaro sono romani, così come inghippo e, naturalmente, bustarella. Magnaccia e mignotta, puzzone e fregnone hanno lo stesso luogo d'origine come, del resto, pomicione e pomiciare, racchia e tardona. E il pizzardone di dove può essere catasto.

se

non

di

Roma?

Carrozzella e bancarella vengono da Napoli ed anche camorra, omertà, onorata società tfar la faccia feroce scippo e scippare, pastetta, marpione e, si capisce, iettatore, ma anche la liberatrice pernacchia, anzi, il pemacchio. Bellissimo è sfizio « voglia, capriccio, divertimento ». Abbiamo parlato di Napoli ma il territorio meridionale è linguisticamente molto compatto, as,

sai pili di quello settentrionale e

perciò in molti casi conviene

parlare di meridionalismi.

Ma

la Sicilia sta a sé.

La prima parola

registrata dallo Zolli

è mafia: vengono, naturalmente insieme, i picciotti e / pezzi da novanta, l'intrallazzo e la lupara', ma ci sono anche parole assai

come cassata, cannolo e la profumatissima zagara. La Sardegna dà nuraghe e orbace, che non deve richiamare il fascismo se è vero che D'Annunzio aveva già scritto: Le sorelle / cuciono in sogno il suo gabban d'orbace.

piti gentili

[S.Tuttolibri 10.1.1987]

Messere

il

suocero e alcuni

tic

In una recente e fin troppo popolare rubrica televisiva che tratil peregrino tema dei suoceri e delle suocere, molti intervedicevano lo suocero invece di « il suocero ». Era come un'autodenuncia di appartenenza a ben determinate regioni. Naturalmente viene fatto di chiedere perché quelle persone dicevano im-

tava nuti

mancabilmente lo suocero. Evidentemente la loro pronunzia portava ad avvicinare quel su iniziale ad uno sv- facendo cosi rientrare nella norma l'articolo che, come ognuno sa, hlo quando precede una parola che comincia con la cosiddetta s impura, cioè con una s che si accompagni ad un'altra consonante {straniero, scopone, spazio, svanito e simili). C'è poi da dire che, prendendo il bolognese come punto di riferimento, « quale » tende ad essere pronunziato cvèl, « coperto » cvért e « suocero » diventa svocero. Nello schietto bolognese, « suocero » di dice sozer in cui la questione non si pone. Suocero in bolognese è prestito dalla lingua letteraria pur portando con sé la pronuncia svocero. Ma sia sozer che suocero hanno soppiantato la voce msir, niente meno che messere con cui si indicava il padre della sposa o dello sposo. Già un vocabolario bolognese dell'Ottocento, quello di Carolina Coronedi Berti, ci informa che msir per « suocero » « è voce della plebe e della campagna: i civili oggi dicono sozer », in cui l'arcaicità dei termine che lo confinava nelle campagne veniva sentita come qualcosa di volgare mentre l'origine è nobilissima: si tratta di un antico prestito dal francese messire « mio sire » (dal latino senior « anziano »). Questo valore di messere per « suocero » è presente in varie parlate d'Italia, come per esempio in piemontese amsé o msé, in Lombardia mesèr, misèr, nel Trentino e nel Veneto misèr, misièr ed anche nel calabrese missèri: una denominazione che riporta, come si vede, ad un atteggiamento di grande rispetto per il suocero che, del resto, trova riscontro in madonna (da mia donna dal latino domina « signora ») per dire « suocera » ampiamente diffusa nei dialetti dell'Italia settentrionale (Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Tremino e Veneto). In Piemonte c'è anche bel màir, esatto corrispondente del francese belle-mère,

composto Per

di belle « bella » e

riferirci

ad un'altra e

piti

mère

«

madre

».

diffusa abitudine della lingua ita-

69 liana parlata, bisogna riconoscere che

momento specialmente

il

fastidioso cioè usato ogni

dai giovani del' 68 e dintorni, da noi più

volte deprecato, è per fortuna in fase calante.

Ora pare

affiorare

un altro intercalare, l'uso di niente quando proprio questo niente non c'entra affatto. Spesso sentiamo in improvvise interviste televisive e nella vita di ogni giorno rispondere ad una domanda con un niente, seguito dal normale discorso. Serve forse, come l'antico cioè, a prendere o a riprendere fiato.

Un

abuso di una parola che, se fosse adoperata con soandrebbe benissimo, è stampo, in locuzioni come di stampo mafioso. Qui è la ripetitività che dà noia. Non si può aprire la televisione o la radio che non si senta parlare di delitti di stampo mafioso. Non si ode mai attività mafiosa ma attività di stampo mafioso. Mai e poi mai che sfugga a qualcuno, per esempio, di tipo mafioso o di origine mafiosa: no, è stampo che viene ripetuto a sazietà e che dà noia. Infine una piacevole constatazione: quell'ottica per cui tutto avviene nell'ottica di qualche cosa, da noi più volte deprecata, è stata oggetto di critica da parte di un illustre scienziato sulla Stampa: altrettanto è avvenuto di quell'uggioso tra virgolette per altro

brietà,

cui tutto

si

dice ormai tra virgolette.

ma occorre fare che compaiono nella nostra lingua quotidiana. E che scienziati, oltre che uomini di lettere, diano prova di specifica attenzione per questioni di lingua italiana è molto positivo e non può che rallegrare. Non dimentichiamo che, di fronte a fatti così favorevoli, sussistono ancora folgoranti vuoti d'ignoranza. Leggo nella circolare di una ditta che propone di organizzare in occasione di congressi sfilate di moda, che sarebbe gradita una collaborazione proficua e proficua è scritto con la q. Chissà che l'autore della lettera non abbia frequentato una squola invece di una normale Non

basta deprecare gli inutili forestierismi

attenzione a certi

tic

scuola.

[S.

28.1.1987]

Per

gli antichi

mio mestiere

il

prestigio era un inganno

mi porta a considerare le parole nella Facendo un lavoro scientifico, devo prescindere dalla bellezza o dalla bruttezza di una parola o di una frase; anzi, spesso mi imbatto in errori così interessanti

Il

di linguista

loro struttura e nella loro storia.

e curiosi che illuminano aspetti della ricerca che, senza l'ausilio delle prove, resterebbero cose morte.

Quando una bambina dice:

fa quella stica,

alla

quale

si

prega per noi pescatori, invece operazione che, se

è insegnato

il

Pater noster

prega per noi peccatori, è accettata da una comunità linguidi

viene chiamata etimologia popolare.

Negli ultimi tempi ci troviamo di fronte a un sommovimengrande importanza e interesse. L'italiano, coi mezzi di comunicazione di massa, è passato dall'appartenenza a piccoli gruppi di persone colte, a un numero sempre più grande di utenti con conseguenze che si possono facilmente constatare. Il vecchio sogno di avere un italiano che non presenti traumatiche differenze fra lo scritto e il parlato, secondo l'auspicio di molti (e basterà ricordare Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni), si va a poco a poco realizzando. Si capisce che di questa diffusione, di questo ampliamento, di questo adeguamento si è pagato e si continua a pagare un prezzo a volte dolorosamente alto, con un'invasione di termini, non tutti necessari, dall'angloamericano. Cosa deve fare un linguista che si professa uomo di scienza di fronte a questa situazione? Io ritengo che debba oggi non solo osservare la realtà ma intervenire e non tanto per condannare quanto per spiegare e soto linguistico di

Chi

trova delle ra-

prattutto per far riflettere

i

gioni valide per l'uso o

ripudio di una parola o di una costru-

il

lettori.

riflette e

zione è facilitato a parlare e a scrivere bene. Sono persuaso che un'azione di informazione precisa, di

chiamo a un uso

in cui

il

pensiero

si

estrinsechi in

modo

ri-

chiaro,

senza retorica ma con immediatezza valga molto di più di condanne senza appello emesse da un tribunale linguistico che ha sicuramente scarsa possibilità di affermarsi. Bisogna persuadersi soprattutto del fatto che la storia delle parole ha una parte essenziale nella nostra consapevolezza linguistica, e cioè nella nostra cultura. Perché, davvero, ogni parola ha la sua storia, che a voi-

71 te è di millenni,

a volte di secoli, a volte di decenni o di settima-

Vediamo qualche esempio. Certi termini di parentela come padre

ne.

e

madre arrivano

a noi

dalla notte dei tempi, pur collocandosi, grazie alla linguistica sto-

un ben preciso quadro in cui le voci hanno legami con molte lingue dell'Europa e dell'Asia, riportandoci a quell'unità linguistica chiamata indoeuropea che ha come delimitazioni l'India a oriente e l'Europa a occidente dove tali lingue si parlavano e si parlano. Delle due parole, madre è quella più stabilmente fissata nel suo significato, che lega la genitrice al figlio, salvo l'uso per indicare il tronco, il ceppo di una pianta; l'altra, quella del padre, ha avuto più vari significati e basti ricordare che i latini chiamavano patres anche i senatori e i patrizi (in contrapposizione ai plebei) e, in periodo cristiano, chi aveva rica, in

altre di

un'autorità spirituale. Si tratta, sia per quello che riguarda la dre, sia per quello che riguarda

il

ma-

padre, di estensione di signifi-

cato, di traslato o di metafora, quella figura retorica per cui diciamo perfino che un tavolo ha le gambe, dando al tavolo degli arti

che propriamente sarebbero da attribuire soltanto agli uomini.

Ma, tornando

alla storia delle parole, splendidi capitoli di vi-

cende culturali possono aprirsi a un osservatore attento. Le parole talora passano da un significato all'altro con procedimenti che, per essere capiti, hanno bisogno di considerazione. Chi oggi dice che una persona ha fascino, se ha studiato il ladno non può togliersi del tutto da un angolo del cervello il pensiero che fascinum, nella lingua di Roma, voleva dire « malìa, incantesimo » ma anche « membro virile », in quanto, come dicono Orazio e Petronio, questo era considerato un efficace mezzo contro la stregoneria. C'era, come ognuno sa, una divinità dei frutti e dei giardini, sia in Grecia sia a Roma per questa funzione ed era Priapo.

come una parola camSe oggi dìcìsimo prestigio, non pensiamo affatto che questa voce risale a una tarda variante del latino praestigiae, usata al plurale, che voleva dire non già quello che espriTalvolta ci sorprendiamo a considerare

bi totalmente di senso.

me

il

nostro

«

prestigio » bensì « illusione, inganno, fallacia

Di qui discende

la

grande lezione che non bisogna

delle etimologie per spiegare

il

fidarsi

».

troppo

valore attuale delle parole. [DCorr. 5.2.1987J

Parole che uniscono l'Europa

Anche

se

anche

una lingua non può

identificarsi col suo vocabolario

la sintassi) non vi è dubbio grande attenzione. Le parole riflettono le nostre vicende dalle origini ad oggi. Il nostro vocabolario, infatti, ha l'aspetto di una zebra, formato come è da molte fonti, latina, greca, araba, francese, spagnola, inglese, dialettale in diversa proporzione, seguendo ragioni storiche

(c'è

la fonetica, la

che sulle parole

si

morfologia,

accentra la

piti

e sociali.

Di tutti questi strati che formano il vocabolario italiano, di gran lunga prevalente è il latino, nelle due vie di trasmissione, quella popolare e quella dotta, che hanno dato, nei singoli casi, due diverse parole. Così, per fare un ripetutissimo esempio, se pensiamo a plebe e pieve, ci accorgiamo che si rifanno al latino plebs ma la prima è stata presa a prestito in un certo momento della storia dell'italiano (e conserva, perciò, il gruppo consonantico/?/)^ l'altra viene per via popolare (e a ciò si deve l'evolversi di pi in pi). Certo, fa qualche impressione pensare che le parole popolari rappresentano una continuità di piìi di duemila anni perché non si è prodotta alcuna interruzione nella loro trasmissione ma sono avvenute solo delle variazioni che noi linguisti cataloghiamo in norme che si fondano su numerosi esempi. Così, per restare a un solo caso, lo stesso fenomeno accaduto in pieve si riscontra in piovere (dal latino piovere, forma che affianca il piìi comune pluere), in più (latino /?/w5), in piuma (latino p/wm^z), in piombo (latino plumbum), tutti esempi di parole che fanno vedere che un/?/ latino diventa/?/ in italiano. In altre lingue che continuano il latino, come il francese, tale mutamento non è avvenuto e troviamo pleuvoir « piovere », plus « piti », piume « piuma », plomb «

piombo

».

Così riusciamo a vedere, attraverso questo confronto, come ogni lingua abbia una sua struttura ed una sua fisionomia che si può porre su basi scientifiche. Le voci prese di peso per via dotta da uomini di studio ed introdotte in italiano sono tanto numerose da costituire un patrimonio immenso senza il quale la nostra lingua non sarebbe tale;

ma non

solo la nostra lingua. Al latino

hanno

europee, come il pure per mezzo di traduzioni, il tedesco. tre lingue di cultura

fatto ricorso le al-

francese, l'inglese e, sia

73

La cosa non sfuggì a Giacomo Leopardi che per primo parlò chiaramente di europeismi quando si riferì a voci comuni a varie lingue europee. Basterà ricordare, ancora una volta, le memorabili parole che figurano in data 26 giugno 1821 nello Zibaldone: « Da qualche tempo tutte le lingue colte d'Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra tutto giorno nella conversazione, fino nella conversazione o nel discorso meno colto,

meno

meno

Non

parlo poi delle voci pertil'Europa conviene... Insomma tutte o quasi tutte quelle parole ch'esprìmono precisamente un'idea al tempo stesso sottile e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte d'Europa, eccetto piccole modificazioni particostudiato,

nenti alle scienze,

artifiziato.

dove quasi

tutta

per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una un vocabolario strettamente universale ».

lari,

specie di piccola lingua o

Cita, poi. Leopardi, le parole genio, sentimentale, dispotismo,

demagogo, fanatismo, originalità che i purinon accettano « sicché » egli aggiunge « bisogna tacere, o scrivere cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l'italiana letteratura e filosofia resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre. E co-

analisi, analizzare, sti

me

no, senza la lingua?

»

Oggi a nessuno verrebbe

in

mente di mettere in dubbio da Leopardi, tutte ben

gittimità della serie di parole citate

mate nell'uso. In verità quelle voci erano

la le-

affer-

di origine straniera

o

risentivano di usi stranieri, per esempio, dispotismo, pur essen-

do parola greca per origine, veniva a noi filtrata dal francese disi dica di demagogo, anch'essa di origine

spotisme; altrettanto

ma

greca

arrivata a noi nel significato

magogue; e

moderno

dì fanatismo, la cui origine

dal francese dé-

remota è dal latino fana-

ticus « ispirato da un estro divino » ma arrivato dal francese fanatisme; analisi e analizzare di origine greca che hanno avuto fortuna per l'influenza del francese analyse e analyser.

Abbiamo dunque

in

sull'eredità classica,

derna, cioè

il

altre lingue e

il

Europa molte voci comuni che latino

ed

il

greco,

ma

la loro

luogo della loro nuova introduzione, il

si

fondano

origine si

mo-

trova in

tramite non è unico.

rivolgiamo a una voce moderna, in quanto risale al 1960, e cioè media (da mass-media) con cui si designano i mezzi di comunicazione di massa, constatiamo che essa è latina essendo

Se

il

ci

plurale del latino

medium

« ciò

che

sta in

mezzo

»

poi sviluppa-

74 tosi col valore di «

re

un

la

senza difficoltà

procedimento

di cui ci si vale per raggiunge-

fine », e di qui viene la propensione di molti ad accoglierin italiano,

è stata lanciata dall'inglese e

ma non si

si

deve dimenticare che

trova anche in francese mèdia,

con l'accento, ovviamente, sull'ultima vocale. Per quanto mi riguarda, non ho alcuna difficoltà ad usare mezzi di comunicazione (di massa). [DCorr.

19.2.1987]

//

vocabolario senza Aids

In un recente incontro radiofonico liana nel duemila si

è risolto in

liano con

tutti

».

Poiché

i

un esame - un quegli

alti

il

linguisti

altro

-

tema era « La lingua itanon sono astrologi tutto

sullo stato attuale dell'ita-

e bassi che l'argomento comporta.

Ma

poiché alcuni principi generali si possono fissare, anche un timido sguardo sul futuro è permesso. È facile dire che l'italiano sarà quello che la società e la cultura vorranno che sia. Se la società - e soprattutto la cultura - subiranno cambiamenti sostanziali si può presumere che anche la lingua, specie per quanto riguarda il vocabolario (è da insistere su questo punto) avrà i suoi mutamenti, sia pure modesti. Un famoso sociologo è arrivato a prospettare mutamenti sociali per colpa dell'Aids. Le coppie sia eterosessuali sia omosessuali tenderanno, secondo tale ipotesi, a diminuire e a trasformarsi da coppie vaganti o aperte in coppie fisse. Quale mutamento linguistico possa produrre tale presunta tendenza è difficile dire. Poi è anche da supporre che la medicina, sempre pronta ad aiutare gli uomini in ogni circostanza, compia un altro dei suoi miracoli e trovi un antidoto per l'Aids e allora tutte le sup-

posizioni di questo genere verrebbero a cadere.

Più concreto appare il discorso sulla realtà attuale. All'analfabetismo di un tempo si è sostituito un allarmante analfabetismo di ritorno. Certi modelli culturali (quelli rappresentati dal latino e dallo studio serio della storia) si sono molto indeboliti ed il livello di istruzione è diventato molto basso. Quello che sto per raccontare non è una barzelletta. Poco tempo fa, Sandro Paternostro, conducendo un'inchiesta televisiva in una strada di Milano, ha chiesto ad una signora ben vestita e dall'apparenza educata, che cosa è, nel bilancio dello Stato, la spesa corrente. La risposta è venuta subito, senza esitazioni: la spesa corrente è quella che si fa per la luce elettrica, quella che si paga all'Enel. Come al solito, un linguista che cerchi di fare decorosamente il proprio mestiere non si ferma a segnalare lo sproposito ma si domanda le cause del mastodontico equivoco. È noto che il linguaggio della pubblicità fa uso di costruzioni in cui compaiono due sostantivi correlati ma senza alcun legame di preposizione. È il tipo che compare in prova-finestra che esprime una prova

76 fatta alla finestra, alla luce del giorno.

rente viene interpretata

come

spesa per

Ed ecco che spesa corla corrente e non come

spesa ordinaria, opposta alle spese straordinarie. Tali forme di non sono, temo, affatto rare.

incultura

Un

esempio. Leggo in un articolo di Luciano Satta che che sta per « Circolo ricreativo assistenziale dei lavoratori », è stata, per così dire, colta in flagrante nella formazione di un plurale Crals con quell'^ che indicherebbe il plurale come nelle parole inglesi. Il caso è sicuramente patologico ma non per questo meno reale e commoventemente ridicolo. Molti di noi si raccomandano di non mettere mai la s del plurale nelle parole straniere usate in italiano e consigliano di dire // leader e / leader, il club e / club, lo sport e gli sport. Altri sono un po' pili possibilisti e consigliano di usare la s in qualche caso altro

la sigla Crai,

particolare.

Ma

a fare

come

il

plurale di una sigla italiana

come

Crai, trattando-

una voce inglese, non era ancora giunto nessuno. Un bel progresso davvero che apre paradossalmente prospettive luminose come donnas, plurale di donna e asinos, plurale la

di asino.

se fosse

Un

altro

esempio, diciamo di cattiva informazione, viene

da alcuni attori che, non appena trovano in un testo italiano antico un et lo leggono et e non e (o ed davanti a vocale), come si dovrebbe. Cosi nel Cantico delle creature di San Francesco si sente: Laudato si mi Signore, per frate Vento et per Aere et Nubilo et Sereno et onne Tempo, invece di per frate Vento e per Aere e Nubilo e Sereno ed onne Tempo. Basta leggere la nota 3 di p. 4 del volume « La letteratura italiana delle origini » di Gianfranco Contini, filologo, come si sa, molto autorevole, che suona così: « Si avverte una volta per tutte che la grafia latina va interpretata all'italiana (et vale e o ed, ecc.) ». Raccoglieranno gli illustri attori che leggono i testi antichi in teatro o alla televisione (magari in trasmissioni che si propongono di far conoscere meglio l'italiano) questo monito? Sarebbe bello che lo facessero. '

[S.

20.2.1987]

//

povero bandito

« gli

tempo fa a Indro Montanelli, un lettore gli rimproverava, senza mezzi termini, di aver usato gli al posto di loro, estendendo il suo biasimo a Giovanni Arpino, reo della stessa colpa. Aggiungeva che se trentacinque anni fa, nell'Istituto tecnico che aveva frequentato, egli avesse detto spiegargli invece di spiegar loro, avrebbe avuto « un segnacelo blu e il voto conseguente ». Nella vicenda mi sorprese la risposta di Montanelli: « Usare gli per loro è scorretto. E se io fossi professore in cattedra come lo era mio padre -, investito della missione di difendere la lingua, non farei risparmio di matita blu contro simili sfondoni. Ma, vede, noi giornalisti siamo quelli che, per motivi e impegni di 'comunicabilità', più soffrono della secolare malattia che In una lettera inviata

affligge la nostra lingua: la divaricazione fra quella parlata e quella scritta... Il

giornalismo, essendo destinato a un pubblico non

ma

piti

magari anche di taverna, ha cercato di accorciare le distanze fra queste due lingue, ma per far questo ha dovuto e deve molto concedere a quella parlata, che della grammatica s'infischia anche perché la maggioranza di coloro che la parlano la grammatica non la conosce (al contrario di quanto avvenne in Francia, dove fu la lingua parlata che, grazie a una superiore scolarizzazione e cultura, assunse i modi Palazzo,

di strada, di bottega e

delli di quella scritta », ecc).

problema è molto comminor matita blu o rossa, ma per

Poiché lo stesso Montanelli dice che plesso,

mi

misura

di gli per le)

il

limiterò alla questione del gli per loro (e in

senza parlar di

ragionare un po' sulla questione.

La

lezione che ci dà in proposito Alessandro

Manzoni

è,

an-

esemplare. Si dice, ed è fondamentalmente vero, egli si adeguasse al modello toscano e piti specificamente a quello fiorentino; ma aveva un cervello fine e ne faceva buon uso.

che che

in questo,

Nel Dizionario di Petrocchi (1887-1891) si legge alla voce gli: di caso dativo per il maschile ed il femminile, per il singolare e per il plurale. Per il femminile e per il plurale negli scritd è meno usato ». Seguono gli esempi: Digli a quella seccatura che m 'esca di tomo. Gli vuoi bene ai genitori ? Scrivigli a Gigi, con l'impagabile proverbio: Chi bella donna vuol parere, la pelle del viso gli convien dolere. E questo è veramente l'uso toscano, anche di oggi. «

pronome

78

Ma

Alessandro Manzoni non usa mai

del tutto l'uso toscano. pio: « vi). «

Quanto a

La legge l'hanno Chi

si

(cap. xi). «

gli

fatta loro,

gli per le trascurando per loro ecco qualche esem-

come

gli

cura di costoro a Milano? Chi

E andavano non

solo curvi,

ma

è piaciuto

gli

darebbe

»

(cap.

retta? »

sopra doglia, come E tutti coloro che

se gli fossero state peste l'ossa » (cap. xi). « gli

pizzicavan

le

mani

di far

qualche bella impresa

e così via per un'altra decina di casi che

si

» (cap. xii),

possono trovare elen-

Francesco d'Ovidio, del 1878. si deve MAI usare? I grammatici di rigorosa fede puristica che non volevano e non vogliono distinguere fra le possibilità di variazione che possono consigliare ora un loro ora un gli. Chi troverebbe mai a ridire su una frase come: Li ho incontrati e gliene ho dette tantel L'importante, anche questa volta, è ragionare sui fatti linguistici senza alcun preconcetto. Il caso di cui parliamo è uno di quelli nei quali l'uso può spuntarla sulla norma, tanto più che la norma ha basi fragili anche nella tradizione letteraria, che non può essere trascurata. Ci sono degli esempi di gli per loro (e tralasciamo quelli di gli per le) a partire dal Trecento (in Giovanni Villani, nel Volgarizzamento di Marco Polo), nel Cinquecento (in Della Casa), nel Seicento (ecco un esempio di Galileo: « Non so quello che i peripatetici ftisser per dire, atteso che le considerazioni fatte da voi credo che gli giungerebbero per la maggior parte nuove »), nell'Otto-

cati nei

Saggi

critici di

Allora, chi diceva e dice che gli per loro non

cento (Cesari) e nel Novecento (Pavese). Ma bisogna dire che, come ricorda Bruno Migliorini, gli per

a loro è biasimato dal cinquecentista Varchi, per non parlare di gli per a lei che è condannato dal Ruscelli, dallo Strozzi, dal Salviati, pure cinquecentisti. È in questi grammatici e trattatisti l'origine del bando in cui molti tengono (ricordiamo le parole di Montanelli che, pure, come si è visto, è in buona compagnia) l'uso di questo povero gli. [S.

28.2.1987]

congiuntivo è ammalato: salviamolo

//

Sul congiuntivo

se ne sono dette tante

miamo ancora un momento sì

ma

converrà che

ci fer-

sull'argomento, procedendo, per co-

dire, sperimentalmente.

Prendiamo due Si dice che

È

il

frasi:

dice che

il

congiuntivo è morto; 2)

proprio vero che non vi è nessuna differenza?

che, con la prima,

che

1) Si

congiuntivo sia morto.

affiori alcun

si

A me

pare

faccia una constatazione irrefutabile, senza

dubbio; con

la

seconda

si

esprima qualche

in-

certezza sulla morte del congiuntivo.

