Italianità. La costruzione del carattere nazionale

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Italianità. La costruzione del carattere nazionale

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Storia e Società

Silvana Patriarca

Italianità La costruzione del carattere nazionale Traduzione di Sandro Liberatore

Editori Laterza

L’edizione in lingua inglese, con il titolo Italian Vices. Nation and Character from the Risorgimento to the Republic, è in corso di pubblicazione presso Cambridge University Press, Cambridge-New York © 2010, Gius. Laterza & Figli, per l’edizione italiana Prima edizione 2010 Terza edizione 2011 www.laterza.it

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9207-0

a William

INTRODUZIONE

«Tipicamente italiano» Nel febbraio 2003 tutti i più importanti giornali italiani dedicarono pagine e pagine alla scomparsa di Alberto Sordi, il popolare attore protagonista di decine di film dell’Italia repubblicana. Quasi tutti i commentatori furono concordi nell’affermare che nei suoi film Sordi aveva rappresentato meglio di ogni altro il carattere degli italiani. Per il quotidiano cattolico «Avvenire» era stato «lo specchio» dell’Italia. Il «Corriere della Sera» salutava in lui «l’eroe di tutti i nostri difetti», mentre per «la Repubblica» aveva incarnato l’«arte di essere italiani» personificando «una mescolanza di difetti» inequivocabilmente italici. Per «l’Unità» Sordi era stato un «piccolo grande italiano» e per il «Secolo d’Italia» era un simbolo nazionale che per cinquant’anni aveva dato «un volto ai vizi e alle virtù degli italiani»1. Al di là di questa concordanza generale (con la sola eccezione degli esponenti della Lega Nord, ai quali non piaceva la romanità di Sordi) vi furono senza dubbio delle differenze di enfasi, che oltre alle posizioni ideologiche rispecchiavano la base regionale di ciascun giornale2, ma l’impor1 M. Iondini, Ciao Albertone specchio d’Italia, in «Avvenire», 26 febbraio 2003; Un grande abbraccio a Sordi l’eroe di tutti i nostri difetti, in «Corriere della Sera», 26 febbraio 2003; E. Scalfari, Addio Albertone, l’arte di essere italiano, in «la Repubblica», 26 febbraio 2003; A. Crespi, Piccolo grande italiano, in «l’Unità», 26 febbraio 2003; Per cinquant’anni ha dato un volto ai vizi e alle virtù degli italiani, in «Il Secolo d’Italia», 26 febbraio 2003. Tutti questi articoli erano in prima pagina; su «la Repubblica» e sul «Secolo d’Italia» il titolo era a tutta pagina. 2 Si confrontino gli ampi (10 pagine su un totale di 32) ed entusiastici servizi della «Repubblica» con quelli leggermente meno enfatici del «Corriere della Sera» (7 pagine su 32). Da parte sua, «Avvenire» sottolineava in particolare l’umanità e la religiosità dell’attore, in altri termini il fatto che Sordi era un buon

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tanza di Sordi come espressione del «carattere nazionale» fu riconosciuta praticamente all’unanimità3. Il fatto che a un attore venga assegnato un ruolo del genere probabilmente non sorprende, se si considera l’importanza del cinema nella cultura contemporanea. In Italia il fenomeno è ancora più accentuato perché nel periodo successivo al 1945 il cinema assunse una funzione nazionalizzatrice in un contesto in cui, a parte l’estrema destra, il nazionalismo non aveva molta spendibilità politica. Il cinema divenne allora il veicolo privilegiato per la produzione di immagini di italianità sia nel paese che all’estero, e le commedie all’italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, di cui Sordi fu spesso il protagonista, divennero «il primo genere capace di porre con continuità al grande pubblico il problema dell’identità nazionale»4. Può suscitare maggiore sorpresa il fatto che il ruolo di icona nazionale sia stato assegnato a un attore che ha interpretato regolarmente personaggi negativi, e che ha costruito tutta la sua carriera impersonando differenti versioni dell’antieroe, dal giovane provinciale indolente all’opportunista capace di adattarsi con successo a differenti regimi politici, al donnaiolo che alla fine, riluttante, deve sottomettersi all’ordine del santo matrimonio, e così via. Quali ne sono le ragioni? Con questo libro cercherò di rispondere a questa domanda e dare un senso a questo apparente paradosso ricostruendo la genealogia e la storia del discorso del cattolico. Il quotidiano «l’Unità» era convinto che l’attore aveva offerto un ritratto critico degli italiani, mentre l’editorialista della «Repubblica» aveva qualche dubbio in proposito. Il «Secolo d’Italia» mise in discussione l’autenticità degli apprezzamenti che venivano dalla sinistra, sostenendo che in precedenza, a sinistra, non avevano mai veramente apprezzato l’attore. 3 Questo è vero anche a livello popolare: a Roma, ai funerali di Sordi parteciparono circa 250.000 persone, e in 200.000 gli resero omaggio nella camera ardente (secondo il «Corriere della Sera», 27 febbraio 2003). In Italia nessun altro attore o regista della seconda metà del XX secolo, da Marcello Mastroianni a Federico Fellini, ha funzionato come uno specchio del paese al pari di Sordi, né ha avuto un tale riconoscimento generale come icona nazionale. Su questo aspetto è significativo un confronto tra l’ampiezza dei servizi giornalistici sulla scomparsa di Federico Fellini nel 1993 e di Marcello Mastroianni nel 1996 e quelli dedicati alla scomparsa di Sordi. All’estero invece, e in particolare negli Stati Uniti, Fellini e Mastroianni vengono considerati l’incarnazione dell’italianità del periodo post-1945, mentre Sordi è molto meno conosciuto. 4 G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, 1960-1993, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 369.

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carattere nazionale, una retorica che è presente fin dagli albori dell’Italia contemporanea e che resiste al passare del tempo. Ma che cos’è il carattere nazionale? Anche se a livello accademico la nozione ha perso giustamente la sua legittimità5, questo concetto è ancora ben presente nella cultura popolare dove, tra l’altro, offre lo spunto per una infinità di barzellette a sfondo etnico, e nel giornalismo dove costituisce la struttura di una quantità di reportage sui paesi stranieri. Il carattere nazionale non è la stessa cosa dell’identità nazionale, anche se nel linguaggio corrente le due nozioni vengono spesso confuse. Ambedue i concetti sono piuttosto elusivi e si prestano a molteplici definizioni e utilizzazioni, ma si può dire che il carattere nazionale tende a riferirsi alle disposizioni «oggettive», consolidate (un insieme di particolari tratti morali e mentali) di una popolazione, mentre l’identità nazionale, espressione coniata più di recente, tende a indicare una dimensione più soggettiva di percezione e di auto-immagini che possono implicare un senso di missione e di proiezione nel mondo6. Sarà necessario tornare a parlare dei significati spesso contesi di questi termini, ma per ora è sufficiente dire che, in pratica, ambedue i concetti funzionano più o meno come contenitori che differenti interlocutori tendono a riempire di svariati contenuti. Questi contenuti non sono scelti a caso: le discussioni sull’identità nazionale e sul carattere nazionale e la definizione dei due concetti avvengono nell’ambito di modelli discorsivi che spesso hanno una lunga storia e di cui i singoli interlocutori sono il più delle volte inconsapevoli. Il

5 Per la verità, vi sono ancora alcuni studiosi che resistono, specialmente nel campo della psicologia sociale: cfr. per esempio A. Inkeles, National Character. A Psycho-social Perspective, Transaction Publishers, New Brunswick-London 1997. Per una critica della nozione fatta da due psicologi sociali si veda S. Reicher e N. Hopkins, Self and Nation: Categorization, Contestation and Mobilization, Sage Publications, London-Thousand Oaks-New Delhi 2001, cap. 2. 6 Sulla storia e sui differenti significati di questi due concetti vedi le acute considerazioni di P. Anderson, Fernand Braudel and National Identity, in Id., A Zone of Engagement, Verso, London-New York 1992, pp. 251-278. La letteratura sulla nozione di identità è oggi assai vasta e vi farò qualche riferimento nel corso del libro. Mi permetto anche di rinviare al mio saggio National Identity or National Character? New Vocabularies and Old Paradigms, in A.R. Ascoli e K. von Henneberg (a cura di), Making and Remaking Italy. The Cultivation of National Identity Around the Risorgimento, Berg, Oxford-New York 2001, pp. 299-319.

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fardello di questo modello discorsivo appare particolarmente evidente nell’Italia degli ultimi vent’anni in seguito alla caduta del vecchio sistema dei partiti che aveva strutturato la vita della Repubblica all’indomani del fascismo, la problematica della nazione è tornata a dominare il discorso pubblico. Dai primi anni Novanta del secolo scorso l’interesse degli italiani per la questione dell’identità nazionale, stimolato inizialmente dalla crescente visibilità della Lega Nord sulla scena politica e dai suoi virulenti attacchi all’unità della nazione, è stato notevole e non accenna a diminuire. I titoli in libreria in anni recenti evidenziano chiaramente le ansietà e le preoccupazioni per la fragilità dell’assetto nazionale e per i pericoli della sua disintegrazione: Se cessiamo di essere una nazione, Italia addio? Unità e disunità dal 1860 a oggi, Finis Italiae, La morte della patria, Italiani senza Italia7, per citarne solo alcuni. Altri titoli sono sintomatici dell’inquietudine per la questione della modernità, o della scarsa modernità, del paese e della qualità della sua cultura civile: L’Italia è un paese civile?, Le Italie parallele. Perché l’Italia non riesce a diventare un paese moderno, L’identità civile degli italiani 8. E su quotidiani e riviste questi temi sono rilanciati da titoli come Italiani, popolo in maschera, tutti paurosi e trasformisti; Gli italiani? Pecore anarchiche che non formano una nazione; L’Italia è sfatta, ma ci sono gli italiani; Diventeremo mai un paese normale?; A che serve l’Italia?9. Come questi esempi e il caso di Sordi mostrano in maniera eloquente, negli ultimi anni numerosi cittadini si sono interrogati in7 G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, Il Mulino, Bologna 1993; A. Lepre, Italia addio? Unità e disunità dal 1860 ad oggi, Mondadori, Milano 1994; S. Romano, Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1994; E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996; A. Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Einaudi, Torino 1998. 8 P. Ottone, L’Italia è un paese civile?, Mondadori, Milano 1995; S. Romano, Le Italie parallele. Perché l’Italia non riesce a diventare un paese moderno, Longanesi, Milano 1996; U. Cerroni, L’identità civile degli italiani, Manni, Lecce 1996. 9 Rispettivamente dal «Corriere della Sera», 15 settembre 1996; «Il Messaggero», 30 marzo 1998; «Panorama», 28 maggio 1998; «Panorama», 21 luglio 1995; «Limes, rivista italiana di geopolitica», 4, 1994.

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sistentemente sul significato dell’essere italiani. Anche se forse non hanno ancora la certezza di essere una «vera» nazione, molti sono tuttavia convinti di avere un carattere nazionale, e del fatto che questo carattere non fa una bella impressione. In contrasto con l’immagine spesso positiva che altri popoli hanno di se stessi (si può pensare a come si vedono gli americani – ottimisti, rivolti al futuro, preoccupati del bene comune – oppure gli inglesi – leali, riservati, rispettosi della legge)10, l’idea che gli italiani hanno di sé non è affatto lusinghiera: di qualsiasi gruppo sociale facciano parte, si descrivono come un popolo di cinici, di individualisti estremi incuranti del bene pubblico, di opportunisti propensi al clientelismo, falsi se non totalmente bugiardi11. Secondo Eugenio Scalfari, per diversi anni direttore e attuale editorialista della «Repubblica», questi tratti sono così connaturati da costituire quasi una etnicità12. Spesso i commentatori stranieri concordano con questa idea e parlano, con o senza ironia, di «stile politico all’italiana» e del rischio che possa contagiare la vita pubblica di paesi più virtuosi13. Per la verità, considerazioni di tal genere sembrano essere giustificate da diversi avvenimenti recenti. All’inizio degli anni Novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’inchiesta «Mani pulite» rivelò la corruzione di un settore molto ampio della classe dirigente e un vasto numero di politici e uomini d’affari furono rinviati a giudizio. In seguito a questi fatti il paese fu testimone del collasso di tutto il sistema partitico che l’aveva governato dalla fine della seconda guerra mondiale. Subito dopo il crollo di questo sistema le speranze di un cambiamento in senso positivo vennero infrante quando il paese divenne il teatro della devastante ascesa 10 Sulle idee che gli inglesi hanno di se stessi cfr. il recente ed esauriente studio di P. Mandler, The English National Character. The History of an Idea from Edmund Burke to Tony Blair, Yale University Press, New Haven-London 2006. 11 Cfr. anche A. Cavalli, Reflections on Political Culture and the «Italian National Character», in «Daedalus. Journal of the American Academy of Arts and Sciences», 130, 2001, pp. 119-137. 12 Cfr. Scalfari, Addio Albertone cit. Per una critica di alcuni di questi stereotipi italiani cfr. L. Sciolla, Italiani. Stereotipi di casa nostra, Il Mulino, Bologna 1997. 13 Questa espressione appare in un articolo di N. Cohen, Britain isn’t Italy... yet, pubblicato nel sito web di «The Guardian» del 19 gennaio 2003 (http:// observer.guardian.co.uk, ultimo accesso del 29 agosto 2005).

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politica del magnate dei media Silvio Berlusconi, che aveva acquisito un potere immenso nel settore della televisione commerciale grazie agli agganci con importanti personaggi politici del sistema partitico che era appena crollato. Naturalmente, già ben prima di questi recenti sviluppi l’Italia era nota come un paese in cui la corruzione politica era molto diffusa e la legge era scarsamente rispettata e non sufficientemente fatta rispettare. Tutti questi fenomeni sollevano interrogativi più che legittimi non solo sulla qualità delle istituzioni ma anche sugli atteggiamenti della popolazione. Tuttavia equiparare tali atteggiamenti a un «carattere nazionale» è cosa alquanto diversa. Ciò che richiede uno sguardo più critico, in effetti, è il fatto che molti italiani leggono queste realtà attraverso l’ottica del concetto di carattere nazionale, specialmente se si considera che l’Italia, purtroppo, non è l’unico paese che deve confrontarsi con la corruzione politica o con comportamenti che, da un punto di vista civile, lasciano molto a desiderare. In altri termini, se nessuno può negare l’esistenza di certi tratti nella società e nella cultura italiana, non è evidente che essi debbano essere definiti un «carattere nazionale» (o identità nazionale: in Italia, come si diceva, i due termini sono spesso intercambiabili)14. E quindi ritorniamo al nostro interrogativo iniziale: che cos’è il carattere nazionale? E perché tanti italiani sono così convinti di avere un carattere nazionale, del fatto che è pieno di difetti, e che i suoi guasti spiegano anche gran parte degli attuali problemi politico-sociali del paese? La tesi di questo libro è che una parte della risposta può essere trovata nello studio della storia del discorso del carattere nazionale, discorso che va inteso come un insieme di idee, di temi, di argomentazioni e di tropi ricorrenti, presenti nella cultura italiana da lungo tempo.

14 A. Lass pone una questione simile in What Are we Like? National Character and the Aesthetic of Distinction in Interwar Czechoslovakia, in I. Banac e K. Verdery (a cura di), National Character and National Ideology in Interwar Eastern Europe, Yale Center for International and Area Studies, New Haven 1995, p. 47. Un esempio della intercambiabilità dei termini identità e carattere è E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998, che si occupa più della mentalità degli italiani e dei problemi dello Stato moderno in Italia che dell’immagine che gli italiani hanno di se stessi. Cfr. anche il dossier su Il carattere degli italiani, in «I viaggi di Erodoto», n.s., 12, dicembre 1998-febbraio 1999.

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Il carattere nazionale come discorso La presenza di un atteggiamento molto autocritico – che alcuni definiscono l’«antitalianismo»15 italiano – nella cultura del paese non è certamente sfuggita agli osservatori italiani e stranieri. Mario Isnenghi lo ha collegato al «senso di inferiorità» degli italiani, una percezione del sé che affonda le sue radici nelle esperienze storiche dell’età contemporanea e che si traduce in un’inclinazione a guardarsi in maniera molto negativa16. Riferendosi a questa tendenza nell’Italia repubblicana, John Dickie ha parlato di una «cultura di denuncia» che a suo giudizio è una sorta di «patriottismo alla rovescia», pieno di pessimismo nei confronti del carattere nazionale e di preoccupazioni per lo stato del paese17. Franco Cassano ne ha scritto recentemente definendola polemicamente «un antico gioco» di autodenigrazione presente in tutti i gruppi sociali, che porta a conseguenze non volute e in gran parte negative18. Sottolineando che le valutazioni non certo lusinghiere che gli italiani fanno di sé comportano quasi sempre un confronto implicito o esplicito con altri paesi, Alessandro Cavalli ha osservato che spesso si tratta di un «paragone invidioso» non privo di ambivalenze, dal momento che a volte si accompagna anche a un’enfasi sui «difetti» dei paesi più moderni o «civili» ai quali viene confrontata l’Italia. Inoltre Cavalli sostiene che questo tratto si ricollega a certi atteggiamenti tipici degli intellettuali ita15 Il termine è comune nell’uso giornalistico a indicare i critici italiani del carattere nazionale (in contrapposizione ai suoi esaltatori aggressivi che sono detti «arcitaliani» e su cui vedi il capitolo V), ma è anche usato in studi accademici: cfr. per esempio G. Aliberti, La resa di Cavour. Il carattere nazionale italiano tra mito e cronaca (1820-1976), Le Monnier, Firenze 2000. Per quanto mi riguarda sono riluttante a usare tale espressione indiscriminatamente perché ha forti connotazioni polemiche e valutative e pertanto ne limiterò l’uso a chi se ne serve esplicitamente. 16 M. Isnenghi, Breve storia dell’Italia unita a uso dei perplessi, Rizzoli, Milano 1998, pp. 7-8. Cfr. anche Romano, Finis Italiae cit., cap. 2. Si noti, per inciso, che gli psicologi non riconoscono più il «complesso di inferiorità» come patologia individuale. 17 J. Dickie, The Notion of Italy, in Z.G. Baranski e R.J. West (a cura di), The Cambridge Companion to Modern Italian Culture, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 17-33. 18 F. Cassano, La differenza italiana ovvero dell’altra faccia della luna, in «Il Mulino», 2, marzo-aprile 1999, pp. 221-226.

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zione morale. Fin dall’epoca risorgimentale numerosi intellettuali, politici e uomini di Stato aspiravano a riformare gli italiani in modo da renderli conformi ai propri ideali di nazione. La famosa locuzione attribuita a Massimo d’Azeglio, «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani», viene spesso citata per descrivere la sentita necessità di forgiare e rendere unita una popolazione disomogenea e con una scarsa consapevolezza di sé. Anche se, come vedremo, d’Azeglio non pronunciò testualmente queste parole24, che oltretutto vengono spesso fraintese, la popolarità della frase attesta la sua capacità di comunicare un’idea diffusa di ciò che comportava la missione della edificazione della nazione. E, naturalmente, il fatto che generazioni di italiani abbiano continuato a usare l’espressione di d’Azeglio è sintomatico delle difficoltà di creare una nazione unita in un territorio che aveva subito vicissitudini molto diverse, e della complessità del nation-building in un paese in cui una Chiesa potente si oppose decisamente allo Stato nazionale per molto tempo dopo la sua creazione25. La questione regionale e quella religiosa erano solo due dei tanti fattori di divisione che in Italia indebolirono il governo liberale fin dall’inizio del nuovo Stato e crearono ansietà e scontento, in seguito acuiti dalle tensioni generate dall’industrializzazione e dalla modernizzazione. La politica, l’ideologia e i diversi progetti ideati dai vari «ingegneri dell’italianità», per usare l’espressione di Bollati, contribuiscono a spiegare che cosa si diceva a proposito del carattere nazionale in periodi diversi. Ma dietro questa attenzione costante per il carattere non c’erano solo fattori politici e ideologici. Per comprendere la specificità del discorso italiano sul carattere nazionale occorre prendere in considerazione diversi altri elementi, e qui ci danno un aiuto sostanziale gli studi sulla rappresentazione dell’Altro». In particolare, recenti studi sull’immagine dell’Italia meridionale vista come Altro interno dell’Italia unita, che l’immaginario nazional-patriottico non poteva riconoscere come parte di 24 Cfr. l’Introduzione a S. Soldani e G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, vol. 1, La nascita dello stato nazionale, Il Mulino, Bologna 1993, p. 17. Cfr. anche il cap. II di questo libro. 25 Sul difficile nation-building italiano si veda da ultimo Duggan, La forza del destino cit.

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matica. In questo saggio intendo offrire quest’analisi e spero di dimostrare che potremo comprendere più a fondo le caratteristiche del discorso del carattere – e con esso della cultura nazionale e del nazionalismo italiani – se poniamo l’idea del carattere al centro dell’analisi e ne seguiamo l’emergere, lo sviluppo e gli usi che ne sono stati fatti nel tempo. Il discorso del carattere italiano ha una lunga storia intellettuale e politica alla quale, nel corso dei secoli, hanno contribuito sia gli italiani che gli stranieri. Ciò che questi ultimi dicevano sul carattere degli abitanti della penisola è probabilmente meglio conosciuto (come testimonia la vasta letteratura sugli scritti di viaggio) di ciò che ne dicevano, e degli usi che ne hanno fatto, gli stessi italiani. Nella sua declinazione indigena il discorso del carattere affiorò inizialmente verso la fine del XVIII secolo nel contesto dell’Illuminismo e come componente di un patriottismo nazionale incipiente. A causa del suo stretto collegamento con l’ideologia nazionalista, il discorso del carattere non aveva alcuna semplice o speculare relazione (ammesso che una semplice relazione di tal genere possa esistere) con chi sembrava essere il suo referente, e cioè il popolo italiano: il contenuto del discorso era intrecciato con le preoccupazioni e con i progetti delle élites nazionali/nazionaliste italiane. A loro volta, nei discorsi sulla nazione queste preoccupazioni e progetti erano all’origine della presenza di un forte elemento di critica (se non di autodenigrazione) che si accompagnava alle classiche rivendicazioni di unicità culturale, e perfino di superiorità nazionale, che in genere caratterizzano i discorsi dei nazionalisti in tutto il mondo. Almeno dai tempi del Risorgimento, in Italia discutere di carattere nazionale significava in realtà discutere di un’unicità carica di pesanti eredità: in altri termini, significava attribuire delle virtù speciali al popolo italiano, e allo stesso tempo denunciarne i numerosi «vizi». L’idea di un carattere italiano faceva così parte originariamente del repertorio intellettuale e della retorica del nazionalismo e costituiva uno strumento del nation-building, un modo per sollecitare gli abitanti della penisola non semplicemente a esistere come italiani (dal momento che pochi dubitavano della loro esistenza in quanto tali, malgrado le differenze regionali) ma a condurre un tipo di vita collettiva più esigente, cioè a esistere come nazione moderna. Questa vita nuova richiedeva un lavoro di rigenera-

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zione morale. Fin dall’epoca risorgimentale numerosi intellettuali, politici e uomini di Stato aspiravano a riformare gli italiani in modo da renderli conformi ai propri ideali di nazione. La famosa locuzione attribuita a Massimo d’Azeglio, «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani», viene spesso citata per descrivere la sentita necessità di forgiare e rendere unita una popolazione disomogenea e con una scarsa consapevolezza di sé. Anche se, come vedremo, d’Azeglio non pronunciò testualmente queste parole24, che oltretutto vengono spesso fraintese, la popolarità della frase attesta la sua capacità di comunicare un’idea diffusa di ciò che comportava la missione della edificazione della nazione. E, naturalmente, il fatto che generazioni di italiani abbiano continuato a usare l’espressione di d’Azeglio è sintomatico delle difficoltà di creare una nazione unita in un territorio che aveva subito vicissitudini molto diverse, e della complessità del nation-building in un paese in cui una Chiesa potente si oppose decisamente allo Stato nazionale per molto tempo dopo la sua creazione25. La questione regionale e quella religiosa erano solo due dei tanti fattori di divisione che in Italia indebolirono il governo liberale fin dall’inizio del nuovo Stato e crearono ansietà e scontento, in seguito acuiti dalle tensioni generate dall’industrializzazione e dalla modernizzazione. La politica, l’ideologia e i diversi progetti ideati dai vari «ingegneri dell’italianità», per usare l’espressione di Bollati, contribuiscono a spiegare che cosa si diceva a proposito del carattere nazionale in periodi diversi. Ma dietro questa attenzione costante per il carattere non c’erano solo fattori politici e ideologici. Per comprendere la specificità del discorso italiano sul carattere nazionale occorre prendere in considerazione diversi altri elementi, e qui ci danno un aiuto sostanziale gli studi sulla rappresentazione dell’«altro». In particolare, recenti studi sull’immagine dell’Italia meridionale vista come Altro interno dell’Italia unita, che l’immaginario nazional-patriottico non poteva riconoscere come parte di 24 Cfr. l’Introduzione a S. Soldani e G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, vol. 1, La nascita dello stato nazionale, Il Mulino, Bologna 1993, p. 17. Cfr. anche il cap. II di questo libro. 25 Sul difficile nation-building italiano si veda da ultimo Duggan, La forza del destino cit.

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sé26, forniscono una base per un nuovo tipo di approccio al discorso del carattere nazionale. Il fatto che i tratti negativi del carattere degli italiani siano spesso intercambiabili con quelli attribuiti alla popolazione del Meridione è significativo e sintomatico. In effetti, come ha sostenuto Nelson Moe, molti di questi tratti furono in un primo tempo attribuiti a tutta l’Italia, quando nel XVIII secolo diventò il «Sud» dell’Europa, e in seguito furono riservati al Meridione, quando, durante il periodo risorgimentale, cominciò a essere distinto dal resto del paese27. Tuttavia, come vedremo, quando necessario non si cessò di attribuire questi tratti negativi all’Italia nel suo complesso, e di conseguenza il Meridione tornava a essere una versione estrema dell’Italia, nel senso che ne possedeva, accentuati, tutti i difetti. Sia il Meridione inteso come Altro interno che la meridionalità dell’Italia nel suo insieme diventavano quindi il principale capro espiatorio di tutti i guasti del paese. Ora che i meccanismi della costruzione discorsiva del Meridione negli ultimi secoli sono diventati più chiari, siamo in grado di comprendere meglio anche come è venuto a formarsi in Italia il discorso del carattere nazionale più in generale. Lo strutturarsi di questo discorso era un fenomeno di tipo fondamentalmente relazionale, e quindi non può essere compreso a fondo se non lo si pone in un contesto di relazioni internazionali e se non si tiene conto di come gli italiani venivano rappresentati da non-italiani con i quali dialogavano o si confrontavano. Questo processo di rappresentazione iniziò piuttosto presto e assegnò all’Italia e ai suoi abitanti una posizione peculiare nell’immaginario degli altri 26 Cfr. specialmente N. Moe, The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley-Los AngelesLondon 2002; per aspetti più specifici cfr. anche J. Schneider (a cura di), Italy’s «Southern Question». Orientalism in One Country, Berg, New York-London 1998; M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998; J. Dickie, Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, St. Martin’s Press, New York 1999. 27 Moe, The View from Vesuvius cit., capp. 1-3. Secondo John Peter Colella, dopo la pubblicazione dell’autorevole Schoolmaster di Roger Aschram (1570) il termine «italiano» divenne un insulto; e la famosa espressione «paradiso abitato da diavoli» – spesso usata nel Seicento e nel Settecento in relazione alle regioni dell’Italia meridionale – comparve già nel 1592 riferita però a tutta l’Italia. J.P. Colella, Anti-Italian Attitudes in Medieval and Renaissance England, tesi di dottorato, Columbia University 1989, p. 246.

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europei. Ammirati per la loro cultura ma anche invidiati e osteggiati per il loro potere economico nel tardo Medioevo, gli italiani erano spesso oggetto di rappresentazioni ambivalenti se non completamente negative, particolarmente in Inghilterra e in Francia28. In seguito, mentre la penisola stagnava economicamente, e non solo, generazioni di viaggiatori del Nord Europa e di pensatori illuministi aggiunsero altri elementi negativi a questa rappresentazione, descrivendo gli italiani come meridionali indolenti ed effeminati. Come vedremo, anche gli stessi italiani contribuirono alla produzione di autostereotipi, in un processo di auto-oggettivazione che era fortemente sintomatico della perdita di potere e della marginalità in cui la penisola fu relegata in Europa dopo il XV secolo29. Dovendo costruire se stessi in relazione a diverse altre nazioni più sicure di sé e di maggior successo, i patrioti e nazionalisti italiani oscillavano spesso tra una esaltazione arrogante della «superiorità» della propria cultura e una scoraggiata deprecazione del proprio stato di inferiorità30. Tuttavia i discorsi del carattere nazionale non sono – e non sono stati – solo un esempio di ciò che potremmo definire il «traffico» di stereotipi nel quale i popoli europei sono stati coinvolti almeno dal tardo Medioevo nel contesto della nascita delle idee moderne di nazione e di patriottismo. Questi discorsi fanno parte anche della storia della teoria politica europea, che era intimamente intrecciata con il processo mediante il quale gli europei definivano 28 Cfr. Colella, Anti-Italian Attitudes cit.; H. Heller, Anti-Italianism in Sixteenth Century France, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2003. 29 Ciò è stato sottolineato recentemente da Moe, The View from Vesuvius cit., cap. 1. Non intendo però implicare che tutte le rappresentazioni negative fossero stereotipi, né che gli stereotipi fossero tutti negativi. Per una utile analisi del concetto di stereotipo, specialmente della sua relazione con il concetto dell’Altro, cfr. M. Pickering, Stereotyping. The Politics of Representation, Palgrave, Basingstoke-New York 2001; sulla costruzione degli stereotipi nazionali cfr. anche J. Leerssen, L’effet du typique, in A. Montandon (a cura di), Moeurs et images. Etudes d’imagologie européenne, Université Blaise Pascal, Clermont-Ferrand 1997. Altri studiosi della cultura italiana hanno sottolineato la facilità con cui gli italiani interiorizzavano gli stereotipi: cfr. per esempio J.-P. Darnis, La question identitaire dans l’Italie contemporaine. Entre relectures historiques et mutations supranationales, in M. Colin (a cura di), Transalpine 2 (Etudes italiennes). Identités italiennes, Presses Universitarie de Caen, Caen 1998, p. 71. 30 La coesistenza di questi due atteggiamenti era stata già notata da Bollati, L’Italiano cit., p. 41.

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se stessi in contrapposizione all’«altro» interno o esterno. Storicamente, le idee sul carattere nazionale si consolidarono in un primo tempo in un discorso sui temperamenti e sulle tendenze dei popoli – nel senso dei «costumi» o dello «spirito» di un popolo – nel periodo dell’Illuminismo, e in seguito vennero sviluppate ulteriormente, in una direzione etnico-culturale, da Herder e dai romantici. Fu allora che il discorso del carattere nazionale entrò a far parte del repertorio del nazionalismo e di un emergente corpus di teoria politica, diventando un elemento importante del pensiero politico e sociale europeo. Come Roberto Romani ha illustrato di recente, da Montesquieu a Tocqueville a John Stuart Mill, il concetto così costruito di carattere nazionale fu ampiamente teorizzato e utilizzato in una varietà di contesti differenti, dispiegato in funzione di varie argomentazioni e obiettivi, e con diverse declinazioni a seconda dei tempi e dei vari paesi31. Fu anche un elemento ricorrente nel discorso politico più quotidiano. Le potenze imperiali come la Gran Bretagna giustificavano regolarmente le loro vittorie militari e i successi coloniali con la superiorità del loro carattere nazionale32. Alla fine dell’Ottocento si sviluppò un notevole interesse per gli studi sull’argomento anche nelle università: nel mondo accademico il successo del concetto di carattere nazionale si affievolì solo parecchi anni dopo la seconda guerra mondiale33. Alla luce di queste considerazioni, per comprendere correttamente il discorso del carattere nella cultura politica dell’Italia moderna dobbiamo avere un’idea abbastanza precisa di questi vari insiemi di preoccupazioni e di discorsi, e della loro interazione. Da 31 Per un’analisi del ruolo di questo concetto nel pensiero politico francese e inglese cfr. R. Romani, National Character and Public Spirit in Britain and France, 1750-1914, Cambridge University Press, Cambridge 2002. 32 Cfr. J. Moskal, Mary Shelley’s «Rambles in Germany and Italy» and the Discourse of Race and National Manners, in «La questione romantica. Rivista interdisciplinare di studi romantici», 3-4, 1997, pp. 205-212; cfr. anche P. Langford, Englishness Identified. Manners and Character 1650-1850, Oxford University Press, Oxford 2000, p. 9. 33 Nel mondo americano l’interesse degli accademici sull’argomento era molto forte, specie tra i sociologi e gli antropologi culturali. In Francia, all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, esisteva ancora una disciplina denominata etnopsicologia. Per una storia della psicologia dei popoli e più generalmente degli studi sul carattere nazionale in Francia e in Inghilterra cfr. P. Claret, La personnalité collective des nations. Théories anglo-saxonnes et conceptions francaises du caractère nationale, Bruylant, Bruxelles 1998.

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quanto è stato detto finora, dovrebbe essere chiaro che il discorso del carattere nazionale su cui concentro l’attenzione in questo libro deve la sua problematica più all’Illuminismo che al Romanticismo, anche se a volte può essere difficile fare distinzioni nette. Non mi occupo tanto dell’idea del carattere inteso come unicità culturaleetnica, quanto del carattere inteso come un complesso di predisposizioni che passano a far parte degli atteggiamenti pubblici e politici di una popolazione. Gli interrogativi ricorrenti sul carattere esaminati in questo libro non rispondono tanto alla domanda «in che modo ci differenziamo dagli altri?» quanto a domande come «che genere di popolo siamo?» e «perché ci comportiamo così?». Questo tipo di autoesame è stato particolarmente pressante nei momenti di crisi politica acuta, e in particolare in coincidenza con il crollo di regimi politici. In tali situazioni assume una primaria importanza l’assegnazione di colpe e responsabilità politiche. Nella turbolenta storia dell’Italia del XX secolo, varie crisi e la tragedia della dittatura hanno generato ricerche di cause e responsabilità, se non esami di coscienza, e molti si sono serviti dell’idea del carattere per cercare una risposta fornendo analisi più o meno complesse degli atteggiamenti politici e culturali italiani e delle loro radici. Spesso, tuttavia, il ricorso all’idea del carattere ha fornito un modo per deflettere le responsabilità da individui o gruppi specifici e addossarne la colpa a quel certo fattore «immutabile», l’eterno carattere degli italiani. In altri termini, questo fare ricorso ad autostereotipi del carattere nazionale ha fornito varie volte più o meno «comode giustificazioni»34 in quelle che possiamo definire le «guerre italo-italiane» del XX secolo35, vale a dire gli aspri confronti tra italiani di diverse classi e convinzioni ideologiche che hanno segnato questo periodo. Questo libro metterà a fuoco e analizzerà anche questi usi dell’idea di carattere. Non si deve pensare che l’Italia sia un caso unico. Gli italiani non sono i soli a essere preoccupati per il proprio carattere nazionale e ad essere convinti che la spiegazione di molti loro problemi 34 Su questo uso degli stereotipi cfr. M. Herzfeld, Cultural Intimacy. Social Poetics in the Nation-State, Routledge, New York-London 1997, p. 93. 35 Naturalmente, sto adattando all’Italia l’espressione di Henry Rousso (guerre franco-française): cfr. il suo The Vichy Sindrome. History and Memory in France since 1944, Harvard University Press, Cambridge Mass.-London 1991, p. 6.

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si trova proprio nei difetti di questo carattere. Vi sono anche altri paesi che hanno raggiunto l’indipendenza relativamente tardi e che mostrano una preoccupazione analoga. Per rimanere in Europa e limitarci a qualche caso, possiamo dire che nei discorsi sulla loro identità collettiva gli irlandesi e i greci mostrano atteggiamenti simili a quelli degli italiani. Nel corso degli anni, allo scopo di reagire all’immagine negativa costruita e imposta dagli inglesi e di stabilire il loro diritto all’indipendenza, gli irlandesi hanno prodotto una vasta letteratura sulla loro identità, rivelando come abbiano frequentemente interiorizzato alcune di tali immagini stereotipate36. Anche i greci erano oggetto di rappresentazioni non di rado negative, e come gli irlandesi hanno sviluppato anch’essi un senso di identità nazionale in un contesto di dipendenza politica. Perciò l’atteggiamento autocritico e il desiderio di rigenerazione sono stati parte integrante del discorso nazional-patriottico greco fin dal suo inizio, diventando più acuti nei periodi in cui le ambizioni nazionali erano più frustrate, ad esempio alla fine dell’Ottocento37. Ma la preoccupazione per il carattere nazionale non è solo una peculiarità dei paesi periferici o semiperiferici dell’Europa38. Per ragioni differenti e tristemente note, anche i tedeschi hanno dovuto confrontarsi con la questione del proprio carattere nazionale, specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale, e anche in paesi con una storia più «lineare» l’idea del carattere nazionale ha una presa ancora piuttosto forte, benché generalmente abbia una connotazione positiva (gli inglesi, nonché gli americani, lo dimostrano in maniera piuttosto chiara)39. 36 Cfr. S. Deane, Introduction, in T. Eagleton, F. Jameson ed E.W. Said (a cura di), Nationalism, Colonialism, and Literature, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1990, pp. 3-19; cfr. anche S. Deane, Strange Country: Modernity and Nationhood in Irish Writing since 1790, Clarendon, New York-London 1995; e D. Lloyd, Anomalous States: Irish Writing and the PostColonial Moment, Duke University Press, Durham, NC, 1993. 37 Cfr. G. Augustinos, Consciousness and History: Nationalist Critics of Greek Society 1897-1914, in «East European Quarterly», Boulder 1977. 38 Sull’Europa meridionale come semiperiferia cfr. I. Wallerstein, The Relevance of the Concept of Semiperiphery to Southern Europe, in G. Arrighi (a cura di), Semiperipheral Developments. The Politics of Southern Europe in the Twentieth Century, Sage Publications, Beverly Hills-London-New Delhi 1985, pp. 31-39. 39 Sull’Inghilterra si veda Mandler, The English National Character cit. La lettura tutta positiva del carattere americano si trova per esempio negli studi di

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I discorsi sul carattere nazionale, anche nella versione più autocritica che esaminiamo in questo libro, sono un esempio delle innumerevoli pratiche che producono e riproducono la dimensione nazionale in una collettività. Dal momento che informano il senso comune di intere popolazioni, possono essere considerati un esempio di ciò che Michael Billig ha definito «nazionalismo banale»40. Anch’essi contribuiscono al processo di costruzione discorsiva della nazione, che è uno dei modi in cui in una collettività si stabilisce un senso della propria individualità nazionale. In ogni caso, per controbilanciare rappresentazioni critiche e negative del sé nazionale, spesso entrano in funzione strategie compensative, per esempio quando si rivendica l’unicità o la superiorità del proprio popolo in certi settori di attività (le arti, lo stile di vita e via dicendo). Devo sottolineare ancora che non sto negando che gli italiani come collettività mostrino tratti e specificità che meritano di essere studiate da un punto di vista sociologico, o che alla base dello sviluppo di certe auto-rappresentazioni da parte di una collettività vi siano specifiche esperienze comuni. Questo libro non è un tentativo di negare alcune realtà preoccupanti dell’Italia di oggi, e non sto cercando – almeno consciamente – di «scusare» gli italiani. La definizione e la rappresentazione del sé nazionale che analizzo in questo lavoro è un’attività soprattutto politica e richiede un approccio critico. Ovviamente non tutti i discorsi politici di questo genere sono uno stratagemma per acquisire potere, o uno strumento nelle lotte per l’egemonia da parte di una élite. Tuttavia, sono convinta che c’è qualcosa di profondamente problematico sia nel concetto stesso di carattere nazionale che nel suo uso corrente, anche se chi ne parla o ne scrive è animato da buone intenzioni e mira a un buon fine: l’idea del «carattere nazionale» personifica e quindi reifica una collettività, non tiene conto delle importanti differenze a livelSeymour M. Lipset che propongono la classica visione eccezionalista della storia e della cultura statunitense (su cui si veda la recensione critica di J.V. Koschmann, The Nationalism of Cultural Uniqueness, in «The American Historical Review», 102, 2, 1997, pp. 758-768). Per una storia delle concezioni del carattere nazionale americano si veda T.L. Hartshorne, The Distorted Image. Changing Conceptions of the American Character since Turner, The Press of Case Western Reserve University, Cleveland 1968. 40 M. Billig, Banal Nationalism, Sage Publications, London-Thousand Oaks-New Delhi 1995.

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lo individuale e di gruppo presenti in tutte le società, e incoraggia la pigrizia intellettuale dando per scontati gli stereotipi esistenti41. Nel caso dell’Italia, oltretutto, l’idea del carattere nazionale è piena delle incrostazioni che le derivano da una lunga storia che riflette il difficile ingresso del paese nella modernità. Alcune note metodologiche A questo punto dovrebbe essere chiaro che con questo studio non cerco di fornire un resoconto completo di tutto ciò che è stato detto a proposito del carattere degli italiani nell’Italia moderna, impresa che richiederebbe molto più spazio, anche concentrando l’attenzione solo sui difetti. Quello che cerco di fare, invece, è offrire una genealogia di alcune influenti idee sui difetti del carattere italiano, mettendo in rilievo il contesto storico in cui sono emerse ed esplorando i modi in cui sono state usate. Nelle pagine che seguono mi occupo principalmente di testi politici, compresi numerosi scritti di storici, sociologi e giornalisti che hanno operato tra la prima metà dell’Ottocento e la fine del Novecento, testi dichiaratamente non di narrativa, anche se tutti quanti contengono elementi di fiction. Ho scelto di concentrare l’attenzione su questo tipo di testi perché sviluppano esplicitamente la nozione di carattere nazionale. Sono consapevole dell’importanza dei romanzi e di altre opere di narrativa nel dare forma a idee e percezioni del carattere nazionale – si pensi al ruolo che un’opera come Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha avuto nel dare persino un nuovo nome a una certa idea dell’italiano nella seconda metà del Novecento (l’italiano gattopardo, opportunista e trasformista). Ma includere anche opere di narrativa avrebbe richiesto metodologie differenti e mi avrebbe condotto oltre la portata e lo scopo di questo lavoro. Tuttavia faccio un’eccezione per il cinema del periodo post 1945, e in particolare per la «commedia all’italiana» – di cui mi occuperò nel capitolo VIII – perché ha avuto un ruolo significativo nella costruzione e nella diffusione

41 Su questo punto cfr. anche le osservazioni di M. Eve, Dentro l’Inghilterra. Ragioni e miti di un’identità, Marsilio, Venezia 1990, spec. il cap. 1.

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dell’immagine anche visuale dell’«italiano tipico», immagine che nella prosa giornalistica è spesso diventata tutt’uno con la realtà. Nella mia indagine presterò attenzione non solo alle opinioni e alle argomentazioni espresse in questi testi, ma anche alla maniera in cui il linguaggio stesso contribuisce a dare forma a queste idee. Nuovi approcci all’analisi delle rappresentazioni e allo studio del nazionalismo moderno offrono strumenti importanti per questa indagine42, nel senso che dimostrano quanto sia importante spingersi oltre la semplice analisi delle tematiche e delle idee – nella quale lo studio dell’ideologia è stato spesso confinato – e approdare a un esame critico più complessivo del discorso, che comprenda cioè i tropi e le narrazioni con cui la nazione e la sua creazione sono raffigurate nel discorso nazionale e nazionalista. Molti storici ormai concordano con gli studiosi di linguistica e di retorica sulla tesi secondo cui le metafore non arricchiscono semplicemente il nostro linguaggio, ma strutturano il nostro pensiero e hanno funzioni concettuali cruciali43. Sottolineando l’importanza del linguaggio non voglio implicare che gli attori sociali siano un semplice strumento di un linguaggio che parla attraverso di loro, o, per usare una metafora diversa, pesci indifesi nel pericoloso mare del discorso. Come questo libro dovrebbe rendere evi42 Il lavoro di R. Chartier (cfr. specialmente il suo Cultural History. Between Practices and Representations, Polity Press, Oxford 1988 [trad. it., La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1989]) mi ha fornito alcune importanti linee guida e mi ha aiutato a capire che le rappresentazioni sono parte integrante del tessuto sociale, così come il lavoro di studiose femministe come Joan W. Scott, che afferma, seguendo Foucault, la forza costitutiva del discorso. Cfr. Gender and the Politics of History, Columbia University Press, New York 1988. Negli ultimi vent’anni la letteratura sul nazionalismo è cresciuta enormemente. Nel corso del libro farò riferimento ai titoli più significativi. 43 Sul ruolo delle metafore nel nostro pensiero cfr. G. Lakoff e M. Johnson, Metaphors We Live By, University of Chicago Press, Chicago 1980 [trad. it. a cura di P. Violi, Metafora e vita quotidiana, 3a ed., Bompiani, Milano 2007]. Fin dall’inizio di quella che viene definita «svolta linguistica» (linguistic turn), gli storici hanno prestato più attenzione al ruolo delle narrazioni e dei tropi nel discorso: il pioniere in questo campo è stato naturalmente H. White (cfr. specialmente il suo Tropics of Discourse. Essays in Cultural Criticism, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1978). Tuttavia non occorre essere d’accordo con White su tutta la linea (specialmente sulle sue problematiche conclusioni relativistiche, alle quali non mi associo) per riconoscere l’importanza della retorica negli schemi del pensiero.

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dente, io credo che gli individui – persone reali, storicamente esistenti – compiano operazioni piuttosto complesse con il linguaggio/linguaggi di cui dispongono, mentre allo stesso tempo il loro pensiero viene «formato» (nel senso che viene sia facilitato che limitato) dalle metafore e dai linguaggi dominanti44. Tra i tropi del discorso nazionalista e, più in generale, politico, quelli di genere occupano un posto di primo piano. Come hanno mostrato alcuni studi recenti sul nazionalismo, alla rappresentazione della nazione sono spesso associate immagini di femminilità e mascolinità45. Perciò lo studio del discorso del carattere richiede chiaramente di affrontare la questione della diversità di genere. Come vedremo, le rappresentazioni del carattere italiano elaborate nell’Ottocento, e anche più tardi, sia da italiani che da stranieri erano fortemente connotate in termini di genere: di fatto, in tutta l’Europa il discorso del carattere nazionale era pieno di metafore a sfondo sessuale46. In Italia patrioti e nazionalisti contrapponevano alla storica «degenerazione» degli italiani, intesa come 44 Per linguaggio intendo qui sia il significato generale del termine (sistema di simboli), sia più specificamente il concetto di linguaggio elaborato da J.G.A. Pocock e dalla sua scuola nei loro studi sul pensiero politico: cfr. in particolare J.G.A. Pocock, Virtue, Commerce, and History. Essays on Political Thought and History, Chiefly in the Eighteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 1-34. Ho tuttavia alcune riserve sull’eccessiva insistenza sul recupero delle intenzioni dell’autore e sul contestualismo radicale di questo approccio. 45 Cfr. in particolare gli studi raccolti in I. Blom, K. Hagemann, e C. Hall (a cura di), Gendered Nations. Nationalism and the Gender Order in the Long Nineteenth Century, Berg, Oxford-New York 2000. Sul genere nel nazionalismo italiano dell’Ottocento cfr. specialmente A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, Einaudi, Torino 2000; L. Riall, Storie d’amore, di libertà e d’avventura: la costruzione del mito garibaldino intorno al 1848-49, in A.M. Banti e R. Bizzocchi (a cura di), Le immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci, Roma 2002, pp. 157174; L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, 3a ed., trad. it., Laterza, Roma-Bari 2007 (ed. or. 2007); e gli studi raccolti in A.M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007. Uso il termine nazionalismo anche per indicare il patriottismo risorgimentale, in quanto si tratta pur sempre di una forma di nazionalismo, se intendiamo questo termine in un senso generale e descrittivo e non solo – come si fa comunemente in Italia – per designare uno specifico movimento politico sorto all’inizio del XX secolo. 46 Questo aspetto viene trascurato da Romani, National Character cit., e anche dai lavori sul carattere nazionale italiano citati in precedenza. Un saggio che prende in considerazione il genere è quello di D.A. Bell, The Cult of the Nation in France. Inventing Nationalism, 1680-1800, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London 2001, cap. 5.

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un processo di vera e propria femminilizzazione, una «rigenerazione» nazionale, intesa come un processo di vera e propria re-virilizzazione. L’idea della rigenerazione era un prodotto tutt’altro che effimero del patriottismo risorgimentale, e un argomento denso di significato per successive generazioni di nazionalisti, dal momento che era intimamente legato alla loro identità di genere. La genealogia dell’origine e dell’evoluzione del discorso dei «vizi» che presento in questo saggio prende in considerazione soprattutto il lavoro degli intellettuali, e non considera l’eventuale ruolo di altri attori sociali e della cultura popolare nel dargli forma. Alcuni hanno sostenuto che un teatro popolare come la commedia dell’arte ebbe un ruolo simile perché aveva creato personaggi come Pulcinella e Arlecchino che sono diventati archetipi dell’italiano47. A me pare che tali personaggi abbiano avuto principalmente un significato locale/regionale fino al Novecento, quando nel corso del loro esame critico del carattere degli italiani gli intellettuali nazionalisti vi sovrapposero un significato nazionale. In ogni caso, la preoccupazione per il carattere nazionale, l’argomento di questo libro, non si originò tra le classi popolari, ma affiorò tra le élites nazionali nel corso dell’elaborazione dei loro progetti di nazione. I vizi italiani possono essere stati – e senza dubbio continuano a essere – molti, ma in diversi momenti storici gli italiani che ne discutevano in relazione alle cause di una situazione di debolezza o di degrado nazionale ne consideravano alcuni più problematici di altri. Nei capitoli che seguono l’attenzione sarà concentrata su questi vizi (nonché su alcune «virtù») e sulla loro presenza nel discorso di intellettuali e politici nel corso della storia dell’Italia contemporanea, dal periodo della lotta per l’indipendenza e per l’unificazione nazionale, quando il carattere degli italiani cominciò a essere percepito come un problema politico, attraverso le varie fasi della storia politica e culturale postunitaria, fino agli anni più recenti, quando si è riproposto come una questione di riflessione pubblica dopo essere diventato un elemento del senso comune di molti italiani.

47 Cfr. per esempio N. Fano, Le maschere italiane, Il Mulino, Bologna 2001. Si pensa che certi proverbi siano tipicamente italiani, ma la questione, tuttavia, è se siano davvero una creazione «popolare».

RINGRAZIAMENTI

La preparazione di questo libro è stata resa possibile da diverse persone e istituzioni. Vorrei ringraziare prima di tutto le istituzioni che mi hanno sostenuto generosamente sia durante la fase di ricerca che durante quella della stesura del testo: la Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, che mi ha concesso una borsa di studio per lavorare a New York, e il National Endowment for the Humanities, che ha fatto altrettanto attraverso il National Humanities Center presso il Research Triangle Park (North Carolina). Sono molto grata anche alla Fordham University, dove insegno, per avermi concesso un finanziamento per la ricerca; inoltre ne ho apprezzato molto la generosità nell’integrare la differenza tra le borse di studio e la mia retribuzione. Diversi colleghi dell’Italian Academy e del National Humanities Center mi hanno posto domande che si sono rivelate utili a sviluppare ulteriormente le mie idee e rendere più chiaro il mio approccio alle tematiche del libro, e mi hanno offerto amicizia e buonumore. In particolare, sono grata a Pellegrino d’Acierno, Annie J. Randall e Jonathan White, membri dell’Italian Academy, e ai membri del National Humanities Center, specialmente Robert Gordon, Mary Kenzie, Maryanne Kowaleski, Peter Mallios, Ruth Nisse, Cara Robertson, Brenda Schildgen e Madeline Zilfi. La mia gratitudine va anche al personale dell’Italian Academy e del National Humanities Center, e specialmente alle bibliotecarie del Center, Jean Houston e Betsy Dain, e a Karen Carroll. Per i loro consigli e varie forme di sostegno nelle diverse fasi di questo progetto vorrei ringraziare Albert R. Ascoli, Kathleen Canning, Anthony Cardoza, Alexandre De Grand, Victoria de Grazia, Giovanni Levi, Marta Petrusewicz e Maria Todorova. So-

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Ringraziamenti

no molto grata anche agli studiosi e agli amici che mi hanno invitato a parlare di vari aspetti di questo libro (in particolare a David Aliano, Roberto Dainotto, John A. Davis, Marcello Flores, Maura O’Connor, Tip Ragan) e alle persone che mi hanno ascoltato al Center for European Studies della University of Cincinnati, all’Università di Siena, al Comparative Europe Seminar di New York City, al CUNY Graduate Center, all’University Seminar in Modern Italian Studies (Columbia University), alla University of Connecticut (Storrs) e alla Duke University. Ho apprezzato i commenti dei miei ex colleghi dell’University of Florida (Gainesville) e dei miei colleghi attuali della Fordham University quando ho presentato il mio lavoro, ancora nella sua fase iniziale, ai seminari di facoltà di entrambe le Università. In questi ultimi anni, Alberto M. Banti e Roberto Bizzocchi dell’Università di Pisa sono stati interlocutori stimolanti e ho apprezzato il loro invito a parlare al seminario del Dottorato di Storia. Per la loro disponibilità a leggere singoli capitoli o l’intero manoscritto e per i loro commenti, i miei più vivi ringraziamenti vanno a Tommaso Astarita, Luca Caminati, Paolo Macry, Nelson Moe, Lucy Riall, Arnaldo Testi e Nadia Urbinati. Sono anche molto grata ai recensori della Cambridge University Press le cui critiche e suggerimenti mi hanno aiutato a chiarire la mia argomentazione. Naturalmente, la responsabilità per il risultato finale è interamente mia. Voglio ringraziare anche la mia assistente Kristin Uscinski e mio nipote Simone Stefan, che hanno rispettivamente redatto e rivisto la prima bozza della bibliografia. Questo libro è dedicato a mio marito, William V. Harris, a cui sono particolarmente grata per il costante incoraggiamento e la pazienza con cui si è prestato a leggere varie redazioni del testo. Ringrazio anche gli amici e i membri della mia famiglia che mi hanno sentito parlare di questo libro un po’ troppo a lungo, e specialmente mia sorella Marisa Patriarca per avere introdotto in questo mondo la mia carissima nipote Alice. In questi ultimi anni è stato bellissimo stare con Alice e guardarla diventare una bambina sensibile e intellettualmente curiosa. È lei che mi ha aiutato a porre altre cose in una più giusta prospettiva.

ITALIANITÀ LA COSTRUZIONE DEL CARATTERE NAZIONALE

I OZIO E RIGENERAZIONE Io non credo di ingiuriare i miei compatrioti dicendo loro con franco animo queste verità acerbe. Vincenzo Gioberti, 1843 Sarò forse detto non amator della patria, se veggo e confesso i vizi di lei? Cesare Balbo, 1844

In Europa circolano descrizioni negative degli italiani almeno dalla fine del Medioevo, quando non era affatto raro che i banchieri e i mercanti lombardi e fiorentini venissero accusati di avarizia, irreligiosità, lussuria e disonestà1. Con il mutare dei tempi e delle circostanze, queste immagini negative acquistavano nuove e differenti connotazioni: mentre nel XVI e XVII secolo traducevano l’ostilità tra protestanti e cattolici, nel XVIII secolo riflettevano anche la diffusione delle teorie – popolari tra gli illuministi – sulle influenze dell’ambiente sul carattere. In confronto ai popoli dei paesi del Nord gli italiani non godevano di buona fama: un carattere moralmente corrotto dalla superstizione cattolica e dal gesuitismo era reso ancora peggiore dall’indolenza e dall’effe1 Per alcuni esempi cfr. J.P. Colella, Anti-Italian Attitudes in Medieval and Renaissance England, tesi di dottorato, Columbia University, 1989, e H. Heller, Anti-Italianism in Sixteenth-Century France, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2003.

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Italianità. La costruzione del carattere nazionale

minatezza «tipiche» delle popolazioni che vivevano in un clima meridionale. Anche la vasta letteratura del Grand Tour fece la sua parte, consolidando un proprio assortimento di immagini e stereotipi poco lusinghieri: spesso i viaggiatori descrivevano gli abitanti della penisola come individui indolenti, moralmente e sessualmente disinvolti, facili a menare le mani e a ricorrere al coltello2, malgrado altrettanto spesso trovassero aspetti piacevoli proprio in alcuni di questi atteggiamenti. Uno dei viaggiatori del Grand Tour, il medico inglese Samuel Sharp, nel 1768 si attirò la reazione risentita di Giuseppe Baretti, un letterato piemontese che si era stabilito in Inghilterra. Nel suo Account of the Manners and Customs of Italy Baretti smentì in maniera indignata le accuse del viaggiatore inglese, dichiarando che costui aveva male interpretato le usanze italiane perché ignorava la lingua e aveva una conoscenza solo superficiale del paese3. Fin dal XVII secolo, il tono difensivo con cui diversi letterati italiani parlavano della tradizione letteraria dell’Italia segnalava che erano consapevoli di quanto fosse in genere scarsa la considerazione di cui i loro conterranei godevano nel resto dell’Europa4. Tuttavia non sembra che nel XVIII secolo altri abbiano seguito l’esempio di Baretti. In realtà gli intellettuali illuministi, frustrati dall’im-

2 Per una trattazione esauriente di come gli europei vedevano e descrivevano l’Italia e gli italiani in una varietà di scritti – dispacci diplomatici, resoconti di viaggio, libri di storia – dalla fine del XVII alla metà del XIX secolo, cfr. F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, vol. 3, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973, pp. 945-1481. Per una trattazione più specifica dei resoconti di viaggio, specialmente dei viaggiatori del Grand Tour, cfr. C. Bernari, C. de Seta, A. Mozzillo e G. Vallet, L’Italia dei grandi viaggiatori, a cura di F. Paloscia, La Cromografica, Roma 1986; e J. Black, Italy and the Grand Tour, Yale University Press, New Haven-London 2003, che si occupa in particolare della corrispondenza privata dei grandi viaggiatori inglesi. Cfr. anche C. Chard, Pleasure and Guilt on the Grand Tour. Travel Writing and Imaginative Geography 16001830, Manchester University Press, Manchester-New York 1999. 3 G. Baretti, An Account of the Manners and Customs of Italy: With Observations on the Mistakes of Some Travellers with Regard to the Country, 2a ed., T. Davies, London 1768. Una traduzione in italiano apparve solo nel 1818. Il testo di S. Sharp era intitolato Letters from Italy: Describing the Customs and Manners of that Country in the Years 1765 and 1766, R. Cave, London 1766. 4 Cfr. F. Waquet, Le modèle français et l’Italie savante. Conscience de soi et perception de l’autre dans la république des lettres, 1560-1750, Ecole Française de Rome, Rome 1989.

I. Ozio e rigenerazione

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mobilismo dei governanti italiani e dalla continuità del potere della Chiesa cattolica, condividevano una visione piuttosto cupa degli abitanti della penisola: nel Regno delle Due Sicilie, per esempio, negli anni Ottanta del Settecento Giuseppe Palmieri lamentava l’«inerzia», il «funesto torpore», l’atmosfera di «trascurataggine» e di «indolenza» che avvolgevano tutto il paese5. Palmieri si riferiva al regno meridionale, ma più o meno nello stesso periodo e in un luogo più a settentrione, mentre accusava il clero cattolico di essere la causa principale della rovina dell’Italia, un altro intellettuale illuminista, Carlantonio Pilati, se la prendeva anche con il clima delle regioni meridionali, che rendeva la gente «poltrona, timida, viziosa e amante della superstizione»6. E Pietro Verri, nel denunciare la dominazione del clero, lamentava che nell’Italia intera i costumi erano corrotti al punto tale che in tutta Europa era diventato imbarazzante dire «io sono italiano»7. Queste visioni pessimistiche non impedivano di credere nella possibilità di un cambiamento, e in effetti la letteratura dell’Illuminismo italiano è piena di progetti di riforme. Tuttavia ne furono realizzate poche, e ciò che invece si materializzò nel 1796 fu l’esercito francese al comando di Napoleone. Fu in questo periodo che gli italiani che appoggiavano i nuovi regimi instaurati dai francesi cominciarono a parlare sempre più della necessità di una rigenerazione dell’Italia. Il termine «rigenerazione» – una parola chiave nel vocabolario della rivoluzione – aveva una varietà di significati e di aree di applicazione, ma veniva spesso usato per trasmettere l’idea che l’Italia doveva risollevarsi dal suo stato di estremo declino e tor5 Cit. in F. Venturi, Il movimento riformatore degli illuministi meridionali, in «Rivista storica italiana», 74, 1962, p. 14. 6 C. Pilati, Di una riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia, 2a ed., Villafranca 1770, ora in F. Venturi (a cura di), Illuministi italiani, vol. 3, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Ricciardi, Milano-Napoli 1958, p. 587. Sugli intellettuali illuministi italiani come critici severi dei costumi nazionali (anche se nel contesto della problematica dello «spirito pubblico» e non della nazione) cfr. anche M. Rosati, Il patriottismo italiano. Culture politiche e identità nazionale, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 109. 7 P. Verri, Decadenza del papato, idea del governo di Venezia e degli italiani in generale, in Id., Scritti vari, a cura di G. Carcano e V. Salvagnoli, Le Monnier, Firenze 1854, vol. I, p. 57. Il pezzo non è datato ma fu probabilmente scritto negli anni Ottanta del Settecento.

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nare al livello di civiltà che aveva raggiunto nel passato, in tempi migliori, quando «aveva date le leggi all’universo», come dichiarò Vincenzo Cuoco nel 18038. Probabilmente consapevoli del senso di superiorità dei francesi nei confronti degli italiani9, gli intellettuali che appoggiavano il regime napoleonico, come lo stesso Cuoco, erano ansiosi di mettere in risalto le glorie italiane del passato10. Allo stesso tempo ammettevano la difficoltà del compito che li attendeva. In un articolo sul «Giornale italiano», l’organo ufficiale del Regno d’Italia napoleonico, Cuoco definiva la missione di «rigenerare una nazione» come «il più sublime disegno» che un grand’uomo potesse immaginare, ma anche come un’impresa ben più difficile che creare una nazione11. L’idea che il «carattere» italiano fosse in uno stato miserevole e che dovesse essere rigenerato permeava anche il discorso nazional-patriottico negli anni centrali del Risorgimento tra il 1815 e il 1860. I patrioti, smaniosi di proclamare l’unicità culturale e perfino la superiorità della nazione allo scopo di rivendicare il loro storico diritto a uno Stato indipendente, dovevano comunque riconoscere l’inferiorità politica e la stagnazione dell’Italia di quei tempi (verso la metà degli anni Venti dell’Ottocento il poeta francese Alphonse de Lamartine la definiva una terra in cui «tutto dorme»), per non parlare dell’entusiasmo piuttosto scarso che gli 8 V. Cuoco, Statistica della repubblica italiana. Scritti inediti, a cura di V. Gatto, Archivio Izzi, Roma 1991, p. 71. Sui significati del termine «rigenerazione» durante il triennio rivoluzionario (1796-1799) cfr. S. Nutini, «Rigenerare» e «rigenerazione»: alcune linee interpretative, in E. Pii (a cura di), Idee e parole nel giacobinismo italiano, Centro Editoriale Toscano, Firenze 1990, pp. 49-63; cfr. anche E. Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano nel triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto Veneto di scienze, lettere e arti, Venezia 1990, pp. 153-154. Leso nota inoltre che nella prima metà del XIX secolo il termine «rigenerazione» veniva spesso usato per indicare quello che in seguito fu chiamato esclusivamente Risorgimento. 9 Sull’immagine che i francesi avevano degli italiani nel periodo napoleonico cfr. M. Broers, Cultural Imperialism in an European Context? Political Culture and Cultural Politics in Napoleonic Italy, in «Past and Present», 170, 2001, pp. 152-180. 10 Oltre a Cuoco si vedano anche gli scritti raccolti in A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un «celebre» concorso (1796), Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1964. 11 V. Cuoco, recensione di Le vite de’ famosi capitani d’Italia, in «Giornale Italiano», n. 164, 1805, ora in Id., Scritti vari, I, Periodo milanese (1801-1806), a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Laterza, Bari 1924.

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abitanti della penisola mostravano per la causa nazionale. Pertanto, era piuttosto raro che alla glorificazione della civiltà italiana non si accompagnasse anche una denuncia dei molti «vizi» che bisognava assolutamente sradicare dalla natura degli italiani perché l’Italia potesse riconquistare la sua posizione legittima in Europa. L’Italia ideale dell’immaginario patriottico contrastava nettamente con la dura realtà del suo popolo «degenerato». Il modo in cui i patrioti percepivano e rappresentavano gli italiani rispecchiava solo in parte le differenze tra i propri atteggiamenti e modi di vivere e quelli della maggior parte della popolazione. Certamente queste differenze erano significative12, ma, cosa ancora più importante, le rappresentazioni costruite dai patrioti erano strettamente correlate a un fattore, vale a dire alla misura in cui essi accettavano o interiorizzavano13 le narrazioni, i tropi e gli stereotipi (in particolare quello del meridionale indolente ed effeminato) che circolavano in Europa almeno dalla metà del XVIII secolo. Esprimendosi all’interno di narrazioni e di schemi interpretativi che erano per lo più emersi altrove, nei maggiori paesi europei, i patrioti italiani reagivano criticamente a queste rappresentazioni, e tuttavia allo stesso tempo partecipavano alla loro riproduzione14. Così, a livello 12 Considero scontata l’esistenza di queste differenze e quindi non mi ci soffermerò. Invece M. Broers, The Napoleonic Empire in Italy, 1796-1814. Cultural Imperialism in a European Context?, Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York, 2005, pp. 291-294, vi si sofferma più a lungo per spiegare la genesi dell’atteggiamento autocritico, in un primo tempo tra i piemontesi che collaboravano con i francesi, e più tardi tra le élites del nuovo Stato italiano. Tuttavia, le origini di questo atteggiamento risalivano a prima del periodo napoleonico. 13 Sulla «interiorizzazione» degli stereotipi cfr. S. Deane, Introduction, in T. Eagleton, F. Jameson ed E.W. Said (a cura di), Nationalism, Colonialism, and Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1990, pp. 3-19. C. de Seta sostiene che gli italiani acquisirono una certa coscienza di se stessi nello «specchio del Grand Tour», ma non ne elabora forma e contenuto: L’Italia nello specchio del Grand Tour, in C. de Seta (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 5, Il paesaggio, Einaudi, Torino 1982, p. 135. 14 Jane Schneider ha sottolineato come la posizione debole dell’Italia nell’Europa del XIX secolo ha fornito le basi per una sorta di discorso «neo-orientalista» sulla penisola, discorso che continua ancora oggi. Cfr. Introduction: The Dynamics of Neo-Orientalism in Italy (1848-1995), in J. Schneider (a cura di), Italy’s «Southern Question»: Orientalism in One Country, Berg, Oxford-New York 1998, pp. 1-23. Tuttavia, malgrado le differenze di potere tra i paesi europei, le rappresentazioni che certi europei (più forti e influenti) si costruivano di altri europei (più deboli e meno influenti) non hanno mai avuto la stessa rile-

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discorsivo, l’Italia veniva costruita come nazione in una conversazione europea sul tema dei «vizi» e delle «virtù» nazionali, e tra partner diseguali sia in termini di potere che di percezione di sé15. Da questa conversazione i patrioti italiani derivavano una pratica di auto-oggettivazione permeata di autostereotipi negativi, che coesisteva con rivendicazioni enfatiche e compensatrici del proprio primato culturale16. Queste rappresentazioni del sé nazionale erano fortemente connotate in termini di genere, analogamente a quanto avveniva con il significato che i patrioti davano ai concetti di degenerazione e rigenerazione. Ebbe origine allora un modello discorsivo che caratterizzò per molto tempo il patriottismo nazionale italiano, un modello trasversale, per così dire, a tutto lo schieramento politico, dai moderati ai radicali, dai monarchici ai repubblicani, dai federalisti agli unitari. Le pagine che seguono saranno dedicate all’analisi di questo modello discorsivo negli scritti politici di figure di primo piano del Risorgimento italiano, al fine di estrapolarne gli assunti e i punti di vista più rilevanti e di riflettere sulle loro implicazioni. Delle virtù e dei vizi: il primato e l’ozio degli italiani17 Il trattato politico più letto del Risorgimento, Del primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti, non è certamente noto per il senso della misura con cui dispensa elogi agli italiani. Pubblicato a Bruxelles nel 1843 e ristampato molte volte18, era ope-

vanza e lo stesso impatto delle rappresentazioni che i colonizzatori europei davano dei colonizzati non europei. 15 N. Moe mi ha aiutato a riflettere su questa dinamica transnazionale nella creazione culturale dell’Italia: cfr. The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley 2002. 16 Su queste rivendicazioni cfr. G. Bollati, L’Italiano, in L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1996, p. 34 (pubblicato in origine in Storia d’Italia, vol. 1, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 949-1022). 17 Il resto del capitolo è una versione leggermente riveduta del mio Indolence and Regeneration: Tropes and Tensions of Risorgimento Patriotism, in «The American Historical Review», 110, 2005, pp. 280-308, riprodotto con il permesso dell’«American Historical Review». 18 Cfr. la prefazione di U. Redanò in V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Bocca, Milano 1938, p. IX.

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ra di un abate piemontese, ex mazziniano, che aveva una buona conoscenza sia degli autori classici che dei contemporanei – da Cicerone a Machiavelli, da Rousseau a Madame de Staël, da Malthus a Sismondi – e che trascorse gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento in esilio a Parigi e a Bruxelles19. Seguendo l’esempio di Vincenzo Cuoco, che aveva già espresso l’idea di un primato degli italiani nel suo Platone in Italia (1804-1806)20, Gioberti proclamava la superiorità della civiltà italiana, una superiorità che aveva una base etnica (gli italiani erano il ceppo «più illustre» di un mitico popolo mediterraneo, i Pelasgi) ed era legata al cattolicesimo, la religione «più perfetta»21 il cui capo risiedeva, non a caso, nella penisola. Il primato dell’Italia si estendeva dall’azione (la creatività fuori del comune, in particolare nel campo dell’arte, della politica e della religione) al pensiero (da quello scientifico a quello estetico), tanto che Gioberti arrivò a proclamare l’Italia la «madre di tutte le nazioni». La sua enfasi sulla grandezza della civiltà italiana e dei suoi valori universali era intesa a nobilitare gli italiani e ad aiutarli a risollevarsi dallo stato di abiezione in cui si trovavano. La caratteristica dominante del testo (e la più fastidiosa per il lettore odierno) è appunto la continua glorificazione della civiltà italiana che Gioberti riversò in centinaia di pagine, ed è comprensibile che gli storici e la critica abbiano sottolineato soprattutto questo aspetto22. Vi sono tuttavia anche altri aspetti che meritano attenzione, per esempio il fatto che l’autore abbia inserito alla fine della sua prolissa celebrazione un paragrafo intitolato Invettiva contro l’ozio italiano in cui denunciava i vizi principali degli abitanti della penisola e in particolare delle classi privilegiate: «Il male sommo 19 Sulla vita di Gioberti cfr. Dizionario biografico degli italiani; e G. Rumi, Gioberti, Il Mulino, Bologna 1999. 20 Sviluppando il lavoro di Giambattista Vico, Cuoco basava la sua tesi sull’idea che nella penisola esisteva una civiltà molto antica e sapiente ben prima dell’arrivo dei coloni greci: cfr. il suo Platone in Italia, a cura di F. Nicolini, Laterza, Bari 1928, p. 259 (ristampa 2006). 21 V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, a cura di G. Balsamo-Crivelli, vol. 2, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1920, p. 147. Questa edizione si basa sulla seconda edizione riveduta e corretta pubblicata nel 1844 (quella originale fu pubblicata da Meline a Bruxelles nel 1843). Le mie citazioni sono tratte da questa edizione. Non ne è disponibile alcuna edizione critica recente. 22 Vedi, per esempio, Bollati, L’Italiano cit., pp. 106-108.

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d’Italia, lo ripeto, consiste nella declinazione volontaria del genio nazionale, nell’indebolimento degli spiriti patrii, nell’eccessivo amore dei guadagni e dei piaceri, nella frivolezza dei costumi, nella servitù degli intelletti, nell’imitazione delle cose forestiere, nei cattivi ordini degli studi, della pubblica e privata disciplina. [...] Chi impedisce i nobili e i ricchi di studiare e scrivere? [...] Chi obbliga i giovani gentiluomini a infemminire nell’ozio?»23. Questo passo merita di essere sottolineato perché associa due importanti immagini a cui gli scrittori del Risorgimento ricorrevano molto spesso per rappresentare lo stato di declino e di inadeguatezza degli italiani: l’ozio e l’effeminatezza. Il vero male dell’Italia era l’avvilimento della volontà24, un malessere morale che aveva indebolito e reso effeminato un popolo che precedentemente era stato virile. Naturalmente, le metafore sulla effeminatezza non erano diffuse solo tra gli italiani. Come ha osservato Carroll Smith-Rosenberg, «le raffigurazioni di genere, di per se stesse asimmetriche, segnalano flussi di potere asimmetrici. Il potere è associato con la virilità, la sua assenza con la svirilizzazione (emasculation) e con il femminile»25. Seguendo l’esempio di Machiavelli, la retorica del discorso politico repubblicano in età moderna operava una netta distinzione tra virtù maschile e corruzione femminile26. Verso la fine del XVIII secolo, per esempio, la critica nei confronti del «francese degenerato ed effeminato» era un elemento fondamentale del discorso dei repubblicani francesi: la colpa dei problemi della Francia veniva addossata al carattere nazionale, che si diceva fosse stato corrotto dagli aristocratici e dall’eccessivo potere delle donne27. Gioberti, Del primato cit., vol. 3, pp. 200-201. Ringrazio Jeffrey Freedman per avermi aiutato a comprendere il significato di «declino volontario». 25 C. Smith-Rosenberg, Political Camp or the Ambiguous Engendering of the American Republic, in Gendered Nations. Nationalism and Gender Order in the Long Nineteenth Century, Berg, Oxford-New York 2000, p. 271. 26 Per un’analisi in chiave di genere dell’opera di Machiavelli cfr. H.F. Pitkin, Fortune Is a Woman. Gender and Politics in the Thought of Niccolò Machiavelli, The University of Chicago Press, Chicago-London 1994, e W. Brown, Manhood and Politics. A Feminist Reading in Political Theory, Rowman and Littlefield, Totowa 1988. Sul genere nel discorso del repubblicanesimo francese cfr. J.B. Landes, Women and the Public Spere in the Age of the French Revolution, Cornell University Press, Ithaca-London 1988. 27 D. Bell, The Cult of the Nation in France. Inventing Nationalism, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London 2001, cap. 5. 23 24

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Tuttavia, nel caso di alcuni popoli, l’effeminatezza non era soltanto una deviazione temporanea dalla norma della virilità. Un influente teorico politico illuminista come Montesquieu, che credeva che il clima contribuisse a formare gli atteggiamenti umani e le istituzioni, separava in senso spaziale il binomio maschio-femmina attribuendo agli «orientali» e ai meridionali caratteristiche tradizionalmente associate al femminile28. L’Italia rientrava in quest’ultima categoria. All’inizio dell’Ottocento queste immagini e metafore a sfondo sessuale e di genere, rafforzate da un processo più che secolare di demilitarizzazione della società italiana29, permeavano profondamente ogni tipo di discorso sugli italiani. Le lettere degli agenti francesi in Italia avvertivano che non ci si poteva fidare di loro perché avevano acquisito «lo stesso carattere, gli stessi atteggiamenti delle donne, il sesso subordinato (assujetti)», mentre allo stesso tempo nutrivano nel cuore forti passioni maschili30. In uno dei testi più autorevoli del primo Romanticismo, Corinne, ou l’Italie (1807), Madame de Staël, la fiera oppositrice di Napoleone, rappresentava la triste situazione dell’Italia attraverso il tragico destino dell’eroina eponima, e dipingeva gli italiani come un popolo effeminato e indolente: «In Italia gli uomini valgono molto meno delle donne, perché hanno sia i difetti delle donne che i propri»31, di28 Moe ha recentemente richiamato l’attenzione sul fatto che in Montesquieu l’asse nord-sud a volte si combina con il più noto contrasto Europa-Asia. Cfr. Moe, View from Vesuvius cit., pp. 23-27. Moe sottolinea anche che nel XIX secolo il nome di Montesquieu divenne quasi sinonimo della teoria del clima. E ciò malgrado il fatto, dobbiamo aggiungere, che nei suoi scritti offrisse una visione più complessa dei fattori che influenzano le istituzioni e il carattere dei popoli. 29 Su questo processo cfr. G. Hanlon, The Twilight of a Military Tradition. Italian Aristocrats and European Conflicts, 1560-1800, Holmes and Meier, New York 1998. L’unica eccezione a questa tendenza era il Piemonte. 30 Cit. in Venturi, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1128; sul punto di vista francese secondo cui gli italiani erano effeminati cfr. anche M.G. Broers, Noble Romans and Regenerated Citizens: The Morality of Conscription in Napoleonic Italy, 1800-1814, in «War in History», 8, 2001, pp. 249-270. Si riteneva che alla radice di tale comportamento degli italiani vi fossero soprattutto la scarsa attitudine militare dei membri della nobiltà e l’influenza della Chiesa cattolica. 31 Madame de Stäel-Holstein, Corinne, ou l’Italie, Editions des Femmes, Paris 1979, vol. 1, p. 148 (cfr. trad. it., Corinna o l’Italia, Cassini, Roma 1961). La traduzione è mia. Occorre ricordare che ai primi del XIX secolo questo testo veniva usato come guida da molti viaggiatori europei che visitavano l’Italia. Si pos-

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chiara il protagonista maschile, l’inglese Lord Nelvil, e Corinna – che è per metà italiana – pur difendendo i suoi compatrioti dice: «Gli italiani sono indolenti come gli orientali, nella vita di tutti i giorni [...]. La vita non è niente di più che un sonno pieno di sogni sotto un bel cielo»32. Il ricorso all’immagine di un’Italia femminile per indicarne lo stato di inferiorità e di soggezione poteva naturalmente servire anche a creare un senso di solidarietà per il paese e per la sua popolazione. In effetti, come ha sostenuto di recente Maura O’Connor, l’immagine femminilizzata dell’Italia di Madame de Staël, di Lord Byron e dei tanti viaggiatori vittoriani che leggevano i loro libri di viaggio e seguivano i loro itinerari, contribuì a sollecitare un certo numero di membri della middle class inglese a dare il proprio sostegno alla causa nazionale italiana33. Ma la simpatia per il paese non implicava necessariamente anche l’accettazione del suo popolo, anzi, spesso le opinioni sugli italiani erano in contrasto con l’immagine dell’Italia come bella (e sfortunata) fanciulla. I viaggiatori che andavano in visibilio per la bellezza del paese e per il suo patrimonio culturale avevano ben altra considerazione degli italiani, che secondo alcuni sprecavano il loro tempo «nelle loro passeggiate giornaliere per il Corso» o «in galanterie affettate, se non licenziose»34. Se vivevano in uno «stato di soddisfatta soggezione», la colpa era in gran parte loro. Ora, l’immagine che i patrioti si costruivano dell’Italia e del popolo presentava delle analogie con il modello appena considerato. Mentre gli artisti rapsono trovare osservazioni ancora più critiche sugli italiani nel saggio della de Staël De la litérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales, Garnier, Paris 1998 (ed. or. 1800), cap. 10. Sull’impatto che i lavori della de Staël ebbero sui romantici italiani (che erano per definizione liberali e patrioti) cfr. J.C. Isbell, The Italian Romantics and Madame de Staël: Art, Society and Nationhood, in «Rivista di letterature moderne e comparate», 50, 1997, pp. 335-369. Alla de Staël si deve anche la diffusione indiretta delle idee di Montesquieu in Italia in un periodo in cui gli si prestava meno attenzione: cfr. D. Felice, Modération et justice. Lectures de Montesquieu en Italie, Fuorithema, Bologna 1995, p. 93. Sul genere in Corinne cfr. anche M. O’Connor, The Romance of Italy and the English Political Imagination, St. Martin’s Press, New York 1998, pp. 27-32, e G. Sluga, Gender and the Nation: Madame de Staël or Italy, in «Women’s Writing», 10, 2003, pp. 241-251. 32 de Staël, Corinne cit., pp. 154-155. 33 O’Connor, The Romance of Italy cit., spec. cap. 2. 34 Ivi, p. 47.

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presentavano l’Italia come una donna in lacrime o con una espressione triste e pensosa35 e i poeti ne lamentavano l’infelice destino (come Giacomo Leopardi, nella famosa canzone All’Italia)36, l’effeminatezza degli italiani era indice di uno stato di declino morale e politico senza riscatto, condizione che incontrava la più dura condanna. Torneremo al tropo dell’effeminatezza più avanti, quando osserveremo come i contemporanei analizzavano le origini di questa condizione di declino. Consideriamo ora l’altro tropo che nel testo di Gioberti era strettamente legato all’effeminatezza, e cioè l’ozio. A questo termine complesso, che ha accezioni sia positive che negative e una storia di «mobilità verso l’alto» a partire dal Medioevo, nell’Ottocento veniva dato un significato esclusivamente negativo: indicava non soltanto pigrizia ma un modo di essere caratterizzato da una inattività passiva37. In effetti, il termine «ozio» faceva pensare a uno stato di passività e di debolezza morale che ben si prestava a descrivere un popolo che aveva perduto l’indipendenza ed era caduto in uno stato di soggezione degradante che alcuni paragonavano alla schiavitù. Secondo un altro importante propugnatore della causa nazionale, il piemontese Cesare Balbo, ben lungi dall’essere semplicemente un peccato del singolo, l’ozio era un pericoloso «vizio di Stato»38. Balbo, ammiratore di Montesquieu e autore di uno dei testi che posero le basi del liberalismo moderato, Delle speranze d’Italia (1844), usava la nozione di ozio quasi alla stessa maniera di Machiavelli: per il segretario fiorentino «ozio» era l’opposto di «virtù» e funzionava come una «etichetta per tutte le caratteristiche che considera[va] dannose per la 35 Cfr. F. Mazzocca, L’iconografia della patria tra l’età delle riforme e l’Unità, in A.M. Banti e R. Bizzocchi (a cura di), Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci, Roma 2002, pp. 89-111. 36 G. Leopardi, Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Einaudi, Torino 1993, pp. 3-10. 37 Sulla crescente importanza e sui cambiamenti di significato della nozione di ozio dal Medioevo al XIX secolo cfr. W. Spiegelman, Majestic Indolence: English Romantic Poetry and the Work of Art, Oxford University Press, New York 1995. Anche S.C. Hughes ha studiato i significati in gran parte negativi del termine nell’Italia del XIX secolo: cfr. The Theory and Practice of Ozio in Italian Policing: Bologna and Beyond, in «Criminal Justice History. An International Annual», 6, 1985, pp. 89-103. 38 C. Balbo, Pensieri ed esempi, Le Monnier, Firenze 1854, p. 16.

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vita civica»39. Nel caso di Gioberti e Balbo, questa preoccupazione repubblicana per la vita civica era stata rimpiazzata dalla preoccupazione per l’esistenza e l’autonomia della nazione. Il significato che questi autori attribuivano a «ozio» non si avvicinava tanto a quello che gli dava Machiavelli (con il quale, in quanto cattolici e monarchici, non avevano molta affinità) quanto alla nozione di paresse (indolenza o pigrizia) di Montesquieu e di Madame de Staël, e cioè un attributo che caratterizzava, anche se in vari modi e gradi, i popoli meridionali e gli «orientali». Gli scritti di Balbo forniscono moltissime prove di questa correlazione. La sua denuncia dell’ozio, che a suo modo di vedere era il vizio più evidente della popolazione italiana, è rivelatrice: «Il vizio essenziale della patria nostra è l’ozio [...]. L’ozio, il beato far niente, od anzi (come udii riprendere sé stesso un uomo di Stato italiano), il beatissimo far niente [il corsivo è dell’Autore], la massima che il mondo va da sé, sono il gran vizio italiano [...]. Non è vizio nativo, naturale, posciaché noi fummo la nazione più operosa del mondo; ma è ormai un vizio vecchio, nazionale [...]. Non è ozio Orientale [il corsivo è mio], ma è ozio ancora anticristiano»40. In questo brano la significativa equazione tra l’ozio e il «beato far niente» e il riferimento all’Oriente non ci riportano a Machiavelli ma allo sguardo dei viaggiatori e degli osservatori stranieri – e sia Montesquieu che la de Staël erano tra questi – che avevano descritto decine di volte gli abitanti della penisola come individui indolenti e moralmente disinvolti, e che Balbo citava spesso nelle sue riflessioni patriottiche41. 39 Cfr. H. Ingman, Machiavelli’s «ozio» and Montaigne’s «oysiveté», in «French Studies Bulletin», 30, 1989, p. 7. Nel proemio al libro primo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli fa riferimento a «quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio», e nel libro secondo accenna all’influenza «effeminatrice» della religione cristiana «interpretata [...] secondo l’ozio, e non secondo la virtù» (nella edizione a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 2000, le citazioni sono rispettivamente a pp. 6 e 141-142). 40 C. Balbo, Le speranze d’Italia, a cura di A. Corbelli, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1925, p. 265 (ed. or. 1844). Sull’ammirazione di Balbo per Montesquieu cfr. Felice, Modération et justice cit., pp. 99-100, e M. Fubini Leuzzi, Introduzione, in C. Balbo, Storia d’Italia e altri scritti editi e inediti, a cura di M. Fubini Leuzzi, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1984, p. 15. 41 Per un altro esempio di questa dinamica, cfr. il dialogo Lo straniero, in Balbo: Pensieri ed esempi cit., pp. 347-378, e Pensieri sulla storia d’Italia: Studi,

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Le opere di Balbo mostrano con chiarezza la dinamica che frequentemente è all’origine del discorso patriottico italiano, e cioè da un lato l’accettazione e l’interiorizzazione di stereotipi negativi come l’idea dei «meridionali indolenti», e dall’altro lo sforzo di reagire a queste rappresentazioni e di correggerle. Balbo accusava i suoi conterranei di essere oziosi, ma sottolineava con decisione la storicità e quindi la natura temporanea dell’ozio italiano: per questa ragione rimarcava il fatto che non si trattava di un vizio «orientale», volendo dire con questo che l’ozio non era una caratteristica innata degli italiani – una implicita correzione della teoria del clima di Montesquieu, che tendeva a dare una spiegazione naturale del carattere e a portare l’Europa meridionale pericolosamente vicina alla zona del mondo che costituiva l’Altro dell’Europa. Per Balbo, come per altri patrioti, la rinascita e la rigenerazione nazionale significavano un recupero totale della posizione che spettava all’Italia nell’Europa cristiana e industriosa, e quindi la fine di qualsiasi possibile associazione degli italiani con gli «orientali» e con le loro «spregevoli» caratteristiche. Ed è per questo che Balbo definiva «anticristiano» l’ozio italiano, che a suo modo di vedere era di per sé contrario alla sua idea della logica che guidava la civiltà occidentale, in cui il cristianesimo, lo sviluppo economico e quello delle istituzioni politiche liberali procedevano fianco a fianco e costituivano un tutto unico. Dal momento che lo sviluppo dell’Europa cristiana contrastava storicamente con il presunto immobilismo dell’Oriente «dispotico» e non cristiano, la situazione dell’Italia di quei tempi rappresentava una negazione della sua identità cristiana ed europea42. Al contrario di Gioberti, Balbo rifiutava l’idea di un primato perenne dell’Italia, idea che, se giustificabile come espressione di un sentimento patriottico, era comunque chiaramente smentita Le Monnier, Firenze 1858, pp. 549-554. Ambedue questi lavori furono pubblicati postumi, ma vennero scritti prima delle Speranze d’Italia. L’espressione «dolce far niente» ha avuto un’ampia diffusione fuori d’Italia già dalla fine del Settecento: per gli Stati germanici in particolare cfr. B. Gerola, Appunti per la storia dell’espressione «il dolce far niente», in Festskrift tillägnad Axel Boëthius den juli 1949, Göteborg 1949, pp. 31-37. 42 Vedi anche F. Traniello, Incunaboli d’imperialismo europeo. Cesare Balbo, l’Occidente e il Mediterraneo, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», 1, 1998, pp. 263-279.

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dalla situazione della penisola in confronto alla potenza di altri Stati europei. Se in quel periodo vi fosse stata una competizione per il primato, l’anglofilo Balbo non avrebbe avuto alcun dubbio sulla vittoria dell’Inghilterra: con la sua industriosità e con le sue istituzioni liberali, l’Inghilterra era il campione dell’operosità – il contrario dell’ozio – e un modello per i paesi e i popoli contemporanei che volessero raggiungere l’indipendenza. Balbo aveva anche un’altra certezza: l’Italia versava in uno stato di estremo degrado, ma le cose non erano andate sempre in questo modo. C’era stato un tempo in cui gli italiani erano l’esatto contrario di un popolo di oziosi. Esamineremo più avanti la posizione di questi autori sulla questione delle origini storiche dell’ozio italiano. Ora è necessario sottolineare ulteriormente che come immagine della degenerazione dell’Italia l’ozio era una categoria fortemente connotata in termini sessuali e di genere. Per Gioberti, come abbiamo visto, l’ozio rendeva effeminati i giovani, mentre per Balbo era all’origine sia della scomparsa della virtù militare, sia di una «mollezza» impudente, una combinazione di amore per la lussuria e di disinvoltura sessuale che si traduceva in effeminatezza43. In apparenza, sia Gioberti che Balbo accusavano di oziosità l’intera popolazione italiana, ma in realtà avevano in mente (in contrasto con quanto avverrà dopo l’unificazione) più le élites che le classi popolari: per questi moderati, il fardello più pesante nello sforzo della rigenerazione nazionale ricadeva proprio sulle spalle delle élites. Mentre in Inghilterra i gentlemen erano sempre impegnati in qualche attività anche nel tempo libero, in Italia, scriveva Balbo, «il Contino e il signorotto è [sic!] fin dalle fasce educato alla morbidezza, alla pigrizia, alla nullità»44. Una educazione simile non poteva produrre la leadership necessaria per dare corpo alla rigenerazione del paese. Non va dimenticato che spesso queste critiche venivano proprio dall’interno dei gruppi sociali da cui ci si aspettava dovesse emergere questa leadership. Mentre Gioberti proveniva da una modesta famiglia della piccola borghesia, Balbo era un nobile che aveva passato diverso tempo a Parigi e altrove al servizio di Napoleone (nei confronti del quale era

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Balbo, Pensieri sulla storia d’Italia cit., p. 513. Id., Pensieri ed esempi cit., p. 106.

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diventato sempre più critico), e poi in esilio. Di certo conosceva bene sia le abitudini della nobiltà, sia il linguaggio repubblicano che le fustigava per l’influenza negativa che avevano sulla società. In gioventù, Balbo e i suoi amici più stretti amavano leggere Rousseau e condividevano una passione per il «culto del forte sentire» di Vittorio Alfieri e per i suoi scritti contro la tirannia. Durante la Restaurazione la cultura politica di questi nobiluomini liberali combinava elementi di repubblicanesimo francese con idee piuttosto conservatrici, come l’adesione al cattolicesimo (anche se spesso permeato da aspirazioni al rinnovamento spirituale)45. Il loro desiderio di redimere la patria era frequentemente espresso nel linguaggio del recupero dell’onore virile, un valore che, come Alberto M. Banti ha recentemente sottolineato, era particolarmente sentito nel mondo dell’aristocrazia46. E senza dubbio questo recupero richiedeva l’abbandono di uno stile di vita ozioso. Pur senza raggiungere il livello di elaborazione della problematica dell’ozio che si riscontra in molti lavori di Balbo, la preoccupazione per l’indolenza e l’effeminatezza degli italiani affiorava in numerosi scritti del periodo risorgimentale. Nel suo saggio politico-militare intitolato Della nazionalità italiana (1846), un altro moderato, il colonnello piemontese Giacomo Durando, sottolineava come il carattere italiano avesse perduto quel primato di industriosità che un tempo deteneva e fosse «estremamente infiacchito» a causa di una educazione «calcolatamente evirante»47. Dal momento che non avevano mai avuto una «vera bandiera» intorno alla quale riunirsi e combattere gli invasori, gli italiani avevano perso la fiducia e il senso della dignità. Lo stesso linguaggio si ritrovava nei periodici che fiorirono in vari Stati italiani nella seconda metà degli anni Quaranta dell’Ottocento, durante il periodo di entusiasmo generato dall’atteggiamento riformatore di alcuni governanti e in particolare di Pio IX. In un articolo sulla rivista liberale «L’italiano», pubblicata a Bologna tra la primavera

45 Cfr. E. Passerin d’Entrèves, La giovinezza di Cesare Balbo, Le Monnier, Firenze 1940, pp. 55-62. 46 A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, Einaudi, Torino 2000, pp. 139148. 47 G. Durando, Della nazionalità italiana. Saggio politico-militare, A. Franck, Parigi 1846, p. 249.