Certamente negli anni ruggenti di Lascia o raddoppia? o del Musichiere si sono sentiti Mike Bongiorno e il compianto Mario Riva usare molti indicativi in luogo dei congiuntivi. Si sa che nel meridione d'Italia il congiuntivo, come diceva il grande dialettologo Gerhard Rohlfs, ha una certa impopolarità. Ebbene, Bongiorno è siculo-americano e Riva era romano. Insomma, se qualcuno dice: Credo che è malato, il primo pensiero che potremmo avere è che si tratti di un parlante di origine meridionale; ma c'è da tener conto del fatto che, negli ultimi decenni, il congiuntivo si è ammalato piuttosto gravemente un po' dappertutto. A ridurlo nelle attuali condizioni ci si sono messi anche autori celebri: Gadda, Pasolini, Moravia. Gadda ha usato molti indicativi del tipo Mi pare che stai diventando un pò scemo anche prima di scrivere Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in cui indicativo e congiuntivo si alternano a seconda che l'autore voglia far risaltare la lingua del popolo o distenda la sua prosa in parti descrittive. Pasolini, nel suo primo romanzo del 1949- '50, // sogno di una cosa, usa il congiuntivo secondo le norme classiche, l'indicativo per il congiuntivo fa il suo ingresso in Ragazzi di vita, 1955, e diventa prevalente nel 1959 in rapporto all'uso del roma'

nesco. In

Moravia

frasi

come

E

credi forse che

ti

amo ? sono molto

frequenti anche in rapporto ad una presenza del

romanesco per

così dire soggiacente all'italiano.

Un'influenza molto forte sull'uso dell'indicativo per

il

congiun-

tivo ha esercitato la lingua del cinematografo, in particolare del

cinema neorealista,

in gran parte ambientato e prodotto a Della lingua della televisione si può dire altrettanto.

Roma.

80

La debolezza

del congiuntivo deriva anche dal fatto che certe

sue forme sono uguali a quelle dell'indicativo.

Se dico: Antonio non crede che noi lavoriamo o che noi leggiamo o che noi partiamo (usando così verbi di tutte e tre le coniugazioni), non sappiamo dire se quei verbi siano all'indicativo o

al

congiuntivo.

il messaggio che vogliamo trasmettere risulta adambiguo. Che cosa vuol dire: Non crede che ami Maria? Se quell'am/ è congiuntivo non si sa se si riferisce alla prima, alla seconda o alla terza persona. Se è indicativo non può riferirsi che alla seconda persona. Alla decadenza del congiuntivo nell'Italia settentrionale ha certo contribuito l'imitazione del meridione ma anche autori moderni non meridionali usano spes-

In certi casi

dirittura

al posto del congiuntivo. Qui, però, si vorrebbe affermare una verità incontrovertibile. Secondo le vecchie grammatiche non era certo corretto dire: Voglio che tu mi dici la verità. Temo che piove; ma tutte ammettevano che quando si volesse affermare qualche cosa di certo, si doveva usare l'indicativo. Frasi come Credo che la terra si muove o Credo che Dio esiste erano indicate come costruzioni corrette. Infatti, se uno di-

so l'indicativo

si muova o Credo che Dio esista, insinuerebbe un dubbio sull'esattezza dell'enunciato. Prendiamo Dante (Inferno xiii, 25) ed il suo celebre: Cred'io eh 'ei credette eh 'io credesse, in cui, evidentemente, il poeta, col sottile gioco dell'indicativo e del congiuntivo, esprime nel primo caso certezza e nel secondo supposizione o dubbio. Rivolgiamoci ora all'autore che ancora oggi costituisce un esempio anche per certe trasgressioni alle norme più rigide (come il gli per a loro e certi anacoluti). Alludo, ovviamente, ad Alessandro Manzoni che, in un passo del romanzo, dice: « Parlo da buon cristiano e della Madonna penso meglio io che voi; perchè credo che non vuol promesse in danno del prossimo », con l'indicativo vuol che indica certezza. Ma, quando descrive i bravi, dice: « Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettare qualcheduno, era cosa troppo evidente », in cui, nonostante la certezza di quello che appariva chiaro, si usa il congiuntivo stessero. Vogliamo provare a cambiare? Trascriviamo: Che i due descritti di sopra stavano ivi ad aspettar qualcheduno era cosa troppo evidente. A chi potrà piacere il periodo così riformato? A me certamente non piace. Però meno intollerabile sarebbe il perio-

cesse Credo che la terra

81

Era cosa troppo evidente che i due sopra stavano ivi ad aspettar qualcheduno. Il congiuntivo può ancora rappresentare una ricchezza dell'italiano, una sua prerogativa, visto che in francese e in inglese è andato sempre più decadendo fino a non apparire piìi rilevante. Non si venga a dire che se non l'hanno più altre lingue noi possiamo farne tranquillamente a meno. La struttura di una lingua è diversa da quella delle altre. do

se fosse costruito così:

descritti di

[DCorr. 5.3.1987]

Capibanda e donne prete Negli

articoli

comparsi nei giornali

clusa con l'ammissione delle donne volte donne-prete (ed anche

sulla vicenda anglicana conal

sacerdozio,

donne prete senza

si

è letto più

che pone cuor leggero da certe sostenitrici della parità dei diritti fra uomo e donna, se si tratti di un plurale di preta femminile o del singolare prete. Per risolvere la questione bisognerà vedere se c'è qualche altro caso che possa aiutare. Prendiamo bambino-prodigio, il cui plurale è certamente bambini-prodigio e non bambini-prodigi, uomoscimmia (plurale uomini-scimmia), donna-cannone (plurale donnecannone e non donne-cannoni), valigia-armadio (plurale valigiearmadio e non valigie-armadi), chiusura-lampo (plurale chiusuresubito

il

problema, a causa della proposta

il

trattino)

fatta a

lampo e non chiusure-lampi). Al fondo di questi plurali sono soggiacenti frasi come « bambino che è un prodigio », « uomo che ha l'aspetto o la natura di una scimmia », « donna che pare un cannone », « valigia che è fatta o serve come armadio », « chiusura che si aziona in un lampo ». Cosi la donna prete è la donna che esercita le funzioni produbbio iniziale viene risolto: prete è maschiche abbiamo esaminato sono particolari nel capitolo molto complesso dei nomi composti o giustapposti itaprie del prete ed

il

le singolare. I casi

liani. Parole come acquedotto, ferrovia, manoscritto non presentano difficoltà perché a nessuno verrebbe in mente di usare altro plurale se non acquedotti, ferrovie, manoscritti.

Le due

parti dei composti sono così intimamente legate da renprima quasi fossilizzata e non suscettibile, perciò, di alcuna variazione. Ma se passiamo a capocuoco, capocomico, capoluogo e simili, esitiamo: capocuochi o capicuochi?; capoco-

dere

la

mici o capicomicil; capoluoghi o capiluoghil I vocabolari e le grammatiche danno tutte e due le forme; ma non è forse un caso che l'unico esempio letterario, di Carlo Cassola, presentato nel Dizionario di Battaglia, sia capocomici mentre nessun plurale capicomici vi figura; nessun plurale si ha, nello stesso Dizionario, per capocuoco, mentre due esempi di capoluoghi ci sono, uno del

È

Manzoni e uno

di Pasolini.

impossibile fare statistiche su esempi scarsi

che vi è una tendenza a preferire

i

plurali

con

la

ma

si

direbbe

prima parte

in-

.

83

Non per nulla al plurale femminile si ha capocuoche con quel capo che a nessuno è mai venuto in mente di cambiare. Nessuna esitazione per i plurali capibanda, capifamiglia, capilivariabile.

nea, capipopolo, capireparto, capistazione Sul plurale di capolavoro

si

espresse così

meglio che

'capolavori'

plurale

il

Tommaseo:

'capilavori'

e

non

«

Nel

'capila-

». Capilavori c'è, però, in De Sanctis e in Settembrini, menCorrado Alvaro, Palazzeschi e Gramsci hanno capolavori. Se madreperla non pone problemi col suo plurale madreperle, un quesito si pone per cassapanca (cassapanche o cassepanchel) in cui è forse da propendere per il primo, secondo un uso che mi pare anche degli autori di cui esistono esempi. Il plurale di pescespada è pescispada e a nessuno viene in mente di dire pe-

voro' tre

scispade.

Per tornare

po

della

ai plurali di

banda

di lavoro » se

»;

capobanda e

simili, si parte

invece, capolavoro non è sentito

non

da un

come

«

« ca-

capo

nel rapporto, che certo vi è stato, col fran-

Ma, quando si tratta ài pomodoro viene fuouna discussione che non finisce mai: pomodori o pomidori o pomidorol Penso, se un consiglio si può dare, che convenga usare pomodori perché il discorso fatto per caporeparto (capo di reparto) qui non vale se non riesumando quell'etimologia pomo d'oro che, temo, è ormai lontana dalla coscienza dei parcese chef-d'oeuvre. ri

lanti.

Se

hanno due

il secondo varia: agrodolci, sorcomposti sono formati da un aggettivo e da un sostantivo, per il plurale si modifica il secondo membro: biancospini francobolli galantuomini, granduchi; ma se i due elementi non sono sentiti come un'unità, allora si può avere una modificazione di tutti e due i membri: buone lane, mezzetinte; o addirittura la variazione del secondo membro: palcoscenici, ma in questo caso l'aggettivo segue il sostantivo. Un problema a sé è purosangue, sempre invariabile. La cosa si spiega se si pensa a quanto era scritto in un organo di stampa milanese del 1838: « Diconsi di puro sangue i cavalli spettanti alle più fine e pregiate razze d'Arabia e dell'Inghilterra », esempio che figura anche nel Tommaseo. Certo entra qui in ballo il francese pwr sang (attestato nel 1854) che è anch'esso invariabile. Il bello è che se purosangue significa « cavallo che ha il sangue puro », ricorda composti come il sanscrito mahatma, il greco megdthymos, il latino magndnimus, che

si

aggettivi solo

domuti, pianoforti.

Quando ,

i

,

84 tutti sti

te,

significano

possessivi.

A

«

che ha un grande animo

»: si tratta

queste riflessioni hanno condotto

le

di compodonne pre-

ad un capitolo, cioè, ben intricato dell'intricatissima lingua che non abbiamo certamente esaurito con le nostre os-

italiana

servazioni.

[S.

18.3.1987]

Firenze o Lucca?

La

hanno progetnon avrebbe suscitato anche una commissione

notizia che organizzazioni televisive olandesi

tato

un corso

di lingua italiana per turisti

tanto scalpore se

non fosse

stata citata

che avrebbero dichiarato di preferire la di Lucca ad Arezzo, a Siena, a Firenze perchè proprio a

di studiosi dell'Olanda città

Lucca

si

parla l'italiano migliore.

la notizia

mi

Devo

confessare che, quando

fu data per telefono perché io ne dicessi qualche

non volessero far capo al ColleViareggio dove fondai, nel 1950, dei Corsi estivi di lingua e cultura italiana che durano tuttora. Lì per lì non seppi che cosa rispondere perché non avevo notizia precicosa, chiesi se questi olandesi

gio Cristoforo

Colombo

di

sa di tale iniziativa.

Ora che ne so qualche cosa, devo dire che, se il corso è di almeno 25 mila gli utenti del servizio, quello che conta non è tanto il luogo dove viene girato il filmato italiano parlato e saranno

(di

questo pare che

rigeranno

il

si tratti)

programma.

la trasmissione,

quanto

la

persona o le persone che dipersona condurrà a caso

Infatti, se tale

entrando per esempio in un negozio lucchese, sen-

za sapere prima chi risponderà, potrà sentirsi dire, con

la tipica ca-

che c'è una Lucca di drento e una Lucca di fora con cui popolarmente si indicano la città storica entro le splendide mura e il suburbio. In realtà questa divisione, importantissima per ogni comunità umana, è sensibile anche e in modo particolare a Lucca perché la Lucchesia è (o era) di singolare importanza per la conservazione di elementi arcaici che la distinguono da Firenze. Nel Medioevo i dialetti di Lucca e di Pisa (almeno in questo lata del luogo,

c'era una certa unione) avevano molti fenomeni in comune.

È

però necessario distinguere fra fenomeni vivi e fenomeni ormai perduti. Nella fonetica, forme come nosso per « nostro » e mossare per « mostrare » sono ora relegate in punti sperduti della

Garfagnana e sconosciute

La

in città.

testi letterari del Duecendove si irovdipiassa per « piazza », pussolento per « puzzolento » ed è presente anche il gruppo consonantico ns per « nz » (Provensa per « Provenza », sof-

ss fra vocali per la zz

si

trova nei

to e del Trecento lucchese-pisano,

ferensa per « sofferenza », ecc.). Così scrivevano nel Duecento Pannuccio del Bagno, pisano, e Bonagiunta Orbicciani, lucchese, quel Bonagiunta che, posto

86 fra

golosi (pare che gli piacesse bere), nel Purgatorio (Canto

i

xxiv) predice a Dante che una certa Gentucca, lucchese, piacere la

città;

come

si

vede, non sono

stati gli

olandesi

scoprire l'affabilità degli abitanti e delle abitanti di Lucca. in città ss

per

«

zz

»

non

si

sente

piìi

gli farà

i

primi a

Ma oggi

e solo relitto pare essere

un

proverbio, Grassessa fa bellessa, che, come tutti i proverbi, conserva non solo saggezza ma forme antiche. Una peculiarità del dialetto

lucchese è la presenza della r semplice per la r rafforzata, tan-

che

to

si

sentirà dire ancora oggi, in persone di cultura

bassa, guera, tera, chitara, ecc. in luogo di tarra »,

fenomeno presente, come ognuno

sco. Avrei

dovuto dire anche

sa,

medio-

guerra, terra, chi-

anche nel romane-

dove tutte fenomeno sarà giun-

nell'Italia settentrionale

consonanti diventano semplici e dal

le

«

Nord

il

con le forme che presentavano ss invece Lucca c'è anche un relitto, matone per « mattone ». Nella parlata lucchese di oggi, come si vede, si hanno solo tracce (ma ci sono) di quello che caratterizzava il lucchese antico ed anche nella coniugazione i lucchesi usano ancora oggi la ter-

to al lucchese insieme di « zz ».

A

za persona plurale in -ino invece che in « -ano » e dicono chiamino invece di « chiamano », esistevino invece di « esistevano », ma, a voler essere cattivi, si può dire che con queste forme fan-

no

paio quelle del congiuntivo in uso a Firenze

il

(le

ho

sentite

dire da fior di laureati), presenti anche in grandissimi scrittori

come

Machiavelli. Nel Dialogo intomo alla nostra lingua, nel quale fa fare una cosi brutta figura a Dante Alighieri (è raro che fiorentini vadano d'accordo fra di loro), ad apertura di libro i troviamo un venghino per « vengano », un abbino per « abbia-

no », un faccino per « facciano ». C'è a Lucca e a Pisa, nei rispettivi vernacoli, enno per « sono », terza persona plurale di essere. Fuori della coniugazione, si sente nelle due città, molto frequentemente, un per « non ». Ci sono delle buone ragioni per spiegare il mutamento dal lucchese antico al lucchese moderno. Lucca (e prima ancora, e piti fortemente, Pisa) ha subito l'influsso di Firenze, tanto che oggi, nella parlata comune, non si trovano più numerosi tratti di differenziazione in

città.

Toscana dobbiamo fare

i conti con la diffusione della varieha condizionato tutta l'Italia. Resta invece vivacissima l'intonazione o la calata insieme con qualche

In

tà fiorentina che, del resto,

peculiarità, e restano, naturalmente, voci del vocabolario caratteristiche per ogni territorio.

87 Se agli olandesi suona meglio il lucchese, si servano pure, ma non parlino di italiano migliore. Si ricordino che c'è chi ha parlato di lingua toscana in bocca romana e chi ha sostenuto che l'italiano migliore è il toscano in bocca ambrosiana. Ma per uno straniero la nostra lingua migliore è quella di un italiano colto che non faccia troppo sentire il suo luogo d'origine e si esprima in modo chiaro, degno di una lingua che vuole rappresentare tutta la

nazione. [DCorr.

19.3.1987]

Chi spara sul dotto provinciale

NELL'ULTIMO, per ora, discorso di congedo alla Camera, l'onorevole Bettino Craxi ha chiamato dotto provinciale, come è stato riportato dai giornali, un personaggio (non so chi sia ma ai nostri fini non importa) che aveva contraddetto certe sue affermazioni.

La storia della parola provinciale in senso non precisamente riguardoso è abbastanza curiosa. In quanto abitante della provincia, « a differenza,

metropoli giativo,

»

non

dice

il

Tommaseo,

risale più in là dell'Ottocento.

Modi da

dice

come

di chi abita nella

è di attestazione cinquecentesca; ma, nel senso spre-

provinciale; Ci

Provincia dove

si

legge: «

si

vede

Lo

Tommaseo

stesso

provinciale e rimanda a

il

Lo dicono con disprezzo

gli

uomini

superbi di Vivere nella città capitale, che in molte cose è più goffa e villana d'assai

me

».

Al Tommaseo

fa

eco

il

Fanzini, fin dalle pri-

edizioni del suo Dizionario moderno, del principio del no-

stro secolo. Il

nocciolo di tutto ciò,

come

di

molte

altre cose,

francese provincial. Già in una battuta di Molière



va visto nel Mi prende-

per una provinciale? ») poi in Voltaire (« Non era più quella ragazza semplice di cui una educazione provinciale aveva ristretto le idee ») c'è il valore peggiorativo del termine. In Francia l'accentramento culturale di Farigi è sempre stato una realtà innega-

te

bile e la differenza fra le)

il

provinciale e

divenne un motivo molto

sentito.

il

cittadino (della capita-

Quando Aragon

scrive: «

Che

cosa può capire di tutto ciò un giovane provinciale sbarcato da poco... » è evidente che quei provincial ha valore peggiorativo, usato com'è con senso di compatimento. L'opposizione fra città e provincia è certamente più sentita in Francia che in Italia. Roma, è, sì, la capitale odiosamata ma andate un po' a chiamare provinciali città come Milano, Venezia, Firenze, Torino e tante altre che hanno una vita culturale di alto livello.

La

storia italiana

si

è sviluppata in molti centri diversi e l'epi-

non può avere da noi lo stesso significato che Francia. Del resto, prendiamo le università. Che cosa han-

teto provinciale

ha in no da invidiare alle università delle grandi città quelle di Pavia, Padova, Pisa? Certo, le città piccole, sedi di grandi università, hanno i loro limiti ma, sul piano dell'apertura delle idee, si trat-

89 ta

pur sempre di realizzazioni imponenti, certamente non pro-

vinciali.

Per esempio, la Scuola Normale Superiore di Pisa, dalla quasono usciti Carducci, Gentile, Fermi e Rubbia per citarne solo alcuni, fu creata da Napoleone sul modello (guarda caso) dell' Ecole Normale Supérieure di Parigi, di quella Parigi dove si è sempre concentrata la cultura più avanzata della Francia. Dunque, in Italia occorre usare con cautela l'epiteto provinciale che, in sostanza, non risponde più a quello che voleva dire, a meno che non si voglia più giustamente applicarlo anche a certi abitanti di Roma, particolarmente di quei salotti di cui si è molto sentito parlare. E allora, non avrà avuto ragione Tommaseo? Un'altra ragione dello scadimento del significato ài provinciale nel senso di « rozzo », di « goffo », di « arretrato » è la velocità delle comunicazioni (sia pure con gli scioperi che ci affliggono) per cui provinciale non è tanto chi abita in una qualsiasi città che non sia la capitale, ma chi non è aperto al dibattito delle idee, chi non si occupa di estendere le proprie conoscenze, di migliorare la propria cultura: e in questo senso di provinciali ce ne sono dappertutto. Oggi si può andare da un capo all'altro del mondo, vi sono finestre aperte sull'universo e davvero il luogo dove si abita conta molto poco. Ma una spiegazione si rende necessaria: forse stare a Roma vuol dire maggiori possibilità di contatti con gente che conta (mia nonna diceva che chi vuole scaldarsi deve stare al sole) ma non sempre questa gente che conta è ad un livello tale da capire adeguatamente le capacità di certe persone che contano poco ma meriterebbero di contare molto di più. Non parliamo poi della limpidezza di certi potenti. Non mi pare questa una valida ragione di disprezzo per i poveri provinciali che dalla periferia hanno una ancor maggiore possibilità di valutare i difetti del Parlamento e del governo ed hanno una più grande capacità di cercare, nonostante i condizionamenti, di uscire dalla palude. Resta piuttosto quel dotto e qui davvero c'è da domandarsi se, nella scarsa cultura in cui ci troviamo a vivere, non sia questo un epiteto offensivo, con le sue connotazioni arcaiche. le

[S.

29.3.1987]

Poesia siciliana e poesia toscana

È

VERO, bisogna saper leggere bene perché la lettura è fondamentale nelle nostre conoscenze linguistiche. Vorrei, come esempio, proporre un punto che, se non è inteso correttamente, può portare ad equivoci e far restare al di qua di quella soglia di comprensione che è sempre necessaria. Non so quanti fra gli insegnanti che leggono ancora il Cinque Maggio di Alessandro Manzoni ai loro scolari diano una spiegazione valida di quel nui che compare nel celebre passo: Fu vera gloria? Ai posteri L'ardua sentenza: nui Chiniam la fronte al Massimo Fattor che volle in lui Del creator suo spirito Più vasta orma stampar. Molti, temo, lo spiegheranno con quel comodo artifìcio che consiste nel far ricorso alla licenza poetica.

Quel nui dà, invece, toli piti interessanti

la possibilità di spaziare su

uno dei capi-

della storia della lingua poetica italiana.

Fin dall'inizio, la nostra poesia non fu scritta in un solo idioin molte lingue diverse. Ebbene, fra i prodotti letterari delle origini, un posto cospicuo ebbe la produzione letteraria della Scuola poetica siciliana, quella degli scrittori che fecero capo al-

ma ma

la corte del

grande sovrano Federico

II,

morto

nel 1250. Ora,

quel manzoniano nui è una forma siciliana mantenuta attraverso

una lunga tradizione. Bisogna sapere che quasi

tutte le poesie della scuola poetica toscano per i mercanti fiorentini, non insensibili ai fatti della cultura, sia pure di importazione, anche se molto attenti ai loro guadagni. Le traduzioni, se potevano ri-

siciliana

furono tradotte

in

produrre quasi tutte le parole dei versi, erano però soggette a peccare nelle rime. Se in siciliano « noi » si dice nui e « ognora » ognuri e se queste parole erano in fine di verso, come potevano rimare con le parole toscane delle traduzioni? Ed ecco che, per esempio, in una famosa poesia del poeta Giacomo da Lentini troviamo un ognora che rima con pintura (« pittura »). È, dunque, necessario restaurare (perché di vero e proprio restauro si tratta) e mettere l'originario siciliano ognura al posto del toscano ognora in modo da avere una rima con pintura. Il contatto fra siciliano e toscano fu, dunque, così importante che in toscano entrarono elementi dalla Sicilia come è il caso di nui presente anche in Dante (per esempio. Inferno 9, 20): Questa questionfec'io; e quei « Di rado Incontra », mi rispuose, « che

91 di nui Faccia

il

cammino alcun per qual

io

vado

»

.

Questa era

passo secondo buoni codici antichi. E qui cadde nel trabocchetto anche Niccolò Tommaseo quando scrisse « nui invece di 'noi' per la rima ». Niente affatto. Le parole siciliane nui « noi » ed anche vui « voi » si radicarono al punto nella lingua poetica italiana che non furono sentite come elementi estranei; del resto, per dare anche qui un solo esempio, alla fine del I canto deW Orlando Furioso di Ludovico Ariosto si legge: la lettura tradizionale del

Son dunque (disse il Saracino) sono Dunque in sì poco credito con vui, Che mi stimiate inutile e non buono Da potervi difender da costui? Da questa tradizione ha origine il nui del Manzoni. Tutto bene fin qui ma... c'è un ma. Prendiamo in esame i versi dello stesso poeta Giacomo da Lentini: Canzonetta novella, Va canta nova cosa; Levati da maitino (mattino) Davanti a la più bella Fiore d'ogni amorosa, Bionda più e 'auro fino. È la parte finale della stessa poesia, quella in cui l'autore

si

rivolge alla can-

zone ed evoca la donna vagheggiata. Ebbene se qui ci mettiamo a restaurare, mettendo la parola siciliana amurusa in luogo di « amorosa », la rima con la parola corrispondente, cosa, non toma più perché cosa anche in siciliano si dice cosa e non cusa. E allora come la mettiamo? Bisognerà pensare alla possibilità di una rima imperfetta in cui amorusa con u potesse rimare con cosa con o. Per persuadere il lettore di tale possibilità, devo ricordare che la nostra poesia (non solo quella dei cantautori) è piena di rime imperfette come quella di amore (con o chiusa) e cuore (con o aperta), differenza fortemente sentita in toscano anche se altrove le due o si neutralizzano e non si avverte la differenza. Basterà dare un esempio, e lo prendiamo dal Carducci che, nel famoso Congedo che chiude il suo volume di poesie, scrive: Fior tricolore Tramontano le stelle in mezzo al mare E si spengono i canti entro il mio core; con due parole in rima, tricolore con o chiusa e core con o aperta. Accade così che quei famosi versi di Dante col nui compaiono nell'edizione critica di Giorgio Petrocchi con noi, in rima con fili. Una spiegazione trova anche la forma lume che rima con come nel famosissimo passo di Dante che riguarda Cavalcante Cavalcanti (Inferno x, 66 sgg.): Di subito drizzato gridò: « Come? Dicesti 'elli ebbe'? non viv'elli ancora? Non fiere li occhi suoi lo dolce lume? » Dunque lume e non lome si deve leggere

92 perché era possibile avere una rima imperfetta. La realtà linguistica vuole lume, parola che appare in tanti altri passi di Dante, mentre lome è un mostriciattolo. [DCorr. 2.4.1987]

Perché non facciamo un pò

'

di trotterello ?

Nell'esaminare la situazione della lingua italiana di oggi colpiscono alcuni fatti la cui presenza condiziona lo svolgimento del nostro esprimerci quotidiano: il primo è l'elemento straniero, particolarmente inglese, che entra anche là dove non dovrebbe, come è accaduto in una tesi di laurea in cui uno studente, per rendere la parola tedesca Leit-motiv, « motivo guida, motivo fondamentale », di grande uso anche fuori del linguaggio della musica, ha tranquillamente scritto lightmotiv, scambiando quel primo elemento Leit-, che è dal verbo leiten « guidare », con l'inglese tight,

che significa

«

luce » e « leggero

»,

stravolgendo così

gnificato della parola che ha subito, dunque,

il

si-

una grande prepo-

tenza da parte dell'inglese, lingua dominante, e sia pure per igno-

ranza (profonda ignoranza, e non della lingua tedesca soltanto) dello studente.

L'atteggiamento dei linguisti di fronte all'invasione dei termimolto diversificato. Si va da una posizione di rigore simile a quella di certi puristi dell'Ottocento che si opponevano all'introduzione di qualunque voce o locuzione che venisse ni stranieri è

dall'estero (e l'estero era allora soprattutto la Francia anche per-

ché il numero e la qualità dei francesismi era tale da minacciare seriamente la compattezza della lingua italiana) fino alla tolleranza di chi dice che non sono cinquecento o cinquemila o diecimila parole straniere a far temere il crollo dell'italiano. Fra queste due posizioni si colloca quella di taluni linguisti che esaminano i fenomeni caso per caso e si sforzano di individuare le ragioni della presenza delle voci straniere e cercano di far ragionare i lettori non tanto per proporre ostracismi o sostituzioni quanto per rendersi conto dei fatti per poi decidere. Fra gli intransigenti vi è un linguista, Arrigo Castellani, i cui meriti scientifici sono universalmente apprezzati, che, in una recente trasmissione televisiva, ha fatto alcune proposte di sostituzioni di termini stranieri che lasciano sconcertati. Egli ha detto che invece di week-end, che normalmente è reso in italiano con fine-settimana si dovrebbe dire intrèdima, con l'avvertenza che anticamente per dire « settimana » l'italiano aveva èdima (dal latino hebdomas, da cui edbomadario) che quell'mrra voleva dire « fra » e che la domenica non è da considerare l'ultimo giorno della settimana ma il primo. Un po' complicato davvero. Piti af,

94 fabile è trotterello per rendere yogg/Vig; alquanto misterioso

bia (per smog) risultato del connubio ài

fumo

è computiere (formato su pallottoliere) per computer,

colatore che mi pare soddisfi

le

hjub-

e nebbia; curioso

ma

c'è cal-

esigenze.

L'alta stima per Arrigo Castellani non mi impedisce di esprimere dissenso per le sue proposte. In verità, non è tanto la proposta fatta da uno studioso, sia pure eminente, quello che conta

per

la

diffusione di una parola (che ne è del velivolo di Gabriele

D'Annunzio per aeroplano e chi dice, oggi « Vado all'aeroporto a prendere un velivolo? ») quanto l'accettazione popolare, la sua il crisma ad una parola. La lingua sa indubbiamente reagire da sé. Nessuno dice più, come accadeva nel Settecento e nell'Ottocento, volare « per rubare », vengo di dire per « ho appena detto », portreto per « ritratto » e qui mi limiterò ad aggiungere un solo esempio di assorbimento, forse non ancora totale, di una parola francese. Quando ero giovane si diceva reclame e anche nei dialetti questa parola era molto usata. Oggi, senza che ci sia stata una forza coercitiva, come sta avvenendo ai francesi dove le parole straniere sono motivo di multe molto gravi se usate ufficialmente, la parola reclame non si usa più: si sente dire ormai comunemente pubblicità. Certo, l'influenza americana sul vocabolario italiano

diffusione presso larghi ceti della popolazione a dare dell'accettabilità

è notevole

ma

il

fenomeno

è generale in tutte le lingue del

mondo.

Ci sono lingue che reagiscono cercando di assimilare foneticamente le voci straniere e fra queste metterei lo spagnolo e in parte

il

francese.

L'italiano ha maggiori difficoltà a seguire questo procedimento

ma non

lo scarta a priori.

[DCorr.

16.4.1987]

latino della salvezza

//

Non

pare dubbio che, quando in Italia fu deciso per legge che giovani forniti di un diploma di scuola media superiore potessero accedere indiscriminatamente a qualunque facoltà, tanto che si videro studenti di scuole alberghiere o studentesse di istitutti

i

donna

iscriversi a medicina, a ingegne-

tuti

professionali per la

ria,

a giurisprudenza senza alcun preventivo accertamento delle

si permise a ciascuno di formarsi il proprio curriculum di studi, privilegiando, con la compiacente acquiescenza di talune facoltà, le micromaterie che una volta costituivano

loro capacità e

solo una piccola parte di una disciplina tradizionale,

no

si

imitava-

usi e costumi già invalsi all'estero.

Il

risultato è

che

meno

del trenta per cento degli studenti iscritti

alle facoltà universitarie riesce a

raggiungere

la laurea.

L'aboli-

zione del latino nella scuola dell'obbligo e il declassamento della stessa materia nelle scuole medie superiori e all'università fu-

come provvedimenti democratisognò perfino che l'italiano ne avrebbe tratto vantaggio senza pensare che gli insegnanti, nella loro grandissima maggioranza, erano impreparati a insegnare l'italiano senza riferirsi al latino. L'entusiasmo e l'ottimismo pare che siano grandemente diminuiti ed ancora una volta l'allarme è venuto dall'estero. Negli Stati Uniti, tempo fa, un gran numero di professori - si noti di matematica e fisica hanno firmato un manifesto in cui si prorono

ci.

salutati entusiasticamente

Si

poneva di riconsiderare le materie di studio ponendo l'accento - guarda caso - sul latino, sull'inglese e sulla storia. Si sono accorti che ragazzi, baloccandosi tutto il giorno con la televisione e coi giochetti computerizzati, hanno perso la capacità di i

esprimersi, per iscritto e oralmente, nella loro lingua.

Uno

dei padri dell'informatica è arrivato ad invocare nelle scuo-

le piti pianoforti

e

meno

calcolatori elettronici:

un pensierino da

offrire al ministro della Pubblica Istruzione, se è vero

che

gli

insegnamenti di musica e di storia della musica nelle nostre scuole

sono paurosamente arretrati. L'ultima notizia è da Londra: non è vero che il latino è elitario ma è addirittura un « formidabile strumento al servizio degli alunni confinati ai gradini più bassi della scala sociale.

Il

latino

può essere la loro salvezza più ampia e più dinamica » {La Stampa, 24 aprile, articolo di M. Ciriello); ma sono gli Stati Uniti

96 che se ne sono accorti per primi. luppa l'intelligenza

(io,

vecchio

A

chi diceva che

latinista,

ho

il

latino svi-

tuttavia espresso qual-

che dubbio), si opponeva che anche altre materie potevano adempiere questo compito. Il fatto è che queste altre materie pare non abbiano funzionato. Ad ogni modo, dopo gli Stati Uniti e l'Inghilterra, può darsi che anche l'Italia riveda la sua posizione verso il latino. Perché ci sia sempre bisogno di una spinta dall'estero, non so. Un manifesto di intellettuali italiani di parecchi mesi fa, di cui non si è piti sentito parlare, potrebbe segnare il punto di partenza di tale

considerazione.

[S.

30.4.1987]

Per

burocrazia esiste ancora

la

il

velocipede

che si occupano dell'italiano e delle forze che cambiando pensano soprattutto alle parole straniere, ma io credo che sarebbe da dare un'occhiata a quella parte del vocabolario che ci viene proposta o imposta dai linguaggi speciali

Quasi

tutti quelli

lo stanno

e in particolare dalla burocrazia.

Dopo

il

bambini, e

tempo

delle ludoteche, luoghi deputati ai giochi dei

deW obliterare

i

biglietti

invece dell'annullarli, mi sono

imbattuto, all'inizio di una strada centrale della città dove vivo, in un cartello che prescrive ai veicoli di non passare, escluse le ambulanze e le carrozzelle degli handicappati, e va bene, i mezzi della polizia, e va bene, i velocipedi, e questo va molto meno

bene.

Se si apre un vocabolario, si legge che il velocipede è un antico modello di bicicletta con una grande ruota anteriore e una posteriore molto piti piccola. Solo scherzosamente, aggiunge il vocabolario, la parola designa la bicicletta. Ora, escludendo il significato proprio, perché di velocipedi ce ne sarà ancora qualcuno soltanto in rari musei, per quale ragione il Comune avrebbe voluto scherzare? Perché non ha detto che è permesso il passaggio, oltre che agli altri mezzi di locomozione autorizzati, anche alle biciclette? Curioso come sono, l'ho chiesto ad un vigile il quale, dapprima imbarazzato, mi ha poi detto che forse tra i velocipedi sono da considerare i tricicli. Ora, io di tricicli ne ho visti girare pochi in città se si escludono quelli piccoli per bambini che circolano sui marciapiedi sorvegliati da vicino dalle madri. E allora perché velocipedi! Nel linguaggio burocratico non si chiamano mai le cose col loro nome ma con un nome arcaico, o antico o semisolenne, tanto che non mi meraviglierei se un giorno o l'altro apparisse su un cartello, accanto a velocipede, anche velocifero, che nel secolo scorso designava una diligenza rapida che faceva meno fermate e cambiava i cavalli più spesso della diligenza normale, per alludere, magari, a una moderna automobile superveloce. In questo ambito burocratico vivono parole eufemistiche, in parte

proprie del sindacalese, in parte di

altri

linguaggi burocratici

paramedico per infermiere (che mi fa sorgere il dubbio che venga fuori un giorno o l'altro il paraawocato, per designare quel-

corno,

98 lo

che era ed è ancora chiamato giovane di studio anche se va

verso

i

settant'anni di età),

so, allineamento

mento per perdita

numero programmato per numero chiuìnfìSLZÌone, fenomeno di assesta-

monetario per

di voti, operatore ecologico per spazzino

o

net-

turbino, operatore mercantile su spazio ed aree pubbliche per

È un linguaggio goffo ma ricercato che viene da ragioni di dignità o di riguardo che risalgono certamente molto in alto nel tempo se è vero che nei papiri greci l'analfabeta viene spesso chiamato « colui che scrive lentamente ». Tutto questo bel parlare (per modo di dire) si allinea alla ciabattosità di espressione ed alla trascuratezza che caratterizza ancora il linguaggio televisivo che anche negli ultimi tempi si è distinto in modo particolare nella pronuncia di parole straniere. Il 15 marzo ho sentito, alla radio, uno che, parlando dell'eredità dei documenti di Umberto II, diceva Cantone di Vaùd dimenticando che la pronuncia, trattandosi di francese, è vò e Caschi (questo è bellissimo) per il portoghese Cascais, la cui sola difficoltà può essere rappresentata dalla pronunzia della s finale. Non parliamo poi dell'ormai invalso crème càramel invece della normale pronuncia crème caramèl (in francese si usa crème au càramel) con l'accento, naturalmente, sull'ultima. Gli ultimi esempi fanno vedere quali infortuni incontrino le parole francesi, lingua che sta subendo danni per la sempre più ampia diffusione dell'inglese, studiato specialmente dalle nuove generazioni. Anche se il francese è conosciuto ancora in Italia da una percentuale maggiore di persone per la tradizione storicoculturale che lega l'Italia alla Francia, l'inglese ha fatto e continua a fare grandi passi e sta per raggiungere nel mondo, pare, il mezzo miliardo di persone che piti o meno bene lo conoscono per l'importanza assunta in tutta la terra dalla tecnologia, dalla ricchezza e dalla cultura degli Stati Uniti. Ma si noti che la supremazia di una lingua su altre è determinata dal prestigio, per formare il quale occorrono non solo mezzi finanziari e tecnici, ma, in modo determinante, quei valori umani e di civiltà che fanno grande un popolo. Anche quando subirono la forza preponderante delle armi romane, i greci conservarono la loro civiltà e i romani andarono a scuola dai greci, ne assorbirono la filosofia e ne imitarono l'arte. Nel mondo moderno gli scambi sono molto più frequenti di allora ma l'organizzazione della cultura ha ancora un grandissimo peso. Non è avventato dire che il nazismo crollò non solo sotto venditore ambulante.

giustificato

99 le

bombe

gire le lo, al

piti

degli alleati,

ma

per aver cacciato via o indotto a fug-

grandi intelligenze che vivevano in Germania. Fu, quel-

un atto di stupidità che il regime nazista pagò e fece pagare popolo tedesco molto duramente. [DCorr. 30.4.1987]

Uinterfaccia

e Galileo

Ho NELLA mia biblioteca un librone, il Dizionario enciclopedico scientifico e tecnico inglese-italiano italiano-inglese di McGrawHill Zanichelli che contiene 98.000 voci « tradotte in italiano nel linguaggio della scienza e della tecnica » e ho subito, per istinpensato ad esso quando una persona amica mi ha detto di esuomo di scienza: « Quando Lei non c'è, con chi posso interfacciare? ». QueW interfacciare è figlio del linguaggio dei calcolatori in cui il sostantivo inglese interface è tradotto dal dizionarione con interfaccia, parola che compare anche nell'ultimo Zingarelli in cui è data col valore di « Il complesso dei canali, e l'insieme dei cir-

to,

sere stata così interpellata da un

cuid di controllo ad esso associati, che assicurano

con

l'unità centrale e le unità periferiche di

come

il

collegamento

un elaboratore

elet-

ampia voce della scienza, « L'insieme dei punti in cui vengono a contatto due sostanze o ambienti o mezzi tra i quali esista una qualsiasi differenza ». Ma c'è di pili. Lo Zingarelli dà anche un valore figurato, cioè « Tutto ciò che costituisce un collegamento, un punto di contatto fra due diverse unità », con l'esempio: un'interfaccia fra i litronico » o,

pili

velli direttivi e gli

Devo

organismi sindacali.

mi sono molto vergognato al pensiero che io avrei detto, invece di :« Quando Lei non c'è, con chi posso interfacciare? », più semplicemente: « Quando Lei non c'è con chi posso parlare? » (non sono, evidentemente, abbastanza compudire che

terizzato), soprattutto

perché qualcuno potrebbe dire che inter-

facciare presuppone un collegamento che quel mio sbiadito parlare esclude del tutto. È ben vero che alla mia domanda avrei potuto aggiungere la

preghiera che la terza persona riferisse le mie parole, ma volete mettere la bellezza di un interfacciare, che ha dietro di sé tutta la scienza informatica, in confronto con parole come parlare (da parabola che dà parola) o come preghiera (dal provenzale preguiera, a sua volta da un femminile sostantivato del latino precarius da prex « prece »)?

Poi c'è

il

fatto

che se

il

verbo interfacciare non è registrato

dai vocabolari italiani, in inglese (ed in certi vocabolari bilingui, italiano-inglese) c'è, col valore di « funzionare

terfaccia

».

come

un'in-

101

La cosa potrebbe provocare una certa sfavorevole impressione nella persona che potremmo chiamare intermedia o intermediaria, tanto più che agire come faccia intermedia (quante facce ha un uomo per bene?) non pare da considerare come una piacevolezza.

Quanto a

me

ed

alla

mia

di Galileo Galilei, ricordo

mi consolo. Ammiratore grande scienziato, esemplarmente,

limitatezza,

che

il

non introdusse parole nuove nel vocabolario italiano, pur avendo fatto, come si sa, delle belle scoperte e pur essendo stato un grande scrittore. Furono altri, italiani e stranieri, a tenere a battesimo

Un

sue invenzioni.

le

neologismo che mi viene segnalato è screcciare, usaun disco o un nastro magnetico, in luogo di cancellarlo. Lascio al lettore immaginare perché non si usi la parola italiana ma una voce che riproduce l'inglese to scratch. Io non trovo altra ragione che l'italiano o non si sa più o non si vuole più usare. Nei casi di interfacciare e di screcciare non pare neppure che altro

to soprattutto nella locuzione screcciare

valga

po

decantata volontà di aver parole brevi rispetto alnormale, ragione che certamente ha indotto poco tem-

la tanto

l'italiano

una bella e simpatica annunciatrice televisiva a dire, alla un breve notiziario: « Le news finiscono qui ». Certamente, dire notizie con tre sillabe invece che con una sola {news) sarebbe costato più fiato ed il fiato, si sa, non si deve sprecare. fa

fine di

In questo ingrato mestiere di segnalare novità linguistiche

mi

è anche capitato di leggere, in un autorevole quotidiano, la voce, sia pure fra virgolette (spesso vere foglie di fico),

Vagenta

per designare una donna agente (di pubblica sicurezza).

Ammet-

tiamo che

il

giornalista volesse scherzare,

e con comitati di donne che non

si

ma

con

l'aria

che

tira

limitano a sostenere la parità

(anzi la superiorità) della donna rispetto all'uomo, quQÌV agenta potrebbe far sorgere il sospetto che si tratti di una parola mandata in avanscoperta per vedere se si può dire la presida, la studenta, V creda. Vinsegnanta, la consorta, la nipota e simili gioielli, rompendo la tradizione che vuole ambigeneri (o, come si diceva una volta nelle disprezzate grammatiche, « di genere comune ») un certo numero di parole in -e con cui può benissimo andare

Vagente (donna). [5.

3.5.1987]

La pizza

è

germanica

lamenta frequentemente dell'invasione delle parole straniere ma, per una giusta valutazione della reale situazione e a conferma del fatto che nessuna lingua è pura, vorremmo esaCi

si

in italiano;

minare

l'altra faccia della

questione e chiederci se e quali parole

italiane si trovino nelle principali lingue europee.

È

prime cose che si imparano quando si studia una modo non sistematico sono le parolacce o le parole poco riguardose e non c'è da meravigliarsi se qualcuno ha detto che quegli stranieri che conoscono poche voci italiane hanno pratica solo di termini spregiativi come fiasco, dolce far niente, mafia, padrino. Bisogna, però, dire che nel vocabolario d'Europa ci sono voci italiane che sono tutt 'altro che spregiative. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di parole entrate in altre lingue a partire dalla seconda metà del Quattrocento e nel Cinquecento quando la civiltà itaUana era riconosciuta come una delle principali d'Europa. noto che

le

lingua straniera in

È

il

momento

scoprono

in cui grandi italiani

come

Cristoforo

Colombo

per conto di Stati stranieri; in cui Caterina de' Medici diventa regina di Francia e le università italiane ospitano studenti di tutte le parti d'Europa. I sovrani stranieri interi continenti

parlano spesso l'italiano in un'epoca in cui Leonardo da Vinci e Cellini svolgono parte della loro attività all'estero. Poiché le lingue riflettono

tutti gli aspetti

della civiltà,

vediamo alcuni esemCinquecento e nel

pi di parole italiane entrate nel francese nel

Seicento e poi passate in altre lingue. Fra

i

termini letterari so-

netto entra, contrariamente alla norma, prima in spagnolo (so-

neto) nel Quattrocento, poi in francese (sonet) e, infine, in in-

glese (sonnet); madrigale in francese, in inglese, in tedesco, in

spagnolo.

Nel mondo dell'arte rìsaìiano fiicciata (fmncQse fillade spagnolo fiichada); piedestallo (francese piédestal, spagnolo petìfestal, inglese pedesta[); balcone (francese balcon, spagnolo bal,

con, inglese balcony).

Nomi

di

maschere come Zanni (francese zani, inglese zany)

e Pantalone (francese pantalon, inglese pantaloon) dimostrano

l'importanza della nostra

Commedia

dell'Arte.

Nella musica viene dall' Italia ^ì/gfl {spagnolo fiiga, francese fii-

Ì03

gue e da questa V inglese fugue) senza contare parole come piano, presto, andante, allegro e simili che si sono aggiunte parti,

colarmente nel Settecento. Termini della navigazione in francese e spagnolo sono di origine italiana come il francese portulan e lo spagnolo portulano (libro che descrive le coste, gli approdi, gli ancoraggi e gli aspetti meteorologici e nautici) éd\Vìid\\2ino portolano; lo spagnolo bruxula (attestato nel 1492, proprio l'anno della scoperta dell'America), oggi brujula, alterazione dell'italiano bussola, presente anche nel francese boussole; calamita e tramontana emigrano in francese e spagnolo nello stesso secolo xv. Anche casamatta, bastione e parapetto, termini dell'ingegneria militare, si trovano nelle lingue d'Europa come prestiti dall'italiano e voci come soldato, caporale, colonnello e sentinella sorgono prima in italiano che altrove. Una serie di nomi di cibi entra in Francia dall'Italia: maccheroni, francese macarons che, in seguito, per un nuovo prestito furono chiamati macaronis, in spagnolo macarrones, in tedesco macaronen, in inglese macaronis e la mortadella che compare in Francia nella forma mortadelle. Buon'ultima ma di grande successo XdL pizza con idi pizzeria, tutte e due registrate in vocabolari francesi recenti (pare che abbiano fatto l'ingresso fm dal secolo scorso), ma di diffusione internazionale in quanto p/zz>,

sono

« voi »:

lo

specchio dei tempi

Se penso che quando ero giovane davo del

lei alle

compagne

università, misuro sul vivo quale grande rivoluzione nel costume,

almeno per quanto riguarda

i

pronomi

si

di

sia fatta

allocutivi (m,

voi, lei).

Si tratta di

un

fatto

generazionale di natura diversa da quello

mezzo secolo fa. Ricordo che mio padre dava del lei a sua madre e che ai bambini veniva insegnato a trattare col lei le per-

di

sone grandi, in segno di rispetto. Già altra volta si è detto che al tempo della contestazione sessantottesca, un pittoresco studente ora deputato (tutte le strade conducono a Roma) in inconcludenti assemblee dava apposta del tu al rettore della sua università per fargli capire quanto poco lo considerasse, di fronte agli studenti. Ed il rettore, per mantenere il distacco, gli rispondeva col lei. Ora il tu acquista terreno e vi sono professori che l'usano con studenti e studentesse e che lo ricevono senza battere ciglio.

Al

tu si arrivava

una volta soltanto attraverso una familiarità

che presupponeva un'amicizia o un affetto. Se fra studenti di sesso diverso si sentiva usare il tu, si poteva essere certi che tra i due era nato un tenero sentimento.

Accanto

c'era

al tu e al lei,

il

voi che aveva

vario. In certi ambienti contadini rivolgersi alla

nome

madre o

un uso abbastanza

voi era usato dal figlio per

padre; in certe zone d'Italia era

al

allocutivo usato in

il

modo

il

pro-

quasi esclusivo. Benedetto Croce

dava del voi a tutti e non certo per ossequio o per paura del fascismo che tentò di imporlo agli italiani, dopo aver abolito il lei per legge, ma soltanto per seguire un uso ampiamente diffuso nella sua terra d'origine. L'Italia medievale (lo fece notare il grande filologo Giorgio Pasquali del quale mi onoro di essere stato scolaro) aveva un uso

molto vario dei pronomi allocutivi. Fra Salimbene da Parma nel secolo XIII dice che il tu era da usare solo in cinque occasioni: 1) per ragioni di eccellenza, come a Dio; 2) per ragioni dialettali (e cita i pugliesi, i siciliani, i romani); 3) per ragioni di età perché a un giovane è bene dare del tu, però osserva: « Ma i lombardi dicono voi non soltanto ad un fanciullo ma anche a una gallina e a un gatto e persino a un legno »; 4) per detestare un peccatore; 5) per familiarità e amicizia.

145 Questi precetti sono in gran parte vivi in Dante che dà del voi come fa Petrarca con Laura finché sono vive,

a Beatrice, così

quando sono morte (sono ormai dei puri spiriti). Dante ad un'anima del Purgatorio dà del tu\ poi, quando riconosce che si tratta di un Papa, le parla col voi. Ai Papi posti all'inferno

del tu

dà del tu. L'uso del

lei,

spagnola. In

Italia, agli inizi della

ci si

È

si

ma

per

la

non è

è ripetutamente detto,

quale entrò

di origine

lingua, al podestà e ai vescovi

rivolgeva con Vostra Signoria,

la via

loro

come

al

la terza

Papa con Vostra Santità.

persona.

Il

plurale di

spesso a un gruppo di persone trattate col

lei

è

lei ci si rivol-

può produrre inconvenienti. Se, per incauno dice al telefono: « I signori Rossi chiedono se possono venire da loro », non si sa se quel loro si riferisca alle persone interpellate o viceversa. Un'ambiguità prodotta dalla noge col

voi. Certo, loro

rico di altri

stra lingua che, pure, è tanto ricca.

[DCorr.

10.9.1987]

Gli sgrammaticati

Le riforme scolastiche possono essere di due tipi: quelle che correggono evidenti distorsioni e quelle che vogliono sperimentare metodi che spesso si rivolgono contro l'oggetto stesso al quale sono indirizzate e cioè gli studenti. Quando, dopo la ventata sessantottesca, si abolì l'obbligatorietà di

materie fondamentali nelle facoltà universitarie, molte di-

scipline perdettero quel carattere di priorità che

prima avevano

avuto ed era evidente che si trattava di una trovata demagogica che danneggiava la grande maggioranza degli studenti; tanto è vero che gli stessi contestatori, una volta arrivati in cattedra, hanno posto un argine ripristinando molti obblighi inderogabili (clamoroso nelle facoltà di Lettere il caso del latino). Ma ci si domanda: quegli insegnanti che nel frattempo si sono laureati e che non hanno trovato posto all'università, come hanno svolto il loro compito? Tutti dicono: male. E allora? Non si sapeva che chi non si applica a certe discipline non può insegnarle? Io so di un ginnasio in cui docenti che non avevano mai fatto neppure un esame di greco hanno accettato di insegnarlo col risultato di essere cacciati di classe dagli alunni, visto che i presidi, dal momento in cui la scuola è stata intesa come un luogo dove si distribuiscono posti di lavoro, non hanno alcuna autorità, né alcun controllo viene fatto dal ministero sui nuovi insegnanti. Da quest'anno, come è stato detto dai mezzi di comunicazione, alle elementari si cambia registro. Che ciò avvenga quando da anni ed anni si aspetta una riforma della licenza liceale, è cosa che sorprende, ma sembra che il cambiamento significhi un mea culpa, riprendendo in considerazione ispirazioni e propositi cancellati dai programmi del 1955 che si rivolgevano al « bambino del sentimento e della spontaneità, dell'intuizione e della fantasia ». Pare che rispunti qualche attenzione per il bambino della ragione. Ci si è accorti che un bambino di quattro anni ha già la possibilità di usare più della metà del suo potenziale intellettuale. Ho l'impressione che questa sia un'eco di osservazioni fatte dai linguisti secondo le quali in quei primi anni si impara di più che in tutto il resto della vita per quanto concerne il linguaggio e la sua organizzazione.

Rispunta, opportunamente, nei nuovi programmi, l'interesse

per

la

grammatica, questa negletta, anzi disprezzata disciplina fon-

147 damentale in ogni istruzione. In fondo, alla base di ogni programma, c'è o dovrebbe esserci un principio di priorità. Il saper leggere, scrivere e far di conto non pare che possa essere sostituito da nessuna dottrina pedagogica. I nuovi programmi lo fanno chiaramente capire. Ma è da chiedersi: che sarà di tutte le generazioni che sono venute su col principio che il sentimento e la spontaneità, l'intuizione e la fantasia siano prioritari? Occorrerà rassegnarsi a sopportarle, anche nei loro spropositi di pronunzia e di grammatica, nella loro incapacità di esprimersi decentemente. In fondo le vere vittime sono loro. Di fronte agli autori di due lavori scritti, uno corretto e uno infarcito di spropositi, quale sceglierà un datore di lavoro? Ma proprio nessuno prova qualche rimorso per la situazione che è venuta a crearsi? [S.