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del 1847 e quella del 1848, Augusto Aglebert rappresentava il raggiungimento dell’indipendenza nazionale come una conquista morale, un rinnovamento della propria personalità e delle vecchie abitudini: «La conquista che abbiamo a fare è una conquista tutta morale, la nostra civile esistenza – studiarsi a renderla migliore, fortificandosi nelle virtù, fuggendo il vizio, aborrendo l’ozio, l’inerzia e la mollezza, come i tre più formidabili nemici che si possa aizzarci incontro»48. Se per i moderati l’ozio costituiva il vizio più detestabile, i democratici come Giuseppe Mazzini sembravano preoccuparsi maggiormente di altri aspetti problematici del carattere degli italiani. In uno dei suoi primi articoli apparsi sulla rivista «Giovine Italia», Mazzini sosteneva che il «primo» vizio degli italiani era l’individualismo. In realtà, per individualismo intendeva il municipalismo, l’attaccamento esclusivo alla «piccola patria», la città o il paese di nascita; una tendenza, dichiarava Mazzini, che era stata alimentata dall’oppressione dei governi stranieri, non una inclinazione naturale. C’erano poi altri atteggiamenti comuni a tutti gli italiani: «Nessun popolo ha forse più ostacoli da superare [rispetto agli italiani] – né giova il dissimularli. Abbiamo nemici al di dentro [...]. Abbiamo le divisioni provinciali che i molti secoli di sciagura comune hanno potuto logorare, ma non distruggere. Abbiamo, e questa è la piaga mortale, la mancanza di fede in noi, e nelle forze nostre, sicché molti fra gl’italiani si stimano impotenti a fare [...]. Abbiamo l’inesperienza nelle arti di guerra, l’innata diffidenza dei capi, e il perenne sospetto dei tradimenti, cresciuto in noi dagli eventi»49. In questo passaggio Mazzini non parlava esplicitamente di ozio e non si interessava alla scarsa operosità che preoccupava i moderati come Balbo e Durando, eppure la combinazione degli atteggiamenti che descriveva dava corpo a un misto di impotenza e di mancanza di fiducia in se stessi e negli altri, i cui effetti erano certamente assimilabili a un ozio di tipo politico che rendeva assai difficile qualsiasi azione rivoluzionaria intensa e a lungo terA. Aglebert, Italiani!, in «L’italiano», 20 aprile 1847. G. Mazzini, D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia. Articolo 2, in Id., Interessi e principii, a cura di M. Rago, Bompiani, Milano 1944, p. 47 (orig. in «La Giovine Italia», 1832). 48 49

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mine, il che era estremamente preoccupante per coloro che volevano un cambiamento radicale. L’insistenza di Mazzini sul concetto di «dovere» può anche essere interpretata alla luce di questa lotta contro l’indolenza e la rassegnazione. Altri democratici erano anche più espliciti: Giuseppe Montanelli, un toscano critico nei confronti dei moderati, attribuiva la degenerazione del carattere dei toscani alla «politica eviratrice» dei loro monarchi assoluti50, e sosteneva che «il più grosso ostacolo alla rigenerazione» degli italiani era la loro infingardaggine51.

Nord contro Sud? I vantaggi della varietà Ma che cosa si diceva del Sud del Sud, e cioè dell’Italia meridionale? Il Sud occupava un posto a sé in questa letteratura? I meridionali venivano contrapposti negativamente al resto dell’Italia? Non particolarmente, anche se quasi tutti gli scrittori che abbiamo citato finora erano piemontesi o comunque settentrionali, così come in genere coloro che negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento avevano un ruolo di primo piano nel dibattito e nell’iniziativa sulla questione italiana. Dal momento che nelle discussioni sulla questione nazionale la diversità interna dell’Italia costituiva un argomento irresistibile a favore della confederazione, ovvero della soluzione invocata dalla grande maggioranza dei moderati nel periodo precedente al 1848, le differenze erano certamente prese in considerazione, ma lungi dall’essere contrapposte ed enfatizzate come accadde in seguito, venivano minimizzate e conciliate. Così faceva persino un convinto federalista come Carlo Cattaneo quando rispondeva ai luoghi comuni sugli italiani. Dal canto loro, i mazziniani insistevano incessantemente sull’unità, e vedevano in qualsiasi enfasi eccessiva sulle differenze interne un complotto degli avversari. Almeno nei testi di questi scrittori il Meridione non era ancora l’Altro interno dell’Italia che 50 G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, in Id., Opere politiche 1847-1862, a cura di P. Bagnoli, vol. 2, t. 1, Edizioni Polistampa, Firenze 1997, p. 13 (orig. a cura di Yuri, Società Editrice Italiana, 1853). 51 Ivi, p. 29.

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sarebbe diventato in seguito, e che l’Italia «moderna» dell’immaginario patriottico non poteva riconoscere come proprio52. Verso la fine del Primato, dopo aver sostenuto che la diversità interna dell’Italia costituiva una sintesi autentica, un’immagine speculare dell’Europa e una delle ragioni della sua superiorità, Gioberti delineava alcuni aspetti di ciò che definiva una «geografia morale» del paese: dedicava alcune pagine alla descrizione delle caratteristiche del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, della Liguria, della Toscana e del Lazio, di Napoli e della Sicilia, e magnificava Firenze e Roma, che considerava la più alta espressione del «genio italiano». Egli poneva il «cuore vero» del paese nel centro della penisola, in Toscana e nel Lazio, e nelle loro capitali Firenze e Roma, «i due centri indivisi della lingua, della civiltà, della religione» non solo dell’Italia ma dell’Europa e del mondo53. Secondo Gioberti, in quanto ai tratti del carattere i piemontesi e i napoletani erano ai due estremi, e in un certo senso si compensavano a vicenda perché i primi erano troppo controllati e i secondi troppo esuberanti: «I Napolitani sono l’opposto dei piemontesi, e peccano per eccesso, come questi per difetto: negli uni l’immaginazione, l’ardire, l’impeto, la mobilità, il lusso del pensiero, dell’affetto e dello stile soverchiano e traboccano, negli altri sovente mancano o scarseggiano [...] in tali popoli non manca il valor guerriero, benché i Francesi dicano il contrario»54. E aggiungeva che i grandi successi in campo artistico e scientifico dei napoletani, dall’antichità a tempi più recenti, erano il risultato spontaneo del loro «genio» più che della loro «disciplina», e che si poteva solo immaginare ciò di cui sarebbero stati capaci se solo avessero imparato questa virtù «settentrionale». Quindi, 52 Gli studiosi che hanno lavorato di recente sulla costruzione discorsiva dell’Italia meridionale come l’Altro interno dell’Italia hanno idee diverse riguardo alle fasi iniziali del processo: Moe nel View from Vesuvius cit., sostiene – riferendosi però a testi diversi da quelli esaminati in questa sede, come ad esempio le riviste illustrate e gli scritti di carattere geografico – che le sue basi furono poste già nel periodo risorgimentale, mentre J. Dickie concentra l’attenzione esclusivamente sul periodo postunitario: cfr. Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, 1860-1900, St. Martin’s Press, New York 1999. Per M. Petrusewicz un momento determinante fu la disfatta del 1848: cfr. Come il Meridione divenne una questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998. 53 Gioberti, Del primato cit., vol. 3, p. 168. 54 Ivi, pp. 182-184.

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mentre rafforzavano certi luoghi comuni sul Meridione, le strategie descrittive di Gioberti valorizzavano, come ha osservato recentemente Nelson Moe, anche alcuni aspetti della meridionalità, cosa che almeno in parte può giustificare il successo del Primato55. Parlando dei vizi e delle virtù degli italiani nelle Speranze, neanche Cesare Balbo faceva molte distinzioni tra regione e regione, nonostante anche lui sottolineasse che l’Italia comprendeva «province e popolazioni che differiscono l’una dall’altra come [...] le popolazioni più settentrionali e quelle più meridionali d’Europa»56 (e perciò la migliore soluzione della questione italiana era una confederazione di Stati). In altri scritti, tuttavia, Balbo si dilungava a delineare le particolarità del carattere dei piemontesi, che considerava parzialmente al riparo dalle influenze negative sotto le quali erano cresciute generazioni di italiani. La storia del regno piemontese era differente da quella del resto dell’Italia per una ragione molto importante. Mentre gran parte della penisola era sotto il controllo straniero, la dinastia dei Savoia era stata in grado di conservare la propria indipendenza. Di conseguenza, il valore militare non si era affievolito e la fiducia tra governanti e governati si era rafforzata. Inoltre, in queste regioni i costumi non si erano «corrotti» come nel resto del paese: in particolare i cicisbei – o cavalier serventi, che come vedremo erano l’epitome della degenerazione dell’Italia – erano pochi, le donne erano più virtuose e i giovani meno indolenti57. Meno impetuoso e meno spietato, ma più leale e predisposto alla vita militare: questo era il piemontese, un tipo che dava più l’idea della solidità che della vivacità58.

Clima, storia e i tropi del declino politico Le sue considerazioni sul carattere dei piemontesi ponevano decisamente Balbo nel campo dei pensatori politici che ritenevano il carattere nazionale essenzialmente un prodotto di circostanze e Moe, View from Vesuvius cit., p. 119. Balbo, Speranze cit., p. 34. 57 Id., Della società in Italia, in Lettere di politica e letteratura edite ed inedite precedute da un discorso sulle rivoluzioni, Le Monnier, Firenze 1855 (ed. or. 1823). 58 Id., Del naturale de’ Piemontesi, ivi, pp. 238-262. 55 56

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di esperienze storiche. Secondo questo punto di vista, i fattori naturali come il clima o la razza giocavano un ruolo subordinato, rispetto alla storia, nel dare forma alle virtù e ai vizi dei popoli (almeno di quelli di razza bianca). Non c’è da sorprendersi se i pensatori del periodo risorgimentale lasciavano poco spazio a spiegazioni puramente naturalistiche dei vizi degli italiani59. Ma se il clima svolgeva un ruolo solo marginale, quali erano i veri responsabili della loro degenerazione? Per rispondere a questa domanda dovremo esaminare i testi storiografici in cui il popolo italiano veniva posto, sempre più di frequente nel primo Ottocento, al centro della narrazione storica. Anche in queste narrazioni agiva il tropo dell’effeminatezza, personificato nella figura del cicisbeo. È significativo che il primo a dare una spiegazione complessiva delle radici storiche del problema sia stato uno studioso svizzero che aveva una grande passione per l’Italia, lo storico ed economista politico di sentimenti repubblicani Jean-Léonard-Charles Simonde de Sismondi. Nato a Ginevra, membro del circolo di Madame de Staël, visse per alcuni anni in Toscana in una proprietà acquistata dal padre, un pastore protestante, durante gli sconvolgimenti della Rivoluzione francese e gli anni napoleonici. Avendo adottato l’Italia come seconda patria, si inventò perfino antenati italiani: una famiglia aristocratica pisana, i Simondi (cognome che per combinazione suonava quasi come Simonde, quello vero, e del quale felicemente si appropriò)60. Tra il 1807 e il 59 Anche se gli italiani accettavano certi aspetti dello stereotipo del meridionale, la teoria secondo cui il carattere nazionale era un prodotto del clima fu accolta con scetticismo in Italia: ad esempio, il pensatore illuminista veneziano Francesco Algarotti trovava più valide le argomentazioni di David Hume, che nel saggio On National Character (1748) metteva in discussione le spiegazioni naturalistiche del carattere nazionale. Nel 1796 Melchiorre Gioia rigettò il relativismo politico basato sulle teorie secondo cui il carattere nazionale dipende dal clima [cfr. D. Felice, Note sulla fortuna di Montesquieu nel giacobinismo italiano, 1796-1799, in Pii (a cura di), Idee e parole nel giacobinismo italiano cit., pp. 14-15], e in seguito attaccò la tesi avanzata da C.V. Bonstetten (membro del circolo di Madame de Staël) sull’influenza del clima nel formare il carattere dell’«homme du Nord» e dell’«homme du Midi»: cfr. la critica di Gioia nei confronti di Bonstetten in «Annali universali di statistica», 5, 1825, pp. 245-301. Su questo argomento cfr. anche Moe, The View from Vesuvius cit., pp. 27-31. 60 Sulla vita di Sismondi cfr. R. de Salis, Sismondi, 1773-1842, 2 voll., H. Champion, Paris 1932. Per uno studio più recente e più dettagliato del periodo fino al 1800 cfr. P. Waeber, Sismondi. Une biographie, vol. 1, Les devanciers et

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1818 Sismondi pubblicò un’influente storia dell’Italia medievale, l’Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Age, che Roberto Bizzocchi ha definito «un testo chiave nella oggettivazione del carattere degli italiani moderni»61. In questo lavoro monumentale lo storico ginevrino presentava uno studio approfondito dei centri italiani, dalla caduta dell’Impero romano alla loro rinascita nel basso medioevo, fino alla loro soggezione al dominio dei signori locali. Sismondi intendeva dimostrare che il carattere degli italiani aveva conosciuto tempi molto migliori e celebrava questi tempi: nelle repubbliche medievali gli italiani erano liberi, indipendenti, e dettavano agli altri europei principi di civiltà e forme di governo. Era stata solo la perdita della libertà a portare corruzione e declino, che si erano aggravati con l’arrivo degli spagnoli e con la dominazione assoluta della Chiesa cattolica sulla penisola dalla Controriforma in avanti. In seguito i casuisti avevano corrotto e perfino sovvertito i principi morali, i rituali e la pompa avevano preso il sopravvento sulla sostanza, e la gente aveva imparato a non obbedire alla propria coscienza ma a «ingannarla» (ruser), con il risultato che in nessun altro luogo si poteva trovare un popolo più dedito alle pratiche religiose e meno incline all’osservanza dei doveri e delle virtù predicate dal cristianesimo62. In una società quasi esclusivamente cattolica non era probabile che le affermazioni di uno storico che veniva dalla calvinista Ginevra (e che era agnostico) sulle responsabilità della Chiesa incontrassero molto favore, nemmeno tra patrioti sensibili alla religione evangelica63, tanto che durante il Risorgimento non si accese mai una vera discussione sull’argomento64. Eppure la Storia della traversée de la Révolution. Chroniques familiales 1692-1800, Slatkine, Genève 1991. 61 R. Bizzocchi, Cicisbei: la morale italiana, in «Storica», 3, 1997, p. 64. 62 J.-C.-L. Simonde de Sismondi, Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Age, 5a ed., vol. 8, Wahlen, Bruxelles 1839 (ed. or. 1807-1818): cfr. specialmente il cap. 14, Quali sono le cause che hanno cambiato il carattere italiano dalla caduta delle loro repubbliche. 63 Alessandro Manzoni reagì immediatamente a difesa del cattolicesimo nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819). Sulla presenza di una sensibilità evangelica tra i patrioti italiani, particolarmente in Italia settentrionale, cfr. G. Spini, Risorgimento e protestanti, Claudiana, Torino 1998 (ed. or. 1956), specialmente il cap. 3. 64 Forse grazie anche al fatto che Sismondi decise di espungere le critiche più

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le repubbliche italiane di Sismondi divenne il più influente testo di storia italiana di quel periodo, e per due buone ragioni: oltre a fornire una ricostruzione precisa della storia dell’Italia, proponeva una interpretazione del passato estremamente utile a tutti i patrioti di convinzione federalista. Inoltre offriva qualcosa cui gli storici hanno prestato meno attenzione, vale a dire una efficace ricostruzione delle origini di un costume che per molti, stranieri e italiani, era l’epitome della degenerazione del paese: il «vergognoso» costume del cicisbeismo. Secondo Sismondi, mentre nelle repubbliche, moralmente sane, «la predisposizione al lavoro era stata, fino alla metà del Cinquecento, la qualità distintiva degli italiani»65, sotto il dispotismo dei signori locali o stranieri (specialmente sotto i nuovi governanti spagnoli pieni di «pregiudizi castigliani») «tutti i tipi di lavoro» diventarono detestabili agli occhi degli aristocratici. Questi nuovi atteggiamenti e l’usanza della primogenitura condannarono un gran numero di uomini a una «costante pigrizia» (constant fainéantise), e per dare qualcosa da fare ai rampolli della nobiltà furono inventati i «bizzarri diritti e doveri» del cicisbeo66: ora le dame non potevano più apparire in pubblico da sole, ma dovevano essere accompagnate da un uomo, e comunque non dal marito ma piuttosto dall’amico o dall’amandirette nei confronti della Chiesa cattolica (infatti eliminò l’intero ultimo capitolo) dalla edizione abbreviata del testo, pubblicato nel 1832. Per quanto riguarda il modo in cui le idee di Sismondi furono recepite durante il Risorgimento cfr. G. Galasso, Le Repubbliche italiane del Sismondi e il Risorgimento, in A. Coco (a cura di), Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Edizioni del Prisma, Catania 1999, pp. 221-242; e A. Lyttelton, Creating a National Past: History, Myth, and Image in the Risorgimento, in A.R. Ascoli e K. von Henneberg (a cura di), Making and Remaking Italy. The Cultivation of National Identity Around the Risorgimento, Berg, New York-Oxford 2001, pp. 27-74. 65 Sismondi, Histoire des Républiques cit., vol. 8. 66 Ivi, vol. 8, pp. 383-384. Nello spiegare le origini storiche del carattere degli italiani, Sismondi si basò su un altro stereotipo nazionale allora già ben consolidato, lo stereotipo degli spagnoli. Meridionali e cattolici come gli italiani, gli spagnoli avevano molti dei loro vizi, a cui si sommavano quelli che avevano acquisito in quanto titolari di potere imperiale: oltre all’indolenza e a un eccessivo senso dell’onore e dell’orgoglio, tra i loro tratti negativi c’era la tendenza alla violenza e alla crudeltà (probabilmente un’eredità, tra le altre, della «leggenda nera» sul colonialismo spagnolo); oltretutto, si rimproverava loro il fatto di essere il prodotto di una mescolanza di «razze»: cfr. J.N. Hillgarth, The Mirror of Spain 1500-1700. The Formation of a Myth, University of Michigan Press, Ann Arbor 2000, specialmente i capp. 8 e 16.

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te. Il risultato di questa invenzione, tuonava Sismondi (il quale, inutile a dirsi, non era insensibile al fascino delle signore italiane sposate), era un disordine senza pari: quando diventò un’abitudine e persino un obbligo che le donne apparissero in pubblico con il loro amante «gli italiani cessarono di essere uomini»67. Ma che cos’era esattamente il cicisbeismo? I numerosi riferimenti al fenomeno nei resoconti di viaggio relativi all’Italia del Settecento e dei primi dell’Ottocento tendevano a presentare i cicisbei come una peculiarità italiana, come un segno della depravazione morale del paese e del lassismo sessuale della popolazione68. In realtà, secondo gli studi più recenti e autorevoli, il cicisbeismo non era solo una peculiarità della nobiltà italiana: le chiare somiglianze tra il cicisbeo e lo spagnolo estrecho o chichisbeo assimilano la figura del «cavalier servente» a un costume dell’aristocrazia dell’Europa mediterranea della prima età moderna69. Inoltre, la figura del cicisbeo esprimeva la complessa realtà dell’aristocrazia settecentesca, in cui la consuetudine di combinare i matrimoni e il controllo sulle donne coesistevano con l’aspirazione illuminista a una maggiore libertà nelle relazioni sociali e di genere. Il cicisbeo, un nobile scapolo e senza alcuna prospettiva di matrimonio, trovava un ruolo nella società come accompagnatore ufficiale di una nobildonna che spesso era molto più giovane del marito. Alcuni studio67 Sismondi, Histoire des Républiques cit., vol. 8, p. 384. Come Sismondi, anche Stendhal scriveva, proprio all’inizio della Certosa di Parma (1839), che i cicisbei italiani erano l’epitome della effeminatezza dell’Italia post-comunale. 68 Per il XVIII secolo cfr. in particolare J. Boswell, Boswell on the Grand Tour. Italy, Corsica, and France 1765-1766, a cura di F. Brady, McGraw-Hill, New York-Toronto-London 1955, pp. 17-19, e T. Smollett, Travels Through France and Italy, Centaur Press, Fontwell 1969 (ed. or. 1766). Cfr. anche Black, Italy and the Grand Tour cit., pp. 123-126. Per un esempio degli inizi del XIX secolo cfr. J. Forsyth, Remarks on the Antiquities, Arts, and Letters during an Excursion in Italy in 1802 and 1803, 2a ed., Murray, London 1816, pp. 377, 411412. Ugo Foscolo reagì alla descrizione del cicisbeismo fatta da Forsyth, e in particolare al suo poco lusinghiero ritratto delle donne italiane, in un articolo intitolato The Women of Italy pubblicato nel «London Magazine» nel 1826 (ora in U. Limentani, a cura di, Scritti vari di critica storica e letteraria. 1817-1827, Le Monnier, Firenze 1978, pp. 417-419), nel quale spiegava che il fenomeno era il risultato di costumi feudali e soprattutto del potere ecclesiastico, ed era legato alla degenerazione politica degli italiani. 69 R. Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 337-338.

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si hanno sottolineato il collegamento tra la comparsa di questa figura e l’aumento della libertà e del potere delle donne aristocratiche nel Settecento, interpretazione che sembra trovare sostegno non solo nei numerosi pamphlet moralizzatori e nei trattati che attaccavano questo costume, ma anche nelle fonti pittoriche70. Tuttavia la partecipazione femminile alla vita sociale e alla conversazione brillante avveniva in una società in cui il controllo sulle donne continuava a essere di primaria importanza. In tale contesto la figura del cicisbeo aveva un significato più ambiguo, nel senso che il cavalier servente poteva essere allo stesso tempo uno strumento di controllo e di maggiore libertà71. C’è un altro aspetto – piuttosto trascurato ma che sembra molto significativo – da considerare, se vogliamo capire il posto occupato dal cicisbeismo nella raffigurazione del declino dell’Italia: il fatto che il termine italiano «cicisbeo» indicava (e indica ancora oggi) sia la figura del cavalier servente che quella del damerino, cioè un uomo che presta la massima attenzione a come la propria immagine esteriore appare in società, agli abiti e alle buone maniere, e dedica molto del suo tempo a fare compagnia alle signore. In realtà, il cicisbeo è il gentiluomo effeminato e ozioso per eccellenza, e in quanto tale era il bersaglio privilegiato delle satire antiaristocratiche della fine del Settecento, ad esempio Il giorno di Giuseppe Parini (1763-1765)72. La fusione dei due significati del termine spiega perché il cicisbeismo, qualunque fosse la sua realtà, fosse diventato un simbolo del degrado morale e politico che i patrioti risorgimentali volevano sradicare. Mentre accusava gli stranieri (cioè gli spagnoli) per la perdita dell’indipendenza dell’Italia 70 C. Pellanda Cazzoli, Dames et sigisbées: un début d’emancipation feminine?, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 193, 1980, pp. 20282035; L. Guerci, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento. Aspetti e problemi, Tirrenia Stampatori, Torino 1987, cap. 3. 71 Bizzocchi, Cicisbei cit., pp. 50-61. 72 Su Parini, e più in generale sugli attacchi contro la cultura dell’aristocrazia nel Settecento, cfr. M. Domenichelli, Cavaliere e gentiluomo. Saggio sulla cultura aristocratica in Europa (1513-1915), Bulzoni, Roma 2002, capp. 9-11. Un altro critico dei cicisbei molto apprezzato dagli scrittori risorgimentali ottocenteschi fu Vittorio Alfieri su cui cfr. M. Riva, Malinconie del moderno: critica dell’incivilimento e disagio della nazionalità nella letteratura italiana del XIX secolo, Longo, Ravenna 2001.

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nel XVI secolo e per il declino che ne era seguito73, Gioberti dichiarava che essi avevano «creato le grandi corti e le regge all’uso orientale e introdotto con esse il lusso strabocchevole, l’adulterio legale e privilegiato, il regno dei cagnotti, dei favoriti e delle meretrici, che d’allora in poi si chiamarono cortigiane, messe in uso e legittimate le guerre funeste di conquista e di successione; insomma, condotta al colmo la declinazione morale e civile della misera Italia»74. In questo passaggio Gioberti rappresentava il declino dell’Italia letteralmente come un processo di orientalizzazione della società di corte italiana, con tutta la dissolutezza e il disordine sessuale che ne seguiva: l’espressione «adulterio legale e privilegiato» è chiaramente riferita al cicisbeismo. Tra i propositi più importanti degli scrittori patriottici vi era l’analisi dei guasti del passato per spiegare quelli del presente. Cesare Balbo, che aveva la vocazione dello storico, si dedicò a questo compito con un impegno anche maggiore rispetto al filosofo Gioberti. Anche se in omaggio a Montesquieu ammetteva che «il clima dolce, il bel paese» erano un invito all’ozio, Balbo sosteneva che le sue radici andavano trovate nella storia: l’ozio era il risultato di tre secoli di cattivi governi che «non chiama[va]no il comune degli uomini a niuna deliberazione», e della oppressione straniera «che impedi[va] tante operosità incompatibili colla dipendenza»75. Molto più che la natura, erano le istituzioni politiche e sociali corrotte ad avere prodotto negli italiani vizi in abbondanza e scarse virtù. Era una situazione in cui «la dipendenza produce vizio, il quale mantiene dipendenza [...] questo è il vizioso circolo ond’è difficile uscirne»76. Quindi era la storia a dover spiegare la triste realtà del presente. A dire la verità, per Balbo il passato dell’Italia non era stato una serie continua di disastri, ma un misto di bene e di male. Nel suo ben noto Sommario della storia d’Italia (1846), un testo che costituì la prima visione d’insieme di tutto il corso della storia italiana dall’antichità al presente, Balbo divideva questa storia «nazionale» (che patriotticamente definiva «la più lunga e la più ricca» di qualunque altra storia Gioberti, Del primato cit., vol. 1, cap. 3. Ivi, vol. 1, p. 149. 75 Balbo, Speranze cit., p. 265. 76 Ivi, p. 189. 73 74

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nel mondo)77 in sette ere: la prima (in cui l’evento dominante era l’ascesa degli Etruschi) e la seconda (la Roma repubblicana) erano state epoche virtuose a cui avevano fatto seguito tre ere molto negative (l’Impero romano, le invasioni barbariche e l’Impero carolingio), a loro volta seguite dalla migliore di tutte, l’era comunale. Ma quella che aveva visto il massimo degrado degli italiani era l’epoca successiva allo splendore dell’era comunale, e cioè il periodo tra la metà del XVI e l’inizio del XVIII Secolo: Balbo arrivò a definirlo, sia nelle Speranze che nel Sommario, «il secolo degenerato»78. Era in questo periodo «infame» che, avendo perduto l’indipendenza, e con essa la loro capacità politica e militare, gli abitanti della penisola erano diventati oziosi ed effeminati. Balbo sviluppava il tropo dell’ozio per caratterizzare anche altri periodi di declino della storia d’Italia, e in particolare quello dell’Impero romano, in cui una tirannia e una schiavitù che non avevano uguali nella storia avevano trasformato ogni cosa in «ozio e corruzione» determinando infine la caduta dello Stato romano79. Ma il «secolo degenerato» era assai peggiore di qualunque altro periodo di declino del passato, perché si era verificato proprio quando le altre nazioni cristiane dell’Europa si erano instradate – per la prima volta nella storia – su un percorso di progresso «irreversibile». L’enfasi che Balbo poneva sulla grandezza del periodo dei Comuni medievali (termine che preferiva a quello di «repubbliche», che aveva una connotazione democratica), e la sua spiegazione delle origini dell’ozio e della effeminatezza degli italiani testimoniavano la forza della narrazione di Sismondi80. E come Sismondi, an77 Id., Sommario della storia d’Italia, in Id., Storia d’Italia e altri scritti editi e inediti cit. p. 734. Quest’opera apparve per la prima volta nella Nuova Enciclopedia Popolare, a cura di F. Predari, Pomba, Torino 1846, e fu pubblicata nello stesso anno come volume a sé; l’anno successivo fu pubblicata la prima versione non censurata. 78 Id., Speranze cit., pp. 62-70; Sommario cit., p. 738. 79 Id., Sommario cit., pp. 735-736. 80 Balbo lodò con entusiasmo il lavoro di Sismondi: «[N]on so se siasi fatta mai un’altra [storia] così subito e tanto letta, e tanto passata in sangue ad una nazione». Cfr. Balbo, Pensieri sulla storia d’Italia cit., p. 469. Ma mentre apprezzava la capacità di storico e l’imparzialità di Sismondi, Balbo dichiarava anche che la vera storia nazionale di un paese poteva essere scritta solo da storici nativi di questo paese.

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che Balbo definiva il periodo che va dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) al XVIII secolo l’epoca in cui l’aristocrazia era diventata corrotta e aveva perduto la sua vera natura nell’ozio delle corti, e in cui la maggioranza degli italiani aveva smarrito ogni residuo di spirito civico e di valore militare, e aveva dedicato la vita ai dolci piaceri del fare l’amore e del correre dietro alle donne81. Il cicisbeismo spadroneggiava. Anche nel campo democratico, sia Mazzini che i federalisti erano convinti che le passate esperienze avessero profondamente corrotto i compatrioti: secoli di oppressione straniera avevano reso la popolazione italiana servile e l’avevano deprivata della speranza di un vero cambiamento. Il clima e la razza non c’entravano per niente: in realtà, questi «fatti» venivano spesso chiamati in causa – come sottolineava Mazzini – in maniera strumentale dai reazionari, o per giustificare una linea d’azione moderata. Per il pensiero democratico l’influenza negativa delle signorie straniere era stata aggravata dall’effetto evirante del dispotismo delle signorie italiane. Ad esempio, Giuseppe Montanelli si scagliava in questo modo contro l’effetto corruttore del «principato» sul carattere dei toscani: «Il toscano degenere, irrisore dietro alle spalle del padrone aborrito, gli si mostrava in faccia ossequioso e servile; né si faceva scrupolo dare dimostrazioni di rispetto all’ultimo impiegatuccio, quando ciò tornasse ai suoi fini, e all’autorità disprezzata potesse carpire favori»82. Per Montanelli, la maschera fiorentina del servo Stenterello era la perfetta incarnazione di un carattere codardo e ipocrita. Come Giacomo Leopardi osservava nel suo Zibaldone (1821), questo tipo di carattere era il prodotto della diseguaglianza, e la stessa considerazione valeva per persone diverse e anche per nazioni in simili posizioni strutturali: dal momento che erano soggette agli uomini, le donne erano «ordinariamente maliziose, furbe, raggiratrici, ingannatrici» (e l’elenco continuava), e così erano gli uomini «deboli, o poveri, o brutti», i cortigiani e anche «nazioni intere (come quelle soggette al dispotismo)»83. Balbo, Sommario cit., pp. 623-624. Montanelli, Memorie cit., p.14. 83 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di A.M. Moroni, Mondadori, Milano 1983, vol. II, p. 741. 81 82

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Se il passato relativamente lontano aveva lasciato una profonda macchia sul carattere delle persone, neanche quello recente lasciava spazio a grandi speranze: nella prima metà dell’Ottocento i tentativi di insurrezione erano falliti ripetutamente, mettendo a nudo, secondo Mazzini, i numerosi errori e le deficienze dei rivoluzionari: la mancanza di energia, di fede, di conoscenze, di forti legami con le masse oppresse84. Per non cadere nella disperazione – atteggiamento non da patriota – era comunque importante non dimenticare che il passato conteneva anche una chiave per il futuro. Un ex mazziniano esule in Inghilterra, Antonio Gallenga, che negli anni Quaranta dell’Ottocento scriveva per un pubblico inglese, vedeva molte ragioni per essere ottimista. Insieme a fasi di profondo declino quando gli italiani «avevano imparato ad accettare il bene e il male passivamente, con rassegnazione» e in cui le élites avevano «sprecato le loro energie in una vita di arroganza, indolenza illegittima e ingiustificata eccitazione», vi erano state fasi di grandezza, come la storia della letteratura dimostrava chiaramente: i grandi artisti e i grandi studiosi del passato, da Dante a Machiavelli, illustravano che cosa ci si poteva aspettare dalla rinascita della civiltà italiana. E in effetti dal XVII secolo in poi vi erano stati numerosi segnali di progresso, a cominciare dalla repubblica delle lettere italiana i cui «eroici» membri come Antonio Muratori, «non snervati dalle seduzioni di un clima meridionale o da un’epoca effeminata», avevano lavorato senza sosta per raccogliere antichità italiche85. Dal momento che i guasti del carattere degli italiani erano un prodotto contingente della storia, i patrioti sia di orientamento democratico che moderato erano fiduciosi, come il filo-italiano Sismondi, che un cambiamento era possibile e che la storia, a sua volta, avrebbe aiutato gli italiani a liberarsi di quei guasti. Quando nel 1848 scoppiò la rivoluzione furono in molti a essere d’accordo sul fatto che il rinnovamento stava sicuramente avendo luogo: un giornale milanese di convinzioni democratiche che incominciò le pubblicazioni nell’aprile di quell’anno espresse ottimisticamente questo sentimento paMazzini, D’alcune cause cit., pp. 32-33. L. Mariotti [A. Gallenga], Italy. Past and Present, 2 voll., Chapman, London 1848 (citazioni dal vol. I, pp. 419, 421). Su Gallenga cfr. T. Cerutti, Antonio Gallenga: An Italian Writer in Victorian England, Oxford University Press, London-New York 1974. 84 85

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triottico già nel proprio titolo: «L’Italia rigenerata»86. E tra i democratici in particolare (ma non solo, come Cavour sapeva bene) le gesta di Garibaldi cominciavano a dissipare la storia dell’italiano ozioso e imbelle. Allo stesso tempo, come simbolo del valore italiano, la figura del popolare eroe contribuì a produrre un’immagine positiva dei suoi compatrioti nell’opinione pubblica europea87.

Il genere e la rigenerazione del carattere Dal momento che la degenerazione degli italiani simboleggiata dall’ozio veniva espressa in termini sessuali e di genere, come uno stato di svirilizzazione e di femminilizzazione, sia per i moderati che per i democratici la rigenerazione significava il recupero della virilità, un processo di de-femminilizzazione e di ri-virilizzazione del paese e del suo popolo. Secoli di dominazione straniera, e, per i democratici, anche di assolutismo, avevano determinato la sindrome di un carattere servile, dipendente ed effeminato: un popolo assoggettato aveva imparato a difendersi ricorrendo per troppo tempo alla tipica «arma del debole: l’astuzia»88. Ora era venuto il tempo in cui tutto questo doveva finire. Ma come? I patrioti avevano posizioni politiche e ideologie contrastanti, e perciò avevano certamente punti di vista differenti sul ruolo che gli stessi italiani dovevano giocare nella propria rigenerazione e sui mezzi da utilizzare in questo processo: i radicali predicavano l’insurrezione di popolo, e naturalmente i moderati diffidavano dell’azione popolare. Tuttavia esistevano alcuni punti di convergenza anche a questo riguardo. Per Mazzini e i suoi seguaci soltanto un cambiamento radicale ottenuto con sistemi radicali poteva essere d’aiuto nel rimuovere la macchia profonda che la storia aveva lasciato sugli italiani, sul loro carattere e sulla loro reputazione. Gli scritti di Mazzini, in parte anche per la frequenza con cui nella prima metà del secolo 86 «L’Italia rigenerata: giornale di politica, scienza, letteratura, teatri, arti e commerci» era un bisettimanale liberal-democratico pubblicato a Milano nel periodo aprile-luglio del 1848. 87 Sull’immagine di Garibaldi come eroe italiano e sulla relazione tra questa immagine e l’identità dell’Italia cfr. L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, 3a ed., trad. it., Laterza, Roma-Bari 2007 (ed. or. 2007). 88 Mariotti [Gallenga], Italy cit., p. 392.

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si erano susseguite insurrezioni e rivoluzioni fallite, erano un costante richiamo a un rinnovato sacrificio e martirio per la patria e per la libertà: «La libertà si compra col sangue e col sacrificio»89. Nel suo famoso intervento a sostegno di una guerra di insurrezione per bande, Mazzini sottolineava come questo tipo di guerra popolare avrebbe assicurato non solo la vittoria ma anche «una vera rigenerazione del popolo», che si sarebbe addestrato alle arti della guerra e avrebbe suggellato «con il sangue» la conquista dei suoi diritti e dell’indipendenza. È con le armi, scriveva, che «si ritemprano le nazioni perché l’insurrezione cancella dalla fronte degli insorti l’impronta della servitù, perché in questa guerra per bande, gl’animi s’educano singolarmente all’indipendenza e a quella vita attiva, potente che fa grandi i popoli»90. Gli appelli che Mazzini rivolgeva regolarmente ai giovani italiani, invitandoli a combattere e ad assumere un ruolo di comando in nome del senso dell’onore e dell’amore per la patria, attestavano il desiderio di smentire l’accusa di codardia che veniva mossa agli italiani sollecitandoli ad azioni audaci e condotte senza paura (e senza porre troppa attenzione alle possibili conseguenze in termini di perdite di vite umane). Onore e «gloria immortale»: questa sarebbe stata la loro ricompensa. L’insurrezione era giustificata anche in caso di fallimento, perché l’azione diretta di alcuni nel processo di liberazione di un popolo aveva un valore morale insostituibile: «Quando un popolo per lunghi anni di tormenti, e di congiure represse ha toccati gli estremi della sciagura e dell’odio – quando non manca che la fiducia, vietata dalla paura e dalla diffidenza che l’abitudine della schiavitù ingenera nelle moltitudini – i primi che mostrano aver propria fiducia co’ fatti sono potenti a ispirarla »91. 89 G. Mazzini, I collaboratori della «Giovine Italia» ai loro concittadini, in Id., Scritti politici editi e inediti, Galeati, Imola 1907, vol. 2, p. 72 (ed. or. in «La Giovine Italia», 1832). 90 Id., Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia, ivi, p. 230 (ed. or. in «La Giovine Italia», 1833; ristampato come pamphlet con un’appendice di istruzioni nel 1849). Anche A.M. Banti e M. Mondini hanno notato questo significato «morale» che la guerra assumeva per i patrioti italiani: cfr. Da Novara a Custoza: culture militari e discorso nazionale tra Risorgimento e Unità, in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 18, Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002, p. 419. 91 Id., Alla gioventù italiana, in Id., Scritti politici editi e inediti cit., vol. 2 (ed. or. in «La Giovine Italia», 1834).

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Queste idee erano condivise da democratici e rivoluzionari in tutta la penisola, anche se dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 molti cominciarono a considerare l’insurrezione una opzione irrealistica. Per quanto riguarda i moderati, come si è visto, anch’essi facevano proprio il tema della «rigenerazione morale», malgrado avessero idee differenti sui metodi più idonei a raggiungerla. Antonio Gallenga definiva la rivoluzione nazionale il «nuovo calco del carattere individuale e nazionale»92. Parlando dei fattori essenziali per la rigenerazione del carattere nazionale, nei primi giorni del 1848 Gallenga sottolineava la necessità di dimostrare «prodigi di valore»: il recupero dell’onore dell’Italia non richiedeva nulla di meno. «In realtà», diceva, «la libertà ottenuta troppo a buon mercato generalmente si apprezza molto poco»93. Con questo, tuttavia, non intendeva appoggiare le cospirazioni e le rivoluzioni popolari, ma piuttosto sostenere l’esigenza delle riforme e della disciplina militare. Il colonnello Giacomo Durando non aveva dubbi quando dichiarava che «soltanto le lunghe e ostinate guerre hanno virtù di dare nuova e forte tempera a un popolo infingardo, e di piantare la redenta nazionalità su durevoli fondamenta». Lasciandosi trasportare dalla sua visione, aggiungeva che anche se nell’impresa fosse perita la metà della popolazione italiana, «la metà sopravvissuta [avrebbe ricostituito] in pochi anni una nuova razza, ribattezzata e ringiovanita col sangue della generazione immolata»94. Quindi, malgrado tutti i loro discorsi sulla moderazione, i moderati non escludevano spargimenti di sangue e guerre, purché combattute da eserciti regolari. Quello che preoccupava i moderati era l’azione diretta del popolo che poteva sfuggire al loro controllo. In effetti, parlando del primato degli italiani, Gioberti sosteneva che il popolo italiano non esisteva ancora: era «un desiderio e non un fatto, una supposizione e non una realtà, un nome e non una cosa [...]. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana, congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, d’istituti, di favella popolare, di costumi, d’affetti, di consuetudini»95. Negando l’esistenza del popolo italiano come soggetto Mariotti [Gallenga], Italy cit., vol. I, p. XXIV. Ivi, vol. 2, pp. 426, 427. 94 Durando, Della nazionalità italiana cit., pp. 254, 255. 95 Gioberti, Del primato cit., vol. I, pp. 92-93. 92 93

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unito e con una propria volontà, Gioberti negava la fattibilità del progetto repubblicano e unitario di Mazzini, e allo stesso tempo rifiutava l’idea dell’azione popolare che quest’ultimo proponeva per raggiungere il suo obiettivo. Le rivoluzioni popolari erano dannose e controproducenti: non potevano essere controllate, e il terrore era sempre una possibilità che si celava dietro l’angolo. Per converso, la moderazione poteva assicurare un cambiamento duraturo, e oltretutto era la sola ad avere «radici» nazionali: in realtà, era la posizione politica veramente «nativa», dal momento che il moderatismo rispecchiava l’antichità della civiltà italiana, e la civiltà esercitava sempre, di per sé, una influenza moderatrice96. Ma per cambiare le vecchie, radicate abitudini dell’ozio e della passività (e, potremmo anche aggiungere, per prepararsi alla guerra, se necessario) si doveva operare a vari livelli. Secondo Cesare Balbo, era a partire dalla sfera domestica che si trovava la via d’uscita da ciò che egli definiva il «circolo vizioso» della «dipendenza [che] produce vizio, il quale mantiene la dipendenza»: l’assenza di pubbliche virtù poteva essere compensata almeno in parte stimolando le virtù private, cioè quelle praticate individualmente e nella cerchia familiare, e quindi accessibili a tutti. Balbo sosteneva che nelle famiglie italiane le cose stavano già migliorando: il cicisbeismo, l’epitome della effeminatezza degli italiani, non caratterizzava più come prima il comportamento delle élites. Fornendo un ulteriore esempio dell’ideologia della separazione dei ruoli che si sviluppò nell’Italia risorgimentale97, Balbo lodava in particolare le donne italiane perché ora si dedicavano più alla famiglia che alle relazioni sociali, in contrasto con quanto accadeva in passato. Naturalmente, quando parlava delle donne italiane, Balbo aveva in mente soprattutto le signore dell’aristocrazia, ed erano specialmente le loro abitudini che si dovevano cambiare per arrivare a una più netta separazione tra la sfera maschile e quella femminile. E a chi gli faceva notare che le donne erano state e potevano essere una fonte di ispirazione per le azioni degli uomini, Balbo ribatteva, citando Napoleone, che il modello migliore di donna era colei che dava al marito numerosi bambini98. Balbo, Speranze cit., p. 10. Cfr. L. Re, Passion and Sexual Difference: The Risorgimento and the Gendering of Writing in Nineteenth-Century Italian Culture, in Ascoli e von Henneberg (a cura di), Making and Remaking Italy cit., pp. 155-200. 98 Cfr. Balbo, Lo straniero. Dialogo primo, in Id., Pensieri ed esempi cit., p. 356. 96 97

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È difficile trovare un esempio migliore della stretta convergenza tra il nazionalismo dell’Ottocento e l’emergere di una nuova moralità sessuale, sottolineata qualche anno fa da George L. Mosse e da altri studiosi di genere e nazionalismo99. Più precisamente, un discorso patriottico pieno di metafore di genere incontrava difficoltà a sfuggire a una politica di tipo patriarcale che cercava di limitare la presenza delle donne nella sfera pubblica, anche quando traeva vantaggio dal loro attivismo in favore della causa patriottica100. Si doveva rendere più netta la distinzione tra i comportamenti appropriati «maschili» e quelli «femminili», e tra le relative sfere di attività. Per correggere le storture in materia di genere occorreva rimodellare l’uomo e la donna. Balbo raccomandava attività che potessero generare un modello di mascolinità meno effeminata e più virile: per formare il tipo di uomo che avrebbe ravvivato «le speranze degli italiani» era necessario favorire attività quali l’equitazione, la caccia al cervo ed escursioni impegnative in montagna101. Come i patrioti tedeschi che nella prima metà dell’Ottocento avevano creato numerose società di ginnastica per mantenere un buon livello di virilità102, o i nazionalisti del Bengala che incoraggiavano gli uomini a praticare qualsiasi tipo di sport maschile per contrastare «la fiacchezza» della popolazione103, negli anni 99 Cfr. G.L. Mosse, Nationalism and Sexuality. Middle-Class Morality and Sexual Norms in Modern Europe, University of Wisconsin Press, Madison 1985; e Id., The Image of Man. The Creation of Modern Masculinity, Oxford University Press, New York-Oxford 1996; cfr. anche il volume interdisciplinare A. Parker, M. Russo, D. Sommer e P. Yaeger (a cura di), Nationalisms and Sexualities, Routledge, London 1992. 100 Sulla partecipazione delle donne al Risorgimento cfr. in particolare L. Guidi, Patriottismo femminile e travestimenti sulla scena risorgimentale, in «Studi storici», 41, 2000, pp. 571-586, e S. Soldani, Il Risorgimento delle donne, in A.M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 181-224. 101 Balbo, Speranze cit., pp. 195-196. 102 G.L. Mosse ha richiamato l’attenzione sul fenomeno in The Nationalization of the Masses. Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, Cornell University Press, IthacaLondon 1975, p. 28 [trad. it., La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich, Il Mulino, Bologna 1975]. Per uno studio dettagliato cfr. D.A. McMillan, German Incarnate: Politics, Gender and Sociability in the Gymnastics Movement, 1811-1871, tesi di dottorato, Columbia University 1997. 103 Cfr. J. Rosselli, The Self-Image of Effeteness: Physical Education and Nationalism in Nineteenth Century Bengal, in «Past and Present», 86, 1980, pp. 121-148.

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Quaranta alcuni membri dell’aristocrazia e delle classi borghesi crearono in Piemonte e in Toscana le prime società di ginnastica per promuovere l’educazione ginnica e rinforzare il fisico dei futuri soldati104. Ma Balbo non si fermò qui: invitava gli italiani a compiere viaggi in terre lontane seguendo l’esempio dei paesi «più civili», e più precisamente a partire volontari per le «belle guerre di conquiste cristiane», un campo di addestramento, diceva, per «altre guerre, onde sorgeranno le migliori speranze [per l’Italia]»105. L’ideologia patriarcale che permeava gran parte del movimento patriottico moderato non era condivisa solo dagli uomini, ma anche da donne impegnate nella causa: le patriote di idee moderate come Caterina Franceschi Ferrucci, se da un lato si davano da fare per promuovere l’istruzione femminile, dall’altro insistevano sul fatto che la patria aveva bisogno «tanto di uomini coraggiosi, schietti e sapienti quanto di donne modeste e buone»106. Perfino un democratico come Mazzini, che era sensibile alla questione dei diritti delle donne e ne affermava spesso la parità con gli uomini, nella sua forte idealizzazione della donna come «angiolo della famiglia» tendeva a confinarla nella sfera domestica107. Se una donna voleva essere qualcosa di più che infermiera in tempo di guerra e sulle barricate, spesso la sua unica possibilità era di andare a combattere di nascosto, travestendosi da uomo108. 104 Sulla creazione delle prime società di ginnastica a Torino e a Firenze nel 1844 cfr. P. Ferrara, L’Italia in palestra. Storia, documenti e immagini della ginnastica dal 1833 al 1973, La Meridiana, Roma 1992, pp. 29-47. È interessante notare che nello stesso anno Balbo in Le speranze d’Italia incoraggiava i lettori a praticare la caccia al cervo e a fare escursioni in montagna. 105 Balbo, Speranze cit., p. 196. 106 Cfr. C. Franceschi Ferrucci, Degli studi delle donne, Pomba, Torino 1853, p. 359. Su questa e su altre scrittrici dell’Italia dell’Ottocento cfr. i saggi raccolti in L. Panizza e S. Wood (a cura di), A History of Women’s Writing in Italy, Cambridge University Press, Cambridge 2000. 107 Cfr. specialmente G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, s.n.t., Napoli 1860, cap. 6, Doveri della famiglia. Dopo l’unificazione, comunque, nei ranghi mazziniani vi erano anche donne, come Anna Maria Mozzoni, che sposavano sia il patriottismo sia la causa dell’emancipazione femminile. 108 Guidi, Patriottismo femminile e travestimenti cit. In contrasto a questa mia interpretazione, L. Riall ha sottolineato la presenza di differenti modelli di mascolinità e di relazioni uomo-donna nei ranghi dei volontari garibaldini: cfr. Riall, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Banti e Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 22, cit., pp. 253-288. Non escludo che, nella pratica, i democratici fossero più disposti ad accettare le donne nei loro ranghi, ma cre-

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Durante gli anni centrali del Risorgimento, i fautori della causa nazionale, anche se di differenti convinzioni politiche, condividevano l’idea che gli italiani erano caduti in uno stato di degradazione estrema in conseguenza di secoli di oppressione e di dispotismo, ma che si stavano avviando verso la rigenerazione. Sia in patria che all’estero, i patrioti ponevano la questione nazionale in termini morali e di genere, basandosi su rappresentazioni del carattere degli italiani che spesso nascevano dallo sguardo dei viaggiatori e degli osservatori stranieri. Essendo diventati «oziosi» ed «effeminati», se volevano recuperare la loro antica grandezza e il posto che legittimamente spettava loro nel mondo delle nazioni, gli italiani dovevano sottoporsi a un profondo cambiamento morale. Il loro carattere doveva essere completamente rimodellato e diventare meno passivo e più virile. Malgrado fosse originariamente associato con il repubblicanesimo, il linguaggio della «rigenerazione» fu fatto proprio anche dai liberali moderati, e fu ancora più usato del termine «Risorgimento» per indicare l’obiettivo dell’azione patriottica109. La presenza di questi tropi nel discorso del carattere nazionale era importante non solo perché contribuiva a caratterizzare in termini di genere il movimento nazional-patriottico, ma anche perché avrebbe connotato in modo durevole le abitudini discorsive e le aspettative delle élites colte italiane. E date le difficoltà del processo di costruzione della nazione nella penisola, il tropo della rigenerazione nazionale era destinato a durare a lungo nel discorso politico del paese110. Ma la formazione di uno stato raramente è il risultato delle virtù di un popolo: la geopolitica, le diplomazie e la forza militare giocano un ruolo preminente. Nello scontro con questa realtà, un discorso carico di aspettative faceva necessariamente nascere un astioso disappunto, che negli anni a venire avrebbe alimentato un nazionalismo più acuto e aggressivo.

do che anche fra loro il modello dominante tendesse a marcare la separazione tra la sfera maschile e quella femminile. 109 Sulla maggiore diffusione del termine «rigenerazione» nella prima metà dell’Ottocento cfr. Leso, Lingua e rivoluzione cit., p. 154. 110 Sull’importanza del tema della rigenerazione nella storia del nazionalismo italiano cfr. anche E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, che tuttavia trascura gli aspetti relativi al genere.

II FORMARE CITTADINI DI CARATTERE Non è l’ingegno, ma il carattere o la tempra che salva le nazioni. Francesco De Sanctis, 1869 I miei primi due maestri furono due preti; e credo che l’inferiorità fisica e morale della razza italica provenga massime da tale nociva costumanza. Giuseppe Garibaldi, 1872

Nella maggior parte delle storie dell’Italia postunitaria viene citata almeno una volta la frase attribuita allo statista liberale Massimo d’Azeglio: «Ora che l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani». In realtà questa frase non si trova testualmente nelle memorie di d’Azeglio, che non furono mai completate dall’autore e furono pubblicate, notevolmente riviste, dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio 18661. L’idea comunque vi era certamente contenuta. I 1 La prima edizione dei Miei ricordi di d’Azeglio (Barbera, Firenze 1867) fu curata dalla figlia e rivista da un amico stretto di d’Azeglio, il quale aggiunse vari capitoli che non erano inclusi nel manoscritto originale – nonché dall’editore che spesso ne alterò il linguaggio per motivi stilistici e moralistici. Su questi interventi si veda l’edizione critica curata da A.M. Ghisalberti e pubblicata a Torino da Einaudi nel 1949. Secondo Simonetta Soldani e Gabriele Turi fu solo negli anni Novanta dell’Ottocento che la frase comparve testualmente in uno scritto dell’allora ministro dell’Istruzione Ferdinando Martini (Introduzione, in S. Soldani e G. Turi, a cura di, Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, vol. 1, La nascita dello stato nazionale, Il Mulino, Bologna 1993, p. 17), ma, come vedremo più avanti, già prima alcuni commentatori attribuivano la frase a d’Azeglio.

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miei ricordi si aprivano con alcune riflessioni su chi fosse il «vero nemico» degli italiani. Non erano gli austriaci (ancora presenti nel nord-est della penisola), dichiarava d’Azeglio, ma gli stessi italiani: «[H]anno voluto fare un’Italia nuova e loro rimanere gl’italiani vecchi di prima, colla dappocaggine e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a poter riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino loro stessi»2. E continuava sostenendo che era necessario che tutti facessero il proprio «dovere». Perché questo potesse accadere era indispensabile un popolo di «carattere», cioè dotato di forza di volontà, ma questo tipo umano non era comune in Italia e non si stava facendo abbastanza per educare gli italiani a diventare un popolo con il senso del dovere e «alti e forti caratteri»3. Contrariamente a quanto si legge spesso4, nelle sue memorie d’Azeglio non poneva il problema di «fare gli italiani» nel senso di renderli culturalmente omogenei, in modo che potessero riconoscere la loro comune italianità. La vera questione era invece riformarne la moralità e il comportamento come cittadini, rigenerarli e renderli degni membri della loro nuova patria5. Negli anni successivi alla pubblicazione di questo famoso testo molti altri scrittori, educatori e storici più o meno noti rifletterono sulla questione del carattere degli italiani, sui suoi guasti e sul modo in cui riformarlo. Anche se occupavano posizioni diverse nello spettro politico, gli autori che negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento affrontarono la questione del carattere erano convinti che gli italiani avessero bisogno di intraprendere un processo di riforma morale, se si voleva che l’Italia diventasse una grande e moderna nazione. Come ha osservato Emilio Gentile, «[d]opo l’unificazione politica, la riforma del carattere degli italiani era la maggior impresa che gli artefici della Nuova Italia dod’Azeglio, I miei ricordi cit., vol. I, p. 6. Ibidem. 4 Per un esempio recente cfr. N. Doumanis, Italy, Arnold, London 2001, p. 87. 5 I contemporanei ne erano ben consapevoli: cfr. per esempio Antonio Reale, il quale spiegava che il significato della frase di d’Azeglio era il seguente: gli italiani «in passato non esistevano se non come razza» e «ora dobbiamo trasformarli in liberi cittadini di uno Stato libero». A. Reale, Nazione e famiglia. Studio intorno al carattere, Tip. Pirola, Milano 1878, p. 33. 2 3

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vevano affrontare»6. Questa riforma, secondo Gentile, si fondava su ciò che egli definisce il «mito ‘negativo’» del carattere degli italiani, e cioè l’idea condivisa da molti patrioti che le abitudini e la mentalità della popolazione erano state gravemente corrotte da secoli di dominazione straniera, e che era necessaria una profonda rigenerazione. Tuttavia, il carattere nazionale non era soltanto un «mito». Gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento furono testimoni di un intenso conflitto politico, e il discorso sul carattere costituiva un veicolo per l’espressione di punti di vista differenti su quale dovesse essere l’assetto del nuovo Stato. Più precisamente, nell’Italia appena unificata discutere del carattere nazionale era una maniera per affrontare questioni concernenti il governo e l’egemonia (nel senso gramsciano di effettiva direzione intellettuale e morale oltre che politica7) nel nuovo Stato liberale. Governare il nuovo paese non era affatto facile, per usare un eufemismo. Il governo nazionale non solo doveva contrastare la sfida del brigantaggio nelle regioni meridionali, ma anche confrontarsi con l’opposizione intransigente della Chiesa cattolica, che non riconosceva neanche la legittimità del nuovo Stato e rifiutava tutto ciò che aveva a che fare con il liberalismo. Perciò nel caso dell’Italia veniva a mancare il sostegno di quel gruppo che nell’Ottocento continuava a costituire un pilastro per il potere statale in molti paesi, ovvero il clero. La scarsa affluenza alle urne elettorali – alle quali, in ogni caso, aveva accesso, fino al 1882, solamente il 6 per cento circa dei maschi adulti – rese subito evidente il fatto che le neonate istituzioni politiche non riscuotevano molta popolarità nemmeno tra le élites sociali. Oltretutto il nuovo Stato era contestato dai repubblicani, che disprezzavano la monarchia e chiedevano a gran voce un’azione militare per annettere le regioni che si trovavano ancora sotto la dominazione straniera. In breve, le élites liberali e moderate che erano al potere governavano ma non erano egemoniche: i loro valori erano dominanti nell’apparato statale ma non permeavano la società e sembravano estranei alla maggioranza della popolazione. 6 E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, p. 37. 7 Su questa nozione si veda A. Gramsci, Quaderno 19. Risorgimento italiano, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1975, pp. 98-100.

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In questo contesto il discorso sul carattere che prese forma nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta evidenziava nuove tematiche e una nuova enfasi, che gli davano una fisionomia ben diversa da quella che aveva nella fase risorgimentale. Il carattere degli italiani non era più solo un tema del discorso politico, ma divenne anche il soggetto di interi trattati dedicati esclusivamente alla sua descrizione e alla sua analisi. In questa letteratura, l’ozio, il «vizio» più grave degli italiani e, come abbiamo visto, dominante durante il Risorgimento, assumeva più frequentemente il significato di pigrizia o di mancanza di un’etica lavorativa. Emergevano anche altri difetti, di tipo politico, che avevano una rilevanza particolare nello scontro sempre più duro tra il nuovo Stato e il suo principale oppositore, la Chiesa cattolica. Ora che l’Italia era una nazione, parlare di carattere nazionale significava anche stabilire un paragone più esplicito con le altre nazioni. I modelli da emulare erano l’Inghilterra, e, sempre più dopo il 1870, la Germania. Anche se il positivismo si era affermato nella cultura e gli statistici e i sociologi cominciavano a fornire fatti «positivi» per conoscere le realtà del nuovo Stato e della nuova società8, le descrizioni del carattere degli italiani continuavano a essere basate più su luoghi comuni di diversa origine che su osservazioni empiriche raccolte in maniera sistematica o «scientificamente». Con poche eccezioni, la letteratura sul carattere non faceva uso dei «fatti positivi», ma favoriva le citazioni, specie di testi che divennero paradigmatici nella cultura del nuovo Regno.

Rimproveri paterni: pubblici moralisti nella nuova nazione I miei ricordi di d’Azeglio costituiscono un testo fondamentale di quella «pedagogia patriottica» in cui dopo l’unificazione si impegnarono vari politici e intellettuali liberali9. Secondo l’editore Gaspero Barbera (egli stesso ardente propugnatore della edu8 Su questo punto cfr. il mio Numbers and Nationhood: Writing Statistics in Nineteenth-Century Italy, Cambridge University Press, Cambridge 1996. 9 Prendo in prestito l’espressione «pedagogia patriottica» da B. Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Laterza, Roma-Bari 1991, p. VIII.

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cazione del carattere), l’impatto iniziale del libro fu «straordinario». Barbera spiegava così questo successo quindici anni dopo l’uscita del volume, quando le vendite continuavano a essere sostenute: «Leggendo I miei ricordi parve al pubblico di udire la parola severa ma piena di benevolenza ed autorevole, il consiglio sincero di un vecchio amico, di un padre, che dicesse senza reticenze agl’Italiani ciò che ad essi faceva difetto per divenire uomini di proposito e di carattere. Ogni ordine di cittadini udì con grato animo quei rimproveri e quei consigli di oltre tomba, e parve di scorgere in quelle parole un’era nuova promettitrice di fatti egregi. Il libro è ormai in ogni famiglia italiana un po’ a modo, e si dà in premio nelle scuole»10 [il corsivo è mio]. Nella sua narrazione autobiografica d’Azeglio spiegava come fosse diventato un uomo di carattere: nato in un’antica famiglia aristocratica, aveva rifiutato la scelta tipica dei figli cadetti della sua condizione sociale (la carriera militare) e aveva preferito invece una vita bohémienne, da artista (in realtà la sua vita era bohémienne solo in apparenza, nel senso che d’Azeglio era diventato un pittore e scrittore di successo, cosa di cui era chiaramente piuttosto orgoglioso)11. Il libro presentava inoltre una galleria di figure esemplari di quei familiari e amici che gli erano stati fonte di insegnamenti morali. La narrazione piuttosto vivace delle sue avventure giovanili e della sua entrata nell’età adulta alleggeriva la componente pesantemente pedagogica del testo (cosa che lo aveva persino preoccupato durante la stesura)12. Gli insegnamenti morali erano rivolti sia all’individuo che alla collettività, senza alcuna soluzione di continuità. In effetti, il racconto delle sue esperienze di vita era continuamente inframmezzato da considerazioni morali, da osservazioni sui vizi degli italiani e da numerosi appelli per una riforma del 10 G. Barbera, Memorie di un editore, Barbera, Firenze 1930 (ed. or. 1883), p. 335. 11 Sulla vita di d’Azeglio cfr. R. Marshall, Massimo d’Azeglio: An Artist in Politics 1798-1866, Oxford University Press, London 1966, e la voce di W. Maturi nel Dizionario biografico degli italiani. Come dimostra il caso di d’Azeglio, mentre in Inghilterra il linguaggio usato nel discorso del carattere era chiaramente l’espressione di una reazione antiaristocratica della middle class (cfr. S. Collini, The Idea of «Character» in Victorian political Thought, in «Transactions of the Royal Historical Society», 5th s., 35, 1985, p. 40), in Italia era fatto proprio anche da segmenti dell’aristocrazia liberale. 12 Cfr. la nota di Ghisalberti (nota 1) all’edizione critica del testo, p. LVII.

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carattere nazionale. D’Azeglio, che esprimeva molti dei punti di vista del cugino e intimo amico Cesare Balbo, vedeva gli italiani come un popolo profondamente corrotto dalle sue esperienze e istituzioni storiche. In alcune regioni (specialmente negli Stati pontifici) i governi assoluti e il latifondo avevano generato atteggiamenti servili e un’attitudine alla doppiezza, un tratto quest’ultimo che si riproduceva puntualmente in quelle sette politiche che egli trovava profondamente biasimevoli13. D’Azeglio, che non era del tutto imparziale nei confronti del «carattere piemontese» e tendeva ad affrancarlo dai mali che affliggevano il resto d’Italia14, era angustiato dall’«italico dolce far niente» e dai comportamenti della «sfiancata razza latina»15. Poiché le loro cattive abitudini erano così radicate, gli italiani avevano estremo bisogno di riformare e rigenerare il proprio carattere: a questa impresa, difficile ma non impossibile, egli stesso aveva voluto dare un contributo quando aveva cominciato a scrivere racconti storici intesi a esaltare le virtù degli eroi italiani del passato, ad esempio Ettore Fieramosca, la storia tragica di un mercenario del Cinquecento che aveva combattuto per riscattare l’onore degli italiani insultati dai francesi16. D’Azeglio è forse il più conosciuto, ma non era l’unico esponente della generazione dei «padri fondatori» (se possiamo adottare questo termine per riferirci a un gruppo di individui che molto spesso erano in disaccordo politico tra di loro) che verso la metà degli anni Sessanta dell’Ottocento rimproveravano aspramente gli italiani. Giuseppe Mazzini, che più di altri aveva connotato il Risorgimento in termini di rigenerazione del carattere degli italiani, non poteva non essere deluso dall’esito della lotta per l’unificazione. Non solo la monarchia piemontese aveva vinto, frustrando le speranze dei repubblicani, ma il modo in cui si era giunti all’unità – attraverso l’alleanza con un «despota» straniero come Napoleone III – si rifletteva necessariamente, e in maniera estremamente negativa, sulla moralità del paese. Nella primavera del 1866, mentre in tutta la penisola si continuava a discutere animatamente su d’Azeglio, I miei ricordi cit., vol. I, p. 77, vol. II, p. 75. Ivi, vol. I, pp. 67, 145. 15 Ivi, pp. 145, 244. 16 Ivi, pp. 344-345. L’Ettore Fieramosca, ossia la disfida di Barletta fu pubblicato nel 1833. 13 14

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come completare l’unificazione, il giornale repubblicano «Il dovere» pubblicò un articolo intitolato La questione morale, in cui Mazzini accusava gli italiani di mancanza di «coscienza dei [loro] fati» e di non avere un «senso di missione» e di «dignità d’uomini e cittadini»17. Gli italiani erano rimasti «servi nell’anima, servi nell’intelletto e nelle abitudini, servi a ogni potere costituito, a ogni meschino calcolo d’egoismo, a ogni indegna paura [...]. Rinati decrepiti, portiamo avvinta al piede l’antica catena, e nell’animo il solco di tutti i vizi, di tutte le fiacchezze del secolo XVII»18. In queste dure accuse si riflettevano in particolare la delusione e il disappunto dei repubblicani intransigenti nel vedere che il governo italiano non voleva completare il processo di unificazione in maniera ai loro occhi «onorevole», cioè combattendo una guerra per l’acquisizione di Venezia e di Roma. Ma quando la guerra arrivò, arrivarono anche le sconfitte umilianti inflitte dagli austriaci all’esercito e alla marina italiana a Custoza e Lissa, che sembravano confermare il vecchio stereotipo della mancanza di attitudini militari degli italiani. Allora le riflessioni pessimiste sugli italiani si diffondevano anche tra gli intellettuali di convinzione moderata. Uno di questi era Pasquale Villari – allievo di Francesco De Sanctis – che sarebbe in breve tempo diventato lo storico più noto dell’Italia liberale. In un famoso articolo pubblicato dalla rivista milanese «Il Politecnico» nel settembre 1866 e intitolato Di chi è la colpa?, Villari si proponeva di identificare le ragioni di quelle sconfitte, e sosteneva che bisognava guardare al di là della responsabilità dei comandanti militari e dei politici. Tutto il popolo italiano condivideva la responsabilità: «le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale, e la retorica che ci rode le ossa»19. L’intero paese doveva fare un serio esame di co17 G. Mazzini, La questione morale, in «Il dovere», 3 marzo 1866 (ristampato anche come pamphlet in «L’unità Italiana», 9 marzo 1866). La citazione è ripresa da Id., Scritti editi e inediti, vol. 83, Galeati, Imola 1940, p. 195. 18 Mazzini, La questione morale, ivi, p. 195. 19 P. Villari, Di chi è la colpa? O sia la pace e la guerra, in Id., I mali dell’Italia. Scritti su mafia, camorra e brigantaggio, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1995, p. 193 (pubblicato in origine in «Il Politecnico», 4a serie, vol. 2, 1866). Questo saggio ebbe un’ampia circolazione e fu ristampato in varie edizioni degli scritti

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scienza e capire che ciò che era mancato era la forza di volontà; soltanto «la modestia, la volontà, il lavoro» avrebbero costituito le fondamenta di un sistema liberale e fornito la vera soluzione ai problemi del paese aiutando a ricostruire la reputazione dell’Italia agli occhi delle altre nazioni. Anche se non era un democratico, Villari condivideva con i democratici l’idea che lo Stato italiano fosse macchiato da un «peccato originale», cioè dal non essere il prodotto di una «vera rivoluzione», e che questo fatto fosse all’origine della sua debolezza. Il potere era ancora nelle mani di uomini anziani cresciuti nel clima moralmente corrotto e corruttore dei vecchi regimi, invece di essere esercitato da una nuova generazione temprata dalla lotta patriottica. Per superare le difficoltà del momento c’era bisogno di uomini che – al contrario della tradizione dei «retori» – affrontassero la realtà osservandola in maniera diretta ed empirica, e senza la presunzione del primato degli italiani20. Come avrebbe sottolineato in seguito nei suoi scritti sulla questione meridionale, pubblicati nel 1875, Villari sosteneva che per risolvere i molti problemi del paese, specialmente nel Meridione, era necessario che gli uomini della nuova Italia fossero animati da un nuovo ideale e da una nuova moralità21. Ma colui che nei suoi scritti attribuì al tema dei difetti e della rigenerazione morale degli italiani un’importanza forse ancora maggiore di quanto facessero d’Azeglio, Mazzini e Villari, fu Francesco De Sanctis, storico della letteratura, cinque volte ministro dell’Istruzione e autore di un’opera che divenne il libro di testo più usato nelle scuole superiori dell’Italia liberale. La sua Storia della letteratura italiana (1870-1871), un compendio magistra-

politici di Villari: cfr. per esempio Saggi di storia, di critica e di politica, Tip. Cavour, Firenze 1868, pp. 385-422. Sull’impatto di queste sconfitte nell’opinione pubblica italiana si veda anche G. Belardelli, «Gli italiani non si battono», in AA.VV., Miti e storia dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 63-69. 20 Sulle riflessioni di Villari e di altri positivisti sul carattere degli italiani cfr. anche R. Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Bollati Boringhieri, Torino 1994, cap. 7. 21 Cfr. P. Villari, I rimedi, in Id., Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Le Monnier, Firenze 1878, pp. 61-76. Su questi scritti cfr. anche J. Dickie, Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, 1860-1900, St. Martin’s Press, New York 1999, cap. 2.

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le che spazia dalle origini all’Ottocento, era molto più che una storia letteraria. Divenne infatti la narrazione della formazione civile dell’intera nazione italiana osservata attraverso la storia della sua componente cruciale: i suoi uomini di lettere. De Sanctis sottolineava la «funzione civile» della letteratura, e ne presentava la storia come una storia dei suoi artefici e della loro «missione» nazionale. Nelle sue pagine, Niccolò Machiavelli divenne il precursore dei valori patriottici e liberali ottocenteschi, colui che aveva aperto la via ai concetti di autonomia individuale, di patria, di nazionalità, libertà, eguaglianza, virilità, lavoro e serietà; in contrasto, Francesco Guicciardini rappresentava una generazione più fiacca e corrotta, che pur condividendo le aspirazioni di Machiavelli mancava di volontà e non era capace di sostenerle22. Il problema era che «l’uomo del Guicciardini» dominava ancora il modo di pensare degli italiani e quindi oscurava la memoria del «Lutero italiano», Machiavelli. L’«uomo del Guicciardini» di De Sanctis rappresentava l’opposto della virtù civile, l’assenza di qualunque interesse per il bene comune, la regola del proprio particulare, ovvero dell’interesse personale. Fin dall’emergere di questo tipo di uomo nel Cinquecento, la «tempra nazionale» si era indebolita e tutte le «virtù della forza» si erano dissolte. Lo spirito di iniziativa, la generosità, il sacrificio personale, il patriottismo, la tenacia, la disciplina, erano stati rimpiazzati dalle «qualità proprie della fiacchezza morale» quali la dissimulazione, la malizia, la doppiezza, l’ambiguità, la prudenza e la pazienza. Ed era stato allora, scriveva De Sanctis, che l’Italia aveva finito per cadere in quello stato di «sonnolenza che i nostri vincitori con un mortale scherno trasportarono ne’ loro vocabolari e chiamarono il ‘dolce far niente’»23. Per la verità, in seguito altri italiani avevano fatto sentire la loro voce per indicare la via d’uscita da questo stato di profonda degradazione morale: nelle sue conferenze del 1872 dedicate a Mazzini, De Sanctis descriveva il patriota come colui che dopo «tre secoli vergognosi di decadenza» aveva compreso meglio di ogni al22 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Rizzoli, Milano 1983, vol. 2, cap. 15. L’edizione originale uscì nel 1870-1871. 23 Id., L’uomo del Guicciardini, in F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di P. Alatri, vol. 3, Treves, Milano 1921, p. 47 (ed. or. in «Nuova Antologia», vol. 12, 1869, pp. 219-235).

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tro che «per rifare la nazione, bisognava rifare il carattere»24. Nelle conclusioni della sua Storia invitava gli italiani a guardarsi con severità: «L’ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozii, le reminiscenze d’una servitù e abbiezione di parecchi secoli», scriveva, avevano indebolito le coscienze; da parte loro, i letterati avevano una forte disposizione all’«enfasi e alla retorica» e a vivere del «passato e di lavoro altrui»25. All’indomani della disfatta della Francia nella guerra del 1870, gli scritti di De Sanctis avrebbero sempre più rispecchiato l’influenza della Réforme morale et intellectuelle de la France di Ernest Renan, un’opera che sferzava senza pietà tutti i «difetti» della società francese che avevano portato a quella sconfitta, e che invitava i francesi a imparare dai prussiani. Allo stesso modo, De Sanctis invitava gli italiani a capire che cosa aveva reso possibile la vittoria prussiana per derivarne gli insegnamenti appropriati26. D’Azeglio, Mazzini, Villari, De Sanctis: per tutti questi «pubblici moralisti»27 il Risorgimento non era finito nel 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia (e di fatto non finì neanche con l’annessione di Roma), e non solo perché l’unificazione del territorio non era stata completata. In realtà, il lavoro di edificazione dello Stato, inteso come rigenerazione del carattere degli italiani, stava appena iniziando, e se i primi anni dell’Italia «rigenerata» davano una qualche indicazione, sarebbe stato necessario molto tempo per portarlo a termine. Nel 1868 «L’Italiano», una rivista 24 Cit. in S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Feltrinelli, Milano 1977, p. 422. 25 De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., pp. 984-985. Sul lavoro di De Sanctis cfr. Landucci, Cultura e ideologia cit. Sull’importanza della Storia di De Sanctis per l’identità nazionale italiana cfr. anche E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Mondadori, Milano 1998, cap. 1. Per un breve profilo di De Sanctis cfr. D. Mack Smith, Francesco De Sanctis: The Politics of a Literary Critic, in J.A. Davis e P. Ginsborg (a cura di), Society and Politics in the Age of Risorgimento. Essays in Honour of Denis Mack Smith, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 251-270. Cfr. anche la voce di A. Marinari e C. Muscetta nel Dizionario biografico degli italiani. 26 Landucci, Cultura e ideologia cit., p. 406. 27 Prendo in prestito l’espressione da S. Collini, Public Moralists. Political Thought and Intellectual Life in Britain 1850-1930, Clarendon Press, Oxford 1991. Sugli atteggiamenti di questa generazione di intellettuali cfr. anche A. Asor Rosa, La Cultura, in Storia d’Italia, vol. 4, Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1975, pp. 821-839.

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vicina alle posizioni di De Sanctis, ricordava ai lettori: «L’Italia c’è, ma non c’è ancora l’italiano. Noi non siamo ancora italiani, perché dinanzi allo straniero non solleviamo ancora la fronte [...] perché il sentimento della legge non esiste né in alto né in basso [...] perché la libertà è ancora sulla carta e [...] non è ancora penetrata nei nostri costumi [...] se è stato difficile fare l’Italia, è opera assai più difficile e più lunga fare gli italiani»28.

Le virtù del contare sulle proprie forze: Samuel Smiles arriva in Italia Se i problemi che il nuovo Stato doveva affrontare erano essenzialmente una questione di uomini e di carattere, l’educazione poteva fornire una soluzione. Non è quindi un caso se le opere di Samuel Smiles, il profeta inglese del self-help – la capacità di contare sulle proprie forze – e il principale teorico delle virtù del carattere, divennero molto popolari in Italia subito dopo l’unificazione. Come abbiamo già osservato, nell’Europa dell’Ottocento in generale, e in Inghilterra in particolare, l’idea del carattere era una componente importante del pensiero politico29. I vittoriani attribuivano un ruolo di vasta portata al carattere, inteso sia nel suo significato descrittivo di insieme di attitudini e qualità di un individuo e di una collettività, sia in quello, valutativo, di qualità o virtù morale. Secondo Stefan Collini, il carattere inteso nel primo significato «era notoriamente l’elemento esplicativo preferito nell’analisi dei differenti destini umani, proprio come [...] il carattere nazionale giocava un ruolo di primo piano nello spiegare la varietà di esiti storici su più larga scala»30. Il principale divulgatore di questa teoria fu Samuel Smiles, probabilmente uno dei più influenti scrittori dell’Ottocento: i suoi libri, che esaltavano la 28 «L’italiano», 22 dicembre 1868. L’articolo si trova in F. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo stato unitario, a cura di F. Ferri, Einaudi, Torino 1960, p. 293. 29 Per l’importanza di questa idea in Gran Bretagna cfr. Collini, The Idea of «Character» cit., pp. 29-50; per la sua presenza nel pensiero europeo cfr. R. Romani, National Character and Public Spirit in Britain and France, 1750-1914, Cambridge University Press, Cambridge 2002. 30 Collini, The Idea of «Character» cit., p. 33.

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virtù del carattere, furono tradotti in molte lingue ed ebbero ampia diffusione in molti paesi. Nelle conclusioni di uno dei suoi bestseller, Self-Help, Smiles affermava: «Sono soprattutto le qualità morali che governano il mondo [...]. La forza, l’industria e la civiltà dei paesi dipendono tutte dal carattere individuale; e le stesse fondamenta della sicurezza civile poggiano su di esso. Le leggi e le istituzioni sono semplicemente prodotti del carattere. Nel bilancio imparziale della natura, gli individui, gli Stati e le razze otterranno solo quanto meritano, e non di più»31. I cittadini britannici erano senza dubbio compiaciuti di sentire una riaffermazione così forte dei fondamenti morali del successo della loro nazione. In effetti, l’importanza del carattere, individuale e nazionale, era una caratteristica che risaltava anche nel pensiero del più eminente pensatore liberale inglese del suo tempo, John Stuart Mill. Nelle sue Considerations on Representative Government (1861), Mill affermava che il governo rappresentativo era «idealmente un’ottima forma di governo» perché, tra le altre cose, favoriva una «forma di carattere nazionale migliore e più nobile». Allo stesso tempo, il carattere nazionale era anche un «fatto esistente» che poneva dei limiti alla capacità dei legislatori32: il governo rappresentativo era «pratico o idoneo» solo per certi popoli in un certo stato di civiltà e non per altri (Mill pensava in particolare agli «orientali», ma nel suo schema mentale le popolazioni dell’Europa meridionale erano «prossime agli orientali»)33. Mill arrivò ad affermare che la causa e la condizione «principale» del buongoverno sono le «qualità degli esseri umani che compongono la società sulla quale il governo esercita la propria funzione»34.

31 S. Smiles, Self-Help with Illustrations of Conduct and Perseverance, IEA, London 1996, p. 235 (ed. or. 1859). 32 G. Varouxakis, National Character in John Stuart Mill’s Thought, in «History of European Ideas», 24, 1999, pp. 375-391. 33 J.S. Mill, Considerations on Representative Government, Harper, New York 1862, pp. 64, 72 (ed. or. 1861). 34 Oltre a ragionare sul carattere nazionale in questo contesto, Mill intendeva scrivere uno «studio scientifico» sull’argomento, come dichiarava nella sua Logic: in questo studio, che si sarebbe chiamato «Etologia Politica», Mill avrebbe esposto la «teoria delle cause che determinano il tipo di carattere che appartiene a un popolo o a un’epoca»; il progetto non si materializzò mai. Cfr. Varouxakis, National Character cit., p. 376.

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Il discorso sul carattere che andava prendendo forma nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento condivideva assunti simili sulla relazione tra governo e governati, malgrado non fosse un linguaggio politico pienamente articolato come nell’Inghilterra vittoriana, e Smiles dette un contributo significativo in questo senso. Oltre al Giappone, l’Italia fu il paese in cui probabilmente Smiles riscosse il maggior successo al di fuori della Gran Bretagna, come riconobbe egli stesso nella sua autobiografia. Le diciotto edizioni della traduzione italiana del Self-Help – il libro fu intitolato Chi si aiuta Dio l’aiuta, probabilmente per renderlo più accettabile a un pubblico cattolico – nel 1889 avevano venduto 75.000 copie: un bestseller, per quei tempi35. Anche un altro lavoro di Smiles, Character (1871), fu subito tradotto in italiano e riscosse un successo immediato36. L’editore, Gaspero Barbera, nelle sue memorie scritte nei primi anni Ottanta notava che il libro aveva suscitato «un poco di fanatismo» e che era stato ristampato tre volte nello stesso anno per un totale di 70.000 copie. Secondo Barbera, il fatto che le vendite del Carattere continuassero a buon ritmo dieci anni dopo la prima edizione era «segno evidente che la coltura morale degli Italiani [andava] migliorando»37. Mentre Self-Help era una raccolta di storie di vita esemplari di uomini che si erano fatti da sé, Character era un trattato che descriveva una per una le virtù che formano il carattere, e spiegava le relazioni che le legavano l’una all’altra e le condizioni che ne favorivano lo sviluppo. Anche in questo testo veniva offerto alla meditazione del lettore l’esempio di individui straordinari. Nonostante avessero una diversa impostazione, ambedue i libri di Smiles celebravano le virtù che insieme formavano il vero uomo di 35 Il traduttore fu G. Strafforello, anch’egli un autore prolifico di testi di selfhelp; il testo fu pubblicato a Milano dagli Editori della Biblioteca Utile. Su questa letteratura cfr. G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’unità, Laterza, RomaBari 1981, cap. 2; S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Marsilio, Venezia 1979, e Id., Il Plutarco italiano: l’istruzione del popolo dopo l’unità, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 551-587. 36 S. Smiles, Il carattere, trad. it., Barbera, Firenze 1872. 37 Barbera, Memorie cit., p. 388. Tra l’altro, Barbera affidò al naturalista piemontese Michele Lessona l’incarico di scrivere un testo che avrebbe dovuto essere l’equivalente italiano del Self-Help di Smiles. Si veda il risultato in M. Lessona, Volere è potere, Barbera, Firenze 1868.

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«carattere» o «il vero gentleman» (il titolo dell’ultimo capitolo di Self-Help): autodisciplina e controllo, una forte etica del lavoro, onestà, affidabilità, perseveranza, energia, coraggio. Il carattere veniva definito «l’incarnazione più nobile dell’essere umano»38. Inutile dire che questo essere umano era molto caratterizzato in termini di genere: tra i personaggi eroici del Self-Help non figurava neanche una donna, anche se spesso la donna era presente sulla scena come dispensatrice di aiuto o ispirazione. La nozione di carattere si applicava alla sfera pubblica del lavoro e della politica, dalla quale l’ideologia della domesticità della Gran Bretagna vittoriana escludeva le donne. Il carattere era concettualizzato in termini maschili: nessuna delle qualità specifiche che un vittoriano associava alla femminilità (docilità, abnegazione, sollecitudine per gli altri, e così via) ne definiva l’essenza39. Benché il ruolo della donna, in casa, fosse importante per la formazione del carattere, quest’ultimo era essenzialmente un attributo del gentleman, in quanto personificava l’ideale della mascolinità che verso la fine dell’Ottocento stava diventando egemonico tra le classi medie del mondo anglo-americano40. Smiles parlava principalmente del carattere individuale, ma era fermamente convinto anche dell’esistenza di una forma collettiva di carattere, inteso come attributo della nazione. Dal momento che le nazioni non erano altro che aggregazioni di individui, il carattere di una nazione dipendeva dal carattere prevalente degli individui che la formavano. Come abbiamo visto in precedenza, verso la metà dell’Ottocento il concetto di carattere nazionale serviva sempre più a spiegare in maniera assai convincenS. Smiles, Character, J. Murray, London 1872, p. VI. Qualche anno dopo, Smiles deve essersi sentito costretto a modificare questa immagine fortemente maschilista, dal momento che nel Character (1872) assegnò alla donna un ruolo importante nel formare uomini «di carattere»: in un capitolo intitolato Home Power Smiles esaltava la figura della madre-donna di casa, e nel penultimo capitolo, Companionship in Marriage, sottolineava l’influenza morale delle mogli, amiche e compagne nel matrimonio. Naturalmente questi ruoli della donna erano ruoli subordinati: Smiles non poteva ignorare la presenza sempre più evidente delle donne nella scena politica, ma reagiva alla loro richiesta di emancipazione mettendo in campo l’ideologia della domesticità. 40 Cfr. J.A. Mangan e J. Walvin (a cura di), Manliness and Morality. MiddleClass Masculinity in Britain and America: 1800-1940, Manchester University Press, Manchester 1987. 38 39

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te il successo o il fallimento nell’arena internazionale. Riguardo all’Inghilterra, come molti suoi compatrioti Smiles non aveva alcuna difficoltà nel considerare il carattere «la vera origine della libertà e della ricchezza della Gran Bretagna»41. Gli ammiratori italiani di Smiles, che allora erano noti collettivamente come «self-helpisti», produssero una letteratura che seguiva più o meno fedelmente il modello del Self-Help, nel senso che presentava raccolte di storie di vita esemplari perché il pubblico le imitasse. Fu il naturalista piemontese Michele Lessona a scrivere l’archetipo di questo genere di testi, Volere è potere (1868), in cui raccontava la vita di self-made men di tutte le regioni d’Italia per l’edificazione dei lettori42. In otto anni ne uscirono nove edizioni. L’iniziativa aveva un appoggio ufficiale. Verso la metà degli anni Sessanta il ministro degli Esteri Federico Menabrea aveva incoraggiato la pubblicazione dell’equivalente italiano del Self-Help, e aveva sollecitato i consolati a fornire informazioni sui connazionali che lavoravano all’estero e che erano riusciti a «onestamente arricchirsi» superando ostacoli e difficoltà43. Gli «smilesiani» italiani scrissero romanzi e testi edificanti che spiegavano ai lettori delle classi medio-basse quali ricompense poteva dare un buon carattere. Il racconto Chi dura la vince, per esempio, narrava le avventure di un povero orfano che dopo diverse vicissitudini era riuscito ad avere successo nel mondo grazie alla sua forza di volontà e ai suoi buoni principi44. Qua e là, nella storia dell’orfano erano disseminati numerosi attacchi a idee come l’emancipazione femminile e la solidarietà tra i lavoratori. Oltre a questo genere di letteratura edificante, alcuni scrittori pubblicarono anche lavori analitici che esaminavano le ragioni per cui gli italiani non possedevano un «carattere elevato», oltre a dare suggerimenti e proporre possibili rimedi all’attenzione delle classi istruite e delle élites di governo. L’elaborazione di questo tipo di lavori era spesso sollecitata dalle accademie letterarie e scientifiche e da fondazioni filantropiche. Ad esempio, per citare alcuni autori di cui ci occuperemo fra poco, Carlo Lozzi e Dino CariRomani, National Character cit., p. 239. Lessona, Volere è potere cit. 43 Lanaro, Il Plutarco italiano cit., p. 561. 44 P. Lioy, Chi dura la vince, Tipografia già Domenico Salvi, Milano 1871. 41 42

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na presentarono le loro opere al concorso a premi lanciato nel 1868 dalla Reale Accademia di scienze, lettere e arti di Modena, concorso che aveva per tema la ricerca delle cause e degli effetti dell’ozio in Italia, e le iniziative di carattere morale per ridurlo. Anche Augusto Alfani, Angelo Mazzoleni e Antonio Reale presentarono i loro lavori a un concorso, il Premio Ravizza, lanciato nel 1875 da un filantropo milanese: il tema era l’importanza dell’istruzione nella formazione del carattere «come fondamento del coraggio civile, della perfetta veracità e dell’operare conseguente», e i principi e i sistemi pratici per arrivare a tale risultato45. A causa dell’influenza del modello inglese del self-help, in questa letteratura il tema dell’ozio concerneva assai più il mondo del lavoro di quanto non avvenisse negli scritti del periodo risorgimentale esaminato nel capitolo precedente. Hanno certamente ragione gli storici che hanno interpretato questi testi principalmente come un tentativo di incoraggiare una nuova etica negli affari, al fine di legittimare il capitalismo e di attaccare il socialismo46 – a patto che si limiti questa loro interpretazione solo a una componente di tale letteratura, vale a dire le opere che seguivano più strettamente i precetti di Smiles. Ma gli autori italiani – cattolici e laici – che 45 La citazione è tratta da Lanaro, Il Plutarco italiano cit., p. 561, n. 61. Esempi di questa letteratura sono C. Lozzi, Dell’ozio in Italia, Unione TipograficoEditrice Torinese, Torino 1870-1871; A. Mazzoleni, Il popolo italiano. Studi politici, Vallardi, Milano 1873, e Il carattere nella vita italiana, Galli e Omodei, Milano 1878. 46 Cfr. G. Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Einaudi, Torino 1974, pp. 309-365. Cfr. anche Lanaro, Il Plutarco italiano cit., in cui l’autore sviluppa ulteriormente l’interpretazione della cultura della borghesia italiana nel periodo liberale che aveva offerto in Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Marsilio, Venezia 1979. In ogni caso, ambedue gli autori costringono il significato di questa letteratura entro parametri piuttosto riduttivi, dal momento che si interessano principalmente delle differenze rispetto al modello inglese. Ai suoi tempi, lo stesso Smiles era considerato da alcuni un apologeta del successo materiale e dell’affarismo egoistico, interpretazione che Smiles e i suoi seguaci respingevano con veemenza. In realtà, come sostengono studi recenti, il messaggio di Smiles non può essere ridotto alla celebrazione del self-made man. Tra l’altro, egli credeva che il successo assume molte forme, compreso il riconoscimento a livello sociale che premia la scoperta di qualcosa di utile per l’umanità: cfr. T. Travers, Samuel Smiles and the Victorian Work Ethic, Garland Publishing, New York-London 1987.

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scrivevano libri sul carattere fecero proprio e interpretarono il messaggio di Smiles in maniere diverse e svilupparono una varietà di temi, alcuni dei quali preesistevano al movimento smilesiano, mentre altri rispecchiavano una precisa preoccupazione per la qualità della leadership e della cittadinanza necessarie in uno Stato fondato sulla libertà. In questo contesto il catalogo dei vizi degli italiani era destinato a diventare più nutrito.