19.9.1987]

Preposizioni .articolate: unite o staccate?

Nell'uso delle preposizioni articolate c'è una bella anarchia. Giosuè Carducci scrive « de la madre, ne la vita, su le nevi, a le valli, da gli occhi » e così via, secondo un uso antico per il quale basterà ricordare la grafia « da la quale nullu homo vivente po' skappare », riferito alla morte, nel Cantico delle creature di San Francesco d'Assisi. Tale uso a me pare, oggi, arcaico e un po' troppo ricercato e poetico e nella prosa sa di retorico. Carducci non è stato il solo a spezzare l'unità che si forma fra preposizione e articolo. Che tale abitudine continui nelle citazioni di titoli di giornali, riviste, libri,

è provato anche da annunci televisivi che dicono, per esem-

Secondo una notizia de La Stampa ». Ora, quel de e quel ne sono dei piccoli mostri, ricavati dalle preposizioni articolate del, della, nel, nella, staccandone l'articolo che vi era unito. Che ad Alessandro Manzoni non piacessero le forme staccate provato è dal fatto che non le usa neppure ntìV Introduzione al suo romanzo, là dove fa il verso a scritti arcaici, secenteschi; impiega, invece, le forme unite come « alle operationi diaboliche » (e non a le), « dagli huomini temerari » (e non da gli). I difensori delle forme staccate dicono che vogliono dare i titoli dei libri e dei giornali nella loro integrità, parendo loro che scrivere nella Divina Commedia o nella Stampa non faccia capire che il titolo esatto e completo è La Divina Commedia o La Stampa. Non sarà superfluo ricordare che il Manzoni, nel suo splendido ritratto di don Ferrante, dice che egli « a un bisogno sapeva citare tutti i passi della Gerusalemme Liberata come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria ». Insomma, per l'autore dei Promessi Sposi non ci sono dubbi: le preposizioni articolate vanno scritte senza dissezioni o separazioni più o meno artificiali. Anche alcuni dei piti famosi italianisti contemporanei come Attilio Momigliano, Luigi Russo e Francesco Flora si comportano allo stesso modo e scrivono per esempio « ai Promessi Sposi, nei Promessi Sposi, dei Promessi Sposi » e così via. Non solo, ma scorrendo la sia pur limitata bibliografia (che tuttavia comprende un centinaio di titoli) della Storia della letteratura italiana di Flora, tutti i critici che hanno scritto sul romanzo manzoniano, eccetto due, usano la preposizione unita all'articolo. pio, «

149 Ci sono, però, due casi

in cui l'uso generale fa

quella che io considero una re accanto a

con

il

e con

i

collo, colla, cogli e colle.

di

per

Ma, tà

il,

per

i,

per

la e

Anche p^/,

pei, pella q pelle in luogo

per

si

le

non

usano più.

oltre a questi piccoli problemi, c'è quello dei

preceduti dall'articolo

eccezione a

buona norma: col e coi possono stama sono evitati di solito nelle forme

come

L'Aquila,

La

Spezia,

nomi Il

di cit-

Cairo. Io

sono del parere di dire all'Aquila, alla Spezia, al Cairo e non a L'Aquila, a La Spezia, a II Cairo e non so quante volte ho insistito con correttori di bozze e tipografi che, con molta tenacia e nella ferma intenzione di evitarmi degli errori, mi hanno corretto e ricorretto. Di solito, spiegando loro il mio punto di vista, sono riuscito a persuadere che quello era il mio uso e che il lettore avrebbe giudicato me e non loro, collaboratori pur pre-

ma senza diretta responsabilità di come scrive l'autore. che lotte e che perdite di tempo, specie ora che le poste funzionano tanto male! Si è già capito che io sono rispettoso del Manzoni e che, se apprezzo Carducci e alcuni di quegli scrittori che chiamerò, scherzando, separatisti, non mi sento di seguirli. La lingua italiana ha già le sue brighe e forse non è il caso di complicarle di più di quanto non sia proprio strettamente necessario. ziosi,

Ma

[DCorr. 24.9.1987]

Parole spezzate

Non

come qualcuno

dice, che l'italiano si prouna maggiore aderenza fra parlato e scritto che non in francese o. Dio ne guardi, in inglese ma non c'è dubbio che, lasciando da parte la questione dell 'e

è affatto vero,

nunzia

come

si

scrive. Certo, vi è

e dell'o aperte e chiuse e dell'^ e z sorde e sonore (tutte distin-

con

messe zone che parlavano, e in parte parlano, il dialetto) come si può sapere senza una particolare conoscenza dell'argomento perchè si scrive cuore e scuola con la e ma quadro e quando con la ql Qui, com'è noto, la spiegazione la troviamo nel latino: cor e schola si scrivevano con la e e quando e quadrus con la ^. È uno dei tanti legami che uniscono la nostra lingua a quella dei Romani. Se il gruppo gli si pronunzia come in foglia o figlia, è diverso il caso di negligente o Anglia in cui la g ha il suono di gatto o di goloso. Quando, poi, il gruppo è in principio di parola seguito da una consonante, si ha la stessa pronunzia: cosi in glicerina. Ma perché si scrive acqua e, invece, soqquadro e, dunque, per lo stesso suono, si usano due grafìe diverse? Acqua si scriveva in origine aqua, come in latino; poi vi fu un accostamento della grafia alla pronunzia che faceva sentire una q forte; soqquadro è un composto di so- che risale al latino sub- « sotto » che, incontrandosi con un'altra consonante, la rafforza. La normale grafia di q rafforzato h cq: si pensi ad acquistare, acquartierare, acquiescenza e casi simili; però soqquadro deve la sua grafia all'isolamento della voce che non è stata allineata al numero, peraltro esiguo, di altre parole con q rafforzata. A proposito di rafforzamento di consonanti, in toscano vi sono alcuni casi di rafforzamento sintattico. La frase « Vado a casa » si pronunzia vado a ccasa. E il verso di Dante: « Ed el mi disse: Volgiti: che fai? » dovrebbe essere letto: Ed el mi disse: Volgiti che jfai? Rafforzano la consonante seguente, oltre ad alcune voci bisillabiche, a, da, tra, e, o, ma, che. Siamo in un altro caso in cui i non toscani si trovano in difficoltà, ma quello che abbiamo detto serve a spiegare perché nella scrittura compaiono forme come davvero (da vero), dappertutto (da per tutto) ecc. La ragione si trova, anche qui, nel latino ed è evidente in a (latino ad), da (lazioni indicate

speciali segni dal vocabolario e, in parte,

in crisi dall'estensione della lingua in

151

de ab), tra (latino trans), e {et), o (aut), ma (magis), che Ebbene, come si vede, tutte le particelle latine che sono alla base di quelle italiane terminano con una consonante che, incontrandosi con la consonante della parola seguente, la rafforza anche se non compaiono più nella scrittura: solo la pronunzia ne è testimone. Prendiamo ora un argomento che negli ultimi tempi è diventato molto controverso: Va capo. Non è raro trovare, specie nella stampa dei quotidiani e dei settimanali, per l'introduzione del computer, la violazione di una norma che a quelli della mia generazione era stata insegnata come inderogabile. Tale norma richiede che si vada a capo a seconda delle sillabe della parola. Così all'inizio della riga si pongono solo sillabe o complessi sillabici; per esempio, si dividono seg-men-to, op-ta-re, cal-do, ar-te, ambi-zio-ne, dot-to, as-som-mare. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di dividere a fine rigo una parola nel modo seguente: tino

(quid).

segm-ento, opt-are, c-ald-o, a-rte, a-nte-ri-o-re e simili. Ci sarebbe, poi, da definire scientificamente che cosa è una sillaba, ma il compito è così difficile che non ci sentiamo di affrontarlo a meno che non vogliamo accontentarci di dire che è un suono o un insieme di suoni pronunziato con una sola emissione di fiato. [DCorr. 8.10.1987]

Solatìo è bocciato

Romagna

solatìa, dolce paese »... dice il Pascoli e buon per che non si sia trovato a chiedere quello che in provincia di Bolzano viene chiamato il patentino di bilinguismo, senza il quale non si può avere un posto pubblico nell'amministrazione statale e provinciale, altrimenti sarebbe stato bocciato in italiano e, per lavorare, avrebbe dovuto lasciare quelle ospitalissime terre. Il professor Joseph Maurer, già preside di un liceo di lingua «

lui

tedesca e traduttore di liriche italiane, avendo voluto tentare, a scopo sperimentale, la prova, è stato respinto per quel solatìo.

Avrebbe, a quanto pare, dovuto usare un

altro vocabolo, so-

leggiato.

Francamente, io uno straniero che usa solatìo, lo abbraccerei. « Posso potar la vigna solatìa », dice Lorenzo il Magnifico, ma potato, sia pure metaforicamente, è stato lui, il professor Maurer, che potrebbe ricorrere, sul piano linguistico, a sicuri argomenti. Intanto, se

si

apre

il

monumentale Dizionario

della lingua ita-

liana e tedesca pubblicato da Sansoni, alla voce tedesca sonnig,

leggono le traduzioni « assolato, soleggiato, pieno di sole » e (guarda un po' chi si vede!) « solatìo »; e, nella parte italiana solatìo compare, naturalmente, col significato di sonnig. Qualcuno potrebbe dire che il termine è toscano e letterario (lo fa il Vocabolario Devoto-Oli, mentre gli altri tacciono). D'altra parte, non si vede perché dovrebbe essere cancellato dall'uso soltanto perché è toscano. Quanto al carattere letterario, la voce, fuori di Toscana, è un po' più alta di quelle di uso comune ma non fino al punto di dover essere bandita o di detersi

minare una bocciatura. Solatìo è un derivato dal latino solatus « assolato », così come bacìo è un derivato di opacus, « ombroso » e, nella tradizione linguistica, a solatìo vuol dire « nel luogo dove c'è il sole » e cioè « nel lato volto a mezzogiorno » mentre a bacìo vuol dire « nella zona dove c'è ombra », cioè « a tra-

montana

».

L'uso non è soltanto poetico; anzi, la poesia l'ha preso dalla lingua popolare come mostra la storia delle due parole. Restando nella stessa serie di formazioni, sono sicuro che il professor Maurer sa perfino cosa vuol dire giulìo, forma parallela a giulivo e che Carducci usa: « E giulìa ride l'alba a la collina ». Ma

153 (e queste

cose

capitato in

le

piti di

sanno gli esaminatori del professor Maurer) è un'occasione che l'esaminando sapesse più del-

l'esaminatore. In un liceo calabrese anni fa c'era un professore d'italiano che diceva agli alunni: « Prendessero il libro e leggessero ». Ma qui siamo tra noi; a Merano sarebbe necessario che cose come queste non succedessero, prima di tutto perché chi parla tedesco ha

fama di essere persona istruita; poi perché le discriminazioni sono odiose; infine perché l'ignoranza non ha mai giovato a risolvere problemi delicati come è quello della convivenza pacifica dei popoli.

[S.

10.10.1987]

Se Vinglese è mascolino

Uno

dei ricordi della

mia giovinezza è

la lettura di

glese del linguista danese Otto Jespersen, nato nel

1

un libro in860 e morto

nel 1943, intitolato Sviluppo e struttura della lingua inglese, pub-

poco in traduzione italiana dalle edizioni Unicopli di Milano con introduzione di Fausto Cercignani. Ne avevo un ricordo molto bello ma ora, rileggendolo, trovo, ovviamente, che molte pagine appaiono superate non tanto per i dati di fatto quanto per certa soggettività posta in giudizi quanto mai opinabili. Jespersen, un fonetista, un anglista di fama, autore di una monumentale opera grammaticale sull'inglese, uscita nel corso di

blicato da

alcuni decenni, all'inizio del libro sostiene un'idea piuttosto pe-

regrina e cioè che la lingua inglese sia una

propria di un

uomo

adulto,

con pochissimi

«

lingua mascolina,

caratteri infantili

o

femminili ». Se si fermasse qui non ci sarebbe molto male ma il guaio è che tenta di dimostrare, con un impressionismo inaccettabile, tale

suo assunto. Vengono in mente le teorie dei francesi del Settecento quando il conte Rivarol faceva gli elogi del francese per sua « universalità » e parlava del « genio » della sua lingua e sosteneva che « ciò che non è chiaro non è francese ». D'altra

la

parte, c'era chi in Italia lodava incomprensibilmente la « velocità » dell'italiano.

Solo per sciovinismo o per eccesso d'amore si può parlare coma Jespersen nel suo argomentare cercava motivi scientifici. Nelle sue pagine si parla anche di italiano e proprio dall'italiano cita un proverbio (« Le parole sono femmine e i fatti sono maschi ») per sostenere, non so con quanta soddisfazione delle donne, la virilità dell'inglese. Per spiegare che cosa voglia dire questa virilità, Jespersen invoca la fonetica e dice che le consonanti inglesi sono suoni ben definiti, pronunciate chiaramente e con precisione e che le parole finiscono in consonante (quelle lingue che hanno vocaboli che terminano in vocale sono effeminate). Che dire allora dell'italiano in cui solo le parole straniere terminano sì;

consonante? Fra i pregi « mascolini » dell'inglese ci sarebbe il fatto che in una frase come « tutti gli animali che vivono là » il plurale è inin

dicato solo nel sostantivo animali (animals) e tutto

ne invariato, mentre in tedesco

in tutte le

il

resto rima-

parole della frase c'è

155 il segno del plurale, eccetto, beninteso, che nell'avverbio; e, aggiungiamo, in italiano avviene lo stesso con l'aggiunta dell'invariabilità di che Q dì là: basta esaminare la frase citata e si vedrà che le cose stanno proprio così. C'è poi la riduzione delle parole a monosillabi, escludendo le voci di origine latina, tanto che l'inglese si avvicina al monosillabismo cinese. Che cosa abbiano a che fare questa e le altre caratteristiche che abbiamo citato con la mascolinità, lasciamo giu-

dicare

al lettore.

Mancano vo è

cambiamenti d'intonazione e, diun uso eccessivo di questo accento tonico emoti-

all'inglese violenti

ce Jespersen,

«

caratteristico di molti popoli selvaggi; per

quanto riguarda

l'Europa, esso è molto più frequente in Italia che non nei Paesi

sembra che esso sia usato maggiormente dalle donne che dagli uomini ». Un contrasto fra inglese e italiano (e anche fra italiano e francese) è visto da Jespersen nel fatto che l'inglese ha pochi diminutivi mentre l'italiano coi suoi -ino (ragazzino), -ina (donnina), del Nord. In ciascuna nazione

-etto (giovinetto), -etta (oretta), -elio (asinelio), -ella (storiella) « e altre desinenze ancora » è ricchissimo di diminutivi. Peccato che non ricordi che si arriva perfino a fare maschio una donna (donnino e donnone). In questo l'inglese si opporrebbe anche al tedesco che ha derivati con -chen e -lein. C'è, poi, l'ordine delle parole, in cui l'inglese non gioca a nascondino come il latino e il tedesco: ma qui bisogna pur dire che il tedesco, e infinitamente di più il latino, possono giocare a rimpiattino perchè hanno i casi. Caesar amat Liviam o Liviam amat Caesar sono equivalenti sul piano del contenuto. Nelle lingue moderne, ed anche in italiano. Cesare ama Livia e Livia ama Cesare non sono equivalenti. Insomma, l'inglese per Jespersen, dopo il cinese, sarebbe la lingua più logica. Chi è abituato a sentire lodare la logica del francese o del tede-

sco

si

La la

di la i

troverà qui sconcertato.

un linguista sostenere la maggior bellezza, maggior logica, la maggior rapidità, la maggiore mascolinità una lingua rispetto ad un'altra è una fantasia. Ogni lingua ha logica di chi la parla o la scrive, anche se la lingua costringe verità è che per

parlanti entro

i

propri schemi.

Semmai, per

l'italiano, vorrei

ricordare le parole di un altro grande linguista scomparso, Walther

von Wartburg:

«

L'italiano ha conservato tutta la flessibilità

dei modi, senza rinunciare alla chiarezza

moderna

nei rapporti

156 del tempo. Sa essere

moderno senza

sacrificare ricchezze eredi-

tate pili dell' assolutamente necessario ». ai quali si fa

Un

bell'elogio, e

i

fatti

riferimento sono incontrovertibili.

[S.

15.10.1987]

Parole senza frontiere

Ci lamentiamo molto spesso dell'invasione di voci inglesi nella nostra lingua ed ora, con l'immissione nel mercato di un gran numero di vocabolari, ci stiamo ancor piti accorgendo di voci che, presentando, specialmente nella tecnica, nuovi concetti, stanno divenendo di uso comune in proporzioni allarmanti. Viene in mente un'uguale invasione, dal francese, però, avvenuta in due momenti ben distinti della nostra storia, il DuecentoTrecento e il Settecento. Si trattò, anche allora, di un fenomeno di dimensioni notevoli, che interessò perfino i nostri dialetti in cui un buon numero di parole francesi si radicò arrivando fino a noi.

Fra italiano e francese c'è stato, tradizionalmente, un contatto molto stretto e certo assai maggiore che fra l'italiano e le altre lingue di cultura europea, escluso,

come

si

è detto, negli ultimi

tempi, l'inglese che, del resto, sta penetrando dappertutto, perfino in quel francese che è così tenacemente geloso custode delle

sue tradizioni.

Duecento poeti italiani come Sordello scrivevano in provenzale e Brunetto Latini anche in francese. Erano due letterature, quella francese e quella provenzale, che avevano preceduto la letteratura italiana, e provenzale era l'influsso Tutti sanno che nel

esercitato sulla scuola poetica siciliana che fiorì intorno alla cor-

Federico II, il grande imperatore morto nel 1250. Nel poemetto // Fiore, che compendia un poema francese, troviamo sembiante per « sembiante », visaggio per « viso », davan-

te di

taggio per « di più », chiari travestimenti di sembiante visage, davantage francesi. Nello stesso Dante ci sono parole come giuggiare (provenzale jutjar, francese juger) e un intero gruppo di versi (quelli che riguardano appunto il poeta Sordello) scritti in provenzale. Ugo Capeto, sempre in Dante, appare come Ciappetta (nel Purgatorio canto xx, verso 49) con un'italianizzazione del francese Chapet. In qualche caso ci dobbiamo porre il quesito se le voci di prestito vengano dal francese o dal provenzale. Se verziere viene dal francese vergier e origliere dal francese oreiller, cavaliere

viene invece dal provenzale cavalier. Se venisse dal francese avremmo, come è accaduto a Ciappetta, ciavaliere (in francese cavaliere

si

scrive, infatti,

come Chapet con

eh: chevalier).

158 L'influenza francese riprende nel '700 e si arrivò, con la supremazia culturale della Francia, a quell'invasione di termini di cui abbiamo parlato. Cosi si trovano in scritti settecenteschi visaggio per « viso » (francese visage), portreto per « ritratto » (francese /70/tra/r), brodosa per « ricamatrice » (francese brodeuse), regrettare per « rammaricarsi » (francese regretter), griffa per « artiglio » (francese griffe). È inutile dire che queste parole sono state riassorbite dalla lingua italiana. Ci sono, però, voci la cui storia non si comprenderebbe se non si

tenessero presenti

re:

i

significati e le accezioni di lingue stranie-

^C(9/rà (francese ^cw/r^', inglese ^cw/fy), sentimento (fran-

cese sentimenti inglese sentiment), sensibilità (francese sensibilité, inglese sensibility) ecc. Si va verso quel vocabolario comu-

ne all'Europa di cui parlava Giacomo Leopardi. Se vogliamo trarre da quanto si è detto una qualche conclusione, diremo che non esistono lingue pure; che tutti gli idiomi traggono da altre parlate elementi del vocabolario e, più raramente, di sintassi e, ancor più raramente, di morfologia. Questa ragione induce molti a sperare che l'italiano, oggi in una fase delicata della sua esistenza, bombardato come è da termini e modi inglesi, trovi un equilibrio, accogliendo le voci necessarie e respingendo quelle inutili così come ha fatto nel passato col francese.

[DCorr. 22.10.1987]

Duello di nuovi vocabolari

C'È perfino l'aggettivo spreciso, che proposi, fin dall'aprile 1980, di registrare nel vocabolario. Vi furono reazioni e non mancò chi

si

pose

il

quesito:

le fu facile rispondere,

ma

a chi spetta l'ultima parola? al qua-

manzonianamente:

l'uso.

vocabolario che ha introdotto spreciso, diverso, come dissi, da impreciso né voglio ripetermi, specialmente ora che la parola è assurta all'onore di almeno un dizionario moderno, è il Nuovo Devoto-Oli, presentato recentemente a Firenze con notevole spieIl

gamento

di studiosi

ed accorrer di pubblico (ormai

la lingua ita-

liana fa spettacolo ed è punto d'incontro di grandi interessi editoriali),

pubblicato da Selezione dal Reader's Digest e dalla vec-

Le Monnier, in due enormi volumi di complessive 3522 pagine abbondantemente illustrate, ed aperto, forse anche troppo, a voci che starebbero forse meglio in un'enciclopedia sia per la parte, per così dire, storica, sia per il settore scientifico. La mia letizia per la presenza di spreciso si attenua all'incontro di voci come Rugi « antica popolazione germanica originaria della Norvegia », e così di seguito per molte righe, o come Rùchia Ditta

popolazione laziale con capitale Ardea: termini stoun vocabolario della lingua. Le parole scientifiche, siano pure nomi internazionali, ci portano a un discorso simile. Di fronte a rutmark, voce nordica che designa terreni argillosi o torbosi frequenti soprattutto nelle regioni artiche, si resta perplessi e ci si domanda: quali sono i confini fra un vocabolario della lingua e un lessico enciclopedico? La parola ratti della lingua hindi che significa « unità di misura indiana di peso, equivalente al peso di otto grani di riso cioè a 1,87 grammi », è proprio necessario che trovi posto in un vocabolario italiano? E non parliamo poi della stessa voce, che anch'essa figura nel Devoto-Oli, nella forma inglese ruttee. Per questa via, sia detto col massimo riguardo, non si sa dove si va a finire. Ci siamo tenuti qui lontani dalle voci propriamente scientifiche; ma che dire di voci come clorometilclorosolfonato, cloroprene, cloropromazina, clorosuccinimmide clorovinilarsina, clupanodònicol È vero che le voci scientifiche ci circondano, ci aggrediscono, tendono a diventare indispensabili ma se si considera che delle sei parole che abbiamo citato solo tre (cloroprene, cloropromatuli, l'antica

rici

che non

ci si aspetta di trovare in

,

160 Zina e cloro succinimmide) figurano nel Dizionario enciclopedico scientifico e tecnico inglese-italiano e italiano-inglese di McGraw-

che registra ben 98.000 voci e solo quattro nel Vocabolario della lingua italiana dell'Enciclopedia italiana {cloroprene, cloropromazina, clupanodònico) ci prende una certa inquietudine sui criteri di scelta del materiale da registrare. Non si tratta, nei nuovi dizionari, di battersi per avere qualche parola in più, come è stato detto a proposito del fiorire di nuovi vocabolari, ma di un atteggiamento che va esaminato a sé. Non vi è dubbio che le voci che abbiamo citato siano adoperate in ambienti molto specialistici ma nell'uso della lingua qual è il loro grado di ricorrenza? A un certo punto pare che uno stuolo di tecnici e di consiglieri scientifici prenda la mano al lessicografo. È comprensibile che si sia passati, come è stato detto più volte, dalla funzione del lessicografo mediatore fra vocabolario e lettore a quella di freddo testimone, anzi di notaio, di parole, ma la conseguenza è di ridurre sempre più i dizionari ad enciclopedie. Può anche darsi che a molti piaccia questo cambiamento ma l'invito non solo a consultare bensì a leggere il vocabolario non so se possa essere più accolto con grande favore. Desidero dire che i dubbi che ho espresso non vogliono affatto misconoscere i meriti del Devoto-Oli, che sono tanti, dall'accuratezza delle definizioni allo sforzo di chiarire le etimologie. Qui non si casca certo nell'insufficienza di un altro rinomato vocabolario che, ^tv pollanca, oltre al significato di « pollastra », dà quello di « ragazza attraente ». Vorrei vedere che cosa succederebbe se uno dicesse come complimento ad una ragazza: « Lei è una bella pollanca ». Il Devoto-Oli dà, correttamente, anche il significato di « donnina allegra » e così ci siamo. Le etimologie sono rimaste sostanzialmente quelle di Giacomo Devoto, scomparso nel 1974, salvo, naturalmente, l'enorme numero di voci nuove. Però mi pare che certe tendenze del Devoto di spiegare tutto, anche in casi disperati, con incroci, come è di appalto che, in modo poco convincente, viene considerato incrocio di palco con appactum, siano attenuate: un merito noHill Zanichelli,

tevole del

Nuovo Vocabolario. [S.

8.11.1987]

Tentazioni di parole

Non

si

può aprire un giornale senza che

russe, glasnost e perestrojka che neppure

si i

trovino due parole

dizionari

piti

aggior-

gara per contenere il maggior numero possibile di parole, riportano, per la buona ragione che, quando i vocabolari venivano stampati, le due voci non erano ancora così diffuse nella stampa italiana. Glasnost, tradotto spesso con « trasparenza » (ma alla base c'è la voce glas che significa « voce »), indica la pubblicizzazione, l'apertura di chi vuole giocare a carte scoperte, alle quali s'informano le intenzioni di Gorbaciov e perestrojka vuol dire « ristrutturazione » con riferimento ai compiti del comunismo sovietico. Le due parole non sono state coniate per l'occasione ma, dannati, quelli

do loro

il

Abbiamo

che hanno

significato,

fatto a

non siamo certi di coglierne tutti prima di parlare di « pubblicità

evitato per la

ha significato diverso

in italiano e

per

la

seconda di

gli echi. »

perché

« restaura-

» che, anch'essa, è radicata nella nostra lingua con lineamenti particolari. Occorre sempre resistere alle tentazioni. Le spiegazioni vogliono venire incontro alla necessità di capire qualche

zione

cosa da parte del pubblico che, secondo il sondaggio di un quotidiano, non sa affatto il valore delle due parole mentre le trova continuamente e le usa con troppa innocente ingenuità. Il linguaggio politico vorrebbe essere abilissimo nell 'evitare e nell'usare le parole, ma talvolta suscita persino tenerezza. Così, da tempo, è noto a tutti che la parola corrente, sulla quale è stato facile perfino fare dell'ironia, è stata piti o meno bandita

maggior

che ha fatto ricorso ad un'altra nuova voce molti si saranno sentiti sollevati perchè il tabuizzato corrente veniva messo da parte ma oso dire che, se c'era da eliminare qualcosa, era piuttosto il concetto, il fatto e non la parola. Una sorpresa è venuta dal partito comunista italiano in cui di correnti non ce ne sono né ufficialmente possono essercene, anche se è verosimile che non la pensino tutti allo stesso modo su ogni questione. Ebbene, se leggo bene i giornali, si sono formati, invece di correnti, dei club ed è patetico il ricorso ad un termine angloamericano per indicare un gruppo che si orienta in un certo modo, a quanto sembra non del tutto conformistico, su una o pili questioni. Originariamente club significava « bastone » dal

partito politico italiano

parola, aggregazione.

Usando

la

162 e fu usato anche nel gioco delle carte per designare

ma non

è questo

il

i

« fiori »;

significato che interessa, bensì quello di as-

sociazione di persone che perseguono lo stesso obiettivo da rag-

giungere con scopi sociali includendo nel significato anche lo so luogo nel quale tali riunioni avvengono.

stes-

Ci sono dei club che si riuniscono in federazioni e raggiungono il numero di un milione e più di aderenti come il Rotary. Fra il Seicento e il Settecento si formò in Inghilterra il significato moderno e, francamente, appare abbastanza curioso che un nome che è frutto della società borghese venga utilizzato da gruppi di comunisti. L'eterogeneità dei fini non annulla, evidentemente,

la

somiglianza dei mezzi. [S.

14.11.1987]

« Perestrojka » tentatrice

Non

mai abbastanza che nel mio mestiere si deve stare perché, quando si parla di lingua, tutti sono portati a intervenire. Qualche tempo fa, in una delle Opinioni del sabato sulla Stampa, parlando delle parole russe glasnost e perestrojka, scrissi che la prima, tradotta spesso con « trasparenza », ha alla sua base glas che significa « voce ». Una signora, però, mi scrive per ricordarmi che glas non vuol dire « voce » bensì « occhio ». Se sulla lettera fosse stato messo l'indirizzo, avrei scritto privatamente ma, in mancanza di recapito, devo rispondere pubblicamente. Forse è meglio così perché so che anche altri sono del parere della mia interlocutrice. Ma io confermo quello che ho detto, e, poiché devo dare ragione delle mie asserzioni, dirò che in russo c'è bensì una parola che vuol dire « occhio » ma questa è glaz (trascrivo con z una s sonora, quella, per intenderci, del toscano rosa), mentre glas (con s sorda, come nel toscano casa), che è al fondamento della parola glasnost, significa « voce ». Del resto, l'avverbio glasno significa in russo « pubblicamente » ed io avevo parlato di pubblicizzazione, di intenzione si

molto

dirà

attenti

di giocare a carte scoperte espressa

da Gorbaciov.

C'è, però, un elemento interessante nel discorso della Signora. Chi, come lei, crede che la parola venga da glaz « occhio » fa un'etimologia popolare,

cina, cioè, ad

un

altro, più

non una etimologia scientifica, avvinoto elemento, una parola che è so-

stanzialmente lontana.

Ma

quello che soprattutto devo affermare è l'impossibilità di

accogliere la conclusione della mia interlocutrice: tazioni di parole' (così

si

intitolava

il

mio

«

scritto)

Queste

'ten-

mi riportano

indietro negli anni, quando, matricola, capitai in un'aula ed ap-

presi che la parola

mare

(talassa) derivasse

con maggior fiducia nella era possibile'

vita: se

non

da cavallo; ne uscii che 'tutto

altro imparai

»...

No, Signora.

A

parte talassa, parola greca che, eccetto in te-

levisione, va trascritta thàlassa, la linguistica è da

tempo

uscita

da quello stadio in cui, come diceva Voltaire, le vocali contano poco e le consonanti nulla o, secondo una poesiola francese, « alfana viene senza dubbio da equus I ma bisogna anche ammettere / che venendo da là fin qui / ha molto cambiato lungo la strada. » Chi sa che cosa vuol dire fare etimologia sa anche che si tratta

164 di

una scienza che, dopo

le

scoperte dell'Ottocento e del Nove-

cento, ubbidisce a canoni precisi. Io

non voglio sapere dove

sia

Signora (l'epoca non sarà stato il Sessantotto?) ma la sua idea, che spero non voglia trasmettere ai suoi scolari nel caso che sia un'insegnante, è prescientifica. Ci sono vocabolari etimologici fatti con rigore, basati come sono sulla storia delle stata matricola la

lingue.

Gli studi hanno fatto vedere, per esempio, che darsi delle apparenze: così

due parole

non bisogna

in lingue diverse

come

fi-

l'in-

bad « cattivo » e il persiano bad che significa pure « cattivo » non hanno nulla a che vedere fra di loro perché vengono da due fasi precedenti diversissime l'una dall'altra. Invece, talora parole in apparenza diverse vengono da una stessa voce primitiva; chi mai direbbe, fermandosi alle apparenze, che il latino iecur « fegato » rappresenta la stessa voce originaria del greco hépar « fegato » (da cui viene l'italiano epatite)? Le diversità sono molte ma la comparazione con altri idiomi e la regolarità delle leggi che presiedono allo sviluppo delle due lingue portano a supporre con certezza una voce precedente da cui sono venute le due parole. Altro che « tutto è possibile »! È, piuttosto, il contrario. Ed io ho fra i miei ricordi più belli quello di due studenti, uno di matematica e uno di fisica (ora divenuti colleghi), che, per un intero anno, seguirono il mio corso di glottologia a Pisa. Dicono che ne hanno tratto qualche giovamento. Bontà loro, certamente, ma anche bontà della rigorosa discipliglese

na che permette di ragionare sulle lingue e di stabilire l'esistenza di famiglie linguistiche con grande precisione. Conoscendo questi principi è piìi difficile cadere in etimologie popolari e confondere un suono con un altro.

una scienza

La

linguistica è

contano molto ed altrettanto contano dato esempi di varie lingue ma occorre ricor-

in cui le vocali

le consonanti. Ho dare che il russo, di cui abbiamo parlato, appartiene, come tutte le lingue slave, alla stessa famiglia del latino e del greco (ed anche del germanico e dell' indo-ario). Le comparazioni fra queste lingue non solo sono possibili ma costituiscono una sicura realtà.

[5.

23.12.1987]

«

Cobas sarà

Anche

se

lei

»

un mio amico

si

ostina a chiamarli, con perfida allu-

i Cobas, abbreviazione qualche tempo i giornali sono pieni delle loro imprese, ma quel che ora sta nascendo è un nuovo modo di dir villania a qualcuno chiamandolo Cobas. Così, non appena Goria ha fatto sapere che gli aumenti agli addetti ai trasporti non si possono dare perché porterebbero ad una maggiore inflazione, ecco un famoso sindacalista chiamare « iscritto ai Cobas » il presidente del Consiglio. Così vengono anche qualificati gli scioperanti del ministero degli. Esteri che si oppongono a carriere troppo facili per il personale diplomatico. L'estensione dell'epiteto di Cobas viene dai sindacati confederali cosicché chiunque lavori senza una precisa tessera sindacale, se si opporrà con lo sciopero al governo o ai sindacati storici sarà chiamato Cobas. Arriveremo a sentir rispondere: Cobas sarà lei, come quando si tenta, sia pure malamente, di rovesciare sull'offensore un qualche epiteto ingiurioso. Ma se andiamo avanti così, con Poste che hanno la spudora-

sione, Cobras, tutti sanno che cosa sono

di Comitati di base.

Da

tezza di chiedere 30 mila lire per un recapito

piti svelto, mentre una costosa pubblicità a treni che non funzionano e si costringe anche chi vorrebbe prendere l'Alitalia a valersi di comsi

fa

pagnie straniere per i voli fuori del territorio nazionale, credo che, se si potesse leggere nella mente di molti che pur continuano, nei limiti imposti dall'inefficienza dei pubblici servizi, a lavorare, si vedrebbe che sono, in qualche modo, Cobas: perché ormai con questo epiteto sono trattati sconsideratamente anche quelli che si oppongono a certe prevaricazioni. Ma tant'è. Pare che di ricette per far andar meglio quest'Italia che si riempie la bocca proclamando di essere la quinta (o la sesta?) potenza industrializzata del mondo, ne abbiamo tante. Il

segretario della

piìi

numerosa

tra le confederazioni sinda-

mentre era in testa ad un corteo di scioperanti ha elencato, camminando, una sfilza di rimedi, l'uno più bello dell'altro. Pioveva ma tutto pareva luminoso nelle sue ricette. In queste condizioni è facile prevedere che Cobas divenga un tercali, intervistato

mine positivo come è successo a impressionista, originariamen-

come termine spregiativo, poi raccolto come elogio, o a gotico con cui si designò con superciliosità l'arte pre-ri-

te lanciato

166 nascimentale ed ora usato senza nessuna connotazione negativa. Se Cobas ayrà un valore positivo sapremo chi ringraziare. Con le parole non si sa dove si arriva. Volendo offendere si può dare origine ad un processo opposto. Ma chi pensa a queste piccole verità?

[S.

1.12.1987]

Al buon Dio non

si

dà del

lei

Ho

SEMPRE considerata molto molesta la questione dei plurali delma sono stato invitato a parlarne e perciò ne tratto a costo di ripetermi. Allora dicevo che alcuni scrivono i films, i clubs, i leaders, gli sports e simili, mentre tradizionalmente si consiglia di lasciare invariati questi plurali e di usare le forme / film, i club, i leader, gli sport, tanto piti che l'articolo indica chiaramente che si tratta, appunto, di plurali. Del resto in italiano abbiamo una lunga serie di nomi col plule

voci inglesi in italiano

rale invariato: la bontà, le bontà; la virtù, le virtù;

analisi; la tesi, le tesi;

il

sosia,

i

sosia;

il

vaglia,

Vanalisi, i

le

vaglia; la

specie, le specie; la radio, le radio; ecc. e questa sembrerebbe

una buona ragione per restare fermi all'invariabilità. Si aggiunga che a nessuno verrebbe in mente di fornire l'italiano di plurali come trams, bars e simili. Ma c'è chi ha fatto una distinzione fra voci inserite nell'italiano come tram e bar da lasciare invariate al plurale, e voci non ancora inserite; ma film, club, leader sono ormai di uso comune come tram e bar e non pare che debba esserci differenza di trattamento. Ma come la mettiamo con la pronunzia? Dirò francamente che sentire leaders o sports con 1'-^ finale mi dà un certo disagio, aumentato per sports dal fatto che il gruppo di consonanti finali rts (è difficile che si senta pronunziare la parola sports con una o lunga e senza r in modo veramente inglese) in italiano mi pare che non esista. Certo, qualche volta si può essere tentati di usare il plurale come per esempio le girls per « insieme di un corpo di ballo femminile » ma in questo caso si può pensare che ci troviamo di fronte ad uno di quei nomi che ha in uso soltanto il plurale come quando si dice che uno studia lettere, plurale che non ha singolare perché al singolare la parola ha un altro significato. E girl da solo non significa « giovane donna che appartiene ad un corpo di ballo » ma semplicemente « ragazza ».

La conclusione

è abbastanza semplice: solo in casi rarissimi uso consolidato si può ammettere la -s finale; altrimenti la forma senza segno del plurale pare preferibile, con l'articolo che indica se si tratta di singolare o plurale, maschile o femminile, a differenza dell'inglese che usa l'universale the. Un codicillo a quanto stiamo dicendo viene dall'uso sproposi-

di parole senza

168

come è il caso di chi dice un murales o addirittura, come ho sentito recentemente dalla televisione, un tato di plurali per singolari

Murale e

vigilantes.

vigilante sarebbero stati, evidentemente,

corretti.

Un rita

lettore riporta una frase comparsa sul nostro giornale rifea Craxi: « Per la verità su una questione politicamente tanto

delicata nessuno

e

si

era peritato di chiedere una mia opinione

mi domanda che cosa ne

Peritarsi significa « esitare

»

Rispondo che ne penso male. per preoccupazione o timidezza » e

pensi.

perciò nella frase indicata, se è riportata esattamente, è usata a

Semmai si sarebbe dovuto dire « nessuno si era pre(non è bello ma non è sbagliato). Un altro lettore mi chiede perché non si possa tradurre Shakespeare e Racine dando del lei a Lady Macbeth o a Fedra; e, addirittura, alla Madonna o al Signore Iddio. Ebbene, il voi ha disproposito.

murato

»

versi usi. In

gnora ad un gli dava del era usato

Ma

c'è

si dava ai contadini, come rispose una sipersonaggio fascista che l'aveva ripresa perché nel Napoletano, ma non esclusivamente, il voi

Toscana alto lei;

comunemente come forma allocutiva. un voi di impiego, per così dire, elevato ed anche

di

uso teatrale (non sarà, in questo caso, estranea una certa influenza del francese) e a questo si deve se a Lady Macbeth e a Fedra si dà del voi. Il modello lontano è da cercare nel latino ecclesiastico in cui il vescovo si rivolge ad una comunità usando il voi e per parlare di sé e della sua comunità usa il noi per « io ». Alla Madonna e a Dio si dà del voi e del tu. Nessuno, che io sappia, ha mai impiegato il lei. Sono usi consolidati e penso che se ne debba tener conto. Non credo che il giorno del Giudizio, nella Valle di Giosafat,

saremo chiamati col voi o col [S.

lei.

13.12.1987]

Troppi auguri logorati dal tempo

tutti si fanno gli auguri, sinceri o ipocriti, caloo freddi, vivi o tiepidi, cordiali o formali, ma quanto ci sia di sentito in questo rituale non si può dire se non conoscendo bene chi gli auguri li fa o quelli ai quali noi li facciamo. Certo, se è vero, come pare, che la formula di cortesia è entrata in italiano in tempi relativamente recenti, col solenne, metaforico, immaginoso padre Paolo Segneri nella seconda metà del Seicento (prima, sin dal Trecento, augurio voleva dire « voto, desiderio, speranza »), non vi è dubbio che la parola ha subito un notevole logoramento. Popolarmente in Toscana auguri viene anche detto a chi ha vinto una lotteria o ha ottenuto una onorificenza, significando, dunque, rallegramenti, parola che, nel significato di « felicitazioni », è attestata, pare, la prima volta, nel 1869 nel vocabolario del Tommaseo. Giocando alle scatole cinesi, felicitazioni è un po' pili vecchia perché c'è già nell'Algarotti, circa

In questi giorni rosi

a metà del Settecento.

Ma

torniamo

ai nostri auguri.

vediamo che questa parola

Se andiamo indietro nel tempo, una vasta famiglia in testa

fa parte di

quale c'è Vàugure, il sacerdote che, presso gli etruschi e i romani, con l'osservazione del volo degli uccelli, dei fenomeni della natura e con la spiegazione dei sogni, prediceva il futuro. Dunque, l'augurio presso i romani era interpretazione di presagi, segno premonitore, arte divinatoria. Chi se ne ricorda piti quando si esprimono gli auguri di buon Natale e buon anno? E chi fa attenzione al fatto che alla stessa sfera di significati si riferisce un termine come augusto che voleva dire « consacrato dagli àuguri » e perciò « sacro », diventando persino, col soprannome di Ottaviano e poi di tutti gli imperatori romani, il segno più alalla

to della dignità imperiale?

Ma, scavando ancor

piti a fondo, alla base di tutte queste voaugurio compreso, c'è un verbo latino (augere) che esprime l'accrescersi » per cui l'augure è sostanzialmente « colui che

ci,

«



i

presagi assicurando l'accrescimento di una impresa

Ma ne

il

quello che forse

nome

fa spuntare

piti

».

interessa è che dalla stessa radice vie-

autore che, in origine, è qualcosa » ed anche il

« colui «

che fa crescere, che » nel senso più

fondatore

ampio.

Non mi

pare che

gli autori

potrebbero desiderare una designa-

170 zione più

alta.

Anche

se

si

è smarrito

il

concetto di accrescimento,

autore esprime pur sempre, anche oggi, un grande concetto.

« Accrescimento di fòrze, rinforzo » è anche il significato latino della voce che ha dato origine ad ausilio, parola molto dotta per esprimere « aiuto ». In tutto questo intrecciarsi di significati riconducibili ad una stessa fonte si collocano i nostri poveri auguri, in cui nessuno sente piìi il valore di « accrescimento di qualcosa di bello, di favorevole »; ma gli auguri, se sono fatti con sincerità e con cuore puro, pur essendo logorati e ripetitivi, sono pur sempre insostituibili, specie nella vicinanza di Natale e di Capodanno.

[S.Tuttolibri 19.12.1987]

Chiuso, impresenziato

Stampa inviata da un lettore di Pavia e pubblicata il 27 dicembre, a proposito del verbo peritarsi usato dall'onorevole Craxi, si dice che io ho attribuito indebitamente uno sproposito all'uomo politico perché peritarsi signiIn una lettera al Direttore della

fica, secondo l'edizione del Vocabolario di Palazzi del 1939 « non avere l'ardire di fare o dire una cosa ». Ebbene, riprendiamo la frase intera riferita all'onorevole Craxi: « Per la verità su una questione politicamente tanto delicata nessuno si era peritato di chiedere una mia opinione ». Ora, usare una frase negativa come non avere l 'ardire di equivale alla frase positiva esitare a. Di conseguenza le parole attribuite a Craxi

significherebbero: nessuno ha esitato a sentire la mia opinione. Questo vorrebbe dire che tutti gliela hanno chiesta. Resta però il dubbio, condiviso dal lettore, che l'uomo politico volesse rilevare che nessuno l'aveva interpellato. Di qui il mio commento. Ad ogni modo, è proprio il caso di chiedere una maggiore chiarezza d'espressione agli uomini politici e non soltanto a loro. Valga per tutti un esempio. Su uno sportello della stazione di Firenze, come è detto in un articolo di un settimanale, si legge: Lo sportello resterà impresenziato dalle ore 13 alle ore 15. Ve la immaginate una persona di modesta cultura o uno straniero che si trovi di fronte a queìV impresenziato? Perché non è stato detto

chiuso!

Evidentemente

la

parola

comune

sarà sembrata al burocratico

autore deìV impresenziato troppo debole, troppo anonima.

Ma quel-

che soprattutto sorprende è che impresenziato figuri in due vocabolari recentissimi, quello dell'Enciclopedia Italiana e il nuovo Devoto-Oli. In tutti e due si parla di parola in uso in piccole stazioni ferroviarie per indicare i periodi della giornata nei quali il personale non è presente in servizio. Per fortuna la voce manca allo Zingarelli, al Garzanti e al nuovo Dizionario ragionato della lingua italiana dell'editore D'Anna. Occorre aggiungere che, nel caso in questione, la parola è usata per uno sportello della stazione di Firenze, città dove, a quanto lo

pare, nacque Dante Alighieri.

So che a causa di quel per fortuna che ho scritto sopra, molti mi criticheranno. È opinione comune che vocabolari moderni debbano contenere (cosa impossibile) tutte le parole di una lini

172 gua, anche quelle che sono frutto di cattivo gusto. Così se qualcuno protesta, chi usa parole orrende potrà sempre dire: « C'è nel vocabolario », e di questo argomento si valgono anche quelli che dicono che una parola va bene perché è stata usata in tele-

visione.

La questione deìV impresenziato non riguarda

il

purismo.

questione di pulizia intellettuale, di cultura, di rispetto per In tese,

una pagina indimenticabile il

politichese e simile genìa

Italo l'

Calvino chiamò

il

È una

gli altri.

burocra-

antilingua e riportò quello spas-

sosissimo verbale di un brigadiere che, accogliendo una deposizione semplice e precisa, trasformava stamattina in « nelle prime ore antimeridiane »; cantina in « locali dello scantinato »; accendere la stufa in « eseguire l'avviamento dell'impianto termi-

co

»;

e così via.

Tutto ricorda

la

veramente deffinire

modo

stile secentesco che il ManPromessi Sposi (« L'historia si può Solo che il Manzoni scriveva in questo

contraffazione dello

zoni fa nell'introduzione

ai

» ecc.).

di proposito e si sente in lui vibrare l'artista.

Quanto più uno è

di modesta preparazione linguistica e cultulambicca il cervello nel cercare qualcosa di inusitato, di solenne; ma occorre dire ancora una volta che il linguaggio comune offre purtroppo modelli che alleviano la fatica: ottica per « punto di vista » o « quadro » si sente continuamente; emergere rimbomba dalla televisione. Pare che tutto emerga e nulla è piti capace di « risultare chiaro », di « apparire evidente ». Grosso è usato continuamente per « grande », « importante ». Oso dire che questi difetti dell'italiano sono altrettanto e forse piti pericolosi delle parole straniere. rale tanto pili

si

[S.

2.1.1988]

Non per Forse

la

vanità

y

ma per

affetto

più disgraziata lettera dell'alfabeto italiano è la

getto di lotte fra eruditi e studiosi che

Nel Duecento

si

trova spesso in grafie che

e perciò è usata in voci

/z,

og-

non cessano neppure oggi.

come homo per uomo

si

rifanno al latino

e così avviene nel

Trecento in cui, però, accanto a honore, troviamo onore. Nel Cinquecento Giorgio Trissino (e si veda la recente, bellissima edizione preparata per la casa editrice Salerno dei suoi scritti linguistici, a cura di Alberto Castelvecchi) mantiene la h etimologica, propria, cioè, del latino, secondo un criterio che ebbe vasta eco negli autori umanistici, anche se verso la fine del secolo si tende a tralasciarla. Nel Seicento, nella seconda edizione del Vocabolario della Crusca, la h si conserva solo in ho, hai, huomo; ma per quest'ultima grafia nella terza edizione si rinvia a uomo mentre in vari si scrive huomo, historia (chi non ricorda l'Introduzione Promessi sposi in cui si imitano sapientemente forme secentesche e che comincia: « L' historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo », in cui sarà anche da vedere quella maiuscola della parola Tempo, secondo un uso, appunto, che è proprio del secolo xvn). Nel Settecento la /z è relegata alle quattro voci del verbo avere {ho, hai, ha, hanno) e alle interiezioni, ma ci sono diversi autori che preferiscono usare l'accento circonflesso {ò, à, anno) o

autori ai

acuto

(ó, a).

Questa tendenza trova un'eco nei seguenti versi di Pier Jacopo Martelli (1665-1727): « Ma che ha fatto quest'H sì inerme ed innocente / alle fauci dell'Arno, dov'abita sovente, / che dagli scritti altrui voglion cacciarla in bando, / mentre giammai non sanno scordarsene parlando? » C'è qui un'esplicita allusione alla pronunzia toscana aspirata di amiho, la hasa, viholo (vicolo) ecc., ma soltanto per ischerzo la povera h usata come segno ortografico può assimilarsi a questa

consonante.

Rimanendo a elementi minimi, ma passando dalla grafia a un fatto morfologico, ho letto con interesse, come sempre, quello che ha

scritto

recentemente un eminente studioso a proposito del

pronome personale mio. Parlando di uno scienziato italiano Premio Nobel (non importa

174

nome, tanto è conosciuto da tutti) egli nota che, quando sempre il possessivo mio: il mio laboratorio, il mio istituto, la mia università e dice: « Perchè non usa invece di mio, nostro! » E paragona quello scienziato a un conoscente che, quando le cose vanno bene dice io e mio, e quando vanno male usa fare

il

parla, usa

invece tu e tuo. Non certo per difendere quel Premio Nobel che io conosco fin

da quando era studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ma perché mi pare giusto, devo dire che mio è usato non solo per affermare un possesso o un'esclusività ma in senso molto più vasto.

Mi sono

più volte trovato a usare mio in casi come // mio istimia università nello stesso senso in cui dico la mia città (o che forse è veramente mia?) o // mio Paese (e che cosa è veramente mio di questa Italia nel bene e nel male?) Voglio dire che mio indica anche una relazione di larga partetuto e la

cipazione.

C'è

in

mio un'ampiezza

di rapporti

che va

al di là del

sempli-

ce possesso e della sua ostentazione: / miei tempi sono i tempi in cui vivo, // mio uomo può esser un'apostrofe affettuosa, ma

anche poco riguardosa. Con questo vado certamente al di là del soggetto trattato ma, in fondo, sono certo che un ampliamento di orizzonte nella linguistica non è poi cosa da buttar via. Non è da un semplice uso di mio che si può valutare il grado di vanità o di troppo alto sentire di sé. Ci sono altri atteggiamenti che possono condurre a un tale giudizio. [DCorr. 7.1.1988]

«

Prosapia » e « denuclearizzato »

( L'intervistatore presente a un servizio di Va pensiero, trasmissione Rai che aspira ad una certa qualificazione culturale, ha detto recentemente, assistendo a una festa di nobili a Casale Monferrato, che i partecipanti erano di nobile prosapia. Questa è una '

novità assoluta perché la parola prosàpia riproduce

il

latino

pro-

sapia che, avendo una /breve, ha trasmesso in italiano una pronunzia con l'accento sulla prima a. Sia, invece, gloria a Magalli

che ad un intervistato che diceva di aver partecipato a una telenovelas ha detto che si doveva dire telenovela. A queste parole l'intervistato rispose che la telenovela è formata di tanti episodi si deve dire telenovelas. Così d'ora in avanti dovremo anche dire romanzi invece di romanzo, essendo un romanzo for-

e perciò

mato

di più capitoli. Celentano, che è sicuramente oracolare, ma di modesta cultura, ha detto più di una volta un mio fans e allora lo metteremo

che hanno detto un murales, dimenticando che muraun vigilantes, anch'esso un plurale e simili bellurie. Ma si vorrebbe lodare Heather Parisi, anche perché è straniera: lei ha notato che gli italiani spesso mettono prima il cognome, poi il nome e si è trovata di fronte a un italiano che le ha risposto che questo è l'uso generale. Non è vero. Il cognome prima del nome si mette soltanto negli elenchi telefonici, scolastici e simili, mentre basta a distinguere una persona sia pur mediocremente colta da un ignorante il solo fatto di usare prima

con

quelli

les è plurale,

il

nome

poi

il

cognome. Insomma,

il

cognome prima

del

nome

fa tanto ricordare l'ufficio leva.