Ancora dell’ozio (ma non solo) Nell’introduzione al suo trattato Volere è potere (1868), l’archetipo degli scritti self-helpisti, Michele Lessona notava che gli italiani non possedevano una buona disposizione per il lavoro, e che avevano ereditato, tra gli altri mali, un certo «disprezzo per la ricchezza». Contrariamente agli inglesi, gli italiani invidiavano i ricchi, specialmente quelli che si erano fatti da sé, e avevano la tendenza ad aspettarsi troppo dal governo, anche se allo stesso tempo mostravano una grande sfiducia nei suoi confronti. Il loro sistema di valori aveva bisogno di un cambiamento radicale47. Per Carlo Lozzi, avvocato e patriota marchigiano, autore di un ponderoso studio intitolato Dell’ozio in Italia (1870-1871), la diffusione a livello internazionale dell’espressione italiana «dolce far niente» dimostrava chiaramente che l’ozio era veramente il principale vizio nazionale. Ignaro forse del fatto che anche in altre lingue vi erano molti sinonimi di ozio, Lozzi aggiungeva che non a caso il vocabolario italiano era così ricco di termini che indicavano stati o atteggiamenti simili a quelli dell’ozio quali «inerzia, apatia, indecisione, fiacchezza, accidia»48. Per la nobildonna milanese Cristina Trivulzio di Belgiojoso, la subordinazione politica all’Austria aveva alimentato una tendenza sempre più marcata all’ozio in una popolazione meridionale già poco incline al duro lavoro49. Lessona, Volere è potere cit., pp. 30-35. Lozzi, Dell’ozio in Italia cit., p. 15. Lozzi citava frequentemente Gioberti, Balbo, d’Azeglio, Villari. 49 C. Trivulzio di Belgiojoso, Osservazioni sullo stato attuale dell’Italia e sul suo avvenire, Tipografia del dottor Francesco Vallardi, Milano 1868, p. 77. 47 48

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In tutti questi testi l’enfasi sull’ozio inteso come pura e semplice pigrizia e avversione per il lavoro era inequivocabile, ma vari autori continuavano a essere preoccupati anche per le dimensioni più specificamente morali di questo vizio. Secondo Carlo Lozzi, in Italia prevaleva lo scetticismo accompagnato da lassismo morale, doppiogiochismo, vigliaccheria, pigrizia intellettuale50. Per il toscano Dino Carina l’atteggiamento più preoccupante degli italiani era l’ignavia, una «condizione viziosa dell’animo» che era un ostacolo a fare il bene e, ancora peggio, a impedire il male51. Il lombardo Angelo Mazzoleni, avvocato anticlericale e deputato repubblicano, autore del Carattere nella vita italiana (1878), osservava che, come tutte le popolazioni meridionali, gli italiani non avevano sufficiente «energia e perseveranza», e ne denunciava la passività politica dichiarando che era necessario ricreare il «pubblico spirito»52. Nelle sue Prediche di un laico (1872), anche l’economista politico genovese Gerolamo Boccardo rimarcava, come d’Azeglio, la «mancanza di carattere» degli italiani: gli ingredienti necessari del carattere erano la lealtà, la forza di volontà e la fiducia in se stessi, ma l’educazione gesuita ricevuta dalle élites italiane aveva prodotto esattamente il contrario53. Il cattolico Augusto Alfani – l’autore del Carattere degli italiani (1876), che aveva vinto il Premio Ravizza – puntava il dito contro l’inclinazione a un modo di pensare «servile» e contro l’abitudine a mentire, che secondo lui erano da collegarsi alla presenza di società segrete54. E la liberale Amelia Cimino Folliero de Luna, sostenitrice di una moderata emancipazione femminile, lamentava l’apatia politica degli italiani e la loro indifferenza religiosa55. Lozzi, Dell’ozio cit., p. 113. D. Carina, Dell’ozio in Italia. Osservazioni, 3a ed. riv., Gherardi, Forlì 1871, pp. VI, VIII. 52 A. Mazzoleni, Il popolo italiano. Studi politici, Vallardi, Milano 1873, p. 213. 53 G. Boccardo, Prediche di un laico, Febo Gherardi Editore, Forlì 1872. In questo testo Boccardo sosteneva che la letteratura self-helpista italiana aveva semplificato il messaggio di Smiles riducendolo a una esaltazione dell’arricchimento materiale. 54 A. Alfani, Il carattere degli italiani, Barbera, Firenze 1876. Nei dieci anni successivi uscirono altre cinque edizioni del volume. 55 A. Cimino Folliero de Luna, L’indolenza in Italia e le donne italiane, in Id., Questioni sociali, Gargano, Cesena 1882 (ed. or. 1870), pp. 1-31. 50 51

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Alcuni erano convinti che la moralità e gli atteggiamenti pubblici degli italiani fossero inadeguati rispetto alle esigenze di una società moderna, il che necessariamente si ripercuoteva in maniera negativa sul funzionamento delle istituzioni dello Stato liberale. Leone Carpi, autore di uno dei pochi studi (se non l’unico) pubblicati in quegli anni che si preoccupavano di raccogliere qualche dato empirico sulle abitudini e sulla moralità delle élites, era molto più angustiato per i vizi delle classi alte che della gente comune, perché le prime potevano arrecare maggiori danni al corpo politico. La vecchia nobiltà, la nuova aristocrazia dei ricchi e una classe media piuttosto debole non fornivano alcun esempio positivo alle masse: «Scorgo un’aristocrazia nobiliare in decadenza, priva in gran parte di soda istruzione, pregiudicata o scettica in religione, scetticissima o intrinsecamente reproba in politica; un’aristocrazia del denaro per lo più avida, melensa, immorale, che all’idolo dell’oro fa olocausto di ogni virtù, che misura la bontà delle azioni dai subiti proventi cui possano dar luogo»56. La borghesia (che Carpi definiva «il vero nerbo della nazione») era «svegliata, solerte, virtuosa», ma allo stesso tempo estenuata da «turbe d’uomini tormentati dal bisogno, spostati ed inquieti, che assedia[va]no i pubblici uffici per rintracciarvi una nicchia che li to[gliesse] dall’inedia». Se poi si aggiungeva ai tratti negativi delle élites la presenza di un clero largamente ostile alle istituzioni nazionali, e una massa di «buoni e pacifici contadini e di proletari campagnuoli che nulla capiscono d’unità, di patria nazionale, di libere istituzioni, se non per farne oggetto delle loro imprecazioni e lamenti», lo stato del paese appariva veramente inquietante. Le preoccupazioni erano destinate ad aumentare dopo il 1870, dal momento che la gerarchia della Chiesa continuava a opporsi decisamente al nuovo Stato rifiutando il compromesso offerto dal governo con la legge delle guarentigie papali. In questi testi le descrizioni negative abbondavano al punto che uno degli autori, Antonio Reale, sentì la necessità di riflettere sull’intero complesso di questa letteratura, e concluse che vi era la tendenza a ripetere continuamente le stesse osservazioni: «Non appena uno dei più eminenti italiani [con tutta probabilità Reale si rife56

L. Carpi, L’Italia vivente. Studi sociali, Vallardi, Milano 1878, pp. 503-504.

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riva a d’Azeglio] ha dato una valutazione realistica dei suoi contemporanei, è invalsa la moda di affermare che gli italiani sono un popolo di poco carattere, indifferente, accidioso, scettico, corrotto, dissimulatore»57. Per Reale uno dei «principali punti deboli» degli italiani era proprio l’incapacità di considerare in maniera equilibrata le proprie virtù e i propri difetti58. Di conseguenza, al contrario dei suoi colleghi che come lui analizzavano il carattere degli italiani, cercò di elaborarne una rappresentazione equanime e bilanciata. Tuttavia neanche lui considerava del tutto fantasiosa l’idea che l’italiano fosse machiavellico, irreligioso, vendicativo, senza regole e indolente. Malgrado desiderasse ritoccare questo ritratto eccessivamente negativo, anche Reale concludeva che gli italiani avevano bisogno di qualche cambiamento, per poter diventare veramente «uomini di carattere». Reale era un’eccezione piuttosto che la regola tra i commentatori anticlericali, che a volte sembravano disperare di essere in grado di redimere i propri compatrioti. Nella sua indulgenza egli aveva qualcosa in comune con gli scrittori cattolici moderati, che erano meno severi nei confronti dei concittadini e naturalmente non esprimevano alcuna critica contro la Chiesa e la religione cattolica. In realtà, secondo loro gli italiani possedevano alcune caratteristiche positive: ad esempio, nel suo Carattere degli italiani (la cui struttura ricalcava quella del Character di Smiles) Augusto Alfani osservava che la popolazione aveva «una ricca e preziosa eredità di tradizioni», e per tradizioni intendeva soprattutto la cultura cattolica59: a suo parere, nel loro incontro con la modernità gli italiani portavano con sé delle risorse e non solo pesi negativi, e la tradizione cattolica costituiva precisamente una di tali risorse. Non è un caso che questa sua visione più positiva gli facesse vincere il Premio Ravizza del 1875, e che l’organo principale dell’ordine dei Gesuiti, «La civiltà cattolica» – normalmente piuttosto acrimonioso nei confronti di altri esempi di questa letteratura – gli riservasse parole di lode60. Reale, Nazione e famiglia cit., p. 31. Ibidem. 59 Alfani, Il carattere degli italiani cit. 60 Cfr. Rivista della stampa italiana, in «La Civiltà Cattolica», 10a serie, vol. 7, 1878, pp. 708-718. 57 58

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Differenze regionali alla vigilia della questione meridionale Mentre gli scritti del periodo risorgimentale avevano prestato relativamente poca attenzione alle differenze tra le varie regioni, la letteratura sul carattere successiva all’unificazione riservò loro una trattazione più ampia. Studi recenti hanno mostrato come l’annessione del Regno delle Due Sicilie nel 1860, e la lotta contro il brigantaggio negli anni immediatamente successivi, diedero origine a rappresentazioni sorprendentemente ostili che facevano dei meridionali gli «altri», gli «africani», una popolazione che aveva poco in comune con i settentrionali e con la loro civiltà61. In seguito, dalla metà del decennio successivo, le analisi della prima generazione di meridionalisti – i conservatori liberali Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino – aprirono il dibattito sulla «questione meridionale», tematizzando in maniera esplicita e ampliando la dicotomia Settentrione-Meridione. Anche i seguaci italiani di Smiles osservavano l’Italia unificata secondo un’ottica regionale, ma nei loro scritti era assente il senso di urgenza dei primi meridionalisti. Nel suo Volere è potere Lessona venivano presentate storie di vita esemplare, regione per regione, ciascuna ancorata al suo capoluogo, da Palermo a Torino, e vari altri testi dedicavano ampio spazio all’esame della diversità degli italiani in termini di abitudini e atteggiamenti. Essendo un popolo meridionale, nel complesso gli italiani tendevano a essere pigri, ma alcuni erano più pigri di altri – almeno agli occhi degli autori di cui ci stiamo occupando, per lo più originari dell’Italia settentrionale e centrale. Alcuni di costoro, imperturbabili, dipingevano come orientali ed effeminati i «napoletani», termine con cui indicavano in generale gli abitanti delle regioni meridionali, spesso senza alcuna distinzione. In quanto marchigiano, Carlo Lozzi non era esattamente un settentrionale, eppure ne diceva di tutti i colori sui napoletani, il cui «brigantaggio», sosteneva, «eclissò la ferocia degli antropofagi e de’ cannibali». «Devoti e donnaioli allo stesso tempo, chiacchieroni, millantatori ed inerti, ingegnosi e super61 Per un’analisi del discorso sulla questione meridionale cfr. Dickie, Darkest Italy cit., e N. Moe, The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2002.

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stiziosi [...] noncuranti del domani», il loro carattere rassomigliava «in molte cose ai più decaduti orientali»62 e in termini di pulizia erano anche peggio dei «più sporchi orientali»63. Angelo Mazzoleni diceva dei napoletani più o meno le stesse cose e aggiungeva anche che erano un popolo camorrista; tuttavia attenuava le sue critiche con frequenti lodi per il loro patriottismo e il loro amore per la libertà64. I meridionali tuttavia non erano i soli a essere considerati particolarmente oziosi ed effeminati. Alcuni autori erano convinti che i toscani non stessero offrendo più un buon esempio agli italiani. Nel suo Osservazioni sul presente stato dell’Italia e sul suo avvenire (1868), Cristina Trivulzio di Belgiojoso era più critica nei confronti dei toscani che dei meridionali, e sosteneva che i primi si accontentavano di poco e amavano il dolce far niente65. L’antimeridionale Carlo Lozzi concordava con questa tesi66, e la stessa opinione emergeva nei lavori di Mazzoleni, un autore che si basava largamente anche sulle idee di d’Azeglio – in particolare su Roma – e citava interi passaggi dei Miei ricordi. A loro volta, i giudizi sui meridionali non erano tutti negativi. Il capitolo di Volere è potere che trattava di Napoli fu scritto in realtà dal napoletano Pasquale Turiello, che lodava la sua città perché aveva dimostrato di essere molto meglio di come la consideravano i «politici», la definiva «italianissima» ed enfatizzava i progressi fatti nel periodo successivo all’annessione67. Il milanese Mazzoleni lodava i napoletani per il loro attaccamento alla famiglia, per la forza del loro amore filiale e per il rispetto che portavano agli anziani68. In quegli anni, la famiglia italiana non sopportava ancora il fardello della responsabilità per la mancanza di patriottismo dei suoi figli, in contrasto a quanto sarebbe accaduto in anni a venire.

Lozzi, Dell’ozio cit., p. 63. Ivi, p. 67. 64 Mazzoleni, Il popolo italiano cit. 65 Trivulzio di Belgiojoso, Osservazioni sullo stato attuale cit. 66 Lozzi, Dell’ozio cit., p. 50. 67 Lessona, Volere è potere cit., pp. 76-77. 68 Mazzoleni, Il popolo italiano cit., p. 183. 62 63

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Eziologie del carattere Gli scrittori liberali che denunciavano la preoccupante configurazione del carattere degli italiani la imputavano a cause che differivano a seconda dei loro orientamenti ideologici, ma che tendenzialmente erano fortemente radicate nella storia. Nonostante termini come «stirpe» o «razza» ricorressero continuamente in questa letteratura, il carattere italiano non veniva ancora associato strettamente alla razza in senso biologico come sarebbe accaduto pochi anni dopo, quando anche il discorso sulla questione meridionale assunse toni ancora più marcatamente razzisti69. Analogamente al periodo risorgimentale, negli anni Sessanta e Settanta alle istituzioni e alle abitudini del passato furono addossate molte colpe. Seguendo l’esempio di Villari e di De Sanctis, i moderati come Carlo Lozzi se la prendevano con la lentezza e la pedanteria della burocrazia ereditata dallo Stato piemontese e con il retaggio di una cultura retorica entusiasta delle parole e priva di sostanza70. I liberali di orientamento fortemente laico e i repubblicani radicali sottolineavano gli effetti perniciosi della dominazione della Chiesa e del cattolicesimo romano, in particolare dal Cinquecento in poi. Era mancata una Riforma protestante, e questo aveva lasciato gli italiani nelle mani di un clero senza scrupoli, e oltretutto il controllo sull’istruzione esercitato dai preti, specialmente dai Gesuiti, aveva corrotto l’animo degli abitanti della penisola impedendo lo sviluppo di individui onesti e autonomi. Per esempio, Angelo Mazzoleni rimarcava il fatto che «i preti ed i frati, ai quali veniva in addietro, quasi esclusivamente, affidata la cura dell’educazione, avvezzarono la maggior parte degli uomini, che ora rappresentano la generazione pensante, a quell’abitudine al mendacio ed all’equivoco nei principi, a quell’andare sempre di traverso, che divenne per molti di noi quasi una seconda natura»71. Lo smilesiano Carlo Lozzi trovava riprovevole anche la quantità eccessiva di festività e di rituali cattolici72, mentre Aristide Gabelli, scrittore e pedagogo positiviSu questo punto cfr. il prossimo capitolo. Lozzi, Dell’ozio cit, cap. 16. 71 A. Mazzoleni, Il carattere nella vita italiana, Galli e Omodei, Milano 1878, p. 140. 72 Lozzi, Dell’ozio cit., vol. I, p. 322. 69 70

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sta vicino a Pasquale Villari, lamentava che in Italia la mancanza della Riforma aveva lasciato gli italiani deprivati delle virtù dei paesi protestanti moderni, come la «ferma e sicura fiducia in sé», la «dignità industriosa», e l’«orgoglio nella giustizia e nella verità»73. A peggiorare le cose, in Italia lo Stato nazionale non era nato da una vera rivoluzione. Naturalmente, questo era il punto su cui sia Mazzini che Villari, anche se per differenti ragioni, avevano insistito già nel periodo immediatamente successivo alla proclamazione del Regno d’Italia. Il passaggio dal vecchio ordine al nuovo era avvenuto senza un significativo coinvolgimento popolare. Poco era davvero cambiato e i «falsi patrioti» abbondavano. Come osservava Angelo Mazzoleni, molti non solo si erano inventati un passato patriottico per ottenere onori e cariche nel nuovo Stato, ma, aggiungeva, «parlano in un modo e agiscono in un altro, vantano la virtù senza praticarla, vogliono le riforme per il paese, senza migliorare prima se stessi, domandano economie allo Stato mentre dilapidano le proprie sostanze, proclamano la piena uguaglianza ed usano frasi e modi dispotici, ostentano grande amore per la patria e non rispettano i doveri di famiglia»74. Invece della palingenesi che alcuni immaginavano avrebbe accompagnato la creazione della nuova nazione, regnavano l’opportunismo, l’ipocrisia e l’incoerenza. Il «peccato originale» della mancata rivoluzione contaminava il nuovo Stato fin dalla nascita. Alle analisi di questi scrittori democratici e liberali si contrapponeva la posizione intransigente dei cattolici espressa dal grande avversario del nuovo Stato, l’organo dei Gesuiti «La civiltà cattolica», che denunciava allo stesso tempo l’Italia liberale come «sentina di vizii» e le «lamentazioni liberalistiche» come chiacchiere inutili, incapaci di identificare le vere cause dei problemi. I governi del passato non avevano niente a che fare con tali problemi. Per il giornale dei Gesuiti era tutta colpa dei governi unitari dominati dai «massoni», che volendo separare la religione dalla moralità e confiscando le proprietà della Chiesa avevano minato i «due più validi sostegni di ogni viver sociale, che sono il rispetto all’autorità ed il rispetto alla proprietà»75. Non c’era bisogno di mettere sotto proCit. in Romani, National Character cit., p. 236. Mazzoleni, Il carattere cit., p. 66. 75 Della moralità pubblica in Italia, in «La Civiltà Cattolica», 8a serie, vol. 8, 23, 1872, p. 392. 73 74

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cesso il passato: il presente forniva una quantità di ragioni che spiegavano perché le cose stessero andando male.

Una «missione civilizzatrice» interna e il problema della educazione Le critiche nei confronti del carattere degli italiani si fondavano su un esplicito paragone con gli esempi positivi di altri paesi, in particolare l’Inghilterra, la patria di Samuel Smiles, la nazione che ne esemplificava nella maniera migliore le idee e l’atteggiamento verso la vita. Anche Michele Lessona lodava gli inglesi perché apprezzavano il self-made man, un apprezzamento che gli italiani non condividevano, e Cristina di Belgiojoso si augurava che anche costoro imitassero la «meravigliosa industriosità delle moltitudini inglesi»76. Carlo Lozzi era certo che in quel periodo gli inglesi erano «senza dubbio il primo popolo della terra», ma lodava anche gli olandesi, gli americani e gli svizzeri, mentre allo stesso tempo criticava aspramente l’indolenza dei meridionali, dei cattolici e degli orientali77. Terenzio Mamiani enfatizzava il senso morale degli inglesi e raccontava la storia dell’ammiraglio Nelson, che per incitare i suoi marinai all’attacco non doveva fare altro che evocare il senso del dovere e l’amore per la patria. E quando Angelo Mazzoleni voleva puntualizzare il fatto che i piemontesi erano più industriosi e più portati al lavoro rispetto agli abitanti di altre regioni della penisola, li chiamava «inglesi italianizzati», riprendendo un’espressione già presente nei Miei ricordi di d’Azeglio78. L’anglofilia, in quanto parte del fenomeno che Roberto Romani ha definito «esterofilia modernizzante»79, continuò a essere presente anche quando cresceva l’ammirazione per la Prussia (dopo la sua vittoria contro l’Austria nel 1866) e più tardi per la Germania80. Trivulzio di Belgiojoso, Osservazioni sullo stato attuale cit., p. 81. Lozzi, Dell’ozio cit., cap. 3. 78 Mazzoleni, Il popolo italiano cit., p. 131. 79 R. Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 206. 80 Cfr. Villari, Di chi è la colpa cit. Sull’ammirazione per la Germania in Italia dopo il 1870 cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Roma-Bari 1990 (ed. or. 1951). 76 77

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Ma che cosa proponevano di fare questi scrittori per riformare il carattere degli italiani e renderli più simili agli inglesi o ai tedeschi, se non altrettanto civilizzati? Nella marea di pubblicazioni che culminò negli anni Settanta e Ottanta (raccolte di scritti sulla vita esemplare di personaggi illustri, storie edificanti, libri di testo) vari autori si dedicarono soprattutto alla divulgazione dell’ideologia del «nazional-lavorismo»81, la «religione del lavoro» che Silvio Lanaro ha interpretato come la versione italiana del sistema dei principi smilesiani. Questi autori diffondevano la morale del dovere e del duro lavoro sia a livello individuale che nazionale82. Abbiamo già visto come I miei ricordi di d’Azeglio, con la loro dovizia di massime intese a formare il carattere, divennero un classico: il libro fu edito e ristampato in molte edizioni adattate alle esigenze delle scuole inferiori per tutto il periodo liberale (come pure durante il fascismo e nei primi anni repubblicani)83. Il compito di trasformare gli italiani in un popolo di carattere spazzandone via i vizi «orientali» impegnava le élites liberali in una sorta di «missione civilizzatrice» intesa a sradicare cattive abitudini e attitudini e a instillare il senso dell’autodisciplina e dell’industriosità. Pinocchio (1883) di Collodi, uno dei classici più noti della letteratura italiana dell’Ottocento, non poteva essere più chiaro nel suo intento di propagare queste virtù. A metà del racconto, la fatina dice all’indisciplinato pupazzo-bambino: «L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi; se no, quando siamo grandi, non si guarisce più»84. 81 È un’espressione coniata da Lanaro, Il Plutarco italiano cit., p. 560. Malgrado l’enfasi sull’ozio si affievolisse, altri esempi di questa letteratura edificante si continuarono a pubblicare durante tutto il periodo liberale. 82 Se ne possono trovare bibliografie in Di Bello et al., Modelli e progetti educativi, Centro editoriale toscano, Firenze 1998, pp. 138-142, e in A. Chemello, La biblioteca del buon operaio. Romanzi e precetti per il popolo nell’Italia unita, Unicopli, Milano 1991. 83 Dozzine di queste edizioni ridotte dei Miei ricordi, pubblicate dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, si trovano nella Biblioteca Nazionale di Firenze. 84 C. Collodi [C. Lorenzini], Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Paggi, Firenze 1883, p. 131. Quest’opera cominciò a uscire a puntate nel «Giornale dei bambini» nel 1881.

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La letteratura intesa a formare il carattere, comunque, si spinse al di là dell’obiettivo di rendere i «nativi» italiani più industriosi, disciplinati e puliti: comprendeva anche trattazioni sui principi morali e civili, come ad esempio Il popolo italiano educato alla vita morale e civile (1864) di Luigi Rameri85. In questo testo, Rameri, un avvocato originario di una piccola città del Piemonte, sottolineava la necessità di insegnare all’«uomo del popolo i non sempre apparenti ma pur sempre reali vantaggi della libertà, fargli penetrare nell’animo il sentimento di dignità proprio del cittadino di una grande nazione [...] ricordargli che dobbiamo smentire quegli stranieri che ancora ci considerano amici del dolce far niente, e che dobbiamo guadagnarci il rispetto del mondo»86. C’erano anche glossari di detti e proverbi popolari, i portatori della «saggezza popolare», molti dei quali suonavano «immorali» a questi osservatori, patriottici e borghesi, della realtà italiana. Per Gustavo Strafforello, ad esempio, era necessario spiegare alla gente i proverbi, disapprovando quelli che glorificavano cattive abitudini e atteggiamenti criticabili quali la vendetta, la mancanza di fiducia e la furbizia87. A questa letteratura si aggiungeva un nuovo tipo di libri di buone maniere – vicini in spirito ai testi di educazione civica e ai glossari appena citati – che cominciarono ad apparire nei primi anni Settanta. Valga come esempio un lavoro dal titolo eloquente, il Codice delle persone oneste e civili ossia galateo morale per ogni classe di cittadini (1871) di Giacinto Gallenga88. Testi come questo ave85 L. Rameri, Il popolo italiano educato alla vita morale e civile, Zanetti, Milano 1866 (pubblicato nella collana «Biblioteca Popolare»). Questo libro fu premiato con la medaglia d’oro dalla Società Pedagogica Italiana di Milano. 86 Ivi; il passo si trova nella introduzione di un’edizione apparsa in una collana denominata «Biblioteca utile» o «Biblioteca per l’educazione del popolo». Cfr. anche Niccolò Tommaseo, I doveri e i diritti d’ogni buon italiano. Memorie e speranze per il popolo, Agnelli, Milano 1871. 87 G. Strafforello, La sapienza del popolo spiegata al popolo ossia proverbi di tutte le nazioni, Editori della Biblioteca Utile, Milano 1868, specialmente il cap. 6. Strafforello era il traduttore del Self-Help, che comparve nella stessa collana. Cfr. anche Fanny Ghedini Bortolotti, Proverbi spiegati al popolo, 2a ed. riv., Treves, Milano 1869. 88 G. Gallenga, Codice delle persone oneste e civili ossia Galateo morale per ogni classe di cittadini, Unione Tipografica Editrice, Torino-Napoli 1871. Il libro fu pubblicato nella collana «Biblioteca educativa per il popolo italiano». In una nota, l’editore precisava che il manoscritto era stato premiato in un concorso per la compilazione di un libro popolare sulle buone maniere, organizza-

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vano poco a che fare con il galateo tradizionale: rispecchiavano nuove esigenze, in particolare quella di dare nuova forma agli atteggiamenti e alle relazioni tra le classi in un ordine sociale in cui tutti, almeno in teoria, erano uguali di fronte alla legge, e dovevano lealtà allo Stato-nazione. I lettori del ceto medio-alto erano invitati a essere più disponibili nei confronti dei contadini (la gente di campagna, si faceva notare, era migliore della gente di città) e più disposti a dare loro un minimo di istruzione, di cui avevano assoluto bisogno89. In seguito, negli anni Ottanta, il bestseller Cuore di Edmondo De Amicis avrebbe combinato insieme in maniera nuova e con molto successo tutti questi insegnamenti di civismo (e non solo, come vedremo nel prossimo capitolo)90. Una simile attenzione alla formazione di cittadini patriottici, leali verso le nuove istituzioni ma anche con un forte senso di responsabilità personale e di solidarietà di gruppo, informava anche i nuovi programmi del 1867 per l’insegnamento della storia nelle scuole secondarie. Gli insegnanti erano invitati a infondere alla nuova «generazione libera» il concetto che «se l’Italia in passato fu serva, debole, dispregiata, la colpa primiera fu degli Italiani; perché i popoli, se non hanno sempre il governo che bramano, hanno pur sempre il governo che si meritano. Per tal modo il senso morale educato e rinvigorito informerà le opinioni e le azioni della nostra gioventù»91. La letteratura sul carattere rispecchiava il diverso atteggiamento dei liberali, sia laici che cattolici, sulla questione del ruolo della religione cattolica nella istruzione pubblica. Per i cattolici, anche per quelli più liberali, solo la religione cattolica poteva instillare un senso morale, e il suo insegnamento doveva essere obbligatorio e to dal consiglio municipale di Torino grazie a una donazione ricevuta per tale scopo da un filantropo locale. 89 Sulla novità di questi testi cfr. anche I. Botteri, Galateo e galatei. La creanza e l’istituzione della società nella trattatistica italiana tra antico regime e stato liberale, Bulzoni, Roma 1999, cap. 6. Secondo Botteri, questi testi non cercavano più di formare solo «un astratto borghese quanto una ben definita collettività, quella italiana, di così recente costituita». 90 Circa un milione di copie del Cuore di Edmondo de Amicis furono vendute tra il 1886 e il 1921. 91 Il testo del programma è riportato in G. Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Mondadori, Milano 1991, p. 231.

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sotto la supervisione della Chiesa. Al contrario, gli anticlericali consideravano il clero cattolico un fattore di corruzione, in certi casi gravissima, come gli scritti di Giuseppe Garibaldi sottolineavano con forza in quegli anni. Nelle sue memorie, pubblicate nel 1872, Garibaldi notava che l’«inferiorità morale e fisica della razza italiana» derivava soprattutto dal fatto che l’istruzione dei giovani era affidata ai preti92. Allo stesso tempo, di norma, gli scrittori anticlericali consideravano necessaria la religione nella formazione della coscienza morale delle masse, e specialmente delle donne93. Da parte sua, la Chiesa cattolica, che non avrebbe riconosciuto ufficialmente il nuovo Stato fino al 1929, persisteva nel suo atteggiamento di opposizione continua a qualsiasi scelta politica suscettibile di minacciare la sua egemonia morale e culturale. La questione era politicamente assai delicata, c’era una varietà di punti di vista differenti in materia, e tutto ciò si rifletteva nella grande ambiguità delle scelte politiche e nella mancanza di un impegno forte e deciso a favore di una scuola pubblica laica. Per tutti gli anni Sessanta l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche fu obbligatorio, salvo quando i genitori chiedevano l’esenzione per i figli; nel 1870-1871 un nuovo regolamento stabilì che l’istruzione religiosa sarebbe stata fornita solo su richiesta esplicita dei genitori degli studenti; e alla fine la legge Coppino del 1877 non rese obbligatorio l’insegnamento della religione nelle scuole elementari, ma con una ambiguità caratteristica non lo proibì esplicitamente94. Questi cambiamenti legislativi furono contestati dai cattolici conservatori senza peraltro soddisfare gli anticlericali più accesi che, irritati dalle soluzioni di compromesso del governo sulla questione, chiedevano una politica più radicale. Queste discussioni si riflettevano inevitabilmente nel capitolo «rimedi» della letteratura sul carattere. I cattolici come Augusto Alfani sostenevano la necessità che l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche fosse obbligatorio, perché era il metodo mi92 Le memorie di Garibaldi nella redazione definitiva del 1872, a cura della Reale Commissione, Cappelli, Bologna 1932, p. 20. 93 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Einaudi, Torino 1954, p. 356. 94 Ivi, p. 377. Cfr. anche A. Acquarone (a cura di), Lo stato catechista, Parenti, Firenze 1961.

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gliore per formare caratteri forti. Per quanto riguarda gli anticlericali, alcuni, come Angelo Mazzoleni, si dichiaravano a favore dell’insegnamento di principi morali nelle scuole, ma non della religione95, mentre altri, come Antonio Reale, auspicavano la chiusura delle scuole degli ordini religiosi perché corrompevano i giovani in tutte le maniere, moralmente e sessualmente. Per creare cittadini consapevoli e informati sul paese in cui vivevano, tutte le scuole avrebbero dovuto offrire corsi di educazione civica per l’insegnamento dei principi base del governo rappresentativo e dell’organizzazione dello Stato96. Per altri ancora, ad esempio Pasquale Villari, puntare l’attenzione sulla religione significava perdere di vista il vero problema: in teoria, la religione era importante per l’educazione popolare, ma la verità era che gli italiani non avevano un forte senso religioso. Il problema cruciale era il miglioramento delle condizioni sociali delle masse, cosa che avrebbe certamente avuto un impatto più significativo che l’interferire con l’insegnamento della religione97. L’importanza delle riforme economiche era sottolineata anche da Cristina di Belgiojoso, che in genere aveva un atteggiamento meno moralizzante nei confronti del popolo italiano98. Una questione meno controversa, almeno per gli uomini, era quella dell’istruzione femminile. Dal momento che l’idea del carattere faceva parte di un discorso di genere rivolto esclusivamente a cittadini maschi, la donna non era certo al centro dell’attenzione in questa letteratura. Una delle prime raccolte di vite esemplari, Volere è potere di Michele Lessona, non includeva nessuna figura femminile. Tuttavia la questione dell’istruzione femminile non poteva essere evitata, dal momento che le donne cominciavano a pretendere più istruzione e maggiori diritti, e il loro ruolo come educatrici e l’importanza della famiglia erano punti fermi del discorso patriottico. Per la maggior parte degli uomini, conservatori e liberali, laici e cattolici, non c’era alcun dubbio che il posto della donna era la casa. Ed è per questo che molti erano d’accordo sull’idea che dare una maggiore istruzione alle donAlfani, Il carattere cit., capp. 3 e 9; Mazzoleni, Il carattere cit., capp. 21-23. Reale, Nazione e famiglia cit., pp. 263-264, 284. 97 La scuola e la questione sociale in Italia, in «Nuova Antologia», novembre 1872 (ora in Villari, I mali dell’Italia cit., pp. 197-257). 98 Trivulzio di Belgiojoso, Osservazioni cit., p. 131. 95 96

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ne era desiderabile, ma solo per rafforzare il loro ruolo nella famiglia come madri ed educatrici. Perfino le raccolte di biografie di donne illustri esaltavano esclusivamente valori cristiani e domestici, e solo più tardi riconobbero anche il contributo delle donne al di fuori della sfera domestica e filantropica99. Pur essendo uno dei pochi che lamentavano la scarsa istruzione delle donne italiane in confronto a quelle inglesi o svizzere, anche Lessona riteneva che l’obiettivo di una istruzione più completa per le donne era favorire l’unità e la forza della famiglia, dove ci si aspettava che rimanessero confinate100. Citando Rousseau, Mazzini, Jules Simon, e anche autori più moderati, il repubblicano Mazzoleni sviluppò il concetto dell’importanza della famiglia e del ruolo delle donne nella sfera domestica per la formazione di buoni cittadini101. Sulla questione femminile e della famiglia, Alfani – un moralista che lamentava l’eccessiva permissività della società contemporanea – si rifaceva alle stesse fonti del repubblicano Mazzoleni102. Anche Carlo Lozzi vedeva la necessità di una istruzione femminile più congrua, ma a suo parere le donne agiate dovevano rinunciare a trovarsi un’occupazione al di fuori della sfera domestica103. Dal canto suo, pur riconoscendo l’importanza delle donne come educatrici, anche l’anticlericale Antonio Reale le preferiva in casa, e senza diritti politici. I testi sulla morale destinati a un pubblico femminile elencavano pochi diritti e molti doveri, e tra questi ultimi quello di allevare figli animati da spirito patriottico, che non avrebbero cercato di evitare il servizio militare104. C’erano

99 Cfr. I. Porciani, Il Plutarco femminile, in S. Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 297-317. Per un esempio di approccio più inclusivo cfr. A. Alfani, Battaglie e Vittorie. Nuovi esempi di Volere è Potere, Barbera, Firenze 1890, che comprendeva, oltre alle filantrope, anche due donne che si erano particolarmente distinte nel campo dell’agricoltura e dell’industria. 100 Lessona, Volere è potere cit., cap. 1. 101 Mazzoleni, Il carattere cit., pp. 169-173. 102 Alfani, Il carattere cit., capp. 7-8. 103 Lozzi, Dell’ozio cit., vol. 2, cap. 4. 104 Cfr. A. Parato, La morale pratica ossia i doveri esposti alle giovinette italiane cogli esempi delle donne celebri coordinate alle massime. Libro di letture ad uso delle scuole elementari e superiori femminili, dei corsi normali e magistrali, degli istituti di educazione e delle famiglie, 5a ed., Paravia, Roma-Firenze-Torino-Milano 1874.

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tuttavia alcune donne che la pensavano in maniera diversa. Per esempio, Amelia Cimino Folliero de Luna affermava che l’istruzione era importante perché rendeva le donne migliori, sia come madri che come donne di casa, e allo stesso tempo denunciava che le energie delle donne borghesi nubili venivano sprecate da una società che le emarginava costantemente. L’esempio dell’Inghilterra dimostrava che queste donne avrebbero potuto essere utilmente impiegate nella lotta per riformare il carattere105. La rigenerazione della mentalità degli italiani doveva essere accompagnata anche da una rigenerazione del corpo: subito dopo la vittoria prussiana sulla Francia nel 1870, Francesco De Sanctis cominciò a promuovere una educazione «più virile» che avrebbe fatto degli italiani soldati migliori. Richiamandosi ai notevoli risultati ottenuti dalla Germania, un paese che aveva dedicato molte risorse all’educazione fisica, De Sanctis insisteva sull’idea che un corpo sano significava non solo coraggio fisico ma anche un carattere più forte106. Quando nel 1878 fu nominato ministro della Pubblica istruzione, stabilì per decreto l’obbligatorietà della ginnastica in tutte le scuole del regno, riforma che nei decenni successivi avrebbe riscosso molto interesse, come vedremo nel prossimo capitolo. Nel suo Self-Help, Smiles aveva insistito sull’importanza dei viaggi d’esplorazione e del servizio militare: i viaggiatori e i soldati avevano dimostrato il loro «carattere» nel contesto dell’impero, nella lotta contro le ribellioni delle popolazioni locali o portando la religione cristiana tra i «pagani». Per un secolo l’India era stata «una grande arena per l’esibizione dell’energia britannica», avendo richiesto atti di coraggio e di eroismo che avevano dato modo al carattere nazionale di mostrare la propria determinazione107. Seguendo l’esempio di Smiles, Michele Lessona dedicò l’ultimo ritratto di Volere è potere a un africano di colore che dopo essere stato ridotto in schiavitù dagli egiziani era stato comprato da un medico piemontese al servizio del viceré Cimino Folliero de Luna, L’indolenza in Italia cit., p. 31. Landucci, Cultura e ideologia cit., pp. 404-405; cfr. anche G. Bonetta, Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Angeli, Milano 1990, p. 82, e S. Stewart-Steinberg, The Pinocchio Effect. On Making Italians, 1860-1920, University of Chicago Press, Chicago 2007, pp. 139-141. 107 Smiles, Self-Help cit., cap. 8. 105 106

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d’Egitto ed era stato portato in Italia, dove si era convertito al cristianesimo e nel 1848 aveva finito per combattere come rivoluzionario a fianco dell’esercito piemontese108. La storia della «liberazione» dell’africano e della sua acculturazione ai valori europei incarnava la «missione civilizzatrice» dell’Italia nei paesi oltremare e prefigurava altre arene nelle quali gli italiani avrebbero cominciato a cimentarsi negli anni Ottanta dell’Ottocento. Ciò che era assente in questa letteratura – e non ne parlavano neppure gli scrittori democratici e repubblicani – era qualsiasi riferimento a riforme politiche che avrebbero potuto contribuire a una più efficace educazione dei cittadini, ad esempio l’estensione del diritto di voto. Come abbiamo visto, in Italia il corpo elettorale era estremamente ristretto, eppure i liberali erano riluttanti ad allargarlo: il suffragio fu esteso dal 6 al 20 per cento circa della popolazione maschile adulta solo nel 1882, più di vent’anni dopo la proclamazione del nuovo regno. Il timore che l’estensione del diritto di voto avrebbe favorito forze politiche sovversive, sia a destra che a sinistra dello schieramento politico, spiega solo in parte questa riluttanza. Il modo di pensare dei liberali era permeato anche da una concezione paternalistica del potere. La gente comune non era vista come un soggetto politico autonomo, e solo le élites avevano la prerogativa di dare l’avvio a un cambiamento. Questo radicato atteggiamento era alla base dell’idea che doveva essere il lavoro pedagogico di istituzioni sociali quali la famiglia e la scuola a dare il contributo fondamentale per formare cittadini di carattere, e che questi migliori caratteri individuali si sarebbero tradotti in un migliore carattere nazionale – idea che sembrava in tensione con le analisi, spesso piuttosto radicali, delle cause dei vizi degli italiani proposte dalla letteratura sul carattere. Ebbe qualche effetto questa letteratura edificante? Se il numero delle edizioni e delle copie vendute fosse un indicatore affidabile, potremmo dire di sì. Gaspero Barbera, il self-made man che da buon patriota pubblicava questo genere di libri, ne era sicuro. Nelle sue memorie osservava che le vendite di Volere è potere continuavano a essere buone a distanza di otto anni dalla prima edizione: «Come i Ricordi di d’Azeglio, questo libro di Lesso108

Lessona, Volere è potere cit., cap. 14.

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na si leggerà ancora per lungo tempo con vantaggio dell’educazione della gioventù italiana. Di entrambi la tiratura è già salita a presso che ventimila copie»109. A un lettore di oggi ventimila copie possono sembrare poche, ma a quei tempi erano cifre da bestseller. In ogni caso, il target degli autori e degli editori erano soprattutto i gruppi sociali che Villari definiva il «cemento che dà unità e che mantiene insieme il corpo della nazione»110, i borghesi che avevano una certa cultura e figli che frequentavano le scuole superiori, e che a loro volta avrebbero insegnato i nuovi valori ai figli della povera gente. Erano queste le persone che ci si aspettava recepissero per prime l’importanza della questione del carattere, e il cui carattere doveva essere già formato prima del loro ingresso nel campo dell’industria, dell’istruzione o delle libere professioni. Attraverso di loro «le idee filtra[va]no per così dire dagli ordini superiori negl’infimi»; erano loro a formare l’opinione pubblica, a influenzare il popolo minuto, e quindi contribuivano a «formare il carattere morale e intellettuale di un popolo»111. Se poi i lettori assorbissero gli insegnamenti morali proposti dai libri e li mettessero in pratica è un’altra questione che è molto difficile, se non impossibile, indagare. Se consideriamo che il problema dei difetti degli italiani non solo rimase al centro dell’attenzione, ma fu avvertito ancora di più negli anni successivi, abbiamo buone ragioni per dubitare che questi testi avessero raggiunto lo scopo di riformare il carattere. Ma se ne misuriamo il successo considerando quanto l’idea della problematicità del carattere degli italiani si fosse radicata nel modo di pensare della élite culturale del nuovo Stato, la risposta è certamente più positiva. Nel periodo immediatamente successivo all’unificazione la questione del carattere, sia individuale che nazionale, attrasse moltissima attenzione e fu oggetto di trattazione negli scritti dei 109 Barbera, Memorie cit., p. 361. Brani di questi testi furono ampiamente riprodotti in antologie per le scuole secondarie: cfr. per esempio Prose italiane moderne. Libro di lettura proposto alle scuole secondarie inferiori, Sansoni, Firenze 1894, e Prosa viva d’ogni secolo della letteratura. Libro di lettura proposto alle scuole complementari e normali e alle classi superiori de’ ginnasi e alle inferiori degli istituti tecnici, Sansoni, Firenze 1896. 110 P. Villari, Nuovi scritti pedagogici, Sansoni, Firenze 1891, p. 141. 111 Ivi, p. 144.

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maggiori protagonisti della scena intellettuale e politica e di molti altri personaggi meno conosciuti. Il tema ricorrente del «fare gli italiani», che dagli anni Sessanta dell’Ottocento pervase la storia (e la storiografia) del paese, non si fondava su una preoccupazione per la omogeneità etnoculturale, che veniva data per scontata, ma per gli atteggiamenti morali e civili degli italiani. Mentre durante il periodo Risorgimentale ci si preoccupava in particolare per gli atteggiamenti delle élites, nei primi decenni dopo l’unificazione l’attenzione si spostò sulla popolazione nel suo insieme. Un governo liberale non poteva funzionare in maniera adeguata se i cittadini erano indolenti, ignoranti e non si impegnavano a vantaggio del nuovo paese, e una società moderna e produttiva aveva bisogno di individui industriosi. Quindi la riforma del carattere a livello individuale veniva considerata da molti una necessità improrogabile e il fondamento della riforma del carattere nazionale, anche se da ciò non conseguiva, tuttavia, che nell’Italia liberale i notabili locali – altra cosa rispetto agli intellettuali e alla classe politica nazionale – prestassero molta attenzione alla questione. Ma il tema delle abitudini e delle attitudini del popolo sarebbe stato riproposto in termini alquanto differenti negli anni a venire, quando la fiducia nelle virtù del self-help e del governo liberale cominciò a svanire, nel contesto di un panorama internazionale sempre più competitivo.

III INDIVIDUALISMO LATINO: IL CARATTERE NAZIONALE NELL’ETÀ DELL’IMPERIALISMO Nell’individualismo spiccato e consapevole e nel difetto della disciplina esterna stanno le caratteristiche dell’indole italiana. Pasquale Turiello, 1882 I popoli con un sentimento individuale più spiccato sono facilmente ribelli, indisciplinabili e spesso anche ineducabili. Giuseppe Sergi, 1898

Pasquale Turiello, lo scrittore che nel bestseller self-helpista Volere è potere aveva lodato i napoletani, sembrava aver cambiato radicalmente idea. Infatti, nel suo ben noto Governo e governati in Italia (1882), una denuncia dei guasti della politica e della società del paese, sosteneva che il «carattere napoletano» era emblematico di quello italiano, e sottolineava i difetti che entrambi condividevano. Ma nel Meridione, difetti «tipicamente» italiani quali l’eccessivo individualismo e la mancanza di disciplina erano solo più estremi. Il libro di Turiello non era più un trattato su come formare italiani di carattere – l’obiettivo degli autori che ho considerato nel capitolo precedente, che scrivevano nell’intento di trasformare gli italiani in cittadini dello Stato nazionale, ligi al dovere e pro-

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duttivi – ma un richiamo all’ordine, nel senso che chiedeva un esecutivo più forte e capace di governare un popolo indisciplinato il cui carattere non poteva essere cambiato facilmente1. Ed era anche una variante dell’idea di stampo conservatore che la democrazia non è per tutti, e che le forme di governo devono essere adattate al carattere e al livello di civiltà della popolazione. Non a caso Turiello, che era stato seguace di Garibaldi, diventò un sostenitore della destra, un precursore del nazionalismo del nuovo secolo, e uno dei primi e più accesi propugnatori dell’imperialismo2. Turiello non era il solo a esprimere una visione pessimistica della capacità degli italiani di rigenerarsi due decenni dopo l’unificazione nazionale: nel 1886 anche Antonio Gallenga, l’ex esule in Gran Bretagna che nel 1848 aveva difeso i compatrioti di fronte all’opinione pubblica straniera, avvertì l’urgenza di intervenire direttamente per ricordare loro che avevano deluso le «aspettative generali». A suo parere il carattere nazionale non era cambiato in maniera apprezzabile. Gli italiani continuavano a mancare di senso del dovere, di perseveranza e specialmente di disciplina; non erano ancora una nazione di uomini liberi: piuttosto erano liberti, schiavi liberati che conservavano ancora alcuni dei tratti caratteriali acquisiti nei tempi della schiavitù3. I testi di Turiello e di Gallenga segnano l’inizio di una nuova fase del discorso sul carattere degli italiani, parallela a sostanziali cambiamenti politici e intellettuali sia interni che internazionali. All’inizio degli anni Ottanta, dopo l’avvento della sinistra storica al potere, si cominciarono a sentire voci di denuncia dell’inade1 P. Turiello, Governo e governati in Italia. Saggio, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1882. Una seconda edizione riveduta fu pubblicata nel 1889. Il primo volume della prima edizione è stato ristampato con una introduzione di P. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1980. Il libro di Turiello era anche un contributo al dibattito sulla «questione meridionale», come sottolinea C. Petraccone, Le «due Italie». La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Laterza, RomaBari 2005, pp. 46-50. Petraccone sostiene anche che Turiello cominciò a scrivere questo libro nel 1876, l’anno in cui la sinistra storica (nei cui confronti l’autore era estremamente critico) rimpiazzò la destra al potere. La sinistra, com’è noto, aveva una base elettorale più ampia nel Sud del paese. 2 Un breve profilo biografico di Turiello si trova nell’edizione a cura di Bevilacqua di Governo e governati cit., pp. XXXIX-LI. 3 A. Gallenga, L’Italia presente e futura con note di statistica generale, Barbera, Firenze 1886.

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guatezza del regime parlamentare, ingolfato nelle acque fangose del trasformismo – termine inizialmente introdotto dagli stessi promotori della prassi, ma che acquistò immediatamente un significato negativo4. Il parlamento, una istituzione che non era mai stata particolarmente amata e rispettata, divenne il bersaglio di attacchi sempre più pesanti, mentre il fermento sociale e la crescita di un considerevole movimento socialista (il Partito italiano dei lavoratori fu fondato nel 1885 e il Partito socialista italiano nel 1892) sembravano minacciare le basi dell’ordine sociale. Questi erano anche gli anni in cui la questione meridionale, che era stata articolata chiaramente per la prima volta alla metà degli anni Settanta, diventò un argomento controverso e fonte di accese discussioni. Tra ben noti intellettuali e uomini politici di diverso orientamento si fece strada anche l’idea che il Meridione fosse sostanzialmente differente dal resto del paese, che fosse cioè una regione povera per natura e abitata, secondo alcuni, da una razza diversa. In quegli stessi anni cominciò anche l’emigrazione di massa degli italiani, alla ricerca di una propria soluzione alla mancanza di decenti prospettive sociali ed economiche in patria. Allo stesso tempo, gli sviluppi della corsa alle colonie definivano sempre più nettamente la percezione del rango e della potenza dei vari Stati nell’arena internazionale, il che a sua volta aveva ripercussioni a livello interno. Le prime difficoltà nelle imprese coloniali generarono nell’opinione pubblica ansietà e sentimenti revanscisti. Non a caso, la prima edizione del libro di Turiello apparve nel 1882, un anno dopo l’occupazione della Tunisia da parte dei francesi, un vero e proprio schiaffo per le ambizioni italiane nell’area, e fu ristampato nel 1889 dopo un altro insuccesso coloniale, questa volta a Dogali nel Corno d’Africa. Alla sconfitta subita dalla Francia nel 1870 nella guerra con la Prussia si aggiunsero quella italiana del 1896 in Etiopia e quella inflitta dagli Stati Uniti alla Spagna nel 1898, sconfitte che resero la categoria delle «nazioni latine» un sinonimo di fallimento e ne fecero l’oggetto di attente valutazioni da parte di intellettuali e di politici. Con l’affermarsi in vari campi disciplinari di una versione naturalistica del positivismo, le analisi del carattere nazionale furo4 Cfr. G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 21.

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no impostate meno nella tradizione storica di De Sanctis e di Villari e in misura maggiore nei linguaggi delle scienze positive, o meglio del tardo positivismo, che attribuiva alla razza una maggiore capacità esplicativa5. Per la verità si continuò a dare alla storia un certo rilievo, ma si manifestava la tendenza a leggere il carattere in maniera più deterministica. Invece di essere in primo luogo un ideale normativo, il carattere acquistava la struttura di un fatto positivistico e diventava una comoda spiegazione. In tale contesto il vecchio vizio morale degli italiani, l’ozio, cominciò a essere meno visibile6, rimpiazzato da un altro vizio, l’individualismo estremo, che sembrava esemplificare in maniera più precisa i problemi del carattere italiano. Ora, il motivo per cui l’individualismo doveva essere considerato un problema in un’epoca che esaltava le imprese dei grandi uomini e il self-made man può non essere immediatamente evidente. Per capirlo dobbiamo esaminare il significato del termine per coloro che, da posizioni politiche diverse, discutevano della natura degli italiani come collettività alla fine dell’Ottocento. Ma prima ancora dobbiamo cercare di capire come mai gli italiani non erano più oziosi e cominciavano a essere considerati la quintessenza di un individualismo eccessivo.

L’emergere dell’individualismo italiano A dire il vero, l’idea che gli italiani fossero individualisti non era una novità. Come abbiamo visto, lo stesso Mazzini già deplorava l’individualismo dei suoi compatrioti, che per lui significava un attaccamento eccessivo alla «patria» locale e quindi non alla nazione, mentre negli anni Sessanta Michele Lessona denunciava l’inclinazione degli italiani a favorire l’interesse personale a danno del bene della collettività. Tuttavia questo aspetto non era affatto importante per i patrioti del Risorgimento, che in genere erano assai 5 Per questa periodizzazione del positivismo italiano cfr. C. Cesa, Tardo positivismo, antipositivismo, nazionalismo, in La cultura italiana tra ’800 e ’900 e le origini del nazionalismo, Olschki, Firenze 1981. 6 Il declino dei libri contenenti la parola «ozio» nel titolo è ben documentato in A. Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana. Indice per materie 1847-1899, Associazione Tipografico-Libraria, Milano 1910.

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più preoccupati dall’ozio degli italiani. Oltretutto, nella prima metà del secolo diversi scrittori europei associavano l’individualismo (stavolta inteso in senso positivo) agli antichi popoli germanici che avevano avuto la meglio nei confronti del centralismo dell’Impero romano. Questo concetto, reso piuttosto popolare dalla famosa Storia della civiltà in Europa (1828)7 di François Guizot, riecheggiava ancora nella conferenza che il giovane Pasquale Villari tenne nel 1861 sul tema L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica, nella quale lo storico sottolineava il contrasto tra il «libero e sciolto individualismo» delle genti germaniche e la «maravigliosa attitudine [dei Latini] a coordinare, organizzare e stringere in unità forte e compatta tutti gli ordini sociali e le forze della civiltà»8. Quando agli inizi degli anni Ottanta Turiello scrisse il suo trattato, questa contrapposizione tra le inclinazioni organizzative dei paesi latini e l’individualismo di quelli germanici era messa in discussione. La sconfitta della Francia nella guerra del 1870 aveva contribuito a creare una nuova e più negativa percezione dei popoli latini nel loro complesso, e per converso un apprezzamento esplicito per la Germania, almeno in certi circoli: subito dopo la debacle francese, lo stesso Villari definì la guerra franco-prussiana «una grande vittoria dei popoli germanici e protestanti sui popoli latini e cattolici, i quali sembrano per tutto essere in decadenza»9. In altri termini, il modello della Germania cominciava a essere interessante anche per i liberali come Villari e il suo maestro Francesco De Sanctis, che riprendendo Renan e la sua Réforme intellec7 F. Guizot, Histoire générale de la civilization en Europe, Didier, Paris 1840 (ed. or. 1828), specialmente la terza lettura. 8 P. Villari, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica. Osservazioni storiche, Le Monnier, Firenze 1861, pp. 36-37. In questo scritto Villari definiva la Germania «patria e sede eterna dell’individualismo» (p. 43) ed elogiava l’Inghilterra per il valore che dava alla libertà individuale. Secondo M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico, Liguori, Napoli 2005, cap. 3, il saggio di Villari era una risposta a quello pubblicato da Renan l’anno precedente, che contrapponeva la «forza del sentimento morale» dei popoli germanici alla «brillante esteriorità» e alla mancanza di iniziativa dei latini, dovuta alla religione. Renan dichiarava inoltre che il retaggio latino dell’Italia era alle origini sia della frammentazione politica che della debolezza morale. Anche lo storico tedesco Georg G. Gervinus, nella sua Introduction à l’histoire du XIX siècle (Bruxelles-Leipzig 1858), contrapponeva la razza latina a quella germanica. 9 Moretti, Pasquale Villari cit., p. 144 (ed. or. in «L’Italia nuova», 2 ottobre 1870, p. 101).

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tuelle et morale de la France lodava le qualità morali che avevano reso possibile la rigenerazione della Germania10. Tuttavia, la maniera in cui prendeva forma la nuova immagine degli italiani come individualisti estremi doveva molto anche all’imporsi della Kulturgeschichte, che conquistò in breve tempo l’attenzione del pubblico nella seconda metà dell’Ottocento11, e in particolare all’opera del suo più innovativo e illustre rappresentante, lo storico svizzero Jacob Burckhardt. La storia della cultura assegnava un posto di grande rilievo alla comprensione della psicologia di intere collettività e perfino di epoche storiche. Nella sua Civiltà del Rinascimento in Italia (1860) Burckhardt fu il primo a caratterizzare gli italiani del Rinascimento come gli inventori dell’individualismo moderno. Il testo fu tradotto in italiano nel 1876, pochi anni prima della pubblicazione del libro di Turiello. La tesi principale del testo di Burckhardt è ben nota: nel corso del XIV e del XV secolo gli abitanti degli Stati italiani furono i primi a liberarsi dai ceppi che avevano costretto tutti gli europei nei «secoli bui» del Medioevo – e fra questi ceppi c’era una identità rigidamente corporativa rinchiusa nella famiglia, nel clan, nella classe e nella corporazione. Le città-Stato italiane incoraggiarono una nuova mentalità che poneva l’individuo al centro del mondo sociale. E fu proprio questa libera individualità a generare il grande impulso creativo del Rinascimento. Per Burckhardt, tuttavia, il carattere degli italiani non era semplicemente individualista, ma si caratterizzava per un «individualismo soverchiamente sviluppato» che era allo stesso tempo la «condizione della sua grandezza» e il suo «vizio fondamentale»12. È il caso di notare che l’eccesso era in qualche modo inevitabile, in 10 Cfr. S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 412-418. 11 Per una rassegna dello sviluppo della Kulturgeschichte cfr. G.P. Gooch, History and Historians in the Nineteenth Century, Beacon Press, Boston 1959, cap. 27. Più o meno nello stesso periodo anche Hyppolite Taine attribuì un ruolo importante alle disposizioni culturali, o carattere, di un popolo nella sua storia della Francia, Les origines de la France contemporaine, pubblicato tra il 1874 e il 1896. 12 La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1940, p. 553 [trad. it. (dalla 2a ed. tedesca) di D. Valbusa]. Sul concetto di individualismo in Burckhardt cfr. Steven Lukes, Individualism, Harper and Row, New York 1973, pp. 23-25.

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un clima meridionale. Essendo uno dei numerosi viaggiatori che nelle loro visite in Italia erano allo stesso tempo fortemente attratti e disgustati dalla sua cultura e dai suoi abitanti, Burckhardt traeva ispirazione dagli incontri con gli italiani suoi contemporanei per immaginare il passato dell’Italia, e usava la sua immaginazione storica per mettere sotto accusa le tendenze politiche e sociali correnti, esaltando i valori elitari ai quali era ancorato. La Civiltà del Rinascimento in Italia – che l’autore dedicò a un esule italiano conosciuto a Zurigo – offriva una visione idealizzata dell’Italia del passato che contrastava implicitamente con l’Europa del presente, dove era in atto un processo in cui la democrazia e lo Stato «schiacciavano» l’individuo13. In questo genere di storia culturale al cui affermarsi Burckhardt diede un contributo fondamentale non era facile tenere a bada le preferenze e i pregiudizi personali14. Nella parte del testo dedicata alla morale e alla religione, Burckhardt fece ricorso a fattori astorici, ad esempio la «forza di immaginazione» degli italiani, per spiegare perché essi fossero vendicativi, libertini, gelosi, inclini ai crimini violenti e così via. In questo modo, implicitamente, i tratti caratteriali degli italiani venivano naturalizzati. Il lato negativo della valutazione di Burckhardt era in linea con la visione del Rinascimento allora prevalente in Italia tra gli storici, cioè che l’epoca rinascimentale era stata un periodo di declino politico segnato da continui conflitti tra gli Stati e da una diffusa corruzione morale15. Ma mentre gli scrittori italiani (tra cui De 13 Per una lettura delle idee politiche espresse nel capolavoro di Burckhardt cfr. M. Ghelardi, Burckhardt et l’Histoire de la Civilization de la Renaissance en Italie, in Historie de l’historie de l’art, vol. 2, XVIII et XIX Siècles, KlincksieckMusée du Louvre, Paris 1997, pp. 351-371. Cfr. anche F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia (in Storia d’Italia. vol. 3, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973, pp. 1386-1389), che si basa su W. Kaegi, Jacob Burckhardt. Eine Biographie, Benno Schwabe, Basel-Stuttgart 1956. 14 Lo stesso Burckhardt sembrava consapevole di camminare su un terreno scivoloso, quando cercò di descrivere la «moralità» del mondo rinascimentale: cfr. La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia cit., pp. 521 sgg., parte 6ª, cap. 1. Ciò non gli impedì, comunque, di fare in tutto il libro taglienti generalizzazioni sugli «Orientali». 15 Sull’impatto della traduzione del testo in Italia e sulle immagini negative del Rinascimento che prevalevano tra gli intellettuali italiani nel XIX secolo cfr. C. Dionisotti, Rinascimento e Risorgimento: la questione morale, in A. Buck e C. Vasoli (a cura di), Il Rinascimento nell’Ottocento in Italia e in Germania, Il Mulino-Ducker Humblot, Bologna-Berlino 1989, pp. 165-166.

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Sanctis) avevano fornito un gran numero di spiegazioni di questo declino, Burckhardt presentava un nuovo ed efficace tropo per descrivere la peculiarità degli italiani. Questo fatto non sfuggì a Pasquale Turiello, che nel Governo e governati in Italia rese ripetutamente omaggio allo storico svizzero per avere visto chiaramente che la «prima causa delle grandezze e delle miserie nazionali» dell’Italia era l’«individuo soverchiamente sviluppato»16. Dichiarando la sua intenzione di mettere in discussione certi luoghi comuni e «pregiudizi» sulle istituzioni governative italiane, Turiello sottolineava la necessità di partire dai «fatti» e di osservare le reali condizioni del paese, a cominciare dal carattere delle varie popolazioni. Rispetto a questo elemento cruciale occorreva per prima cosa esaminare in particolare il carattere degli abitanti del Sud, dal momento che gli italiani erano prima di tutto un popolo meridionale. Erano infatti i «napoletani» (Turiello intendeva gli abitanti del Meridione nel suo complesso) a esibire tutti i tratti caratteriali dell’italiano, ma in un modo estremo. Poiché nell’Italia meridionale, durante il Medioevo, non erano esistiti i comuni o altre istituzioni «organiche»17, gli abitanti del Sud avevano conservato in larga misura il carattere originale o «nativo» italiano, che altrove era stato modificato da tali istituzioni. Ora, il tratto principale di questo carattere era precisamente un individualismo molto forte, che Turiello chiamava «scioltezza» o mancanza del senso del limite. Come Burckhardt, anche Turiello tendeva a naturalizzare gli atteggiamenti sociali, pure se in maniera meno romantica e più «socioscientifica». Come ha osservato Claudio Cesa, egli aveva abbracciato «senza riserve» la cultura positivista diventando un grande ammiratore di Spencer e di Darwin e facendo largo uso delle ricerche condotte in quel periodo dalla scuola lombrosiana18. Ora, mentre 16 Turiello, Governo e governati cit., p. 54. Diversi altri riferimenti a Burckhardt si trovano nello stesso capitolo. 17 Per Turiello, come per Burckhardt e per Heinrich Leo prima di lui, le costituzioni di Federico II avevano creato nel Meridione una monarchia simile al dispotismo orientale, e avevano distaccato questa parte d’Italia dal resto della penisola e più in generale dall’impero: Turiello, Governo e governati cit., pp. 39-40. 18 Cesa, Tardo positivismo cit., p. 85. Cfr. anche L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia tra Otto e Novecento, Einaudi, Torino 1985, pp. 93-95.

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Burckhardt sottolineava gli splendidi risultati dell’individualità rinascimentale19, Turiello era molto meno affascinato dalla creatività degli italiani esageratamente individualisti che abitavano la penisola ai suoi tempi. A suo modo di vedere, in assenza di uno Stato forte la «scioltezza» degli italiani si traduceva in una scarsa capacità di associazione (fatta eccezione per la «società naturale», la famiglia, che per converso era molto forte tra i napoletani)20, nella mancanza di spirito di collaborazione, e – cosa ancora più preoccupante – nella mancanza di disciplina. Governi deboli tendevano a rafforzare la «scioltezza», e data la «scioltezza» ancora maggiore degli abitanti del Meridione, il clientelismo e le organizzazioni criminali come la camorra prosperavano. Le conseguenze di questi tratti psicologici potevano essere particolarmente negative non solo in termini di ordine pubblico ma anche, più generalmente, in termini di performance dello Stato, in un momento in cui grandi progetti di qualsiasi genere richiedevano unità nazionale e uno sforzo di collaborazione da parte di tutti i cittadini. La mancanza di spirito di collaborazione era massima in particolare negli ambienti della borghesia napoletana, nella quale la regola era farsi strada da soli: in questo strato sociale l’«adorazione e la fede massima nella ‘furberia’»21 erano sovrane e avevano conseguenze politiche e sociali estremamente negative: «Ora, è un fatto storico e giusto che un popolo di furbi, tra più vittorie individuali, non conti che sconfitte collettive a fronte de’ più forti perché più disciplinati»22. Mentre rimarcava che l’individualismo e la furberia erano problemi reali, Turiello negava esplicitamente validità all’idea che il popolo italiano fosse ozioso: questo era semplicemente «il pregiudizio straniero sul dolce far niente italiano»23. Quindi, anche se spesso faceva riferimento alla storia e all’autorità di storici famosi, in realtà Turiello non credeva che il carattere di un popolo fosse semplicemente un prodotto della storia, e che 19 Burckhardt influenzò i ben noti lavori di J.A. Symonds, come The Age of the Renaissance in Italy. The Age of the Despots, Holt and Co., New York 1888, p. 488. Secondo Symonds l’Italia rinascimentale era «la terra dell’individualità emancipata», cioè «quello che auspicava Mill nel suo saggio sulla libertà». 20 Turiello, Governo e governati cit., p. 59. 21 Ivi, p. 112. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 108.

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le sue variazioni fossero il risultato delle differenze tra le varie istituzioni sociali e politiche. Dopotutto, faceva notare, il feudalesimo era esistito sia in Piemonte che a Napoli, e tuttavia c’erano differenze tra i piemontesi e i napoletani24. Sia Milano che Napoli erano state soggette alla dominazione spagnola, eppure i milanesi non erano diventati esattamente come i napoletani. In effetti la storia aveva giocato solo un ruolo limitato nel formare il carattere. Pur non escludendo il ruolo di fattori politici e sociali, Turiello affermava che il «carattere delle popolazioni indigene», inteso come un complesso di tratti etnici ben radicati, era di per se stesso una forza storica che i governi dovevano prendere in considerazione, se volevano legiferare e governare in maniera efficace. Le tesi di Turiello possono sembrare piuttosto contraddittorie, ma dobbiamo tenere presente che sostanzialmente Governo e governati non era un trattato sul carattere, ma un testo politico. Come ha osservato Piero Bevilacqua, l’antropologia del carattere degli italiani elaborata da Turiello era una «trasparente metafora ideologica» funzionale al rafforzamento della sua opposizione alla sinistra storica allora al potere (e la cui base elettorale era più forte nel Meridione), e al sostegno del suo progetto politico conservatore25. Se era così difficile rendere disciplinati gli italiani, dichiarava Turiello, ciò che serviva non era più libertà ma meno libertà, e non un minore intervento dello Stato, ma un intervento più deciso. Se le clientele erano «figlie della natura italiana», non sarebbero affatto sparite con il «discentramento», cioè con la devoluzione del potere dal centro alla periferia che alcuni chiedevano in quel periodo. Oltre a essere contrario all’estensione del suffragio, che intendeva limitare solo a coloro che «lo meritavano», Turiello era anche fortemente critico della forma di governo parlamentare e voleva un’applicazione più rigida dello Statuto albertino, e precisamente l’utilizzo della prerogativa del sovrano di nominare il primo ministro senza doversi inchinare alla volontà del parlamento. Ma l’interesse di Turiello non si limitava alle questioni di politica interna e di riforma istituzionale: egli era preoccupato dalla 24 Ivi, p. 228. Occorre notare che Turiello diceva anche che le costituzioni di Federico II avevano creato nel Sud un sistema antifeudale (vedi nota 17). 25 Cfr. l’introduzione di P. Bevilacqua a Turiello, Governo e governati cit., p. XIII.

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posizione dell’Italia nell’arena internazionale. Era convinto che se le istituzioni politiche italiane non fossero state riformate nella maniera «organica» che egli stesso indicava, la corsa alle colonie sarebbe stata sicuramente un insuccesso: era questo il messaggio che sottolineava già nella prima edizione di Governo e governati (pubblicata subito dopo l’occupazione francese di Tunisi, un’estensione «naturale» della penisola agli occhi dei nazionalisti italiani) e in maniera ancora più vibrata nella seconda edizione, che uscì dopo la disfatta di Dogali (1887) nel Corno d’Africa, quando cinquecento soldati italiani furono uccisi in un’imboscata26. Turiello aggiunse una lunga prefazione a questa seconda edizione in cui ribadiva con forza quale fosse la posta in gioco in quel momento, cioè che se l’Italia non fosse stata capace di imporsi nella competizione per le colonie sarebbe caduta al rango di nazione minore. Questo era già accaduto in passato, in particolare alla fine del Medioevo e di nuovo nella seconda metà del Settecento, «il tempo de’ carnevali veneti e de’ cicisbei lombardi», quando l’Italia mancava «di virilità e di disciplina»27. Per Turiello, negli ultimi tempi l’Italia era stata ancora una volta indebolita da un lungo periodo di pace e la «muliebrità» politica era di nuovo in aumento. Inoltre gli italiani avevano cominciato a emigrare in massa e per la nazione si prospettava un futuro incerto. L’emigrazione era necessaria, ma allo stesso tempo era anche un pericolo perché privava il paese di una delle sue risorse fondamentali. L’unica soluzione era quella di forgiare nuovamente la nazione attraverso «prove virili». I soldati che erano morti a Dogali indicavano la via: piuttosto che abbandonare la corsa alle colonie gli italiani dovevano abbandonare ogni scrupolo e abbracciare risolutamente l’imperialismo. Molti dei temi politici di Turiello – in particolare la sua critica nei confronti del parlamento e il suo sostegno a una politica imperialista – e il suo linguaggio connotato fortemente in termini sessuali avrebbero permeato la cultura politica italiana, nonché la politica, per diversi anni a venire. Dalla metà degli anni Ottanta i critici nazionalisti che denunciavano la debolezza e la corruzione 26 P. Turiello, Governo e governati in Italia, 2a ed., vol. 1, Fatti, Zanichelli, Bologna 1889. Il secondo volume, con il sottotitolo Proposte, fu pubblicato l’anno successivo. 27 Ivi, vol. 1, pp. 7-8.

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del parlamento italiano fecero sentire sempre di più la loro voce, aggiungendo le loro critiche a quelle degli ambienti dei cattolici intransigenti e dell’estrema sinistra, con esplicite e misogine metafore di genere come faceva, ad esempio, Scipio Sighele – uno degli inventori della psicologia delle folle – quando definiva la camera dei deputati «psicologicamente una femmina e spesso anche una femmina isterica»28. In quegli stessi anni i sostenitori del colonialismo e dell’imperialismo erano sempre più attivi e organizzati, particolarmente a Napoli e nel Meridione, dove la spinta per una politica coloniale più aggressiva era più forte che altrove, mentre settori importanti delle élites del Nord abbracciarono in maniera convinta la causa dell’imperialismo solo dopo l’inizio del nuovo secolo. Anche per quanto riguarda più specificamente l’analisi del carattere italiano, Governo e governati non passò inosservato. Pasquale Villari elogiò l’amico Turiello per il suo patriottismo, che lo aveva spinto a denunciare in maniera appassionata i guasti della vita pubblica italiana, anche se lo rimproverò perché attribuiva un ruolo eccessivo al carattere italiano e all’idea che il carattere fosse condizionato dalla razza. A suo parere, Turiello aveva trascurato il ruolo di fattori più generali quali l’egoismo umano e l’ignoranza e sottostimato la portata di eventi storici recenti, soprattutto le circostanze particolari in cui si era arrivati all’unificazione del paese, quando «milioni di schiavi» tutto a un tratto erano diventati liberi29. Il filosofo della storia Nicola Marselli, un ex ufficiale superiore dell’esercito, nel suo trattato Gl’Italiani del Mezzogiorno (1884) non faceva espliciti riferimenti a Turiello, ma come lui affermava che tutti gli italiani, e non soltanto i meridionali, possedevano in misura maggiore o minore tutti i vizi delle po28 S. Sighele, Contro il parlamentarismo. Saggio di psicologia collettiva, Treves, Milano 1895, p. 34. Sul contributo di Sighele alla psicologia delle folle cfr. J. van Ginneken, Crowds, Psychology and Politics 1871-1899, Cambridge University Press, Cambridge 1992, cap. 2. Sulla critica nei confronti del parlamento cfr. anche Mangoni, Una crisi di fine secolo cit., pp. 122, 159-178; e, più recentemente, A.M. Banti, Retoriche e idiomi: l’antiparlamentarismo nell’Italia di fine Ottocento, in «Storica», 1-3, 1995, pp. 7-41. 29 P. Villari, L’Italia giudicata da un meridionale, in Id., I mali dell’Italia. Scritti su mafia, camorra e brigantaggio, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 261-305 (ed. or. in «Nuova Antologia», 1 dicembre 1883).

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polazioni del Sud, cioè un individualismo indisciplinato, un’immaginazione sfrenata e un’intelligenza troppo «speculativa»30. D’altra parte, era attento a sottolineare anche gli aspetti positivi – in genere ignorati – di questi difetti «tipici», e poneva in risalto l’esempio di alcuni meridionali virtuosi come il suo maestro Francesco De Sanctis. Quando metteva in guardia i lettori contro l’eccessivo pessimismo mostrato da alcuni meridionali, probabilmente Marselli aveva in mente Turiello; ma in ogni caso anch’egli credeva che per affrontare le sfide vecchie e nuove fosse necessario uno Stato più forte. L’immagine dell’italiano individualista e indisciplinato affiorava anche in altri testi pubblicati negli anni Ottanta, che ne proponevano comunque una eziologia più variata. Nel suo ponderoso studio sui caratteri nazionali (1883) lo storico Enrico Zanoni riprendeva ampiamente le tesi di Burckhardt e di Turiello; sviluppando anch’egli l’idea dell’eccessivo individualismo degli italiani ne faceva risalire le cause alla sofisticata civiltà rinascimentale, e sosteneva che, di conseguenza, gli italiani erano ancora carenti delle qualità dei «potenti popoli settentrionali», cioè la disciplina, il senso del dovere e il carattere31. Nel decennio successivo gli antropologi positivisti, i sociologi e i commentatori politici si impegnarono in ulteriori teorizzazioni a carattere generale sulle razze, sugli Stati e sui caratteri distintivi della loro psicologia, e svilupparono l’idea che la psicologia degli italiani – e più in generale delle popolazioni latine – fosse un insieme peculiare di elementi, un temperamento in cui l’eccessivo individualismo combinato con un misto di altri tratti, a volte in maniera piuttosto incongrua, finiva per produrre ogni sorta di esito patologico. La tendenza a questo tipo di generalizzazioni non era soltanto italiana: l’emergere di un discorso a livello internazionale sulla «psicologia dei popoli» contribuì a corroborare teorie del genere, attribuendo all’idea di carattere nazionale l’autorità della scienza. 30 N. Marselli, Gl’Italiani del Mezzogiorno, Sommaruga, Roma 1884, p. 162. Su questo autore cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 22-26 (ed. or. 1951); e S. Lanaro, Nazione e lavoro, Marsilio, Venezia 1979, pp. 190-200. 31 E. Zanoni, Studio sui caratteri nazionali, vol. 3, Ribecchi, Milano 1883, p. 74. Zanoni, un allievo di Marselli, scrisse alcuni studi sul Risorgimento e su Guicciardini e Cattaneo.

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Da italiani a latini: il carattere e la «razza mediterranea» La rilevanza attribuita da Turiello al determinismo etnico, evidente nella sua analisi del carattere, era un segno del cambiamento generale dei paradigmi intellettuali che ebbe luogo in Europa negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, quando le teorie sulla razza e sull’evoluzione umana finirono per influenzare profondamente i discorsi sulla società e le discussioni sulle relazioni internazionali, e furono fatte proprie da studiosi e commentatori di varie tendenze politiche. In una cultura come quella di fine secolo in cui i popoli e le società venivano sempre più naturalizzati, si credeva che le loro performances, sia a livello nazionale che internazionale, rispecchiassero l’indole naturale della loro razza. In particolare, l’andamento della competizione per le colonie condizionava la discussione in materia di «psicologia dei popoli», che si articolava in grandi generalizzazioni sui tratti psicologici di intere nazioni e razze32. Inutile dire che su una questione del genere era difficile che vi fossero pareri unanimi, e i tratti psicologici attribuiti ai vari popoli erano spesso in contraddizione tra di loro. E tuttavia certe tendenze erano chiaramente visibili. In Francia un teorico della psicologia della folla ebbe un ruolo di primo piano nell’articolazione del discorso della psicologia dei popoli. Secondo Gustave Le Bon, l’autore di uno dei maggiori bestsellers della fine dell’Ottocento, Lois psychologiques de l’évolution des peoples, le razze – che definiva «formazioni storiche», rigettando l’idea che esistessero razze «pure» – avevano caratteristiche prefissate che ne determinavano il successo o il fallimento nel mondo. Il carattere nazionale era «un aggregato di elementi psicologici» condivisi da ciascun individuo di una nazione, e i tratti psicologici venivano trasmessi di generazione in generazione esattamente come quelli fisici. Era il carattere, che Le Bon considerava una sorta di 32 Su questo discorso cfr. P. Claret, La personnalité collective des nations. Théories anglo-saxonnes et conceptions françaises du caractère national, Bruylant, Bruxelles 1998. La «psychologie des peuples» francese fu riconosciuta istituzionalmente come disciplina accademica negli anni Trenta, e ha continuato a esistere fino agli anni Settanta del secolo scorso: per un esempio di questo discorso accademico cfr. A. Miroglio, La psychologie des peuples, Presses Universitaires de France, Paris 1965.

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«qualità mistica»33, a determinare l’evoluzione storica di un popolo. Gli inglesi erano stati capaci di costruire il più grande impero coloniale mai visto nella storia del mondo proprio per gli elementi che costituivano la loro struttura psicologica: grande forza di volontà, energia, autocontrollo, indipendenza, religiosità, moralità, senso del dovere. Al contrario, come Hyppolite Taine aveva già notato, le razze «latine» mancavano di spirito di iniziativa, si inchinavano davanti all’autorità con «fedeltà animale» o con «servilismo bizantino», e si aspettavano che il loro governo provvedesse a tutto34. La decadenza e il declino erano una minaccia reale per tutte le società europee a causa della commistione tra le razze, ma quelle latine vi erano esposte in maniera particolare. Esaminando i precedenti storici, Le Bon prevedeva l’avvento di nuove forme di «cesarismo» nei paesi latini, vale a dire di governi dispotici (il più probabile e pericoloso dei quali era il socialismo), a meno che non si reagisse in tempo e non si cambiasse atteggiamento. Un altro bestseller della fine del secolo, À quoi tient la supériorité des Anglo-Saxons di Edmond Demolins, riprendeva più o meno questi concetti35. Demolins, allievo del sociologo Le Play, sosteneva che gli anglosassoni (termine con cui intendeva essenzialmente i britannici) avevano ereditato lo spirito indipendente e individualista dei loro progenitori sassoni, e allo stesso tempo dichiarava che le ragioni della loro superiorità, evidenziata in quel periodo dai successi economici e dall’egemonia imperiale, stavano nel fatto che il loro sistema educativo instillava il valore dell’iniziativa individuale. L’individualismo degli anglosassoni era una caratteristica positiva e lodevole che in Francia era assente soprattutto perché il sistema educativo dei francesi era sbagliato: troppo protettivi nei confronti dei figli, facevano ogni sforzo per procurare loro un lavoro sicuro nell’amministrazione statale o nella proprietà 33 I. Hannaford, Race. The History of an Idea in the West, Woodrow Wilson Center Press-the Johns Hopkins University Press, Washington-Baltimore 1996, p. 339. 34 G. Le Bon, Lois psychologiques de l’evolution des peuples, Alcan, Paris 1894. 35 E. Demolins, À quoi tient la supériorité des Anglo-Saxons, Firmin-Didot, Paris 1897. Singoli capitoli del testo erano già apparsi come articoli nella rivista «La science sociale», organo della scuola di sociologia del conservatore Le Play. La prima edizione fu esaurita in pochi giorni. Seguirono decine di edizioni e traduzioni in molte lingue.

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di famiglia, e in questo modo ne soffocavano la fiducia in se stessi e lo spirito d’iniziativa. Esibendo le tipiche ansie che molti suoi concittadini di destra avevano a quei tempi, Demolins attribuiva anche la diminuzione del tasso di natalità e la crescente presenza di immigrati agli atteggiamenti educativi correnti, e – in coerenza con l’antisemitismo dilagante – accusava i francesi di essere troppo poco inclini agli investimenti e troppo inclini al risparmio, favorendo così l’affermarsi di una potente classe di finanzieri ebrei. Gli eventi che si verificavano nell’arena internazionale e specialmente gli sviluppi della corsa alle colonie sembravano confermare le diagnosi sulla superiorità anglosassone, dando loro un’ampia risonanza. In effetti, nell’ultimo decennio del secolo i paesi dell’Europa meridionale si trovarono in serie difficoltà sia per questioni di politica interna che internazionale. L’umiliante sconfitta subita dall’Italia nel 1896 in Etiopia e quella subita dalla Spagna nel 1898 nel conflitto coloniale con gli Stati Uniti fecero nascere nell’Europa meridionale un senso di ansietà e di pessimismo e alimentarono la sensazione della superiorità anglosassone sia nel continente che negli Stati Uniti. Gli intellettuali positivisti italiani, che sviluppavano le loro teorie intrattenendo relazioni particolarmente strette con i colleghi francesi36, contribuivano per la loro parte al dibattito sui problemi e sulle prospettive dei paesi latini. Ma dal momento che per la maggior parte non erano conservatori alla stregua di Le Bon e di Demolins, avevano idee assai diverse sull’essenza e sull’eziologia della «peculiarità» latina. Un duro atto di accusa nei confronti dei popoli latini venne da Guglielmo Ferrero, un giovane e brillante giornalista di sentimenti democratico-socialisti, stretto collaboratore (e dal 1901 genero) di Cesare Lombroso. Nella sua raccolta di saggi L’Europa giovane (1897), che gli valse un successo immediato37 e venne definita «l’inno di un latino alla razza anglosassone»38, la rappre36 Su questa rete di scambi cfr. Mangoni, Una crisi di fine secolo cit., Einaudi, Torino 1985. 37 G. Ferrero, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Treves, Milano 1897 (2a ed. 1903). Alcuni saggi compresi in questo libro erano già stati pubblicati su giornali e riviste nei tre anni precedenti. 38 A. Fouillée, Esquisse psychologique des peuples européens, Alcan, Paris 1903, p. 189.

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sentazione dei latini si basava sulla persistente idea del meridionale sensuale, ingegnoso ma non molto energico. Lungi dal collegare questi tratti alla mitezza del clima dell’Europa meridionale, Ferrero li spiegava in termini di razza, e in particolare li metteva in rapporto con l’ipersessualità delle popolazioni meridionali. Era la precocità sessuale dei latini e la fissazione per il sesso che spiegava la loro minore energia e scarsa forza di volontà rispetto ai «popoli giovani» dell’Europa (specialmente gli inglesi e i tedeschi): i giovani maschi diventavano sessualmente maturi prima di quelli che vivevano nei paesi settentrionali, e passavano gran parte del tempo a cercare di sedurre le donne e a preoccuparsi della loro fedeltà. Gli eccessi sessuali causavano una degenerazione nervosa e rendevano gli uomini meno adatti al lavoro di precisione richiesto dalle società industrializzate39. Non era un caso che il capitalismo industriale fosse stato inventato dagli inglesi, mentre la «vera forma sociale, creazione originale della razza latina» era il cesarismo. Contrariamente alla interpretazione che ne dava Le Bon, per il progressista Ferrero il cesarismo era essenzialmente lo «spogliamento sistematico di una plebe agricola fatto violentemente dallo Stato per mezzo delle imposte per mantenere una brillante oligarchia di parassiti»40. Uno degli esempi di più ampia portata di questo fenomeno era l’Impero romano, ma il governo italiano del tempo, come pure quello francese e quello spagnolo, erano «riproduzioni in piccolo» della stessa struttura. In contrasto con l’«anarchia morale» e il cesarismo che erano dominanti nelle società latine, secondo Ferrero la «razza germanica» (che comprendeva gli inglesi, i tedeschi e i nordamericani), malgrado avesse anch’essa i suoi problemi, dimostrava di possedere un più alto senso del dovere, era più energica e più portata al tipo di lavoro organizzato e meccanizzato richiesto dalle società moderne. Gli anglosassoni erano «i veri collettivisti», e stavano creando una nuova forma di organizzazione sociale «in cui tutti gli uomini, anche i più umili, [erano] collaboratori dell’universo 39 Il lavoro di Ferrero rispecchiava la nuova tendenza, emersa alla fine del XIX secolo, a parlare di temi sessuali in termini molto espliciti. 40 Ferrero, L’Europa giovane cit., p. 203. Sulla storia della categoria di cesarismo cfr. A. Momigliano, Per un riesame della storia dell’idea del cesarismo, in «Rivista storica italiana», 68, 1956, pp. 220-229.

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lavoro comune»41. In altre parole i paesi anglosassoni contenevano in nuce la società del futuro basata sul lavoro e sulla vera fratellanza dell’umanità, che a quell’epoca il progressista Ferrero presentava come l’alternativa all’immobilismo e alla corruzione politica delle società latine. L’antropologo più importante dell’Italia di fine Ottocento, Giuseppe Sergi, condivideva alcune delle idee di Ferrero e l’ammirazione per gli inglesi, ma era meno incline a fare il panegirico dello spirito collettivista. Sergi, un siciliano a cui nel 1880 venne assegnata la cattedra di antropologia dell’università di Bologna, in gioventù era stato – come Turiello – un sostenitore di Garibaldi. Negli anni successivi aveva continuato a essere anticlericale, ma, all’opposto di Turiello, non si era trasformato in un imperialista: era contrario al colonialismo, che considerava una forma di patriottismo fuorviante, e al militarismo, un segno di «primitivismo» che le società moderne avrebbero abbandonato col passare del tempo42. Vicino a Lombroso e agli ambienti socialisti-umanitari, le sue tendenze ideologiche (anche se ribadiva sempre la sua indipendenza politica) e le sue idee sulla composizione razziale della popolazione della penisola lo portavano a conclusioni diverse su come rigenerare gli italiani. Sergi aveva studiato la «psiche etnica» degli italiani in uno dei suoi primi saggi di psicologia sociale dedicato all’educazione del carattere (1885)43, in cui sosteneva un’idea che più tardi riprese e sviluppò in una teoria organica in parte condivisa da Lombroso, cioè che gli italiani erano un miscuglio di due razze44 che presenFerrero, L’Europa giovane cit., pp. 420-421. Alcune informazioni biografiche su Sergi e brani scelti dei suoi lavori si trovano in S. Puccini (a cura di), L’uomo e gli uomini. Scritti di antropologi italiani dell’Ottocento, CISU, Roma 1991. 43 G. Sergi, Per l’educazione del carattere. Pagine di psicologia sociale e consigli direttivi, Camilla e Bertolino, Torino 1885; (2a ed. riveduta 1893). Sergi fu il fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale italiano. 44 Sergi non elaborò ulteriormente il concetto delle razze nelle due edizioni del testo, ma si limitò a dire che le «razze celtiche» erano prevalenti nella valle del Po (eccetto il Veneto). Su questo argomento Lombroso tendeva a essere ancora più vago e confuso: cfr. M. Gibson, Biology or Environment? Race and Southern «Deviancy» in the Writings of Italian Criminologists, 1880-1920, in J. Schneider (a cura di), Italy’s Southern Question. Orientalism in One Country, Berg, Oxford-New York 1998, pp. 99-115. Sia per Lombroso che per Sergi la forma del cranio era la più importante caratteristica distintiva delle razze. 41 42

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tavano alcune differenze (nell’Italia settentrionale c’era più «sangue celtico») destinate tuttavia a ridursi col passare del tempo. In questo saggio Sergi sottolineava la tendenza di tutti gli italiani a chiedere per ogni cosa l’intervento dello Stato, caratteristica che secondo lui era «un residuo, una sopravvivenza del concetto dello Stato romano»45. Verso la fine del secolo la caratterizzazione elaborata da Sergi divenne più complessa. La sua teoria sulla composizione razziale della popolazione della penisola si modificò, incorporando l’idea di una «razza mediterranea» elaborata originariamente da un antropologo francese, J.L.A. Quatrefages46. In uno studio sulle origini preistoriche della popolazione italiana dal titolo Arii e Italici (1898), Sergi sosteneva che la penisola era abitata da due razze principali, gli Arii (ariani) di origine euro-asiatica, e gli Italici (o mediterranei) di origine euro-africana. La psicologia di queste due razze, la prima predominante nel Nord e la seconda nel Sud, era piuttosto diversa: «Mentre nella stirpe aria l’individuo si fonde nell’aggregato senza alcun sacrifizio, e si considera una parte, un elemento dell’unità sociale, sulla quale non aspira ad innalzarsi per dominarla; nella stirpe mediterranea, al contrario, ogni individuo vuole emergere dalla massa sociale, e quando anche sia necessario di rimanere come una molecola dell’unità indivisa. Portata agli estremi questa differenza, trovasi il sentimento di anarchia da un lato [...] e quello dell’ordine dall’altro»47. Dal momento che nei paesi latini predominava la razza mediterranea, le loro popolazioni tendevano a mostrarne in maggior misura le pecche psicologiche. Di qui la loro «decadenza», di cui Sergi si occupò nel libro omonimo pubblicato nel 190048. Sergi, Per l’educazione del carattere cit., p. 100. Cfr. A. Gillette, Racial Theories in Fascist Italy, Routledge, London-New York 2002, p. 6. Sia per Quatrefages che per Sergi il principale criterio per identificare la razza era la forma del cranio: i mediterranei erano per la maggior parte dolicocefali, mentre gli ariani erano brachicefali. 47 G. Sergi, Arii e italici. Attorno all’Italia preistorica, Bocca, Torino 1898, p. 191. Come ha notato Fabrizio De Donno, la teoria della razza mediterranea di Sergi era anche una risposta ai sostenitori delle teorie ariane e alle loro idee sulla degenerazione delle razze latine: cfr. La Razza Ario-Mediterranea. Ideas of Race and Citizenship in Colonial and Fascist Italy, in «Interventions», 8, 2006, pp. 398-399. 48 G. Sergi, La decadenza delle nazioni latine, Bocca, Torino 1900, p. 203. Non decadenza delle razze, specificava, perché la razza è una nozione biologica mentre le nazioni sono prodotti della storia. 45 46

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Come spiegava nella Decadenza delle nazioni latine, l’individualismo (inteso in senso negativo) era un’«indole della stirpe» profondamente radicata, e il primo «peccato capitale» degli italiani. Il forte individualismo che dominava i mediterranei ostacolava il funzionamento di tutte le società in cui essi erano presenti. Queste società tendevano a essere più instabili politicamente: «Spesso non vi è alternativa che questa per i mediterranei: o gregari o anarchici; quando c’è qualcuno che sa comandare, si impone con la violenza della superiorità individuale e crea gregari; quando la massa non trova chi la comanda, è anarchica e la società pericola»49. Quindi, in contrasto con Le Bon e Demolins, che dei latini avevano messo in rilievo esclusivamente la dipendenza dallo Stato e la mancanza di iniziativa, Sergi puntualizzava che anche i latini erano individualisti. Il problema era che il loro individualismo non era quello giusto (cioè quello di marca anglosassone): invece di condurre a una società ben ordinata e produttiva, produceva instabilità politica e apriva la strada a deprimenti alternative. Sergi era probabilmente spinto a fare queste considerazioni piuttosto cupe dalla turbolenta situazione politica dell’Italia nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando prima la rivolta dei Fasci Siciliani (1892-1894) e poi i tumulti per il pane (1898) proiettavano l’immagine di agitate masse di latini in rivolta. Nei confronti del Sud inoltre esprimeva giudizi molto pessimisti al punto che arrivò a sostenere che solo un influsso di settentrionali nelle regioni del mezzogiorno poteva portare a un miglioramento50. Per questo antropologo, tuttavia, l’individualismo latino non era stato sempre uguale attraverso i secoli, ma aveva una storia. Nei primi tempi, anche i popoli mediterranei avevano conosciuto un individualismo buono che aveva portato risultati di tutto rispetto: dopotutto, i greci avevano creato le migliori opere dello spirito umano. Nell’antica Roma, l’oligarchia – «un’altra forma più ristretta dell’individualismo della razza» – aveva generato la «grandezza materiale del dominio delle armi e dell’impero»51. Solo in seguito, nella sua fase di Ivi, p. 240. Cfr. G. Sergi, La mescolanza delle stirpi, in V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma 1993, pp. 179-183 (il testo originale, senza titolo, si trova in A. Renda, La questione meridionale. Inchiesta, Sandron, Roma-Palermo 1900, pp. 137-144. 51 Sergi, La decadenza cit., p. 241. 49 50

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declino, l’Impero romano aveva corrotto le masse con i sussidi pubblici rendendole servili e anarchiche. Da allora l’individualismo latino era degenerato, e tutto ciò che ne era rimasto era una sorta di anarchia particolarmente visibile nel sud della penisola, dove una lunga storia di malgoverno aveva accentuato questa tendenza in una popolazione già scarsamente disciplinata. Per la sua spiegazione storica dell’individualismo mediterraneo Sergi si basò in parte sulle teorie di uno storico tedesco della prima metà del secolo, Heinrich Leo – un allievo di Johann Gottfried von Herder – che assegnava un ruolo di rilievo al contesto geografico e al clima. Nella sua Storia degli Stati italiani, Leo sottolineava la diversità interna dell’Italia e dipingeva un ritratto particolarmente primitivista dei meridionali, ma insisteva anche sul fatto che tutti gli italiani avevano una caratteristica comune, un «carattere d’indipendenza individuale»52. Leo collegava questo tratto sia alla mitezza del clima (la gente non doveva faticare troppo per guadagnarsi da vivere e aveva più tempo per esercitare la propria creatività) sia alla storia, e in particolare all’influenza del periodo di anarchia che era seguito alla caduta dell’Impero romano. Come Leo, anche Sergi riteneva che questo periodo era stato decisivo nella formazione del carattere della popolazione italiana. Ma gli italiani scontavano, secondo Sergi, anche altri «peccati capitali» che non avevano a che fare con i tratti caratteriali dovuti alla razza. Uno di questi era il classicismo, ovvero il fatto di affidarsi in maniera eccessiva alla cultura classica e di immaginare il futuro solo attraverso l’ottica del passato. Un altro grave problema era il «fatale cattolicismo», che soffocava lo spirito di iniziativa degli italiani e costituiva «una delle cause più potenti della decadenza delle nazioni latine»53. Chiaramente, questi «peccati» non erano qualcosa di innato, ma il risultato di circostanze storiche e come tali erano stati denunciati frequentemente già in precedenza. Infatti, secondo Sergi, i tratti innati o razziali del carattere interagivano sempre con circostanze storiche e fattori sociali: «mentre si ammette che il carattere fondamentale bisogna ricercarlo nella natura an52 H. Leo, Storia degli stati italiani dalla caduta dell’Impero Romano fino all’anno 1840, Società Editrice Fiorentina, 2a ed., Firenze 1842, cap. 1. Anche Turiello conosceva questo autore, ma si basava molto di più su Burckhardt. 53 Sergi, La decadenza cit., p. 78.

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tropologica o nella etnicità, si trova che l’influenza delle varie e successive condizioni sociali e politiche è stata grande ed efficacissima a modificare variamente questo carattere fondamentale primitivo»54. Quindi la decadenza delle nazioni latine non era inevitabile e adeguate misure potevano invertire il processo. Negli scritti di antropologi come Sergi veniva costantemente messo in campo il linguaggio della razza e dell’eredità, e le «modalità di naturalizzazione»55 della nazione venivano spinte molto più in là di quanto avesse fatto Turiello nei suoi lavori. Tuttavia anche nelle spiegazioni proposte dagli antropologi la storia continuava a giocare un suo ruolo. Ciò dava spazio alla possibilità di un cambiamento attraverso riforme e interventi governativi intesi a contrastare l’eccessivo individualismo degli italiani. Ma prima di passare in rassegna i rimedi che furono escogitati in quel periodo, è necessario osservare le reazioni suscitate in Francia e in Italia dall’«autodenigrazione» latina, come i critici definivano gli scritti di cui ci siamo appena occupati.