Tutte

mune

le volte

che mi capita di leggere

in pubblici cartelli

denuclearizzato mi sento mosso a compassione per

il

Cono-

Per denuclearizzare un luogo bisognerebbe che sia stato prima nuclearizzato. Ma il verbo nuclearizzare in italiano non esiste e perciò i vocabolari (per esempio il Devoto-Oli e quello dell'Enciclopedia italiana) che riportano denuclearizzare devono dire che la voce viene non da un verbo ma dall'aggettivo nucleare con de privativo. Denuclearizzare è nudo e crudo l'inglese (to) denuclearize e mostra ancora una volta l'incapacità degli italiani di trovare un termine più appropriato. Il cartello lo vedrei così: Zona antinucleare. Non c'era bisogno di un grande sforzo per arrivare a stro italiano.

176 questa modesta sono le guerre,

ma le

più pulita (linguisticamente) conclusione. Ci

potenze,

le

armi nucleari e chi

si

oppone a

tutto questo è antinucleare.

[DCorr. 21.1.1988]

Accento selvaggio

Fa tristezza sentire un meteorologo dire alla televisione che c'è nebbia in Padania. Trattandosi del nome di una zona (non possiamo parlare di regione perché è un territorio ampiamente interregionale), derivato da padano, definito dai vocabolari « proPo e del suo bacino », il termine Padania è opportuno e non vi è da ridire se non su quell'accento. Dire Padania invece di Padania sarebbe com.e dire Italia invece di Italia. Sembra che i teleschermi non si accontentino degli spropositi orali, ma che, anche quando mandano in onda messaggi scritti, prio del fiume

siano portati a commettere quelle licenze che, fuori, dell'eufemismo, chiamiamo errori o, familiarmente, sfondoni. Nell'annuncio di una televisione privata si leggeva l'avviso di un prossimo

programma con, pressapoco,

le

seguenti parole:

QuaVè Vavve-

nimento televisivo più importante, ecc. con qual seguito dall'apostrofo che, trattandosi di troncamento, non va messo, come sanno i compositori dei maggiori giornali che su questo punto non sbagliano e scrivono qual altro o qual altra, qual è e qual anima, così come si deve scrivere un uomo e un asino e non

un'uomo e un'asino.

È ben vero che molti hanno vissuto il Sessantotto dicendo che Dante doveva essere bandito, e che la grammatica non contava nulla, ma il guaio è che molti di loro sono diventati insegnanti. Ma perchè ora di certi libri, proprio di grammatica, si vendono decine di migliaia di copie? La gente si è accorta della necessità di esprimersi bene. Studia il latino se vuoi riuscire nel commercio era un motto degli anni Trenta. Ora diciamo Studia Vitaliano (e magari il latino) se vuoi trovare un posto (e se non vuoi apparire rozzo). [DCorr. 4.2.1988]

Birignao meravigliao

Sarà per deformazione professionale ma Cacao meravigliao mi viene

to parlare di

rola di quello che è considerato cito cassinese del 960,

dunque

il

primo

che senprima pa-

tutte le volte

in

mente

la

testo in italiano,

il

Plà-

di piti di mille anni fa, in cui sta

Sao ko kelle terre, con quel che segue. Quel sao vuol dire « so » e non ha nulla di portoghese mentre con quelle forme in ao si vuol alludere proprio al portoghese: né portoghesi sono ciao e birignao che sono fra le non molte parole in ao dell'italiano e che, particolarmente birignao, si inquadrano bene nella trasmissione. Sponsorao e trasmissao cantano le ragazze mulatte di Arbore, ma l'altro giorno in un negozio di Pisa si è sentita una signora dire che andava dal macellao a comprare carne di cavallao, e sul giornale La Nazione del 15 gennaio è comparsa la parola guerrao per indicare la guerra dei brevetti scatenata sul medesimo scritta la frase

cacao.

Sono scherzi

ma

sono pur sempre prove della popolarità della

trasmissione che dimostra ancora una volta sia

il

mezzo

come

la televisione

più potente di divulgazione di parole e di notizie,

oltreché di immagini. Viene proprio da rammaricarsi che tanta potenza non sia messa meglio a frutto per un uso più efficace della lingua italiana.

Così si ascoltano con meraviglia frasi come questa (TG2 del 14 gennaio): « Ci sono molte pratiche, come si dice in gergo, in arretrato ». Come sarebbe a dire? Gergo è un linguaggio creato apposta da un gruppo per non farsi capire dagli altri e c'è un gergo dei carcerati, di certi gruppi di venditori ambulanti ecc. Spesso gergo è usato, estensivamente, per linguaggio tecnico, compreso solo da pochi addetti ai lavori. Ma in arretrato che cosa ha a che fare col gergo? Ormai in arretrato fa parte della lingua comune e non ha bisogno di classificazioni particolari. La lingua ha i suoi schemi. Così, quando Frassica dice che nessuno fa veramente quattro passi, o che un oggetto rotto in mille pezzi potrebbe essersi rotto in 854 pezzi, pare aver ragione. Ma la lingua non è una struttura esclusivamente logica. Anche in latino per dire una grande moltitudine si diceva sescenti, « seicento ». Era un modo per esprimere il concetto di infinitezza e le ragioni logiche sono trascurate. Chi sa dire perché dicevano seicento e non

179 settecento! Perché Frassica avesse ragione bisognerebbe che la

lingua fosse soltanto espressione della logica più rigorosa: e questo,

davvero, non

è.

[DCorr.

18.2.1988]

/ classici banditi

Non

sarà

il

caso di insistere sull'abolizione,

come

materie di stu-

da Omero a Dante, da Platone a Shakespeare, decretata, a quanto pare, dall'Università di Stanford negli Stati Uniti. Viene in mente il bando dato per la seconda volta, dopo quello da Firenze quand'era in vita, a Dante da vocianti sessantottini all'Università di Milano. Al posto dei classici, bene comune dell'umanità, sarebbero da leggere autori non molto identificati del Terzo Mondo. Su questo punto sono necessarie, credo, alcune spiegazioni. Quando un autore del Terzo Mondo vince un premio Nobel o un altro grande premio, si parla molto delle sue origini, della sua appartenenza a un'etnia particolare che non è quella degli autori dell'Occidente, che pure hanno fatto qualcosa per la civiltà. Comincia così un gioco in cui si esaltano qualità dio, di autori classici,

mondi di cultura diversa, aderenza a schemi mentali che non sono quelli dell'Occidente. Sarà bene, una volta per tutte, dire che se uno scrittore del Terzo Mondo scrive in francese o in inglese, la componente etnica conta fmo ad un certo punto. La formazione culturale, che etniche, appartenenza a

si

esprime

in

una lingua, è

fatto

il

fondamentale;

il

resto appar-

possono avere influito condizionasenza che razza e ambiente abbiano potuto

tiene a fattori biologici su cui

menti ambientali ma Il contenuto può riflettere l'ambiente ma il fattore etnico non può essere posto sullo stesso piano del luogo d'origine e, ancor meno, dei fattori culturali e linguistici acquisiti. Chi scrive in una delle lingue che sono state definite di civiltà, si immerge nel grande fiume della cultura che quelle lingue esprimono. « Non esistono razze latine, esiste la latinità », scrisse un giorno Graziadio Ascoli, il piti grande linguista italiano che sia mai esistito. E solo i nazisti e Hitler sostenevano l'identificazione della

prevalere.

lingua con la razza. In tutta la letteratura latina

Giulio Cesare. Gli

altri

sono

il

solo nato a

Roma

italici, Ispani, galli,

pare che sia

africani per la

loro provenienza, per la loro, chiamiamola pure con

il

suo no-

me, razza, da Plauto a Seneca, da Cicerone a Sant'Agostino, da Livio ad Orazio. Vano è cercare in Livio la patavinità; vano è

È semogni dub-

cercare l'ispanicità in Seneca o l'africità in Sant'Agostino.

pre latino quello che scrivono, a segnare, bio, l'appartenenza ad

una

civiltà

al di là di

comune. Puskin, non cessa

di

181 far parte della grande letteratura russa pur avendo avuto uno dei nonni negro. Joyce è pur sempre un autore inglese anche se è irlandese. L'Irlanda è soltanto il sostrato della sua personalità che appartiene, in quanto è quella di uno scrittore, ad un'altra cultura. Il siciliano Pirandello e il bolognese Bacchelli, pur così diversi per condizioni ambientali e persino fisicamente, sono autori della stessa lingua e fanno parte della stessa cultura.

[S.

30.1.1988]

Non Nel

crociate

y

ma

vigilanza"^

convivono due anime: quella che il suo compito fondamentale è di osservare freddamente i fenomeni studiandoli nella loro genesi e nel loro sviluppo o nella loro contemporaneità, evitando ogni intervento normativo, e quella di chi non resta insensibile di fronte a fatti che interessano i modi espressivi della comunità nazionale. È per questo che un buon numero di linguisti italiani interviene con articoli su giornali o riviste (alcuni hanno potuto valersi della radio e perfino della televisione) o privatamente, quando siano interpellati, per far conoscere il loro punto di vista. È la via che fu seguita da Bruno Migliorini, la cui pacata lezione è ancora presente in molti linguisti di oggi, ma che era stata in tempi ormai lontani adottata da Graziadio Isaia Ascoli quando si oppose, piìi di un secolo fa, al manzonismo ad oltranza. linguista spesso (non sempre)

di chi sa

Si vide allora un tecnico della lingua (anzi delle lingue) prendere posizione su una questione che riguardava la comunità italiana appena formata. Inoltre, poiché, in tempi recentissimi, si è scoperto che Alessandro Manzoni fu anche un grande linguista

teorico e

non solo

il

propugnatore della diffusione del tipo

lin-

guistico fiorentino, bisogna mettere anche lui nel novero dei linguisti impegnati, pronti, cioè, a intervenire sui fatti

contemporanei.

Al quesito « Dove va la lingua italiana? » risponderei che ci sono molti segni positivi e molti segni negativi sul suo destino. I segni positivi sono quelli di una più ampia diffusione della conoscenza dell'italiano presso strati sociali prima esclusi o emarginati, e questo per il diffondersi della scuola e dei mezzi di comunicazione di massa; discorso che implica una precisa responsabilità della scuola da un parte e dei giornali, della televisione e della radio dall'altra. I segni negativi si vedono nello scadere della qualità della lingua comune proprio in relazione all'aumento delle persone che usano l'italiano. La grande diffusione di una lingua non è stata mai accompagnata da un'efficace salvaguardia della sua qualità. Le stesse fonti che operano per estendere l'uso dell'italiano so-

no, nello stesso tempo, origine di inquinamento: qualità della scuo-

*

Da Dove

va la lingua italiana?, a cura di Jader Jacobelli, Bari, Laterza, 1987.

183 la,

dei giornali, della televisione e della radio che sottintende

un

discorso culturale di più ampio respiro.

Le

ragioni della diffusione della cultura che Graziadio Ascoli

nel 1873 come fatto fondamentale per l'Italia sovrastano ancora oggi e si estrinsecano, oltre che in una questione di qualità della scuola e dei mezzi di comunicazione di massa, nei punti cruciali dei rapporti fra lingua nazionale e dialetti e lingua nazionale e le sue relazioni con l'inglese. Come si vede, il discorso si amplia moltissimo, perché, è inutile ripeterlo, la lingua è fenomeno primario rispetto ad ogni altra esperienza umana e quello che le implica tutte. Fortunatamente

poneva

la linguistica è stata indicata

come

la scienza-guida, la

scienza

che può fornire certezze metodologiche a qualunque altro tipo di indagine.

Sulla qualità della scuola, indice di incertezza è che forse c'è nessuno di noi che fa

il

stato pregato (qualche volta implorato)

media

di voler dare loro

non

mestiere del linguista che non sia

un aiuto

da insegnanti

di scuola

nel presentare agli alunni un'a-

deguata descrizione della struttura dell'italiano dopo che è stato detto in modo sciagurato che la grammatica tradizionale andava buttata al macero: sentenza troppo drastica, se è vero che la consapevolezza dei suoi limiti doveva essere integrata - soprattutto dopo il crollo dello studio del latino, che era forse la sola occasione nelle scuole di parlare di grammatica - da nuove e più precise ma, insisto, chiare dottrine che non fossero soltanto materia di sfoggio e di vanitosa persuasione di essere al centro di scoperte definitive.

A un certo punto non ci fu più né sopravvivenza della vecchia grammatica, né sopravvenienza di un modo nuovo di fare grammatica. E questo spiega, tanto per dare un esempio, la rinverdita fortuna della modesta Grammatica di Fanzini che è, tuttavia, più interessante per conoscere Fanzini che per imparare la grammatica, e di qualche altro testo che ha superato la tiratura dei più diffusi romanzi usufruendo di una ben concertata pubblicità di grandi case editrici. I

giornali, la radio, la televisione

sono quelli che sono: pre-

sentano aspetti positivi, con articoli e servizi preziosi sul piano culturale accanto ad abissi di ignoranza come quelli rappresentati da chi alla televisione ha detto « la città di Spalato » o da chi continua a dire Salvador invece di « Salvador », come sarebbe legittimo dire.

184 piano mi viene in mente una donna di serdebba dire collaboratrice domestica) che diceva che non le piacciono gh uomini sessuali prendendo la prima parte di « omosessuale », « omo- », per uomo. Ma se quella donna Sia pure su

un

altro

vizio (pare che ora

non influenza

il

si

pubblico,

al

contrario

il

giornalista o l'annun-

ciatore radiofonico o televisivo ha davanti a sé

un numero

ster-

persone di cui costituisce un modello, ahimè riconosciuto, con le conseguenze che possiamo immaginare. La Rai ha a disposizione un Dizionario di pronuncia fatto apposta: perché se ne serve solo per fare omaggi ad invitati e non lo fa studiare

minato

di

agli annunciatori e ai giornalisti?

Quanto

alla questione lingua-dialetti

pio accordo sul fatto che

un insegnamento che dà buoni frutti.

positivo e che dialetto

Sull'estensione del dialetto

come

alcuni, in

mi pare che

bilinguismo

il

modo anche

come

si

è,

un amun fatto

ci sia

per lo

piìi,

fondi sul contrasto lingua-

fatto

primario nella scuola,

arrabbiato, vorrebbero,

ho dei gravi

dubbi. Consiglierei perciò la massima cautela nell'approvazione di leggi

che prevedano

dialetto

il

elementari e medie. C'è

il

come prima

lingua nelle scuole

pericolo di emarginare

i

ragazzi, di

non permettere loro quell'inserimento nella vita sociale zione che mi pare dovere fondamentale della scuola. Il

2 aprile 1975 e

il

della na-

15 giugno dello stesso anno, sul giornale

La Stampa, Arturo Carlo Jemolo affrontava la questione linguadialetti in modi e toni che a me paiono ancora oggi eccellenti. dimentichiamo, che un egualmente a Trento e a Siracusa », nonostante le intonazioni diverse con cui viene letto. Vittorio Emanuele ii parlava in piemontese con Cavour, ma quando faceva i discorsi della corona, quando rispondeva agli indi-

Jemolo ricordava quello

di cui spesso ci

libro scritto in italiano è capito «

rizzi parlamentari,

Del resto

parlava in italiano.

la diffusione

immediata del romanzo di Manzoni (due

anni dopo l'uscita del suo libro, nel 1829, usciva addirittura la quarta edizione piemontese dei Promessi Sposi, senza contare quelle uscite in altre regioni italiane) testimonia quanto tutta l'Italia avesse sete di lingua unitaria. E qui sarà pure da ricordare, in generale, l'importanza della lingua letteraria nello svolgimento dell'italiano, nata come lingua colta, come espressione dotta e

rimasta tale per molti secoli. Si presenta certo il discorso di quale italiano raccomandare.

Oggi nessuno ignora

piti,

spero, la varietà dei registri linguistici

185 (letterario,

comune, popolare); nessuno

cuni punti (per esempio, lui per

si

formalizza più su alper « loro » e simi-

« egli », gli

Eppure parlare contro induce alcuni a dare del purista, con una connotazione non precisamente positiva, a chi cerca di storicizzare i fatti, di spiegarli e di indurre chi ha la pazienza di leggere, ad evitare il cattivo gusto, spesso più biasimevole del volgare sproli,

già presenti, del resto, in Manzoni).

gli strafalcioni

posito.

Quanto

si hanno segni continui della sua influenza mondo. È il famoso principio del prestigio che

all'inglese,

nelle lingue del

una lingua su un'altra a presentarsi prepotentemente e che ha perfino indotto certi incauti autori a sostenere che l'uso dell'italiano, o meglio il suo insegnamento, vada bandito dalle scuole in favore dell'inglese. Ma in questa questione occorre distinguere. Non è tanto l'inglese a preoccupare quanto una sorta di lingua franca che sta fra la scienza e la tecnica. Il biologo Giuseppe Montalenti ha più volte detto che certi suoi colleghi hanno creato da « feedback », che potrebbe essere reso con « retroazione », feedbeccare: e questo pare un po' troppo. L'inglese ha certamente invaso l'italiano come il francese: forse il francese ne soffre ancora di più. Ma bisogna sperare nella capacità di recupero dell'italiano, se si pensa che la nostra lingua assorbì e dimenticò moltissimi termini francesi che avevano invaso l'Italia nel Settecento e nell'Ottocento. Lasciamo dunque che si svolga questo italiano con la fiducia che avvenga un certo esercita

riassetto.

Soprattutto non lasciamoci trascinare da quell'onda di sciovinismo che ha indotto i legislatori francesi a prevedere una multa

per chi usa ufficialmente voci inglesi. Incrementiamo, invece, la cultura, che è anche cultura grammaticale, e opponiamoci all'abuso stesso della parola « cultura » compiuto da chi parla perfino della cultura degli spaghetti o della Coca-Cola o di cultura del freddo in occasione di nevicate. Cerchiamo di riflettere e di far riflettere sulla lingua perché se ne abbia una sempre maggior consapevolezza. Questo credo

che sia il compito dei linguisti militanti. La razionalità, se esclude le crociate, non deve impedire una sana partecipazione allo sviluppo linguistico che è patrimonio di tutti.

L'idioma gentile

L'idioma gentile fu

scritto nel 1905, tre anni prima della mor1921 aveva già raggiunto la tiratura di 86.000 copie; fatto sicuramente raro nell'editoria italiana.

te dell'autore, e nel

Che

l'opera rispondesse da una parte a criteri manzoniani e

dall'altra a sentimenti patriottici

non può essere messo

bio. Per questi aspetti la sua fortuna

si

che se non completamente. Così come ranza presso le generazioni recenti. Certo,

il

libro è di

si

una accattivante

in

dub-

spiega agevolmente, anspiega la sua totale ignoaffabilità

se, non può appa-

anche

solo per la distanza di tanti decenni (e quali decenni)

rire in gran parte superato. In realtà, non c'è in Edmondo De Amicis preparazione in linguistica storica o teorica adeguata al suo tempo, che è pur sempre quello di Graziadio Isaia Ascoli. Ma su questo piano, quanti mai hanno scritto di lingua italiana senza una reale preparazione, dai puristi dell'Ottocento a Paolo Monelli ed oltre, fino ai nostri giorni.

La

linguistica italiana, risentendo della rivoluzione degli studi

di linguistica storica e generale in questo secolo, è fini

e nei mezzi;

ma

l'autore

non va considerato

cambiata nei

(lo disse già chia-

ramente Francesco Flora nella sua Storia della letteratura italiana pur dando di lui un giudizio, tutto sommato, posifivo come scrittore, mentre altri, come Benedetto Croce, lo aveva trattato con una certa durezza) un filosofo della lingua o un filologo. Non solo, ma, in vari casi, c'è una certa contraddittorietà nell'interno stesso dell'opera, per l'onda di piena che scorre dalla prima, retorica pagina fino all'ultima e per quel procedere per « apologhi », qualificazione che fu data, non senza ragione, ai suoi racconti; ed anche questo libro è un racconto. Se nella Letteratura della Nuova Italia (iii, p. 242) Croce lo

chiamò

«

il

Manzoni

dei ragazzi»

,

la

definizione

si

attaglia an-

che a quest'opera, dichiaratamente rivolta ad un giovinetto e non importa che dal mondo degli adulti siano tolti i personaggi e le figurine che egli si compiace di mettere in scena, soprattutto per cogliere in essi mancanza di preparazione linguistica adeguata a quegli atteggiamenti che ne fanno per lo piti delle macchiette (si * Presentazione della ristampa del gentile, Firenze, Salani,

1987.

volume

di

Edmondo De Amicis L'idioma

187 Signor Coso, alla Signora Piesospinto, all'Amìo Enrìo, al Professor Pataracchi, a Scmpolino, al Pescatore di Perle, al Visconte La Nuance, al Dottor Raganella, allo Stilettatore, a Carlo Imbroglia) che sono dei concentrati di singoli difetti portati fino ad una esasperazione che può ingenerare qualche sazietà. Non filologo, non linguista in senso moderno e, per fortuna, troppo intelligente per avventurarsi in etimologie. Ne presenta, infatti, una sola, naturalmente sbagliata: «... quei punti del torrente dove l'acqua è profonda, e una pietra che vi si getti fa un tonfo, si chiaman tónfani, una bella parola onomatopeica ». Ora, si dà il caso che tonfano sia parola di origine germanica e, più precisamente, longobarda e non onomatopeica. Manzoniano di stretta osservanza si proclama De Amicis, ma certa sua insistenza nel proporre voci di uso molto raro lo allinea piti a certi manzoniani che al grande maestro che seppe, anche nell'impiego dei vocaboli, non esser pedante come accadde a molti suoi seguaci, fiorentinisti ad oltranza, quegli stenterelli che furono bollati duramente da Giosuè Carducci. Ma, se anche De Amicis insiste su certi termini già rari al suo tempo, e fa stupire il povero lettore non toscano (o meglio non fiorentino), egli riesce sempre a sottrarsi ad un biasimo totale per una sua intrinseca capacità di scrittura. A Manzoni De Amicis, nella rassegna degli autori italiani che occupa meno di venfi pagine, dà il posto d'onore. La prosa dei Promessi Sposi è per lui « la piti vicina a quello che è per tutti oramai il tipo ideale della prosa moderna: moderna e perfettamente italiana. È semplice, infatti, conforme al linguaggio parlato, e pare spontanea; ma non cade mai nella volgarità e neppupensi al

al

Falso Monetario,

re nell'affettazione della naturalezza.

È

chiara, limpida

come

l'aria

ma non

per effetto d'una semplicità elementare: ha la chiarezza che deriva dalla precisione e dall'ordine dei pensieri e dall'arte finissima di ridurre ogni idea, per quanto profonda e complessa, a un'espressione semplice, che la fa parere un portato del senso

comune

un

pezzo che mostra l'aderenlombardo di cui egli raccomanda (ed è fatto importante) lo studio delle due edizioni del romanzo, quella del 1825 e quella, corretta, del 1840 in cui (riporto in gran parte parole del De Amicis) le scabrosità sono state appianate, le durezze addolcite, i latinismi e i dialettismi sostituiti, la pedanteria abolita magari con anacoluti. za di

»:

e così via per

De Amicis

altro bel

teorico e scrittore al grande

188

La derivazione

di queste idee è palese e

una nota bibliografica posta

il

lettore

può trovarne

fondo al volume, l'opera di Francesco D'Ovidio, La lingua dei Promessi Sposi, « che tutti gli studiosi della lingua » egli dice, « dovrebbero leggere ». Il Manzoni, tuttavia, deve essere « maestro, non idolo », perché non deve indurre a trascurare altri autori importanti. Tra le ragioni di tale atteggiamento De Amicis dice che il Manzoni non ha « trattato ogni argomento, né tutto detto in tutti i modi possibili neppure nel campo suo »; e qui veramente par di cogliere un atteggiamento ampiamente enciclopedico della lingua di cui è chiaro esempio quella corsa nel vocabolario proposta per una lettura della lettera P durante la quale ha perfino detto che bisogna far caso al fatto che il foro del manico della padella si chiama occhio e il fusto dell'albero ancor giovane pedagnolo, una la fonte in

salita piuttosto fortt pettata,

siderato

meno

e

«

in

rimproverare, rinfacciare

espressivo di rìmbrontolare

il

»

è con-

pane, finendo dav-

vero in una zona del vocabolario più adatta a frastornare il lettore non toscano che ad incoraggiarlo nella sua necessità di imparare la lingua.

Non si deve dimenticare che il pubblico al quale si rivolge De Amicis è soprattutto quello dell'Italia non toscana e perciò dialettofona.

come se fosse una lingua comune nel pubblico al quale

L'esperienza di chi studia l'italiano straniera

dopo

l'unità era

era imposto dalla

un

fatto

scuola obbligatoria l'apprendimento della

lingua nazionale (a partire dal 1877). Nel 1873

si

era svolta la

polemica dell'Ascoli contro il manzonismo, che alcuni avevano preso tanto sul serio da dimenticare, a parere dell'Ascoli, la necessità della diffusione della cultura a favore di

generalizzato del toscano, o meglio del fiorentino. sa,

La

uno studio mos-

critica

dunque, più di trent'anni prima della pubblicazione dell'opeDe Amicis, mostrava che le ragioni della diffusione delcultura dovevano esser ben presenti se si pensa all'altissima

ra del la

percentuale di anafalbeti, specie nelle regioni meridionali e nelle isole. Al principio del secolo le cose erano migliorate (me-

no del

50%

di analfabefi nel

1910 contro

su questo punto una presa di posizione di

il 78% del 1861) ma De Amicis manca del

Non bisogna però dimenticare che lo scopo del libro è quello accendere il desiderio di imparare ». Anzi, il giovane lettore è invitato ad osservare « la scorrettezza, la rozzezza, lo sten-

tutto.

di «

to, le infinite

miserie e ridicolaggini del

modo

di parlare dei più,

189

non già

ma

nelle classi sociali inferiori,

cui tu appartieni

»,

parole dalle quali

rivolge a ragazzi della borghesia.

Non

medesima a

in quella

deduce che l'autore

si

si

si

dice questo per rim-

proverare a De Amicis, socialista, scarsa sensibilità sociale, ma per mostrare che egli pensava di trovare udienza presso quel ceto medio che era poi stato il protagonista dell'unità d'Italia. Le stesse deficienze linguistiche che sono esemplificate, gli atteggiamenti, anche sociali, descritti dopo l'esortazione che abbiamo citato, ci portano allo stesso ambiente. Vivace è la descrizione di voci e di modi di dire dei vari dialetti italiani. La realtà dialettale dell'Italia imponeva che fosse presa posizione verso tali moduli espressivi, dal gli ho fatto un bacio del piemontese (e proprio dal piemontese De Amicis parte nella sua rassegna) al credon mica del milanese, dal quando che del veneto al ragazzola del bolognese, dal non me ne capisco del genovese al lavatore (« acquaio ») del romanesco, dal tenere

per

avere

«

» e dal

cacciar

l

'orologio del napoletano al se ne avre-

per male, ne fossi troppo dolente dell'abruzzese e del calabrese, dal s'accomodasse e se avrei tempo v'andrei (e se avessi tempo V 'andassi) del siciliano al mi dispiace d 'esser troppo po-

ste

chi del sardo al voi facevi, voi andavi e al che tu vuoi del fioren-

Abbiamo

tino.

ridotto l'esemplificazione al

minimo ed

è inutile

dire che di certe parole, di certe locuzioni, di certi moduli sintattici

saremmo

qui pronti a dare una

l'area di diffusione, spesso assai piìi

De

Amicis;

ma

piti

esatta indicazione del-

ampia

è nostro desiderio dare

il

di quella fornita dal

senso del libro, non

rifarlo.

Si è detto di

sentenza del to più è

una certa contraddittorietà. De Amicis riporta

Tommaseo che

comune, e che

il

«

ogni

modo

è tanto

comune, in fatto sempre il piti bello

piìi

in tante altre cose, è quasi

piti

di lingua, »

ma

che neppure

difetto,

come oggi

lui

remote dall'uso; rimaneva esente da tale

già

come

per biasimare

quello che egli chiamava « pescatore di perle » cioè re di parole peregrine,

la

accetto quan-

il

ricercato-

abbiamo visto non foss' altro

raccoglitore di voci del vocabolario e di certe giunture che

ci

un uso

sembrano fuori moda: per istudiarla, lo mnemonico, con dove oggi metteremm.o, credo, « il »; libro maestro

di lo

che indica quello che oggi diremmo « libro mastro »; causa spallata per « causa sballata ». Nel proporre alternative al parlare comune De Amicis registra /ar^ storiare per « far sospirare, far allungare il collo »; ri-

190 tirare dal padre per « rassomigliargli »; scampagnare per « andare a stare in campagna »; sbraccettare una signora per « accompagnarla a spasso dandole il braccio »; scasare per « andare via da un luogo dove s'aveva casa »; alfabetare per « mettere in ordine alfabetico »; squarciane per « millantatore »; spersonito per «

malsano

»;

tar via soldi

fare una buca per

da una cassa

« fare

»; frittura

un buco per

«

» nel

senso di

por-

«

riunione di bambini

»

e così via. Insomma, in questo campionario in cui si trovano anche voci e locuzioni definite occasionali, vediamo un aspetto fra i piti caduchi del De Amicis consigliere linguistico. Eppure, a

proposito dei puristi, egli sconsiglia di dare retta a tutto quello

che dicono i « vagliatori e distillatori e lavandai della lingua ». Ma, dopo aver fatto queste doverose critiche che ricordano tanto quella definizione di spazzaturaio di vocaboli da lui attribuito ad un suo zio, pedante ricercatore di termini, che gli diede, se così si può dire, una lezione quando era ragazzo, bisogna pur riconoscere che il libro ha il merito di far riflettere su molti aspetti del fenomeno linguistico; che, sia pur di sfuggita e per mettere in berlina il parlare affettato, fa vedere l'importanza dei diversi livelli linguistici; mostra, inoltre, attenzione per i dialetti, dà consigli di qualche interesse per studiare la lingua e raccomanda opportunamente la lettura del vocabolario.

A proposito dei dialetti (l'Italia, l'abbiamo già detto, era in grandissima maggioranza dialettofona) in un Dialogo fra il dialetto piemontese e la lingua. De Amicis ricorda le voci comuni alla lingua e a singoli dialetti rifacendosi, anche per questa via, al Manzoni ma, si badi, al primo Manzoni, quello che era felice di riscontrare la corrispondenza di certe sue frasi a quelle presenti nei dialetti. Basterà ricordare che, nel 1827, a Genova, Manzoni incontra uno che gli dice di aver trovato nel romanzo molti

modi

di dire

ve: «

Poco mancò ch'io

che credeva genovesi e a questo proposito egli gli gittassi le

ciassi su l'una e l'altra gota;

ma non

braccia

ne ho

scri-

al collo e lo

fatto nulla

ba-

perché

c'era delle signore presenti e non avrei voluto eccitare invidia ne' loro petti gentili

Né mancano

».

osservazioni sulla diversità fra lingua scritta e par-

Ma, fra le cose piti interessanti del libro, di per sé vivacissimo, è quella specie di gara a chi le dice peggio fra quattro personaggi in cui si descrivono voci e locuzioni del linguaggio tecnico e scientifico per metterlo alla berlina. Ebbene, fra tali esempi

lata.

figurano orientarsi, soluzione di continuità, obbiettivo,

fenome-

191 no,

amalgama, forza centrifuga e

centripeta,

dinamismo

(dei par-

sincrono, coefficiente, esponente, atmosfera d'odio, capillarità, valvola di sicurezza, fino alVennesima potenza, circostanza

titi!),

mossa strategica, fare il bilanemozionante, raccapricciante, esito negativo,

attenuante, base d'operazione, cio, suggestione,

su vasta scala, all'ordine del giorno, i meno abbienti, esauriente ecc., per lo più nel loro uso figurato.

C'è perfino piattaforma te

elettorale

ed esodo dei

queste voci e locuzioni sono presentate

che cosa è saldamente radicate nella legittimamente, e nessuno raccomandazione da fare re. In realtà,

villeggiantil

come mostri da

Tut-

evita-

successo? Che esse si trovano ancora lingua comune, quale piìi quale meno sarebbe capace di cacciarle via.

La

sola

è di non abusarne e di non adoperarle

a sproposito.

Non mancano

molto interesuniversalmente riconosciuto che ogni individuo, in un certo senso, parla un linguaggio diverso da quello di ogni altro », anche se l'osservazione non è poi convenientemente sviluppata. Ma è là dove il narratore prende il sopravvento che troviamo le pagine più divertenti. Quel « falso monetario » che parla un italiano molto bizzarro (donna in gangheri per « donna in ghingheri », spada di Empedocle per « spada di Damocle », anello di Gigi per « anello di Gige », raffineria per « raffinatezza », guerre intestinali per « intestine » ecc) pare l'archetipo di Sani Gesualdi di Frassica. All'idolatria per i toscani dovrebbe far da contrappeso l'alta considerazione per Giacomo Leopardi i cui Pensieri postumi (lo Zibaldone) furono pubblicati alla fine del secolo; ma da Leopardi Edmondo De Amicis trae bensì il concetto modernissimo di europeismo (le voci, proprie di tutto il mondo civile, di derivazione greca e latina e per lo più di mediazione francese, che Leopardi aveva genialmente messo in luce con mirabile anticipazione) ma non ricorda quello che egli aveva scritto su Firenze nel santi

come

1821: liana

nel libro osservazioni preziose,

la seguente: «

È un

fatto

non ha capitale. Quindi il centro della lingua itaconsidera Firenze... Quando il centro della lingua non

« L'Italia si

il che non può essere se non quando capitale non non può né pretendere, né esercitare di fatto una più che tanta influenza... Di più tale influenza, qualunque sia o sia stata, non può essere che temporanea, dipendente dalle circostanze e soggetta a scemare, svanire, mutar di posto insieme con esse. Tale influenza non derivando dall'essere di capitale, né dall'in-

è la capitale, v'è, esso

192 fluenza politica, non può derivare se non da quell'influenza so-

da una maggioranza di coltura e letteratura, e che si esercita mediante queste », con quel che segue, in cui si esprime un giudizio molto negativo sulla cultura fiorentina del

ciale che è data

tempo

Insomma, qui Ascoli che avrebbe scritto parole molto critiche in proposito piti di cinquant'anni dopo. par

Il

rispetto a quella di altre località italiane.

di sentire parlare

rapporto tra Firenze e

il

resto d'Italia caratterizza la storia

linguistica dell'ultimo secolo e spiega in gran parte

il

nostro

ita-

liano attuale. Si deve dire che a dare a Firenze un contributo essenziale a mantenere la sua parte di modello linguistico italiano fu un lombardo, Alessandro Manzoni appunto, che De Amicis amò fino a non rilevare le antinomie che si andavano creando tra il fio-

rentino e le altre parlate italiane; sicuro, da

uomo immediatamente

ma

si

tenne, per così dire, sul

postrisorgimentale, ancora ca-

pace di dire: « Dobbiamo studiarla (la lingua) perché sono una cosa patria e lingua, pensiero e parola, parola e vita ».

Giorgio Pasquali e

Quando ho

la lingua italiana

accettato di parlare di Giorgio Pasquali e la lingua

ho commesso una imprudenza. Avrei dovuto rispondere: « Si legga la Premessa al volume di Pasquali Lingua antica e nuova scritta da Gianfranco Polena perché là c'è tutto quello italiana

che si potrebbe desiderare ». Solo l'affetto per il maestro indimenticabile, il sodalizio che dal 1932 alla sua morte mi ha legato a lui può giustificare il mio intervento che non vuole essere una trattazione esauriente ma una testimonianza di affetto per un insegnamento vivo in me come in tutti

i

suoi scolari.

tema potrebbe implicare anche un esame

di Pasquali scrittotema, tuttavia molto importante ed allettante, per limitarmi ad esaminare l'atteggiamento di Pasquali verso la lingua italiana e i suoi studi di italianistica. Pasquali - ero studente - mi mandò una volta una cartolina chiamandomi glottologo merlaceo, con allusione al mio maestro Clemente Merlo (mettendo fra parentesi la voce sulla quale era modellato l'aggettivo, cioè perlaceo) ed il testo suonava: « SaluIl

re

ma

io eviterò questo aspetto del

italo-celtici da zone ladino-lombarde ». Io stavo studiando il problema della supposta unità italo-celtica e Pasquali era in vacanza in zona alpina e proprio lassù si doveva recare quando fu colto da tragica morte a Belluno. Non dimenticherò mai l'immensa tristezza di trovare la sua salma senza che nessuno la vegliasse nella camera mortuaria dell'ospedale dove arrivai in un'alba di luglio insieme col compianto amico Vittorio Bartoletti, dopo un viaggio notturno, per saluti

tare per l'ultima volta

Mi vennero

allora in

il

maestro.

mente molte cose ma in particolare quellui un eccellente scrittore, recensendo le

lo che aveva detto di Pagine stravaganti, che, cioè, se Pasquali si fosse sperduto nel centro dell'Africa ed una spedizione lo avesse raggiunto dopo un lungo lasso di tempo, l'avrebbe trovato circondato da ragazzini negri mentre faceva loro scuola; o, come scrisse Gennaro

* Lettura, di in

di

il 16 ottobre 1985, al Gabinetto Vieusseux a Firenze, in occasione un Convegno per il centenario della nascita di Giorgio Pasquali, stampata Quaderni della Antologia Vieusseux 3, 1986, pp. 77-93. Ristampato in Stue saggi linguistici xxvi (1986), pp. 13-36.

194 Perrotta nel 1943, che egli avrebbe potuto vivere senza scrivere libri

o

articoli,

ma non

umano che

senza insegnare.

un ricercare un vorticoso succedersi di problemi da risolvere, mettendo a profitto non solo la sua sterminata cultura, le sue conoscenze non esclusivamente filologiche, ma le reazioni dell'interlocutore, a volte tenuto per una spalla o per un bottone della giacca, con quegli occhi che, pur essendo di un basedoviano, esprimevano una personalità viva ed umanissima, e la bocca da Il

tratto

lo caratterizzava di piìi era

interlocutori in

cui uscivano, misti ad insegnamenti preziosi, girandole di viva-

cissimi motti, scherzi e giochi di parole spesso intercalati da so-

da curiose interiezioni che rivelavano umori, stacchi del mobilissimo pensiero, disapprovazioni, critiche e, piti che dubbi, quesiti. Dei molti interessi di Pasquali quello per la linguistica non fu certamente minore a quello per la filologia. Egli si vantò sempre di essere scolaro di quel Jacob Wackernagel di cui parlò in molti punti della sua opera e in particolare in quel mirabile Ricordo pubblicato in Letteratura del 1938 e ristampato nelle Terze pagine stravaganti (pp. 313-332), in cui si trovano pagine mirabili sulle due specie di indoeuropeisti, quella dei ricostruttori preistorici e quella degli storici, di coloro, cioè, che, pur conoscendo regole fonetiche ed avendo dono combinatorio^-sono, come egli diceva, interpreti consumati e critici di orecchio delicato e spiri e

sicuro.

Fra

pochi grandi. Pasquali

cita, del secolo scorso, l'Ascoli, sua epoca, Wackernagel, Guglielmo Schulze e Meillet. La citazione del grande linguista francese è un riconoscimento fra i più alti, perché Pasquali non ebbe per la filologia francese i

e, della

del suo

tempo un

alto concetto

rimproverandola per

la

sua ra-

un peccato particolarmente grave. Ricordo, per esempio, che in un seminario alla Scuola Normale non nominava mai il filologo francese editore di un testo poco attendibile di Teofrasto per una zionalità e la sua antistoricità. Quest'ultimo era per lui

nota collezione, senza premettere l'appellativo di « sciagurato ». Pasquali, scolaro di Wackernagel, non è stato un comparatista nel senso tecnico del termine. Gli

mancava,

tra l'altro,

una ade-

guata conoscenza del sanscrito. Tuttavia, quello che egli dice della Grammatica dell'antico indiano di Wackernagel è non solo corretto, ma illuminante. Gli interessi storici e l'amore per i testi

univano

i

in modo singolare, anche se su come è naturale, non concordare

due grandi personaggi

particolari questioni potevano,

195 (e valga,

per

tutte,

il

problema

dell'autenticità del

Prometeo che

Pasquali era propenso a sostenere, Wackernagel a negare). In Wackernagel Pasquali tendeva anche a vedere uno studioso non insensibile alla linguistica generale soprattutto per avere, in un paio di lavori, spinto il suo sguardo al di là dell'indoeuropeo. « Ma il suo modo di trattare la linguistica generale - dice Pasquali - (p. 322) è remoto dall'astrazione perché egli era spipiti che scienziato filosofo », giuuna caratteristica peculiare a Wackernagel e a Pasquali ma è anche individuato il limite di certa linguistica generale del tempo e dei decenni successivi fino ad

rito

concreto, scienziato artista

dizio in cui

non solo è

vista

oggi-

Sul greco e sul latino Pasquali

maestro.

È

interessante vedere

gli interessi di

due

tipi di

Wackernagel

si

come

misura da pari a pari col l'ampliamento de-

egli noti

in vecchiaia fino alla trattazione dei

allocuzioni Signori e Signore oppure Signore e Signo-

nelle principali lingue di cultura moderne. L'ammirazione per le Vorlesungen uber Syntax non è dissimulata e vi entra anche la chiarezza dell'esposizione, qualità naturale perfezionata dall'insegnamento anche nelle scuole medie di Basilea che accomunava Wackernagel a Nietzsche e a Burckhardt. Ma doveva esservi, oltre tutto, un'affinità di carattere nei due. Sembrerebbe quasi sentir parlare delle bizzarrie di Pasquali, quando di Wackernagel si legge: « Parlava a volte un po' precipitosamente, a volte indugiando e come impuntandosi. E non riusciva a star fermo. Scendeva di cattedra, girava per la stanza; una ri

volta l'ho visto volteggiare sul tubo della stufa, fortunatamente

spenta; l'ho veduto in

con

coltà era superata le

un punto

la faccia rivolta alla ».

difficile ficcarsi in

E come suonano

valide anche per Pasquali

seguenti parole scritte da lui per Wackernagel:

muore naturalmente

un cantone

parete e rivoltarsi solo quando la diffi-

col maestro,

come

la

voce

« Il

di

magistero

un cantante

prima dell'invenzione del grammofono. Ma queste lezioni, raccolte da scolari e da lui rivedute, a chi è stato una volta a lezione da lui parlano immediatamente: egli risente qui il ritmo, estemo ed interno, del maestro » (p. 326). Si può applicare direttamente a Pasquali anche l'osservazione: « In società poteva divenire di un'allegria fanciullesca » (p. 330). Altri due aspetti facevano certamente effetto su Pasquali: la non sistematicità di queste Vorlesungen che troviamo in eguale misura nei capitoli linguistici di Pasquali e la materia: la sintassi, proprio quella sintassi che ap-

196 pare così frequentemente in Pasquali, dall'esame sulle Origini greche della paraipotassi romanza del 1929 in cui si sente, immediato, l'influsso di Wackernagel soprattutto nello studio delle coincidenze tra il fenomeno greco e il fenomeno romanzo di cui si esplorano tutte le possibilità ermeneutiche (cause psicologiche? comune derivazione dall'indoeuropeo? conservazione nel greco e trasmissione di parlari romanzi?) fino allo studio di fenomeni vistosi dell'italiano che incominciano nel 1934 con una recensione alla « Grammatica degli italiani » di Trabalza e Allodoli e con un articolo sulla Lingua italiana a Malta dello stesso anno. La Grammatica, di cui si esaurì un'edizione in due settimane (e poi si dice che ora ci sono libri di linguistica italiana di grande successo!) viene subito opposta ad un'altra recente, francese « già celebre e al tempo stesso infame » (quella, naturalmente, dell'Accademia francese). La prima osservazione di rilievo è, come si è detto poco fa, a proposito dell'articolo su Wackernagel, di quattro anni dopo, la sintassi, e la povertà dei lavori preparatore. E qui vi è senza alcun dubbio, come altrove, una qualche sottovalutazione della Sintassi di Raffaello Fornaciari, personaggio di formazione non scientifica, che Pasquali non stimava affatto ma il cui libro in qualche caso siamo costretti a consultare ancora oggi, se è vero che se ne è pubblicata una ristampa qualche anno fa. Proprio sulla sintassi Pasquali fa le piìi acute e giuste osservazioni, dall'uso del passato prossimo e remoto, al praesens prò futuro, al coniunctivus prò futuro di « Abbia a piovere? » o « Piova? » e « Dove sia? » all'indicativo per l'imperativo, ecc. Sul tu, voi, lei è espresso il rammarico di non avere addirittura un trattato comprendente i dialetti e le altre lingue europee. Dappertutto il frutto di osservazioni dirette come nel seguente passo sul tu non reciproco: « Ormai anche le professoresse lo danno alla maturità a ragazzi che avranno cinque o sei anni di meno senz'ombra né d'imbarazzo né di civetteria (quelle che ho visto io, erano brutte) », in cui si nota quel tipico intervento personale nelle enunciazioni generali che caratterizza tutta l'opera sua di scrittore rivolto al grande pubblico e che corrispondeva interamente al suo esuberante temperamento. Sui pronomi allocutivi l'opera che si doveva chiamare Preistoria, protostoria, storia e metastoria del « voi » e del « lei », mai condotta a termine. Pasquali scrive nel '39 e nel '41 pagine

raccolte in « Lingua

nuova e antica

».

Fra

di esse le più notevoli

197

sembrano quelle intitolate Dar di noi. Le altre, secondo me, indulgono un po' troppo verso l'accettazione del voi imposto dall'autorità politica, anche se una giustificazione può venire dalFallineamento con le maggiori lingue europee e se il loro presenta qualche inconveniente. Per tornare alla Grammatica di Trabalza e Allodoli, con le osservazioni sulle manchevolezze della trattazione delle preposizioni e sull'ordine delle parole, nel

campo

della sintassi.

Ma

anche sulla

«

si

resta

posizione sociale

certe espressioni Pasquali rivolge critiche puntuali. Fra

un

» di

ci si

vuol bene e un voi credevi per voi credevate. Pasquali trova una

Grammatica le due costruzioni sono messe quasi sullo stesso piano. Il voi credevi era usato parlando da Augusto Mancini, il nostro caro professore di greco a

differenza ed ha ragione: nella

Pisa, di cui ricordo

con Pasquali.

Ma

un bel duello filologico

alla

Normale

di Pisa

che questioni di uso è da farne una questione di diffusione: un ci si vuol bene era (al contrario di voi credevi limitato alla Toscana e forse non a tutta la Toscana) ed piti

è tuttora di diffusione più ampia in

Italia,

come

è accennato,

ma

forse con troppo poca decisione, da Pasquali stesso.

Nel pullulare

ricompare lo spirito acuto per spiegare catalogi per cataloghi, dice che se ne deve ricercare l'origine nella Biblioteca Vaticana dove dicono così forse perché si esprimeva in questo modo « uno studioso non italiano ma autorevole, il padre Éhrle ». Ed aggiunge: « Sarebbe un bel caso d'influsso di un singolo e per giunta straniero di osservazioni singole,

di Pasquali che,

sulla lingua ».

Di

queste osservazioni ce n'è una che non pare condivichiedendo una drastica condanna per lo suocero (« per-

tutte

sibile:

ché si legge sul giornale più diffuso d'Italia, il Corriere ») aggiunge che sarebbe da bandire anche lo Gilliéron « troppo caro ai linguisti dell'Alta Italia ». Ebbene, se la prima consonante di Gilliéron è la sonora di uno s non si vede perché si dovrebbe accettare la raccomandazione e dire // Gilliéron. Nascosto in mezzo a critiche minute, da notare un giudizio letterario. A proposito dell'esempio dei Promessi Sposi In quel viaggio ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo almeno due volte. Pasquali dice: « È al mio orecchio, specialmente per il risuscitatolo, prosa altissima, come ardito e arcaico è per il soggetto all'infinito Bella novità da venircela a dire un montanaro. La prosa dei Promessi Sposi non è tanto usuale che non raggiunga le vette » (p. 222): giudizio singolarmente fine che non

198 sarebbe facile trovare neppure in un critico che avesse dedicato la vita solo a questioni letterarie. Il

giudizio complessivo sull'opera, di cui

si

come avverrà per

la

loda l'impostazio-

recensione al Vocabolario dell'Accademia d'Italia, col dubbio che si tratti, come ha scritto Polena, di una stroncatura (ma del Vocabolario si salne, lascia

il

lettore, così

va - eccome - per Pasquali la parte etimologica, dovuta a Clemente Merlo). Ma l'occasione era troppo ghiotta per non auspicare la nascita di una sintassi storica dell'italiano, partendo, magari, da una sintassi dell'uso della città di Firenze, e per l'istituzione di cattedre di Storia della lingua italiana nelle nostre università.

Le parole conclusive hanno un grande

significato specialmentenendo conto di quello che già accadeva nella Germania di Hitler e che avrebbe avuto, contro ogni aspettazione, un triste riflesso anche da noi: « Nazione (non mi stancherò di ripeterlo, anche a rischio di dar noia a gente dentro e a gente fuori i confini) è termine di cultura, non termine biologico. E la lingua è l'espressione primordiale e necessaria di una nazione; la consapevolezza linguistica è elemento fondamentale della coscienza nate

zionale

».

Su questa lo

La lingua

linea

si

colloca la parte

italiana a

Malta

piti

significativa dell'artico-

sulla pretesa inglese di innalzare

maltese da dialetto a lingua, accanto all'inglese. piti posto per lingue nuove di cultura (p. 39) e che i Maltesi vogliono conservare e potenziare i loro legami con l'Italia. Come la storia più recente si sia svolta è noto a tutti e non ha forse importanza ai nostri fini. Le considerazioni sulla necessità per una lingua di non atteil

Pasquali sostiene che in Europa non c'è

nersi al

purismo se vuole avere un compito internazionale

(e l'in-

glese ne fornisce una prova evidente); sulla diffusione del francese, sulla storia del latino in rapporto col greco e sul greco stesso

che ha conservato un legame con l'Europa nel mantener viva una lingua letteraria, la kathareùousa di fronte alla demotiké; la sorte che toccherebbe ai Maltesi se accettassero la proposta inglese, sono ricche di senso storico ma l'affermazione piìi importante è fatta a proposito dell'origine del popolo maltese che si risolve in una condanna del nazismo e suona così: « Noi Italiani abbiamo detto subito che respingiamo quella zoologia applicata all'umanità che è la Rassenìainde nazistica. Altrettanto risolutamente la respingono gli Anglosassoni, almeno in sede teoretica: nessun

199 popolo ha dato così chiara espressione allo sdegno per la nuova legge tedesca che toglie agli Ebrei la miglior parte dei diritti del cittadino. Noi e gli Inglesi ci siamo accorti subito che la grande scoperta del dottor Alfred Rosenberg non è se non la ricaduta piti evidente nel peggior materialismo del secolo scorso. Lo Stato è per noi caratterizzato da comunanza di voleri, dal voler restare insieme e operare insieme; la Nazione è per noi non tanto comunanza etnica quanto comunanza di civiltà; è innanzi tutto comunità culturale... L'uomo civile non è quale lo ha fatto la razza,

ma

quale lo fa

mento dell'umanità

la storia, e la storia è

progressivo inalza-

dalle bassure dell'animalità » (Pagine

meno

stravaganti, p. 45-46). Siamo, si noti bene, nel 1934. Seguire cronologicamente i contributi riguardanti la lingua

ita-

liana di Pasquali è forse inutile, tanto più che, in certi casi, co-

me

delle celebri pagine di In casa

i

Frescobaldi, l'Autore fece

una duplice utilizzazione in tempi lontani fra loro: nel caso in esame nel 1939 e 1940 in un articolo in « Lingua nostra », la rivista di Migliorini e Devoto alla quale Pasquali collaborò a lungo, e in una trasmissione radiofonica pubblicata nel volumetto Conversazioni sulla nostra lingua edito dalla ERI alla fme del 1953 ma con ritardo rispetto al periodo in cui furono pronunciate (dal 12 marzo 1949 al 30 luglio 1951, quando Pasquali era morto da un anno e mezzo). In casa i Frescobaldi è un piccolo capolavoro, specie, direi, nella forma della trasmissione radiofonica. C'è l'impostazione del problema che parte dal francese chez dal latino casa(m); c'è la spiegazione dell'omissione della preposizione, favorita dall'analogia di domum che, con vadere, rifiuta, appunto, la preposizione come nelle lingue germaniche il tedesco Heim, l'inglese home, lo scandinavo hem', c'è l'esclusione che l'italiano si sia modellato sul francese, altrimenti avrebbe dato casa non in casa; c'è la spiegazione dell'omissione della preposizione dopo a casa se si pensa a costruzioni come nodo Salamone, il fi' Giovanni e simili. Il modo doveva dunque essere un fiorentinismo popolare come prova l'uso nella novella (si ricordi il Decameron: « Questa è una gran villania venire a quest'ora a casa le buone femmine ») e nella cronaca, come l'elisione del relativo (L'uomo io vidi) che c'è nel Compagni ed in altri autori fino alm.eno a tutto il Quattrocento (anche se questo Pasquali non lo dice) e manca ai grandi poeti e prosatori. Dante, Petrarca, Boccaccio.