Alla difesa dei latini Se si fanno generalizzazioni etno-razziali in materia di psicologia dei popoli, gli sviluppi storici contingenti vengono letti come manifestazione di tratti profondamente radicati. Naturalmente, il rischio di una lettura del genere è che il caso e un diverso andamento degli eventi possano rendere rapidamente obsoleti tutti i giudizi e tutte le generalizzazioni. Gli scrittori pro-anglosassoni si imposero all’attenzione in un periodo in cui i paesi latini sembravano distinguersi per gli scandali, l’instabilità politica e i disastri militari. Oltre al «trauma» della sconfitta di Adua nel 1896, nell’ultimo decennio del secolo l’Italia fu testimone dello scandalo della Banca Romana (che molti paragonavano a quello francese di Panama) e di una serie di imponenti proteste popolari che si esteIvi, p. 252. Prendo in prestito questa espressione da M. Nani, Fisiologia sociale e politica della razza latina. Note su alcuni dispositivi di naturalizzazione negli scritti di Angelo Mosso, in A. Burgio e L. Casali (a cura di), Studi sul razzismo italiano, Clueb, Bologna 1996, pp. 29-60. 54 55

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sero a tutta la penisola e vennero duramente represse da governi conservatori. Ma all’inizio del Novecento, almeno per quanto riguardava l’Italia, la ripresa economica dell’era giolittiana sembrò dissipare alcune delle più pessimistiche previsioni sulla capacità degli italiani di fare la loro parte nel processo di sviluppo economico. Per il momento le ansietà per gli scarsi risultati dell’Italia nella competizione per le colonie africani diminuirono, mentre nell’arena coloniale la Gran Bretagna – l’epitome del successo economico e imperiale – doveva affrontare alcune difficoltà inaspettate nella guerra contro i Boeri, che in tutta Europa gettò una cattiva luce sull’imperialismo britannico. A questo punto l’ondata dell’autoflagellazione latina rientrò, almeno temporaneamente. Il francese Alfred Fouillée, un repubblicano e autore prolifico di testi di pedagogia, morale, filosofia e sociologia, una vera autorità nel nuovo campo della psicologia dei popoli, nel 1903 si mosse in soccorso delle razze latine. Dopo un lungo e dettagliato esame delle caratteristiche psicologiche dei principali popoli europei, tratti che considerava il risultato dell’interazione tra razza e ambiente, lo studioso francese concluse che non c’era alcuna evidenza scientifica che provasse la presunta degenerazione delle popolazioni neolatine e la loro inferiorità nei confronti degli anglosassoni. In realtà, diceva, idee di questo genere mascheravano il culto segreto dell’umanità, vale a dire l’adorazione del potere e del successo56. Ma Fouillée aveva da obiettare solo su certe affermazioni eccessive in materia di carattere nazionale, non sull’idea in se stessa, che considerava molto utile specialmente in politica. Apparentemente Fouillée voleva dare un giudizio complessivo equanime e non troppo nazionalista del carattere nazionale, basato sul riconoscimento del fatto che in tutti i popoli c’era un misto di buono e di cattivo. Per ironia, il suo trattato era un vero e proprio peana al popolo francese, al quale, naturalmente, egli assegnava la palma per avere offerto il più grande contributo

56 Fouillée, Esquisse psychologique des peuples européens cit., introduzione e conclusione. Tra i suoi lavori precedenti cfr. in particolare L’einsegnement au point de vue national, Hachette, Paris 1891, e Psychologie du peuple francais, F. Alcan, Paris 1898. Su Fouillée cfr. anche G. Sluga, The Nation, Psychology, and International Politics, 1870-1919, Palgrave-Mcmillan, Houndmills, Basingstoke-New York 2006, pp. 70-72.

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all’umanità, affermando che la Francia aveva dispiegato il tipo migliore di colonialismo, più sensibile di altri ai diritti dei colonizzati57. A quei tempi i paladini del colonialismo italiano dicevano le stesse cose a proposito dell’Italia58. Al volgere del secolo, anche in Italia c’erano alcuni che esprimevano scetticismo per l’arbitrarietà di gran parte dei discorsi sul carattere nazionale. Il decano degli studi antropologici nel paese, Paolo Mantegazza59, in un articolo apparso nel 1899 sull’autorevole «Nuova Antologia», rimarcava che le opinioni sul carattere nazionale – anche quelle degli studiosi più quotati – erano superficiali e soggettive. Tuttavia, lungi dal chiedere l’abbandono di ogni tentativo di assegnare un carattere a un popolo, proponeva un approccio più scientifico al problema, cioè l’uso della statistica. In particolare, sosteneva, le statistiche sui delitti e sui suicidi potevano fornire un certo numero di indicatori «obiettivi» dei tratti psicologici di una popolazione. Nell’«Archivio per l’antropologia e l’etnologia», la rivista di Mantegazza, il linguista Francesco L. Pullè propose un approccio simile per costruire la componente psicologica di un «profilo antropologico dell’Italia»60. In un saggio che vinse il premio della Società italiana di antropologia ed etnologia, utilizzando una serie di tavole a colori Pullé illustrò le qualità etniche, linguistiche, antropometriche, morali e intellettuali della popolazione italiana, evitando comunque di parlare degli usi e costumi, perché in quel campo di ricerca c’era troppo spazio per opinioni e giudizi soggettivi. Più o meno nello stesso periodo, nel suo ben noto lavoro sulle «due Italie», Alfredo Niceforo, un allievo di Lombroso che condivideva le teorie di Sergi sulla composizione razziale della popolazione italiana, utilizzò in Fouillée, Esquisse cit., p. 508. Cfr. per esempio L. Robecchi Bricchetti, La Somalia italiana, in «Nuova Antologia», 3a s., 40, 1892, pp. 338-339. 59 Mantegazza fu il titolare della prima cattedra italiana di antropologia ed etnologia, e nel 1871 fondò la Società d’Antropologia e di Etnologia (e più tardi anche di «psicologia comparata»). Sergi era membro di questa società, ma l’abbandonò nel 1893 per fondare la propria associazione, la Società Romana d’Antropologia. I due erano in disaccordo su vari aspetti della teoria della razza: Mantegazza era un monogenista e Sergi un poligenista. Cfr. i loro profili in Puccini (a cura di), L’uomo e gli uomini cit. 60 F.L. Pullè, Profilo antropologico dell’Italia, in «Archivio per l’antropologia e l’etnologia», 28, 1898, pp. 19-163. 57 58

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maniera simile una notevole mole di statistiche per dimostrare in maniera definitiva il «divario di civiltà» tra l’Italia settentrionale e quella meridionale61. Malgrado avessero opinioni differenti su vari aspetti della teoria razziale, tutti gli antropologi erano molto attaccati ai concetti di razza e di carattere nazionale. A mettere più radicalmente in discussione le teorie correnti sulle razze e sulla psicologia dei popoli fu Napoleone Colajanni, uno studioso positivista di orientamento democratico-nazionalista ed esperto di economia politica e di statistica, che se la prendeva con l’inconsistenza dei discorsi sul carattere denunciando le «stramberie che si scrivono sui caratteri psicologici dei popoli; anche da pensatori eminenti, come ad esempio il Mantegazza e il Fouillée, che combattono sotto molti aspetti la distinzione tra razze inferiori e superiori e che la superiorità non si acconciano a riconoscerla negli anglo-sassoni»62 [il corsivo è dell’Autore]. L’elogio senza riserve degli anglosassoni poteva servire solo a rinforzare lo «smisurato orgoglio teutonico, inglese e nord-americano, che costituisce», scriveva Colajanni, «un vero pericolo per la causa della pace, della libertà e del progresso»63. Solo una migliore conoscenza reciproca poteva favorire la pace e il progresso. Quindi secondo Colajanni vi erano ragioni sia scientifiche sia politiche che rendevano imperativo il rigetto dei pregiudizi che permeavano il discorso della razza e del carattere: «tali pregiudizi servono a rinfocolare odi e rancori tra i popoli e a produrre pervertimenti morali che disonorano qualunque nazione civile»64. Il rifiuto da parte di Colajanni del discorso di marca razziale che permeava la psicologia dei popoli affiancava la sua opposizione all’impostazione, altrettanto razziale, che alla fine del secolo gli allievi di Lombroso come Alfredo Niceforo e anche Sergi avevano dato alla «questione meridionale». Per Colajanni, come per altri meridionalisti, i problemi del Meridione erano dovuti soprattutto a fattori sociali e ambientali. 61 A. Niceforo, Italiani del Nord e Italiani del Sud (con 133 tavole numeriche e 31 tavole geografiche), Bocca, Torino 1901. 62 N. Colajanni, Latini e anglo-sassoni (razze inferiori e razze superiori), 2a ed., Presso la Rivista Popolare, Roma-Napoli 1906, p. 44. La prima edizione (1903) aveva un titolo leggermente differente (Razze inferiori e razze superiori, o, latini e anglo-sassoni). 63 Ivi, p. 53. 64 Ivi, p. 54.

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Colajanni, tuttavia, non rigettava completamente il concetto di razza: rifiutava quello delle razze pure. Inoltre aveva una visione ciclica della storia delle nazioni e delle civiltà. A suo modo di vedere, a periodi di fioritura facevano seguito fasi di decadenza che a loro volta aprivano la strada a periodi di rinascita che spesso si fondavano sull’influsso di sangue nuovo65. L’inferiorità e la superiorità erano relative, non assolute. Tuttavia, non appena spostava la visuale al di là dell’Europa le frontiere razziali diventavano più rigide. Quando si chiedeva se il concetto della decadenza latina potesse essere applicato nel caso dell’America latina, Colajanni notava che in realtà a causa della mescolanza di razze diverse in quel continente – dove i bianchi erano in netta minoranza rispetto alle popolazioni indigene e nere – era più appropriato parlare del progresso dell’«elemento nero e di quello indigeno» piuttosto che di decadenza latina, e che il progresso era naturalmente dovuto ai tanto denigrati latini66. In effetti l’intenzione di Colajanni era di difendere questi ultimi dagli attacchi degli ammiratori degli anglosassoni, che spesso erano essi stessi latini. A suo modo di vedere non c’era nulla da idealizzare negli anglosassoni, che non di rado perseguivano politiche di aggressione mascherandole con ipocriti richiami ad alti ideali; oltretutto erano già chiaramente visibili segni di declino anche nell’America del Nord. In ogni caso il persistere dell’atteggiamento di «autodenigrazione» dei latini produceva effetti dannosi sul morale di popolazioni che avevano un disperato bisogno di maggiore unità e di fiducia in se stesse67. In conclusione, anche coloro che criticavano le generalizzazioni sul carattere nazionale in realtà non erano capaci di abbandonare il concetto di carattere nazionale, né erano disposti a farlo.

Nuovi strumenti per l’educazione nazionale Dal momento che il ruolo dei fattori sociali e storici nella formazione del carattere di un popolo non era negato nemmeno dagli antropologi ancorati alla nozione di razza, il passaggio a paradigmi Ivi, p. 410. Su questo punto cfr. anche Lanaro, Nazione e lavoro cit., p. 63. Colajanni, Latini e Anglo-sassoni cit., p. 343. 67 Ivi, cap. 7. 65 66

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etno-razziali non scoraggiò la ricerca di strumenti pedagogici intesi a modificare il carattere degli italiani. Anzi, i positivisti di ogni sorta consideravano l’istruzione un mezzo fondamentale per arrivare a un cambiamento, purché fosse basata su nozioni scientifiche e rispecchiasse una conoscenza adeguata della struttura psicologica del bambino e della società in cui il bambino cresceva. Quindi, come Suzanne Stewart-Steinberg ha recentemente notato con una efficace metafora68, i positivisti avevano molte idee su come tenere uniti o legati con vari tipi di lacci gli «sciolti» italiani. Pasquale Turiello – che era, tra l’altro, insegnante e ispettore scolastico – credeva fermamente nel potere dell’istruzione, e nei suoi ultimi anni dedicò tutte le sue energie allo studio dell’«educazione nazionale». Il suo principio guida era che per essere efficace, l’istruzione doveva essere adattata al carattere specifico del popolo da educare. A questo riguardo seguiva Herbert Spencer, il quale aveva già sottolineato che l’antropologia doveva essere un punto di riferimento per i governi: le istituzioni funzionano nel modo migliore se sono in «armonia con il carattere delle nazioni»69. Lamentando che le teorie italiane in materia di istruzione non erano abbastanza nazionalistiche e «virili», Turiello sosteneva l’esigenza di un nuovo sistema pedagogico basato su una conoscenza antropologica della razza italiana e sulle attitudini specifiche dei bambini. Senza questa conoscenza lo studio delle dottrine pedagogiche straniere era inutile. Se la caratteristica più preoccupante degli italiani era la scarsa capacità di associazione e la mancanza di disciplina, la maniera più efficace per risolvere il problema era strutturare la scuola come un’organizzazione militare. Anche se già in precedenza era considerato la «scuola della nazione»70, negli anni Ottanta dell’Ottocento l’esercito divenne il modello di istituzione educativa per la riforma del carattere. Secondo Turiello, i giovani italiani avevano bisogno di una «disciplina virile e molto vistosa», sul modello di quella militare71. Per 68 S. Stewart-Steinberg, The Pinocchio Effect. On Making Italians, 18601920, University of Chicago Press, Chicago 2007. 69 P. Turiello, Saggio sull’educazione nazionale in Italia, Luigi Pierro, Napoli 1891, p. 13. 70 M. Mondini, La nazione di Marte, Esercito e nation building nell’Italia unita, in «Storica», 20-21, 2001, pp. 209-246. 71 Turiello, Saggio sull’educazione nazionale cit., p. 78.

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converso, e piuttosto contraddittoriamente, Turiello sosteneva anche (in uno dei pochi scritti che si occupavano del problema del carattere in relazione al sesso femminile), che se volevano esercitare un’influenza benefica sulla «scioltezza» dei loro uomini, le donne dovevano conservare la propria «speciale docilità»72. Turiello non era il solo a pensarla in questo modo. Gli anni Ottanta e Novanta videro un’ondata di pubblicazioni in cui si chiedeva un sistema educativo più rigido in quanto a disciplina, assimilabile a quello militare. Nicola Marselli – un ex maggiore che ammirava l’esercito prussiano – era, come Turiello, un altro grande paladino dell’«educazione militare» e sollecitava una maggiore presenza dell’esercito nell’indisciplinato Meridione73. Da parte sua, Antonio Gallenga, l’ex patriota liberale diventato conservatore, lamentava il fatto che i giovani restavano troppo a lungo attaccati alle madri, situazione che si traduceva in debolezza di carattere e mancanza di autodisciplina, e chiedeva a gran voce una «educazione più virile»74. Lo stesso Edmondo De Amicis, l’autore di Cuore (1886), il testo per l’infanzia più popolare dell’Italia liberale, trasmetteva l’idea che l’esercito fosse la scuola ideale della nuova Italia: nelle sue pagine alle storie di ragazzi eroici che rimanevano mutilati o che davano la vita per la patria si alternavano i peana all’esercito75. Ma Turiello si spingeva più in là di ogni altro autore del tardo Ottocento nel sognare un sistema scolastico nazionale modellato sull’esercito e capace di instillare negli italiani il senso della disciplina. Questo tipo di istruzione, inoltre, doveva essere particolarmente visibile per non essere da meno nella competizione con le pompose cerimonie della Chiesa cattolica: «È necessario che in 72 P. Turiello, D’un probabile primato delle donne italiane. Memoria letta all’Accademia dal socio Pasquale Turiello, in «Atti della Reale Accademia di Scienze morali e politiche», 27, 1895, pp. 555-590. 73 Marselli, Gl’Italiani del Mezzogiorno cit., cap. 7. 74 Gallenga, L’Italia presente e futura cit., p. 280. 75 Su Cuore come libro di testo patriottico vedi anche il capitolo precedente, e cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. 4, Dall’unità a oggi, Einaudi, Torino 1975, pp. 925-940; S. Lanaro, Il Plutarco italiano, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981; L. Scaraffia e B. Tobia, Cuore di E. De Amicis (1886) e la costruzione dell’identità nazionale, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2, 1988, pp. 103-130.

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Roma e fuori la palestra, il tiro a segno, la ginnastica collettiva e pubblica, le marce e le esercitazioni virili delle migliaia degli adolescenti, vincano con la frequenza, la dignità e l’attrattiva loro qualsiasi spettacolo ecclesiastico: mostrando alla curia ed a’ suoi quello che ci unisce e ci fa più forti, più spesso e più chiaro di tutto quello che purtroppo ci divide»76. L’immagine di migliaia di adolescenti in marcia nelle strade non può non richiamare alla mente le parate di massa che saranno organizzate dal regime fascista nel suo programma di militarizzazione del popolo italiano. Comunque, il sistema scolastico non era considerato idoneo neanche negli ambienti meno nazionalisti e militaristi, e se ne riteneva indispensabile una profonda revisione. Anche se, come abbiamo visto, era angustiato dal carattere dei meridionali, Sergi non perdeva la speranza di cambiare il carattere degli italiani in generale: per questo ardente anticlericale, un sistema scolastico ben strutturato, libero dall’influenza del clero e dal culto della classicità del passato poteva fare molto per migliorarlo. Gli italiani avevano bisogno più di ogni altra cosa di ricevere un’educazione moderna, e ciò significava programmi di studio basati sulla scienza, la componente fondamentale di una cultura moderna. Sergi ammoniva con forza gli italiani ad abbandonare tutta l’enfasi retorica sul loro grande passato, che serviva solo a permeare la mente di un modo di pensare retrogrado, il più dannoso per le esigenze della modernità77. La «resurrezione» dei paesi latini richiedeva una mentalità nuova e proiettata verso il futuro, e la mobilitazione di energie e risorse umane. Negli anni successivi Sergi avrebbe anche considerato il ricorso a misure eugenetiche come rimedio per la rigenerazione della razza78. Tra i personaggi di questo capitolo, Ferrero era l’unico a non essere direttamente interessato alla pedagogia, ma nei suoi studi aveva identificato nella sessualità un fattore cruciale nella formazione del carattere, e questo aspetto spinse anche altri a interveniTuriello, Saggio sull’educazione nazionale cit., p. 78. Cfr. Sergi, La decadenza cit., cap. 18. Sulle idee di Sergi circa una pedagogia scientifica cfr. anche G. Bonetta, Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Angeli, Milano 1990, pp. 314-317. 78 Su Sergi come sostenitore dell’eugenetica cfr. C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 423-442. 76 77

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re con proposte e rimedi. Angelo Mosso, un fisiologo molto noto a livello internazionale, in un articolo su «Nuova Antologia» lodava Ferrero per avere identificato «una delle cause fondamentali della profonda diversità psicologica tra le così dette razze germaniche e le razze latine»79, ma sosteneva anche che un’educazione sbagliata aveva un ruolo molto importante nel determinare queste differenze. Il problema non stava tanto nella diversa fisiologia delle razze, quanto nella misura in cui l’intervento dell’educatore prendeva in considerazione questa diversità. Invece di adattare i modelli pedagogici alle caratteristiche della razza, gli italiani imitavano sistemi stranieri, e così facendo imponevano alle persone «cose che non sono fatte per il loro temperamento». Ed era un controsenso, secondo Mosso, dare a un «popolo sensuale» una «educazione effeminatrice», cioè eccessivamente «protettiva» nei confronti dei figli con da un lato i padri che facevano tutto il possibile per facilitare loro le cose, e dall’altro le scuole che trascuravano quasi completamente l’educazione fisica. A quei tempi Mosso era il più influente promotore di un concetto fisiologico e igienico di educazione ginnica inteso a migliorare in maniera «naturale» la forza fisica e rendere l’organismo preparato per le esigenze della società moderna80. In altri termini, nelle popolazioni latine non c’era nulla che le condannasse a un ruolo di perdente nella competizione per la modernità, se si identificava e si applicava il sistema pedagogico giusto. Contrariamente al periodo precedente, quando le discussioni sul carattere avevano avuto un impatto piuttosto limitato in termini di scelte politiche, negli anni Ottanta alcuni uomini di Stato prestavano loro maggiore attenzione. Francesco Crispi era molto sensibile alla questione. Egli stesso lamentava nelle sue lettere (anche se non in pubblico, per timore di sembrare poco patriottico e di indebolire il parlamento) i difetti del carattere degli italiani e 79 A. Mosso, Le cagioni della effeminatezza latina, in «Nuova Antologia», 4a s., 72, 1897, p. 249. Su molti aspetti Mosso concordava con le idee di E. Demolins. 80 Su Mosso in quanto promotore di questo concetto di educazione fisica cfr. Bonetta, Corpo e nazione cit., pp. 126-132. Il lavoro di Bonetta costituisce una fonte preziosa e dà la misura della considerevole importanza che i dibattiti sull’educazione fisica ebbero nell’opinione pubblica italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

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diceva di avere l’intenzione di correggerli81. Inutile dire che Crispi era un ammiratore della «virilità» e della fiducia in se stessa che dimostrava la Germania di Bismarck82. Non sappiamo se leggesse i trattati di Turiello, ma di certo ne condivideva molti punti di vista, perseguiva gli stessi obiettivi e adottava strategie simili a quelle da lui indicate per raggiungerli: come Christopher Duggan ha fatto notare di recente, Crispi si sforzava di creare una religione della madrepatria capace di competere con successo con il cattolicesimo romano. Per rafforzare la coscienza degli italiani di essere una nazione (nonché per sostenere il suo governo), oltre a perseguire una politica estera e coloniale aggressiva, Crispi promosse l’istruzione ginnico-militare lanciando, tra le altre iniziative, una «Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo»83. La sua politica trovava il plauso di tutti coloro che lamentavano la mancanza di virilità dell’Italia unita, come il piú famoso poeta di quegli anni, Giosue Carducci, che lanciava strali contro quel «popolo di cicisbei» e di «ignavi» che gli italiani non avevano mai smesso di essere84. La ginnastica faceva parte del programma in tutte le scuole primarie e secondarie già dal 1878, quando Francesco De Sanctis era ministro della Pubblica istruzione. Nel 1881 il nuovo ministro Guido Baccelli presentò un progetto di istruzione popolare per l’insegnamento dell’educazione civica ai giovani tra i 16 e i 19 anni (cioè prima della chiamata di leva) che comprendeva anche la «ginnastica militare»85. Il progetto non passò, ma l’obiettivo di inculcare il senso della collettività e della disciplina divenne di primaria importanza. Secondo i nuovi programmi scolastici del 1886, i bambini dovevano imparare non solo a camminare, ma a marciare, e le scuole dovevano offrire molte «occasioni analoghe a quelle che nell’esercito trasformano la recluta in un buon solda81 C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 510-512 (ed. or. 2002). 82 Ivi, pp. 400-405. 83 Ivi, p. 514. 84 Cfr. G. Carducci, Ça Ira, e Allo scoprimento del busto di Giacomo Leopardi, in Prose di Giosue Carducci 1859-1903, Zanichelli, Bologna s.d. [ma 1933]. 85 Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., p. 291; cfr. anche Bonetta, Corpo e nazione cit., pp. 174-175.

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to perché destano in lui lo spirito di corpo»86. Ma dal momento che i programmi statali del 1893 non erano informati da questa concezione militaristica della ginnastica, i principi psicologici e igienici introdotti nell’occasione furono oggetto di forti critiche87. Turiello richiamò di nuovo l’attenzione sulla necessità di una educazione più virile degli adolescenti88, mentre diversi altri insistevano sulle virtù sociali e politiche della ginnastica bellica: come ha osservato Gaetano Bonetta, questa era una attività ginnica che si supponeva dovesse rafforzare non solo il fisico ma «lo spirito individuale e sociale, coartando quest’ultimo al fine di creare una sorta di super-io nazionale, di volontà nazionale che vigil[asse] sulle tendenze anarchiche»89. La questione dell’educazione nazionale divenne ancora più importante per effetto della débâcle di Adua nel 1896. Il trauma dell’evento spinse Turiello a uscire nuovamente in pubblico per riaffermare la necessità di un’istruzione più militarizzata, che avrebbe insegnato agli italiani la concordia e la disciplina fin dalla giovane età. Egli bollò anche come «effeminata» la scelta di una politica di «raccoglimento» adottata dal governo italiano subito dopo la sconfitta90: l’impegno militare doveva essere abbracciato senza riserve perché era la soluzione per quella che egli definiva, usando un tropo diffuso nel discorso politico nazionalista, la «muliebrità» della vita politica italiana. Dichiarando che solo i «tempi di guerra» potevano indurire e virilizzare il carattere, Turiello incoraggiava gli italiani a tenersi pronti a rilanciare una politica coloniale convinta e aggressiva. La questione fu discussa anche nei circoli militari, desiderosi di riscattare l’onore nazionale umiliato ma, almeno all’inizio, cauti sul da farsi. Alcuni invocarono nuovamente una riforma 86 Citato in M. Bacigalupi e P. Fossati, Da plebe a popolo. L’educazione popolare nei libri di scuola dall’Unità d’Italia alla Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1986, p. 81 n. 15. 87 Bonetta, Corpo e nazione cit., p. 168. 88 Cfr. Turiello, Politica contemporanea, 1894, citato in Bonetta, Corpo e nazione cit., p. 169. 89 Bonetta, Corpo e nazione cit., p. 171; P. Fambri, La ginnastica bellica, Roma 1895. Nel 1909 fu varata una riforma intesa a migliorare l’insegnamento della ginnastica in tutte le scuole elementari e secondarie. 90 P. Turiello, La virilità nazionale e le colonie italiane, in C. Curcio (a cura di), Il secolo XIX e altri scritti di politica internazionale e coloniale, Zanichelli, Bologna 1947 (ed. or. 1899).

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della pubblica istruzione: per Emilio Salaris, uno degli ufficiali dell’esercito che partecipava a queste discussioni, si doveva privilegiare l’insegnamento del patriottismo in tutte le scuole, in maniera da rendere i futuri coscritti più consapevoli dei loro doveri. Inoltre Salaris raccomandava con forza la promozione dell’addestramento al tiro a segno: nelle città già esistevano dei poligoni, ma il tiro a segno doveva diventare obbligatorio e disponibile a tutti, anche nelle campagne91. Dopo l’inizio del nuovo secolo, quando segmenti più ampi della società italiana abbracciavano ormai la causa dell’imperialismo, anche i militari si decisero ad abbandonare ogni cautela e spinsero per una politica che vendicasse la sconfitta di Adua e ristabilisse l’orgoglio ferito della nazione92. Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento l’apprensione per la pigrizia degli italiani, molto sentita nei due decenni precedenti, andò affievolendosi, rimpiazzata da un’analoga preoccupazione per il loro estremo e anarchico individualismo. Le considerazioni critiche sull’italianità acquisirono definitivamente un connotato razziale e si intrecciarono con l’idea delle «nazioni latine», costruita come l’opposto, in negativo, di quelle anglosassoni. Questa costruzione negativa era in larga misura una conseguenza dei risultati dei conflitti inter-europei e della corsa alle colonie. I suoi significati contrastavano nettamente con quelli che erano stati applicati all’opposizione categorica tra i popoli latini e quelli germanici nella prima metà dell’Ottocento: allora i latini – organizzati e centralizzati – sembravano avere facilmente successo sui più «primitivi» germanici. Verso la fine del secolo, invece, «latino» divenne, almeno temporaneamente, un termine dispregiativo, l’equivalente di indisciplinato, inefficiente, e, naturalmente, effeminato. Al contrario del «buon» individualismo degli anglo91 Cfr. E. Salaris, Considerazioni su l’educazione nazionale: sguardo a l’ora presente, Ufficio della Rassegna Nazionale, Firenze 1897. Sul tiro a segno cfr. anche G. Pécout, Les sociétés de tir dans l’Italie unifiée de la seconde moitié du XIX siècle, in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Italie et Méditerranée», 102, 1990, pp. 533-676. 92 Sulle reazioni degli ambienti militari alla sconfitta in Etiopia cfr. N. Labanca, Discorsi coloniali in uniforme militare, da Assab via Adua verso Tripoli, in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 18, Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002, pp. 520-545.

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sassoni, l’individualismo eccessivo rendeva i latini meno adatti alla vita moderna e alla competizione imperialistica per le colonie. Tuttavia, per stimolare una rinascita dei latini sarebbe presto apparsa l’immagine dei virili Romani. L’affievolimento dell’immagine dell’italiano indolente fu dovuto probabilmente anche al fatto che verso la fine del secolo milioni di italiani emigravano in altri paesi europei e nelle Americhe in cerca di lavoro. E dal momento che gli italiani che lavoravano duramente cominciavano a essere molto più visibili sulla scena politica e sociale, era più difficile ignorare come vivevano e la loro determinazione a fare meglio. Perfino autori come Angelo Mosso, che erano angustiati per il carattere effeminato degli italiani, cominciarono a rivedere i loro giudizi e – nel nuovo ottimismo del primo periodo giolittiano – a elaborare valutazioni più positive. Riprendendo la tesi di Burckhardt, Mosso esaltava gli italiani del Rinascimento, i «grandi maestri dell’individualismo», e allo stesso tempo attribuiva una insuperata capacità di lavoro e di forza di volontà alle masse degli emigranti93, che con il loro duro lavoro stavano dimostrando la falsità della «leggenda del dolce far niente». Tuttavia, come vedremo nel prossimo capitolo, i dubbi sul carattere degli italiani non sparirono, anzi riemersero in nuovi modi in una nuova generazione di intellettuali che disprezzavano la politica democratica nonché il positivismo della fine dell’Ottocento. 93

A. Mosso, Vita moderna degli italiani, Treves, Milano 1906, p. 93.

IV TRA «PROVE» E «RIVELAZIONI»: VIRTÙ DELLA GUERRA

Il risultato primo della guerra [...] fu di aver rivelato agli stranieri [...] le straordinarie energie della nostra razza. Scipio Sighele, 1911 Il soldato italiano [...] manca di voglia di lavorare, non ha molta precisione, né amore patrio, ha poca disciplina, e debole senso del dovere. Giuseppe Prezzolini, 1917

Nell’ottobre 1910 il settimanale milanese «La Grande Italia», uno degli organi di stampa di una nuova e più aggressiva corrente del nazionalismo italiano, pubblicò un «catechismo del buon patriota», il cui ultimo comandamento recitava: «Non denigrate l’Italia né gli italiani né parlando né scrivendo». L’autore dell’articolo (che si firmava «Italico») commentava: «Il denigrarsi degli italiani a vicenda è purtroppo una brutta abitudine degli italiani, ed ha pure il contraccolpo dannoso nel campo economico. Che l’italiano non parli male dei compatrioti e dell’Italia davanti agli stranieri; che i giornali cessino lo sconcio di pubblicare notizie di fatti briganteschi, illustrandoli con tanti particolari nelle loro pagine a colori [...] e gli stranieri avranno una migliore opinione di noi e del nostro Paese, si convinceranno che esiste una coscienza nazionale italiana, e avran-

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no maggiore fiducia in noi, nel nostro carattere, e nel nostro lavoro, ed il beneficio derivante sarà soltanto e tutto nostro»1. In contrasto con questo invito a porre un freno all’autocritica e alle cattive notizie (una sorta di autocensura nel nome dell’interesse del paese), qualche settimana dopo e da un altro pulpito nazionalista il fondatore e direttore della rivista fiorentina «La Voce», Giuseppe Prezzolini, prendeva una posizione diversa: «Mostrare maggiore dignità personale, maggiore fierezza nei rapporti diplomatici con gli stranieri sta benone; ma: non è meglio lavorare di più per guadagnarci questo diritto alla considerazione e al rispetto? Il volere rispetto degli altri, quando siamo ancora tanto sudici, tanto mancatori di parola, tanto indisciplinati, tanto camorristi, non è una pretesa tanto più dannosa quanto meno risponde alla realtà interna?»2. Prezzolini, uno degli esponenti del nuovo nazionalismo dell’inizio del secolo, si dava da fare per distinguere la sua posizione in un’arena piuttosto affollata3, rispondendo a quella frangia di nazionalisti che domandavano a gran voce una linea di politica estera nuova e più aggressiva. Non era la prima volta che il fondatore della «Voce» esprimeva giudizi simili sui compatrioti. Un paio di anni prima, in un articolo che poteva essere considerato il manifesto della «Voce», aveva dipinto un

1 Italico, La necessità del patriottismo per il progresso d’Italia, in «La Grande Italia», 2 ottobre 1910. In un articolo apparso nel 1901 sulla «Nuova Antologia», la prestigiosa rivista del liberalismo moderato, anche Cesare Lombroso aveva lamentato amaramente ciò che definiva «il costume» italiano «dell’antitalianismo», che, sosteneva, si era spinto troppo oltre. Lombroso era fortemente irritato per il fatto che gli italiani mostravano di preferire le produzioni culturali straniere, e in particolare per gli attacchi alla sua branca scientifica, l’antropologia criminale. Gli attacchi più maligni, notava, venivano dagli italiani, e spiegava che questo fenomeno era un’eredità di secoli di oppressione e dominazione straniera: «Avanzi di schiavi, sentiamo ancora oggi la frega di vendicarci dell’oppressione comune rinvilendoci maggiormente l’uno coll’altro e rinnegando il vero nostro merito specialmente davanti allo straniero che per tanto tempo dovemmo riverire come padrone e come superiore». Cfr. Id., Sull’antitalianismo degli italiani, in «Nuova Antologia» 4a s., 90, 1901, pp. 319-323. 2 G. Prezzolini, Nel VII anniversario della nascita del «Regno», 29 novembre 1903, in «La Voce», 51, 1910 (ora in A. Romanò, a cura di, La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. 3, La Voce (1908-1914), Einaudi, Torino 1960, pp. 257-258. 3 W.L. Adamson, Avant-Garde Florence. From Modernism to Fascism, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London 1993.

IV. Tra «prove» e «rivelazioni»: virtù della guerra

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ritratto deprimente della vita intellettuale italiana impantanata nella «superficialità» e nell’«irrilevanza», e aveva proclamato l’intenzione della rivista di portare uno stile nuovo e «più serio» nel giornalismo: «Crediamo che l’Italia abbia più bisogno di carattere, di apertezza, di serietà, che di intelligenza e di spirito»4. La nuova rivista mirava a stimolare una discussione «seria» sui problemi vitali per lo sviluppo del paese, dalla situazione della pubblica istruzione alla questione regionale e a quella sessuale. Essa rifiutava con veemenza la filosofia del positivismo, abbracciava l’idealismo filosofico e gli elementi antirazionalisti della cultura europea e si proponeva di contribuire a un rinnovamento della cultura italiana e, più in generale, a una «rinascita nazionale»5. Mentre i critici del carattere della seconda metà dell’Ottocento erano generalmente e in vario grado esponenti dell’establishment, quelli del primo Novecento erano assai diversi: senza costituire un partito vero e proprio formavano un gruppo anti-establishment, e molti di loro contribuirono a far emergere un nuovo nazionalismo di destra che alla fine sarebbe sfociato nel fascismo. I più, come Prezzolini, appartenevano a una generazione che era entrata sulla scena pubblica al volgere del secolo, e che era tendenzialmente dominata da un’«inquietudine morale e psicologica» nei confronti delle condizioni della vita italiana6, e determinarono quella che Alberto Asor Rosa ha definito «una insurrezione intellettuale contro la realtà italiana»7. In un’ondata di nuovi periodici, diversi dei quali venivano pubblicati a Firenze, questi giovani della classe media lamentavano che la nuova Italia non era stata capace di creare nulla di grande e che si era limitata ad accettare una posizione marginale tra le altre nazioni europee. Inoltre avevano un atteggiamento estremamente polemico nei confronti della classe politica al potere e criticavano incessantemente il primo ministro, il liberale Giovanni Giolitti. Nel discorso di questo nuovo nazionalismo, in tutte le sue varie manifestazioni, ricorrevano spesso i temi che negli an4 G. Prezzolini, La nostra promessa, in «La Voce», 27 dicembre 1908 (ora in G. Prezzolini, La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, con la collaborazione di E. Gentile e V. Scheiwiller, Rusconi, Milano 1974, p. 239). 5 Cfr. anche A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. 4, Dall’unità a oggi, t. 2, Einaudi, Torino 1975, p. 1264. 6 Romanò (a cura di), La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste cit., p. 14. 7 Asor Rosa, La cultura cit., p. 1238.

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ni Ottanta del secolo precedente erano stati sviluppati da Pasquale Turiello e altri, e cioè la critica al governo parlamentare, al liberalismo e al socialismo, l’esaltazione della guerra come esperienza educativa, e il sostegno al colonialismo8. Data la rilevanza del suo ruolo destabilizzante nei confronti dei fondamenti intellettuali e politici dello Stato liberale italiano, l’ideologia di questa intellighenzia è stata studiata a fondo9. Minore attenzione invece è stata riservata al fatto che le critiche dei nuovi nazionalisti non erano dirette solo contro la classe politica e la cultura della «vecchia Italia», ma anche contro il carattere del popolo italiano nel suo complesso, riproponendo quindi, in nuovi modi, un vecchio tema del discorso nazional-patriottico italiano. Malgrado l’approccio «empirico» al carattere nazionale non sparisse completamente (ne è testimone la sua presenza in formazioni discorsive quali la psicologia collettiva), nei primi anni del Novecento il carattere degli italiani non era più l’oggetto dello studio «socio-scientifico» dei positivisti di fine secolo, ma divenne soprattutto un luogo comune giornalistico e un topos ricorrente del discorso politico10. Prima la guerra di Libia e poi la Grande Guerra dettero agli intellettuali nazionalisti l’occasione di articolare questo tema all’infinito. L’argomento del carattere nazionale era sempre presente nel giornalismo politico di Giovanni Gentile, l’autorevole filosofo idealista che collegava strettamente il carattere all’idea della volontà: l’esistenza della nazione era dimostrata dalla presenza di una forte volontà nazionale, che si mostrava in particolare nella determinazione con la quale un popolo combatteva in guerra. I tropi ricorrenti di questo discorso del carattere erano le nozioni di «prova» e di «rivelazione», concetti che costituivano una

8 Piero Bevilacqua nota la «straordinaria persistenza» di questi temi nella cultura degli intellettuali italiani, anche se non necessariamente attraverso un collegamento diretto con Turiello (cfr. la sua introduzione in P. Turiello, Governo e governati in Italia, a cura di P. Bevilacqua Einaudi, Torino 1980, p. XXXIII). 9 Per un’analisi recente cfr. Adamson, Avant-Garde Florence cit. Cfr. anche R. Wohl, The Generation of 1914, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1979, ed E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1999 (prima ed. 1982). 10 Cfr. anche M. Gervasoni, L’intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, La Nuova Italia, Firenze 2000, p. 377.

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nuova allegoria della nazione, che veniva ora assimilata a un allievo i cui risultati dovevano essere attentamente controllati e valutati da esaminatori severi, e che andava sollecitato ad agire da un nuovo tipo di esortazione, o sarebbe meglio dire aggressione, verbale. Era una critica che investiva più violentemente l’imperfetto sé nazionale italiano, e che ai suoi vecchi vizi contrapponeva virtù vecchie e nuove, declinate in funzione di disegni che poco avevano a che vedere con una società liberale o con la qualità della vita civile, ma che erano focalizzati al raggiungimento di una posizione di maggiore potenza internazionale e di una modernità intesa come dominio dell’organizzazione e della tecnica.

La «nera verità» e la «prova» della guerra All’inizio del Novecento il nazionalismo italiano era un’arena affollata e in espansione, nella quale giornalisti e politici spesso collaboravano scambiandosi risorse e idee, e allo stesso tempo cercavano di distinguersi l’uno dall’altro. Il primo organo di stampa del nuovo nazionalismo imperialista fu il settimanale «Il Regno» pubblicato a Firenze da Enrico Corradini. I principali obiettivi su cui si concentravano le polemiche della rivista erano la dichiarata inettitudine e la debolezza della borghesia italiana, una classe in declino che aveva assoluta necessità di essere rinvigorita, se si voleva riaffermare il ruolo dell’Italia nel mondo attraverso una politica coloniale aggressiva e salvare il paese dalla minaccia crescente del socialismo. Nel primo numero la rivista rese omaggio a Pasquale Turiello, colui che aveva il merito di avere denunciato la ristrettezza delle idee delle élites al potere anticipando la consapevolezza dell’importanza del colonialismo in un mondo in cui «prevale[va] un fiero spirito di conquista»11. Turiello aveva voluto rendere gli italiani uomini «pratici, positivi, moderni», ma il suo messaggio non era stato ascoltato dagli «omuncoli infausti», o, come scriveva un altro collaboratore della rivista, Ademiro Campodonico, dagli «eunuchi»12 che avevano nelle mani il destino della nazione. P.L. Occhini, Né fanciulli né semidei, in «Il Regno», 1, 29 novembre 1903. A. Campodonico, I risorgenti dell’oggi e i risorti di ieri, in «Il Regno», 6 dicembre 1903. 11 12

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Prima di acquistare notorietà come fondatore e direttore della «Voce», Prezzolini collaborò al periodico di Corradini con diversi articoli13. Con i suoi attacchi contro la corruzione e la debolezza del sistema parlamentare, Prezzolini fu il primo a mettere in campo in questa rivista la vecchia retorica delle due Italie, riarticolandola non nel senso di una contrapposizione tra Settentrione e Meridione, ma tra azione/progresso e inazione/stagnazione: «C’è un’Italia di fatti e un’Italia di parole; una d’azione e l’altra di dormiveglia e di chiacchiere; una dell’officina e l’altra dei salotti; una che crea, l’altra che assorbe; una che cammina, l’altra che ingombra»14. Naturalmente, era implicito che la seconda dovesse lasciare il passo alla prima. La rivista intendeva formare e consigliare una leadership italiana più aggressiva e più «mascolina», e il suo programma veniva trasmesso già dalla copertina: sulla testata c’era il disegno di un’aquila emergente dalla criniera di un leone dallo sguardo feroce. Quando Prezzolini lasciò «Il Regno» per fondare «La Voce», il bersaglio della sua polemica si allargò, come ha notato Giovanni Aliberti, all’Italia e a tutto il popolo italiano15: «La mancanza di disciplina; uno scarso senso del dovere; la negligenza, l’indifferenza alla responsabilità; la mancanza di iniziativa; l’assuefazione a vivere in mezzo al sudiciume; l’abituarsi a una vita le cui parti non sono ben integrate; tutto questo è estremamente comune. Vi sono eccezioni, ma per ora, sfortunatamente, se vogliamo raggiungere il livello medio che ci darà il diritto di definirci una nazione veramente civile dobbiamo indossare gli stivali delle sette leghe»16. È interessante come in questa elencazione Prezzolini mescoli tratti appartenenti alla sfera etica e morale (come la mancanza di senso della responsabilità) con quelle che definiremmo più propriamente «maniere» e abitudini (come gli atteggiamenti verso la sporcizia). È vero che in alcune tradizioni del discorso 13 Per una raccolta di alcuni dei saggi pubblicati in questa rivista cfr. G. Papini e G. Prezzolini, Vecchio e nuovo nazionalismo, Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914. 14 G. Prezzolini, Le due Italie, in «Il Regno», 26, 22 maggio 1904. Su questa retorica, che più tardi sarà fatta propria dal fascismo, cfr. anche Adamson, Avant-Garde Florence cit., pp. 86-88. 15 Cfr. G. Aliberti, La resa di Cavour. Il carattere nazionale italiano tra mito e cronaca (1820-1976), Le Monnier, Firenze 2000, p. 91. 16 G. Prezzolini, Ventiquattr’ore in Italia, in «La Voce», 1 settembre 1910, ora in Prezzolini, La Voce 1908-1913 cit., p. 327.

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morale (in Hume, ad esempio) le maniere costituiscono una sorta di moralità di categoria inferiore, ma è improbabile che Prezzolini avesse in mente queste tradizioni. In realtà egli esprimeva una certa avversione borghese per atteggiamenti e modi di vivere che appartenevano soprattutto alla società contadina, dove la vita aveva un ritmo più lento e le abitudini delle classi popolari non erano state ancora «riformate» in modo da rispecchiare gli standard delle classi superiori. La questione della mancanza di disciplina, come abbiamo visto, era un chiodo fisso del pensiero nazionalista almeno dai tempi di Turiello e della sua critica nei confronti della «scioltezza» degli italiani. Ma, oltre a ciò, c’erano anche la preoccupazione di marca conservatrice per la crescita del movimento dei lavoratori, sia in termini di forza che di militanza, e il desiderio di una modernità intesa come regno dell’ordine, di forme più evolute di organizzazione sociale e di disciplina17. Anche altri collaboratori della «Voce» riservavano parole dure e severe ai concittadini. Analizzando gli atteggiamenti dei giovani, Luigi Ambrosini parlava degli italiani come di un popolo composto storicamente da «servi e cortigiani»18. Dal canto suo, Giovanni Papini metteva a confronto la figura morale di Giosue Carducci («apostolo di virilità», «di fermo carattere», «con un sentimento acutissimo della dignità personale e nazionale») con il «popolo infrollito, cascante, specialista in mezze misure e inchini» in mezzo al quale il poeta si era venuto a trovare19. Comunque, le critiche più insistenti e sistematiche nei confronti degli italiani e dei loro vizi erano quelle del direttore. Infatti, la linea politica e intellettuale che Prezzolini e i suoi collaboratori imprimevano alla rivista era dettata precisamente dalla volontà di contrastare uno di questi vizi: la predilezione tutta italiana per un lin-

17 Per una chiara esposizione di questo concetto di modernità cfr. G. Prezzolini, Firenze moderna, in Id., Uomini 22 e città 3, Vallecchi, Firenze 1920, pp. 305-313. Commentando la trasformazione di Firenze in una città moderna, l’autore dichiara che la «poesia moderna» consiste di «treni che arrivano, sì, quasi in orario; l’ingranaggio degli ordini e delle obbedienze, il loro riprodursi, rispecchiarsi, e trovare ombra nei libri, nelle cifre e nei giornali», pp. 311-312. 18 Cfr. L.A. Cepperello [L. Ambrosini], I giovani e il coraggio, in «La Voce», 13 maggio 1909, ora in Prezzolini, La Voce 1908-1913 cit., p. 430. 19 G. Papini, Ritratto del Carducci, in «La Voce», 18 marzo 1909, ora in Prezzolini, La Voce 1908-1913 cit., p. 542.

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guaggio pomposo e «retorico». Per combatterla, proclamavano l’uso di un linguaggio nuovo, antiretorico, più asciutto e diretto. In altri termini, una retorica dell’antiretorica20. Per contrastare l’ipocrisia di un «popolo servile», gli intellettuali della «Voce» facevano appello alla «serietà» e alla «sincerità» e promettevano di dire agli italiani la «nera verità» e di non indulgere a «rosee menzogne»21 – una promessa più che ironica, considerando l’esito finale (nero, questo, in senso letterale) della loro insistenza sul «dire la verità» e sulla moralità. Secondo Emilio Gentile, «La Voce» si impegnava a realizzare la missione del rinnovamento culturale già indicato da Francesco De Sanctis «secondo criteri, metodi e finalità che differivano nettamente da quelli del nazionalismo imperialista [cioè Enrico Corradini e i suoi seguaci]»22. Tuttavia diversi esponenti di questo cosiddetto «nazionalismo umanista» e anche molti liberali approvavano in linea di massima la quintessenza dell’impresa imperialista, la guerra di Libia, perché era funzionale alla «rigenerazione» del paese. Il liberale Giovanni Amendola vedeva in questa campagna «l’Italia del domani, un’Italia che farebbe dimenticare per sempre quelle miserie del nostro passato»23. Per Amendola, la guerra stava rivelando qualcosa di nuovo sul carattere degli italiani: «Il fatto della organizzazione disciplinata, il sentimento del dovere ed il dovere dell’iniziativa individuale: ecco altrettante linee del carattere italiano, quale ora si rivela almeno nel periodo della guerra, e che noi abbiamo voluto, costantemente voluto nella piccola sfera della nostra azione»24. 20 Mussolini riproporrà la stessa retorica, che aveva probabilmente recepito dagli articoli della «Voce». Per un’analisi del meccanismo e del funzionamento di questa retorica in Mussolini cfr. B. Spackman, Fascist Virilities. Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996, cap. 5. 21 G. Prezzolini, Italia 1912. Dieci anni di vita intellettuale (1903-1912), a cura di C.M. Simonetti, Vallecchi, Firenze 1984 (testo scritto orig. nel 1912). 22 E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, p. 120. Tuttavia, più avanti nel testo (p. 124) Gentile ammette che i «vociani» e Corradini avevano alcune convinzioni in comune. 23 G. Amendola, La guerra, in «La Voce», 52, 1911 ora in Romanò, a cura di, La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste cit., pp. 399-406. 24 Ibidem.

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Nello spettro politico (con l’esclusione dei socialisti) la convergenza era sbalorditiva. Non solo scrittori ben noti come Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio esaltavano in prosa e in versi enfatici la redenzione e la trasformazione definitiva degli italiani, ma anche un famoso luminare della scienza come Augusto Murri, rinomato patologo, lodava il coraggio e il senso del dovere dei soldati disposti a fare il sacrificio più nobile in nome della patria. Troppo a lungo gli italiani erano stati danneggiati dall’immagine di un’Italia «bella, molle, carnevalesca». Ora era emersa un’Italia nuova, «virile», che non doveva più confidare solo sulle glorie del passato25. Un altro Murri, Romolo, uno dei fondatori del movimento democratico cattolico, esaltava nella guerra la «rivelazione della forza e della sanità della nazione», in cui le classi popolari (aveva in mente i soldati comuni) avevano qualcosa da insegnare agli scettici e ai pedanti dell’alto ceto26. Secondo lo storico Gioacchino Volpe, la guerra di Libia era l’esame di riparazione che la nazione italiana «doveva passare ad ogni costo» per acquistare maggiore fiducia in se stessa e dare il via a una politica estera più audace27. Malgrado i suoi scrupoli sulla scelta di invadere Tripolitania e Cirenaica, sia per la povertà di quelle regioni che per lo scarso livello di preparazione della nazione, anche Prezzolini salutava la guerra come la prova della nascita di una «nuova Italia» che rimpiazzava l’immagine di quella vecchia, predominante nella mente degli stranieri che viaggiavano nella penisola o incontravano il flusso crescente di emigranti italiani, «l’Italia dei briganti e del carnevale [...], dei suonatori di organetti e dei figurinai [...] di Adua e della Banca Romana»28. Prezzolini ripeteva gli stessi concetti sulle pagine della 25 A. Murri, Per la virile Italia, in E. Scaglione (a cura di), Primavera italica. Antologia delle più belle pagine sulla guerra italo-turca, Bideri, Napoli 1913, p. 213 (ed. or. nel «Giornale d’Italia»). Durante la guerra lo stesso editore pubblicò una seconda edizione leggermente modificata nel testo e nel titolo: E. Scaglione e B. Chiara (a cura di), L’Italia vittoriosa: L’Impresa libica. Antologia delle più belle pagine, Bideri, Napoli 1917. 26 R. Murri, Concordia del popolo, in Scaglione (a cura di), Primavera italica cit., pp. 410-411 (ed. or. nel «Giornale d’Italia»). 27 Cit. in G. Belardelli, Il mito della «nuova Italia». Gioacchino Volpe tra guerra e fascismo, Edizioni Lavoro, Roma 1988. 28 Prezzolini, Italia 1912 cit., p. 51. Su questo argomento cfr. anche Adamson, Avant-Garde Florence cit., p. 183. Anche P. O’Brien osserva che nella sua

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«Voce»: «Per l’estero serviva qualche cosa di grosso, di brutale, di materiale, di risonante, che facesse sapere che l’Italia dei ciceroni e dei pulcinella, delle gondole e del vinetto non è una realtà se non per gli stranieri che ve la cercano, e che c’è un’altra Italia seria, solida, lavoratrice, che risparmia e che può spendere»29. La guerra come «redenzione»: convergenze nazionali Come il riferimento ad Adua rendeva evidente, la conquista di Tripoli era causa di soddisfazione non soltanto perché proiettava l’immagine di un’Italia più moderna, ma anche perché si supponeva avesse cancellato l’umiliazione della sconfitta subita in Etiopia nel 1896 e ristabilito il prestigio nazionale. Ma soprattutto la guerra di Libia aveva contribuito a lavare l’Italia dal «peccato originale» che aveva macchiato il nuovo Stato fin dall’inizio, ovvero la debolezza dell’apparato militare e la mancanza di sostegno popolare30. I «cari soldatini» italiani, come li chiamava Matilde Serao nella sua prosa sentimentale, venivano ora salutati come «lo splendido frutto della magnifica razza italiana»31. I discorsi che esaltavano la vittoria in terra di Libia erano realmente colmi dell’autocompiacimento che viene dalla sensazione di essere stati vendicati. C’era stata la rivincita, e gli stranieri che avevano deriso l’Italia dopo la disfatta di Adua erano stati messi a tacere. Il nazionalista Scipio Sighele, il famoso teorico della psicologia collettiva, dopo la conquista di Tripoli ne approfittava per attaccare gli oppositori: «Non credevano gli stranieri che noi sapessimo [sic!] compiere quello che abbiamo compiuto; e forse non lo credevamo neppure noi, impenitenti autocritici e autodenigratori. [...] Il risultato primo della guerra, il suo risultato moralmente più grande, fu di aver rivelato agli stranieri che non se l’aspettavano, e a molti di noi, che non osavano immaginarle, le straordinarie energie della nostra razza, la micritica dell’impresa libica Prezzolini non fa alcuna considerazione antiimperialista: cfr. Mussolini in the First World War: The Journalist, the Soldier, the Fascist, Berg, New York-Oxford 2005, p. 48. 29 G. Prezzolini, Dopo un anno, in «La Voce», 3 ottobre 1912. 30 Belardelli, Il mito della «nuova Italia» cit., p. 22. 31 M. Serao, Un invio, in Scaglione (a cura di), Primavera italica cit., p. 736 (ed. or. nel «Giorno», 25 dicembre 1911).

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rabile preparazione di tutto l’organismo della nazione [...]. Dove si sono nascosti i timidi, i predicatori di rassegnazione e di viltà che consigliavano alla nostra nazione di tenere gli occhi bassi entro i confini senza osare mai di alzarli oltre l’alpe e oltre il mare?»32. La morte di migliaia di arabi e di turchi innocenti – che sarebbero diventati decine di migliaia alla fine della sanguinosa campagna di cosiddetta «pacificazione» degli anni Venti – era naturalmente una faccenda di nessuna importanza. Tutti erano certi che in ogni caso le popolazioni locali avrebbero tratto beneficio dalla civiltà che gli italiani avrebbero portato sulla costa settentrionale dell’Africa. Nel difendere i benefici di una sanguinosa guerra coloniale questi «nazionalisti umanisti» non si ponevano poi molti problemi a convergere con le posizioni di quegli stessi nazionalisti imperialisti che spesso erano l’obiettivo delle loro polemiche, e ciò in parte era dovuto al fatto che ne condividevano il mito della rigenerazione dell’Italia attraverso la guerra33. In realtà, ciò che separava i nazionalisti «umanisti» da quelli imperialisti non era tanto una differente visione degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli, quanto una questione di estetica e di stile retorico34. Né gli uni né gli altri avevano scrupoli a condurre una guerra che avrebbe portato l’Italia tra le nazioni moderne e che le avrebbe assicurato lo status di grande potenza. Oltre a essere un «metodo di redenzione nazionale», la guerra aveva il vantaggio, come Enrico Corradini precisò nel secondo congresso dell’Associazione nazionalista italiana, di ridirigere la solidarietà che i lavoratori potevano sentire per altri lavoratori in altre parti del mondo verso i loro «padroni» nel proprio paese. Prepararsi alla guerra era un «metodo di disciplina nazionale» assolutamente necessario in un paese come l’Italia, dove il movimento operaio era estremamente vitale e combattivo35. 32 S. Sighele, Quello che abbiamo compiuto, in Scaglione, Primavera italica cit., pp. 572-573. 33 Cfr. l’introduzione di D. Frigessi, in D. Frigessi (a cura di), La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. 1, «Leonardo», «Hermes», «Il Regno», Einaudi, Torino 1960, pp. 57-74. 34 Su questo punto cfr. anche Romanò (a cura di), La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. 3, cit., p. 33. 35 E. Corradini, Classi proletarie: socialismo; Nazioni proletarie: nazionalismo, in F. Perfetti (a cura di), Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, Cappelli, Bologna 1977, p. 114 (ed. or. in G. Castellini, a cura di, Il nazionalismo italiano, Atti del Congresso di Firenze, 1911, pp. 22-35).

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La riproposizione ossessiva del desiderio di riabilitare l’Italia agli occhi dell’Europa e di riportarla alla sua posizione legittima di grande potenza e di creatrice di una cultura superiore era sintomatica della continua preoccupazione per la marginalità dell’Italia nel contesto europeo: gli altri paesi mostravano scarso interesse per le produzioni culturali italiane, e ciò era motivo di delusione e forte disappunto. Ma le cose stavano cambiando. La rinascita dell’idealismo, dichiarava Prezzolini nel 1912, aveva riportato l’Italia sulla mappa della cultura del continente. Ora gli europei erano attenti al suo scenario culturale, e gli italiani potevano smettere di fare i loro pellegrinaggi a Parigi per scoprire le novità, o, se già vi si trovavano, avevano finalmente qualcosa da proporre36. Tuttavia l’emigrazione di massa verso l’Europa occidentale e le Americhe e l’importanza del turismo nell’economia nazionale infastidivano i nazionalisti, che le percepivano come segni della povertà e della debolezza del paese, ed è significativo che il programma politico futurista, pubblicato su «Lacerba» nell’ottobre del 1913, elencasse tra i suoi obiettivi l’«abolizione dell’industria del forestiero, umiliante e aleatoria»37. Ma né la guerra di Libia né il nuovo «rinnovamento culturale» che si stava verificando in Italia bastavano a convincere i nazionalisti che la rigenerazione del paese era stata completata: nel 1914 si dichiararono tutti d’accordo – insieme a un certo numero di democratici e anche di cattolici (per esempio il futuro fondatore del Partito popolare, Luigi Sturzo)38 – a chiedere l’intervento dell’Italia nel conflitto europeo. Le ragioni per cui i vari gruppi volevano che l’Italia entrasse in guerra erano differenti, ma tutti condividevano la retorica della «rigenerazione nazionale». Per la verità, in molti altri paesi europei numerosi intellettuali e politici di diverso orientamento chiedevano a gran voce l’entrata in guerra con una simile retorica della «redenzione», anche se naturalmente le motivazioni e le ragioni effettive che ispiravano questa retorica erano diverse da paese a paese. In Italia l’appello a reG. Prezzolini, Italia 1912 cit. Programma politico futurista, in «Lacerba», 20, 15 ottobre 1913. Il programma era firmato «Per il gruppo dirigente del Movimento Futurista: Marinetti – Boccioni – Carrà – Russolo». 38 Cfr. Gentile, La grande Italia cit., pp. 133-134. 36 37

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dimere le sconfitte e le umiliazioni del passato era particolarmente forte. Sulle pagine della «Voce», Prezzolini dichiarava che la guerra sarebbe stata la «prova», anzi la «prova suprema», che avrebbe dimostrato se il popolo italiano era davvero una «nazione» e se aveva riscattato la vergogna delle sconfitte che macchiavano la sua storia passata39. Dal momento che la guerra era un «atto per eccellenza di organizzazione», il fatto stesso di prendervi parte avrebbe dimostrato il grado di modernità del paese40. Oltretutto, mentre la campagna di Libia aveva cancellato l’umiliazione della disfatta nella guerra coloniale del 1896, il nuovo conflitto avrebbe lavato le macchie delle sconfitte di Lissa e di Custoza nella guerra del 1866. Sulle pagine dell’«Idea Nazionale», l’organo dell’Associazione nazionalista italiana, Francesco Coppola sosteneva che la guerra avrebbe curato l’«intera congenita malattia morale della Terza Italia»41. Quando nel 1914 il governo italiano preferì inizialmente una neutralità non eroica, i nazionalisti di tutte le correnti furono esasperati. Dal momento che sia in parlamento che nel paese la maggioranza era contraria all’entrata in guerra, avevano moltissimi avversari con cui entrare in polemica e da attaccare continuamente e con virulenza. Un antico repertorio si prestava a nuovi usi. Francesco Coppola criticava aspramente la scelta della neutralità e la bollava perché riproponeva la vecchia abitudine italiana di alimentare un processo di decadenza morale che era cominciato già con un «Risorgimento troppo facile», quando l’Italia aveva ottenuto l’indipendenza con l’aiuto degli eserciti stranieri. Sottolineando le ragioni morali «specificamente italiane» che imponevano l’entrata in guerra, Coppola sosteneva la necessità di sconfiggere la «più deteriore forma di individualismo», la paura di perdere la vita che «dalla fine del Quattrocento aveva portato gli italiani ad affidare il mestiere delle armi alle truppe mercenarie e aveva reso imbelle l’Italia, che perciò meritava di essere una schia39 G. Prezzolini, Facciamo la guerra, in Romanò (a cura di), La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. 3, cit., p. 706 (ed. or. in «La Voce», 6, 16, 1914). 40 G. Prezzolini, Il paese è responsabile, in «Lacerba», 1 ottobre 1914 (riedito da Mazzotta, Milano 1980). 41 F. Coppola, Le ragioni morali della nostra guerra, in «L’Idea Nazionale», 25 marzo 1915 (ora in Perfetti, Il nazionalismo italiano cit., p. 257).

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va»42. Sulle pagine di «Lacerba», la rivista del futurismo fiorentino dai toni particolarmente striduli e violenti, Prezzolini definiva «vigliacco» il paese: gli italiani erano vigliacchi e «interessosi», cioè dominati da piccoli interessi materiali e non dal senso di un dovere più alto. Sempre sensibile all’opinione pubblica straniera e all’idea che l’Italia fosse in una posizione di subalternità, Prezzolini accusava coloro che erano contrari alla guerra di aspettarsi il completamento dell’unificazione della patria dalla buona volontà dei vincitori, e di essere «gente educata dai forestieri, gente che dovrebbe fare la guida autorizzata o il lustrascarpe»43. Ardengo Soffici se la prendeva con gli italiani che preferivano una vita tranquilla, segno di una «straordinaria abbiezione» [sic] che nessun insulto poteva condannare a sufficienza44. Molti interventisti difendevano la loro posizione asserendo che la guerra era moralmente superiore alla meschinità morale dei neutralisti. Il Leitmotiv del filosofo Giovanni Gentile, quando decise di intensificare il suo coinvolgimento politico impegnandosi nella lotta a favore dell’intervento, era appunto la superiore moralità di coloro che subordinavano i propri interessi personali a quelli della patria. Paragonando le nazioni a individui unificati dalla loro comune volontà, Gentile sosteneva che senza una volontà non c’era alcuna nazione, e che una volontà poteva esistere soltanto se la nazione aveva «un’anima sola», cioè se «si raccoglieva intorno a un solo interesse, a un solo ideale esclusivo, assoggettandosi totalmente tutta a una legge». È inutile dire che non veniva lasciato spazio a nessuna opposizione legittima: Gentile faceva appello alla disciplina nazionale e chiedeva che si ponesse fine alle discussioni in nome dell’interesse della nazione e del dovere patriottico45. Nel momento in cui la partecipazione alla guerra diventava la misura suprema di tutti i valori, individuali e nazionali, i concetti di guerra, di disciplina e di carattere venivano legati tra loro a un livello che non aveva precedenti. 42 F. Coppola, Una «grande ventura», in «L’Idea Nazionale», 26 gennaio 1915 (ristampato in La crisi italiana cit.). 43 Prezzolini, Il paese è responsabile cit. 44 A. Soffici, Per la guerra, in «Lacerba», 1 ottobre 1914, p. 275. 45 G. Gentile, Disciplina nazionale, nel «Giornale d’Italia», 1 gennaio 1915 (ristampato in Id., Guerra e fede, Ricciardi, Napoli 1919 e Le Lettere, Firenze 1989).

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«Furbi» contro «fessi»: immagini contrastanti degli italiani in guerra Gli appelli alla disciplina, all’ordine e al sacrificio riempivano le pagine dei giornali e delle riviste anche dopo il maggio 1915, quando i detestati statisti dell’Italia liberale decisero finalmente di entrare in guerra per ragioni piuttosto «convenzionali» di politica di potenza, e contro i sentimenti della maggioranza del paese46. Chiaramente, tra le élites italiane tirava una certa aria di nervosismo, non si sapeva che cosa aspettarsi da quelle masse di italiani mandati a combattere la nuova guerra. Che cosa avrebbe rivelato sugli italiani questa nuova «prova»? In realtà nessuno lo sapeva, dal momento che si trattava di una guerra diversa, che non sembrava sarebbe finita presto e che richiedeva ai soldati di adattarsi a condizioni terribili, a passare la maggior parte del tempo in buche scavate nel terreno, continuamente esposti ai bombardamenti nemici, e a essere mandati all’attacco in operazioni che raramente portavano a risultati significativi o visibili. Con la guerra, gli intellettuali interventisti furono ancora più coinvolti politicamente, e misero la loro penna completamente al servizio dello sforzo bellico. La guerra inoltre offriva a intellettuali e studiosi l’occasione di sviluppare nuove immagini del carattere degli italiani, alcune delle quali erano destinate a durare. Gli psicologi sociali trovarono nella guerra una nuova occasione per fare le loro osservazioni sul comportamento collettivo. Un anno dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il direttore della «Rivista di psicologia», Giulio Cesare Ferrari, sembrò essere sollevato dallo spettacolo di un popolo che malgrado fosse, a suo giudizio, «alien[o] per sentimento e per consuetudine da ogni idea bellicosa» andava alla guerra in maniera disciplinata: «Nessuno riuscirà forse mai a sapere come sia avvenuta questa elaborazione profonda del subconscio nazionale, questa modificazione delle caratteristiche che ci riconoscevamo»47. Il riferimento di Ferrari 46 Cfr. per esempio l’editoriale dal titolo Dovere nazionale, in «Nuova Antologia», 1 giugno 1915, che auspica prevalga un «senso di disciplina», «disciplina del silenzio, del sacrificio, del lavoro e della cooperazione e di tutte le grandi imprese comuni». 47 G.C. Ferrari, Il morale del soldato italiano in campo, in «Rivista di psicologia», 11, 1916, p. 188.

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al «subconscio nazionale» testimoniava il crescente interesse per gli aspetti della psiche umana che sfuggivano alla razionalità, e rispecchiava inoltre l’idea condivisa da molti che la «nazione» fosse un’entità psicologica, un convincimento della psicologia collettiva che aveva cominciato a imporsi alla fine dell’Ottocento48. Gli psicologi di questa scuola dichiaravano che per governare un paese era fondamentale la conoscenza dei tratti psicologici della sua popolazione, e naturalmente questa conoscenza sarebbe diventata particolarmente utile con la guerra49. Ferrari manifestò ancora più sorpresa e sollievo per il fatto che questo popolo «latino» si era adattato in fretta alla vita di trincea. Osservando come molti soldati accettavano la guerra e vi si adeguavano, alcuni esponenti del clero cattolico che si erano trasformati in patriottici psicologi di guerra si chiedevano quali fossero «i motivi subconsci o anche inconsci di cui si nutri[va] il valore innegabile» degli «umili» soldati nonostante il «piccolo cervello del contadino Calabrese, o Siculo, Sardo o magari Piemontese» non potesse afferrare il «complesso concetto» della patria, e tessevano le lodi dei soldati italiani: ad esempio, padre Giovanni Semeria, cappellano del Comando Supremo, nella sua Intoduzione allo studio di padre Agostino Gemelli sulla psicologia dei soldati, sosteneva che il popolo italiano aveva «il senso della terra, della famiglia, del dovere» e che combatteva «per difendere la sua terra [...], per salvare la sua famiglia [...], per fare il proprio dovere»50. Già nelle loro polemiche antiliberali successive all’unificazione, i commentatori cattolici tendevano a rimarcare, con atteggiamento paterno e paternalistico, l’idea che gli italiani fossero fondamentalmente brava gente, una popolazione essenzialmente «contadina», molto vicina alla Chiesa e attaccata alla fami-

48 Sul ruolo della psicologia nelle discussioni sul carattere al volgere del Novecento cfr. anche G. Sluga, The Nation, Psychology, and International Politics, 1870-1919, Palgrave Mcmillan, Basingstoke-New York 2006, cap. 3. 49 Cfr. per esempio l’opera di un seguace italiano di Le Bon, il pedagogista A. Straticò, La psicologia collettiva, Sandron, Milano-Palermo-Napoli s.d. [1905]; e P. Orano, Psicologia sociale, Laterza, Bari 1902. 50 A. Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1917, pp. VIII-IX. Cfr. anche Id., I canti del nostro soldato: documenti per la psicologia militare, Vita e Pensiero, Milano 1917. Gemelli, un francescano, fu il fondatore dell’Università Cattolica di Milano (1921).

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glia – topos del discorso cattolico destinati ad aver notevole fortuna dopo la seconda guerra mondiale51. In maniera simile, le nuove pubblicazioni edite dall’ufficio dell’esercito che curava la propaganda (creato per sostenere il morale delle truppe dopo la rotta di Caporetto) tendevano ad assimilare i soldati italiani a contadini docili – probabilmente, come ha notato Mario Isnenghi, nel tentativo di esorcizzare l’immagine minacciosa della classe operaia cittadina, irrequieta e ribelle52. Ma c’erano altri che avevano qualche dubbio, almeno in privato. Dopo aver difeso con tanto ardore la causa della guerra, Prezzolini non potè evitare di arruolarsi come volontario, anche se con qualche riluttanza53. Se possiamo prestare fede al suo diario54, egli sentiva di dover andare in guerra per poter continuare la sua attività di opinionista: «[S]e non vado debbo tenere la bocca chiusa, lasciare ogni mia posizione d’avanguardia, di organizzatore civile, di propagandista morale, di Prezzolini insomma», 51 Cfr. per esempio G. Sarfatti, I sentimenti familiari nel popolo italiano, in «Rassegna nazionale», 32, 1910, pp. 349-365 (si trattava di una rivista cattolica di orientamento nazional-patriottico); e il gesuita A. Pavissich, Il codice della vita, 2 voll., Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1911, una raccolta di articoli pubblicati in precedenza sulla «Civiltà Cattolica» per difendere l’insegnamento del catechismo nelle scuole pubbliche. Si veda in particolare il massimo panegirico del «popolano italiano educato all’antica» che Pavissich fa alle pp. 178-179. Oliver Logan ha sottolineato come vi sia una costante polemica antisecolare nelle definizioni di marca cattolica dell’identità italiana: cfr O. Logan, Italian Identity: Catholic Responses to Secularist Definitions, 1910-1948, in «Modern Italy», 1, 1997, pp. 52-71. 52 M. Isnenghi, Giornali di trincea, Einaudi, Torino 1977, cap. 7. 53 Sua moglie era appena rimasta incinta del secondo figlio, e lui era preoccupato perché voleva assicurare alla sua famiglia uno standard di vita borghese: cfr. G. Prezzolini, Diario 1900-1941, Rusconi, Milano 1978, pp. 149-150. 54 L’autore dà questo titolo a una selezione di scritti e di note personali: cfr. Prezzolini, Diario cit., p. 8. Le pagine che l’autore definisce «l’originale» si trovano nella Biblioteca Nazionale di Firenze. In realtà, questo «originale» è già una versione pesantemente rivista e corretta del vero originale: le pagine sono scritte a macchina e incollate (o cucite con punti metallici) su sottili fogli di carta e inserite in cartelline nere. Dal momento che nella copia della Biblioteca Nazionale c’è ben poco di autentico, e che tra questo originale e la versione pubblicata vi sono differenze minime (almeno sulla base di una campionatura), le citazioni sono tratte da quest’ultima. Sulla «costruzione» del diario cfr. E. Ghidetti, Il «diario» (1900-1982) di G. Prezzolini, in C. Ceccuti (a cura di), Prezzolini e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale di Studi, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 253-270.

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osservava nel gennaio 1915, e qualche tempo dopo diceva a se stesso: «Le nostre idee acquisteranno un altro valore se illuminate dalla luce dell’azione» (6 maggio 1915). Al fronte, dove arrivò nel settembre dello stesso anno, poté osservare di persona coloro che, prima dell’entrata in guerra, aveva accusato di vigliaccheria. Le pagine del diario degli anni di guerra sono piene di osservazioni e di commenti sui soldati italiani: Prezzolini prendeva nota del loro desiderio di tornarsene subito a casa (28 settembre 1915), della loro pigrizia (30 ottobre 1915), del loro odio per la guerra e per i volontari (4 novembre 1915), della loro ignoranza (8 novembre 1915) e concludeva che «l’italiano non è un soldato» (19 novembre 1915). «In treno: riflessioni sul popolo italiano: la sua qualità fondamentale è sopportare, soffrire, patire. Virtù da schiavi» (6 dicembre 1915). «Il popolo italiano ha una storia che si compone di estrema credulità e di estrema diffidenza verso i suoi dirigenti» (21 dicembre 1915). A volte se la prendeva con gli ufficiali: «Tutto dipende dai capi» (19 novembre 1915), ma questi non erano che il riflesso del paese: «Non son difetti dell’esercito ma del paese. Ora li vedo ufficiali, ma quando eran preti, procuratori, impiegati, ingegneri, maestri, avevano la stessa filosofia della vita. Abissi d’ignoranza, ammassi di pigrizia, corruzione e stortura del carattere, mancanza di senso del dovere. Non c’è nulla da fare. Io non conoscevo i miei compatrioti prima di entrare nell’esercito. Rifare gli italiani non ci riescirà mai» (31 marzo 1916). Nel diario di Prezzolini non c’era traccia di riflessione su causalità storica o eziologia sociale, e le strutture e le dinamiche di classe erano ridotte a un tipo di classificazione morale. Il carattere degli italiani non aveva storia. Aveva una razza? L’antipositivista Prezzolini non ricorreva al vocabolario della razza, anche se il suo modo di pensare aveva molto in comune con gli stereotipi nazionali che riempivano le pagine di Gustave Le Bon, e specialmente con le sue idee sui tratti morali dei popoli latini. Mentre attaccava ferocemente Giuseppe Sergi e altri studiosi positivisti perché con le loro teorie «denigravano» i popoli latini55, di fatto Prezzolini si basava sulle vere e proprie generalizzazioni razziali sulle

55 Cfr. G. Prezzolini, Un calunniatore dell’uomo: Giuseppe Sergi, in Id., Uomini 22 e città 3 cit., pp. 5-26.

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inclinazioni politiche dei popoli che Le Bon aveva reso popolari nei suoi lavori sulla psicologia della folla e dei popoli56. Dovunque guardasse, Prezzolini vedeva nero. Per lui, il fatto che i soldati volevano la pace era motivato unicamente dal «meschino» desiderio di salvare la pelle e dall’infingardaggine, non da nobili ideali (24 aprile 1916), tanto che annotava: «Alle volte penso che se l’Italia è una finzione, meglio che scompaia [...]. Il popolo non ha spirito combattivo ma solo una gran capacità di soffrire, dalla quale i capi non san cavare altro che la sconfitta» (1 giugno 1916). Inoltre vedeva solo passività dove in realtà – come gli storici della guerra hanno ampiamente documentato57 – c’era anche resistenza. Per la maggior parte, gli italiani non avevano voluto la guerra, e anche se non vi era stata una resistenza organizzata contro di essa, a livello individuale erano tutt’altro che rassegnati. Le diserzioni erano numerose, almeno fino a quando non vennero punite severamente58. Tra i soldati la rabbia e il risentimento crescevano, di fronte all’assurdità delle continue offensive, alla scarsità e all’inadeguatezza dell’equipaggiamento, alla durezza delle condizioni, e alla disparità di trattamento tra la truppa e gli ufficiali. Perfino Prezzolini dovette registrare nel diario i sentimenti e la rabbia delle truppe: «Nella notte giungon fino alla mia baracchetta le imprecazioni contro la guerra e coloro che l’hanno voluta» (4 novembre 1915). In ogni caso, l’esperienza della guerra lo convinse fin dai primi tempi che per loro natura gli italiani potevano essere divisi in due categorie, i «furbi» e i «fessi». Sembra che Prezzolini riprendesse questa classificazione dal gergo usato per distinguere «le posizioni a cui erano assegnati gli ufficiali [...] e la loro posizione più o meno lontana dal fronte» (14 ottobre 1915). È significativo che una contrapposizione che è diventata parte del senso comune degli italiani emergesse durante la Grande Guerra, questa fondamentale esperienza di massa che più di ogni altro evento prece56 Per un esempio dell’influenza di Le Bon si veda l’annotazione del 2 dicembre 1923 in cui si dice che gli italiani sono rivoluzionari solo a parole perché sono essenzialmente conservatori. L’influenza di Le Bon su Prezzolini sembra generalmente ignorata dagli storici. 57 Come rivela lo stesso Prezzolini in Dopo Caporetto, in «La Voce», Roma 1919. 58 G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 159.

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dente contribuì alla nazionalizzazione del paese (il termine napoletano «fesso» entrò nella lingua italiana in quel periodo)59. Come ha osservato Mario Isnenghi, l’antitesi tra i fessi che combattevano in prima linea e gli imboscati che si nascondevano nelle retrovie è un tema ricorrente in quasi tutti i diari di guerra, e l’insistenza su questa opposizione di tipo comportamentale tendeva a rimuovere l’opposizione di classe e a far nascere una consapevolezza «corporativa» tra i combattenti60. Nel contesto della guerra, il «furbo» è soprattutto oggetto di risentimento e di condanna perché evita di fare il suo dovere di soldato, ma per coloro che vogliono togliersi di dosso lo stigma del «fesso» può facilmente diventare un modello da invidiare e da imitare. Considerando i valori che proclamava e la sua insistenza sui principi morali, è più che un’ironia constatare che Prezzolini abbia colto l’occasione di fare il «furbo», dato che grazie all’intervento di un amico che aveva buone conoscenze passò il resto della guerra (dal dicembre 1916, dopo quindici mesi al fronte) come «imboscato» nell’Ufficio storiografico della mobilitazione, appena istituito a Roma. Sotto questo aspetto Prezzolini era un buon esempio del comportamento della sua classe: si trovavano al fronte tre quarti dei soldati e meno della metà degli ufficiali, il resto dei quali era impiegato nei settori dei servizi, nei ministeri e nelle fabbriche61. Anche se cercava di convincersi che la sua non era una scelta disonorevole, dovette confessare che non si sentiva «tranquillo» con se stesso (10 dicembre 1916)62. Per molti soldati italiani la «prova della guerra» fu certamen59 Naturalmente la categoria dei «furbi» esisteva già prima, e il canone letterario ne fornisce molti esempi. Come sottolineava già De Sanctis, i narratori del Decamerone si divertivano a raccontare storie comiche di popolani sempliciotti presi in giro da quelli più furbi. Sulla datazione dell’ingresso del termine napoletano «fesso» nella lingua italiana, cfr. O. Lurati, Dizionario dei modi di dire, Garzanti, Milano 2001. 60 M. Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Marsilio, Venezia 1967, pp. 21-22. 61 Cfr. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra cit., p. 131. 62 Prezzolini confessava anche di odiarsi, osservava la propria tendenza a essere più indulgente (5 gennaio 1917), e notava che accettando questo incarico rinunciava alla possibilità di dire la sua dopo la guerra (15 marzo 1917). I suoi sensi di colpa si facevano sentire di tanto in tanto: cfr. per esempio l’annotazione del 26 maggio 1918 in cui commenta la sua promozione a capitano.

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te assai più dura di quanto lo fosse per Prezzolini, che grazie al fatto di essere un ufficiale, e alle sue conoscenze, riuscì a passare gli anni della guerra in una situazione piuttosto confortevole. Se si supponeva che la guerra avrebbe creato negli italiani un carattere più «disciplinato» e «sincero», Prezzolini sembra avere fallito questa prova. Malgrado lo riconoscesse nel suo diario, durante la guerra non mise mai in questione pubblicamente il suo comportamento. Anzi, continuò il suo lavoro di propaganda in favore della guerra. Grazie al materiale raccolto nell’Ufficio storiografico, nel 1918 pubblicò un’antologia di scritti sulla guerra di soldati e ufficiali, scelti per lo stile «aderente alla realtà». Nell’introduzione Prezzolini sosteneva che la guerra era stata la «prima comunione nella lotta e nel sangue dell’Italia», e una «scuola di moralità» per gli italiani che tanto avevano bisogno di essere «rieducati» a questa scuola63. Prezzolini ripropose osservazioni dello stesso tipo in Dopo Caporetto, un pamphlet uscito nel 1919, ma scritto due anni prima64, che costituiva il suo contributo alla vasta letteratura sulla disastrosa rotta dell’ottobre 1917, quando tutto il fronte orientale italiano crollò sotto la spinta degli austriaci, una larga fascia del Veneto passò di nuovo sotto il loro controllo, e quasi 300.000 soldati vennero fatti prigionieri65. Mentre i critici del carattere degli italiani quali Villari, De Sanctis, Turiello e Sergi scrivevano per un pubblico di élite, Prezzolini cercava di raggiungere una platea molto più ampia: Dopo Caporetto era un pamphlet scorrevole e dalla retorica piuttosto efficace, che attirò subito molti lettori e fu ristampato immediatamente66. Mentre nel suo diario scriveva che Caporetto era «la rivelazione di come stavano le cose», e che «se [avesse condotto] a un serio lavoro di rieducazione e formazione nazionale [...] non sarebbe stato una cattiva cosa» (14 novembre 63 G. Prezzolini, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Bemporad, Firenze 1918, pp. X-XVI. Una seconda edizione del testo fu edita nel 1921. 64 G. Prezzolini, Dopo Caporetto, La Voce, Roma 1919. 65 Questa letteratura è stata esaminata da Isnenghi in I vinti di Caporetto cit. Sul numero dei prigionieri italiani dopo Caporetto cfr. Procacci, Soldati e prigionieri cit., p. 170. 66 «Mio Caporetto è il libro dei nostri che si vende meglio», annotava Prezzolini il 4 agosto 1919.

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1917), nel libro denunciava la «furbizia» dei suoi compatrioti. Per Turiello, che aveva già affrontato l’argomento, la furbizia era il vizio principale della borghesia napoletana. Per Prezzolini, invece, divenne un vizio di gran parte della popolazione: gli italiani, individualisti supremi, erano grandi ammiratori della furbizia, che usavano sistematicamente per perseguire il proprio tornaconto individuale immediato. Ma la furbizia era un vizio privato che generava un più grande male pubblico. Non riuscendo a concepire che gli interessi individuali e collettivi erano legati insieme, gli italiani soccombevano di fronte a popoli che sentivano con maggior forza il senso dell’interesse collettivo: «A forza di essere furbi, si finisce per venire giocati da popoli meno intelligenti, ma più tenaci nella loro intelligenza; e ci si disgrega a forza di capire troppo l’individuale, a fronte di popoli che sentono più di noi che l’interesse individuale è legato a quello collettivo»67. Il comportamento degli italiani in guerra – in particolare ciò che Prezzolini definiva lo «sciopero dei soldati», che a suo modo di vedere aveva portato alla disfatta di Caporetto68 – era una dimostrazione del fatto che il popolo italiano non aveva molta «intelligenza collettiva». Secondo lui, i membri della classe dirigente erano «canaglie» e la gente comune era una massa di «incoscienti», nel senso che non aveva né coscienza di sé né coscienza morale69. La cultura retorica tradizionale dell’Italia non contaminava più solo le «classi pensanti» ma anche la gente comune. E invece di enfatizzare l’eroismo dell’esercito come accadeva solitamente, Prezzolini rimarcava i limiti sia degli ufficiali che dei soldati. Prezzolini non traduceva semplicemente i suoi pregiudizi, le sue esperienze e forse anche i suoi sensi di colpa in questa classificazione comportamentale degli italiani, ma dava voce a un punto

Prezzolini, Dopo Caporetto cit., p. 49. Contrariamente a Prezzolini, Soffici fu testimone diretto della rotta perché in quel periodo si trovava al fronte. Anche per Soffici Caporetto non era stata una sconfitta militare ma un fatto politico e psicologico, cioè l’impatto del clima politico e morale del paese sull’esercito: cfr. Isnenghi, I vinti di Caporetto cit., pp. 228-237. 69 La mia interpretazione del testo differisce da quella di Isnenghi, il quale sostiene che Prezzolini se la prendeva solo con la classe politica al potere: cfr. Isnenghi, I vinti di Caporetto cit., p. 220; e Id., Il mito della Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 1997, p. 335. 67 68

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di vista che veniva espresso anche in altri ambienti. In un pamphlet pubblicato nel 1917 anche Ugo Filippi, un nazionalista conservatore di scuola tradizionale, lamentava che gli italiani non possedevano ancora il forte carattere che i padri del Risorgimento avevano inteso costruire. La guerra (e, prediceva, ancora di più il periodo del dopoguerra) poneva nuove sfide, e richiedeva che i cittadini avessero una esatta nozione non solo dei loro diritti ma anche dei loro doveri. Eppure essi continuavano a fare affidamento sulla «furberia» e sul machiavellismo; amavano l’apparenza più che la sostanza; erano superficiali e indolenti, e risentivano delle conseguenze di un «eccessivo e indisciplinato egoismo e individualismo»70. Filippi proponeva la creazione di una «Lega nazionale per l’educazione morale e civile» destinata a combattere tutto ciò che «corrompeva» il carattere del popolo, sottolineando la persistente necessità di rifare gli italiani, di «estendere» la «virtù educativa della guerra» a «tutta la vita della nazione», e di costruire un carattere «coerente, disciplinato»71. Anche per Filippi, significativamente, la furberia sembrava essere il tratto italiano più distinto e problematico che la guerra aveva evidenziato con grande chiarezza. Il filosofo Giovanni Gentile assunse un atteggiamento più sfumato, che contrastava con queste critiche esplicite nei confronti del carattere degli italiani. Anche Gentile si preoccupava per il comportamento e per l’atteggiamento dei compatrioti in guerra, in particolare per lo «scetticismo» generale, ma tendeva a porre la questione in maniera meno negativa rispetto al caustico Prezzolini. Anche se data la sua età e la numerosa famiglia a carico era stato esentato dal servizio militare, Gentile considerava comunque la partecipazione alla guerra fondamentale per rendere gli italiani un popolo unito, e fin dall’inizio collaborò con giornali e riviste scrivendo articoli ed editoriali a sostegno della campagna interventista. Nelle sue note sulla guerra pubblicate sulle pagine del «Resto del Carlino», Gentile riproponeva molti vecchi tropi del carattere degli italiani. Nel marzo 1917 dichiarò che l’andamento del conflitto 70 U. Filippi, Problemi del dopoguerra. L’Italia futura. Il carattere è la base di ogni rinnovamento, Agnelli, Milano 1917, pp. 18, 26: «Di regola si tiene più ad apparire furbi e scaltri piuttosto che corretti ed onesti». 71 Ivi, p. 117.

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dimostrava che «l’uomo del Guicciardini» non ne era più il modello: ora De Sanctis sarebbe stato orgoglioso dei suoi compatrioti72. Ma poi venne Caporetto, e il tono degli articoli di Gentile si avvicinò di molto a quello di Villari, quando questi imputava le sconfitte del 1866 agli atteggiamenti di tutto il popolo italiano73. Nei suoi scritti successivi ai fatti di Caporetto Gentile sollecitò ripetutamente un «esame di coscienza» e l’assunzione di una responsabilità collettiva: tutti dovevano condividere la responsabilità della sconfitta74. Il problema militare era di fatto un problema politico, e questo a sua volta era un problema morale, vale a dire un problema di carattere nazionale. Dopo Caporetto, l’esercito e vari gruppi di ufficiali e di cittadini presero diverse iniziative per ricostruire il morale dei soldati. Fu costituito un ufficio militare speciale per la propaganda (il «servizio P»), e cominciarono ad apparire nuovi periodici per gli ufficiali e per la truppa. Nel settembre 1918 alcuni giovani ufficiali di convinzione democratico-nazionalista, influenzati da Gentile, fondarono la rivista «Volontà»75. Nel primo editoriale il direttore Vincenzo Torraca riprese un vecchio tema: la guerra aveva rivelato i vizi e le virtù degli italiani ed evidenziato la necessità di un rinnovamento della classe politica e di una nuova leadership. Il valore della patria non si era ancora solidamente insediato nell’animo degli italiani, ed era ancora di più all’ordine del giorno la creazione di un popolo ispirato da un sentimento di unità e di disciplina sociale; e a questo scopo doveva essere intrapreso un programma più deciso di «educazione nazionale». Perciò era necessario dichiarare guerra alle vecchie abitudini della retorica accademica e della ciarlataneria, all’indifferenza, allo scetticismo e allo spirito di conciliazione. La vecchia Italia delle feste e dei car-

72 G. Gentile, Ricordo di Francesco De Sanctis, in «Il Resto del Carlino», marzo 1917 (ristampato in Id., Guerra e fede, Laterza, Bari 1919). Le citazioni sono tratte dalla 3a edizione rivista e corretta, Le Lettere, Firenze 1989. 73 G. Gentile, Il gran colpevole, in «Il Resto del Carlino», gennaio 1918 (ristampato in Id., Guerra e fede cit., pp. 56-59). 74 G. Gentile, La colpa comune, in «Il Resto del Carlino» (ristampato in Id., Guerra e fede cit., pp. 60-63). 75 Cfr. G. Sabbatucci, La stampa del combattentismo (1918-1925), Cappelli, Bologna 1980, p. 17.

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nevali sarebbe finalmente sparita, ma tutto dipendeva dalla mobilitazione della «volontà» della nazione76. I guerrieri e gli altri all’indomani della guerra mondiale Gli ufficiali patriottici come Torraca dovettero sentirsi vendicati dal modo in cui l’esercito reagì alla sconfitta di Caporetto. Prima la resistenza sul Piave e sul Monte Grappa e più tardi la vittoria degli Alleati a Vittorio Veneto portarono la redenzione (e la vendetta) desiderata da molti, e dettero una nuova speranza (nonché strumenti di lotta) a nazionalisti e nazionalizzatori. Nelle pubblicazioni dei veterani, la sanguinosa e orrenda esperienza della guerra in cui erano morti più di 600.000 italiani, i più senza sapere il perché, divenne il «lavacro di sangue» nel quale la nazione era rinata in un vero e proprio senso fisico e spirituale: «La guerra ha rivelato l’uomo a se stesso: non più corpi infrolliti, non più anime pervertite dal vizio, non più volontà molli, non più dubbiose decisioni, ma la bellezza nella forza! [...] Guardiamo in faccia i nostri epici guerrieri, non v’è tutta la bellezza maschia sui loro volti, dell’antico gladiatore che dominò il mondo? [...] Questa è oggi la nostra razza, questo è oggi il nostro popolo, magnificamente rivelato a se stesso dopo un letargo particolare che minacciava di cancellare i ricordi del mondo latino»77. Molti dei temi che entreranno nel discorso fascista sono già tutti in questo passaggio che ripropone la retorica della guerra come rivelazione (questa volta una rivelazione positiva), il tropo che già dominava il discorso del carattere nazionale nel periodo prebellico. Ma vi si vede anche la matrice religiosa del tropo della rivelazione, certo molto appropriato per quell’oggetto «sacro» che è la nazione. Oltre ad esaltare la guerra in quanto esperienza che dava nuova forma al carattere del popolo, gli intellettuali e i politici nazionali76 V. Torraca, Volontà, in «Volontà», 5 settembre 1918 (ristampato in Sabbatucci, La stampa del combattentismo cit., pp. 40-48). Giovanni Gentile lodò questa sua iniziativa in Edificare la Patria, in «Il Resto del Carlino», 17 settembre 1918 (ristampato in Id., Guerra e fede cit., pp. 68-72). 77 V. Torraca, in «Il combattente», Mantova 1919, p. 11, citato in R. Ceserani, Memoria, propaganda, ideologia del primo dopoguerra, in Retorica e politica. Atti del I Convegno italo-tedesco, Liviana, Padova 1977, p. 219.

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sti idealizzavano le trincee della Grande Guerra, ne facevano il luogo dove tra i soldati disposti a sacrificarsi per la patria stava emergendo una nuova élite. Nel suo Dopo Caporetto, riferendosi a questa nuova élite che si distingueva nella vita di trincea, Prezzolini la descriveva come composta di persone serie, che si impegnavano duramente e facevano il proprio dovere senza attirare l’attenzione su di sé. Gentile lodava la «vera Italia» evidenziata dalla guerra e la contrapponeva alla «borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, faciloni, superficiali, dilettanti, oziosi, cullanti la loro vanità nella critica demolitrice di tutto e di tutti»78. Qualche tempo prima, mentre l’Italia era ancora in guerra, in un articolo sul «Popolo d’Italia» Mussolini aveva preannunciato la «trincerocrazia», il dominio di una nuova élite forgiatasi nelle trincee79. A guerra finita, durante una dimostrazione per l’affermazione dei «sacri diritti» della patria alla Conferenza di pace di Parigi, Mussolini proclamò che l’Italia aveva superato la «grande prova» e che ora era pronta a perseguire i suoi alti destini: la «statura morale» dell’Italia era cresciuta, ora gli italiani erano moralmente uguali se non superiori agli altri popoli. Nuove energie stavano conducendo il paese a diventare la nazione dominante di tutto il mondo latino: si doveva fare uso della guerra appena combattuta per costruire «un’Italia più grande dentro e fuori dei confini»80. Nessuno, e meno che mai gli Alleati, poteva cancellare la vittoria italiana, vittoria che mostrava le «qualità essenziali della stirpe»81. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare considerando il tono delle sue pubblicazioni del tempo di guerra, in seguito Prezzolini maturò idee piuttosto diverse su ciò che la guerra aveva rivelato del popolo italiano, e le espose nei suoi scritti postbellici, Vittorio Veneto (1920) e Codice della vita italiana (1921), due 78 Gentile, Edificare la patria, in Id., Guerra e fede cit., p. 72 (ed. or. 17 settembre 1918) 79 Cfr. B. Mussolini, Trincerocrazia, in «Il Popolo d’Italia», 15 dicembre 1917 (ristampato in Id., Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. 10, La Fenice, Firenze 1952, pp. 140-143). 80 B. Mussolini, Blocco latino, Italia e Francia, in «Il Popolo d’Italia», 3 dicembre 1918, ora in Id., Opera omnia, vol. 12, La Fenice, Firenze 1972, p. 43. 81 Mussolini, in «Il Popolo d’Italia», 24 maggio 1919, ora in Id., Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. 13, La Fenice, Firenze 1954, pp. 147-148.