200 Nel resto dell'Italia la costruzione si diffuse quando era formata dal cognome senza articolo: in casa Bianchi, costruzione assorbita dall'altra Palazzo Pitti, Via Cavour, ecc. che pure Firenze non generalizza, mantenendo nelle fasi antiche i tipi Via de' Bardi e Via Taddea. Ma da uno studio di archeologia linguistica la costruzione in casa i passa, nell'esame di Pasquali, ad esempi viventi, da quello di Raffaello Fornaciari che diceva al bidello: « Giovanni tu andrai oggi a casa l'Alfani e gli darai questa lettera », secondo la testimonianza di Enrico Bianchi, all'esempio principe del maggiordomo della Normale Paolo Corti che diceva di essere stato in casa i conti Dal Borgo, che offuscava quelli dell'Acri e del Crescini che, essendo uno calabrese, l'altro padovano, erano testimoni degni di poca fede per la sopravvivenza della costruzione in quanto, come dice Pasquali, « l'eccesso dei toscanismi, antichi e nuovi, caratterizza sempre il provinciale ». Paolo Corti, invece, non aveva potuto imparare il costrutto dai normalisti « i quali del resto, come dice Pasquali, sono pochissimo linguaioli, e anzi, come quelli che son dediti a critica estetica, non curano, i

più, la storia della lingua italiana

alla

».

Come

si

vede,

il

ricorso

testimonianza di Paolo Corti è messo alla fine secondo un

procedimento degno

di quel raffinato scrittore

che era Pasquali

e l'accenno ai normalisti non poteva mancare col suo contenuto

che a lui non andavano molto a genio, impregnacom'era di storicismo. Del resto, l'atmosfera della Normale non era molto mutata alla fine degli anni quaranta da quando vi entrai io, che da matricola, nel 1932, professando a chi mi chiedeva che cosa volessi studiare, che era mia intezione dedicarmi critico su studi

to

a studi classici, che, devo dire,

mi i

sentii ribattere: « Allora sei fesso »; opinione miei colleghi ebbero poi l'amabilità di modi-

ficare.

Altra conversazione di valore è quella riguardante le congiun-

apparenza, non si presta ad osMa Pasquali dimostra che le congiunzioni latine erano state dimenticate per poi essere reinventate al principio del Medioevo. « Il nostro italiano, egli dice, come le altre lingue romanze, continua il parlare di classi basse, che non avevano la complessità spirituale che si specchia nella

zioni subordinate,

tema che,

in

servazioni sulla società o sul costume.

» [...]. Sulla mancata documentazione del fenonon si meraviglia e dice: « Si sa che anche le persone semplici, quando si mettono a scrivere, si sentono tenute a

subordinazione

meno piti

egli

201 costruire periodi e spesso vi s'impigliano: la miglior testimonianza

moderna, le lettere delle serve ». Questo continuo riferirsi ad esempi vivi, sotto gli occhi di tutti, è una delle maggiori caratteristiche di Giorgio Pasquali il cui i libri e Tale atteggiamento non lo abbandona mai e se una parte del laboratorio non dà risposta, lo dà l'altra; e tanto meglio se fra le parti c'è rispondenza. Il centro del volume radiofonico è occupato da questioni ono-

laboratorio era diviso fra la biblioteca e la piazza, fra la gente.

mastiche: sui nomi così detti di battesimo, in cui la scelta avviene di solito « da un contrasto fra tradizione e moda » (p.58) con prevalenza attuale di quest'ultima (immancabile una puntata, questa volta contro Victor Hugo, della cui lirica Le revenant dice che è « fra le piti tollerabili »); sulla storia di Mario che non è femminile di Maria; sulla fonte germanica di alcuni nomi di persona italiani; su altri nomi di battesimo medioevali con l'indicazione che Roberto sarà franco e Ruperto longobardo; sui nomi di battesimo dell'umanesimo e della controriforma; ed infine più generalmente sui nomi di battesimo italiani. A parte la battuta come quella su Firmato dovuta ad « un ignorante entusiasta (che non è accoppiamento raro) » che « scambiò quello per il nome di battesimo del generale Cadorna, per breve tempo idolatrato » e l'ironia inevitabile su nomi come Anelito, che si fa risalire forse d\V estremo anelito di libretti d'opera o su Indro Montanelli che avrebbe dovuto chiamarsi Indradatta « dono di Indra », con la proposta al giornalista di ripristinare interamente il nome indiano, si tratta dell'abbozzo di un trattato storicamente condotto e tale da mostrare le vie dell'attribuzione del nome agli Italiani. L'ultima parte del volume radiofonico contiene una recensione alla nona edizione del « Dizionario moderno » di Fanzini con V Appendice di Bruno Migliorini, ricca di osservazioni molto fini in cui si mette in rilievo la parte che ebbe all'origine, nell'impostazione dell'opera, Ulrico Hoepli e l'intervento di Migliorini per integrarlo con spirito ben diverso, quel Migliorini neopurista che, come dice Pasquali « grazie agli dei e per fortuna nostra è molto piti neo che purista »; un articolo Come parlava il volgo fiorentino 150 anni fa, a proposito della pubblicazione, curata da Giuseppe Ugolini, del volumetto Le Ciane di Firenze dell'abate Zannoni; ed una valutazione dell'italiano di Carlo Vossler. Dello Zannoni egli mette in rilievo la modernità delle vedute che consentì a lui cruscante di opporre ai fanatici del Trecento

202 il

principio che la Crusca doveva scegliere termini moderni per

moderni p di seguire in filologia la lezione che linguisticamente è la più antica, pur non avendo cognizione di Lachmann; idee che gli attirarono biasimi addirittura nell'orazione funebre del suo successore alla Crusca Fruttuoso Becchi « uomo, dice Pasquali, mentalmente a lui molto inferiore, anzi, si direbbe, testolina, o forse privo di testa ». Sul valore linguistico delle Ciane Pasquali scrive pagine interessanti dopo aver fatto un confronto col Goldoni autore in veneziano. Capitale è l'osservazione che « l'italiano moderno non è identico con il fiorentino di oggi sia pure delle persone colte, ma continua il fiorentino arcaico di Dante, Petrarca e Boccaccio. A un certo punto il dialetto si è staccato dalla lingua e ha continuato a svolgersi per conto suo ». Che il fiorentino parlato si sia svolto più rapidamente della lingua letteraria è ovvio e questo, direi, dovrebbe far riflettere chi concetti

tenta di applicare di oggi.

Il

che è qui,

il

fiorentino tale e quale è alla lingua italiana

concetto non è svolto dal Pasquali in nuce,

il

problema del modello

ma non

vi è

dubbio

attuale della lingua

nazionale.

Non

caso di insistere in questa sede sui particolari, pago il problema. Nell'esame dell'italiano di Cari Vossler intitolato L Italiano di un tedesco che lo sapeva davvero. Pasquali passa in rassegna le lettere che Vossler scrisse a Croce e fa osservazioni molto pertinenti anche sulla influenza che su di lui ebbe la moglie, figlia di Domenico Gnoli. Che qualche difficoltà Vossler trovasse nell'applicazione del congiuntivo fino a scrivere È naturale che gli elementi si trovano è

il

come sono

di aver ricordato

e simili, è attribuito dal Pasquali ad influsso tedesco

ma

romanesco; come romanesco è Veditore mio invece

di

anche //

mio

editore.

Nella prima parte del volume che abbiamo lasciato per ultima sono quattro contributi che riguardano la fonetica dell'italiano, rivolto soprattutto a distruggere la falsa opinione che l'ita-

ci

liano si parla come si scrive. L'ultimo di tali contributi fece dire ad Emilio Cecchi, autore della Prefazione, molto bella ed affettuosa, che « Forse Pasquali, come portava il suo temperamento mobilissimo e umoresco, era sdrucciolato nella parodia quasi senza accorgersene ». Si tratta della trasmissione intitolata

grafica.

Che

Disegno

di riforma orto-

fosse una parodia, sia pure involontaria, esiterei a

203 Certo

proposte toccano

tutti i punti riguardanti le apoad un modello di fiorentino letterario (quello, per intenderci, che rifiuta l'aspirazione delle consonanti occlusive intervocaliche, la pronunzia di e e g intervocalici, altrove indicati fra le caratteristiche della lingua). Per il resto c'è tutto, compresa, naturalmente, l'introduzione di segni diacritici per e e g (in alternativa eh e gh dovrebbero indicare sempre il suono velare, quale che sia la vocale che segue); compresa l'indicazione del rafforzamento sintattico, la distinzione di s sorda e s sonora, di z sorda e z sonora; l'introduzione di w per u semivocalico e l'uso di 7 per / semivocalico, di uso di s per se e di / per gì: non si parla poi della distinzione di ^ ed o chiusi ed aperti e dell'accento, da mettere sempre quando non cada sulla penultima. Anche il rafforzamento sintattico dovrebbe essere in-

dirlo.

le

rie del nostro alfabeto rispetto

dicato.

È un impulso di rifiuto del compromesso che anima Pasquali che vuole porre sotto gli occhi di tutti la fallacia di chi dice che l'italiano si pronuncia come si scrive. Ora, non so quanti ancora nelle scuole sostengano, nonostante carenze culturali fortissime, un tale punto di vista. Ad ogni modo, la proposta di Pasquali come non ha, alcuna possibilità di suo effetto, se ne ha avuto, sarà stato quello di far riflettere, che non è poco. Ed anche quello di un'avventura intellettuale. C'è inoltre un altro aspetto da considerare. Pasquali non è uno che eviti le difficoltà. Anche le questioni che sul piano pratico sono le meno facili da risolvere come il genere delle parole straniere (p.40) sono da lui affrontate in ogni loro è stupefacente e non aveva, essere accolta.

Il

si tratta di questioni che non trovano di norma soluzione nelle grammatiche. Fra altre proposte pratiche, causa perduta è stata la condanna di efficiente (Lingua a. e n. p. 199) pronunciata nel 1940 con ragioni che, secondo me, non hanno resistito al tempo. Che efficiente possa essere sostituito da altri aggettivi è sicuro; ma che, in luogo di reggimento efficiente si possa senz'altro dire reggimento in gamba a me pare dubbio. Mi sembra che si tratti di livelli stilistici diversi. Altrettanto poco accettabile pavQ fucinatore di anime che Pasquali propose per l'altrettanto retorico e \ìi2Lnéo forgiatore di anime. Quanto all'aggettivo di milizia, miliziesco (p. 198), per evitare miliziano, per fortuna non si parla più di Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, così che l'aggettivo appare del tutto superfluo.

aspetto:

204 Insomma, anche Pasquali, che

si proclamò e fu antipurista, si lache da una forma di purismo, dalla moda di proporre termini nuovi propria del momento, che l'induce perfino a preferire vettura ad auto o macchina, largamente vincenti (p. 246 sgg.) o piccolo nome al semplice nome (p. 250). Un'autentica stramberia è proporre l'articolo femminile per World e cioè la World perchè il tedesco ha die Welt (p.276), secondo un'analogia tedesco-inglese che non sembra davvero legittima. Per fortuna aggiunge: « Ma devo confessare che il metodo è, almeno per quel che riguarda le analogie tedesche, un po' complicato ». Eppure per il genere in italiano di parole tedesche e francesi aveva dato l'unica regola che si possa fornire, cioè la conservazione del genere d'origine, facendo naturalmente confluire il genere neutro nel maschile escluso casi come Màdchen « ragazza », che è in origine un neutro. Insomma, non vi è alcun dubbio che il Pasquali che fornisce spiegazioni, il Pasquali storico della lingua sia molto superiore al Pasquali che fa proposte di nuovi termini o che fa predizioni. Del resto, in questo campo uno dei pochi che l'abbia imbroccata

sciò in qualche caso irretire

è

Bruno Migliorini con

pivi

regista.

Se si passa alla pura constatazione dei fatti, i testi di Pasquali sono preziosi per farci vedere il cammino, non sempre lieto, di certi costrutti italiani dai tempi suoi ai nostri. Chi oserebbe dire oggi come lui, che i congiuntivi in italiano sono vivissimi (p. 12 e p. 25), come è sostenuto in una bellissima analisi dell'italiano contemporaneo in cui abbondano tratti illuminanti (per esempio « L'italiano è quanto a vocaboli quasi altrettanto il

francese, quanto alla sintassi

Pasquali mise

il

piti

moderno che

antico di secoli »)?

dito sulla piaga di certi vizi della lingua, par-

ticolarmente scritta, che non sono solo di oggi:

il

dilagare degli

aggiungo io, quello degli affinché, quest'ultimo ancora pesante, greve eredità di una pigrizia mentale che deriva infatti (p.l3) e,

dalle traduzioni dal latino all'italiano.

giore difficoltà di tradurre un passo

E

fece riflettere sulla

moderno

mag-

in latino piuttosto

che in inglese, francese e persino tedesco. Il giusto rifiuto di decoro per scenario non ha più ragione di essere per la ripulsa fatta dalla lingua di una voce che pure fu usata da Pietro Pancrazi. Sul problema piìi generale del purismo e dell' antipurismo il Pasquali si dichiara « convinto che l'italiano moderno, lingua nostra e lingua latina, è anche lingua europea più che non appaia a prima vista. Di questa europeità io sono orgoglioso » (p. 29).

205 Siamo, è bene precisarlo anche

La recensione

al libro di

in

questo caso,

nel

1940.

Migliorini, Saggi sulla lingua del

No-

vecento, del 1941, è un susseguirsi di osservazioni che fa segui-

ad una introduzione in cui si parla della questione della lingua Ascoli-Manzoni e piti che di Manzoni parlerei di manzonismo e preziosa a me pare l'osservazione che Ascoli « scriveva una lingua paludata, che, bella e perfino spontanea finché era adoperata da lui, diventava insopportabile sotto la penna dei to

nella polemica

suoi epigoni ». Pasquali non lo dice ma era quello che, press 'a poco, distanziava, nell'altro versante, Manzoni dai manzoniani. Nel magma vivente della lingua trattata da Migliorini, Pasquali nota che « la pronunzia degli attori italiani è stata, negli ultimi decenni piuttosto italiana del nord » e si domanda se non diventerà nel futuro romanesca come pare a lui che già sia quella della radio. Negli ultimi tempi, quelli in cui viviamo, dispute sulla pronunzia ce ne sono ancora e c'è perfino chi teorizza su lingua toscana in bocca ambrosiana ma forse non sono cose da dire a

Firenze. I

capitoli di Migliorini

e non

manca mai

mento che

sono esaminati con cura uno per uno

e non poteva mancare, ancora una volta,

il

la-

di sintassi e stilistica si facciano solo accenni.

Fra le osservazioni è quella della ritrazione dell'accento in càmion, cògnàc, còrdial e in Tòffanin, Pìntor, ecc. Se il Migliorini opta per una reazione all'ossitonia francese e su certa azione del ritmo germanico. Pasquali dice che si tratta piuttosto di regola ortografica per cui le parole accentate sull'ultima portano su questa anche un accento grafico. Io non sarei né dell'avviso di Migliorini

né di quello di Pasquali. Su parole poco note c'è

la

tendenza Pa-

alla ritrazione dell'accento di cui del resto trattò lo stesso

squali nella trasmissione radiofonica Regala,

avvalorata dal fatto che nei casi sopra

Regalano

citati la

(p.

31 sgg.)

parola, contro ogni

regola italiana, finisce in consonante.

Uno

scherzo sarà quello che è detto di kid attribuito a pugnamolto giovani: « Kid Frattini non s'immaginerà mai di essere dal suo impresario {manager) e dai suoi ammiratori chiamato « capretto » (p. 42). Ma kid è passato al significato di « bimbo, bambino » ed il capretto non è più presente se non nel valore etimologico così come quando una mamma dice di un bimbo // tori

mio topino, i roditori non entrano piìi in gioco. Anche in queste pagine il Pasquali ragionatore, esplicatore, è al di sopra del Pasquali propositore. Nel dilemma auditorìum/au-

206 ditorio sarebbe addirittura indotto ad arrivare a uditorio (p.48), via sulla quale non pare che possa essere seguito, così come nell'altra proposta molto personale, e che pare solo uno scherzo di tràmite per tram (p. 52), una delle sue trovate che mettevano allegria negli ascoltatori. Certo quel periodo di purismo che corse dagli anni '39 al '43 ebbe dei personaggi pittoreschi. Pasquali

Barbaro dominio (p.54 sgg.) fra l'ammirazione per Paolo Monelli e la poca consistenza dell'opera, di cui mette infine in rilievo le contraddizioni. Per lui doveva essere attribuzione di grave difetto dire che « Monelli uomo di cuore, ragiona talvolta col sentimento anche in fatto di lingua ». La sua posizione è la seguente: « A costo di sembrare glaciale, confesso che anche il titolo mi sa di sdrucciolamento affettivo [...] Dieci o cinquecento o cinquemila parole straniere non è diviso nella sua recensione a

alterano l'essenza della lingua

».

Del Vocabolario italiano dell'Accademia d'Italia, Pasquali fece una lunga recensione nella Nuova Antologia del 1941. Poiché ne fui tra i collaboratori, potrei raccontare molte cose della sua esecuzione e dei retroscena che toccherebbero la cattiva preparazione di alcuni redattori, l'assenteismo di di altri ancora:

ma non

è questo

il

altri, la

faciloneria

luogo. Pasquali, l'abbiamo

un giudizio molto positivo della parte etimologica mio maestro Clemente Merlo e, non fosse che per quello, non mi vergogno di aver fatto parte della redazione. A Pasquali

già detto, dà del

il

« in complesso ben riuscito, se si consideri che doveva provvedere alle necessità non già dei filologi ita-

lavoro pare

esso...

ma a quelle delle persone colte di tutta la nazione »; ma segue una lunga serie di osservazioni che hanno indotto Polena a parlare di stroncatura. Non so se questo giudizio si possa interamente condividere: certo le riserve, le integrazioni, le correzioni apportate sono moltissime. A corollario di un interesse molto vivo per il vocabolario italiano, abbiamo, di Pasquali, la proposta di un Tesoro della lingua italiana fatta in una comunicazione all'Accademia d'Italia il 7 aprile 1941 {Atti CI se. mor. e stor s. 7 ii, pp. 490-521) in cui egli proponeva la schedatura integrale per i primi secoli e per certi grandi testi come quelli di Galileo ed una scelta non determinata da criteri estetici per i secoli successivi. L'idea è stata raccolta dall'Accademia della Crusca e merita ogni incoraggiamento. Un lavoro insigne è la comunicazione tenuta all'Accademia d'IAbitatori le terre » in cui, partendo talia il 20 marzo 1941 su lianisti,

m'

/

121

ingl. 31

da famiglia 208

Viola 110

violenza 13 vir lat.

13

Virgilio 39 virgolette 23,

69

virtuoso 13 virtus lat.

13

zagara 67 zanna 37 Zannoni Abate 201 zattera 67 zazzera 37 Zeppini Bolelli Adriana 109 Zingarelli 16, 19, 42, 60, 171

Virtus o Libertas Livorno 120

Zolli Paolo

visaggio 157, 158

zuffa 37

66

Indice generale

9

Parole Parola, chi sei?

La violenza non

è del « vir »

13

Ministro contro un verbo

Il

Le mani Il

11

poliglotto e

L'arista e

È O.K.

15

17

del potere sull'italiano

il

il

19

poliglotta

21

paninaro

cioè un disastro

23

Terzino e Innominata

25

Epigrammi

27

La

lingua

della

mala

d'Omero

storpiata in

bocca

29

italiana

Notizie dagli esami

32

moderni

34

Il

latino per essere

Il

latino sopravvissuto ai barbari

36

Il

prodigio delle mani

38

Tutti

i

La

42

vocaboli, purché d'autore

Quando

il

44

diavolo sposta l'accento

46

faida delle lingue

Per

tutti

i

48

diavoli

Un hamburger per traverso E alla sindaca diamo un sentinello

51

Avvocatessa è meglio

56

Temporale

59

53

nel vocabolario

Italiano: l'avventura del '500

Anche

Scartoffie lombarde, inghippi

Messere Per

il

suocero e alcuni

gli antichi

il

prestigio era

vocabolario senza Aids

64

»

romani e scalogne

triestine

66 68

tic

Parole che uniscono l'Europa Il

61

Otello debuttò « scaligero

un inganno

70 72 75

Il

povero bandito

Il

congiuntivo è ammalato: salviamolo

77

« gli »

79

Capibanda e donne prete

82

Firenze o Lucca?

85

Chi spara

88

sul dotto provinciale

Poesia siciliana e poesia toscana

90

Perché non facciamo un po'

93

Il

di trotterello?

95

latino della salvezza

Per

la

burocrazia esiste ancora

il

velocipede

97

L'interfaccia e Galileo

100

La pizza

102

è germanica

Pleonasmi, superlativi e impersonali

105

Poeti italiani nascosti

108

Stranezze di nomi propri

110

Primo, parlare italiano

112

Ma

114

serve ancora la grammatica?

magica

116

L'italiano tradito a scuola

118

La Juve,

120

Pasolini e la «

il

s »

palinsesto e la gerogogia

Sembrano uguali ma

la differenza c'è

122

Padre è importante, babbo un po' meno

124

Mutamenti minimi

126

Di grammatica

128

vive

si

Nel paese di Vattelapesca

130

Quel terrone un po' ballerino

132

Birichini, cafoni e polentoni

133

L'età di Vattelapesca

135

amici

137

« Falsi

Scoperte

sull' anglo-italiano

Se Madonna «

Tu

»,

» nel dizionario

in arte si

« lei »,

«

voi

»:

chiamasse Luisa

sono lo specchio dei tempi

139

142 144

Gli sgrammaticati

146

Preposizioni articolate: unite o staccate?

148

Parole spezzate

150

Solatìo è bocciato

152

Se l'inglese è mascolino

154

Parole senza frontiere

157

Duello

nuovi vocabolari

di

159

Tentazioni di parole «

Perestrojka

»

«

Cobas

lei »

sarà

161

163

tentatrice

Al buon Dio non

165

dà del

si

167

lei

Troppi auguri logorati dal tempo

169

Chiuso, impresenziato

171

Non «

per vanità,

Prosapia

»

e

«

ma

per affetto

denuclearizzato

173 »

175

Accento selvaggio

177

Birignao meravigliao

178

I

180

classici banditi

Non

crociate,

L'idioma

ma

vigilanza

Giorgio Pasquali e

Indice analitico

182

186

gentile la

lingua italiana

193

215

Finito di stampare

mese di agosto 1988 per conto della Longanesi C, nel

&

dalla

Stampa

Sipiel di

Printed in Italy

Milano

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TRISTANO BOLELLI ITALIANO SI E NO 1» EDIZIONE LONGANESI - MI

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Dopo Parole

in piazza e Lingua italiana cercasi, ecco Italiano sì no che vuole, anch'esso, corrispondere al proposito di una riflessione, compiuta col minimo di pedanteria possibile, su questioni attuali della lingua italiana. Nello scambio di idee coi lettori del quotidiano La Stampa (a cui si sono aggiunti quelli della Domenica del Corriere) è risultato un preciso interesse di molti

e

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per

la

lingua parlata e scritta e per

dalla quotidiana esperienza.

Il

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mille problemi che sorgono

diffondersi dell'italiano in strati

sempre più vasti della popolazione ha impli(5ato spinte centrifughe talora allarmanti rispetto ad un ideale di lingua che rappresenti un'espressione piìà moderna ma non ignara delle sue tradizioni. Spesso sono proprio mezzi di comunicazione di massa che, invece di porsi come diffusori e mediatori di un italiano accettabile, danno tristi esempi di trascuratezza e talora di balordaggini e di ignoranza, tanto meno accoglibili in quanto diventano un modello generale. La confusione fa così nascere la curiosità di vederci chiaro. Anche la piccola pietra formata dalla raccolta di queste pagine può essere un punto di riferimento o, almeno, un mezzo per fare sospettare che la lingua ci è stata data per esprimere chiaramente il nostro pensiero, nel bene e nel male, in un legame indistruttibile con la nostra cultura e con la nostra sostanza umana. i

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Tristano Bolelli, dopo

gli studi

compiuti a Pisa, Heidelberg e

dove ha 1983 e dove è stato

di-

Ha

in-

Parigi, è diventato professore all'Università di Pisa,

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retto l'Istituto di Glottologia dal

cedirettore della Scuola

1948

al

Normale Superiore per

otto anni.

vi-

segnato numerose discipline (Glottologia, Sanscrito, Filologia germanica. Storia comparata delle lingue classiche, Storia della lingua italiana), dirige due riviste scientifiche {L'Italia dialettale e Studi e saggi linguistici), è socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei e dell'Institut de France e presidente del Premio internazionale Galileo Galilei dei Rotary italiani. E autore di Per una storia della ricerca linguistica (1965), Linguistica generale, strutturalismo e linguistica storica (1971), Leopardi linguista e altri saggi (1983), nonché di Qualche parola al giorno (1979), frutto di un lungo ciclo di conversazioni radiofoniche. In questa stessa collana sono apparsi Parole in piazza (1984) e Lingua italiana cercasi (1987).

ISBN 88-304-0835-2

GRAFICA

DI

JOHN ALCORN

CL 043-73170 9 '788830'%08357

Lire 20.000

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