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testi dal tono meno arrogante, più controllato e politicamente più scettico rispetto alla sua produzione precedente. Nel primo criticava la retorica trionfalistica sulla grande vittoria dell’esercito italiano, le ambizioni imperialistiche e l’opposizione dell’Italia alle proposte di Wilson, e sosteneva che in realtà la vera vittoria era il risultato della resistenza dei soldati sul Piave e sul Monte Grappa82. Questi soldati, i «fessi», erano la parte buona della nazione, coloro che avevano resa possibile la «vera vittoria» del Piave, riscattando il disastro di Caporetto. Al contrario, Vittorio Veneto era la vittoria dei «furbi»: non era costata molto, e in seguito era stata esagerata per sostenere le richieste imperialistiche nei colloqui di pace. E concludeva dichiarando che per poter fare un vero esame di coscienza a livello nazionale e costruire il carattere era indispensabile riconoscere questa distinzione. La dicotomia «furbi» contro «fessi» costituiva un punto centrale anche del Codice della vita italiana, un testo che è stato ristampato varie volte (più recentemente nel 1993) e che sembra essere stato apprezzato anche da Gramsci83. Mentre Caporetto e Vittorio Veneto erano stati originati da eventi singoli, il Codice nasceva come rilettura di tutte le «lezioni» tratte dalla guerra, come rivela un’annotazione riportata da Prezzolini sul suo diario il 23 aprile 1916: «Ora che per la prima volta conosco il popolo italiano, penso a un libretto: Codice della vita italiana, dove sarebbero da segnare le vere regole che dominano la vita di esso. Una di esse viene enunziata oggi da un ufficiale anziano a uno novellino, che domandava che cosa doveva fare: ‘Tira a campà’»84. Il Codice era una piccola raccolta di aforismi che si proponevano di offrire «in poche formule alcuni degli aspetti realistici della nostra vita e delle consuetudini della gran maggioranza degli italiani»85. I libri

82 Il 15 aprile 1920 Prezzolini annota nel suo diario che Vittorio Veneto è «scandaloso come Caporetto», Diario cit. p. 322. 83 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, vol. 3, Einaudi, Torino 1975, p. 2216. 84 Cfr. anche i riferimenti al Codice sulle annotazioni apportate al Diario il 9 luglio 1919. Comunque, parti del Codice erano già state pubblicate sulla «Rivista d’Italia» nel 1918. 85 G. Prezzolini, Codice della vita italiana, Biblioteca del Vascello, Roma 1993. La prima edizione fu pubblicata a Firenze dalla Società editrice La Voce nel 1921.

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di aforismi erano popolari, a quei tempi: anche Gustave Le Bon, autore di vari bestseller del periodo, ne scrisse un paio in cui condensava alcune osservazioni sulla psicologia dei popoli e sulla guerra86. Gli aforismi di Prezzolini erano un compendio dei vizi degli italiani annotati da qualcuno che non sembrava avere molta speranza di riuscire a cambiarli, come testimonia la conclusione ironica: «Quando in Italia correrà più denaro e acqua pulita, la redenzione sarà completa»87. Come in precedenza il Caporetto, anche il Codice ebbe molto successo, malgrado l’editore temesse che sarebbe stato attaccato dagli ultranazionalisti88. Nel periodo in cui lo scrisse, Prezzolini sembrava avere abbandonato ogni zelo riformatore e ogni idea di rinnovamento degli italiani, non solo attraverso la guerra e la violenza, ma anche attraverso il tipo di lavoro intellettuale che aveva svolto prima del conflitto, e aveva assunto una posizione di minore coinvolgimento, come fosse una sorta di osservatore distaccato, esterno, dei costumi e della politica italiana89. Come vedremo nel sesto capitolo, i limiti ideologici e il vero significato di questa posizione «defilata» si sarebbero chiariti nel periodo in cui i fascisti presero il potere. La posizione assunta da Prezzolini dopo la guerra non era tuttavia rappresentativa dei molti nazionalisti il cui sciovinismo e le cui rivendicazioni nazionali erano stati notevolmente rafforzati dalla guerra e da una nuova base di veterani, di giovani e di membri delle classi medie. Nella situazione di aspro conflitto sociale e di quasi guerra civile che ne seguì, i nazionalisti si schierarono con chi, come i fascisti, prometteva di ristabilire il «prestigio dello Stato nazionale» e di subordinare i «valori autonomi dell’individuo» a quelli della nazione ora definita «sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe»90. Le virtù della guerra do86 G. Le Bon, Aphorismes du temps present (1913), e Id., Les incertitudes de l’heure présente (1924). 87 Prezzolini, Codice cit., p. 67. 88 Prezzolini, Diario, annotazioni del 10 aprile e del 5 maggio 1921. Il 19 maggio 1921 registra la recensione favorevole di un critico: malgrado i timori dell’editore, il recensore non considera il Codice un testo antipatriottico. 89 Su questo punto cfr. anche R. De Felice, Prezzolini, la guerra e il fascismo, in Id., Intellettuali di fronte al fascismo. Saggi e note documentarie, Bonacci, Roma 1985, specialmente pp. 79-84. 90 «Programma del Partito Nazionale Fascista», in B. Mussolini, Opera omnia, vol. 17, La Fenice, Firenze 1972, p. 334 (ed. or. 1921).

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vevano presto essere messe all’opera nella costruzione di una «nuova Italia», al prezzo delle libertà individuali. Nel primo quarto di secolo il tema del carattere degli italiani non era più tanto l’oggetto di studi socio-antropologici e di trattati politici come era avvenuto nell’epoca del positivismo, ma il topos del carattere circolava ampiamente imponendosi in particolare nel giornalismo politico e prendendo in prestito le generalizzazioni deterministiche di teorici della psicologia collettiva come Gustave Le Bon. Quando i nuovi nazionalisti associarono concettualmente prima la guerra di Libia e poi la guerra mondiale alla missione di rigenerare gli italiani, la tematica del carattere era ormai un punto fermo del discorso politico. L’idea della rigenerazione attraverso la guerra e la conquista non era certamente una novità, ma ora era accompagnata da un nuovo senso di urgenza, da un linguaggio violento ed estremamente connotato in termini di genere, e dall’imporsi di un aggressivo movimento politico che chiedeva una politica energica, nazionalista e imperialista. Dopo essere state continuamente sbandierate come l’occasione di mettere alla «prova» il carattere degli italiani, le guerre dell’inizio del ventesimo secolo rafforzarono la tendenza dei nazionalisti a osservare la popolazione secondo un’ottica morale definita dal valore supremo e assoluto della nazione, e a dividerla in categorie che riflettevano una gerarchia di valori definita dalla guerra come suprema prova di moralità collettiva. Riducendo il proprio vocabolario morale a poche parole chiave da cui era scomparsa ogni preoccupazione per altri valori, i nuovi nazionalisti enfatizzavano costantemente il senso di disciplina, del dovere e del sacrificio personale, la fede e la sincerità, virtù che avrebbero infranto le abitudini di un popolo tendenzialmente indisciplinato, inaffidabile, servile, legato al proprio piccolo tornaconto e propenso al compromesso. Queste idee entrarono anche a far parte integrale del vocabolario del fascismo, informandone, una volta al potere, il progetto di rifare il carattere degli italiani.

V «UNA SOSTANZA DIFFICILE DA MODIFICARE» Creeremo l’italiano nuovo, un italiano che non rassomiglierà a quello di ieri. Benito Mussolini, 1926 Da fascisti, crediamo che questo sia il secolo in cui il carattere dominerà tutti gli altri elementi della natura di un popolo. Da «Carattere», 1941

Nell’editoriale del primo numero della rivista «Il Selvaggio», pubblicato nell’estate del 1924, un esponente di primo piano dello squadrismo toscano, Mino Maccari, descriveva così la missione che il fascismo doveva compiere: «Si tratta di ridare a tutte le classi italiane il senso della forza, della virilità e della volontarietà. Si tratta di difendere la tradizione guerriera della nostra razza; degli italiani, stimati dagli stranieri come dei maccaroni, dei mandolinisti ecc., si tratta di farne dei maschi»1. Un paio di anni dopo, rivolto ai membri del Partito nazionale fascista di Reggio Emilia, Mussolini dichiarava che in dieci anni essi avrebbero reso «irriconoscibile sia fisicamente che spiritualmente il volto della patria»2. Questo significava anche cambiare il carattere degli italiani. Par1 M. Maccari, Squadrismo, in «Il Selvaggio. Battagliero fascista», 1, 13 luglio 1924. 2 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. 22, La Fenice, Firenze 1958, p. 246.

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lando ad alti funzionari del Partito fascista dei compiti che il regime doveva affrontare cinque anni dopo la piena istituzione della dittatura, Mussolini ricordò all’uditorio che i «secoli terribili di decadenza politica, militare e morale dal 1600 all’avvento di Napoleone» e la soggezione allo straniero avevano penalizzato gli italiani, lasciando delle scorie nel loro carattere e nella loro mentalità. Dal momento che era stato opera di pochi, il Risorgimento non era riuscito a produrre la rigenerazione del popolo3. Inoltre, diceva, lo Stato liberale aveva solamente peggiorato la situazione, con la sua Italietta che non faceva certo onore agli italiani; ma il fascismo aveva avviato il processo di un vero cambiamento. Queste citazioni rimandano a un apparente paradosso: la coesistenza nel fascismo di una retorica ultranazionalista – con la sua iattanza sulla superiorità della civiltà italiana e sulla romanità delle sue radici, l’esaltazione di tutto ciò che era italiano, e così via – e del discorso dei gravi difetti del carattere degli italiani, che il regime aveva il compito di rigenerare. Da un lato, il regime fascista e la sua produzione culturale erano permeati da un nazionalismo autocompiacente e narcisistico: in particolare, veniva riproposto in maniera ossessiva il legame con la romanità, e le grandi imprese degli italiani – un popolo di «poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori», come disse Mussolini nel discorso che precedette l’aggressione all’Etiopia – venivano ricordate di continuo, fino a culminare in un’autoesaltazione collettiva al momento della proclamazione dell’impero nel 1936. Dall’altro, le varie correnti del fascismo condividevano l’idea che gli italiani avessero gravi pecche, e ciò era appunto alla radice dell’insistenza del regime sulla necessità della rigenerazione. In questo capitolo rivisiterò le forme in cui la questione del carattere affiorava durante il fascismo, quando Mussolini si impegnò nel suo notorio tentativo di «rifare» gli italiani al fine di renderli un popolo più «virile» e militarizzato. Naturalmente non si tratta di un argomento nuovo: numerosi studiosi del fascismo e della sua ideologia hanno già messo in rilievo l’ossessione di Mussolini per il carattere degli italiani4. Tuttavia hanno spesso trascuIvi, vol. 24, La Fenice, Firenze 1958, pp. 283-284 (discorso dell’ottobre 1930). Questo aspetto è stato approfondito da diversi storici del fascismo, ma cfr. specialmente R. De Felice, Mussolini il Duce, vol. 1, Gli anni del consenso 19263 4

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rato la continuità strutturale di tale ossessione con il discorso del carattere nazionale, che era un segno distintivo del nazionalismo italiano fin dal Risorgimento5, e hanno teso ad attribuire alle idee di Mussolini una coerenza maggiore di quanto si possa giustificare6. Mussolini non scriveva in maniera sistematica di questi argomenti (né di nessun altro, del resto), ma i suoi discorsi erano pieni di riferimenti alla questione del carattere, e spesso ne parlava nelle conversazioni private. Molte delle sue idee non erano originali, nel senso che rispecchiavano il tipo di retorica e le tematiche già presenti negli scritti degli intellettuali anti-establishment e dei nazionalisti del periodo prebellico. Tuttavia Mussolini contribuì a divulgare certi aspetti della visione che questi nazionalisti avevano del carattere italiano molto più di quanto essi stessi avessero mai potuto fare: per vent’anni la sua voce fu la più ascoltata in tutto il paese, e molte delle sue espressioni favorite hanno lasciato un’impronta duratura nel linguaggio degli italiani7. I discorsi di Mussolini sono particolarmente rivelatori delle ambivalenze che egli provava nei confronti dei suoi compatrioti, ma la 1936, Einaudi, Torino 1974, pp. 24-26, 50; e vol. 2, Lo Stato totalitario, 19361940, Einaudi, Torino 1981, pp. 88-89; E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, cap. 9 (ora ripubblicato con il titolo La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2009) e il più recente Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, cap. 10; L. La Rovere, «Rifare gli italiani»: l’esperimento di creazione dell’«uomo nuovo» nel regime fascista, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 9, 2002, pp. 51-77. 5 Gentile, tuttavia, ha sottolineato questa continuità (vedi ad esempio La grande Italia cit.). 6 Questo è il caso in particolare di R. De Felice che prende sempre alla lettera le parole di Mussolini facendone discendere azioni e scelte politiche. Per una critica a questo approccio si veda R. Vivarelli, Benito Mussolini dal socialismo al fascismo, in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Il Mulino, Bologna 1981, pp. 93-94. 7 Cfr. E. Leso, Osservazioni sulla lingua di Mussolini, in E. Leso et al., La lingua italiana e il fascismo, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, Bologna 1978, p. 15. Mussolini intendeva realmente creare un nuovo stile retorico: «Io avevo impresso al giornale [‘Il Popolo d’Italia’] attraverso migliaia di articoli, di trafiletti, di disegni da me ispirati un carattere polemico, aggressivo [...]. Io avevo abituato qualche centinaio di migliaia di italiani alla mia prosa personalissima [...]. Il mio modo di scrivere era a sua volta il risultato di dieci anni almeno di battaglie giornalistiche precedenti». Cfr. B. Mussolini, Vita di Arnaldo (1932), citato in A. Simonini, Il linguaggio di Mussolini, Bompiani, Milano 1978, p. 14.

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questione del carattere non era solo un suo cruccio personale: affiorava anche in molti scritti degli intellettuali fascisti che discettavano sull’identità italiana, vale a dire su ciò che faceva degli italiani un popolo unico (e naturalmente superiore). Certamente questi intellettuali si occuparono in maniera molto più estesa dell’identità che non del carattere nel significato che ha in questo libro. Dato che il fascismo rifiutava i valori democratici le cui radici affondavano nell’Illuminismo europeo, i suoi ideologi si impegnarono nella costruzione di un’identità italiana in antitesi con quella dei paesi che ancora facevano propri tali valori. Così, negli anni Venti e Trenta la questione di ciò che costituiva una identità italiana «autentica» assunse un ruolo di primo piano nel discorso sull’italianità, nel senso che gli intellettuali fascisti contrapponevano pretestuosamente e polemicamente l’Italia, con il suo carattere «solare» e «mediterraneo», alla cultura e all’identità dell’Europa «nordica», o magnificavano in continuazione la grandezza della civiltà di Roma dalla quale gli italiani si vantavano di essere discesi. Ma mentre l’identità veniva costruita in questo modo con una buona dose di autocompiacimento, la questione del carattere rimaneva aperta. L’esaltazione più o meno pronunciata di tutto ciò che era italiano appariva in contrasto con l’esplicita intenzione di Mussolini di rifare gli italiani, rivelando una persistente percezione della loro inadeguatezza – qualcuno la definirebbe un complesso di inferiorità. Per Mussolini e i fascisti, gli italiani erano ben lontani da ciò che potevano e dovevano essere, in quanto eredi dell’Impero romano. In maniera più acuta rispetto al patriottismo risorgimentale, nel nazionalismo fascista coesistevano la credenza nella superiorità dell’Italia e l’idea che gli italiani dovessero essere rigenerati. Naturalmente, il tema della rigenerazione è comune a molte forme di nazionalismo e di fascismo8, ma in Italia la retorica di regime su questo tema si sovrapponeva ad alcune caratteristiche specifiche del discorso nazionalista italiano. L’«uomo nuovo» che il fascismo cercava di creare non era soltanto l’opposto dell’individualista della civiltà liberale, ma era prima di tutto l’opposto del

8 Sulla presenza di questa tematica nel fascismo cfr. R. Griffin (a cura di), Fascism, Oxford University Press, Oxford 1995, p. 3.

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tipo di italiano che aveva abitato la penisola per secoli e che neanche il Risorgimento era riuscito a cambiare. Anche i nazisti parlavano di un «uomo nuovo» e del nuovo ordine che intendevano creare9, ma non presupponevano l’esistenza di tedeschi «difettosi». Per loro il popolo tedesco era fondamentalmente sano, mentre erano ossessionati dai nemici interni che avevano «guastato» il corpo della nazione e contaminato la purezza della razza, che essendo già la più perfetta si preoccupavano soprattutto di mantenere tale. Nel caso del fascismo italiano una delle parole chiave era il rinnovamento, o rigenerazione, degli italiani in quanto popolo: la retorica fascista insisteva soprattutto sulla creazione di una nuova Italia, di un nuovo Stato, di un nuovo popolo italiano, e solo in un secondo tempo sviluppò l’idea di un uomo nuovo e di una nuova civiltà. Per la verità la vaghezza di questo linguaggio faceva anche comodo, dal momento che consentiva a una nuova classe politica di tenere aperte le proprie opzioni: la retorica del «nuovo» era a buon mercato, per non dire di peggio. Ma non c’era solo opportunismo nella retorica fascista: essa era anche un modo per manipolare la realtà e uno strumento d’azione10.

Le ambivalenze di Mussolini Alcuni dei più stretti collaboratori di Mussolini hanno annotato nei loro diari che spesso nelle conversazioni private il duce esprimeva il suo disprezzo per gli italiani in maniera assai esplicita. Queste osservazioni sono quasi tutte relative ai primi anni Quaranta, quando l’Italia stava per entrare o era già entrata in guerra. Nell’aprile 1940 l’allora ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai annotò nel suo diario che Mussolini, rendendosi conto della «profonda contrarietà degli italiani a mobilitarsi al fianco dei te9 Sull’idea dell’«uomo nuovo» sia nel fascismo italiano che nel nazionalsocialismo tedesco cfr. G.L. Mosse, The Image of Man. The Creation of Modern Masculinity, Oxford University Press, New York-Oxford 1996, cap. 8. Mosse pone in risalto il ruolo della Grande Guerra nel dare forma a questa idea. 10 Per questa interpretazione della funzione della retorica in Mussolini cfr. B. Spackman, Fascist Virilities. Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996.

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deschi», vedeva nel popolo italiano il suo antagonista. Snervato e svirilizzato com’era dall’influenza della Chiesa cattolica11, era un popolo da cui non ci si poteva aspettare molto. Man mano che le sconfitte si susseguivano, il diarista Bottai notava come Mussolini parlasse continuamente della sua «delusione per il ‘carattere’ degli italiani [...]. Non si risalgono a un tratto, nemmeno con una rivoluzione, secoli di servaggio politico»12. Nel marzo 1942 Galeazzo Ciano, l’allora ministro degli Esteri nonché genero di Mussolini, osservava nel suo diario che il duce, insoddisfatto dell’andamento della guerra, si lamentava: «Questa guerra non è fatta per il popolo italiano. Il popolo italiano non ha la maturità né la consistenza per una prova così formidabile e decisiva. Guerra per tedeschi e per giapponesi, non per noi»13. La guerra, tuttavia, non faceva che rafforzare l’opinione che Mussolini già aveva degli italiani almeno dagli anni Venti. Le critiche impietose che riservava loro nelle conversazioni private non avevano, per ovvie ragioni, un equivalente nei discorsi pubblici, ma questi non sempre erano pieni di lodi per l’Italia o per gli italiani. Egli esprimeva la sua ammirazione per la civiltà italiana che si manifestava, ad esempio, nella bellezza dell’architettura e dei monumenti di una città o a volte negli atteggiamenti degli abitanti14, ma le sue lodi erano riservate in particolare al «grande lavoro» che il fascismo stava realizzando sia a livello materiale che spirituale. Nei suoi discorsi, Mussolini amava mettere in risalto i cambiamenti che il fascismo stava operando, il che presupponeva che lo stato delle cose non era certamente perfetto, se non del tutto deficitario. Per quanto spesso contraddittoria, l’oratoria di Mussolini evidenzia alcuni topos rivelatori che rientravano in un modello già presente negli scritti di precedenti nazionalisti italiani. In particolare, il modo in cui insisteva su certi punti dimostra come fosse ossessio11 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 187. 12 Ivi, p. 242. 13 G. Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano 1980, p. 598 (7 marzo 1942). 14 Cfr. Al popolo di Pisa (24 maggio 1926), in Mussolini, Opera omnia, vol. 22, cit., pp. 144-145; sulle invettive che Mussolini era solito scagliare contro gli italiani cfr. anche G. Aliberti, La resa di Cavour. Il carattere nazionale italiano tra mito e cronaca (1820-1976), Le Monnier, Firenze 2000, cap. 6 e A. Campi, Mussolini, Il Mulino, Bologna 2001, p. 69.

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nato dalle immagini poco lusinghiere dell’italiano, che a suo parere dominavano la percezione che gli stranieri avevano del paese. In effetti sembrava che cercasse costantemente di esorcizzarle. Secondo Ciano, Mussolini era convinto che gli stranieri avessero persuaso gli italiani del fatto che «non [erano] una razza, bensí un’imbelle accozzaglia di gente nata per servire e dilettare i popoli oltremontani»15. Era disturbato da quella che chiamava «la leggenda che gli italiani non si battevano» e rimarcava che si trattava solo di una favola, perché dai tempi delle guerre napoleoniche gli italiani avevano rovesciato le tendenze che li caratterizzavano nel passato e avevano difeso il proprio onore combattendo16. Mussolini tornava continuamente su certe immagini stereotipate degli italiani – in particolare il suonatore di organetto e lo strimpellatore di mandolino – per denunciarle come «falsi luoghi comuni» e dichiarare che il fascismo ne avrebbe dimostrato la falsità agli occhi del mondo. Ad esempio, alla celebrazione del cinquantenario della fondazione della compagnia elettrica Edison, nel 1934, si rivolse al pubblico in questi termini: «È veramente un luogo comune e calunnioso quello di dire che l’Italia era la Patria del dolce far niente. Un giorno io ho detto a un giornalista: ‘Andate in Sicilia, dove troverete gente che gratta la zolla con cinquanta gradi all’ombra’. Tutti quelli che ci venivano rimproverati come ‘difetti’ non erano che luoghi comuni che oggi stanno per essere eliminati completamente»17. Il significato di questa dichiarazione è piuttosto ambiguo: se quei «difetti» erano solo luoghi comuni e quindi non c’era niente di vero, perché preoccuparsene tanto? Perché stavano per essere eliminati se in realtà non esistevano? Mussolini non lo spiegava. L’anno seguente, comunque, fece di nuovo riferimento all’immagine fastidiosa del «paese del dolce far niente», alla quale contrappose la «realtà»: gli italiani erano un popolo che lavorava duramente18. Inevitabilmente, il dolce far niente era associato al tropo angosciante dell’effeminatezza. Un popolo effeminato era un popolo che non combatteva. Era proprio questa l’immagine degli italiani che faceva infuriare Mussolini, specialmente quando la ritrovava Ciano, Diario cit., p. 225 (17 dicembre 1938). Mussolini, Opera omnia cit., vol. 24, pp. 283-284. 17 B. Mussolini, Opera omnia, vol. 44, Volpe, Roma 1978, p. 84. 18 Ivi, vol. 37 (orig. nel «Popolo d’Italia», 1935). 15 16

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nei film e nei romanzi americani del tempo, ad esempio in Addio alle armi: il film lo esasperò al punto di minacciare ritorsioni se la Paramount non avesse modificato certe scene che rappresentavano l’esercito italiano19. In un discorso del 1933 al Consiglio nazionale del Pnf se la prese con chi si lamentava della brutalità del pugilato, uno sport di cui in quel periodo si parlava moltissimo, in Italia e non solo, grazie alla vittoria di Primo Carnera, che quello stesso anno era diventato campione del mondo dei pesi massimi20. Chi non apprezzava il pugilato era espressione della «vecchia Italia, vecchissima Italia, la non ancora putrefatta Italia, l’Italia cioè che vorrebbe solo spettacoli leggiadri, gli spettacoli fini, gli spettacoli divertenti, quelli dove tutto procede come in un salotto settecentesco, pieno di cicisbei. Noi siamo di un’altra razza [...] mi sorride l’idea di vedere una generazione di cosí potenti cazzottatori che sfasci i connotati ai campioni degli altri Paesi, e finalmente allora si dirà: questo è un popolo forte, gagliardo, non un popolo di strimpellatori di mandolino»21. Un anno dopo, nell’aprile del 1934, Mussolini ritornò sulle stesse immagini: «Noi fascisti [...] spacchiamo tutti i luoghi comuni. Sonatori di mandolino, no; lanciatori di bombe, gente cortese, no. Cazzottatori [...]. Perché il vero fascista è [...] l’uomo che prende tutto sul serio, che tutto guarda con spirito di decisione, non con l’indifferenza, non con la negligenza, non con il pressappochismo»22. A parte il riferimento allo strimpellatore di mandolino, che indica la scarsa simpatia di Mussolini nei confronti dei napoletani e più in generale dei meridionali – e

19 L’episodio è riportato in F. Suvich, Memorie 1932-1936, a cura di G. Bianchi, Rizzoli, Milano 1984, p. 25, che osserva inoltre: «Molto influiva sul suo [di Mussolini] giudizio e sulle sue simpatie il modo in cui le Nazioni straniere giudicavano l’Italia e in modo particolare il valore del soldato italiano. Su questo aspetto era di una suscettibilità legittima, ma che arrivava a forme esasperate e morbose». Sulla estrema sensibilità di Mussolini nei confronti delle vignette satiriche straniere cfr. anche De Felice, Mussolini il duce, vol. 1, cit., pp. 21-22. 20 Theodore Roosevelt era un altro statista dell’inizio del XX secolo ossessionato dal culto dell’esercizio fisico, che considerava l’elemento chiave di un carattere forte e mascolino (sia a livello individuale che collettivo): cfr. A. Testi, The Gender of Reform Politics: Theodore Roosevelt and the Culture of Masculinity, in «The Journal of American History», 81, 1995, pp. 1509-1533. 21 Mussolini, Opera omnia, vol. 44, cit., p. 74 (1958). 22 Ivi, p. 91.

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l’imbarazzo che gli provocavano23 – questa retorica aveva molto in comune con quella della guerra, che vedeva nella campagna di Libia (e nella Grande Guerra) la rivelazione di un’Italia «migliore», un’Italia che – come aveva fatto notare Prezzolini, uno dei maestri del futuro duce – non era più il paese «organetto, serenata, gita in gondola, pieno di ciceroni, di lustrascarpe, di poliglotti, di pulcinella»24. Nei suoi discorsi Mussolini metteva in campo anche la retorica populista delle «due Italie», già ben presente nel nazionalismo di prima della guerra, e cioè da un lato l’Italia sana dei «produttori», e dall’altro l’Italia corrotta della vecchia classe politica. Il rinnovamento non sarebbe venuto dalla vecchia e putrescente classe politica, ma dalla gente comune25. Aggiungendo a questi ingredienti l’estetica della forza fisica e la glorificazione della violenza e della guerra, Mussolini evocava in tutta la loro pienezza le fantasie di vendetta e di rivincita del perdente. Essendo estremamente sensibile alla maniera in cui il suo regime e l’Italia venivano visti all’estero, probabilmente Mussolini era consapevole del fatto che le caricature che apparivano sulla stampa straniera, particolarmente dalla metà degli anni Trenta in poi, lo rappresentavano secondo gli stereotipi dell’italiano. In queste caricature il dittatore veniva raffigurato esattamente con i tratti che cercava di esorcizzare, quelli dell’italiano suonatore di organetto, albergatore o gondoliere, sempre con un aspetto piuttosto plebeo (grasso e con il volto non rasato) e per di più con un’aria da furfante26. Tutte queste immagini ritraevano gli italiani come popolani occupati in attività che i nazionalisti consideravano «servili» (ad esempio intrattenere o divertire gli stranieri) e non adatte a un popolo che nel pas23 La dichiarazione di Mussolini (cfr. nota precedente) è solo un esempio dei suoi pregiudizi nei confronti dei meridionali, notati anche da altri testimoni di quel periodo: nel 1936 Bottai annota nel suo diario una frase di Mussolini: «Un giorno bisognerà fare una marcia su Napoli per spazzare via chitarre, mandolini, violini, cantastorie etc.». Bottai, Diario cit., p. 115. 24 G. Prezzolini, Italia 1912. Dieci anni di vita intellettuale (1903-1912), a cura di C.M. Simonetti, Vallecchi, Firenze 1984, p. 56 (ed. or. 1912). 25 G. Prezzolini, Le due Italie, in «Il Regno», 26, 22 maggio 1904 (ristampato in G. Papini e G. Prezzolini, Vecchio e nuovo nazionalismo, Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914, pp. 67-73). 26 Cfr. L. Passerini, Mussolini immaginario. Storia di una biografia 19151939, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 64; cfr. anche N. Zapponi, Il fascismo nella caricatura, Laterza, Roma-Bari 1981.

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sato aveva costruito un grande impero e nel presente attraversava una fase di autorigenerazione. Ma minavano anche l’immagine del Mussolini virile e leader carismatico, perché lo raffiguravano come un tipo dal carattere debole e con caratteristiche fisiche non troppo mascoline (ad esempio, con un grosso sedere). Come dimostrano i suoi discorsi, Mussolini nutrì sempre sentimenti ambivalenti nei confronti del paese, o più precisamente del popolo italiano, e non soltanto quando il regime era in difficoltà. Anche ai suoi occhi l’Italia era il paese «gesticola[nte], chiacchieron[e], superficiale, carnevalesc[o]» che vedeva riflesso negli occhi degli stranieri27. Seguace e ammiratore di Le Bon e della sua versione della psicologia collettiva, Mussolini sembrava analizzare costantemente la psicologia degli italiani, e certamente aveva inventato un suo tipo di «terapia»28. Nella famosa intervista che rilasciò nel 1932 a Emil Ludwig, mentre riaffermava il suo desiderio di disciplinare gli italiani, notava che il solo tentativo di rendere più saldo il «senso della vita collettiva» di un popolo mediterraneo era di per sé «un grande avvenimento nella psicologia dei popoli»29.

Lo spettro del «vecchio italiano» Renzo De Felice, il più prolisso tra i biografi di Mussolini, ha definito la sua insistenza sul progetto di trasformare il carattere degli italiani una componente dell’«idea morale» che stava dietro le sue scelte politiche alla fine degli anni Venti e negli anni Trenta. Questa elevazione a «idea morale» di un repertorio di dubbi luoghi comuni 27 Cfr. Mussolini, Opera omnia, vol. 24, cit., p. 143 (1929). Questa descrizione si trova in un discorso fatto in Piazza Venezia dove Mussolini sosteneva che tale era l’Italia di prima del 1914 e che era quell’Italia che gli stranieri erano dispiaciuti di non trovare più. 28 A loro volta alcuni oppositori consideravano Mussolini un caso clinico. Nel 1932 l’anarchico Camillo Berneri lo definiva un nevrotico: in Mussolini coesistevano crudeltà e una certa «sensibilità femminile»; mostrava i tratti caratteriali della «intersessualità»; la sua nevrosi era causata dalla repressione del suo «senso d’inferiorità». Solo la «mancanza di maturità» del popolo italiano poteva tollerare che uno come Mussolini si impadronisse del potere: cfr. C. Berneri, Mussolini. Psicologia di un dittatore, Edizioni Azione Comune, Milano 1966; prima di questa edizione l’originale esisteva solo in manoscritto. 29 E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano 1932, p. 125.

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e di ossessioni non appare giustificata, ma De Felice ha certamente ragione quando sottolinea il desiderio di Mussolini di trasformare in maniera radicale gli italiani e di cambiarne il carattere30. Per contrastare la presunta debolezza del carattere nazionale, il fascismo elaborò il concetto dell’«uomo nuovo», che era prima di tutto un «nuovo italiano», l’opposto di quello «vecchio» che il Risorgimento non era stato capace di rigenerare. Il nuovo italiano forgiato dal fascismo era destinato a soppiantare i vecchi abitanti della penisola con tutti i loro difetti, e le sue virtù sarebbero state l’opposto di quei vizi che irritavano moltissimo il dittatore ed erano incompatibili con il tipo di società ordinata immaginata dai fascisti. Quanto più il vecchio italiano era individualista e anarchico, effeminato e poco propenso a combattere, tanto più si supponeva che quello nuovo sarebbe stato disciplinato, animato dal senso della collettività, virile e militaristico. La fantasia di Turiello di trasformare l’Italia in una nazione organizzata come un esercito era ora il progetto degli uomini al potere. Questo progetto era concepito come l’antitesi della vecchia Italia. Fin dai primi anni di governo, Mussolini manifestò la sua volontà di trasformare completamente l’Italia non solo in senso materiale ma anche spirituale, instillando nel popolo nuovi valori e nuovi tratti del carattere. In un discorso tenuto al congresso del Pnf nel 1925 esaltò la forza creativa della violenza e dichiarò la sua intenzione di fascistizzare il paese, di creare i «nuovi italiani» del fascismo. I tratti del loro carattere dovevano essere «il coraggio prima di tutto; l’intrepidezza, l’amore del rischio, la ripugnanza per il panciafichismo e per il pacifondaismo; l’essere sempre pronti ad osare nella vita individuale come nella vita collettiva»31. Circa un anno dopo, nell’aprile del 1926, parlò del suo desiderio di «correggere gli italiani da qualcuno dei loro difetti tradizionali [...] dal troppo facile ottimismo, dalla negligenza»32. Nell’ottobre dello stesso anno, a Reggio Emilia, si rivolse all’uditorio dicendo: «Creeremo l’italiano nuovo, un italiano che non rassomiglierà a quello di ieri»33. Nel 1930, illustrando ai gerarchi del Pnf i comDe Felice, Mussolini il duce, vol. 1, cit., pp. 26, 50. B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. 21, La Fenice, Firenze 1956, p. 362. 32 Ivi, vol. 22, cit., p. 100. 33 Ivi, p. 246. 30 31

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piti che il regime doveva affrontare, Mussolini li esortò a «continuare giorno per giorno quest’opera di trasformazione del carattere degli italiani». Il compito dei fascisti era di restituire agli italiani il carattere che avevano una volta34. L’oratoria di Mussolini non era esente da contraddizioni, per non dire di peggio. Nel maggio del 1926 dichiarava già realizzato quel cambiamento che nel 1930 era ancora di là da venire: dopo aver lodato lo «spettacolo di disciplina» offerto dalla città di Pisa, si rivolse alla folla dicendo che il fascismo aveva già trasformato il carattere degli italiani «scrostando dalle [loro] anime ogni scoria impura, temprando[li] a tutti i sacrifici». La sbandierata trasformazione sembra essersi verificata piuttosto velocemente, ma si deve considerare che l’avvenuta eliminazione della stampa libera e dei partiti di opposizione aveva in qualche modo risolto il problema della «disciplina», almeno in senso politico. Gli scrittori fascisti seguivano uno schema simile. L’editoriale del primo numero dell’«Italiano», la rivista diretta da Leo Longanesi che cominciò le pubblicazioni nel 1926, dichiarava che solo il fascismo stava finalmente affrontando il compito di fare gli italiani, compito che d’Azeglio aveva indicato per primo nel suo famoso detto, ma a cui solo il fascismo dava realmente sostanza. Il «nuovo italiano» doveva essere l’opposto del «vecchio», opposto in termini di valori e di tratti del carattere: «Come questo [il vecchio italiano] fu scettico, quello [il nuovo] dovrà essere radicato in una fede, come questo era indisciplinato quello dovrà essere cosciente, obbediente, come questo fu gretto, attaccabrighe e meschino quello dovrà essere aperto, sereno e sincero»35. Per i collaboratori della rivista il «vecchio italiano» non era stato completamente eliminato dalla vittoria del fascismo ma continuava a riprodursi, e anzi si era già insinuato nei corridoi dello Stato fascista: l’«Italiano» intendeva mantenere la vigilanza nei confronti dei «falsi» fascisti, i quali non erano altro che vecchi italiani rimessi a nuovo36.

Ivi, vol. 24, cit., p. 283. G. Casini, Prefazione a L’italiano, in «L’Italiano», 1, 1926 (ristampato in L. Troisio, a cura di, Le riviste di Strapaese e Stracittà: «Il selvaggio», «L’italiano», «900», Canova, Treviso 1975, p. 184). 36 Ivi, p. 183. 34 35

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La rappresentazione del vecchio italiano si sovrapponeva per certi aspetti a quella dei «nemici» interni del fascismo, dal «borghese» all’omosessuale al «giudeo», tutte personificazioni dell’Altro del fascismo. Nella campagna antiborghese che ebbe inizio a metà degli anni Trenta e si intensificò nel 1938, alcuni scrittori e in particolare Nello Quilici, il direttore del «Corriere Padano», attaccarono la borghesia italiana per non essere stata capace di rendere l’Italia un paese moderno in grado di competere con le grandi potenze europee, rimarcando che non aveva mai abbracciato il liberalismo con convinzione (ed erano ancora più caustici con la piccola borghesia, paragonata secondo canoni orientalisti a un «popolo di cinesi [...] privi di una robusta costituzione morale, privi di coraggio»)37. Quilici riprendeva un discorso critico iniziato già negli anni Venti38 che prendeva di mira il fallimento della borghesia italiana come classe sociale (in confronto alla borghesia degli altri paesi europei), ma più spesso il bersaglio dei suoi attacchi non era tanto la borghesia come classe, quanto lo «spirito borghese», il nemico interno che si diceva stesse sabotando l’opera del regime. Dal momento che la borghesia veniva definita in termini di atteggiamenti e mentalità, come «categoria morale»39 e non in termini di status economico, lo «spirito borghese» era un’etichetta piuttosto elastica che poteva essere applicata a una varietà di individui e di gruppi non allineati con gli obiettivi e le linee politiche del regime, inclusi quelli all’interno del Partito. Mussolini lo definiva come spirito «di soddisfazione, di adattamento, tendenza allo scetticismo, al compromesso, alla vita comoda, al carrierismo», e inveiva contro «il fascista imborghesito [...] colui che crede che oramai non c’è più nulla da fare [...] che basta un figlio solo e che il piede di casa è la sovrana delle esigenze. Il credo del fascista è l’eroismo, quello del borghese è l’egoismo»40. Quando 37 N. Quilici, La borghesia italiana. Origine, sviluppo e insufficienza, ISPI, Milano, 1942 (ed. or. 1934). 38 Su questo punto cfr. anche M. Salvati, Longanesi e gli italiani, in P. Albonetti e C. Fanti (a cura di), Longanesi e italiani, Editoriale Faenza, Faenza 1997, p. 66. 39 Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. 29, La Fenice, Firenze 1959, p. 187 (discorso del 1938). 40 Mussolini, Opera omnia, vol. 26, La Fenice, Firenze 1958, p. 192 (discorso del 1934).

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pronunciò questa frase, nel 1934, Mussolini in realtà attaccava coloro che nel Partito non obbedivano agli ordini del regime e non ne applicavano le linee politiche. Ma era anche borghese chiunque manifestasse scetticismo nei confronti degli atti di eroismo dei grandi uomini, erano borghesi gli «esterofili» e i pessimisti, coloro che non amavano lo sport ed erano pacifisti e umanitari «per natura», i ricchi e i vigliacchi41. Dal momento che in genere viveva in città, il borghese era per definizione piuttosto decadente e di conseguenza non virile, e quindi questo termine serviva anche a stigmatizzare ogni comportamento che non corrispondeva al modello iper-mascolino del regime42. Gli uomini «non virili» erano i nemici dell’«uomo nuovo» del fascismo, ed è significativo che gli omosessuali fossero sottoposti al trattamento riservato ai nemici politici del regime43. Lo stereotipo del borghese benestante e di città si sovrapponeva a quello tradizionale dell’ebreo, un essere avido e materialista, e infatti gli ebrei italiani furono privati dei loro diritti di cittadini esattamente alla fine del 1938, dopo diversi mesi di campagna antiborghese e razziale. Lo «spirito borghese» era molto spesso equiparato allo «spirito ebreo», al punto che le leggi antisemite furono di fatto «inscritte» nella lotta antiborghese44. Dietro tutte queste figure si intravedeva il vecchio italiano. I vizi dello «spirito borghese» erano simili a certi suoi vizi tradizionali, specialmente lo scetticismo, il cinismo, la scarsa propensione alla lotta, l’individualismo «egoistico». Più in generale, questi tratti assimilavano tutti gli italiani a borghesi potenziali, e quindi li rendevano intrinsecamente riluttanti, se non apertamente contrari, a cooperare con la missione del fascismo, diffidenti nei confronti dei suoi tentativi di instillare una nuova fede nell’animo di un popolo vecchio e scettico. Nello stesso discorso del 1938 in cui espose al Mussolini, Opera omnia, vol. 44, cit., pp. 264-265 (discorso del 1941). Sui borghesi e sul tipo di mascolinità esaltata dal fascismo cfr. S. Bellassai, The Masculinity Mystique: Antimodernism and Virility in Fascist Italy, in «Journal of Modern Italian Studies», 10, 2005, pp. 314-315. 43 Sulla repressione dell’omosessualità intesa come crimine politico cfr. L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano 2005, cap. 4. 44 Cfr. S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, Laterza, RomaBari 1991, p. 283. 41 42

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consiglio nazionale del Pnf lo scopo delle misure antiborghesi e delle leggi razziali, Mussolini respinse con queste parole le critiche alla nuova normativa che imponeva la divisa militare anche al personale civile: «In Italia tutto deve essere militare, tutto in Italia deve essere militarizzato [...]. Il pittoresco ci ha fregati per tre secoli»45. Anche dopo essere riuscito a realizzare quella creazione davvero maschia, l’«impero», Mussolini non sapeva ancora con sicurezza fino a che punto il «vecchio italiano» era cambiato. Ma con le nuove generazioni si poteva fare qualcosa di più.

Il «nuovo italiano»: disciplinato, iper-mascolino, militarizzato Le generazioni più giovani offrivano un materiale più malleabile per i programmi del regime, ma i nuovi valori andavano insegnati anche a loro. Nella marea dei nuovi libri di testo e di letteratura pedagogica che videro la luce durante il regime, il carattere e la volontà occupavano un posto preminente. Dalla fine degli anni Venti in poi cominciarono a essere pubblicati libri quali Il nuovo Italiano. Manuale per l’educazione della volontà del popolo italiano, e Dobbiamo fare gli italiani (una ristampa dei Miei ricordi di d’Azeglio, in versione purgata e con maggiore enfasi sulla volontà), il cui proposito era di insegnare ai giovani i fondamenti di un carattere disciplinato, anzi il carattere tout court 46. Alcuni esperti di pedagogia proponevano nuove tecniche scientifiche di formazione del carattere nel contesto del nuovo regime: ad esempio Michele Maria Tumminelli, preside di una scuola media superiore di Milano, proponeva una sua «biopedagogia» o «educazione totalitaria» che combinava esami medico-biologici e psicopedagogici consigliando, tra l’altro, l’uso del cinematografo durante le lezioni per catturare la totale attenzione degli scolari e inMussolini, Opera omnia, vol. 29, cit., p. 192 (discorso del 1938). E. Casalis, Il nuovo italiano. Manuale di educazione della volontà per il popolo d’Italia, Lattes, Torino 1928 (vincitore di un premio in un concorso organizzato dal Touring Club Italiano); M. de Rubris, Bisogna fare gl’italiani. Aforismi di Massimo d’Azeglio, Vallecchi, Firenze 1926. Questo autore era specializzato in pubblicazioni didattiche patriottiche e in particolare nella divulgazione delle opere di d’Azeglio. 45 46

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fluire sul loro «subcosciente»47. Il modello formativo più adottato era comunque quello dell’organizzazione militare. In un libro per l’infanzia intitolato La guerra e il Fascismo spiegati ai ragazzi un padre diceva al figlio: «Ecco, Puccio, il popolo italiano, che fu proverbialmente indisciplinato, e ora è inquadrato come nessun altro al mondo»48. In effetti, al di là della riforma del sistema scolastico, che introdusse un principio più stretto di gerarchia nel sistema educativo, varie organizzazioni per l’infanzia e la gioventù inquadravano gli italiani dai 6 ai 21 anni e li obbligavano a socializzare in una serie interminabile di esercitazioni settimanali e di rituali a livello locale e nazionale49. I giornali presentavano esempi del «nuovo italiano» perché il popolo li imitasse: uno di questi era un certo Cristiano Lipperi, che si diceva avesse lavorato quarantotto ore di seguito per poter partecipare a un’esercitazione militare e si fosse distinto per il suo coraggio. Anche le donne erano coinvolte nel progetto educativo totalitario, ma nel loro caso i fascisti stavano attenti a non usare il vocabolario della novità per evitare di apparire propagandisti della «nuova donna» moderna, idea che detestavano. Anche se il carattere era connotato in termini di genere e si riferiva agli uomini nel loro ruolo pubblico, il progetto fascista di rifare gli italiani riguardava anche le donne, per quanto in maniera subordinata. Infatti il fascismo da un lato metteva in risalto il modello della donna «femminile» subordinata all’autorità patriarcale – prima di tutto sposa fedele e madre – e dall’altro irreggimentava anche le donne nelle organizzazioni di massa e nelle mobilitazioni politiche50. Come è ben noto, la stessa maternità venne posta al servizio dello Stato, fu politicizzata e alle donne fu affidato un ruolo nazionale, quello di riproduttrici della razza. Inoltre, dal momento in cui il fascismo cominciò ad avventurarsi nelle sue aggressioni mi47 M.M. Tumminelli, L’educazione del carattere e la bonifica umana nella biopedagogia, Editrice «La scuola di oggi», Milano 1934, p. 19. L’autore traeva ispirazione da Nicola Pende e dalla sua idea di «bonifica umana». 48 L. Pollini (a cura di), Guerra e fascismo spiegato ai ragazzi, Utet, Torino 1934, citato in Passerini, Mussolini immaginario cit., p. 193. 49 Su questo aspetto cfr. T. Koon, Believe, Obey, Fight. Political Socialization of Youth in Fascist Italy, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1985. 50 Sull’approccio del regime fascista alle donne cfr. V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, trad. it., Marsilio, Venezia 1993.

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litari, veniva enfatizzato anche il modello della donna cittadina militante che collaborava nello sforzo bellico51. Tuttavia, quando parlava del carattere, Mussolini non aveva in mente le donne: si trattava di un concetto strettamente maschile, e, come in precedenza, l’obiettivo centrale del progetto della formazione del carattere erano gli uomini. E i maschi italiani erano più fortunati delle femmine perché avevano un esempio bell’e pronto da imitare, lo stesso Mussolini – anche se di fatto era implicito che imitare un esemplare così superiore di virilità non era davvero possibile. Fin dai primi tempi Mussolini ebbe ammiratori e apologeti che ne scrivevano la biografia vedendo in lui, come disse uno di questi biografi, l’incarnazione delle «più schiette qualità della stirpe. È uomo d’azione; logico e a un tempo stesso acuto pensatore; d’intuizione rapida, temperamento esuberante, polemico, volitivo, passionale, moderno [...]. Taciturno, lavoratore, coraggioso, tenace»52. L’elenco era assai più lungo e componeva ovviamente un repertorio di qualità desiderate piuttosto che di doti reali. Nelle sue continue apparizioni in pubblico Mussolini stava sempre ben attento a trasmettere l’idea della virilità e della forza che pretendeva dagli italiani. I biografi adulatori misero subito in rilievo le caratteristiche speciali e le virtù del nuovo leader. In una delle prime biografie pubblicate, Prezzolini presentò un ritratto psicologico e antropologico dell’uomo e del politico definendolo «il tipo del perfetto classico italiano. La sua testa da romano e i suoi gesti da uomo di parte del medioevo o della rinascita vi si prestano bene. La sua figura che lo fa somigliare all’‘uomo di parte’ medievale o del Rinascimento [...]. In un certo senso è un vero italiano, un forte italiano, un condottiero come dicono gli stranieri [...] un uomo sul tipo del Napoleone idealizzato da Taine»53. Prezzolini sosteneva che per essere popolare tra gli italiani e adeguarsi alla «teatralità» del loro gusto e delle loro tradizioni, il duce aveva accentuato l’appa51 M. Fraddosio, La donna e la guerra. Aspetti della militanza femminile nel fascismo: dalla mobilitazione civile alle origini della Saf nella Repubblica Sociale, in «Storia contemporanea», 19, 1989, pp. 1105-1181. 52 P. Gorgolini, Il fascismo spiegato al popolo, Paravia, Torino 1925. 53 G. Prezzolini, Benito Mussolini, Formiggini, Roma 1924 (ristampato in E. Gentile, Giuseppe Prezzolini e «La Voce», Sansoni, Firenze 1976. La citazione è a p. 193).

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rato teatrale della sua politica. Ma allo stesso tempo, diceva, Mussolini era anche un «uomo moderno», una «forza» che era emersa al momento giusto e che contrastava con l’arretratezza di tutto il paese rispetto agli altri paesi capitalisti: gli italiani non avevano ancora sviluppato un moderno senso del tempo e del comfort, e la loro maggiore aspirazione era un posto di lavoro «da parassita» nella burocrazia statale. Agli occhi di Prezzolini, Mussolini era un «anti-italiano» che voleva trasformare i suoi compatrioti introducendo un ritmo di vita più moderno54. Un paio di anni dopo anche Margherita Sarfatti, nella sua famosa biografia, dipinse il duce come un uomo che era in grado di dominare il paese perché possedeva «le qualità e i difetti opposti all’indole nazionale»55. Per molti fascisti, e per quei nazionalisti conservatori che confluirono nel fascismo, il nuovo italiano doveva essere plasmato secondo il modello della «romanità». Per il fascismo la romanità era un concetto fondamentale, e non solo come parte della nuova «religione politica» che era determinato a creare56. Il regime impose il segno della romanità sia nell’ambiente fisico (come testimonia l’estrema valorizzazione archeologica delle vestigia dell’antica Roma) sia nell’iconografia fascista, facendo proprio il simbolo dell’unità e dell’autorità di Roma, il fascio di verghe affiancate o sormontate da una scure57. Romanità significava senso dello Stato, ordine e autorità: in altri termini la disciplina del corpo sociale e politico. A sua volta, questa disciplina era alla base del potere e della forza dello Stato, un ulteriore valore della romanità su cui doveva essere forgiata la nuova Italia58. Per tutti coloro che vedevano nel fascismo soprattutto una restaurazione conservatrice, romanità significava quasi esclusivamente ordine e disciplina. Nel 1925, in un numero di «Politica», la rivista dei nazionalisti che nel 1923 erano confluiti nel Partito fascista, Francesco Coppola dichiarò che la «rivoluzione fascista» aveva affermato il principio 54 Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato Nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 138. 55 Passerini, Mussolini immaginario cit., p. 65. 56 E. Gentile ne ha sottolineato l’importanza in Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 146-154. 57 A. Giardina e A. Vauchez, Il mito di Roma: da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 224-226. 58 Ivi, p. 218.

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dell’ordine e dell’autorità di Roma contro le «ideologie barbariche – germano-ebraiche – dell’individualismo, del materialismo e dell’anarchia» nonché contro la «minaccia» dell’«egemonia americana». Ora era l’Italia, e non la Francia, a portare il vessillo della rinascente latinità59. Come ha osservato Andrea Giardina, «l’emblema fascista indicava perfettamente i valori della disciplina e dell’ordine cui il nuovo regime intendeva richiamare gli italiani [...]. All’Italia solare e spensierata dei suonatori di mandolino [...] si sostituiva l’Italia austera e truce del fascio littorio»60. La romanità, tuttavia, aveva anche altri significati. Il fascismo non era solo conservazione o un ritorno ai valori del passato ma anche rivoluzione, e per i fascisti che sottolineavano la natura rivoluzionaria del regime il mito di Roma significava ben più che imposizione dell’ordine e della disciplina. Per Mussolini il culto di Roma non era una celebrazione della grandezza del passato fine a se stessa, ma un mito funzionale alla riforma della società italiana61. Mussolini intendeva fare degli italiani i «romani della modernità», e cioè, come ha fatto notare Emilio Gentile, «una nazione [...] forgiata secondo il modello militare del ‘cittadino-soldato’»62. I riferimenti alla romanità erano innumerevoli, al punto che secondo alcuni era stata ridotta a uno «slogan vuoto e retorico», come lamentava il teorico razzista Julius Evola nel 1942 sulle pagine della rivista «Carattere». Romanità, continuava Evola, doveva significare «riportare alla luce qualità che erano appartenute ai romani», ad esempio la sobrietà63. Evola sollevava anche la questione di quale Roma dovesse essere presa a modello. Si poteva guardare con rispetto solo alla Roma delle origini e alla Roma repubblicana, ma certamente non a quella della «decadenza», soprattutto perché rappresentava una società mista sotto il punto di vista razziale, idea che faceva inorridire i fascisti. Malgrado tutte le loro auto-glorificazioni, i fascisti non erano 59 F. Coppola, L’idea imperiale della nazione italiana, in «Politica», 8, 1925, ora in F. Gaeta (a cura di), La stampa nazionalista, Cappelli, Bologna 1965, p. 39. 60 Giardina e Vauchez, Il mito di Roma cit., p. 226. 61 Gentile, Il culto del littorio cit., p. 150. 62 Cfr. E. Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello stato nazionale, in G. Spadolini (a cura di), Nazione e nazionalità in Italia. Dall’alba del secolo ai nostri giorni, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 87. 63 J. Evola, Riscoprire la romanità, in «Carattere», 2, 1942, p. 5.

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affatto certi della loro capacità di cambiare gli atteggiamenti degli italiani, o anche quelli degli stessi membri del partito, molti dei quali – lo si sapeva bene – si erano iscritti principalmente per motivi opportunistici dopo che il fascismo si era impadronito del potere. Sulla «Cronaca fascista», la rivista diretta da Giuseppe Bottai, uno dei gerarchi più potenti e degli intellettuali più influenti del regime, gli articoli che rivelavano ansietà di questo tipo erano all’ordine del giorno. Le crepe dell’edificio erano visibili da parecchio tempo. Nell’acceso dibattito sulla gioventù che riempiva le pagine della stampa fascista all’inizio degli anni Trenta erano in molti a denunciare l’indifferenza delle generazioni più giovani nei confronti del fascismo e il loro opportunismo: sembrava che si preoccupassero solo di trovare un lavoro, e che si iscrivessero al partito soprattutto a questo scopo64. Altri facevano notare come certi giovani abusassero degli slogan fascisti e in particolare del classico «me ne frego», che applicavano anche al regime, e come si appropriassero della retorica fascista per uso personale e carrieristico65. Questi critici volevano che i giovani aderissero «spontaneamente» e sinceramente al fascismo, volevano vedere giovani desiderosi di «assumersi delle responsabilità» e che osassero anche avanzare critiche, e non individui che parlavano come pappagalli il linguaggio fascista per il proprio tornaconto personale66. Se non si poteva mai essere sicuri della sincerità dell’adesione al fascismo, si poteva sempre ricorrere all’imposizione di segni esteriori di uniformità. All’inizio degli anni Trenta, nel tentativo di radicalizzare la fascistizzazione dell’Italia, il segretario del partito Achille Starace decise di bandire la «logora, borghese e inglese»67 64 Cfr. in particolare R. Bilenchi, Indifferenza dei giovani, in «Critica Fascista», 11, 1933, p. 144. 65 Cfr. A. Nasti, I giovani e il regime. 3 presentazioni, in «Critica Fascista», 11, 1933, pp. 293-294. 66 Certi articoli di «Critica Fascista» sembrano quasi una presa in giro del regime: cfr. per esempio Quidam, Dal dire al fare, in «Critica Fascista» 11, 15, 1933, pp. 307-308. L’articolo attacca gli italiani che amano certi politici solo per la loro abilità oratoria, e lamenta che gli italiani parlano troppo quando viaggiano in treno. Ma, aggiunge, Mussolini ha cambiato tutto questo: «Questo popolo chiacchierone messo nelle mani di Mussolini e governato dal Fascismo, ha parlato così poco in dieci anni che nessun altro popolo è riuscito a costruire quanto lui». 67 R.J.B. Bosworth, Mussolini, Arnold, London 2002, p. 314 [trad. it., Mussolini. Un dittatore italiano, Mondadori, Milano 2004].

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stretta di mano e decretò che dovesse essere sostituita dal «virile» saluto romano. Inoltre ci si aspettava che i militari e i membri del Partito fascista marciassero con il «passo romano da parata», locuzione adottata da Mussolini per spacciare il passo dell’oca come un’invenzione italiana68. Nel 1938 fu proibito anche l’uso del «Lei» come pronome di rispetto: si sosteneva fosse una «forma servile» che gli italiani avevano ereditato dal tempo della dominazione spagnola, e quindi estranea a loro. Per di più era di genere femminile e femminilizzava ulteriormente un popolo che invece doveva diventare più maschio. La forma trasmetteva un certo contenuto e un mutamento di forma, Starace ne era convinto, col tempo avrebbe cambiato i costumi69. Dopo l’occupazione dell’Etiopia e l’istituzione dell’impero, Mussolini si preoccupò particolarmente di instillare negli italiani una mentalità «imperiale». Nell’agosto del 1936, rivolgendosi a un’assemblea di funzionari del Pnf, Mussolini ammoniva: «Bisogna imparare a pensare imperialmente. Non è facile [...]. Pure bisogna assolutamente farsi una mentalità e una psicologia imperialiste»70. L’anno successivo, parlando a un gruppo di giornalisti e corrispondenti italiani in Libia, disse loro, modificando la famosa frase di d’Azeglio: «Ora che l’impero è fatto [...] dobbiamo fare gli imperialisti»71. Il significato pratico di questa affermazione fu chiarito dall’introduzione della legislazione del 1937 che proibiva le «unioni 68 Cfr. il discorso del 28 ottobre 1938 al Consiglio nazionale del Pnf in Mussolini, Opera omnia, vol. 29, cit., p. 188. 69 Cfr. S. Falasca-Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, cap. 3. Secondo Bosworth (Mussolini cit., p. 314), queste misure non sembrano avere avuto molto effetto sulla gente comune – e perfino Mussolini «stringeva sempre la mano ai visitatori» e continuava a dare del «lei» ai suoi ospiti più aristocratici e ai suoi collaboratori quali l’ambasciatore Fulvio Suvich (cfr. anche Suvich, Memorie cit., p. 21). 70 Mussolini, Opera omnia, vol. 44, cit., p. 187. 71 Ivi, p. 210. Le preoccupazioni di Mussolini avevano qualche fondamento. L’autorità coloniale era indebolita dall’esempio di illegalità che i coloni davano alla popolazione locale: invece di comportarsi «degnamente» come ci si sarebbe dovuti aspettare da una «razza padrona» indulgevano in relazioni sessuali con le donne del posto, cercavano di far denaro a spese dei locali e in genere li trattavano con disprezzo, generando così proteste e riluttanza a collaborare: cfr. G. Barrera, Mussolini’s Colonial Race Laws and the State-Settler Relations in Africa Orientale Italiana (1935-1941), in «Journal of Modern Italian Studies», 8, 2003, pp. 425-443.

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miste» con i popoli colonizzati e dalle leggi antisemite del 1938. Si pensava che le leggi razziali avrebbero aiutato la trasformazione degli italiani in una razza nuova, pura, padrona. Per Mussolini queste leggi dovevano avere funzionato, dal momento che in un altro discorso tenuto a un gruppo di gerarchi fascisti convenuti a Torino nel 1939 dichiarò che gli italiani erano «un popolo nato per l’impero [...]. C’è stata una lunga eclissi, ma noi l’abbiamo superata»72. Secondo il capo del fascismo, grazie all’approvazione delle leggi razziali gli italiani erano finalmente in grado di superare quel «complesso di inferiorità» razziale che avevano sviluppato perché convinti di non essere un popolo ma una «mescolanza di razze»73. Ma l’impero esigeva un impegno militare costante e questo a sua volta richiedeva individui desiderosi di battersi. Nella seconda metà degli anni Trenta, inoltre, i conflitti armati divennero all’ordine del giorno. Nell’estate del 1936, poco prima dell’intervento nella guerra civile di Spagna, Mussolini ricordò a un gruppo di gerarchi che era specialmente necessario «sviluppare in tutto il popolo italiano la mentalità guerriera. Le battaglie si vincono con lo spirito»74. E in un discorso ai gerarchi del partito riuniti a Roma (dopo che nel marzo 1937 le truppe italiane in Spagna erano state sconfitte nella battaglia di Guadalajara) dichiarò, in tono piuttosto difensivo: «Gli italiani sono il primo popolo sulla terra per coraggio individuale [...]. Ma ci sono qualità che si dimostrano ancora manchevoli: per esempio, noi non sappiamo odiare. Ci manca quella che si potrebbe chiamare la tecnica dell’odio»75. Considerando i massacri di civili di cui i soldati italiani si resero responsabili durante l’aggressione all’Etiopia e nei Balcani durante la seconda guerra mondiale, le sue dichiarazioni hanno ben poco senso, anche ammettendo che l’odio motivava solo in parte questi massacri. Ma Mussolini era perennemente in lotta contro «il diffuso stereotipo straniero che dipingeva gli italiani come mediocri combattenti»76. Poco prima di entrare nella guerra che pensava che

Mussolini, Opera omnia, vol. 44, cit., p. 231. Ivi, vol. 29 (ed. 1959), cit., p. 190 (discorso al Consiglio nazionale del Pnf, ottobre 1938). 74 Ivi, vol. 44, cit., p. 128 (agosto 1936). 75 Ivi, p. 204 (aprile 1937). 76 Bosworth, Mussolini cit., p. 317. 72 73

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Hitler fosse sul punto di vincere, Mussolini continuava a insistere sull’idea che la guerra fosse una prova, idea che come abbiamo visto era già diventata un cliché negli scritti nazionalisti del periodo che aveva preceduto la prima guerra mondiale. Nel 1940, di fronte al consiglio editoriale di «Libro e moschetto», una pubblicazione milanese per la gioventù fascista, dichiarò: «La guerra è la prova dei popoli [...]. La guerra mette proprio a nudo le qualità o le deficienze dei popoli. Da qui non si scappa»77. Oltre a essere una prova d’esame, la guerra era anche uno strumento per temprare il carattere dei deboli: nel luglio 1941, dopo un attacco dei bombardieri inglesi su Napoli, Mussolini osservò: «Sono lieto che Napoli abbia delle notti così severe. La razza diventerà più dura. La guerra farà dei napoletani un popolo nordico». Non sappiamo se stesse scherzando o se parlasse seriamente. Nel suo diario, Ciano annotò il proprio scetticismo sull’efficacia del metodo78. Il 20 maggio 1941 l’editoriale di apertura del mensile «Carattere» ricordava ai lettori che Mussolini insisteva costantemente sul carattere degli italiani perché percepiva nel «‘fatto carattere’ la sostanza più profonda, più intima, più scottante e [...] difficoltosa da modificare e da fissare in forme nuove che siano potenti, dritte, armoniose come colonne romane»79. Il periodico uscì in un momento in cui, dopo appena un anno di guerra, il regime si trovava ad affrontare gravi difficoltà in campo militare. In realtà, i problemi erano cominciati già nell’autunno del 1940 con il disastroso attacco contro la Grecia, seguito da una serie di ripiegamenti in Libia e dalla perdita dell’Etiopia nella primavera del 1941. Sul fronte interno, i giornalisti e gli intellettuali erano mobilitati – come al solito – per dare conto della difficoltà della situazione e fornire commenti e spiegazioni. Pubblicazioni come «Carattere» orientavano i lettori a pensare che parte della responsabilità ricadeva sul carattere degli italiani e sul fatto che la rivoluzione fascista non era finita: anzi, per quanto riguardava il cambiamento delle

Mussolini, Opera omnia, vol. 44, cit., p. 244 (aprile 1940). Ciano, Diario cit. (11 luglio 1941). 79 L. Businco, Caratteri della razza italiana rivelati dal lavoro, in «Carattere», 1, 1941. Fino al 1940 la rivista era stata un periodico letterario dal titolo «Caratteri». Nel 1941 cambiò titolo e acquisí anche il sottotitolo «Rivista del lavoro italiano. Mensile di politica e documentazione». 77 78

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abitudini e la trasformazione del carattere era appena cominciata. Dal momento che la guerra era un «grande fatto morale», come faceva notare un altro collaboratore del periodico, la battaglia sul fronte del carattere doveva essere continua80. Gli articoli della rivista rispecchiavano il punto di vista di Mussolini, cioè che il carattere degli italiani lasciava molto a desiderare, e che proprio questo fatto impediva la realizzazione di grandi imprese. La sua convinzione fu rafforzata dall’andamento della guerra: nel 1941 Mussolini ormai vedeva il carattere italiano come il fatale anello debole nello sforzo bellico del paese. Frustrato al pensiero che gli italiani erano cambiati molto poco sotto il suo regime81, finì per incolparli anche delle sconfitte militari. Infatti, come osserva Giovanni Aliberti, dopo il 1941 e in conseguenza dei ripetuti fallimenti delle forze armate Mussolini sviluppò un «antitalianismo radicale»82. Naturalmente era facile addossare la colpa delle difficoltà e delle sconfitte militari al carattere, alla mancanza di disciplina e allo scarso spirito combattivo degli italiani, quando in realtà la ragione principale dei problemi era la decisione di Mussolini di entrare in guerra malgrado fosse ben consapevole della insufficiente preparazione militare del paese. Ma è possibile che Mussolini non stesse nascondendo semplicemente le proprie responsabilità: come abbiamo visto la questione del carattere era ben presente nella sua retorica fin dai primi anni del regime, e vi ritornava sempre più spesso nei discorsi e nelle conversazioni con i suoi più stretti collaboratori83. In pubblico, tuttavia, il tono di Mussolini era piuttosto diverso. Dopo il maggio 1941 – quando gli insuccessi italiani in Grecia e in Libia erano stati controbilanciati solo dall’intervento dei tedeschi –, rivolgendosi a un uditorio di funzionari del Pnf, Mussolini (che esibiva allora evidenti segni di crisi psicologica)84 dichiarò che il popolo italiano stava mostrando «una forza di carattere metallica» e stava offrendo «un esempio veramente splendido di disciplina moP. Pennini, Il nostro glorioso passato, in «Carattere», 6, 1941. Cfr. De Felice, Mussolini il Duce, vol. 1, cit., p. 148. 82 Aliberti, La resa di Cavour cit., p. 147. 83 Secondo Gentile, Mussolini «aveva interpretato alla lettera il mito della rigenerazione della razza italiana»: La grande Italia cit., p. 175. Questo è vero, ma Gentile esagera il grado di coerenza del pensiero mussoliniano. 84 Bosworth, Mussolini cit., p. 378. 80 81

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rale» in mezzo a grandi difficoltà. E poi, negando l’evidenza, dichiarò che il problema non era di tipo organizzativo ma era interno al partito: nasceva da coloro che non nutrivano una forte fede nella causa, i ricchi, i borghesi e i codardi85. Nel luglio 1941, in un discorso a Mantova, si lanciò in un panegirico del «meraviglioso popolo italiano», grazie al quale «si acquisiva l’assoluta certezza» della vittoria, avvertendo anche i «banchieri e i plutocrati oltremare» che la «giustizia divina» chiedeva più «giustizia» nel mondo86.

L’italiano autentico? Arriva l’arcitaliano Dal momento che i discorsi di Mussolini venivano riportati sulla stampa, trasmessi per radio e proiettati nelle sale cinematografiche, la retorica mussoliniana costituiva un aspetto dominante del ventennio, quel «regno della parola» senza eguali – almeno prima dell’avvento di mezzi di comunicazione più potenti. I discorsi di Mussolini «abusavano» del linguaggio, nel senso che lo rendevano meno referenziale e più emozionale, ma contribuivano a popolarizzare temi e motivi che in precedenza circolavano soprattutto negli ambienti delle élites istruite del paese. I continui interventi verbali di Mussolini diedero al tema del carattere italiano un’esposizione che prima non aveva avuto mai, ma anche gli intellettuali fascisti dettero il loro contributo al concetto, sviluppando altri aspetti di questa sindrome narcisistica. Negli anni del regime, i pronunciamenti degli intellettuali fascisti sull’italianità concernevano più spesso la questione dell’identità (chi erano gli italiani in quanto popolo, etnicamente e culturalmente, e che cosa rappresentavano) che non la problematica del carattere propriamente detto, cioè le inclinazioni e le disposizioni «morali». Forse questo era inevitabile, perché si pensava che il regime stesse sottoponendo il carattere italiano, inteso appunto come un complesso di disposizioni, a un processo di trasformazione. Tuttavia tra i discorsi e i progetti in materia di identità sviluppati da vari intellettuali la questione del carattere non fu di85 Mussolini, Opera omnia, vol. 44, cit., pp. 264-265 (discorso ai funzionari del Pnf di Milano). 86 Ivi, pp. 266-267.

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menticata, ma venne articolata in maniere nuove e differenti. Fu in questo contesto che nacque l’«arcitaliano», una ulteriore inflessione del discorso del carattere marcata da un’esaltazione aggressiva e recisa di tutto ciò che si supponeva italiano (in realtà, solo di pochi aspetti selezionati). Qualcuno ha visto nella figura dell’arcitaliano l’incarnazione dell’«uomo nuovo» di Mussolini87. Questa interpretazione non è infondata, ma l’«arcitalianismo» rappresentò prima di tutto un completo rovesciamento del discorso in negativo del carattere degli italiani. Colui che sviluppò in maniera particolarmente esplicita questa nuova declinazione del discorso del carattere fu uno scrittore vicino allo squadrismo toscano, Kurt Erich Suckert, più noto col nome di Curzio Malaparte88, le cui idee trovarono sostegno ed espressione specialmente nell’ambiente di «Strapaese», il gruppo di Mino Maccari, direttore della rivista «Il Selvaggio», e del suo (a volte) alleato Leo Longanesi, direttore dell’«Italiano»89. Assumendo spesso un tono provocatorio, questi scrittori davano voce alle idee di quella componente squadrista del fascismo che fu relativamente emarginata verso la metà degli anni Venti, quando Mussolini consolidò il suo potere con l’appoggio dei conservatori90, e declinavano l’identità italiana in termini esplicitamente antieuropei, antilluministi e antimoderni, esaltando il cattolicesimo e gli atteggiamenti «solari» degli italiani, e costruendo l’italianità come una sorta di antitesi «antropologica» al liberalismo «nordico». Il primo bersaglio della polemica di Malaparte fu il presunto antitalianismo delle élites liberali, che a suo giudizio avevano voluto trasformare gli italiani in anglosassoni. In Italia barbara (1925) Malaparte attaccò d’Azeglio e perfino Mazzini per le loro critiche nei confronti degli italiani, e ne mise in questione il «patriottismo» (terCfr. Aliberti, La resa di Cavour cit., p. 110. Suckert, nato in Toscana da madre italiana e padre tedesco, cominciò a usare il suo pseudonimo italiano nel 1925. 89 Per una rassegna degli intellettuali fascisti e delle loro riviste nei loro rapporti col regime cfr. L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1974. Per un’analisi più recente e che usa un’idea più ampia di cultura cfr. R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2001. 90 Cfr. Mangoni, L’interventismo della cultura cit., pp. 135-137. 87 88

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mine che secondo lui non era italiano ma di derivazione francese), bollandolo come un’imitazione di idee francesi e inglesi, dal giacobinismo al liberalismo. In realtà, diceva, i patrioti erano i veri nemici dei «veri» italiani. A questo tipo di patriottismo egli preferiva «l’antipatriottismo degli italiani autentici, o barbari»91. Inutile a dirsi, Malaparte si presentava come il portavoce dell’«Italia autentica, tradizionale, storica, antica, popolaresca e ingenua»92. Il barbaro era migliore perché non era stato contaminato e macchiato dallo «straniero». Al contrario, i «bastardi» seguaci di d’Azeglio avevano cercato di rendere gli italiani moderni ed europei, impresa impossibile dal momento che erano «per natura improprii a diventare moderni»93. Ciò di cui avevano bisogno era una rivoluzione che li avrebbe messi in grado di riacquistare «i modi propri della [loro] civiltà naturale e storica»94. In un’altra sezione dell’Italia barbara, intitolata Elogio del buon italiano, Malaparte elogiava «l’uomo del Guicciardini» (che De Sanctis aveva reso il simbolo dell’italiano dedito esclusivamente al perseguimento del proprio interesse privato), e in varie parti del libro esaltava il fascismo, in cui identificava la continuazione della Controriforma in contrapposizione alle tendenze «disgreganti» della Riforma. Queste affermazioni volevano ribaltare completamente il punto di vista di quei liberali – Piero Gobetti e alcuni suoi collaboratori che scrivevano sulla rivista «La Rivoluzione Liberale» e che esamineremo nel prossimo capitolo – che lamentavano l’effetto pernicioso della mancata Riforma protestante in Italia95. È chiaro quindi che arcitalianismo non significava accettazione di tutto ciò che era italiano, ma piuttosto un’arbitraria selezione di alcune tradizioni e tratti storici elevati allo status di segni «auten91 C. Malaparte, Italia barbara, Piero Gobetti, Torino 1925. La citazione è ripresa da una edizione più recente: C. Malaparte, L’Europa vivente e altri saggi politici, Vallecchi, Firenze 1961, p. 500. 92 Malaparte, L’Europa vivente cit., p. 494. 93 Ivi, p. 506. 94 Ibidem. 95 Malaparte aveva inizialmente collaborato con «La Rivoluzione Liberale». In un articolo del 1922 formulava già alcune delle idee presenti in Italia barbara, ad esempio la mancanza di inclinazione degli italiani verso la modernità: cfr. M. Gervasoni, L’intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, La Nuova Italia, Firenze 2000, p. 237. Su Gobetti si veda il prossimo capitolo.

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tici» della cultura popolare. Malaparte sviluppò ulteriormente questa posizione in una serie di poesie satiriche che pubblicò in una raccolta, L’arcitaliano, i cui aspetti più caratterizzanti erano un tono ostentatamente plebeo, la volgarità e un esasperato machismo96. Un analogo rifiuto di «idee europee» – ma in realtà un’espulsione di componenti integrali della cultura italiana – si riscontrava nel «Selvaggio», l’organo principale di «Strapaese». Nel primo numero, il direttore Mino Maccari dichiarava che lo squadrismo era stato una reazione al «rammollimento degli italiani» che era stato aggravato da opere sentimentali come Cuore di De Amicis, il più popolare e tipico libro di testo dell’Italia liberale. La retorica discriminatoria del «vero italiano» dominava anche la prosa di questa rivista che si dilettava nell’attaccare altre riviste cui era permesso operare nella sfera pubblica fascista. Dopo l’uscita del primo numero del «900» di Massimo Bontempelli, una rivista letteraria che proponeva una variante italiana di modernismo97, «Il Selvaggio» cominciò ad attaccare anche il modernismo in quanto prodotto di una cultura europea essenzialmente estranea all’Italia, e abbracciò in pieno l’orientamento ruralista del regime. Il ruralismo si fondava principalmente sull’idea che il contadino fosse il depositario e il difensore naturale della tradizione, al riparo dalla minaccia delle nuove maniere di vivere e delle abitudini cosmopolite e specialmente del nuovo modello «americano» di società. Esso era il vero rappresentante di una antichissima identità italiana. Inoltre si pensava che i «rurali» – un nuovo termine coniato per indicare tutti gli abitanti delle campagne, senza distinzione di classe – fossero più inclini ad accettare l’autorità, contrariamente ai lavoratori dell’industria, indisciplinati e spesso soggetti alle pericolose influenze degli ambienti urbani. Naturalmente questa preferenza per i «rurali» non significava che il fascismo rifiutasse la modernità in tutte le sue manifestazioni: esso selezionava gli aspetti (l’industria e la tecnologia moderna) che coinciC. Malaparte, L’arcitaliano, La Voce, Roma 1928. Ben-Ghiat ha fatto notare recentemente che malgrado le loro differenze sia «Strapaese» che «Novecento» cercavano di «formare una cultura nazionale di massa che rispondesse efficacemente alle sfide presentate dall’americanizzazione». Cfr. La cultura fascista cit., p. 48. 96 97

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devano con i suoi progetti e con gli interessi dei suoi sostenitori, e si liberava di quelli che non vi si confacevano (il liberalismo e la democrazia). Ruralismo significava prima di tutto il rigetto di una cultura urbana che il fascismo associava con i valori del cosmopolitismo e con la «sterilità»98, e la ricerca di una identità «vera» e «unicamente italiana», non contaminata da «influenze straniere». L’ossessione per la questione degli elementi che costituivano l’italianità «autentica» compariva anche nell’altro principale organo di stampa di «Strapaese», la rivista di Leo Longanesi «L’Italiano», che iniziò le pubblicazioni nel 1926. Uno dei temi ricorrenti, ipostatizzato da questa rivista fin dal primo numero, era il contrasto spirituale/culturale tra i popoli «nordici» e quelli «meridionali»: «I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo [...]. L’Italia ha il sole, e col sole non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, l’entusiasmo, l’armonia [...] il fascismo, l’antidemocrazia, Mussolini»99. Gli stereotipi nazionali abbondavano, e persino le preferenze individuali venivano fatte derivare dai tratti essenziali della nazionalità. Dato che era ruralista come «Il Selvaggio», anche la rivista di Longanesi dichiarava che i contadini erano l’incarnazione dei «veri italiani»100. La «sostanza genuina dell’italiano nuovo» andava cercata «dove non [era] arrivata l’influenza contaminatrice della civiltà moderna», e all’imitazione di modelli stranieri, così comune in tutta la storia italiana, si doveva preferire la tradizione locale. Il discorso dell’autenticità intesa nel senso di purezza culturale, ruralità e tradizione portava evidentemente a molte esclusioni, non solo di tutto ciò che era urbano ma anche di ciò che era culturalmente ibrido e cosmopolita, e, naturalmente, dell’epitome di tutto questo, l’ebreo. Non c’è da sorprendersi se negli scritti degli esponenti di «Strapaese» era presente un forte antisemitismo. Razza e carattere erano in realtà inestricabilmente legati. 98 Sulla sterilità che il fascismo associava alle città cfr. D.G. Horn, Social Bodies. Science, Reproduction and Italian Modernity, Princeton University Press, Princeton 1994, cap. 5. 99 Cfr. l’editoriale in «L’Italiano», 1, 1926. 100 L. Longanesi, La crisi e l’estetica, in «L’Italiano», 11, 1932.

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Razza e carattere: da mediterraneo ad ariano nordico La «questione» del carattere degli italiani affiorava anche nella inflessione più esplicitamente razziale del discorso dell’italianità. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, i concetti di razza e il razzismo erano stati sempre ben presenti nella società italiana già prima del fascismo, anche se non erano al centro del dibattito pubblico e della vita politica come invece avvenne nella seconda metà degli anni Trenta, quando Mussolini decise che il razzismo doveva essere, come ha osservato Aaron Gillette, «la forza motrice della creazione dell’uomo nuovo fascista»101. Già prima del 1938, l’anno in cui il regime introdusse le infami leggi razziali, il razzismo antisemita veniva diffuso attraverso pubblicazioni fasciste come «La vita italiana» di Giovanni Preziosi; nelle colonie le pratiche di segregazione razziale avevano già preceduto l’istituzionalizzazione del razzismo con le misure del 1937 contro le unioni miste102. Mentre la definizione razziale dell’Altro era relativamente semplice, l’eterogeneità fisica della popolazione italiana costituiva un problema per i teorici della razza, che incontravano difficoltà a trovare un criterio comune per la classificazione degli italiani in termini di razza. Durante il fascismo molti seguirono un «determinismo di tipo non biologico», nel senso che consideravano gli italiani una razza definita principalmente in termini spirituali/culturali attraverso il mito di Roma, che si presumeva avesse in qualche modo unificato la popolazione della penisola103. Questo «razzismo spirituale» sembrava una soluzione conveniente alla vexata quæstio della «razza italiana»104, ma i teorici non raggiunsero mai una posizione condivisa in materia. Alle teorie della razza «ariana nordica» si contrapponeva la teoria di Giuseppe Sergi, secondo la quale gli italiani appartenevano alla «razza 101 A. Gillette, Racial Theories in Fascist Italy, Routledge, London-New York 2002, p. 53. 102 Cfr. N. Labanca, Oltremare, Il Mulino, Bologna 2002, p. 355. 103 G. Gabrielli, Razzismo, in V. de Grazia e S. Luzzatto (a cura di), Dizionario del Fascismo, vol. 2, Einaudi, Torino 2005, p. 475. 104 Il razzismo spirituale poteva anche essere più aristocratico come concezione: cfr. F. Germinario, Razza del sangue, razza dello spirito: Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2001.

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mediterranea», e che dopo la prima guerra mondiale ebbe notevole seguito. Lo stesso Mussolini ne fu un sostenitore fino al 1938, quando improvvisamente si convertì alla teoria biologica della razza ariana nordica subito prima dell’introduzione delle leggi antisemite105. Dal momento che il fascismo si era imbarcato in guerre attraverso le quali voleva costruire un’Italia imperiale, e che si era alleato con la Germania di Hitler, classificare gli italiani come «razza mediterranea» era molto più problematico, in quanto accettare questa tesi significava accettare non solo l’idea che gli italiani avessero origini africane (come sottolineava Sergi), ma anche gli aspetti psicologici «negativi» di questa razza. Non a caso nella prima stesura del loro «Manifesto della razza» (1938) gli scienziati razzisti sostenevano la necessità di tenersi a distanza dalle «cattive qualità che talora costituirono l’inferiorità di alcuni italiani», ovvero «eccessivo individualismo, sentimentalismo esagerato, mancanza di calma e di tenacia, ecc.», elementi che insieme componevano il «complesso psicologico dei mediterranei». Chiaramente, tutto ciò non si addiceva a una razza imperiale, per non parlare del fatto che «la presenza di popolazioni semitiche [nella razza mediterranea]» costituiva un ulteriore «problema»106. Queste considerazioni aiutano a spiegare perché alla fine degli anni Trenta Mussolini abbandonasse la teoria della razza mediterranea e abbracciasse quella della razza nordica, spinto anche dai suoi noti pregiudizi nei confronti dei meridionali. Come ha fatto notare Aaron Gillette, essendo stato sempre infastidito dall’idea che molti italiani soffrissero di un complesso di inferiorità causato dalla propaganda tedesca e anglosassone, Mussolini finì per adottare un atteggiamento del tipo «se non puoi batterli, unisciti a loro»107. Il problema della classificazione della razza italiana trovò così una soluzione, per quanto dettata dall’alto, che comunque non decretò la fine della teoria della razza mediterranea, anche se per le loro idee Sergi e i suoi allievi furono accusati di an-

105 Cfr. Gillette, Racial Theories cit., p. 56. Nell’intervista di Ludwig, Mussolini dichiarò anche che il 95 per cento della razza è «sentimento», e che si può «scegliere» la propria razza: cfr. Ludwig, Colloqui con Mussolini cit., p. 75. 106 M. Toscano, Marcello Ricci: una testimonianza sulle origini del razzismo fascista, in «Storia contemporanea», 27, 1996, p. 896. 107 Gillette, Racial Theories cit., p. 56.

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tipatriottismo e di anglofilia. All’estero la decisione non fece cambiare parere a coloro che avevano sempre messo in dubbio la purezza della razza italiana, e Alfred Rosenberg continuò a chiedersi «se gli italiani avessero abbastanza sangue ‘ariano’ nelle vene da permettere la riuscita dell’esperimento fascista»108. In ogni caso, i problemi di classificazione non impedirono mai all’italiano comune di pensare e di comportarsi da razzista, come la storia del colonialismo italiano e le leggi razziali, nonché la storia più recente, documentano ampiamente. Negli anni del fascismo l’ossessione nazionalista per il carattere nazionale e per la sua rigenerazione raggiunse forse il suo culmine: permeava la retorica del regime informando sia la politica interna che quella estera, ma evidenziava anche persistenti insicurezze e serviva a deflettere responsabilità politiche. Il carattere era concepito come un prodotto sia della razza che della storia, ed era naturalmente la componente determinata dalla storia che si riteneva potesse essere riformata. Che il fascismo sia riuscito o meno ad attuare quella «rivoluzione antropologica» che, secondo Emilio Gentile, Mussolini aveva in mente, è un’altra questione. In genere gli storici del fascismo tendono a liquidare forse troppo facilmente i risultati del progetto fascista di «rigenerazione totalitaria» che avrebbe dovuto creare un «nuovo italiano» e trasformare gli italiani in un popolo disciplinato di guerrieri con una forte coscienza imperiale. Le valutazioni di questi storici risentono in qualche modo dell’immagine stereotipata dell’italiano indolente, refrattario al cambiamento e sempre attaccato alla famiglia e al luogo di nascita più che allo Stato e alla nazione109. I dubbi espressi da Mussolini sugli esiti del suo tentativo di trasformazione del carattere non fanno ovviamente testo, dato che allo stesso tempo il dittatore cercava di addossare agli italiani la colpa delle sue sconfitte militari. Sconfitte che avevano certo più a che vedere con la scarsa preparazione militare e l’incompetenza del regime che non con la mentalità dei giovani italiani che furono mandati a combattere, la maggior parte dei quali aveva assorbito per anni l’iIvi, p. 44. Su questo punto cfr. le osservazioni di La Rovere in «Rifare gli italiani» cit., p. 75. 108 109

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deologia fascista. L’esperimento fascista non mancò di lasciare tracce durature su molti di coloro che ne furono soggetti, come gli antifascisti sapevano molto bene. E a proposito di antifascisti: il fatto che come fenomeno politico il fascismo era un’invenzione italiana e aveva preso piede in Italia forniva ai suoi oppositori nuova materia per riflettere sulla natura e sul carattere degli italiani. Nel marzo 1929, dopo essersi recato alle urne in occasione del plebiscito voluto da Mussolini, uno di questi oppositori che stava cominciando a maturare una coscienza antifascista, il giovane archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, annotava sul suo diario: «Elezioni politiche inquadrate dal fascismo. Perché ho votato No: contrario al principio e all’uomo che [...] riassume in sé tutto il decadimento morale del nostro tempo [...]. E poi sarà bastata la differenza di colore fra le schede del Sì e del No, che lascia la possibilità di esser intraveduta dall’esterno, per atterrire la vile razza italiana»110 [il corsivo è mio]. Il fascismo e la dittatura aggiunsero una ulteriore connotazione negativa all’autorappresentazione degli italiani, una connotazione ben poco lusinghiera e anzi davvero vergognosa che veniva ad aggiungersi alle tante ereditate dal passato. 110 R. Bianchi Bandinelli, Diario di un borghese, a cura di M. Barbanera, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 22. Sulle tecniche di controllo usate durante il plebiscito cfr. P. Dal Lago, Verso il regime totalitario: il plebiscito fascista del 1929, Cluep, Padova 1999, pp. 129-139.

VI «AUTOBIOGRAFIE» DELLA NAZIONE Abbiamo sempre saputo di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione. Piero Gobetti, 1922 Non è il totalitarismo [...] la disposizione d’animo più estranea al carattere italiano? Carlo Sforza, 1942

Un «paese di cortigiani», un «paese di servi», un «popolo organicamente anarchico, corrotto, molto servile»: così alcuni degli esponenti più autorevoli dell’opposizione antifascista si esprimevano riferendosi al paese in cui il fascismo era emerso per la prima volta, aveva conquistato il potere, e in un breve arco di tempo aveva seppellito lo Stato liberale1. In effetti, come è stato notato recentemente, gli antifascisti condividevano una visione assai cupa dell’Italia in cui si era imposto il movimento di Mussolini2. Considerando gli eventi e la situazione disastrosa in cui si trovavano, for1 Le espressioni sono rispettivamente di Piero Gobetti, Processo al trasformismo, in «La Rivoluzione Liberale», 21 ottobre 1924; Anna Kuliscioff, lettera a Filippo Turati, 8 gennaio 1925; e Giustino Fortunato, lettera a Ugo Zanotti Bianco, giugno 1923, tutte citate in P.G. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 59. 2 Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., p. 58.

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se era inevitabile che manifestassero la propria frustrazione con questo tipo di classiche invettive nei confronti degli italiani. Nell’ottobre 1922, quando dopo due anni di violenza fascista il re decise di nominare Mussolini primo ministro, la reazione del paese fu debole. Di fatto Mussolini fu subito sostenuto non solo dai conservatori e dai nazionalisti, ma anche da alcuni membri del neo-costituito Partito popolare e da esponenti liberali. Dall’altra parte dello schieramento politico, un’opposizione estremamente frammentata – i democratici, la componente progressista dei liberali e del Partito popolare, i socialisti (a loro volta divisi tra riformisti e rivoluzionari) e i comunisti – non era in grado di organizzare alcuna reazione efficace nei confronti del governo Mussolini, e non riuscì a capovolgere la situazione a proprio favore neanche dopo l’assassinio, nell’estate del 1924, del deputato socialista Giacomo Matteotti, quando nel paese l’indignazione era palpabile e lo stesso Mussolini temeva che il suo governo fosse sul punto di cadere. Le invettive prima citate mostrano che, lungi dall’essere patrimonio esclusivo e monopolio dei nazionalisti, il «topos retorico»3 del carattere italiano in negativo era presente anche in altri ambienti. Grazie anche alle sue vecchie radici nazional-patriottiche e alla notevole influenza dei «vociani» sulla cultura italiana degli inizi del Novecento, questo topos circolava anche negli ambienti liberali non nazionalisti e perfino in quelli socialisti, in particolare tra gli esponenti della nuova generazione divenuta adulta durante gli anni della guerra. «Non nazionalista», comunque, non significa «non patriottico». In effetti, anche molti pensatori e politici antifascisti scorgevano nella nazione il loro orizzonte e punto di riferimento principale, rilevavano la mancanza di modernità nella società italiana e aspiravano a un cambiamento radicale, seppure in modi diversi. Malgrado gli obiettivi e i contenuti del loro progetto di rinnovamento fossero sostanzialmente diversi da quelli dei nazionalisti vecchi e nuovi, essi condividevano parte della loro retorica e alcuni dei loro miti, e abbracciavano l’idea della necessità di una «riforma morale e intellettuale» degli italiani. E quando la crisi sociale e politica degli anni del dopoguerra 3 Prendo in prestito questa espressione da M. Gervasoni, L’intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, La Nuova Italia, Scandicci 2000, cap. 8.

VI. «Autobiografie» della nazione

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trovò una «soluzione» di tipo nuovo nella creazione della dittatura fascista, interpretarono il fascismo come un fenomeno che aveva profonde radici nella storia del paese e nel carattere del popolo: il fascismo era l’«autobiografia della nazione», come disse, con una locuzione destinata a notevole fortuna, Piero Gobetti, l’esponente più importante di un emergente liberalismo radicale. In questo capitolo si concentrerà l’attenzione sul modo in cui negli anni Venti e Trenta il topos del carattere nazionale divenne parte integrante del discorso di alcune importanti componenti della sinistra, e più in generale delle opposizioni antifasciste. Anche molti intellettuali e politici di questi milieux condividevano l’idea delle vecchie pecche morali degli italiani, e il modo in cui in questi circoli si spiegava il fascismo contribuì a consolidare la visione negativa del carattere nazionale. Ai loro occhi, tuttavia, il difetto peggiore degli italiani non era l’eccessivo individualismo, che pure non sparì completamente. La loro attenzione si concentrava soprattutto su tratti quali l’inclinazione al servilismo e l’opportunismo politico; il problema del cattolicesimo e dei suoi effetti sulla vita politica era anche in evidenza. Inoltre, una nuova analisi critica del processo di unificazione, e in particolare del periodo storico successivo al 1861, forniva una nuova eziologia di questi vizi: ora la storia d’Italia appariva ancora più di prima un catalogo di assenze e di rivoluzioni mancate. L’idea dell’immaturità e dell’arretratezza, che alla fine dell’Ottocento veniva associata principalmente al Meridione, serviva a spiegare i molti fallimenti e le debolezze del paese nel suo complesso. Tuttavia questo genere di considerazioni sull’arretratezza e sull’immaturità degli italiani non era un «marchio di fabbrica» esclusivo dei pensatori progressisti che reagivano con enorme disappunto all’imporsi del fascismo; alcuni conservatori esprimevano le stesse idee, spesso per giustificare la loro indisponibilità ad assumere una posizione chiara contro il fascismo, e quindi il loro appoggio a Mussolini. A differenza di questi, il più importante intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Benedetto Croce, respingeva la nozione di carattere degli italiani formulata fino ad allora nel discorso nazionale, ponendo la base per una lettura del fascismo come fenomeno essenzialmente estraneo al carattere italiano, lettura che avrebbe ottenuto un particolare successo dopo la caduta della dittatura.

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Infezioni italiane e cure proletarie Non ci si aspetterebbe di trovare il topos del carattere italiano in un critico della società e della politica di orientamento marxista come Antonio Gramsci, ma in realtà nei suoi scritti giornalistici i riferimenti al carattere non mancavano. Nel 1917, in un articolo pubblicato sul settimanale socialista «Il grido del popolo», il futuro fondatore del Partito comunista d’Italia dichiarava: «In Italia non si conosce il carattere»4, e nel quotidiano socialista «Avanti!» rimarcava che gli italiani erano ipocriti e mancavano di coraggio morale5. Quando prese le distanze dal Partito socialista, che durante l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920 non aveva fornito una guida rivoluzionaria, Gramsci lo attaccò per avere accettato un compromesso «miserabile» di tipo «giolittiano», diventando in questo modo simile a tutti gli altri partiti italiani. Secondo Gramsci, inoltre, il fatto stesso di avere rifiutato di giurare fedeltà all’Internazionale comunista dimostrava che il Partito socialista aveva assorbito i vizi della borghesia italiana, cioè la mancanza di spirito civile e di lealtà verso le istituzioni. In altri termini, i socialisti erano stati contagiati dai virus dei loro compatrioti. I comunisti avrebbero difeso l’Internazionale dalla «corruzione italiana, dallo scetticismo italiano, dal malcostume della vita politica italiana», e in questo modo avrebbero difeso anche il futuro della rivoluzione proletaria in Italia6. Gramsci non era un marxista convenzionale. Il suo modo di pensare era fortemente influenzato da Georges Sorel e dalla tradizione culturale italiana, e aveva ereditato da De Sanctis e dai «vociani» una certa sensibilità per la questione delle abitudini degli italiani e la tematica della «riforma intellettuale e morale» della vita del paese7. Al contrario del più ortodosso Bordiga e di altri fonda4 A. Gramsci [Alfa Gamma], Carattere, in «Il Grido del Popolo», 3 marzo 1917, ora in A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1972, p. 93. Sull’attenzione di Gramsci per i comportamenti degli italiani cfr. anche M. Rosati, Il patriottismo italiano. Culture politiche e identità nazionale, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 109, 142-147. 5 A. Gramsci, Caratteri italiani, in «Avanti!», ed. piemontese, 5 marzo 1917, ora in Id., Scritti giovanili cit., p. 94. 6 Id., Lo stato operaio, in «L’Ordine Nuovo», 1 gennaio 1921, ora in Id., Socialismo e fascismo. L’«Ordine Nuovo» 1921-1922, Einaudi, Torino 1966, p. 7. 7 Sul ruolo dei «vociani» nel dare forma all’idea gramsciana della «riforma in-

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tori del Partito comunista, Gramsci credeva che il marxismo dovesse portare in Italia un cambiamento non soltanto economico ma anche etico. Nonostante nei suoi Quaderni del carcere esprimesse una certa insofferenza per coloro che definiva intellettuali di tipo «‘moralista’ o moralizzatore» alla stregua di Prezzolini8, ne condivideva – specialmente negli anni giovanili – alcuni atteggiamenti e criticava piuttosto di frequente le abitudini e il carattere nazionali. Questo carattere non offriva un bello spettacolo: oltre all’ipocrisia, «una delle facce più appariscenti e vistose del carattere italiano», Gramsci vi leggeva la «sfiducia reciproca», che era conseguenza dell’educazione gesuitica, di governi polizieschi e dell’esperienza della vita di tutti i giorni9. In particolare, questo carattere era incarnato da alcune classi sociali: la borghesia, per esempio, era «chiacchierona, vanitosa, vuota», per nulla disposta ad «adattarsi al lavoro modesto ma fecondo della collettività anonima»10. Secondo Gramsci, la maschera popolare di Stenterello, il servitore arguto ma superficiale e insignificante, rappresentava la borghesia alla perfezione11. Quanto alla classe operaia, nel marzo 1917, quando le proteste contro le privazioni imposte dalla guerra si intensificavano nel paese, Gramsci notava che contrariamente al resto della popolazione i lavoratori avevano carattere e volontà, così come i socialisti, che davano all’Italia ciò che le era sempre mancato, e cioè «un vivo esempio [...] di carattere adamantino, e fieramente superbo tellettuale e morale» cfr. anche R. Wohl, The Generation of 1914, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1979, p. 195. Anche Walter Adamson ha sottolineato il fatto che Gramsci fece propria la «struttura del vocabolario della ‘Voce’» in Id., Avant-garde Florence. From Modernism to Fascism, Cambridge University Press, Cambridge-London 1993, p. 264. Sull’influenza di Sorel e di altri pensatori francesi su Gramsci cfr. R. Pozzi, Alle origini del problema gramsciano della «riforma intellettuale e morale»: Sorel, Renan e le suggestioni della cultura francese, in F. Sbarberi (a cura di), Teoria politica e società industriale. Ripensare Gramsci, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 92-101; ivi cfr. anche L. Cafagna, Figlio di quei movimenti. Sull’ammirazione di Gramsci per De Sanctis cfr. i suoi Scritti giovanili cit., p. 10, e F. Frosini e G. Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del Carcere, Carocci, Roma 2004, p. 166. 8 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, vol. 3, Einaudi, Torino, p. 2204. 9 Id., Caratteri italiani, in Id., Scritti giovanili cit., pp. 93-94. 10 Id., «Stenterello», ivi, p. 95. 11 Id., Stenterello, Stenterello risponde..., Stenterello frigna, ivi, pp. 95-100.

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di se stesso»12. Verso la fine del 1919, tuttavia, nel tumulto degli anni del dopoguerra, le masse italiane gli apparivano «ancora informi, ancora polverizzate in un brulichio animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbedienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche»13. Anni dopo, nelle prigioni del regime fascista, Gramsci avrebbe riflettuto ancora sui tratti peculiari del carattere degli italiani – specialmente sull’individualismo e sull’«apoliticismo», e su come queste caratteristiche si erano tradotte nella bassa qualità dei partiti politici14. In Gramsci, come ha osservato Pier Giorgio Zunino, un certo «pessimismo antropologico» coesisteva con l’ottimismo ostinato della sua ideologia politica15. La sua visione della società comunista – moderna, ben organizzata, con il senso della collettività, disciplinata – contrastava nettamente con la sua percezione della società italiana, un mondo informe e senza disciplina. Il compito dei rivoluzionari veniva notevolmente complicato da un capitalismo arretrato come quello italiano, un capitalismo di periferia, come diceva Gramsci. La popolazione non era d’aiuto. Alla rivoluzione servivano organizzazione e disciplina, ma come un articolo sull’«Ordine nuovo», riprendendo il diffuso topos dell’individualismo latino, osservava: «Disciplina [è] virtù difficile tra i popoli latini, inquinati come sono dalla lue individualista, disorganizzati da lunghi secoli di malgoverno, viziati da impulsive tendenze egoarchiche e disgregatrici»16 [corsivo nel testo]. In mezzo all’arretratezza dell’Italia, comunque, c’era una eccezione: Torino. La città si ergeva come un faro di modernità, nel senso che incarnava i tratti della società moderna e disciplinata del futuro: Gramsci la vedeva come una città moderna ma «poco italiana perché la larga massa dei suoi abitanti è tutta viva e compone armonicamente un organismo sociale che vibra tutto»17. La modernità di Torino Id., Carattere, in Scritti giovanili cit., p. 93. Id., La settimana politica, in «L’Ordine Nuovo», 15 novembre 1919, citazione in Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., p. 23. 14 A. Gramsci, Caratteri italiani, e Apoliticismo, in Id., Passato e presente, Einaudi, Torino 1952, pp. 9-12 (ed. or. in I quaderni del carcere, numeri 8 e 14). 15 Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., p. 62. 16 Caesar (Carlo Seassaro) L’esercito socialista, in «L’Ordine Nuovo», 15 novembre 1919. 17 A. Gramsci, Torino, città di provincia, in «Avanti!», 17 agosto 1918, ora 12 13

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contrastava in maniera drammatica con il resto del paese. Negli articoli sull’«Ordine Nuovo» il sardo Gramsci dava una nuova inflessione all’idea dell’eccezionalismo piemontese: Torino era il posto più adatto per un esperimento di tipo sovietico perché la sua massa proletaria era la più disciplinata di tutta l’Italia, e lo era diventata perché aveva vissuto in un territorio plasmato dallo Stato piemontese, con la sua secolare tradizione amministrativa e militare. Seguendo l’esempio del proletariato torinese, anche le classi lavoratrici del Piemonte avrebbero in breve tempo acquisito la consapevolezza della propria forza grazie alla florida economia della regione, che era il risultato della tradizione di lavoro industriale e del retaggio di ricchezza materiale e culturale costruita nel corso di molti secoli di indipendenza politica e di autogoverno18. Lo scatenarsi della violenza fascista nell’autunno del 1920 infranse le speranze del biennio rosso. Gramsci seppe intuire e analizzare a fondo la complessa natura di classe del nuovo movimento politico di destra, e ne spiegava la nascita in maniera contestuale ai conflitti del periodo postbellico: il fascismo era la combinazione della reazione della classe capitalista contro il movimento operaio, e della mobilitazione di una corrotta piccola borghesia, che Gramsci definiva, riprendendo un’immagine di Kipling, il «popolo delle scimmie». Ma più generalmente il fascismo era anche un prodotto dell’arretratezza del paese, ed era connaturato a certi tratti specifici degli italiani. Osservando gli squadristi in azione nella primavera del 1921, Gramsci metteva in relazione la violenza fascista con la «crudeltà e l’assenza di simpatia», «due caratteri peculiari del popolo italiano» che ne rispecchiavano la «psicologia barbarica»19. Quanto a Mussolini, nell’estate del 1924 Gramsci lo liquidava come un «fenomeno di folklore paesano destinato a passare alle storie nell’ordine delle diverse maschere italiane di provin-

in Id., Scritti giovanili cit., pp. 298-300. Per un’altra descrizione in termini positivi di Torino cfr. Id., Il programma dell’Ordine Nuovo, in «L’Ordine Nuovo», 14 e 28 agosto 1920. 18 Id., La funzione storica delle città, in «L’Ordine Nuovo», 17 gennaio 1920. 19 Citazione in Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., p. 63 (ed. or. Forze elementari, in «L’Ordine Nuovo», 26 aprile 1921).

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cia»20. Era un paese retrivo, estremamente diviso e ben lontano dallo standard di una nazione moderna, che aveva prodotto il fenomeno Mussolini. Solo un movimento operaio disciplinato e veramente rivoluzionario avrebbe potuto portare l’Italia a questo standard e realizzare la necessaria riforma morale e intellettuale degli italiani in un contesto socialista: quindi la classe lavoratrice aveva un suo particolare «compito nazionale» – una prospettiva che avrebbe distinto il Partito comunista italiano per molti anni a venire. Arrivò a simili conclusioni anche Piero Gobetti, un liberale che desiderava ardentemente vedere un’Italia più «moderna».

Il disagio dell’arretratezza Come Gramsci, il liberale torinese Piero Gobetti non si dedicò molto all’analisi del carattere italiano come tale, in quanto dava per scontato che fosse un ostacolo alla vita politica moderna. Gobetti viveva nella stessa città, respirava lo stesso clima intellettuale ed era sensibile ad alcuni dei miti e delle ideologie che influenzavano anche Gramsci. Grazie alla sua formazione culturale e al fatto che apprezzava il ruolo del movimento operaio comunista in quanto agente di cambiamento e di modernizzazione della società italiana, Gobetti elaborò una visione molto originale di liberalismo21. Come Gramsci, si era formato assorbendo il pensiero di filosofi neo-idealisti e storicisti italiani quali Croce e Gentile e le 20 A. Gramsci, La crisi italiana, rapporto al comitato centrale del Partito comunista italiano, 13-14 agosto 1924, ora in Id., La costruzione del Partito comunista (1923-1926), Einaudi, Torino 1971. 21 Sulla relazione tra i due cfr. P. Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, Torino 1977. Gobetti collaborò per un anno come critico teatrale con l’«Ordine Nuovo». Gramsci ammirava il giovane liberale radicale e lo riteneva un vivido esempio della nuova generazione di intellettuali che avrebbero potuto diventare alleati della lotta proletaria. La bibliografia su Gobetti è vasta e il suo pensiero politico è stato interpretato in modi piuttosto diversi. Cfr. per esempio gli studi di N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Passigli, Firenze 1986, e Profilo ideologico del Novecento, Einaudi, Torino 1986; e le differenti valutazioni di G. Tedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2002. Per una biografia intellettuale e politica recente di Gobetti cfr. Gervasoni, L’intellettuale come eroe cit.

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idee di Georges Sorel. Assorbì anche lo stile degli intellettuali vociani, specialmente di Prezzolini (da cui si staccò tuttavia nel 1922) e del socialista democratico Gaetano Salvemini, dei quali seguì l’esempio come promotore di cultura, fondando periodici e una sua casa editrice22. Il giovane Gobetti condivideva con i vociani e Salvemini un forte disprezzo per la maggior parte dei politici italiani e in particolare per il «giolittismo»23. Troppo giovane per partecipare alla Grande Guerra, la considerava un evento fondamentale che rafforzava la coscienza nazionale e dava agli italiani una nuova forza spirituale24. La rivista che fondò poco prima della fine della guerra (aveva solo diciassette anni) per contribuire a questo rinnovamento, «Energie Nove», adottava il linguaggio della «Voce»: denunciava l’«apatia» degli italiani, «segno di [...] degenerazione, l’arma del debole e del codardo contro il forte»25, e fustigava la «mancanza di sincerità e di chiarezza» nella vita pubblica italiana26. Come del resto era vero per la «generazione del 1914» in tutta Europa, le parole chiave del suo vocabolario politico giovanile erano «gioventù» e «rigenerazione»27. Dal febbraio 1922 fino a quando morì prematuramente a Parigi nel 1926 in conseguenza di un’aggressione fascista subita pochi mesi prima, Gobetti continuò a portare avanti la sua critica spietata della cultura politica italiana in un’altra sua rivista, «La 22 Cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. 4, Dall’unità a oggi, t. 2, Einaudi, Torino 1975, p. 1443, che osserva inoltre come Prezzolini, a sua volta, vedesse in Gobetti un continuatore della sua attività; cfr. anche G. Turi, Padri e fratelli nel carteggio di Gobetti, in «Passato e Presente», 22, 2004, pp. 159-170. 23 Cfr. anche Asor Rosa, La cultura cit., pp. 1448-1450. Dopo il 1922, comunque, Prezzolini prese le distanze dai vociani. Per «giolittismo» Gobetti intendeva una variante del trasformismo. Dopo la nascita del fascismo, tuttavia, Gobetti abbandonò questa polemica, nel senso che distingueva tra un Giolitti positivo (pre-1911) e il Giolitti più recente, che era disposto a allearsi con Mussolini a vantaggio della conservazione. 24 Cfr. P. Gobetti, Volontà, in «Energie Nove», 1, 1-15 novembre 1918, e Id., Contro la massoneria, in «Energie Nove», 2a s., 6, 25 luglio 1919, ora in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1960, pp. 16, 136. 25 Id., Commenti e giustificazioni, in «Energie Nove», 1, 15-31 dicembre 1918, ora in Id., Scritti politici cit., pp. 30-35. 26 Id., La nostra fede, in «Energie Nove», 2a s., 1, 5 maggio 1919, ora in Id., Scritti politici cit., p. 75. 27 Gervasoni, L’intellettuale come eroe cit., p. 214.

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Rivoluzione Liberale», aperta alla collaborazione di vari intellettuali di convinzione liberale ma su posizioni differenti. A suo modo di vedere, i partiti esistenti erano tutti intrappolati da ideologie deleterie o dalla pratica del compromesso e della burocratizzazione che li rendevano incapaci di porre in atto riforme o cambiamenti significativi. Gobetti si spingeva più in là dei suoi collaboratori nel denunciare il «sentimentalismo» e la propensione al compromesso dei politici italiani, che fossero liberali conservatori o riformisti, socialisti o cattolici28. Ed era proprio contro questa inclinazione al compromesso, o trasformismo (che egli vedeva non solo nel giolittismo ma anche in Mussolini e nel modo in cui numerosi liberali e moderati di differenti partiti avevano accettato di collaborare con Mussolini, dopo la sua nomina a primo ministro), che Gobetti predicava una opposizione «intransigente». Nel manifesto di apertura della «Rivoluzione Liberale», nel febbraio 1922, Gobetti sottolineava le enormi mancanze che avevano impedito in Italia la creazione di un sistema politico coeso e la formazione di cittadini animati da una «coscienza dello Stato»: l’assenza di una classe dirigente moderna, di una vita economica moderna, e la mancanza di «una coscienza e di un diretto esercizio della libertà»29. Per Gobetti questa mancanza andava rintracciata nel fatto che in Italia non vi era stata la Riforma protestante, cosa che aveva condizionato negativamente tutta la storia del paese: non avendo sviluppato una coscienza morale autonoma, agli italiani non era rimasto che l’individualismo e il senso estetico che avevano ereditato dai Comuni medievali. In aggiunta, il modo di pensare degli italiani era dominato dal cattolicesimo, che, oltre a generare l’abitudine al dogmatismo e al conformismo, aveva impedito quella che Gobetti definiva la formazione di una «rivoluzione individualista delle coscienze»30. In ultima analisi, la debolezza economica della penisola derivava proprio da questa mentalità.

28 P. Gobetti, Esperienza liberale, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 23 aprile 1922, ora in Id., Scritti politici cit., p. 339. 29 Id., Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 12 febbraio 1922, ora in Id., Scritti politici cit., p. 229. 30 Id., Il nostro protestantismo, in «La Rivoluzione Liberale», 4, 17 maggio 1925, ora in Id., Scritti politici cit., pp. 823-826.

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Questa fiducia di Gobetti nelle virtù della Riforma protestante sembra corrispondere a quella che Amedeo Quondam ha definito l’«invidia per la Riforma», il «mito su cui si fonda l’identità nazionale italiana» che per primo Sismondi aveva enunciato nella sua Storia delle repubbliche italiane e che in seguito fu ulteriormente elaborato da Francesco De Sanctis31. In realtà, al volgere del secolo questo «topos» della cultura laica italiana32 venne interpretato e connotato in maniere nuove allorché le idee di Max Weber sui rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo cominciarono a raggiungere l’Italia33. Inoltre, con l’allargamento del suffragio alla maggior parte della popolazione maschile adulta nel 1912, l’interesse per il ruolo politico del cattolicesimo nel contesto della democrazia alimentò nuovi interrogativi su quale fosse il posto della religione nella vita nazionale. Ma già prima che le idee di Weber cominciassero a circolare in Italia, il giornalista bolognese Mario Missiroli aveva richiamato l’attenzione sul «problema religioso» in un libro che ebbe al tempo una certa risonanza, La Monarchia socialista: a suo giudizio, il problema principale di tutta la storia dell’Italia contemporanea era costituito dalla mancanza di una riforma religiosa e dal fatto che nella coscienza nazionale c’era una contraddizione, una spaccatura tra lealtà nei confronti dello Stato e lealtà nei confronti della Chiesa. In quanto cattolico, Missiroli sperava che, alla fine, le due lealtà si sarebbero composte in quello che chiamava, con un’espressione inquietante, uno Stato teocratico. Anche se influenzato da questa lettura, il laico Gobetti era più vicino alle idee del pensatore protestante Giuseppe Gangale, il direttore del periodico «Conscientia», il quale sosteneva che la tendenza al compromesso e all’accomodamento e il «quietismo morale, religioso e politico» degli italiani derivavano dal cattolicesimo, e che quest’ultimo aveva 31 Cfr. A. Quondam, Il Barocco e la letteratura: genealogie del mito della decadenza italiana, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno, Salerno, Roma 2002, p. 162. 32 Cfr. l’Introduzione di N. Urbinati a P. Gobetti, On the Liberal Revolution, a cura di N. Urbinati, Yale University Press, New Haven 2000, p. XXXII. 33 La traduzione del testo di Weber, che comunque uscì per intero soltanto nel 1945, fu eseguita da Piero Burresi, uno dei collaboratori di Gobetti; cfr. l’edizione più aggiornata, a cura di Giorgio Galli, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 16a ed., Rizzoli, Milano 2007 (ed. or. 1905).

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preso il posto di quel «mito nazionale» di cui in Italia si sentiva la mancanza34. Non si trattava di un problema di doppia lealtà o coscienza, ma di scarso senso morale. Soltanto una rivoluzione religiosa avrebbe cambiato la mentalità di un popolo scettico nei ceti alti e superstizioso negli strati bassi. Oltre alle cause di lungo termine dell’arretratezza italiana – che risalivano a quel secolo fatale, il Cinquecento – Gobetti identificava anche altri colpevoli che in tempi più recenti avevano reso critica la situazione del paese: anzitutto lo stesso Risorgimento, perché era stato una rivoluzione solo in apparenza e non nella realtà, e poi il tipo di Stato che era venuto fuori da tale processo, liberale di nome ma non nella sua essenza35. Nonostante il primato del Piemonte liberale, la dominazione del cattolicesimo e la povertà dell’economia avevano impedito lo sviluppo di una vera e forte tradizione liberale. Dopo l’unificazione, le difficoltà economiche avevano condizionato la pratica politica, anche quella dell’opposizione, riducendo la politica socialista a una ricerca di protezione da parte dello Stato e di posti di lavoro36. Per la verità, i limiti del Risorgimento erano stati notati anche in precedenza: nella Lotta politica in Italia (un lavoro quasi del tutto ignorato quando uscì nel 1890, e che acquistò fama tra i nuovi nazionalisti nei primi anni del Novecento e tra i fascisti) Alfredo Oriani sottolineava il «peccato originale» dello Stato italiano: quello di essere niente più che il risultato di una «conquista monarchica», tra la debolezza dei rivoluzionari da una parte e l’inerzia e la passività della popolazione dall’altra. Anche se l’idea non era nuova, Gobetti, tuttavia, fu il primo intellettuale italiano a scrivere una storia critica del Risorgimento intesa a ricercare le origini dei guasti della politica italiana corrente37. Inoltre Gobetti concentrava maggiormente l’attenzione su fattori strutturali, e in particolare sull’atteggiamento delle élites che avevano impedito la piena modernizzazione del paese e lo svolgimento di una «vera» lotta poli-

G. Gangale, Rivoluzione protestante, Edizioni Gobetti, Torino 1925, p. 7. Gobetti, Manifesto, ora in Id., Scritti politici cit., p. 233. 36 Id., La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Edizioni Gobetti, Torino 1924, ora in Id., Scritti politici cit., pp. 937-938. 37 Cfr. la prefazione di C. Francovich in P. Bagnoli, Il Risorgimento eretico di Piero Gobetti, Cooperativa Editrice Universitaria, Firenze 1976, p. 7. 34 35

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tica. In questo modo, egli sviluppò forse la più completa «ideologia dell’assenza» dell’Italia del primo Novecento38. Malgrado il quadro della situazione fosse deprimente, l’Italia poteva ancora essere salvata. Gobetti pensava che per superare il problema dell’arretratezza fosse necessario creare una nuova élite politica capace di assumere la guida e di essere l’espressione di forze sociali veramente moderne, ovvero la borghesia industriale e il proletariato industriale e rurale. Pertanto si dedicò all’elaborazione di una nuova cultura politica per una nuova élite politica. Come dichiarava nel «manifesto» della sua rivista, i «quattro anni di disciplina» della guerra avevano già fatto emergere «forze nazionali nascoste» e avrebbero portato alla formazione di una nuova classe dirigente39. Era difficile trovare la disciplina tra la gente comune, specialmente nella piccola borghesia e nei suoi partiti – e questa classe si imponeva in quasi tutti i partiti. Ma lo spettacolo di disciplina rivoluzionaria durante l’occupazione delle fabbriche e il nuovo movimento operaio lo facevano sperare: erano un esempio concreto dell’autonomia e della capacità di autodirezione che riteneva necessarie per determinare un cambiamento radicale della mentalità e della cultura politica italiana, e risolvere finalmente il problema dell’arretratezza40. Era per questo che Gobetti sosteneva la necessità dell’«intransigenza», un nuovo stile di lotta politica senza cedimenti, il rifiuto di ogni compromesso con i vecchi partiti e delle loro maniere accomodanti, una lotta «sincera» e «coraggiosa» che sarebbe stata di per sé un processo di autoliberazione. Quindi, come Gramsci e forse con maggiore intensità, Gobetti combatteva contro quelle che percepiva essere le profonde limitazioni della società e della politica italiana al confronto con una idealizzata e normativa visione della modernità. Era particolarmente esasperato dall’intenzione di molti moderati di trovare un compromesso con i fascisti e di collaborare con loro. Ai suoi occhi, come a quelli di altri politici e osservatori italiani41, Mussolini non era 38 Prendo in prestito l’espressione da C. Pogliano, Piero Gobetti e l’ideologia dell’assenza, De Donato, Bari 1976. 39 Gobetti, Manifesto cit., p. 228. 40 Id., La rivoluzione italiana, in «L’educazione nazionale», 30 novembre 1920, ora in Id., Scritti politici cit., p. 193; Id., Rivoluzione e disciplina, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 7, 2 aprile 1922, ora in Id., Scritti politici cit., p. 295. 41 Cfr. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., cap. 1.

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nulla di particolarmente nuovo, ma un’ulteriore espressione della vecchia politica, l’odiato «giolittismo», vestita con la nuova divisa dell’uomo della Romagna42. Alla fine di ottobre del 1922 non vi era stata una rivoluzione, ma un colpo di stato realizzato da un’oligarchia senza alcuna cultura seria e «incapace di costruire in Italia una coscienza moderna»43. Ed era attraverso l’ottica di questa visione statica della politica e delle élites politiche italiane che Gobetti osservava la nascita del fascismo, che nel novembre 1922 definì, con una espressione efficace, l’«autobiografia della nazione». Il fascismo come rivelazione, o l’«autobiografia della nazione» Se Gobetti aveva una visione tutt’altro che idealizzata degli italiani, dopo la Marcia su Roma questa visione diventò molto più critica e lo stesso avvenne con la sua valutazione del fascismo. Prima dell’ottobre 1922 Gobetti sembrava liquidarlo con sufficienza: quando nel maggio di quell’anno a Bologna le squadre fasciste organizzarono l’attacco più massiccio contro il movimento operaio, si astenne addirittura dal criticare i loro atti di violenza per evitare «l’astrattismo degli utopisti e dei democratici», e collocò subito Mussolini tra gli «anacronismi» dell’Italia44. Dopo la Marcia su Roma, tuttavia, la sua critica nei confronti del fascismo si fece più intensa e assunse un tono morale-antropologico: diventò, come disse lo stesso Gobetti, una «polemica contro gli italiani»45. Quando definì il fascismo l’«autobiografia della nazione»46, intendeva richiamare l’attenzione sul fatto che il governo di Mussolini era più che politica ordinaria, era l’espressione di «certi difet42 P. Gobetti, Congiure e opposizione, in «La Rivoluzione Liberale», 2, 22 maggio 1923, ora in Id., Scritti politici cit., p. 501. 43 Id., La tirannide, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 23 [9] novembre 1922, ora in Id., Scritti politici cit., p. 427. 44 Id., Uomini e idee, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 28 maggio 1922, ora in Id., Scritti politici cit., pp. 359-360. 45 Su questo punto cfr. anche Gervasoni, L’intellettuale come eroe cit., pp. 390-391. 46 P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, in «La Rivoluzione liberale», 1, 23 novembre 1922, ora in Id., Scritti politici cit., p. 433. Questo articolo fu inserito, con leggere modifiche, in Id., La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Gobetti, Torino 1924, ora in Id., Scritti politici cit.

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ti sostanziali» degli italiani, un popolo che «rinuncia[va] per pigrizia alla lotta politica», un popolo che voleva starsene in pace e non intendeva sacrificarsi per difendere la libertà. Gli italiani si erano arresi al fascismo perché avevano avuto timore di impegnarsi in una lotta politica «coraggiosa» e perché avevano avuto paura della durezza della lotta di classe e della libertà. Lasciando che Mussolini prendesse il controllo del governo, gli italiani avevano dato dimostrazione del loro «animo di schiavi»47. Il fascismo metteva a nudo le «vecchie malattie dell’Italia immatura»48, un paese a cui faceva difetto la serietà e che mostrava una superficialità che Gobetti combatteva fin dai tempi di «Energie Nove». Con il suo ottimismo e il suo entusiasmo esagerato (visibile specialmente negli atteggiamenti di Gabriele D’Annunzio, il poeta trasformatosi in leader politico nell’impresa di Fiume), il fascismo era un segno di «infanzia» in un popolo che era pur erede di Machiavelli. Da parte sua, Mussolini era il trasformista supremo, il continuatore di una tradizione politica che aveva avuto il suo culmine in Giolitti e alla quale il fondatore del fascismo aveva aggiunto la violenza degli squadristi e lo stile enfaticamente retorico di D’Annunzio. Per Gobetti, in altri termini, il fascismo era la «conseguenza naturale della storia d’Italia»49. Mussolini si divertiva a fare il condottiero di un popolo entusiasta che voleva essere divertito; tra Mussolini e gli italiani c’erano affinità elettive, per così dire. Mussolini impersonava caratteristiche che gli italiani apprezzavano veramente: «la sua figura di ottimista sicuro di sè, l’astuzia oratoria, l’amore per il successo [...] la virtù della mistificazione e dell’enfasi»50. Aveva compreso l’amore degli italiani per la teatralità e la usava con il massimo effetto51. Le somiglianze tra MussoliId., Elogio della ghigliottina cit., pp. 432, 434. Id., Nazionalfascismo, in «La Stampa», 27 giugno 1923, ora in Id., Scritti politici (ed. 1969) cit., p. 1099. 49 Cfr. B. Bongiovanni, Canone e storia dell’Italia unita, in U.M. Olivieri (a cura di), Un canone per il terzo millennio, Mondadori, Milano 2001, p. 18. La pensava allo stesso modo anche uno storico allineato col fascismo come Gioacchino Volpe, che naturalmente leggeva il fenomeno in termini positivi: cfr. L’Italia in cammino, Laterza, Roma-Bari 1991 (prima ed. 1927). 50 Gobetti, Scritti politici cit., p. 1074 (ed. or. in Id., La rivoluzione liberale, Gobetti, Torino 1924). 51 Id., Delizie indigene, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 2 novembre 1922, ora in Id., Scritti politici cit., p. 420. 47 48

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ni e il carattere degli italiani venivano descritte anche da altri antifascisti, come l’autore anonimo di una critica del fascismo che comparve nel 1922: «Mussolini deve la sua fortuna al fatto che egli impersona una grande quantità di difetti propri all’anima e al carattere [degli italiani] corrotto da secoli di servitù». L’elenco comprendeva tra l’altro «la superficialità, la improntitudine, la vuotaggine retorica, la ineducazione politica, la smargiasseria»52. Gobetti sapeva bene che dietro il fascismo c’erano interessi economici conservatori, ma la sua analisi politica era imbevuta di categorie morali-antropologiche, e prendeva di mira gli italiani con una passione che per certi aspetti richiama gli scritti patriottici del Risorgimento. Anche se la nazione non ispirava sentimentalismi al pensatore torinese, è impossibile leggere Gobetti senza percepire la rabbia mista a disprezzo che derivava dalle speranze infrante. In reazione all’«anima servile» degli italiani dichiarava il suo antifascismo «psicologicamente innato»53, un «istinto» che contrastava con le abitudini radicate in gran parte dei suoi compatrioti. Eppure Gobetti continuava a pensare che esistesse ancora un’Italia diversa, che contrastava nettamente con quella (l’«altra» Italia) che si era arresa al fascismo senza opporre resistenza, senza lottare virilmente: come sosteneva nei saggi raccolti nel suo postumo Risorgimento senza eroi, questa Italia migliore dell’altra era incarnata dal Piemonte, la regione che «aveva sacrificato se stessa» – cioè il suo carattere – per unificare il paese, assumendosi il compito di «tenere il collegamento tra gli istinti africani [sic!] della penisola e la civiltà europea»54. In contrapposizione all’Italia «non civilizzata»55, Gobetti idealizzava il suo Piemonte e lo costruiva come una terra non portata a «complicazioni psicologiche e romantiche» ma incline al «culto della pratica», una terra il cui spirito era «scontroso e aspro come le sue montagne». Il Piemonte era la regione italiana che si avvicinava di più al modello virtuoso protestante: la Fiat era «uno dei pochi stabiliPan, Il fascismo, Libreria politica moderna, Roma 1922. Gobetti, Elogio della ghigliottina cit., p. 433. 54 Id., Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino 1976, p. 5 (ed. or. 1926). 55 Gli stessi termini sono ricorrenti in altri scritti: cfr. P. Gobetti, Guerra agli apolitici, in «La Rivoluzione Liberale», 3, 4 marzo 1924, ora in Id., Scritti politici cit., p. 625. 52 53

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menti anglosassoni, moderni, capitalistici in Italia»56, e i suoi numerosi imprenditori «anglomani» erano esempi di frugalità, onestà e industriosità57. Il Piemonte era anche la terra di Vittorio Alfieri, il «primo uomo nuovo» a venire alla ribalta nell’Italia del Settecento, critico feroce dell’autoritarismo regio e del cattolicesimo e intransigente difensore della libertà. Questo fare del Piemonte il cuore virtuoso dell’Italia può essere stato un tentativo di tenere viva la speranza mentre il fascismo consolidava il suo dominio dittatoriale sul paese nel corso del 1925 e del 1926. Allo stesso tempo era anche un’ulteriore prova di una certa coscienza dei piemontesi che vedevano la loro terra diversa e migliore rispetto all’«altra» Italia, una coscienza rafforzata dal fatto che il fascismo era emerso inizialmente in altre regioni della penisola. Questo atteggiamento era particolarmente evidente in alcuni collaboratori più conservatori di Gobetti che scrivevano sulla «Rivoluzione Liberale»: per esempio, la critica del fascismo elaborata dal critico letterario Natalino Sapegno si basava sull’idea che il Piemonte fosse unico e moralmente superiore, in netta contrapposizione al resto dell’Italia, che Sapegno chiamava significativamente le «province», «schiave, ignoranti, faziose». I politici settentrionali erano stati maestri di disciplina e di realismo, ma dopo la morte di Cavour l’Italia (cioè le «province») aveva cominciato una «guerra» contro il Piemonte58. Le province «fomentavano» contro l’élite piemontese «le rivolte faziose, le camorre locali, le ideologie intemperanti, le insurrezioni sentimentali, la generale immaturità». Sapegno sperava che questo «mito» piemontese potesse servire a mobilitare tutti gli antifascisti italiani contro l’«altra Italia» incarnata dal fascismo. Diversi collaboratori di Gobetti che scrivevano sulla «Rivoluzione Liberale» svilupparono una critica della vita e della cultura nazionale che si fondava su assunti analoghi sul carattere degli italiani e sulla loro storia. Nella sua analisi della «questione buro56 P. Gobetti, Il nostro protestantismo, in «La Rivoluzione Liberale», 4, 17 maggio 1925, ora in Id., Scritti politici cit., p. 825. 57 Id., Un nemico della plutocrazia, in «La Rivoluzione Liberale», 4, 31 maggio 1925, ora in Id., Scritti politici cit., p. 835. 58 N. Sapegno, Il Piemonte e le provincie, in «La Rivoluzione Liberale», 1, dicembre 1922, ora in L. Basso e L. Anderlini (a cura di), Le riviste di Piero Gobetti, Feltrinelli, Milano 1961, p. 443.

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cratica», Augusto Monti, che si definiva «un piemontese sradicato dal Piemonte e posto a vivere tra Italiani»59, sosteneva che il lievitare del numero degli impiegati nel servizio civile era dovuto soprattutto a una mentalità che si era sviluppata in generazioni vissute in condizione disagiata e prive di spirito di iniziativa che aspiravano a trovare un posto sicuro nell’amministrazione statale, anche se poco remunerato60. Giovanni Ansaldo se la prendeva con il cattolicesimo e il suo predominio, e con la mancanza di etica del lavoro che questo predominio comportava. Dopo la Marcia su Roma la sua critica si trasformò in sarcasmo amaro. Tratteggiando un profilo del capo del sindacato fascista dei marittimi, il capitano Giuseppe Giulietti, lo definiva il «perfetto italiano», alludendo a un altro «perfetto italiano» che era al potere. Gli italiani avevano un po’ di Giulietti dentro di sé, scriveva Ansaldo, perché egli mostrava le «tendenze morali di una razza». Piaceva alla gente perché era «furbo», perché era un vincitore e un ribelle allo stesso tempo: «ultima assoluzione definitiva per un popolo di spostati». Dietro questa preferenza c’erano secoli di asservimento, generazioni di «chierici, di pagliette, di mimi e di lazzari»61. Lo stesso Mussolini era la personificazione della furberia, che gli italiani apprezzavano particolarmente, e il «mussolinismo» era un segno del loro basso livello morale62. (Se si considera che in seguito collaborò con la dittatura, si deve supporre che anche Ansaldo appartenesse in qualche modo alla categoria63). Questo modo di intendere il fascismo aveva qualche somi-

59 A. Monti, Attivo e passivo della burocrazia, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 14 maggio 1922. 60 Id., Note sulla burocrazia. L’utopia dei «pochi e ben pagati», in «La Rivoluzione Liberale», 1, 9 aprile 1922. 61 G. Ansaldo, Grandezza e decadenza del perfetto italiano, in «La Rivoluzione Liberale», 3, 6, 5 febbraio 1924. 62 Id., Mussolinismo, in «La Rivoluzione Liberale», 2, 13 novembre 1923, ora in Basso e Anderlini (a cura di), Le riviste di Piero Gobetti cit., p. 579. 63 Sulla sua «conversione» al fascismo (dopo un anno passato al confino) cfr. i suoi diari: G. Ansaldo, L’antifascista riluttante. Memorie dal carcere e dal confine 1926-1927, a cura di M. Staglieno, Il Mulino, Bologna 1992; e Il giornalista di Ciano, Diari 1932-1943, Il Mulino, Bologna 2000. Ansaldo la giustifica con il suo conservatorismo e con la maggiore antipatia per l’opposizione antifascista. I diari sono pieni di note sprezzanti sia nei confronti di Mussolini che degli italiani come popolo.

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glianza con il vecchio tropo della «rivelazione» usato così spesso in relazione alla performance del paese in tempo di guerra, e in particolare in riferimento all’esito della campagna di Libia e della prima guerra mondiale. Le vittorie in guerra erano una rivelazione positiva, la gradita scoperta del potenziale nascosto della nazione. Le sconfitte, per converso, rivelavano insufficienze e pecche morali che erano state ereditate dal passato e che dovevano essere corrette. L’interpretazione del fascismo in termini di rivelazione fu espressa pienamente da Giustino Fortunato, un liberale vicino a Gobetti ma assai più anziano, nonché molto più conservatore del giovane torinese e radicalmente pessimista (ma bisogna anche tener presente che scriveva nel 1930 quando la dittatura era ormai saldamente al potere e godeva di popolarità nel paese): «‘Rivoluzione’ no, ma ‘rivelazione’ è stato e rimane il fascismo: rivelazione di quel che realmente è, di quel che realmente vale l’Italia. Il fascismo è proprio l’Italia di ieri e dell’altro ieri, e senza dubbio sarà l’Italia di domani e di dopodomani»64. L’analisi di Fortunato riecheggiava gli atti di accusa che Villari e De Sanctis avevano scagliato contro le deficienze dello Stato e dei cittadini dopo l’unificazione. Il ragionamento era lo stesso. Dal momento che gli italiani non erano affatto cambiati, sosteneva Fortunato, erano ricomparse «le vecchie, intrinseche tare dell’Italia» ed era riemersa anche la mentalità dell’«uomo del Guicciardini»65. Anzi, il fascismo era il ritorno del «Quattrocento nel suo periodo più caratteristico»66: la modernità si era rivelata essere una «crosta sottile» sopra un paese fondamentalmente vecchio e semibarbaro. Gli italiani erano condannati dal loro carattere a ripetere gli errori del passato. Gobetti non era stato pessimista come l’anziano politico meridionale, e tuttavia, ingannato come lui dal-

64 Da una lettera a Giovanni Ansaldo del 28 febbraio 1930 citata in Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., p. 61. Sui rapporti di amicizia e collaborazione tra Gobetti e Fortunato cfr. M. Griffo, Gobetti e Fortunato, in P. Polito (a cura di), Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud, Bibliopolis, Roma 1995, pp. 101-115. 65 G. Fortunato, Dopo la guerra sovvertitrice, in Id., Scritti politici, a cura di F. Barbagallo, De Donato, Bari 1981, p. 350 (ed. or. in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Laterza, Bari 1921). 66 Id., Scritti politici cit., p. 374. Il saggio originale intitolato Nel regime fascista fu scritto nel 1926, ma fu pubblicato solo nel 1947.

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la convinzione che gli italiani fossero una genìa peculiare, non era riuscito ad afferrare quella che uno storico ha definito come la «novità esplosiva» rappresentata dal fascismo67.

Il fascismo come specchio del carattere italiano: la versione conservatrice Il tipo di eziologia culturale, o meglio, «antropologica» del fascismo elaborata da Gobetti e da alcuni dei suoi collaboratori fu esposta in una versione diversa, e che ebbe esiti politici differenti, da uno degli scrittori che per primi avevano dato a Gobetti l’idea di diventare un promotore di cultura, e cioè Giuseppe Prezzolini, il quale collaborò per un breve periodo alla «Rivoluzione Liberale». Sulle pagine di questa rivista, nel settembre 1922 anche Prezzolini sosteneva che il fascismo era un prodotto della «immaturità» degli italiani68. Ma invece di affermare la volontà di combatterlo, sosteneva che si dovesse tenere una posizione da osservatori esterni e distaccati: gli intellettuali non dovevano «abbassarsi» al livello della «media italianità attuale», ma limitarsi a essere «storici del presente»69. Questa posizione sembrava basarsi sul suo scetticismo nei confronti di qualsiasi azione politica in un paese come l’Italia; ma due mesi più tardi, sulla stessa rivista, di fatto giustificava il fascismo (che ora era al potere) in quanto «necessità storica», appellandosi a una concezione della storia ispirata da uno storicismo di tipo hegeliano, vale a dire dalla giustificazione di ciò che avveniva in nome dell’intrinseca razionalità dell’esistente70. Sembrava addirittura che includesse anche se stesso come componente di questa necessità storica, dal momento che sosteneva che in realtà la democrazia italiana, prima che la uccidesse Mussolini, era stata già ucZunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., p. 6. Sulla somiglianza di alcuni dei giudizi dei due autori malgrado le differenti idee politiche cfr. anche A. Campi, Mussolini, Il Mulino, Bologna 2001, p. 75. 69 G. Prezzolini, Per una società degli apoti, in «La Rivoluzione Liberale», 1, 28 settembre 1922. Gobetti replicò in termini molto critici sullo stesso numero della rivista. Questi articoli sono stati ristampati in Basso e Anderlini (a cura di), Le riviste di Piero Gobetti cit., pp. 276-281. 70 G. Prezzolini, Lo storicismo di un mistico, in «La Rivoluzione Liberale», 7, 7 dicembre 1922. 67 68

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cisa da «vent’anni di critica» [culturale] di cui naturalmente come «vociano» lui stesso era stato parte integrante. Gli unici aspetti problematici che Prezzolini trovava nel fascismo erano la violenza e l’uso di metodi dittatoriali, metodi che, concedeva, erano «anti-educativi». Ma da un punto di vista storico questi erano problemi secondari, dichiarava Prezzolini, dal momento che in Italia qualcosa di «nuovo» poteva venir fuori solo «sulla base del fascismo»71. E in un volumetto scritto tra il 1922 e il 1923 per un editore francese intraprese a spiegare il fascismo con la peculiarità politica degli italiani: non avevano veri partiti e attribuivano valore all’azione, e precisamente all’acquisizione del potere, oltre e al di là dei programmi politici; avevano uno scarso senso della libertà, anzi non concepivano la libertà nel senso moderno e non rispettavano la legge; le istituzioni liberali non avevano radici italiane ed erano importate dall’estero. Queste affermazioni di Prezzolini riecheggiavano fin troppo chiaramente le teorie sulla «psicologia dei popoli» di Gustave Le Bon, e specialmente la sua idea delle predisposizioni «organiche» che popoli diversi manifestavano nei confronti di istituzioni politiche e regimi diversi. Oltretutto giustificavano facilmente il fascismo, nel senso che estendevano a tutto il popolo italiano gli atteggiamenti e le convinzioni delle élites e degli strati della classe media che avevano appoggiato attivamente – in quanto strumento antisocialista – il movimento fascista e la sua ascesa al potere. Anche se nel suo diario e in alcuni articoli comparsi sulla «Rivoluzione Liberale» Prezzolini sembrava mostrare qualche ambivalenza nei confronti del fascismo (ma mai, va sottolineato, nei confronti di Mussolini), quasi tutte le sue dichiarazioni pubbliche di quel periodo (e anche in seguito, come vedremo) contribuivano a legittimare il regime. In realtà Prezzolini fu per tutto il tempo un «compagno di viaggio» del fascismo, anche se, avendo deciso di vivere all’estero negli anni Venti, preferiva mantenere aperte tutte le opzioni, ed essere ospite gradito nei palazzi del potere al di qua e al di là dell’Atlantico72. Id., Per una società degli apoti cit. Nel 1924 Prezzolini si trasferì in Francia e nel 1929 negli Stati Uniti. Si è molto discusso sul rapporto tra Prezzolini e il fascismo, ma non vi sono dubbi che Mussolini gli piacesse molto. Il suo interesse per Mussolini non era una novità: già prima della guerra si era interessato al politico socialista, che, da provinciale 71 72

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Sia in Europa che negli Stati Uniti i commenti degli osservatori e dei politici rispecchiavano opinioni simili a quelle appena considerate, nel senso che molti ritenevano che il popolo italiano non fosse in realtà incline alla democrazia. In particolare, negli Stati Uniti l’immagine degli italiani era condizionata da teorie di stampo razziale, dalla paura dell’anarchismo e del socialismo, e dalle reazioni dei «nativisti» contro le ondate di immigrazione verificatesi al volgere del secolo73. Agli occhi di molti americani, gli italiani erano dei meridionali indisciplinati propensi alla criminalità e alla sovversione politica e privi delle qualità necessarie in una democrazia. Una giornalista cattolica del «New York Times», Anne O’Hare McCormick, non aveva dubbi: gli italiani non erano come gli americani, gli inglesi e i tedeschi che «nel loro stesso interesse «[amavano] l’ordine, il rispetto delle regole e il governo [...] ma [erano] naturalmente individui senza legge»74 [il corsivo è mio]. Di conseguenza, il fascismo si addiceva al loro carattere. Almeno fino ai primi anni Trenta, i conservatori vedevano in Mussolini colui che aveva salvato il paese dal pericolo bolscevico, e alcuni di loro, incoraggiati dagli stessi fascisti, dichiaravano che il collasso dello Stato liberale in Italia era di scarsa o di nessuna importanza, dal momento che libertà e sistema parlamentare erano merce straniera d’importazione, e non avevano mai messo vere radici nel paese75. Secondo i «nativisti» americani come Kenneth L. Roberts, l’autocon ambizioni politiche qual’era, ne fu piuttosto lusingato: cfr. R.J.B. Bosworth, Mussolini. Un dittatore italiano, Mondadori, Milano 2004, capp. 3 e 4. Dopo il passaggio di Mussolini nel campo interventista (cosa che il vociano aveva incoraggiato attivamente), Prezzolini collaborò con «Il Popolo d’Italia», che Mussolini aveva appena fondato. Su questo periodo cfr. anche R. De Felice, Prezzolini, la guerra e il fascismo, in Id., Intellettuali di fronte al fascismo. Saggi e note documentarie, Bonacci, Roma 1985, pp. 62-127. 73 Cfr. il classico studio di J.P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982. Sul cambiamento dell’immagine degli italiani al volgere del Novecento cfr. anche J.P. Cosco, Imagining Italians. The Clash of Romance and Race in American Perceptions 1880-1910, State University of New York Press, Albany 2003. 74 La citazione proviene da M. Mariano, Gender and International History, Public and Private in Anne O’Hare McCormick’s Journalism (1921-1954), in G. Baritono et al. (a cura di), Public and Private in American History, Otto, Torino 2003, p. 93 (ed. or. in «New York Times Magazine», 17 giugno 1923). 75 Su questo argomento cfr. anche E. Ragionieri, Italia giudicata 1861-1945 ovvero la storia degli italiani scritta dagli altri, Laterza, Bari 1969.

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re del trattatello pro-fascista Black Magic, il fascismo era la soluzione perfetta per le deficienze del carattere nazionale dell’Italia e la cura migliore per i numerosi vizi del suo popolo76. Tra l’altro, sosteneva Roberts, il fascismo poteva impartire all’America qualche lezione sul trattamento da riservare ai radicali americani – come si intuiva già dal sottotitolo assai didattico del suo libro, Un resoconto del suo uso benefico in Italia, della sua degenerazione in Baviera, e di certe tendenze che potrebbero richiederne lo studio77. Un popolo moralmente pigro L’opera di Gobetti fu una fonte di ispirazione fondamentale per uno dei più importanti gruppi antifascisti che si formarono dopo l’istituzione della dittatura, il movimento liberalsocialista Giustizia e Libertà, fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, che per un breve periodo aveva collaborato alla «Rivoluzione Liberale». Il manifesto di questo movimento era Socialismo liberale, un testo che Rosselli pubblicò in Francia nel 1930 e che costituiva una vigorosa elaborazione di una nuova visione politica basata su una profonda critica dei limiti ideologici e politici del socialismo italiano, della sua interpretazione della natura del fascismo e della sua incapacità di opporsi con efficacia all’ascesa del regime. Oltre a proporre questa incisiva analisi critica, Rosselli lanciava un vero e proprio atto di accusa contro gli atteggiamenti degli italiani che avevano permesso al fascismo di crescere e di imporsi. Per Rosselli, il fascismo non era solo una brutale reazione di classe all’avanzamento delle classi popolari: aveva una componente «specificamente italiana». In conseguenza della loro storia di soggezione politica, della loro povertà e della opprimente influenza della Chiesa cattolica, gli italiani erano diventati un popolo moralmente pigro: «Il ‘dolce far niente’ degli italiani – ingiuriosa leggenda nel campo materiale – ha qualche fondamento, bisogna dirlo, nell’ordine morale. Gli italiani sono moralmente pigri. C’è in Cfr. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo cit., cap. 4. Negli anni Venti numerosi americani attribuivano a Mussolini qualità che erano apprezzate nella loro società: self-made, virile, pragmatico, paradossalmente Mussolini diventò una specie di «eroe democratico»: cfr. ivi, cap. 4. 76 77

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loro un fondo di scetticismo e di opportunismo che li porta facilmente a contaminare disprezzandoli tutti i valori»78. Un ulteriore problema degli italiani era il servilismo, un’eredità del passato. Ciò di cui avevano bisogno era imparare il senso della responsabilità e l’amore per la libertà. Il fascismo poteva essere sconfitto solo attraverso l’educazione morale e politica delle masse. Un nuovo Risorgimento, di tipo morale e sociale, era necessario, ed era quanto Giustizia e Libertà voleva realizzare con il suo programma per la rivoluzione antifascista79. Negli articoli che scriveva per la rivista che Rosselli aveva fondato a Parigi per esporre e diffondere il programma di Giustizia e Libertà, Carlo Levi, già collaboratore di Gobetti, sviluppava concetti simili. Per coloro che, come lui, in quel periodo vivevano ancora in Italia, era sempre più chiaro che il fascismo era ben lontano dall’essere soltanto l’espressione degli interessi economici di una classe, ma aveva anche una dimensione psicologica: «Tutta una tradizione storica italiana, diventata realtà attuale di psicologia e di carattere, ha trovato nel fascismo (‘autobiografia della nazione’) la sua organizzazione. È la ereditata incapacità ad essere liberi, l’abitudine dell’indulgenza liberatrice, della dimenticanza del peccato nella facile obbedienza, degli intermediari con Dio. È la paura della passione e della responsabilità che porta a ricercare adorando chi ce ne privi e ce ne liberi; il bisogno di un ordine esteriore che possa [...] quasi [essere] sostituto della inesistente moralità [...] il fascismo ha con tale precisione rivelato il nostro genio tradizionale, impersonato la nostra vuotezza e timidezza abdicatrice, portato alla coscienza quello che vi era ben ravvolto, che dovrà pur servire a liberarcene»80. Considerando i gravi problemi che Levi trovava nel carattere degli italiani e il periodo in cui scrisse queste parole, quando cioè il fascismo era solidamente al potere e godeva di popolarità nel paese, il passaggio è sorprendente per la nota di speranza con cui si conclude. 78 C. Rosselli, Socialismo Liberale, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945, p. 110 (ed. or. 1930). 79 C. Rosselli, Filippo Turati e il socialismo italiano, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», 3, s.d. (ma 1932), p. 42. 80 C. Levi, Seconda lettera dall’Italia, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», Marzo 1932, ora in C. Levi, Il dovere dei tempi. Prose politiche e civili, a cura di L. Montevecchi, Donzelli, Roma 2004, p. 17.

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Benché a esprimere una critica del tipo di moralità (o dell’assenza di moralità) che stava alla base del fascismo fossero stati inizialmente gli antifascisti laici, anche alcuni cattolici progressisti erano convinti del fatto che il fascismo fosse l’espressione delle profonde carenze di senso civile degli italiani, e se ne convinsero ancora di più nella seconda metà degli anni Venti, quando il fascismo consolidò il suo potere, grazie anche al patto con la Chiesa. I collaboratori del «Pungolo», una rivista antifascista pubblicata a Parigi dal dicembre 1928 al febbraio 1930, ripresero gli insegnamenti di Francesco De Sanctis: erano tornati i tempi di Guicciardini, tempi di decadenza e di crollo morale. L’Italia era nuovamente ostaggio dei vizi vecchi di secoli denunciati da De Sanctis: dall’epoca di Dante non era stato fatto alcun progresso. Il popolo italiano doveva ancora vincere una battaglia contro se stesso81. Ma per loro naturalmente la colpa non era del cattolicesimo: gli italiani erano sempre stati «incapaci di profonde convinzioni religiose», e questa caratteristica originale aveva guastato perfino la Chiesa cattolica. Lo stesso clericalismo era un prodotto italiano, e dopotutto il Vaticano era parte della storia dell’Italia82. Nel 1933, con i vessilli nazisti che sventolavano sul Reichstag, l’analisi del fascismo in termini di carattere italiano cominciò a manifestare dei limiti. Ora una variante del fascismo si era installata proprio al centro dell’Europa e non solo ai suoi margini, e per di più in un paese non certamente noto per essere «moralmente pigro» o arretrato economicamente. Ragionando sulla presa di potere da parte dei nazisti, i membri di Giustizia e Libertà in esilio esprimevano la speranza che finalmente i paesi democratici prendessero più seriamente in considerazione il fascismo, visto che non era un fenomeno limitato a un paese sottosviluppato come l’Italia83. In realtà il fascismo stava mostrando la testa anche

81 G.A. Grimaldi, L’attualità di De Sanctis, in «Il Pungolo. Rassegna periodica di politica e di cultura», 1, 15 dicembre 1928. Esiste una ristampa di questa rivista a cura di E. Camurani, Forni Editore, Bologna s.d. 82 A. di Severo, L’educazione cattolica e il carattere degli italiani, in «Il Pungolo. Rassegna periodica di politica e di cultura », 1, 15 maggio 1929. 83 An., L’Italia e l’Europa, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», 7, giugno 1933, p. 4. L’autore notava anche che i nazisti da «barbari sinceri» e «autenti-

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negli Stati Uniti: ne era un segno il caso del governatore demagogo della Louisiana Huey Long, come fece notare verso la fine degli anni Trenta Giuseppe Antonio Borgese, uno studioso di letteratura ed esule antifascista che viveva negli Stati Stati dal 1931 e che aveva contatti con i membri di Giustizia e Libertà. Il suo Golia. Marcia del fascismo fu pubblicato a New York nel 1937, quando era chiaro che il fascismo era un fenomeno specifico dei tempi nuovi, del Novecento, e non solo italiano84. Pur riconoscendo questa novità, Borgese sosteneva che per comprendere il fascismo bisognava inquadrarlo nella sua patria originale, l’Italia, e che in tale contesto era «futile spiegare il fascismo come la creazione di un solo uomo, Mussolini, e di un gruppo di suoi seguaci [...] Mussolini agì sulla mentalità degli italiani e la conquistò»85. Quindi, per capire perché la «malattia» del fascismo si era imposta era necessario esaminare questa mentalità. Borgese rifiutava le spiegazioni che mettevano in risalto esclusivamente il ruolo giocato dalle difficoltà del primo dopoguerra, e ricercava le origini della particolare mentalità degli italiani nella loro lunga storia. Consapevoli di sé già nel Medioevo, erano assediati da un «complesso di inferiorità» instillato in loro dai più grandi scrittori, Dante e Machiavelli, che si riconfermava ogni volta che venivano battuti in guerre o battaglie. La sconfitta più grave degli italiani era di avere perduto l’occasione di diventare una nazione alla fine del Medioevo, quando altri paesi vi erano riusciti. Perciò non potevano contare su una nazione ma solo sulla famiglia, e avevano imparato ad amarla in maniera esclusiva. Il Risorgimento aveva dato vita a una nazione che «dubitava della sua anima»86 e continuava a soffrire per le umiliazioni delle sconfitte militari. Alla fine, data ci» quali erano, prendendo più sul serio i princìpi del fascismo, l’avevano portato al suo esito estremo. 84 Borgese era in corrispondenza con alcuni membri di Giustizia e Libertà: cfr. la sua lettera del 16 febbraio 1935 a Rosselli in M. Gervasoni e A. Caffi (a cura di), Giustizia e Libertà e il socialismo liberale, M & B Publishing, Milano 1999. 85 G.A. Borgese, Goliath. The March of Fascism, Viking Press, New York 1937, p. 4 (le traduzioni sono mie perché l’edizione italiana fu leggermente rivista). Su Borgese cfr. Dizionario biografico degli italiani, s.v. Sui suoi atteggiamenti nei confronti della storia italiana cfr. anche S. Marelli, Scrittori dell’antistoria, Panozzo, Rimini 1984. 86 Borgese, Goliath cit., p. 80.

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questa sorta di predisposizione emozionale di fondo, dal clima irrazionale ed eccitato dal nazionalismo negli anni del dopoguerra era emerso il fascismo, un’«esplosione di emotività e di pseudo-intellettualismo» che la psicologia piena di risentimento di Mussolini aveva sfruttato per dare corpo alla sua volontà di conquista del potere87. Gli italiani non erano stati capaci di reagire con un loro Davide al Golia del fascismo. In un post-scriptum dedicato ai «fratelli in Italia», Borgese chiedeva ai compatrioti di smetterla di considerarsi un paese di geni e allo stesso tempo una massa di vigliacchi, di perdersi e di perdere il paese in «cause stupide» come quelle scelte dal fascismo, di parlare di «rinascite e di rinascimenti», e di cominciare invece e finalmente a «comportarsi da adulti»88. L’approccio di Borgese combinava in una maniera nuova e più dinamica analisi storica e alcune popolari nozioni di psicologia collettiva, ma il suo concetto di «mentalità italiana» non era molto diverso da quello di carattere nazionale.

Altre autobiografie Il libro di Borgese fu pubblicato in Italia solo nel 194689. Ambedue le edizioni del Golia furono liquidate con noncuranza da Benedetto Croce, il più autorevole intellettuale italiano del tempo nonché, a partire dal 1925, il più noto oppositore del fascismo90. Croce non aveva preso parte alle discussioni dei liberali che gravitavano intorno alla rivista «La Rivoluzione Liberale». In realtà, nei primi tempi fu un sostenitore del governo di Mussolini, che considerava uno strumento adatto a stabilizzare la politica italiana in un senso conservatore e una «cura» per lo Stato, e continuò a esserlo anche quando fu assassinato Matteotti. Prese le distanze Ivi, pp. 218, 222. Ivi, p. 477. 89 Id., Golia. Marcia del fascismo, Mondadori, Milano 1946. 90 A Croce il testo di Borgese non piacque affatto, al punto da ritenere che non valesse la pena recensirlo: per Croce, Borgese non sapeva nulla di storia, non aveva una mentalità storica seria, e inoltre gettava «discredito» su tutti gli italiani contribuendo a diffondere la cattiva opinione che gli stranieri avevano dell’Italia: cfr. il suo sarcastico pezzo su Borgese in «La Rassegna d’Italia», gennaio 1947, dopo la pubblicazione dell’edizione italiana del libro. 87 88

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dal regime solo nel 1925 quando redasse il Manifesto degli intellettuali antifascisti91. Il tema ricorrente del carattere degli italiani sembrava estraneo al suo modo di pensare. Fin dai tempi della prima guerra mondiale, Croce, che si era opposto all’intervento nonostante il suo patriottismo, aveva criticato le generalizzazioni sui popoli considerati nel loro complesso. Nelle sue riflessioni sulla guerra, rispondendo a coloro che demonizzavano gli «Unni» germanici e che lo accusavano di germanofilia, osservava che «tutti i popoli dimostrano di essere di volta in volta intelligenti e ciechi, forti e deboli, coraggiosi e smarriti»92. Nella sua Storia d’Italia, pubblicata nel 1928, Croce attaccò la «stoltezza» delle teorie sulle disposizioni politiche dei popoli latini, specialmente quando ne sostenevano l’incapacità di vivere in regimi liberali. Secondo Croce queste teorie erano anche controproducenti: in realtà, osservava, i giudizi estremamente negativi che molti italiani esprimevano sul proprio paese e sulle istituzioni dopo l’unificazione non avevano certo aiutato a dare sostegno allo Stato liberale93. Nulla di sorprendente, sembrava implicare Croce, se dopo tanti attacchi dall’interno dello Stato liberale le istituzioni non avevano avuto molti difensori, quando si era trattato di fronteggiare l’assalto dei fascisti. Croce, tuttavia, ometteva opportunamente di osservare che egli stesso aveva fornito munizioni filosofiche proprio a quegli intellettuali, di destra e di sini91 Cfr. la voce su Croce di F. Sbarberi in V. de Grazia e S. Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino 2002. Nel Dizionario biografico degli italiani, P. Craveri fa risalire l’inizio dell’opposizione di Croce all’indomani del delitto Matteotti, ma le dichiarazioni pubbliche di Croce non consentono di sostenere tale affermazione. 92 B. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1928, p. 298. 93 Id., Storia d’Italia 1871-1915, Adelphi, Milano 1991, pp. 135, 145 (ed. or. Laterza, Bari 1928). In altri scritti il filosofo sembrava nutrire minore ottimismo per il carattere dello Stato liberale e il popolo italiano. Nella sua commemorazione di Francesco De Sanctis (1926), Croce citò un passaggio in cui lo storico della letteratura rifletteva sul fatto che, per quanto riguardava le istituzioni, l’Italia era un paese a regime parlamentare, «ma non ancora nel carattere, nelle abitudini, nell’istruzione». Rileggere De Sanctis, notava Croce, gli dava un senso di rimorso e di mortificazione perché non aveva prestato attenzione agli avvertimenti di chi ne sapeva di più (un riferimento indiretto al suo iniziale sostegno al fascismo). Negli anni successivi, Croce arrivò a vedere nel fascismo la caduta in uno stato di malattia morale e l’avvento di una nuova forma di barbarie: cfr. anche Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., pp. 132-142.

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stra, che dalla fine dell’Ottocento erano intenti a distruggere la legittimità dell’ordine liberale in Italia; inoltre, concludendosi con il 1915, la ricostruzione storica di Croce evitava completamente di affrontare la responsabilità politica della classe liberale al governo (di cui Croce stesso era membro) che, per la maggior parte, aveva sostenuto l’inclusione dei fascisti nel blocco conservatore per motivi di stabilizzazione, se non rigenerazione, politica94. In realtà Croce non rifiutava l’idea del carattere nazionale in toto, ma voleva che il giudizio sul carattere di un popolo fosse prerogativa dello storico e/o del filosofo della storia che, in quanto tale, aveva una conoscenza superiore del mondo (per Croce, per di più, la sola vera forma di conoscenza del mondo era la storia) – e probabilmente pensava che solo qualcuno come lui potesse essere giudice in quel campo. Infatti, in una nota dei marginalia alla sua Teoria e storia della storiografia (1920) Croce negava la possibilità di descrivere il carattere di un popolo prescindendo dalla sua storia: «Che cos’è il carattere di un popolo? La sua storia: tutta la sua storia e nient’altro che la sua storia». Non si poteva selezionare e scegliere con cura qualche aspetto, ma era necessario conoscere a fondo l’intero sviluppo storico. Se si immobilizzava ciò che era fluido e plasmato da circostanze storiche, la descrizione del carattere dei popoli perpetuava «l’errore naturalistico, positivistico e sociologico che dà realtà agli schemi dell’astrazione»95. Oltre a rifiutare un certo tipo di discorso sul carattere nazionale, Croce non gradiva l’idea della «riforma morale e intellettuale» del popolo italiano, e preferiva invece riforme specifiche: l’Italia non era qualcosa «da fare» ma qualcosa che «[esisteva e] che attraversava il processo di costruzione di se stessa»96. Un popolo che si lasciava rifare secondo certi «progetti astratti» sarebbe stato una cosa amorfa, non un essere vivo e vitale. L’idea di Croce che il carattere di una nazione si trovasse in tutta la sua storia, considerata cioè nel suo complesso e nel lungo periodo, ispirò L’âme italienne di Carlo Sforza (1934), una breve pa-

Sui rapporti tra Croce e il fascismo si veda anche il capitolo successivo. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 5a ed., Laterza, Bari 1943 (ed. or. 1920), pp. 314, 315. 96 Id., Disegno di una riforma generale (1918), ora in Id., L’Italia dal 1914 al 1918 cit., p. 269. 94 95

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noramica delle caratteristiche che definivano l’«animo italiano». Ex ministro degli Esteri nell’Italia liberale, esule a Parigi, Sforza intendeva reagire alle pretese del fascismo di essere l’interprete della «vera» Italia. Il suo volumetto invitava il lettore a guardare in maniera più ampia alla storia e alle tradizioni degli italiani, e ad evitare generalizzazioni semplicistiche dettate da una conoscenza solo superficiale e dalla politica corrente. Rigettando l’enfasi fascista sul retaggio di Roma, Sforza sosteneva che l’«essenza dell’Italia» erano le città, e che la «vera vita dell’Italia» era molto più simile a quella dell’antica Grecia che non a quella di Roma97. Contrariamente all’immagine che ne proiettava il fascismo, gli italiani erano «il più universalista di tutti i popoli»98, ma allo stesso tempo tenevano in grande considerazione le tradizioni locali, come ben dimostrava la vitalità dei dialetti. Cercando di convincere l’opinione pubblica estera che il fascismo non rappresentava la vera Italia, Sforza costruiva essenzialmente un carattere italiano che era l’opposto di tutto ciò che rappresentava il fascismo. L’essenzialismo positivo di Sforza era ancora più esplicito in Les italiens tels qu’ils sont, una versione riveduta e ampliata dell’Âme italienne, che uscì prima in Canada nel 1941 e poi negli Stati Uniti nel 194299. Sforza cercò ancora una volta di liberare l’immagine degli italiani dalle grinfie del fascismo: mentre quest’ultimo esaltava il collegamento con l’antica Roma, Sforza lo minimizzava, sostenendo che lungi dal derivare direttamente dai romani gli italiani avevano somiglianze e legami più stretti con il passato pre-romano. Per Sforza, gli italiani erano fortemente individualisti, amanti dell’autonomia municipale e «internazionalisti [universalisti] scontenti»100. Come popolo, il loro scontento derivava dal fatto che i sogni che avevano per la propria nazione si erano scontrati con le realtà dello Stato creato dopo l’unificazione. Nel discorso di Sforza l’«individualismo» degli italiani acquistava C. Sforza, L’âme italienne, Flammarion, Paris 1934, pp. 9, 60. Ivi, p. 23. 99 Id., Les italiens tels qu’ils sont, Editions de l’Arbre, Montreal 1941; Id., The Real Italians. A Study in European Psychology, Columbia University Press, New York 1942. L’edizione italiana, riveduta, fu pubblicata dopo la guerra con il titolo Gli italiani quali sono, Mondadori, Milano 1946. 100 Id., The Real Italians cit., p. 8. Per «internazionalisti» intendeva in realtà «universalisti». 97 98

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per la prima volta un significato positivo, nel senso che coincideva con la molteplicità delle tradizioni culturali che coesistevano nella penisola fin dall’epoca pre-romana. Non era forse il totalitarismo, domandava retoricamente, la «disposizione d’animo più estranea al carattere italiano»?101 Quindi il fascismo era fondamentalmente una realtà «antitaliana», il risultato – come in seguito avrebbe detto Croce – delle imprese di una «banda di avventurieri» che aveva preso il controllo del governo. A dire la verità, aggiungeva Sforza, per riuscire a emergere il fascismo aveva sfruttato certi atteggiamenti delle élites e delle classi medie (specialmente la predilezione per la retorica e la tendenza allo scetticismo nei confronti della politica), ma l’italianità era qualcosa di completamente diverso e non poteva essere considerata responsabile di aver dato origine al regime. Il diplomatico Sforza aveva certamente buone intenzioni: oltre a cercare di liberare gli italiani dalla stretta associazione con il fascismo, voleva trasmettere un messaggio positivo e pieno di speranza che forse li avrebbe aiutati a rientrare in un’Europa nuova e democratica. Ma nel fare questo disegnava, come minimo, un quadro eccessivamente ottimistico. Come notava Gaetano Salvemini – esule negli Stati Uniti e uno dei membri fondatori di Giustizia e Libertà – in una recensione di The Real Italians pubblicata sulla rivista «The Nation» nel 1942, Sforza era troppo preoccupato di riscattare l’immagine del paese davanti al mondo (e agli Alleati, in particolare) per riuscire a costruire un ritratto equilibrato degli italiani. Era troppo preoccupato dall’«ombra» che Mussolini gettava sull’immagine degli italiani nel mondo e dal fatto che questa immagine veniva collegata al regime e al suo «demagogo crudele e pomposo» come se Mussolini personificasse l’intero Volksgeist italiano, ovvero il carattere nazionale. Eppure gli altri italiani – quelli del tipo di Mussolini – esistevano veramente, in particolare nelle «classi intellettuali», e questo non poteva essere ignorato. Se i «veri» italiani fossero stati tutti come li descriveva, Sforza vivrebbe a Roma anziché a New York102. Ivi, p. 136. G. Salvemini, Gl’italiani come veramente sono: studio di psicologia europea, in Id., L’Italia vista dall’America, a cura di E. Tagliacozzo, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 59-61. 101 102

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In quel periodo anche Salvemini tentava, se non di cancellare l’ombra gettata da Mussolini sull’immagine degli italiani, almeno di ridimensionarla. Nelle lezioni che tenne a Harvard nel 1943 cercò di togliere credibilità alla tesi secondo la quale il fascismo era espressione di arretratezza o del Volksgeist. L’arretratezza era una categoria di scarsissima utilità pratica. Se proprio doveva essere usata, diceva Salvemini, si applicava certamente più al Meridione che non a tutta l’Italia; e il movimento di Mussolini e delle camicie nere non era nato nel Meridione, ma si era formato a Milano e aveva radunato i primi sostenitori nelle regioni settentrionali e centrali, dove il movimento operaio e quello socialista erano particolarmente forti. E non era d’aiuto neanche la nozione di Volksgeist. La storia d’Italia abbracciava diversi secoli: quale periodo era maggiormente rappresentativo del carattere italiano? E quale figura storica personificava veramente il carattere dell’Italia? Le scelte possibili erano molte ed estremamente differenti: Dante o Machiavelli? Manzoni o D’Annunzio? Toscanini o Mussolini? La scelta, qualunque fosse, era assolutamente soggettiva, il che escludeva un corretto giudizio storico103. È possibile che gli eventi degli anni Trenta e gli anni trascorsi in esilio negli Stati Uniti avessero reso più facile a Salvemini porre il fascismo italiano in una prospettiva diversa, più ampia e più suscettibile di comparazioni, non più ostaggio di un modo di pensare rimasto entro i limiti di un orizzonte puramente nazionale e provinciale. Ma probabilmente anche l’avvicinarsi della fine del regime faceva nascere la speranza di sfuggire alla maledizione del carattere. Se la questione del carattere italiano era fondamentale per il fascismo, l’imporsi e il consolidarsi del regime la resero importante anche per l’opposizione antifascista, sollecitando una gamma di approcci e risposte che ne rispecchiavano le differenze interne, sia politiche che culturali. Il modo in cui gli antifascisti concepivano il carattere italiano era in realtà assai diverso da quello dei fascisti, dato che non c’era evidentemente alcun riferimento a sostrati etnicirazziali né alle dubbie generalizzazioni della psicologia dei popoli.

103 Id., Lezioni di Harvard: l’Italia dal 1919 al 1929, in Id., Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1963, vol. 1, p. 353.

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Tuttavia, il topos del carattere e il paradigma dell’arretratezza del paese che dominavano gli ambienti progressisti italiani all’inizio del ventesimo secolo portarono a una lettura del fascismo che in larga misura lo connetteva alle vecchie tare del carattere e della società italiana, impedendo di coglierne la drammatica novità. In particolare, la componente radical-liberale dell’antifascismo vedeva in Mussolini la somma dei difetti italiani e nella dittatura il risultato di mancanze profonde nel processo storico di formazione della nazione. Ma, ironicamente, tra i critici conservatori del regime liberale, l’enfasi sull’arretratezza degli italiani poteva anche sfociare in atteggiamenti acquiescenti se non del tutto giustificatori nei confronti della svolta dittatoriale. In ambienti antifascisti piú moderati c’era poi chi, al contrario, cercava di dissociare completamente l’immagine del popolo italiano da quella del regime. Questo approccio trovava origine sia in un paradigma storiografico diverso sia nella volontà di liberare l’immagine del paese dall’ombra lunga del fascismo e della sua propaganda politica, specialmente all’estero. Analoghi processi e contrastanti verdetti sul carattere italiano si riproporranno con nuove inflessioni e implicazioni politiche dopo il crollo del regime e il collasso del paese cui portò il disastro della seconda guerra mondiale.

VII «BRAVA GENTE»? Il fascismo è la somma di tutti i difetti, dei guasti e delle deviazioni del carattere italiano. Corrado Alvaro, 1945 La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: «Ho famiglia». Leo Longanesi, 1947

«Cosa è oggi l’Italia? Che vale? [...] che cosa siamo in questo tempo?». Queste erano alcune delle domande che Dino Terra, il curatore di una raccolta di saggi intitolata Dopo il diluvio, pose a diversi noti scrittori dopo la fine della seconda guerra mondiale. Gli scrittori, affermava Terra, erano più sensibili alle «variazioni dello stato umano» e quindi più «indicati a ritrovare i tratti della nazione smarrita». Come intellettuali, avevano anche il dovere di dimostrare il loro senso di responsabilità civile facendo un lavoro di riflessione su di sé e sulla nazione1. Alla luce degli eventi della seconda guerra mondiale, gli italiani avevano forse ancora più motivi rispetto al passato di riflettere su se stessi come popolo e di fare un serio esame di coscienza. Vent’anni di dittatura erano stati 1 D. Terra [pseud. di Armando Simonetti] (a cura di), Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, Garzanti, Milano 1947, Introduzione, p. XII. Terra era un romanziere che negli anni Venti e Trenta era considerato di avanguardia.

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«coronati» dall’entrata in una guerra di aggressione a fianco della Germania nazista e da una serie di sconfitte disastrose, cominciate subito dopo l’inizio delle operazioni militari. Nell’estate del 1943 lo sbarco degli Alleati in Sicilia aveva finalmente determinato, il 25 luglio, le forzate dimissioni di Mussolini e la fine del regime fascista. A questo evento fece seguito il comportamento sconcertante del nuovo governo Badoglio: dopo un mese di negoziati segreti con gli Alleati e l’annuncio dell’armistizio l’8 settembre, i reali e il primo ministro lasciarono Roma in tutta fretta per rifugiarsi nei territori del Sud occupati dalle forze alleate, abbandonando la capitale nelle mani delle truppe tedesche che si avvicinavano e l’esercito italiano senza chiari ordini. Non crollò miserabilmente solo il progetto fascista, ma l’intera nazione si trovò allo sbando2 e fu allora che la Resistenza armata contro i nazisti e i loro alleati fascisti finalmente cominciò. Paradossalmente, o forse proprio grazie a questo contesto di rovine, forze diverse erano all’opera per creare un’immagine positiva degli italiani: gli «italiani brava gente», un popolo buono, umano, fondamentalmente non guastato dal fascismo e dalla sua vergognosa politica razzista, e anzi vittima della stessa guerra. La cristallizzazione di questo mito – peraltro non del tutto nuovo – in una varietà di situazioni e di mezzi di comunicazione, dai discorsi politici ai film, in parte dipendeva proprio dalle sconfitte militari delle forze armate italiane3 e dal contrasto (non di rado coltivato intenzionalmente) tra il comportamento degli italiani e quello dei tedeschi4, ma fu dovuta soprattutto alla politica degli anni immediatamente successivi al crollo del fascismo. A livello 2 Prendo a prestito l’espressione da E. Aga-Rossi, Una nazione allo sbando: l’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Il Mulino, Bologna 2003. 3 Cfr. A. Giovagnoli, La cultura democristiana tra chiesa cattolica e identità italiana. 1918-1948, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 222. 4 Cfr. F. Focardi, «Bravo italiano e cattivo tedesco»: riflessioni sulla genesi di due immagini incrociate, in «Storia e memoria», 1, 1996, pp. 55-83. Ora esiste una letteratura piuttosto vasta che ridimensiona e storicizza questo mito: cfr. per esempio D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano 1994; D. Rodogno, Italiani brava gente? Fascist Italy’s Policy Toward the Jews in the Balkans, April 1941July 1943, in «European History Quarterly», 35, 2005, pp. 213-240; e A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2005, che sottolinea le origini coloniali di questo mito (l’italiano come «colonizzatore buono»).

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internazionale, il governo doveva convincere gli Alleati che il paese era un cobelligerante leale, e assicurarsi che dopo la guerra l’«Italia democratica e antifascista» non sarebbe stata punita per gli errori dell’«Italia di Mussolini»5. A loro volta, gli Alleati – che condividevano in ogni caso l’idea del temperamento italiano come «non incline alla guerra»6 – dovevano «ripulire» l’immagine del loro nuovo alleato, e quindi separare nettamente le responsabilità dei fascisti al potere da quelle degli italiani in generale: è ben noto il riferimento di Churchill al fatto che il responsabile delle sventure dell’Italia era «un uomo, un uomo solo»7. A livello interno, sottolineare che la «vera» Italia era stata «vittima» e non «complice» di Mussolini aiutava a occultare le responsabilità di chi aveva consegnato l’Italia a Mussolini (e che era ancora al potere)8. Ma aiutava anche a rafforzare la legittimità dell’antifascismo e il sentimento che la Resistenza stava compiendo la rigenerazione democratica e la redenzione morale degli italiani, anche se in effetti solo una minoranza prendeva parte attiva alla lotta armata9. Nasceva così quella che è stata definita la «narrazione egemonica» del bravo italiano10. A metà degli anni Quaranta, tuttavia, accanto a questa «narrazione egemonica» che scaturiva da una guerra in cui l’Italia era en5 F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del «bravo italiano». Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in «Italia contemporanea», 53, 2001, pp. 393-399. 6 Cfr. I. Favretto e O. Bergamini, Temperamentally Unwarlike: The Image of Italy in the Allies’ War Propaganda, 1943-1945, in M. Connelly e D. Welch, Tauris (a cura di), War and Media. Reportage and Propaganda, 1900-2003, London-New York 2005, pp. 112-126. 7 N. Kogan, Italy and the Allies, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1956, p. 19; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 564. In F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, RomaBari 2005, p. 18, l’autore nota anche come l’assenza di processi contro criminali di guerra italiani abbia contribuito a creare l’invenzione del buon italiano. 8 Focardi, «Bravo italiano e cattivo tedesco» cit., p. 60. 9 Cfr. C. Pavone, La Resistenza oggi: problema storiografico e problema civile, in «Rivista di storia contemporanea», 21, 1992, pp. 456-480. 10 Riprendo l’espressione da Focardi, La guerra della memoria cit., p. 17. Cfr. anche R. Ben-Ghiat, che sottolinea come l’immagine del buon italiano fosse un modo per evitare la memoria delle proprie colpe, in Liberation: Italian Cinema and the Fascist Past, 1945-1950, in R.J.B. Bosworth e P. Dogliani (a cura di), Fascism: History, Memory, and Representation, Macmillan, London 1999, pp. 83-101.

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trata a fianco dell’aggressore nazista, in vari ambienti politici si esprimevano considerazioni estremamente critiche sul popolo italiano. Le motivazioni che ne erano alla base erano naturalmente molto diverse. Dopo l’armistizio con gli Alleati, i fascisti irriducibili che sostenevano la Repubblica sociale italiana (o Repubblica di Salò – il moncone superstite dello Stato fascista – messa in piedi nel settembre 1943 con il sostegno dei nazisti in Italia settentrionale e centrale) accusavano i compatrioti di avere tradito e disonorato il paese. Di fronte al crollo delle forze armate e allo sbandamento dello Stato, alcuni italiani si sentivano testimoni non solo della rovina di un ordine politico ma della vera e propria fine della nazione o, per usare le parole di un osservatore dell’epoca, della «morte della patria»11. D’altra parte, nelle file della Resistenza, all’orgoglio per la funzione rigeneratrice in senso democratico della lotta partigiana si mescolavano ansie per il futuro ordine politico, dato che i partiti che facevano parte della coalizione antifascista erano divisi sul tipo di società e di Stato che si sarebbe dovuto erigere sulle rovine del fascismo. In tale contesto, durante il periodo della guerra civile del 1943-1945 e negli anni immediatamente successivi che videro l’istituzione della Repubblica e la vittoria del Partito democristiano nelle elezioni del 1948, il discorso del carattere nazionale si trovò a giocare molti ruoli: non solo dava corpo ai contrastanti sentimenti di fascisti e antifascisti, ma era anche uno strumento per addossare, o rimuovere, le responsabilità del fascismo e della guerra, e veniva utilizzato a sostegno di differenti progetti sull’ordinamento politico postfascista.

Un popolo di traditori: la Repubblica di Salò e gli italiani Nel luglio 1943, mentre i fascisti irriducibili assistevano con sconcerto e risentimento alla caduta del governo Mussolini, la maggior parte degli italiani festeggiava nelle strade ciò che credeva avrebbe significato una rapida fine della guerra a cui il regime aveva dato inizio tre anni prima. I fascisti furono frustrati ancora di più dagli avvenimenti che seguirono nel corso dell’estate. Nei loro 11

S. Satta, De profundis, Cedam, Padova 1948.

VII. «Brava gente»?

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scritti pubblici e privati affiorava il disprezzo per gli italiani che, ai loro occhi, avevano «tradito» Mussolini e macchiato l’onore del paese perché volevano la pace e si rifiutavano di continuare la guerra al fianco degli alleati tedeschi. La «lotta» di Mussolini e dei fascisti contro il carattere italiano continuò chiaramente nella Repubblica di Salò. Quando i repubblichini facevano appello al popolo italiano perché li appoggiasse e attaccavano chi si rifiutava di combattere la guerra che continuavano a ingaggiare a fianco dei nazisti contro gli Alleati, le loro accuse suonavano molto familiari. Secondo l’editoriale pubblicato il 1° agosto 1944 in «Italia e civiltà», una rivista dei fascisti «moderati» che annoverava tra i suoi collaboratori il filosofo Giovanni Gentile, i «disfattisti» – come venivano chiamati tutti coloro che non appoggiavano i fascisti e speravano nella vittoria degli Alleati – incarnavano i «mai spenti ideali di rinuncia della vecchia e serva Italia». Gli italiani dovevano superare il «complesso di inferiorità» che era «tipico di molti italiani» specialmente tra le élites. Questo atteggiamento si traduceva in un certo scetticismo per qualsiasi «nobile» ideale e gli antifascisti in particolare erano impregnati della «morale della rinuncia e della codardia» imparata in tre secoli di asservimento: si vergognavano della loro italianità, al contrario dei fascisti che erano intenti a «riaffermare una volontà e una coscienza di superiorità»12. Sempre sulla stessa rivista, un articolo su Mazzini rammentava ai lettori che il patriota del Risorgimento aveva rimproverato gli italiani per la loro indolenza e mancanza di fede, e ricordava il suo sacrificio per la patria13. E anche il giovane Giovanni Spadolini, che in seguito sarebbe stato primo ministro della Repubblica democratica, rivisitava il Risorgimento sottolineando che si era trattato di un fenomeno profondamente italiano, di una «rivalutazione del carattere, della forza d’animo, dello spirito 12 B. Occhini, Del complesso di inferiorità, in «Italia e civiltà», 8 gennaio 1944, ora in Id. (a cura di), Italia e civiltà, Volpe, Roma 1971, pp. 25-27. Sul tema dell’identità nella stampa fascista della Repubblica di Salò (come pure nella stampa antifascista) cfr. anche J. Dunnage, Making Better Italians: Issues of National Identity in the Italian Social Republic and the Resistance, in G. Bedani e B. Haddock (a cura di), The Politics of Italian National Identity. A Multidisciplinary Perspective, University of Wales Press, Cardiff 2000, pp. 191-213. 13 A. Di Salvo, Lettura di Mazzini, in «Italia e civiltà», 22 gennaio 1944, ora in Occhini (a cura di), Italia e civiltà cit., pp. 40-46.

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di sacrificio, della lotta disinteressata e appassionata» che doveva servire da ispirazione a tutti gli italiani14. Le pagine della rivista erano piene di richiami al dovere patriottico di combattere per la patria e di appelli alla «serietà». Alcuni dei collaboratori di «Italia e civiltà» ammettevano che nei suoi venti anni di potere il fascismo aveva commesso alcuni errori, per esempio non sradicando la corruzione politica, ma aggiungevano che il vero problema stava negli stessi italiani: molti avevano solo finto di credere nel fascismo, e troppi avevano continuato a coltivare il «sogno di tornare a essere i cittadini di una nazione piccola e servile, di tornare a essere un popolo di albergatori, di custodi di musei, di lustrascarpe, di riacquistare la più cara di tutte le libertà: la libertà di essere piccoli e vili»15. Il tono accusatorio di «Crociata italica», un periodico fascista radicale e ultra-cattolico, era ancora più forte: mentre da un lato si scagliava contro ebrei e americani per il loro attacco a un «popolo di millenaria civiltà», dall’altro inveiva contro «l’immenso ‘complesso di inferiorità’», la mancanza di fiducia in se stessi, la tendenza a sottovalutarsi, l’«inconsueto masochismo» e la «sadica voluttà di disprezzarsi» degli italiani, che impediva loro di credere che il riscatto era ancora possibile. L’attendismo (un lemma coniato in quel periodo per indicare l’atteggiamento di chi aspettava l’arrivo degli Alleati e la fine della guerra) degli italiani, continuava l’articolista, aveva le sue radici in una «purulenta malattia della nostra anima»16. Considerando la profonda avversione dei fascisti per la psicoanalisi17, l’uso di questa terminologia nella descrizione del carattere degli italiani suona piuttosto stridente, ma testimonia anche della diffusione di una nuova declinazione della psicologia collettiva al di là di barriere ideologiche. In un altro numero della rivista, un articolo proclamava che solo le «persone oneste» avevano seguito il duce, e che tutti gli altri avevano tradi14 G. Spadolini, Considerazioni sul Risorgimento, in «Italia e civiltà», 27 maggio 1944, ora in Occhini (a cura di), Italia e civiltà cit., pp. 291-295. 15 E. Sacchetti, Gli italiani e questa guerra, in «Italia e civiltà», 8 aprile 1944, ora in Occhini (a cura di), Italia e civiltà cit., pp. 189-194. 16 B. Bentivoglio, Una malattia da curare, in «Crociata italica», 7 agosto 1944. 17 P. Maldini, Mussolini contro Freud: la psicoanalisi nella pubblicistica fascista, Guaraldi, Firenze-Rimini 1976.

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to la patria e i loro fratelli che combattevano per la sua «definitiva resurrezione»18. La maggior parte degli italiani, tuttavia, non sembrava prestare alcuna attenzione a questi appelli. Verso la fine dell’aprile 1944 Giovanni Papini annotava nel suo diario che gran parte del popolo «non era che plebe», e che perfino chi avrebbe dovuto ascoltare non ascoltava e non capiva il messaggio della Repubblica sociale di Mussolini19. Dopo la fine della guerra, i neofascisti continuarono ad addossare la responsabilità delle sconfitte militari al «disfattismo» degli italiani che avevano «tradito» l’alleato tedesco. Per loro, come ha osservato Francesco Germinario, il «fallimento maggiore del fascismo [era] di natura antropologica, prima che politica, perché la sua rivoluzione muoveva da un’errata sopravvalutazione del carattere degli italiani»20. Ma insieme alle accuse nei confronti degli italiani in generale, nei loro scritti affiorava anche l’immagine delle due Italie: una era l’Italia del «badoglismo», ovvero «del consueto machiavellismo nazionale decantato nel doppiogiochismo e nel tradimento»21, mentre l’altra era l’Italia «virile» del fascismo, impaziente di essere protagonista sulla scena politica internazionale. L’italiano infido e traditore aveva prevalso ancora una volta.

Non contaminati dal fascismo? La politica dell’auto-assoluzione nazionale Se i fascisti irriducibili mantenevano un atteggiamento fortemente accusatorio nei confronti degli italiani, alcuni antifascisti sembravano prendere decisamente le loro difese. Come è noto, dopo la caduta del fascismo Benedetto Croce negò pubblicamente l’esistenza di qualsiasi profondo legame tra il regime e la storia del paese. In un discorso tenuto nel gennaio 1944 a Bari – ancora occupata dalle forze alleate – per definire quali fossero il posto e I. Marano, Questo nostro popolo, in «Crociata italica», 16 ottobre 1944. G. Papini, Diario, Vallecchi, Firenze 1962, p. 180. 20 F. Germinario, L’altra memoria: l’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 87. 21 Ivi, p. 19. 18 19

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la natura del fascismo nel contesto della storia italiana, il filosofo della storia nonché uomo politico usò la nota metafora della «parentesi»: «È vero, essa [l’Italia] ha avuto venti anni di una triste, di una vergognosa storia; abbiamo visto i soldati della patria di Mazzini e di Garibaldi condotti a guerre inique contro la Francia e la Grecia, o a imitare, contro tutto il costume dell’Italia e il temperamento italiano, procedimenti tedeschi, nelle terre della Yugoslavia [...]. Ma l’Italia ha avuto altresì secoli e millenni in cui ha portato un grandissimo contributo alla civiltà del mondo. Che cosa è nella nostra storia una parentesi di vent’anni? Ed è poi questa parentesi tutta italiana o anche europea e mondiale?»22. Pur essendo stato, come abbiamo visto nel capitolo precedente, un critico del concetto di carattere nazionale, ora Croce non aveva alcuna esitazione a utilizzare questo stesso concetto per stabilire un contrasto tra il comportamento dei tedeschi e quello degli italiani durante la guerra. Quello stesso anno, in un altro discorso, Croce dichiarò che mentre nel caso dell’Italia il fascismo era stato una parentesi, anzi, una «superfetazione estranea alla secolare storia italiana e ripugnante a quella stessa recente e gloriosa dell’Italia dell’Ottocento», nel caso della Germania il nazismo rappresentava una «crisi terribile, che covava nella secolare storia tedesca»23. Perché questo genere di determinismo non si applicasse allo svolgimento della storia italiana non era spiegato. Ma in realtà Croce dava una spiegazione molto sommaria dell’intero fenomeno del fascismo, e anche negli anni successivi mostrò una notevole riluttanza ad affrontare la materia24. Ridimensionando l’importanza del fascismo nella traiettoria storica generale dell’Italia, il tropo della parentesi smentiva le as-

22 B. Croce, La libertà italiana nella libertà del mondo, in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 61 (ed. or. Laterza, Bari 1944); il corsivo è mio. Si tratta di un discorso tenuto nel gennaio 1944 al primo congresso dei partiti antifascisti. Il termine compare anche nella sua prefazione all’edizione 1947 della Storia d’Italia. Ma la genesi di questi tropi risale agli anni Venti: cfr. P.G. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 132-142. 23 B. Croce, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, in Id., Scritti e discorsi politici, vol. I, cit., p. 153. 24 Su questo punto cfr. anche D.D. Roberts, Historicism and Fascism in Modern Italy, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2007, cap. 3.

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serzioni dei fascisti per i quali il regime era stato il culmine del processo di risveglio del paese, iniziato nel Risorgimento e interrotto durante il periodo liberale. Ma serviva anche ad altri scopi. Gli storici hanno analizzato a fondo le implicazioni politiche della metafora crociana. Come ha sottolineato David Ward, essa consentiva agli intellettuali e politici conservatori come Croce di separare il regime liberale pre-fascista (nonché il suo proprio comportamento) da ogni responsabilità per l’ascesa del fascismo, e quindi di «riproporre [il liberalismo] come il fondamento su cui doveva essere costruita l’Italia postfascista»25. Inoltre consentiva loro di presentare l’Italia come un alleato fidato dell’Inghilterra e degli Stati Uniti nella guerra contro il nazifascismo. Più recentemente, nella sua analisi dell’atteggiamento degli intellettuali italiani nei confronti del passato fascista all’indomani della seconda guerra mondiale, Pier Giorgio Zunino ha fatto notare che il «mito» della parentesi era una «menzogna necessaria» che serviva a legittimare un ordine democratico molto fragile26. Pur senza assolvere Croce dalle sue responsabilità, Zunino vede nel tropo della parentesi crociana un mito politico di innocenza che serviva a portare il paese fuori dalle rovine politiche e morali del fascismo, in un contesto in cui i fascisti continuavano comunque a essere molto presenti. Bisogna anche aggiungere – come ha notato Stefan Berger – che Croce e altri storici liberali cercavano di salvare una «tradizione nazionale screditata» sostenendo che tra il fascismo e lo Stato nazionale italiano creato dal Risorgimento vi era una discontinuità sostanziale27. Oltre al termine «parentesi», per riferirsi al fascismo Croce usava anche una metafora medica, il termine «morbo»; non era però un morbus italicus ma una malattia «contemporanea», perché era più un prodotto dei tempi che di un luogo specifico: alla fine dell’Ottocento le sue radici culturali si potevano trovare anche in altri 25 D. Ward, Antifascisms. Cultural Politics in Italy, 1943-1946. Benedetto Croce and the Liberals, Carlo Levi and the «Actionists», Farleigh Dickinson University Press-Associated University Press, Madison-Teaneck-London 1996, p. 75. 26 P.G. Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, p. 288. 27 S. Berger, A Return to the National Paradigm? National History Writing in Germany, Italy, France, and Britain from 1945 to the Present, in «The Journal of Modern History», 77, 2005, p. 638.

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paesi europei, e dopo la prima guerra mondiale aveva infettato in un modo o nell’altro quasi tutta l’Europa28. Croce affermava inoltre che – avendolo sperimentato – l’Italia era ormai vaccinata contro il fascismo. Ma in realtà, come dimostrano vari scritti, Croce era consapevole dell’impatto del fascismo sulla società italiana e della sua pesante eredità, e ne aveva una visione più realistica e quindi pessimistica. Qualsiasi fossero le origini del fascismo, vent’anni di «menzogne» non potevano non aver lasciato un segno sugli italiani. L’Italia si era liberata dal «morbo fascista», osservava Croce verso la fine del 1943, ma la società contemporanea si era liberata anche dai suoi «germi»?29 L’organismo era completamente depurato? C’erano ragioni per dubitarne: come notava nel 1946, all’Italia era stata lasciata un’eredità di «profonda corruzione» in tutte le branche della vita pubblica. Temendo che presto gli storici avrebbero trovato nel dittatore qualche aspetto positivo e che avrebbero proceduto alla sua riabilitazione a livello personale, Croce notava inoltre che nello studio del fascismo il vero problema meritevole di indagine storica non era la personalità di Mussolini, ma capire in che modo la storia italiana ed europea aveva finito per permettere che persone del genere si affermassero30. Perché gli italiani gli avevano prestato fede? La questione non poteva non riguardare, anche se implicitamente, il comportamento dello stesso Croce, dal momento che il filosofo condivideva la responsabilità di quei politici che all’inizio avevano pensato di servirsi di Mussolini per stabilizzare il regime liberale, e avevano cominciato a opporvisi solo quando era troppo tardi. In maniera simile, subito dopo la fine della guerra l’allora ministro degli Affari esteri Carlo Sforza continuava a proporre la sua idea ottimistica di italianità, e allo stesso tempo rifletteva anche sul28 B. Croce, Il fascismo come pericolo mondiale, in «New York Times», 28 novembre 1943, ora in Id., Scritti e discorsi politici, vol. I, cit., pp. 15-23. Croce aveva già parlato di «morbo» in relazione al fascismo negli anni Venti e Trenta: cfr. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., pp. 132-141. 29 Croce, Il fascismo come pericolo mondiale cit., p. 21. 30 Id., Estratto di diario, in «Quaderni della Critica» (1946-1947), ora in Scritti e discorsi politici cit., p. 206 (annotazione del 2 dicembre 1943). Cfr. anche Zunino, La Repubblica e il suo passato cit., p. 285. Già durante gli anni del regime Croce aveva espresso (in privato) la propria consapevolezza di quanto profondamente il fascismo stesse penetrando nella società italiana: cfr. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo cit., pp. 127-132.

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l’eredità lasciata da venti anni di dittatura. La traduzione, nel 1946, di The Real Italians offrì un contributo alla narrazione del buon italiano mettendone in risalto un’essenza che appariva impermeabile ai miti collegati al fascismo. Oltre a risistemare il materiale delle versioni precedenti, Sforza aggiunse a questa edizione italiana alcuni capitoli su ulteriori aspetti della letteratura, della cultura e della politica del paese. Rivolgendosi direttamente ai suoi compatrioti, li incoraggiava ad abbandonare la retorica pomposa ed enfatica dell’Italia «civiltà millenaria», che li rendeva ridicoli, e li invitava a superare il «vecchio scetticismo passivo», eredità della loro vecchia civiltà che, a suo dire, non era servita a costruire la democrazia31. L’insistenza di Sforza sulla distanza tra i «veri» italiani e il fascismo era in linea con le dichiarazioni pubbliche che il suo amico Croce andava facendo da quando era crollato il regime. Tuttavia, come Croce, anche Sforza sapeva che il suo quadro piuttosto roseo della storia d’Italia e del carattere degli italiani contrastava con la situazione reale. In un’altra pubblicazione del 1946, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, esprimeva una visione meno ottimistica e ragionava sulla persistenza del fascismo: definiva l’Italia fascista permeata da un’«atmosfera di menzogna» e sottolineava che «il tanfo del lungo sistema di menzogne si poteva ancora sentire» dopo la fine della dittatura. Ed era questo «il più orribile resto» del fascismo32. Nel gennaio del 1946 un altro allievo di Croce, Francesco Flora, sulle pagine della rivista letteraria romana «Il Mercurio» ricordava ai lettori che la responsabilità per l’avvento del fascismo ricadeva su tutto il popolo italiano – eccetto coloro che erano morti o erano stati sepolti nelle prigioni fasciste – perché la sua «abdicazione mentale e morale» aveva lasciato che un solo individuo diventasse l’arbitro di tutto il paese; la «vacanza morale» della nazione era stata seguita da un «tragico castigo»33. In ogni caso, il riconoscimento del fatto che un ventennio di dittatura aveva lasciato un segno sugli italiani non modificava, nel complesso, la narrazione che Croce e i suoi allievi facevano degli italiani: un popolo depositario di una grande civiltà, composto C. Sforza, Gli italiani quali sono, Mondadori, Milano 1946, p. 305. Id., L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Mondadori, Milano 1946, pp. 9-10. 33 F. Flora, Quel che ha rovinato l’Italia, in «Il Mercurio», 3, 1946, pp. 5, 9. 31 32

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fondamentalmente da brava gente i cui tratti essenziali non erano stati macchiati dal fascismo e neanche dalle sue guerre di aggressione (ma di guerre coloniali e razzismo di solito non si parlava). Anche alcuni degli avversari di Croce, i comunisti e i cattolici, partecipavano – per differenti ragioni – all’elaborazione di queste narrazioni. Per la verità nel 1943 e nel 1944 sulla stampa democristiana si levavano voci, specialmente di giovani, che invitavano tutti gli italiani a fare un esame di coscienza e a riconoscere le proprie responsabilità. Mussolini non era il solo colpevole. Il fascismo aveva aggiunto il suo proprio tipo di corruzione a pratiche di corruzione politica che si erano già evidenziate durante il periodo dello Stato liberale, e gli italiani avevano accettato passivamente il regime. Ora dovevano essere rieducati: l’impresa mai portata a termine di fare gli italiani doveva ricominciare da capo34. Tuttavia ben presto subentrò un atteggiamento auto-assolutorio allorché il Partito democristiano cercó il sostegno dei moderati e finì per rappresentare un elettorato alquanto vario, con una forte componente di conservatori che non avevano alcun desiderio di rivangare il passato. Analogamente, nella sinistra comunista gli appelli iniziali a riconoscere la complicità di molti italiani con il regime e con la sua esecrabile guerra di aggressione lasciarono spazio all’immagine di un popolo fondamentalmente onesto fuorviato da una classe dirigente corrotta35. Questo mutamento accompagnò la decisione del Partito comunista di diventare un partito di massa, e quindi di accogliere nei propri ranghi anche individui che avevano aderito a vari livelli al regime impedendo un confronto profondo con il passato. Furono perciò le esigenze politiche specifiche di questi partiti, insieme a sviluppi di ordine più generale, a far prevalere la narrazione degli «italiani brava gente». Questa narrazione, tuttavia, non fu esente da contestazioni. 34 Cfr. per esempio Il risorgimento morale degli italiani, in «Il Popolo», 28 novembre 1943, e vari articoli in «La Punta. Giornale di battaglia della gioventù democratico-cristiana» del gennaio 1944. Cfr. anche Pavone, Una guerra civile cit., pp. 564-566; E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, pp. 308-309; F. De Giorgi, La Repubblica grigia. I cattolici e l’educazione alla democrazia nel secondo dopoguerra, in «Annali di storia dell’educazione», 8, 2001, pp. 9-42. 35 Per queste discussioni nella stampa cattolica e comunista cfr. Pavone, Una guerra civile cit., pp. 566-567. Tuttavia la vittoria dei democratici cristiani nel 1948 complicò la situazione per i comunisti.

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Denunce ed esami di coscienza collettivi Se perfino i crociani avevano i loro dubbi sul tessuto morale del paese dopo vent’anni di dittatura, gli esponenti del Partito d’Azione, che in quanto eredi di Giustizia e Libertà non coltivavano una visione idealizzata del popolo italiano, ne avevano molti di più36. A dire il vero, gli azionisti credevano che vi fosse un’altra Italia, un’Italia migliore, e che la Resistenza armata del popolo italiano avesse finalmente mostrato questa Italia migliore all’opera, come puntualizzava un pamphlet azionista del dicembre 1943: «La guerra di liberazione contrasta con ogni quadro tradizionale di vita italiana, con ogni presunta fiacchezza del carattere degli italiani»37. Nella sua prolusione quale nuovo rettore dell’Università di Firenze, subito dopo la liberazione della città nel settembre del 1944, Piero Calamandrei, uno dei membri fondatori del Partito d’Azione, sottolineava come il regime fascista fosse estraneo al «volto dell’Italia vera»: «per vent’anni [...] al posto della faccia sorridente di questa gente umana e gentile, è apparsa la mandibola burbanzosa di un fantoccio mascherato da condottiero e qualcuno ha potuto credere che questo fosse il volto del popolo italiano. Questa è stata la pena più torturante: pensare che le nazioni civili di tutto il mondo [...] potessero credere davvero che l’Italia del diritto romano [...], l’Italia di San Francesco e di Dante, l’Italia del Rinascimento, l’Italia del Vico, dell’Alfieri, del Foscolo e del Carducci, avesse potuto rinnegare all’improvviso, per decreto di un dittatore, queste grandi idee di giustizia e di libertà civile, questa tradizione di umanità e di pietà che è la nota più costante e più profonda del nostro carattere; che l’Italia del Beccaria fosse potuta diventare un paese di carnefici e torturatori, l’Italia del Mazzini un paese di nazionalisti oppressori dell’altrui libertà, l’Italia del Manzoni un paese di sconci razzisti»38. 36 Il Partito d’Azione, fondato nel 1942, comprendeva intellettuali e politici di convinzioni liberali e liberalsocialiste. Il suo scioglimento nel 1946, dopo la caduta del governo Parri, fu dovuto principalmente alle tensioni tra le sue due componenti maggiori. Sulla storia di questo partito cfr. G. de Luna, Storia del Partito d’Azione, 1942-1947, Editori Riuniti, Roma 1997. 37 Citazione ripresa da C. Novelli, Il Partito d’Azione e gli italiani. Moralità, politica e cittadinanza nella storia repubblicana, La Nuova Italia, Milano 2000, p. 73. 38 P. Calamandrei, L’Italia ha ancora qualcosa da dire, in Id., Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, La Nuova Italia, Firenze 1966.

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Ma una cosa era celebrare il ritorno dell’Italia nel novero dei paesi civili grazie alla Resistenza, e un’altra era affrontare la complicata opera di ricostruzione politica e morale all’indomani della dittatura e degli orrori cui nazismo e fascismo insieme avevano condotto. Nella presentazione della rivista «Il Ponte», che Calamandrei fondò pochi mesi dopo e il cui primo numero uscì nell’aprile del 1945, il giurista fiorentino pose l’accento sulla profonda crisi morale in cui gli italiani avevano vissuto per più di vent’anni, sulla mancanza di principi morali che aveva permesso a tante persone di «associarsi senza ribellione a questi orrori, di adattarsi a questa concezione belluina del mondo»39. Lungi dall’essere una parentesi o un accidente, il fascismo, questa rivelazione del carattere degli italiani, ne aveva aggravato i tratti peggiori. Contrastando polemicamente l’interpretazione di Croce, i membri del Partito d’Azione continuarono a rimarcare che il fascismo aveva già profonde radici nell’Italia pre-fascista, e che aveva peggiorato tutti i difetti dell’animo italiano facendo crescere l’apatia e l’indifferenza alla politica, l’interesse esclusivo per le faccende personali e familiari, il trasformismo, la corruzione e il settarismo40. Sulle pagine della rivista «La Nuova Europa», Guido De Ruggiero rifletteva sulla spaventosa crisi morale, sullo «sbandamento» morale in cui gli italiani erano caduti durante la guerra: la prostituzione, il mercato nero, la corruzione dominavano la vita italiana a un livello estremo. La causa principale di questa situazione era naturalmente il peggioramento delle condizioni economiche dovuto al protrarsi della guerra, ma per vent’anni gli italiani avevano sperimentato la disonestà giorno dopo giorno, e ora «questo fondo di cinismo che nell’animo italiano è il torbido sedimento lasciato da molti secoli della nostra storia, è venuto poco per volta alla superficie ed è assorto per troppi a criterio dei giudizi pratici»41. Tutto questo era particolarmente evidente tra la gente comune, che invece di indignazione morale mostrava una equivoca ammirazione per la furberia. Sulla «Nazione del Popo39 Id., Il nostro programma, in «Il Ponte», 1 aprile 1945, in Id., Scritti e discorsi politici cit., p. 102. 40 Cfr. Novelli, Il Partito d’Azione e gli italiani cit., pp. 13-34. 41 G. De Ruggiero, La crisi morale, in «La Nuova Europa. Settimanale di politica e cultura», 8 aprile 1945.

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lo», l’organo del Comitato di liberazione nazionale, Carlo Levi ammoniva che la «paura della libertà» che dominava gli italiani che avevano sostenuto il fascismo non era sparita nemmeno dopo il crollo del regime42; e in Cristo si è fermato ad Eboli (1945), le sue famose memorie degli anni passati al confino politico in un remoto paese del sud, Levi ricordava l’«eterna tendenza al fascismo» degli italiani, il prodotto di una società profondamente divisa, che temeva di essere libera43. Un mese dopo la Liberazione, sulle pagine del «Corriere d’Informazione» il direttore Mario Borsa invitò gli italiani a essere sinceri con se stessi: il fascismo aveva fatto piombare il paese in un vuoto morale in cui la religiosità, gli atteggiamenti civili, la dignità, il coraggio, l’energia, erano spariti. Dopo questa esperienza gli italiani dovevano sottoporsi a un profondo rinnovamento morale e ridiventare «uomini di carattere», per essere buoni cittadini in una società democratica44. Le speranze di un cambiamento radicale che in Italia settentrionale erano legate all’attività della Resistenza (il cosiddetto «vento del nord») non erano altrettanto forti nel resto del paese, e a Roma le diatribe tra i partiti che formavano la coalizione di governo preoccupavano molti vecchi e nuovi antifascisti. Le ansie per lo scenario politico che si sarebbe aperto alla fine della guerra erano particolarmente acute tra gli azionisti e quegli scrittori – tra cui Corrado Alvaro – più inclini a leggere la realtà sociale attraverso l’ottica di categorie morali. Alvaro, che negli Anni Trenta si era compromesso con il regime, entrò nei ranghi antifascisti solo dopo la caduta del fascismo45. Alla fine del 1944, quando l’avanzata verso nord delle truppe alleate si era fermata e nella Roma liberata il governo era messo in difficoltà dai contrasti tra i partiti antifascisti, lo scrittore in un pamphlet che a quei tempi ricevette molta attenzione, rifletteva – per usare le parole riportate sulla copertina – sulla «più grande cri42 C. Levi, Paura della libertà, in «La Nazione del popolo», 2 novembre 1941, ora in Id., Il dovere dei tempi cit., pp. 75-77. 43 Id., Cristo si è fermato a Eboli, 8a ed., Einaudi, Torino 1983, pp. 219-223 (ed. or. 1945). 44 M. Borsa, Sincerità, in «Corriere d’informazione», 22 maggio 1945. Il «Corriere d’informazione» sostituì il «Corriere della Sera» quando questo interruppe per un breve periodo le pubblicazioni subito dopo la Liberazione. 45 Su Alvaro cfr. la voce di F. Virdia in Dizionario biografico degli italiani, e A. Palermo ed E. Giammattei, Solitudine del moralista, Liguori, Napoli 1986.

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si della storia italiana» ed esprimeva i suoi timori che si perdesse ancora un’altra occasione per dare al paese un nuovo indirizzo. A Roma, il governo rappresentava le vecchie classi dirigenti che avevano portato l’Italia alla rovina. La monarchia, che per tutto il tempo era stata complice del fascismo, si trovava ancora nella capitale. Secondo Alvaro, c’era il reale pericolo che la «vecchia Italia» avrebbe prevalso ancora una volta e che dal disastro della guerra non sarebbe venuto fuori un vero cambiamento. Oltre a lanciare accuse contro le classi dirigenti e le istituzioni, egli rimproverava agli italiani la mancanza di «senso della realtà», e li considerava tanto portati a sopravvalutare la propria furbizia quanto incapaci di trarre lezioni dalle crisi che si trovavano ad affrontare regolarmente46. Anche Alvaro collegava il fascismo al carattere degli italiani. E malgrado facesse alcune distinzioni tra i ceti popolari e la classe media (che aveva usato il fascismo per trarre benefici materiali) da un lato, e le irresponsabili classi dirigenti dall’altro, definiva il fascismo «la somma di tutti i difetti e mancanze e deviazioni del carattere italiano»47. Avendo istituito un «regime di letterati falliti» nel quale dominava la mediocrità, il fascismo aveva distrutto quel poco di patriottismo che c’era tra gli italiani, ed era quindi responsabile del «disfattismo» che si era diffuso in Italia fin dall’inizio della guerra. Tutti questi atteggiamenti avevano determinato quella che Alvaro chiamava la «catastrofe morale di un popolo che è diventato insincero anche con se stesso»48. Pur non essendo membro del Partito d’Azione, Alvaro usava un linguaggio che aveva molto in comune con l’insistenza degli azionisti sul problema della moralità del paese. Allo stesso tempo, come ha notato Ruth Ben-Ghiat, nella sua argomentazione si insinuava l’immagine dell’Italia come vittima, e venivano ignorate completamente sia la questione delle violenze perpetrate nelle colonie sia quella della persecuzione degli ebrei italiani49. Era una miopia che sembrava caratterizzare gli scritti di quel periodo, anche quelli dei critici più progressisti del carattere italiano. Queste critiche in realtà non uscivano da certi C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, Bompiani, Milano 1945, pp. 3, 20, 21. Ivi, p. 14. 48 Ivi, p. 21. 49 R. Ben-Ghiat, Fascist Modernities: Italy, 1922-1945, University of California Press, Berkeley 2001, p. 205. 46 47

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confini. Nella sua denuncia di tutta una serie di errori e insufficienze, Alvaro descriveva ancora l’Italia come un paese che non aveva «alcun concetto di razza e di nazione»50. Riprendendo l’idea sviluppata da Gobetti e da Giustizia e Libertà, cioè che il fascismo era l’autobiografia della nazione, gli azionisti insistevano sul fatto che il fascismo aveva radici profonde nella società italiana e sui suoi effetti corruttori sulla popolazione. Questa insistenza contribuiva a dar supporto alla loro tesi che solo una profonda epurazione dei collaboratori del regime dagli apparati dello Stato e un programma di riforme socioeconomiche radicali potevano assicurare una base durevole per il rinnovamento democratico e per la ricostruzione del paese. Se il fascismo era fortemente radicato nella cultura italiana, la semplice restaurazione dell’ordine politico e sociale del periodo pre-fascista che chiedevano i liberali conservatori come Croce non dava alcuna garanzia che il fascismo non sarebbe ritornato. Soltanto un ordine politico più radicale in cui la libertà si coniugasse con la giustizia economica poteva fornire questa garanzia, indebolendo la collusione tra lo Stato e i poteri forti economici e vincolandolo agli interessi economici delle classi popolari51. Lo scetticismo degli italiani nei confronti delle istituzioni sarebbe scomparso solo quando queste ultime avessero mostrato di funzionare a beneficio di tutti. Fine della nazione? «De profundis» e «antistoria» Mentre gli intellettuali radicali impegnati attivamente nella Resistenza, pur lanciando accuse collettive contro gli italiani e appelli perché facessero un esame di coscienza, trasmettevano un messaggio di speranza, di cambiamento e di rigenerazione nazionale in senso democratico, le riflessioni di alcuni scrittori che rigettavano il fascismo ma che per varie ragioni, personali o politi50 Alvaro, L’Italia rinunzia? cit., p. 22. Altrove, in una lettera al figlio che meditava sulle responsabilità della generazione che aveva lasciato ai giovani l’«orrenda» eredità di una «guerra ingiusta», Alvaro descriveva il popolo italiano come «il più umano del mondo, ma nel mondo il più credulo e superficiale»: cfr. Lettera al figlio, in «Aretusa», 2 marzo 1945, pp. 46-51. 51 Cfr. Ward, Antifascisms cit., pp. 127-134; cfr. anche Novelli, Il Partito d’Azione e gli italiani cit., pp. 13-34.

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che, non partecipavano alla lotta armata né militavano nei partiti antifascisti, erano permeate da un pessimismo molto più marcato52. La crisi in cui il paese si trovò negli anni 1943-1945 era tale da portare alcuni a credere che l’Italia non esistesse più come nazione. C’era chi lamentava la «morte della patria», mentre altri si auguravano addirittura di liberarsi dalla camicia di forza della nazione. Alla luce dei tragici eventi che si verificavano nella penisola, l’interpretazione crociana del passato nazionale e dell’italianità così come l’approccio più generale di Croce alla storia sembravano particolarmente vuoti e privi di significato. Nella solitudine della sua casa di campagna in Friuli, il giurista sardo Salvatore Satta – non certo noto per la sua opposizione al fascismo durante il regime (in effetti vi si era adattato piuttosto bene, tanto da tenere un corso universitario di «dottrina del fascismo») – dal giugno 1944 all’aprile 1945 scrisse una meditazione sul collasso del paese intitolata De profundis53. Satta collegava il fascismo all’«uomo tradizionale», un tipo di uomo interessato solo ad aspetti materiali, che equiparava la libertà al privilegio e non aveva scrupoli a rinunciare alla libertà se il suo privilegio veniva minacciato. In Italia, elementi di questa mentalità erano presenti in individui di tutte le classi sociali, dalle élites alla gente di campagna. Questa concezione di libertà intesa come privilegio aveva caratterizzato in particolare lo Stato liberale che si era piegato facilmente al fascismo. Nel contesto del regime fascista l’«uomo tradizionale» si era quindi trasformato, superficialmente, nell’«uomo nuovo». A sua volta, e solo per convenienza, un regime basato sulla rinuncia alla libertà era finito nella paura della libertà che aveva segnato il 25 luglio 1943, il giorno della caduta di Mussolini, quando, invece di

52 Su questo pessimismo cfr. anche Gentile, La grande Italia cit., cap. 13; G. Aliberti, La resa di Cavour. Il carattere nazionale italiano tra mito e cronaca, Le Monnier, Firenze 2000, cap. 7; Gentile considera questo pessimismo radicale un segno della «morte della patria» e dell’inizio della «denazionalizzazione» che caratterizzò il periodo successivo, ma di fatto esso aveva connotazioni più ambigue. Sugli intellettuali che rigettavano il fascismo ma non presero parte alla Resistenza cfr. anche R. Liucci, La tentazione della «casa in collina»: il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana 1943-1945, Unicopli, Milano 1999. 53 Alcune note sulla vita di Satta (1902-1975) si trovano in Liucci, La tentazione cit., pp. 123-128, e nella prefazione di R. Bodei a una recente edizione del testo di Satta (Ilisso, Nuoro 2003).

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prendere in mano la situazione, gli italiani avevano aspettato che intervenissero altri. In seguito non era rimasto loro nient’altro che contemplare la visione sinistra della «morte della patria», di un’«Italia senza virtù, invisa ai propri figli, spregiata dagli stranieri [...] e, quel che è più triste, indifferente alla miseria nella quale è caduta»54. Pur non riferendosi mai esplicitamente a Croce (anche perché in realtà non nominava mai nessuno con nome e cognome, neanche Mussolini, che chiamava ironicamente l’«eroe italiano»), Satta criticava la nozione di fascismo come parentesi, sottolineando che una libertà che apre la strada al fascismo non è una vera libertà55. Anche se riprendeva chiaramente da Gobetti l’idea che il fascismo era «l’autobiografia della nazione»56, la sua meditazione sul fallimento del paese non lo conduceva al tipo di impegno politico sollecitato dal radicale del primo Novecento. Anzi, il suo conservatorismo lo portava a mettere in questione anche i partigiani e le loro motivazioni57. Nel De profundis di Satta una crisi eminentemente politica veniva trasformata in un dramma esistenziale collettivo e in un’elegia per la nazione perduta. Quando parlava dell’«uomo tradizionale» Satta si riferiva probabilmente a se stesso58, ma in tutto il testo non c’era un solo riferimento a ciò che aveva o non aveva fatto durante il fascismo. Analogamente a Satta, anche Giulio Colamarino si teneva fuori dalla sua analisi storica (Il fantasma liberale, 1945) che elaborava, notava tristemente, mentre l’Italia era ridotta a «campo di battaglia» di eserciti stranieri. Colamarino, un ex liberale che dopo un breve periodo di impegno nelle file antifasciste aveva collaborato al «Corriere Padano» di Italo Balbo dal 1926 al 1940 e aveva contribuito alla elaborazione di una teoria del corporativismo fascista59, morì nel 1944 senza poter completare il libro che stava scrivendo per cercare di «comprendere una storia che troppo ci interessa e ci tormenta, e dalla quale vorremmo uscire, per la nostra salvezza»60. S. Satta, De profundis, Adelphi, Milano 1980, p. 16. Ivi, pp. 28, 31. 56 Ivi, p. 31. Satta vi fa un riferimento esplicito. 57 Ivi, p. 185. 58 Cfr. Liucci, La tentazione cit., p. 125. 59 Su Colamarino cfr. Dizionario biografico degli italiani, e G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma 2006. 60 G. Colamarino, Il fantasma liberale, Bompiani, Milano 1945, p. 334. 54 55

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Il libro di Colamarino – che recava una prefazione di Corrado Alvaro e faceva parte della collana di Mondadori «Vincitori e vinti» – intendeva «stabilire l’identità morale e psicologica degl’italiani di due epoche», quella liberale e quella fascista. Per Colamarino il fascismo non era, con buona pace di Croce, né un accidente né una parentesi della storia del paese. Ne erano responsabili le classi dirigenti e anzitutto il popolo italiano, che – ad eccezione delle classi popolari – non aveva lottato per difendere la libertà. Le radici di tutto questo andavano trovate nel Risorgimento, una «rivoluzione mancata» che non era riuscita a diffondere i suoi ideali liberali tra la popolazione e in cui, in ogni caso, la causa del nazionalismo aveva prevalso su quella del liberalismo61. A parte Carlo Cattaneo, il Risorgimento non aveva avuto liberali veri: nemmeno Mazzini era stato un liberale nel senso moderno, perché in realtà inseguiva la visione di una «repubblica teocratica»62. Il Risorgimento non aveva lasciato neppure un libro che insegnasse agli italiani i principi di una vita libera: l’opera di un grande scrittore come Alessandro Manzoni, ad esempio, proponeva una «morale da schiavi»63. Costruito su queste basi, lo Stato liberale non aveva potuto che degenerare nel trasformismo, il quale a sua volta aveva posto le premesse del fascismo. In Italia, in conclusione, il liberalismo era stato solo un fantasma. Gli italiani erano un popolo incapace di diventare moderno. Dal momento che Colamarino concentrava la sua polemica esclusivamente sui limiti del Risorgimento e dello Stato liberale (limiti su cui amavano insistere gli stessi fascisti, anche se da una prospettiva assai diversa), il fascismo stesso si dissolveva dal quadro e diventava stranamente irrilevante. Poiché lo scrittore morì prima di completare il suo lavoro, non sappiamo se avesse l’intenzione di elaborare ulteriormente la sua analisi critica del fascismo e di riflettere sul ruolo che egli stesso aveva avuto nel contesto del regime. Ma essendo l’opera di qualcuno che fino ai primi anni Quaranta aveva teorizzato il corporativismo fascista, sembra improbabile che Il fantasma liberale sarebbe diventato un esame di coscienza personale. Ivi, p. 427. Ivi, p. 80. 63 Ivi, p. 58 61 62

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Una critica implacabile dell’interpretazione giustificatoria di Croce venne anche da uno storico triestino vicino agli ambienti azionisti e repubblicani, Fabio Cusin, i cui scritti costituiscono probabilmente l’espressione più radicale di quella parte della letteratura post-1943 che metteva sotto processo il carattere degli italiani64. Forse Cusin fu colui che si spinse più a fondo nel collegare il fascismo al carattere degli italiani, prima in un volume di carattere storico scritto nel 1943-1944, Antistoria d’Italia, e poi in un altro scritto di carattere più socio-psicologico intitolato L’italiano. Realtà e illusioni, pubblicato nel 1945. In forte contrasto con la visione crociana della storia in generale e di quella italiana in particolare, Antistoria d’Italia presentava tutta la storia dell’Italia moderna come una sequenza di sviluppi profondamente negativi e di fallimenti che avevano finito fatalmente per portare al fascismo. Contrariamente al quadro positivo che Croce delineava dello Stato liberale, l’antistoria di Cusin era un appassionato atto d’accusa nei confronti della storia italiana, nel tentativo di arrivare alle origini dello «sfacelo morale» rappresentato dal fascismo. Nella sua analisi, Cusin non si limitava a esaminare a fondo il fallimento del Risorgimento e dello Stato liberale come avevano fatto Gobetti e Colamarino prima di lui, ma andava assai più indietro nel tempo, partendo addirittura dalle caratteristiche etniche e psicologiche degli abitanti della penisola nell’antichità. Secondo Cusin, costoro erano per la massima parte discendenti di schiavi, una massa di gente inerte e rassegnata, più incline a difendersi con la furberia che con la forza. In seguito, a dare all’Italia il suo «carattere nazionale» erano stati il trasferimento dei servi dalle campagne nelle città e la formazione di feudi ereditari65. Nelle città dominavano le oligarchie, da cui vennero i tiranni che ressero le Signorie – un «feno-

64 Su Cusin (che è stato inspiegabilmente dimenticato dal voluminoso Dizionario biografico degli italiani) cfr. G. Cervini, introduzione a F. Cusin, Gli scritti politici di Fabio Cusin nel «Corriere di Trieste», a cura di G. Cervini, Del Bianco, Udine 1991, e G. Aliberti, Le tentazioni della storia: il «caso Cusin», in «Clio», 36, 2000, pp. 223-264. Malgrado fosse antifascista, per poter insegnare all’Università di Trieste nel 1934 Cusin chiese e ottenne la tessera del partito fascista, un «compromesso» che molti italiani dovettero fare per ottenere o mantenere un impiego nell’amministrazione statale o una cattedra universitaria. 65 F. Cusin, Antistoria d’Italia, Einaudi, Torino 1948, p. 37. Il volume è stato ristampato varie volte negli anni Settanta e anche di recente (2001).

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meno tipicamente italiano» fondato su una tradizione «tirannicoindividualistica e giuridico-autoritaria»66. Indubbiamente tra la popolazione vi erano delle eccezioni: una di queste era Dante, una figura tormentata che spesso gli italiani non compresero perché incapaci di guardarsi nell’anima. Nonostante fossero rispettosi delle istituzioni religiose, gli italiani mancavano di un vero spirito religioso. Mazzini lo aveva capito, ma non ebbe alcuna influenza sul Risorgimento. La vita nel nuovo Stato non poteva non rispecchiare l’immaturità del popolo e la mancanza di principi della borghesia, che non aveva avuto alcuno scrupolo a rinunciare al sistema parlamentare per un regime come quello di Mussolini, un uomo che incarnava i «tipici caratteri puerili» degli italiani, e in particolare il loro «individualis[mo] esibizionista» e il disprezzo per le donne67. Nell’Italiano Cusin continuò la sua devastante analisi, ma, invece di esaminare la storia del paese nel suo complesso, concentrò l’attenzione esclusivamente sul carattere della popolazione per identificarne il «tipo psicologico predominante»68. Questo carattere aveva preso forma in provincia, a partire dalla decadenza che era cominciata nel tardo Medioevo. Fondamentalmente lo spirito del fascismo era proprio questo spirito provinciale, che aveva prevalso su quello delle città moderne. Tra le caratteristiche distintive di questo carattere c’erano l’individualismo estremo, la mancanza di introspezione (gli italiani erano un «popolo inconfesso», ovvero incapace di guardarsi nell’animo)69, e la tendenza al conformismo morale, all’inerzia e al sentimentalismo. Molti di questi tratti traevano origine dal cattolicesimo, che aveva impedito il formarsi di una vera coscienza morale. Alcune affermazioni di Cusin non erano una novità. Ma ciò che rendeva nuovo e più radicale il suo atto di accusa era l’uso della psicologia e della psicoanalisi, le discipline che nel libro di Croce erano oggetto di un anatema, e che nella cultura dell’Italia del Novecento venivano assai poco considerate70. Cusin sosteneva

Ivi, p. 59. Ivi, p. 227. 68 F. Cusin, L’Italiano. Realtà e illusioni, Atlantica Editrice, Roma 1945, p. 41. Il volume è stato ristampato di recente (2002) a cura di G. Aliberti. 69 Ivi, pp. 41-47. 70 Nel 1945 anche Renato Ruggeri, uno psichiatra con simpatie di sinistra, 66 67

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che l’organizzazione e le dinamiche della famiglia influivano pesantemente sulla formazione del carattere nazionale italiano71. Le famiglie erano patriarcali ma allo stesso tempo erano dominate dalle donne e dalla loro ammirazione «animalesca» per i figli72. In conseguenza dell’influenza materna sull’educazione, il popolo italiano aveva sviluppato dei tratti «femminili» quali un alto grado di emotività e di sentimentalismo. La vita degli italiani era dominata da una sensualità pagana e pervasiva; la prostituzione era estremamente diffusa e gli uomini erano esibizionisti. La famiglia, a cui gli italiani erano legati in maniera molto fisica, era un microcosmo di anarchia. In questa atmosfera primitiva l’assenza di fattori di inibizione si risolveva nella mancanza di una qualsiasi vera sublimazione e interiorizzazione della legalità73. Senza dubbio Cusin ammetteva alcune distinzioni a livello regionale e di classe, ma comunque credeva che esistesse un «carattere nazionale italiano tipico», localizzato al centro e in tutto il Meridione della penisola (mentre Milano era già un po’ svizzera)74. Da un punto di vista sociale l’italiano moderno era solo un «contadino inurbato»75 che spesso aveva perso l’unica istituzione per cui provava attaccamento, cioè la famiglia, e che perciò era privo anche di quel minimo di moralità, anche se distorta, che questa struttura forniva. In città, questo tipo d’uomo era un «arrivista, prepotente o vile, a seconda delle circostanze»76. Il vero terreno da cui era emerso il fascismo era la combinazione dei tratti psicologici degli italiani con le tendenze conservatrici e l’arretratezza dell’Italia rurale. Quindi il fascismo affondava le sue radici nella psicologia e nella personalità di un grandissimo numero di italiani, e la responsabilità di questo stato di cose ricadeva specialmente sulle tradizioni intellettuali dominanti del paese. Cusin metteva fortemente

applicò la psicologia all’analisi del carattere nazionale ma in maniera piuttosto diversa, e focalizzando l’attenzione principalmente sul presunto complesso di inferiorità nazionale degli italiani: R. Ruggeri, La psicologia del popolo italiano, Mondadori, Milano 1945. 71 Cusin, L’Italiano cit., p. 80. Il riferimento a Freud è a p. 196. 72 Ivi, p. 74. 73 Ivi, p. 62, n. 1. 74 Ivi, p. 151. 75 Ivi, p. 161. 76 Ivi, p. 161.

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in questione la storiografia contemporanea – nelle versioni politicamente contrastanti di Gioacchino Volpe (un nazionalista sostenitore del fascismo) e di Benedetto Croce – in quanto la riteneva una pratica più intenta a nascondere il carattere italiano che a rivelarlo77. In particolare, per Cusin lo storicismo di Croce tendeva a giustificare il passato e a trovare aspetti di riabilitazione in quasi tutti i contesti per nascondere la realtà del male, e proprio per questa sua incapacità a guardare in faccia la realtà Croce era un «vero italiano»78. Lo storicismo crociano era una forma di idealismo intriso di cattolicesimo e di reverenza per la tradizione, e quindi intrinsecamente conservatore, incapace di favorire ogni vero cambiamento, quel cambiamento di cui l’Italia aveva disperatamente bisogno per liberarsi dalla sua tradizione fallimentare. Gli osservatori stranieri avevano composto un quadro più accurato degli italiani, che contrastava con questa tradizione capziosa e ingannevole (D.H. Lawrence era l’unico ad avere compreso a fondo l’Italia)79. Il loro sguardo critico era l’unico che potesse dire qualcosa di vero a proposito dell’animo italiano. La visione che Cusin aveva degli italiani era tale da portarlo a credere che nessun cambiamento politico, per quanto radicale, potesse essere una soluzione, a meno che non fosse accompagnato da una profonda trasformazione spirituale. Tuttavia il quadro che dipingeva era così fosco da far perdere la speranza di vedere mai un cambiamento del genere. In effetti, la soluzione personale di Cusin fu di uscire dalla nazione sostenendo lo statuto di territorio libero per Trieste, la sua città natale, che in quel periodo era al centro del contenzioso tra Italia e Yugoslavia. Non era forse Trieste sempre stata un mondo a sé, una città che non poteva corrispondere e non corrispondeva al mito di omogeneità dello Stato nazionale? L’appartenenza a una città le cui complesse storia e identità sfidavano la mitologia nazionale forniva a Cusin non solo una spiegazione della sua differenza a livello personale, ma anche un’alternativa al suo disappunto verso l’Italia. A causa del radicalismo della sua posizione nei confronti della nazione, la sua severa analisi del carattere degli italiani fu assai conIvi, p. 183. Ivi, p. 178. 79 Ivi, p. 160. 77 78

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troversa perfino tra gli azionisti, che avevano un forte senso patriottico pur essendo sostenitori del federalismo europeo. Alcuni recensori criticavano Cusin per la sua presunta mancanza di patriottismo, altri per le sue generalizzazioni sul passato dell’Italia e perché si serviva del più vago dei concetti, l’«animo» italiano, evocando un’immagine parziale e, per uno di questi critici, perfino «spettrale» dell’Italia80. Inutile a dirsi, l’appello di Cusin per un cambiamento radicale dell’orientamento culturale italiano rimase inascoltato. In mezzo alle rovine della guerra e della guerra civile la visione gobettiana della storia d’Italia aveva certamente più senso di quella crociana, ma la critica totalizzante del passato, dissociata da ogni progetto di effettiva ricostruzione, poteva portare a conseguenze che lo stesso Gobetti non aveva mai considerato.

Accuse e cinismi di reduci Alla luce degli eventi della guerra, il carattere degli italiani era oggetto di riflessione anche in altri ambienti che avrebbero costituito una presenza importante nella società italiana dopo il 1945 e in cui gravitavano intellettuali reduci dal fascismo, frustrati e pieni di risentimento nei confronti degli antifascisti, nonché vari «compagni di viaggio», individui che pur mantenendo una posizione pubblica più ambigua avevano tratto in vario modo benefici dal regime. Questi intellettuali, delusi sia dal regime che dal popolo italiano, si servivano dei discorsi sul carattere non solo per spiegare gli eventi della guerra, ma anche per denigrare l’antifascismo e le nuove istituzioni democratiche. Dopo il 1945 essi continuarono la

80 «Spettrale» è un termine usato dallo storico E. Sestan nella sua lunga recensione critica dell’opera di Cusin, in «Belfagor», 1, 1946, pp. 487-494. Un critico cattolico rimproverò a Cusin la mancanza di «obiettività» nella trattazione della storia, l’anticlericalismo e la mancanza di patriottismo (cfr. «Civiltà Cattolica», 99, 1948, pp. 534-535). Alcuni recensori di sinistra criticarono Cusin per l’uso di nozioni vaghe come «animo italiano» e per le sue ampie generalizzazioni sul passato dell’Italia (cfr. la recensione di R. Zangheri ad Antistoria d’Italia in «Società», 4, 1948, pp. 280-285, e quella anonima in «La Critica Politica», 8 [1946], p. 160). Tra i pochi che accolsero favorevolmente l’Antistoria vi fu l’ex comunista Angelo Tasca (cfr. il suo Nascita del fascismo, La Nuova Italia, Firenze 1950, p. LXXVI).

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loro carriera giornalistica collaborando a diversi quotidiani a larga circolazione e a settimanali popolari. In particolare, questo era il caso di due scrittori che abbiamo visto assai impegnati a definire il carattere degli italiani già in precedenza: Giuseppe Prezzolini, il vociano che divenne «apota» nel 1922, ma che di fatto fu un ammiratore di Mussolini fino all’ultimo, e Leo Longanesi, che era stato un importante giornalista fascista e continuò a essere molto attivo nel mondo dell’editoria anche dopo la caduta del fascismo. Prezzolini era emigrato negli Stati Uniti nel 1929 e aveva richiesto e ottenuto la cittadinanza americana nel 1940, ma seguiva attentamente la situazione politica dell’Italia e non smise mai di scrivere su periodici italiani81. I suoi diari del tempo di guerra mostrano quanto fosse preoccupato per l’impreparazione dell’Italia e anche per la possibilità di una sconfitta tedesca («se Hitler non vince, sarà tutto perduto», scriveva il 26 luglio 1942), come provasse vergogna e umiliazione alla notizia dell’armistizio (8 settembre 1943), e come continuasse a lamentarsi per l’incapacità degli italiani di identificarsi come popolo o con lo Stato (5 dicembre 1944)82. L’unica critica (si fa per dire) nei confronti di Mussolini espressa in centinaia di pagine si trova in un’annotazione del 15 maggio 1946, in cui Prezzolini registrava che la sua speranza che Mussolini avrebbe funzionato da «antidoto» contro i difetti degli italiani era fallita: diventando sempre più italiano, l’uomo «prese i vizi nazionali e perì di infezione italica». In un ritratto della cultura italiana uscito nel 1948, intitolato The Legacy of Italy – e tradotto alcuni anni dopo con un titolo significativamente diverso83 – Prezzolini pontificava ancora una volta sul carattere del popolo italiano. Il volume, in cui l’autore riprendeva le lezioni che aveva tenuto al Barnard College, intendeva illustrare la

81 Prezzolini tenne corsi di cultura italiana alla Columbia University dal 1929 fino a quando andò in pensione nel 1949. 82 G. Prezzolini, Diario 1942-1968, Rusconi, Milano 1980, pp. 22, 49, 66. 83 Id., The Legacy of Italy, S.F. Vanni, New York 1948. Il libro fu tradotto in francese nel 1951 e in spagnolo nel 1956. La traduzione italiana fu pubblicata con il titolo L’Italia finisce: ecco quel che resta (Vallecchi, Firenze 1958) e ristampata dallo stesso editore nel 1970, nel 1981 e nel 2003. Il testo della versione italiana conteneva una nuova introduzione in cui l’autore dichiarava il definitivo fallimento del tentativo di formare la nazione in Italia e il suo prossimo destino come «provincia dell’Impero europeo» (p. VIII: qui e in seguito cito dall’edizione del 1970).

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«qualità unica» della civiltà italiana e i contributi che aveva elargito al resto del mondo. Concepito per un pubblico non italiano, era un’introduzione alle glorie dell’alta cultura italiana da Dante a Machiavelli a Galileo, di cui sottolineava il valore universale, e includeva anche aspetti della cultura popolare quali la commedia e la cucina. «Come compagni, maestri, amanti, poeti, artisti», concludeva l’autore, gli italiani potevano insegnare «l’arte di vivere» al mondo intero84. Ma Prezzolini coglieva anche l’occasione per esporre le sue idee sugli italiani da altri punti di vista, come soldati e come membri di una collettività: sotto questi aspetti, dichiarava – ribadendo concetti già espressi – gli italiani lasciavano molto a desiderare. Come cittadini non valevano molto perché la loro natura aveva uno «stampo profondamente individualistico»: mancavano di disciplina e non avevano il senso dell’interesse nazionale e del bene pubblico85. Come soldati non godevano di buona reputazione, salvo a livello individuale. Ciò che mancava loro era il «legame dell’autorità statale», e quindi avevano perduto la maggior parte delle volte. Ma gli italiani mancavano anche di una «disposizione alla guerra», un fatto di cui peraltro non dovevano vergognarsi; era imperdonabile, invece, la vanagloria del mondo letterario e delle oligarchie – dal Risorgimento al fascismo – che ne avevano vantato il valor militare. Lungi dal condannare le molte guerre inutili che questo popolo, che si supponeva non incline a battersi, aveva combattuto, Prezzolini – che nonostante il tono disincantato era sempre un nazionalista – insisteva sull’idea della guerra come prova della nazione; le ripetute sconfitte militari pertanto non facevano che confermare la fondamentale debolezza dello Stato in Italia. E tuttavia, concludeva, il paese aveva ancora una civiltà superiore a tante altre, era tollerante (gli italiani non erano antisemiti: una straordinaria affermazione se si considera che solo dieci anni prima il fascismo aveva introdotto la legislazione razzista) e affascinante. Prezzolini non si limitava a pontificare sul carattere degli italiani; riaffermava anche la sua idea che il liberalismo era estraneo 84 Id., L’Italia finisce cit., p. 347. La critica americana sembrò apprezzare il libro: cfr. per esempio la recensione di H.L. Matthews sul «The New York Times Book Review», 1 agosto 1948. Matthews, tuttavia, criticava la visione prezzoliniana del fascismo. 85 Prezzolini, L’Italia finisce cit., p. 8.

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alla loro mentalità e che non aveva assolutamente attecchito nella penisola, e riproponeva il suo punto di vista secondo il quale il fascismo, insieme ai Comuni medievali e alle Signorie del Rinascimento, era stato una delle poche forme politiche «originalmente italiane»: il «Fascismo fu formato da Italiani, diretto da Italiani, accettato da Italiani, sostenuto da Italiani. Non cadde finché gli eserciti alleati non penetrarono in Italia». Che il fascismo fosse stato inventato in Italia era certamente innegabile, ma Prezzolini (come aveva già fatto negli anni Venti) estraeva nuovamente l’essenza dell’italianità e del fascismo isolando certi periodi e certe istituzioni dal complesso passato della penisola, trovando somiglianze superficiali, e trasformandole nei tratti originali di un popolo. In realtà in questa sua naturalizzazione del fascismo si spinse ancora oltre, perché lo descriveva come «una fase della storia d’Italia, non qualcosa di accidentale, come una malattia, ma di essenziale come il momento di sviluppo; qualcosa di non straniero e artificiale ma di autoctono e naturale». Questa era certamente una stoccata all’interpretazione crociana del fascismo come parentesi e morbo, ma ben lungi dal voler essere una critica nei confronti del fascismo (come era per gli azionisti) ne costituiva di fatto una giustificazione vera e propria. Al vecchio repertorio Prezzolini aggiungeva affermazioni nuove e contraddittorie, cioè che il fascismo non era niente di più che la risposta italiana (nel senso che rifletteva il carattere del popolo) alla crisi del liberalismo che si era avuta in Europa dopo il primo conflitto mondiale, e che di fatto era l’equivalente di ciò che il nazismo era per la Germania e il New Deal per gli Stati Uniti. Un confronto che finiva per normalizzare completamente le dittature fasciste86. In coerenza con i suoi vecchi atteggiamenti mentali, Prezzolini costruiva il carattere nazionale come una categoria senza tempo, come un fattore indipendente che preesisteva agli eventi e ai processi storici e che di fatto li condizionava pesantemente. In altri termini, trasformava il carattere in destino. Sviluppando la sua tesi della peculiarità della cultura politica italiana, insisteva ancora una volta sull’idea che le istituzioni democratiche erano un prodotto dei paesi anglosassoni, e che era difficile se non impossibi-

86

Ivi, pp. 330, 342, 348.

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le esportarle altrove. Ora, fare affermazioni del genere nei primi anni del Novecento non era particolarmente originale, ma farlo dopo la caduta del fascismo significava voler screditare l’antifascismo e le nuove istituzioni democratiche italiane. Come già ai tempi del primo dopoguerra, in Prezzolini cinismo e conservatorismo andavano di pari passo. In maniera simile, subito dopo il 1945 altri ex-fascisti diventati anti-antifascisti cercavano di ostacolare l’emergere di un consenso intorno al nuovo ordine politico e alle nuove istituzioni democratiche. Esempi inequivocabili di questo tentativo sono gli scritti di Leo Longanesi, che abbiamo visto all’opera negli ambienti di «Strapaese», negli anni Trenta, come direttore della rivista «L’Italiano». Nel diario che pubblicò nel 1947 con il titolo Parliamo dell’elefante, per lo più una raccolta di vignette e di osservazioni sardoniche sulla vita italiana dal 1936 al 1946, Longanesi canzonava tutti gli italiani coniando una locuzione destinata a rimanere impressa nell’auto-rappresentazione collettiva degli italiani del dopoguerra: «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: ‘Ho famiglia’»87. La famiglia al di sopra dello Stato: era questa la vera morale degli italiani. In un frangente cruciale per il paese, gli italiani ponevano l’interesse privato al di sopra delle loro convinzioni politiche e dell’«onore» della patria. In questa espressione Longanesi traduceva il suo disprezzo di fascista disilluso nei confronti di un popolo che non sembrava preoccuparsi né nutrire ambizioni per la nazione e la sua grandezza. Ma la penna del famoso giornalista raggiungeva il massimo della corrosività e del cinismo quando fustigava la classe politica antifascista dell’Italia postfascista sostenendo che non era cambiato nulla. Si erano installati al potere partiti differenti, ma il fascismo era eterno: una nuova sorta di fascismo aveva rimpiazzato quello vecchio, ed era quindi necessario «aggiornare la retorica». Questo atteggiamento era un tipico esempio del qualunquismo del dopoguerra. Come movimento politico (L’Uomo Qualunque), il qualunquismo esprimeva i sentimenti di strati sociali conservatori e depoliticizzati, principalmente tra la borghesia meridiona-

87 L. Longanesi, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario, Longanesi e Co, Milano 1947. Le citazioni si trovano rispettivamente a p. 260 e a p. 235.

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le, che non aveva preso parte alla Resistenza e temeva il radicalismo antifascista88. Più in generale, l’atteggiamento qualunquista esprimeva un senso di disprezzo per la politica e per i politici in genere fondato su una comoda equazione tra fascisti e antifascisti che oscurava tutte le differenze e le responsabilità. In quanto affermazione del desiderio di porsi al di sopra della politica, di non prendere posizione, l’atteggiamento qualunquista degli anni del secondo dopoguerra aveva molto in comune con quello «apota» di Prezzolini nei confronti del fascismo: erano entrambi esempi della volontà di sottrarsi ai propri doveri politici, che di fatto nascondeva un orientamento fondamentalmente conservatore. In una breve storia del periodo tra le due guerre, raccontata significativamente in una «familiare» prima persona plurale, oltre a continuare a prendersela con l’antifascismo, Longanesi dava a intendere che la responsabilità del fascismo ricadeva su tutto il popolo italiano: lo sdegno per l’assassinio di Matteotti nel 1924 non aveva portato alla caduta del governo Mussolini perché «in Italia le crisi morali sono brevi». Dopo il consolidamento del regime fascista, a poco a poco «[D]ivenimmo anche noi [...] scettici, indulgenti, rassegnati ormai al nostro destino» e alla fine «ci [siamo ritrovati] tutti compromessi»89. Venendo da qualcuno che, nel quadro di un atteggiamento frondista, aveva sempre sostenuto il fascismo, e non se ne era mai distanziato in maniera chiara anche dopo la sua caduta, questa chiamata di correo era, a dir poco, di dubbio gusto. «Longanesi non ci dice nulla dei suoi peccati di ita88 Il movimento qualunquista fu fondato nel 1944 a Napoli da Guglielmo Giannini, un avvocato che dichiarava di essere contro tutti i «politici di professione», e di rappresentare la gente comune che voleva essere lasciata in pace e pensare alla propria vita e ai propri interessi. Il movimento uscì di scena nel 1948, quando i suoi membri confluirono in altri partiti di destra. Sulla nascita del qualunquismo in Italia cfr. A.M. Imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948), Il Mulino, Bologna 1996, pp. 27-35, 71-78. 89 L. Longanesi, In piedi e seduti (1919-1943), Longanesi e Co., Milano 1948, pp. 150, 143, 162. Su Longanesi in questo periodo di transizione cfr. P.G. Zunino, Leo Longanesi tra fascismo e democrazia, in P. Albonetti e C. Fanti (a cura di), Longanesi e italiani, Editoriale Faenza, Faenza 1997, pp. 181-187. Sulla sua carriera nel dopoguerra cfr. anche R. Liucci, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni ’50, Marsilio, Venezia 2002, pp. 56-85. Più in generale, sul modo in cui diversi giornalisti italiani ex sostenitori del regime cercarono, dopo la caduta del regime, di rendere tutti gli italiani responsabili della sua ascesa, cfr. anche Zunino, La Repubblica e il suo passato cit., cap. 10.

VII. «Brava gente»?

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liano: non ne fa oggetto di rimorso, né materia di caricatura. Egli confessa i peccati degli altri»90. Questa acuta osservazione di Vitaliano Brancati, un intellettuale che esaminò criticamente e con onestà la propria giovanile infatuazione per Mussolini, è forse il migliore commento di questa sorta di rivisitazioni opportunistiche del passato. Era facile nascondersi nella nebbia di una responsabilità generalizzata, e non a caso gli ex sostenitori e i «compagni di viaggio» del fascismo sottolineavano continuamente e con ostinazione il fatto che gli italiani avevano aderito in massa al fascismo. Naturalmente, per individui come Longanesi il fascismo in sé non era un problema, almeno fino a quando non aveva perso la guerra; ma una volta ancora, come abbiamo visto, era tutta colpa del carattere degli italiani. Nel disastro della seconda guerra mondiale in cui il fascismo aveva trascinato il paese, la questione del carattere degli italiani si ripresentava alla mente di molti intellettuali e politici di diversa appartenenza. Accanto alla narrazione egemonica del «bravo italiano», che contribuì a eliminare dal discorso pubblico la questione del ruolo degli italiani come aggressori nella guerra, si sentirono le voci di coloro che aspiravano a un profondo rinnovamento democratico del corpo politico e invitavano gli italiani a fare un esame di coscienza collettivo, a riflettere su se stessi e a riconoscere la loro parte di responsabilità nel disastro morale in cui era caduta l’Italia, prima con la dittatura e in seguito con la guerra. Ambedue queste versioni del discorso presentavano serie lacune (i crimini del colonialismo e le responsabilità della cultura italiana per le odiose leggi razziali non erano messi a fuoco), ma le voci critiche sollevavano questioni importanti sull’eredità della dittatura e sulle basi su cui avrebbe dovuto sorgere un vero Stato democratico, questioni che tuttavia non furono affrontate a causa degli sviluppi in senso conservatore che si imposero nel dopoguerra e che sembravano dare ragione a chi aveva perso ogni speranza di cambiamento. Dalle rovine della guerra emergeva anche un’altra declinazione del discorso del carattere italiano, che si accompagnava a sco-

90 V. Brancati, Diario romano, a cura di S. De Feo e G.A. Cibotto, Bompiani, Milano 1961, p. 1378 (pubblicato in origine su «Tempo illustrato» nel 1947).

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pi del tutto diversi, e che nei confronti della nuova Repubblica democratica esprimeva sentimenti opposti a quelli degli antifascisti, sia moderati che radicali. Tra coloro che avevano sostenuto il fascismo e che non avevano mai sconfessato la loro scelta politica, il carattere degli italiani era spesso fatto oggetto di disprezzo e di sarcasmo, un modo di esprimere la propria delusione e di coinvolgere tutti in una generalizzata responsabilità per come erano andate le cose. Ma se erano tutti responsabili, nessuno era realmente responsabile, come faceva notare in un contesto un po’ diverso, Gaetano Salvemini91. Oltre agli italiani che condividevano le responsabilità del regime, c’erano coloro che avevano lottato per liberare l’Italia dal fascismo. Oltre a chi aveva atteso passivamente l’arrivo degli Alleati c’era chi era entrato nella Resistenza armata per concorrere alla liberazione del paese. «Dimenticare» tutto questo non era solo un insulto a quegli italiani che avevano pagato di persona, ma anche un modo per minare intenzionalmente la fragile fiducia del paese nelle nuove istituzioni democratiche. Negli ambienti di destra dell’Italia repubblicana il disprezzo per le istituzioni democratiche si sarebbe sempre accompagnato con una visione cinica del popolo italiano.

91 G. Salvemini, Gli italiani sono fatti così, in «Controcorrente», aprile 1947, ora in Id., Scritti vari (1900-1957), a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Feltrinelli, Milano 1978, p. 737. In tale occasione Salvemini criticava i molti politici italiani che spesso insistevano sull’idea dell’immutabilità del carattere italiano per giustificare le proprie azioni e le proprie scelte discutibili. Anche se ritengo che la colpa è individuale, non sto rifiutando qui la nozione di responsabilità collettiva nel senso di «burdened inheritance» (eredità onerosa): per questo concetto cfr. J. Habermas, The Postnational Constellation. Political Essays, MIT Press, Cambridge, Mass. 2001, p. 31 [trad. it., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1999 (ed. or. 1998)].

VIII «GLI ITALIANI SONO FATTI COSÌ»

Gli italiani? Pecore anarchiche che non fanno una nazione. titolo da «Il Messaggero», 1998 Vigliacchi, furbi, mammoni. I mille volti degli italiani. titolo dal «Corriere della Sera», 2003

Gli sviluppi dell’immediato dopoguerra frantumarono subito e in maniera inequivocabile tutte le speranze di profonda trasformazione del paese coltivate negli ambienti radicali. La virata a destra della politica italiana, già visibile alla fine del 1945 – quando l’unico governo guidato da un membro del Partito d’Azione fu fatto cadere da elementi conservatori – si accentuò con l’inizio della Guerra Fredda, che nel 1947 portò all’esclusione della sinistra dalla coalizione antifascista di governo. Le elezioni del 1948 suggellarono la svolta conservatrice, portando al potere un partito che poteva contare su un forte sostegno da parte degli Stati Uniti e del Vaticano, e che avrebbe governato ininterrottamente per quasi cinquant’anni. Dall’istituzione della nuova Repubblica e dalla sua stabilizzazione sotto l’egemonia politica della Democrazia cristiana alla fine degli anni Quaranta, fino al crollo di questo sistema partitico nei primi anni Novanta, il nazionalismo inteso come ideologia non ebbe più un ruolo centrale nel discorso della politica italiana e si trovò limitato agli ambienti dell’estrema de-

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stra, specialmente in quelli nostalgici del fascismo1. Le ideologie dei due maggiori partiti politici di questo periodo, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, erano sopranazionali e nella loro retorica politica la questione del carattere italiano era marginale. Ciò non significa che la dimensione nazionale e i sentimenti nazionalisti sparissero d’un tratto: nella cultura politica dei maggiori partiti continuava a essere presente un certo mito della nazione, per quanto connotato in maniera fortemente «ideologizzata» o «partitizzata», per usare un’espressione di Emilio Gentile2. E più generalmente, al di fuori dei circoli politici, la cultura nazionale era molto attiva nella produzione di immagini degli italiani che avevano significati e implicazioni di tipo politico. In particolare, il topos dei vizi nazionali non cessò mai di circolare. In effetti, pur essendo marginale nella retorica politica dei partiti, l’idea di un carattere nazionale veniva prodotta e riprodotta nei mass media, e specialmente il tema dei «vizi italiani» fu oggetto di una rappresentazione visuale del tutto inedita, diventando così ancora più pervasivo nella cultura italiana. Nell’Italia repubblicana coesistevano, e di fatto si mescolavano, due immagini principali del carattere nazionale. Una di queste, positiva e autoassolutoria, era fornita dallo stereotipo degli «italiani brava gente» originatosi – come abbiamo visto – nel crogiuolo della guerra, e che veniva a sostituire le rappresentazioni iperassertive associate a un tipo di patriottismo e di nazionalismo che non era più accettabile. Per alcuni versi, era un’immagine «diminutiva» del sé nazionale che sembrava valorizzare proprio quei tratti che in precedenza erano disprezzati dai nazionalisti: il «sentimentalismo», la mancanza di una forte identificazione nazionale, perfino l’«indolenza» degli italiani, diventavano ora virtù che, facendo di-

1 Su questa periodizzazione cfr. anche G. Nevola, La nazione italiana: un ritorno dopo il congedo, in Id. (a cura di), Una patria per gli italiani? La questione nazionale oggi tra storia, cultura e politica, Carocci, Roma 2003, pp. 19-49. 2 E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, cap. 18. Per quanto riguarda il Partito comunista si deve notare che la pubblicazione degli scritti del carcere di Gramsci, che iniziò nel 1949, alimentò le riflessioni critiche sui «vizi d’origine» della storia dello Stato nazionale e sulle caratteristiche peculiari della società e della cultura italiane. Era tuttavia la dinamica di classe e non il carattere nazionale a dominare la riflessione matura dell’analisi gramsciana.

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menticare il recente passato, rendevano il paese di nuovo invitante per le folle di turisti che, a partire dagli anni Cinquanta, ricominciarono a visitare la penisola. In effetti questa immagine più benevola, se da un lato poteva contribuire a mettere da parte la penosa memoria della guerra, dall’altro si addiceva bene al ruolo internazionale che l’Italia andava assumendo nel dopoguerra come primaria destinazione turistica: un paese dove chiunque poteva andare a godersi la «dolce vita», espressione che il successo del film omonimo di Fellini (1960) rese sinonimo di italianità. Insieme a questa immagine positiva, nella stampa continuava a circolare anche il topos del carattere nazionale in negativo, grazie in particolare alla penna prolifica di opinionisti, conservatori e non, che scrivevano nella tradizione giornalistica di Prezzolini. Ma ciò che permise all’idea di carattere nazionale di spingersi oltre il mondo del giornalismo e di diventare realmente parte di un senso comune più diffuso fu il cinema italiano degli anni del dopoguerra, che fece del carattere nazionale un cliché di massa e un oggetto di consumo popolare. Il cinema divenne quindi il veicolo più efficace per dare agli italiani ciò che molti descrivevano come uno «specchio» della società. Nella «commedia all’italiana» degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, in particolare, questo specchio produsse immagini straordinariamente negative dell’«italiano tipico», molto spesso impersonato dal popolarissimo Alberto Sordi3. Visti sullo sfondo della storia recente del paese, questi film erano qualcosa di più che «immagini riflesse» di una società e della sua storia difficile: erano allo stesso tempo un modo di confrontarsi con questa storia, spesso evitandone gli aspetti più tragici, e di commentare le profonde trasformazioni degli anni del dopoguerra. Fu in questo periodo che vennero coniati i nomi di nuovi, sintomatici vizi quali il «mammismo» e il «familismo», e il trasformismo acquistò una nuova rilevanza. Il discorso del carattere italiano non era più il veicolo per l’espressione di progetti di trasformazione antropologica o di speranze di rigenerazione nazionale: nella Repubblica postfascista divenne per lo più il veicolo per articolare 3 Sul cinema del dopoguerra e sull’identità italiana cfr. anche G.P. Brunetta, La ricerca dell’identità nel cinema italiano del dopoguerra, in Id. (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996.

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una visione disincantata del sé nazionale e uno strumento per attaccare l’avversario politico. I canali principali di questa visione furono il cinema e il giornalismo, e per questo motivo saranno l’argomento centrale di questo capitolo. Dagli anni Cinquanta all’inizio degli anni Novanta il paese subì notevoli trasformazioni socioeconomiche e culturali, ma si trovò ad affrontare anche una continua instabilità politica, senza tuttavia alcuna effettiva alternanza di forze politiche diverse al governo, dato che la Guerra Fredda impediva che il principale partito di opposizione potesse mai far parte del governo del paese. Nei primi anni Novanta gravi scandali, il crollo dell’intero sistema dei partiti, nuove minacce all’unità nazionale e la devastante ascesa politica dell’uomo più ricco del paese – che controllava i media a un livello inaccettabile in una società democratica – dettero impulso a una nuova fase di autoriflessione, in cui diversi italiani si interrogarono sulla natura del paese e del suo popolo. Nella politica concitata degli anni Novanta e tra le (apparenti) rovine della cosiddetta «prima Repubblica», il discorso del carattere acquistò nuovamente il centro della scena. Mammone e opportunista: l’antieroe della commedia all’italiana Mentre i film neorealisti degli anni Quaranta ritraevano l’italiano come eroe della Resistenza o come il lavoratore impoverito dell’immediato dopoguerra, la commedia all’italiana – il genere cinematografico dominante dagli anni Cinquanta agli anni Settanta – presentò una straordinaria galleria di antieroi, un fenomeno nuovo e peculiare del cinema italiano4. Tra i primi a lanciare questa tendenza negli anni Cinquanta furono i film di cui era protagonista Al4 Cfr. V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 19451965, Bulzoni, Roma 1985, p. 212. Per la periodizzazione della commedia all’italiana seguo A. Aprà e P. Pistagnesi (a cura di), Comedy Italian Style 1950-1980, ERI, Torino 1986. Secondo altri autori il ciclo della commedia all’italiana ebbe inizio verso la fine degli anni Cinquanta. Per la distribuzione dei film secondo il genere cfr. M. Livolsi, Film by Film (1950-1986), in Id. (a cura di), Schermi e ombre. Gli italiani e il cinema del dopoguerra, La Nuova Italia, Firenze 1988, pp. 123-154. Per una visione generale del cinema italiano nel periodo postbellico cfr. anche G.P. Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Da «Roma città aperta» a «I soliti ignoti», Laterza, Roma-Bari 2009, e P. Bondanella, Italian Cinema. From Neorealism to the Present, Continuum, New York 1996.

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berto Sordi, l’attore che malgrado il forte accento romanesco sarebbe diventato negli anni Settanta l’epitome dell’italiano «medio» e la personificazione dominante del carattere degli italiani. Sordi costruì la sua fama specializzandosi in ritratti spesso farseschi di antieroi, dei quali il più sintomatico è forse il «mammone». Nel felliniano I vitelloni (1953), il film che lo portò alla ribalta, l’attore interpreta la parte di Alberto, un giovane indolente, disoccupato, che vive da parassita con la madre e la sorella in una sonnolenta cittadina di provincia del Nord Italia. Come lui, anche i suoi amici sprecano il loro tempo al bar o al cinema, andandosene in giro senza costrutto e rifuggendo dalle responsabilità dell’età adulta. In un altro film degli anni Cinquanta, Un eroe dei nostri tempi (1955), Sordi interpreta il ruolo di un giovane impiegato, anche lui di nome Alberto, che vive con un’anziana zia. Conformista e pusillanime, Alberto è una persona insicura ed estremamente dipendente dai consigli della vecchia zia, che ha una personalità ben più forte. Servile nei confronti dei superiori, Alberto evita ogni forma di solidarietà con i colleghi ed è costantemente preoccupato di perdere il lavoro e di avere guai con le autorità. Quando si mette effettivamente nei pasticci, viene salvato da due donne – la sua capoufficio, una vedova che mira a sposarlo e gli fa una corte aggressiva, e la zia. Alla fine, per sentirsi veramente al sicuro, si arruola nella polizia. In un altro film prodotto lo stesso anno, Lo scapolo, Sordi è un giovane borghese, Paolo, che ha paura di legarsi a una donna e preferisce avere brevi relazioni di cui si vanta in continuazione. Dopo aver resistito al tentativo della madre di trovargli moglie, alla fine si rende conto dei lati negativi della sua situazione e rinuncia alla sua libertà di scapolo. Più che l’amore, è la paura della solitudine che lo porta a legarsi con un’amica che è ancora innamorata di lui. Analogamente, in molti altri film Sordi interpreta la parte di uomini che cercano di eludere le pretese, se non la tirannia, delle donne e della famiglia, ma che con il tempo, anche se riluttanti, cedono. Questi film sembrano dire che per quanto gli uomini siano inaffidabili e meschini, alla fine le donne e la famiglia vincono sempre5. 5 Per un elenco completo dei numerosi film di Sordi, con una descrizione delle varie trame e alcune recensioni, cfr. C. Fava, Alberto Sordi, Gremese, Roma 2003. Si deve aggiungere che Sordi non interpretò soltanto personaggi comici e grotteschi, ma anche tragici.

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Come notava un critico nel 1961, in tutti i suoi film Sordi offriva una «caricatura irresistibile» del «figlio di mamma»6, il prodotto del «mammismo», un fenomeno che è diventato l’epitome di una perenne italianità. Tuttavia bisogna notare che il termine mammismo entrò nel vocabolario italiano solo negli anni Cinquanta. A quanto sembra fu Corrado Alvaro, romanziere e giornalista che spesso scriveva dei costumi italiani, a coniare questo termine per descrivere il legame eccessivamente forte tra madri e figli7. Alvaro definiva questo legame un «complesso italiano», e sosteneva che l’Italia era unica per la maniera in cui esaltava le madri e allo stesso tempo ne rovinava i figli, mandandoli all’estero a cercare lavoro o in «guerre disperate o temerarie». In un paese moderno, continuava Alvaro, ai ragazzi si insegna a diventare membri responsabili di una società e ad avere il senso dei propri doveri nei confronti della collettività. In Italia, invece, l’indulgenza esagerata delle madri rendeva i figli furbi e insolenti, pronti a vivere in una società «istintiva» come quella italiana ma incapaci di dare qualcosa alla collettività. Gli uomini diventavano le vittime di «madri irresponsabili», troppo indulgenti e istintive8. Come Marina d’Amelia ha recentemente osservato, il discorso del mammismo può essere stato un modo di fare «i conti con il passato» di «una nazione traumatizzata dalla guerra, incerta di sé e alla ricerca di miti di coesione»9. Se è così, «dare la colpa alle donne» era un modo conveniente per fare questi conti: nel suo saggio, Alvaro non faceva menzione alcuna delle responsabilità dei padri. Come si ricorderà, nel suo tentativo di comprendere le basi sociali e psicologiche del fascismo Fabio Cusin aveva già richiamato l’attenzione sui «tratti [psicologicamente] femminili» dei maschi italiani educati dalle donne nelle famiglie patriarcali. Il prodotto di queste famiglie, un microcosmo dell’anarchia che si ritrovava nella società in generale, erano uomini emotivi e sentimentali, incapaci di interiorizzare i principi della legalità. Non sappiamo se Alvaro avesse letto Cusin, ma egli stesso ci dice che il punto di partenza E. Ferrarelli, Retorica del mammismo, in «Tempo presente», 7, 1962, p. 768. Secondo M. d’Amelia, La mamma, Il Mulino, Bologna 2005, p. 18. 8 C. Alvaro, Il mammismo, in Id., Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea, Bompiani, Milano 1952, pp. 183-190. 9 d’Amelia, La mamma cit., p. 20. 6 7

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delle sue riflessioni era proprio la caratterizzazione della forza del legame tra madri e figli nei media, particolarmente nel «cinema di ordine inferiore» e in altre forme di intrattenimento popolare. I film a cui si riferiva, tuttavia, non mettevano in questione le relazioni familiari, e tanto meno quelle tra madre e figlio. È significativo che furono le nuove commedie degli anni Cinquanta e Sessanta a trasformare il prodotto del mammismo, e cioè il figlio di mamma, in una figura da parodia comica e grottesca, figura che ritroviamo in molti personaggi interpretati da Sordi. In questo genere di film le madri e le mogli non erano necessariamente dei tiranni, ma certo esercitavano un potere a cui gli uomini non riuscivano a opporsi, in fin dei conti, per quanto cercassero di usare ogni sorta di espediente. Al centro di questi film, tuttavia, c’era il maschio: la rappresentazione dell’uomo debole dipendente dalla madre – un aspetto del tutto assente nelle commedie tra le due guerre – fu una vera novità del periodo post-1945. Questa novità non sembra essere correlata a cambiamenti significativi nelle relazioni di genere e nella struttura della famiglia; dopo la caduta del fascismo le donne non acquisirono maggior potere nella società, malgrado avessero svolto un ruolo attivo nella guerra e avessero conquistato il diritto di voto nel 1946. Oltretutto in quel periodo non cambiò in misura sostanziale neanche la percentuale delle donne occupate (e anzi sembra che diminuì leggermente)10. Sulla formazione di questa nuova auto-immagine dell’italiano deve avere influito in misura maggiore l’esperienza della sconfitta militare: il «mammone», dopotutto, è una metafora di dipendenza11. In effetti, diversi film del dopoguerra rappresentavano l’impotenza e il fallimento del maschio italiano in molte situazioni diverse. Anche quando impersonava il latin lover, Sordi (ma si può dire lo stesso dei ruoli interpretati da altri attori dell’epoca, come ad esempio Marcello Mastroianni)12 era un latin lover falli10 Cfr. i saggi di L. Scaraffia e A. Pescarolo, in A. Bravo et al., Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001. 11 Come era, più in generale, la figura dell’«inetto» che secondo J. Reich emerge nel cinema italiano dopo il 1945: cfr. Beyond the Latin Lover. Marcello Mastroianni, Masculinity and Italian Cinema, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2004, p. 10. 12 Ibidem.

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to o inadeguato che alla fine si rifugiava nella sicurezza della relazione con la moglie o fidanzata, o con la madre. In qualunque modo questi film presentassero l’italiano medio, come mammone o come improbabile latin lover, il collegamento tra mascolinità e impotenza/fallimento era un elemento sempre presente, in quanto faceva parte della complessa rielaborazione della figura del maschio italiano che ebbe luogo in Italia dopo la fine del fascismo13. Era anche un italiano che si preoccupava esclusivamente di se stesso o della sua famiglia e non aveva alcun interesse per la collettività, e che assomigliava a quello rappresentato sarcasticamente da Longanesi nel suo Parliamo dell’elefante: «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: ‘Ho famiglia’»14. Sordi interpretò anche altri personaggi dotati, per così dire, di vizi di cui si faceva un gran parlare nella Repubblica postfascista: per esempio fu la quintessenza del politico opportunista o trasformista, il voltagabbana del film di Luigi Zampa L’arte di arrangiarsi (1954), di cui Vitaliano Brancati scrisse la sceneggiatura. Il personaggio di Sordi, il siciliano Rosario Simoni detto Sasà, un uomo fondamentalmente attento solo al proprio tornaconto ma anche vigliacco e istintivamente opportunista, riesce a fare i propri interessi e a cavarsela a ogni cambiamento di regime del Novecento, sfruttando le sue conoscenze e adattandosi rapidamente alle nuove circostanze. Inizialmente un patriottico sostenitore della monarchia, aderisce al Partito socialista per sedurre una signora sposata, che presto abbandona per sposare una ragazza più ricca. Riesce a non andare in guerra fingendosi pazzo, e quando i fascisti vanno al potere prende la tessera del partito. Alla caduta del fascismo si avvicina subito ai comunisti, e quando questi vengono emarginati politicamente entra negli ambienti cattolici sfruttando una conoscenza prelatizia. Il film era certamente una critica intelligente dell’opportuni13 Su questo punto cfr. R. Ben-Ghiat, Unmaking the Fascist Man: Masculinity, Film and the Transition from Dictatorship, in «Journal of Modern Italian Studies», 10, 2005, pp. 336-365. Ben-Ghiat pone in evidenza come nel periodo postfascista si avvertisse l’esigenza di rielaborare una nuova immagine della mascolinità italiana, assai diversa dal modello di mascolinità aggressiva promossa dal fascismo, e osserva questo cambiamento nella figura dell’antieroe inetto in film quali Come persi la guerra (1947). 14 L. Longanesi, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario, Longanesi e Co., Milano 1947, p. 260. Su Longanesi cfr. il capitolo precedente.

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smo e del «trasformismo», in particolare di quegli italiani che avevano sostenuto la dittatura fascista – o che almeno non vi si erano mai opposti apertamente – e che ora militavano nei ranghi del Partito democristiano al potere. Ma trasformava anche in una sorta di tratto caratteriale una pratica di cooptazione adottata dalle élites del paese per stabilizzare, in determinati momenti, il loro potere15. Poiché veniva rappresentato come un attributo o addirittura come un’inclinazione istintiva dell’italiano medio, il trasformismo diventava una componente di una mentalità quasi metastorica, di lì a poco personificata nel Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa, probabilmente il più famoso e celebrato romanzo dell’Italia repubblicana16. L’arte di arrangiarsi si spingeva al di là dei temi della vita di ogni giorno per offrire una panoramica della storia italiana del Novecento vista attraverso le vicissitudini di un individuo. La storia nazionale fu il soggetto anche di altri film in cui Sordi rivestì ruoli da protagonista. Nel film di Mario Monicelli La Grande Guerra (1959) Sordi è un soldato che sembra incarnare lo stereotipo dell’«italiano che non si batte»: va in guerra dopo aver fatto di tutto per evitarlo, e al fronte cerca in tutti i modi di stare lontano dalla prima linea. E tuttavia, a dispetto della propria natura, muore da eroe. Il film, che fu un grande successo sia di pubblico che di critica, con il pretesto di raccontare una storia della prima guerra mondiale in realtà faceva una critica della guerra in generale. Il soggetto di un altro successo di quegli anni, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, era invece il conflitto più recente: Sordi vi interpreta un ufficiale dell’esercito italiano di stanza in Italia settentrionale che subito dopo l’armistizio con gli Alleati nel settembre 1943, quando l’esercito è lasciato senza ordini chiari, tenta con alcuni soldati di tornare a casa, a Napoli. In una sorta di viaggio picaresco attraverso le rovine materiali e morali dell’Italia occupata, Sordi rappresenta quegli ita15 Sulla storia del trasformismo cfr. G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003. Il dibattito storiografico sul trasformismo è vasto e gli storici hanno idee diverse non solo sulla interpretazione del fenomeno ma anche sulla sua stessa definizione e sulla sua periodizzazione. Per una rassegna dei differenti punti di vista cfr. G. Carocci, Il trasformismo dall’Unità a oggi, Unicopli, Milano 1992. 16 Il termine «gattopardismo», coniato sulla base del libro e sinonimo di trasformismo, è entrato nell’uso a partire dagli anni Sessanta.

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liani che in un momento cruciale non si schierarono da una parte o dall’altra ma cercarono solo di salvare la pelle aspettando la fine della guerra. Alla fine del suo viaggio a Napoli, dopo essere stato testimone dell’uccisione assurda di un amico che è quasi arrivato a casa, il protagonista prende finalmente le armi contro i tedeschi. In contrasto con i film che avevano per soggetto la vita familiare, queste storie offrivano agli italiani una facile auto-assoluzione per la loro partecipazione alle guerre del ventesimo secolo: non indagavano mai sulle origini delle guerre, l’attenzione era concentrata esclusivamente sulle esperienze dei soldati, e questi ultimi venivano rappresentati come persone comuni fondamentalmente buone e vittime di meccanismi sui quali non avevano alcun controllo17. Erano anche narrazioni consolatorie: contrariamente ad altre commedie, nel finale di ambedue questi film c’era un riscatto, nel senso che all’ultimo minuto i protagonisti si trasformavano in eroi loro malgrado. Così, in questo tipo di storie veniva confermata l’immagine del buon italiano. Nelle commedie all’italiana degli anni Sessanta e Settanta, caratterizzate da un umorismo più nero, Sordi continuò a interpretare personaggi che dovevano essere lo specchio dell’«italiano medio» e delle sue numerose magagne: il medico senza scrupoli, il vigile pieno di sé e prevaricatore, il moralista ipocrita e così via. Era uno specchio che rifletteva immagini ancora più negative di quelle delle commedie del periodo precedente. Questi film mettevano in particolare evidenza non solo l’illegalità e l’opportunismo, ma anche l’arrivismo, il desiderio di salire ad ogni costo la scala sociale, che sembrava dominare gli anni del «miracolo economico». Come ha notato Stephen Gundle, nei film di quegli anni era fin troppo chiaro un senso di avversione per l’Italia del boom18. Nel-

17 Sul film La Grande Guerra cfr. anche I. Perniola, La Grande Guerra, o della codardia resa virtù, in L. de Francesci (a cura di), Lo sguardo eclettico: il cinema di Mario Monicelli, Marsilio, Venezia 2001; sul modo in cui il fascismo e la guerra sono stati rappresentati nei film del dopoguerra cfr. L. Miccichè, Memorie, rimozioni, risate e celebrazioni, in Id., Il cinema italiano degli anni ’60, Marsilio, Venezia 1975, pp. 30-40. 18 S. Gundle, From Neo-Realism to Luci Rosse: Cinema, Politics, Society 1945-1985, in Z. Baranski e R. Lumley (a cura di), Culture and Conflict in PostWar Italy: Essays on Mass and Popular Culture, St. Martin’s Press, New York 1990, pp. 195-224.

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la concitazione della modernizzazione economica l’italiano medio era più sgradevole che mai, e anche la sua rappresentazione diventò veramente grottesca: basti ricordare un film del 1963, I mostri, una serie di brevi episodi che illustrano la degradazione morale di una società dominata dal materialismo, dalla competizione e dall’ethos italiano della furbizia, episodi che erano anche un compendio di cliché regionali (ad esempio, il siciliano geloso ossessionato dal terrore di essere disonorato dalla moglie)19. Questa produzione cinematografica può essere certamente letta come un segno del malessere della società italiana20, ma dal momento che trasformavano qualsiasi cosa in situazioni comiche, i personaggi di Sordi e in generale tutta la «commedia all’italiana» non sembrano essere stati un veicolo di critica sociale radicale. Malgrado le dichiarazioni rese successivamente da alcuni dei protagonisti e dei registi, la commedia all’italiana non intendeva castigare ridendo mores, ossia criticare i costumi facendone la parodia21. Dai registi agli sceneggiatori, gli artefici di questi film non dichiaravano intenti di critica sociale, né sembravano interessati a denunciare i comportamenti che rappresentavano sullo schermo. Il loro obiettivo principale era, inutile a dirsi, vendere le loro produzioni, e questi film erano soprattutto macchine per fare quattrini facendo ridere il pubblico. Secondo Mario Monicelli, uno dei più importanti registi della commedia all’italiana, Sordi «aveva inventato un tipo di comico eccezionale che faceva ridere solo con i lati negativi. Fino a Sordi il comico era sempre stato un personaggio vilipeso, calpestato dalla vita, che fa tenerezza, sprovveduto. Lui ha creato l’opposto: il tipo del prevaricatore, vile, corrotto, che approfitta dei deboli [...]. Dopo di lui tutti [i registi e gli sceneggiatori] si sono gettati su questo personaggio»22. Nem-

19 Il film riscosse successo di pubblico e di critica nella stampa moderata e di centro-destra, ma fu considerato superficiale dai critici di tendenze progressiste. 20 Come fa M. Grandi in Abiti nuziali e biglietti di banca. La società della commedia nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1986. 21 Cfr. le testimonianze di Cecchi Gori e di Manfredi in P. Pintus (a cura di), Commedia all’italiana: parlano i protagonisti, Gangemi, Roma 1985. 22 M. Monicelli, L’arte della commedia, Dedalo, Bari 1986, p. 46. Per esempio, L’arte di arrangiarsi fu scritto da Vitaliano Brancati «appositamente per Sordi»: cfr. Spinazzola, Cinema e pubblico cit., p. 217. Si può dire la stessa cosa per Un eroe dei nostri tempi: cfr. Fava, Alberto Sordi cit., p. 90.

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meno Sordi sembra essersi mai curato di denunciare le «cattive abitudini» degli italiani. A parte qualche rara eccezione, non espresse mai indignazione nei confronti dei personaggi o delle situazioni che rappresentava. Questo tipo di atteggiamento era in sintonia con gli orientamenti politici sia degli attori che dei registi che, a parte poche eccezioni, non erano progressisti23. Lo stesso Sordi non nascose mai di essere favorevole allo status quo. Aveva sempre votato per la Democrazia cristiana, e spesso parlava quasi con entusiasmo dei tempi della sua fanciullezza e dell’adolescenza nell’Italia fascista. In un certo senso, era il vero protagonista dei suoi film24. Come venivano accolti questi film? Le opinioni dei critici erano diverse. Molti dei recensori tendevano a lodarli in quanto farse o satire che rappresentavano fedelmente la società italiana e l’italiano medio; altri, tendenzialmente molto più severi, ne sottolineavano la superficialità della rappresentazione e il compiacimento che trapelava dietro la facciata della satira, e nel caso di film con un messaggio politico più diretto, il qualunquismo di fondo, cioè la sostanziale indifferenza alla politica o più precisamente una certa tendenza a rappresentare tutta la politica e tutti i politici come corrotti25. Come sottolineò una volta Italo Calvino, «più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuol essere spietata, più si dimostra compiaciuta e indulgente»26. Ma nonostante la diversità delle critiche di quei tempi, il tropo del film-come-specchio finì per dominare quasi tutte le interpretazioni dei critici e degli storici di questo tipo di cinema27. Certo, molti di questi film erano più «conte23 T. Sanguineti, Il cinema secondo Sonego, Transeuropa-Cineteca, AnconaBologna 2000, p. 11-12. 24 Cfr. G. Aliberti, Il borghese latitante, nella rivista online «Elite e storia» (www.elitestoria.it/pag/editoriali.a.2003.html, ultimo accesso 10 luglio 2008). 25 Per esempi di rassegne critiche cfr. G. Gambetti, recensione de I mostri, in «Bianco e nero», 24, 11, 1963, pp. 59-63, ed E.G. Laura, recensione di Tutti a casa, in «Bianco e nero», 22, 1, 1961, pp. 69-73. 26 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1993, p. XIX. 27 Cfr. per esempio G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari 2007; S. Della Casa, Cinema popolare italiano nel dopoguerra, in Storia del cinema mondiale. L’Europa. Le cinematografie nazionali, vol. 3, a cura di G.P. Brunetta, Einaudi, Torino 2000, e G. Fofi, Alberto Sordi. L’Italia in bianco e nero, Mondadori, Milano 2004.

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stuali» e aderenti alla realtà che non le produzioni hollywoodiane di quel periodo28, per non parlare del fatto che nella società italiana di allora c’erano moltissimi esempi di cattivo comportamento da offrire al cinema, come del resto in quella odierna. E tuttavia, davano una rappresentazione del milieu di un gruppo particolare della società italiana: secondo Ugo Gregoretti, che diresse un certo numero di queste commedie, «nella commedia all’italiana c’era un autobiografismo diffuso e incrociato di registi, autori, attori»29 che li portava a riprodurre nei loro film il proprio ambiente, soprattutto quello piccolo borghese. I registi e gli sceneggiatori erano un gruppo piuttosto omogeneo di persone che avevano più o meno lo stesso tipo di cultura e di bagaglio di esperienze; molti erano cresciuti sotto il fascismo e alcuni avevano cominciato la professione in quel periodo. Non c’è da meravigliarsi se in genere, nei loro film, non erano disposti a mettere in questione in maniera profonda o radicale la storia recente. In ogni caso, sia che fossero apprezzate o detestate dalla critica, quasi tutte queste commedie all’italiana fecero ottimi incassi, il che giustificava la continuità della loro produzione fino a che, a metà degli anni Settanta, il genere si esaurì. La popolarità dei film di Sordi, e più in generale delle commedie degli anni Cinquanta-Sessanta, fece del carattere italiano un cliché estremamente diffuso. Negli anni Settanta i mezzi di comunicazione identificavano Sordi con l’italiano medio al punto tale che la televisione di Stato realizzò un intero programma sulla storia italiana del Novecento riproponendo brani di suoi film inframmezzati da spezzoni di filmati d’epoca. Il programma, intitolato Storia di un italiano, fu trasmesso in diverse puntate tra il 1979 e il 1986. In questo modo la storia nazionale veniva rappresentata attraverso lo specchio di una fiction cinematografica elevata al rango di documentario storico. Rappresentando l’italiano medio, Sordi acquistava una funzione di simbolo nazionale capace persino di trasformare certi vizi in bonarie virtù: in fondo l’italiano non era così cattivo. In una società dominata sempre più dai media, i confini tra realtà e rappresentazione cominciavano a di28 M. Fanchi e R. Lietti, Il ruolo del cinema nella formazione dell’identità italiana lungo gli anni ’50, in «Memoria e ricerca», 10, 1997, pp. 9-34. 29 Cfr. Pintus (a cura di), Commedia all’italiana cit., p. 108.

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ventare davvero indistinti, e la intertestualità tra cinema e giornalismo era destinata ad aumentare. Forse l’esempio più indicativo di come Sordi sia diventato l’epitome dell’italiano medio viene fornito proprio dal modo in cui ci si riferisce a lui nel giornalismo. Nell’agosto 1990, in un editoriale sul quotidiano conservatore «Il Giornale» in cui attaccava la presunta timidezza dell’Italia nel concorrere a imporre l’embargo contro Saddam Hussein, Indro Montanelli, il giornalista più famoso del paese, criticava le madri che protestavano contro la partenza dei loro figli coscritti per una missione potenzialmente pericolosa: «[Q]uando si mettono insieme per scendere in piazza [le madri] [...] diventano la peste del Paese, il focolaio di tutte le sue mollezze, viltà e corruzioni. L’ideale di figlio ch’esse sventolano è Alberto Sordi, cioè quello che Sordi incarna e dipinge: grasso, gradasso, furbastro, lazzarone e renitente alla leva. Di questa Italia ‘mammona’ la DC è la perfetta interprete»30. Montanelli non arrivò a chiedere l’uccisione di Sordi – vale a dire del «Sordi che siamo noi» – come fece un altro opinionista di destra più di recente31, ma usava in maniera efficace la figura dell’attore come personificazione dell’italiano (e della politica) che più detestava.

Gli «eterni italiani» degli opinionisti Montanelli poteva riferirsi a Sordi in questo modo non soltanto per ciò che lo stesso Sordi aveva finito per rappresentare nella cultura popolare, ma anche per il proprio atteggiamento nei confronti degli italiani. In effetti, mentre il cinema diventava uno strumento 30 I. Montanelli, Eventualmente, in Id., La stecca nel coro 1974-1994: una battaglia contro il mio tempo, Rizzoli, Milano 1994, pp. 440-441 (ed. or. nel «Giornale», 15 agosto 1990). Quando attaccava il pacifismo, Montanelli normalmente lo associava con il mammismo: cfr. anche l’editoriale, nel «Giornale» del 18 marzo 1983. 31 M. Veneziani, Uccidiamo finalmente Alberto Sordi, non l’attore, ma la sua, la nostra viltà, «Il Giornale», 6 luglio 1994. L’autore, un opinionista allineato con la nuova coalizione di centro-destra al governo, dichiarava che un cambiamento del paese era possibile solo se gli italiani avessero smesso di riconoscersi nei personaggi interpretati dall’attore: «I suoi personaggi condensano il peggio prodotto della nostra nazione in questo mezzo secolo [...]. È quella l’Italia vigliacca e mammista da cui dovremmo liberarci».

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privilegiato per rappresentare il carattere italiano nella Repubblica postfascista, diversi giornalisti continuarono e, anzi, incentivarono, se non perfezionarono, la veneranda tradizione del parlare da «esperti» dei costumi e del carattere dei propri compatrioti seguendo in particolare l’esempio di Giuseppe Prezzolini, ancora piuttosto attivo nella stampa italiana fino a quando morì, ormai centenario, nel 198232. Mi riferisco specialmente a coloro che Mario Isnenghi definisce i grandi opinionisti33, i ben noti autori di editoriali e di rubriche molto seguite nei maggiori quotidiani del paese. Questa tradizione, tuttavia, era (ed è) seguita anche da giornalisti meno affermati, dal momento che fornisce un modello facilmente imitabile per interventi critici sugli argomenti più svariati. Cominciamo con il ritratto a tutto tondo che ci offre Luigi Barzini Jr., l’autore di un libro che negli anni Sessanta diventò la bibbia dell’italianità per il pubblico americano (e non solo): The Italians, pubblicato nel 1964 e in seguito ristampato numerose volte34. Barzini, un giornalista di scuola sia italiana che americana (negli anni Venti aveva frequentato la Columbia University), fu anche deputato al parlamento dal 1958 al 1972, eletto nelle file del Partito liberale italiano. Sembra che l’idea del libro gli sia stata suggerita dal suo editore americano, il quale si rese conto che ai tanti turisti che in quegli anni sbarcavano in Italia poteva essere utile un testo introduttivo sul paese e sul suo popolo35. Era il tempo del boom economico e all’estero si diffondeva lo stereotipo 32 La produzione di Prezzolini negli anni del dopoguerra è ancora considerevole. I suoi libri vengono ristampati spesso (ad esempio Ideario, 1993, ed. or. 1967; e Manifesto dei conservatori, 1995, ed. or. 1972). Come osserva Isnenghi, nei suoi pezzi pubblicati sulle riviste più importanti, Prezzolini diffonde «disincanto e dissemina sgarberie in tutte le direzioni»: cfr. M. Isnenghi, Il grande opinionista da Albertini a Bocca, in S. Soldani e G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, vol. 2, Una società di massa, Il Mulino, Bologna 1993, p. 277. Aggiungerei che questi cattivi sentimenti venivano sparsi soprattutto contro le istituzioni democratiche. Per esempio, nella sua Intervista sulla destra (1972, ma pubblicata nel 1994), Prezzolini dichiarava ancora che gli italiani non erano adatti al sistema parlamentare. 33 La locuzione è di Isnenghi, Il grande opinionista cit. 34 L. Barzini Jr., Gli italiani, trad. it., Mondadori, Milano 1965 (ristampato con il titolo Gli italiani. Vizi e virtù di un popolo, Rizzoli, Milano 1997, poi 2008; ed. or. 1964). 35 Barzini si riferisce a questo contesto in uno dei suoi pezzi della raccolta postuma Memories of Mistresses. Reflections from a Life, Macmillan, New York

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dell’Italia paese della «dolce vita», ma Barzini focalizzò l’attenzione sul lato oscuro degli italiani, cercando di spiegare perché nel corso di tutta la sua storia un paese con tanti «brillanti individui» avesse dovuto affrontare tante catastrofi. Invece di scrivere un libro di storia, Barzini trovò ispirazione nei vecchi racconti di viaggio, e venne fuori un libro su «costumi e morale» degli italiani piuttosto che sulla loro storia, o meglio un libro che faceva dipendere completamente questa storia da fattori immutabili, appunto le loro maniere e la loro morale. La sua premessa di base era che le istituzioni di un paese rispecchiano il carattere del suo popolo, e che nel caso degli italiani tale carattere è amante degli spettacoli e incline all’inganno: «Questa fiducia nei simboli e nelle rappresentazioni va compresa con chiarezza se si vuole capire l’Italia, la storia, le costumanze, la civiltà, le abitudini dell’Italia, e prevedere l’avvenire. [...] È il tratto fondamentale del carattere nazionale. Aiuta l’individuo a risolvere quasi tutte le sue difficoltà private. Domina la vita pubblica»36. Data questa premessa, la storia era solo una fonte di illustrazioni dello stesso carattere che trovava espressione in personaggi storici «rappresentativi» quali Cola di Rienzo e Mussolini: ambedue erano un esempio della passione degli italiani per la teatralità e per l’arte di conquistare il pubblico, ma anche dei loro limiti politici; ambedue erano stati uccisi dal loro stesso popolo, dopo che i regimi da loro istituiti erano miseramente falliti. Infatti, Barzini negava che i mutamenti storici avessero mai avuto alcun effetto reale sugli italiani: nel suo libro ricorrevano di continuo termini quali «eterno» e «perenne»; gli italiani, notava pessimisticamente, sono rimasti sempre gli stessi, e negli ultimi quattro secoli i vari governi hanno operato sempre nello stesso modo corrotto e interessato; è cambiata solo la retorica37. Questa continuità era dovuta principalmente al carattere nazionale. L’insistenza di Barzini nel negare qualsiasi cambiamento è sorprendente, specialmente se si considera che scrisse il suo libro proprio in uno dei più significativi periodi di trasformazione socioeconomica nella storia 1986. Cfr. anche la prefazione di S. Romano all’edizione del 2008 cit. a Barzini Jr., Gli italiani. 36 Ivi, p. 137. 37 Ivi, pp. 421-422.

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recente dell’Italia. Malgrado non contenesse riferimenti molto espliciti alla politica italiana del tempo, il libro sembrava rispecchiare la reazione negativa dell’autore all’alleanza di governo appena formata tra i democristiani e i socialisti, che preoccupava gli ambienti più conservatori del paese. Più di chi in precedenza aveva sottolineato questo aspetto, Barzini insisteva che la famiglia era l’istituzione dominante della vita italiana. Ciò era forse in parte dovuto alla sua lunga permanenza negli Stati Uniti. Dopo la guerra, il luogo comune americano secondo cui gli italiani erano un popolo fortemente legato alla famiglia (di cui la mafia forniva un tipo di declinazione criminale) diventò addirittura una locuzione accademica nell’opera di uno studioso di scienze politiche e di antropologia, Edward C. Banfield, che coniò un’espressione destinata ad avere notevole fortuna: «familismo amorale» (Banfield la applicò in origine per indicare l’ethos della popolazione di un piccolo villaggio della Lucania, che considerava «tipico» del Sud, ma ben presto venne adottata con riferimento all’intero Sud e persino all’Italia nel suo complesso)38. Nella rappresentazione di Barzini aveva un ruolo anche il mammismo: contrariamente alle apparenze, la caratteristica principale della famiglia italiana era di essere dominata dalle donne. In un capitolo centrale del libro, dal titolo Il potere della famiglia, Barzini affermava che l’Italia era di fatto un «cripto-matriarcato»: in Italia, mentre «gli uomini dirigono il paese» sono «le donne [che] dirigono gli uomini», e «la donna è il personaggio dominante della vita italiana»39. Barzini non si rifaceva al complesso della «Grande Madre», una teoria sviluppata a metà degli anni Cinquanta da uno psicologo tedesco operante in Italia40, ma sottolineava come la famiglia, che in una società anarchica come 38 E.C. Banfield, The Moral Bases of a Backward Society, The Free Press, New York 1958. Per un esempio di attribuzione dei caratteri riscontrati nella popolazione di questo villaggio del Sud all’Italia intera cfr. D. Peabody, National Characteristics, Cambridge University Press-Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris 1985, cap. 10. Per una recente discussione dei problemi posti dalla nozione di familismo amorale cfr. G. Gribaudi, Images of the South. The Mezzogiorno as Seen by Insiders and Outsiders, in R. Lumley e J. Morris (a cura di), The New History of the Italian South. The Mezzogiorno Revisited, University of Exeter Press, Exeter 1997, pp. 83-113. 39 Barzini Jr., Gli italiani (2008) cit., pp. 266-267. 40 E. Bernhard, Il complesso della Grande Madre. Problemi e possibilità del-

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quella italiana forniva rifugio e sollievo, fosse di per sé causa di disordine: «La famiglia non è soltanto [...] il baluardo contro il disordine, ma, al contempo, una delle sue cause principali. Essa ha attivamente fomentato il caos in molti modi, e in modo particolare rendendo superfluo e quindi quasi impossibile lo sviluppo di salde istituzioni politiche»41. Anche la Chiesa cattolica aveva incoraggiato questa tendenza. In conclusione, il libro identificava il carattere nazionale come l’origine «fatale» delle tirannie della storia della penisola, che a loro volta avevano «esasperato» i difetti del carattere nazionale portando a nuove sventure, in un circolo vizioso che non sembrava aver fine42. Nonostante le deprimenti conclusioni, grazie anche a uno stile brillante e spesso ironico, il libro si rivelò un bestseller sia all’estero – rimase nella lista del «New York Times» per quaranta settimane – sia in Italia, dove fu immediatamente tradotto ed ebbe quattro ristampe in sei mesi43. L’edizione italiana recava una «premessa per il lettore italiano» piuttosto guardinga, in cui Barzini rivelava che nello scrivere il libro aveva «provato le stesse sensazioni del pittore che si cimenta nella più impegnativa e imbarazzante delle imprese, il ‘Ritratto della madre dell’Artista’», e un poscritto in cui diceva di richiamarsi alla tradizione delle critiche patriottiche alla d’Azeglio. Se si considera la popolarità che il libro raggiunse in Italia, anche se non fu esente da controversie, forse Barzini mise un po’ troppo le mani avanti44. Se Barzini divenne l’«esperto» degli anni Sessanta sull’essenza

la psicologia analitica in Italia, in «Tempo presente», 6, 1961, pp. 885-890. Un altro collaboratore di questa rivista, A. Gambino, applicò il concetto per analizzare alcune caratteristiche della società italiana: cfr. il suo articolo La civiltà materna, in «Tempo presente», 7, 1962, pp. 328-337. 41 Barzini Jr., Gli italiani cit. (2008), p. 272. 42 Ivi, p. 424. 43 Sulla fortuna americana del libro cfr. anche l’analisi critica di A. William Salomone, Italiani «barzinizzati», in «La Fiera Letteraria» (17 ottobre 1965). In Italia, fino ad oggi, ne sono state pubblicate almeno otto edizioni, l’ultima delle quali nel 1997. 44 Nel 1965 un piccolo editore di Firenze pubblicò un libro che confutava le affermazioni di Barzini: A. Musmanno, Né lazzaroni né vigliacchi. Gli italiani difesi da un Americano, Il campo, Firenze 1965. Musmanno, giudice della Corte suprema della Pennsylvania, era stato uno degli avvocati della difesa nel caso Sacco e Vanzetti.

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dell’italianità, tuttavia, come veicolo della retorica del carattere fu certo più importante Indro Montanelli, il «grande vecchio» del giornalismo italiano, uno dei più influenti e autorevoli opinionisti dell’Italia repubblicana. Scrittore prolifico, commentatore di orientamento conservatore, collaborò a diversi giornali e riviste compreso il «Corriere della Sera», su cui scrisse fin dagli anni Cinquanta e che lasciò nel 1974 per fondare un altro quotidiano, «Il Giornale Nuovo». Le sue opere – bestseller come i numerosi volumi sulla storia d’Italia, reportages, e raccolte di articoli – sono state ristampate numerose volte, tanto da renderlo uno degli autori più pubblicati dell’Italia contemporanea. Montanelli aveva cominciato la sua carriera sotto il fascismo, che abbracciò fino alla fine del 1936, quando se ne allontanò, non diventando però mai un antifascista e schierandosi dopo la guerra con gli anti-antifascisti. È rimasto famoso l’invito che rivolse agli italiani nel 1976, di «turarsi il naso» e continuare a votare per i democristiani, malgrado la loro debolezza e la loro corruzione, per fermare l’avanzata del Partito comunista45. Oggi Montanelli viene spesso presentato come una figura controcorrente del giornalismo italiano e anche come coscienza civica del paese (come succede a volte anche a Prezzolini)46. La sua decisione di lasciare «Il Giornale» quando il suo proprietario, Silvio Berlusconi, entrò in politica nel 1994 lo rese popolare anche a sinistra47. Anche se, contrariamente a Barzini, il nome di Montanelli non 45 Su Montanelli cfr. S. Gerbi e R. Liucci, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi, Torino 2006, che è, fino ad ora, l’unica biografia di Montanelli basata su un serio esame delle fonti, e che copre il periodo fino al 1957. Per il periodo successivo cfr. S. Gerbi e R. Liucci, Montanelli l’anarchico borghese, Einaudi, Torino 2009. 46 Controcorrente era anche il titolo di una rubrica che Montanelli tenne per diversi anni sul quotidiano da lui diretto, «Il Giornale». 47 Senza dubbio questa decisione va a suo credito – considerando la facilità con cui molti suoi colleghi si sono «adattati» alla nuova situazione e l’hanno accettata senza alcuno scrupolo – e lo ha reso una figura indipendente nel contesto di una stampa italiana che è spesso difficile definire indipendente. Per una rassegna del giornalismo italiano negli anni della Repubblica cfr. A. Asor Rosa, Il giornalista: appunti sulla fisiologia di un mestiere difficile, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 1227-1257; e più recentemente R. Lumley, Peculiarities of the Italian Newspaper, in D. Forgacs e R. Rumley (a cura di), Italian Cultural Studies. An Introduction, Oxford University Press, Oxford 1996, pp. 199-215.

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è associato a testi interamente dedicati al carattere degli italiani, nei suoi scritti – sia negli articoli di stampa che nei numerosi ed estremamente popolari volumi sulla storia d’Italia, che spaziano dall’antichità al presente – la retorica del carattere degli italiani è stata un elemento importante e sempre presente48. Del resto i suoi maestri di giornalismo erano Longanesi e Prezzolini49, con i quali condivideva un atteggiamento scettico nei confronti dei concittadini, che derivava in parte dalla sua disillusione per il fascismo e in parte da uno snobistico disprezzo per la società di massa. A Prezzolini Montanelli doveva la sua visione del fascismo, che considerava una dittatura mite e un fenomeno tipicamente italiano50. Montanelli è stato infatti il più influente «normalizzatore» del fascismo (a livello popolare) dell’Italia del dopoguerra51, e non ha mai perso l’occasione di accennare al fatto che non aveva nessun rimorso per avervi aderito in gioventù. Montanelli non aveva mai alcun dubbio sull’essenza del carattere dei suoi compatrioti, e la sua visione combinava un atteggiamento di disincanto con un modo di percepire i loro tratti tipici che sembrava derivare dalla commedia all’italiana. In una rubrica settimanale degli anni Cinquanta sul «Corriere della Sera», Specchio della società, Montanelli descriveva «l’italiano tipo» come un essere senza tempo e immutabile: «Gli italiani sono quello che sono», conformisti e per niente disposti a prendersi le loro responsabilità52; un «italiano puro» non è interessato ad altro se non alle donne e a questo interesse subordina tutti gli altri53. Ponendo48 Le sue storie sono, inutile dirlo, estremamente tradizionaliste come orientamento e basate su molti aneddoti. 49 Cfr. i riferimenti di Montanelli a Longanesi, il «più grande dei maestri», in Caro lettore (ed. or. «Il Giornale», 7 luglio 1978), ora in Montanelli, La stecca nel coro cit.; e a Prezzolini, in Mi sono iscritto al partito degli Apoti (ed. or. in «Corriere della Sera», 4 gennaio 1996), ora in I. Montanelli, Le stanze. Dialoghi con gli italiani, Rizzoli, Milano 1998. Secondo G. Aliberti, Montanelli ha riproposto in veste moderna «l’antitalianismo radicale di Prezzolini» (cfr. www.elitestoria.it/ed.2.calendario.html, ultimo accesso 31 agosto 2009). 50 I. Montanelli, Mussolini, incarnazione dei difetti italiani, in «Corriere della Sera», 15 dicembre 1999. 51 Gerbi e Liucci, Lo stregone cit. 52 I. Montanelli, La cosiddetta passione sportiva, in «Corriere della Sera», 24 marzo 1950. 53 Id., Per piacere alle donne giova la parte dei vinti, in «Corriere della Sera», 16 giugno 1950.

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si consapevolmente nel solco della tradizione dei patrioti disillusi che criticavano il costume italiano, Montanelli insisteva sulla classica affermazione che il vero patriottismo sta nel criticare e non soltanto nel lodare il proprio paese54 e lamentava la mancanza di interesse degli italiani nei valori della patria, atteggiamento che, pur essendo comprensibile alla luce del discredito in cui il fascismo aveva gettato il nazionalismo, non poteva essere approvato55. Montanelli non dava solo dimostrazione della sua «conoscenza» degli italiani negli articoli di costume e in rubriche di vario genere, ma la metteva al servizio della sua battaglia politica. Claire B. Luce, l’ambasciatrice americana in Italia nei primi anni Cinquanta, annotava che durante un ricevimento in ambasciata tenuto a Roma nel novembre 1954 «Montanelli ha espresso alcune delle sue più personali opinioni. Tutti sanno che in Italia la democrazia è degenerata in anarchia; che la situazione rassomiglia a quella in cui si affermò Mussolini; che la ‘democrazia all’italiana’ è una combine politica e finanziaria costruita dagli e per gli americani; che quando gli americani smetteranno di pagare crollerà perché nessuno la vorrà; che il successo del partito comunista in parte è dovuto al loro naturale bisogno di un regime autoritario; che gli italiani amano la dittatura: a) perché così ogni italiano sa come comportarsi; b) perché può permettersi di crearsi una piccola zona franca di anarchia e corruzione a suo esclusivo vantaggio. Grazie all’anarchia e alla corruzione, gli italiani possono ammorbidire la dittatura; la ragione per cui il fascismo non produsse mai campi di concentramento [ma non fu affatto così] è dovuta alla congenita propensione italiana a lasciarsi corrompere dalle donne, dal vino e dal denaro (i nazisti, invece erano meno corruttibili). I comunisti italiani sono pericolosissimi perché incorruttibili»56. A parte le inesattezze storiche e le ovvie contraddizioni di queste opinioni, Montanelli certamente esagerava, volendo convincere gli americani della necessità di appoggiare la creazione di

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Id., Amare la patria sapendo dirne male, in «Corriere della Sera», 16 luglio

1950. 55 Id., A sostituire la patria non basta un conto in banca, in «Corriere della Sera», 10 maggio 1950. 56 Da un rapporto riservato di C.B. Luce, citato in Gerbi e Liucci, Lo stregone cit., p. 302.

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una organizzazione anticomunista che avrebbe agito in caso di vittoria elettorale dei partiti di sinistra in Italia57. Tuttavia, questi stereotipi dell’italiano non erano molto differenti da quelli che Montanelli usò in seguito e in altre circostanze. Infatti, nel suo giornalismo gli stereotipi negativi del carattere nazionale servivano in genere a denigrare l’avversario politico. Negli anni Settanta, mentre il paese si spostava a sinistra, Montanelli considerava con preoccupazione la possibilità che il Partito comunista diventasse il primo partito, e avvertiva gli italiani che anche se avessero vinto i comunisti la loro italianità avrebbe comunque avuto la meglio: «Noi italiani non crediamo in nulla, e meno che mai nelle virtù che ogni tanto qualcuno ci attribuisce. Ma fra queste ce n’è una nella quale riponiamo una fede incorruttibile: quella nella nostra capacità di corrompere tutto»58. In un contesto politico simile, riferendosi ancora a chi votava comunista, dichiarò: «Noi italiani crediamo di essere individualisti [...]. Noi siamo soltanto delle pecore indisciplinate, che facciamo confusione nel gregge, ma lo seguiamo sempre in branco, sempre in massa»59. Evidentemente, il modo più efficace di denigrare l’avversario politico era accusarlo o accusarla di avere i tratti di tutto il popolo. A volte la scarsa considerazione che aveva dei suoi compatrioti in quanto cittadini veniva corretta da qualche nota più benevola e autocompiaciuta: «Fra noi ci conosciamo. Sappiamo i nostri difetti e debolezze. Ma sappiamo anche le nostre qualità, che non sono da buttare»60. Quali erano queste qualità? Negli anni Cinquanta Montanelli dichiarava che «sotto tante magagne politiche, economiche e sociali, c’è in questo nostro paese un fondo umano e civile, un’antica e ancestrale gentilezza che finisce per riscattare, 57 Critico com’era nei confronti dei democristiani al governo, e più in generale nei confronti della borghesia italiana per la loro presunta debolezza di fronte al pericolo comunista, Montanelli insisteva con la Luce perché sottolineasse che gli Stati Uniti non avrebbero sostenuto gli italiani, a meno che non dimostrassero un maggiore impegno anticomunista: cfr. M. Del Pero, Anticomunismo d’assalto. Lettere di Indro Montanelli all’ambasciatrice Clare Booth Luce, in «L’Italia contemporanea», 212, 1998, pp. 633-652. 58 I. Montanelli, Todos caballeros, in Id., La stecca nel coro cit., p. 50 (ed. or. in «Il Giornale», 18 luglio 1975). 59 Id., Caro lettore, Rizzoli, Milano 1994, p. 136 (ed. or. in «Il Giornale», 26 gennaio 1979). 60 Ivi, p. 140 (ed. or. in «Il Giornale», 15 febbraio 1979).

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almeno in parte, i nostri spaventosi difetti»61. Risuonava qui di nuovo in tutta la sua estensione l’idea degli «italiani brava gente», che affiorava anche quando Montanelli parlava del colonialismo italiano come di un colonialismo buono, una forza modernizzatrice all’interno di società «primitive», rifiutandosi ostinatamente ogni volta di riconoscere, a dispetto di ogni evidenza, che i soldati italiani avevano usato gas tossici contro i civili in Etiopia (ammise il suo «errore» solo quando, nel 1996, lo Stato italiano finalmente presentò le scuse ufficiali per quell’atrocità)62. Questa componente di autocompiacimento svanì del tutto alla fine degli anni Novanta. La sua visione degli italiani si fece sempre più cupa, al punto da fargli annunciare il suo desiderio di rinunciare alla nazionalità, desiderio che in ogni caso non si poteva realizzare perché, notava, «[s]olo da italiano posso parlar male degli italiani»63. La delusione per gli sviluppi politici di quegli anni, quando un uomo con diversi problemi giudiziari e alla guida di un impero mediatico (tra cui il quotidiano di cui Montanelli era direttore) divenne primo ministro, esacerbava il suo pessimismo, che non diminuì neppure quando gli italiani ne elessero uno assai diverso. Nella postfazione all’ultimo volume della sua storia dell’Italia non vedeva più alcuna via d’uscita: «Ormai sono arrivato alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime [...]. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato un vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente contaminato»64. La sua condanna era totale e riguardava tutta la storia della Repubblica, che egli non intendeva continuare a scrivere per paura che sarebbe stata solo una storia del crimine: «L’Italia è finita [...]. Per me, non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria»65. Intervistato nel 1998 dal suo amico e collaboratore Roberto Gervaso, descriveva gli italiani come «pecore anarchiche, allergiche a ogni regola di convivenza civile», individualisti che «tem[ono] solo il bastone e il cane del pa-

Id., Lettere alla zia Paolina. La signora Luce, in «Epoca», 24 gennaio 1954. Gerbi e Liucci, Lo stregone cit. pp. 35-37. 63 I. Montanelli, Le mie dimissioni da italiano, in Le stanze. Dialoghi con gli italiani cit., p. 411 (ed. or. in «Il Corriere della Sera», 1 novembre 1997). 64 Id., L’Italia dell’Ulivo (1995-1997), Longanesi, Milano 1997, p. 347. 65 Ivi, p. 349. 61 62

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store», «campioni di flessibilità, di equilibrismo»66. Nella sua autobiografia si riproponeva la sua vecchia vena prezzoliniana: «Che i guai degli italiani non dipendessero dai regimi politici, l’avevo capito da un pezzo. Erano i regimi politici, caso mai, che s’intonavano ai difetti degli italiani»67. Una simile tendenza alle generalizzazioni sugli italiani si ritrova in Giorgio Bocca, un altro grande editorialista dell’Italia repubblicana e la voce più autorevole di una versione più di sinistra del discorso del carattere. Il piemontese Bocca è per molti versi l’opposto del toscano Montanelli. Malgrado il fatto che, come quest’ultimo, sia cresciuto sotto il fascismo e da ragazzo ne abbia abbracciato l’ideologia, Bocca ha combattuto nella Resistenza nei ranghi di Giustizia e Libertà e ha collaborato soprattutto con giornali e riviste della sinistra liberale, professando sempre una forte identità antifascista68. Tuttavia, pur avendo idee politiche differenti, la sua visione degli italiani ha molto in comune con quella di Montanelli69. Nella prima parte della sua carriera, negli anni Cinquanta e Sessanta, Bocca realizzò spesso reportages sulla società e sull’economia italiana. Nella Scoperta dell’Italia (1963), il suo viaggio attraverso un paese che grazie al miracolo economico stava cominciando a sperimentare un nuovo benessere, cercò di analizzare a fondo l’impatto di questo cambiamento in un contesto in cui il «grave fardello del passato» rendeva tutto più complicato: nel «gregge» italiano, notava Bocca, «le resistenze individualistiche, i rigurgiti superstiziosi, le reazioni anarcoidi testimoniano di adattamenti e di opposizioni differenti» da quelli di società più moderne come gli Stati Uniti70. Anche se la sua polemica 66 R. Gervaso, Gli italiani? Pecore anarchiche che non costituiscono una nazione, in «Il Messaggero», 30 marzo 1998. 67 I. Montanelli, Soltanto un giornalista. Testimonianza resa a Tiziana Abate, Rizzoli, Milano 2002, pp. 130, 139. 68 Si possono trovare informazioni sulla sua vita nella sua autobiografia, G. Bocca, Il provinciale. Settant’anni di vita italiana, Feltrinelli, Milano 1990, e in Id., Il filo nero, Mondadori, Milano 1995. Come Montanelli, anche Bocca scrive libri di storia, ma di qualità molto superiore e dedicati soprattutto alla Resistenza e al periodo postbellico. 69 Montanelli si espresse in termini positivi nei confronti di Bocca quando quest’ultimo, a suo parere, aveva smesso di «simpatizzare per l’estrema sinistra» (cfr. Caro lettore, in Id., La stecca nel coro cit., pp. 147-148). 70 G. Bocca, La scoperta dell’Italia, Laterza, Bari 1963, p. 8.

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non era ancora diretta contro gli italiani en masse, nelle rubriche che curava negli anni Settanta sul settimanale «L’Espresso» Bocca si poneva nel solco della tradizione discorsiva che risaliva a Prezzolini, contraddistinta tuttavia, come ha notato Alberto Asor Rosa, da una connotazione democratica e azionista71. Nel 1981 il cambiamento del titolo della sua rubrica settimanale da «Il cittadino e il potere» a «L’antitaliano» definì ulteriormente la sua posizione nell’ambito di questa tradizione discorsiva, e da allora il topos del carattere ha assunto una posizione centrale nei suoi scritti. In un suo libro del 1982, In che cosa credono gli italiani, Bocca ripropose alcune delle idee di Barzini: l’elemento chiave del carattere italiano era la tendenza alla doppiezza, alla menzogna e alla dissimulazione; erano tutti così, i comunisti, la Chiesa e anche il fascismo, l’autobiografia della nazione. La pensava come Barzini anche riguardo alla famiglia, e citava Longanesi. Criticava perfino l’esterofilia degli italiani, dimostrata dalla passione per i viaggi all’estero, e la collegava all’abitudine «all’autodenigrazione» alla quale egli stesso aveva contribuito72. Tuttavia gli italiani avevano ancora qualche qualità che li riscattava: pur non essendo totalmente «la brava gente» che credevano di essere (in Etiopia non lo erano certamente stati), non erano nemmeno un popolo assetato di sangue, e alcuni aspetti discutibili della società italiana, per esempio il trasformismo, avevano un lato positivo. In questo libro, che uscì dopo che l’Italia aveva superato gli «anni di piombo» del terrorismo, c’era un certo ottimismo. Quando la società italiana cominciò a confrontarsi con la nuova immigrazione dall’Africa e dall’Asia e il razzismo esplose in episodi di violenza contro gli immigranti, Bocca attribuì tendenzialmente il fenomeno più alla novità dell’incontro che non a ragioni più profonde73. Dalle pagine della sua autobiografia pubblicata nel 1990, Il provinciale, emergeva una visione generale degli italiani ancora abbastanza ottimistica, anche se faceva di Giulio Andreotti – il simbolo per eccelAsor Rosa, Il giornalista cit., p. 1256. G. Bocca, In che cosa credono gli italiani, Longanesi, Milano 1982, p. 120. 73 G. Bocca, Gli italiani sono razzisti? Garzanti, Milano 1988. Il libro aveva il merito di riconoscere l’esistenza di un problema nell’atteggiamento di molti italiani. 71 72

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lenza del potere democristiano – l’epitome dei tratti italiani («la nostra capacità camaleontica, la nostra ambiguità anguillesca»), e confessava di essere «allergico» al Sud per il suo scarso rispetto delle regole, e di amare la Svizzera74. Ma le vedute di Bocca si incupirono negli anni Novanta e nei primi anni del nuovo secolo, quando, dopo la caduta della Democrazia cristiana e del suo sistema di potere, le speranze di un vero cambiamento politico furono infrante dall’imporsi di una nuova coalizione di centro-destra in cui al nuovo partito fondato dal principale beneficiario del vecchio sistema di potere (Forza Italia) se ne affiancava un altro che – pure se ribattezzato Alleanza Nazionale – era l’erede politico del movimento neofascista. Bocca raccolse le sue riflessioni in un libro del 1995, Il filo nero, dove ad alcune meditazioni autobiografiche sugli anni della giovinezza durante il fascismo si mescolavano considerazioni sul significato di questo ritorno degli eredi del fascismo (che ora si autoproclamavano postfascisti) al governo. Per spiegare questo ritorno Bocca rifiutava quella che chiamava la lettura antifascista del fascismo secondo la quale quest’ultimo era qualcosa di radicalmente alieno alla mentalità degli italiani, e riproponeva l’idea che Mussolini era stato lo specchio dell’italianità75. Il fascismo era perenne ed era tornato, e sotto questo fascismo c’era la «cultura autoritaria» dell’italiano comune76. Se era il volto dell’altra Italia, l’Italia «incivile», per Bocca il fascismo rappresentava anche «l’Italia popolare»77. Era tornato anche l’«eterno trasformismo»: «Non c’è italiano capace di sfuggire completamente al vischio dell’opportunismo, del ‘lo fanno tutti’»78. Anche Bocca, come Montanelli, tendeva a generalizzare sul popolo italiano, a volte in maniera equivoca79. Il suo pessimismo 74 Id., Il provinciale cit., pp. 261, 277. Bocca ha una forte identificazione settentrionale, o, più precisamente, piemontese. 75 Id., Il filo nero cit., pp. 9-10. 76 Ivi, pp. 34, 35. 77 Ivi, p. 215. 78 Ivi, pp. 14, 20. 79 Per esempio, nel Filo nero, il libro che ha offerto al giornalista l’occasione di riconoscere, a quanto pare per la prima volta, il suo entusiasmo giovanile per il fascismo, l’uso della prima persona plurale lascia perplessi: non è chiaro se l’autore si riferisce alla sua esperienza personale o a quella collettiva, il che crea una certa confusione di soggetti e di responsabilità. Si veda la frase seguente a p. 45: «Siamo stati anche fascisti rimanendo profondamente italiani ed essen-

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era anche legato, tra l’altro, alla percezione dell’incapacità dell’Italia a diventare una nazione, e di quella degli italiani a diventare cittadini80. Malgrado tutti gli sforzi, non si poteva far rivivere il patriottismo («siamo una nazione troppo giovane e troppo divisa, e forse l’ora per crearla è passata»)81. Più recentemente, nonostante negli anni Novanta anche il Nord si sia rivelato al paese nella sua problematicità con l’emergere di una «questione settentrionale», Bocca ha comunque scelto ancora Napoli come vero simbolo del paese, la Napoli meridionale, la città della camorra e dell’immondizia lasciata a marcire nelle strade82. Il Meridione continua insomma a rappresentare tutto ciò che è negativo nel paese. Non c’è dubbio che tra Bocca e Montanelli vi siano anche differenze importanti. Nelle sue analisi Bocca è molto più sensibile al cambiamento e al contesto internazionale di quanto sia stato mai Montanelli, che leggeva la politica italiana attraverso un’ottica puramente nazionale, interna. Nell’identificare nella coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi un nuovo tipo di fascismo, Bocca ha collocato questo fenomeno nel contesto più ampio dell’involuzione politica delle democrazie occidentali al volgere del nuovo secolo83. Inoltre, quando parla di italianità Bocca riflette sul proprio coinvolgimento in prima persona (mentre Montanelli, anche quando usava la prima persona plurale «noi», non sembrava seriamente includervi se stesso) e spesso riconosce di condividere i vizi che attribuisce agli italiani («il guaio degli antitaliani è di scoprirsi più italiani di quanto non immaginassero»)84. Tuttavia, malgrado la diversità delle loro convinzioni politiche e il diverso grado di autoriflessione e di compiacimento, va sottolineata la notevole convergenza di questi due grandi opinionisti sull’idea del carattere degli italiani, idea che è una delle radici del loro pessimismo radicale: dopotutto, sia Montanelli che Bocca tendono a vedere dietro gli avvenimenti degli anni Novanta e dei prido profondamente italiani restiamo in qualche modo fascisti», che assume tra l’altro che si sappia cosa vuol dire «profondamente italiano». 80 Bocca, Il provinciale cit., p. 277. 81 Id., Piccolo Cesare, Feltrinelli, Milano 2002, p. 164. 82 Id., Napoli siamo noi. Il dramma di una città nell’indifferenza dell’Italia, Feltrinelli, Milano 2006. 83 Id., Piccolo Cesare cit., p. 185. 84 Id., Il provinciale cit., p. 277.

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mi anni Duemila l’espressione del solito vecchio carattere italiano. L’ottica totalizzante del carattere impedisce ancora una volta una visione più articolata e complessa della devastante novità del panorama politico, nonché della società italiana, nel nuovo fin de siècle, al di là di continuità e trasformismi politici.

Il «ritorno» del carattere nazionale negli anni Novanta I contributi più recenti di Montanelli e di Bocca sono usciti in un periodo in cui molti intellettuali italiani si interrogavano intensamente (anche se la ricerca non sembra aver portato a molte nuove scoperte) sul carattere e sull’identità nazionale, e questo loro sforzo accompagnava i grossi cambiamenti politici del periodo 1989-1994, quando il vecchio sistema dei partiti che aveva dominato durante la Guerra Fredda andò in pezzi, in conseguenza del crollo del Muro di Berlino e dell’inchiesta giudiziaria «Mani Pulite» che mise a nudo la vasta corruzione di democristiani, socialisti e dei partiti loro alleati. Questo collasso dei partiti vide l’ascesa di nuovi attori politici, uno dei quali – la Lega Nord – contestava l’unità nazionale, mentre altri riscoprivano il patriottismo e il nazionalismo come armi politiche in un contesto sempre più dominato da ansie per l’integrazione europea, per la globalizzazione, e in particolare per l’immigrazione da paesi non europei85. Lo sgretolarsi del vecchio sistema dei partiti avrebbe potuto rappresentare per le forze progressiste una importante occasione di cambiamento. Ma una volta ancora si perse questa opportunità, e le forti speranze di eliminare il sistema di corruzione politica consolidatosi nei quasi cinquant’anni in cui erano stati al governo sempre gli stessi partiti furono infrante. Il paese divenne il teatro 85 Anche se alcuni segnali di questa nuova tendenza patriottica erano già visibili negli anni Ottanta, come nota Silvio Lanaro (L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Einaudi, Torino 1988), solamente negli anni Novanta vi fu una piena rinazionalizzazione del panorama politico: comparvero nuovamente partiti che nel nome e nei simboli facevano riferimento alla nazione, nel discorso pubblico politico i richiami al patriottismo divennero la norma e la xenofobia era in aumento. Discuto in maniera più ampia di questi argomenti nel mio saggio Italian Neo-Patriotism: Debating National Identity in the 1990s, in «Modern Italy», 6, 2001, pp. 21-34.

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dell’ascesa politica del tycoon dei media Silvio Berlusconi, che dette simultaneamente piena legittimazione a un partito nazionalista postfascista e a un movimento xenofobo che attaccava regolarmente lo Stato unitario e che a un certo punto voleva perfino la secessione delle province del Nord86. Considerando la gravità della crisi istituzionale e il radicamento che il discorso del carattere ha nella cultura italiana, non c’è da sorprendersi se nelle riflessioni di molti intellettuali e politici la questione del carattere nazionale si sia posta nuovamente al centro della scena, aiutata anche dall’indebolirsi di paradigmi analitici e interpretativi basati sulla nozione di classe. Il discorso del carattere forniva un quadro interpretativo bell’e pronto per dare un senso agli eventi, ma anche per esprimere frustrazione politica e addossare colpe e responsabilità. Le generalizzazioni sull’Italia e sugli italiani abbondavano. Nel 1994 un commentatore ne descriveva così i tratti distintivi: «Siccome [noi italiani] abbiamo capito Machiavelli a rovescio, abbiamo aggirato la modernità grazie al machiavellismo, riuscendo a produrre una serie di mostri che oggi tendiamo a definire levantini e che sono invece solo italiani: come l’individualismo senza coscienza individuale, il nazionalismo senza coscienza nazionale, l’astuzia senza intelligenza, il liberismo senza mercato, il mercato senza concorrenza». E coronava questa serie di paradossi con l’affermazione che la cultura italiana aveva prodotto «uno Stato senza una nazione» e «una nazione senza uno Stato»87. Nel 1998 un altro giornalista resuscitò l’idea della «Grande Madre mediterranea», che si supponeva avesse formato la mentalità degli italiani instillando in loro l’indulgenza verso se stessi, la mancanza di senso di responsabilità e così via88. Tra l’altro, ciò che si affermava prima a proposito di Mussolini o Andreotti – cioè che erano l’incarnazione del carattere italiano – veniva riproposto nei con86 Sull’imporsi di Berlusconi nella scena politica italiana cfr. A. Stille, Citizen Berlusconi. Vita e imprese, Garzanti, Milano 2006. Sul nuovo panorama politico negli anni Novanta cfr. S. Gundle e S. Parker (a cura di), The New Italian Republic. From the Fall of the Berlin Wall to Berlusconi, Routledge, London 1996. 87 S. Vertone (a cura di), La cultura degli italiani, Il Mulino, Bologna 1994, p. 11. 88 A. Gambino, Inventario italiano. Costumi e mentalità di un Paese materno, Einaudi, Torino 1998.

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fronti di Berlusconi, ritenuto da molti un ennesimo campione della «furbizia» italiana89. Si potrebbero riempire pagine e pagine di citazioni di questo genere, traendole dagli scritti di commentatori di tendenze sia di sinistra che di destra90. Le loro analisi si basano sull’assunto che l’italiano resti sempre lo stesso e che il suo carattere sia immutabile: spesso vengono citate come prova di questa immutabilità notazioni critiche e generalizzazioni sugli italiani fatte da scrittori del passato (di qui la riscoperta del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani di Giacomo Leopardi, un testo scritto nel 1824 che sferzava le abitudini degli italiani di quei tempi)91. I giornalisti amano particolarmente questo tipo di generalizzazioni, ma anche certi storici non le evitano. Un’altra caratteristica di questa letteratura è la ricerca delle cause nel lontano passato. Ma quale periodo del passato può essere maggiormente utile a questo scopo? Alcuni degli storici che hanno cercato di dare conto della vastità della corruzione politica e dello scarso senso civico del paese ne attribuiscono la responsabilità al ritardo del processo di formazione dello Stato italiano92, altri a un feudalesimo troppo debole, che non avrebbe favorito il for89 S. Vassalli, L’italiano, Einaudi, Torino 2007, p. 127. Vassalli definisce Berlusconi l’«iperitaliano». In maniera speculare, Clemente Mimun, sostenitore di Berlusconi e suo dipendente – lavora in una delle sue televisioni – sostiene che la popolarità di Berlusconi va fatta risalire al fatto che egli rispecchia in maniera positiva il carattere degli italiani: cfr. Steven Holmes, Italy’s Love Affair with Berlusconi, intervista pubblicata su newsvote.bbc.co.uk/mpapps/pagetools/ print/news.bbc.co.uk/2/hi/Europe/7348332 (ultimo accesso il 7 luglio 2008). 90 Per generalizzazioni simili nella stampa del centro-destra cfr. per esempio Italiani e no, «Panorama», 25 aprile 1993; Vizi e virtù d’Italia, in «La Voce», 17 maggio 1994; Bella Italia, odiate sponde[...], in «Panorama», 9 luglio 1994; Stato nascente, in «Panorama», 9 dicembre 1994; Saremo mai un paese normale?, in «Panorama», 21 luglio 1995; Leopardi e Gattopardi, in «Panorama», 15 luglio 1997; Che cos’è l’Italia? Il cortile di un carcere durante l’ora d’aria, in «Il Messaggero», 15 dicembre 1997; L’Italia è sfatta ma ci sono gli italiani, in «Panorama», 28 maggio 1998. 91 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani, Marsilio, Venezia 1989; Feltrinelli, Milano 1991; Mondadori, Milano 1993; Rizzoli, Milano 1998. Inoltre il testo è incluso come appendice a F. Ferrucci, Nuovo discorso sugli italiani, Mondadori, Milano 1993. Il testo fu scritto nel 1824 ma fu pubblicato solo all’inizio del XX secolo. 92 U. Cerroni, L’identità civile degli italiani, Manni, Lecce 1996, 2a ed. 1997. Secondo la prospettiva meridionale di questo autore, un’occasione cruciale di unificazione nazionale fu già perduta nel XIII secolo quando Federico II non riuscì a unificare la penisola a causa del potere della Chiesa.

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marsi di valori quali il «servizio» e il «rispetto per i principi dell’ordine sociale»93, mentre altri ancora hanno richiamato l’attenzione sull’influenza perniciosa della Controriforma, che avrebbe lasciato un’impronta indelebile sulla mentalità degli italiani determinando il «primato [...] dell’intenzione sulla responsabilità», una «cultura del pentimento», l’«orrore per il cambiamento», l’«ambivalenza nei confronti del potere», e così via94. Gli storici meno disposti a fare del cattolicesimo il colpevole principale hanno addossato la responsabilità alla forza dell’attaccamento alle piccole patrie locali, all’eccessiva importanza della famiglia, alla lunga tradizione del governo oligarchico, e alla storica «assenza dello Stato»95. Le analogie tra queste analisi sintetiche e generali della storia d’Italia e alcune delle opere esaminate nei capitoli precedenti sono considerevoli, e mostrano la continuità e l’importanza del ruolo pubblico svolto dal lavoro degli storici nella società italiana di oggi. Ma è poco probabile che si riuscirà a trovare una spiegazione sensata della crisi attuale della democrazia italiana tornando indietro al Medioevo. Al di là della difficoltà di trovare risposte conclusive alla vexata quæstio delle origini storiche, in questo tipo di analisi storico-politica il risultato dell’indagine viene generalmente predeterminato dall’impegno ideologico dell’analista. Oltretutto, l’idea che si possa comprendere la storia di un paese semplicemente osservando ciò che succede all’interno dei suoi confini geografici (in altri termini, l’idea che la «storia nazionale» possa spiegare tutto) è in larga misura un’illusione alimentata da una mentalità nazionale se non nazionalista96. 93 C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, Feltrinelli, Milano 1995. Le conclusioni raggiunte da questo autore sono esattamente l’opposto di quelle del famoso studio di R. Putnam sulla performance dei governi regionali dell’Italia settentrionale e meridionale: Putnam vi sostiene che l’origine dei problemi del Sud deve essere trovata nel feudalesimo, che nel Meridione impedì il formarsi dello stesso senso civico che si presume esista nel Nord (Making Democracy Work. Civic Traditions in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton 1993 [trad. it., La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993]). 94 A. Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Einaudi, Torino 1988, p. 84. 95 E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998, p. 163. 96 Per ulteriori approfondimenti su questo punto cfr. anche i miei saggi Italian Neopatriotism cit., e National Identity or National Character? New Vocabu-

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Ciò non significa che i problemi di cui queste analisi cercano di venire a capo non siano drammaticamente reali. Capire e spiegare perché la democrazia italiana si trovi oggi in una tale crisi è di un’importanza cruciale. Ma ora come nel passato il discorso del carattere nazionale ha scarsi strumenti per poter fornire spiegazioni valide. Funziona per assunti – l’idea totalizzante che il «popolo italiano» sia un insieme omogeneo, senza distinzioni di classi, di cultura e di orientamento politico, la finzione degli «eterni italiani», l’idea che certi politici siano lo «specchio» del carattere nazionale, e così via – che non reggono a un’analisi critica. Come nel passato, le generalizzazioni sul tema del carattere tendono a oscurare, a volte di proposito, le responsabilità di determinati individui, gruppi e istituzioni, e a dare credito a discutibili diagnosi di eccezionalismo nazionale, eccezionalismo che è di norma una ricetta per cattive spiegazioni e cattiva politica97. Più che servire a identificare i nuovi sviluppi e le responsabilità specifiche all’origine della crisi attuale, queste generalizzazioni tendono a essere un veicolo per esprimere frustrazione, e difficilmente possono tenere viva la speranza di trovare una via d’uscita.

laries and Old Paradigms, in A.R. Ascoli e K. von Henneberg (a cura di), Making and Remaking Italy. The Cultivation of National Identity Around the Risorgimento, Berg, New York-Oxford 2001, pp. 299-319. 97 Sulla problematica idea di eccezionalismo cfr. M. Nolan, Against Exceptionalism, in « American Historical Review», 102-103, 1997, pp. 769-774.

CONCLUSIONI

Questo libro ha sostenuto che il discorso del carattere nazionale nell’Italia contemporanea è stato in origine il prodotto dei progetti nazional-patriottici che emersero all’inizio dell’Ottocento e delle aspirazioni a una rigenerazione nazionale che accompagnavano questi progetti. Fin dall’inizio, nel Risorgimento, l’insistenza sull’idea del primato e della superiorità culturale dell’Italia fu accompagnata da un discorso critico sui difetti o «vizi» degli italiani in quanto popolo. La critica del carattere veniva considerata un passo necessario sulla via del suo rinnovamento. Nel tempo, la nozione di carattere ha subito varie trasformazioni, e parallelamente sono cambiati gli obiettivi di questo discorso. In differenti momenti storici alcuni vizi italiani furono considerati più rilevanti di altri e furono stigmatizzati in diversi ambienti: si va dall’ozio e dall’effeminatezza all’eccessivo individualismo, alla furbizia, al trasformismo, al mammismo, per nominarne solo alcuni che sono stati oggetto di particolare attenzione e sono diventati parte dell’immagine degli italiani (significativamente il maschilismo di tanti uomini italiani non è mai stato prominente in questo discorso). Si evolvevano nel tempo anche le virtù, dai primati di cultura alla brava gente, con effetti piuttosto paradossali. Questa variabilità rispecchiava situazioni e culture politiche diverse, i cambiamenti del clima intellettuale e le preoccupazioni che di volta in volta agitavano gli intellettuali e i politici che erano al potere o che, più spesso, criticavano le élites al potere. I patrioti del Risorgimento volevano che gli italiani prendessero in mano il loro destino, ma spesso li trovavano (specialmente le élites dei vecchi regimi) pusillanimi e poco virili. Dopo la creazione dello Stato unitario l’ideale risorgimentale di un’Italia moderna, europea, si scontrò nuovamente e con forza con una realtà che sembrava molto diversa. Al centro delle riflessioni c’era an-

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cora una volta l’ozio, insieme ad altri vizi che sembravano essere un ostacolo alla creazione di uno Stato liberale moderno. Nel contesto di una rivalità sempre più accesa tra gli Stati europei e di una crescente competizione internazionale per l’acquisizione di colonie, emerse la questione dell’«eccessivo individualismo» degli italiani; i nazionalisti sostenevano la necessità di limitarlo o di sopprimerlo rafforzando il potere dello Stato, allo scopo di rendere più salda la coesione nazionale necessaria per le imprese coloniali, e per debellare le idee socialiste. Permeato da questa ideologia, il fascismo tentò di trasformare gli italiani in un popolo disciplinato e militarizzato e condusse il paese alla vergogna di nuove aggressioni e al collasso completo. A loro volta, gli antifascisti che lottavano per un vero rinnovamento democratico del paese denunciavano quei tratti del carattere che avevano portato gli italiani ad abbracciare il fascismo o a essere incapaci di opporvisi efficacemente. Tra le rovine del fascismo e della guerra, le riflessioni sul carattere della nazione furono particolarmente intense e si tradussero in diagnosi a volte disperate. Nell’Italia postbellica, mentre si metabolizzavano le sconfitte militari e la prospettiva del rinnovamento svaniva rapidamente dall’agenda politica, l’effeminatezza divenne nuovamente un tratto associato al carattere italiano, e non a caso nelle rappresentazioni che ne venivano fatte emerse per la prima volta il «mammismo». Quindi, non solo il carattere nazionale è stato un elemento centrale delle riflessioni di una parte importante del mondo intellettuale e politico dal Risorgimento alla Repubblica, ma il discorso dei vizi degli italiani è stato anche parte integrante della lotta politica, nel senso che è stato regolarmente messo in campo e utilizzato come strumento nella battaglia per la definizione della nazione, e tra differenti visioni della modernità. Alla base dei tentativi (o almeno delle proposte) di rifare gli italiani, dal Risorgimento al fascismo e alla Resistenza – alla quale tuttavia non seguì, come in precedenza, un’altra forte spinta pedagogica a trasformarli – c’era la critica del «vecchio italiano». Declinate nel quadro della preoccupazione per la libertà e la democrazia, le riflessioni sui mali del carattere nazionale sono certamente servite, e ancora servono, a richiamare l’attenzione sui problemi della vita pubblica e sulla qualità della cittadinanza. Allo stesso tempo, la denuncia dei «vizi tipicamente italiani» è servita, e serve ancora,

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anche ad altri scopi. È stata utilizzata per delegittimare l’avversario, spesso rappresentato come la quintessenza dell’incarnazione di questi vizi: un esempio recente di questa utilizzazione ci viene dalla Lega Nord, che nel suo attacco contro lo Stato nazionale ha ampiamente capitalizzato sull’idea che italianità sia sinonimo di corruzione1. Il discorso dei vizi italiani è stato inoltre usato come alibi per oscurare o nascondere le azioni e le responsabilità di determinati individui, gruppi e istituzioni estendendo colpe e responsabilità indiscriminatamente a tutta la popolazione: è una linea di autodifesa – il «così fan tutti» – adottata in tempi recenti da molti di coloro che sono rimasti invischiati nell’inchiesta su Tangentopoli. Parallelamente, sul versante positivo dello stereotipo, alcuni ricorrono ancora all’idea degli «italiani brava gente» per negare l’evidente presenza del razzismo nell’Italia odierna. Per quanto forte sia la presenza del discorso del carattere nazionale nell’Italia moderna, non si tratta esclusivamente di una peculiarità italiana. Studi recenti hanno mostrato che l’idea stessa di carattere nazionale è intimamente legata al processo formativo delle nazioni e al nazionalismo e che tutti i paesi ne hanno qualche versione, connotata in termini prevalentemente positivi o negativi, o più comunemente una mescolanza variabile di valutazioni positive e negative2. La prevalenza di una versione o di un’altra dipende molto dalla posizione che un dato paese ha in un mondo di nazioni. È più probabile che siano i paesi più deboli e arrivati più tardi in questo mondo a sviluppare una sensibilità per le loro manchevolezze o per la loro incapacità di essere all’altezza degli standard di una modernità concepita in termini idealizzati o normativi e dei requisiti che in teoria si applicano all’esistere in quanto nazione. In

1 Per un esempio dell’idea di italianità nel discorso della Lega e del suo rifarsi al discorso del carattere nazionale cfr. G. Oneto, L’iperitaliano: eroe o cialtrone? Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi, Il Cerchio, Rimini 2006, dove si possono leggere passi di questo genere: «Negli anni risorgimentali si trova tutto il repertorio dell’italianità deteriore degli anni successivi: un miscuglio di esaltati, patrioti, idealisti ma anche e soprattutto di opportunisti, voltagabbana e autentici delinquenti» (p. 310). 2 Si possono trovare alcune analogie tra il caso dell’Italia e il movimento nazionalista della Cina del ventesimo secolo: cfr. P.B. Foster, Ah Q Archeology. Lu Xun, Ah Q, Ah Q Progeny and the National Character Discourse in Twentieth Century China, Rowan and Littlefield, Latham 2006.

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Italia questa percezione viene acuita oltre che dal mito della grandezza passata, dal fatto che il discorso del carattere nazionale si è spinto oltre la sua funzione originale nell’ambito della politica nazional-patriottica, e che nel tempo il termine «italiano» è diventato una sorta di insulto lanciato contro l’avversario politico. Anche al di fuori dell’Italia si è contribuito a dare forma a questo discorso, particolarmente nelle sue fasi iniziali. Meta favorita dei viaggi di un gran numero di europei fin dal Settecento, l’Italia ha occupato un posto importante nell’immaginario di questi altri popoli. Di conseguenza vi è stata una notevole proliferazione di immagini dell’Italia e degli italiani e si sono consolidati certi stereotipi a cui gli intellettuali italiani sono stati generalmente molto sensibili, e che hanno influito sull’idea che questi ultimi si facevano del proprio paese. In generale si può dire che la nazione italiana si è costituita originariamente in una dialettica complessa con l’Altro, o lo straniero, anzi con più di un Altro: accanto allo straniero come nemico e «barbaro» da cui ci si voleva distinguere c’era anche lo straniero come amico e modello positivo a cui si voleva assomigliare, nonché l’Altro interno, il Sud, o la stessa «meridionalità» dell’Italia, che funzionava (e ancora funziona) da simbolo di tutto ciò che di «non moderno» si trovava nel paese. In ogni caso, anche questa dinamica di specchi non è peculiare solo dell’Italia, dato che le idee sull’identità e sul carattere nazionale si formano e si costruiscono in maniera relazionale e nel contesto di un sistema internazionale gerarchizzato di nazioni. In conclusione, occorre considerare alcune delle eredità storiografiche e delle implicazioni attuali del discorso del carattere italiano che abbiamo esaminato in questo libro. Il paradigma dell’eccezionalismo (negativo) con forte enfasi antropologica che è parte integrante del discorso del carattere nazionale e che ha permeato il discorso politico in Italia si è diffuso anche al di fuori della politica e ha avuto, e ha ancora, un impatto sulla storiografia sia in Italia che all’estero. Benché generalmente l’idea del carattere nazionale non sia più accettata a livello accademico e gli storici non vi ricorrano in maniera esplicita3, non pochi studiosi sia in Italia che all’estero

3 Vi sono delle eccezioni: cfr. per esempio S. Setta, L’Uomo Qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari 1975, p. IX.

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guardano alla storia italiana con un bagaglio di presupposizioni implicite su certi tratti permanenti o essenziali del carattere italiano e finiscono per enfatizzare le continuità a spese delle discontinuità e di una più adeguata storicizzazione4. Anche senza considerare quanto l’orientamento tutto interno della storiografia nazionale tenda di per sé a rafforzare l’idea della peculiarità della nazione, il paradigma eccezionalista si è tradotto in storie dello Stato e dell’identità nazionale che ne hanno messo in luce quasi esclusivamente i punti deboli e i fallimenti, a spese di considerazioni più bilanciate e di interpretazioni più complesse. Si può inoltre considerare il modo in cui l’idea che gli italiani siano un popolo che non ama combattere ha influito sulla storiografia del Risorgimento, che per molto tempo ha tendenzialmente ignorato l’importanza che la guerra ha avuto in quel periodo per l’auto-definizione dell’italianità e del nazionalismo italiano5; o come l’idea che gli italiani siano «brava gente» ha ostacolato una ricerca più attenta sui crimini commessi da italiani contro le popolazioni colonizzate, contro gli ebrei italiani, e contro i civili nei territori occupati nel corso della seconda guerra mondiale. Ma oltre a osservare l’impatto del discorso sui vizi italiani a livello di analisi accademiche, dobbiamo anche considerarne l’effetto su più larga scala. Come hanno notato alcuni studiosi, immagini completamente negative di sé possono avere un effetto paralizzante e diventare una predizione che si auto-avvera6. Mentre le rappresentazioni dei caratteri nazionali in termini esclusiva-

4 Cfr. per esempio il modo in cui M. Clark analizza la politica italiana come espressione di un clientelismo connaturato alla società nel suo Modern Italy, 2a ed., Longman, London-New York 1996 su cui cfr. le pertinenti osservazioni di S.N. Serneri, Le peculiarità degli italiani. Appunti e disappunti da alcune storie d’Italia anglosassoni, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e ’900», II (1999), pp. 671-698. Tra gli storici italiani si può far riferimento a coloro che si basano sul trasformismo come categoria interpretativa dominante: cfr. per esempio G.C. Marino, È davvero esistita la prima Repubblica? Saggio su De Gasperi, Togliatti e il trasformismo italiano, Le Monnier, Firenze 2002. 5 Su questo punto cfr. le osservazioni di L. Riall, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in A.M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, p. 254. 6 È una osservazione che alcuni anni fa ha fatto anche F. Cassano in La differenza italiana ovvero dell’altra faccia della luna, in «Il Mulino», marzo-aprile 1999, pp. 221-226.

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mente positivi sono fantasie ridicole e pericolose, anche il loro opposto è problematico. Quale speranza può esserci che ci sia mai un cambiamento se il carattere di un popolo è quello che è, e se il passato ha lasciato su di esso un’impronta quasi «genetica»? Come può un popolo sfuggire al suo «Dna nazionale», per usare una metafora in voga nel giornalismo e nel linguaggio politico italiano corrente?7 C’è qualche incentivo a comportarsi in maniera diversa, se si è come si è? C’è qualche vera possibilità di sfuggire alla maledizione di un passato che si perpetua nel presente? Ponendo questi interrogativi non intendo implicare che tutte le critiche nei confronti degli italiani come popolo, e le loro autocritiche, siano ingiustificate o equivalenti, né che questo atteggiamento autocritico debba essere abbandonato perché residuo di un’epoca passata, come qualcuno ha proposto recentemente. Non a caso, negli ultimi tempi è da ideologi del centro-destra, impegnati a rivalorizzare l’identità nazionale in termini esclusivamente positivi contro tutti i presunti «denigratori» e «autodenigratori», che sono venuti appelli perché venisse posta fine alla tradizione del discorso critico sul sé nazionale8. I pericoli di una posizione del genere sono evidenti. Fintantoché non si traduce in paralisi e non viene usata per «spostare» l’attenzione da responsabilità specifiche, l’autocritica a livello nazionale è un aspetto importante del discorso pubblico in ogni società democratica. Essa ha anzi un ruolo indispensabile sia a livello individuale che collettivo, e la sua assenza 7 Naturalmente, il ridicolo topos del Dna nazionale è declinato anche in termini positivi, per esempio nei discorsi di politici di centro-destra. L’attuale presidente del Senato, Renato Schifani, per negare che nell’Italia di oggi il razzismo è un grave problema, ha dichiarato che «il razzismo non è nel Dna del popolo italiano» (cfr. l’intervista a Schifani riportata su «la Repubblica» del 6 ottobre 2008). 8 Cfr. per esempio R. Cammilleri, Controstoria dell’anti-Italia, in «Ideazione», novembre-dicembre 2001. Cammilleri è un ultra-cattolico che opportunamente trascura la versione di destra di questo discorso nazionale. Cfr. anche M. Bernardi Guardi, Arcitaliani, antitaliani e italiani «difficili», ivi, il quale lanciava un appello per la riconciliazione nazionale, cioè a superare l’opposizione tra «antitaliani» e «arcitaliani» – in altri termini, a superare l’opposizione tra gli antifascisti e gli eredi del fascismo diventati postfascisti – per affermare un’italianità comune. Il bimensile «Ideazione» è espressione della nuova formazione di centro-destra capeggiata da Berlusconi, che ha portato i postfascisti al governo. Il numero di novembre-dicembre 2001 intitolato Una certa idea dell’Italia è dedicato interamente al tema dell’identità/carattere nazionale.

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è sicuramente sintomatica di un problema: un attaccamento cieco al proprio paese, un patriottismo assoluto e acritico sono la culla dell’intolleranza e dell’autoritarismo. L’analisi critica dei discorsi sulla società deve favorire una maggiore consapevolezza della loro utilizzazione, dei loro meccanismi e delle loro cecità, e non portare alla delegittimazione di ogni tipo di critica sociale, politica e culturale. Ed è per questo che ho resistito alla tendenza di considerare il discorso che esamino in questo libro un esempio della presunta «inclinazione moralistica» di certi intellettuali, un’etichetta usata in Italia per attaccare il punto di vista dell’avversario sulla base del falso presupposto che politica ed etica sono due regni differenti e completamente separati. Di fatto, la storia del discorso del carattere nazionale in Italia dimostra che se questa inclinazione moralistica è esistita, è stata parte integrante di vari tipi di patriottismo e nazionalismo, ed è stata condivisa da un ampio spettro politico, sia di destra che di sinistra, portando quindi con sé differenti sistemi di valori e idee di nazione e patria. Tuttavia l’idea del carattere nazionale ha un fardello ideologico troppo pesante ed è allo stesso tempo troppo semplicistica per essere il veicolo di queste considerazioni critiche, specialmente nel contesto di una società che sta cambiando profondamente. È un’idea che presuppone una omogeneità socio-culturale e una uniformità nazionale che non si trovano da nessuna parte, e che personificando la nazione la naturalizza e ne oscura la natura costruita. In ogni comunità, e specialmente nelle nostre società complesse e sempre più globalizzate, il lavoro di autocritica e di esame di coscienza collettivo richiede un vocabolario diverso e più complesso. L’intensificazione dei discorsi sul carattere nazionale, che si è accompagnata alla rinazionalizzazione – seppur contestata – del panorama politico in Italia, si attua in un periodo in cui il paese sta ricevendo un numero sempre crescente di persone nate altrove e che sono estranee alle «guerre italo-italiane» del ventesimo secolo9. I

9 Mentre scrivo, secondo l’Istat i residenti di origine non italiana (inclusi i loro figli nati in Italia ma senza cittadinanza italiana) costituiscono quasi il 6 per cento del totale della popolazione. È probabile che questo valore sottostimi il fenomeno, dal momento che non comprende gli immigrati senza permesso di soggiorno. Cfr. http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/ 20081009_00/, ultimo accesso 31 agosto 2009.

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discorsi sull’identità e sul carattere nazionale tendono a rafforzare separazioni e distinzioni. Il fatto stesso di enfatizzare un carattere distinto, anche se questo carattere è un repertorio di vizi, e un passato comune, anche se quel che si racconta è una storia di fallimenti, esclude necessariamente chi non è nato sul suolo della nazione o non discende da coloro che vi nacquero. Le sfide dell’Italia multiculturale che viene emergendo richiedono nuovi vocabolari e nuove forme di discorso pubblico, meno autoreferenziali e più aperte al mondo esterno. La creazione di una società più inclusiva e più aperta non sarà possibile senza una riconsiderazione critica di vecchi miti nazionali e abitudini discorsive.

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INDICI

INDICE DEI NOMI Acquarone, A., 67n. Adamson, W.L., 110n, 112n, 114n, 117n, 177n. Aga-Rossi, E., 208n. Aglebert, A., 18 e n. Agosti, G., 238n. Alatri, P., 47n. Albonetti, P., 151n, 236n. Alfani, A., 54, 56 e n, 58 e n, 67, 68n, 69 e n. Alfieri, V., 17, 26n, 189, 219. Algarotti, F., 22n. Aliano, D., XXVIII. Aliberti, G., XIIIn, XIVn, 114 e n, 144n, 162 e n, 164n, 224n, 227n, 250n, 258n. Alighieri, D., XIV, 30, 197-98, 204, 219, 228, 233. Alvaro, C., 207, 221 e n, 222 e n, 223 e n, 226, 244 e n. Ambrosini, L., 115 e n. Amendola, G., 116 e n. Anderlini, L., 189n, 190n, 192n. Anderson, P., IXn. Andreotti, G., 263, 267. Ansaldo, G., 190 e n, 191n. Aprà, A., 242n. Arrighi, G., XXIn. Aschram, R., XVIIn. Ascoli, A.R., IXn, XXVII, 24n, 34n, 270n. Asor Rosa, A., 48n, 102n, 111 e n, 181n, 257n, 263 e n. Astarita, T., XXVIII. Augustinos, G., XXIn. Baccelli, G., 105. Bacigalupi, M., 106n. Badoglio, P., 208.

Baglioni, G., 54n. Bagnoli, P., 19n, 184n. Balbo, C., 3, 13 e n, 14 e n, 15, 16 e n, 17-18, 21 e n, 27 e n, 28 e n, 29 e n, 34 e n, 35 e n, 36 e n, 44, 55n. Balbo, I., 225. Balsamo-Crivelli, G., 9n. Banac, I., XIIn. Banfield, E.C., 255 e n. Banti, A.M., XXVn, XXVIII, 13n, 17 e n, 32n, 35n, 36n, 86n, 275n. Baranski, Z.G., XIIIn, 248n. Barbagallo, F., 191n. Barbanera, M., 171n. Barbera, G., 42, 43 e n, 51 e n, 71, 72n. Barberis, M., 267n. Barberis, W., 32n, 107n. Baretti, G., 4 e n. Baritono, G., 194n. Barrera, G., 159n. Barzini, L. Jr., 253 e n, 254 e n, 255 e n, 256 e n, 257, 263. Basso, L., 189n, 190n, 192n. Beccaria, C., 219. Bedani, G., 211n. Belardelli, G., 46n, 117n, 118n. Bell, D.A., XXVn, 10n. Bellassai, S., 152n. Benadusi, L., 152n. Ben-Ghiat, R., 164n, 166n, 209n, 222 e n, 246n. Bentivoglio, B., 212n. Bergamini, O., 209n. Berger, S., 215 e n. Berlusconi, S., XII, 257, 265, 267 e n, 268 e n, 276n. Bernardi Guardi, M., 276n. Berneri, C., 4n, 148n. Bernhard, E., 255n.

310 Bertoni Jovine, D., 67. Bevilacqua, P., 76n, 84 e n, 112n. Bianchi, G., 146n. Bianchi Bandinelli, R., 171 e n. Bidussa, D., 208n. Bilenchi, R., 158n. Billig, M., XXII e n. Bismarck, O. von, 105. Bizzocchi, R., XXVn, XXVIII, 13n, 23 e n, 25n, 26n. Black, J., 4n, 25n. Blom, I., XXVn. Bobbio, N., 180n, 219n. Bocca, G., 262 e n, 263 e n, 264 e n, 265 e n, 266. Boccardo, G., 56 e n. Boccioni, U., 120n. Bodei, R., 224n. Bollati, G., XIV e n, XVI, XVIIIn, 8n, 9n. Bondanella, P., 242n. Bonetta, G., 70n, 103n, 104n, 105n, 106 e n. Bongiovanni, B., 187n. Bonstetten, C.V., 22n. Bontempelli, M., 166. Bordiga, A., 176. Borgese, G.A., 198 e n, 199 e n. Borsa, M., 221 e n. Boswell, J., 25n. Bosworth, R.J.B., 159n, 160n, 162n, 194n, 209n. Bottai, G., 143, 144 e n, 147n, 158. Botteri, I., 66n. Brady, F., 25n. Brancati, V., 237 e n, 246, 249n. Bravo, A., 245n. Broers, M.G., 6n, 7n, 11n. Brown, W., 10n. Brunetta, G.P., VIIIn, 241n, 242n, 250n. Buck, A., 81n. Burckhardt, J., 80 e n, 81 e n, 82 e n, 83 e n, 87, 95, 108. Burgio, A., 96n, 103n. Burresi, P., 183n. Businco, L., 161n. Byron, G.G., 12. Caesar (C. Seassaro), 178n. Cafagna, L., 177n. Caffi, A., 198n. Calamandrei, P., 219 e n, 220.

Indice dei nomi Calvino, I., 250 e n. Caminati, L., XXVIII. Cammilleri, R., 276n. Campi, A., 144n, 192n. Campodonico, A., 113 e n. Camurani, E., 197n. Canning, K., XXVII. Carcano, G., 5n. Cardoza, A., XXVII. Carducci, G., 105 e n, 115, 219. Carina, D., 54, 56 e n. Carnera, P., 146. Carocci, G., 247n. Carpi, L., 57 e n. Carrà, C., 120n. Casali, L., 96n. Casalis, E., 153n. Casini, G., 150n. Cassano, F., XIII e n, 275n. Castellini, G., 119n. Cattaneo, C., 19, 87n, 226. Cavalli, A., XIn, XIII, XIVn. Cavour, C. Benso, conte di, 31, 189. Cecchi Gori, M., 249n. Ceccuti, C., 125n. Ceppa, L., 238n. Cepperello, L.A., 115n. Cerroni, U., Xn, 268n. Cerutti, T., 30n. Cervini, G., 227n. Cesa, C., 78n, 82 e n. Ceserani, R., 133n. Chabod, F., 63n, 87n, 105n. Chard, C., 4n. Chartier, R., XXIVn. Chemello, A., 64n. Chiara, B., 117n. Churchill, W., 209. Ciano, G., 144 e n, 145 e n, 161 e n. Cibotto, G.A., 237n. Cicerone, M.T., 9. Cimino Folliero de Luna, A., 56 e n, 70 e n. Claret, P., XIXn, 88n. Clark, M., 275n. Coco, A., 24n. Cohen, N., XIn. Cola di Rienzo, 254. Colajanni, N., 99 e n, 100 e n. Colamarino, G., 225 e n, 226-27. Colarizi, S., 152n. Colella, J.P., XVIIn, XVIIIn, 3n.

311

Indice dei nomi Colin, M., XVIIIn. Collini, S., 43n, 48n, 49 e n. Collodi, C. (C. Lorenzini), 64 e n. Comencini, L., 247. Connelly, M., 209n. Coppino, M., 67. Coppola, F., 121 e n, 122n, 156, 157n. Corbelli, A., 14n. Corradini, E., 113-14, 116 e n, 119 e n. Cortese, N., 6n. Cosco, J.P., 194n. Craveri, P., 200n. Crespi, A., VIIn. Crispi, F., 104-105. Croce, B., 175, 180, 199 e n, 200 e n, 201 e n, 203, 213, 214 e n, 215, 216 e n, 217-18, 220, 223-28, 230. Cuoco, V., 6 e n, 9 e n. Curcio, C., 106n. Cusin, F., 227 e n, 228 e n, 229 e n, 230, 231 e n, 244. D’Acierno, P., XXVII. Dainotto, R., XXVIII. Dal Lago, P., 171n. D’Amelia, M., 244 e n. D’Annunzio, G., 117, 187, 204. Darnis, J.-P., XVIIIn. Darwin, C., 82. Davis, J.A., XXVIII, 48. d’Azeglio, M., XVI, 39 e n, 40 e n, 42, 43 e n, 44 e n, 46, 48, 55n, 56, 58, 60, 63-64, 71, 150, 153 e n, 159, 164-65, 256. De Amicis, E., 66 e n, 102, 166. Deane, S., XXIn, 7n. De Donno, F., 93n. De Felice, R., 136n, 140n, 141n, 146n, 148, 149 e n, 162n, 194n. De Feo, S., 237n. De Franceschi, L., 248n. De Giorgi, F., 218n. De Grand, A., XXVII. De Grazia, V., XXVIII, 154n, 168n, 200n. Del Boca, A., 208n. Della Casa, S., 250n. Del Pero, M., 260n. De Luna, G., 219n. Demolins, E., 89 e n, 90, 94, 104n. De Rubris, M., 153n. De Ruggiero, G., 220 e n.

De Salis, R., 22n. De Sanctis, F., 39, 45-46, 47 e n, 48 e n, 49 e n, 61, 70, 78-79, 81-82, 87, 105, 116, 128n, 129, 132, 165, 176, 177n, 183, 191, 197, 200n. de Seta, C., 4n, 7n. Di Bello, G., 64n. Dickie, J., XIII e n, XVIIn, 20n, 46n, 59n. Diggins, J.P., 194n, 195n. Dionisotti, C., 81n. Di Pietro, G., 66n. Di Salvo, A., 211n. Di Severo, A., 197n. Dogliani, P., 209n. Domenichelli, M., 26n. Doumanis, N., 40n. Duggan, C., XIVn, XVIn, 105 e n. Dunnage, J., 211n. Durando, G., 17 e n, 18, 33 e n. Eagleton, T., XXIn, 7n. Eve, M., XXIIIn. Evola, J., 157 e n. Falasca-Zamponi, S., 159n. Fambri, P., 106n. Fanchi, M., 251n. Fano, N., XXVIn. Fanti, C., 151n, 236n. Fava, C., 243n, 249n. Favretto, I., 209n. Federico II Hohenstaufen, imperatore, 82n, 84n, 268n. Felice, D., 12n, 14n, 22n. Fellini, F., VIIIn, 241, 250n. Ferrara, P., 36n. Ferrarelli, E., 244n. Ferrari, G.C., 123 e n, 124. Ferrero, G., 90 e n, 91 e n, 92 e n, 103104. Ferri, F., 49n. Ferrucci, F., 268n. Filippi, U., 131 e n. Flora, F., 217 e n. Flores, M., XXVIII. Focardi, F., 208n, 209n. Fofi, G., 250n. Forgacs, D., 257n. Forsyth, J., 25n. Fortunato, G., 173n, 191 e n. Foscolo, U., 25n, 219. Fossati, P., 106n.

312 Foster, P.B., 273n. Foucault, M., XXIVn. Fouillée, A., 90n, 97 e n, 98n, 99. Fraddosio, M., 155n. Franceschi Ferrucci, C., 36 e n. Francesco d’Assisi, 219. Franchetti, L., 59. Francovich, C., 184n. Freedman, J., 10n. Freud, S., 229n. Frigessi, D., 119n. Frosini, F., 177n. Fubini Leuzzi, M., 14n. Gabelli, A., 61. Gabrielli, G., 168n. Gaeta, F., 157n. Galante Garrone, A., 238n. Galasso, G., 24n. Galilei, G., 233. Gallenga, A., 30 e n, 31n, 33 e n, 76 e n, 102 e n. Gallenga, G., 65 e n. Galli, G., 183n. Galli della Loggia, E., Xn, XIIn, 269n. Gallo, N., 13n. Gambetti, G., 250n. Gambino, A., 256n, 267n. Gangale, G., 183, 184n. Garboli, C., 13n. Garibaldi, G., 31 e n, 39, 67, 76, 92, 214. Garin, E., 45n, 86n. Gatto, V., 6n. Gemelli, A., 124 e n. Gentile, E., XIVn, 37n, 40, 41 e n, 111n, 112n, 116 e n, 120n, 141n, 155n, 156n, 157 e n, 162n, 170, 218n, 224n, 240 e n. Gentile, G., 112, 122 e n, 131, 132 e n, 133n, 134 e n, 180-81, 211. Gerbi, S., 257n, 258n, 259n, 261n. Germinario, F., 168n, 213 e n. Gerola, B., 15n. Gerratana, V., XIVn, 135n, 177n. Gervaso, R., 261, 262n. Gervasoni, M., 112n, 165n, 174n, 180n, 181n, 186n, 198n. Gervinus, G.G., 79n. Ghelardi, M., 81n. Ghidetti, E., 125n.

Indice dei nomi Ghisalberti, A.M., 39n, 43n. Giammattei, E., 221n. Giannini, G., 236n. Giardina, A., 156n, 157 e n. Gibson, M., 92n. Gillette, A., 93n, 168 e n, 169 e n. Ginsborg, P., XXVn, 35n, 36n, 48n, 275n. Gioberti, V., 3, 8 e n, 9 e n, 10n, 13-16, 20 e n, 21, 27 e n, 33 e n, 34, 55n. Gioia, M., 22n. Giolitti, G., 111, 181n, 187. Giovagnoli, A., 208n. Giulietti, G., 190. Gobetti, P., 165 e n, 173 e n, 175, 180 e n, 181 e n, 182 e n, 183 e n, 184 e n, 185 e n, 186 e n, 187 e n, 188 e n, 189 e n, 191 e n, 192 e n, 195-96, 223, 225, 227, 231. Gooch, G.P., 80n. Gordon, R., XXVII. Gorgolini, P., 155n. Gramsci, A., XIV e n, 41n, 135 e n, 176 e n, 177 e n, 178 e n, 179, 180 e n, 185, 240n. Grandi, M., 249n. Gregoretti, U., 251. Gribaudi, G., 255n. Griffin, R., 142n. Griffo, M., 191n. Grimaldi, G.A., 197n. Guerci, L., 26n. Guerri, G.B., 144n. Guicciardini, F., 47, 87n, 132, 165, 191, 197. Guidi, L., 35n, 36n. Guizot, F., 79 e n. Gundle, S., 248 e n, 267n. Habermas, J., 238n. Haddock, B., 211n. Hagemann, K., XXVn. Hall, C., XXVn. Hanlon, G., 11n. Hannaford, I., 89n. Harris, W.V., XXVIII. Hartshorne, T.L., XXIIn. Heller, H., XVIIIn, 3n. Henneberg, K. von, IXn, 24n, 34n, 270n. Herder, J.G. von, XIX, 95.

Indice dei nomi

313

Kaegi, W., 81n. Karakasidou, A., XIVn. Kenzie, M., XXVII. Kipling, R., 179. Kogan, N., 209n. Koon, T., 154n. Koschmann, J.V., XXIIn. Kowaleski, M., XXVII. Kuliscioff, A., 173n.

Leso, E., 6n, 37n, 141n. Lessona, M., 51n, 53 e n, 55 e n, 59, 60n, 63, 68, 69 e n, 70, 71 e n, 78. Levi, C., 196 e n, 221 e n. Levi, G., XXVIII. Lietti, R., 251n. Liguori, G., 177n. Limentani, U., 25n. Lioy, P., 53n. Lipperi, C., 154. Lipset, S.M., XXIIn. Liucci, R., 224n, 225n, 236n, 257n, 258n, 259n, 261n. Livolsi, M., 242n. Lloyd, D., XXIn. Logan, O., 125n. Lombroso, C., 90, 92 e n, 98-99, 110n. Long, H., 198. Longanesi, L., 150, 164, 167 e n, 207, 232, 235 e n, 236 e n, 237, 246 e n, 258 e n, 263. Lozzi, C., 54 e n, 55 e n, 56 e n, 59, 60 e n, 61 e n, 63 e n, 69 e n. Luce, C.B., 259 e n, 260n. Ludwig, E., 148 e n, 169n. Lukes, S., 80n. Lumley, R., 248n, 255n, 257n. Lurati, O., 128n. Lutero, M., 47. Luzzatto, S., 168n, 200n. Lyttelton, A., 24n.

Labanca, N., 107n, 168n. Lakoff, G., XXIVn. Lamartine, A. de, 6. Lanaro, S., 51n, 53n, 54n, 64 e n, 87n, 100n, 102n, 266n. Landes, J.B., 10n. Landucci, S., 48n, 70n, 80n. Langford, P., XIXn. La Rovere, L., 141n, 170n. Lass, A., XIIn. Laura, E.G., 250n. Lawrence, D.H., 230. Le Bon, G., 88, 89 e n, 90-91, 94, 124n, 126, 127 e n, 136 e n, 137, 148, 193. Leerssen, J., XVIIIn. Leo, H., 82n, 95 e n. Leopardi, G., 13 e n, 29 e n, 268 e n. Le Play, F., 89 e n. Lepre, A., Xn.

Maccari, M., 139 e n, 164, 166. Machiavelli, N., 9, 10 e n, 13, 14 e n, 30, 47, 187, 198, 204, 233, 267. Mack Smith, D., 48n. Macry, P., XXVIII. Malaparte, C. (K.E. Suckert), 164 e n, 165 e n, 166 e n. Maldini, P., 212n. Mallios, P., XXVII. Malthus, T.R., 9. Mamiani, T., 63. Mandler, P., XIn, XXIn. Manfredi, N., 249n. Mangan, J.A., 52n. Mangoni, L., 82n, 86n, 90n, 164n. Mantegazza, P., 98 e n, 99. Manzoni, A., 23n, 204, 219, 226. Marano, I., 213n. Marelli, S., 198n.

Herzfeld, M., XXn. Hillgarth, J.N., 24n. Hitler, A., 161, 169, 232. Holmes, S., 268n. Hopkins, N., IXn. Horn, D.G., 167n. Hughes, S.C., 13n. Hume, D., 22n, 115. Hussein, S., 252. Imbriani, A.M., 236n. Ingman, H., 14n. Inkeles, A., IXn. Iondini, M., VIIn. Isbell, J.C., 12n. Isnenghi, M., XIII e n, 125 e n, 128 e n, 129n, 130n, 253 e n. Italico, 109, 110n. Jameson, F., XXIn, 7n. Johnson, M., XXIVn.

314 Mariano, M., 194n. Marinari, A., 48n. Marinetti, F.T., 120n. Marino, G.C., 275n. Mariotti, L. (A. Gallenga), 30n, 31n, 33n. Marselli, N., 86, 87 e n, 102 e n. Marshall, R., 43n. Martini, F., 39n. Mastroianni, M., VIIIn, 245. Matteotti, G., 174, 199, 200n, 236. Matthews, H.L., 233n. Maturi, W., 43n. Mazzini, G., 18 e n, 19, 29, 30 e n, 31, 32 e n, 34, 36 e n, 44, 45 e n, 46-48, 62, 69, 78, 164, 211, 214, 219, 226, 228. Mazzocca, F., 13n. Mazzoleni, A., 54 e n, 56 e n, 60 e n, 61 e n, 62 e n, 63 e n, 68 e n, 69 e n. McMillan, D.A., 35n. Menabrea, F., 53. Miccichè, L., 248n. Mill, J.S., XIX, 50 e n, 83n. Mimun, C., 268n. Miroglio, A., 88n. Missiroli, M., 183. Moe, N., XVII e n, XVIIIn, XXVIII, 8n, 11n, 20n, 21 e n, 22n, 59n. Momigliano, A., 91n. Mondini, M., 32n, 101n. Monicelli, M., 247, 249 e n. Montandon, A., XVIIIn. Montanelli, G., 19 e n, 29 e n. Montanelli, I., 252 e n, 257 e n, 258 e n, 259, 260 e n, 261 e n, 262 e n, 26466. Montesquieu, C.-L. de Secondat de, XIX, 11 e n, 12n, 13, 14 e n, 15, 27. Montevecchi, L., 196n. Monti, A., 190 e n. Moretti, M., 79n. Moroni, A.M., 29n. Morris, J., 255n. Moskal, J., XIXn. Mosse, G.L., 35 e n, 143n. Mosso, A., 104 e n, 108 e n. Mozzillo, A., 4n. Mozzoni, A.M., 36n. Muratori, A., 30. Murri, A., 117 e n. Murri, R., 117 e n.

Indice dei nomi Muscetta, C., 48n. Musmanno, A., 256n. Mussolini, B., 116n, 134 e n, 136n, 139 e n, 140, 141 e n, 142, 143 e n, 144 e n, 145 e n, 146 e n, 147 e n, 148 e n, 149 e n, 150, 151 e n, 152 e n, 153 e n, 155-57, 158n, 159 e n, 160 e n, 161 e n, 162 e n, 163 e n, 164, 16768, 169 e n, 170-71, 173-75, 179-80, 181n, 182, 185-88, 190 e n, 192, 193 e n, 194 e n, 195 e n, 198-99, 203205, 208-11, 213, 216, 218, 224-25, 228, 232, 236-37, 254, 259, 264, 267. Nani, M., 96n. Napoleone I Bonaparte, imperatore, 5, 11, 16, 34, 140, 155. Napoleone III di Francia, imperatore, 44. Nasti, A., 158n. Nelson, H., 63. Nevola, G., 240n. Niceforo, A., 98, 99 e n. Nicolini, F., 6n, 9n. Nisse, R., XXVII. Nolan, M., 270n. Novelli, C., 219n, 220n, 223n. Nutini, S., 6n. O’Brien, P., 117n. Occhini, B., 211n, 212n. Occhini, P.L., 113n. O’Connor, M., XXVIII, 12 e n. O’Hare McCormick, A., 194. Oneto, G., 273n. Orano, P., 124n. Oriani, A., 184. Ottone, P., Xn. Pagliaini, A., 78n. Palermo, A., 221n. Palmieri, G., 5. Paloscia, F., 4n. Pan (F. Perri), 188n. Panizza, L., 36n. Papini, G., 114n, 115 e n, 147n, 213 e n. Parato, A., 69n. Parini, G., 26 e n. Parker, A., 35n. Parker, S., 267n.

Indice dei nomi Parri, F., 219n. Pascoli, G., 117. Passerin d’Entrèves, E., 17n. Passerini, L., 147n, 154n, 156n. Pavissich, A., 125n. Pavone, C., 209n, 218n. Peabody, D., 255n. Pécout, G., 107n. Pellanda Cazzoli, C., 26n. Pende, N., 154n. Pennini, P., 162n. Perfetti, F., 119n, 121n. Perniola, I., 248n. Pescarolo, A., 245n. Petraccone, C., 76n. Petrusewicz, M., XVIIn, XXVIII, 20n. Pickering, M., XVIIIn. Pii, E., 6n, 22n. Pilati, C., 5 e n. Pintus, P., 249n, 251n. Pio IX (G.M. Mastai Ferretti), papa, 17. Pistagnesi, P., 242n. Pitkin, H.F., 10n. Pocock, J.G.A., XXVn. Pogliano, C., 103n, 185n. Polito, P., 191n. Pollini, L., 154n. Porciani, I., 69n. Pozzi, R., 177n. Predari, F., 28n. Preziosi, G., 168. Prezzolini, G., 109, 110 e n, 111 e n, 114 e n, 115 e n, 116n, 117 e n, 118n, 120 e n, 121 e n, 122 e n, 125 e n, 126 e n, 127 e n, 128 e n, 129 e n, 130 e n, 134, 135 e n, 136 e n, 147 e n, 155 e n, 156, 177, 181 e n, 192 e n, 193 e n, 194n, 232 e n, 233 e n, 234-36, 241, 253 e n, 257, 258 e n, 263. Procacci, G., 127n, 128n, 129n. Puccini, S., 92n, 98n. Pullè, F.L., 98 e n. Putnam, R., 269n. Quatrefages, J.L.A., 93 e n. Quilici, N., 151 e n. Quondam, A., 183 e n. Ragan, T., XXVIII. Ragionieri, E., 194n.

315 Rago, M., 18n. Raimondi, E., 48n. Rameri, L., 65 e n. Randall, A.J., XXVII. Re, L., 34n. Reale, A., 40n, 54, 57, 58 e n, 68 e n, 69. Redanò, U., 8n. Reich, J., 245n. Reicher, S., IXn. Renan, E., 48, 79 e n. Renda, A., 94n. Riall, L., XXVn, XXVIII, 31n, 36n, 275n. Riva, M., 26n. Robecchi Bricchetti, L., 98n. Roberts, D., 214n. Roberts, K.L., 194-95. Robertson, C., XXVII. Rodogno, D., 208n. Romani, R., XIX e n, 46n, 49n, 53n, 62n, 63 e n. Romanò, A., 110n, 111n, 116n, 119n, 121n. Romano, S., Xn, XIIIn, 254n. Roosevelt, T., 146n. Rosati, M., 5n, 176n. Rosenberg, A., 170. Rosselli, C., 183n, 195, 196 e n, 198n. Rosselli, J., 35n. Rousseau, J.-J., 9, 17, 69. Rousso, H., XXn. Ruggeri, R., 228n, 229n. Rumi, G., 9n. Rusconi, G.E., Xn. Russo, M., 35n. Russolo, L., 120n. Sabbatucci, G., 77n, 132n, 133n, 247n. Sacchetti, E., 212n. Sacco, N., 256n. Said, E.W., XXIn, 7n. Saitta, A., 6n. Salaris, E., 107 e n. Salvagnoli, V., 5n. Salvati, M., 151n. Salvemini, G., 181, 203 e n, 204, 238 e n. Sanguineti, T., 250n. Santomassimo, G., 225n. Sapegno, N., 189 e n. Sarfatti, G., 125n. Sarfatti, M., 156.

316 Satta, S., 210n, 224 e n, 225 e n. Savoia, dinastia, 21. Sbarberi, F., 177n, 200n. Scaglione, E., 117n, 119n. Scalfari, E., VIIn, XI e n. Scaraffia, L., 102n, 245n. Scheiwiller, V., 111n. Schiavone, A., Xn, 269n. Schifani, R., 276n. Schildgen, B., XXVII. Schneider, J., XVIIn, 7n, 8n, 92n. Sciolla, L., XIn. Scott, J.W., XXIVn. Serao, M., 118 e n. Sergi, G., 75, 92 e n, 93 e n, 94 e n, 95 e n, 96, 98 e n, 99, 103 e n, 126, 129, 168-69. Serneri, S.N., 275n. Sestan, E., 231n. Setta, S., 274n. Sforza, C., 173, 201, 202 e n, 203, 216, 217 e n. Sharp, S., 4 e n. Sighele, S., 86 e n, 109, 118, 119n. Simon, J., 69. Simonetti, C.M., 116n, 147n. Simonini, A., 141n. Sismonde de Sismondi, J.-L.-C., 9, 22 e n, 23 e n, 24 e n, 25 e n, 28 e n, 30, 183. Sluga, G., 12n, 97n, 124n. Smiles, S., 49, 50 e n, 51 e n, 52 e n, 53, 54 e n, 55, 56n, 58-59, 63, 70 e n. Smith-Rosenberg, C., 10 e n. Smollett, T., 25n. Soffici, A., 122 e n, 130n. Soldani, S., XVIn, 35n, 39n, 69n, 253n. Sommer, D., 35n. Sonnino, S., 59. Sordi, A., VII e n, VIII e n, X, 241, 243 e n, 244-48, 249 e n, 250-52. Sorel, G., 176, 177n, 181. Spackman, B., 116n, 143n. Spadolini, G., 157n, 211, 212n. Spencer, H., 82, 101. Spiegelman, W., 13n. Spinazzola, V., 242n, 249n. Spini, G., 23n. Spriano, P., 176n, 180n, 181n. Staël-Holstein, Madame de, 9, 11 e n, 12 e n, 14, 22 e n. Staglieno, M., 190n.

Indice dei nomi Starace, A., 158-59. Stendhal (H.-M. Beyle), 25n. Stewart-Steinberg, S., 70n, 101 e n. Stille, A., 267n. Strafforello, G., 51n, 65 e n. Stratico, A., 124n. Sturzo, L., 120. Susmel, D., 134n, 139n, 145n. Susmel, E., 134n, 139n, 145n. Suvich, F., 146n, 159n. Symonds, J.A., 83n. Tagliacozzo, E., 203n. Taine, H., 80n, 89, 155. Tasca, A., 231n. Tedeschi, G., 180n. Terra, D., 207 e n. Testi, A., XXVIII, 146n. Teti, V., 94n. Tobia, B., 102n. Tobia, G., 42n. Tocqueville, A. de, XIX. Todorova, M., XXVIII. Tomasi di Lampedusa, G., XXIII, 247. Tommaseo, N., 65n. Torraca, V., 132, 133 e n. Toscanini, A., 204. Toscano, M., 169n. Traniello, F., 15n. Travers, T., 54n. Trivulzio di Belgiojoso, C., 55 e n, 60 e n, 63 e n, 68 e n. Troisio, L., 150n. Tullio-Altan, C., 269n. Tumminelli, M.M., 153, 154n. Turati, F., 173n. Turi, G., XVIn, 39n, 181n, 253n. Turiello, P., 60, 75, 76 e n, 77, 79-80, 82 e n, 83 e n, 84 e n, 85 e n, 86-88, 92, 95n, 96, 101 e n, 102 e n, 103n, 105, 106 e n, 112 e n, 113, 115, 12930, 149. Ulivieri, U.M., 187n. Urbinati, N., XXVIII, 183n. Uscinski, K., XXVIII. Valbusa, D., 80n. Vallet, G., 4n. van Ginneken, J., 86n. Vanni, S.F., 232n.

317

Indice dei nomi Vanzetti, B., 256n. Varouxakis, G., 50n. Vasoli, C., 81n. Vassalli, S., 268n. Vauchez, A., 156n, 157n. Veneziani, M., 252n. Venturi, F., 4n, 5n, 11n, 81n, 188n. Verdery, K., XIIn. Verri, P., 5 e n. Vertone, S., XIVn, 267n. Verucci, G., 51n. Vico, G., 9n, 219. Villari, P., 45 e n, 46 e n, 48, 55n, 59, 61-62, 63n, 68 e n, 72 e n, 78, 79 e n, 86 e n, 129, 132, 191. Violi, P., XXIVn. Virdia, F., 221n. Vivanti, C., 14n, 41n, 51n, 102n, 257n. Vivarelli, R., 141n, 204n. Volpe, G., 117, 187n, 230. Waeber, P., 22n. Wallerstein, I., XXIn. Walvin, J., 52n.

Waquet, F., 4n. Ward, D., 215 e n, 223n. Weber, M., 183 e n. Welch, D., 209n. West, R.J., XIIIn. White, H., XXIVn. White, J., XXVII. William Salomone, A., 256n. Wilson, W., 135. Wohl, R., 112n, 177n. Wood, S., 36n. Yaeger, P., 35n. Zampa, L., 246. Zangheri, R., 231n. Zanoni, E., 87 e n. Zanotti Bianco, U., 173n. Zapponi, N., 147n. Zilfi, M., XXVII. Zunino, P.G., 173n, 178 e n, 179n, 185n, 191n, 192n, 200n, 214n, 215 e n, 216n, 236n.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione

VII

«Tipicamente italiano», p. VII - Il carattere nazionale come discorso, p. XIII - Alcune note metodologiche, p. XXIII

Ringraziamenti I

Ozio e rigenerazione

XXVII

3

Delle virtù e dei vizi: il primato e l’ozio degli italiani, p. 8 - Nord contro Sud? I vantaggi della varietà, p. 19 - Clima, storia e i tropi del declino politico, p. 21 - Il genere e la rigenerazione del carattere, p. 31

II

Formare cittadini di carattere

39

Rimproveri paterni: pubblici moralisti nella nuova nazione, p. 42 - Le virtù del contare sulle proprie forze: Samuel Smiles arriva in Italia, p. 49 - Ancora dell’ozio (ma non solo), p. 55 - Differenze regionali alla vigilia della questione meridionale, p. 59 - Eziologie del carattere, p. 61 - Una «missione civilizzatrice» interna e il problema della educazione, p. 63

III

Individualismo latino: il carattere nazionale nell’età dell’imperialismo

75

L’emergere dell’individualismo italiano, p. 78 - Da italiani a latini: il carattere e la «razza mediterranea», p. 88 - Alla difesa dei latini, p. 96 - Nuovi strumenti per l’educazione nazionale, p. 100

IV

Tra «prove» e «rivelazioni»: virtù della guerra La «nera verità» e la «prova» della guerra, p. 113 - La guerra come «redenzione»: convergenze nazionali, p. 118 - «Furbi» contro

109

320

Indice del volume «fessi»: immagini contrastanti degli italiani in guerra, p. 123 - I guerrieri e gli altri all’indomani della guerra mondiale, p. 133

V

«Una sostanza difficile da modificare»

139

Le ambivalenze di Mussolini, p. 143 - Lo spettro del «vecchio italiano», p. 148 - Il «nuovo italiano»: disciplinato, iper-mascolino, militarizzato, p. 153 - L’italiano autentico? Arriva l’arcitaliano, p. 163 - Razza e carattere: da mediterraneo ad ariano nordico, p. 168

VI

«Autobiografie» della nazione

173

Infezioni italiane e cure proletarie, p. 176 - Il disagio dell’arretratezza, p. 180 - Il fascismo come rivelazione, o l’«autobiografia della nazione», p. 186 - Il fascismo come specchio del carattere italiano: la versione conservatrice, p. 192 - Un popolo moralmente pigro, p. 195 - Altre autobiografie, p. 199

VII «Brava gente»?

207

Un popolo di traditori: la Repubblica di Salò e gli italiani, p. 210 - Non contaminati dal fascismo? La politica dell’auto-assoluzione nazionale, p. 213 - Denunce ed esami di coscienza collettivi, p. 219 - Fine della nazione? «De profundis» e «antistoria», p. 223 - Accuse e cinismi di reduci, p. 231

VIII «Gli italiani sono fatti così»

239

Mammone e opportunista: l’antieroe della commedia all’italiana, p. 242 - Gli «eterni italiani» degli opinionisti, p. 252 - Il «ritorno» del carattere nazionale negli anni Novanta, p. 266

Conclusioni

271

Bibliografia

279

Indice dei nomi

309